Quei ricci castani

di MikaisLove
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Kensington: a new life ***
Capitolo 2: *** Curly boy ***
Capitolo 3: *** Really?! That's Michael! ***



Capitolo 1
*** Kensington: a new life ***


Lasciai la mia città quando ero ancora una ragazza. Avevo 17 anni ed ero spaventatissima all’idea di cosa mi sarebbe potuto accadere a Londra, una nuova città, in un altro Stato. Sapevo l’inglese molto bene essendo figlia di una madrelingua ma avevo ugualmente paura di non riuscire a dialogare con nessuno. Temevo di non riuscire a stringere nuove amicizie, avevo paura che i rapporti con i miei vecchi amici scomparissero perché sarei stata troppo lontana da loro. Avevo paura. Di tutto e di tutti. 
 

Queste paure mi frullavano continuamente in testa dopo essere uscita dall’aeroporto, non riuscivo  a pensare ad altro e guardavo fisso, fuori dal finestrino della macchina. Osservavo la pioggia che cadeva lentamente dal cielo sentendomi quasi paralizzata.
Arrivai a South Kensigton, una bella cittadina a sud di Londra. Vidi il nome scritto in grande su un cartello stradale. Riflettei un attimo. Ne avevo già sentito parlare. South Kensington era il posto dove abitavano i Beckham.
“Wow” pensai “Ci sarà da divertirsi, speriamo …”; così mi si accese un lampo di curiosità e cominciai a guardare ciò che potevo vedere guardando fuori dal finestrino della macchina: le vie alberate erano stupende, le case tradizionali erano perfette in ogni loro dettaglio, i parchi erano ricchi di verde e giganteschi, gli alberi alti, folti e intricati tra loro …
“Nulla a confronto con i nostri parchi pubblici” pensai ridacchiando un po’.
L’aspetto di Kensigton cominciava a suscitarmi una certa simpatia.
Dopo circa venti minuti ci fermammo davanti ad una villetta a schiera che si affacciava su un piccolo giardinetto verdissimo e ben curato. Guardai da dentro la macchina la bella villetta con un espressione di scherno; mi mancava la mia vecchia casa.
“Beth” mi richiamò mio padre “Scendi dalla macchina! Devi aiutarmi a portare le valigie dentro casa!”
Scesi, quasi senza pensandoci troppo, presi la mia valigia arancione dal portabagagli e mi incamminai dietro a mio papà sul sentiero di ghiaia bianca che conduceva all’entrata di casa.
Mi fermai sul pianerottolo di legno verniciato di bianco e mi girai per osservare il viale: le case erano tutte uguali. Tutto ciò mi diede un certo senso di monotonia, di poca originalità. Pensavo all’Italia, al mio paese, le solite palazzine del centro, le villette colorate, una diversa dall’altra, ognuna con un’identità e qualcosa da dire e raccontare. Lasciai in un angolo tutti quei pensieri, sospirai ed entrai in casa.
L’interno non era niente male, era abbastanza spazioso.
Volevo vedere la mia nuova camera. In fondo si sa, che la camera da letto è il rifugio di ogni adolescente, la propria tana. Salii di sopra. Un fluente corridoio si estendeva lungo il piano superiore della casa. Cominciai l’ispezione delle stanze: entrai dapprima in una stanza cupa e disordinata; -dovrebbe essere la stireria o “loundry”, come la chiamano gli inglesi- pensai. Uscii e entrai nella stanza accanto dove trovai la mia camera. Erano presenti gli stessi mobili che avevo in quella vecchia in Italia e ne fui molto felice perché avevo la sensazione di essere ancora nella mia vecchia casa a Verona, mi dava un certo senso di familiarità.
Soddisfatta diedi un’ultima occhiata alla stanza e poi scesi di sotto.
“Mamma, dove sei? Io vado a fare un giro per Kensigton a vedere un pò in giro! Mamma?”
“Beth … si … si certo vai pure e ricordati di tornare prima di cena”
Mamma era molto indaffarata a sistemare le ultime cose in cucina quindi uscii senza salutarla.
Mi avviai lungo il viale che portava nel centro della cittadina fischiettando qualche melodia e con fare tranquillo. Cercavo di essere più positiva possibile, non volevo deprimermi ripensando alle mie riflessioni fatte appena uscita dall’aeroporto.
Entrai nel centro. Era tutto brulicante di persone, di ogni tipo. Non sapendo da dove cominciare, decisi di visitare una libreria di fronte a me, dall’altro lato della strada: una delle mi passioni è sempre stata leggere.
Entrai. Un odore di muffa misto a quello di carta nuova e vecchia era disperso nell’aria, c’era un silenzio delizioso e l’ambiente era molto tranquillo.
Passai tra i vari scaffali due o tre volte, prendendo 3 libri fantasy che mi sarebbero molto interessati. Decisi di darne un’occhiata, quindi mi avviai verso la sala lettura. Stavo camminando tranquillamente, girai un attimo la testa a sinistra perché un libro dalla copertina fosforescente aveva attirato la mia attenzione quando … -----Ecco il mio primo capitolo. Spero vi piaccia! Recensite e fatemi sapere che ne pensate :) Grazie a tutti!------


