Leon

di Leonhard
(/viewuser.php?uid=71310)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Extra ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Vi dico subito che questa fanfic si collega al film di Silent Hill più che al videogioco. Ho provato ad immaginare una diversa vicenda…di più non dico. Buona lettura.

 

 

0.

 

Salve a tutti. Mi chiamo Alessa Gillespie, ho nove anni e vado alle elementari. Vivo in una piccola città nei pressi di Brahams: non so se avete sentito parlare di Silent Hill. È un posto tranquillo, magari noioso per le persone dinamiche, ma per quelli come me che amano la tranquillità è un vero paradiso, credetemi.

D’estate, per esempio è un trionfo di luce: si sente il canto delle cicale sotto il cocente sole del primo pomeriggio e di notte il frinire di cavallette e di grilli ti culla le orecchie, conciliando il sonno. Il lago Toluca è piacevolmente caldo e pulito e non mancano occasioni in cui vedo dalla mia finestra persone che fanno il bagno, subacquei in partenza per qualche escursione e gruppetti di amici che prendono il sole, ridono e scherzano.

Però, ragazzi, Silent Hill offre lo spettacolo migliore d’inverno. Ok, nelle notti nebbiose è lugubre e, se devo dire la mia, anche un po’ spettrale, ma quando spunta il sole, magari dopo una bella nevicata, c’è da rifarsi gli occhi: il manto di neve riflette la luce in innumerevoli, microscopici spettri. La mattina presto, all’alba, sembra di camminare su soffice polvere di diamante. Anche d’inverno mi capita di guardare fuori dalla finestra e vedo bambini, probabilmente miei coetanei, giocare a palle di neve o fare buffi pupazzi con vecchie sciarpe, manici di scopa ed una carota come naso. Ridevano: era evidentemente divertente giocare con la neve con gli amici. E ridevo anche io. Ridevo perché era buffo quel pupazzo di neve con il sorriso sbieco e gli occhi di dimensioni diverse. Ridevo perché pensavo che per completare l’opera mancava un bel cilindro su quel testone candido.

O forse ridevo perché immaginavo di essere laggiù, nella neve, a ridere con loro. Immaginare: l’unico modo che ho per sentirmi in compagnia. Ecco, l’inverno scorso ho visto quei ragazzini fare un pupazzo di neve. Immaginavo di scendere, di chiedere se potevo unirmi. Sì, certo. Vieni pure! Ma perché non facciamo una famiglia di pupazzi? In casa ho una vecchia gonna. Sì, che bella idea! Vai, noi intanto cominciamo a fare il corpo. E lei entrava in casa, chiedeva frenetica a sua madre dove fosse quella gonna stinta e piena di strappi. Già…lo scorso inverno è stato veramente bello.

Vado alle elementari, ve l’ho già detto. Mi piace studiare, sono una bambina molto curiosa e non mi faccio problemi a chiedere ai grandi qualcosa che non capisco o che non so. Ricordo ancora la faccia che ha fatto mia madre, due anni fa, quando le ho chiesto come facessero le cicogne, con quel loro collo lungo e sottile, a sostenere il peso di un neonato. Ancora adesso mi immagino la faccia che mi ha fatto e scoppio a ridere da sola. Ho sempre chiesto tutto alla mia mamma e lei mi rispondeva sempre con un sorriso ed un bacio. Ho sempre fatto così.

Anche la prima volta che mi chiamarono strega.

Quella volta, però, la mamma mi sorrise e basta, senza darmi una spiegazione. Sapevo che cos’era una strega, ovvio, ma volevo saperne di più. Non ci misi molto a scoprire che i fondatori di Silent Hill, dei cacciatori di streghe, usavano quel termine per indicare persone che avrebbero presto bruciato vive. Se mi chiamavano strega, pensai, allora volevano bruciarmi? Ma perché? Non faccio cattiverie e sto bene attenta a non offendere nessuno. Non ho un padre, ok: e allora?

Ogni mattina entro in classe e trovo i miei libri strappati, le matite e le penne spezzate in due, i quaderni scarabocchiati e riempiti di insulti scritti su ogni pagina a caratteri cubitali. Certe volte, i miei compagni mi circondano e mi urlano di andarmene, chiamandomi strega e lanciandomi addosso fogli, quaderni o addirittura libri. In classe, in corridoio, in palestra, non importa dove: tanto l’effetto è lo stesso. Tutti i bambini delle classi vicine escono e si uniscono: lo prendono come un gioco e si divertono, secondo me. Anche a me piace giocare, ma non farei mai una cosa simile e non solo perché la vittima ero sempre io.

Posso scappare in bagno, ma non mi piace: c’è il bidello lì dentro. È una persona affabile, gentile: mi insulta e mi batte le gambe con la scopa, ma almeno non mi lancia il secchio d’acqua sporca addosso. E lo ringrazio per questo. Quando capitano questi episodi, almeno tre volte a settimana, passo tutto il giorno nel bagno, da sola, a pensare, a immaginare che quello strettissimo spazio fosse una torre altissima e quel water uno sgabello. Dalla finestra non vedo la pioggia che scende su un panorama grigio, ma verdi campi e boschi, sovrastati da un bel sole caldo ed un cielo talmente azzurro da commuovere.

Già mi manca quel paesaggio…ah, già, non vi ho ancora detto dove sono. Sono con la mia mamma e altre persone, tutte vestite di nero. Dicono che stiamo andando in un posto per fare una specie di rituale. La mamma mi ha detto che è una cosa seria, che mi aiuterà a farmi tanti amici. Ma non ha capito una cosa: a me non servono altri amici.

Io ho Leon…chissà dov’è adesso…

Lasciate che vi racconti chi è Leon. Credo di avere ancora mezz’ora da passare in silenzio, quindi…

 

 

NO, RAGAZZI: NON E’ IL LEON DI KH E NEANCHE QUELLO DEL FILM…LEGGETE E SAPRETE.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


2.
 
Alessa si sedeva sempre in prima fila sullo scuolabus. Diceva che così poteva guardare fuori e fantasticare: così facendo, riusciva non ad ignorare, ma almeno ad accettare gli insulti, le beffe e le parole che i suoi compagni le dicevano alle spalle, senza tra l'altro prendersi il disturbo di abbassare la voce.
 
Davanti alla scuola, trovò una comunella di bambini suoi coetanei radunati in gruppo che la guardava male. Giusto, era Mercoledì: probabilmente, quel giorno l'avrebbero circondata. Passò accanto al gruppo di bambini guardando a terra, per non attirarsi grane.
 
“Sapete che oggi arriverà un nuovo bambino?” sentì da una sua compagna.
 
“Già...speriamo che sia simpatico”.
 
Un nuovo compagno. Ad Alessa non piaceva quando arrivavano nuovi compagni. Non sapeva mai cosa aspettarsi da uno nuovo. Non potè non chiedersi cosa le avrebbe fatto, una volta che le sue compagne gli avessero parlato di lei.
 
Sospirò, sperando solo che il nuovo arrivato si limitasse solamente a tirarle i libri.
 
 
“Bambini, questo è Leon” presentò la professoressa. “Si è trasferito qui da Brahams l'altroieri. Mi raccomando, cercate di andare d'accordo. Alessa lo guardava con occhi incuriositi. Era un bambino strano, con folti e lisci capelli color cenere ed occhi molto chiari. Rivolse un sorriso alla classe.
 
“Sono solo albino” disse. “Non preoccupatevi, non mi tingo i capelli”. Coro di risate a cui Alessa non si unì: proprio non aveva voglia di ridere.
 
“Bene, Leon” disse la maestra. “Cercati pure un posto”. Il bambino fece vagare lo sguardo per l'aula, finché non vide Alessa.
 
“Mi siedo là” disse, indicandola. Lei dapprima non capì, poi si ricordò che il posto accanto a lei era vuoto, come lo era sempre stato. L'aula, diversamente da prima, piombò in un rigido silenzio. Il nuovo arrivato che si sedeva accanto alla strega! Leon parve non accorgersene e si avviò tranquillamente al posto. Quando si sedette sulla sedia accanto a lei, Alessa sentì un tuffo al cuore.
 
(Oddio, e adesso?) pensò. Non aveva mai avuto un compagno di banco, non sapeva neanche come comportarsi. (Devo salutarlo io? Oppure rimango zitta? In fondo, se vuole salutarmi, lo farà lui per primo, o potrei infastidirlo...).
 
Leon si volse verso di lei, la guardò per qualche secondo, poi le sorrise. La bambina ebbe la sensazione che lui non le avrebbe fatto male, non l'avrebbe presa in giro, né le avrebbe chiamata strega.
 
Ma le sensazioni sono sempre sbagliate. In risposta al suo saluto agitò la mano e tornò a rivolgere l'attenzione alla professoressa. Sentì lo sguardo di Leon addosso per qualche altro secondo, poi, con la coda dell'occhio, vide che si era nuovamente voltato verso la professoressa. Alessa alzò il suo banco per prendere la sua cartellina. Il suo astuccio era tutto lacerato e penne e matite rotte e sparse per il sottobanco. Con un sospiro, prese la sua cartellina, miracolosamente rimasta integra, e chiuse il banco. Pazienza: era per questo che si riempiva lo zaino di matite e penne di ricambio. Ne pescò una e cominciò a scrivere.
 
Per tutta la lezione non arrivarono palline di carta o colpi di cerbottana. Alessa ipotizzò fosse per via del nuovo arrivato. Leon, accanto a lei, stava seguendo attentamente la lezione. Guardandolo, la bambina scoprì che, se avesse cominciato a chiamarla strega come tutti, ne avrebbe sofferto più del solito. Scosse la testa.
 
(Ma cosa vado a pensare?) si chiese. (Ovvio che comincerà a chiamarmi strega. Lo fanno tutti, da quando ho cominciato ad andare a scuola. Ed ogni nuovo compagno dopo due giorni ha cominciato a prendermi in giro. Lui non farà eccezione).
 
Questo pensiero la riportò alla realtà: lei non aveva nessuno. Per lei era vietato pensare. Vietato sperare. Vietato sognare. Obbligo di stare sola. Obbligo di subire tutte le prese in giro in silenzio. Lei doveva partecipare a quella partita di frecciate recitando la parte del bersaglio senza dire nulla.
 
Sospirò e tornò a concentrarsi sul suo banco, incurante del fatto che il nuovo arrivato non le togliesse gli occhi di dosso.
 
Improvvisamente le cadde sul tavolo un foglietto piegato. Non era una pallina di carta, ma un piccolo pezzo di carta piegato in due. Lo prese e lo aprì.
 
-Non sei molto socievole o sbaglio?-
 
Ad Alessa mancò poco l’infarto. Era un bigliettino. Oddio: non aveva mai letto bigliettini, figurarsi poi se era per lei. Con le mani tremanti, prese la penna e scrisse la risposta sotto, prima di lanciarlo sul banco del compagno.
 
-Sono solo un po’ timida. Scusami-. Il bambino lo lesse ed un sorriso gli increspò le labbra. Volse il foglietto e scrisse.
 
-Tranquilla: non è un male essere timidi. Allora, come ti chiami?-.
 
-Alessa-
 
-Alessa…?-. La bambina esitò: se avesse saputo il suo cognome, come avrebbe reagito? Cosa avrebbe fatto dopo, quando i suoi compagni l’avrebbero convinto che lei era cattiva?
 
-Alessa Gillespie-. Ecco, aveva fatto la cretinata. Lanciò quel biglietto con una sorda tristezza. Era durato poco, ma si era sentita parte integrante di quella classe. O perlomeno con lui. Sospirò, prendendola con filosofia e convincendosi che sarebbe stato l’ultimo bigliettino che avrebbe scatenato una sequela infinita di insulti e prese in giro che si sarebbe unita al coro.
 
Forse fu per questo che rimase piacevolmente stupita quando accanto al suo quaderno si materializzò la risposta. Lo aprì febbrilmente.
 
-Piacere di conoscerti, Alessa Gillespie. Leon Kauffman-.
 
