The first snow, seventy years from here

di Shichan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** The day I met the human boy ***
Capitolo 2: *** Back to back - are we closer than before? ***
Capitolo 3: *** Seasons I'll remember ***
Capitolo 4: *** After seventy years ***



Capitolo 1
*** The day I met the human boy ***


Disclaimer: i personaggi sono copyright di Fujimaki Tadatoshi.
Note: questa cosa è rimasta a prendere polvere, perché l’avevo totalmente dimenticata 8D
Conterà di tre capitoli, massimo tre + epilogo, per lo più già scritti, quindi conto di risparmiare a chi leggerà l’agonia dei miei aggiornamenti lunghissimi.
Attenzione, il rating potrebbe passare da arancione a rosso in corso d’opera; sto vivendo un momento conflittuale tra il “ma ci sta che arrivi al rosso?” e il “ma io odio scrivere rating rosso”. Pace.

 

 

 

1.    The day I met the human boy

 

Quando guardava davanti a sé, sistemandosi su uno dei rami più alti – e per questo più isolati – della quercia secolare su cui era solito rintanarsi in cerca di un po’ di tranquillità, il panorama mutava di rado.
Da quel lato della montagna non vi erano costruzioni di fattura umana a violare brutalmente il verde naturale della foresta; il proprio sguardo abbracciava solo un rilassante paesaggio incontaminato.
Di luoghi di montana Junpei ne aveva visti diversi, ma – vuoi per una questione di abitudine o, come i più giovani a cui piaceva fantasticare dicevano, per affetto – quella che lo ospitava da più di un secolo e mezzo gli era particolarmente cara, quasi quanto quella che aveva ospitato la sua nascita e fanciullezza.
A rendergliela poi ancora più gradita era l’assenza di città umane nelle immediate vicinanze: l’unico insediamento degno di nota era un paesino di piccole dimensioni dal lato opposto a quello verso cui stava volgendo lo sguardo. Esso contava un numero davvero esiguo di abitanti rispetto alle odierne “grandi città” e il grosso della popolazione era adulta abbastanza da non potersi permettere una gita di almeno un’ora per raggiungere il tempietto ai piedi della montagna, dove si offriva cibo per ingraziarsi le divinità o chi per loro. Oppure, se erano sufficientemente giovani da poterlo fare, era il totale scetticismo ad impedirglielo.
A Junpei la cosa andava a genio: troppo a lungo aveva avuto modo di osservare gli umani che, di per sé, erano creature affascinanti solo se non le conoscevi troppo; era come i misteri del mondo o della vita, che una volta svelati nella loro totalità perdevano completamente quel qualcosa che li aveva resi interessanti.
Aveva visto di loro i lati peggiori e – sebbene più raramente – quelli migliori; tuttavia, con il passare degli anni erano degenerati, non sapeva se perché la riverenza di un tempo nei confronti delle forze della natura e delle divinità fosse venuta meno o se i motivi erano altri, ma il risultato era comunque una razza capace delle più infime bassezze e macchiata di un cieco, istintivo, naturale egoismo.
Nauseanti.

«Junpei-dono
Aveva imparato fin troppo bene che a quell’appellativo e a quella voce agitata non seguivano mai comunicazioni interessanti; anzi, era quasi sempre una seccatura, e altrettanto spesso l’errore di qualche tengu giovane a cui lui avrebbe dovuto rimediare.
Sospirò stancamente, facendo una lieve pressione con le mani sul tronco dove sedeva, come per alzarsi; l’istante dopo era a terra.
«Dimmi.» incalzò il giovane di fronte a lui, che sembrava visibilmente sollevato dall’averlo trovato: «Junpei-dono, poco distante dal piccolo spiazzo vicino al torrente è stato avvistato…» deglutì, in ansia per quanto sarebbe seguito.
Junpei inarcò un sopracciglio: quale calamità si erano attirati addosso i suoi stupidi sottoposti, stavolta? O qualcuno di sgradito – di qualche altro clan, magari – stava per fargli visita?
«Ebbene?» lo incalzò.
«Un cucciolo.»
Junpei sentì di stare perdendo ogni volontà di ascoltare oltre, ma sapeva di non potersi sottrarre: «…un cucciolo.» ripeté osservando il più giovane, scettico.
«D’uomo, signore. Un bambino umano.» chiarì quello.
Ah, ecco. Un bambino.