 

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Capitolo 2
*** Curly boy ***


Voltai la testa. Feci appena in tempo a notare una figura alta e slanciata che correva verso di me, quando inciampò e urtandomi mi spinse violentemente a terra cadendo rovinosamente sopra di me.
“Ahi ahi ahi! Guarda meglio la prossima volta dove metti i piedi!!!” gemevo dal dolore, avevo sbattuto il gomito violentemente.  La figura d’uomo soprastante a me, forse essendosi accorta di essermi sopra, si alzò fulminea.
Due mani dalle dita affusolate afferrarono le mie e in pochi secondi mi aiutarono a rialzarmi.
Mi massaggiavo la nuca, per poi guardarmi la mani istintivamente per essere sicura che non uscisse sangue da qualche parte, quando il ragazzo davanti a me parlò imbarazzato “Ehm… scusa, stavo correndo perché… insomma, sono inciampato e… scusami veramente tanto, non l’ho fatto apposta!”.
Cominciai a piangere e tremare. “Uno sfogo” pensai. Era successo tutto così in fretta, in una frazione di secondo.
Mi nascosi la faccia con le mani aperte, poi sentii appoggiarsi sulle mie spalle le due mani di prima che mi avevano aiutata ad alzare. Udii un voce dolce: “Ehi, scusami veramente. Non l’ho fatto apposta. Come posso farmi perdonare?” Il ragazzo mi spostò le mani dal viso, si avvicinò lentamente e mi guardò dolcemente negli occhi. Il mio sguardo ricambiò il suo. In quel momento il tempo per me si era come fermato; non avevo mai visto occhi più belli. Erano marroni, come la cioccolata, dolci come quelli di un bambino e allo stesso tempo profondi e innocenti. Quello sguardo durò più del normale, ci guardammo a  lungo, all’incirca per tre secondi. Fu lui a rompere quel magico momento “Posso offrirti qualcosa per farmi perdonare? Una cioccolata calda va bene?” Mi accarezzò teneramente la testa e sfoggiò un enorme sorriso.
Notai che eravamo troppo vicini, mi allontanai leggermente, mi asciugai le lacrime e, ancora leggermente sotto shock, dissi “Certo, volentieri. Potrebbe essere un modo per conoscerci e ripartire per il piede giusto…”
Mentre ci avviavamo per il bar di fronte alla libreria, il ragazzo mi teneva a braccetto per aiutarmi a camminare. Sembrava molto dispiaciuto dell’imprevisto accaduto in libreria.
Entrammo nel locale e ci sedemmo a un tavolino di legno davanti a una grande finestra in stile vittoriano.
Eravamo silenziosi. Io ero occupata ad ispezionarmi il gomito, che pulsava ancora dal dolore; il ragazzo mi guardava interrogativo, sembrava quasi offeso.
