Some might say we are.. made from the sharpest things.

di alwayswithgreenday
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** capitolo uno; ***
Capitolo 2: *** capitolo due; ***
Capitolo 3: *** capitolo tre; ***
Capitolo 4: *** capitolo quattro; ***
Capitolo 5: *** capitolo cinque; ***
Capitolo 6: *** capitolo sei; ***
Capitolo 7: *** capitolo sette; ***
Capitolo 8: *** capitolo otto; ***
Capitolo 9: *** capitolo nove; ***
Capitolo 10: *** capitolo dieci; ***
Capitolo 11: *** capitolo undici; ***
Capitolo 12: *** capitolo dodici; ***
Capitolo 13: *** capitolo tredici; ***



Capitolo 1
*** capitolo uno; ***


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N.B. : I My chemical romance non mi appartengono ( anche perchè se mi appartenessero sarei qui a casa a scrivere? AHAH, si certo.) Non scrivo a scopo di lucro.

-Frank. Ti do cinque secondi per scendere dalla tua fottutissima camera con in mano le tue fottutissime valigie e salire in macchina o salgo di sopra e ti do fuoco alla chitarra e te la ficco nel c..-

 -LINDA!-
Sbuffai per l’ennesima volta ignorando le continue minacce che mia madre mi lanciava dal salotto e  continuai a suonare la chitarra. Gliel’avevo detto no? Io da mio cugino Ryan a Belleville non ci sarei andato a vivere neanche per tutto l’oro del mondo. Insomma, ma che razza di cittadina del cazzo era? Non se ne parlava. E poi qui ormai tutti si erano abituati ad ignorarmi, e così mi andava più che bene. Si sa che se sei il nuovo arrivato in una scuola di una periferia come quella sarebbe stato preso di mira da tutti. Di amici non ne avevo moltissimi, ma alla fine non me ne importava minimamente. Ne avevo pochi.. più che pochi direi, uno soltanto ed ora avrei perso anche quello. Ma li sicuramente oltre a non trovarne, avrei fatti conoscenza con qualche bullo annoiato pronto a perseguitarmi per il resto dei miei giorni da studente sfigatello.
Sentii i passi pesanti di qualcuno fermarsi davanti alla porta chiusa della mia stanza. –APRI QUESTA DANNATA PORTA.- la voce di mio padre tuonò dall’altro lato della porta facendomi gelare il sangue. Riposi velocemente la chitarra nella custodia e presi i bagagli ai piedi del letto per poi uscire di li dentro a testa bassa. Okay, diciamo che avevo sempre avuto un certo timore delle sue sfuriate, e quel tono deciso che non ammetteva repliche mi fece abbandonare definitivamente l’idea di fuggire di casa e intraprendere la vita da artista per le vie di Newark. Mica male a ripensarci bene….
 –Eccomi.-  asserii a denti stretti. –Ce l’hai fatta. Finalmente. Muoviti.- E direi che non me lo feci ripetere due volte. Feci di tutto per far trasparire il mio disappunto su quell’idea irrazionale del trasferimento, ma ormai era tutto deciso. Il mio destino era segnato. E per non anticipare la fine dei miei giorni avrei fatto meglio a sbrigarmi a raggiungere l’auto.
-Grazie al cielo.- sbraitò inacidita la donna dal posto del passeggero. La ignorai bellamente e dopo aver caricato le borse e riposto la chitarra meglio che potevo, mi andai a sedere nei sedili posteriori infilandomi le cuffie e continuando a non rispondere alla cascata di insulti che continuavano a sgorgare interminabili dalla bocca di mia madre. Misi su un pezzo dei Misfits e alzai il volume delle cuffie al massimo, lasciando che la musica rimpiazzasse quella voce fastidiosa che non la smetteva di blaterare. Abbandonai la testa contro il finestrino fissando le mura bianche di quella che un tempo era stata la mia casa. Avevo molti ricordi li, tanti legati al nonno. Ricordi che non avrei mai voluto che sbiadissero. La malinconia, nonostante il ritmo della musica, prese il sopravvento. Strinsi un lembo di jeans strappati tra le mani e tirai per scaricare la tensione. Mi capitava spesso e in un certo senso funzionava, ma oggi … era diverso, un cambiamento troppo radicale. E la cosa che rendeva la situazione ancora più insostenibile era la consapevolezza che da quel momento in poi la mia vita sarebbe cambiata, così come le mie abitudini, le mie amicizie e che di li a poco tutto si sarebbe trasformato in un inferno. ’ Positività!’ cercai di autoimpormi,  ‘Andrà tutto bene’ mi ripetei. E così feci per tutto il viaggio, finché non vidi comparire all’orizzonte una piccola villetta bianca con tanto di giardino.
Mio padre spense il motore ed uscì dalla vettura a passo svelto insieme a mia madre. Io senza fiatare feci lo stesso per poi dirigermi imbronciato verso il portabagagli.
Mia madre era già sulla soglia, sfoggiando un meraviglioso sorriso, come se quella davanti all’entrata non fosse la stessa Linda Pricolo che fino a un attimo prima imprecava a destra e a manca minacciando chiunque di morte o atroci sofferenze. Sorrisi nel vederla così felice, dopotutto era per lei che lo stavamo facendo. Sua sorella aveva bisogno di una mano con l’azienda di famiglia e lei trovandosi disoccupata e con mia zia con gravi carenze di personale, non aveva potuto far altro che accettare l’impiego. Era stata una vera manna dal cielo quell’opportunità per lei, non aveva intenzione di farsela scappare.
La vidi infilare la chiave e girarla nella serratura con la mano tremante per l’emozione per poi farsi strada impaziente all’interno della casa.
Io la seguii a ruota per poi superarla e gettare un paio di valigie sul parquet di legno scuro. Mi guardai un po’ intorno. Era leggermente diversa da come appariva in foto. Era spaziosa e luminosissima, anche troppo, pensai. Ma non era male. –Insomma? In che cella devo andarmi a rinchiudere per starmene un po’ da solo in questo posto?- chiesi con tono decisamente scocciato per non darle troppa soddisfazione commentando in positivo la nuova abitazione.
-Di sopra ci sono le stanze da letto. Hai l’onore di sceglierti la tua tana.- cinguettò mia madre che già si era piazzata in cucina ad adorare un frigo ultramoderno con miliardi di funzioni totalmente inutili. Così mi avviai verso le scale, salendole il più velocemente possibile, trascinando con me le borse e la chitarra.
-Questa mi fa schifo, non c’è neanche una presa per attaccare l’amplificatore.- costatai richiudendo la porta di una camera dalle pareti color panna. Aprii la seguente. Era ampia, il colore era leggermente più cupo dell’altro. Aveva una grande finestra sul fondo dalla quale si vedevano le fronde di un albero che cresceva  nel giardino sul retro, una scrivania abbastanza piccola, circa due o tre mensole sparse per la parete e un letto ad una piazza e mezzo. Questa poteva decisamente andare. Magari con qualche poster e qualche modifica sarebbe potuta anche essere la camera perfetta. Posai la chitarra sul piedistallo che mi ero portato da casa e sistemai rapidamente i vestiti nei cassetti, poi mi sdraiai. Quella sera avrei rivisto gli zii e quell’idiota di mio cugino. Mi ci sarebbe voluto tanto, tantissimo, autocontrollo per sopportare tutte le critiche e le battutine che mi infliggevano ogni volta che erano obbligati a passare del tempo assieme.
Il pomeriggio passò in fretta, visto che mi addormentai subito dopo aver strimpellato qualche accordo per ammazzare il tempo, e arrivò la sera  e di conseguenza la fatidica cena coi parenti. Mi schiodai dal materasso per piazzarmi di fronte all’armadio. Scelsi la maglia degli Joy Division, una felpa nera, un paio di jeans logori e infilai un paio di scarpe a caso. Mi specchiai, facendo una faccia schifata. Cazzo sembravo fatto. Avevo occhiaie nere e profondissime e la faccia era più pallida del solito. –Avrete qualcosa su cui ridere stasera- mi dissi pensando alle facce dei miei parenti nel vedermi in quello stato catatonico. Mi sciacquai il viso e mi lavai i denti, poi scesi al piano di sotto infilandomi il telefono nella tasca della felpa.
-Santo cielo, sei mostruoso! Ma che hai fatto alla faccia? Sembri un cadavere! Mh, fa niente. Non vorremo fare tardi. Zia Lucy ci sta aspettando. Su dai sali in macchina.- Grazie mamma, grazie davvero. Anche tu sei splendida stasera, e dolcissima, oserei aggiungere. La seguii spedito assieme a mio padre. Prendemmo per la seconda volta l’auto e ci dirigemmo verso casa di quella mummia di zia Lucy. Il viaggio fu stranamente silenzioso, come una lenta marcia verso il patibolo.. almeno così era per me e mio padre. Ma ora eravamo al punto di non ritorno. Il vialetto di ghiaia bianchissima. La porta ci mise neanche un attimo a spalancarsi e a mostrare l’orrida figura di chi l’abitava.
-OH MADRE SANTISSIMA CHIAMATE UN ESORCISTA!- urlò la strega biondo platino sulla soglia della porta non appena mi vide. –Ciao zia, sempre un piacere rivederti.- sputai velenoso alzando gli occhi al cielo.
Posso tornare a casa? Casa mia intendo! Voglio suonare seduto sul mio letto, stare al computer o fumarmi una sigaretta in compagnia solo ed esclusivamente di me stesso. CHIEDO FORSE TROPPO?
Ma no, l’incubo era appena cominciato, perché non appena entrai in casa un odore disgustoso di carne al sangue mi inondò le narici. Per poco non mi liberai sul tappeto. Che razza di complotto era questo? Volevano farmi fuori facendomi morire di fame?
-Vieni Frankie, ti ho preparato una cenetta coi fiocchi, va a sederti a tavola. Tuo cugino ti stava aspettando!- mentì spudoratamente. Ryan? Che aspettava me? Si, per sbattermi al muro e picchiarmi finchè non lo supplicavo e chiedevo pietà. Agnello al forno con patate, pollo, bistecche, polpette, spiedini e salumi vagavano per la tavola. Tutti erano intenti a mangiare, tutti tranne me che cercavo disperatamente una qualche forma di insalata, che non avrei mai e poi mai trovato in quella tavola imbandita.
Ero stanco per il viaggio, inacidito dal pomeriggio passato a litigare con i miei, frustrato per le continue battute di mio zio sul mio taglio di capelli, angosciato per l’imminente inizio della scuola,  malinconico per aver lasciato la mia vecchia vita…. Poteva andare peggio di così?
-Beh, io e Mark avevamo pensato che se per Frank non c’è problema domani, lui e il nostro Ryan, potrebbero andare a scuola assieme. Così gli farà conoscere i suoi amici, sono dei ragazzi d’oro e adoreranno il piccolo Iero. Si sentirà un po’ meno spaesato con accanto un bel gruppetto di suoi nuovi compagni di scuola. Non trovi sia un idea magnifica?- esultò ad un tratto entusiasta mia zia fissandomi con un sorriso a trentadue denti stampato in faccia. Il mio sguardo corse su quello cupo e irato di mio cugino. La cicatrice sotto il suo occhio aveva cominciato a pulsare pericolosamente per la pressione del sangue che gli ribolliva nelle vene al solo pensiero di dover passare le intere giornate appresso a un ‘moccioso’ (come lui amava definirmi) come me. Deglutii imbarazzatissimo tornando a fissare lo sguardo allegro di mia zia.
Avevo detto che non sarebbe potuto andare tutto peggio di così? Beh, non mi sono mai, e dico MAI, sbagliato tanto in vita mia.

*angolo autrice*
Ciao, questa è la mia prima Frerard. *si nasconde* non immaginate quanto ci ho messo prima di decidermi a pubblicarla. Ho un sacco di idee in testa e mi sembrava emh... carino condivviderle con voi, ed è per questo che alla fine ho iniziato a scriverla!E non frega una beata mazza a nessuno! :'D però okay, compatitemi, mi sto vergognando un sacco. çç
Come inizio non so se sia un gran chè, però spero che il continuo possa piacervi di più! fatemi sapere cosa ne pensate se volete.. con una racensione qui sotto, a me farebbe davvero piacere :3
Beh, che altro dire? niente.
Un bacio, spero che contnuiate a seguirla, ne sarei felicissima. appresto! :3 

*SHIP FRERARD OR DIE*
-Gee. x

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Capitolo 2
*** capitolo due; ***


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Avete presente quella sensazione di benessere e relax assoluto che si prova dopo una lunga e riposante dormita? Una di quelle sensazioni in cui ti senti pronto ad affrontare una giornata impegnativa a scuola o una qualche partita importante di campionato? Io no.
Non ho chiuso occhio per tutta la notte. Il pensiero e l’agitazione per la mattina seguente mi aveva tenuto sveglio. Avrei conosciuto quella massa di idioti meglio conosciuti come ‘gli amici di Ryan’. Se fossero stati come lui, avrei dovuto temere il peggio.
Mi alzai dal letto a fatica e mi trascinai in bagno per darmi una sistemata. Schiacciai alla meno peggio la ciocca mora di capelli lasciando che coprisse un occhio e sistemai con una passata di spazzola le parti laterali bionde e rasate. Restai chiuso in bagno il tempo di una lavata e di una risistemata in generale, poi tornai in camera a scegliere i vestiti. Dovevo cercare di essere il più normale possibile, per non dare tanto nell’occhio ed evitare che l’attenzione del gruppo degli amici di mio cugino si potesse spostare su di me. Dovevo passare inosservato, così da evitare di essere ridicolizzato davanti a tutta la scuola da quei scimmioni.
Così dopo un attenta riflessione optai per una felpa nera tinta unita col cappuccio. Dei jeans, rigorosamente strappati, e delle converse nere distrutte. Presi lo zaino e me lo misi in spalla mentre scendevo a passo lentissimo giù per le scale.
-Frank, è arrivato Ryan! Ti sta aspettando qui fuori! Mi raccomando tesoro... Cerca di integrarti… almeno a scuola.- sospirò mia madre. Le feci un cenno con la testa come per dirle di non preoccuparsi e la salutai uscendo.
Eccolo li, davanti alla soglia. Dire che lo sguardo che mi stava lanciando era inquietante era estremamente riduttivo. Feci per salutarlo con la mano, ma un suo ringhio stroncò ogni mio tentativo di apparire gentile nei suoi confronti.
-Stammi a sentire.- si incupì ancora di più inchiodandomi con lo sguardo. –Tu non mi piaci, okay? Sei strano. Per me è già straziante averti in famiglia, ora mi tocca anche farti da balia. Dovrò presentarti ai miei amici, l’ho promesso a mia madre. Ti siederai a pranzo con noi, perciò vedi di renderti il più invisibile possibile.  Sono stato chiaro?- alzò il tono di voce pronunciando le ultime frasi come a voler rimarcare il concetto. Deglutii rumorosamente e annuii. Mi ficcai le mani in tasca e infilai le cuffiette.
Sapevo che mio cugino mi odiasse, ma non mi aveva mai detto cosa realmente pensasse di me così apertamente. Di solito si limitava a scacciarmi con qualche grugnito infastidito o a mostrarmi il dito medio se, a suo avviso, facevo di tutto per infastidirlo. In un certo senso ci ero rimasto male, non mi importava di ciò che pensasse lui, ne tanto meno i suoi amici, ma il fatto che mi avesse attaccato in quel modo, appena sveglio, con una notte in bianco alle spalle, mi aveva fatto girare i coglioni. E avevo l’impressione che nulla avrebbe potuto rimettere apposto quella giornata iniziata così male.
Arrivammo in silenzio all’edificio. Entrai incerto sul dove andare mentre mio cugino spariva tra la calca senza degnarmi neanche di un saluto. Davvero strano.
Sbuffando mi diressi verso la segreteria dove mi diedero il foglio con gli orari, le chiavi dell’armadietto e  una piccola mappa dell’istituto. Avevo biologia alla prima.
Bene, credo che una bella dormita durante tutta l’ora non possa nuocere a nessuno. Mi incamminai ed arrivai, dopo varie figure di merda nello sbagliare aula, nella mia classe.
-Ragazzi lui è Frank, Frank … Iero. L’ho pronunciato bene?- Chiese titubante il professore. annuii flebilmente. –Puoi sederti li infondo se per te non è un problema stare da solo.- Aggiunse poi il docente schiarendosi la voce. Eseguii. Non mi tolsi neanche le cuffie dalle orecchie, ma parve che nessuno se ne accorse. Iniziava a piacermi la poca considerazione che mostravano nei miei confronti professori e resto dei compagni di classe. Potevo dormire in pace e ascoltare per ore la musica senza che nessuno mi interrompesse per attaccare bottone in una conversazione sconclusionata e noiosa o che qualche professore richiamasse la mia attenzione sulla propria lezione. La prima e la seconda ora passarono in fretta. Non me ne accorsi neanche. Tra una dormita e qualche scarabocchio disegnato a penna sul banco, il tempo volò. La terza ora, per me, sarebbe stata un dramma. Educazione fisica. Ma che diamine di materia è? Può essere considerata tale? Diamine no! Sudore, esercizi imbarazzanti e qualche calcio ad un pallone. Ecco cos’era. Una materia per  palestrati senza cervello, non come me. In mancanza sia di fisico che di cervello, allora potevi definirti un mio simile. E magari avremmo potuto saltare l’ora di ginnastica assieme, come stavo facendo in questo momento. Rintanato nelle docce a fumare una sigaretta. Meglio così. Tanto nessuno avrebbe fatto caso alla mia assenza, no?
Abbandonai la testa all’indietro sulle mattonelle ingiallite delle pareti e mi misi a pensare a quanto poco mancasse al fatidico incontro. Avrei pranzato assieme ad un orda di tipacci sconosciuti coi quali avrei preferito non avere mai a che fare. Ma non avevo scelta. Mia zia e mia madre si erano coalizzate per, a detta loro, salvare quel poco di vita sociale che mi rimaneva. Ma chi le aveva interpellate? Io stavo bene da solo. Non avevo bisogno di una comitiva, per giunta di persone totalmente differenti da ciò che io ero, ne tantomeno di avere una vita sociale attiva.
Il fumo che saliva dalla sigaretta si diradò fino a esaurirsi. La spensi definitivamente sul muro e la gettai oltre la finestra aperta.
-Ma che cazz…?- una voce maschile sottile fuori dalla finestra imprecò leggermente sorpresa. – Che cazzo mi hanno lanciato?- ripeté la stessa voce. Adesso meno alterata, divertita oserei dire.
Una testa spuntò dal bordo della finestra e sobbalzai per lo spavento non appena la vidi fissarmi. Il ragazzo avrà avuto si o no tre anni in più di me. Portava dei lunghi capelli corvini fino alle spalle ad incorniciargli il viso leggermente femminile e paffuto. Naso alla francese e due grandi occhi verdi, un verde spento, ma comunque irresistibile. Si, irresistibile. Magnetico; a tal punto da impedirmi inconsapevolmente di spostare lo sguardo da lui.
-Sta più attento la prossima volta.- asserì il moro sorridendo appena per poi scomparire subito dopo e andarsene chissà dove per la scuola.
Scossi la testa per tornare al mondo reale risvegliandomi da quello stato di trance in cui ero finito vedendo gli occhi di quel ragazzo e mi alzai deciso a dimenticarli il più in fretta possibile. La campanella suonò e mi avviai in classe tentando di cancellare l’episodio di poco prima. Insomma, non  è normale incantarsi in quel modo sul viso di uno sconosciuto, no?
Le lezioni seguenti mi sfiancarono letteralmente, quando suonò l’ora della pausa pranzo per poco non mi commossi.
Raccattai i libri in fretta e furia, gettandoli a caso nella cartella per poi dirigermi verso la mensa a passo svelto. Stavo decisamente morendo di fame. Mi misi in fila aspettando il mio turno per rimpinzarmi di quel cibo insipido e scotto dall’aspetto raccapricciante. Quando arrivai di fronte alla cuoca, la fame scomparve improvvisamente. Il cibo era visibilmente stomachevole, perciò presi una minima porzione di tutto per poi cercare con lo sguardo il tavolo di Ryan e dei suoi ‘’stra fighissimi’’ amici.
Mi avvicinai a loro e mi sedetti di fianco, su una sedia abbastanza in disparte.
-Ehi ragazzi, questo è Frank. Mio cugino. E’ nuovo qui, viene da Newark. Trattiamolo bene il coglioncello, qui non conosce nessuno e mia madre mi ha raccomandato di farlo ambientare. Okay?- disse Ryan, prima di continuare la sua amabile chiacchierata con una troia che gli sedeva accanto. Dopo un ‘okay’ generale e disinteressato tutti si cominciarono a presentare. Erano quattro ragazzi. Erik, il più minuto. Capelli chiari e occhi piccoli e sottili come spilli. Sembrava un tipo furbo e inaffidabile. E se avessi dovuto scegliere delle persone di cui circondarmi, lui sarebbe stato l’ultimo, sul serio. Poi c’era Zack. Aveva una stazza davvero imponente, se solo avesse avuto voglia di darmi uno schiaffo, probabilmente la mia testa sarebbe schizzata in orbita. Era davvero gigantesco. Ma come guardia del corpo di Ryan, ci poteva stare. Tony, un ragazzo che in quanto a bellezza non aveva rivali, ma le dimensioni del cervello potevano essere paragonate a quelle di una gallina. E infine Alex. Alex sembrava il più sicuro di se. Anche lui un bel ragazzo, ma decisamente più astuto di Tony. Avevo sentito parlare di lui da mia zia, lodava spesso le sue capacità intellettive. Diceva che era quasi un genio, ma che oltre a quello fosse anche un ottimo amico per Ryan. Alla fine avevo riconfermato la mia ipotesi, sarebbe stato meglio girare alla larga da quei tipi.. ma infondo non era stata una mia scelta. E fortunatamente sembrava che a loro di me non interessasse proprio nulla. Quindi semplicemente mi limitavo a seguirli come un ombra silenziosa.
-T’oh guarda chi c’è.. la mia checca preferita- Asserì Ryan rompendo il silenzio che era calato improvvisamente, rivolto verso qualcuno mentre gli altri scoppiavano a ridere voltandosi verso mio cugino. –Qual buon vento Wa..- non riuscì a terminare la frase che l’altro rispose serio. -Levati dalle palle Hammer.-
Quella voce. Era lui. Ne ero sicuro. Il ragazzo dagli occhi verdi. E rimasi pietrificato nel vederlo; per la seconda volta.