 

Lo sbraitare di Junpei aveva animato per dieci minuti abbondanti la normale quiete del santuario che fungeva loro da casa; i più giovani tra i tengu avevano temuto una punizione collettiva ma, alla fine, sembrava se la fossero cavata con quello sfogo fatto di insulti sulla stupidità della nuova generazione e l’inaffidabilità di chi avrebbe dovuto istruirli a dovere.
Dopodiché si era diretto nel luogo dove il piccolo umano era stato avvistato.
I tengu non erano creature famose per la loro spiccata pazienza, ma Junpei emergeva per averne anche meno del normale, il che suonava strano dato il suo essere uno dei più anziani del clan subito dopo i gradi più alti della gerarchia su cui si basava la loro società.
C’era stato un tempo in cui la presenza di un bambino umano nel loro territorio non sarebbe stata considerata strana e, soprattutto, non pericolosa; in antichità non di rado alcuni bambini venivano smarriti dai propri genitori, e ritrovati poi distanti da casa, in stato confusionale. Era uno scherzo tipico della sua razza, una pratica a cui gli umani avevano persino dato un nome.
Poi un giorno, tanti anni prima, quando Junpei stesso era ancora poco più che fanciullo, la cosa si era ritorta contro di loro: un gruppo di umani particolarmente coraggioso – o furioso, aveva pensato all’epoca – aveva risposto all’ennesima sparizione con il fuoco; e non in senso metaforico, ma appiccando un incendio ad uno dei loro santuari, mietendo numerose vittime tra i tengu del clan che vi abitava.
Era stato un duro colpo per la loro comunità e per la razza generale, un lutto che aveva portato tutti loro a riflettere e ad essere più prudenti; a distanza di secoli, quella pratica si era via via persa fino ad essere considerata non proibita, ma caldamente sconsigliata.
Non erano più tanti come una volta e soprattutto non possedevano più quella spavalderia che li portava ad un insaziabile desiderio di stuzzicare le altre creature.
A parte i novizi: loro sembravano sempre in vena di cose stupide, non importava in quale epoca o sotto quali regole vivessero. E quando ciò succedeva toccava ai più grandi – come in quel momento stava succedendo a Junpei – rimediare; non era un compito particolarmente gravoso in verità, giacché consisteva in un semplice individuare la vittima, addormentarla se aveva già ripreso conoscenza e portarla ai piedi della montagna o in un punto dove i suoi compaesani avrebbero potuto ritrovarla senza troppi inconvenienti.
Nessun contatto, nessuno scambio di parole, nessuna scoperta riguardo la loro esistenza.
«Mh…» mormorò piano a se stesso, non appena fu atterrato sul ramo di un albero ed ebbe occhieggiato la piccola radura indicata dalla comunicazione che aveva ricevuto in merito al posto in cui il bambino avrebbe dovuto trovarsi.
Peccato non ci fosse ombra di essere vivente o di spirito; solo il rumore del piccolo ruscello poco distante.
«Signore?»