Così, attaccò bottone: “Bene… Cosa desideri da bere?”
“Io? Una cioccolata calda grazie” Mi ripresi dal mio momento di ispezione del gomito e mi accomodai sulla sedia di velluto.
Il ragazzo parlò di nuovo “Perfetto… Cameriere! Una cioccolata calda per la ragazza!”
Fatta l’oridinazione, cercò di iniziare un discorso con me “Allora, ti sei ripresa dalla batosta presa prima?”
“Si dai, abbastanza…” risposi io con una smorfia. Poi continuai “Perché stavi correndo in quel modo? Avevi per caso visto un fantasma? Il fantasma della biblioteca per caso?” mi misi a ridere.
Il ragazzo davanti a me arrossì violentemente e rispose “Ah… Beh no, lascia stare. E’ una faccenda troppo lunga da spiegare”.
Si mise a ridere anche lui, abbassando leggermente il capo.
Approfittai di quel momento, per osservarlo meglio. Aveva una folta chioma di capelli castani e ricci, un viso dai lineamenti sottili e delicati e quel sorriso sulla sua bocca era terribilmente irresistibile. Pensai che fosse veramente un bel ragazzo; non ne avevo mai visti altri del genere.
Ad interrompere quel momento stranamente magico fu i cameriere, che arrivò al tavolino con la cioccolata fumante. Mi fiondai sulla bevanda, come se non ne avessi mai vista una.
Il ragazzo riccio mi guardava compiaciuto, sempre con il sorriso stampato sulla bocca.
Finii la cioccolata in una trentina di secondi, poi guardai l’orologio, prendendo un colpo al cuore.
“ Accidenti!” mi tappai la bocca con la mano e mi alzai di scatto “ E’ tardissimo! Devo tornare subito a casa se non voglio prendermi una punizione! I miei genitori saranno in pensiero! Sono molto severi quando si tratta di tornare a casa ad un certo orario. Grazie mille di tutto!” Strinsi la mano al ragazzo riccioluto ancora seduto al tavolo e corsi fuori dal locale.
Il ragazzo si alzò e mi seguì correndo. Mi raggiunse in pochissimo tempo e mi fermò tenendomi per una mano “Hey, non mi hai ancora detto come ti chiami!”
Mi voltai verso di lui per rispondergli “Elizabeth, ma tutti mi chiamano Beth”
“Wow” fece lui “Beth, che bel nome!”
“Grazie” ringraziai io arrossendo. “Tu come ti chiami?”
“Mi chiamo Michael” disse infine lui mostrando il suo bellissimo sorriso.
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Spazio all'autrice: ho scritto questo capitolo un pò in fretta. Spero che vi piaccia ugualmente! Non dimenticate di commentare! Grazie a tutti!

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Capitolo 3
*** Really?! That's Michael! ***