-Senti, posso chiederti di diventare mio amico?-. Aveva scritto senza pensare, ma questa volta riuscì a fermarsi prima di lanciare il pezzo di carta verso il suo compagno. Amico? Ma non scherziamo! Chi avrebbe voluto essere suo amico? Lei non aveva amici. Scosse la testa e appallottolò il foglio. Si alzò ed andò a buttarlo nel cestino. Immediatamente, fu bombardata da cartacce, penne e gomme finché non si sedette nuovamente al suo posto. Si chinò nuovamente sul quaderno e, fingendo di non sentire i rumorosi sussurri di scherno dei suoi compagni, si mise a disegnare. Le piaceva disegnare; sua madre le diceva che era anche molto brava. Leon la guardò per qualche secondo, poi tornò a rivolgersi alla professoressa.
 
Quando l’intervallo finì, Alessa fece per alzarsi. Il bambino, tuttavia, fu più veloce: si mise davanti a lei, impedendole di muoversi. Le sorrise.
 
“Volentieri” disse. Lei finse di non capire e di ignorare la brusca accelerata del cuore. “Amici?”. Lei non ci credette. Optò per un sogno. Sì, doveva essere così: si era addormentata durante la lezione e stava sognando che il nuovo arrivato la volesse come amica. Assecondando il sogno, annuì.
 
“Amici” disse. “Grazie”.
 
 
UNA SCENA COSI’ CI VOLEVA. NEL FILM, NEL VIDEOGIOCO…CREDO DI POTER CAPIRE ALESSA E LA SUA PAURA DI APRIRSI AI SUOI COMPAGNI. BEH, CI LEGGIAMO NEL PROSSIMO AGGIORNAMENTO.
RECENSITE IN TANTI!!!!!! 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


 

3.

 

Difficilmente Leon si era reso conto che, se fosse veramente diventato suo amico, sarebbe stato trattato come lei. Oppure lo avrebbero compatito, dicendo che la strega lo aveva soggiogato ed era sotto il suo comando. A nulla sarebbero servite le proteste e le spiegazioni: non erano mai servite. Tornando da scuola, ripensò allo scambio di bigliettini con il nuovo compagno; prese il suo album e disegnò un paesaggio assolato, con il cielo azzurro e l'erba verde. Disegnò sé stessa e si fermò: il disegno era finito, ma sentiva che su quel foglio mancava qualcosa. Chiuse l'album e cercò di capire cosa avesse dimenticato di disegnare.

 

“Mamma, oggi in classe è arrivato un nuovo bambino” disse, sedendosi a tavola a mangiare. Dahlia Gillespie sorrise. Quel sorriso stanco, forzato.

“Davvero?” rispose. Fece per chiederle che tipo fosse, ma tacque: non importava che tipo di persona fosse il nuovo compagno della figlia. Tempo un paio di giorni e l'avrebbe trattata come tutti gli altri suoi compagni.

“Siamo diventati amici”. Questa frase lasciò la donna spiazzata. Com'era possibile? Ovviamente, la notizia la riempì di felicità, tanto che preferì non pensare nemmeno che era un'amicizia destinata a morire in capo a pochi giorni. Eppure, Alessa era così felice: si lanciò in un racconto della sua giornata, così nuova ed inattesa. Era evidente che anche la piccola trovasse anomalo il fatto di avere un amico.

Anzi, probabilmente anche lei sapeva che l'indomani l'avrebbe guardata con occhi ripugnati e l'avrebbe chiamata strega mentre le lanciava addosso un quaderno o un cancellino, oppure mentre gli strappava le pagine del quaderno degli appunti. Però preferiva non pensare al giorno dopo, come aveva sempre fatto: era per questa sua capacità che riusciva a passare un pomeriggio sereno dopo aver passato metà mattinata d'inferno e la seconda metà a piangere. Non di rado era successo.

Ma Dahlia potè tranquillamente giurare di non aver mai visto la figlia così felice di essere andata a scuola. Finito il pranzo, la donna si mise a lavare i piatti. Quel bambino, Leon, si sarebbe comportato come tutti gli altri bambini. Anche rendendosi conto che era sbagliato fare di tutte le erbe un fascio, era sempre successo questo: perchè con lui sarebbe dovuto andare diversamente?

 

Anche Alessa lo pensava. Anzi, l'aveva già pensato: dietro la gioia di aver trovato un nuovo amico aveva nascosto la paura del comportamento che Leon avrebbe adottato il giorno dopo. Figurarsi se i suoi compagni non lo avevano avvertito che si era seduto accanto ad una strega. Si chiuse il camera sua, si sedette sul suo tavolo e fece i compiti. Dopodichè riprese il suo album; rimase immobile, guardando il disegno che aveva fatto sul pullman e continuando a chiedersi cosa mancasse in quel paesaggio. Dopo qualche minuto, si sorprese a guardare fuori dalla finestra. Il giorno prima aveva piovuto e si stava alzando la nebbia.

Le piaceva la nebbia: lo faceva sentire sicura, protetta. Esattamente come voleva vivere. Nascosta nella nebbia e benedetta dalla neve. Ecco, così voleva vivere. Aveva provato una volta a disegnare un paesaggio simile: le era piaciuto come disegno, ma aveva riconosciuto che, senza il sole, sarebbe vissuta in un mondo un po' spettrale. Ma probabilmente perchè sarebbe vissuta da sola, senza un amico.

 

Il giorno dopo si presentò come un giorno qualunque: lei seduta in fondo al pullman, sola, circondate dai sussurri di scherno e disprezzo di tutti i suoi compagni. Ogni tanto arrivò qualche pallina di carta, ma lei non se ne curò. Continuò a ripetersi che quel giorno sarebbe stato uguale a tutti gli altri, che il giorno prima non contava nulla: Leon non poteva sapere che lei era una strega che non aspettava altro che qualcuno che le dimostrasse un po' di simpatia per mangiargli il cuore, fargli un incantesimo o cose così. Eppure non poteva non sentire una sorda tristezza; maledisse il giorno prima.

(Che senso ha avere un boccone di Paradiso se sai di essere condannata all'Inferno?) pensò. Tanto valeva che Leon, il giorno prima, si fosse seduto lontano da lei.

Chissà: forse così si sarebbe salvato...

Il bus si fermò davanti all'ospedale Alchemilla; Alessa aggrottò le sopracciglia: strano, non aveva mai fatto una fermata all'ospedale. Quando vide una folta chioma color cenere non seppe se nascondersi per evitare prese in giro stranamente più dolorose o salutarlo con un timido cenno della mano. Preferì non fare nulla e rivolgere la sua attenzione fuori dal finestrino. Fece in tempo a notare che stava ricominciando a piovere, prima che il suo compagno occupasse il posto solitamente vuoto accanto a lei. Il pullman si zittì e, per la prima volta, Alessa sentì il rumore del motore: era cupo, rombante. Decise che era un rumore che la distendeva e si concentrò su di esso.

Una mano le coprì gli occhi. Alessa si stupì non tanto per il gesto, quanto per il fatto che il tocco sul suo viso era delicato, morbido, con tutte le intenzioni tranne quella di ferirla. Solo sua madre aveva un tocco così.

“Indovina chi è?” disse la voce del ragazzino. Lei si scrollò di dosso le sue mani e lo guardò con occhi incuriositi. Leon rideva. “È uno scherzo, dai. Te la sei presa?”.

“No...” rispose lei, arrossendo. Era evidente che non aveva ancora parlato con nessuno. Ed ecco un altro boccone di Paradiso che avrebbe reso il ritorno all'Inferno più doloroso che mai.

 

 

BEH, ANCHE SE IN RITARDO (MOTIVO TESINA) IL RACCONTO PROCEDE. DAL PROSSIMO AGGIORNAMENTO COMINCEREMO IL VERO RACCONTO. MI RACCOMANDO, CONTINUATE A SEGUIRE.

DITEMI SE STO FACENDO UN BUON LAVORO.

A PRESTO! 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


 4.
 
Anche quel secondo giorno, Leon fu gentile e sorridente con lei. Quando vide che sotto il suo banco non vi era altro che cartacce, le prestò il suo quaderno e la sua matita e, quando i suoi compagni le lanciarono una pallina di carta, poté chiaramente vederlo lanciare ai banchi dietro di loro un’occhiataccia. Tutti gesti che, l’indomani sarebbero cessati e si rimproverò quando si accorse che le facevano piacere. Nell’intervallo, i due mangiarono assieme.

“Senti, perché ti prendono tutti in giro?” chiese. Alessa andò nel panico: cosa poteva rispondergli? Scosse la testa e rimase in silenzio, pregando che non insistesse su questo punto. Ma in quel momento, arrivarono i suoi compagni. La bambina sudò freddo: tempismo a dir poco pessimo.

“Leon, possiamo parlarti un istante?” chiese un bambino. Lui li guardò con occhi incuriositi, poi si volse verso Alessa.

“Scusami, arrivo subito” disse. Le sorrise e si avvicinò al gruppetto. Lei rimase immobile, guardando la sua schiena. Sentiva dolore; non al corpo, ma dentro, da qualche parte. Era colpa sua.

Sapeva che Leon prima o poi avrebbe cominciato a fare come tutti gli altri compagni. Era colpa sua, se si era affezionata a lui; era colpa sua se l’aveva preso sul serio quando le aveva detto che sarebbe diventato suo amico; era colpa sua se adesso gli insulti avrebbero fatto più male perché Leon si sarebbe unito al coro.

“Devi stare attento a lei” disse un bambino, senza preoccuparsi di abbassare la voce. “La mia mamma e il mio papà dicono che è cattiva. Ti farà del male”.

“Perché sarebbe cattiva?” chiese Leon, incuriosito. “Cos’ha fatto?”.

“Lei non ha il papà” disse una bambina. “Potrebbe essere chiunque, anche il demonio. È una strega e le streghe fanno solo del male a noi persone normali. Me lo ha ha detto la mia mamma”.

“Così Alessa è una strega?” chiese Leon. I bambini annuirono. “È una strega e quindi è cattiva. E tutto questo perché, visto che non si sa chi è suo padre, potrebbe essere anche il demonio”. I bambini annuirono nuovamente. Stupendo tutti, il bambino si mise a ridere. “Quante scemenze!” disse. “Ed io che sono senza mamma cosa dovrei essere, un angelo?”. I bambini lo guardavano a bocca aperta. Alessa non poteva credere alle sue orecchie. “A me, mio padre non ha mai detto nulla del genere e quando gli ho detto che avevo conosciuto Alessa Gillespie mi ha chiesto che tipo di bambina era, non mi ha detto di starle lontano.

“Facciamo così: voi fate pure come volete. Trattatela come una strega, evitatela, prendetela in giro, fare cosa volete; io voglio essere suo amico. Punto. Al limite, il dannato sarò io e non voi”.

“Noi te l’abbiamo detto perché anche vogliamo essere tuoi amici” protesto uno di loro. Leon scosse la testa.

“Se volete essere miei amici nulla in contrario” rispose. “Ma accetterete il fatto che anche lei è mia amica e che non è diversa da me e da voi in nessun modo”.

Alessa si sentiva strana. Aveva una voglia di piangere molto più forte del normale. Eppure si sentiva felice: perché le veniva da piangere? Si era aspettata che Leon andasse con loro e poi, una volta tornato, si sarebbe spostato con la cartella accanto ai suoi compagni per prenderla in giro e lanciarle i quaderni a distanza di sicurezza: perché aveva liquidato i suoi compagni in quel modo? Perché voleva rimanere suo amico? Si rendeva conto delle conseguenze della sua scelta? Probabilmente no, altrimenti come poteva spiegarsi il suo rifiuto? In quel momento il bambino tornò a sedersi accanto a lei. Si mise dritto sullo schienale e sospirò.

“Mi hanno detto che tu sei una strega” disse. Lei si volse e rimase sorpresa nel vedere che stava sorridendo. “Assurdo, eh?”. I bambini uscirono dall’aula, borbottando qualcosa di incomprensibile.

“Guarda che è vero” mormorò Alessa. Leon la guardò con occhi sorpresi. “Io sono una strega, sono cattiva: per questo non ho nessun amico, per questo mi fanno tutti quei dispetti…non hai paura che ti lanci il malocchio o che ti faccia fare cose cattive?”.

“Tu non sei una strega” replicò categorico il bambino. “Non puoi esserlo; le streghe sono persone cattive, ma tu mi sembri solo timida: essere timidi è normale, quasi divertente”. Alessa lo guardava con occhi stupiti. “E poi, non è vero che non hai nessun amico…”.

“Scusami…” mormorò Alessa. Leon sospirò, poi sorrise.

