SABBIA

di Stray
(/viewuser.php?uid=3388)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Introduzione ***
Capitolo 2: *** The beginning of the end ***
Capitolo 3: *** The director syndrome ***
Capitolo 4: *** White flag ***
Capitolo 5: *** Breathe before to jump ***
Capitolo 6: *** The best shot ***
Capitolo 7: *** Apocalypse now ***
Capitolo 8: *** A battle lost ***
Capitolo 9: *** A battle won ***
Capitolo 10: *** Happy hour ***
Capitolo 11: *** Fear ***
Capitolo 12: *** Future in present tense ***
Capitolo 13: *** My eyes on you ***
Capitolo 14: *** XX ***
Capitolo 15: *** H2O ***
Capitolo 16: *** Photosynthesis ***
Capitolo 17: *** Movement ***
Capitolo 18: *** Going offstage ***
Capitolo 19: *** The longest countdown - Peace time ***
Capitolo 20: *** Knowing no one ***
Capitolo 21: *** This foolish thing ***
Capitolo 22: *** Covered in blood ***
Capitolo 23: *** The day after's refrain ***
Capitolo 24: *** Before flowers fall ***
Capitolo 25: *** Losing the meaning ***
Capitolo 26: *** Oxygen ***
Capitolo 27: *** Precious things ***
Capitolo 28: *** Step-by-step ***
Capitolo 29: *** It's all the small and tiny things you do for me that I will always remember ***
Capitolo 30: *** The world where you are ***
Capitolo 31: *** Children of Eden ***
Capitolo 32: *** To take this hand ***
Capitolo 33: *** Pages ***
Capitolo 34: *** A matter of need ***
Capitolo 35: *** Taboo ***
Capitolo 36: *** Prelude to the last battle ***
Capitolo 37: *** Under my skin ***
Capitolo 38: *** Rain that doesn't know the sky ***
Capitolo 39: *** Thankyou ***
Capitolo 40: *** The act of walking on a rope ***
Capitolo 41: *** The act of falling down ***
Capitolo 42: *** I will not lose ***
Capitolo 43: *** Epilogue: 29 years old ***



Capitolo 1
*** Introduzione ***


Piccola nota introduttiva

Mi spiace riservare un intero capitolo all’introduzione, ma quando e vo’ ce vo’.

Questa fic non si può definire né una long fic, né una raccolta di one-shot scollegate tra loro. Ho voluto (provare a) riportare tutto ciò che il fumetto ha tralasciato, per quanto riguarda la guerra di Ishvar: le scene di vita quotidiana, i drammi etici ed esistenziali dei nostri beniamini, in particolare di Roy e Riza (con l’aggiunta di Maes e Kimblee, in alcune occasioni). In più ho cercato di far evolvere il loro rapporto in questo contesto drammatico (perché penso che la guerra sia stata una pietra miliare nella loro relazione, in qualsiasi chiave si decida di leggerla).

Dal momento che non sono mai stata i guerra e in un deserto ci sono stata una volta sola, e per un’ora al massimo, ho cercato di immedesimarmi più che potevo per rendere una realtà almeno somigliante con quella ideata dall’Arakawa. Spero di aver fatto un buon lavoro, o comunque di non aver sconfinato troppo nell’inverosimile.

Il rating è arancione (lo avevo messo rosso, ma ho ridimensionato due o tre cosette...), oltre che per alcune scene di battaglia un po’ cruente, anche per un motivo particolare, ma non anticipo nulla (sennò che gusto c’è? ^^).

Voglio solo aggiungere che questa raccolta non sarà certo comica, anche se alcuni momenti ironici ci saranno (altrimenti facevo prima a suicidarmi direttamente: d’accordo la tristologia, ma a dosi massicce può essere fatale! Sorry _mame_ ^^”).

Vi avviso subito che l’aggiornamento almeno fino a dicembre sarà molto rado, causa esami principalmente, ma anche perché ho ancora un lavoro aperto (Raindrops) e per certi versi in costruzione.

Ah, già che ci sono faccio una piccola precisazione cronologica: da fonti varie (grazie Shatzy e _mame_!!! ^^) so per certo che nel periodo in cui si svolge la guerra di Ishvar e anche questa fic, Roy e Riza hanno rispettivamente 23 e 19 anni.

Non è un fattore irrilevante, in alcuni casi l’età (o comunque la loro maturità) sarà l’argomento principale della varie riflessioni, insieme alle altre, senza contare che soprattutto nel caso di Riza, un cosa del genere non può non avere risvolti e conseguenze (stiamo parlando di un’adolescente con in mano un’arma: non so voi ma la cosa mi inquieta molto…).

Piccolo ed ultima precisazione: Maes.

Io non sono per lo Yaoi (si scrive così???), non penso che FMA si presti alla cosa (è solo il mio gusto personale: ci sono un sacco di fic sul genere davvero ben fatte in giro, che ho avuto modo di apprezzare), ma indubbiamente l’amicizia tra lui e Roy, in una situazione come la guerra (con tutte le pressioni a livello psicologico che può creare), si è consolidata, o ha comunque dato vita a un attaccamento più forte e saldo di un qualsiasi cameratismo esistente (non a caso, i rapporti interpersonali tra soldati è uno degli argomenti che ho cercato di dipanare, a mio avviso degno di nota).

Bon, penso di aver detto tutto.

Chiedo ancora scusa per la lungaggine, ma visto il tema un po’ pesante e serio, mi sembrava d’obbligo premettere alcune cose.

Detto questo, Grazie come sempre per tutte le recensioni ad altri miei lavori, spero che anche questo sia di vostro gradimento.

Buona lettura!

Stray

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** The beginning of the end ***


The beginning of the end

Non credeva che il silenzio potesse trattenere tanto disagio.

In quei trenta centimetri di distanza tra le loro spalle, una voragine greve come il piombo, nonostante il fuoco del falò sia vicinissimo, uno strano sudore freddo gli taglia la schiena come la lama che ha evitato poco fa.

Non è stato capace di sostenere a lungo quello sguardo che ricordava così diverso, così umano e innocente, una volta…

Si chiede se anche lei lo vede così, più adulto, più invecchiato...

O solo più mostruoso.

“Come stai?”

E’ la domanda più stupida che gli è venuta in mente.

Ma da qualche parte doveva pur cominciare.

“Bene. E lei?”

Non risponde: iniziare uno straccio di conversazione dopo anni con una palese bugia, non è quello che vuole. Si limita a scuotere il capo, e abbozzare un sorriso tirato.

Maes, si schiarisce la voce, ma sentendosi ignorato, valuta quale sia la via di fuga più vicina.

“Da quanto sei qui?”

“Circa un anno…”

“Ah… Non ti avevo ancora visto.”

Deve essere così: io lavoro nell’ombra.”

La osserva guardarsi le mani, posate inerti sulle ginocchia, un gesto che le appartiene come quella sua quasi totale inespressività, qualcosa di cui non si rende minimamente conto.

Altrettanto inconsciamente, lui sfrega il pollice e l’indice tra loro. Anche senza i suoi guanti, sente di poter emettere scintille.

“Grazie per prima…”

“Non mi ringrazi. Potevo sbagliare mira.”

Le sopracciglia scure si avvicinano pericolosamente, lo sguardo si fa dubbioso o solo fintamente sorpreso. Non sa chi dei due sia il più sorpresoo, da quella frase a doppio senso e doppio taglio.

“Mi scusi. Dimentichi quello che ho detto, signore.”

Si alza, silenziosa e solenne, o forse è la sua presenza discreta ma pungente che zittisce il resto del mondo, ferma momentaneamente il tempo.

La guarda allontanarsi, indeciso se seguirla o meno.

Per un attimo, un attimo solo, ha intravisto un lampo di odio, in quegli occhi tristi e vuoti.

Per un secondo infinitesimale, l’idea di aver avuto quel fucile puntato sulla schiena per tutto il giorno, gli ha fatto più paura che l’attacco a sorpresa appena subito.

Poi, altrettanto velocemente, è tutto passato.

Si alza stancamente, allungando il passo per raggiungerla.

Non gli ha sparato, non lo ha fatto.

Significherà pure qualcosa…

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** The director syndrome ***


The director syndrome

“Di’ la verità: avevi una cotta per lei, vero?”

Maes ha voluto i dettagli, a tutti i costi.

E quando Maes vuole qualcosa, è meglio dargliela in fretta, prima che diventi pericolosamente simile ad una zecca: fastidioso e assillante come poche cose nell’universo.

“Non dire stronzate…”

“Perché no? In fondo è carina…”

“Hey!”

“E questo è un chiaro e tardivo attacco di gelosia…”

“Ripeto: non dire stronzate! Diciamo che le ho fatto da fratello maggiore, quando stavo da suo padre…”

“Si ma…”

“Niente ma! Maes, tu hai la pessima abitudine – e dico pessima, perché è un’abitudine da donna – di inventarti situazioni in stile soap opera sui fatti degli altri. Era la figlia del mio maestro. Punto. Fine del discorso!”

Il capitano che gli cammina al fianco non prova nemmeno a camuffare lo sguardo acquoso, da dietro gli occhiali rigati.

“Okay, come vuoi... Era la figlia del tuo maestro. Ma adesso, cos’è per te?”

Questo lascia senza parole il maggiore Mustang, per il resto del pomeriggio.

Così è Maes a fare la prima mossa.

“Cosa siete?”

Trova soddisfazione nel vedere sul viso minuto di quella ragazzina la sessa espressione disorientata del suo amico – anche se in parte stemperata dall’inespressività di fondo di lei.

“In che senso?”

“Nessun senso.”

Sì, è chiaro che la cosa non abbia nessun senso… ma lei ci prova lo stesso, se non altro per tenerlo buono – ha già capito che l’insoddisfazione di quell’individuo è direttamente proporzionale al suo grado di insopportabilità.

Esseri umani?”

“Sì… NO! Intendo voi, voi due. Tu e Roy. Cosa siete?”

Ci mette qualche secondo per collegare la parola Roy a un’immagine nella sua testa. Lo ha sempre considerato il ‘signor Mustang’, ora il ‘maggiore Mustang’: non è abituata, a pensarlo con il suo vero nome. O forse non è più abituata a pensarlo e basta.

“L’uno per l’altro?”

“Esatto!”

“Niente.”

Maes scuote la testa ridendo. Il gruppo dei colleghi di lei è già lontano, vicino al fuoco: non ha scampo.

“No. Io e uno di Ishvar siamo ‘niente’. Io e te siamo – per ora – ‘niente’. Anche se avendo proprio Roy in comune, diventeremo ‘qualcosa’, prima o poi… che so, ‘l’amica dell’amico’, roba simile…”

Quest’uomo è matto… si scopre a pensare Riza. E per una volta è felice che il suo viso non sia in grado di lasciar trapelare le emozioni più elementari.

“Qualcosa dovete pur essere! Cosa?”

“Non lo so.”

“Conoscenti?”

“Ha vissuto da me per molto tempo…”

“Amici?”

“Non esattamente…”

“Non sarete amanti???”

“NO! Ma che…?”

“Parenti?”

“Non abbiamo legami di sangue…”

“Meno male. Sennò sarebbe incesto…”

“Ma se ho detto che non siamo…”

“Scherzavo. Ma ciò non toglie che non mi hai ancora detto cosa siete.”

E’ stanca, sporca, e per di più uno stupido mal di testa l’ha appena assalita: quell’idiota di un capitano – con rispetto parlando, si tratta di un superiore - ha scelto il momento più sbagliato per assillarla.

“Devi deciderti, mia cara! In un esercito bisogna avere ben presenti i propri ruoli, o è la fine di tutti. Mi spiego?”

No. Ma evita di sollevare obiezioni.

Cerca una soluzione per non passare la notte all’addiaccio.

E dopo poco – stiamo pur sempre parlando di Riza Hawkeye – la trova.

“Siamo compagni d’armi. Colleghi, commilitoni. Per l’esattezza, io la recluta, e lui il maggiore. Può bastare?”

Lo ha fregato.

Lo può vedere da come il ghigno di scherno e malizia gli si disfa in faccia.

Se si aspettava di incastrarla, ha decisamente sbagliato persona.

“Immagino di sì…”

“Buona notte, capitano Hughes.”

L’impercettibile sarcasmo che calca sulla parla capitano, pone fine all’interrogatorio. Senza possibilità di replica.

“Approvo.” Sentenzierà l’uomo la mattina dopo, ad un Roy più di là che di qua.

“Che? Hai bevuto, Maes?”

“No. Ho solo detto che approvo. Qualsiasi cosa decidiate di essere, approvo. Io la mia parte l’ho fatta. Buona giornata, maggiore!”

Si allontana, lasciando Roy ancora più di là di quanto non fosse prima.

E pensa che una sceneggiatura non potrebbe essere più intrigante di così.

Lo sapeva: aveva sbagliato mestiere.

Stranamente riesco ad aggiornare in tempi ragionevoli… ^^”

No, il fatto è che cerco di portare avanti SABBIA e i 15R contemporaneamente, sennò mi rimane solo la depressione post-Ishvar…

Questo capitolo è un po’ più tranquillo: mi sono accorta (per quel po’ di capitolo che ho già scritto) che Maes è il cosiddetto “personaggio-pausa” nel senso che la sua presenza (il più delle volte) riesce a risollevare momentaneamente l’atmosfera da triste/tristissima a sopportabile.

Sarà per questo che l’adoro… ^^”

Grazie per le recensioni! Avevo già trattato del loro incontro nei 100 themes (mi sembra in Memories) ma ho voluto fare un’altra versione perché era necessario cominciare proprio dall’inizio.

Ho provato soprattutto a pensare ai pensieri di Riza e al suo stato d’animo: l’odio momentaneo (non dirò se lo ha percepito solo Roy o c’era davvero: vi lascio nel dubbio ^^) nella mia mente contorta era dovuto al fatto che dopo aver rivelato i segreti del padre a quel ragazzo per dei sogno nobili, se lo ritrova a compiere una carneficina. Ora, so che Riza non gli rinfaccerà mai una cosa del genere (e comunque la questione tornerà fuori tra qualche capitolo) ma penso che almeno in un primo breve momento lei si sia chiesta se non fosse il caso di fermare questa follia, eliminando uno dei principali “errori” alla radice…

In questo senso, “avrebbe potuto sbagliare mira” se davvero avesse voluto.

Fortunatamente per la storia (e per noi) non ha voluto… ^^

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** White flag ***


I know I left too much mess and
destruction to come back again
And I caused nothing but trouble
I understand if you can't talk to me again
And if you live by the rules of "it's over"
then I'm sure that that makes sense

I will go down with this ship
And I won't put my hands up and surrender
There will be no white flag above my door
I'm in love and always will be

And when we meet
Which I'm sure we will
All that was there
Will be there still
I'll let it pass
And hold my tongue
And you will think
That I've moved on....

Dido, “White flag”

White flag

“Sei brava. Dove hai imparato?”

Maes si è immedesimato subito nel suo nuovo compito.

Fare da miccia di accensione per qualsiasi dialogo tra i due, risulta facile solo all’apparenza – lo stesso Roy è sempre stato ironicamente incapace di dare il via a tutte le cose, anche le più semplici, che non fossero fiammelle nell’aria. Deve pensarci lui, il miglior amico.

E’ lui a iniziare, è lui a dirigere abilmente la conversazione – o la successione di poche frasi che dovrebbe rispondere al concetto - è lui a ritirarsi nell’ombra, come un burattinaio intento a non disturbare la storia che prosegue anche senza di lui.

Non sa nulla di alchimia, ma pensa che qualsiasi cosa ci sia o ci fosse stata tra loro, è un po’ come la fiammata in un camino: finché ci sarà ossigeno continuerà a bruciare; ha solo bisogno che qualcuno provochi la prima scintilla, e dia qualche riattizzata, di tanto in tanto.

Per cui “Sei brava. Dove hai imparato?” è il suo contributo a quella che reputa una buona causa, la sua buona azione quotidiana.

Riza sposta la pupilla concentrata dal mirino del fucile di precisione. Le sagome di cartone sparse per il campo di esercitazione, momentaneamente salve.

“Mio nonno è nell’esercito.”

Come se ciò spieghi tutto. Un dono naturale, un destino già scritto, qualcosa a cui non puoi sfuggire.

Il rumore secco di un altro sparo, il tempo di veder cadere la sagoma più lontana tra la polvere del deserto, e Maes è già un ombra confusa tra la folla di militari lontani solo qualche metro.

Roy si sfrega le mani tra loro, mentre la guarda sterminare la rada popolazione di cartone del campo. Vede cadere i modelli dalle forme umane, uno ad uno, e gli unici aggettivi che potrebbero rendere giustizia al suo talento sono precisa e letale.

“Sei davvero brava. Troppo.”

Lei ignora l’ultima parola.

E’ l’immagine della concentrazione: la mascella serrata, gli occhi più fissi del sole nel cielo polveroso, le braccia rigide e tese. Solo la spalla si muove di qualche millimetro, ogni volta che il rinculo dello sparo scuote la sua esile figura.

Sembra sia il fucile a bilanciarla, non il contrario.

“Mi dispiace…”

Come se fosse colpa sua, ogni sagoma caduta - ogni colpo andato a segno è una vita in meno sul campo di battaglia, l’indomani mattina – ciascun singolo granello di sabbia che le sporca il viso.

Il labbro inferiore è imprigionato tra i denti, torturato a sangue.

“Non importa. Chi uccido, è troppo lontano da me, perchè io possa rendermene conto fino in fondo.”

Roy sorride, pensando alla menzogna che si è creata attorno per trovare un equilibrio, anche se precario, il giusto per rimanere in piedi.

La canna traccia un arco nell’aria, scende lentamente fino a sfiorare il suolo. Lei sospira come se l’arma sia diventata improvvisamente troppo pesante.

“Non ha bisogno di preoccuparsi per me, maggiore Mustang. Come mio superiore non ha motivo di farlo.”

Mentre la guarda andare via, pensa che per la seconda volta è lei a fuggire il confronto.

Forse come superiore, non ha davvero ragione per essere li, come superiore non dovrebbe scusarsi, come superiore non ha bisogno di sentirsi in colpa.

Ma quella sua precisazione gli da la conferma, che come amico – o come qualsiasi altra ‘cosa’ sia adesso per lei – è suo preciso dovere farlo.

Approfitto del periodo post esame, di relativa calma per aggiornare un po’ tutti i lavori…
Dal momento che ho molta nostalgia di Maes, anche in questo capitolo fa la sua apparizione (ma penso sarà una cosa frequente: mi sono accorta che è quasi indispensabile per approfondire bene il personaggio di Roy senza contare che dargli spazio mi da modo di aprire anche tematiche un po’ diverse…
Certo questo theme si concentra un po’ di più su Roy e Riza: volevo dare bene l’idea dello sgelarsi graduale del loro rapporto: è una cosa difficilissima, me ne sono resa conto soprattutto scrivendo Request: alla fine siamo abituate a pensare a loro come coppia, ma in fondo prima di diventare tali, anche loro sono stati individui a sé, con un atteggiamento addirittura diverso (basti guardare Riza: non c’è altro personaggio in FMA che cambia di più a mio parere).
Detto questo: grazie per le recensioni! ^^

Metto la traduzione della canzone-citazione dell’inizio (il titolo non era collegato, anche perché mi sono ricordata di questa canzone proprio cinque minuti prima di postare… di recente mi capitano di questa folgorazioni… mah…)

“Sono sicuro di aver lasciato troppo caos e distruzione dietro di me
Non ho causato altro che problemi
Capisco se tu non puoi più parlarmi
E so che se hai deciso di vivere secondo la regola del “E’ finita”
Tutto ciò ha senso
Ma non abbandonerò la nave ora
Non alzerò le mani arrendendomi
Non ci sarà alcuna bandiera banca sulla mia porta
Sono innamorato e lo sarò sempre
E quando ci incontreremo
Perché sono sicuro che accadrà
Tutto quello che c’è e c’era
Ci sarà ancora
E io lascerà andare
E terrò a freno la lingua
E tui penserai
Che ho deciso di andare avanti…”

P:S x Shatzy: Chiedo scusa per il “non lo sapevo”: in realtà avrei dovuto scrivere “non me lo ricordavo”!^^” Perdona la mia memoria colabrodo: se fosse per me faticherei a ricordarmi il mio, di compleanno! ^^” Un bacio e ancora tanti auguri

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Breathe before to jump ***


Breathe before to jump

Il secondo prima dello sparo di inizio, Roy ha in mente lei.

Ha in mente lei, appollaiata in cima a un edificio diroccato, da qualche parte in mezzo al caos.

Un secondo prima che il rumore secco in lontananza gli arrivi alle orecchie e che l’odore pungente della polvere da sparo gli dia la nausea, Roy pensa a lei: pensa che quel colpo potrebbe averlo esploso lei, dall’alto della sua postazione, pregando infantilmente che non colpisca il bersaglio.

Un secondo prima che gli ordini urlati dei superiori gli impongano di muovere i primo passi - il plotone compatto, deciso, inarrestabile: un nugolo di formiche di un blu sbiadito misto al colore della terra e della sabbia – tra le strade deserte del quartiere, Roy pensa a lei, con il suo fucile in spalla, lo sguardo concentrato, le mani tese nello sforzo di mantenere a canna puntata contro l’obiettivo.

Pensa a lei, mentre si rende conto che quella sagoma che cade nella sabbia non è affatto un manichino di cartone, mentre realizza che a differenza di un pezzo inanimato, quel corpo crivellato di colpi può emettere suono - straziante, lungo, assordante: continuerà a urlare anche di notte, nei suoi sogni – può cadere più lentamente, può fermare il tempo per un istante per darle modo di guardarlo bene.

Pensa a lei, e sa che non chiuderà gli occhi, per non lasciare scendere le lacrime.

Pensa a lei, e mentre schiocca le dita sa di avere quel fucile puntato addosso, ma la cosa non lo spaventa più così tanto: lascia solo un leggero senso di ansia, come a voler dire “Spara pure, se lo ritieni giusto. Spara e facciamola finita davvero, se pensi stia sbagliando tutto quanto”.

Pensa a lei, a quando quella mattina, prima dell’inizio dell’operazione, le ha appoggiato una mano sulla spalla e ha sentito le ossa della clavicola muoversi verso l’alto, il petto gonfiarsi lentamente di aria: inspirare, espirare, una leggera apnea in mezzo come se dovesse tuffarsi da uno scoglio.

Ma sapevano entrambi che sotto, l’acqua non ci sarebbe stata: solo rocce aguzze.

Guarda le truppe ritirarsi in silenzio: solo qualche rantolo dei moribondi a terra disturbano la quiete.

Un urlo di donna, all’improvviso: pensa a lei.

Pensa a lei, e prega con tutto se steso che non sia lei.

Allooooooora…. Vediamo se riesco a spiegare il mio ragionamento contorto, perché mi sono accorta all’ultimo che forse questo capitolo non è molto chiaro…

Intanto mi sto uccidendo per riuscire a rendere il loro riavvicinamento graduale: sembra una cavolata, ma ci sto spendendo sopra tutte le mie energie, perché in realtà è difficilissimo (o forse lo è per me, che me li vedo sempre felici, sposati e insieme): pensarli diciamo, leggermente ostili/risentiti/in colpa l’uno verso l’altro e descriverli tali è una tortura, ma d’altra parte secondo me un momento del genere lo hanno passato .

Con questo capitolo volevo sottolineare il fatto che Roy ha trovato la sua “distrazione” dalla guerra, chiamiamola così: lo ribadirò meglio in un prossimo capitolo, ma mi premeva dimostrare quanto sia combattuto tra il fatto di sentirsi in colpa per aver tradito i suoi sogni ma soprattutto quelli di Riza, insieme alla sua fiducia, e il fatto di non poter fare a meno di preoccuparsi per lei (il relitto di quel rapporto di amicizia-parentela che c’era quando vivevano insieme).

Non ho trovato momento migliore per descrivere tutto questo che l’inizio di una battaglia: la presenza di Riza rimette in discussione tutte le priorità di Roy, persino nel suo “lavoro”.

Detto questo ringrazio per le recensioni e i commenti (Thanks! ^^)

Faccio una risposta collettiva: in un certo senso Riza E’ effettivamente risentita verso Roy: d’accordo che è una santa donna, ma la persona a cui aveva affidato il segreto più grande della sua famiglia sta facendo l’esatto contrario di ciò che le aveva raccontato, parlandole dei suoi sogni. In un certo senso, in questo periodo sta valutando attentamente il da farsi (prima, l’istinto a sparare, poi il tenerlo a distanza, il fatto di dimostrargli le sue capacità quasi a ribadire che non è più una ragazzina e non ci cascherà un’altra volta): nei prossimi capitolo mi soffermo molto su questa “evoluzione”, l’ho trovata una parte del personaggio di Riza molto interessante, che la rende più “umana” e fallibile di quanto non sembri… mi saprete dire! ^^

Grazie ancora per i commenti! A presto!

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** The best shot ***


“It can't be too hard
I keep telling myself
while the ground's missing
what's coming after?”

Elisa, “It is what it is”

“Non può essere così dura
Continuo a dirmi,
mentre il suolo manca sotto i piedi:
cosa verrà dopo?”

The best shot

Aveva già preso la mira, l’occhio sinistro chiuso, il dito già teso sul grilletto.

Ma la fiammata è arrivata prima del suo proiettile, e l’uomo che teneva sotto tiro si è illuminato per un secondo, come una cometa, prima di cadere a terra e spegnersi lentamente.

Non ha mai assistito di persona all’Alchimista di Fuoco in azione, sebbene ne avesse sentito parlare dai colleghi entusiasti.

Non immaginava che l’odore della carne bruciata potesse dare una nausea così violenta.

Vede il responsabile dall’altra parte della strada, lo guarda inorridita da dietro la lente del mirino.

Il maggiore Mustang alza gli occhi verso di lei: con quello sguardo sembra chiederle di conservare il proiettile inesploso esclusivamente per lui.

Riza Hawkeye, spara un colpo in aria.

Oh, finalmente, direte voi! Scusate il ritardo: ci ho messo un po’ a digerire il pranzo di natale, e rotolare fino al computer non è stato facile… Ok, basta con gli scherzi, che non ci stanno con l’atmosfera da tristologia della fic… ^^” (P.S: Buon natale a tutti, e già he ci sono buon anno, perché è praticamente impossibile che riesca a pubblicare qualcos’altro entro il 2007…beh,m forse un altro capitolino di SABBIA ci sta, questo è veramente corto… vedremo).

Questo capitolo è cortissimo, però sono molto contenta che sia venuto così: volevo proprio dare l’impressione del colpo sparato: bam! Fine.

Si potrebbe tranquillamente dire che è il principio di tutto (lo sparo d’inizio, passatemi il gioco di parole), anche perché il prossimo capitolo si riallaccia al manga (e a quello che per me è stato il punto fondamentale, la svolta, nel loro rapporto che fino ad ora è stato qualcosa di confuso e messo in discussione).

Sono d’accordo con Elyxys: anche secondo me Riza è quella che si evolve di più (“spiritualmente” come hai detto tu) ma è anche quella che si evolve nel modo più silenzioso, tanto che l’intero processo nel fumetto a volte non è percepibile. In questa raccolta ho cercato di guardare i fatti anche dal suo punto di vista, ma non è stata (e non sarà) cosa semplice, perché non sono abituata a farlo. Paradossalmente è più “semplice” mettersi nei panni di Roy (tutto tra virgolette: sono personaggi talmente spessi e profondi che la semplicità e del tutto relativa…).

Tanto per dirne una: l’angoscia di Roy dello scorso capitolo (ndr: sono contenta che abbiate avvertito l’ansia di fondo: è proprio quello che volevo far arrivare! ^^) è qualcosa che in un certo senso sono abituata (parlo per me, ovvio) ad associare a lui. Una Riza assalita dalla stessa sensazione, è un’immagine che fatica un po’ di più a formarsi nella mia testa (ma alla fine si forma, e di questo sono contenta, perché è un personaggio che amo, e che vorrei approfondire, impratichendomi della sua psicologia).

Ok, la smetto di assillarvi con le chiacchiere: mi metto d’impegno e cercherò di aggiornare almeno domenica, perché il prossimo capitolo fa proprio da spartiacque, e l’idea di metterlo a cavallo tra quest’anno e l’anno nuovo mi piace! ^^

Auguri a tutte!

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Apocalypse now ***


“Got me ten feet off the ground
And I'm hearing what you say but I just can't make a sound
But it's too late to apologize
It's too late”

Timbaland, Apologize

(Dieci piedi sottoterra
Ascolto quello che dici ma non riesco a emettere suono
E forse è troppo tardi per scusarsi
È troppo tardi)

Apocalypse now

Quando il momento fatidico arriva, non è pronto.

Non si è mai sentito, e mai si sentirà tale.

Ma l’attesa che lo stava uccidendo, di una morte lenta e agonizzante, gli piaceva – l’adeguata punizione auto inflitta, la giusta proporzione tra tutti gli ingredienti: colpa, rimorso, abnegazione.

Così che, quando sa che il momento del colpo di grazia sta per arrivare, si scopre ad aver paura.

Perché un conto è infliggersi ferite da soli, un conto è consentire a qualcun altro di premere i grilletto. Togliersi il lusso di sapere esattamente quando il colpo arriverà, lasciarsi prendere di sorpresa dal dolore per renderlo più acuto.