*spazio autrice*
EHILA'! 
Sono in ritardo con l'aggiornamento. Speravo di fare più in fretta, ma ho avuto un po di impicci e non ho trovato il tempo per mettermi a scrivere qualcosa di decente. Questo è il meglio che sono riuscita a postare alle 3:22 di notte. perdonatemi se fa schifo o se è pieno zeppo di errori grammaticali. Spero di no, ma se ci sono segnalatemeli che correggo. 
mmh, chissà chi sarà il misterioso tipo dagli occhi verdi. ewe 
Comunque spero che questo capitolo non vi abbia scoragiati a tal punto di non voler più continuare la storia, vorrei sapere anche cosa ne pensate magari. AH! QUASI DIMENTICAVO! 
Voglevo ringraziare 
Im_Not_Okay, acator, erykachan, percybeth_2000 Bianca_bibi per aver recensito il primo capitolo così numerose/i. :D Grazie davvero. <3 *tanti cuori a voi* spero l'aggiornamento non vi deluda troppo. UN BACIONE.
-Gee. x

                                         

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Capitolo 3
*** capitolo tre; ***


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Se vi dico di non aver mai visto degli occhi dapprima tanto misteriosi, anche se velati di una profonda tristezza, trasformarsi in uno sguardo spento, vuoto e grave, mi credereste?
Way. Così si chiamava. Il ragazzo delle docce. Ed era li, a pochi metri da me a trapassare da parte a parte ,con uno sguardo gelido, e pieno di astio mio cugino. L’odio e il rancore che quei due provavano reciprocamente era palpabile.
Sul volto di Ryan si dipinse un sorrisetto bastardo, compiaciuto per la reazione ottenuta. Era riuscito a infastidirlo e ciò lo divertiva non poco. Si avvicinò a Way premendosi contro di  lui facendo pressione sul petto dell’altro. I loro respiri erano affannati, erano due mine pronte ad esplodere al più piccolo movimento.  – Altrimenti? cosa avresti intenzione di fare? Picchiarmi per caso?- rise beffardo Ryan. Il moro si irrigidì stringendo i pugni.  – Levati dalle palle ho detto. Non vorrei farti troppo male. Sai, sono quasi maggiorenne.. potrebbero addirittura arrestarmi, ragazzino.- rispose con aria di sfida il ragazzo delle docce. Gli amici di quel coglione di mio cugino scoppiarono in una fragorosa risata. Ma l’altro non si degnò minimamente di spostare i suoi occhi da quelli Ryan.  Il cuore mi si strinse nel vederlo solo contro quell’ammasso di gentaglia che iniziava a circondarlo. Avrei voluto sul serio fare qualcosa per allontanarli, ma ogni singolo muscolo del mio corpo sembrava rifiutarsi di muoversi. Rimasi boccheggiante seduto al tavolo non distogliendo neanche un secondo lo sguardo da Way.
-Lasciali stare Gee. ragazzi è stato un immenso piacere chiacchierare con voi, ma dobbiamo andare. Tante belle cose..- un ragazzone dalla capigliatura afro si fece largo tra la folla afferrando velocemente  il braccio del moro con cui stava per spaccare il bel faccino di Ryan. Quello si dimenò un attimo, poi si arrese e si scrollò di dosso l’amico venuto in suo soccorso. Un altro ragazzo, mingherlino e dai capelli biondo cenere, si posizionò vicino alla figura di Way. – Andiamocene.- sbottò secco quest’ultimo. Fu l’ultima cosa che dissero. Oltrepassarono la muraglia di idioti che gli si stagliava davanti e si dileguarono nei corridoi. Rimasi per un po’ a contemplare il punto in cui erano scomparsi quei tre ragazzi così bizarri. – Un giorno di questi lo sistemo per le feste quel finocchio.- Asserì serio mio cugino. I suoi amici, da bravi cagnolini fedeli al proprio padrone quali erano, annuirono e concordarono con Ryan, iniziando a proporre assurde vendette.  Mi alzai indignato dal tavolo dirigendomi verso il secchio della spazzatura. Come potevano prendersela con quel ragazzo? Come potevano guardarlo con tanto disprezzo?  Cosa poteva mai avergli fatto di così tanto grave da meritarsi quelle minacce, a parer mio, insensate? Più guardavo quel ragazzo meno capivo cosa ci trovassero di sbagliato in lui. Era fisicamente uno dei ragazzi più belli e interessanti che avessi mai visto aggirarsi per la scuola. Non che me ne intendessi di bellezza maschile, ma quando una persona aveva fascino, bisognava ammetterlo.
Gettai il vassoio nella spazzatura ancora stra colmo di cibo e a passo svelto mi diressi fuori dalla mensa.
Non saprei spiegare come mi sentivo. Era una sensazione strana, che mi colpiva dritta alla bocca dello stomaco. Come un gran senso di colpa che mi pesava addosso. Probabilmente era solo per il semplice fatto di essermi mostrato un codardo nei confronti di un tipo che aveva bisogno di una mano,  Ma non potevo di certo farmene una colpa. Erano abbastanza grandi per sbrigarsi le loro faccende da uomini adulti. Meglio accantonare quella sensazione e dimenticare la faccenda.
E cosa c’è di meglio di una malboro per distendere i nervi? Nulla. Che si fotta il professore di scienze. Ho bisogno di nicotina.
 Camminai a passo spedito verso i bagni e mi chiusi la porta alle spalle. Mi arrampicai sul cornicione della finestra, lasciando ciondolare i piedi dal bordo dando le spalle al giardino della scuola. Cercai il pacchetto di sigarette che tenevo in tasca estraendone una stecca per poi portarla alle labbra con un gesto più che abituale. La accesi e inspirai il primo tiro infossando le guance. Mi persi nel fissare le nuvolette di fumo che aleggiavano a un palmo dal mio naso, neanche fossero la cosa più interessante del mondo. Mi capitava spesso di fissarmi sui più piccoli gesti. Quelli involontari. Quelli che chiunque darebbe per scontato.  O di analizzare ogni dettaglio di un oggetto di utilizzo quotidiano. Avevo sempre vissuto in un mondo tutto mio, dove tutto era speciale ed era degno di essere studiato con minuziosa attenzione.  E in un certo senso sapevo anche il perché di questo mio evadere dalla realtà. Fin da piccolo non piacevo alla gente. I bambini non volevano giocare con me, ero strano. Una sorta di giocattolo difettoso, e chi mai vorrebbe giocare con un qualcosa di ‘guasto’?
Col crescere erano cambiate molte cose, ma non questa. La solitudine che mi opprimeva nel mondo reale, nel mio mondo, il mondo di quel piccolo Frank, non esisteva. Lì, i bambini facevano a gara per sedersi accanto a me a fare merenda, i miei genitori mi ripetevano quanto mi volessero bene e quanto li rendessi orgogliosi ogni volta che ne sentivo il bisogno, le maestre erano soddisfatte dei miei disegni un po’ macabri per la mia tenera età, e al mio compleanno venivo riempito di regali e auguri da tutti i miei amici.
Ma nel mondo reale c’erano pochi riscontri con l’universo parallelo in cui mi rifugiavo.
Non avevo mai incontrato qualcuno che mi ricordasse uno dei personaggi  delle mie fantasie da bambino.  Che con un sorriso mi facesse sentire a casa come quando li immaginavo. Non l’avevo mai incontrato, almeno fino ad oggi. Fino a che un ragazzo strambo dalla pelle diafana mi aveva detto di fare più attenzione a dove gettavo i mozziconi. Mi ero perso nei dettagli di quella figura che aveva fatto capolino dalla finestra. Avevo osservato ogni singolo centimetro del suo viso. Avevo notato quelle labbra rosse e umide tirate in un sorriso cordiale, mostrando una fila di tanti piccoli denti bianchissimi. Mi ero soffermato sulla delicata forma del suo naso alla francese. E poi quegli occhi. Quegli occhi così belli che neanche nel mondo in cui mi rifugiavo da piccolo sarei riuscito a riprodurre. Chiusi gli occhi spegnendo la sigaretta sul cornicione e gettandola tra l’erba verde del prato sottostante. Ero decisamente troppo in ritardo per partecipare alla lezione di scienze, perciò scesi in cortile dalle scale antincendio e mi infilai le cuffie accomodandomi sulle ultime file degli scalini di ferro.
-Ehi, ragazzino. Tu non sei della classe di ginnastica.- sbottò irritata una voce femminile alle mie spalle. Mi voltai. Cazzo. La professoressa di educazione fisica mi guardò in cagnesco e si avvicinò rapidamente a me prendendomi per un orecchio.  –Ma che cazzo sta facendo? E’ impazzita?- Asserii dimenticandomi di ogni regola comportamentale della scuola. –Come ti permetti di parlarmi con questo tono?! Ora te la faccio pagare, vedrai.- Commentò indignata aumentando la presa sul mio povero orecchio e trascinandomi di peso nella mia classe, dopo avermi estorto con la forza la sezione in cui stavo.
-L’ho trovato sulle scale a farsi i fatti suoi. E’ davvero un indisciplinato. Un vero esemplare di adolescente senza il minimo di rispetto! Esigo una severa punizione!- Disse irata quella sclerata della prof di ginnastica. Sono nella merda. –Me ne occupo io. Non si preoccupi, qui è tutto sottocontrollo.- Rispose la prof di scienze fissandomi con aria seria. –Iero, la informo che si è appena guadagnato una settimana in compagnia del professor Brown, in aula punizione. Ogni pomeriggio dall’una alle due. - Asserì poi non distogliendo lo sguardo dal registro su cui stava annotando ciò che mi aveva appena riferito. –Non è giusto!- tentai invano di protestare, ma fu inutile. Tornai a sedermi al mio banco, accosciandomi su di esso stancamente. Io me lo sentivo che la vita qui.. sarebbe stata un inferno.

*angolo autrice*
TADAAAAN! ecco il capitolo tre; nulla di entusiasmante.
Solo un piccolo Frank ancora totalmente ignaro
del perchè di tutte quelle attenzioni
che rivolgeva a quel ragazzo dagli occhi magnetici.
Mi dispiace tantissimo per il ritardo,
avevo gia scritto in precedenza il capitolo.
solo che è andato perduto (evidentemente ho dimenticato di salvarlo)
e quindi ho dovuto rifare tutto dall'inizio.
Sono anche stata poco bene, il che ha rallentato e
non poco l'aggiornamento della fan fiction.
perdonatemi se vi ho fatto aspettare. TT--TT 
beh, fatemi sapere come al solito cosa ne pensate...
ho paura del giudizio, ma spero siate sincere n.n 
un ultima cosa!
se qualcuno di voi avesse voglia di fare
un banner per la storia o comunque
qualche fan art può inviarmela (firmata) e la carico sul prossimo capitolo! :3
Un bacione, a presto!

-Gee.x 

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Capitolo 4
*** capitolo quattro; ***


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Non ci posso credere. Sono o non sono la persona più sfigata su questo fottutissimo pianeta? Oh, si che lo sono. Non bastava il trasferimento, mia madre isterica, mia zia e le sue battutine imbarazzanti su di me, un cugino che mi odia e si vergogna anche solo di conoscermi, la serie infinita di insufficienze che mi sarei beccato se non mi decido a studiare e non un solo amico con cui parlare dei miei cazzo di problemi, ora ci si mette anche un'ora aggiuntiva di scuola! Appoggiai la testa con aria afflitta sul banco, per poi tirarmi su sui gomiti. I minuti passavano lentamente. Sembrava che la lezione di Storia fosse destinata a durare in eterno e più pensavo che il suono della campanella stesse per liberarmi da quell'atroce sofferenza, più l'orologio appeso al muro distruggeva ogni mio sogno di una ipotetica fuga dall'aula. Finalmente dopo tanta attesa giunse l'ora successiva. Per molti l'ora di tornare a casa. Ma non per me. Perché io sono lo sfigato per eccellenza, ricordate? e mi tocca restare in aula punizione. Fino alle due. Avete una minima idea di quante cose avrei potuto fare in un ora!? Avrei potuto starmene sdraiato sul mio letto con la musica a palla ad aspettare che il profumo delizioso del pranzo pronto in tavola mi obbligasse a spegnere tutto e dirigermi alla velocità della luce in cucina. O suonare qualcosa per ammazzare il tempo, oppure semplicemente dormire! Ma purtroppo sono rinchiuso in questo carcere di povere menti. Mi alzai svogliatamente dalla sedia, biascicando un arrivederci al professore, e mi diressi a passo trascinato verso l'aula di punizione. Mh, dovrebbe essere quella lì infondo. Affrettai il passo ritrovandomi dinnanzi alla porta. Bussai. -Avanti, indisciplinato ed inutile spreco di tempo.- La voce del professor Brown arrivò distintamente alle mie orecchie. Pensai a quanto sarebbe stato esilarante se, invece di un alunno come me, avesse accolto il preside con quelle parole. Sorrisi e aprii la porta in legno intravedendo così le facce annoiate di chi doveva scontare la propria punizione. -Buongiorno.- dissi, ignorando totalmente il tono seccato che aveva usato del docente nel salutarmi. Ma chi voleva prendere per il culo? Come se avesse qualcosa di meglio da fare che stare li a badare a degli adolescenti. Anche io avevo una vita sociale più attiva della sua, ed ho detto tutto. Come al solito, mi diressi a testa bassa tra le ultime file e infilai la mano in tasca pronto ad afferrare il mio inseparabile compagno di noia, meglio conosciuto come i pod. -Questa non è un ora di svago ragazzi, non credetevi che io starò qui a farvi da balia mentre voi fate baccano. Siete qui per riflettere su ciò che avete combinato per finire qui anche il pomeriggio. Per non ripetere gli stessi errori e per...- si interruppe il professore non trovando la parola giusta per continuare la sua, apparentemente interminabile, paternale. -Non si sforzi professore, non frega un cazzo a nessuno.- aggiunse schietto un ragazzo, del quarto credo, dall'altro lato della stanza facendo definitivamente ammutolire il professore e scoppiare a ridere tutto il resto della classe. Finito il momento delle risate, l'aria si alleggerì di molto e gli studenti iniziarono a chiacchierare placidamente con il compagno di banco, prestando molta poca attenzione ai vari richiami del signor Brown che ormai si limitava solo a dare un contegno a quel caos. Iniziai a far vagare lo sguardo per l'aula e incominciai a scrutare i volti dei presenti. Chissà che avevano fatto per trovarsi in aula detenzione. Scorsi un tipo della terza C, sicuramente non era la prima volta che si ritrovava a scontare una qualche punizione, sembrava davvero a suo agio e a giudicare il suo gruppo di amici, frequentavano quel luogo davvero spesso tutti insieme. Poi intravidi una ragazza del primo anno, era parecchio incazzata, perciò evitai di guardarla ancora, nel caso si fosse girata e mi avesse trovato a fissarla mi avrebbe incenerito con un solo sguardo. Io non avevo nessuno con cui parlare, ne tanto meno nessuno con cui prendermela per essere finito in aula punizioni, perciò feci la cosa che sapevo fare meglio. Isolarmi e immergermi nella musica. Accesi l'mp3 e infilai le cuffiette nelle orecchie adagiando la testa sul tavolo. E credo che sia stato esattamente ciò che feci in automatico per minimo altri tre giorni di fila. Ormai le mie giornate sembravano interminabili e terribilmente noiose. Il fatto che fossi completamente solo cominciava a pesarmi. L’obbligo di tenermi compagnia di mio cugino e dei suoi amichetti era valido solo per gli orari scolastici, per il resto del giorno ero totalmente isolato. Avrei dovuto cercare di fare amicizia in quell’ora di doposcuola. Almeno per riuscire a passare qualche minuto in compagnia di un essere vivente che abbia un quoziente intellettivo che non sfiori la demenza, come quello degli individui frequentati da Ryan. Perciò decisi che, oggi, mi sarei seduto accanto a qualcuno e avrei cercato di instaurare un qualche rapporto o di intrattenere una pseudo conversazione con almeno uno dei miei compagni.
Finite le lezioni mi diressi a passo incerto verso l’aula in cui avrei passato il resto dell’ora.  Aprii la porta ed entrai accennando un ‘buongiorno’ sbrigativo al professor Brown. ora veniva la parte difficile. Trovare qualcuno disposto a passare quell’ora affianco ad uno come me. Alzai lo sguardo e iniziai a cercare un possibile compagno di banco. Oggi la classe era più affollata del solito e la cosa non mi piacque per niente. Era stato difficile per me ignorare le continue prese per il culo dette a mezza bocca in quei giorni, ma era da un po’ che, notando la mia indifferenza ai loro insulti, avevano cominciato a non calcolarmi e basta. L’arrivo di nuovi compagni avrebbe dato vita a nuovi insulti, nuove battutine, nuovi scherzi e nessuno e dico nessuno in quella classe si sarebbe mai sognato di rovinarsi la reputazione stando vicino a un ragazzo preso di mira da chiunque. Sarebbe stato un suicidio sociale bello e buono. Beh, ci avevo sperato forse un po’ troppo di poter avere un amico qui dentro. Mi ero perso in mille pensieri. L’avevo immaginato simile a me. Un ragazzo fuori dallo stereotipo del teenager americano, uno che come me vivesse di musica, che avesse interesse per l’arte, per la scrittura, fumetti, uno con un minimo di cultura, che ne so.. ma dove diamine speravo di trovarlo un tipo così? Dovevo ricominciare a dividere ciò che era sogno, dalla realtà. Ultimamente, sarà per la solitudine, sarà per la noia, avevo ricominciato a vivere in quel mondo tutto mio d’un tempo. E avevo notato che li le cose non erano cambiate affatto. Tutto era più bello e meno fottutamente reale… ma dovevo crescere, vero? O almeno questo è ciò che dice in continuazione mia madre. Rassegnato, sfilai tra i banchi a testa china, raggiungendo l’ultimo banco. ‘Forse l’hanno lasciato li apposta per te, probabile che non vogliano prendersi i tuoi germi da fallito’ disse la vocina nella mia testa. Quella sempre pronta a sbattermi in faccia quanta poca autostima avessi di me stesso. La ignorai momentaneamente accomodandomi sulla sedia. Oggi dovevo passare inosservato, sarebbe stato il piano migliore da attuare in quelle circostanze. Forse avrei avuto qualche speranza di non essere sfottuto a vita dai nuovi arrivati. Il professore ripeté per l’ennesima volta il suo discorso interminabile su quanto avremmo dovuto riflettere sulla punizione che ci era stata assegnata e poi si mise tranquillamente a leggere il quotidiano sfogliando annoiato qualche pagina della cronaca sportiva, quando, dalla porta, entrò un ragazzo  tutto trafelato. –Mi dispiace signor Brown, non riuscivo a trovare l’aula.- Il mio cuore perse un battito. Non poteva essere lui. –Gerard Way, se non erro … beh, può accomodarsi. Per questa volta lascerò correre. – Asserì il professore. -veramente la pronuncia sarebbe.. non importa.- rispose sbrigativo quest'ultimo. Gerard. Bel nome. Tale nome tale proprietar… ma che cazzo dico? Sto impazzendo? No, non ancora, almeno credo. Erano un paio di giorni che non lo vedevo in giro, quindi vederlo piombare lì, senza preavviso, mi aveva solo leggermente…. Scosso. Ecco tutto. Il moro squadrò la stanza alla ricerca di un posto dove sedersi e costatò, con aria seccata, che l’unico libero era quello di fianco al sottoscritto. Non sembrava particolarmente euforico all’idea di dover passare l’intera ora con me nei paraggi.  E sbuffando sonoramente si trascinò tra i banchi sino a stravaccarsi sulla sedia di fianco alla mia. Decisi di non infastidirlo ulteriormente, avrà avuto una giornataccia e non ci tenevo a farmelo nemico. Voltai la testa nella sua direzione e mi incantai per un attimo, perdendomi nella delicatezza dei suoi lineamenti.
Si irrigidì, lo vidi stringere i pugni fino a far sbiadire il colorito roseo delle sue nocche.
-Senti..- sbottò serissimo d’un tratto facendomi sussultare per lo spavento. – se hai intenzione di rompere le palle, squadrarmi, fare battutine o infastidirmi da bravo cagnolino di Ryan, hai davvero beccato la giornata sbagliata. Prova solo a rivolgermi la parola e giuro che ti faccio pentire di essere nato.-
Cagnolino? Ryan? Ma dice sul serio? Pensa seriamente che io sia uno di loro? Credo di aver assunto una faccia epica. Tra lo sbigottito e lo stralunato. Beh, tecnicamente sono obbligato a frequentarli, ma ciò non fa di me un decerebrato come loro. Vero? E poi… si ricorda di me.  Mi ha notato!
Scossi la testa scacciando bruscamente l’ultimo pensiero che avevo formulato. –io veramente non avevo intenz..- una mano mi tappò prontamente la bocca e sentii due occhi penetranti puntarsi dritti nei miei incatenandomi al suo sguardo severo che non ammetteva repliche. –ti ho detto di stare zitto. Ciò implica che NON DEVI FIATARE- il suo sguardo privo di anima e sentimenti mi trapassò, marcò il tono sulle ultime parole per rendermi chiaro il concetto, ritirando poi la mano con un gesto sbrigativo. Che mani morbide… EH? MA CHE CAZZO DICI FRANK? accantonai anche l’ultima imbarazzante costatazione sulle mani del tipo di fronte a me e mi limitai ad annuire, seriamente intimorito dalle sue minacce.
-Bene.- concluse.  Non parlammo per tutta la durata della punizione. Non una parola uscì dalle nostre labbra. Lui ogni tanto scarabocchiava sui fogli immacolati di un blocco da disegno. E io mi ritrovavo a fissare distrattamente i tratti che lasciava con la matita sulla carta. Mai vista tanta dedizione in un semplice schizzo.
 Suonata l’ora si alzò in silenzio raccattando la sua roba avviandosi verso l’uscita.
 E mentre spariva al di là della porta, non potei fare a meno di chiedermi se avrei  rivisto di nuovo. 