“Non c’è nulla da perdonare” rispose. “Stavo scherzando. Comunque, credo che tu abbia bisogno di distrarti: cosa fai quando vai a casa?”. La bambina pensò alle sue giornate prima di rispondere: già, cosa faceva quando tornava a casa? Mangiava e poi si chiudeva in camera, nel suo mondo privato, dove nessuno la feriva, nessuno la chiamava strega.

“Faccio i compiti…” rispose infine.

“Sì, ok. E quando non ne hai?”. La bambina cominciò a sudare.

“Faccio i compiti”.

“Come fai i compiti?” rise Leon. “Cioè, non fai altro?”. Alessa scosse la testa.

“Chiacchiero con mia madre, disegno…”.

“Disegni?!?”. Il volto del bambino s’illuminò. “Davvero? Li hai qui?”. Lei annuì. “Posso vederli?”.

Alessa lo guardò sorpresa. Mai nessuno, oltre sua madre, si era interessato ai suoi disegni. Quella domanda le fece provare una calda sensazione, mentre una forte voglia di sorridere la prendeva. Dunque con un amico si viveva così? Si chiacchierava così? Prese l’album dalla cartella, ma quando fu il momento di porgerlo a Leon si fermò. Cos’avrebbe detto? Lì dentro c’era tutto il suo mondo, il suo piccolo paradiso privato: come avrebbe reagito lui? Prima che potesse fare qualunque cosa, il bambino le prese l’album e lo aprì. Sfogliò qualche disegno, poi sorrise.

“Alessa, disegni benissimo!” esclamò. “Sei bravissima! Guarda che paesaggio! E questa? Questa sei tu? Ma guarda che carina! Senti, devi assolutamente fare un disegno anche per me!”.

“Non so…” rispose lei, spostandosi imbarazzata una ciocca di capelli dalla fronte. “Cosa vuoi che ti disegni?”. Leon richiuse l’album e glielo porse.

“Quello che vuoi!” rispose. “Tanto non farebbe differenza: sei talmente brava che qualunque tuo disegno, sono sicuro, mi piacerà da matti”.
Calore, il cuore che batteva, un calore insopportabile al viso: tutte sensazione perfettamente sconosciute ad Alessa, che si chiese se per caso non le fosse venuta la febbre. Annuì timidamente, abbracciando l’album.

“D’accordo” rispose. Leon le porse il mignolo. Lei sussultò.

“Promesso?” chiese, sorridente. Lei guardò la mano del bambino, poi la sua. Vedendola in difficoltà, Leon acciuffò il mignolo e lo incrociò con il suo. “Si fa così”. Alessa non aveva mai avuto un mignolo destro così bollente. Annuì nuovamente.

“Promesso…” sussurrò.

 
ECCO, COSI’ DOVEVA SUCCEDERE A SILENT HILL. CHE DIAMINE, ALMENO UN AMICO ALESSA SE LO SAREBBE MERITATO. BEH, DOPOTUTTO, SIAMO QUI PER CREARE CIO’ CHE I PRODUTTORI DEL GIOCO NON HANNO FATTO, NO?
SCUSATE IL RITARDO, MA SEGUIRE SCUOLA, LAVORO, ESAMI…NON LO AUGURO A NESSUNO…COMUNQUE, PROSSIMAMENTE IL PROSSIMO CAPITOLO.
RECENSITE IN TANTI!
CIAO!

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


 5.
 
Tornata a casa, Alessa raccontò alla madre la decisione di Leon. Era talmente felice che rischiò più volte di strozzarsi con gli spaghetti. Parlava a raffica, senza respirare, ma la madre non poteva rimproverarla, dato che  non respirava neanche lei. La notizia che le aveva portato la piccola l’aveva scioccata. In bene, ovvio. Ma non poteva non essere stupita della decisione del compagno. Sorrise: non aveva mai visto sua figlia così felice.

Finito di mangiare, la bambina si chiuse in camera sua e si mise a disegnare. Aveva promesso un bel disegno per Leon e non voleva deluderlo: i compiti li avrebbe fatti la sera. Prese un pastello e si fermò. Cosa poteva disegnare? Cosa piaceva a Leon? Lui gli aveva detto di fare lei, sicuro che qualunque cosa avesse fatto, gli sarebbe piaciuto, ma non voleva dargli un disegno che piaceva a lei: voleva che fosse lui a dirle cosa disegnare. Presa la decisione, tornò a guardare il disegno incompleto, continuando a pensare a come fare perché non fosse più così, diciamo, difettoso.

 
“Cosa mi piace?” chiese Leon, vagamente incuriosito, mordendo il suo snack. Il giorno dopo, durante l’intervallo, Alessa aveva subito chiesto al suo compagno cosa gli piacesse. Non senza una punta di timidezza: ancora non riusciva a credere di avere un amico.

“È per il disegno che mi hai chiesto” spiegò. “Mi hai detto che qualunque cosa io abbia disegnato, ti sarebbe piaciuta…però non mi è venuto in mente nulla e allora ho pensato…ecco…di chiederti cosa ti piacerebbe”. Il giovane rise.

“Beh, grazie per la premura” disse. Rimase un attimo in silenzio a pensare, poi si volse verso Alessa. “A me piacerebbe il mare”.
“Il mare?” chiese la bambina incuriosita. Lui annuì.

“Sai, io non sono mai andato al mare: sempre montagna. Quindi, vorrei il disegno del mare”. La bambina abbassò lo sguardo.
“Neanche io…sono mai andata al mare” mormorò dispiaciuta.

“Ah…” commentò Leon, abbassando lo sguardo. “Scusami”. Lei scosse la testa.

“No, scusami tu: non posso farti il disegno…”.

“Aspetta!” esclamò. “Però ho qualche cartolina del mare! Oggi pomeriggio, finiti i compiti, passa all’ospedale e te le mostro, se non hai nulla da fare”.

Per Alessa fu una sorpresa. Lei? A casa di qualcuno? Notò gli sguardi scandalizzati che i compagni volsero nella loro direzione. Invitare la strega a casa era un po’ come inviare un lupo a mangiare in una famiglia di capretti. Abbassò la testa. Per lei non era un problema: compiti a parte, non aveva molto da fare a casa e sua madre sarebbe stata sicuramente felice di accompagnarla all’ospedale per un motivo che non fosse una botta o un taglio che i suoi compagni le facevano. In più, anche lei aveva modo di fare conoscenza con il padre di Leon. Era tutto perfetto, ma preferì rispondergli che avrebbe chiesto a sua mamma di accompagnarla.

In realtà non c’era nulla da chiedere: sapeva che per andare, le sarebbe stato sufficiente dirle che Leon l’aveva invitata all’ospedale: si sarebbe precipitata in macchina e sarebbero arrivati in cinque minuti, anche se abitavano dalla parte opposta dell’ospedale. Era sorprendente come le giornate a scuola potessero essere veramente divertenti, con un amico come Leon. Gli insulti ed il lancio di oggetti si erano rarefatti e lei stessa stava lentamente imparando ad aprirsi con il compagno. Ogni volta che gli parlava non la interrompeva insultandola, ma stava ad ascoltarla, con espressione interessata ed un piccolo sorrisetto sulla bocca. La cosa che la spiazzava era che quel sorriso non era di scherno, ma serviva per metterla a suo agio. Perché lei si sentiva veramente tranquilla con lui come compagno di banco.

Sapeva di star commettendo un errore. Sapeva che era solo questione di tempo prima che Leon cominciasse ad insultarla, ma non riusciva più a pentirsi: la sua aria spensierata, gli occhi, il tono della sua voce, sempre accomodante e cauta, che non sarebbe mai andata oltre uno scherzoso ‘scema’ seguito da una sua risata e dalla sua mano che le scompigliava bonariamente i capelli. Quel contatto le piaceva: era caldo e delicato, ma allo stesso tempo forte. Non c’era nulla da fare.

Si stava affezionando a lui. Lo vedeva come un amico, un fratellino che le voleva bene. Era la seconda persona che dimostrava affetto nei suoi confronti ma, stranamente, sentiva di voler più bene a lui che alla sua mamma; nella sua ingenuità si chiese perché. Fu tentata dal chiederlo anche a Leon, ma ebbe un attacco timidezza tale che non riuscì neanche a richiamare la sua attenzione.

 
Come si era aspettata, la madre mise la macchina sul vialetto appena un’ora e mezza dopo la richiesta della figlia di andare all’ospedale ad incontrare Leon e suo padre. Aveva chiamato in causa anche il padre del suo compagno perché sapeva che da quando il papà era sparito, la mamma aveva sofferto tanto e chissà quanto doveva sentirsi sola quando lei era a scuola con Leon. Salì nella macchina e si mise a guardare i suoi disegni, mentre la ridente e soleggiata Silent Hill sfrecciava veloce fuori dal suo finestrino.
 
L’ospedale Alchemilla era un ospedale veramente molto grosso, con tantissime stanze. I muri, verniciati di bianco, avevano sempre trasmesso ad Alessa una sgradevole sensazione di freddo: perché i muri degli ospedali non potevano essere colorati di rosso o di giallo? Perché solo colori freddi negli ospedali. Fu sorpresa che quel giorno, alla vista dei muri bianchi e verde chiaro, non senti nessun freddo, anzi: quel calore che sentiva sul volto non accennava a diminuire. La segretaria si rivolse a loro con occhi gentili.

“Posso aiutarla?” chiese. Dahlia annuì.

“Abbiamo ricevuto un invito dal dottor Kauffman” disse. “Sa dirmi dove possiamo trovarlo?”.

“Credo che sia nel suo ufficio, visto che oggi c’è anche suo figlio. Aspetti, glielo chiamo”. Il cuore di Alessa batteva forte per il nervosismo: in tutta la sua vita non era mai entrata in casa di un suo compagno. Si ritrovò a chiedersi come fosse il dottore, la camera di Leon, cosa avrebbero fatto e cosa si sarebbero detti: era una novità, per lei, avere domande diverse da ‘mi faranno male’ e ‘quanto mi insulteranno’.
Stranamente, quei timori sembravano spariti dalla sua mente, nella confusione più totale: non aveva qualche domanda, ne aveva a milioni, tutte prive di una risposta. Perché Leon aveva deciso di essere sua amica, perché non aveva dato retta ai suoi compagni, perché l’aveva invitata a casa sua pur sapendo che quella cosa entro la sera successiva tutta la scuola l’avrebbe saputa.

Perché lei si sentiva così felice di questa sua scelta. Si sentiva un’egoista, ma non riusciva a non provare una gioia che non le apparteneva, una gioia che, fino al mese prima, credeva di non aver il diritto di provare. Si chiese se una semplice amicizia con un compagno di scuola potesse farle provare simili sensazioni.

E chi lo sapeva? Di sicuro non lei, che non aveva mai avuto nessun amico.

Il dottore era un uomo dall’aspetto severo e dal carattere serio e controllato; quante volte le aveva curato lividi e sbucciature? Una volta, si ricordava, le aveva curato una gamba rotta. Se lo ricordava bene per via del dolore e per il periodo successivo in cui era stata costretta a camminare con le stampelle, offrendo ai suoi compagni un ottimo bersaglio per gli sgambetti.

Quando aprì la porta del suo ufficio, guardò con occhi seri prima sua mamma poi lei, che si sentì trapassata. Subito dopo si sciolse in un sorriso.

“Ah, ecco!” esclamò. “Scusi, ma il nome di Alessa non mi era nuovo: non pensavo che fossi proprio tu. Entrate, accomodatevi”.
Disorientata da quella calorosa accoglienza, la bambina entrò nello studio. La prima cosa che vide una volta dentro fu Leon, la seconda il divano su cui era seduto.
 

 
ED ECCOCI QUI; HO FINITO UNA FIC PARTICOLARMENTE IMPEGNATIVA ED ANCHE CON LA SCUOLA SONO A POSTO: IL CHE SIGNIFICA CHE DOVREI ANDARE PIU’ SPEDITO CON GLI AGGIORNAMENTI, ANCHE SE NON PROMETTO NULLA.
SPERO CHE LA STORIA VI STIA PIACENDO ALMENO UN PO’. QUASI MI DISPIACE PENSARE CHE ARRIVERA’ UN CAPITOLO (NON DICO QUANDO ) IN CUI DOVRO’ ALLACCIARMI CON IL FILM.
RECENSITE IN TANTI.
AL PROSSIMO AGGIORNAMENTO!
CIAO!!

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


 6.
 