Mi avviavo verso casa correndo all’impazzata, sapevo che mia mamma mi avrebbe sgridata duramente a causa del ritardo. Mentre correvo diedi uno sguardo all’orologio di pelle legato al polso, realizzando che nonostante stessi facendo di tutto per tornare a casa in tempo, ero sempre più in ritardo. I minuti passavano velocemente, quasi fosse una maledizione.
Arrivai davanti a casa ma ritenni che aprire il cancelletto d’ingresso mi rubasse altri preziosi secondi, quindi con un agilissimo salto, lo scavalcai senza pensarci, atterrando perfettamente all’interno del giardino.
Corsi verso la porta d’entrata aprendola bruscamente.
Ora ero ferma. Là, sul pianerottolo. Impappinata come una statua, con il respiro affannato e lo sguardo fisso sul parquet del soggiorno. Ero arrivata a casa, ma decisamente in ritardo.
“Elizabeth!” i miei genitori sedevano sul grande sofà panna davanti alla tv. Mia madre giocherellava con il mio cellulare in mano “Ti abbiamo chiamato mille volte. Ma nulla. Non rispondevi. Hai dimenticato il cellulare a casa. Elizabeth, quante volte ti abbiamo detto di portarlo sempre con te?!”
“Molte…” dissi io con poco fiato entrando in casa. Mi lasciai cadere sul sofà, volgendo gli occhi al soffitto.
“Sei in un ritardo catastrofico, inimmaginabile. Pensavamo che ti fosse successo qualcosa” disse mio padre “Per stavolta niente punizione, ma la prossima volta…”
“Eh mamma mia, siete veramente pesanti” dissi io sbuffando dirigendomi in cucina “Avete già mangiato?” Il tavolo era ancora imbandito di tovaglia, posate e piatti; nessuna traccia di cibo.
“Sì. Ti ho lasciato qualcosa in frigo.” Rispose mia madre dal soggiorno.
Aprii il frigorifero: c’era il mio piatto, lo presi e guardai dentro. “Minestra” osservai nella mia mente con un’espressione di disgusto. La rimisi nel frigorifero e senza fare rumore salii in camera al piano superiore.
Mi sedetti davanti alla finestra, volevo ammirare la luna nel cielo stranamente limpido di quella sera a Kensington. Ripensai allo strano ragazzo riccio di oggi. Non ne avevo mai visto uno come lui. Al giorno d’oggi i ragazzi sono tutti stereotipati, ma lui, lui era diverso. In lui vedevo una strana luce, ma di quelle veramente luminose. Come aveva detto che si chiamava? Ah si, Michael. Michael, Michael, Michael… quel nome risuonava continuamente nella mia mente. Ma chi era veramente lui? Dove abitava? Con chi viveva? Perché correva in quel modo in libreria? Ma soprattutto, l’avrei rivisto ancora?
Pensavo, pensavo. Forse troppo. Decisi quindi di andare a dormire e lasciare quei pensieri in un angolo.
Il giorno dopo mi svegliai di buonumore. Anche di mattina il cielo era stranamente limpido. Decisi di sfruttare la giornata  per andare a fare jogging, ma soprattutto per cercare di rincontrare lui.
Lasciai casa e mi avviai sulle strade pacifiche di Kensington. Si respirava un’aria fantastica, una brezza fresca e delicata. Mi guardavo in giro mentre facevo alcuni esercizi di riscaldamento; osservavo i grandi alberi secolari che dominavano il viale e le grandi distese d’erba perfettamente tagliate e curate.
Mi sembrò impossibile a prima vista, ma mi parve di intravedere Michael seduto su una panchina verde, sotto un salice, rivolto verso un piccolo laghetto. Mi sembrava fosse lui. Riconoscevo la folta chioma di capelli ricci e castani.
“Michael, sei tu, sei veramente tu” mormorai per non farmi sentire. Volevo andare là da lui, scusarmi per l’addio brusco dell’altra sera e magari, perché no, conoscerlo. Era l’unica persona che conoscevo finora, qui a Kensington; pensavo che mi potesse essere d’aiuto per inserirmi. Con tutte le mie forze, fiera e felice, mi avviai verso la panchina dove stava il presunto Michael, ma mi bloccai a meno di dieci metri dalla panchina.
“Come comincio?” pensai mordendomi le dita.
Ad un certo punto dalla mia bocca spuntò uno scoraggiato “Hey … Michael?”