*spazio autrice*
Picchiatemi pure, sono qui ed accetto ogni sorta di punizione.
Vi prego perdonatemi per il ritardo.
Non riuscivo proprio a decidermi se pubblicare o no il capitolo.
Ci ho messo minimo tre o quattro notti a scriverlo, e non ne sono neanche tanto soddisfatta.
Spero davvero tanto, come al solito, che non deluda nessuno, almeno non più di tanto!
L'invito a mandarmi le vostre fan art
(banner, disegni, fotomontaggi firmati da voi che verrebbero postati nel capitolo successivo)
frerard è sempre valido. :)
beh, fatemi sapere se vi è piaciuto o no il quarto capitolo, io spero vivamente di non avervi deluso. e ringrazio tutte voi meraviglie che state seguendo questa storia!
un bacione, Gee. x

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Capitolo 5
*** capitolo cinque; ***


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Abbandonai l’aula appena riuscii a trovare le forze per alzare il culo da quella stramaledetta sedia senza uccidere nessuno. Mi aveva decisamente alterato il modo di fare di quel tipo. Ma come si permetteva? Giudicarmi così, senza neanche sapere il mio nome. Io il suo lo conoscevo, direi anche troppo bene, visto che si aggirava nella mia testa da un po’ troppo tempo, eppure non mi ero mai neanche sognato di farmi qualche strana idea sul suo conto. Che razza di idiota. Calma e sangue freddo Frank, tempo due giorni e non dovrai più rimanere chiuso in quella scuola per un ora supplementare.
Gettai un occhiata al giardino, seguendo Gerard con lo sguardo per tutto il tragitto fino a fuori al cancello. Camminava a passo svelto con le mani calate nelle tasche della felpa. Indossando il cappuccio, nonché unica protezione dalla pioggia che non accennava a cessare. Presi la sacca e me la misi in spalla dopo alcuni tentativi nel cercare di far passare il braccio sulle spalline sfilacciate. Ero troppo nervoso anche solo per compiere un azione abituale come quella. Ormai ero rimasto solo in classe, quindi mi concessi di sbattere rumorosamente la porta alle mie spalle mentre lasciavo la stanza.
Finalmente fuori. Lontano da professori in astinenza perenne da sesso e compagnie indesiderate. Sotto la pioggia. L’unica benedizione di quella giornata stressante. Era incredibile come riuscisse a farmi sciogliere i nervi, tesi come corde di violino, era capace di farmi spegnere per un attimo il cervello, rilassarmi e godermi quel profumo impossibile da riprodurre o descrivere in quanto a purezza. Inalai l’aria fresca e frizzante di quelle prime ore pomeridiane di quella giornata, facendo azzerare la voglia di tornare a casa. Avevo solo bisogno di staccare da tutto, di far affievolire quelle vocine che mi sussurravano in continuazione che razza di fallimento io sia da sempre e di allontanarmi da mio cugino che ultimamente iniziava a darmi sui nervi con quella sua aria di superiorità. Sarei potuto andare al parco, ma sarebbe stata una scelta troppo scontata … avrei finito anche per annoiarmi. Quindi optai per lo skate park a pochi passi dal campo di football  dietro la scuola sperando di trovare qualche temerario che avesse voglia di skatare anche con quel tempo da cani.
Quel posto l'avevo scoperto durante una noiosissima lezione di storia, guardando fuori dalla finestra. Dal mio banco si poteva scorgere uno squarcio di panorama oltre gli alberi che circondavano il campo di allenamento per gli atleti della scuola, e da quel piccolo spazio tra le fronde avevo intravisto la rampa.
Pochi minuti dopo mi trovai esattamente ai piedi della struttura in legno, deserta perché inagibile con quell’acquazzone. Beh, poco male. Mi arrampicai sopra essa, tentando di scivolare il meno possibile, per poi ripararmi sotto una piccola tettoia, montata li da chissà chi. Posai la sacca sotto la sporgenza, vicino ad una maglia di un qualche fumetto, dimenticata li sopra da non so quanto tempo, probabilmente da un frequentatore di quel posto, e mi tolsi la felpa restando con indosso solo una leggera canottiera di cotone poggiandola accuratamente sopra la borsa. Lo facevo spesso, intendo spogliarmi sotto il temporale, amavo il lento scorrere delle gocce sulla pelle. Era come una carezza incessante su ogni centimetro di corpo scoperto. E io mi sentivo amato. Libero da tutto, puro, immune a ogni parola, insulto, maldicenza. Mi trovavo spesso ad urlare frasi al vento, che le portava via in una muta promessa di non rivelarle a nessun’altro.  Mi sentivo così vicino alla natura. Le dovevo tanto.
Perciò decisi di sfogarmi di nuovo con essa.  Scesi dal legno bagnato e scivoloso della pista e mi lasciai cadere a peso morto sul prato ricoperto di brina. La pioggia si sembrò ridurre il suo getto come in attesa di una mia confessione. –Io…- iniziai incerto sul come continuare la frase. Mi sentivo così solo, così impaurito dal mondo reale. Ormai ero confuso su tutto, mi sembrava di vivere in un incubo. Un incubo fatto di solitudine, di odio e di un bisogno costante di essere accettato. Di essere considerato, perché io ero reale. Non potevo essere ignorato per sempre … no?  –Io…- chiusi gli occhi ed inspirai fino a riempirmi di quell’aria cristallina i miei polmoni ormai abituati solo allo smog e alla nicotina. Sembrò rigenerarmi e spingermi a continuare. –IO… IO ESISTO!- cacciai fuori espellendo tutta la rabbia repressa. Urlai con tutto il fiato che avevo in corpo. Un sorriso mi spuntò allegro sulle labbra. –Sono ancora vivo, mondo!- dissi, questa volta abbassando il tono di voce mentre allargavo le braccia stringendo in un pugno l’erba sotto di me. chiusi gli occhi. Stavo bene. Almeno per ora.
-Ancora per poco! Ti consiglierei di metterti qualcosa addosso, o il dottore ti diagnosticherà qualche giorno di vita al massimo!- declamò una voce sconosciuta alle mie spalle facendomi irrigidire all’istante e serrando gli occhi. Fottuto vento, anche tu mi volti le spalle!? Dove cazzo è finito il segreto professionale!?
-Oh, ci sei? Ti senti bene?- Sentii i passi, appartenenti alla voce di prima, avvicinarsi sempre di più. Spalancai gli occhi, l’imbarazzo di quel momento mi impediva anche solo di formulare una frase di senso compiuto per rispondere a quel ragazzo che si stava preoccupando per la mia salute. Credo più mentale che fisica. E come dargli torto?
Una chioma riccioluta spuntò da sopra la mia testa oscurando la visuale che avevo prima sul cielo nebuloso e biancastro.
-Amico? Vuoi che ti dia una mano?- disse il tipo strambo al di sopra di me, mutando la sua espressione dapprima preoccupata a felice, non appena annuii. Mi porse la mano e io la afferrai tirandomi su a fatica dal terreno madido di pioggia. Fortunatamente non mi ero sporcato più di tanto, il che avrebbe di sicuro fatto piacere a mia madre. –E.. se non sono troppo invadente… mi spieghi che cazzo ci fai qui a beccarti la bufera? Che razza di droghe ti inietti? Puoi restarci secco!- sbottò serio.
Ma che diamine vuole questo? Si facesse i cazzi propri. Decido io che farmene della mia salute.
-Non voglio un morto sulla coscienza ragazzo, perciò ti accompagno a casa. E non accetto scuse.- disse ancora, stavolta regolando la  voce, quasi in tono scherzoso. Sorrisi pensando a che strano personaggio avevo incontrato. –Va bene. Prendo le mie cose.- saltai sulla rampa raccogliendo la mia roba. –Non è che potresti tirarmi giù anche la maglia di quello sclerato del mio migliore amico? Tecnicamente sarei qui solo per quella. Poi mi son trovato a dover fare l’eroe salvando la vita a un suicida.- scoppiammo entrambi a ridere guardandoci con fare di intesa. Lanciai l’unica t-shirt che trovai, sperando fosse quella che cercava, e mi riinfilai la mia felpa godendo del caldo tepore che dava al mio corpo ormai fradicio e infreddolito  e ci avviammo assieme verso la strada che portava a casa mia. Dopo aver scambiato qualche parola di circostanza, aver spiegato il perché della mia insana voglia di prendermi una polmonite e aver appreso di frequentare la stessa scuola, arrivammo davanti alla staccionata in legno bianco che divideva la strada dal giardino di casa mia.
-Comunque io sono Ray. - mi porse la mano sfoderando un enorme sorriso a 32 denti. La afferrai timidamente.  -E mi stai decisamente simpatico, vedi di non cacciarti nei guai in mia assenza. Ci si vede domani a scuola.- una sensazione di calore si impossessò di me riscaldandomi da dentro.  -il mio nome è Frank... beh, a domani allora.- mi sentivo meno solo, dopo tanto tempo. Forse finalmente uno spiraglio di sole, iniziava ad insiidiarsi nel mio mondo fatto di pioggia e solitudine.

*spazio autrice*
Voglio minimo un pacco di caramelle per l'aggiornamento in tempo record!
*si asciuga una lacrima commossa*
Credo dipendi dall'intervista in cui Gerard smentisce la frerard, forse un po' ci ho messo poco anche un po' per ripicca. lol
AnyIero:
t'oh, un Ray solare e raggiante come al solito incontra un frank solo e depresso.
non male come accoppiata.
perdonatemi le svariate odi alla pioggia. è che dopo la musica, non c'è nulla di più bello per me.
In questo capitolo ho sentito Frank molto vicino a me, descrivendo in prima persona cosa sento
nelle giornate che molti considerano 'ugiose e tristi'.
io credo di aver finito. il capitolo penso non sia nulla di eccezionale, ma ci tenevo a far
diventare quei due amici in un modo che non dipendesse affatto dalla presenza di Gerard.
e così è stato. quindi....
ALLA PROSSIMA!
se dovete contattarmi sapete dove trovarmi. u.u 
Un bacione a tutte voi meraviglie!
-Gee. x

 

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Capitolo 6
*** capitolo sei; ***


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-Frank, vuoi darti una mossa?! Siamo in ritardo!- sbraitò mia madre da fuori alla porta, rigorosamente chiusa, della mia camera. Non avevo nessuna intenzione di andare a quella stupida cena di famiglia. Ci sarebbero stati Ryan e quei falliti dei miei zii. Sarebbe stato un fiasco, sinceramente non so bene perché mia madre si ostini ancora a cercare di far buona impressione con sua sorella. Fatto sta che quella sera sarò obbligato a passarla in compagnia di parenti che detesto. Bella prospettiva di proseguimento di serata, no? Qualcuno potrebbe pensare che almeno non la passerò seduto solo in camera a leggere per la miliardesima volta la saga di Harry Potter o a scrivere bozze per  futuri testi delle mie canzoni, ma preferirei di gran lunga rinchiudermi in quel castello di solitudine che con gli anni mi sono creato che passare ore sopportando battutine e rimproveri su come mi sia ridotto nel corso degli anni. Dovrei essere abituato ormai a ogni sorta di presa in giro da parte loro, il fatto è che sono un debole. Troppo vulnerabile per lasciarmi scorrere addosso quelle parole come se fossero acqua. Sono come una spugna, ogni insulto si tramuta in una goccia, che penetra affondo in me, e appesantisce la mia anima, mi schiaccia sotto il suo peso e mi sfibra da dentro, risucchiandomi le forze. Quando si ha una persona accanto, qualcuno disposto a svuotarti da quel peso che sei costretto a portare, tutto sembra meno difficile, il dolore diventa più sopportabile. Ma io sono Frank, e non ho nessuno. Nessuno pronto a combattere al mio fianco. Nessuno che smentisca la mia idea di essere un fallimento, nessuno che mi abbracci quando piango solo nel letto per aver ignorato fino allo sfinimento le critiche a scuola. Nessuno che mi dica che non sono solo.
Mi guardai ancora una volta nello specchio. Questa sera cercai di vestirmi il più decentemente possibile. Lo avevo fatto soprattutto per mia madre, fosse per me non avrei mai cercato di nascondere sotto un bel vestito ciò che realmente ero. Avevo indossato un paio di jeans intatti (credo l’unico che avessi nell’armadio che non fossero lacerati sulle ginocchia), avevo optato anche per una semplice maglia grigia con una scritta.
Le scarpe erano quelle che erano, sempre le stesse da circa un anno. Le mie amate DC nere, forse un po’ troppo vecchie e rovinate, ma pur sempre comode. Pettinai i capelli in un modo quasi accettabile e mi decisi ad aprire la porta per poi scendere e raggiungere i miei.
-Perché bisogna sempre richiamarti eh, Frank?- chiese retoricamente mio padre in uno sbuffo mentre usciva di casa. Non risposi limitandomi a seguirlo a testa bassa fino alla macchina. Mia madre, vestita in modo elegante, arrivò poco dopo reggendo una grande teglia tra le mani. Riuscì ad aprire lo sportello dopo qualche tentativo ed entrò sedendosi al suo solito posto. Il dolce profumo di crostata alla marmellata di more mi inondò le narici, facendomi venire l’acquolina in bocca e smuovendomi l’appetito che dall’ora di pranzo non si era più ripresentato. Le torte di mia madre erano solo per le occasioni speciali, per le cene importanti o di famiglia e per i compleanni.
-Siamo quasi arrivati, immagino ti sia mancato Ryan.- sorrise mia madre ignara della vera natura di quel bastardo di mio cugino. Sembrava così felice che avessi legato con lui che non riuscii a smontare il suo entusiasmo.  Misi su un sorriso abbastanza tirato, ma lei parve non accorgersi di nulla. –Non sai quanto, mamma.- risposi solamente. La mia farsa sembrò convincerla e rassicurarla, così si voltò di nuovo a guardare la strada. Da qui si intravedeva già la casa della zia. Dopo poco arrivammo a destinazione e scendemmo dalla macchina dirigendoci davanti al portone. Una zia Lucy tutta agghindata si materializzò dalla porta, ancor prima che riuscissimo a suonare il campanello.
-Sorellina!  Ma sei splendida stasera! Come al solito oserei dire.- cinguettò la Milf. Dio che schifo, pensai immaginandola, con orrore, sul set di qualche video porno scadente. I miei pensieri furono fortunatamente interrotti dall’arrivo di mio zio Mark. –Coraggio gente, non restate li impalati, la cena è in tavola e questa volta la mia adorata mogliettina si è superata con i suoi manicaretti.- alzai gli occhi al cielo schifato dalla visione di un appassionato bacio tra i miei zii scambiato proprio li, davanti  agli sguardi imbarazzati di tutti, compreso Ryan che era appena arrivato ad ‘accogliere’ gli ospiti.
Finite le loro effusioni, e grazie a dio finirono in fretta, ci lasciarono entrare e accomodare in sala da pranzo. La tavola imbandita era, nuovamente, piena di ogni tipo di carne e affettati. La fame che mi attanagliava lo stomaco fino a qualche istante prima, si dissolse in un attimo. –Mostriciattolo com’è che non mangi?- sputò velenoso mio cugino beccandosi una mia occhiataccia che non parve intimorirlo per nulla. –Oh, caro! Mi ero dimenticata che fossi erbivoro! Ora ti porto subito un insalata per rimediare. Scusami davvero, non so dove ho la testa ultimamente..- si giustificò per niente dispiaciuta, ma con un aria falsamente imbarazzata per quella sua dimenticanza, mia zia. si lasciò anche scappare una risatina mentre lasciava la sala da pranzo per dirigersi in cucina per prepararmi qualche verdura condita con veleno. –Vegetariano, sono vegetariano.- bisbigliai a denti stretti continuando a guardare inorridito gli altri mentre divoravano quelle povere bestie.
La cena finì velocemente, non mancarono le frecciatine di Ryan, ne tantomeno quelle di zia Lucy, ma stranamente quella sera non ebbero nessuna particolare influenza sul mio stato d’animo e non ci badai più di tanto.
-Che ne dite di andare a fare un giro per Belleville? C’è una gelateria, non troppo lontana da qui. Fa anch e dei frappè squisiti.- trillò mia zia, contagiando con la sua euforia, come al solito mia madre. Voltai lo sguardo verso mio cugino che mi guardava con un aria omicida. E ora che cazzo voleva da me? alzai gli occhi al cielo interrompendo il contatto visivo. I miei erano già partiti a passo spedito seguendo i genitori di Ryan, lasciando me e quest’ultimo leggermente indietro.
-Senti sfigato..- sputò velenoso l’altro tenendomi in pugno per il colletto della maglia appena dopo essersi assicurato di non poter essere visto da nessuno. –Le regole sono le stesse. Stammi alla larga. La gente sa che sei mio parente e questo per me è già umiliante. Quindi. Non parlarmi. Non guardarmi. E comportati in modo normale per una cazzo di volta. Sono stato chiaro?! Ciò che fai tu influenza la mia reputazione. E spero per te, lo spero vivamente, che non ci sia motivo di doverti far capire la lezione a suon di botte.-
Il suo viso era così vicino al mio da riuscire a sentire chiaramente anche il suo respiro affannato solleticarmi la pelle. Mi irrigidii appena lo sentii urlarmi contro con tanta rabbia mista a preoccupazione. Credo di aver smesso anche di respirare per tutto il tempo del suo monologo, per paura di poterlo far alterare ulteriormente. Mi limitai a fare un cenno con la testa per fargli intuire che il messaggio era stato ricevuto forte e chiaro. Lui annui con fare soddisfatto, spintonandomi per allontanarsi da me. Cominciai a correre per raggiungere i miei genitori e non appena li trovai non feci altro che stargli il più incollato possibile per tutto il resto della serata, tenendomi a debita distanza da Ryan. Era così umiliante conoscermi? Forse aveva ragione. Chiunque si sarebbe vergognato di venirmi a salutare in pubblico. Ero uno sfigato, uno sfigato per eccellenza e non mi sarei sorpreso se l’indomani Ray avrebbe finto di non avermi mai visto prima.

*Spazio autrice*
SAAAAALVE MERAVIGLIE. Mi siete mancate. gn. cc
va beh, passando alla storia;
Odio con tutto il cuore la famiglia della zia inventata da me del povero Frankie.
Per quanto lui si sforzi per farsi accettare, sia dai genitori che dagli altri parenti
sembra che non sarà mai abbastanza per piacergli veramente.
Alcune parti di questo capitolo sono ispirate al mio vero stato d'animo.
soprattutto quelle riflessioni un po' più forti e in qualche modo.... 'sentite'.
spero che sia stato di vostro gradimento e che continuiate a informarmi su cosa ne pensiate.
Un bacione a tutti e a presto!
-Gee. x 

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Capitolo 7
*** capitolo sette; ***


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Quella sera rincasammo tardi, ero davvero stremato dalla lunga passeggiata fatta non appena usciti dalla gelateria, così decisi di andarmene a dormire appena arrivati a casa. Salii in camera, mi tolsi la maglia e i jeans e li gettai sul pavimento ormai colmo di vestiti da lavare che sarebbero rimasti li a lungo, data la mia scarsa voglia di farlo. Sfilai  le scarpe e le calze per poi raggomitolarmi sotto le coperte in intimo. Adoravo la sensazione di calore e protezione che mi infondeva quel piumone invernale. Mi accoccolai li sotto al calduccio, abbracciando un lembo di coperta e stringendomelo al petto, poi chiusi gli occhi e in poco tempo caddi in un sonno profondo.
 
Mi trovavo in un vasto campo in erba. Una coltre di nebbia copriva gli orizzonti disorientandomi e una pioggerellina lieve cadeva inumidendo il terreno. Arricciai le dita strappando dei fili d’erba dal prato, accorgendomi così di essere a piedi nudi. Non indossavo alcuna t-shirt, solo un paio di bermuda neri e nonostante fossi più che certo che l’aria fosse gelida, non provavo freddo. Inspirai a fondo la brezza frizzante, non saprei dire neanche che ora del giorno fosse, il cielo grigiastro era privo di luna o di un eventuale sole. Era tutto così surreale e ovattato e il silenzio che regnava sovrano in quel luogo a me sconosciuto era assordante. Non si udiva neanche il battito del mio cuore, che fossi morto senza accorgermene?  Dalla nebbia cominciò a farsi strada la figura di un ragazzo dai lineamenti irriconoscibili a causa della densa foschia, che andava diradando a mano a mano che l’uomo avanzava. La lentezza con cui si avvicinava a me era snervante, e il fatto che fossi come ancorato al terreno, non mi permetteva di andargli in contro e di vedere in faccia chi fosse. La nebbia si dissolse gradualmente dai contorni di quella figura da prima offuscata, fino ad apparire tanto nitida da mozzarmi il fiato.
 -G..Gerard.- dissi flebilmente, fu quasi un sussurro impercettibile, ma che riuscì comunque a spezzare la cappa di silenzio che mi circondava. Lo osservai puntare i suoi occhi di un penetrante verde scuro, privi di luce e circondati da ciglia nere e folte, nei miei più vivi, decisamente incantati dalla bellezza dell’ altro. Un sorriso soddisfatto comparve sul suo volto per poi avvicinarsi iniziando ad eliminare, centimetro dopo centimetro, la distanza che divideva i nostri corpi. Sentivo la stoffa della sua camicia scura sfregare sul mio petto nudo e le sue mani vellutate circondarmi i fianchi con un gesto di assoluta premura. Il vento stava diventando impetuoso scompigliando in modo perfetto i capelli corvini di Gerard che, senza interrompere il contatto visivo creatosi tra noi, se ne sistemò una ciocca dietro l’orecchio.
 Il suo naso, leggermente alla francese accarezzò il mio con la punta facendomi rabbrividire al solo tocco. Allacciai d’istinto le braccia al suo collo tenendomi in equilibrio in punta di piedi per raggiungere la sua altezza sentendo il suo respiro infrangersi sulle mie labbra umide. Un insana voglia di baciare quella bocca così invitante si scatenò in me facendomi disconnettere il cervello per un istante, quando una voce mi costrinse ad aprire gli occhi appena socchiusi nell’intento di rendere quella situazione meno imbarazzante.
-Frank…- Volevo conoscere il suo sapore, così smisi nuovamente di pensare per gettarmi su quelle labbra leggermente increspate. -Frank..- Di nuovo sentii una voce esterna chiamarmi.
 