 
Qualunque cosa che coinvolgesse anche altre persone era per Alessa motivo di imbarazzo. Le interrogazioni era un esempio, forse l’unico esempio che poteva fare. Ma davanti al dottor Kauffman, provò un imbarazzo del tutto sconosciuto, diverso di quello da interrogazione. La consapevolezza che con lui c’era anche Leon la imbarazzava ed il pensiero l’avrebbe visto non in classe ma a casa sua certo non la aiutava a calmarsi. Sua madre ed il dottore scambiarono due chiacchiere sulla porta poi entrarono. Lo vide seduto sul divano e quando i loro occhi si incrociarono sul suo viso comparve un sorriso.
 
“Ciao Alessa!” saluto, visibilmente felice di vederla. “Ce l’hai fatta! Vieni, facciamoci un giro”. Lei guardò prima il dottore poi sua madre, in cerca di un cenno di consenso.
 
“Vai pure” disse Kaufmann benevolo. “Leon sa dove andare per non disturbare i pazienti”. Prima che lei potesse fare qualunque cosa, si sentì prendere per il polso e strattonare fuori dalla stanza.
 
“Vieni: ti faccio vedere la mia camera preferita” disse il ragazzo. Scesero nei sotterranei dell’ospedale. Leon le prese la mano.
 
“Qui sotto è facile perdersi” disse, sorridendo. “Seguimi”. Alessa non capì perché la tenesse per mano: lo vedeva, poteva benissimo seguirlo a vista. Eppure non l’avrebbe lasciato per nessuna ragione al mondo. Lo seguì per i corridoi freddamente illuminati dell’ospedale, incrociando qualche barella ed un paio di sostegni per flebo. Tutto aveva un’aria sinistra e le ombre proiettate contro i muri erano a dir poco sinistre. La bambina sentì un moto di paura ma la imbarazzò dirlo a Leon, che procedeva con passo sicuro. Arrivarono in fondo ad un corridoio, davanti ad una porta. Accanto una targhetta di ferro che indicava il numero della stanza.
 
“In questa stanza ci sono morte cinque persone per malfunzionamento delle macchine” disse il bambino, entrando. “Così nessuno vuole più essere messo qui, ma a me piace: è grande, pulita e ci sono tantissime cose strane”.
 
“Ci sono morte…delle persone?” commentò Alessa, timidamente. Lui sorrise e la spinse delicatamente dentro.
 
“Sì, ma non ci sono fantasmi: ho controllato” replicò. Era una battuta. Almeno credeva. Nel dubbio mostrò un sorriso divertito. Sembrò averci azzeccato: Leon ricambio il sorriso e la invitò ad accomodarsi. La stanza d’ospedale era piena di libri e fumetti ed il lettino, anziché le solite candide lenzuola d’ospedale, aveva una coperta blu.
 
“Io dormo qui quando papà ha le emergenze” disse. “Non mi lascia a casa da solo”. Si sedettero sul tappeto rosso.
 
“Ehm…” cominciò Alessa. “Se mi fai vedere quelle cartoline ti faccio il disegno…”.
 
“Ma di già?” chiese lui. “Il disegno dopo, con calma. Le cartoline te le posso anche prestare, non c’è problema. Dimmi piuttosto perché i nostri compagni ti trattano così”.
 
Nessuno ripeto, nessuno si era mai interessato così alla causa per cui Alessa veniva trattata così a scuola o in giro. In fondo, non lo sapeva neanche lei cosa mai avesse fatto per meritarsi un trattamento simile. Scosse la testa.
 
“Io non ho il papà” rispose. “E per questo, credono che io sia figlia del demonio. Mamma mi ha raccontato che lui se n’è andato lei è rimasta incinta e non si è più fatto vedere né sentire”.
 
“Non hai altri parenti?”.
 
“Ho una zia: è una dei purificatori. Ho chiesto a mia madre perché non le chiedeva di purificare anche me, ma lei ha scosso la testa e mi ha detto che quando sarò più grande ce ne andremo di qui e non sarò più trattata così. Prima di andarmene, però, voglio finire le elementari”.
 
“Ah…”: Leon fece una faccia strana. “E dove vi trasferirete?”.
 
“Non lo sappiamo ancora” replicò lei. “Forse a Brahams, vedremo.
 
Parlarono tantissimo. Non di cose importanti: di sciocchezze, stupidaggini, ma che resero Alessa felice come non mai. Per la prima volta sentiva di far parte di quel mondo come una normale bambina ed impiegò tutte le sue forze per non ricordarsi che dall’indomani tutto sarebbe tornato come prima. Le piaceva essere una bambina normale, con degli amici da andare a trovare e la possibilità di sedersi un soffice tappeto a chiacchierare del più e del meno, sentendo il pelo morbido del tappeto solleticarle i palmi delle mani. All’improvviso suonò una campanella. Leon si alzò.
 
“Ops, mi sa che dovete andare” disse, alzandosi. Alessa si sentì restia dall’alzarsi da qual tappeto. Guardò il bambino prendere delle cartoline da un cassetto e porgergliele. Ritraevano tutte delle foto di un immensa spiaggia assolata. E il mare. Alessa se l’era sempre immaginato come il lago di Toluca, ma lo vide molto più grande.
 
“Ecco, queste sono tutte le cartoline del mare che ho” disse. “Se ti va, puoi prenderle come spunto, ma vorrei qualcosa di tuo”. I due uscirono dalla sala senza più parlare. La bambina lanciò un’ultima occhiata al numero della camera dell’ospedale: l’unica che non aveva trovato fredda e sterile come le altre.
 
L’unica in cui non aveva visto solo il dolore delle ferite e la solitudine della degenza ed il freddo delle pareti candide.
 
 
Una volta a casa, si chiuse in camera sua e, preso il suo album, cominciò a disegnare. Disegnò lei in quella camera d’ospedale, con il volto rotondo invaso dal sorriso. Stette un momento a pensare, poi disegnò anche Leon. Raffigurò sé stessa e lui mano nella mano, come due amici. Sopra il letto, anche se non l’aveva visto, fece la targhetta che c’era fuori dalla porta, quella con il numero della camera. Sorrise nel disegnarla e, guardando il foglio finito, decise che quello non avrebbe mai lasciato la sua stanza: se l’avesse visto Leon, molto probabilmente sarebbe morta d’imbarazzo.
 
Il numero lo lasciò per ultimo. Lo scrisse con un pennarello nero, attenta a non sbavare l’inchiostro.
 
B151.
 
 
 
 
 
ED ECCOCI QUI, A RENDERE UN PO’ PIU’ UMANA LA VICENDA DI ALESSA. SPERO CHE LA FIC VI STIA PIACENDO. ORMAI, SIAMO QUASI ALLE BATTUTE FINALI E, SE DEVO ESSERE ONESTO, LA COSA MI DISPIACE.
PROSSIMAMENTE IL PROSSIMO AGGIORNAMENTO.
RECENSITE IN TANTI
CIAO!!

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


 7.
 
 
Era strana l’intesa che si venne a creare tra Alessa e Leon dopo quel pomeriggio all’ospedale. Per sapere le cose, i due non dovevano neanche parlare: bastava che si guardassero. Un’ammiccata, un sorrisetto, anche solo uno sguardo bastava per comunicare con una precisione tale che neanche le parola avrebbero potuto avere. Quella mattina, sotto il banco, Leon trovò una matita spezzata e degli scarabocchi sul quaderno. Alessa, a quella vista, si sentì presa da un moto di panico: era sicura che sarebbe finita così.
 
(Anche Leon!) pensò. (Adesso maltrattano anche lui! Lo considerano malvagio?). Pensandoci un attimo, capì che era stato preso di mira perché la frequentava e non cercava di scacciare da sé il male che diffondeva, anzi: le parlava gentilmente, le sorrideva sempre, le prestava matite e libri, era arrivato addirittura ad invitarla a casa. Per i bambini della classe non c’era bisogno di aspettare ulteriori sviluppi: erano entrambi malvagi, entrambi figli del demonio e andavano trattati come tali.
 
Ma se Leon era stato preso di mira, su Alessa si riversò tutta la cattiveria che non veniva scagliata contro il bambino. Gli accerchiamenti si fecero più frequenti ed i libri che le scagliavano addosso molto più pesanti e numerosi. Lei non se la prendeva e faceva l’indifferente, ma quando tornava a casa, nella tranquillità della sua stanza, piangeva per molte ore: per lei, per il trattamento che le riservavano e per Leon, che era la vittima innocente, accusato solo di averle donato quel poco di calore e affetto di cui aveva sempre avuto bisogno.
 
Anche lui era bersagliato dalle angherie dei compagni, ma non come lei: riceveva solo insulti e prese in giro. Non si lamentava mai e continuava a sorriderle, incurante di ciò che dicevano o pensavano gli altri: questo provocò ad Alessa una gioia mista a tristezza. Non era giusto che lui si trovasse in quella situazione; insomma, gli aveva chiesto lei di essere suo amico.
 
Quindi la colpa era sua.
 
Quando glielo disse, lui scoppiò a ridere e le fece notare che lui avrebbe potuto anche risponderle di no, che non voleva aver nulla a che fare con lei ed Alessa gli fu infinitamente grata per non averlo fatto. Forse fu per quel motivo che si svegliò con uno strano presentimento quella mattina.
 
Si lavò, si vestì, prese la cartella ed uscì. Da casa sua all’ospedale c’erano poche fermate, una decina di minuti: pochi, ma che diventavano eterni quando, alla fermata successiva, salivano i suoi compagni. Come ogni mattina la insultarono e la tormentarono finché non arrivarono all’ospedale. Quando Leon salì sullo scuolabus, le rivolse come sempre un sorriso e si sedette accanto a lei, ignorando gli sguardi truci e le occhiate ostili del gruppetto, che tuttavia smise si parlare male di lei.
 
“Ciao Alessa” salutò. Lei, come ogni giorno, arrossì e ricambiò il saluto con una vocetta timida. Fino a quel momento tutto normale: e allora perché quella strana sensazione non accennava a sparire?
 
La risposta le arrivò durante l’intervallo. La campanella suonò e lei e Leon, come ogni giorni, andarono in cortile, sedendosi sulla panchina sotto l’acero, la stessa di sempre. Il bambino prese parola.
 
“Senti, se ti dico che mi assenterò per qualche giorno, mi prometti che quando tornerò ti troverò ancora intera?” chiese. Colpita ed affondata.
 
“Vai via?” chiese affannata. Lui annuì.
 
“Papà ha un’operazione urgente da fare a Brahams” spiegò. “E non mi lascia qui da solo. Alla fine sarà per cinque giorni, una settimana al massimo”.
 
“Ed io come faccio?” chiese Alessa, cercando disperatamente una soluzione.
 
“In che senso?”.
 
“Io…cioè…ecco…”. La bambina non riuscì ad esprimersi: non voleva che Leon se ne andasse, anche solo per un giorno. Ma il motivo per cui non voleva, proprio non le usciva dalla bocca. Con lui si sentiva bene, si sentiva…normale, ecco.
 
“Facciamo così” disse lui. Si frugò nella tasca ed estrasse un rotolo di spago. “Per ogni giorno in cui non parleremo, farai un nodo al filo e per ogni giorno in cui ci parleremo ne scioglierai uno”. La bambina guardò prima il filo poi lui.
 
“E perché?” chiese. Lui sorrise.
 
“Per ogni nodo che farai, ci attaccheremo qualcosa e per le vacanze estive la metteremo dentro una cassetta e la seppelliremo: non hai mai pensato di fare un tesoro?” chiese.
 
“Un tesoro?”.
 
“Sai, no?”. Si alzò. “Qualcosa da tenere caro. Un segreto che solo tu custodisci e che sei libera di dividere con chi vuoi, senza che nessuno ti venga a prendere in giro”. Alessa ci rifletté un attimo, guardando lo spago.
 
Se ci aveva pensato? Onestamente no, non aveva mai pensato di tenere un tesoro: cosa poteva considerare un tesoro? Dove l’avrebbe seppellito? E con chi avrebbe condiviso il segreto? Gli unici suoi tesori erano i disegni e quelli non poteva seppellirli.
 
Tuttavia, l’idea di condividere con Leon una cosa del genere la rese felice: avrebbero avuto qualcosa da custodire gelosamente e questo, ne era sicura, li avrebbe resi più amici, più affiatati. E se fosse successo, non sarebbe partito più, nemmeno per un giorno. Annuì
 
“Ok: quando torni, vedremo cosa fare e ne faremo il nostro tesoro” disse, sorridendo.
 