“Anche se ho continuato a crederci…”

Lei non piange, non lo fa mai. Non è insensibilità: è solo il bisogno fisiologico del corpo di mantenere la naturale percentuale di liquidi al suo interno.

“Perché siamo dovuti arrivare a questo?”

Solo in quel momento Roy comprende quanto entrambi diano la colpa a se stessi, prima che all’altro.

Mea culpa, per essermi fidata.

Mea culpa, per aver avuto dei sogni da realizzare.

Mea culpa, per il solo fatto di esistere.

E in quel momento la sua unica paura, il suo unico terrore, è che la sua prossima frase possa essere “Non è stata colpa tua”.

Perché proprio non riuscirebbe a sopportarlo.

Oooops! Scusate, ho fatto un casino con gli aggiornamenti: avevo messo due capitoli uguali… Ok, dovrei aver risolto… e questo è l’aggiornamento promesso prima di capodanno! ^^

Dunque, passo a qualche risposta:

Shatzy: Sì sì, è proprio quello! ^^ Si accertano a vicenda che l’altro debba uccidere (=soffrire) il meno possibile! Sono contenta che l’idea sia passata…
La nausea era molto importante: è un po’ come se fosse entrata a contatto con la morte (vera e propria: rancida, crudele e violenta come l’odore di bruciato). Quando si rende conto di quanto l’alchimia stia lentamente uccidendo lo stesso alchimista (come suo padre, in un certo senso: forse ha avuto paura di perdere anche Roy), capisce anche (finalmente) la sofferenza continua di Roy, e in questo senso riesce ad accettare i suoi sbagli e a “perdonare”: lo sparo in aria (quello che avrebbe dovuto colpire il bersaglio del suo risentimento, ovvero Roy) è il simbolo di questo cambiamento implicito, che in questo capitolo è diventato esplicito.

Kaho_chan: Sono contenta che la fic ti piaccia, grazie! ^^ oddio, forse “piacevole” è un aggettivo un po’ strano applicato alle storie di Ishvar, comunque… ^^” Scherzi a parte, faccio del mio meglio perché amo questa coppia e questo manga (praticamente dopo un’adolescenza passata a leggere decine fumetti di ogni tipo contemporaneamente, è rimasto quasi solo questo che resiste sulla mia libreria, e resisterà anche se dovesse durare altri cinquant’anni! W l’Arakawa!!! XD) e penso non mi stancherò facilmente di scrivere su di loro, finchè avrò almeno un’idea! ^^” Grazie per i complimenti!

Elyxys: Scusa il casino cn i capitoli, dovrebbe essere tutto a posto, ora… Sì, penso che “armistizio” sia proprio il termine giusto, anche se gradaualmente si traformerà in una specie di pace prorogata e continua (ok: mooooolto gradualmente…). Anche il senso di nausea era importante: in effetti, come Riza stessa dice, il suo modo di uccidere non le dà davvero l’impressione di farlo, mentre il “metodo” (urg… non mi piace questa espressione…) di Roy lascia una traccia indelebile della morte, anche in se stesso, l’assassino. Arrivare a comprendere questo, per Riza, significa comprendere il continuo conflitto interno di quello che considerava un traditore dei suoi stessi ideali, e che invece diventa ora ai suoi occhi una vittima, come lei, degli eventi crudeli della storia.

Bene, a questo punto, posso dirvi tranquillamente… BUON ANNO NUOVO!!!!
Ci rivediamo nel 2008 con il prossimo aggiornamento! Baci a tutte! ^^

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** A battle lost ***


A battle lost

“Per esempio tu, giovane ragazza.”

Dovevi saperlo, che non avrebbe portato a nulla di buono.

“I tuoi occhi dicono a chiare lettere: quello che faccio non mi piace per niente.”

“E’ così: uccidere non è affatto divertente.”

“Ne sei sicura?”

Da come sorrideva: si vedeva da come piegava la bocca di lato, mentre narrava la sua parabola crudele.

“Puoi giurare di non esserti mai sentita soddisfatta del tuo lavoro? Di non aver mai esultato quando hai centrato il tuo obiettivo, di non aver mai riconosciuto con fierezza la tua bravura? Non rispondi, signorina cecchino?”

“Basta così!”

Non hai pensato. Hai agito.

Persino Maes trattiene il respiro, mentre Kimblee smette di sorridere – il motivo per cui ha scelto quella ragazzina, in mezzo a tanti soldati, non è stato un caso.

Dovevi saperlo: è un bastardo.

E come tale, ha sempre, dolorosamente ragione.

Ma quando afferri l’uomo per il bavero, non ci pensi. Perché lo fai per lei.

“Tu sei un altro che non riesco a capire. Cercare giustizia in un posto come questo, non è normale.”

Lo sai. Ti senti un cavaliere anacronistico e ridicolo, nel difendere l’onore di una donzella tutt’altro che indifesa. Ma non potevi sopportare oltre di vederla pregare sommessamente di diventare improvvisamente sorda, per non sentire più l’orrenda verità che quell’uomo le leggeva dentro, come fosse stata un libro aperto.

“Sei venuto qua di tua volontà: perché fare la vittima?”

Non stai facendo la vittima. Stai cercando di proteggerla. Stai cercando una scusa per salvarla, almeno lei. Da quando l’hai incontrata, improvvisamente, le giornate hanno cominciato ad avere un che di diverso: uno scopo. Uno scopo che non sia un male per nessuno. Uno scopo per il quale non sei costretto a fare nulla contro la tua volontà.

Ma questo pazzo terribilmente saggio sta rovinando tutto. Questo pazzo, con le sue frasi piene di senso, piene di un senso che fa paura, sta distruggendo tutto quello che sei riuscito a creare con tanta fatica.

“Non distogliere lo sguardo dalla morte. Guarda avanti.”

Ma tu guardi le mani bianche di Riza: le dita stringono la canna del fucile così forte che ti aspetti di sentire il rumore del ferro e del legno in frantumi, da un momento all’altro.

“La gente che uccidi… guardala dritta in faccia. Non scordartela.”

Ad ogni viso, si sovrappone quello di lei; la verità è che la stai uccidendo con le tue mani, la stai bruciando viva, come le streghe al rogo. La senti urlare persino nei tuoi sogni.

“Perché loro non scorderanno la tua…”

La sirena vi salva. Come sempre.

Vi salva sul limite della pazzia; vi spinge sempre oltre, sempre più verso il baratro e vi tira per la giacca all’ultimo secondo, sull’ultima frazione sempre più piccola di un battito, quando credi che non ci sia altro che il vuoto, dopo. E invece tutto quello che senti è ancora la terra sotto i piedi.

E l’inferno alle spalle.

Mamma mia che ritardoooooooo!!!
Immagino che l’influenza (bastardissimo e malefico virus, tu sia dannato in eteeeeernooooo!!!!) non basti come giustificazione…. Aggiungo anche che gli esami non finiscono mai (e non è un detto popolare: qui sembra che non finiscano proprio, la cosa è allarmante!).
Passo subito alle risposte, visto che lo scorso capitolo è stato un po’ strano (scusatemi…) ^^”.

Shatzy: Grande! E’ proprio così! Non poteva scrivere un saggio più esaustivo della situazione: la fragilità di Roy è una cosa che mi premeva molto sottolineare, perché secondo me per arrivare ad essere l’individuo abbastanza sicuro che il manga presenta, in una situazione come quella di Isvar ha dovuto rimettere in discussione tutto quello in cui credeva… e sì, Riza in questo senso è allo stesso tempo uno di questi punti di riferimento del passato che vengono a mancare (nel senso che è diversa, cambiata, per il solo fatto di essere lì è la dimostrazione vivente che il mondo è diverso da come Roy se lo immaginava) ma anche la pietra miliare, il punto di appoggio per una nuova partenza (non certo meno faticosa e tormentata).
Per quanto riguarda il concetto di colpa, io l’ho interpretato come un peso, un fardello che Roy VUOLE portarsi addosso. Come hai detto tu, un po’ per non farne gravare il peso sulle spalle di altri (leggi Riza), un po’ perché rappresenta la sua espiazione, diciamo, l’unico motivo valido che giustifica il fatto di continuare a vivere nonostante gli orrori che ha commesso.
Vuole proteggere Riza (in questo capitolo la cosa è esplicita) soprattutto da questo senso di colpa, visto che ne conosce bene le sofferenze, vuole proteggerla anche perché lei rappresenterà sempre per lui il simbolo dell’incorruttibilità, dell’innocenza, del passato, anche nonostante l’evidenza dei fatti (Kimbly, la guerra, la stessa Riza che cerca di farglielo capire)… Mamma mia, il loro rapporto è complicatissimo e proprio per questo motivo è la relazione più bella che abbia mai letto su un fumetto: non è riducibile solo ad amore o amicizia o lealtà. E’ tutto questo insieme ma anche tanto altro… Ah, che bello sentire la passione Royai che ritorna!!! ^^

Mame: semmai sei tu che puoi frustare me, visto che ho superato tutti i possibili limiti di ritardo! Perdono! I sensi di colpa sono una brutta bestia, soprattutto per Roy… Non so perché, ma mentre sembra (e sottolineo SEMBRA) che Riza riesca a dominarli, Roy per tutto il fumetto da sempre l’impressione di soccombere ad essi (basti guardare la morte di Maes…). In un certo senso Riza forse ha incanalato la sua espiazione nella missione di proteggere Roy, mentre lui continua a nutrirsi di rimorso (il suo motto potrebbe tranquillamente essere “pane, rimorso e tristologia” ^^”).
Il prossimo capitolo lo pubblicherò domani perchè è strettamente collegato e vicino temporalmente a questo, senza contare che è molto importante. Grazie delle recensioni! ^^

Elyxys: Questa volta niente casini di postaggio (spero). In effetti lo scorso capitolo era moooolto “ermetico”. Mi è venuto così, a libera interpretazione e non me la sono sentita di cambiarlo a scapito dell’atmosfera. Questo in compenso è un po’ più “esplicito”! ^^ Buon anno anche a te!

Sisya: Sono io che devo chiedere scusa per il ritardo! Dire che mi sono fatta di nebbia è un eufemismo, ma il tempo non basta mai… Ma sono contenta che mi abbia lasciato un commentino anche su questa raccolta, ci tenevo molto! ^^ grasie!
A dire il vero anche per me Ishvar era un buco nero impenetrabile, soprattutto per quanto riguarda le datazioni, ma grazie a mame e Shatzy se non altro l’ho rischiarato un pochino (lo stretto indispensabile per non sbattere il naso nei numerosi scogli disseminati dall’Arakawa!).
Tuttavia era un periodo della relazione Roy-Riza che mi premeva approfondire, perché penso sia un po’ la chiave di tutto (così come la guerra è uno dei punti fondamentali per la storia generale di FMA). Grasie per i complimenti, davvero, ormai non so più come si fa a smettere di arrossire… Un bacio! ^^

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** A battle won ***


A battle won

“Grazie.”

Maes non può sentire, è già ripartito con la sua truppa. Se si fosse trattenuto solo un momento, avrebbe potuto udire ciò che aspettava da tempo: un inizio spontaneo.

Le mani bianche da pianista non sono più convulsamente strette attorno al fucile.

Una gli sfiora il braccio: conforto. Qualcosa che stenta a riconoscere, dopo tanto tempo.

Roy sente la pelle da sotto il tessuto spingere verso l’alto - come le piante deformano il loro tronco per raggiungere la luce - i nervi tendersi nella risposta, le ossa aderire alla forma concava del suo palmo.

“Dovere.”

“No. E’ questo il punto: non è suo dovere.”

Per un attimo, teme che sia la fine.

La fine di qualsiasi cosa, della vita, del mondo, l’intero concetto di fine. Non ne sa nulla se non che sta per accadere lì, ora, in quel preciso istante.

E nel momento fatidico lui non è pronto. Non lo sarà mai, ma rimandare, ritardare il giorno del giudizio lascia un minuscolo spazio alla speranza.

“Per questo, grazie.”

Ci sono 40 gradi all’ombra. Ma quando la sua mano lascia la presa, lui sente freddo.

Perché se non è dovere, non sa proprio cosa sia.

Eccomi qua! Vi anticipo che sono leggermente in crisi per l’altra raccolta, Raindrops (dannato Risk: ti vuoi scrivere o no???), per cui il mio umore recentemente non è dei più rosei… aggiungiamo anche la nevrosi da ultimi esami, e la situazione non migliora….
Ma cosa c’è di meglio di un po’ di sana atmosfera Ishvariana per proseguire con la fic su (appunto) Ishvar? ^^” Vabbè, sorvoliamo…
Un altro capitolino breve breve… ma doveva proprio essere così (questioni di titoli): spero di rimediare con aggiornamenti più ravvicinati.
Passiamo alle risposte che è meglio…

Nimphadora: Che dire? Che anch’io sono ormai ricorsa alla riserva di fazzolettini per la commozione? Davvero, non so mai come reagire hai complimenti, e a volte ringrazio che ci sia uno schermo di mezzo a nascondermi… ^////^
Non ti preoccupare, anch’io ogni tanto mi perdo alcune fic, questa poi era un po’ camuffata, senza contare che non aggiornavo dagli ultimi dell’anno (ehm… coff coff…).
Dunque, per un commento cumulativo ci vuole una risposta cumulativa. Intanto sono molto contenta che l’analisi psicologica stia risultando “in character”: se c’è una cosa che mi ha sempre appassionato di FMA è proprio il periodo della guerra, più che per gli avvenimenti in sé, per i risvolti psicologici che ha avuto su alcuni personaggi… senza contare che la nostalgia per Maes (incrementata dalla fic di Elyxys… sigh…) stava raggiungendo livelli pericolosi, dovevo pur sfogarmi scrivendo un po’ anche di lui e del suo rapporto con Roy e, perché no?, anche con Riza…
Parlando di questi due: mi piace scavare nei loro caratteri (oddio, così suona male), soprattutto perché penso che il loro modo di essere “attuale” (e per attuale intendo durante lo svolgimento della storia di ED) sia il risultato della loro Storia comune, degli eventi che hanno attraversato e scombussolato le loro vite. Il loro rapporto, tanto per dirne uno… ^^
Riza comunque è la più complicata, sembra strano ma è così! ^^”
Grazie ancora per il commento, un bacione! XD

Elyxys: Penso che Roy debba fare i conti con se stesso anche quando non vuole… Ho avuto l’idea che senza la presenza di Riza, le avventure del Flame Alchemist si sarebbero concluse molto presto e alla maniera dell’anime (ovvero, pistola puntata alla testa…). Il colonnello non me ne voglia, ma in una guerra come quella di Ishvar un sognatore come lui (fragile come lui, perché secondo me Roy è profondamente fragile) avrebbe avuto vita breve senza un sogno più concreto davanti…

Shatzy: Oh yes, l’influenza è andata (e spero non ritorni tanto presto, ospite non gradita). Anche quel simpaticone di Kimblee potrebbe fare la tessa fine dei miei virus, per quel che mi riguarda… però purtroppo pr la storia i suoi discorsi malefici sono indispensabili… Mi sarebbe piaciuto vedere cosa accadeva nella testolina di Roy mentre quel bombarolo psicopatico massacrava psicologicamente la SUA Riza, ma visto che l’Arakawa non ha provveduto (se non con un provvidenziale e sospetto scatto felino del colonnello incavolato nero) ci ho provato, chissà…
Sto facendo una fatica bestia per mantenere una certa gradualità, nello svilupparsi del loro rapporto/amicizia/qualsiasi-cosa-sia, per cui siamo passati dallo pseudo-odio, all’affetto, fino a un’inizio SPONTANEO (eccola la parolina chiave: il passo avanti di questo capitolo ^^) di… boh! Sarò un po’ sadica, ma mi piace vedere soprattutto Roy un po’ disorientato da questo rapporto strano, per il solo fatto che non ha idea di cosa può diventare… hu hu, non sanno cosa li aspetta (me molto malefica nel profondo…).
No no, niente abbandono della passione Royai, per carità!!!! O_O Solo, tra esami e la botta psicologica dell’interruzione del fumetto (che poi è stata molto breve, pensavo peggio…) mi ero un attimino depressa… senza contare quel cavolo di Risk che non vuole saperne di venire fuori! Insomma! Oggi mi è venuta un0ideuzza ma… uff… non mi convince del tutto… se proprio sono disperata userò quella, pazienza! ;P Grazie per il supporto, come sempre! baci

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Happy hour ***


Happy hour

“Vuoi?”

E’ la mano di Maes che gli tende la lattina aperta.

Roy la stringe tra le dita mentre sente scivolare il liquido giù per la gola. Maes l’osserva preoccupato: a volte pensa che senza di lui, non si ricordi nemmeno di mangiare e bere, come se avesse calato il corpo in una situazione di stallo, una specie di condizione ascetica di distacco dal mondo e dai suoi bisogni terreni.

“Ce n’è anche per te…”

Riza allunga la mano, ma l’occhiata corrugata di Roy sembra bloccarla a mezz’aria prima che possa toccare la lattina.

Maes sorride: ci mancava solo la sindrome da fratello maggiore.

“Andiamo Roy! E’ adulta e vaccinata… che sarà mai, una birra?”

Lei concorda, manda giù il primo sorso sotto lo sguardo di disapprovazione del suo superiore.

“Attenta che non ti vada di traverso, signorina cecchino..”

Kimblee si siede vicino a loro, allentando il colletto della divisa con una mano, l’altra impegnata a cercare la sua razione di alcol dalla borsa di provviste.

Roy vira la sua occhiata truce di tre gradi a sinistra, su di lui, senza però suscitare nessuna reazione.

“Allora… non mi fate i complimenti per oggi? Due distretti presi in soli venti minuti: penso sia il nuovo record. Tu che mi dici, Flame Alchemist?”

“Dico che se avessi lavorato con un po’ di precisione e meno fretta, i soldati feriti in venti minuti non sarebbero stati due dozzine, a causa delle macerie.”

L’uomo sbuffa, come uno scolaro ripreso per la ventesima volta dalla stessa insegnante petulante.

“Si riprenderanno. E magari impareranno a rispettare la distanza di sicurezza…”

Mentre Kimblee ride, Roy guarda lei, incontrando i suoi occhi di nascosto. Persino Maes capisce che le sta chiedendo di rimanere sempre il più lontano possibile da quel bombarolo pazzo, in battaglia. Riza annuisce piano, uno spostamento di pochi centimetri, avanti e indietro, lentamente.

“Cos’è, sei già ubriaca, signorina cecchino?”

Lui beve la sua birra in un sorso solo, si pulisce la bocca con la manica del pastrano, lanciando la lattina vuota alle sue spalle.

Un movimento fluido e veloce, e una serie di proiettili la colpisce tre volte prima che possa toccare il suolo, sollevando polvere e sabbia.

Kimblee solleva un sopracciglio, Roy gli ruba il ghigno strafottente che indossava fino ad un momento prima.

“Non male…”

Si china per raccogliere ciò che rimane della sua lattina, ma un nuovo sparo – proprio mentre la sua mano stava per toccare l’alluminio accartocciato: la ritira velocemente, troppo per non suscitare l’ilarità dei due uomini dietro di lui – la fa sobbalzare lontano.

Nessuno l’ha vista imbracciare il fucile, appoggiare l’occhio sull’obiettivo, prendere la mira: lo ha fatto così velocemente – senza pensare, senza guardare, come si fosse trattato di un riflesso involontario del corpo, alla stregua di respirare o battere le ciglia – che a guardarla ora, mentre finisce la sua birra ad occhi chiusi, quietamente, sembra quasi che non si sia mossa da quella posizione composta e rigida da ore.

“Ehi, c’era la mia mano! Sai che danno avresti recato all’esercito, se mi avessi danneggiato il tatuaggio con una cicatrice?”

“Mi dispiace signore. Ma forse avrebbe dovuto tenere una distanza di sicurezza dal bersaglio…”

Maes sorride, dal suo angolo, come un padre orgoglioso.

La risata di Roy ha un suono così strano da risultare persino troppo rumorosa, nel silenzio attonito che ha creato.

Anche Riza lo guarda sbalordita, come se il ragazzo avesse appena emesso un suono primitivo e sconosciuto, un verso leggendario, come quello delle sirene o degli unicorni.

E’ Maes il primo a seguire l’amico, tuffandosi di testa nella sua ilarità. Riza arriva poco dopo, limitandosi ad un sorriso più aperto del solito.

Mentre Kimblee si allontana senza una parola, Roy si appoggia al terreno, tenendosi la pancia, sotto gli sguardi ora impensieriti dei due compagni.

Riza è su di lui, preoccupata che il superiore possa tornare a respirare normalmente.

“Non farlo mai più…” prega lui tra gli ultimi singulti mal trattenuti: “Non sono più abituato.”

Riza sorride ancora – giorno straordinario, da segnare sul calendario - allentandogli con un dito il colletto della divisa. Maes aiuta l’amico a rialzarsi.

L’eco di una risata, galleggia nell’aria come una barca che non vuole affondare.

Piccola pausa dalla tristologia (ogni tanto ci vuole, sennò devo davvero andare in terapia per depressione…). Il titolo in questo caso ha doppia valenza: ‘Happy hour’ è sia l’ora dell’aperitivo, sia - in senso letterario - il momento di svago e allegria.
Kimblee farà la sua comparsa almeno un’altra volta, perché devo scaricare la mia frustrazione/rabbia/stress su qualcuno… ^^
Detto questo volevo provare a far ridere Roy: so che può sembrare strano, ma di recente mi faceva tanta pena e ho pensato che se non facevo qualcosa mi andava in depressione lui, prima della metà della raccolta. A dirla tutta, non so nemmeno che suono possa avere la risata di Roy (qualcuno lo ha mai visto scoppiare in una fragorosa risata, sia nel manga che nell’anime?), per cui mi accodo al gruppo degli sbalorditi Maes e Riza.
Senza contare che tecnicamente questa è una specie di raccolta di cronache di guerra, e immagino che nonostante la situazione tragica, qualche momento di tregua deve pur esserci…

Per quanto riguarda il capitolo precedente (faccio un rispostone collettivo, pardon) sì, era il continuo di A battle lost, e in qualche modo è vero, si può tranquillamente dire che inizia tutto lì, da quel contatto (anche se a me piace pensare che tutto sia iniziato molto prima, e che in quel momento entrambi, soprattutto Roy, cominciano ad avvertire qualcosa senza riuscire a darvi ancora n nome…).

Ah, già che ci sono, ringrazio per le minacce a Risk: come avete visto hanno funzionato! ^^ i norma sono pacifista, ma per una volta nella mia vita, se quel titolo avesse avuto forma umana, lo avrei strozzato alla Homer Simpson… (ah.ehm).
Grazie per i commenti e il supporto!!! ^^

(x Shatzy: sarò sincera. Non ho idea di quanto andrà di lungo questa raccolta. Vpglio dire, i capitoli finali li ho già nella mia testolina, ma non so quanto sarà lunga la parte centrale! ^^” Per ora sono arrivata a una ventina di capitoli, ma mi sa che a 30 ci arriviamo quasi sicuramente… a questo punto posso solo dirti “Tieni botta”! ^^”)

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Fear ***


Fear

L’esplosione non l’ha sentita: l’ha avvertita.

Nel sangue, come se il suo corpo si fosse svuotato e riempito nuovamente in un nanosecondo. E forse è stato così, perché la sabbia tutt’intorno è diventata rossa, era rossa quando ha chiuso gli occhi – non voleva, ha cercato di impedire alla palpebre di chiudersi. E’ la regola: se ti addormenti non ti svegli più – ed è rossa quando li riapre, subito dopo.

Per un attimo sembra che qualcuno abbia tirato una tenda scarlatta davanti alle cose. Solo dopo si rende contro che la cortina c’è davvero, e che cola senza ostacoli dalla sua tempia, gocciolando dall’orecchio sulla sabbia impregnata.

Sente qualcuno imprecare, maledire Kimblee e la sua fottuta mancanza di precisione.

Degli ordini urlati. Spari. Una vampata di calore vicino al braccio.

Ma la mano che la tira fuori dal cumulo di macerie, che fino ad un momento prima era il tetto sul quale si era appostata, è più fredda della morte.

Chiude gli occhi un’altra volta. Non vuole più vedere tutto quel rosso, ne ha abbastanza, non vuole sapere cosa succederà dopo che la paura sarà passata.

Non vuole far vedere che la paura non è ancora passata.

La stessa mano – lo stesso tocco gelido – le scosta i capelli dalla fronte, vi appoggia sopra un pezzo ruvido di quello che sembra tessuto.

Quando riapre gli occhi, riconosce la trama irregolare e grezza di un brandello del suo pastrano.

“Sto bene.”

Il sapore del sangue – del suo sangue – è tanto forte, che decide di non aprire più la bocca, per evitare di vomitare.

Roy è vicino a lei, anche il giorno dopo, seduto su un angolo della brandina, nell’ospedale da campo.

Non dice nulla, sta in silenzio a guardarla, come se la fasciatura che le avvolge il capo sia una corona di fiori.

“Come stai?”

E’ la seconda volta da quando sono lì, che le fa quella stessa domanda.

E non ha ancora risposto sinceramente, non una sola volta.

“Bene. Cos’è successo?”

“Kimblee ha sbagliato. Capita.”

“Già. Capita.”

Solo mentre lui si alza, piuttosto stancamente, sente la fine della frase.

“… ma se capita ancora, è un uomo morto.”

E’ stata a prima volta in cui Riza Hawkeye ha sperimentato il terrore puro.

E a detta del capitano Hughes, l’eccezionale evento ha coinciso anche con la prima volta di Roy.


L’avevo detto che Kimblee sarebbe tornato fuori… quando ho scritto Happy hour, ho pensato che uno come lui non avrebbe ingoiato l’umiliazione così facilmente. O almeno, non in un contesto dove far fuori un compagno “accidentalmente” è così facile è non punibile…
Anche in questo caso il mio Roy immaginario si è mosso da solo senza che muovessi alcun filo (a volte i personaggi fanno anche questo, e non necessariamente è un male), e ne è venuto fuori un altro piccolo passo avanti nella loro relazione. Prima o poi si ritroveranno l’uno davanti all’altra, non disperate.
Anche questa volta, rispostone comune: sono completamente d’accordo sul conto di Kimblee. È detestabile, ma in fin dei conti i suoi ragionamenti non fanno una piega. E secondo me è questo che lo fa sembrare disumano, quando in realtà non c’è nessuno di più umano e razionale di lui. Non è il solito cattivone che ride malefico con i fulmini nello sfondo (ok, occasionalmente lo è, ma penso sia un espediente dell’Arakawa per renderlo più detestabile): è semplicemente un uomo che ho fatto due conti e ha capito il vero senso di quella guerra. La differenza tra lui e uno come Roy, è che il secondo pur essendosene reso conto, continua a nutrire una qualche speranza e una buona dose di sensi di colpa (che da una parte salvaguardano il suo lato etico e morale, dall’altro non fanno che distruggerlo fisicamente e psicologicamente), mentre Kimblee si è pienamente calato nella logica della guerra, ovvero “uccidi prima di essere ucciso, e già che ci sei divertiti nel farlo, perché è un lavoro come un altro”.
E’ ovvio, che con una logica come questa, se la vita di un nemico è uguale a meno di zero, ben presto la vita di tutti (anche degli alleati) arriva ad un’equivalenza simile.
Sembra un controsenso, ma il cosiddetto “bombarolo pazzo” è forse la persona più sana di mente del gruppo, per quanto triste la cosa possa sembrare…

P.S: Per le fans di Maes (ma penso lo siamo un po’ tutte… ^^”) preparatevi, perchè il prossimo capitolo è piuttosto incentrato su di lui… alla prossima, e grazie per tutti i commenti! ^^

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Future in present tense ***


Future in present tense

Maes è l’unico dei tre a ricevere posta dal mondo esterno – lo chiamano così, come se fossero finalmente coscienti di essere approdati in un universo a parte, senza dimensione; o semplicemente un non-luogo, già ridotto a spazio bianco e innominato sulle cartine – l’unico dei tre a sapere con certezza che c’è dell’altro oltre il campo di battaglia.

Roy e Riza, non ne sono più così sicuri.

“Glacier scrive che oggi ha fatto una torta. Mentre la faceva pensava a me: ha lasciato il foglio di carta della lettera sulla ciambella appena sfornata, per impregnarla del profumo e farmelo sentire.”

Roy non ha mai sentito neanche una punta di tristezza, nella voce dell’amico – una delle piccole certezze della vita che gli consentono di non affondare del tutto, dai lasciarsi sempre un capo della fune a portata di mano per la risalita – e fino a quel momento era relativamente sicuro che un simile evento non potesse avere luogo.

E’ la f di profumo a tradirlo: quasi inesistente, appena tremolante. Come se volesse imitare il suono della sua fidanzata, mentre soffia sulla pasta cotta, spingendo l’aria sul pezzo di carta ingiallito e impolverato.

Riza sorride. Evento raro, che illumina nuovamente il viso del capitano Hughes.

“Riza, datti una regolata o farai venire a nevicare!”

L’amico sorride a sua volta. In qualche modo è lampante che lei lo abbia fatto apposta, per distrarre Maes dalla malinconia.

“Quando finirà questa guerra, io e Glacier ci sposeremo.” canticchia l’uomo, mentre ripone con cura il foglio piegato in una tasca interna della giacca.