 –Frank, svegliati cazzo!- Due mani mi afferrarono per le spalle scuotendomi con forza. Caddi rovinosamente giù dal materasso per lo spavento, ritrovandomi in un intricato groviglio di coperte che rischiavano di soffocarmi. Mi dimenai affannosamente cercando di sbucare fuori da quella trappola infernale, per poi riuscire nel mio intento, tossicchiando e aspirando a pieni polmoni l’ossigeno che mi era decisamente mancato. –Vuoi uccidermi per caso!?- sbottai con aria sbigottita verso il mio aggressore, meglio conosciuta come Linda Pricolo , per me semplicemente…. ‘mamma’. Lei in tutta risposta sbottò a ridere avvicinandosi a me e pizzicandomi una guancia. – ma no Frankie, voglio solo farti arrivare a scuola in orario. Il che, a detta tua, è molto peggio che essere assassinati.- sorrisi, per poi socchiudere gli occhi godendomi la dolce sensazione dei baci sulla fronte che mia madre mi dava fin da piccolo. –Su, scendi che è pronta la colazione.- annuii continuando a sorriderle. Mi alzai dalla matassa di coperte su cui ero disteso e filai in bagno a cambiarmi. Misi la mia maglia dei black flag e dei pantaloni decisamente logori. Mi calai in testa un cappello di lana nero e recuperando la sacca mi avviai giù per le scale per mettere qualcosa sotto i denti prima di avviarmi a scuola. Due frittelle e un succo e il mio stomaco era già pieno, salutai così mia madre e uscii di corsa di casa. Quella mattina mi sentivo insolitamente pieno di energie ed entusiasmo tanto da non riuscire a stare fermo o a rallentare il passo, come se di punto in bianco arrivare puntuale fosse diventata questione di vita o di morte. In poco tempo varcai il cancello dell’istituto trafelato. Il cortile era ancora semivuoto. Un gruppetto di nerd incamiciati era radunato di fronte alle scale che davano sulla porta di ingresso ancora chiusa, una comitiva di tre o quattro ragazze intente a spettegolare su chissà quale gossip scolastico e... –Chi non si suicida si rivede.-  una voce alle mie spalle mi fece spuntare un sorriso ancora più grande, se possibile, di quello che avevo già da appena sveglio. Erano strane giornate di questo tipo. svegliarsi e sentire come se il destino, che tanto si accaniva contro di me, d’un tratto decidesse di concedermi una tregua, ovviamente non permanente, ma mi sarei saputo accontentare. Mi girai sorridendo al tipo riccioluto che se ne stava dietro di me. –Ray!- dissi, forse in tono un po’ troppo entusiasta. Sfregai la nuca  imbarazzato, ma lui non parve neanche accorgersi della variazione della mia voce. – Come mai in anticipo?- mi chiese. –B.. beh, stamattina mi sono svegliato di buon umore.. avevo voglia di camminare, quindi sono uscito di casa presto.- la domanda che mi aveva tormentato per tutto il tragitto  della breve passeggiata fino a scuola si ripresentò. A cosa o a chi dovevo tutta quell’allegria? Non era da me odiare tutto in modo così… moderato. –Mh, capisco… Caffè.- aggiunse Ray pensieroso. Alzai un sopracciglio con aria interrogativa. –Caffè?- lui sorrise. –Si, caffè. Mikey mi ha praticamente coinvolto nella sua dipendenza dalla caffeina. E ora ne ho bisogno. E tu mi scorterai fino al bar, da bravo cavaliere.- si, era decisamente un tipo strano. E questo mi piaceva parecchio. Lo seguii dentro al bar e mi accomodai accanto a lui. Mikey … un suo amico. Lui di amici ne aveva almeno. Era strano in modo simpatico. Non come me.  io ero solo un tipo un po’… ero solo e basta. Solo, asociale, brutto e strano. Fottutamente patetico.. –Tutto okay?- sollevai la testa, riuscendo a liberarmi dalla tela intricata di pensieri in cui ero andato a incappare. Non immaginate neanche quanto spesso mi capiti di estraniarmi dal mondo e finire con l’elaborare pensieri di questo genere riuscendo a far svanire ogni traccia di allegria presente fino a qualche istante prima. –Sisi, sto bene.- risposi mentre notavo che stava già sorseggiando il suo caffè. Macchiato direi, a dire dalla schiuma color cappuccino sui suoi baffi appena accennati. Ripensai ancora a quel Mike o Mikey.. non ricordo, che aveva nominato prima. Me lo immagino di già, un tipo solare e spensierato come Ray, suppongo.  Quanto avrei voluto conoscere anche lui… fare nuove amicizie era in programma. –Chi.. chi è Mikey?- mi decisi a chiedere. Volevo sapere qualcosa in più sul suo conto.. non che fossi un ficcanaso,  era solamente lecita curiosità.  Si pulì la bocca con il dorso della mano e tirò fuori i soldi per pagare il caffè. –Il mio migliore amico, credo che andreste d’accordo.- rispose sorridendomi e alzandosi dallo sgabello su cui era seduto per dirigersi di nuovo all’entrata della scuola. Lo seguii, non riuscendo a nascondere l’entusiasmo procuratomi dalla frase che l’afro aveva appena pronunciato. ‘andare d’accordo’…. Wow.
Eravamo così simili? Oppure no, ma era convinto che gli sarei di certo andato a genio? Dio, non posso crederci di… di… poter aver fatto buona impressione su qualcuno. –Ho il test di storia alla prima ora, perciò.. ci si vede all’uscita Frankie.- disse. All’uscita… cazzo. L’ora supplementare di punizione. Ancora un giorno e sarei stato finalmente libero da quel dannato castigo. –Vorrei davvero ma, resterò rinchiuso qui fino alle due. Emh, sai.. aula detenzione.- mi guardò corrucciato in una smorfia sorpresa. –non ti facevo così trasgressivo Frank, bella maglietta comunque. E.. ah, salutami il fratello di Moik!- esclamò mentre si dileguava nei corridoi.
Mh.. fratello di mikey. E lui pensa che io sappia chi diamine sia? Ma a chi importa, conosceva i black flag. Si intendeva anche di musica quel tipo. Dio, se esisti… grazie per avermi mandato un angelo a salvarmi dalla noia.
Scossi la testa a quei pensieri e mi affrettai a raggiungere la classe di matematica.
ODIO MATEMATICA.
Scrissi a penna su un pezzo di quaderno mentre cercavo di seguire la lezione tentando in vano di tenere almeno gli occhi aperti per non finire in un coma irreversibile. Il professore spiegò velocemente l’argomento nuovo, poi chiuse il libro di testo e aprì il registro. –Sanders, iero…-  al mio nome alzai lo sguardo dal pezzo di carta scarabocchiato per puntarlo verso il docente. IERO? COSA IERO? CAZZO VUOI DA ME, RAZZA DI IMBECILLE?
Il mio sguardo sconvolto vagò per la classe, notando le reazioni dei miei compagni. Erano tesissimi. –Credo basta. Interrogherò solo voi oggi. Su, avanti. Alla lavagna. Mancavate solo voi e… Peterson. Ma lui è assente, perciò.- continuò il professor Kelson con tono impassibile. CAZZO. Interrogare?! Ma su cosa? Non avevo neanche la più pallida idea di che forma avesse un libro di matematica, figuriamoci se potevo considerarmi pronto per un interrogazione! FANCULO.
Mi alzai e mi diressi rassegnato alla lavagna seguito da Matt Sanders che non la smetteva di ruotare gli occhi a destra e a manca in segno di aiuto, che ovviamente avrebbe ricevuto da tutti. Lui era bello, bellissimo direi, popolare e con un solo sorriso era capace di sciogliere e ammorbidire qualsiasi professore. Anche il più severo. Non come me. devono provare un certo piacere sadico nel torturarmi, altrimenti non si spiega perché la gente adori tanto prendersela con il sottoscritto.
-Allora, Iero… mi dia la definizione di ‘sistema’- mh, SISTEMA. Mi trattenni dal lasciare uscire allo scoperto la mia parte punk urlando che il sistema e la società in cui vivevamo era una vera merda e non sapendo neanche minimamente a cosa si riferisse finii con l’abbassare la testa puntandomi le scarpe. Sentii un leggero vociare alle mie spalle, stavano suggerendo le risposte a Matt.
-Lei sa rispondere?- chiese la professoressa spazientita dal mio silenzio, al ragazzo alle mie spalle. Lui annui.
-Certamente.- Lo sentii darmi una lieve pacca sulla spalla. Al solo contatto rabbrividii e mi persi nel guardare le sue labbra perfette che spiegavano con tanta sicurezza l’argomento appena chiesto. Ma che cazzo andavo a pensare!? Oh cristo..
-Bene, benissimo direi. Vediamo.. saprebbe spiegarmi come si risolve una disequazione fratta?- stavolta era indirizzata a me la domanda. E indovinate un po’? non avrei saputo rispondere. Passai in rassegna ogni angolo della classe in cerca di un aiuto dal pubblico, che ovviamente non arrivò. Lasciamo perdere, attuerò il piano scena muta.
-Non ho tempo da perdere con lei, se non si decide a dirmi almeno un argomento a piacere mi vedo costretto a rifilargli un bel tre.- Costretto? Non vedo nessuna pistola puntata alle sua testa che gli vieti di non bocciarmi, ma faccia un po’ come meglio crede. –Vada per il tre.- sorrisi amaramente e me ne filai apposto. Vidi Kelson annotare il voto sul registro per poi proseguire con l’interrogazione di Matt. Me ne stetti buono e in silenzio per il resto delle lezioni, finché non suonò la campanella dell’ultima ora.. che non mi stancherò mai di dire che in quella settimana, per me, non aveva portato nulla di buono.
Ormai per abitudine mi affrettai all’aula punizione. Mi sedetti tra le ultime file e poggiai i piedi sul banco. Avevo la testa che scoppiava e ciò che sembrava essere partita come una gran bella giornata si stava rivelando una delle solite e snervanti mattinate scolastiche. La classe finì di riempirsi e intravidi Gerard accomodarsi tra le prime file. Era davvero imbarazzante anche solo guardarlo dopo il sogno della notte scorsa. Calai le mani nelle tasche della felpa alla ricerca delle cuffiette dell’i- pod e le misi. Chiusi gli occhi e poggiai la testa sul muro alle mie spalle. Premetti play e mi lasciai travolgere dalle note di Skulls dei misfits.

"The corpses all hang headless and limp 
Bodies with no surprises 
And the blood drains down like devil's rain 
We'll bathe tonight.
I want your skull 
I need your skull."


Cominciai a canticchiare a bassa voce. Riusci a sentire solo il suono ovattato della musica, e ciò era strano visto il caos che regnava sovrano di solito in aula. Schiusi lentamente le palpebre fino ad avere una visuale completa su tutta l’area.
Avevo gli occhi di tutti puntati addosso. Chi sghignazzava, chi mi guardava sconvolto, chi faceva guizzare lo sguardo da me al professore. Lanciai a tutti un occhiata sconcertata per poi soffermarmi sulla fronte corrugata del professor Kelson.
-Signor Iero, se non le dispiace.. la pregherei di collegare gli auricolari. Almeno per tenere per se il macabro testo della canzone, bellissima ovviamente, ma non di certo adatta ad essere divulgata in un ambiente… scolastico.-
C..cosa? auricolari.. canzone… MERDA. La classe si riempì di risate e commenti sarcastici sulla colossale figura di merda che avevo appena fatto. L’intera classe mi stava sfottendo, ma a me non importava. Il mio sguardo era catturato dalla cosa più bella che avessi mai visto. Gerard mi stava sorridendo. Mi guardava e sorrideva. O almeno fu quello che fece per una frazione di secondo, che non faceva altro che ripetersi e ripetersi nella mia mente. Come un ritaglio di tempo che si ripeteva all’infinito per imprimere in me ogni singolo movimento di quella scena. Suonò la fine della lezione e finalmente riuscii a uscire dal mio stato di shock. Vidi un ragazzo posizionarsi davanti al mio banco, mentre io, a testa china, raccoglievo le mie cose pronto ad avviarmi verso casa. Ero pronto psicologicamente a qualche battutina di un qualche bulletto, non di certo a tale sorpresa.  – Immagino che tu con Ryan e i suoi amici abbia ben poco in comune.- Mi bloccai. Alzai il viso per incontrare quello del tipo di fronte a me. Per un attimo rimasi senza parole non riuscendo neanche a realizzare cosa mi fosse stato appena detto, anche perché il ragazzo in questione era Gerard e non un ragazzo qualunque. Dopo qualche secondo, finalmente, riuscii a dire l’unica parola di senso compiuto che riuscì il mio cervello in tilt riuscì a formulare.  –fortunatamente.- asserii, riuscendo a camuffare la voce rotta. Lui mi sorrise mettendosi la sacca in spalla e scomparve oltre la porta.
E il malsano desiderio di sapere che sapore avesse un sogno, tornò ad attanagliarmi lo stomaco, mentre lo vedevo allontanarsi da me. 

*Spazio autrice*
BUONGIORNO/SERA/POMERIGGIO GENTE!
stavolta mi sono fatta decisamente desiderare. (?)
perdonate il ritardo, ma questo capitolo sembrava non volesse finire mai,
difatti è abbastanza lungo.
Okay, finalmente ho fatto incontrare,(esattamente come volevo) Gerard e Frank.
Non vorrei dilungarmi tanto. Quindi arrivo al sodo.
Spero vi sia piaciuto il settimo capitolo e che la storia continui a piacere ed essere seguita come adesso.
Ringrazio chiunque voglia lasciarmi una recensione. Sono molto graditi anche suggerimenti o correzioni.
L'invito a mandarmi le vostre fan art
(banner, disegni, fotomontaggi firmati da voi che verrebbero postati nel capitolo successivo)
frerard è sempre valido. :)
se volete chiedere qualsiasi cosa sono sia su 
ask che su facebook che su tumblr.
Un bacio, A presto!
-Gee. x

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Capitolo 8
*** capitolo otto; ***


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Rimasi li a contemplare il punto in cui l’avevo visto sparire. Percepivo l’assenza di qualcosa di essenziale e  per un attimo mi stupii di quella stretta al cuore che sentii vedendolo girare i tacchi e andarsene per la sua strada. Non poteva mica comportarsi in quella maniera. Prima mi provocava quasi un infarto presentandosi davanti ai miei occhi senza il minimo preavviso e poi se ne andava, lasciandomi li.. solo.. con le palpitazioni e prossimo all’arresto cardiaco. Perché? Perché mi importava così tanto che non fosse rimasto? Cosa aveva di così speciale da non farmi accettare il fatto che si fosse semplicemente allontanato da me?
Chiusi gli occhi sentendo di nuovo le parole che prima mi aveva rivolto. Sospirai, lasciandomi andare a quello strano effetto che aveva su di me la sua voce. Riaprii gli occhi solo dopo qualche istante, incalzato dal tono gracchiante e stridulo del bidello che mi pregava di sloggiare dall’aula. Annuii pensando a quanto stonasse il timbro stridulo di quell’uomo paragonato a quello angelico di Gerard.
Raccolsi la mia roba e mi fiondai giù per le scale. Avevo perso fin troppo tempo dentro quella sottospecie di carcere. Appena fuori cominciai a frugare nello zaino fino a trovare ciò che cercavo. Estrassi il mio pacchetto di malboro assieme all’accendino e a un bloc notes messo davvero male. Anche dall’esterno si potevano notare che molte pagine erano state strappate e le restanti sbucavano disordinatamente dalla copertina ingiallita e quasi interamente coperta di piccoli disegnini fatti a penna o scritte perlopiù senza senso. Aprii il pacchetto ancora imballato gettando la carta in un cestino situato a pochi passi da me, facendo lo stesso con la carta argentata che mi divideva dalla mia dose quotidiana di nicotina. Mi diressi verso il parco, mentre mi godevo in tutta tranquillità la mia sigaretta sedendomi poi all’ombra di un albero su cui poggiai la schiena rannicchiando le gambe al petto e poggiandoci sopra il quadernino che fino a quel momento avevo tenuto stretto in mano.
 Lo aprii rileggendo le prime pagine del contenuto. Era uno dei miei primi testi, il primo di un’ interminabile serie . Tutte canzoni scritte da me.. Alcune erano solo il prodotto di rabbia e solitudine che non potevano essere espressi diversamente (senza recare danni a nessuno ovviamente), altri avevano testi più meditati, che risultavano anche più orecchiabili mescolate alla serie di melodie e accordi annotati a fondo pagina. Ma quei fogli contenevano generalmente appunti o insulti verso tutto ciò che odiavo e odio tutt’ora. Non mi era mai capitato, prima d’ora, di scrivere un qualcosa che suonasse tanto bello, quanto dolce su quella vecchia carta.
Gerard.
Rilessi il nome che avevo appena scritto. Neanche la mia calligrafia contorta e frettolosa sembrava scalfire l’alone di perfezione che emanava quel tratto di penna.
Passai il dito sull’inchiostro che si era appena asciugato, strofinando il pollice con l’indice. Mi sembraò di poter riuscire a sfiorarlo anche solo sentendo quelle lettere passarmi sulla pelle.
Perché sei nella mia testa costantemente, eh? Non è normale, dovrei capirlo da me.. forse ho una specie di ossessione verso quel ragazzo, un disperato bisogno di essergli amico.. perché in qualche modo mi sento vicino a lui.. ma con Ray non mi era successo pur sentendo che lui fosse così diverso dagli altri tanto da potermi capire. E poi non provavo nulla di simile nel vederlo arrivare. Certo, la felicità mi assaliva anche solo riconoscendo la sua testa riccioluta tra tanti ragazzi della scuola, ma nulla di lontanamente paragonabile a ciò che mi accadeva dentro solo incrociando lo sguardo freddo di Gerard.
Lo scrissi di nuovo. Quelle pagine sembrarono svuotarsi di tutto quell’odio che avevano accumulato nel tempo, come se la bellezza che celavano quelle singole lettere potesse annientare anni di sfoghi scritti  di getto e a penna.
 Feci l’ultimo tiro e gettai la cicca spenta lontano. E pensare che con quel gesto era iniziato tutto. O non era iniziato niente, dipende dai punti di vista, considerando la serie di incontri che avevamo avuto dopo quel giorno in palestra e il modo in cui si era comportato … probabilmente non si ricordava neanche di quel nanetto accovacciato nelle docce a cui aveva rivolto uno dei sorrisi più belli di questo mondo.
Sospirai, e mi persi a contemplare il panorama. Il parco era vuoto, neanche un bambino o un anziano a popolare quel posto. E come biasimarli? Stavamo parlando di Belleville. Non di un qualche quartiere benestante in gran bretagna. Gli scivoli erano vecchi e arrugginiti, le altalene cadevano a pezzi e non c’erano panchine su cui potersi sedere. L’erba del prato era secca e rada, in alcuni punti totalmente inesistente, sostituita da una ghiaia grigiastra o da terriccio polveroso. Un posto dove, solo se sai di non avere nulla da perdere, ti andresti ad avventurare. Immagino che nessuno avesse notato il laghetto d’acqua cristallina con pesci e paperelle  ben nascosto dietro la siepe nei pressi delle giostre, perché la gente vede solo ciò che non richiede impegno ad osservare. E non si cura di cercare il bello in ogni cosa.
 L’aria cominciava a rinfrescare e una leggera pelle d’oca comparve sulle mie braccia. Mi alzai a malincuore da quel posto. a me piaceva. Credo perché rappresentasse in qualche modo una parte del mio stato d’animo. Quella dove la solitudine regnava sovrana, dove nessuno si spingeva ad arrivare, quella logorata dal tempo e dalla trascuratezza.
In poco tempo raggiunsi il vialetto  di casa mia e arrivai sulla soglia per poi aprire la porta ed entrare.
-Ehi tesoro! Come è andata la giornata?- mi sorrise mia madre, da dietro una colonna di panni che tentava di trasportare, senza far cadere, fino al piano di sopra. Mi avvicinai a lei dimezzando la pila di vestiti e aiutandola a portarli su. –Benissimo, non immagini neanche quanto.- annunciai, forse un po’ troppo sognante. Non potevo di certo lamentarmi. Insomma: non capita a chiunque di ‘essere rivalutati’ da Gerard Way. –Mh, tu ragazzo mi nascondi qualcosa.- ribatté mia madre con aria di chi non si sarebbe fatto ingannare facilmente. Adoravo quei nostri momenti. Quelli in cui si percepiva la grande intesa che c’era tra di noi. Ovviamente c’erano anche molte discussioni, ma è più che normale averne.
Finalmente in camera di mia madre. Abbandonammo il mucchio di maglie, pantaloni e camicie sul materasso e feci per andarmene nella mia stanza, pur sapendo che quella conversazione non sarebbe finita li.
-Dove credi di andare?- alzai gli occhi al cielo a quel finto richiamo per poi voltarmi nuovamente verso di lei che mi fece spazio sul letto.
-Non è successo nulla mamma. Ho solo conosciuto una persona nuova, e direi che mi piacerebbe parlarci di nuovo.- dissi. e giurerei di aver visto un sorriso compiaciuto comparirle sul volto. Ora ne ero certo. Si stava riempiendo la testa di inutili film mentali su una mia possibile relazione amorosa con una qualche bella ragazza della scuola. Ma per favore.
-Mhmh, e ti piace.- disse mia madre. E mi piac… COSA!? Gerard? Piacere? A chi? Me? AHAHAHAH assurdo.
-Ma cosa diamine ti passa per la testa!? E’ solo… pf, piacermi. No. Assolutamente. Neanche ci siamo mai parlati seriam…- la mano della donna seduta di fronte a me mi si schiaffò sulla bocca impedendomi di continuare a sparare a raffica una quantità spropositata di spiegazioni.
-Sisisi, basta chiacchiere. Ho un messaggio da riferiti.- Dopo aver detto quella frase si decise a farmi riprendere a rispondere liberandomi la bocca. –Oggi è venuto un ragazzo qui. Ti stava cercando. Aveva dei capelli ricci e scuri era abbastanza alto. Jey… Roy..emh no..- Continuò. –Ray.- la corressi. –Si, fa lo stesso. Comunque mi ha lasciato il suo numero e mi ha chiesto di consegnartelo appena saresti tornato. Voleva che lo chiamassi.- Mi sorrise lei finendo la frase per poi frugarsi nelle tasche fino a trovare un bigliettino accartocciato. Presi il foglietto e la salutai stampandole un bacio sulla guancia per poi andarmi a rinchiudere in camera. Composi velocemente il numero sulla tastiera e lo salvai sulla sim. Chissà cosa voleva dirmi..
Primo squillo, secondo squillo, terzo squillo. Sbuffai impaziente, odiavo aspettare i comodi degli altri. Quatro squil.. –Pronto?- Finalmente. –Ehi, sono Frank. Mia madre mi ha… mi ha passato il messaggio che le avevi lasciato. Volevi dirmi qualcosa?- Chiesi con un tono leggermente imbarazzato, ero sempre stato molto impacciato nelle chiacchierate al telefono. –Frankie! Ti ero venuto a cercare li a casa, ma non ti ho trovato e visto che volevo sapere se avevi impegni per stasera, ho lasciato detto a tua madre se potevi richiamarmi.- Rispose Ray in modo solare, come sempre del resto.  Libero? Quale altra persona escluso lui avrebbe mai voluto passare una serata in mia compagnia? Mpf. –No, stasera sono più che disponibile.- aggiunsi, sempre più emozionato all’idea di poter stare con qualcuno che mi mettesse di buon’umore. –Al Blues alle 23 suonano Mikey, l’amico di cui ti avevo parlato, e suo fratello con il resto della loro band. Sono certo che ti piacerebbero. Ti va di venire?-
Musica. E un amico. Magari anche una birra e qualche sigaretta. Se sto sognando, non svegliatemi.
-Mi va eccome, come ci arriviamo li però..?- domandai. –Non preoccuparti. Mia cugina può darci uno strappo fin li. Ti passo a prendere alle dieci e mezza. Ti voglio sottocasa. Ciao.- riagganciò senza neanche darmi il tempo di ribattere. Scesi al piano di sotto e avvertii mia madre del concerto al Blues.
**
Erano appena scoccate le nove e avevo davvero poco tempo se volevo fare una doccia. Perciò corsi in bagno a lavarmi. Uscii di lì ancora completamente fradicio e mi appostai davanti all’armadio cercando qualcosa di decente da indossare. Tirai fuori la maglia dei misfist nera e verde a cui abbinai dei jeans scuri e le mie solite scarpe scolorite. Non che avessi molta scelta, ma come vestiario per una serata simile direi che era azzeccato.
Ero in ritardo di qualche minuto quando il clacson della macchina che mi stava aspettando mi perforò entrambi i timpani, obbligandomi a scendere di corsa prendendo solo il telefono e qualche soldo per le bevute.
Spalancai lo sportello e mi fiondai sul sedile, come se quella corsa avrebbe potuto far tornare indietro il tempo e farmi salire in macchina in orario, ma il ritardo non infastidì più di tanto ne Ray ne sua cugina, quindi non me ne preoccupai.
Ci lasciò entrambi davanti alla porta del pub, già gremito di gente. Erano davvero così conosciuti in quel buco di posto?
Ci infiltrammo dentro al locale sgusciando tra tutta quella folla di sconosciuti. Sconosciuti per me, perché l’afro sembrava essere molto popolare in quel posto e riceveva sorrisi e saluti dalla maggior parte della gente che incontravamo. Ci dirigemmo verso il bancone e ordinammo due birre. Cominciammo a bere aspettando l’inizio del piccolo concerto. Una coltre di fumo avvolgeva il locale e l’odore di alcool e varia droga leggera impregnavano l’aria. Finii in fretta la mia consumazione. In quel posto faceva un caldo asfissiante che mi obbligò a riordinare un secondo giro di guinnes per entrambi.
Poi le luci si spensero e mi alzai dopo aver pagato e seguii Ray tra la folla. Le sagome dei componenti comparvero sul palco e io tentai di individuare nel buio quale fosse quella di Mikey, non che sapessi come fosse fatto, ma ero certo che l’avrei riconosciuto.
Un faro inondò di luce un punto sullo sfondo del palco illuminando lo stemma della band., poi l’intensità andò via via diminuendo per far si che i membri della band avessero qualche secondo in più per concentrarsi e ricontrollare che fosse tutto perfetto.
Sentii la batteria dare il tempo e di colpo i riflettori si accesero accecandomi. Mi stropicciai gli occhi stordito, tentando di riprendermi per non perdermi l’inizio della prima canzone.
La chitarra e il basso entrarono in scena. –Il bassista è Mikey!- Urlò Ray accanto a me per sovrastare il volume degli amplificatori. Annuii sorridendo e aprii lentamente gli occhi per cercare di riconoscerlo tra i membri. Riuscii a scorgere il ragazzo con gli occhiali che mi stava indicando l’afro. Si, anche lui era un tipo un po’ fuori dagli schemi, certo dall’espressione concentrata che aveva non sembrava essere poi tanto simile caratterialmente al riccio come me l’ero immaginato, ma poco importava. Con il basso ci sapeva fare.
Spostai lo sguardo sugli altri componenti della band. Un ragazzone biondo e piazzato alla batteria, un tipo dai capelli lunghi e rossi alla chitarra e alla voce… già… dov’era il cantante?
La gente cominciò a spingermi verso destra e vidi crearsi un varco tra la folla che stava letteralmente impazzendo. Sinceramente? Non so perché urlassero tanto. La canzone non era neppure cominciata.
-Buonasera ragazzi, vi siamo mancati?- Una voce roca inondò la stanza. Un brivido mi percorse la schiena e sentii il sangue cristallizzarmisi nelle vene. Dio, ora mi immaginavo anche che fosse Gerard a pronunciare quelle parole. Ero proprio andato fuori di testa.
Il pubblico si scaldò ancora di più, iniziando a fischiare, incitare o applaudire con foga.  
Vidi il ragazzo che poco prima era tra la folla, salire le scale che portavano al palco. Indossava dei pantaloni di jeans aderenti e una giacca di pelle nera sulla quale ricadevano morbidi i suoi capelli corvini. Portava dei stivali di cuoio scuro con delle borchie argentate a rivestire un intera parte della scarpa. Sembrava un ragazzo davvero attraente anche essendo di  spalle e con i suoi movimenti lenti, ma decisi nel camminare, mi catturò.
Cominciò a cantare, voltandosi verso il pubblico in delirio e una fitta mortale al petto mi fece mancare il fiato. Sarei potuto svenire in quel preciso istante. Sentii le gambe cedere e la vista appannarsi, così in uno sprazzo di lucidità mi aggrappai a Ray per non cadere.
Non poteva essere vero. No, non era reale. Non poteva assolutamente essere lui.
-Ti senti bene?! Sei pallidissimo!- Mi gridò Ray preoccupato. Ma io non lo ascoltavo. Ero troppo incantato dalla figura che si muoveva sul palco con sfacciataggine e sicurezza. Sentivo le viscere contorcermisi dentro, e un’ ondata di calore, proveniente dal mio basso ventre. Mi estraniai totalmente da ciò che mi circondava. In quel momento l’unico suono che riuscivo a percepire era la voce sexy e roca di Gerard, perché proprio di Gerard si trattava, e quello del battito incessante del mio cuore che sembrava non aver mai pompato così tanto sangue prima d’ora. Iniziai a farmi  strada tra la calca di ragazzi mezzi ubriachi che cantavano e si spintonavano con trasporto, fino ad arrivare sotto il palco senza smettere neanche per un millesimo di  secondo di fissare le labbra perfette del moro che si muovevano a tempo di musica.
Lo vidi inginocchiarsi al suolo tenendo lo sguardo basso mentre intonava le ultime note della prima canzone.  Le sue palpebre si aprirono lentamente e i suoi occhi si puntarono dritti nei miei.
Sorrise. Quel semplice contatto visivo mi mozzò nuovamente il fiato, riacquistato poco prima, e lui parve accorgersene. Perché quello che dapprima poteva sembrare un semplice sorriso di cortesia che si regala ad uno sconosciuto, si colorò di malizia. Puntò le mani a terra e iniziò a gattonare fino al bordo del palco sempre mantenendo la stessa espressione provocante e senza accennare a distogliere quegli occhi penetranti dai miei incantati.
Sentii i jeans farsi improvvisamente stretti.. perché, dio se quella visione stava avendo delle ripercussioni sul mio povero corpo, incapace di trattenersi. Mi avvicinai ancora alle transenne in ferro che mi dividevano di pochi centimetri da lui e un insana e perversa voglia di prendere quel ragazzo e farlo mio davanti agli occhi di tutti, si impossessò di me, quasi rendendomi geloso di ogni sguardo che si posava sul corpo di quel provocantissimo angelo in nero. I boxer cominciarono a farmi sentire in trappola e il caldo soffocante non mi aiutava di certo a sbollire la situazione. Sentii una mano afferrarmi la spalla con forza per poi trascinarmi via da li. Non riuscivo a reagire, troppo incantato da quel modo seducente che adottò Gerard nell’alzarsi dalla posizione in cui stava.
Mi accorsi dopo qualche secondo di essere uscito dal bar. Riuscii a mettere a fuoco cosa stesse succedendo attorno a me.
Ero fuori dal locale ed era stato Ray a portarmi via di li.
Promemoria: uccidere quel fottuto afro guastafeste.
 Sentii la sua voce alterata chiedermi spiegazioni.
-Frank, ma che cazzo ti prende!? Mi spieghi dove diamine te ne vai da solo tra tutta quella gente!? Sei consapevole che avrebbero potuto schiacciarti li in mezzo!? E poi… oh santo cielo.-  Il suo monologo finì quando si accorse di un piccolo problema che si era scatenato in me dopo l’esibizione del cantante.
-…….perchè?- L’espressione dapprima infuriata di Ray si trasformò in sbigottita. Già. Perché? PERCHE’? Che cazzo mi era successo li dentro?! STO IMPAZZENDO.  NEANCHE IL MIO FOTTUTO CORPO ORMAI MI STA PIU’ A SENTIRE?! NEMMENO A LUI FREGA UN CAZZO DI AVERE IL MIO CONSENSO PRIMA DI METTERMI IN CERTE SITUAZIONI IMBARAZZANTI?!
-Una ragazza ha iniziato a strusciarsi su di me e beh, sai come succedono certe cose…- buttai li la prima scusa plausibile che mi passò per la testa. Anche se la mia voce titubante tradì la mia messa in scena, Ray
parve non accorgersi di nulla e mi lanciò un occhiata complice come a dire ‘si, ti capisco amico’ dandomi poi  una pacca sulla spalla.
Beh, a lui era stato facile mentire. Ma per quanto tempo ancora sarei riuscito a mentire a me stesso?
*spazio autrice*
Ehilà gente, merito il linciaggio.
Uno) perchè cio ho messo una settimana ad aggiornare.
Due) perchè ho paura che la storia inizi a stancarvi e questo capitolo non vi soddisfi anche se lungo cinque pagine di word.
Perdonatemi vi prego, ma ho avuto l'esame di francese per
il recupero e non ho avuto tempo per
poter aggiornare.
Mi spiace tantissimo, ah, e spero di vedervi numerosi tra le recensioni.
Mi piacerebbe sentire cosa ne pensiate, ogni consiglio è ben accetto come anche le critiche costruttive.
Qui si accetta di tutto. :)
Un bacione enorme per chi continua a seguirmi e un grazie speciale ad annie che ha creato questo banner stupendo per la ff. 
 