“Adesso rientriamo” disse lui. “È suonata la campanella”.
 
 
 
Ogni volta che pensò che l’indomani Leon sarebbe partito, le prendeva una sorda paura. Non riuscì ad immaginarsi lo scuolabus che non si fermava davanti all’ospedale, nessuna chioma bianca che faceva capolino dalle porte, nessuno che si sedesse accanto a lei durante la scuola. Non si sentiva pronta a tornare alla sua vecchia vita e, si rese conto, non ne sarebbe mai più stata capace. Non seguì neanche una parola della lezione: preferì pensare ad un modo per fare in modo che non partisse, ma tutto ciò che le venne in mente furono soluzioni affrettate e sconclusionate. Arrivò alla fine della campanella che stava per scoppiare a piangere. Leon, come sempre, se ne accorse.
 
“Dai, non essere triste” disse, fuori dalla scuola. “Te l’ho detto: sarà per pochi giorni”. Lei annuì e provò a sorridere. Sembrò funzionare: il viso del bambino si distese e non parlò più. Alessa si mise la mani in tasca e toccò il foglietto che aveva fatto durante la lezione di storia.
 
 
 
Tornata a casa, mise al corrente la madre della notizia.
 
“Mi dispiace” disse Dahlia. “Ma stai tranquilla: sarà per pochi giorni, no? Vedrai, passeranno presto e quando lo vedrai, sarà come se questa settimana non ci sia mai stata”. Il sorriso di sua madre aveva sempre avuto il dono di farla sentire meglio e di convincerla che ciò che diceva si sarebbe avverato.
 
Solo che quella volta non funzionò.
 
Salita in camera, guardò la sua scrivania: era stata una stupida a lasciare a casa le sue cartoline ed il disegno. Ci si era messa d’impegno e non avrebbe potuto darglielo prima di una settimana; normalmente avrebbe pensato che avrebbe avuto più tempo per rivederlo, magari per correggerlo, ma anche quel pensiero non servì a nulla. Sapeva il perché: non ci voleva un genio.
 
Si sdraiò sul letto e rimase a fissare il soffitto: di fare i compiti, in quel momento, non ne aveva proprio voglia. Si cavò dalla tasca lo spago e lo guardò. Quel giorno avevano parlato, quindi non doveva fare nessun nodo. Ma li avrebbe fatti, non ne avrebbe saltato uno.
 
Estrasse anche il foglietto che aveva fatto durante la scuola e rise di sé stessa: era un’idea semplicemente assurda quella che aveva scritto. Eppure sentiva che era importante. Almeno per lei. Si alzò e, prima di scendere da sua madre, posò il pezzo di carta sulla scrivania, aperto, con la scritta rivolta verso l’alto.
 
 

Vuoi essere il mio fidanzato?
[_] SI
[_] NO
 
 
 
 
 
 
 
NON SO DI PRECISO COME MI E’ VENUTA IN MENTE L’IDEA DEL BIGLIETTINO…FORSE E’ UN SEGNO CHE DEVO DORMIRE DI PIU’…
EHEH :-)
MI SECCA AMMETTERLO, MA ORMAI CI SIAMO: UN’ALTRA STORIA CHE STA VOLGENDO AL TERMINE. ACCIDENTI, OGNI VOLTA CHE SCRIVO QUALCOSA POI MI DISPIACE CHE FINISCA…
PROSSIMAMENTE (più presto possibile) IL NUOVO AGGIORNAMENTO.
RECENSITE IN TANTI!!
CIAO!

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


 8.
 
 
 
Sapeva che sarebbe stato per poco, ma vedere la fermata dell’ospedale sfrecciare via dal pullman della scuola la smarrì. Il banco accanto a lei vuoto la riempì di tristezza e persino l’intervallo passato, quando andava bene, in solitudine la opprimeva. Gli assedi dei suoi compagni ripresero a pieno regime e con rinnovato impeto già il giorno dopo la partenza di Leon.
 
Credeva di essere abituata a quel genere di cose: tutto ciò che doveva fare era coprirsi la testa con le mani e premere la fronte contro il legno freddo del banco, aspettando che finissero. Ma quella volta, in classe, non riuscì a non pensare a nulla. Pensò a Leon, immaginò come avrebbe reagito a quelle cose e scoprì che le mancava già; non perché, in quel momento, l’avrebbe difesa, ma anche perché dopo l’avrebbe consolata. L’avrebbe guardata con il suo sorriso gentile, dicendole che era finita, che andava tutto bene, e l’avrebbe consolata, magari durante l’intervallo, seduti sulla loro panchina isolata, dividendosi il pasto.
 
Piccole cose, non particolarmente importanti, ma pensieri che avevano il dono di farle tornare la voglia di sorridere. Durante l’intervallo, sedendosi sulla panchina, da sola, si sentì infinitamente triste: per qualche strano motivo, i suoi compagni la lasciarono stare, non le rivolsero la parola né un cenno, come se lei fosse trasparente. Rientrando a scuola, fu nuovamente circondata dai suoi compagni e questa volta venne scagliato anche qualche libro. Arrivò in classe con il corpo pieno di lividi, ma non proferì parola e si sedette al suo banco. Una delle poche cose che aveva il potere di calmarla era la sensazione del banco liscio sotto le mani; una cosa normale, ma che produceva un effetto strano. Sentire il legno senza un’imperfezione sotto la mano, le dava la sensazione che, almeno quello, non poteva ferirla. E poi era una bella sensazione.
 
Dopo l’ora di scienze si allontanò dalla classe per andare in bagno. Trovò il bidello che, come al solito, le diede una ‘accidentale’ botta sullo stinco con la scopa. Le scuse furono strascicate e forzate, ma Alessa le apprezzò ugualmente: era l’unico che, anche se di malavoglia, le chiedeva scusa. Avrebbe potuto picchiarla a sangue e nessuno gli avrebbe detto nulla. Eppure si limitava a darle solo una botta sulle gambe. Riflettendoci, pensò che il bidello poteva definirla una sorta di amico: una persona che, pur avendo la possibilità di farle veramente male, si limitava a cose piccole, che non la facevano soffrire più di tanto. Era solo un altro livido che si aggiungeva alla ormai vastissima collezione. Non ci fece caso: anche quando c’era Leon le arrivava la scopa sulle gambe. Uscendo, si guardò attorno, in cerca di Leon. Poi si ricordò che per tutta la settimana non ci sarebbe stato e si diede della stupida.
 
Il terzo giorno, tornata a casa, la madre la portò in bagno, a passare dell’acqua fredda sui lividi.
 
“Alessa, vuoi restare a casa?” chiese improvvisamente. La bambina non capì il senso di quella domanda. “Finché non tornerà Leon vuoi stare a casa? Da quando non c’è più lui, i tuoi compagni hanno cominciato a maltrattarti: tornerai a scuola con Leon, ok?”. Rifletté. Certo, tornare a scuola con lui avrebbe ridotto i lividi, ma non voleva fare la figura della bambina indifesa, che scappa davanti alle difficoltà.
 
E poi, chi avrebbe dato gli appunti a Leon, quando sarebbe tornato? Scosse la testa.
 
“No, voglio andare a scuola” rispose. “Anche prima che arrivasse lui mi picchiavano e mi facevano male”.
 
“Ma non così” replicò Dahlia. “Insomma, sei coperta di lividi: non voglio vederti in questo stato”. Ma nonostante le preghiere, Alessa fu irremovibile.
 
Il bigliettino era ancora nel cassetto della sua scrivania, al sicuro; avrebbe preso gli appunti per lui e lo avrebbe messo in mezzo ai fogli. Quando glielo aveva raccontato, la madre aveva sorriso e le aveva passato una mano tra i capelli, dicendole di essere contenta per lei.
 
“Cosa devo fare per darglielo?” aveva chiesto. Dahlia le aveva spiegato che il modo per darglielo l’avrebbe scoperto da sola, che lei non poteva suggerirle come chiedere a Leon di essere il suo fidanzato. In quel momento, si concesse un pensiero egoistico: al diavolo cosa avrebbero pensato di lui. L’importante per lei era rimanere insieme.
 
Salì zoppicando in camera e, una volta chiusa dentro, prese lo spago e fece un nodo. Rimase a guardare quella piccola cordicella con occhi sognanti.
 
(Qui vorrei mettere la cartina di una caramella…qui magari una monetina…qui…ecco, una penna!) pensò, guardando i nodi. Volse lo sguardo verso i suoi disegni. (E quando lo nasconderemo, cercheremo un posto che sia sicuro).
 
Protetto dal pallore del suo viso e dai capelli di Leon.
 
Protetto da nebbia e neve.
 
 
 
Andando a scuola, il quarto giorno, pensò ad un posto sicuro: un posto in cui la nebbia ci fosse spesso e che, d’inverno, si riempiva di neve. Nel campo dietro casa sua era perfetto, ma non voleva metterlo lì: era una cosa loro, di entrambi, e doveva stare in terreno neutro, che non fosse di nessuno dei due. Optò alla fine per il boschetto che circondava il lago Toluca: era perfetto!
 
Ci era andata tante volte: d’inverno, il paesaggio diventava completamente candido e quando saliva la nebbia non si vedeva più nulla, tanto che, una volta, si era dovuta sedere sotto un albero ed aspettare che la nebbia si diradasse per scoprire di essere sempre rimasta a ridosso della strada, a pochi minuti da casa sua. L’idea le piacque e decise che avrebbe messo al corrente Leon di questa sua pensata. Di sicuro le avrebbe sorriso, dicendole che era un’idea magnifica, e nel weekend sarebbero andato insieme a scegliere un posto per nasconderlo. Magari, il bigliettino glielo avrebbe dato lì. O forse era meglio darglielo subito?
 
E che ne sapeva? Lei non era pratica di quelle cose. Non aveva mai avuto neanche un amico, eppure eccola lì, a chiedersi quando dare a Leon un biglietto in cui gli chiedeva se voleva essere il suo fidanzato. Una cosa surreale, al limite del comico, ma per lei era una cosa fondamentale.
 
Prese il bigliettino dalla tasca e lo guardò per l’ennesima volta: ancora non riusciva a capacitarsi di voler fare una cosa del genere. Non sapeva nemmeno se c’era un modo particolare di darglielo, se doveva fare una particolare espressione, che risposta aspettarsi. Eppure eccola lì, a chiedersi dove e come poteva farlo.
 
Tornando verso casa si volse verso l’ospedale e prese la sua decisione. Quando sarebbe tornato gliel’avrebbe dato in quella stanza in cui loro due avevano chiacchierato, la stessa in cui aveva sentito quel calore nuovo, in mezzo a tutto l’odio ed il freddo che viveva a scuola.
 
Nella camera B151.
 
 
 
SONTUOSAMENTE IN RITARDO, MA FEDELE ALLA SUA STORIA, CONTINUO A RECENSIRE INSTANCABILE. NON E’ VERO NULLA: LA SCUOLA ED IL LAVORO MI STANNO SFINENDO, MA ALMENO ADESSO HO PRESO UN ATTIMO DI RESPIRO, TRA UN LINGUAGGIO DI PROGRAMMAZIONE E L’ALTRO.
PROSSIMAMENTE IL PROSSIMO AGGIORNAMENTO. RIMANETE IN ATTESA, SPERO DI NON DELUDERVI.
A PRESTO.
LEONHARD.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


 9.
 
 
 
Leon sarebbe stato lontano per altri due giorni. Alessa lo sapeva e continuava ad aspettarlo. Quel giorno stava disegnando, quando dal piano di sotto sentì due persone urlare.
 
(Strano…) pensò. (Non viene mai nessuno qui…). Si alzò e si affacciò dalla porta, per sentire. Riconobbe la voce roca e furiosa della madre, ma l’altra faticò per associarla ad un volto. Era calma, quasi mistica, pacata e ridondante. Scese le scale e si affacciò sulla cucina, spiando.
 
La zia era venuta a casa loro. Le due donne non si accorsero della sua presenza e continuarono a parlare.
 
“Se non l’abbiamo ancora fatto è perché Alessa non l’ha chiesto!” ringhiò la madre. Cristabella scosse la testa.
 