Si toglie gli occhiali per pulirli, e Roy è l’unico a sapere che lo fa solo quando ha gli occhi lucidi e ha bisogno di una scusa per abbassare lo sguardo.

“E’ per lei che sopravvivi?”

“Sì. E’ per il mio meraviglioso futuro. Senza un futuro che ti aspetta, non hai motivo di andare avanti. Faresti bene a trovartene uno anche tu… a trovarti una moglie!”

Schiva abilmente il cazzotto dell’amico, prima di avviarsi verso la sua tenda.

Roy non lo segue. Lo lascia da solo a pensare al suo “meraviglioso futuro”; non vuole rovinare la scena con la sua presenza, perché tutti hanno bisogno di un attimo di solitudine per sognare.

“Io non ho un meraviglioso futuro. Mi accontenterei di un futuro normale, anche mediocre andrebbe bene. Ma non c’è.”

Comincia a capire – solo dopo aver visto il suo maestro consumarsi lentamente come le pagine dei suoi libri, i bordi dei fogli marroni, bruciacchiati, sbrecciati da qualcosa che non è il tempo ma un’ossessione recondita, un male che rode dall’interno – che la sua alchimia non è nata per creare, ma per distruggere.

Comincia a capire che le fenici sono solo una leggenda, che la catarsi è un’utopia, che non ci sarà nessuna resurrezione, nessun futuro. Semplicemente, nulla.

Riza ha accartocciato il suo sorriso, lo ha buttato nel falò acceso tra loro, per alimentarne le fiamme.

E’ li che brucia, ma non crea più calore.

Eppure la soluzione, sembra essere proprio lì: se non hai un futuro per cui combattere, combatti per il presente.

“Hawkeye, vorresti…”

Vorrebbe chiederglielo, ma mentre le prime parole escono dalla sua bocca, sente quanto siano ridicole, sdolcinate, mentre si susseguono l’una dietro l’altra: nome, verbo, participio, articolo....

Lei annuisce. Sa che la frase non vedrà la sua fine. Non ora.

Ma annuisce. Pensando al futuro.

Vorresti essere il mio presente?

Non so con che faccia presentarmi dopo una periodo così lungo di latitanza. Sappiate però che la mancanza del fandom e del Royai si è sentita eccome – ore passate a sollevare gli occhi dai libri universitari, sospirando in direzione dei volumetti ordinati e lisi di un fumetto non più mensile… sigh! Oltretutto S.Valentino è passato piuttosto dolorosamente quest’anno…(extra dose di Royai per tirarsi su il morale, prestoooo!!!!!!!)

Shatzy, grasie ancora per il pensiero. Il bello è che appena letta la mail mi è venuta una voglia tale di Royai che non ce l’ho fatta a rimandare al fine settimana (grazie per la “scossa”: ci voleva! ^^). Per cui scusatemi se sono così “sintetica” in questo commentino, ma il tempo è come una maglietta aderente: stringe e non basta mai per coprirsi del tutto (ed è anche tremendamente scomoda).

Per quanto riguarda questo capitolo… Maes e le sue foto mi hanno colpito parecchio (e si noterà anche più avanti), senza contare che volevo dare una piccola scossa anche al rapporto tra Roy e Riza, dopo gli ultimi avvenimenti… Tutto senza esagerare, diamo tempo al tempo. ^^

Un grazie grande come una montagna per tutti i commenti (me tanto commossa… siamo tutte Gelatine Ondeggianti ormai, potremo aprire un fanclub a tema! ^^”)
Un bacione a tutte e a presto (e questa volta è “presto” per davvero…)!!!! ^^

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** My eyes on you ***


My eyes on you

A Maes lo ha già chiesto, il primo giorno.

Lo ha preso in disparte e glielo ha fatto promettere, i pugni tesi: una specie di disperazione minacciosa.

L’amico gli ha detto che non dipendeva da lui, ma alla fine gli ha dato la sua parola.

Forse sicuro del fatto che una volta non mantenuta, non sarebbe più stato punibile. Non in questo mondo.

Ora tocca a lei. Tocca a lei, perché averla tirata fuori da quelle macerie, è un’esperienza che non vuole ripetere, qualcosa che non è sicuro di poter fare ancora.

Mentre la prende per mano, portandola al riparo di un masso più grande degli altri, sorride pensando che davanti ad una tomba bianca, lei stessa aveva pronunciato parole molto simili.

“Non devi morire.” Sussurra a mezza voce, assicurandosi che i loro occhi siano allineati, le mani sulle sue spalle, la pressione appena un po’ più forte in attesa della risposta.

“Non devi morire. Devi promettermelo, darmi la tua parola. Devi sopravvivere.”

Lei lo ha guardato come un bambino capriccioso che chiede la luna pur sapendo che è irraggiungibile; ma segretamente meditava di ricordargli la stessa promessa di quei giorni.

Annuisce, e solo allora Roy la lascia andare.

“Guarda che ti tengo d’occhio, eh…” tenta di scherzare, abbozzando un sorriso di emergenza, guardandola mentre si avvia verso il campo di battaglia.

Come se quel movimento impercettibile del capo – su e giù, su e giù: quasi una molla allentata, all’interno di un meccanismo troppo complesso da capire – potesse sconfiggere il Fato e tutte le sue paure.

Come non detto, già che ci sono aggiorno anche SABBIA.

Grazie mille per i commenti: questo è un progetto a cui tengo molto, quasi quanto i 100 themes, per cui sono doppiamente contenta quando leggo le recensioni: grasie di cuoreee!!!!

Che dire? Di questo capitolo il titolo è stato quello che mi ha dato il filo da torcere, e solo alla fine mi sono resa conto che per una volta poteva essere Roy a “tenere gli occhi puntati” su Riza, piuttosto che il contrario. Per quanto riguarda la sua richiesta… non so, l’ho sentita molto appropriata alla situazione, sia perché Riza gliene aveva fatta una simile, davanti alla tomba del padre (ricordate?), sia perché, avendo io ancora davanti agli occhi il funerale di Maes (pianti su pianti) penso che Roy sia molto fragile in tema di morte, soprattutto quella delle persone a lui più vicine.

Sono contenta che la parentesi su Glacier e Maes vi sia piaciuta: ho già visto che una buona parte dei capitoli di questa raccolta saranno incentrati su di lui (ed è per questo che l’ho inserito tra i personaggi), un po’ perché ne sento la mancanza (vedi sopra: pianti su pianti su disperazione alla sua morte), un po’ perché è un personaggio complesso e interessante… e un po’ anche perché se si parla di Royai, un accenno al rapporto tra Roy e il suo migliore amico mi sembrava doveroso, se non altro per provare a vedere la cosa da un’angolazione particolare, o anche solo diversa.

Vabbè, la sto facendo un po’ troppo lunga: alla prossima (e stavolta cercherà di accorciare i tempi di attesa davvero!). Bacioni a tutte!

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** XX ***


XX

Dopo tre mesi in quel luogo senza dimensione, la differenza con il mondo reale comincia a farsi sentire.

Alcune cose – anche le più stupide – della vita reale, la vita ordinaria, cominciano a mancare.

Il chiacchiericcio della gente per le strade, i colori, il caos delle città, i clacson delle auto, la folla che ti spinge nelle strade più affollate.

Le donne.

Quelle che ridono, quelle che passeggiano nei loro vestiti ondeggianti e colorati, lanciando sguardi distratti alle vetrine e ai passanti.

Quella categoria di donne che ti ispira leggerezza e vita e una promessa di attimi felici, anche se pochi ed effimeri.

Nulla a che vedere con le donne piangenti – vedove morenti, madri distrutte - negli angoli diroccati dei distretti in rovina. Ancora meno con gli strani esseri ermafroditi che si aggirano tra le tende, nelle pause tra le battaglie.

Sono creature fantastiche: soldati di giorno, femmine di notte, sotto le docce riservate, nell’angolo più appartato dell’accampamento, protette da sudici stracci appesi a mo’ di barriera dagli sguardi indiscreti e affamati dei colleghi.

Come le farfalle, la luce del giorno le trova infagottate in una crisalide mimetica, il pastrano informe e sporco della divisa, coperte dagli elmetti, nascoste sotto strati di fango, e armi e violenza.

Ma appena la sera rende la temperatura più mite – in quell’attimo del crepuscolo in cui il gelo della notte è solo una minaccia lontana, una brezza mite e leggera – si trasformano, scivolano via dalle pelli vecchie e sporche, si scoprono leggere e incerte visioni, confuse con i miraggi che la lontananza da mogli e fidanzate rendono incubi, durante il sonno dei soldati più giovani.

“L’hai sentita l’ultima?”

Maes scuote la testa ridendo, mentre si siede a fianco dell’amico, davanti alla sua tenda.

“Pare che i pezzi grossi abbiano deciso di distribuire contraccettivi alle donne dei vari reparti, per evitare incidenti di percorso. Devono aver capito che non basta una stupida regola militare, quando un uomo ha gli ormoni a palla… Mi fanno pena: è come se ammettessero di essere – e scusa il gioco di parole – impotenti davanti a una cosa come questa!”

Roy sorride, pensando a Riza: se qualcuno provasse ad avvicinarla, rimpiangerebbe di essere nato prima ancora di riuscire persino a pensare qualcosa di sconcio.

“Tranquillo, Roy: lei non è mica una stupida!”

“Lei chi?”

Maes decide di lasciare perdere. Non è più tanto sicuro se l’amico faccia il finto tonto di proposito, o non sappia davvero cosa stia succedendo, con quella ragazzina silenziosa.

“Al massimo sei tu, quello da tenere d’occhio…”

“Maes, che cavolo stai dicendo?”

“Niente…”

Non lo ammetterà mai, ma nella sua condizione di uomo fidanzato, Maes si diletta nell’osservare i goffi tentativi di corteggiamento dei suoi colleghi. In un luogo come quello non valgono gli approcci normali: si bruciano le tappe, tutto è più veloce, perché non c’è il tempo di aspettare, si muore con estrema facilità.

E’ il regno del Carpe Diem disinteressato, e amici come prima.

Alcuni pazzi cercano i fiori spinosi del deserto nelle loro pause, si graffiano le dita nel tentativo di farne dei mazzi almeno presentabili e stupire con quel gesto stupido ma romantico la prescelta: ma si sa, il maschio sentimentale – e Maes si aspetta che Roy rientri nella categoria, prima o poi: aspetta di vederselo comparire davanti con le dita sanguinanti e il mazzo di spine per la cecchina taciturna, la figlia del suo maestro, la stessa persona che si ostina a non voler chiamare amica, prima ancora che amante – piace alle donne, anche quelle in divisa, e la rada flora del deserto è già inesorabilmente in via di estinzione.

Non si può parlare di Amore: il solo concetto, la sola parola pronunciata è anacronistica in quella gabbia di matti, quel teatro di desolazione. Può solo arrivare da fuori, importato dai luoghi lontani della vita quotidiana, e come una merce di contrabbando, custodito gelosamente.

Quella terra senza più nome, quella terra senza più pietà, né gioia, né vita, non è più in grado creare nulla di simile autonomamente.

Ma – c’è sempre un ma, un’eccezione che conferma la regola, il casus experimenda che precede la rovina delle teorie scientifiche. E Maes guarda Roy come lo scienziato guarda la mutazione genetica, il risultato finale dell’evoluzione, l’ibrido inaspettato che mette in discussione l’intero concetto di scienza – forse l’anomalia è proprio davanti ai suoi occhi.

Maes è l’unico a vedere la nascita spontanea di quell’arbusto ancora debole, un’erbaccia senza identità né nome, nel ragazzo al suo fianco: non sa che genere di pianta ne verrà fuori, ma è sicuro che se l’acqua e il sole e la terra gli hanno dato vita, una ragione deve pur esserci.

“Doveva essere già rientrata cinque minuti fa: vado a cercarla…”

E come dice continuamente lui stesso, la ragione è sempre semplice.

Bonjour bonjour! Piccolo aggiornamento prima di rituffare la testa sui libri.

Intanto grazie per i commenti e scusate se arrivo come sempre in ritardo.

Questo è il primo di una serie di tre capitoli che ho scritto letteralmente uno dietro l’altro, in cui si comincia a intravedere qualcosa di più tangibile, e la distanza tra i nostri due beniamini comincia a diventare misurabile in centimetri. ^^”

Ho voluto usare il punto di vista di Maes, un po’ perché è un periodo in cui mi manca tantissimo, un po’ perché mi sembrava interessante provare a rendere i pensieri del miglior amico su questa “cosa” che sta nascendo tra i due.

Il titolo si riferisce ai cromosomi femminili (XX appunto, contrapposti a quelli maschili XY) perché il capitolo era nato inizialmente per affrontare il problema delle relazioni nell’accampamento durante una guerra. Poi da cosa nasce cosa, quindi… ^^”

Al prossimo aggiornamento, cercherò di non tardare troppo! Bacioni a tutte!!!

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** H2O ***


H2O

Non è nella sua tenda, non è con le altre donne alle docce – anche se non ha potuto avvicinarsi troppo per appurarlo: è una questione di incolumità personale – non è nemmeno nel campo per le esercitazioni.

“Hai visto il cadetto Hawkeye?”

Il soldato a cui si rivolge ignora volutamente il suo tono semi isterico, e scrolla le spalle.

“Si è fermata a un miglio da qui, dietro la curva del sentiero. Joan l’ha chiamata ma dopo un po’ è sparita… ogni tanto lo fa. Sembra diventare davvero un’ombra.”

Mentre percorre i sentiero al contrario, allunga il passo senza volerlo.

Si guarda intorno maledicendo ogni sasso, ogni nugolo di sabbia che gli ostruisce la vista, ogni sagoma scura che si allunga man mano che il sole si abbassa e lo fa sussultare.

“Maggiore…”

Si appoggia alla parete rocciosa per non cadere.

Impiega alcuni minuti per ingoiare i respiri affannati e la paura che non ammetterà mai di aver provato.

“Non sei rientrata con gli altri. Pensavo..”

Non finisce la frase. E non per scaramanzia, ma perché sente che per qualche strano motivo, un pensiero del genere lo farebbe collassate definitivamente.

“Mi dispiace. Mi sono attardata.”

Le tende la mano, sospirando.

“Torniamo…”

Non capisce subito perché lei non si muova. La vede aggrottare la fronte, tormentare il bordo della canna del fucile. Solo allora nota i suoi capelli bagnati.

Ma prima ancora che possa domandarle nulla, è lei che afferra la sua mano e lo trascina dietro di sé.

La segue lungo un sentiero stretto, che somiglia ad un taglio nella roccia. La superficie liscia e levigata gli suggerisce che l’intera via sia stata scavata dall’acqua.

“Hawkeye…”

“Siamo quasi arrivati.”

Continua a seguirla, tropo stanco per obiettare, troppo curioso per tornare indietro. Ma mentre le viene appresso, affonda una mano tre le sue ciocche bagnate, gustando la sensazione di contatto tra le gocce d’acqua ancora fredde e la sua pelle ruvida.

Lei schiva la punta tagliente di un masso, gli gira attorno e chinandosi entra in un cunicolo scuro.

Roy si infila nella stretta apertura, sbuffando e sporcandosi la divisa contro la parete farinosa della pietra cotta al sole.

“Hawkeye, si può sapere almeno se manca molto o…”

La luce azzurrognola della grotta sotterranea, lo accoglie con la sua aria rarefatta e umida, ma sicuramente più fresca e appetibile di quella esterna.

“Di qua.”

Segue l’eco della sua voce fino alla pozza d’acqua azzurra e blu che si distende sulla superficie liscia di arenaria.

L’acqua lambisce la pietra, l’ha modellata scavandosi la propria bara, il proprio tempio di quiete sotto il deserto, modulando i colori nella profondità crescente della buca – colori passati, blu così intensi e traslucidi che la scura tonalità della divisa, sbiadita dal sole, non potrà mai eguagliare.

“L’ho trovata durante un sopralluogo, tempo fa.”

Roy è troppo stupito per rispondere. Si china sull’acqua, vi affonda un dito, la mano, il braccio, bagnando la manica della divisa, estrae il pugno carico e grondante d’acqua, guarda l’acqua in caduta libera centellinarsi in unità sempre più piccole, ascolta il suono che ogni goccia, anche la più piccola, rilascia al contatto con la superficie umida della pietra.

Riza continua a parlare, affascinata dal suo rapimento, dalla devozione con cui non asciuga la pelle umida dell’avambraccio e osserva la consistenza molle del tessuto impregnato.

“Vengo sempre qui, da allora: è rischioso che qualcuno veda…”

Indica la propria schiena con un gesto nervoso della mano.

Solo allora lui sembra ridestarsi dal torpore. Annuisce piano, scusandosi per averla interrotta, prima, per aver interrotto l’unico attimo di pace delle loro giornate.

Riza scuote la testa, lasciando cadere altre gocce sul suolo duro.

Si spoglia davanti a lui senza parlare. Sono tante le cose a cui ha dovuto rinunciare su quel campo di battaglia: il pudore è una di esse.

Ma la sua mano sulla schiena la fa sussultare. Lo sente tracciare con un dito il cerchio tatuato, attraverso la sottile barriera della sua canottiera bianca, un bambino che ricalca il disegno di un adulto per avere l’impressione di averlo disegnato lui stesso.

Ripiega con cura i pantaloni della divisa, si immerge nell’acqua con ancora addosso gli slip, afferrando la sua mano come sul sentiero poco prima, invitandolo a seguirla.

Non c’è malizia, non c’è intenzione. C’è solo acqua.

Lui si spoglia velocemente, rabbrividisce al contatto con il liquido scuro, si irrigidisce appena, prima di lasciarsi galleggiare tra le increspature impercettibili che i loro movimenti hanno creato sulla superficie.

Non è solo la sensazione fresca e dimenticata sulla pelle: è l’odore dell’acqua, il sapore sotto la lingua, il rumore gocciolante che sembra entrare in ogni orifizio, scavare dentro come le stille frantumano la roccia nell’arco di secoli.

E potrebbero stare lì per anni, dimenticare tutto, guardare la pelle dei polpastrelli diventare grinzosa, le labbra viola, gli arti gonfi.

Lasciarsi impregnare, fino ad essere saturi, liquidi, vivi: come creature marine, che hanno ritrovato il loro habitat, dopo aver annaspato e boccheggiato sulla terraferma per tanto tempo.

Riza gli passa una mano tra i capelli, affascinata dalla quantità di riflessi creati dalle gocce argentate: piccoli lampi di luce nel nero più fitto.

Lui la lascia fare, ma si incanta senza volerlo a valutare la trasparenza della sua maglietta bianca, zuppa e aderente al suo seno.

Distoglie lo sguardo, sentendosi colpevole, anche se lei non sembra essersi accorta di nulla – o ha solo fatto finta che la cosa non abbia importanza.

Con un movimento veloce, la mano di lei ricade nell’acqua, sollevando schizzi freddi sul suo viso.

Non la vede ridere, ma percepisce la sua ilarità attraverso le increspature che i suoi movimenti creano sulla superficie. Risponde sollevando il pugno carico e grondante, disseminando gocce luminose tutt’intorno, lanciando la manciata d’acqua verso il suo viso che al riparo tra le piccole onde in movimento, può permettersi di esplicitare quel sorriso.

Di quei momenti di felicità infantile e fuori luogo, potranno sentirsi in colpa dopo.

Ora si concentrano sull’odore umido, la sensazione fresca della pelle pulita, dell’anima un po’ meno impolverata e del cuore almeno un po’ più pieno d’acqua – la consistenza liquida e calda di qualcosa in un punto non definito tra il petto e lo stomaco.

Ma quando si rivestono, la sabbia a contatto con la pelle sembra carta vetrata, e i granelli bollenti raschiano via con violenza gli ultimi istanti di quiete residui.

L’afa appena mitigata dalla sera che si avvicina strisciano, li stringe nella sua morsa, all’uscita dello stretto passaggio. Solo i loro capelli ancora bagnati, rimandano riflessi vivi alla luce del sole che agonizza tra i monti all’orizzonte.

Non parlano, rimangono assorti a gustare il sapore dell’acqua rimasta sulla punta della lingua, fino a succhiarne l’ultima goccia.

Come se fosse l’ultima stilla di vita, l’ultima salvezza prima di tornare a pellegrinare senza meta nel deserto arido.

Mi sono sbloccata, non so se si è sentito il botto: in due giorni ho scritto ben quattro capitoli… cosa che capita proprio nei momenti più inopportuni (tipo quando dovrei passare ogni minuto disponibile a studiare, invece che battere furiosamente sulla tastiera in preda a un impeto cosmico), ma ormai ci sono abituata… ^^”

Sigh… non ho avuto nemmeno il tempo di passare sul forum… perdonoooooo!!! ç____ç
(P.S: auguri a Lely!!! ^^ Mi scuso anche per essere una frana nel ricordare i compleanni…)

Venendo a noi, io non so davvero più come ringraziarvi per i commenti puntuali e meravigliosi che mi lasciati: mi sembra che la parola grazie sia usata un po’ troppo con disinvoltura, ma è l’unica che rispecchia abbastanza bene la mia riconoscenza. Per cui: grazie, davvero.

Ah già, c’erano due o tre cose da dire sul capitolo precedente.

Per quanto riguarda i contraccettivi, hai ragione elyxyz ad avere dei dubbi: li ho avuti anch’io prima di scrivere definitivamente il capitolo, ma poi ho pensato che anche all’epoca qualcosa per evitare piccoli “incidenti di percorso” doveva pur esserci, magari infusi di erbe particolari come nel Medioevo o altri metodi da mammane…. infatti non ho specificato che tipo di contraccettivi vengono distribuiti apposta… però sì, la cosa era un po’ equivoca, avrei dovuto chiarirla in qualche modo… ^^”

La psicologia di guerra è un argomento che mi ha sempre affascinato, per cui ho cercato di documentarmi: la cosa che mi ha sconvolto di più è il fatto che i principali sentimenti umani vengono in qualche modo storpiati dalle continue battaglie (e forse è questo che aumenta la predisposizione alle razzie e al saccheggio sia degli eserciti occupanti che della popolazione assediata), è come se si perdessero i punti di riferimento morali, quindi non è solo una questione di sopravvivenza. In un simile ambiente una storia d’amore è qualcosa di strano e a mio parere anche quella tra Roy e Riza non nasce esattamente come tale (questo avrò modo di spiegarlo meglio più avanti). Ma questa è solo una mia teoria… ^^”

Cambiando discorso, avrei qualche domanda per voi (mi serve per scrivere gli ultimi capitoli, mi manca qualche dato… ^^”):

  1. Dalla fine della guerra al loro incontro, quanti anni/mesi passano?
  2. Roy è tenente colonnello o ancora maggiore, quando la prende al suo servizio?

Grazie per le eventuali risposte e il supporto continuo! Cercherò di aggiornare presto. Un bacione a tutte! ^^

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Photosynthesis ***


“No I could never take a chance
'Cause I could never understand
The mysterious distance
Between a man and a woman”
U2, “Between a man and a woman”

Photosynthesis

Non lo vede da un’ora buona.

Non sa neppure se è rientrato.

Non è nella sua natura preoccuparsi per qualcuno, ma in rare occasioni - e tutte sembrano avere a che fare con Roy – non può farne a meno.

La cosa lo riempie di orgoglio e vergogna, perché è naturale che un uomo si preoccupi per una donna, un po’ meno che un uomo si preoccupi di un altro uomo, ma la situazione attuale non fa che dargli conferma che a quell’idealista e romantico forse vuole bene davvero.

La guerra, le situazioni di stress, la paura, la tensione quasi continua e i sensi di colpa, allo stesso tempo rinsaldano i legami vecchi e ne creano di nuovi, ha scritto a Glacier nell’ultima lettera.

E’ un paradosso perverso, ha concluso, che la presenza della morte ti faccia capire le cose davvero importanti, a volte anche troppo tardi.

Quando entra nella tenda di Roy, getta lo sguardo in un angolo e sorride.

“Sempre saputo: idealista e romantico del cazzo…”

I duri fiori del deserto non sono ancora appassiti tra i lembi del tessuto impolverato nel buio della tenda, nonostante siano stati colti molto tempo prima.

“No, non potrò mai farcela
Perché non potrò mai capire
La misteriosa distanza
Tra un uomo e una donna…”

Eccomi qua! Ho passato una settimana d’inferno: il mio computer mi ha abbandonato! Per l’esattezza è la connessione a internet che ha dato dei problemi… per cui ho passato gli ultimi giorni a tentare di aprire ogni pagina web con gli occhi fuori dalle orbite e le dita incrociate (tipo così: @_______@). Non so cosa sia successo, fatto sta che si è risolto tutto magicamente. Mah… la tecnologia: questa sconosciuta. In compenso, ora che erano finiti gli esami (seee, come no… meno di un mese sono d’accapo. Si shatzi, le mie sessioni sono semi-permanenti, colpa dei prof che dividono tutto in parziali! Grrr) non sono riuscita comunque a collegarmi al forum, per questo bel problemino… Che rabbia!

Venendo a noi: se dicessi che comincio a ripetermi nei ringraziamenti mi ripeterei… però la lingua italian ha un solo vocabolo per ringraziare, per cui mi sa che vi tocca: GRAZIE per i commenti stupendi! ^^ (elyxys, grazie anche per una certa frase: ti assicuro che per una pseudo-scrittrice è il complimento più bello che si possa ricevere…).

Sono molto contenta che il H2O vi sia piaciuto, anche perché era uno dei capitoli su cui avevo puntato di più, per cui la soddisfazione è doppia. Di recente trovo particolarmente interessante dare molto rilievo alle descrizioni delle percezioni sensoriali, e poi un capitolo sull’acqua era d’obbligo per più motivi… ^^

Vi avviso in anticipo: ci avviciniamo al (primo) momento cruciale nel loro rapporto…

Shatzy volevi sapere cosa ne pensava Maes a riguardo? Eccoti accontentata! ^^” A proposito, a scanso di equivoci chiarisco che sì, Maes è un po’ (ok, forse “un po’” è riduttivo…) geloso dell’amico, ma (almeno nella mia intenzione) la cosa non tocca in nessun modo livelli yaoi (sennò rischiavo il linciaggio generale…^^”). Scherzi a parte, il loro legame di amicizia ha passato una guerra e penso che un simile contesto rafforzi simili legami per altro già profondi per natura.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Movement ***


Movement

E’ sdraiata sulle piastrelle scheggiate di quel terrazzo da ore, ormai.

Ha perso la cognizione del tempo, le capita spesso.

Ogni tanto apre l’occhio che non è appoggiato sul mirino, giusto per evitare in caso di emergenza di rimanere accecata dalla luce improvvisa e troppo forte.

Sgranchisce le dita, una ad una, per mantenere il contatto con il fucile, sempre.

Solo l’indice rimane sul grilletto, immobile, come se si fosse pietrificato, congelato in quella posizione.

Lascia che una goccia di sudore le tagli la fronte senza asciugarla: non può permettersi movimenti inopportuni.

Ogni tanto pensa di essere una lucertola: immagina che il sole sotto il quale sta immobile sia in grado di scaldarle il sangue freddo, immagina di poter chiudere gli occhi e sentire il calore sulla pelle, avvertirle il tepore rassicurante piuttosto che la sensazione bruciante e spietata dell’afa del deserto.

Una cornacchia le plana di fianco, atterrando a pochi centimetri dal suo braccio.

La cosa la lascia senza parole: non crede ai presagi, non è superstiziosa. La spaventa piuttosto il fatto che dall’alto quell’animale l’abbia scambiata per un cadavere.

Non la scaccia per evitare di segnalare la sua presenza, lascia che l’uccello si accorga da solo del movimento impercettibile del petto che si alza e si abbassa ancora, degli occhi penetranti che si spostano su di lui.

In strada, un uomo di Ishvar passa correndo e guardandosi le spalle. Il proiettile però lo colpisce in pieno petto. Al suono secco dello sparo, la cornacchia spicca il volo, spaventata.

Mentre ricarica il fucile, Riza la osserva volteggiare in tondo sopra il vero e nuovo cadavere.

Si scopre a riconoscere quanto possa fare la differenza, possedere ancora un’inutile e banale vita.

E a differenza di qualche tempo prima – un tempo che coincide stranamente al periodo antecedente l’arrivo di Roy - si scopre a desiderare con tutte le sue forze che non le venga strappata proprio ora.

Sono in ritardo, sono in ritardo… ormai mi sembra di essere il bianco coniglio di Alice ne paese della meraviglie, quello che corre da una parte all’altra con l’orologio in mano! O____O Urgh…
Meno male che almeno davanti al computer mi fermo un momento (eh sì, il Royai è il migliore anti stress in circolazione… o forse è la scrittura in generale che combinata al royai ha effetti sorprendenti? Mah… ^^).

Volevo chiarire la questione della gelosi per Shatzy: nel capitolo precedente la gelosia non era così visibile a dire il vero, diciamo che ho scritto qualche anticipazione. Il discorso tornerà fiori (e anche i fiori! ^^ Ah, piccola parentesi: i fiori sono nella tenda di ROY e ovviamente sono per Riza…) e la frase sui rapporti era volutamente ambigua (i “nuovi rapporti” erano riferiti a Roy, nel senso che un’amicizia consolidata come la loro, in un contesto come quello viene non solo rivalutata, ma assume anche un aspetto diverso, in qualche modo si modifica… è difficile da spiegare, ma in altri capitoli si vedrà meglio – spero – cosa intendo).