-Gee. x
 

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Capitolo 9
*** capitolo nove; ***


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Il suo sguardo seducente piantato su di me. Le gambe improvvisamente molli, incapaci di sorreggere il solo peso del mio corpo. La malizia celata nel suo sorriso. E poi quello scatto in avanti che lo portò in quella posizione  dannatamente sexy. Le sue mani saldamente ancorate al pavimento. I muscoli appena accennati delle sue braccia leggermente in tensione per lo sforzo. E infine avanzò verso di me.
Rabbrividii al pensiero della scena maledettamente eccitante a cui avevo avuto l’onore di assistere nel locale.
Mi sedetti sul bordo del marciapiede, accorgendomi di aver nuovamente perso di vista Ray e di essere rimasto solo. Dovevo in qualche modo tentare di sbollire la situazione ai piani bassi, perciò optai per rilassarmi accendendomi una sigaretta.
Mi tastai le tasche della felpa e dei jeans prima di trovare il pacchetto malridotto in quest’ultimi. Lo sfilai dalla tasca ed estrassi una marlboro e il mio fedele accendino.
Pansy. Così l’avevo chiamato. Si, affibbiavo sempre un soprannome agli accendini.  Pansy era, ormai, il mio storico compagno di disgrazie e visto che scaricavo spesso ogni mia frustrazione o con la musica o col fumo, avevo deciso di dargli lo stesso nome della mia amata chitarra.
Tirai il fumo lasciando che mi riempisse la bocca, pizzicandomi piacevolmente la lingua.  Espirai, osservando scorrere davanti agli occhi la nuvoletta densa al profumo di tabacco.
Mi strinsi nella felpa. Il freddo mi stava facendo venire la pelle d’oca, forse sarei dovuto rientrare, ma non mi sentivo ancora psicologicamente preparato a subire quell’ondata di emozioni così nuove..
Mi spaventavano. Mi apparivano tutte così sbagliate e irrazionali. Dimezzai la sigaretta in pochi, ma lunghi tiri. Mi guardai in torno osservando quelle poche persone uscite fuori dal locale per appartarsi con qualche bella ragazza o a farsi una birra e quattro chiacchere lontano dal volume troppo alto della musica. Più guardavo quelle persone, più mi sentivo diverso. Loro erano così disinvolti nei loro comuni modi di fare.. attaccavano bottone con quelle ragazze come se non facessero altro da una vita. Io non ci avevo neanche mai provato, sinceramente … non credo mi interessino più di tanto. Le donne per me sono troppo belle anche solo per essere sfiorate. Le vedo come un qualcosa di mistico e irraggiungibile. Un qualcosa per cui non provo desiderio o attrazione, ma solo ammirazione. Perciò non mi spingerei mai oltre ad un sorriso di cortesia o magari, perché no, stringerci amicizia.
Lo sguardo mi cadde su due ragazze nascoste dalla penombra del muro esterno del locale. Si stavano abbracciando e quella più minuta, una tipa mingherlina dai capelli biondi e liscissimi, fisso il suo sguardo in quello della più slanciata dai capelli mori. Si guardarono in un modo che mi parve famigliare. Nel vederle capii che qualcosa ci accomunava, ma per il momento non capii bene cosa. La biondina si avvicinò all’altra premendola contro il muro, incatenandola dolcemente ad esso con le sue esili braccia. Sul volto della ragazza più alta si dipinse un magnifico sorriso che scomparve tra le labbra della sua piccola fidanzata in un tenero bacio. Sorrisi.
Quell’amore clandestino era il più puro che avessi mai visto fino ad ora. Nessuno di quei ragazzi intenti ad abbordare quelle tipe fuori al pub sembrava conoscere l’esistenza di quel sentimento.  Tornai a guardarle e notai che si stavano sorridendo di nuovo. Abbassai lo sguardo sui lacci delle scarpe come sentendomi improvvisamente in imbarazzo nel osservare quell’amore con tanta invidia.
I miei pensieri tornarono al cantante che si stava ora esibendo sul palco del Blues.
 Se avessi dovuto scegliere una qualsiasi persona a cui dedicare un sorriso simile a quello che si erano scambiate quelle due ragazze poco prima, avrei scelto di sicuro Gerard.
Lui, perché era diverso da chiunque altro. Perché quel alone di mistero che l’avvolgeva non mi portava solo al desiderarlo, ma anche a volerlo scoprire.. comprenderlo..  immergermi nel mondo che celava dietro i suoi occhi color del prato. Perché sentivo che nessuno si era mai spinto oltre quella corazza che sembrava essersi costruito col tempo.
La mia sigaretta era ormai finita, la cenere svolazzava sull’asfalto nero come neve e le mie gambe erano intorpidite dal vento gelido che aveva iniziato a soffiare. Gettai il filtro a terra e mi tirai in piedi pulendomi il dietro dei pantaloni che si erano impolverati all’altezza delle cosce.
Mi sembrò di essermi ripreso, perciò decisi di rientrare nel pub a cercare Ray e magari a consumare qualche altra birra per schiarirmi le idee su alcune domande che da poco avevo cominciato a pormi seriamente.
Entrai nel locale mentre i componenti della band stavano facendo una pausa. L’aria era sempre più asfissiante in quel posto e l’odore nauseabondo di alcol non accennava a diminuire.
Un suono stridulo proveniente dal microfono fece intuire al pubblico che il concerto stava per riprendere. Le note di una canzone, a me conosciuta, dal ritmo struggente, avvolsero la sala, facendo calare un silenzio innaturale su di essa.
Non riuscii ad impedirmi di voltarmi verso il palco catturando anche con la vista quello spettacolo malinconico che stava inebriando le mie orecchie.
It takes the pain away, But could not make you stay.
Sentii il cuore sprofondare in un profondo abisso di sofferenza, trasportato da quelle cupe parole.
La voce di Gerard era graffiante, roca, aspra, affascinante, tormentata.
Da  brividi. Uno spettacolo ultraterreno.
it's way too broke to fix 
no glue, no bag of tricks 

stessa intonazione, stesso dolore. Puntai lo sguardo sulla figura del cantante semi accasciato al suolo, aggrappato all’asta del microfono. Sembrava stesse per crollare a pezzi, tanto fossero sentite le parole che uscivano dalla sua bocca. L’immagine nitida del Gerard sicuro ed accattivante che poco prima dominava con sicurezza i metri del palco, si stava sciogliendo come una maschera di cera sotto il sole cocente del deserto.
Lay me down, the lie will unfurl 
lay me down to crawl. 

Cadde sulle ginocchia portando con se il microfono e scandendo in tono agonizzante l’ultima frase.
Il peso e la consapevolezza del suo dolore, mi stava lacerando le interiora. Ero sicuro che se avesse continuato a cantare in quel modo, non sarei riuscito ad uscirne vivo da quel posto.
Un angelo dannato. Ecco cos’era. Costretto al dolore. Un dolore, una solitudine, una depressione e uno sconforto solo a lui conosciuto. Le emozioni contrastanti che mi stava facendo provare, mi stavano realmente confondendo. Oscillavano dalla più totale ammirazione verso quel ragazzo capace di nascondere al mondo interno il suo vero raccapricciante stato emotivo. Alla tristezza più sentita, pensando a quanto poco meritasse tutto quel male.
Your smile would make me sneeze 
when we were Siamese 
Amazing grace in here 
I'd pay to have you near.

Lo vidi sollevarsi di nuovo, per poi vagare con lo sguardo tra la folla fino a puntarlo su di me. Parve riacquistare un po’ della sicurezza che aveva lasciato affondare come una barca in tempesta, come a voler apparire meno fragile ai miei occhi. Lo vidi sorridere amaramente.
Sembrava volesse rendermi partecipe del suo messaggio. Lo guardai incantato fino alla fine del pezzo. Così com’era iniziata, all’improvviso, la canzone terminò. Lasciando il pubblico sbigottito e in balia dei propri sentimenti. La vista si appannò, e sentii gli occhi pungermi e arrossarsi fino a lasciar scendere una calda lacrima sulla guancia.
La scaletta andò avanti. E riuscii a ricompormi quel poco che bastava per farmi continuare la ricerca del mio amico tra la folla.
Distolsi lo sguardo dal palco e intravidi la capigliatura afro del mio amico  a circa mezzo metro da me, seduto al bancone mentre sorseggiava da solo la sua birra.
Mi sedetti e feci anche io la mia ordinazione. – Si può sapere dove diavolo eri finito? Ti avevo detto che sarei rientrato, pensavo mi avessi seguito, invece..- mi disse sovrastando a malapena il volume degli amplificatori e delle casse. –Mi stavo fumando una sigaretta.-Risposi sbrigativo, fissando lo sguardo nella bibita chiara che mi avevano appena servito. -Cosa c’è amico, non ti piace il gruppo? - Mi guardò con aria interrogativa il riccio, sistemandosi con la mano una ciocca ribelle di capelli cadutagli sulla fronte.
-C..cosa? il gruppo? No no, sono davvero bravissimi! Solo non mi sento molto bene… sarà perché qui fa un caldo micidiale..- Buttai li la prima scusa che mi venne in mente, imponendomi mentalmente di non voltarmi verso il palco. Non avrei retto ancora per molto a tutte quelle emozioni, perciò decisi di evitare categoricamente di farmi trasportare nuovamente dalla voce di Gerard. –Tranquillo Frankie. Questa che stanno suonando è l’ultima canzone, poi saluto Mike e ti riaccompagno a casa.  Il bar gli ha concesso di suonarne solo cinque per stasera per via dei vicini e del troppo chiasso, ma con la promessa di farli tornare di nuovo, con una scaletta più lunga.- mi sorrise Ray. Si girò con lo sgabello e cominciò a godersi il concerto del suo amico.
-Magari torniamo a sentirli se ti va.- buttò li Ray. –Magari.- Asserii io. La sua voce sinuosa aveva ricominciato a farsi strada nelle mie orecchie, sfondando a colpi di cannone la barriera insonorizzata creata da me per non cadere vittima di qualche crisi ormonale o esistenziale.
-Vi ringrazio ragazzi per averci supportato e.. sopportato.- La voce di Way e la sua risata mi arrivarono chiaramente alle orecchie come una carezza rovente in una giornata ottobrina, che mi provocò una serie di brividi che mi percossero la schiena. Si era rimesso la maschera. Mi girai e il mio sguardo si infranse nuovamente su quel demone in jeans scuri che passeggiava con nonchalance e sicurezza sul palco. Paragonandolo al Gerard di The Crawl, quasi stentavo a credere che fossero la stessa persona. Rimasi a contemplare Gerard e quel suo sorriso perfetto ed egocentrico che mostrava al pubblico entusiasta.
Lo vidi voltarsi nella mia direzione e subito mi irrigidii sullo sgabello conficcando le unghie nella morbida pelle che li rivestiva.
Quelle domande scomode che tentavo disperatamente di non pormi, si presentarono nella mia testa, impedendomi di accantonarle nuovamente.
Cosa provi per Gerard?
Non lo so.
Risposta sbagliata, Frank.Ti piace?
Cosa!? Ma siamo pazzi? Lui e’… un ragazzo.
Un ragazzo. E ti piace.
NO! Cioè ... no … vero?  
-Dai Frank muoviti! Andiamo da Mikey prima che la gente si accalchi troppo davanti ai camerini!-
Disse Ray, afferrandomi per un braccio, riportandomi alla realtà e salvandomi momentaneamente dall’interrogatorio dettato dal mio insistente grillo parlante.
Salimmo sul palco, non curanti dei divieti sull’oltrepassare le quinte se non autorizzati, e ci infilammo in una serie di corridoi fino ad arrivare ad una porticina nera e rossa, rovinata dal tempo.
Bussò e attendemmo una risposta che non tardò ad arrivare. Un ragazzo dai capelli rossi, il chitarrista se non ricordo male, privo di maglietta venne ad aprirci.
-Ray!- esclamò il tizio in topless per poi fiondarsi su di lui stringendolo in un abbraccio e obbligandolo così a lasciare la salda presa sul mio polso, per ricambiare. Guardai alle spalle del ragazzo. Quello doveva essere il loro camerino. Riuscivo ad intravedere qualcuno che se ne stava sdraiato a petto nudo sul divano dallo specchio. E quello che prima avevo identificato come Mikey,  oscurare il viso dell’altro stravaccato tra i cuscini. – Siete stati fantastici! Oh, ma che dico… SPETTACOLARI!- si complimentò l’afro entusiasta stringendo il ragazzo dai capelli rossi. –Ma su, entrate pure!- Disse, scostandosi dalla porta e facendoci strada fin dentro al camerino.
Rischiai un infarto nel vedere Gerard tirarsi su a sedere dalla posizione in cui stava prima della mia entrata. Aveva ciocche di capelli corvini madide di sudore sparse per la fronte. Le labbra umide e leggermente dischiuse per favorire la respirazione ancora affannosa del post concerto. Le sue guance erano arrossate e imperlate di qualche gocciolina scesa dai capelli umidi e il suo petto chiarissimo si alzava e si abbassava velocemente. I suoi occhi, velati dalla stanchezza, ma resi vividi dalla soddisfazione del successo della serata, incontrarono i miei. Spalancati.
Ero rimasto di stucco nel vederlo così all’improvviso. L’emozione era stata forte quasi quanto il vederlo sbucare a sorpresa da quel palco, rendendomi succube di ogni sua variazione canora.
Lo fissai ancora a bocca aperta senza riuscire ad emettere alcun suono.
Okay, ora mi calmo. Gli faccio i complimenti e me ne vado a casa. E finisce qui. Sconosciuti come prima.
Una semplice frase come ‘bellissimo spettacolo, complimenti!’ basterà.
-Sei bellissimo.- asserii non distogliendo minimamente lo sguardo dalla pelle diafana di quel ragazzo, che sembrava ipnotizzarmi.  Tutti gli occhi nella stanza erano puntati su di me. E me ne accorsi anche non guardandoli direttamente. – Cosa?- lo sentii rispondere. Già… COSA!? Che diamine mi era saltato in mente? No, non potevo averlo detto sul serio.
Stupido. Idiota. Patetico. Ridicolo.
 rimedia, cazzo. Rimedia Frank!
–Cosa, COSA!? Emh, Volevo dire.. bellissimo spettacolo ragazzi, fenomenali!- Arrossii violentemente incrinando la voce fino all’inverosimile. Cosa diavolo mi stava succedendo?
Vidi gli altri fare un cenno di assenso con la testa, senza dare realmente peso a quanto poco credibile risultasse il mio tono.
-Ti ringrazio.- Sussurrò con voce roca il moro alzandosi. Mi sorrise. Di nuovo quel sorriso pieno di malizia. I suoi occhi si illuminarono come se tutti i tasselli di un suo puzzle immaginario si fossero finalmente riuniti, facendo affiorare l’immagine celata, in modo chiaro e tondo. Lui sapeva.
Aveva capito i miei veri sentimenti ancora prima di me stesso. Ed aveva saputo trovare ogni risposta ad ogni mia singola domanda.
*Spazio autrice*
Si, merito di essere picchiata.
Ma non ho intenzione di mentirvi.
Avevo un bocco, non sapevo come continuare. Ho scritto
e riscritto centinaia di volte questo capitolo, giungendo alla conclusione che,
se non volevo perdere ogni persona interessata a questa storia.
Con l'inizio della scuola,
gente che toglieva dai preferiti o dalle seguite la ff,
vacanza in irlanda, mancanza di internet e 
blocco psicologico, questo è il meglio che ho saputo tirar fuori, anche se un po' breve.
La canzone di Gee è una canzone che mi fa emozionare molto, spero che in quella parte
io sia riuscita a comunicarvi come apparisse la scena agli occhi di Frank.
Vi ringrazio se continuerete a seguire gli aggionamenti e a recensire.
Un mega bacio, aggiornerò presto. Ho un sacco di idee.
-Gee. x 

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Capitolo 10
*** capitolo dieci; ***