Per un attimo nella mente di Junpei passarono molte cose, dalla più brutale delle imprecazioni – che avrebbe fatto vergognare di sé il capo del loro clan – ad un brivido di terrore, non dato tanto dalla paura per sé che sapeva certamente difendersi contro un umano ma per la propria comunità, che teneva nascosta la propria esistenza per un motivo preciso ed intuibile. Tuttavia non fece movimenti bruschi, voltandosi lentamente ed inquadrando infine la figura che aveva parlato: erano anni, secoli che non guardava così da vicino un bambino umano.
A dire il vero, di primo acchito non reputò particolarmente intelligente la sua espressione: aveva tratti comuni che non lo rendevano certamente speciale ai suoi occhi, se non per un unico dettaglio da ricercare tanto nello sguardo quanto nell’espressione, ossia la totale assenza di confusione e paura. Ciò lo rendeva vagamente interessante, e al tempo stesso problematico; a Junpei, nemmeno a dirlo, i problemi non erano mai piaciuti.
«Ti sei perso?»
«Hai le ali?» chiesero simultaneamente, l’uno rivolto all’altro; il tengu inarcò un sopracciglio – non gli piacevano nemmeno i bambini e, in generale, gli umani curiosi: non portavano nulla di buono. D’altra parte non poteva nemmeno rimproverarsi di essere stato poco cauto, perché chi mai si sarebbe aspettato un bambino sperduto che si arrampica su un albero?
Quello si sedette con attenzione a non scivolare, dandogli l’impressione di movimenti tutto sommato metodici di chi è abituato a compierne di simili quasi ogni giorno. Quando fu comodo, si vide rivolgere un ampio sorriso: «Stavo cercando la strada dall’alto! Nonno dice sempre che se ti perdi devi guardare da sopra, perché è più facile trovare la via.» spiegò con un certo orgoglio.
Junpei mise da parte il fatto di avere ancora le ali visibili, reputando inutile nasconderle a quel punto quando erano state viste comunque, e si concentrò sulle parole pronunciate dal ragazzino: si era perso. Questo presupponeva che non lo avesse portato qualcuno della sua razza lì per dispetto, ma che il piccolo umano vi si fosse diretto per conto suo, per chissà quale motivo.
Ciò non era una consolazione, tutt’altro: avrebbe dovuto confondere la sua memoria prima che l’immagine dello stesso Junpei prendesse una forma troppo precisa nella sua mente.
«Allora sono ali vere, quelle?» lo sentì chiedere nuovamente, nella voce e nello sguardo un entusiasmo facile da individuare; sospirò rassegnato: «Sì, sì, quello che vuoi.»lo blandì, pronto ad operarsi per sbrigare la faccenda in fretta e tornare alla sua contemplazione silenziosa dell’altro versante della montagna, quando il ragazzino decise che era un’idea intelligente – sempre detto che quelli della sua razza erano immancabilmente stupidi – alzarsi di scatto pieno di entusiasmo.
Su un ramo.
«Davvero?!» esclamò incredulo, con un ampio sorriso e nel breve tempo che impiegò a scivolare giù rischiando di rompersi qualche osso Junpei si era proteso in avanti di riflesso, afferrandolo per un braccio e attutendone la caduta galleggiando in aria d’istinto.
Quando posò i piedi a terra e il suo sguardo incrociò quello meravigliato e felice del piccolo umano, comprese di aver appena fatto un’idiozia persino più grande di quel moccioso suicida che aveva appena salvato.