Il titolo è la traduzione di Fotosintesi: era un riferimento all’arbusto a cui Maes fa riferimento in XX, nel senso che il sentimento tra Roy e Riza è riuscito in qualche modo a crescere sfruttando quel poco che ha in quella terra (acqua e luce, e poco altro).
Penso di aver detto tutto.

Per quanto riguarda Movement, è una piccola parentesi su Riza e sulla maturazione del rapporto con Roy, dal SUO punto di vista (oltre che una minuscola riflessione sulla morte e sulla diversa percezione che se ne ha in guerra). Mi sono accora che in generale in tutta la raccolta i capitoli in Rou’s pov sono più numerosi, e sto cercando in tutti i modi di correggere la cosa e dare un po’ più di spazio anche a Riza, ma la cosa mi risulta difficile, non so perché…

Grazie per tutti i commenti, a presto (e per presto in tendo presto davvero)! ^^

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Going offstage ***


“I can remember stories
Those things my mother said
She told me fairy tales before I went to bed
She spoke of happy ending, then tucked me real tight
She told me everything, she said he’d be so nice
He’d ride up on his horse, and take me away one night
I’d be so happy with him, we’d ride clear out of sight
Se never said we would curse, cry and scream like that
She never said that maybe someday he’d say goodbye
The story ends as stories do:
Reality steps into view
No longer living life in paradise
No fairy tales, no
No royal kiss could save me
No magic spell to spin
My fantasy is over
My life must now begin”

Anita Baker, “Fairy tales”

.

Going offstage

“Raccontami una storia…”

Il sole è un disco perso all’orizzonte, rosicchiato dai profili aguzzi delle montagne, brillante di una luce altrettanto sbrecciata e tagliente.

“Una storia che non hai mai raccontato a nessuno…”

Non c’è nessun indizio che anticipi l’arrivare della sera. Quel rosso diffuso potrebbe essere tutto, potrebbe essere il sangue dell’ennesima giornata di massacri, potrebbe essere il riflesso dell’arenaria, l’ennesimo miraggio del deserto.

Il riverbero colpisce i loro occhi stanchi, confondendosi nella polvere alzata dagli scarponi pesanti.

“Non sono brava a raccontare.”

Il suo tono è addolcito dalla stanchezza, stemperato in un sospiro che sa decisamente della fine di una lunga giornata.

“Non importa.”

Seduta sul ciglio del sentiero diroccato, lei non confessa di non ricordare neanche le favole più stupide e fantastiche dell’infanzia. I suoi occhi neri, che paiono inchiodati alle pietre del suolo polveroso, e la sua schiena curva, non lasciano spazio a un no.

“C’era una volta un uomo…”

Nessun principe: le eroiche imprese troppo lontane, troppo fantastiche, troppo irreali.

“Un uomo che voleva cambiare il mondo…”

Lui ascolta, lo sguardo ancora impantanato tra la polvere del sentiero, e cerca, attento, di intravedere tre i granelli scarlatti ciò che lei narra.

“Ma era solo un uomo, un uomo debole e mortale. Perciò dovette cercare dei compagni valorosi e fedeli che lo aiutassero a realizzare il suo sogno…”

Lo vede chiudere gli occhi, abbozzare un sorriso stanco, o forse solo tristemente disilluso.

“Non ne trovò molti, perché per tutti era chiaro che quel sogno fosse un’utopia. Ma le persone che decisero di seguirlo, lo fecero perchè il sacrificio non li spaventava, e la bellezza di quell’utopia disperdeva ogni dubbio…”

Non sa come la sua testa sia finita sul suo grembo, né perché la sua mano sporca stia scompigliando delicatamente le ciocche scure.

Non lo ha mai provato sulla sua pelle, ma sente che è quello, il gesto di una madre che non ha conosciuto, quello che immagina accompagni storie del genere, prima di dormire.

Il fucile e il paio di guanti sudici, appoggiati ad un masso distante, si ricoprono lentamente di sabbia e luce.

“E’ un esercito di sciocchi, di sognatori. Le loro uniche armi sono la tenacia e la fedeltà a quell’uomo, a quell’ideale. Ma sono lì, al loro posto, determinati a raggiungere un sogno lontano anni luce, per trasformarlo in ‘qualcosa che è diventato possibile’…

La sirena della tregua notturna diffonde il suo lamento tra le gole e i crepacci riarsi.

Il suo respiro si frammenta, il petto si alza, vibrando incerto: una risata.

“E’ vero, non sei brava a raccontare: mi sembra che a questa storia manchi qualcosa… Sì: una principessa da salvare, bellissima e pura… ”

Riza si guarda le mani, bianche, quasi pallide nel nero dei suoi capelli – un mondo di bianco, nero e rosso in cui sta dimenticando l’esistenza degli altri colori.

“Non esiste una creatura simile.”

Lui si alza, sospirando un “Forse hai ragione” poco convinto, impastandolo in un mezzo sorriso.

Si scuote la polvere di dosso, fa lo stesso con le sue spalle esili, dopo averla tirata su, quasi di peso – nemmeno una creatura così leggera e incorporea dovrebbe esistere - dal masso piatto su cui sedeva.

Le sistema il mantello logoro, lisciandolo lungo le braccia, ripiega con cura il bavero della divisa, come se stesse vestendo una bambola inanimata, concentrato.

Lei raccoglie il fucile, sistema la tracolla, si carica sulle spalle il suo peso tremendo con una leggerezza e un’indifferenza che incutono timore e pietà allo stesso tempo.

“E poi?”

Sembra perdere momentaneamente l’equilibrio, a quelle parole.

Cerca la risposta tra la sabbia che scivola via dalle sue mani, ne segue i movimenti come se stesse leggendo l’oracolo di una tribù perduta.

Poi si scusa, con un sorriso piccolissimo – lui è abituato a quei sorrisi, tanto che quelli degli altri gli sembrano troppo grandi, troppo aperti e ingombranti, al confronto.

“Non ricordo altro…”

“L’uomo debole sposerà la principessa?”

“Non c’è alcuna principessa!”

“Ma ci sarà?”

“Non lo so…”

Si incamminano verso il campo, rientrando nelle loro parti di ufficiale e recluta, trovandole ancora una volta scomode e strette.

“E’ una strana storia…”

“Le favole sono sempre strane.”

“Mi piacerebbe sapere come va a finire…”

Il palcoscenico si riempie di gente, i soldati camminano stanchi tra le tende, preparandosi al gelo della notte, alla solitudine delle ore che precedono una nuova battaglia, al buio che è piovuto dal cielo senza mezzi termini.

Si salutano vicino al fuoco, la mano di lui che le scorre sul braccio, una pacca amichevole che ha perso la sua intenzione e la sua identità.

“Anche a me…”

“Ricordo storie, certe cose mia madre mi raccontava
Mi diceva storie di fate prima che mi addormentassi
Parlava di finali felici e poi mi rincalzava stretta
Mi parlava di tutto, di come sarebbe stato gentile
Di come sarebbe arrivato sul suo cavallo bianco e mi avrebbe portato via, una notte
Di come saremmo stati felici, cavalcando oltre la vista.
Non mi ha mai detto che avremmo imprecato, urlato e pianto così
Non mi ha mai detto che un giorno lui avrebbe potuto dirmi addio
La storia finisce come tutte le storie:
la realtà si intravede all’orizzonte
non più storie fatate, no

nessuna vita in paradisonessun bacio reale può salvarmi
nessun incantesimo da lanciare
la fantasia è finita:
la mia vita deve ora iniziare…”

Sono particolarmente affezionata a questo capitolo perché è stato uno dei primi (o addirittura IL primo, non ricordo…).
La canzone che ho citato (e di cui per una volta mi sono ricordata di aggiungere la traduzione…^^”) l’ho trovata dopo e mi è sembrata più che perfetta per rappresentare quello che volevo dire con questo capitolo.

In qualche modo comincia a delinearsi quello che sarà il loro destino dopo la guerra, e mi piaceva molto il fatto di raccontarlo sottoforma di favola, come se nessuno dei due ci credesse poi così tanto. Poi, NOI sappiamo bene come è andata a finire… ^^”

Inoltre ho aggiunto anche una piccola considerazione più o meno implicita su Riza e il suo (breve) legame con la madre: penso che il momento delle favole serali siano i momenti che ricordiamo più volentieri dell’infanzia (almeno, per me è n po’ così) e anche i momenti che rappresentano di più il passaggio di esperienze e insegnamenti da un genitore (soprattutto una madre) al/alla figlio/a.

Il finale… beh, bisogna che continui ad avvicinare tra loro questi due imbranati cronici, sennò non arriveremo mai dove voglio arrivare (ah ehm…).

Comunque sia, grazie mille (ancora e ancora: non mi stancherò mai di dirlo) per i vostri commenti e il supporto continuo che mi date! ^^
Un bacione, a presto!

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** The longest countdown - Peace time ***


The longest countdown: Peace time

E’ così casto e innocente che per un attimo pensa di sentire il profumo dei fiori del giardino inglese, dietro l’austera casa coloniale.

Conta mentalmente fino a cinque, prima che il viso di lei ritorni ad una distanza accettabile per la fraternization rule. In seguito, come per tutto il resto della sua vita, identificherà quei cinque secondi di tempo scanditi in silenzio, con il momento di pace assoluta più lungo della sua esistenza.

Mentre la guarda raccogliere il fucile ed uscire dalla sua tenda con il viso un po’ più colorato del solito, pensa che mai avrebbe immaginato che quella richiesta avrebbe portato a tanto.

“Posso darti un bacio?”

E, cosa ben più sorprendente, mai avrebbe pensato che a quella richiesta infantile lei avrebbe risposto in quel modo - un movimento millimetrico del capo, che nella persona di Riza sapeva equivalere ad un sì ad alta voce, accompagnato da un sorriso.

Mentre si tocca le labbra ancora un po’ umide – come se l’ultima goccia d’acqua del deserto si fosse arenata nella piega della sua bocca – riconta a mezza voce: uno, due, tre, quattro, cinque.

Ma non è la stessa cosa.

Non ho volutamente messo nessuna canzone-citazione-soundtrack, perché l’accompagnamento ideale per questo capitolo avrebbe potuto essere solo: TA-DAAAAN!!!

Ormai ci siamo: pronte??? XD

No, scherzi a parte, FINALMENTE Roy e Riza cominciano ad “accorciare” davvero le distanze…
Dopo lo scorso capitolo dovevo per forza far succedere qualcosa, il finale non lasciava via di scampo...^^”

Premetto una cosa: per del vero romanticismo bisognerà aspettare parecchio. Ho pensato - fin dall’inizio di questa raccolta - che i legami tra i vari personaggi e i sentimenti alla base di questi legami vengono in qualche modo distorti dalla guerra e dal contesto, di conseguenza anche le varie relazioni tra di essi, risulteranno “diversi” da come potrebbero essere normalmente.

No, lo dico solo perché se il rating è arancione un motivo c’è… ^^”

Ma ribadisco: ormai ci siamo.

Grazie ancora per le recensioni e i complimenti: Going offstage è stato uno dei capitoli su cui ho puntato di più, e posso dire anche quello a cui è nata l’idea vera e propria di fare una raccolta del genere, per cui il fatto che vi sia piaciuto molto non può che farmi estremamente piacere. ^^

Ancora grazie a tutte e a presto (la prossima settimana ho due esami, poi fino a giugno non se ne parla più, e riuscirà ad aggiornare anche settimanalmente, chissà…).

Bacioni

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Knowing no one ***


“I'm the voice inside your head
You refuse to hear
I'm the face that you have to face
Mirrored in your stare
I'm what's left, I'm what's right
I'm the enemy
I'm the hand that will take you down
Bring you to your knees
So who are you?
Yeah, who are you?”

Foo Fighters, “The pretender”

Knowing no one: war time

Le esplosioni risuonano così vicine da far tremare il sangue nelle vene.

Il calore delle tue stesse fiamme comincia a darti alla testa, senti il volto bruciare, le gocce di sudore solcare le pieghe della pelle come aratri ardenti, benzina sulle ferite lasciate dalle troppe lacrime.

Non senti più il dolore, non senti più la ruvidezza del tessuto contro i polpastrelli che sfregano l’uno contro l’altro, non ne senti più il rumore breve e secco, più silenzioso ma più devastante di uno sparo, non senti la stanchezza, perché le tue urla – di rabbia, di esaltazione, di onnipotenza, di disgusto – sovrastano tutto, persino i tuoi stessi pensieri.

Destra, sinistra, un proiettile che strappa l’aria a due centimetri dalla tua tempia ti impone di voltarti rapidamente, di schioccare nuovamente le dita.

Un urlo, e l’odore acre del grasso bruciato danno conferma del bersaglio colpito in pieno.

Il resto del plotone è disperso tra i ruderi e ciò che rimane del quartiere. Tra le rovine annerite il fumo si alza verso il cielo limpido, quasi bianco – pallido, attonito, cadaverico.

Muovi passi decisi, il respiro rotto e la gola secca per le esalazioni sulfuree, gli occhi sbarrati come fari nella nebbia, alla ricerca del prossimo obiettivo da colpire, del prossimo nemico da cui difendersi.

Un rumore da dietro capovolge il mondo per un secondo, mischia il giorno e la notte – quello sfondo grigio cupo, fumo e umidità, afa del mezzogiorno contaminata dalle sferzate acuminate delle raffiche serali – il freddo e l caldo, la paura e l’eccitazione.

Il tempo di girare su te stesso – i muscoli della gambe scattano come molle anticipando il cervello, il pensiero razionale, la decisione ponderate: l’istinto è ormai padrone incontrastato – e ti prepari al nemico, al suo attacco, alla sua distruzione.

Solo all’ultimo arresti i tuoi movimenti, bloccando i tendini tesi nello sforzo, i nervi che sembrano voler uscire dal tuo corpo come elastici impazziti.

Quando il fumo si dirada, la sagoma davanti a te è il tuo riflesso speculare: il braccio teso, le gambe divaricate, la mascella serrata.

Solo la mano ferma cinque centimetri davanti al tuo viso, a differenza della tua, è armata di una pistola.

Maes riesce ad abbozzare un ghigno scherzoso, ma la goccia che scivola lungo la sue tempia è inconfutabile testimone di ciò che quella smorfia vuole nascondere.

“Ehilà…” hai intenzione di uccidere anche me? “Preferivo la stretta di mano, come saluto…”

Abbassate il braccio lentamente, lasciando andare il respiro che entrambi stavate trattenendo.

“Andiamo.” sussurra Maes, mentre ripone la pistola nella fondina. “Il distretto è preso, per oggi è finita.”

Lo segui senza parlare, intravedendo il resto della truppa compattarsi sulla via del ritorno al campo, una volta raccolti i pochi feriti sopravvissuti.

“Maes…”

Risponde alla tua voce incerta alzando una mano senza voltarsi: “Non ti preoccupare. Non ti preoccupare…”

Leggi tra le righe della sua ostentata nonchalance: il fumo, i rumori assordanti, la scarsa visibilità… Poteva capitare a chiunque, di non saper distinguere un alleato, un uomo da un altro.

Ma Maes non è solo un alleato, non è esattamente un commilitone, è qualcosa di diverso da un compagno.

E l’idea di non essere più in grado di distinguere il tuo migliore amico dalla massa informe di “nemici” che hai davanti, ti fa più paura di quanto sei disposto ad ammettere.

Dunque.

Ho perso il conto dei giorni passati dall’ultimo aggiornamento. Effettivamente, se ci penso mi viene da sprofondare dalla vergogna.

Sarò sincera: sarà perché non ho tra le mani un nuovo capitolo di FMA da troppo tempo, sarà perché l’aver rivisto Lady Oscar mi ha trasportato su altre sponde (benedetta nostalgia!), sarà perché gli esami non finiscono mai (e purtroppo non è solo un modo di dire), sarà perché l’ispirazione è come un onda, soggetta alle maree e al cambiare della luna.

Fatto sta che fortunatamente gran parte del lavoro era già più o meno pronto, altrimenti sarei in una crisi ben più profonda (ma shatzy, siamo telepatiche fino a questo punto?).

Ieri mi è capitato tra le mani il volumetto di FMA con la storia di ishvar: per qualche strano motivo gira per casa come se avesse vita propria, e spunta fuori nei momenti e nei luoghi più impensabili.

Due minuti dopo ero al computer e il foglio bianco di word non era più tanto bianco.

PS: E ora che il primo bacio è andato… cambiamo argomento! ^^”
No, scherzi a parte, scusatemi, sembra che l’abbia fatto apposta… E’ un capitolo un po’ strano messo così, proprio dopo un momento come quello, ma ho i miei motivi per tirare in ballo Maes proprio ora, fidatevi
.

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** This foolish thing ***


This foolish thing

“Maggiore, non è prudente andare in giro per la città da solo.”

Roy Mustang è seduto su un cumulo di mattoni bianchi, sotto il sole a picco.

Tanto vale che si appenda al collo un cartello con scritto “sparatemi pure, sono un nemico” , pensa Riza, ma non dice nulla, perché odia avere pensieri da cecchino anche quando non è in servizio.

Odia avere pensieri da soldato, quando è con lui, come se tali pensieri rovinassero il breve momento di quiete che inevitabilmente la sua presenza crea.

Ogni tanto si chiede se non sia pietà: il fatto di vedere quel ragazzo auto distruggersi lentamente, andare alla deriva, la pura e semplice soddisfazione di vederlo macerare nel dolore, tirarlo fuori a forza dal brodo scuro di rimpianto in cui affoga, un attimo prima che l’ossigeno a disposizione termini.

Ogni tanto si chiede se la guerra sia una scusa sufficiente a giustificare tutto il cinismo che ha scoperto dentro di sé.

Mentre gli si avvicina, si accorge di quanto sembri ubriaco, pur non avendo a disposizione neanche una goccia di liquore. Come se bastasse la realtà a dare alla testa.

“Pensavo.” spiega lui, tutto d’un tratto, mentre lo aiuta ad alzarsi e a raggiungere la casa diroccata più vicina – un punto più riparato dai fucili di possibili nemici.

Appoggiandosi con la schiena al muro, a mo’ di sostegno, Roy l’abbraccia senza dire più nulla.

Il tessuto della divisa, la sua pelle, i suoi capelli sono bollenti, dall’essere rimasto troppo a lungo sotto il sole.

Per una volta, sembra davvero che il nome di Flame Alchemist sia adatto a lui.

“A cosa pensavi?”

Quella i che denota il tu confidenziale usato, le da la conferma che non è pietà la sua, non è cinismo, non è una sadica rivincita. Che è distrutta quanto lui, se non di più, ma stenta a lasciarlo vedere all’esterno, finché l’armatura tiene.

Che ha bisogno di quei piccoli contatti come una pianta a bisogno dell’acqua. Non sempre, ma di tanto in tanto: la giusta quantità per non seccare e marcire dall’interno.

E tutto le da la conferma che i conti non tornano.

“Pensavo che se non fossi venuto a studiare l’alchimia da tuo padre, ora tu non saresti qui. Pensavo che in un modo o nell’altro sembra che la causa di tutto sia sempre io, che non ne abbia ancora fatta una giusta, che non ci sia rimedio per la mia stupidità. Pensavo che è stato un disastro su tutta la linea, e che dovresti avercela con me, sarebbe stato giusto e normale che tu mi avessi sparato quel giorno, quando ci siamo rivisti. Ma non è stato così. E pensavo che tutto questo è illogico, forse anche più di questa guerra…”

Riza non ama le cose illogiche. Forse l’essere cresciuta in mezzo alla scienza le ha donato una istintiva diffidenza di tutto ciò che non è razionalmente spiegabile, ed è abbastanza sicura che per lui sia lo stesso.

Ma in rare, particolari occasioni, ha la sensazione che una spiegazione logica non sia così importante.

Eh eh, stavolta ho aggiornato in tempo da record! (ok ok, lo ammetto: i sensi di colpa non mi lasciavano dormire, così… ^^”)

Ah, prima di parlare del capitolo, grazie Lely per l’avviso: il cap 83 l’ho letto tutto d’un fiato e sì, la piccola parentesi Royai è veramente carina (e le prima cose che mi sono apparse in testa sono state:

a) Quella Rebecca è una spasso, la vedrei bene con Havoc.
b) sull’episodio dell’ospedale e di Roy dietro alla tendina devo fare una fic, è deciso.)

E Shatzy, non ti sogni le cose: sebbene non avessi in mente un disegno preciso di contrasti tra questo capitolo e H2O, è però vero che nello scrivere entrambi avevo in mente una sorta di “colore dominante”, di “Atmosfera” opaca e colorata se vuoi… E’ giusta anche la tua riflessione sui contrasti interni di Roy, e se posso anticipare qualche capitolo futuro, in un certo senso si sentirà molto l’attrito tra i due rapporti più importanti della sua vita, quello di amicizia con maes e quello… beh, lo sappiamo bene che rapporto è, con Riza.

E a proposito di Riza, come vedete siamo tornati dove ci eravamo interrotti e vi dico subito che aggiornerò anche domani perché questo capitolo e il prossimo devono stare uniti, il più vicino possibile… beh, buona lettura!

Grazie come sempre per i commenti, a domani! ^^

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Covered in blood ***


ATTENZIONE: CAPITOLO CON RATING ROSSO!

Covered in blood

E’ la prima volta, e sapevano entrambi che prima o poi sarebbe successo.

Solo non immaginavano che quel ‘prima o poi’ avrebbe avuto luogo più prima che poi.

Ma è la prima volta, ed è normale che prenda di sorpresa, che i gesti siano febbrili, frenetici, persino quelli di lei – vederla così, con la divisa aperta, il respiro rotto, le dita impigliate tra i bottoni della sua giacca, veloci e impazzite come le ali di un colibrì, è qualcosa che non sa se poter accettare.

La schiena brucia a contatto con l’intonaco scrostato del muro, ma lei non si lamenta. Si aggrappa al suo collo, si appoggia alle spalle larghe che la sostengono e chiude gli occhi.

Perché è ancora una ragazzina, nonostante non sappia più ammetterlo: la paura che era qualcosa di naturale, un tempo, sembra non poterlo più essere, non lì, non ora. In un’altra occasione forse, in un’altra vita…

Arrossire come l’adolescente che è, le sembra fuori luogo, tremare per una cosa del genere dopo aver ucciso centinaia di persone a sangue freddo, è la contraddizione del secolo; ma non può farne a meno.

Lui si accorge della sua paura solo dopo, mentre la lascia scivolare tra il muro alle sue spalle e il suo petto, mentre un singhiozzo si insinua nel suo orecchio, nonostante tutti gli sforzi per trattenerlo.

E si sente in colpa, poi appagato, di nuovo in colpa, un miscuglio di sensazioni contraddittorie – solo percezioni, solo impulsi nervosi, risposte sensoriali: i pensieri non sono più contemplati, la ragione è spintonata in un angolo con prepotenza dall’istinto – che invece di annullarsi a vicenda sembrano alimentare la strana fame che lo ha preso.

Non ha nulla a che fare con il bacio dell’altro giorno. C’è solo sabbia, tutt’intorno, l’eco degli spari lontani nell’aria, mischiato al soffiare del vento – complice inconsapevole mentre nasconde tra le sue pieghe i sospiri che non riesce a trattenere – e all’odore acre della terra bruciata dal sole.

Soffoca un ultimo lamento contro la sua pelle, sentendo i granelli di sabbia stridere tra i denti. Le gambe si arrendono, facendo crollare entrambi tra la polvere del pavimento, scivolando contro il muro.

La vista del sangue lo congela, in ginocchio davanti a lei, tra le sue gambe: all’improvviso è troppo, prova definitiva del male che ha fatto, non ne può più sopportare la vista.

Con la fronte appoggiata alla parete, vicino al suo viso dagli occhi ancora chiusi, chiede ‘scusa’, sussurra ‘scusa’ tra i respiri affannati, scusascusascusa sulla sua pelle, lo scrive in rosso, mentre tenta di farle sollevare le palpebre, di dirglielo guardandola negli occhi.

Ma lei non li apre, solleva una mano per fargli una carezza e sentire la sua guancia umida, l’appoggia sulla sua bocca per intimargli il silenzio.

Ha paura, aprendo gli occhi, di non riuscire a trattenere la lacrime.

Ha paura, così facendo, di dargli il colpo di grazia.

Dunque.

Intanto volevo spiegare l’avviso rating: il motivo per cui volevo mettere alla fic il rating rosso è proprio questo capitolo, poi però ho pensato che fosse un po’ esagerato, visto che è uno su 40 circa, così ho preferito aggiungere la nota all’inizio del capitolo. Spero di aver fatto la cosa giusta.

Altra cosa: non esitate a scrivere commenti negativi: le recensioni servono ad esprimere opinioni e, positive o negative che siano, sono fonte di ispirazione e di miglioramento per qualsiasi autore. Per cui, davvero, sentitevi libere di esprimere qualsiasi opinione senza sensi di colpa, ok? ^^

Ora, due parole su questi sue ultimi capitoli: mi rendo conto che lo stacco è netto, ma l’intenzione era proprio questa, creare una specie di quiete prima della tempesta, del “punto di non ritorno”.

Da quello che ho potuto capire dagli scorsi commenti, non è sembrato che Riza nutrisse ancora dell’astio nei confronti di Roy. In un certo senso è vero, ma in un certo senso è vero anche il contrario: quello che mi affascina di questo rapporto (e quello che volevo appunto approfondire) è il fatto che sia in qualche modo nato e cresciuto in un terreno poco “fertile”, passatemi il gioco di parole, anzi persino ostile: sensi di colpa, attribuzioni di un a responsabilità che è solo della storia e del corso crudele degli eventi, traumi mai superati. Però pensa anche che sia il rapporto che è proprio grazie al fatto di essere riuscito a superare indenne un contesto tale, anzi di essere proprio in virtù di queste difficoltà, diventato anche più forte e resistente.

In effetti la “confessione” di Roy è un po’, come dire, “confessionale” appunto, una specie di riversamento di tutti i suoi pensieri e tutte le sue remore, tutto in una volta. Ma mi serviva per arrivare a questo capitolo: nella mia testolina pazza, è stato un po’ come se Roy dicesse a Riza “Bene: questo è quello che ho fatto, questo è quello a cui non posso rimediare, questo è quello che non riesco a capire. Questo sono io: ora sta a te decidere cosa fare.”

Riza, dal canto suo, deve affrontare gli stessi problemi: è un sentimento strano, irrazionale proprio perché inconsciamente entrambi si attribuiscono delle colpe a vicenda (meno che all’inizio, questo è sicuro!), senza volerlo fare né ammettere, ma secondo me è così.

E quest’ultimo capitolo… beh, il romanticismo verrà, questo ve lo garantisco, ma devo sempre tenere conto del contesto (guerra, campi di battaglia, esercito a maggioranza maschile con gli ormoni a palla, no women no party… no, era “no women no cry”, ma fa lo stesso ^^”).

Oddio, ora che sto cercando di spiegarla, mi sembra una cosa talmente contorta…

Detto questo, sotto con i commenti e mi raccomando: spietate e sincere! ^^
Un bacione a tutte

P.S: Shatzy, gli avvisi spoiler! ^^ Sembro scema se dico che mi è venuto un attacco di nostalgia dei vecchi tempi? Eh eh… scherzi a parte, hai ragione, starò più attenta. Eh, la crisi di astinenza da FMA che cosa non fa fare… Bacione

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** The day after's refrain ***


The day after’s refrain

“Sto bene.”

Si decide a rispondere alla domanda muta che i suoi occhi gli hanno posto per tutto il giorno, cercandola tra la folla, tra i comignoli crivellati dai buchi della pallottole, tra le fiamme del campo di battaglia.

Non le piace sentirsi quegli occhi tristi addosso: li preferiva la notte scorsa, non così vuoti, non così preoccupati, una piccola luce nel fondo, accesi da qualcosa che non erano le sue fiamme, né i riflessi scarlatti del deserto e dell’aurora latente. Vivi.

“Sto bene.”

E per una volta è davvero così, per una volta è sincera.

Ma sente che lui non le crede: i suoi sensi di colpa sono qualcosa di più grande, più invincibile di qualsiasi rassicurazione. Ha imparato a conoscerli, ha imparato a conviverci, ma riuscire a sconfiggerli è una battaglia che non l’ha ancora vista vincitrice.

“Se avessi voluto fermarti, lo avrei fatto.”

Si assicura di avere i suoi occhi davanti, prima di ripetere la frase.

Si assicura che senta bene quel tu che suona ancora tanto strano.

Lui annuisce, senza dire nulla.

Si stropiccia le mani senza più guanti addosso, le avvicina al fuoco.

Nel movimento, le loro spalle si toccano.

Chiudono contemporaneamente gli occhi.

Come dire, ho spettato un pelo prima di aggiornare perché lo scorso capitolo aveva bisogno di essere “digerito” (quando l’ho scritto, non sono riuscita a proseguire per una settimana ^^”)…

Sono davvero contenta (beh, miglior termine sarebbe “sollevata”) che sia piaciuto: è uno dei capitoli su cui ho lavorato di più, un po’ per il tema, un po’ perché in me lottavano due parti. Una che moriva dalla voglia di scrivere una scena del genere e l’altra che, come avete rilevato un po’ tutte, faceva giustamente notare che ai fini della trama reale, non sarebbe stata così tanto plausibile. Per cui il resto della raccolta diciamo che è stato scritto con l’intenzione fissa di riparare a un simile sfogo creativo e riallacciarsi il più possibile al naturale corso degli eventi.