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Salutai tutti i componenti della band tranne Gerard che se ne era tornato in silenzio alla sua posizione iniziale, ignorando chiunque gli rivolgesse parola e scolando l’ultimo goccio di gin dalla bottiglia che teneva saldamente in mano. Era come se la lucidità che aveva dimostrato di avere poco tempo prima nel parlarmi, si fosse improvvisamente volatilizzata.  Ebbi molto tempo per osservarlo, prima che Ray si decidesse a salutare, questa volta per davvero, il resto della band, e iniziai a interpretare meglio il vero messaggio che Gerard mi stava inviando attraverso il suo atteggiamento e il suo corpo. Quegli occhi vacui e velati di tristezza, le sue guancie arrossate, il sudore che imperlava la sua fronte, la spossatezza sul suo volto, non erano tutti segni riconducibili alla stanchezza del dopo concerto.
Era chiaramente ubriaco. E ne ebbi la certezza nel notare lo sguardo sinceramente preoccupato del fratello, Mikey, che non aveva smesso neanche per un secondo di tenerlo d’occhio. Qualcosa di profondo legava quei due, qualcosa di così profondo che mi fece quasi sentire di troppo in quella stanza. Nessuno si era mai preoccupato tanto per me. Ne i miei genitori, ne tantomeno quei pochi amici che in passato avevo avuto. Nessuno era in grado di interpretare i miei sguardi come avevo visto fare poco prima al ragazzo dai capelli biondi con suo fratello.
Così mi rabbuiai, rattristato da quella infelice costatazione e non proferii parola per tutto il resto della serata e quando Ray chiamò sua cugina per ritornare a prenderci, mi sentii immensamente sollevato. Forse una bella dormita mi avrebbe tolto di dosso quella sensazione di invidia, mista a un ingiustificata gelosia, che mi sentivo addosso.
-Ah, cazzo! tu aspettami qui- mi disse l’afro non appena usciti dalla porta sul retro. -ho dimenticato dentro la giacca.- Accennai un flebile ‘okay’ e mi sedetti sulla ringhiera delle scalette di ferro arrugginito.
Passarono circa cinque minuti e udii la porta cigolare e aprirsi alle mie spalle. Feci per scendere da dove ero seduto con un balzo, ma qualcuno mi afferrò ben stretto per il torace, passando le sue braccia sotto alle mie.
-Dove te ne vai?-
Il mio cuore cessò di battere all’improvviso. E non solo per lo spavento, per quel’inaspettato gesto o per quella frase che a seconda del tono sarebbe potuta sembrare minacciosa.
Ma per la voce che pose quella domanda.
Era strascicata. Sofferente. La voce di un qualcuno davvero triste. O davvero ubriaco.
Il mio respiro si fece affannoso, la testa leggera, lo stomaco era in subbuglio.
Cosa stai facendo? Perché mi abbracci? Dove dovrei andare? Dovrei restare? Se si, perché? Perché sei triste? Perché non riesco a respirare, anche se la tua stretta sembra di già affievolirsi?
Troppe domande, ma di coraggio per porle non ne avevo. mi sforzai di parlare comunque, sembrava in attesa di una qualche risposta. Le sue braccia si sciolsero dall’abbraccio che avvolgeva il mio petto. Sentii il freddo tornare a pizzicare la mia pelle da sotto la felpa spessa.
-c..cosa?- risposi incerto, schiarendomi la voce. Sentii Gerard allontanarsi dalle mie spalle. Le assi di legno scadente scricchiolarono sotto i suoi passi pesanti.
Voltarmi a guardarlo non fu esattamente la cosa migliore. Inquadrai la scena. Lui se ne stava seduto sul pavimento gelato, con la testa abbandonata all’indietro contro la fredda pietra delle mura del retro del locale. Aveva una pessima cera, ma nulla sarebbe riuscito a renderlo meno attraente ai miei occhi. Sbuffò una piccola nuvoletta di fumo dalla bocca semiaperta, osservandola come se non avesse mai visto nulla di simile e continuò ad ignorare la mia ricerca di spiegazioni.
-Gerard!- La porta si aprì nuovamente, cacciando un rumore tremendo e quasi non perdetti l’equilibrio cadendo giù dalla ringhiera. Ne uscì un Mikey trafelato, che non appena mi vide, sembro ricomporsi. Non so se lo fece per non far apparire ai miei occhi Gerard come un ragazzo che aveva bisogno di qualcuno che lo seguisse costantemente o per paura di venir scambiato per uno psicopatico iperprotettivo e nevrotico, ma lo fece. –Mi dispiace, per qualsiasi cosa ti abbia detto. – Mi disse non guardandomi nemmeno, era troppo intento a far rialzare Gerard da terra. –Su, forza andiamocene a casa.-asserì ancora una volta, con voce rassicurante, per poi tornarsene nel pub, senza neanche degnarsi di salutarmi. Non che mi importasse ovviamente, ma mi avrebbe aiutato a risvegliarmi da quello stato di shock in cui mi ero inabissato.
-Eccomi, scusa, mi ero fermato a parlare con una tipa lì dentro, mi ha anche lasciato il suo numero Frank! Non è fantast… Frank?-
Per quale motivo Gerard era venuto da me?
-Frank..?-
Era addirittura riuscito ad ingannare la sorveglianza del fratello.
-Ohoh..?-
O forse era arrivato qui per caso.
Magari si era perso tra le quinte ed era sbucato li, aveva trovato me, e forse mi aveva scambiato per qualcun altro.
-Ma insomma Frankie, che cazzo hai!?- Sentii Ray prendermi con forza il braccio e scuotermi, facendomi riprendere. – Freddo! Andiamo a casa. - Risposi sbrigativo fiondandomi nella macchina della cugina dell’afro, arrivata giusto in tempo per salvarmi il culo dal’eventuale interrogatorio di Ray.
Arrivammo di fronte a casa mia, salutai e ringraziai il mio amico e sua cugina e mi affrettai a varcare la soglia. Mi accasciai con le spalle contro il portone d’ingresso. Mi presi la testa tra le mani e sospirai profondamente cercando di alleggerire quel peso che gravava sul mio petto.
Ero sotto shock. Decisamente. Se solo avessi chiuso gli occhi avrei saputo riprodurre alla perfezione la scena, le sensazioni, il suo respiro sul mio collo, la sua testa poggiata contro la mia schiena. TUTTO.
Se salgo in camera va a finire che mi sdraio a letto, vengo sommerso dalle domande E mi esplode la testa.
Risultato: zero risposte e insonnia assicurata. Perciò vada per una passeggiata, tornerò a casa solo quando sarò così stanco da non riuscire più a coordinare cervello e azioni.
Sfilai le cuffiette dalla tasca dei jeans strappati e cominciai a camminare senza meta lungo il marciapiede premendo play e impostando la riproduzione casuale.
Il silenzio regnava sovrano attorno a me, eccetto per le note di Karma police che fuoriuscivano dagli auricolari e il suono di qualche sirena in sottofondo. I miei piedi si muovevano in automatico sul ritmo lento della canzone, la testa stava bassa fissa sui lacci delle mie scarpe ormai vecchi e sporchi. Isolarmi nella musica era la risposta. Almeno per me era da sempre stato così. Era il ponte che mi collegava al mio mondo. Mi bastava suonare o sentire della buona musica per azzerare le distanze con il mio universo personale.
Ma qualcuno interruppe la mia transizione da un mondo all’altro. –Ehi amico.- alzai la testa puntando gli occhi sulla figura incappucciata del ragazzo che mi stava chiamando. Poco, ma sicuro. Non l’avevo mai visto prima. –Ci conosciamo?- chiesi alzando il sopracciglio. Non so spiegare bene che impressione mi diede a primo impatto. Era un tipo magrissimo e slanciato, avvolto in un’enorme felpa nera  col cappuccio dal quale spuntava un ciuffo di capelli ondulati color verde acido, dei jeans strappati, anch’essi di minimo dieci taglie in più della propria, un grosso sorriso amichevole stampato in faccia e un’aria tranquilla e rilassata.
Era di certo una persona nettamente incompatibile con lo stereotipo del vecchietto che porta a spasso il cane la sera prima di andarsene a dormire, e credo sia per questo che inizialmente presi in considerazione l’idea di girare i tacchi e tornarmene a casa. –No, ma io conosco i tipi come te! Soli, con tante domande, una miriade di complessi inutili e una cotta che ti sta facendo intrippare di brutto, fratello.- disse gesticolando sempre facendo trasparire un indole pacata e pacifica e sfoggiando un innumerevole quantità di slang. Però tutto sommato aveva ragione,  e decisi di scartare l’idea di andarmene. – Io sono James, ma chiamami pure  Jimmy.- disse porgendomi una mano. – e questa..- notai nello stringergli la mano che tenuta tra le dita di essa c’era una specie di bustina in plastica, voleva che la prendessi e così feci. – è la tua meritata vacanza da un cervello troppo attivo.- Il suo sorriso si allargò, se possibile, ancora di più. – Mi stai simpatico, bello. Per sei euro, è tutta tua.- Abbassai la testa verso il mio pugno ancora chiuso, per poi aprirlo e scorgere ciò che c’era dentro. Ad occhio e croce sembrava … erba. Sogghignai. La misi nella tasca del giubbotto e presi i soldi dal portafoglio che avevo nei jeans, con un piccolo extra mi fornì anche il necessario per fumare. Salutai Jimmy e me ne tornai verso casa. Avevo fumato solo una volta in vita mia quella roba, mi era piaciuta, ma ero un tipo che viveva dei suoi pensieri e delle sue riflessioni, piuttosto depresso e con ben poca voglia di ridere, perciò pensai da subito che non era cosa per me quella. Ma per una serata, per QUESTA SERATA, avevo bisogno di staccare. Di prendere tutto con leggerezza, di smetterla di pensare alle conseguenze, alle mie troppe domande, avevo bisogno di ridere, di sfogarmi  da solo, così da non dovermi preoccupare neanche dell’apparire ridicolo agli occhi di quell’unico amico che avevo. Perciò affrettai il passo e mi fiondai dentro casa. Salii le scale stando attento a non far rumore per non svegliare nessuno e non appena entrato in camera chiusi la porta a doppia mandata. Mi sedetti sul letto e sistemai l’occorrente sulle coperte. Mi ci volle un po’ per assemblare il tutto, ma data la mia esperienza col drum, non fu poi tanto difficile mettere assieme qualcosa di lontanamente fumabile. Mi sedetti sui cuscini sul davanzale della finestra e aprii quel tanto che bastava per non impregnare la stanza di quell’odore tanto proibito. Accesi lo spinello e aspirai la prima boccata. Quel sapore di quel ricordo passato in compagnia di Bob, il mio vecchio amico di Newark, mi riaffiorò alla mente, scomparendo un attimo dopo nei meandri di una mente confusa. Perché era anche di stordirmi che avevo bisogno, il giorno dopo non avrei ricordato più nulla dei pensieri in questa fazione di tempo, non avrei provato vergogna nel ricordarmi del mio pensare senza freni, potevo immaginare ciò che volevo. Mi sdraiai sul pavimento e spalancai la finestra così da poter fumare liberamente anche lontano dal davanzale. Il freddo entrava, ma non mi importava minimamente. Anzi il mio tremare mi divertiva alquanto, sembravo uno stupido chiwawa senza il suo adorato capottino. Risi. Tappandomi subito dopo la bocca per non svegliare nessuno. Rotolai a pancia in giù sul gelido mattonato della stanza. Gettai la cenere su un foglio di carta che avevo strappato dal mio quaderno degli appunti su cui vi era impressa a penna una scritta. Gerard.  – Geràrd, alla francese!-  dissi, soffocando una risatina.
Andai avanti per qualche ora, rollai altri due di quegli aggeggi. La mia fantasia galoppava senza freni. Indomabile.
Quando ormai l’ipotermia era prossima, mi decisi a gettare tutto ciò che avevo usato, chiudere la finestra e mettermi a letto.
Restai sveglio, incapace di prendere sonno e dopo qualche ora l’effetto dell’erba sparì quasi del tutto.
Continuai a rigirarmi tra le coperte. Nessuna posizione era così comoda da farmi desistere dal pensare.
Allora mi arresi. Niente riuscì a farmi smettere di ritornare con la mente a quell’abbraccio. Al dolore che vidi nei suoi occhi. Alla preoccupazione del fratello.  Alla moltitudine di domande che avrei voluto porgere a Gerard.
E difatti quella notte non dormii affatto. Colpa del mio cuore che sembrava esplodere nel mio petto. Tenendomi sveglio fino alle luci dell’alba. 
*spazio autrice*
Le mie più sentite scuse. Non ci riuscivo. non riuscivo a convincermi di ciò che scrivevo.
Ho avuto un blocco assurdo. Giuro che non ho mai smesso neanche un secondo di smettere di pensare a come continuare la storia. Finalmente però ho idee. Ce la posso fare ad andare avanti, purtroppo come 'capitolo di sblocco' non è dei migliori, ma avevo bisogno di aggiornare con un testo del genere. 
ancora scusa, un grazie a chi mi segue e mi sostiene ancora.
;-;
-Gee. x
 

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Capitolo 11
*** capitolo undici; ***


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Il giorno seguente mi svegliai molto tardi, la testa e le ossa mi facevano un male assurdo, mi sentivo stordito, segno che con lo sballo dell’altra sera avevo ottenuto l’effetto desiderato.
Il freddo  pizzicò le punte intorpidite delle dita dei miei piedi, costringendomi a raggomitolarmi ancora di più tra le coperte spesse e morbide. Cercai di ricordare con precisione i dialoghi interiori che avevo formulato l’altra notte, ma nella mia testa si affollavano solo ricordi confusi e risate ovattate.
E non era proprio questo che volevo?
Avevo avuto bisogno del mio momento di distacco da tutto ciò che mi circondava. La realtà mi stava sommergendo; onde imponenti di nuove consapevolezze, pronte a spazzare via ogni mia certezza, minacciavano di abbattersi su di un me convinto di poter riuscire a evitare l’inevitabile nascondendosi dietro un vecchio, fragile e malandato ombrello di autoconvinzioni. Ma non ero abbastanza coraggioso da accettare queste nuova parte della mia sfera personale che stavo scoprendo.
La domenica sembrò scorrere velocemente tra qualche sigaretta e un paio di birre scolate a casa del mio unico amico e mi ritrovai catapultato in un batter d’occhio nella noiosissima routine scolastica.
Tutto sembrava svolgersi come da copione. Solite prese in giro da parte dei professori, solite insufficienze, il solito essere ignorato dai compagni di classe, i miei soliti piagnistei su quanto odiassi quel posto e il solito Ray che li stava ad ascoltare. Ma mancava però qualcosa. O meglio qualcuno.
Gerard. Da quella sera al pub non l’avevo più visto. Neanche Ray l’aveva più nominato, il che era strano, visto che Mikey e suo fratello erano spesso oggetto dei suoi interminabili aneddoti.
Vagai per i tre giorni seguenti per i corridoi affollati del mio istituto, sperando invano di scorgere la figura del moro e di quel mingherlino dall’aria schizzata, ma nulla.
Si, potrà sembrare patetico, ma l’ansia e la preoccupazione mi stavano corrodendo. Insomma, non venivano a scuola da giorni e nessuno sembrava preoccuparsene. E se fosse successo qualcosa a quei due? L’ultimo ricordo che avevo di loro era: un individuo talmente ubriaco da non riuscire a tenersi in piedi sulle proprie gambe e un ragazzo apprensivo sull’orlo di un crollo psicologico causato dalla troppa preoccupazione per suo fratello. 
E se avessero fatto… non so, un incidente d’auto tornando a casa dal concerto? Mi immagino già la scena. Mikey che tenta di guidare. Gerard, preso da un attacco di ubriachezza molesta che inizia ad infastidire il guidatore facendo sbandare l’auto nell’altra corsia.. O.. o.. giù da un ponte..
 Oh, cazzo! Ma cosa sto dicendo? NO! No.
Porca puttana odio il me melodrammatico, tragico e pessimista.
Pensa positivo, Frank.
Forse saranno tornati dentro al locale e avranno incontrato un gruppo di fan che stravedevano per loro, si saranno fermati a bere qualche altra birra e se la saranno spassata in dolce compagnia di alcune di quelle tipe e..
Avvertii una fitta precisamente alla bocca dello stomaco, come se mi avessero appena inferto uno di quei pugni che ti impedisce di respirare per un tempo che sembra infinito. Provai un senso di fastidio mai provato fino ad ora, un ingiustificata rabbia mi si annidò nel petto..
E’ forse gelosia?
 Beh, se fosse così.. i miei complimenti.
Bella cazzo di visione positiva, Frank. Va bene non farla finire in tragedia per loro, ma ti prego.. un po’ di amor proprio abbilo anche tu!

Scossi la testa come a voler scacciare il conflitto interiore con la mia coscienza.
Ma ripensandoci bene, era proprio questo che facevo ogni volta in situazioni analoghe. Mille supposizioni, i più impensabili colpi di scena, assurde conclusioni, film da oscar insomma.. ma facevo di tutto, tranne che mostrare interesse verso qualcuno. Non volevo affezionarmi. Ero un debole, totalmente incapace di accettare critiche, rifiuti e addii. Affezionarmi avrebbe significato per me firmare un contratto vincolante con l’autodistruzione.
Sopravvivere alla lontananza da Bob, il mio migliore amico lì a Newark, era già stata una gran cosa per me.
Che poi… dovrei dire ex- migliore amico. Litigammo di brutto prima della mia partenza.
Sentii gli occhi pizzicare non appena rispolverai dal vecchio cassetto dei ricordi, stipato in un angolo della mia mente, il dolore che provai in quel momento.
-Allora, mi stai ascoltando si o no, nanerottolo?- sbuffò inacidito Ray dai piedi del mio letto.
L’avevo invitato li in casa mia con l’intento di prepararci per il test di matematica imminente,ma sapevamo entrambi che nessuno dei due avrebbe aperto libro. Diciamo che era una scusa per poterci annoiare a vicenda.
Gli lanciai uno sguardo seccato per poi tirargli in piena faccia il volume di matematica. –Non chiamarmi in quel modo, comunque no. Non ti stavo ascoltando.- tornai a stravaccarmi comodamente sul piumone. Lo sentii imprecare per poi riprendere a parlare
-Dicevo, prima che tu ti isolassi nel tuo mondo autistico, che mi sono pienamente rotto il cazzo di questa merda e che devo assolutamente filarmene a casa prima che mio padre torni. Sai, tecnicamente ero in punizione, mi ha beccato a fumare in bagno.- trattenne a stento una risata che io debolmente contraccambiai.
–Ci sentiamo stasera, d’accordo?-
Annuii e ci salutammo, nell’uscire il riccio incrociò la figura di mia madre che stava proprio per fare il suo ingresso in camera mia.
-Ti ricordi che giorno è oggi. Vero, Frank?- chiese speranzosa mia madre, dopo aver salutato anch’essa Ray e averlo visto uscire di corsa dal portone.
-Giovedì?- domandai certo che quella fosse la risposta che avrebbe voluto sentirsi dire di meno in quel momento.
-Il compleanno di zia Lucy. Io dovevo preparare la torta e tu dovevi andare a comprare il fottut… il REGALO! Ora ti ricordi!?- sbottò lei sopprimendo un catastrofico ed imminente attacco d’ira. Era esasperata, al limite.
Bello schifo di figlio che ero.
 Mi spalmai la mano sulla fronte, scioccato da quanto la mia memoria fosse andata a farsi fottere. Negli ultimi quattro giorni mi avrà chiesto di farle questo favore almeno un centinaio di volte, ed io, sempre troppo occupato a crogiolarmi nella mia pigrizia, avevo declinato il buon proposito di uscire di casa per comprarle quel fottuto regalo, rimandando al giorno successivo.
-il regal… stavo giusto uscendo! Ho cacciato Ray proprio per questo! Dovevo uscire a comprare il regalo!- cercai invano di far credere a mia madre che non le stessi mentendo spudoratamente, ma il suo sguardo dubbioso mi fece desistere dal continuare. Mi infilai le scarpe e la giacca, presi il cellulare e i soldi che mia madre mi aveva dato e mi diressi verso il centro in cerca di qualcosa da comprare per la cena di stasera.
 
Stavo girovagando per negozio ormai da un po’. Passo svogliato, sigaretta accesa stretta tra le labbra e davvero poche idee regalo per salvarmi il culo. Lo strascicare dei miei passi si infranse nelle piccole pozzanghere d’acqua create dalle piogge della mattinata trascorsa e percepii il freddo insediarsi fin sotto la maglia pesante di lana che indossavo sotto il giubbotto. Rabbrividii ed alzai la testa puntando il mio sguardo fisso sull’insegna di un negozio.
‘Bijouxbijoux’
‘bigiotteria’ andiamo sul classico, a quella bigotta oca imbellettata piacerà di sicuro. E poi, il commesso indossava solo una camicia in cotone, segno che i riscaldamenti erano accesi ed io li fuori… rischiavo l’ipotermia. Lasciai cadere la sigaretta quasi del tutto finita sull’asfalto bagnato e mi avvicinai alla porta.
La spinsi, il campanello suonò avvertendo il personale della mia presenza e mi lasciai avvicinare da una donna la quale targhetta laccata in oro lasciava intravedere il nome ‘Anne’.
Sorrise e un – Come posso aiutarla, signore?- mi disse. Alzai il sopracciglio e la guardai sconvolto. Signore? Il dio denaro ci sapeva fare. Con i suoi poteri sovrannaturali era riuscito a rendere me, Frank Anthony Thomas Iero Junior Terzo, un fottuto… Signore?
Bah. La situazione cominciava a divertirmi. Che avesse ragione Ray e fossi un po’ autistico? Nel mio mondo le formalità erano sconosciute e tutta questa falsa gentilezza, questo attaccamento ai soldi del cliente, mi sconcertavano.
Pensai un attimo alla risposta. Volevo prendere a mia zia un qualcosa di economico e davvero.. brutto. Qualcosa che la facesse sentire in imbarazzo al solo pensiero di dover fingere di essere piacevolmente colpita dal mio regalo. Qualcosa che la facesse sentire a disagio come faceva lei con me quando mi ricopriva di battutine riguardo al mio aspetto.
 Sarebbe stata la mia rivincita. Ed ora sapevo esattamente cosa dire.
-Emh… in realtà si.- un ghigno mi comparve sul volto.
-Volevo acquistare un gioiello brutto ed economico, per  una donna sgradevole e decisamente di poco valore.- La commessa sgranò gli occhi, quasi non le scoppiai a ridere in faccia. La sua bocca si allargò a formare un cerchio perfetto e tentò più volte di rispondermi o di riprendersi da quella mia risposta così schietta, ma non ci riuscì. Si limitò a scomparire tra gli scaffali, cercando qualcosa che potesse soddisfarmi.
 