Non c’era stato alcun seguito strappalacrime in cui lui e quel ragazzino diventavano amici seppur di età e razze diverse, dopo quell’episodio. Junpei aveva fatto ciò che doveva: l’aveva stordito, gli aveva confuso i ricordi e lo aveva riportato personalmente ai piedi della montagna.
Fine della storia, o così era si era convinto sarebbe stato.
L’anno seguente l’accaduto si era ripetuto e lui si era ritrovato davanti lo stesso ragazzino, forse qualche centimetro più alto ma innegabilmente lo stesso sorriso, lo stesso sguardo entusiasta e la stessa aria beota.
Succedeva che a volte i ricordi degli umani confusi dai tengu tornassero nitidi abbastanza da dargli un vago sentore di cosa fosse successo ma, generalmente, più erano giovani quando venivano confusi e meno tutto riacquistava un senso, o lo faceva in modo nebbioso abbastanza da non fargli tornare la voglia di avventurarsi lì. Senza contare che dopo una prima sparizione e conseguente ritrovamento, gli adulti tenevano i bambini lontani abbastanza perché questi rimuovessero dalla loro memoria l’intero incidente, così come la paura instillata in loro dai più grandi; a quel punto nessuno di loro ricordava mai.
Il terzo anno consecutivo in cui se lo ritrovò vicino al ruscello, perse la pazienza.
«Forse dovrei lasciare che gli altri spiriti ti mangino: mi creerebbe meno problemi!» sbottò irritato mentre si ritrovava a guardare l’espressione allegra di quel ragazzino strambo. Gli umani non ricercavano mai la compagnia degli spiriti o dei “mostri”, come li definivano alcuni di loro: se la prima volta poteva essere stato troppo piccolo e sorpreso per provare timore, e la seconda confuso, la terza era stupidità o qualcosa di negativo senza dubbio.
«Urgh… che cosa cattiva.» disse abbozzando un sorriso meno disteso, ma ugualmente e inspiegabilmente fiducioso che fece storcere il naso di Junpei.
Sembrava proprio che non si potesse evitare un ulteriore contatto con lui come chiedergli cosa volesse, il che era sinonimo dell’immischiarsi nelle faccende umane, cosa che aveva sempre evitato accuratamente di fare; d’altra parte temeva che una nuova manipolazione della sua memoria sarebbe stata inutile. Ogni volta che essa tornava intatta abbastanza da permettergli di recarsi di nuovo lì a cercarlo, era come un anticorpo che si forma contro il virus di turno: la possibilità che quella tecnica funzionasse era sempre minore.
«Devi smettere di venire qui. Non è un posto per quelli come te.» chiarì, non senza una sfumatura di antipatia nella voce, senza fare nulla per nascondere anche solo vagamente il suo astio nei confronti della razza umana; non che il ragazzino gli avesse fatto qualcosa. Era solo una pessima sensazione a pelle.
«Lo so, lo dice anche il nonno.» ammise con un sorriso impacciato, come tutti i ragazzini – in questo gli ricordava vagamente i novizi del suo clan – che sanno di aver fatto qualcosa di sbagliato, sono stati sgridati, ma loro malgrado lo hanno fatto nuovamente: «È solo che» riprese approfittando di non essere stato ancora interrotto dal tengu «non so ancora come ti chiami.» concluse, tirando un sospiro di sollievo che Junpei non seppe interpretare.
Tre anni di seguito a ritrovarsi su una montagna il tempo necessario a farsi manipolare i ricordi da lui, solo per chiedergli il nome?
«…ma sei stupido?» ribatté incredulo, fissandolo. Non importava quanto avesse avuto modo di osservare gli umani, quello era troppo persino per lui: erano imprevedibili, certo, ma sempre in accezione negativa e a quell’età – che tra i tengu lo avrebbe reso coetaneo di un piccolo appena uscito dall’uovo – non aveva mai visto nulla di diverso dalla paura negli sguardi che si erano casualmente posati su creature come lui.
Gli era estranea quella curiosità semplice e genuina; specialmente perché “innocenza” era qualcosa che aveva smesso di accostare agli uomini: maggiore era stato nel tempo il potere che avevano acquisito, i mezzi che avevano fatto propri, più evidente era stata la perdita di ciò che un tempo avrebbero definito “valori”.
L’ingenuità e la bontà d’animo disinteressata erano fra queste.
«Junpei.» borbottò infine, burbero.
«…è così che ti chiami?»
«Così pare.» ribatté, già pentito per quella debolezza. Non che ci fosse un particolare pericolo a rivelare il suo nome… non più di quello insito nell’instaurare un legame.
Abbassare la guardia solo perché si trattava di un bambino non era una scusa sufficiente o che avrebbe accettato se qualunque tengu gliel’avesse propinata; eppure ora la stava rivolgendo a se stesso come giustificazione a quello che – dovette ammetterlo a malincuore – era un guizzo di curiosità nei confronti di quello strano esemplare di umano.
«Aaah, Junpei-san!» esclamò come se si fosse reso conto solo in quel momento di aver finalmente ottenuto il nome che tanto aveva desiderato, facendosi avanti e prendendo la sua mano nelle proprie, più piccole e dalla pelle liscia e morbida. Notò che gli occhi gli brillavano di vivace e puro entusiasmo.
Distolse lo sguardo, come se fosse troppo da guardare, dopo anni di lerciume e animi lordi.
«Allora?» lo incalzò burbero «Com’è che ti chiameresti, tu?» chiarì la domanda, notando il sorriso che il più piccolo gli rivolgeva farsi persino più ampio.
«Teppei!» replicò senza perdere tempo «Kiyoshi Teppei!»