“Non dirmi che non ha mai fatto domande” replicò, pacata. “Non ti ha mai chiesto perché viene trattata così da tutta la città? Non ti ha mai chiesto chi è suo padre e perché ti rifiuti di parlarne? Grazie a noi, al potere che Dio ci ha concesso, possiamo donarle una vita normale, con affetto ed amici”.
 
“Non far finta di tenere a lei! Anche tu non ti sei mai curata di tua nipote!”.
 
“Le Sacre Scritture dicono che bisogna stare lontano dal demonio: se proprio io mostrassi affetto verso la bambina, che esempio darei?”.
 
“Ti preoccupi più della tua posizione all’interno della chiesa che di Alessa?”.
 
“Io non odio Alessa” sbottò la donna, alzando leggermente la voce. “È proprio perché è mia nipote che sto offrendo a te ed a lei una vita migliore”.
 
“Io sto bene…” mormorò lei, entrando timidamente nella stanza. La donna si volse, guardandola come si guarda una tigre dentro la sua stessa stanza. “Ho un amico”.
 
In quel momento, credette di aver fatto la cosa giusta. Aveva sempre pensato che, se avesse avuto un amico, l’avrebbe detto a tutti. Leon era suo amico, il suo unico amico. E non c’era nessun motivo per cui dovesse nasconderlo. Cristabella si mostrò vagamente interessata, ma non chiese il nome di Leon, dove si fossero conosciuti, né perché avesse deciso di essere suo amico.
 
“Comunque sia, io sono sempre pronta a chiamare i fedeli a consiglio” disse, rivolgendosi a Dahlia. “E, visto il caso, credo proprio che praticheremo un esorcismo differente”. Si volse e si diresse verso la porta, senza degnare di uno sguardo o di una parola Alessa. “Tornerò quando le cose precipiteranno”.
 
 
 
Le cose non ci misero molto a precipitare. Due giorni, per l’esattezza: l’ultimo giorno in cui Leon sarebbe stato lontano; Alessa, sul pullman della scuola, si sforzo di non sorridere, anche se il pensiero la rendeva felice. Entrata a scuola, tuttavia, trovò ad accoglierla un’arena di bambini, molto più numerosi del solito. La chiusero in un cerchio e cominciarono ad additarla.
 
“Brucia la strega! Brucia la strega!” cantilenavano. La bambina si guardò intorno, cercando una via di fuga. Non le stavano tirando nulla, ma avrebbe preferito un libro in faccia a quello. Si sentì schiacciata, chiusa. Si lanciò verso i bambini e ne spintonò via due. Davanti a lei, si aprì il corridoio, la salvezza. Cominciò a correre, sentendosi dietro quell’infernale cantilena. Arrivò alla porta del bagno, con una spallata l’aprì e poi la richiuse. Sapeva che dentro c’era il bidello e si rassicurò leggermente: si sarebbe presa la solita bastonata sugli stinchi e poi si sarebbe chiusa nel bagno.
 
 
 
Faceva uno strano effetto la solitudine nel cubicolo del bagno. I colori, gli odori, le sensazioni, tutto diverso quella volta. Sdraiata davanti al gabinetto, in quella pozza di acqua sporca e sangue, Alessa non riusciva a pensare a nulla: perfino Leon, davanti ai fatti, aveva perso valore. Pochissimo, ma ne aveva perso.
 
Non capiva perché. Tutti i bambini orfani di padre ricevevano quel trattamento? Venivano tutti considerati cattivi? Venivano tutti circondati e presi a librate? O lei era particolare? Cercò di alzarsi, ma le gambe non la sorressero e dovette fare uno sforzo incredibile per arrivare a sedersi sulla tazza. Non appena si sedette, sentì un bruciore lancinante salirle per tutto il corpo, ma non trovò le forze per alzarsi. Aveva urlato; un urlo che nessuno si era preso la briga di ascoltare. Nato dalla sua bocca e morto inosservato nell’aria di quella scuola, così cupa, buia e fredda.
 
Sentendo una goccia correrle per le gambe, desiderò sparire. Sotto un cumulo di neve e nascosta dalla nebbia: la sua idea di sicurezza, di pace.
 
La porta si spalancò e, contro la luce della lampada, comparve la figura di sua madre. Alessa non si mosse, anche se avrebbe voluto fiondarsi tra le sue braccia. La donna era chiaramente sconvolta; rivolgendole parole di conforto, le tese una mano, aiutandola ad alzarsi. Contro il vestito della madre, con la coda dell’occhio, vide la zia chiudere la porta, lasciando fuori gli sguardi incuriositi dei compagni.
 
“Lo sanno” disse Cristabella, con la sua mistica voce gelida. “Anche i bambini sanno che è tua figlia. Perché non ci dici chi è il padre?”.
 
Suo padre. Già, chissà chi era. Alessa avrebbe tanto voluto conoscerlo. Dahlia non rispose; volse una fugace occhiata alla sorella, prima di tornare a baciarle lievemente la testa, cercando di tranquillizzarla.
 
 
 
Si svegliò in una stanza bianca. Il pigiama bianco e azzurro le copriva il corpo, livido e violato. Aprì gli occhi, ma non si mosse: rimase ferma a guardare il soffitto, ripensando suo malgrado a ciò che era successo in quel bagno. Sentì fuori dalla porta una serie di passi veloci, delle parole sconnesse, poi la porta si spalancò violentemente.
 
“Alessa!” esclamò Leon. Ansimava, segno che aveva corso per venire da lei. Alessa lo guardò con occhi spenti. Che stupida: aveva lasciato il bigliettino a casa. “Che diavolo è successo?”. Lei non rispose. Abbassò la testa e lasciò che i capelli le nascondessero la faccia. Non riusciva a guardarlo per la vergogna. Lui riprese fiato, poi si avvicinò a lei. Quando sentì la sua mano sfiorarle i capelli, non reagì: si trattava di Leon. Sapeva che non le avrebbe fatto quello che aveva fatto il bidello. Sentì i capelli muoversi e qualcosa che glieli pizzicava sulla testa. Alzò lo sguardo e vide sé stessa, incorniciata in un piccolo specchio, con un fermagli a forma di farfalla sulla testa.
 
“Souvenir” disse il bambino, con un tiratissimo sorriso. “Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere. Se non ti piace, dillo pure apertamente, non mi offendo mica!”.
 
“…è bello…” mormorò lei, onesta. “Grazie…”. Lui si sedette sul letto, attento a non toccarla. Normalmente, le avrebbe chiesto come stava, ma sua madre gli aveva detto tutto. Poteva intuire come si sentisse.
 
“Leon…” chiamò lei. “Questa sera…mia zia mi purificherà. Mia madre ha deciso di darle retta: così tutto finirà ed io potrò vivere tranquilla”. Lui sorrise.
 
“Beh, meglio no?” commentò. “Potrai farti altri amici”. Lei non rispose.
 
 
 
 
 
 
 
 
DURO STO CAPITOLO! HO CERCATO DI SOTTINTENDERE AL MEGLIO CIO’ CHE E’ SUCCESSO NEL BAGNO, ANCHE SE TUTTI VOI LO SAPETE BENISSIMO. E’ UN ARGOMENTO DELICATO E NON SONO SICURO DI AVER DESCRITTO BENE IL TRAUMA DI ALESSA.
A PRESTO CON IL PROSSIMO AGGIORNAMENTO. RECENSITE IN TANTI.
CIAO!

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


 10.
 
 
 
E così, eccomi qui. Le gambe mi tremano e bruciano ancora leggermente, ma il pensiero che da domani io e Leon potremo smettere di preoccuparci mi rasserena. La voce della mia purificazione girerà in fretta e, ne sono sicura, poco per volta diventerò anche io una ragazza normale: la mia vita finora diventerà solamente il ricordo di un brutto incubo da cui mi sono, finalmente, svegliata. Ho dato a mia mamma il bigliettino: sarà lei a darlo a Leon. Avrei fatto così comunque: il solo pensiero di essere io a darglielo mi faceva sudare. Nessuno parla, ma è meglio così: non avrei comunque nulla da dire. Non finché sono quello che sono; per il momento, questo limbo di silenzio mi va bene. Guardo fuori dal finestrino e scorgo la vetrina di un negozio di vestiti; ogni tanto fermavo lo sguardo quando passavo con il pullman, ma da domani potrò finalmente prendermi il lusso di entrarci.
 
C’è ancora quella sciarpa che mi piace tanto: era lunga e larga, con maglie lavorate molto bene e variopinta di colori caldi e cangianti. È in vetrina da mesi ormai; ho deciso che domani chiederò alla mamma di comprarmela. Magari inviterò anche Leon, così ci potremo prendere anche una di quelle crepes profumate che vende il bar dall’altra parte della strada. Sono un po’ nervosa, ma anche felice ed euforica. Guardo la mamma e le prendo una mano; questo gesto mi ha sempre rassicurato e spronato ad andare avanti. Funziona anche adesso. Lei mi stringe la mano, ma anziché voltarsi verso di me abbassa lo sguardo.
 
Ci fermiamo davanti ad un grosso edificio. Non sono mai stata da questa parte della città. Scendo dalla macchina e mi guardo intorno; mi sono pettinata con cura e messa il mio miglior vestito. Avevo preso anche il fermacapelli di Leon, ma l’avevo in tasca: era un suo regalo e sentivo di non aver bisogno di indossarlo per sentire il mio amico vicino a me, esattamente come lo sento ogni giorno a scuola.
 
A proposito, sapete che mi hanno rovinato il banco? Leon mi ha detto che adesso la superficie non è più liscia come prima, ma graffiata, ruvida e che se non faccio attenzione, rischio che qualche scheggia mi faccia male. Lui è sempre così: si preoccupa per me. Io gliene sono grata e difficilmente saprò come ringraziarlo. Magari da fidanzati un modo lo troverò. Sento qualcuno che mi sospinge verso la porta d’ingresso e m’impaurisco: uffa, potevano anche lasciar venire Leon!
 
Ma i corridoi degli alberghi sono veramente tutti uguali come quelli di questo qui? Non un quadro, una finestra, un disegno appeso al muro, nulla: solo porte e numeri, porte e numeri, su entrambi i lati. Svoltiamo l’angolo e mi trovo davanti un quadro. Ritrae una donna legata ad un palo ed avvolta dalle fiamme. La sua espressione sconvolta e dolorante è in netto contrasto con quelle felici ed esultanti degli altri soggetti, che la guardano con le braccia alzate o congiunte in preghiera. Quella tela mi inquieta; mi volto verso mia madre in tempo per vedere la zia fermarla con una mano.
 
“Rimani qui, cara” dice, con la sua voce melliflua. “Combattiamo il peccato, non il peccatore”. Dentro di me si scatena il panico: sarò sola, senza mia madre e senza Leon. Mentre mi spingono dentro a forza, la chiamo, cerco di non mettere la mia paura nella voce, ma mi sa che non ho fatto un buon lavoro. L’ultima cosa che vedo è mia madre che mi guarda con occhi sconvolti, mentre arretra lentamente. Sta dicendo qualcosa, ma non capisco cosa.
 
Subito dopo, il buio.
 
 
 
Dahlia prese la macchina e cominciò a guidare come una pazza. Non riusciva a pensare lucidamente: lei, come una povera idiota, aveva ceduto a sua sorella. Alessa era rimasta ammaliata da lei e si era lasciata convincere a purificarsi. Alla vista del quadro aveva capito che il processo di purificazione non le avrebbe fatto vivere una vita normale e che avrebbe lasciato un segno.
 
Un segno? No…l’avrebbe uccisa.
 
Quando tornò padrona di sé stessa, inchiodò. La macchina slittò sull’asfalto con uno stridore di gomme e lei, guardandosi attorno, scoprì di aver guidato fino a Brahams e di essere davanti alla stazione di polizia. Scese e si fiondò dentro. Un poliziotto la accolse allo sportello.
 
“Buonasera” salutò, con voce professionale. “Mi dica”.
 
“Aiuto!” esclamò lei. “La mia bambina…mia sorella…Silent Hill, laggiù!”.
 
“Si calmi signora” rispose lui. Si calmi: una parola! In quel momento, per lei era impossibile calmarsi.
 
“Presto! Mia figlia…la uccideranno…Silent Hill! A Silent Hill!” continuò lei. L’agente prese il telefono e girò la rondella tre volte.
 
“C’è qui una donna credo in stato confusionale” disse. “Credo che stia parlando a proposito di un omicidio: continua a ripetere di sua figlia e di Silent Hill…”. s’interruppe. Stette per qualche secondo in ascolto, poi annuì.
 