Alla fine mi saprete dire se ci sono riuscita o meno.

In ogni caso, questo episodio “destabilizzante” (non mi ricordo chi, ma qualcuna in un commento ha proprio usato questo termine, “destabilizzazione del loro equilibrio”: non poteva essere più azzeccato) offre un bel po’ di possibilità di manovra dei personaggi: cosa faranno, cosa diranno, come si affronteranno d’ora in poi… me ne sono accorta solo di recente, ma sembra che la loro intera storia non sia altro che un alternarsi di traumi più o meno grandi e successivi tentativi disperati di riacquistare un minimo equilibrio, anche se precario, in attesa della nuova scossa.

Come al solito mi dilungo con i miei viaggi mentali.
Grazie come sempre per i commenti! A prestissimo

Bacione a tutte

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Before flowers fall ***


Before flowers fall

Maes ha capito.

Maes lo ha guardato in faccia una sola volta, quella mattina presto, prima di partire con il suo reparto, e ha capito.

Ha stretto le labbra senza sorridere e si è dileguato previdentemente, un attimo prima di scorgere Riza da lontano.

E’ stato l’unico capace di leggere tra le righe, forse l’unico ad avere il coraggio di guardare fino in fondo e capire.

O forse è stato l’unico a poter sbirciare nella tenda del cadetto Hawkeye e vedere il mazzo di fiori del deserto finalmente riposti in una lattina ammaccata ma piena di acqua pulita.

Eh, il “dopo”… mi dispiace quasi far passare a questi poveretti tante tribolazioni (il lato oscuro-sadomasochistico del mio animo di autrice ha avuto la meglio sulla parte romantico-gelatinosa, causa recenti – parentesi nella parentesi: sigh - complicazioni sentimentali).

No, scherzi a parte: dopo Covered in Blood, non potevano certo cominciare improvvisamente i siparietti al miele! (tempo al tempo, hu hu… al miele non so resistere, quasi quanto non so resistere alla tristologia).

Però, prima di concentrarmi di nuovo sulla nostra forse-chissà-quasi-neo coppietta, mi premeva affrontare una questione appena accennata tempo prima: Maes.

Adesso scriverò una pseudo eresia, visto che siamo in ambito Royai: in tutta sincerità, scrivere delle trasformazioni dell’amicizia tra Roy e Maes, è stato estremamente interessante, quasi (e sottolineo quasi) quanto scrivere di Roy e Riza.

Non so il motivo (forse il fatto di non aver mai approfondito bene il personaggio di Maes, o magari il fatto di non aver mai scritto di un’amicizia in generale, per di più maschile) ma questo legame che è così importante per Roy nel manga, tanto da segnarlo forse di più della guerra in sé, ha attirato la mia attenzione e la mia curiosità fin dal primo momento.

Continuerò a scavarci sopra, sotto e intorno, almeno in qualche altro capitolo, questo è sicuro.

E sì, di esami ne rimane uno, se dio vuole, poi per quello che è stato io mio primo anno (!!!) sarò in pari… per cui il ritmo continuerà ad essere abbastanza serrato, anche perché volevo finire di aggiornare per la fine di giugno: non vorrei lasciare in sospeso la raccolta per tutta l’estate, visto che luglio e agosto mi vedranno lontana dal pc (non so ancora se sarà un bene o un male…).

Vabbè, mi fermo qui: alla prossima! Bacione

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Losing the meaning ***


Losing the meaning

“Il maggiore Armstrong è stato rispedito a casa a calci in culo”

Sebbene il tono sia ironico, a Maes non sfugge il retrogusto amaro dell’invidia.

“Era da scommetterci sopra: non avrebbe retto a lungo, lo sapevamo tutti…”

“Già… Avrebbe fatto meglio a restare a Central, senza darci fastidi.”

“Vuoi dire senza ricordarci che fare discorsi del genere non è umano?”

Così vorrebbe rispondere a Roy, ma non è sicuro di riuscire a tenere insieme i pezzi in cui l’amico si frantumerebbe. Certe verità, conosciute da tutti, persino dai singoli granelli di sabbia su cui strascicano i piedi, è bene non vengano pronunciate ad alta voce – formule dissolutive di un incantesimo di cui vogliono disperatamente rimanere prigionieri.

“Hai visto Riza?”

Maes indica l’esile figura infagottata nel pastrano sbiadito con il mento, come se persino pronunciare il nome di lei potesse incrinare l’equilibrio che ha faticato tanto a costruire. O forse solo perchè non ammetterà mai di poter provare quel genere di rancore che non chiamerà mai con il suo nome – ma l’alchimista di fuoco non è uno stupido, e come l’invidia, la gelosia è un sentimento relativamente facile da individuare.

Diamo tempo al tempo, conclude Roy mentre si alza stancamente e la raggiunge, senza voltarsi indietro una sola volta: tempo al tempo, tempo all’amico che comprenderà, accetterà, prima o poi.

Riza rigira la tazza fumante di brodo tra le mani, soffiando di tanto in tanto sul liquido scuro e decisamente poco invitante.

Non ha bisogno di sentire il “vieni” appena sussurrato alle sue spalle. Si alza ancora prima di vedere la sua ombra affondare tra le increspature provocate dal suo respiro, sulla superficie della minestra bollente.

“Un altro codardo se n’è andato…”

Dice solo questo, mentre le tocca la guancia con la punta delle dita, al riparo dentro la tenda logora scossa dalle raffiche di vento.

“Non credo che il maggiore Armstrong fosse un codardo. Forse era solo un uomo troppo buono per rimanere qui.”

E’ una delle frasi più lunghe che le abbia mai sentito dire. Sfiora appena le sue labbra nuovamente mute con il pollice, come se non fosse sicuro di averle viste muoversi, emettere alcun suono.

Un piccolo sorriso cerca di aggrapparglisi al viso con tutte le sue forze, e Riza sa - sa come gli anziani quando scrutano il cielo e annunciano i cambiamenti inafferrabili del tempo, sa come gli indovini chini sui loro cerchi di carte e ossa; sa come la compagna di una vita - che è l’inizio della fine.

“A volte vorrei avere il coraggio di essere un codardo…”

Tiene il viso di lui tra le mani - i palmi caldi contro le sue guance pallide, la presa decisa: non ti lascerò cadere. Non i lascerò cadere mai, un soffio veloce contro le sue labbra – trattiene le sue lacrime invisibili nelle dita chiuse a coppa, mentre lo bacia.

Eccomi qui! Oggi sono di buon umore: mi sono vista la parata del 2 giugno qui a bologna e come sempre, tante divise in una botta sola sono peggio di una droga (una mia amica mi ha trascinato verso i reggimenti ala fine della cerimonia, per fare delle foto: per quanto il mio cuoricino di fissata scoppiasse di gioia, volevo solo scavarmi una buca e sprofondare di vergogna! Beata lei che è così spigliata…). Senza contare che qui c’era un sole allucinante (al contrario di Roma), tanto che mi sono addirittura strinata, a stare due ore in piedi. Il caldo non è nemmeno da menzionare: mi chiedo come facessero tutti quei poveretti sull’attenti…

Ops, sto divagando un po’ troppo… Nel caso non si fosse capito, sono una grande fan delle forse armate ^^”…

Torniamo ad un altro esercito, ad altri soldati e a situazioni ahimè, non così rosee.

Un altro capitolo “digestivo” (l’ultimo, lo prometto), per così dire: oltre ai nuovi sviluppi nella relazione tra Roy e Riza, anche la reazione di Maes alla cosa rimane in sospeso, ma è una cosa voluta. Da quello che so. Prima di discutere con un amico, si tende a rimandare e a ingoiare rospi su rospi, aspettare in silenzio una risoluzione del problema spontanea che però puntualmente non si verifica.
Insomma, citanto Roy: tempo al tempo.

Nel frattempo, ne ho approfittato per menzionare un episodio che deve essere stato importante per i nostri personaggi, nonostante l’Arakawa non abbia mostrato le loro reazioni all’accaduto: l’insubordinazione e il congedo di Armstrong.

Ho provato ad immaginare cosa avrebbero pensato tutti e tre (ma in particolare Roy) del comportamento di quest’uomo, che cosa il suo atto (io suo crollo) avrebbero provocato in loro.

Ho giocato molto sul significato di coraggio/codardaggine, perché mi è sembrato che a Ishvar, non si riesca a capire bene se sia da codardi lasciare il campo di battaglia, o continuare a compiere carneficine per eseguire gli ordini. In effetti, non saprei proprio quale delle due strade sceglierei se fossi nei panni di uno di loro…

Aggiornerò il prima possibile. Bacioni!

PS x Rosicrucian e Nami: Dunque. Io non sono un genio del computer (piuttosto, il contrario…) ma spero di essere d’aiuto e non dire cavolate: se per categorie intendi i Tags, ogni volta che scrivi un post nuovo, di fianco al riquadro c’è uno spazietto rettangolare dove puoi scrivere il nome della categoria di volta in volta (e che viene memorizzata, per cui se vuoi usare una stessa categori per un altro post, basta ciccare su quadratino del nome, o più di uno se vuoi dare a un post più etichette contemporaneamente). Poi, se vuoi modificare la categorie, sempre nella finestra che apri per scrivere un post nuovo, se guardi in alto trovi scritto “Tags”: se clicchi lì sopra ti si apre un elenco di tutte le categorie che hai fatto fino a quel momento (con anche il numero di post scritti per ognuna) e se clicchi “aggiorna” puoi modificarne il nome. Spero di non aver fatto confusione… comunque splinder da questo punto di vista è stupendo perché rispetto ad altri siti è molto chiaro. Beh, buon blog allora! ^^

Alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Oxygen ***


“Aria, com’è dolce nell’aria scivolare via dalla vita mia

Aria, respirami in silenzio,

non mi dire addio, ma solleva il mondo.

Aria, abbracciami…

Volerò, volerò volerò volerò…

Volerò.”

Gianna Nannini, “Aria”

Oxygen

La seconda volta è diverso.

La seconda volta sembra che la fame di lui e la paura di lei siano entrambe passate. La seconda volta Roy stende il mantello per terra, prima di aiutarla a stendersi.

La seconda volta la guarda negli occhi perché non ha paura di ciò che potrebbe leggervi dentro.

Resta a guardarla, mentre lei gli sfiora la bocca con le dita – sorride appena, ma quel sorriso è esattamente ciò che cercava, ciò di cui aveva bisogno.

La seconda volta si spogliano quasi del tutto, perché sentire la pelle contro la pelle è la cosa più importante, perché il contatto è la cosa più importante – la tocca ed è viva, rimane viva, al contrario di ogni altro essere vivente in quel desertostomaco contro stomaco, le gambe intrecciate come le radici degli alberi secolari, solo due centimetri d’aria da respirare nella distanza tra le loro labbra.

La seconda volta, quando la bacia sul collo, la devozione concentrata del gesto la fa rabbrividire, e non sa se per il freddo o per qualcos’altro che non sa definire.

La seconda volta lui traccia l’areola scura sul suo seno con un dito, come se stesse disegnando un cerchio alchemico di cui non conosceva l’esistenza, un segreto appena svelato, più grande di tutte le teorie dell’universo, più grande della chimica, della scienza, della magia di un elemento che si trasforma in un altro.

La seconda volta la plasma con le sue mani, quasi a volerla riprodurre all’infinito - non c’è abbastanza Riza nel mondo, nel suo cuore, nella sua vita – e mentre la sente respirare sa che non è il frutto della sua fantasia, il movimento del suo petto, l’alzarsi e l’abbassarsi sempre più veloce, l’aria che entra ed esce ed entra ancora. Entra ed esce, e lui è lì pregare che non smetta mai di respirare, e soffia nella sua bocca la sua paura più stupida e più violenta.

La seconda volta se ne fregano, se possono scoprirli, ma entrambi soffocano i propri lamenti contro il corpo dell’altro, tra il collo e la spalla – un lembo, un centimetro di pelle che sembra esistere solo per assolvere a quel compito.

La stringe a sé, anche quando è tutto finito, e stranamente è la seconda volta, ma potrebbe essere l’ultima di una serie infinita, potrebbe essere stato così da una vita: lei e lui, e le sue braccia attorno alla vita, le mani tra i capelli sudati, il rito del dopo di una coppia sposata da vent’anni.

Ma se apre gli occhi avrà la certezza di non trovare un cane ai piedi del letto, né lo scricchiolare di una culla dalla stanza a fianco, né l’ombrello nel vaso vicino alla porta.

Perciò li tiene chiusi.

E ad occhi chiusi aspetta che succeda qualcosa, qualsiasi cosa, perché pensare che un momento di perfezione come quello possa durare ancora è impensabile, quando non dovrebbe nemmeno esistere nel mezzo di quel deserto, tra le rovine di una casa bombardata, eppure…

La seconda volta i minuti sembrano ore, dilatati all’inverosimile, per farli durare un po’ di più, nel futile tentativo di deformare le regole del tempo.

Nell’immobilità totale – come se trattenere il respiro significasse trattenere l’attimo perfetto, ingoiarlo, dissetarsi, sfamarsi di esso e non lasciarlo scivolare via – può solo chiederle, sussurrando piano nel suo orecchio:

“Ferma il tempo: esattamente qui.”

Esattamente qui, tra amore e morte.

Duuunque… chi è che aveva chiesto un po’ di romanticismo? ^^ Eh eh… non ho saputo resistere!

Alla faccia dell’ “avvicinamento decisamente interessante”, vero Shatzy? XD

A proposito, ho presente la fanart che dicevi, in effetti mi sono immaginata la scena quasi allo stesso modo, ma non ci avevo pensato… si vede che il mio subconscio è entrato in azione e mi ha fatto questo bello scherzo! ^^ Comunque ci sono una marea di fanart meravigliose (quasi tutte in bianco e nero: nulla di più azzeccato) di loro due sul campo di battaglia, magari più avanti ne posto qualcuna…

Ah, una considerazione sul titolo: il tema dell’aria è venuto fuori in maniera piuttosto spontanea (quando scrivo il cervello va per conto suo, e non ho idea di cosa verrà fuori finché non clicco “salva con nome” e non rileggo tutto… mah!), ma ben presto si è rivelato cruciale per il capitolo: dietro questo “avvicinamento” che entrambi temono abbastanza palesemente, c’è secondo me una paura folle della morte, soprattutto da parte di Roy, ma non la propria bensì quella dell’altro. Per questo ho pensato che il respiro, l’atto stesso di respirare, sintetizzasse bene questa paura: la prima cosa che si fa davanti ad un ferito è accostarsi alla bocca per sentire se inspira ed espira. Un gesto che compiamo miliardi di volte in ogni nostra giornata, diventa sintomo di vita, qualcosa di non così scontato e prevedibile.

Ma c’è un altro significato dietro al titolo: in questa raccolta mi sono accorta di essere molto “sensoriale”, di descrivere molto l’atmosfera, le percezioni (il caldo, l’arsura, la luce). Bene, mi sono anche accorta di vedere la loro relazione come una boccata di aria fresca, nell’immobilità bollente di Ishvar. Ma questa è una visione del tutto personale.

Aggiornerò anche domani, devo seguire un ritmo errato se voglio finire entro la fine di Giugno! ^^”
Per cui, a prestissimo, un bacione a tutte e grazie come sempre per i commenti! ^^

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** Precious things ***


“No we’ll never gonna survive

Unless we are a little crazy…”

Alanise Morrisette, “Crazy”

Precious things

Il casolare che gli hanno assegnato è grande poco più della sua tenda; ma a differenza di essa, l’acqua corrente non è un’utopia, e la doccia nascosta da un telo sudicio sta nel suo angolo a dimostrare che questo popolo non è così arretrato come poteva sembrare.

“Gli ufficiali e i sottoufficiali possono alloggiare temporaneamente nelle case confiscate durante l’avanzata” recitava il comunicato della mattinata.

Alla parola ‘confiscate’, Maes aveva fatto una smorfia, ma due secondi dopo la sua tenda era già impacchettata e le sue cose raccolte in una sacca lisa e sbiadita.

“Non ti fa un certo effetto?” gli aveva chiesto Roy, poco prima di varcare la soglia scrostata del rudere affidato al compagno.

“In queste case, fino a poco tempo fa, abitavano intere famiglie. Padri, madri, figli.. un cane, parenti, amici…”

Maes continua a riordinare le sue cose, tentando di ignorare l’amico sulla porta, dandogli le spalle solo fintamente indaffarato a decidere dove riporre la foto di Glacier.

Roy continua: sa che può sentirlo, anche se non vuole. E la cosa gli dà uno strano piacere, un sentimento di rivalsa che non saprebbe giustificare, il semplice gusto di vedere fin dove potrà spingersi.

Infierisce per capire se esiste una crepa in quell’armatura di buonumore e aria di chi sembra aver capito tutto dalla vita, le cose più importanti, i pensieri giusti, il modo di vivere più saggio.

“Questa guerra prima o poi finirà. E tutto ciò che sarai stato in grado di proteggere è la tua felicità…Null’altro. Solo la tua egoistica e singola felicità…”

Il pugno chiuso lo coglie di sorpresa, sebbene scatenare una simile reazione fosse il suo obiettivo.

Nel momento esatto in cui sbatte contro al muro per il contraccolpo, si rende conto dell’estremo stupidità di quel suo gioco perverso da bambino.

Maes lo afferra per il bavero, lo costringe a guardarlo negli occhi.

“Roy, mettitelo bene in testa perché te lo spiegherò una volta sola: la vita è questo. E’ capire quali sono le cose davvero importanti, e proteggerle con tutte le proprie forze.”

Sposta lo sguardo alla foto di Gracia che nella foga si è ribaltata, e li guarda sorridendo materna, dalla cornice scheggiata.

“Non esiste nessun patriottismo, nessun grande ideale: ognuno combatte per sé, per quello che la vita gli riserverà. E non vince chi desidera di più. Vince chi sopravvive.”

In un momento è tutto passato.

Vedere Maes infuriato non è mai stato uno spettacolo tanto frequente. Una specie di uragano: capita una volta ogni dieci anni, ma quando capita si fa sentire.

Roy rimane ancora appoggiato allo stipite, senza curarsi di asciugare la goccia di sangue che traballa sul labbro, a guardare l’uomo ritornare ai suoi preparativi.

Si avvia verso la sua nuova dimora, senza dire una parola.

Quando apre la porta sbrecciata, un improvviso pugno nello stomaco lo fa piegare su se stesso, come un origami fatto male: la piccola cucina incastrata tra uno sgabuzzino semidistrutto e una dispensa vuota, il caminetto rudimentale dall’altra parte della stanza, il tappeto impolverato per terra. Su di esso una bambola con un occhio a penzoloni, che lo fissa con il suo sorriso beffardo e triste, quasi a voler dire: “Ironia della sorte, vero? E se fossi stato proprio tu a sterminare la famiglia che abitava qui!?

Distoglie lo sguardo, posandolo sui letti che si intravedono dal locale adiacente: le lenzuola sfatte, le zanzariere stracciate in più punti, bruciate agli angoli. Una culla di vimini accartocciata sul pavimento.

Sente la presenza di lei da dietro le spalle.

“Volevo sapere se andava tutto bene. Ho sentito…”

Lui lascia cadere il suo zaino per terra, sollevando polvere e cenere.

“Va tutto bene. Solo…”

Quando si accascia sul letto – altra polvere, pulviscoli dorati che rendono difficile il respiro e impastano la pelle nell’umidità della sera – per un attimo ha paura di non potersi più tirare su con le sue sole forze.

“Vieni qui.”

La abbraccia non appena la distanza tra i loro corpi è inferiore alla lunghezza delle sue braccia tese in avanti. Sdraiati sul letto, gli stivali ancora addosso, la stringe ancora più forte a sé.

“Resta qui, stanotte.”

Mentre Riza annuisce lentamente, cerca di ricoprire il corpo di lei con il suo, avvolgerla di esso come fosse una crisalide impermeabile al mondo, il bozzolo capace di preservarla dalla realtà esterna, la verità crudele che non c’è più altro per cui valga la pena combattere.

Per un momento si chiede se anche per lei è così.

Se anche quelle braccia esili che cercano di circondare il suo torace ampio sono disperatamente protese nel tentativo di proteggere la cosa più importante.

Scusate, riesco ad aggiornare solo ora… diciamo che ci ho messo un po’ a riemergere dalla buca in cui sono sprofondata per l’imbarazzo! ^///////////^

Oddioddio… immaginavo che come capitolo sarebbe stato accolto bene, ma come al solito i vostri commenti mi fanno emozionare, per cui davvero grazie di cuore *stray tanto commossa sniff*

A me personalmente, scrivere di questa coppia dà sempre emozioni molto profonde e sempre diverse, si potrebbe dire che non mi stanco mai (ma so già che questa affermazione mi verrà ritorta contro.. ^^”) e in effetti è un po’ così: non so se sia solo una mia impressione, ma ho l’idea che i personaggi dell’Arakawa (non solo Roy e Riza, o meglio, loro per primi, ma anche gli altri) siano cos’ complessi e soprattutto VERI, tanto che pensi di averli in qualche modo compresi, e un attimo dopo un nuovo particolare su di loro ti dice che non è così, affatto, che è impossibile prevedere e leggere fino in fondo tutte le loro mosse.

Secondo me è questo il vero talento della Sensei, il particolare che contraddistingue le sue storie.

Quindi usare personaggi così ben costruiti e di spessore è il sogno di ogni autore di fanfic (o forse è solo il mio, chissà)! ^^

Di quest’altro capitolo che posso dire: ritorna Maes, ritornano le incomprensioni… ritorna la realtà, ecco. Volevo alternare momenti felici (persino idilliaci) e attimi di vita ordinaria in un campo militare, senza tralasciare le relazioni umane al di là della loro storia sentimentale. E Maes è (ed è già stato, e sarà ancora) il primo della lista.

Spero vi piaccia. Un bacione grande grande (e ancora un po’ commosso).

A presto!

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Step-by-step ***


Step-by-step

“Scusami”

Tre sillabe, sette lettere. Un unico, lungo, greve respiro prima di soffiare fuori quella parola dalla pronuncia così incerta.

Maes alza le spalle, scuote la testa sorridendo, ma non alza gli occhi dalla tazza fumate che tiene in mano.

“Non importa. Sono io che ti ho colpito.”

Roy si siede al suo fianco, accetta la fiaschetta che l’amico gli passa; un sorso dopo imiterà il suo sorriso sollevato.

“Hai fatto bene a farlo.”

“Questo è sicuro. Per cui io non ti chiederò scusa.”

Ridono a bassa voce, quasi quel suono potesse disturbare il silenzio dell’alba, la quiete che anticipa l’inizio di una giornata di caos e spari ed esplosioni assordanti.

Maes si toglie gli occhiali, cerca di pulirli con la manica sudicia, peggiorando solo la situazione.

“Scusami.” sussurra ancora più piano, un soffio inudibile che il vento si porta via quasi subito.

Mentre si alzano – il fucile sulla spalla, il guanto infilato velocemente: due paia di occhi fissi sulla polvere del suolo – sanno entrambi a cosa si riferivano quelle tre sillabe, quelle sette lettere, quell’ultima bandiera bianca nel vento.

Quando il cadetto Hawkeye alza un braccio nella loro direzione, Maes le risponde con un sorriso.

Ed ecco che fanno pace! Ohhhh… non ho resistito più di uh capitolo, Maes che tiene il muso non me lo vedo proprio!

Mi sono accorta di una cosa poco chiara: L’ultimo “scusami” lo dice Maes. Infatti non si riferisce al pugno, ma al fatto di non aver accettato subito la relazione dell’amico con Riza. Ho provato in mille modi a renderlo un po’ più chiaro, ma non ce l’ho fatto, per cui ecco la spiegazione… ^^”

Che posso dire… oggi riguardandomi tutti i capitoli che ho già mi sono accorta che per un POV di Riza ci vorrà un bel po’… ^^” è allucinante, ma tutte le volte che ho dovuto (o voluto) scrivere dei suoi pensieri, non mi è venuto fuori quasi mai nulla che mi entusiasmasse, forse perché la vedo (come personaggio) più a suo agio – più lei – nel silenzio, anche mentale… e in effetti, i suoi pensieri li ho fatti trasparire per la maggior parte da azioni, gesti particolari, sorrisi malcelati…

Nel prossimo capitolo (mooolto meno angst degli altri… ho fatto una fatica per non farlo sembrare fuori luogo! Solo che VOLEVO metterlo, in ogni caso) un qualcosina di Riza’s POV c’è, ma…

Beh, mi saprete dire.

Ah, anticipo una cosa: visto che volevo pubblicare mercoledì un capitolo preciso, h deciso di aggiornare lunedì e martedì, solo che lo farò un po’ tardi, verso sera (vado a lavurèr! ^^” Tailleur e foulard da hostess per un congresso: tante ore per pochi soldini, ma meglio che niente…).

Per il resto… non posso fare a meno di ringraziarvi come sempre (ma come sempre, sinceramente e con tutto il cuore) per ivostri commenti e tutte le belle parole.

Un bacione e a presto (e buon fine settimana)!

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** It's all the small and tiny things you do for me that I will always remember ***


It’s all the small and tiny things you do for me

that I will always remember

“Molly.”

“Scherzi? Quella si è ripassata tutto il reparto!”

“E allora? Tutti tranne me? E poi mi hai chiesto tu chi mi farei…”

“Sì ma pensavo avessi più buon gusto…”

L’animata e profonda discussione filosofica attorno al fuoco non si placa nemmeno all’arrivo del maggiore Mustang e del capitano Hughes.

“Oh, certo! Come se la tua scelta fosse meglio: quello scorfano di Ariel te lo lascio volentieri…”

“Ragazzi, su…”

“Se avevi voglia di fare a botte potevi dirlo subito!”

“Due razioni di rancio su Harry!”

“Ci sto.”

“No, niente botte, che arriva il colonnello…”

“E la cecchina? L’avete mai vista bene da vicino?”

Un uomo normale – in pieno possesso delle sue facoltà fisiche e mentali - avrebbe capito subito dall’espressione molto poco amichevole di Roy, che non tirava l’aria ideale per simili affermazioni.

“Perché? E’ carina?”

Carina? E’ bellissima: giovane, certo, ma ha tutte le curve al posto giusto. Ieri ero di ronda vicino alla sua tenda e accidentalmente l’ho vista mentre si cambiava…”

Se Roy si strozza con il tè bollente, non è così abile nel non darlo a vedere.

Maes guarda pietrificato la scena, indeciso se andare alla ricerca di un estintore o lasciare che il soldato semplice Jones concluda il suo suicidio da solo.

“Sì, ma è sempre così seria…”

“Tutta apparenza. Deve essere quel genere di ragazza che a letto si scioglie e diventa una gattina…”

Siamo qui riuniti oggi per porgere l’estremo saluto al soldato semplice Jones …bofonchia Maes, tanto per portarsi avanti con il lavoro.

Persino Roy è sorpreso di non essere ancora saltato al collo del subordinato. Ciò non gli impedisce di accarezzare con le dita il suo guanto incendiario, piegato con cura nella tasca.

“E poi saprei io come toglierle dalla faccia quell’aria da sfinge frigida… non so se mi spiego.”

Gli occhi di tutti sono ormai fissi su di Roy, che pare poter incendiare l’incauto collega da un momento all’altro senza nemmeno schioccare le dita, rendendo l’autocombustione umana un pericolo reale.

Maes comincia a valutare quale posizione sia la più indicata per sfuggire alla fiammata improvvisa.

Ma invece che il suono secco della dita dell’alchimista, qualcos’altro gli arriva alle orecchie.

“Soldato semplice Jones!”

Il ragazzo scatta in piedi, portandosi la mano alla tempia.

“Signore!”

Roy Mustang stringe la tazza di tè come se volesse stritolarla, ma rimane stranamente calmo. Fin troppo calmo.

E quel sorrisetto malefico, riflette Maes, non senza una punta di terrore, non mi piace per niente

“Che ha fatto Harry?” chiederà Riza, la sera dopo.

“Chi?” risponderà un Roy indaffarato ad accarezzarle lo stomaco, alzando la maglietta di volta in volta impercettibilmente – sa che lei sa che lui sa che lo sta lasciando fare di proposito, come se non se ne fosse accorta.

“Harry. Harry Jones. E’ nel tuo reparto.”

“Ah sì? Perché, che ha fatto?”

Ignora il fatto che per ben due volte abbia risposto alle sue domande cn altrettanti punti interrogativi.

“Eravamo di ronda insieme, stamattina. Non si è presentato.”

“Che strano… E perchè lo stai chiedendo a me? Io cosa c’entro?”

Riza sospira – Roy vede la sua stessa mano abbassarsi con il suo petto, mentre bacia la sua pancia appena sopra l’ombelico, trasformando quel sospiro in una risata sommessa, provocata dal solletico.

“Mi hanno detto che eri con lui…”

“Ah sì?”

“… e che parlavate di me.”

“Come fai a saperlo?”

Domanda stupida e superflua - e Riza legge negli occhi dell’uomo davanti a sé, le risate che non hanno ancora ricordato come fare. Esaurisce le ultime energie della giornata tirando i muscoli della mascella: un sorriso che c’è – si sente – ma non si vede.

Ma l’espressione seria del suo amante, a pochi centimetri dal viso, glielo congela sul più bello.