Comprai uno dei bracciali più brutti che si fossero mai visti in circolazione. E non ero mai stato così felice di regalare a un qualcuno un oggetto così antiestetico e sgraziato.
Soli quattro dollari e novantanove cents. Aprii la mano nella quale tenevo stretto il resto abbondante.
-Ed ora un regalo anche a me- Me l’ero meritato un premio, su. Se non per l’originalità dell’idea, me lo meritavo per il sadismo con cui mi stavo godendo il mio piccolo assaggio dell’imminente vendetta per tutti i digiuni che mi aveva fatto patire. Verdura! Non mi sembrava di chiedere poi troppo, no? E che cazzo.
Sfilai dalla tasca il cellulare per guardare l’orario.
-(18:05)- lessi. Perfetto.  Avevo circa venti minuti per arrivare fino al negozio di cds e vinili e tornarmene a casa per prepararmi a quella stupida cena.
 Entrai quando mancava ormai poco alla chiusura delle saracinesche. Dovevo sbrigarmi.
Mi arrestai solo quando fui ad un passo dalla sezione rock/ punk/ metal. Troppe leggende della musica, così tanti album e così poco tempo per scegliere. Direi che questa era una tortura psicologica al limite dell’accettabile.
Quando lo vidi. QUEL CD. Mi bastò leggere il titolo per rimanere senza fiato. Lo volevo a tutti i costi. Spalancai gli occhi incredulo, lo cercavo da così tanto.. a Newark non avevo mai trovato nulla di simile nel minuscolo, nonché unico, negozio di dischi della città.
Era sulla terza fila dei ripiani più alti e per l’ennesima volta in vita mia maledissi la mia fottuta statura. Mi alzai sulle punte dei piedi tendendo la mano per afferrare il cd degli Smiths, quando vidi qualcosa svettare da sopra di me. Qualcuno afferrò il cd con nonchalance facendo una leggera pressione sulla mia schiena. Persi l’equilibrio e per poco non finii sopra la distesa di articoli esposti, se non fosse stato per quella stessa mano che mi afferrò per la vita tirandomi a se ed evitandomi una pessima figura davanti a tutti. Feci per girarmi a ringraziarlo, ma nessuno sarebbe mai stato psicologicamente pronto ad affrontare un tale shock.
Mi voltai completamente e giuro che non credetti ai miei occhi quando misi a fuoco l’individuo che ora era di fronte.
Un bicchiere take away della starbucks nella mano destra, nell’altra il cd degli Smiths . Un sorriso strafottente ad attraversagli il viso e dei capelli corvini ad incorniciarglielo. Gerard. Sentii il cuore accelerare e mi impedii categoricamente di urlare. Sia per la gioia di averlo rivisto sano e salvo e nello smentire le mie soap mentali dei giorni a precedere, sia per lo spavento, la sorpresa e l’imbarazzo che mi investirono nel vederlo.
Si rigirò il cd nella mano guardandolo con attenzione, poi tornò a guardarmi con lo stesso sguardo enigmatico di poco prima. Un altro tuffo al cuore. Di questo passo i miei buoni propositi di non svenire o farmi venire un attacco cardiaco sarebbero andati a farsi fottere.
-Beh, ci vediamo.- disse con voce pacata ed irritante, per dirigersi poi con passo lento verso la cassa.
Stava per comprarsi il MIO cd? Di uno dei MIEI
 gruppi preferiti? Nonché l’ultima copia disponibile nel negozio? Il MIO premio? Il MIO meritatissimo premio?
No, assolutamente. Neanche l’apparizione del fantasma di Jimi Hendrix avrebbe potuto permettersi di soffiarmi da sotto il naso quel cd.
E non so quale Dio mi diede la forza di chiedere
-Dove credi di andare, scusa?- con voce autoritaria rivolgendomi a Gerard. Lui si bloccò, poi si girò a guardarmi e sono certo che si stesse trattenendo dallo scoppiarmi a ridere in faccia. Era davvero così patetico il mio tono di voce?
-A pagare il mio cd.- asserì ovvio. Quel sorriso che avevo notato sin da subito, sembrò centuplicare il suo livello di sfacciataggine. Dov’era il Gerard adorabile del primo giorno? Quello distrutto del palcoscenico? Quello misterioso del retro del pub? Sembravano tutti essersi dissolti nel nulla.
Quel tipo era lunatico. Fottutamente imprevedibile.
-L’ho visto prima IO. Me l’hai praticamente tolto dalle mani!- sbottai acido avvicinandomi.
Lui non si tirò indietro, anzi. Si avvicinò talmente tanto da farmi pentire di aver mosso anche un solo passo. Da vicino era ancora più bello. Da mozzare il fiato. Arrossii impercettibilmente abbassando per un attimo lo sguardo e puntandolo sulle punte rovinate delle mie scarpe.
-Un po’ di gratitudine, su! Ti ho salvato la vita, dovresti essermene riconoscente.- ancora quel sorriso.
Una malsana voglia di spaccargli la faccia si impossessò di me. Strinsi i pugni a tal punto da sentire le dita intorpidirsi.
-Sbaglio o sei stato tu a spingermi? Se stavo per cadere era solo colpa tua.- risposi a tono cercando di afferrare il cd dalle sue mani che lui prontamente ritrasse prima che potessi riprendermelo. Il breve contatto tra le nostre dita mi fece rabbrividire, ma lui non parve accorgersene, forse troppo divertito dalla mia presa di posizione. La stava decisamente prendendo come una.. sfida. –Se non fosse stato per me..- si avvicinò ancora di più, sentivo il suo respiro caldo all’aroma di caffè infrangersi sulla mia pelle –non l’avresti mai visto così da vicino.- rise, sbottando sarcastico sventolandomi ciò che teneva saldamente in mano davanti agli occhi. Sbaglio o mi stava dando del nano?
Mi feci rosso in viso dalla rabbia e mi avventai su di lui prendendolo per la giacca. –Mi stai prendendo per il culo?- sputai velenoso.
-E’ tutto apposto?- la voce lontana e seria di un commesso ci fece voltare entrambi. –Si, non si preoccupi. Il ragazzino è solo un po’ suscettibile- disse con tutta la calma del mondo Gerard per poi abbassare il tono di voce a un sussurro, come se volesse confidare un segreto a quell’uomo, fingendo che io non esistessi –probabilmente ha il ciclo, sa.. le prime donne..-
Ma come cazzo si permetteva? Quel… quel… quel pallone gonfiato! Sentii l’ira crescere a dismisura. Strinsi la presa sulla stoffa del giacchetto, tanto da sentirlo quasi sfilacciare sotto la mia salda presa. –Giuro che, usciti di qui, ti sfondo il culo.- lo minacciai a denti stretti.
Sorrise portando una mano sulla mia guancia. Era così morbida e accogliente.. sembrava fatta per accarezzarmi in quel mod… ma cosa stavo dicendo?!
Avvicinò le labbra al mio orecchio e bisbigliò con una malizia disarmante – sarei lieto di ricambiarti il favore, dolcezza.-
Sentii lo stomaco aggrovigliarsi, il viso completamente in fiamme e il cavallo dei pantaloni… fottutamente stretto.
Dio, ma cosa mi stava succedendo!?
Incapace di fare o dire altro lasciai la presa sulla sua giacca e lo guardai allontanarsi da me trionfante. Lo vidi comprare The Queen is dead e prima di sparire, come suo solito, si voltò un ultima volta dicendomi
-Magari un giorno di questi potresti venire da me, ho un cd degli Smiths che è la fine del mondo!-
Si scostò una ciocca di capelli che gli era caduta sulla fronte e mi sorrise vittorioso.
Rimasi li impalato, le braccia abbandonate lungo i fianchi e un espressione indecifrabile sul volto.
La sfida.. l’aveva decisamente vinta lui.
*SPAZIO AUTRICE*
Eccomi tornata, capitolo undici!
Devo dire che non mi dispiace.
E poi... non ci ho messo un eternità come l'altra volta a d aggionare, no?
Ci ho messo molto comunque, ma spero che vi piaccia il risultato.
Beh, fatemi sapere cosa ne pensate e se volete linciarmi verbalmente per la mia
lentezza nel postare i capitoli... sfogatevi pure nelle recensioni skjfb c.c
Un bacione,
-Gee. x

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Capitolo 12
*** capitolo dodici; ***


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-Ma è… beh… è così… carino!- mentì mia zia incrinando la voce a tal punto da farmi quasi fischiare le orecchie.
Sbuffai. Pensavo che la pelle del suo viso tesa sino all’inverosimile e il suo mascherato tono omicida mi avrebbero divertito, ma mi sbagliavo. Tutti i miei buoni propositi di passare una serata all’insegna del piacere post vendetta, stavano via via scemando.  Colpa di quel fottuto fastidio viscerale che non si era degnato di lasciare il mio petto da quando avevo messo piede fuori dal negozio di dischi.
Grazie a Dio quella schifo di ‘festa’ non si dilungò oltre le undici di sera e potei dirigermi in macchina sperando che il viaggio da li a casa mia sarebbe stato il più breve possibile.
Mio padre sedette al posto del guidatore,  girò le chiavi illuminando il quadro del cruscotto, mia madre era accanto a lui, testa poggiata al finestrino umido di condensa, guardava fuori. Io dietro. Solo come al solito, ma più irrequieto. Con la mente ripetutamente assalita dall’odiosa faccia da schiaffi di Gerard.
La casa mi apparve come un bellissimo miraggio. Mi appropriai delle chiavi e attraversando velocemente il cortile arrivai al portone. Non avevo nessuna intensione di rimanere sveglio per un solo altro minuto. Volevo fuggire. Fuggire da quella sensazione snervante che mi attanagliava la bocca dello stomaco. Corsi su per le scale, togliendomi giacca, felpa e maglia mentre le salivo. Tolsi anche i jeans quando fui in camera e mi gettai nel mio rifugio fatto di stoffe calde e accoglienti e finalmente la fortuna decise apparentemente di sorridermi, facendomi scivolare in fretta in un sonno profondo.
 
Profondo e tormentato. Sono le sei del mattino, a detta della sveglia che non faccio altro che fissare in attesa del suo allarme, e sono sveglio da circa un ora. Incapace di richiudere occhio. Gli incubi mi hanno assalito per tutta la notte. Riesco ancora ad avvertire l’emotività causata dai miei sogni incanalarsi sotto la pelle, muovendosi furtiva e scattante appena sotto di essa.
Al mio risveglio, però, non c’era stata traccia neanche di un solo ricordo sbiadito, il vuoto in tutto il suo fitto mistero mi avvolgeva la mente e l’unica testimonianza del mio sonno inquieto era la sensazione di ansia e stress.
Mi costrinsi ad alzarmi. Feci una doccia veloce e mi vestii alla cieca nella camera da letto buia, poi scesi.
Mi intrufolai in cucina di soppiatto, i miei stavano ancora dormendo e sapevo che se li avessi svegliati, privandoli di quei venti minuti extra di sonno, mi avrebbero tolto dal mondo in tempo record. Perciò facendo rumore meno possibile, mi preparai qualcosa di veloce da mettere sotto i denti.
Mancavano ancora una manciata di minuti prima dell’orario che avevo prestabilito per uscire di casa ed arrivare in tempo, almeno per una volta, a scuola; così decisi di finire i compiti di matematica, ma i miei risultati e quelli del libro sembravano provenire da due mondi diversi. Ma come cazzo avevo fatto a far venire fuori una cifra simile?
Non ne avevo idea. Fatto sta che non avevo più la minima voglia di tentare di risolvere quel problema e che l’ipotesi di uscire di casa e andare a scuola, anche se in anticipo, si concretizzò qualche minuto dopo.
L’aria era gelida, fredda a tal punto da sfumare l’orizzonte colorandolo di un tenue azzurro tendente ad un chiaro grigio cenere. Le mie dita erano irrigidite, arrossate, congelate, ma il contatto con il fondo delle tasche della felpa, attenuava un po’ la situazione.  Camminai lento, nonostante avevo bisogno al più presto di rintanarmi al calduccio lontano da quel vento pungente, osservando il paesaggio mattutino, la calma delle strade e la bellezza della periferia deserta che da sempre mi piaceva. In quel momento tutta la stanchezza dovuta alla mia notte in bianco, parve dissolversi come i cristalli di ghiaccio sui parabrezza delle auto che cominciavano a sciogliersi.
L’ idillio finì non appena mi resi conto che la mia passeggiata era giunta al termine e che l’incubo stava per avere inizio.
Neanche il sorriso  di un Ray che stava venendomi incontro riuscì a farmi risvegliare dall’apatia in cui mi stavo per gettare a capofitto, sperando di riuscire così a far passare le ore il più velocemente possibile.
Ultimamente la mia deprimente idea di ‘felicità’ si stava trasformando in questo ‘Accontentarmi di veder scorrermi la vita davanti agli occhi, non partecipando ’. Volevo che il tutto scorresse più fluidamente, più veloce e che non si degnasse di integrarmi nel suo corso. Non sentivo il bisogno di esserne partecipe, di provare emozioni. Ne ero stanco. Avevo notato che ogni volta che nella mia routine si insediava l’ombra di un cambiamento, il mio precario equilibrio mentale, vacillava pericolosamente e il più delle volte finiva col rompersi in mille pezzi che nessuno mai si sarebbe dato la pena di raccogliere. Perciò evitavo le novità. Perciò mi rifugiavo nell’apatia. Accontentandomi del vivere delle emozioni altrui descritte nei testi delle canzoni, riflesse nella musica stessa, facevo mia ogni parola ed ogni nota, così sarei stato io l’unico in grado di decidere quali sentimenti provare e in quale momento provarli.
-Nicotina per il piccolo Frankie! Amico, sembri distrutto.- urlò Ray ficcandomi con poca delicatezza una sigaretta accesa tra le labbra. sorrisi, allontanandomi dalla miriade di pensieri che speravo fossero soltanto di passaggio nella mia mente. Si, avevo bisogno proprio di una sigaretta per distendere i nervi che avevano da poco ricominciato ad irrigidirsi per la stanchezza e come al solito il mio amico afro sapeva sempre di cosa avrei avuto bisogno, o perlomeno questo accadeva il più delle volte.
Aspirai per poi ringraziarlo e gli diedi il buongiorno accompagnata  da una pacca sulla spalla.
-Che lezioni hai stamattina?- chiesi interessato a Ray.
 In terza e quarta ora avrei avuto un ora di ginnastica seguita da quella facoltativa di religione, perciò mi avrebbe fatto piacere evitare di passarle da solo, in giro per i corridoi. –Mh, fammi pensare…- si bloccò poi, facendo scivolare fuori dal pacchetto di sigarette una stecca bianca che si accese poco dopo. –nelle prime due ore sono con Mikey, abbiamo il corso di matematica e fisica insieme, terza ho storia, le altre non ne ho idea. Davvero.- asserì facendo uscire il fumo denso dalle narici.
-Capisco, se in quarta ora non hai nulla di meglio da fare, mandami un messaggio.- detto questo, finita la Marlboro e salutato Ray, mi diressi all’interno dell’edificio.
 
-Iero, a cosa devo il suo essere puntuale?- chiese fingendosi esageratamente sorpreso il professor Kelson.
Si.. sempre lui, quel fallito che mi avrebbe dovuto insegnare matematica, invece di sfottermi in continuazione, ma evidentemente la seconda come opzione era più allettante della prima e lui pareva tenersi alla larga dalle cose che non lo divertivano.
Non risposi per il semplice fatto che una simile provocazione non era degna di essere raccolta.
Stranamente seguii tutta le due ore di lezione. Presi appunti e colmai apparentemente alcune delle grosse lacune che avevo in quella materia. Finalmente la seconda campanella suonò e mi sentii decisamente più leggero. Dopo poco ero già sul prato popolato solo da pochi ragazzi della mia classe, gli altri, probabilmente, erano ancora negli spogliatoi a cambiarsi. Di partecipare, come al solito, non ne avevo voglia, perciò mi diressi verso il retro della scuola.
Un posto che fino ad ora non aveva mai attirato la mia attenzione, mi era capitato di raro anche solo di passarci, ma la noia era tanta e di posti per starmene lontano dallo sguardo severo della professoressa di ginnastica ce n’erano pochi.
Mi guardai attorno, camminavo sul vialetto in ghiaia bianca che spiccava dal tappeto di foglie dai colori spenti, le mura della scuola in quel lato sembravano stessero per cadere a pezzi, le piante rampicanti soffocavano gran parte della facciata, facendosi strada fino al secondo piano.  
Era un paesaggio malinconico, trascurato, sciupato, ma rappresentativo. Era la prova inconfutabile della realtà liceale. Contava l’estetica, le mura esposte, la parte in vista, quella impaurita dai giudizi, che non serviva ad altro che a celare le macerie, il lato più trasandato, il lato vero.
Il  piccolo sentiero portava al muretto di recinzione, alto circa un metro e mezzo, che separava il mio istituto dall’azienda a conduzione famigliare di mobili, e continuando ad avvicinarmi finii col decidere di passare, seduto lì, il resto della lezione.
Poggiai i gomiti sul cemento e gettai la testa sulle mie braccia, arrendendomi al fatto che non c’era modo di farmi passare quel mal di testa lancinante. Fottuti incubi, una dormita in santa pace. Chiedo forse troppo?
-Devo piacerti davvero tanto per spingerti a pedinarmi.- Disse una voce alquanto famigliare dai piedi del muretto. Il ragazzo alzò gli occhi verso di me, confermando i miei sospetti.
Dovrei cominciare a pregare più spesso, sia mai che entro nelle grazie del signore e che questo decide di smettere di sommergermi di vagonate di spiacevoli coincidenze. Alzai gli occhi al cielo e questo parve divertire il moro. Decise di alzarsi dalla posizione in cui era rannicchiato con le spalle contro il muro e mi imitò chinandosi sul muretto e appoggiandovici i gomiti.
-Fanculo, è stata una fottuta coincidenza. Ora se non ti dispiace..- girai i tacchi, lo stress e il mal di testa mi stavano uccidendo. Più avevo di queste conversazioni con Gerard più l’immagine che mi ero fatta di lui agli inizi si dissolveva.
Il ragazzo delle docce con il sorriso angelico?
Scomparso, quel sorriso non l’avrei più rivisto. Al suo posto c’era un ghigno provocatorio.
Quello infuriato con mio cugino che sembrava stesse per esplodere?
 Dimenticato e sostituito da un pallone gonfiato pieno di se ed esageratamente fastidioso.
Quello fragile del retro del pub?
Sembrava non essere mai esistito. Il ragazzo che ora mi stava chiamando alle mie spalle sembrava tutt’altro che un debole.
-Beh, si. in effetti mi dispiace. Non mi andava di restare da solo.- mi bloccai e tornai a guardarlo con uno sguardo interrogativo. –Sigaretta?- mi propose, per poi portarsi alla bocca una stecca ed accendersela. Lo fece in un modo così lento e.. bello che quasi non mi incantai nell’osservare quel gesto.
Scossi la testa per riprendermi e accettai diffidente la proposta tornando al muretto.
-Gerard Arthur Way, per gli stalker. Ma se mi assicuri di non esserlo allora puoi semplicemente chiamarmi Gerard.-  asserì sarcastico porgendomi la mano. Tutto in quel momento avrei voluto tranne che si dilungasse con le sue battutine ironiche. Mi sarebbe bastata innanzitutto la Marlboro che teneva ancora nel pacchetto stretto nell’altra sua mano e, se ci scappava, avrei accettato molto volentieri le sue scuse per avermi soffiato da sotto il naso il cd e per avermi fatto fare la figura dell’idiota davanti al commesso del negozio di dischi di cui sarei volentieri diventato cliente abituale.
-Frank.  Non sono uno stalker, e se anche lo fossi dovrei essere un pazzo per avere un ossessione per uno come te.- dissi stringendogli la mano. Lui sembrò soddisfatto della mia risposta e si lasciò scivolare addosso, con la più assoluta nonchalance, le mie frecciatine.
Gerard tornò a sedersi nella posizione in cui si trovava prima del mio arrivo. Voleva che facessi lo stesso. Ma perché? Perché mai avrebbe dovuto volere la mia compagnia? Chi mai aveva insistito perché io restassi?
Probabilmente fu per quello che mi sentii strano ed insolitamente … onorato.
Scavalcai e mi accovacciai alla sua sinistra, a debita distanza, ovvio, la sua vicinanza mi innervosiva. Mi sentivo così strano quando era nei paraggi. Qualcosa di insolito, nuovo, si impossessava del mio stomaco e lo faceva contorcere fino allo spasmo. Era un emozione nuova, ma non per questo sgradevole. Anzi. Mi toccava ammettere, almeno a me stesso, che tutta questa stranissima situazione in cui mi trovavo, non mi seccava più di tanto, diversamente da come avevo pensavo. Ma no, non mi sarei fatto prendere dal momento, non mi dovevo fare illusioni. Lo notavo da quel suo sorriso a mezza bocca che quel momento di tregua tra noi non sarebbe stata una cosa duratura. Si annoiava a morte a stare lì da solo e aveva deciso che sarei stato io il suo passatempo, tutto qui. Perciò decisi che la scenetta dei finti amiconi poteva anche finire qui e tagliai corto chiedendo ciò che mi aveva promesso. –Sigaretta?- chiesi io scocciato.
Sorrise e spense la sua che ormai era ormai fumata fino al filtro per poi tirarne fuori dal pacchetto una ancora spenta.
Allungai  la mano sicuro di avere il permesso di prenderla, ma lui subito ritirò la mano avvicinandosi pericolosamente al mio volto. I nostri nasi erano circa ad un centimetro di distanza, sentivo il suo respiro sfiorarmi la pelle e i suoi occhi puntati sulle mie labbra. Il mio cuore probabilmente aveva cessato definitivamente di battere e il mio cervello e i miei polmoni di funzionare a dovere. Mi ritrovavo in un atmosfera sospesa, mi sentivo incapace di prendere una vera e propria decisione. Avrei dovuto scostarmi, sferrargli un pugno in piena faccia, spintonarlo o anche solamente respirare. Sarebbe già stato tanto. Ma in quel momento non riuscivo a sbloccarmi. Era come se il tempo si fosse fatto pesante, così tanto da far tardare le lancette di ogni orologio, facendo durare ogni secondo secoli e secoli.
-Non penserai mica che io sia tanto gentile da farti un regalo così grande.. senza ricevere nulla in cambio.- soffiò Gerard non accennando il minimo movimento che potesse sbloccare la situazione.
-Un bacio, per una sigaretta. E diciamoci la verità ‘Il permesso di baciarmi ed una sigaretta’.. non sono stato soltanto gentile, direi piuttosto magnanimo. -
Un bacio. Un bacio. Un bacio. Quella parola riecheggiava nella mia testa e rimbalzava da una parte all’altra di me facendomi percorrere da una moltitudine di brividi. Li sentivo salire su per la schiena, percorrevano la spina dorsale diramandosi poi sulla pelle delle braccia e delle gambe facendomi venire la pelle d’oca. Lo stomaco era ridotto peggio del solito, la bocca secca, il respiro, tornato da poco, aveva deciso di nuovo di andare a farsi fottere. Sbattei le palpebre per realizzare cosa mi avesse appena proposto il ragazzo a pochi centimetri da me. Perché si, era un ragazzo. Ed anche io lo ero. E non potevo negare che non mi sarei mai immaginato di dover fare i conti , un giorno, con una situazione simile.
Lui voleva baciarmi… O voleva che io lo baciassi, magari per soddisfazione personale. Ed era alquanto plausibile come spiegazione, visto che sembrava divertirsi da matti a darmi del gay. Avrebbe potuto scansarsi all’ultimo momento, lasciandomi lì. Confuso. Come aveva fatto poco prima negandomi la sigaretta. Avrebbe potuto fare lo stesso. E poi ridere di me e prendermi in giro davanti ai suoi amici.. davanti a Ray. E io sarei rimasto solo un'altra volta. Avrebbe potuto mettere in giro delle voci sul mio conto, le prese in giro sarebbero diventate insostenibili. D’un tratto tutto mi sembrò incredibilmente sbagliato, fu come risvegliarsi da un lungo sonno. Provai la stessa sensazione di quando ancora ti senti stordito e stanzi nella dormiveglia e ti accorgi di essere in ritardo per qualcosa di importante, alzandoti di scatto. Fu esattamente questo che feci. Mi alzai di scatto. Rimanendo comunque con lo sguardo, fisso su di lui, contratto in una smorfia di delusione. Perché nella mia testa quelle conseguenze erano diventate reali. Era  come se fossi certo che avrebbe reagito in quel modo se solo avessi provato a concedergli un bacio. I miei incubi si fondevano con la realtà, non riuscivo più a distinguere il reale da ciò che erano i miei pensieri. Di nuovo il mondo che stava nella mia testa mi reclamava a gran voce. Voleva che tornassi da lui. Ad essere il solito imbranato asociale. In quel mondo tutto mio sarei stato comunque protetto. Non ci sarebbe stato nessun bacio. Nessuna presa in giro. Nessuna delusione. Cominciai a respirare affannosamente, colpa del troppo tempo passato in apnea e della rabbia che adesso provavo nei confronti di Gerard. Dovevo andarmene di lì alla svelta. Scavalcai il muretto velocemente e mi diressi verso il cancello della scuola ed uscii.
Non mi degnai neanche di tornare in classe a prendere la mia roba, chiesi a Ray di farlo al posto mio.
Grazie a dio con le scuse ero ancora bravo e anche se Ray avesse capito che c’era qualcosa che non andava nel mio comportamento, una spiegazione da me, non l’avrebbe mai ricevuta. 
*ANGOLO AUTRICE*
io non so più come chiedervi scusa, sono proprio la peggior autrice di fan fiction di tutto
EFP con le scadenze. Ci tengo comunque a continuare anche se magari non sono stata molto
(diciamo che non lo sono stata affatto)
 regolare con l'aggiornamento. Facciamo così, se mi fate sapere se ancora seguite la fanfiction e come
vi sembra il capitolo in una recensione, mi impegnerò ad aggiornare una volta a settimana!
TwT
Vi voglioo ancora taaaaanto bene, anche se voi preferireste picchiarmi, gnn.
-Gee. x

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Capitolo 13
*** capitolo tredici; ***