Il ragazzo seduto sulla panchina si girò istantaneamente e mi guardò. Come mi vide, mi squadrò da testa a piedi e subito dopo fece apparire sulla sua bocca il bellissimo sorriso che mi aveva rivolto l’altra sera e poi disse “Ma buongiorno Beth! Ci si rivede ancora”
Ero sbalordita. Era veramente lui.
 “Ma… ma… Michael? T-ti ricordi ancora il mio nome?!” balbettavo dall’ansia e tremavo come una foglia.
“Beh, come si può dimenticare un nome come il tuo?”
“Cosa intendi dire?”
“Intendo dire che hai un bel nome. Adoro il nome Elizabeth, e poi il diminutivo Beth è assolutamente delizioso” Michael era completamente rilassato a differenza di me e il sorriso stampato sulla sua bocca era praticamente indelebile.
Io ero sempre più incredula. Il riccio continuò a parlare “Beh, che fai lì impalata? Vieni a sederti vicino a me” detto questo fece spazio vicino a lui prendendo giacca e cappello e gettandoli per terra. A quel punto io mi avvicinai e mi sedetti nel posto vicino a lui. “Aah bene. Molto meglio” commentò lui soddisfatto.
A quel punto ricominciai a parlare “Senti Michael… volevo ancora chiederti scusa per l’altra sera. Ecco… io… mi dispiace di essere andata via così su due piedi… tutto d’un tratto”
“Macchè figurati” rispose lui “Piuttosto sarei io che mi dovrei scusare per il modo idiota di come ti sono cascato addosso in libreria! Ti avrei potuto aver rotto un braccio o qualcos’altro. A proposito, il gomito come sta?” Michael mi prese il braccio delicatamente, arrotolò la manica della felpa e cominciò ad ispezionarmi il gomito. Io lo guardavo con gli occhi sbarrati, mi lasciavo fare, eppure per me era quasi uno sconosciuto. Ad un tratto allontanai il braccio da lui appoggiandolo sulla pancia.
“Oddio. Scusami” disse lui ritraendo le mani
“No… niente” risposi io rivolgendogli lo sguardo che lui ricambiò.
Michael era evidentemente imbarazzato, cosi si accomodò bene sulla panchina dicendo “Allora … Beth, raccontami un po’ di te, se ti va. Che fai nella vita?”
“Beh, mi sono appena trasferita qui a Kensington … Non ho molta esperienza del posto, devo ancora ambientarmi”
“Ti aiuterò io! Questa cittadina è molto ospitale e tranquilla. Vedrai, non sarà così difficile inserirsi!” disse lui ammiccando.
“Ah beh, ti ringrazio. Mi farebbe molto piacere” risposi lasciandomi scappare un piccolo sorriso “Tu invece che fai nella tua vita?”. Da questa domanda mi aspettavo una risposta abbastanza “strana” per così dire; Michael era un tipo dai vestiti colorati, pantaloni attillati e stile eccentrico. In poche parole era un ragazzo unico, con qualcosa da dire. Non mi avrebbe stupito la sua risposta, ne ero certa. La mia curiosità era comunque molta.
Avevo ragione. Michael rispose “Scrivo musica, è la mia passione” poi abbassò leggermente il capo guardando nel vuoto, forse per l’imbarazzo, aggiungendo “Il mio sogno è quello di diventare una popstar, un giorno…”.
Nonostante i miei primi sospetti, cercai comunque di sembrare sorpresa di ciò che mi aveva risposto. Lo vedevo dai suoi occhi, era sincero di quello che stava dicendo.
“Wow! Quindi tu scrivi musica! Veri e propri pezzi di musica! Ma è fantastico, non ho mai incontrato nessuno che faccia cose simili”
Michael fece spallucce “Purtroppo i discografici mi hanno sempre rifiutato o sbattuto la porta in faccia. Ho passato un brutto periodo ma sono sempre determinato. Riuscirò prima o poi ad avere un contratto discografico!”
“Brutti bastardi! Sempre i soliti! Ma sono curiosa… quali temi tratta la tua musica?”
“Se proprio vuoi capirlo Elizabeth, posso suonarti qualche pezzo. Lo capirai da sola”
“Certo ma … quando?”
“Adesso”
“Adesso?”
“Sì. Adesso. Abito a pochi passi da qui… Vieni andiamo”
Michael si alzò, prese la giacca e mi fece cenno col capo di seguirlo, lasciando all’aria i suoi riccioli castani.

Spazio a me: Scusate se ci ho messo molto a pubblicare questo capitolo, ma sono stata molto occupata con scuola, tra tesina di terza media, attività e cose varie. In ogni caso, spero che vi piaccia. E non dimenticate di recensire. Grazie mille a tutti quanti! :)

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