“Ti ha chiamato ‘sfinge frigida’…”

Gli risponde con gli occhi: non importa.

“Ha detto di averti visto, nella tua tenda…”

Con le dita, lungo la sua guancia mal rasata: non darti pena, non importa – è lei che scandisce la punteggiatura di quei brevi discorsi con i suoi silenzi, con i suoi impercettibili movimenti e isuoi sorrisi invisibili ad occhio nudo.

“Ha detto che ci avrebbe pensato lui a…”

“A fare quello che mi stai facendo tu ora?”

“Ehm… sì…”

Non l’avrebbe fatto altrettanto bene, conclude lei, non senza vergognarsi di quel pensiero ben poco puritano, e rischiando di esplicitarlo in un sospiro che di puritano non ha proprio un bel niente.

“Posso benissimo difendere il mio onore da sola.”

“Lo so.” Risponde lui, le parole attutite contro la pelle calda del suo collo.

“Ma lascia che sia io a difendere te. Almeno una volta, almeno così…”

Riza nasconde il sorriso più dolce – quello che affiora una volta ogni mille anni, quando la neve ricopre il deserto di bianco - lo affonda tra i suoi capelli neri, accarezzandogli il capo, mentre lascia che le cose seguano il loro naturale corso – un sospiro, un altro, un altro ancora, il brivido familiare in fondo allo stomaco, la pelle d’oca lungo la scia fresca che i suoi baci le lasciano sull’incavo dei seni.

“D’accordo.” sussurra appena, poco prima di addormentarsi aggrovigliata a lui – un nodo che non può e non sa più disfare.

Con un bacio sulla sua tempia appena sudata – il punto finale: grazie.

Come dicevo ieri l’altro, ho fatto una fatica bestiale a rendere questo capitolo “ironico-ma-non-troppo” per non rovinare l’atmosfera (depressiva, sempre e comunque, anche se di recente ha qualche sfumatura rosea ^^”).

Mi sono ispirata a quei discorsi da “spogliatoio” (se li facevamo noi ragazzine – ok, non con questi toni. NON con questi termini… E soprattutto con molti più sospiri alla Via col vento e sguardi persi nel vuoto – ai tempi della pallavolo, figurarsi i signori maschietti!) che in un campo militare con netta maggioranza maschile (da che mondo è mondo, reale e non) non potevano certo mancare. E ho pensato prima a Roy e ai suoi scatti di gelosia, che da qualche parte dovranno essere pure cominciati, poi però la cosa ha preso una piega diversa… Visto che nello scorso capitolo si parlava di “proteggere” e “difendere”… questo potrebbe essere un modo come un altro per farlo: nelle piccole cose di tutti i giorni, come un commento un po’ troppo spinto sulla propria ragazza.

Il titolo era una scritta che ho trovato tempo fa su una fanart (trovata su Photobucket, chissà dov’è… mi metterò a cercarla: c’era Roy versione dolce e un p’ stilizzata con la testa inclinata e gli occhi chiusi… e questa frase: che tenerezza!) e visto che secondo me è una verità sacrosanta e mi era pure rimasta in testa, mi sono altamente infischiata della lunghezza e … ecco qui il titolo.

Eh… mo’ vado a nanna: ho la schiena a pezzi. Fare la hostess è carino (e sì, in qualche è una divisa, anche se sono praticamente vestita da funerale fatta eccezione per un foulard giallo stile tovaglia che mi strozza per bene per dieci ore consecutive… ma per qualche dindino in più, va anche bene! ^^” Domani è l’ultimo giorno… Se sopravvivo! Vabbuò…

Un bacione a tutte, buonanotte! XD

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** The world where you are ***


The world where you are

“Maes finiscila, una buona volta! Mi stai facendo venire la nausea…”

Ma l’amico non sembra avere alcuna intenzione di smettere di depositare baci rumorosi sul pezzo di carta patinata che ospita l’immagine della sua futura, sorridente consorte.

“Finiscila tu! Non è colpa mia se non hai uno straccio di foto della tua ragazza: oltre che di una moglie hai bisogno anche di una buona macchina fotografica…”

Schiva abilmente uno stivale che vola verso la sua testa, arma impropria non degna dal famoso Flame Alchemist.

“Ringrazia che ho lasciato i guanti nella mia tenda… e comunque Riza non è la mia fidanzata!”

“E chi dice niente! Certo che è strano: io Riza non l’ho neanche nominata… Come mai ti è subito venuta in mente proprio lei?”

L’unico motivo per cui Roy non gli tira dietro anche l’altra calzatura è che non è sua intenzione ritornare al suo rifugio saltellando sulla sabbia bollente.

Grugnisce senza aggiungere altro, per non peggiorare la sua posizione, mentre recupera la scarpa volante e se l’infila, in equilibrio precario su un piede solo.

“Sai Roy, dicono che Jones sia abbastanza bravo nei ritratti… soprattutto femminili, da quel che mi dicono, neanche troppo vestiti ora che ci penso… ma potrebbe fare al caso tuo, se vuoi qualcosa di simile ad una foto della tua amata...”

Vede l’amico perdere definitivamente l’equilibrio, oltre che la pazienza.

“Maes, una sola parola…”

Non sa se un invito più o meno esplicito ad infilarsi un fucile con baionetta in una determinata parte anatomica dove raramente batte il sole, si possa definire una parola nel vero senso del termine.

“Qualcosa mi dice che non seguirai il mio consiglio…” pondera sottovoce il capitano Hughes, guardando l’amico uscire dalla sua dimora decisamente più infuriato di quanto vi fosse entrato, ma definitivamente meno a terra.

Oh beh, pensa sorridendo tra sé e sé: Missione compiuta.

*Ж*

Una delle caratteristiche fondamentali del carattere di Maes è il suo essere sempre e comunque inopportuno.

Ed inopportuno è il fatto che il ricordo della loro ultima conversazione gli riaffiori alla memoria proprio in un momento meraviglioso come quello.

Cerca di alzarsi senza svegliare la figura addormentata al suo fianco, ridendo della sue mani chiuse a pugno, come quelle dei neonati. Apre le dita una ad una, il più delicatamente possibile, depositando un bacio leggero sul palmo caldo e umido.

Riza sospira nel sonno, affondando ancora un po’ il viso nel materasso semi sfondato.

Una ciocca di capelli sottili scintilla nella luce che filtra dalle persiane sbrecciate, mentre le scivola sulla fronte, sfiorandole appena la punta del naso.

Roy chiude un occhio, indice e pollice di entrambe le mani che si toccano a formare un quadrato, cornice spartana di quella visione – bellissima, serena nella sua inconsapevole perfezione di venere rinascimentale – addormentata sotto la coperta pesante e impolverata che scolpisce le sue curve come il marmo di uno scultore classico.

“Click” sussurra piano, per non destarla dal mondo soffice e onirico in cui sta sicuramente viaggiando – le sopracciglia fremono impercettibilmente, la fronte si corruga e si distende in un battito inconsulto delle sue ciglia, uno spasmo involontario: il sogno che al suo risveglio non riuscirà a ricordare.

Si raggomitola accanto a lei, sotto la coltre pesante, ad aspettare il crepuscolo in silenzio devoto, guardandola risvegliarsi senza dire una parola, senza emettere quasi respiro, per non turbare l’istantanea di un momento di perfezione che porterà sempre con sé.

BUON ROYAI DAY A TUTTEEEE!!!!!!

Ho tenuto questo capitolo da parte proprio per oggi, perché mi sembrava il più romantico e senza neanche una traccia di angst (penso sia l’unico di tutta la raccolta, quindi “godetevelo” ^^”)

In effetti, come ha già detto qualcuno, gli ultimi capitoli sono stati molto rosei e tranquilli ma – so già che mi odierete – come quello stesso qualcuno ha ipotizzato successivamente sono stati appunto la quiete dopo la tempesta! ^^”

Già il prossimo sarà un ritorno alla (triste) “normalità”…

Per l’immagine di Riza che dorme mi sono ispirata alla mia cuginetta appena nata che un po’ come tutti i neonati dorme (poco) con i pugnetti chiusi, stretti stretti, come se avesse afferrato un sogno particolarmente bello e non lo volesse far scappare via… ah, io adoro i bambini piccoli! *0*

Non so perché, ma associo spesso Riza (la Riza di ishvar in particolare: è un’antitesi colossale ma non posso farci nulla) ai primi mesi dell’infanzia, forse perché la sua giovane età in un contesto del genere spicca ancora di più.. non so proprio.

Il titolo invece ha doppio significato: in parte si riferisce al mondo dei sogni – a oshvar si può essere così sereni solo in un sogno, in un universo parallelo onirico – e in parte rappresenta quella parte di noi stessi dove custodiamo le immagini e i ricordi più importanti. La mia idea è che Roy si sia ritagliato un piccolo spazio - un universo a parte - nel suo cuore dove custodire Riza e tutto quello che la riguarda, preservandolo dal resto del mondo, come una scatola dei ricordi da tirare fuori e aprire nei momenti di sconforto.

Ancora tanti auguri per il Royai day, grazie per tutte le recensioni e un bacione a tutte!!! ^^

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** Children of Eden ***


“Children of Eden
Where have we left you!
Born to uncertainty
Destined for pain.
Sins of your parents
Haunt you and test you
This your inheritance:
Fire and rain”

“Children of Eden”( musical omonimo)

Children of Eden

La stanza è un macello: sangue dappertutto, sangue di ishvariani, uomini, donne, soprattutto bambini, che inzuppa le bende sporche sparse per il pavimento.

Sangue di un uomo e di una donna dalla pelle più chiara, ancora abbracciati sul pavimento, tra i bisturi e le garze, e i rifiuti e la sporcizia di un ospedale da campo tirato su in tutta fretta.

Roy guarda quella coppia ancora abbandonata sul pavimento polveroso – il braccio di lui ripiegato con naturalezza, a cercare la compagna nel sonno più profondo, riflesso involontario nel tentativo di proteggerla – guarda gli occhi chiusi e le mani sporche di sangue, sangue buono, sangue che altri hanno versato e che essi cercavano solo di arginare.

Lo stesso sangue che non sono riusciti a trattenere nel loro corpo e che ora sporca appena i bordi di quella foto di famiglia, ripiegata con cura nella tasca del dottor Rockbell.

Maes si china a raccoglierla, osservandola da dietro gli occhiali appannati.

“Un padre non dovrebbe mai lasciare la sua bambina da sola.”

Vorrebbe dirgli che non è stata colpa sua, che non ha deciso lui di morire in quel modo, che forse cercava solo di dare ai bambini di una terra straniera dispersa nel deserto la stessa felicità di quella figura bionda sorridente nella foto.

Ma non lo fa, perché il mondo punisce sempre le persone sbagliate, e questo lo sanno entrambi.

Hawkeye è sulla porta, la testa china – il mento che sfiora appena lo sterno, come se si volesse ripiegare su se stessa: gli stessi occhi carichi di lacrime con cui osserva i bambini da dietro il suo mirino di precisione, prima di esplodere il colpo – un pulviscolo di sabbia e luce che incornicia i contorni del suo pastrano e il profilo del suo capo.

Parla, ma la voce sembra arrivare da una terra lontana, troppo distante da poter essere raggiunta.

“Ma quella bambina ora è sola.”

Sola al mondo. Sola con se stessa e il suo dolore che corre lungo la ferrovia, scritto a lettere stampate sul telegramma militare già in viaggio.

Con il capo ancora chino, non può vedere il maggiore Mustang avvicinarsi: può solo sentire il suo palmo contro la schiena: il contatto sottile e consolatore che lei sessa gli ha donato tante volte.

E’ davanti a lui inerme, sconvolta, amareggiata nello scoprire che il male di quel luogo di morte riesce ad espandersi velocemente anche al mondo esterno, come l’infezione di un dito che porta inesorabilmente alla cancrena di un intero arto.

Le conseguenze di quella guerra, l’eco degli spari, l’odore del sangue sembrano poter arrivare ovunque, nonostante lei stessa abbia cercato di ingoiare tutto il dolore, preservare altri dalla stessa sua sorte.

Roy la sente respirare a fondo – il suo palmo che si alza e si abbassa, che sente l’aria riempirle il torace, spingere contro l’involucro della pelle come un singhiozzo trattenuto.

Maes ripone la foto al suo posto, prima di coprire in silenzio i due corpi senza vita, con il lenzuolo più pulito che riesce a trovare.

Ed ecco la tempesta… >___< ‘’

Un capitolo (anzi, due visto il prossimo…) sulla famiglia Rockbell era d’obbligo. Tuttavia non sono riuscita a scriverlo dal punto di vista di Riza – o almeno non interamente.

Il fatto è che non sono riuscita ad identificare che tipo di sentimento potesse provare lei (Rabbia? Dolore? Ricordi amari che riaffiorano? Impotenza?): era una gamma di emozioni diverse troppo grande, e troppo varia, oltretutto penso che gli stati d’animo di Riza rendano meglio con i suoi gesti, i suoi silenzi e le sue parole accuratamente calibrate, più che con gli strema of consciousness.

Da questo punto di vista Roy è un personaggio più “facile”…

La canzone è tratta da un musical ispirato alla cacciata dal paradiso di Adamo ed Eva… avevo le parole in casa, perché anni fa l’ho suonato al pianoforte e mi è sembrato particolarmente adatto.

Dice:

“Bambini del paradiso
Dove vi abbiamo abbandonati!
Nati nell’incertezza
Destinati al dolore.
I peccati dei vostri avi
Vi perseguitano e vi mettono alla prova.
Questa la vostra eredità:
fuoco e pioggia.”

Ah. Tornando al capitolo precedente: non preoccupatevi per le sorti di Jones. Sta bene (più o meno), si è preso una licenza (spontaneamente, eh!), vi ringrazia per l’interessamento e vi saluta tanto…

Ok, scherzi a parte, Roy non gli ha fatto niente: diciamo che gli ha dimostrato sulla prima tenda che ha trovato davanti a sé (che accidentalmente risultò poi essere proprio la tenda di Jones: pensa i casi della vita…) quale sarebbe stata la sua forma fisica se non l’avesse piantata con le sbirciate e i commenti pesanti su Riza… neanche a dirlo, Jones ha afferrato l’analogia al volo. XD

Grazie per i commenti! Un bacione a tutte, a presto!

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** To take this hand ***


“See the nation through the people's eyes,
See tears that flow like rivers from the skies.
Where it seems there are only borderlines
Where others turn and sigh,
You shall rise
There's disaster in your past
Boundaries in your path
What do you desire will lift you higher?
You don't have to be extraordinary, just forgiving.
And those who never heard your cries,
You shall rise
And look toward the skies.
Where others fail, you prevail in time.
You shall rise.
You may never know,
If you lay low, lay low
You shall rise
Sooner or later we must try...
Living”
Mattafix, Living Darfur

To take this hand

La ritrova due isolati più in là.

Appoggiata al muro, aggrappata alla parete scalcinata graffiandosi le dita, scheggiandosi le unghie come se volesse artigliare la dura pietra, la guarda rimettere finché il rumore dei singhiozzi arriva a coprire gli ultimi colpi di tosse.

Non muove un muscolo - tre passi esatti dietro di lei, tre passi lunghi come la circonferenza della Terra, tre voragini che arrivano a toccarne il centro esatto: come, si ritrova a pensare, come colmare tanta distanza? - mentre assiste impotente al crollo: lei scivola con il fianco lungo il muro, dandogli le spalle, scivola lentamente, un centimetro alla volta, nella polvere, nel fango che l’acqua che le esce dagli occhi crea sul terreno – acqua che non può vedere ma che sente, acqua di cui ha imparato ad avvisare la presenza, come le tribù nomadi del deserto: la percepisce sulla pelle, come il grasso dei corpi carbonizzati gli solletica le labbra, così le sue lacrime gli ribollono dentro e fuori.

Muove il piede in avanti, non appena un tonfo soffocato lo avverte che il suo corpo ha toccato il suolo – che la sua anima ha toccato il fondo.

Esita a poggiare la mano sulla sua spalla, esita nel chinarsi su di lei, nel passare un braccio attorno alla su schiena, nel cullarla impercettibilmente, nel voltare il suo viso fino a toccarne la fronte con la sua – perdona questo piccolo uomo indeciso che sono, perdonami se puoi, se non so evitarti tutto questo, se non so fare altro che esitare.

Ma non c’è incertezza nella sua voce, nemmeno l’ombra del dubbio mentre le sussurra piano all’orecchio:

“Va bene che tu pianga. Va bene se ti appoggia me. Va bene anche così”

Lei si rialzerà cinque minuti dopo - cinque minuti sembrati ore, millenni, frammenti di tempo senza più identità né voglia di scorrere.

Si rialzerà come sempre, Roy questo lo sa, senza bisogno del suo aiuto. Si solleverà con le sue forze, contando su se stessa, come ha sempre fatto.

Allunga la mano verso di lei, sapendo già che verrà ignorata.

Non questa volta: mentre Riza si rialza, il suo peso inconsistente è aggrappato alle sue dita come un naufrago al pezzo di legno alla deriva.

Volevo assolutamente scrivere di una situazione “ribaltata”: ovvero, per una volta, non è Riza a sostenere Roy ma viceversa, e mi sembrava che il caso Rockbell fosse un buon momento per una situazione del genere.

Non penso che Riza sia più forte di Roy, ma che il suo sia una specie di autocontrollo imposto nel tempo, qualcosa di molto simile all’orgoglio, ma di natura diversa. D’altronde la frase che più ripete in tutto il manga, fin da quando era una ragazzina davanti alla tomba del padre è “Posso farcela da sola” – anche nella variante: “L’ho fatto di mia spontanea volontà, nessuno me l’ha imposto”.

Forse anche per questo mi è risultato così difficile e “strano” adottare il suo punto di vista nei momenti più drammatici… chissà! ^^”

La canzone all’inizio mi è sembrata molto adatta, anche perché si riferisce ad un contesto reale, il genocidio in Darfur, Africa – e questo dovrebbe farci pensare: se la realtà si avvicina così tanto ad un’opera di fantasia, il mondo e i suoi abitanti non sono così progrediti come sembra…

Mi piace tantissimo, musica a parte, soprattutto per il messaggio di speranza e forza che lancia – per quanto espressioni del genere possano sembrare banali e usate, la speranza è quel qualcosa che determina la salvezza oltre che di un individuo, di un’intera collettività.

Tornando alla finzione, volevo aggiungere un postilla: nella frase finale, non ho voluto paragonare Roy ad un “salvagente” perché Roy non è così “saldo”: è appunto, un pezzo di legno alla deriva, qualcosa in condizioni molto simili a quelle del naufrago.

Bene, penso di aver detto tutto…

Grazie a tutte per i commenti, anche a Elyfull (non ti preoccupare per le recensioni: anch’io per un bel po’ sono stata del club “lettrici silenziose”. A proposito: anime? Quale anime? Non mi risulta che esista alcunché del genere su FMA… ;P).

Un bacione, alla prossima!

Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** Pages ***


Pages

Non riesce a concentrarsi come vorrebbe.

Non che abbia particolarmente bisogno di ripassare le reazioni chimiche dei gas volatili, ma quello è l’unico libro di alchimia che è riuscito a salvare dai roditori selvatici che razziano tra le crepe e le aperture della sua baracca.

Sbuffa rumorosamente, accorgendosi di aver perso il filo e di stare rileggendo la stessa riga per la quindicesima volta – senza per altro capirne il significato.

Distratto, la concentrazione ormai irrecuperabile: e la noia c’entra ben poco.

Incrocia le gambe, cercando una posizione più comoda, a sedere sul pavimento duro, ma non c’è niente da fare: ottiene solo un altro grugnito di disapprovazione da dietro le sue spalle, per il movimento inconsulto.

Riza, la schiena contro la sua e il fucile smontato in grembo, pulisce ogni singolo ingranaggio con cura maniacale, senza sosta.

“Scusa” sussurra lui a bassa voce, per non disturbarla ulteriormente, mentre tenta di ripetere a memoria le diverse componenti alchemiche dell’ossido di carbonio.

Per una attimo, un attimo solo, pensa di essere tornato ai pomeriggi silenziosi di studio, con i gomiti appoggiati all’imponente tavolo di mogano scuro della libreria, e il respiro regolare di una bambina a scandire le parole stampate di pesanti volumi polverosi.

Lui, svogliato come allora; lei concentrata sul suo lavoro, una sciarpa sfilacciata – quello che sarebbe stato il suo futuro regalo di natale.

Ora, gli ingranaggi del fucile di precisione, tintinnano come i bicchieri di cristallo del cenone. Ma la candela ormai sciolta al loro fianco, nel casolare in rovina, è molto diversa da un albero di natale.

La sente appoggiarsi un po’ di più alla sua schiena, cedere alla stanchezza di un giorno di appostamenti e assalti. Lui distende lentamente la spina dorsale, facendola combaciare con quella di lei, pelle contro pelle, da sotto il tessuto spesso della divisa.

E’ allora che sente il tatuaggio, bruciare da sotto gli strati di abiti impolverati, incidersi in ogni sua singola vertebra.

E all’improvviso vorrebbe trasferirlo su di sé, macchiarsi e marchiarsi di quella colpa, che gli appartiene, il fardello portato troppo a lungo da lei, complice involontaria e innocente.

Sospira piano, abbandonando la testa all’indietro, appoggiandosi a lei – come ha sempre ha fatto e come continuerà a fare in futuro, nonostante i suoi sforzi – come se volesse imprimere almeno lo speculare di quel crimine su di sé. Dividerne il peso.

“Ti ha fatto male?”

Sa che è una cosa stupida e impossibile, ma può sentirla sorridere, anche senza vedere gli angoli della sua bocca sollevarsi appena.

Prima che possa rispondere, si gira di scatto, prendendola al volo quando lei cade all’indietro, sbilanciata.

Mentre deposita piccoli baci meticolosi sulla sua tempia, sulla guancia, sul collo, sulla sua bocca, si rende conto che gli avrebbe risposto di no solo per non farlo preoccupare, per non alimentare i suoi sensi di colpa, la sua rabbia, o qualsiasi altro sentimento autodistruttivo di cui è pieno.

Per questo la stringe a sé, mentre i pezzi del fucile smontato si spargono per tutto il pavimento.

Perché ama e odia, come lei, quei segni indelebili, la loro salvezza e la loro maledizione, un legame di fuoco e sangue che ha unito le loro strade e le mantiene intrecciate indissolubilmente.

Ama e odia lei, che lo ha reso l’uomo e il mostro, che lo salva un attimo prima di ucciderlo - lei che lo ama e lo odia senza saperlo, senza poterlo spiegare a parole.

La fiamma della candela balla danze esotiche e lontane, sulla cera sciolta.

La salamandra disegnata sulla sua pelle è viva, si muove con la sua pelle nuda, mentre si spoglia.

Le sue mani sulla sua schiena, la sua bocca sul collo sottile, mentre le formule incomprensibili di quel disegno si trasmutano in parole d’amore, versi di poeti dimenticati mormorati a bassa voce - si confondono con il rumore del vento e delle pagine mosse da invisibili brezze notturne, si incidono sulla sua pelle: non servono cerchi alchemici per creare quel sentimento dalla sabbia dura.

Riza sulla sua bocca, Riza sotto il palmo della sua mano.

Riza. Vedi, Riza, è parte di te, parte di me. Siamo noi, questa storia che sembra non debba mai arrivare alla sua fine, che ci trascina, ci annega, ci seppellisce tra gli eventi; questo morire come pagine bruciate – non ne dimenticare, non ne strappare, perché è storia anche il dolore, è la nostra storia anche questo dolore che non ci lascia riposare; questo legame dolceamaro – Riza un’ultima volta, mentre appoggia la fronte accanto al suo orecchio, sul materasso duro.

Riza che sorride contro la pelle della sua spalla, perché ancora una volta ama - inevitabilmente, dolcemente - più di quanto odia.

Questo penso sia il capitolo che spiega meglio le mie elucubrazioni sul loro rapporto.

Ed è anche il momento in cui entrambi arrivano alle mie stesse conclusioni – o almeno spero: con Roy e Riza non si può mai dire…

Credo che il loro amore (se mi concedete il termine per chiamare questa strana “cosa” che ci appassiona tutte) sia sostanzialmente un insieme di sentimenti ed esperienza contraddittorie di cui entrambi non sanno venire a capo (almeno a questo punto della loro storia).

Un sentimento che include sensi di colpa, attribuzioni di responsabilità, dipendenza involontaria, proiezioni di speranze e sogni. Qualcosa che nasce nel dolore – di una scelta reputata sbagliata e dalle conseguenze catastrofiche - , che cresce nel dolore - una guerra - e che è destinato a rimanerci (non per fare l’uccello del malaugurio, ma nella migliore delle ipotesi, anche se Roy diventasse Furer, lui stesso non si sottrarrebbe al giudizio e alla punizione che gli spetta per ciò che ha fatto a Ishvar...). Qualcosa che proprio da questa sua contraddittorietà e impossibilità di fondo trae la sua bellezza.

Qualcosa che, per quanto potente e irrimediabile come solo un sentimento del genere può essere, prima o poi dovrà fare i conti con questo contesto non proprio roseo…

E anche per oggi, ho elargito la mia dose quotidiana di disfattismo. :P

No, dai, in fondo il capitolo lasciava un qualche margine di speranza... e anche i prossimi non saranno da meno (la tempesta è già finita? Mmm… solo rimandata).

Ah, dimenticavo: ecco al traduzione della canzone-citazione dell’altra volta (scusa elyxys, mi dimentico sempre di aggiungerla… ^^”):

“Guarda questo paese attraverso gli occhi della sua gente
Guarda le lacrime che scorrono come fiumi dal cielo
Dove ti sembra che ci siano colo rovine
Dove gli altri si girano sospirando
Ti rialzerai
C’è disastro nel tuo passato
Confini nel tuo sentiero
Ciò che desideri ti spingerà più in alto?
Non hai bisogno di essere straordinario, solo perdonare
Quelli che non hanno mai udito il tuo grido
Ti rialzerai
E guarderai oltre i cieli
Dove gli altri cadono, tu prevarrai nel tempo
Ti rialzerai
Non potrai mai saperlo
Se rimani giù, al suolo
Ti rialzerai
Prima o tardi dovremo provare
Provare a vivere”

A presto, bacioni! ^^

Ritorna all'indice


Capitolo 34
*** A matter of need ***


“I don´t want to cheapen it saying it´s a matter of need,” Roy says just when his hand slips under her t-shirt.[…] Need is too brittle, too unspecified. Still he is aware he needs Hawkeye; like one needs the sunlight, you could physically go on living without it but that would not be life at all, and in the end the vitamin unbalance would kill you.

“After the rain”, Zau

A matter of need

Siedi davanti al fuoco, cercando di nascondere il più possibile il calzino che tenti di rammendare da almeno mezz’ora: mai stato tagliato per i lavori domestici, come qualsiasi essere vivente di sesso maschile, del resto. Il bozzolo di cotone grande quanto una castagna che hai appena creato sul sottile strato di tessuto che dovrebbe tenerti al caldo l’alluce, ne è la prova lampante.

Nemmeno il solito commento di Maes sembra tanto fuori luogo, per una volta.

“Hai davvero bisogno di una moglie…”

“Non è vero”

“Ok, allora diciamo che hai bisogno di Riza...”

“… tanto ormai che differenza c’è?” non lo dice ad alta voce, ma lo leggi da dietro i suoi occhiali scheggiati. Alzi appena un angolo della bocca, quel tanto che basta per fargli capire che stai al gioco, come sempre. E che ignori volutamente l’evidenza, come sempre.

“Perché, lei sa cucire?”

“Roy, questa è una domanda stupida…”

Ma mentre valuti l’opportunità di umiliarti definitivamente, e andarla a cercare per chiederle una mano, capisci che non basta così poco per far desistere uno come Maes.

“E comunque, non mi riferivo ai tuoi calzini bucati…”

“Lo so.”

L’ammissione sorprende anche te.

Maes ti guarda come immagini un padre orgoglioso guardi il figlio, il giorno delle sue nozze – appunto.

“Perché non glielo chiedi ufficialmente? Perché non glielo chiedi ora?”

Tralascia la parte più importante: perché non glielo chiedi prima che sia troppo tardi?

Il tuo silenzio lascia spazio alla sua insistenza.

“Avrebbe una ragione in più per sopravvivere…”

“E’ questo il punto.” sentenzi, mentre butti il brandello di stoffa bitorzoluto nel fuoco.

“Non voglio che sopravviva per me. Voglio che sopravviva per se stessa.”

Guardi le fiamme crepitare, il bagliore intensificarsi appena, la sfumatura aranciata sul viso di Maes disegnargli una strana espressione sul viso.

Distogli lo sguardo.

Perché sai che quegli occhi colmi di un affetto che non sai se meritare, stanno tentando di convincerti che la tua felicità - vederla realizzarsi, farne parte - è una ragione più che valida per cui tenere duro.

Non voglio semplificare le cose dicendo che è solo una questione di bisogno, mormora Roy, proprio mentre la sua mano scivola sotto la sua maglia.

Bisogno è troppo fragile come termine, troppo indefinito. Tuttavia è cosciente di avere bisogno di Hawkeye; come un essere umano ha bisogno della luce del sole: potresti fisicamente continuare a vivere anche senza di essa, ma non potresti chiamarla vita. E alla fine, lo squilibrio vitaminico ti ucciderebbe.”