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Avevo un tetto sopra la testa per la notte. Il pranzo abbondante preparato da mia madre nello stomaco. Dei genitori che si amavano  e che a loro modo si sforzavano di apprezzare quel poco che c’era di buono in me. Quattro dollari nella tasca destra sul retro dei jeans. Un’ultima Marlboro nel pacchetto. Indosso la mia maglia preferita. I capelli tagliati come più mi piacevano. Un mp3 funzionante. Una chitarra. E finalmente, qualcosa che si avvicinava ad un amico.
Eppure mi sentivo vuoto. Vuoto ed imprigionato in una gabbia di insicurezze create da me stesso col passare del tempo. Più crescevo più le sbarre della mia cella si inspessivano marcando sempre più evidentemente il confine tra me e il mondo reale.
E come grigie erano le traverse di essa, anche la mia vita ormai si era tinta della medesima tonalità.
Ne nero ne bianco, il perfetto equilibrio tra essi. Ma di equilibrio in me non ce n’era. Ero solo troppo indolente per meritarmi un colore ricco di significato. Tra bene e male, non avrei saputo scegliere. Semplicemente non mi davo la pena di farlo. Di credere in qualcosa.
Ero un vigliacco. Così impaurito dal poter venire anche involontariamente ferito, tradito, umiliato, che mi precludevo io stesso il diritto di vivere.  
E me ne stavo realmente rendendo conto proprio ora, dopo più di sedici anni buttati al vento. Provai rabbia e pena per me stesso. Stavo realmente fuggendo da scuola solo per ciò che era successo poco prima?
La risposta era un ovvio si. Ma ormai ero troppo lontano da lì per poterci ritornare e sinceramente, non avevo nemmeno la più pallida idea di come fossi arrivato sulla strada desolata dove ora mi trovavo. Avevo semplicemente staccato la spina del televisore che mi collegava alla realtà, quella tv davanti alla quale avevo passato tutto il resto della mia esistenza fino ad adesso, pensando che ciò che vi vedevo proiettato al suo interno significasse vivere, ma mi sbagliavo di grosso. Ma non avevo fretta di uscire da quella mia gabbia di apatia per il momento. Quando mi sarei sentito pronto, e l’opportunità di dare una svolta alla mia vita si sarebbe presentata, avrei colto l’attimo. Non potei fare a meno di chiedermi, però, se non l’avessi già sprecata. Se l’occasione, il segno, fosse stato proprio quella strana proposta di Gerard.
Decisi che era meglio tornare a casa, tanto i miei genitori non avrebbero mai scoperto la mia piccola fuga da scuola, si trovavano a lavoro, ed erano fin troppo occupati con esso per degnarsi di controllare le firme sul mio libretto delle giustificazioni.
Tirai fuori dalla tasca le chiavi di casa ed in automatico salii le scale per andarmi a rintanare in camera. Spalancai la grande finestra in fondo alla stanza e chiusi la porta a chiave. Passai quasi tutta la mattinata tra musica, sigarette e qualche stupido gioco per il computer. Scesi per pranzare e me ne ritornai al piano di sopra quasi immediatamente. Cominciavo ad annoiarmi sul serio quando la suoneria del mio telefono si mescolò al ritmo della canzone che stavo ascoltando. Era un messaggio di Ray. Parlava di una certa stazione di treni e di una cosa che dovevo assolutamente vedere. Sembrava piuttosto ansioso all’idea di mostrarmi di cosa si trattava, voleva che lo raggiungessi al più presto e continuava a ripetere che, quel posto, non era poi tanto distante da casa mia.
Quindi mi costrinsi a scendere di casa, chiavi in tasca e sigarette nel giubbotto, e a seguire le indicazioni di Ray che mi aveva appena  inviato sul cellulare.
Due sigarette dopo, e se fossi andato avanti a fumare in questo modo avrei avuto più nicotina che sangue in corpo, arrivai alla stazione di Belleville.
Lo riconobbi subito, se ne stava li ad aspettarmi, poggiato allo stipite della porta d’ingresso. Braccia conserte e piede a battere ripetutamente a terra un ritmo che solo lui conosceva, impaziente di vedermi arrivare.
Mi avvicinai senza che neanche se ne accorgesse, tanto era preso ad osservare dalla parte opposta a quella dalla quale venivo io, sbuffando rumorosamente e aspettando di vedermi comparire all’orizzonte.
-Si può sapere che c’è di così imperdibile in questa fogna di posto? Si sente La puzza di piscio persino da qui fuori.- constatai schifato  e con voce acuta, tanto da far spaventare Ray e farlo voltare verso di me.
Un sorriso enorme gli divampò sul viso tondo.  –Sta zitto e seguimi.-
Che poi, seguirlo, era un parolone, diciamo che mi trascinava per la manica. Mi ero ormai abituato ai modi rozzi di Ray. Varcammo l’entrata, superammo due senza tetto rannicchiati su di una panchina, costeggiammo il binario tre e arrivammo in quella che supponevo fosse la rimessa. Scese dalla banchina sul vialetto di ghiaia posto tra un binario e l’altro e mi tirò  giù con se.  Sembrava sempre più emozionato. Finalmente si decise a mollarmi il braccio, poi si inginocchiò a quattro zampe ficcando la testa sotto il vagone.  –Si può sapere che diavolo stai fac..- ma lui mi interruppe quando, alzandosi a fatica e tenendo qualcosa tra le braccia, si voltò verso di me. – Non è bellissimo, Frank?-
Un musetto adorabile mi si piazzò ad un millimetro dalla faccia, e no, non era affatto quello di Ray, bensì quello di un cucciolo di cane, simile ad un labrador, dal pelo bianco sporco e infeltrito e che nonostante la macchia di grasso che gli sporcava la punta dell’orecchio sinistro e il corpicino un po’ smunto per la mal nutrizione, era il meticcio più bello che io avessi mai visto. Provai una sensazione inspiegabile nel vederlo. Continuavo a fissare i suoi movimenti scattosi ed energici mentre si dimenava tra le mani del mio amico. D’istinto tesi le braccia, senza proferire parola, limitandomi ad incurvare le labbra in un sorriso con la dolcezza più spontanea che avrei mai potuto dimostrare.
Lo sentii come rilassarsi al mio tocco cosa che mi invogliò ad avvicinarlo ancora di più a me e ad accarezzarlo con estrema cautela per farlo sentire a proprio agio e non spaventarlo.
Grazie a quella piccola sorpresa inaspettata ora riuscivo a distinguere un po’ di colore tra le venature dell’acciaio della mia gabbia impenetrabile di insicurezze ed apatia. Provavo un vero e proprio sentimento gratificante nel sentirmi così apprezzato da quell’animaletto che ora si tirava su con le zampette, poggiando quelle anteriori sul mio petto per avvicinarsi al mio viso e leccarmi dolcemente la guancia. Arrossii a quel gesto così tenero e, se possibile, il mio sorriso si allargo ancora di più.
-Gli piaci!- asserì euforico Ray. – L’abbiamo trovato io e Mikey oggi dopo scuola, lo stavo accompagnando a prendere il treno per andare ai suoi corsi di basso nella cittadina ad una fermata da qui. Ma siccome quel caga sotto ha il terrore dei cani e ciò implica che ha paura anche di questo piccolo batuffolo,- spiegò mentre accarezzava la testolina pelosa del cucciolo –ho deciso di tornare qui a riprenderlo. E chi meglio di te per prendersi cura di questo scricciolo?- Terminò con un barlume di speranza negli occhi. Mi stava chiedendo, supplicando più che altro, di farlo stare da me. Ma per me sarebbe stato un problema non da poco tenerlo nascosto a mia madre. Ci pensai su un attimo, se non altro il nasconderlo avrebbe aggiunto un pizzico di pericolo alla monotonia della mia vita tra le mura di quella casa. Perché di pericolo si trattava davvero. Mio padre, al contrario di me, odiava ogni creatura dotata di un pelo morbido e di un faccino adorabile e ci avrebbe messo davvero poco a farmi trovare le valigie e la chitarra sul pianerottolo di casa per poi cambiare la serratura. Annuii inconsciamente e questo Ray lo prese come un si definitivo. Lo sentii esultare per poi chiedermi  – Come hai intensione di chiamarlo?-
Non riuscii a pensare ad altro che al colore di cui quella piccola bestiolina aveva tinto le pareti della mia cella, alla dolcezza dei suoi occhi che erano riusciti con un solo sguardo d’intesa a far sbocciare nel mio arido campo di sconforto, un germoglio di mandorlo. Col tempo sarebbe potuto diventare un albero grande e forte, avrebbe ricoperto le proprie fronde dei boccioli più belli, coloriti di un rosa tenue, sarebbe fiorito alle porte della primavera, o avrebbe potuto spezzarsi con la tempesta, prima ancora di aver ben conficcato le radici nel terreno, ma la sua sorte era nelle mie mani. Il capire di avere la possibilità di salvare una vita mi dava speranza. La speranza che un giorno avrei potuto essere salvato anche io. Gli occhi di quel cucciolo ne erano colmi: speranza, fiducia e fedeltà. Mi sarebbe stato accanto ed io avrei fatto lo stesso.
Ci saremmo salvati a vicenda. Avremmo affrontato la tempesta. Avremmo reso fertile insieme il terreno inospitale della mia apatica vita. Saremmo fioriti come mandorli, superando il gelo dell’inverno.
-Almond.- sorrisi, guardando il muso del mio nuovo animaletto clandestino.
-Almond? Ma che orrore di nome è?- domandò - Bah, se a te piace.- sbottò il ragazzo di fronte a me alla fine.
Ma lui che ne poteva sapere di tutta la storia legata a quel nome?
Lasciai Almond a terra e lo vidi guardarsi in torno curioso. –Puoi sempre chiamarlo Allie, se non ti piace Almond.- Sbuffai seccato, cercando di non dargliela vinta ridendo a quel suo commento. – Dio, che nome gay. – scoppiò lui poi in una risata fragorosa.
Allie gironzolava tra i piedi di Ray, mordendogli i lacci delle converse semi distrutte e tirandoli verso di se, strattonandoli, divertito dal suo giochino improvvisato. D’un tratto lo vidi smettere di dimenarsi spensierato. Si pietrificò all’istante, puntando lo sguardo attento oltre lo spessore delle gambe del riccio. Vidi il terrore balenare nei suoi occhioni color cioccolato e a mia volta mi irrigidii. Cercai di individuare cosa stesse fissando e poco dopo capii. Un imponente pastore tedesco se ne stava seduto a pochi metri da noi, tenuto al guinzaglio dalla pettorina della polizia. In effetti quel posto non dava l’aria di essere un luogo tranquillo, mi sembrava ovvio che ci fossero dei controlli. Ma il mio cane non sembrava dello stesso avviso, lo sentivo guaire per vederlo indietreggiare sempre più spaventato dalla figura statuaria dell’altro trattenuto dal poliziotto. Poi, scattò di corsa verso la banchina dalla parte opposta a quella su cui noi eravamo. D’istinto mi fiondai all’inseguimento del cucciolo, cosa che sembrò insospettire il poliziotto che vidi avvicinarsi a noi, mentre io continuavo a correre dietro ad Allie cercando di non farlo finire sotto le rotaie dei treni. Avevo il cuore a mille, mi sentivo come una madre sull’orlo di un tracollo nervoso causato dagli innumerevoli spaventi che il figlio le faceva prendere. Non diedi retta ne all’uomo che mi intimava di fermarmi, ne a Ray, che cercava disperatamente di far capire all’agente che non stavo sfuggendo alla sua perquisizione, ma che mi era semplicemente fuggito il cane. Almond sparì dietro il penultimo vagone, aveva la coda tra le gambe e le orecchie basse per la paura. Fortunatamente nella rimessa, non vi erano treni potenzialmente pericolosi, perciò mi rilassai un momento, rallentando appena il mio passo e regolarizzando i respiri. Delle voci maschili mi giunsero alle orecchie facendomi alzare il sopracciglio per la sorpresa. Tra il penultimo vagone e l’ultimo c’era  un piccolo spiazzo formatosi nella ghiaia tutta intorno alle rotaie. Era da li che proveniva quel bisbigliare continuo e l’odore inconfondibile di una qualche droga dall’odore pungente. Il cane era a pochi metri dalla svolta in cui si trovavano quei ragazzi e , il fato volle, che , attirato da tutte quelle voci , a suo parere rassicuranti, Allie girasse proprio in quel punto. A mio malgrado mi sentii in dovere di seguirlo, nuovamente, ignorando quel pizzicore alla bocca dello stomaco, che identificai come sintomo premonitore di guai. –A..Allie?- azzardai con voce tremante. Sentii il chiacchiericcio, stupito e timoroso nel sentire una voce estranea alle proprie, arrestarsi. Mi avvicinai ancora di più alla svolta, quando dai piedi del vagone vidi tirarsi in piedi una figura, purtroppo, a me molto familiare. Lo vidi guardarmi fisso, poi oltrepassarmi con lo sguardo che notai cambiare notevolmente. Dapprima, quando incrociò il suo sguardo col mio lo vidi irrigidirsi, il suo volto teso in un espressione tra il sorpreso e il disgustato, poi quando guardò alle mie spalle mutò in terrorizzato, ansioso. Tornò di nuovo a posare gli occhi su di me, la sua espressione, se possibile, era ancora più deformata dall’odio e dall’ira. Non capii esattamente a cosa fossero dovute quelle occhiatacce fino a quando – Buttate tutto, cazzo! Hanno avvertito la polizia!- lo sentii sputare agitato per poi vederlo rintanarsi nuovamente nello spazio di poco prima,per poi riemergere da li sotto e fuggire via a gambe levate. Ora ne ero certo, era convinto che fossi stato io a portare lì la guardia per incastrarlo. Sentii alle mie spalle le grida intimidatorie del poliziotto che ora aveva sguinzagliato il grosso pastore tedesco. Abbaiava furentemente, ringhiava digrignando i denti, mentre lo vedevo scattare all’inseguimento di quei ragazzi molto meno veloci di lui. Fortunatamente per loro riuscirono a scavalcare in fretta la rete di filo d’acciaio che divideva la rimessa dalla strada e riuscii a vederli scappare in fretta, disperdendosi nel traffico di Belleville. Il cane continuava a latrare senza sosta a due passi dalla rete di recinzione , finché il suo padrone, con un fischiò, lo riportò alla pacatezza meticolosamente professionale che aveva all’inizio. Riuscii a recuperare il cucciolo, che, a causa di quel trambusto, si era paralizzato dietro la ruota del vagone, tremando. Con il cucciolo tra le braccia, mi diressi verso il punto in cui mi ritrovavo, non prima di essere stato fermato per un tempo che parve infinito dal poliziotto. Mi chiese per quale motivo fossi scappato in quel modo se non avevo nulla da nascondere, perché il mio cane non aveva il guinzaglio, come mai mi trovassi da quelle parti, se avessi riconosciuto chi fossero le persone nascoste dietro il vagone. Anche se si trattava di quel coglione di Ryan, preferii tenere la bocca chiusa con l’agente su quanto avevo visto, negando tutto alle domande che mi poneva sui rapporti tra me e quei ragazzi. Dopo circa un’ora riuscii a sbarazzarmi di quell’uomo in divisa e raggiungere nuovamente Ray, che era rimasto li fino a quel momento. Sapeva che non portavo con me alcun tipo di droghe e che ero alquanto bravo a recitare e a fare la parte del bravo ragazzo, da quando nei pomeriggi di noia, avevo cominciato a raccontare quanto fossi bravo a riuscire a non farmi mai beccare con l’odore di fumo addosso dai miei, perciò non si era neanche scomodato a venire in mio soccorso, non ce ne sarebbe stato bisogno, lo sapevamo entrambi.
Ce ne andammo ognuno verso casa propria, io con il cucciolo chiuso nella giacca per proteggerlo dal freddo. Arrivai davanti casa mia, decisi di passare dalla porta sul retro per non far accorgere nessuno della presenza di Almond. Non appena però girai l’angolo mi sentii schiacciato dal pericolo incombente. Riconobbi nel mio sguardo, l’espressione che poco prima aveva plasmato il musetto di Allie in una maschera di terrore.
La figura pompata poggiata con la schiena contro il muro di casa mia non poteva che essere quella di Ryan. Ormai era inutile scappare, mi aveva inchiodato con un solo sguardo, rendendomi incapace di proferire parola o muovere un solo passo.
Capii che per me era finita nel momento esatto in cui lo vidi spegnere col piede la sigaretta lasciata cadere a terra poco prima da lui stesso e vedendo comparire un ghigno sinistro a sfigurargli la faccia. Mi stava aspettando.
Con quel poco di buonsenso che mi rimaneva, decisi di far scendere dalle mie braccia Almond, che prontamente si andò a rintanare nel ripostiglio degli attrezzi.
 Sapevo cosa mi aspettava, si leggeva nei suoi occhi, mi sentii come se stessi per essere giustiziato e riconoscessi negli occhi della folla quel sadico piacere nel sapere di stare per assistere all’esalazione del mio ultimo respiro. Così, come un uomo che va verso il patibolo, mi avvicinai al mio, Ryan.
-Vuoi, cortesemente, darmi un valido motivo per non farti fuori?- Ringhiò forte lui a denti stretti, sforzandosi di avere un tono calmo, iniziativa che abbandonò subito, lasciando che la sua voce si incrinasse in un verso agghiacciante e grottuale.
-Ryan, ti.. ti giuro che è stato un incidente, non ti avrei mai fatto una cosa simile.- cercai di apparire il più tranquillo possibile, sarei morto mantenendo almeno un po’ della mia dignità. –Che cazzo ci facevi lì? Mi stavi seguendo per caso? Una specie di vendetta da psicopatici per farmi finire al fresco?- Questa volta non tentò neanche di apparire tranquillo. La voce sempre più arrochita dall’agitazione.
Mh, devo ricordarmi di passare all’anagrafe. Cambiare il mio cognome in Stalker. Frank the stalker, sia mai che ci girino un film. Sorrisi amareggiato ai miei stessi pensieri.
-Cazzo Ryan, stai sfiorando il patetico.- Asserii schietto. Ma a lui sembrò non importare poi tanto della mia sincerità, ricompensandola poco dopo sbattendomi forte contro le mura di casa. Stringeva saldamente i lembi della mia giacca, mi teneva in pugno. Era a circa mezzo millimetro dalla mia faccia quando mi chiese retorico un –Non pensi che tu non sia nella posizione adatta per darmi del ‘patetico’?- E ora avrei voluto davvero saper difendermi, spiegargli la situazione, chiedergli scusa per quel madornale susseguirsi di sfortunatissime coincidenze, supplicarlo di lasciarmi andare. Ma non ebbi il tempo di fare nulla di tutto ciò perché aggiunse – Sai, Frank… io mi considero felice, tutto sommato. Ma da quando tu hai messo piede qui, parecchie ‘sorprese’ si stanno presentando, senza invito, alla mia porta.-  A quanto pare vivere adagiati nella propria zona di comfort era un difetto genetico.
-Ma, la polizia. Quello si che è stato un colpo basso.- Potevo calcolare la portata del suo sangue nella vena che pulsava sulla sua fronte, tanto era vicino a me. La sua presa a stringersi sempre più forte sulle mie spalle. E in quel momento, a detta sua, mi restituì il colpo altrettanto basso, sferrandomi una ginocchiata ben assestata che mi mozzò il fiato. Caddi a terra, imprecando. Mi ripresi poco dopo, era ancora lì, mi rialzai a fatica con l’aiuto del muro. Aveva la mascella serrata e pugni chiusi talmente tanto forte da far impallidire le nocche, mentre non distoglieva lo sguardo truce da me neanche per una frazione di secondo. –Diciamo che questa è la lezione che nessuno ha mai avuto il coraggio di darti. Prendilo come un favore, cugino.- detto questo ghignò malvagiamente. Si scagliò contro di me, gettandomi di nuovo a terra. Sentivo il suo corpo pressato sul mio, tentavo di reagire come meglio potevo, riuscendo con un po’ di sforzo, a levarmelo di dosso. Questa mia presa di potere parve infastidirlo ancora di più. Così, quando costatai che era riuscito di nuovo a prendere le redini della situazione, accusai il primo suo pugno scagliatosi sulla mia faccia. Poi arrivo il secondo, che mi assestò dritto nello stomaco, dalla sua posizione di dominio, a cavalcioni sul mio bacino. Ed ecco il terzo, il quale finalmente riuscii a schivare, facendogli sbattere a terra il pugno serrato e facendolo gemere dal dolore, guadagnando un po’ di tempo per riuscire finalmente a sgattaiolare via dalla sua ferrea presa. L’adrenalina che avevo in corpo in quel momento mi aveva attutito il dolore dei suoi colpi, facendomeli incassare abbastanza bene. Riuscii a sovrastarlo e ad assestargli un pugno sul naso, che cominciò a sanguinare di lì a poco. –Mi stò pentendo di non aver dato i tuoi dati all’agente. Quasi quasi domani faccio una capatina in commissariato.- sbottai, un ghigno a stagliarsi sul mio volto. Sentivo il sangue scivolarmi nella bocca, mescolandosi alla mia saliva. –Fossi in te non lo farei, ragazzino.- asserì mio cugino nel assestarmi l’ennesimo pugno, che anche se indebolito per colpa della sua scomoda posizione, andò comunque a segno, colpendomi di nuovo in faccia. A quel punto anche l’adrenalina cominciava a non fare più effetto e il dolore cominciava a propagarsi sul mio viso, quindi decisi che era giunto il momento di darsela a gambe levate. Spinsi di nuovo Ryan a terra e mi districai dal suo ‘abbraccio’ mortale, mi diressi velocemente nel capanno degli attrezzi recuperando Almond per poi fiondarmi verso casa di Ray.
 
-Dio santo, ma che cazzo ti hanno fatto?!- commentò l’afro sbigottito e sull’orlo di una crisi di nervi, quando mi vide presentarmi alla sua porta in quello stato. Si scostò, lasciandomi entrare, e non degnandomi di salutare nessuno, tanto meno il padrone di casa, mi accasciai sul divano vuoto della sala, facendo scendere Allie dalle mie braccia esauste. Cominciai a raccontare tutto ciò che mi era accaduto, fermandomi saltuariamente, imprecando per il dolore che mi procurava la ferita sul labbro nel parlare. Ad ogni particolare che aggiungevo lo vedevo irrigidirsi e stringere sempre più forte le dita attorno alle ginocchia, quasi cercando di trattenersi dall’esplodere. La trovai una cosa carina che si preoccupasse tanto per la mia incolumità, ma ero davvero troppo a pezzi per riuscire anche solo a spostare gli angoli della bocca e rivolgergli un sorriso grato.
Lo sguardo di Ray alla fine del mio ‘interminabile’ racconto si velò di rassegnazione. -Non cambia mai, eh.- Da quella frase pronunciata con amarezza intuii che non era la prima volta che Ryan si sfogava su qualcuno di sua conoscenza. Lo si avvertiva anche solo nella pesantezza dell’aria che l’episodio di oggi era stato solamente la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, la scintilla che si trasforma in un incendio, l’ultimo granello di sabbia sceso a segnare la fine dello scorrere degli istanti di tempo. Lo vidi poi alzarsi e avviarsi verso la cucina passandosi stancamente una mano tra i riccioli spettinati, lasciandomi solo nel salotto di casa sua disteso, con i vestiti macchiati di sangue, sul suo divano costoso.
Beh, almeno adesso non avrei potuto dire di sentirmi vuoto, ero fin troppo pieno.. di botte.
*SPAZIO AUTRICE*
Saaalve gente, ho aggiornato con il capitolo più lungo che avessi mai scritto in questa ff!
Ammetto di averci messo un gran colpo di scena, che darà, realmente una scossa alla monotonia della
vita di Frank.
Spero di non avervi deluso troppo, care/i.
Ho aggiornato in una settimana e mezza, che sfora un po' il limite prefissato di una settimana netta,
ma vi prego, cercate di capirmi, faccio pur sempre un liceo e siamo sotto un periodo di verifiche CwC
ANNNNYYYYWAY, SONO STATA FELICISSIMA NEL RICEVERE QUELLE SPLENDIDE RECENSIONI!
sarei davvero felicissima di sapere anche questa volta cosa ne pensate. 
Ne approfitto per salutare tutte le persone nuove che hanno iniziato a leggere questa storia, e per ringraziare tutti colore che continuano
a seguirla e che hanno voglia di sapere come procederà la storia. 
Un bacione,
Gee. x

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