“Agli ordini, prendo con me quattro agenti a corro” disse. Riattaccò e prese frettolosamente il cappello. “Ragazzi, con me; credo che a Silent Hill ci sia ancora qualcuno rimasto al tempo della  caccia alle streghe. Lei venga con noi e ci faccia strada”.
 
 
 
Alessa non riusciva più a pensare: tutto ciò che era in grado di fare, ormai, si limitava ad urlare ed a tossire. Teneva gli occhi chiusi, ma poteva chiaramente vedere cosa stava succedendo. Sentiva delle voci attorno a lei, ma non riusciva a capirne il significato. Era così che purificavano la gente? Più che purificata, lei si sentiva arsa, per quel poco che ormai poteva sentire che non fosso dolore. Il suo corpo stava ardendo e non riusciva più a muovere nulla. Le sue stesse urla si stavano arrochendo sempre di più finché non riuscì più a riconoscere la sua voce. Con immensa fatica, desiderò di morire. Proprio in quel momento, sentì un secco rumore metallico. Le budella le si mossero, segno che si stava muovendo. Poi un altro colpo, molto più rimbombante, come se avesse picchiato una campana piena d’acqua. In mezzo ad urla sbigottite e terrificate, Alessa non sentì più nulla.
 
 
 
Il suono lontano e ovattato della voce della madre la riportò alla realtà e la prima cosa che sentì fu dolore. Un immenso ed insopportabile bruciore proveniente da ogni singola cellula del suo corpo. Tentò di urlare, ma scoprì di essere a malapena in grado di muovere la bocca. In quanto alla voce, proprio non riusciva a farla uscire. Aprì lievemente gli occhi: per qualche strano motivo, ci vedeva ancora: la stanza era ridotta ad un catapecchia nera e fuligginosa. La madre era in ginocchio, sorretta da un agente, che urlava e piangeva, mentre un altro uomo si avvicinò a lei, con il terrore dipinto in volto. Sfiorò il metallo rovente contro ciò che restava del polso di Alessa e ritirò immediatamente la mano, con un esclamazione di dolore. Le lanciò un’altra fugace occhiata e, con un ringhio, armeggiò nuovamente con quel ferro, liberandola. Ebbe il tempo di strappare una tenda che Alessa si sbilanciò e cadde in avanti. La accolsero le braccia forti dell’agente; la strinse delicatamente a sé e la allontanò da quel ferro. Contro la sua spalla, Alessa sentiva una sorda paura. Paura e dolore. Tutto ciò che seppe fare fu stringere più forte che poteva la spalla dell’agente. Ciò che l’uomo sentì fu soltanto una lieve pressione sulla spalla, mentre si chiedeva, con le lacrime agli occhi e lanciando occhiate orripilante alla piccola carbonizzata, come si poteva anche solo pensare di fare una cosa del genere ad un essere umano.
 
Per di più ad una bambina di soli nove anni.
 
 
IL DADO E’ TRATTO.
QUELLO CHE SI DOMANDA GUCCI E’ LA STESSA COSA CHE PENSO ANCHE IO QUANDO SENTO DI GENTE COME STUPRATORI E PEDOFILI. BISOGNA ESSERE PROPRIO DELLE BESTIE PER FARE UNA COSA DEL GENERE: VOGLIO DIRE, IO NON RIUSCIREI NEANCHE A PENSARE UNA COSA COSI’.
AD OGNI MODO, LEGGENDO QUESTO CAPITOLO AVRETE CAPITO CHE ORMAI SIAMO AGLI SGOCCIOLI. CI LEGGIAMO PRESTO AL PROSSIMO ED ULTIMO CAPITOLO.
CIAO A TUTTI E SCUSATE ANCORA PER IL RITARDO.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


 11.
 
 
 
Ustioni di terzo grado? Quello non descriveva neanche lontanamente le condizioni di Alessa. Perfino Leon, quando aveva saputo e l’aveva vista, aveva dovuto controllare la cartella clinica per convincersi che era proprio lei. Lì per lì rimase sconvolto, poi tentò di parlare con lei. La bambina poteva solo guardarlo, con quegli occhi rossi e spalancati, tentando di descrivergli la sua situazione. Lui stava accanto a lei, le parlava e le sorrideva, cercando costantemente di frenare le lacrime e di sopprimere l’odio che provava per quelle persone.
 
Dahlia era in cura da uno psichiatra, anche se si vedeva lontano un miglio che c’era ben poco da fare: lo shock le aveva dato il colpo di grazia e lei ormai diceva frasi che avevano un che di mistico, di trascendentale. La sua voce si era arrochita e raffreddata. I primi giorni non fece che chiedere di Alessa, delle sue condizioni e se si sarebbe salvata.
 
Ma sapeva perfettamente che non si poteva fare nulla se non imbottirla di antidolorifici per evitarle un inferno. I medici già trovavano strano il fatto che a distanza di una settimana quel lettino coperto emetteva ancora rochi respiri e rantoli.
 
Alessa stava sdraiata su quel lettino tutto il tempo. Non poteva muoversi, non poteva parlare e vedeva molto poco. Sapeva. Si ricordava cos’era successo: era stata purificata. Adesso lei non era più la figlia del demonio: era una bambina perfettamente normale. Se si eccettuava il corpo nero e rosa della carne bruciata e che se si fosse specchiata molto probabilmente neanche lei si sarebbe riconosciuta, era andata alla grande. Ah, e poi bisognava anche escludere la sua incapacità di fare anche il più piccolo, elementare movimento come muovere la lingua per dire anche solo “Fa un male cane”. Giusto, è vero: anche lasciare da parte il fatto che non sarebbe sopravvissuta per molto tempo con il corpo ridotto in quello stato.
 
In effetti, dopo un’attenta analisi, non era andata esattamente come se l’era immaginata.
 
Alessa, distesa in quel mondo bianco poco più grande di lei, non poteva fare altro che pensare; l’unica finestra sul mondo esterno era uno spioncino alla sua sinistra, ma si vedeva solo una parete grigia e beige: uno panorama che annoiava dopo cinque secondi. Pensava, e le voci sparivano. Pensava e la vista le tornava. Pensava e, se avesse potuto, sarebbe riuscita forse a sorridere. Quel bigliettino ce l’aveva ancora sua madre: chissà se Leon l’aveva ricevuto.
 
La prima volta che pensò a Cristabella, sentì lo stomaco contrarsi, uno strano prurito agli occhi ed una rabbia sempre più forte. Non le era mai capitato di odiare qualcuno e non sarebbe mai arrivata a pensare che la prima persona sarebbe stata proprio sua zia. Tuttavia, era strano: odiando sua zia, sembrava che persino il dolore diminuisse. Allora cominciò a pensare solo alla zia: man mano che sentiva l’odio crescere, il dolore al corpo diminuiva. Smetteva di pensarla solo in compagnia di Leon: lui le parlava, anche se sapeva che lei non poteva rispondergli.
 
“A proposito, ho una cosa da darti” disse improvvisamente. “Avrei dovuto dartelo prima, ma a quanto sembra, l’importante è che ti arrivi, no? E non te la prendere se ci ho messo tanto: ci ho messo parecchio anche a riceverlo”. Leon si alzò e fece una cosa che mai nessuno aveva mai osato fare: scostò la tendina e si affacciò. Alessa lo guardò: non c’era nessuna barriera tra i due. Dalla piccola fessura aperta dal corpo di Leon entrò una sottile aria fresca, che le accarezzò le piaghe. Chiuse gli occhi e si godette quel breve istante, in cui le sembrò di essere ancora fuori da quella tendina bianca, con il sole che le accarezzava la faccia ed il vento che giocava con i suoi capelli.
 
Quando Leon si ritrasse e la richiuse, la bambina si ricordò che non aveva più una faccia, men che mai dei capelli. Il sole non l’avrebbe mai più raggiunta e neanche il vento. Il vecchio mondo, con tutto ciò che amava, era chiuso fuori: ormai, il suo mondo era lo sterile, piccolo, vuoto e freddo interno bianco di un letto coperto da una tendina. Alzò lo sguardo e notò che Leon aveva messo qualcosa sulla tenda alta. Strizzò gli occhi e riuscì a metterlo a fuoco.
 
 
 
Vuoi essere il mio fidanzato?
[√] SI
[_] NO
 
 

Alla vista di quel bigliettino rimase colpita. Si sarebbe volentieri voltata verso di lui, ma non poteva muoversi.
 
“Certo che ce ne hai messo di tempo” borbottò la voce di Leon da fuori. Sembrava imbarazzato. “Comunque nessun problema; se ti servisse qualcosa…qualunque cosa…conta pure su di me”.
 
 
 
Era stata felice di vedere quel bigliettino. Leon, per i due giorni successivi, venne presto e si fermò fino a tardi. Parlava, sorrideva, le raccontava, senza stancarsi mai. Non riceveva risposta, ma era normale. Il bigliettino sembrò funzionare per i primi giorni, poi il ricordo di Cristabella tornò e la sua gioia si trasformò in un odio sempre più grande: per colpa sua, adesso che era fidanzata con un ragazzo, era costretta a letto, incapace di muoversi e parlare per il resto della sua vita.
 
Quel giorno sembrava uno dei soliti: lei chiusa lì dentro, ad ascoltare Leon parlare ed a pensare a sua zia, coltivando l’odio e sentendolo crescere ogni secondo di più. All’improvviso Leon cacciò un urlo e lo sgabello cadde. Alessa vide una piccola ombra stagliata sulla tenda. Guardando il profilo pensò che doveva essere una bambina. Il pensiero che le somigliasse arrivò successivamente. Quando tuttavia si affacciò dallo spioncino cambiò immediatamente opinione. Quella non somigliava a lei: quella ERA lei.
 
“Povera bambina…” cominciò. Aveva la sua voce, solo molto più fredda. “Sei messa veramente male. Chi ti ha fatto una cosa simile?”. Alessa rantolò. “Non c’è bisogno che ti sforzi di rispondermi: so tutto. La mia era solo una domanda retorica. La vera domanda è: adesso cosa vuoi fare?
 
“So che è frustrante dover stare tutto il tempo sdraiata dentro un affare del genere. Ti viene da pensare. E se pensi le cose giuste, finisce che scopri delle verità che prima avresti negato, ad esempio il fatto che tu sei in grado di odiare qualcuno. Sono qui per vedere fino a che punto odi tua zia”. In quel momento, Alessa pensò che qualcosa non quadrava: tanto per cominciare, perché quella bambina era identica a lei quando era…beh…diciamo quando era la figlia del demonio? Perché le stava dicendo quelle cose e con quella voce? E poi, come sapeva che era stata sua zia e come sapeva quello che provava lei in quel momento? Leon non parlava: guardava la scena con occhi sbigottiti, ma sapeva che si stava chiedendo le stesse cose.
 
“Mettiamola così: ti sto proponendo una scelta” continuò la bambina. “Preferisci restare qui inerme a vegetare per i pochi giorni che ti restano, pensando e odiando il mondo esterno? In questo caso, io qui non ho nulla da fare: così come sono venuto me ne vado.
 
“Ma puoi rendere loro pan per focaccia; con il mio aiuto, possiamo far capire loro cos’hanno fatto e farli pentire. Tu hai sofferto abbastanza: adesso tocca a loro, non credi?”. Appoggiò una mano sulla tenda. “Ti prometto che tutti sprofonderanno nel tuo incubo”.
 
“Alessa” esclamò Leon. La bambina si riscosse e lo guardò. Anche l’altra bambina si volse verso di lui.
 
“Volevi dirle qualcosa?” chiese, gelida. Lui annuì.
 
“Non ho ben capito da dove sei sbucata fuori, ma se puoi farla star meglio ti lascio carta bianca. Alessa, ricordati cosa ti ho detto: per qualunque cosa, conta pure su di me”.
 