Questo brano, tratto da “After the Rain”, di Zauberer Sirin (la fic in inglese che ho postato sul forum) è uno dei miei preferiti.

A essere sinceri, lo stile di questa autrice (Rinuncio a mettere il maschile, anche se non so effettivamente se sia maschio o femmina… mah!) mi ha influenzato molto, non solo nel modo di scrivere, ma anche nella scelta dei temi e nell’angolatura del punto di vista da cui guardarli e descriverli. E’ anche merito suo se sono riuscita a staccarmi dal buonismo che caratterizzava le mie fic precedenti e ad affrontare la crudezza di questa raccolta…

Comunque, questo brano, dicevo, è uno di quelli che secondo me sintetizza maggiormente l’essenza – o una delle mille essenze - del rapporto tra Roy e Riza.

Il titolo è appunto una citazione da esso, ma per il capitolo l’ho usato solo come punto di partenza per svolgere una mia riflessione.

Questi ultimi capitoli (e il prossimo) sono quelli in cui il loro rapporto arriva all’apice - di tutto, dell’accettazione, della “serenità”, della consapevolezza – prima della fine della guerra.

Sono i momenti in cui entrambi sentono il bisogno di dare una definizione al legame lasciato volutamente senza nome fino ad adesso, che si è instaurato tra loro.

Senza però riuscire a mettere da parte del tutto la paura di poter dare più danno che beneficio l’un l’altro. Così Roy segna per se stesso la linea da non superare, il margine entro cui muoversi: in fin dei conti, questo legame fa paura, perché fino ad ora non ha portato granchè di buono al mondo - un alchimista-assassino e una ragazza dall’infanzia segnata, privata della sua adolescenza: non è poco.

Uscire in qualche modo indenni – fisicamente ma soprattutto psicologicamente – da questa guerra, vuol dire aver trovato la forza o la motivazione necessaria per resistere. E nonostante questo amore - oro magari possono ostinarsi a non chiamarlo così, ma io essendo l’autrice so bene di che si tratta, e lo chiamo con il suo vero nome: Amore, con la maiuscola – sia qualcosa di estremamente profondo e sincero e meraviglioso per entrambi, qualcosa che può dare a entrambi la felicità che non hanno ancora assaggiato, Roy per primo non si fida ad usarlo come ancora, come fondamenta del loro futuro. Non per impegno-fobia o altro, ma perché qualcosa nato in un contesto così particolare ha poche possibilità di sopravvivere – almeno con la stessa intensità – nella vita di tutti i giorni.

E Roy, come sempre, come solo lui sa essere e pensare, ha paura del dolore che questa rivelazione possa dare a se stesso, ma non si preoccupa per se stesso, ma per lei.

Di se stesso, come sappiamo, non gli importa un fico secco. E Maes… beh, a Maes importa eccome dell’amico, e tanto. E forse è proprio questo che Roy non potrà perdonargli, quando davanti ad una tombe, in una giornata serena… beh, lo sapete, no? Non fatemelo dire, che mi vengono i lacrimoni…

Bene, ormai siamo verso la fine – e vi e lo dico subito: preparatevi, perché in qualche modo mi sono dovuta ricollegare alla storia reale, per cui, visto che i nostri due tesori non sono sposati, ne fidanzati, ne danno l’impressione di stare insieme, non sarà esattamente un lieto fine…

Zut, io non ho detto niente, non ho detto niente… ;P

Bacione a tutte, e grazie per le recensioni: siete sempre troppo gentili… ^////^

A prestissimo!

Ritorna all'indice


Capitolo 35
*** Taboo ***


"Ishvar is where I met you," Roy replies, very serious, more than usual. "Ishvar is where I first began to love you. I will never want to lose that name."

Zauberer sirin

Taboo

La sabbia è ancora calda sotto la sua mano, nonostante l’aria della sera si insinui già a tradimento tra le asole e i bottoni della divisa slacciata.

Confida nella stanchezza dell’intero plotone: nessuno verrà a cercarli nel mezzo del deserto, riparati da una roccia che spunta in mezzo al nulla come la vela di una barchetta nell’oceano.

L’ombra del loro unico punto di riferimento si è già spostata di qualche centimetro – un modo rimisurare il tempo arcaico, misterioso, senza il ticchettio dei secondi a scandirlo, libero di fluttuare tra i miraggi e le visioni del deserto, di stiracchiarsi al sole e abbeverarsi alle fonti sotterranee, viaggiatore esausto e senza meta.

Non ha sonno eppure si raggomitola ancora un po’ contro il petto di Roy, chiudendo gli occhi e baciando il sottile lembo di pelle nuda tra la clavicola e il collo.

Lo sente ridere sommessamente, la bocca affondata tra i suoi capelli biondi, la sua mano sfacciata che le scivola lungo un fianco.

“Riza” la chiama delicatamente, visto che la sua mossa non sembra aver provocato alcuna reazione.

“Mhn?”

Si scoglie dall’abbraccio caldo in cui si è lasciato pigramente intrappolare, indicandole un punto indefinito sulla sabbia.

Davanti ai suoi occhi interrogativi, traccia segni leggeri con l’indice, lentamente, meticolosamente, come se stesse disegnando un cerchio alchemico particolarmente complicato.

Man mano che la punta del suo dito interrompe l’esasperante vuoto di quella piccola porzione di deserto, lei si rende conto che quei segni non sono altro che lettere, due parole che prendono forma, concatenate tra loro, una frase semplice –complemento e verbo – ma così complicata da pronunciare, così pericolosa se sentita da altri, così tremendamente sincera e innocente e infantile e sua, solo sua, da lasciarle gli occhi umidi per un singolo, breve momento, aggrovigliarle qualcosa nello stomaco, agitarle il sangue nelle vene.

Accetta il sorriso di lui che si deposita sul suo, in un bacio prima incerto, poi sicuro, mentre accoglie le sue labbra – le stesse che non hanno osato pronunciare quelle parole ad alta voce, che ora le sussurrano lo stesso messaggio, glielo lasciano assaggiare, assaporare senza fretta – nella morsa gentile della sua bocca.

Non c’è alcun bisogno di dire, nessun motivo di parlare, nessuna ragione per cercare di tradurre ciò che è intraducibile, impronunciabile per natura, storpiare il suono e il significato di quel verso.

Il deserto lo custodirà: il deserto immutabile, la sabbia che non vedrà mai le onde del mare, la quiete austera di un tempio inviolabile.

Il deserto con la sua lingua così simile a quella dell’amore, fatta di silenzi e tempeste improvvise e luce accecante e distanze infinite in cui perdersi senza possibilità di ritorno.

“Ishvar è dove ti ho conosciuta” replica Roy, molto serio, più del solito.
“Ishvar è dove ho iniziato ad amarti. Non potrei mai voler dimenticare quel nome.”

Ok, questo è IL brano, quello che ha fatto da scintilla per questa raccolta.

E questo è IL capitolo, non il primo che ho scritto ma di sicuro quella nebulosa di pensieri che mi si è formata in testa ancora prima che quelle quattro idee confuse diventassero un progetto chiamato SABBIA.

Questa è LA dichiarazione, anche se di detto non c’è nulla – solo il nome di lei: non so perchè ma quando immagino Roy pronunciarlo, è il suono più musicale e dolce che esista.

Ma questo NON è il finale - purtroppo o per fortuna? – anche se vorrei che la parola fine cristallizzasse così la loro storia.

Ma c’è un manga che prosegue, c’è l’Arakawa che continua a dipanare le vicende di tanti altri personaggi, forse senza sapere, nemmeno lei, come andrà davvero a finire…

Penso non ci sia molto da aggiungere: come è stato un capitolo senza parole, anche il commento si ritira verso il silenzio per non rovinare l’atmosfera.

Solo un’altra cosa: ieri mi sono riletta “After the Rain” per cercare la citazione – pianti, commozione, un senso di impotenza davanti a tanta bravura (sigh). Già che ero in vena, mi è capitata tra le mani anche “A commentary on the theory of the blue goddess” – pianti, commozione e replica del repertorio.

Insomma, quest’estate mi porterò dietro un dizionario di inglese e mi metterò all’opera: in effetti sono fic che non possono rimanere non lette, pazienza se la traduzione non farà loro onore…

Pensavo di metterle sia sul mio blog sia sul forum da settembre in poi, un po’ per volta.

In attesa che mi venga qualche altra idea Royai. Sì, perché ormai mi sono resa conto che senza la mia fanfic quotidiana non so stare. Dottore dottore, sarà grave?;P

Bacione a tutte

Ritorna all'indice


Capitolo 36
*** Prelude to the last battle ***


Prelude to the last battle

Infilarti i guanti all’alba, appena sveglio è diventato un gesto automatico – il fruscio della seta, che trattiene tra le sue fibre ancora un lieve sentore del freddo notturno, il tocco del tessuto ormai liso e ruvido all’altezza dei polpastrelli, l’impronta dei calli che hai su indice e pollice – la preghiera mattutina, il gesto scaramantico.

Allacci i bottoni della giacca, uno ad uno, meticolosamente. Poi gli stivali, il pastrano color della sabbia, color del nulla, per essere tutt’uno con il nulla: lentamente, per ritardare il più possibile qualunque cosa ti aspetti oltre la soglia.

Il riverbero del sole già alto ti colpisce con uno schiaffo bollente: barcolli, un braccio davanti agli occhi, momentaneamente accecato.

Scorgi il plotone sentinella di ritorno dalla sua ronda notturna – la nuvola di polvere che si alza sotto poche decine di piedi che si trascinano stanchi, la scia di sabbia dietro di essa che sfuma nell’aria tremolante, come un miraggio.

Maes ha gli occhi quasi chiusi, mentre solleva stancamente un braccio.

“Tocca a te. Dai, ormai è fatta: mancano solo il settore nord e il distretto di Nahjaf…”

Gli sorridi, perché nella sua voce, tra le consonanti biascicate per la stanchezza e il sonno, senti una nota nuova di impazienza, di pregustato sollievo.

Glacier. Il ritorno.

“Vattene a dormire, Maes. Non sarò certo io a portarti in braccio, se mi crolli davanti alla porta.”

Ti lascia con una risata – oggi è in vena, è sempre in vena: è Maes – dondolando la pistola sopra la testa, come il fazzoletto di una donna nel momento degli addii.

Il tuo plotone è già schierato alle porte dell’accampamento, in attesa di ordini.

Stevenson ti passa un fiaschetta dall’odore inequivocabile.

“E’ meglio del caffè, per svegliarsi.” è la sua unica giustificazione.

Accetti il cordiale, sollevando gli angoli della bocca in quello che in tempi migliori avresti definito un sorriso.

“Coraggio: ormai è fatta…” sente il dovere di dirti un altro soldato di cui non ricordi il nome.

Rimani in silenzio, ma trangugi il rimanente del liquore in un unico sorso: come risposta è più che sufficiente.

Mentre guidi gli uomini schierati, sul sentiero per il campo di battaglia, un bagliore improvviso cattura il tuo sguardo, dall’alto di una cresta rocciosa.

Sospiri sollevato: il suo saluto è l’unico gesto di incoraggiamento che riesca davvero a portare a termine il suo compito.

Eccomi! Oddio, devo andare a razzo sennò non riesco a finire entro Luglio…

A proposito, il numero totali di capitoli è stato costantemente in evoluzione (tanto per fare un esempio, questo capitolo l’ho scritto stamattina… ^^”) ma penso che abbia finalmente raggiunto un numero definitivo che è 42 più un epilogo (scusa Shatzy… ma a 50 proprio non sono riuscita ad arrivare…La depressione mi avrebbe ucciso prima! ;P).

Sul capitolo scorso non ho nient’altro da dire, penso abbiate già detto voi tutto quello che c’era da dire… e sul finale della storia non disperate (non troppo): un minimo margine di speranza rimarrà, promesso (sennò altro che depressione post-Ishvar: catalessi!).

Un bacione, a domani!

Ritorna all'indice


Capitolo 37
*** Under my skin ***


Under my skin

Sente bruciare il fuoco dentro. Lo sentirà sempre.

Nel momento esatto in cui schiocca le dita, comprende che porta sulle spalle la sua maledizione fin dal suo primo passo in casa Hawkeye, che l’ha sempre avuta con sé.

Un tarlo sottopelle, un dolore bruciante nelle vene, come sei il sangue fosse diventato bollente – il suo marchio non è un tatuaggio: è se stesso, la vita che scorre dentro le sue vene, la cosa più meravigliosa e crudele e spaventosa che un Dio geniale e perverso potesse creare.

Mentre guarda ciò che prima era un uomo ritornare alla cenere, sa che l’acqua che sente premere sulle palpebre non basterà a spegnere l’incendio a cui lui stesso ha dato origine, le stesse fiamme che lo divorano giorno dopo giorno, secondo dopo secondo, mentre mangia, mentre dorme, mentre le accarezza il viso – mai più, mai più! Scie di fuoco sulla sua pelle, altri segni, altre cicatrici: sa che non può toccarla senza ucciderla ogni volta un po’ di più, finché anche di lei non resterà che un pugno di cenere tra le sue dita colpevoli… Mai più, mai più! – mentre si rende conto che la sua unica ragione di vita è anche ciò che più di ogni altra cosa gli causa dolore.

Io ti maledico.

Gli ultimi tizzoni si spengono, l’odore acre del grasso bruciato è trascinato via dal vento.

Dio si è voltato dall’altra parte.

Questi ultimi capitoli sono incentra ti prevalentemente su Roy perché la fine della guerra è secondo me il momento dove il suo equilibrio è seriamente compromesso. La uerra logora, fisicamente e psicologicamente; forse Roy non è stato il solo a toccare il fondo più volte, ma è quello che l’ha fatto in maniera più palese; a contrario di lui, Maes e Riza posseggono un facciata, posticcia o meno, più resistente, che lascia trapelare la disperazione solo quando arriva a un apice non più sopportabile né occultabile.

Roy da questo punto di vista può sembrare effettivamente il più debole. Anche se penso che ce l’avrebbe fatta anche da solo: in situazioni come queste, la consolazione e la forza si trova, basta solo decidere dove. Se non ci fossero stati Riza e Maes, magari il nostro colonnello non sarebbe il personaggio che conosciamo: sarebbe un uomo che si è ancorato a valori diversi dell’amore e dell’amicizia per rimanere a galla.

Questo capitolo è l’inizio della discesa: ho voluto che il punto di inversione fosse proprio la morte dell’ultimo ishvariano. Un po’ perché è il momento in cui Roy viene maledetto “formalmente”, un po’ perché è anche l’attimo in cui, in virtù di questa maledizione, di questa presa di coscienza, Roy comincia ad avere dei dubbi sul suo legame con Riza.

Il ragiona,mento di Riza sarà diverso – ovviamente - ma quello di Roy l’ho pensato molto del tipo “le sto facendo solo del male, perché sono un mostro. Lo so ma va bene così per ora, perché questo barlume di felicità è l’unica cosa a cui posso aggrapparmi”. Non so, mi sembrava molto da lui.

Il fatto di voler negare l’evidenza, almeno in un primo momento.

Riza me la sono immaginata più radicale, in questo senso, ma non tanto per la sua “freddezza” di fondo – meglio: di facciata. Non esiste personaggio più emotivo di lei – ma proprio perché nonostante le apparenze è più fragile ai colpi che la vita e la guerra gli riserva.

Vedremo.

Grazie come sempre per le recensioni e i commenti sempre molto belli – ormai ho la scatola di kleenex in pianta stabile vicino al pc.

Un bacione a tutte, a domani!

Ritorna all'indice


Capitolo 38
*** Rain that doesn't know the sky ***


“Cade la pioggia e tutto tace
lo vedi sento anch’io la pace
Cade la pioggia e questa pace
è solo acqua sporca e brace
c’è aria fredda intorno a noi
abbracciami se vuoi
E dimmi che serve restare
lontano in silenzio a guardare
la nostra passione non muore
ma cambia colore
tu fammi sperare

La mia pelle è carta bianca per il tuo racconto
scrivi tu la fine
io sono pronto
non voglio stare sulla soglia della nostra vita
guardare che è finita
nuvole che passano e scaricano pioggia come sassi
e ad ogni passo noi dimentichiamo i nostri passi
la strada che noi abbiamo fatto insieme
gettando sulla pietra il nostro seme
a ucciderci a ogni notte dopo rabbia
gocce di pioggia calde sulla sabbia
amore, amore mio
questa passione passata come fame ad un leone
dopo che ha divorato la sua preda ha abbandonato le ossa agli avvoltoi
tu non ricordi ma eravamo noi
noi due abbracciati fermi nella pioggia
mentre tutti correvano al riparo
e il nostro amore è polvere da sparo
il tuono è solo un battito di cuore
e il lampo illumina senza rumore
e la mia pelle è carta bianca per il tuo racconto
ma scrivi tu la fine
io sono pronto”

Negramaro/Jovanotti, “Cade la pioggia”

Rain that doesn’t know the sky

Il giorno in cui piovve sul deserto, le risate risuonavano nel campo, e persino i feriti abbozzavano sorrisi tirati tra le bende e il torpore dei medicinali scadenti.

Il giorno in cui piovve sul deserto, vennero sparati in aria tutti i colpi rimasti, tutte le munizioni, ogni singolo proiettile, fino all’ultima granata.

Il giorno in cui piovve sul deserto la parola “fine” vagava ovunque, a fior di labbra, come una brezza nuova e fresca, intrecciandosi con “casa” e “ritorno” – dolci e tiepidi venti, carezze che sfioravano i visi, portate da luoghi lontani eppure finalmente così vicini, così raggiungibili.

Il giorno in cui piovve sul deserto, Maes abbassò il capo mentre puliva gli occhiali scheggiati. Glacier non si era ancora stancata di sorridere, materna, dalla foto che teneva in grembo.

Il giorno in cui piovve sul deserto Riza si rese conto di non aver mai visto così tanta acqua.

Ed era quasi bello esserne travolta, inondata così, mentre teneva stretto il suo capo contro il petto, le dita tra i suoi capelli neri, e ancora acqua nelle sue mani, acqua che inzuppava la sua divisa, acqua che scivolava sulla pelle lasciando tracce vive come crepe sulla polvere.

Il giorno in cui piovve sul deserto, ascoltò in silenzio ogni suo singhiozzo, lasciò che il sapore salato di quelle gocce le rimanesse sulle labbra ad ogni singolo bacio, si ripromise di non dimenticare la disperazione liberatoria con cui le braccia di lui la stringevano in quell’abbraccio, togliendole quasi il respiro.

Il giorno in cui piovve sul deserto, non c’era una nuvola nell’aria, e mentre guardava il sottile drappo di cielo ritagliato dai bordi sfilacciati della tenda sopra di loro, Riza scoprì di aver dimenticato l’esistenza di un azzurro così vivo, così vuoto, così assurdamente sereno.

Il giorno in cui piovve sul deserto nessuno se ne accorse. Tranne lei.

Altro capitolo su cui ho puntato molto.

Il titolo l’ho preso da un’altra raccolta Royai (che ovviamente non ricordo… forse erano i 30 themes? Boh…), ma mi è piaciuto cos’ tanto che ho deciso di usarlo. Testualmente, tradotto è “Pioggia che non conosce il cielo”: come poteva essere più adatto di così???

Mi sono immaginata la fine della guerra in tanti modi diversi, anche perché penso proprio che ogni soldato abbia vissuto questo momento diversamente. E così anche i nostri tre.

Mi rendo conto che Riza sembra essere rimasta in secondo piano, ma avrà modo di rifarsi (e capirete più avanti il perché del “purtroppo” che aggiungerei a questa frase).

La canzone dei Negramaro… vale lo stesso discorso del titolo: sembra sia stata scritta apposta per loro (e questo prescindere del fatto che adoro i Negramaro dal profondo dell’anima).

A domani allora, un bacione!

Ritorna all'indice


Capitolo 39
*** Thankyou ***


Thankyou

Cerca la sua immagine nel bicchiere colmo che gli hanno quasi incastrato tra le dita a forza.

Chiede scusa con gli occhi al manipolo di uomini che le guardano festanti, le loro risate così forti e serene e traboccanti di una gioia che ricorda di aver provato pochissime volte, negli ultimi mesi – ed è abbastanza sicuro che ciascuna di esse abbia riguardato lei.

Ma per quanto si sforzi non riesce a farsi crescere dentro quella stessa gioia, adesso, in quel luogo preciso, seduto su una pietra su cui il sangue non ha ancora finito si seccarsi.

“Non ricordo gran parte dei nomi di coloro che hanno combattuto al mio fianco… non ricordo nemmeno i nomi dei caduti, per non parlare degli Ishvariani che io stesso ho ucciso…”

Il soldato che per primo gli ha rivolto la parola ha uno sguardo maturo mentre gli sorride – nei suoi occhi qualcosa di familiare, qualcosa di già visto, di triste, disilluso ma ancora vivo, in fondo: una piccola luce che bisbiglia “C’è ancora speranza”.

“Anche se vuoi stavate soffrendo, non siete mai scappato.”

“Con le vostre fiamme avete sempre dominato la battaglia, non permettendoci di morire invano.”

“Per il semplice fatto che voi, il Flame Alchemist, eravate lì, noi non siamo morti. Ai nostri occhi voi siete un eroe.”

“Non fate quella faccia!”

Le risate scoppiano di nuovo – momenti in cui ogni pretesto è buono per far scoppiare bolle d’aria e di rumore, buttare la voce fuori dai denti, avere una scusa per quelle lacrime in punta di ciglia.

“Grazie a voi, tutti questi soldati sono sopravvissuti. Grazie, maggiore.”

La scarsa decina di uomini davanti a sé scattano sull’attenti. E’ un gesto diverso dalla ripetizione meccanica di una sequenza di movimenti – mano, tempia, tacco, tacco, mano: rispetto.

Alza il braccio lentamente, con intenzione.

“Grazie a voi. Per essere sopravvissuti.”

Grazie, continua a ripetere dentro di sé.

Grazie grazie grazie, al cielo, al Fato, al Dio inesistente e traditore di quella terra, all’unica fortuna che gli sia rimasta, graziegraziegrazie, il suo mantra, la filastrocca che dà ritmo la suo passo veloce, mentre raggiunge la tenda di lei.

Grazie, grazie perché tu sei sopravvissuta, almeno tu, solo tu, reduce del mio errore, della mia esistenza.

Grazie, ripete un’ultima volta, mentre una parte di sé sa già che quella fortuna è stata solo un caso, un’incidentale coincidenza, che potrebbe non ripetersi.

Questo pensa, scostando il lembo della sua tenda delicatamente; ma sa, sa ancora prima di vederlo con i suoi occhi – come se un breve attimo di speranza possa cancellare la certezza di una disfatta: sa che la troverà vuota.

Ta-daaan! Eh, siamo proprio in dirittura d’arrivo…

Oddio, comincia a salirmi la malinconia… ç_____ç

Volevo fare un capitolo sulla conversazione tra Roy e i suoi uomini: mi sembra uno dei momenti più belli e significativi della guerra di Ishvar: in esso la piena definizione di Roy come eroe di guerra. Non per i tanti nemici annientati o le numerose battaglie da cui è uscito vincitore, ma per il semplice fatto di aver reso possibile il ritorno a casa della maggior parte dei soldati che gli erano stati affidati. E’ un po’ anche il momento in cui Roy comprende appieno il significato del comando: non è solo dare ordini ed ostentare una superiorità di sorta, ma avere una vera e propria responsabilità verso i propri subordinati (non vi ricorda qualcosa? ^^).

Insomma, se stessi qua ad elencare tutti i momenti topici di FMA non mi basterebbe l’intera giornata! ^^

Ah, quasi dimenticavo: la canzone dei negramaro (ma tutte le canzoni che vengono usate, anche per delle song fic) non è mia, ma (appunto) dei negramaro. Non sta scritto da nessuna parte che perché l’ho citata io o un altro autore/autrice non possa farlo nessun altro, su questo genere di cose non c’è l’esclusiva. Per cui non dovete chiedermi il permesso, non si tratta di plagio o chissà che altro.

E poi è bello se da uno stesso spunto vengono fuori diversi lavori: vuol dire che la canzone o la citazione ha ispirato molti e che si addiceva particolarmente all’argomento (sentito Negramaro? Avete ispirato tante fan Royai: siatene fieri!!! ;P).

Un bacione a tutte, e grazie come sempre per le recensioni.

A domani!

Ritorna all'indice


Capitolo 40
*** The act of walking on a rope ***


“I dream of rain
I dream of gardens in the desert sand
I wake in vain
I dream of love as time runs through my hand

I dream of fire
Those dreams that tie two hearts that will never die
And near the flames
The shadows play in the shape of the mans desire

This desert rose
Whose shadow bears the secret promise
This desert flower
No sweet perfume that would torture you more than this”
Sting, “Desert Rose” (Prima parte)

The act of walking on a rope

Il terreno non è mai stato così morbido, friabile sotto le tue mani: non senti i granelli di sabbia sotto le unghie, sfregare sulla carne viva, arrossata da tanto scavare.

Ricopri lentamente la buca non più vuota davanti a te.

Pianti il pezzo di legno bruciacchiato sulla cima della piccola altura da te creata.

E il terreno di quella terra arida non è mai stato così dannatamente morbido: ti sembra di piantare una lancia nel petto di un bambino - distogli lo sguardo, posandolo sulla prima pietra che trovi per terra: perché è un bambino ciò che hai seppellito, è il bambino, quello che hai ucciso, giorno dopo giorno, lo stesso, davanti al tuo mirino, alla canna spietata del tuo fucile.

Non sai nessuna preghiera adatta al momento, o forse l’hai solo dimenticata, come quel fantomatico Essere Superiore sembra essersi dimenticato di te, di quella terra, di quel piccolo corpo sepolto sotto trenta centimetri di terra e sabbia.

Ti chiedi come hai fatto a resistere fino alla fine.

Ti chiedi cosa dentro di te ti abbia dato la forza di restare a galla, nel mare di sangue che hai contribuito a trasformare in un oceano, quale sia stata la boa capace di non lasciar sprofondare il tuo cuore pesante come pietra dura, insensibile, inerte.

Qualcosa che pensavi di aver perso da qualche parte nella sabbia.

Ma poi è arrivato lui.

Quello stesso cuore lo hai sentito battere nel petto – flebilmente, sono ancora qui, agonizzante ma vivo: sono ancora qui – così tanto tempo prima da sembrare un ricordo da foto ingiallita, un disco rotto che ogni tanto perde il ritmo e la tonalità.

E’ arrivato lui, come una di quelle tempeste di sabbia che sconvolge l’orizzonte, ribalta il cielo e la terra, confonde i sensi e lascia storditi in un mondo stravolto.

Il sottile gioco di contrappesi che ti ha mantenuto in equilibrio – un equilibrio precario ma tuo, così faticosamente trovato – compromesso irreparabilmente: e cadi, sbilanciata, cadi dal filo tagliente della tua ancora breve vita da funambola, consapevole di non avere sotto di te alcuna rete.

Ora la bilancia pende da una parte – dalla sua – pericolosamente instabile, su un miscuglio indistinto di Bene e Male, di cielo e terra e sangue.

Decentrata, compi le tue evoluzioni attorno ad un nuovo fuoco, la tua orbita deformata, instabile, cambia l’inclinazione del sole, la temperatura del deserto, i colori attorno a te, le tue prospettive.

Sai bene cos’è, questo sentimento che è riuscito a mettere in secondo piano il mondo circostante, la crudeltà di una guerra: sai bene cosa ti ha distratto – cosa ti ha salvato - dalla realtà.

Ma toccare quell’argilla cedevole, la fragilità, l’inconsistenza di quella piccola porzione di mondo tra le tue dita sporche – la tua mano sulla terra, la tua mano in una carezza per quel piccolo corpo, attraverso la morbida terra - è bastata a farti ricordare, tutto d’un tratto, cosa stavi dimenticando, cosa stavi cercando di negare.

Sfreghi le mani tra loro, cerchi la tua borraccia – lava via da me tutto questo, lo sporco, il sangue, quello che ho fatto – per rovesciarne il contenuto sulla tua pelle.

Non andrà mai via, pensi – sai che non andrà mai via - questa sfumatura rossa, questo peccato, questa colpa.

Non andrà mai via, perché sei stata parte, tuo malgrado, di tutto questo, parte della Storia, trascinandovi dentro anche lui – lo steso colore sgarbato sulle vostre mani, il marchio che hai sulla schiena riprodotto sui suoi guanti: Destino - nel momento in cui hai sollevato la maglia leggera scoprendo le vertebre una ad una ai suoi occhi spalancati: la fine del mondo.

Non esiste pioggia che possa cancellare tutto ciò.

Ma mentre avverti i suoi passi dietro di te, la consapevolezza di poter comunque fare qualcosa è ormai una certezza: una decisione che hai già preso.

“Ho sognato la pioggia
Ho sognato giardini tra la sabbia del deserto
Mi svegliai invano
Ho sognato l’amore mentre il tempo fuggiva tra le mie mani

Ho sognato il fuoco
Di quei sogni che legano due cuori che non moriranno mai
E vicino alle fiamme
Le ombre giocavano con la forma dei desideri umani

Questa rosa del deserto
La cui ombra porta la promessa segreta
Questo fiore del deserto:
non c’è dolce profumo che torturi di più.”

Dov’era Riza? Proprio qui (purtroppo).