 
 
Quando Leon si svegliò non era più in ospedale le pareti attorno a lui era scrostate e sporche ed una densa nebbia aleggiava nell’aria. Si alzò e si affacciò alla finestra. Davanti a lui, Silent Hill, tranquilla come sempre. Beh, dire tranquilla era un eufemismo: la città era avvolta da un innaturale silenzio. Per quanto tendesse l’orecchio, non sentì macchine, voci, neanche qualche corvo gracchiare. Sembrava che il tempo si fosse fermato. Lo sguardo inespressivo del giovane continuò a vagare per la città, poi si ritirò nella stanza: l’attimo di riposo era finito. Per prima cosa, doveva andare a scuola, la sera in chiesa ed infine tornare all’ospedale. Il suo corpo era martoriato e coperto di chiazze di sangue rappresso: non se lo ricordava così. Faceva un po’ male, ma era stato lui a dirle che poteva contare su di lui: se lei voleva questo, glielo avrebbe dato, come ogni buon fidanzato. Allungò le mani nodose e grezze verso il comodino e, presa la grossa mannaia, si coprì la testa con quell’elmo arrugginito. Si chiese il perché di quella forma, ma non gli interessava particolarmente: ormai lui si era abituato.
 
Ed era conosciuto come Testa a Piramide, il Macellaio di Silent Hill.
 
 
 
 
 
ED ECCOCI QUA, ALLA PARTE DEI SALUTI.
FRANCAMENTE NON ERO MOLTO CONVINTO DEL FINALE, MA E’ QUELLO CHE, A MIO AVVISO, AVREBBE AVUTO PIU’ IMPATTO. DITEMI CHE NE PENSATE.
E SIAMO GIUNTI ALLA FINE DI UN’ALTRA STORIA. UN PO’ MI DISPIACE, MA NE COMINCERO’ UN’ALTRA, MAGARI IN UN ALTRO CONTESTO.
RINGRAZIO TUTTE LE PERSONE CHE HANNO RECENSITO E CHE RECENSIRANNO, CHE HANNO SEGUITO LA STORIA FINO ALLA FINE ED ANCHE COLORO CHE HANNO SOLO DATO UN’OCCHIATA.
SPERO CHE LA STORIA VI SIA PIACIUTA E CHE MI SEGUIRETE ANCHE FUORI DA SILENT HILL
CIAO A TUTTI E A PRESTO.
LEONHARD
 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Extra ***


Si, lo so: ho segnato come storia completa, ma questo è un caso particolare.

Qualche tempo fa (tipo verso dicembre, o giù di li) mi è stato chiesto di fare una oneshot in visto dell'uscita del secondo film di Silent Hill. Essendo un grande fan di questo titolo, non ho potuto che vedermi il film e, sempre in qualità di fan di questo titolo, ne sono rimasto...beh, non proprio soddisfatto. Quindi, per soddisfare tutti quanti (me e l'utente che mi ha richiesto quest'opera) ho fatto un po' quello che sono riuscito a fare in due ore di lezione (ricordo che io vado in facoltà per scrivere fanfic :P ) che mi potesse far dire “sono soddisfatto”.

Ebbene, il risultato è stato questo capitolo, un extra alla storia Leon che spero vi faccia venir voglia di leggere e rileggere tutto il malloppo.

Questo è il mio saluto al fandom Silent Hill. Spero che mi seguirete anche in altri fandom. Buona lettura a tutti.

Leonhard

 

 

La prima volta che l’altra me è uscita dalla stanza, la prima volta che mi ha lasciata da sola con Leon, mi sentii meglio: quella bambina mi metteva angoscia, mi inquietava. Ma ero veramente così prima di essere purificata? Ci credo che mettevo paura a tutti.

La prima volta che uscì avvolse la città con fumosa oscurità, ghermendo quanta più gente poteva. Quelli che non morivano sarebbero stati uccisi dopo. Quando tornò mi fece vedere la scena con i miei occhi, come se fossi andata io lì.

Come se avessi fatto io tutto quello.

Fece lo stesso quando portò via Leon.

Lei era sempre lì per me. Lei, la parte di me in grado di camminare e vedere, di sentire gli odori ed i suoi. Lei, la mia unica compagnia, che leggeva per me, trovava di che nutrirmi e di che passare il tempo. Facciamo così: lei d’ora in poi, sarà “Lei”.

Per mia zia, invece, richiesi un particolare tipo di ‘presenza’.

Sbucai fuori dal pavimento in legno, davanti agli occhi inorriditi di zia Cristabella. Lessi il terrore nei suoi occhi, mentre tutti gli altri si accalcavano contro la porta, nel tentativo di uscire di lì. l’oscurità, la polvere, la ruggine, il ferro, era tutto sotto il mio comando. E zia Cristabella davanti a me, con quello sguardo terrorizzato: era bellissimo.

E la uccisi, oh se la uccisi! La uccisi e la uccisi bene. Certo che la uccisi, la uccisi…la uccisi e la uccisi. La u-c-c-i-s-i, uc-ci-si. La sensazione del filo spinato, spuntato, ovviamente, che le penetrava le carni, quella sua ultima preghiera di rimanere pura me la presi con ferro e sangue.

E la uccisi. La UCCISI.

Nella mia camera, nel mio letto, era silenzioso come sempre. Il cigolio profondo delle pale, il brulicare di vermi dentro i muri e il sibilo delle braci sotto le grate di ferro del pavimento erano rumori che dopo trenta anni erano diventati parte di me, ormai. Lei mi aveva letto tanti libri, e con la mente fantasticavo. Sentivo il mio odio crescere senza scampo, ma ormai non avevo più nessuno da odiare. L’ultima volta che Lei venne aveva tra le mani un foglio.

“Forse ti aiuterà a passare questo periodo di solitudine che ti aspetta” disse. Solo questo, poi mi mise il foglio sulla tenda sopra di me e svanì. Gettai un’occhiata al foglio: c’era un paesaggio assolato, con il cielo azzurro e l'erba verde, tutto colorato grossolanamente con matite colorate. In mezzo al foglio, c’era la caricatura infantile di una persona. Una bambina. Sé stessa. Ricordò.

Ricordò che in un altro tempo, ormai irrimediabilmente perduto per sempre, lo aveva giudicato incompleto. Cosa mancava?

Zia Cristabella? Incredibile come quella persona, la stessa su cui aveva fantasticato per trenta anni, escogitando ed immaginando per lei le morti più atroci, lente e terrificanti, ora le mancasse. Pensò dovesse essere per la sua malinconia, il suo senso di smarrimento, senza qualcuno da odiare.

Leon? Sì, forse. ma ormai era un mostro, insensibile al dolore ed ai sentimenti, il suo unico scopo era girare per la città e compiere il suo volere.

 

Si ricordava del parco. A Silent Hill c'era un parco giochi. Era bello, colorato, divertente. La mascotte era un coniglio bianco. Sorrideva, il coniglio bianco. Agitava la mano, salutava i bambini, li attirava a sé. Sempre sorridente. A lui quel sorriso non era mai piaciuto fino in fondo. Aveva un che di maligno. Un sorriso circospetto, quasi sinistro. Un sorriso che prometteva cose. Cose belle e cose brutte.

Per questo lui non andava mai al parco giochi. Adesso il coniglietto bianco era in un ambiente che più gli si confaceva, secondo lui: sembrava meno una contraddizione, ma continuava a non piacergli. Ogni volta che ci capitava deglutiva e sperava di non doversi attardare troppo.

Era convinto che l'avesse disegnato.

Le piaceva disegnare e a lui piacevano i suoi disegni, Dio gli era testimone.

Adesso però Dio non c'era più e tutto quello che poteva fare era giurare, anche se non sapeva di preciso su cosa.

Sulla sua vita? Nah, giurare su qualcosa che non gli apparteneva era privo di senso.

Silent Hill era peggiorata da quando Alessa aveva trovato una mietitrice che potesse camminare alla luce della nebbia. Confondersi tra i sopravvissuti ed aprirle le porte che per quasi un lustro erano state saldamente barricate per lei. Così aveva fatto.

Sua zia era morta per merito/colpa sua, di questo suo...aspetta, com'era...? Ah, sì: Cavallo di Troia. Ricordava a scuola: i compagni, la signora maestra, l'Iliade, che aveva fatto tanto ridere con i suoi nomi assurdi su cui i più simpatici facevano doppisensi a non finire.

Adesso la sua aula era buia, silenziosa, con polvere e calcinacci sui banchi e sul pavimento. Nel vano sotto i banchi si era creata polvere, a ricoprire tutto cià che era rimasto là sotto: matite, penne, quaderni e cartelline, cancellini, gomme, fogli, evidenziatori e righelli, tutti coperti da uno strato di polvere. Beati i pennarelli, che non erano vivi.

Il suo compito lo svolgeva ogni tanto: il più del tempo lo passava a vagare senza meta in quella che era diventata Silent Hill. Alessa era diventata più spietata, più cattiva, più diabolica. Era cambiata.

La città aveva cominciato a marcire, mentre la notte durava molto più del giorno e molto più del solito. Non parlavano praticamente più: una volta si facevano tante chiacchierate, in un angolo comune del suo cervello grigio e martoriato.

Si trovavano nella sua camera, seduti sul suo vecchio tappeto rosso, a parlare e parlare e parlare. Aveva fatto passare i mesi, gli anni così, ma adesso quella stanza nella sua mente era vuota e silenziosa. Allora si sedeva su quel tappeto rosso e parlava da solo, immaginandosi la vecchia Alessa davanti a lui, che lo guardava con un mezzo sorriso intimidito e che a tratti allungava una mano nella sua direzione, cercando un contatto.

In fondo, pensava, anche lei ha paura di ciò che sta facendo. Ciò che li circondava non era nebbia e neve, ma fuoco, metallo e ruggine. Ciò che si sentiva non era il lento e delicato posarsi della neve a terra ed il lieve, quasi impercettibile fruscio della nebbia che avanza, ma un forte, sinistro clangore ed il lamento disperato di centinaia di...cose...sepolte nelle spaccature roventi.

Non erano nel paradiso di Alessa, ma nell'Inferno di Lei.

In quel posto non era nato per far star bene Alessa, ma per far morire chiunque altro.

Alessa gli chiese di andare al parco giochi. Proprio lì? Chiese lui. La donna conosceva il motivo per cui era restio ad andare, ma non era disposta a discutere con lui. Ripeté l'ordine con voce più decisa. Lui si volse e con movimenti lenti s'incamminò verso il parco giochi, senza aggiungere niente.

Percepì Alessa come “passeggera”. Non era nulla di strano, in fondo, avere un'entità demoniaca all'interno del corpo: era come se l'avesse caricata sulle spalle.

Il luna park lo accolse con la sua insegna, una volta bella e sgargiante, con tante luci e tanti suoni, adesso silenziosa ed arrugginita, decisamente poco invitante. Attraversò la biglietteria, cercando di far finta di non vedere i coniglietti bianchi abbandonati per il parco. Una ragazza gli tagliò la strada: quella stessa ragazza che, a detta di Alessa, avrebbe dovuto seguire e proteggere.

 

Quando Alessa entrò nel suo corpo, la mente di Testa di Piramide sembrò svuotarsi completamente. Smise di girare e la giostra di fermò su un corridoio sotterraneo. Lasciando andare avanti quella ragazza, la “sorella” di Alessa

Sorella, figlia, stessa persona...ha senso, ormai?

provò a tornare nella sua stanza. Nella camera col tappeto rosso. Non c'era più nessuno e non era nemmeno in grado di immaginare Alessa. Allora si sedette, ma non parlò: si guardò intorno, alla ricerca di qualcosa che lo aiutasse a ricordare quella ragazza con cui aveva parlato per tanto tempo, ma che non riusciva a ricordarsi il volto.

Vide un foglio poggiato su quello che una volta era stato il suo letto e lo prese. Fu solo in quel momento che vide. Era bizzarro come non se ne fosse mai accorto, sebbene l'avesse sempre avuto sotto gli occhi. Il suo braccio era muscoloso e piagato e chiazzato di carne marcescente, la sua pelle era di un disgustoso colore oscillante tra l'ocra ed il verde fango.

Alessa non aveva mai parlato di marcescenza, di una lenta e progressiva morte. Ma lei voleva quello e lui glielo avrebbe dato. Da quanto tempo, sperava di morire?

 

Guardò il disegno e si chiese come avesse fatto a dimenticare Alessa. La sua fidanzata, quella ragazzina spaventata e guardinga. Scese dalla giostra e seguì il corridoio. Avrebbe dato la vita, sarebbe marcito lentamente e sarebbe caduto a pezzi, ma l'avrebbe protetta. Avrebbe vegliato su di lei.

Tutto pur di rivedere i suoi capelli, ciò che l'aveva affascinato anche prima che Silent Hill “saltasse”.

Tutto pur di rivedere i suoi capelli biondi.

Tutto.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=572245