Qui, a rendersi conto che non può scappare dalla realtà rifugiandosi nella felicità che può darle l’amore, qui a sentirsi in colpa per essersi coperta gli occhi con questo sentimento per tutto questo tempo, di aver indorato la pillola.

Non ho mai capito pienamente il motivo della decisione di Riza – o meglio: il perché avesse preso quella decisione proprio in quel momento preciso – per cui questa è una visione del tutto personale (solo l’Arakawa potrà illuminarci… se vorrà mai farlo).

Ho pensato che fosse in qualche modo un improvviso ritorno alla realtà di Riza in seguito alla prospettiva di ritornare alla vita ordinaria – che solo dio sa quanto faccia paura a dei soldati provati come loro…

E’ uno dei pochi capitoli in cui ho provato a dare voce diretta ai pensieri di Riza – e sapete quanto la cosa mi risulti difficile… - ma in questo caso era un scelta forzata: il fatto di toccare con mano il risultato delle sue azioni e delle sue scelte anche passate, deve aver instaurato un meccanismo di squilibrio in lei, quasi si sia chiesta se quei momenti un po' più rosei passati con Roy, siano stati solo un miraggio, qualcosa che ha distolto la sua attenzione da ciò che stava succedendo - da ciò che lei stessa stava facendo.

Spero sia venuto bene.

A domani (come sempre).

Bacione

Ritorna all'indice


Capitolo 41
*** The act of falling down ***


“And now she turns
This way she moves in the logic of all my dreams
This fire burns
I realize that nothing’s as it seems

I dream of rain
I lift my gaze to empty skies above
I close my eyes
The rare perfume is the sweet intoxication of love

Sweet desert rose
Whose shadow bears the secret promise
This desert flower
No sweet perfume that would torture you more than this

Sweet desert rose
This memory of hidden hearts and souls
This desert flower
This rare perfume is the sweet intoxication of love”

Sting, “Desert Rose” (seconda parte)

The act of falling down

La trova dove si aspettava di trovarla.

“Un compagno d’armi?”

“No… un bambino di Ishvar: lo hanno lasciato ai bordi del sentiero.”

Ricorda bene le sue lacrime: ricorda di non averla mai vista crollare, quasi mai durante tutta la guerra. Tranne una volta: davanti alla foto di una bambina, sporca del sangue dei genitori appena uccisi.

“E’ finita, Riza.”

Lo ripete varie volte, perchè se ne renda conto gradualmente, perché possa come lui assaporare appieno il significato reale di quella parola così apparentemente insignificante.

Lei non risponde subito. Lascia che l’eco di quella frase si dissolva del tutto nel vento che si impiglia nei suoi capelli e negli stendardi ancora appesi ai pennoni della festa.

La sente fare un respiro profondo, senza sollevare il capo, le mani che ancora artigliano il suolo e affondano nella terra.

“Negare, scontare la pena o chiedere perdono in ginocchio è l’arroganza di coloro che hanno ucciso con le proprie mani”

“Voglio che lei bruci la mia schiena.”

Il ritorno al Lei gli toglie il respiro, più della dolorosa assurdità della richiesta in sé: gli dice inconfutabilmente che qualcosa è cambiato.

“Dammi del tu…” sussurra impercettibilmente, disperatamente, a se stesso. Ma ciò che la sua voce riesce ad esprimere è solo qualche suono confuso, nella tenue e sciocca speranza di aver capito male.

“Se non posso estinguere il mio debito, che almeno non sia io a dar vita ad un nuovo Flame Alchemist…”

Non ha tempo per sentire il dolore: le sue parole sono raffiche di vento, sferzate taglienti, tempeste di sabbia senza possibilità di riparo.

“Che almeno i segreti della mia schiena non vengano usati di nuovo…”

Sabbia nella bocca, tra i denti, nei pensieri, dannata sabbia tutt’intorno e dentro di lui, - il cuore sepolto in mezzo a quell’oceano di sabbia, lo sente battere flebilmente, i colpi di un terremotato rimasto intrappolato sotto le macerie - sabbia tra le sue mani come carta vetrata.

“E affinché io possa lasciarmi alle spalle ciò che mi lega a mio padre, e all’alchimia…”

Sabbia che lo ricopre interamente, oscura la luce del sole, gli impedisce di urlare la fine di quella frase: Ciò che ti lega a me!

Quando riprende a respirare, il colore rosso del tramonto non lascia spazio ad altre interpretazioni.

Non l’ha mai vista implorare nessuno così: con le mani che tremano artigliando la sabbia umida e smossa, con gli occhi serrati, con il labbro tra i denti, con tutta se stessa – sente una voce, la sua, pregare, l’eco tra le sue costole: Svegliami, svegliami da questo sogno, svegliami da questo sogno talmente bello da non essere reale, da non essere mio; è il sogno di qualcun altro, un sogno nel sogno talmente bello da avermi fatto dimenticare che è solo un sogno nell’incubo. Svegliami bruscamente, con uno schiaffo, con un pugno, fammi male, fammi sentire quel dolore che la tua vicinanza ha addolcito, per tutti questi mesi.

Appoggia la fronte alla sua nuca, un secondo prima della sua mano guantata. Sulla pelle già bollente, una goccia fredda ricalca il profilo dei ogni sua vertebra.

Due giorni dopo, mentre la guarda salire a fatica sul convoglio di reclute diretto all’accademia – lei che guarda fissa davanti a sé, non si volta indietro, neanche una volta, una dannatissima volta, lo lascia morire, agonizzare davanti alla camionetta arrugginita, a pregare per un ultimo sorriso rassicurante, un ultimo sguardo, un’ultima testimonianza di ciò che è stato… perché è stato, vero Riza? Non è stato un sogno… io ero lì, tu eri lì, eravamo noi, non è così? Dimmi che è così! - per la prima volta si rende conto di non sapere se essere vivo sia stato un bene.

E un strana verità si insinua nella sua mente, un pensiero non voluto, patetico, amaro e crudele:

quella non è più Riza. E’un’altra persona. Ha lasciato dietro di sé la sua pelle vuota da serpente, la sua cenere di fenice risorta a nuova vita – una vita senza di lui, una vita senza dolore, o almeno così le augura.

Riza, non sa chi sia. Riza è rimasta sepolta, dispersa nel mare di sabbia, con quelle parole scritte in punta di dita, con le notti selvagge e i crepuscoli di tenerezza anacronistica, tra i bossoli e i mazzi di fiori, con tutto il detto e il non detto.

E’ stato lui a bruciarla, ad ucciderla. Anche se sapeva che le sarebbe mancata.

Per questo non dice addio a quella persona, mentre il convoglio affollato di reclute la porta via.

Perché glielo ha già detto due giorni fa.

Appena prima di appoggiare la mano sulla sua schiena e schioccare le dita.

“Ed ora lei si volta
Il modo in cui si muove nella logica di tutti i miei sogni
Le fiamme bruciano
E comprendo che nulla è come sembra

Ho sognato la pioggia
Alzo lo sguardo verso i cieli vuoti sopra di me
Chiudo gli occhi
Questo profumo raro e la dolce intossicazione dell’amore

Dolce rosa del deserto
La cui ombra nasconde la segreta promessa
Questo fiore del deserto:
non esiste profumo che mi torturi più di questo

Dolce rosa del deserto
Questa memoria di anime e cuori nascosti
Questo fiore del deserto
Questo raro profumo è a dolce intossicazione dell’amore.”

Non voletemene: nemmeno io sapevo come sarebbe andata a finire finché non ho visto con i miei occhi la piega che prendeva la storia. E ve lo dico sinceramente: non poteva che essere così, il finale zuccherosi e alla “vissero tutti felici e contenti” sono da fumetto e FMA NON è un (semplice) fumetto: altrimenti Maes Hughes sarebbe ancora vivo, tanto per fare un esempio… (ç______ç)

Ah, un chiarimento per Elyxys : non penso che Riza avesse intenzione di “lasciare” Roy (penso che nemmeno loro sarebbero in grado di dire se stessero veramente “insieme” a domanda) e nemmeno di recidere quel legame catalogandolo come qualcosa che ha a che fare con la guerra e per questa ragione da eliminare come tutte le cose spiacevoli. Penso piuttosto che, avendo toccato con mano il risultato di una sua scelta (Riza mi da molto l’idea di incolpare se stessa, e NON Roy – non più – per avergli rivelato i segreti del padre) si sia preclusa ogni possibilità di ripetere l’errore (che, ripeto, non è stato dare quei segreti A ROY, ma farli conoscere e basta, a prescindere dal destinatario di quel sapere: avrebbe potuto essere un altro, potrebbe in futuro essere un altro e lei non può permettersi il lusso di rischiare ancora una catastrofe come quella).

Questa almeno è la mia interpretazione: il fatto che chieda a Roy stesso di compiere quell’atto secondo me è un ulteriore segno di profonda fiducia e affidamento; poi però, penso si sia sentita in colpa (e ti pareva) per averglielo chiesto, magari vedendo come LUI ha interpretato la cosa (cioè come una presa di distanza DA LUI).

mmm… che contorsione di pensieri, chiedo scusa.

Mancano ancora due capitoli (sigh?): tenete duro! ;P

A domani! bacione

Ritorna all'indice


Capitolo 42
*** I will not lose ***


“A thousand years, a thousand more,
A thousand times, a million doors to eternity.
I may have lived a thousand lives, a thousand times,
An endless turning stairway climbs to a tower of souls.
If it takes another thousand years, a thousand wars,
The tower rises to numberless floors in space.
I could shed another million of tears, a million breaths,
A million names but only one truth to face.

I could speak a million of lies, a million songs,
A million rights, a million wrongs in this balance of time.
But if there was a single truth, a single light,
A single thought, a singular touch of grace,
Then following this single point, this single flame,
This single haunted memory of your face…

I still love you.
I still want you.
A thousand times the mysteries unfold themselves
Like galaxies in my head.
I’ve kept this single faith, I have but one belief.

I still love you.
I still want you.
On and on the mysteries unwind themselves,
Eternities still unsaid
‘till you love me.”

Sting, “A thousand years”

I will not lose

Non conosce la persona che lo saluta, portando la mano alla tempia con uno scatto veloce.

Non riconosce quello sguardo severo e inespressivo, fisso su un punto ben preciso del muro, attento a non incrociarsi con i suoi occhi neri.

Non ha idea di chi sia quella ragazza dai capelli corti che muove appena un piede verso sinistra, quando le ordina il riposo.

Sa solo che …. anni sono passati, anni che sono sembrati secoli, secoli trasmutati in millenni senza fine, ad aspettare che quell’incontro avesse luogo.

Ma quella non è la persona che ha tanto atteso di ritrovarsi davanti.

Quella non è Riza.

Le somiglia, certo: gli stessi capelli biondi, gli stessi occhi color del miele, le stesse mani dalle dita sottili e pallide, lo stesso fare rigido e formale.

Ma mentre la sua ragione enuncia la soluzione di quel problema – Riza Hawkeye, la figlia del tuo maestro, la tua unica amica, l’amante di quei giorni selvaggi – una parte di sé urla, grida fino ad assordarlo che non è lei, non può essere lei, non sarà mai uguale a lei, lei con i suoi sorrisi discreti, le sue mani da pianista tra i tuoi capelli, lei che ti ha abbracciato e ti ha lasciato piangere sul suo grembo, lei che sussultava quando sfioravi con le labbra la sua nuca.

“Dopo quello che hai passato a Ishvar… alla fine hai scelto comunque questo cammino.”

“L’ho deciso da sola. Ho indossato di nuovo la divisa di mia spontanea volontà.”

C’è qualcosa di tagliente e freddo e terribilmente crudele in ciò che ha appena detto. Qualcosa che Roy non riesce ad afferrare, ma che gli gela il sangue nelle vene e il braccio a mezz’aria – la mano bloccata, congelata a metà strada, una carezza che muore nel suo palmo, si accartoccia su se stessa con un cigolio sinistro.

“Qual è il tuo campo di esperienza?”

“Armi da fuoco. Sono migliori delle armi bianche, perché non lasciano la sensazione di stare uccidendo una persona con le proprie mani.”

E’ lei, si arrende l’emisfero sinistro del suo cervello, è lei, è sempre lei. La ragazzina, la bambina che si auto inganna per non crollare, quella che si racconta da sola le fiabe che non ha mai ascoltato e si sforza di credervi, si aggrappa con tutte le sue forze ad una bugia, ad una menzogna creata dalle sue stesse mani.

“E’ una falsità.”

Mette tutto il suo rancore in quella parola. Vuole solo farle male, più di quanto non sia già riuscito a fare, ferirla come recidere il loro legame ha ferito se stesso, nel profondo, in un punto del petto che credeva ormai vuoto, avvizzito, bruciato da tempo.

“Così hai intenzione di continuare ad ingannare te stessa, e sporcarti le mani in questo modo?”

Il suo lo prende di sorpresa.

“Noi soldato dobbiamo essere gli unici a sporcarci le mani e a versare il nostro sangue.”

Il silenzio è innaturale nell’ufficio semivuoto, un silenzio simile a quello che li ha avvolti alla loro separazione, un silenzio a cui entrambi non si sono ancora abituati. E forse non vi riusciranno mai.

“Se il mondo procede con lo scambio equivalente, come dite voi alchimisti…”

La vede abbassare il capo, solo lievemente, ma i suoi occhi sono ora in ombra, nascosti dalla striscia scura che taglia l’aria davanti alla sua scrivania, che spezza la figura esile davanti a sé in due.

“Se così fosse davvero, per permettere alle nuove generazioni di non conoscere mai la crudeltà della guerra, noi dobbiamo pagare il costo di quella felicità, trasportando i nostri morti e camminando in un fiume di sangue.”

Solo allora lui la guarda. La osserva, scruta attraverso la sua persona, lascia da parte lo sguardo adorante da animale ferito, gli occhi neri fissi, non offuscati dal velo roseo che un sentimento antico aveva messo loro davanti – un velo perduto o forse solo ripiegato con cura, nascosto tra le costole, nella sinistra del suo petto.

Chiude gli occhi, ma la sua figura dritta rimane incisa dietro le sue palpebre serrate, filtra con prepotenza come il raggio di luce troppo forte che entra dalla finestra.

Scambio equivalente.

Non c’è nulla di equivalente nel trovare un soldato fedele e perdere Riza.

Gli scambi del mondo non sono mai stati equivalenti, e mai lo saranno. Questa è l’unica Verità che ha finalmente compreso.

“Penso che ti proporrò come mia assistente.”

Alzandosi, appoggia le mani al bordo di mogano della scrivania, come se la stanchezza, il dolore, l’amarezza di quella disillusione fossero ormai troppo pesanti da portare.

“Voglio che tu mi copra le spalle. Capisci cosa significa? Affidarti la mia vita vuol dire che potrai spararmi in qualunque momento.”

Non vuole che Ishvar si ripeta. Non vuole che lei ripeta lo stesso errore, la stessa indulgenza inopportuna, lo stessa pietà un’altra fatale volta.

Si assicura di avere i suoi occhi ambrati fissi nei suoi prima di continuare.

“Se esco dal sentiero, spara e uccidimi con le tue mani.”

Non vuole seconde possibilità, assaggi di qualcosa che non potrà mai avere, se il suo progetto non potrà essere raggiunto, se lui stesso tradirà l’obiettivo che si è prefissato.

“Mi seguirai?”

Non sente la sua risposta, non ne ha bisogno, la conosce a memoria.

Mentre la guarda dargli le spalle per uscire dall’ufficio austero, un vecchio impulso gli impone di appoggiare il suo palmo sulla sua nuca, arrotolare tra le dita le ciocche sottili che frammentano la pelle chiara del suo collo, appoggiare un bacio sul suo capo.

Non permette a se stesso il lusso di continuare una delle fantasie che lo hanno accompagnato per così tanto tempo.

“Ti voglio.”

Può vedere lo stupore scivolare lungo la sua spina dorsale, immaginare l’espressione solo fintamente neutra che le invade i lineamenti del viso. Può sentirla urlare, la Riza che non ha ancora rivisto, quella che la persona davanti a sé ha così gelosamente tenuto nascosta durante l’intero colloquio.

“Voglio avere te, non solo una parte di te. “

Non può toccarla, non può permettere che avvenga un contatto, non ancora. Non sa se potrà sopportarlo.

“Sto lavorando per un futuro in cui questo sia possibile…”

Nelle sue spalle esili che si voltano, nella sua bocca impercettibilmente incurvata, nelle sue mani che stringono il tessuto della divisa con nervosismo, ritrova finalmente Riza.

E i suoi occhi dicono che nemmeno lei ha dimenticato, né dimenticherà mai, quelle parole scritte sulla sabbia.

Anche se dovessero rimanere pronunciate solo dal vento, per altri mille anni.

“Mille anni, mille ancora,
mille volte, milioni di porte all’eternità
Potrei aver vissuto mille vite, mille volte.
Un’infinita scala a chiocciola scala una torre di anime.
Se passeranno altri mille anni, mille guerre,
la torre crescerà su innumerabili piani nello spazio.
Potrei versare un altro milione di lacrime, un milione di respiri,
un milione di nomi ma solo una verità da affrontare.

Potrei pronunciare un milione di bugie, un milione di canzoni,
un milione di cose giuste, un milione di errori in equilibrio sul tempo.
Ma c’è un’unica verità, un’unica luce,
un unico pensiero, un unico tocco di grazia.
E seguendo quest’unico punto, quest’unica fiamma,
questa singola infestante memoria del tuo viso…

Ti amo ancora.
Ti voglio ancora.
Mille volte i misteri dell’universo si piegano su se stessi
Come galassie nella mia testa
Ho conservato quest’unica fede, non ho che questo credo…

Ti amo ancora.
Ti voglio ancora.
Ancora e ancora i misteri dell’universo si intrecciano tra loro,
eternità ancora non dette/pronunciate
finché tu mi amerai.”

Chiedo scusa per la canzone-citazione lunghissima, ma è una canzone stupenda che ha contribuito veramente tanto a ispirarmi mentre scrivevo questo capitolo finale-o-quasi.

Sì, ne manca ancora uno, l’epilogo, diciamo. Il momento in cui mi sentirò un po’ più vuota e un po’ più piena è solo rinviato.

Ma non ho avuto cuore di fare anche il finale in depression/ishvar-mode (sarebbe stato troppo: dai, un minimo di speranza bisogna pure che ci sia, no?).

Volevo solo dire che questa raccolta per me è stata molto importante, vi ho messo tutto il mio impegno, quasi quanto nei 100 themes.

L’argomento non è stato dei più facili, e più di una volta ho rimpianto i cari capitoli leggeri, quelli comici, le scenette-parodia, le gag della vita d’ufficio…. Eh, altre raccolte non so (anche se qualche storia sconnessa c’è nel mio pc o nel mio cervellino… e c’è ancora quel Rain in sospeso… ^^”). Ma penso proprio che durante l’estate verranno fuori fior fior di idee.

Perché mi sono resa conto che smettere di scrivere Royai (almeno per me) è un’utopia.

P.S: Dunque, le traduzioni degli ultimi titoli sono "Camminare su un filo" e "Cadere", mentre questo è "Non perderò"

Bon, a domani per l’epilogo!

Grazie mille per tutte le recensioni (calo o non calo, siete sempre meravigliose e – troppo – gentili).

Bacione, a domani!

Ritorna all'indice


Capitolo 43
*** Epilogue: 29 years old ***


“Nell'illusione ho creduto alla mia forza inesorabile
e inevitabilmente sono diventata debole
ora sento gli eventi si trasformano e so già
di emozioni che aprono ricordi lontani

Nell'anima ritrovo la speranza che nel corpo stanco ormai
ha smesso di vibrare come un fuoco spento dal mio pianto
tra le mani un filo d'acqua porterò con me e
nel deserto un filo d'erba sopravviverà

I do, I do
emergere dal fondo per lottare e poi
salire in alto più che mai
I
do, I do
guardare nel futuro e sorridere
senza temere nulla più

In un instante nuove aspirazioni anche se davanti a me
si apre uno scenario di conquiste e smarrimenti,
nel silenzio, riflessi de epoche lasciate via
respirando ne avverto il moto circolare e poi...

Il tempo si è fermato per tracciare nuovi confini, ed io
mi spingerò lontano raccogliendo le mie forze nel vento
tra le mani riflessi di epoche lasciate via
camminando ritrovo le tracce indelebili

I do, I do
gridare contro gli occhi spenti e gelidi
per essere sempre di più
I do, I do
oltrepassare mondi inespugnabili
senza temere nulla più...
I do, I do
emergere dal fondo per lottare e poi
salire in alto più che mai
I
do, I do
guardare nel futuro e sorridere
con una nuova identità

fino a quando il sole sorgerà....”

Ilaria Graziano, “I do”, (Ghost in the shell OST)

Epilogue: 29 years old

“Lo so, sono in ritardo. Di almeno dieci anni.”

Non ottiene risposta. Ma in fondo, quell’uomo non è mai stato di molte parole, e le loro rare conversazioni erano più strani monologhi, che scambi di opinioni.

“Ho sempre avuto paura di tornare qui. Perchè è qui che è iniziato tutto. Davvero tutto.”

La casa grande e cigolante, il cancello di legno dipinto di bianco, gli scaffali polverosi e scuri della biblioteca. Tutto è rimasto uguale, alle sua spalle.

Fermo, immobile.

L’immutabilità è qualcosa che non ha mai apprezzato, ma quel luogo è riuscito a mantenerla, nonostante la guerra, nonostante le cupe giornate di attesa, di battaglia.

Non è cambiato nulla.

“Riza non è venuta. A dire il vero non sa che sono qui. Volevo parlare da solo con voi.”

Non è venuto a chiedere perdono. Sa di non poterlo ottenere.

“Mi sbagliavo. Mi sbagliavo su tutto. Ma sto provando a cambiare quell’errore, a trasformarlo in qualcosa che potesse giustificare tanta sofferenza. Non esiste lo scambio equivalente, come mi avete sempre insegnato. In questo sbagliavamo entrambi.”

Bianco marmoreo e verde d’erba tagliata e azzurro di cielo. Colori così diversi da quelli del deserto. Non crede nella serenità, ma quel luogo è la prova esistente di quanto la cerchi, anche se comincia a dubitare di poterla raggiungere.

“Ma anche se sbagliavamo, anche se tutto quello che mi avete dato è stato un errore, sono convinto che porterà a qualcosa di diverso. Ho deciso di rimanere quel ragazzino sciocco e ubriaco di ideali sdolcinati che disprezzavate tanto, e nel quale però sia voi che vostra figlia avete creduto.”

Stringe tra le dita il cappello, la mano nella tasca è l’unico punto caldo e vivo di quella radura.

“Non ho dimenticato.”

Sussurra, perché non vuole disturbare il sonno di chi non presta attenzione a quei discorsi senza senso. E’ lì, perché per andare avanti ha bisogno di un punto di partenza e un punto di arrivo, qualcosa che può cercare solo in quel luogo che non è un luogo, in quella radura apparentemente esente dal tempo e dal resto del mondo.

“Non ho dimenticato, la vostra preghiera. Il fatto che il vostro ultimo pensiero sia andato a lei, e a me, e a quello che non eravate mai riuscito a dire ad entrambi. Mi avete chiesto di proteggerla, di starle vicino, ma l’ho fatto nel modo sbagliato.”

L’alito di vento invernale che si alza, gli dà conferma dei suoi sospetti.

“Le ho chiesto di seguirmi, ancora nel modo sbagliato. Ma lei ha accettato. E’ una sciocca, stupida ragazzina con ideali più grandi di lei, che ha deciso di seguire un pazzo.”

L’unico sorriso della giornata lo lascia sua quella tomba bianca, ma l’ironia amara lo trasforma in una smorfia.

“Ho un obiettivo. E lo raggiungerò con quella che voi chiamavate la “razionalità di un bambino”. Lo so, non è da scienziato, questo ragionamento. Ma non è da scienziato nemmeno l’amore…”

Rilegge le date di nascita e di morte, anche se le conosce già. Lo fa per riportare alla memoria quella giornata dove lei era un’altra, dove era se stessa, al fianco di un ragazzo in divisa che non conosce più.

“Non ho dimenticato le vostre ultime parole. Sono qui per dirvi che non le dimenticherò mai. Che vorrei trasformarle nel mio futuro, non appena avrò saldato almeno in parte il mio debito, realizzando l’obiettivo che mi sono posto. Ma ho bisogno di chiedervelo, come da tradizione. Voi amavate la tradizione, era la vostra ancora. Per questo le avete tatuato sulla schiena la vostra tradizione, la vostra identità, senza curarvi di chiederle se fosse anche la sua. Ma non importa, perché quella tradizione è bruciata, è andata perduta, proprio perché me lo ha chiesto lei.

E io sono qui a disseppellirla, ancora per lei.”

Lo sfregare delle foglie l’una contro l’altra, sembra la risata roca di un vecchio. Ma le suggestioni fanno parte della scenografia.

“Sono qui per chiedevi la sua mano. Quando tutto sarà finito, quando entrambi avremo esaurito i nostri scopi, se mai rimarrà tempo per noi… ritornerò qui, con lei, per avere la vostra benedizione. Se vorrete darla a due ragazzini idealisti che hanno trasformato un sogno in qualcosa di possibile.”

Si inchina, come quel giorno. Abbassa il capo, come Roy Mustang non lo ha mai abbassato per nessuno: credendoci.

Si lascia casa Hawkeye alle spalle, persa nella polvere dei ricordi, la tomba del suo maestro finalmente pulita, ma senza fiori. Severa e silenziosa, come lui è sempre stato.

Ma le foglie sussurrano tra loro, che i tempi stanno cambiando.

E’… finita. Non mi piacciono i finali, dannazione… >___<

Che posso dire… siamo tornati alla storia che tutti conosciamo, all’attualità. Lo so, avrei potuto finire con un bel matrimonio o un altro happy ending di sorta (e solo dio sa quando avrei voluto, sigh…) ma mi ero data disposizioni precise: “Segui la storia, riallacciati alla storia, non tradire la storia”.

E così ho optato per una sorta di “dichiarazione di intenti” di Roy, nell’unico luogo in cui la sensei Arakawa non ce lo fa vedere per tutto il manga (ma il futuro è ancora un’incognita e tutto è possibile): davanti alla tomba del maestro.

Penso che gli sia richiesto una grande quantità di coraggio presentarsi l’ dopo Ishvar: ho avuto l’impressione che sia lui sia Riza abbiano, come dire, paura di affrontare (anche se simbolicamente) l’uomo che è stato l’artefice involontario (?) dei loro destini, e che forse sentono di aver tradito (almeno, nel senso di aver travisato lo scopo ultimo di quella conoscenza che è stata loro affidata).

Tuttavia, ora che Roy si è riscoperto profondamente idealista, nonostante la guerra avesse inibito la sua speranza nel futuro, tornare al via è d’obbligo, se non altro per sancire una nuova partenza, un nuovo inizio. Roy non ha avuto una vera e propria catarsi (al contrario di Riza, se catarsi può chiamarsi la sua bruciatura sulla schiena), un preciso spartiacque tra la guerra e la nuova vita.

Per cui, immagino che la tomba del maestro, il confrontarsi con essa e tutto quello che simboleggia a livello emotivo e non, sia un po’ la sua personale fenice – e il suo pensiero non può non andare anche a lei, a quella parte del futuro in cui Roy la vuole includere.

Roy è quel genere di personaggio che si “scopre” nel confronto con gli altri (con Riza, con Maes, con Bradley, con Ed), che dà nuovi indizi di sé e del suo modo di ragionare – con una “razionalità da bambino”, con il prefissarsi obiettivi utopici con meticolosità matematica – del suo modo di agire e dei suoi legami con gli altri, prevalentemente quando si contrappone ad un modo di pensare, fare e relazionarsi simile, diverso o diametralmente opposto al suo.

Risalta per contrasto.

Riza al contrario, rimane un mistero - ed escludo a priori che possa essere riassunta nell’aggettivo “fredda” o “riservata”: c’è molto di più di questo in Riza.

Al contrario, la ritengo talmente emotiva da essere in grado di impregnare di significato persino il silenzio. Per questo, un capitolo del genere su di lei, sarebbe stato (almeno per me) impensabile.

Lei si confronta con suo padre (con la sua scelta e la sua non-scelta) ogni giorno, senza parole, ma solo con le azioni, con gli scopi che lei stessa si è prefissata.

Lei agisce (in silenzio), lei sceglie – e, come fa lei stessa orgogliosamente notare, lo fa da sola, di sua spontanea volontà.

Riza è il bianco e il nero, mentre Roy è la miriade di sfumature possibili che stanno nel mezzo.

Scusate il papiro, ma rimango sempre affascinata della maestria della sensei Arakawa nell’aver creato personaggi così complessi, che è un piacere manovrare, riscoprire ogni volta diversi e reinterpretare.

Come si fa a smettere di scrivere con personaggi che ti obbligano a farlo?

Mission impossibile. ^^

In attesa che il mio cervellino si faccia venire altre idee, vi ringrazio tutte, dalla prima all’ultima, per il supporto che mi avete dato in questa raccolta, per le recensioni molto profonde o anche sono per aver letto senza commentare (un grazie anche alla tribù delle lettrici silenziose).

Insomma, grazie davvero. Sono molto felice di aver condiviso (e di poterlo fare ancora in futuro) una passione come questa con voi. GRAZIE.

Un bacione enorme e buona estate a tutte!!!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=182955