Con il senno di poi, Junpei ammise con se stesso – mai con altri – che era stato disonesto affermare di aver creduto anche solo per un istante che far contento quel ragazzino, dicendogli il proprio nome, avrebbe messo fine a quelle visite annuali.
Non solo Teppei si era fatto vedere di nuovo, aspettando sempre nello stesso posto, ma vi si era recato sempre più spesso; l’intervallo di tempo molto lungo che le volte precedenti aveva coperto quasi un anno tra una visita e l’altra era stato dovuto alla confusione dei suoi ricordi, che impiegava mesi a placarsi e a rimettere insieme tutti i pezzi fino a suggerirgli – se non l’intento vero e proprio delle sue visite – il bisogno di muoversi e la curiosità di andare a cercare qualcosa.
In assenza d’intervento da parte di Junpei, tutto quello era venuto a mancare: Teppei veniva fermato principalmente dall’inverno particolarmente rigido dei luoghi come quello, quando la neve ricopriva la montagna – e il piccolo paese ai suoi piedi – divenendo un posto poco consono ad una passeggiata.
Ma all’infuori di quello e della pioggia, nessuna stagione teneva l’umano lontano da quello che era diventato il loro posto per incontrarsi.
Non che Junpei vi si fosse recato subito e sempre: era capitato più volte che impegni nella sua comunità lo esigessero, e in molte altre occasioni non si era mosso per pura testardaggine, conscio della presenza di Teppei vicino al ruscello e del suo attendere a volte anche per ore.
Dentro di sé assecondava al tempo stesso l’istinto di avvicinarlo e quello di scacciarlo.
Le volte in cui però gli concedeva la propria compagnia – non senza essere profondamente irritato proprio da quella sorta di resa da parte propria a non lasciarlo per l’ennesima volta solo ad aspettare per chissà quanto tempo – Teppei parlava senza sosta, e raramente gli chiedeva delle cose; se faceva domande, non insisteva mai troppo, dimostrandosi meno molesto di quanto Junpei lo avesse di volta in volta giudicato in base a niente più di un pregiudizio sulla sua razza.
A volte portava con sé del cibo che gli offriva, cose semplici come delle polpette di riso o pranzi leggeri e pratici da portare fin lì: gli alimenti che assaggiava sapevano di tempi passati e raccolti, di ricette vecchie che nessuna spezia odierna sapeva eguagliare.
«Lo ha preparato la nonna.» aveva detto una volta, notando forse che il cibo era stato particolarmente apprezzato dal tengu, e in quell’occasione Junpei aveva appreso che il ragazzino era originario del paese e vi abitava, con i nonni. Non aveva mai domandato dei genitori, perché non gli interessava e avrebbe creato uno scomodo legame basato su un vicendevole scambio di confidenze che non era sua intenzione instaurare.
Di contro era stato molto più facile capire perché tanta ostinazione nel recarsi lì: il paese non ospitava molti umani della sua età, tanto che non era sede nemmeno di scuole da un certo anno d’età in su, per le quali – così gli aveva raccontato – dovevano spostarsi nella piccola città che distava un discreto quantitativo di tempo e di strada che lui percorreva principalmente con mezzi pubblici, non potendo coprire l’intera distanza con la sola bicicletta che usava invece per spostarsi dal paese alla montagna.
Così ogni volta Teppei andava lì e lo aspettava, e Junpei non sempre lo raggiungeva oppure lo faceva ma non subito, quasi cercando di scoraggiarlo; le prime volte aveva perso anche diverso tempo ad essere interrogato dai giovani tengu del suo clan, ben consci non solo della sua avversione agli umani in generale, ma alla sua scarsa pazienza con i giovani e i bambini, a prescindere dalla razza cui essi appartenevano.
Junpei si irritava, perché non era in grado di dare una risposta.
In quel modo erano passati sei anni.

Durante quel periodo di tempo così lungo per gli umani e così breve e insignificanti per le creature come  i tengu, Junpei aveva finito per tradire l’unico proposito che si era posto nel momento in cui aveva scelto di accordare la propria compagnia a Teppei: quel bambino gli era diventato caro.
Di per sé non vi era nulla di tragico come una regola della sua comunità che gli impedisse di relazionarsi ad un umano, pena qualche atroce tortura o terribile punizione; Junpei aveva piuttosto cercato di preservare se stesso autolimitandosi in qualche modo. Mantenersi scostante, però, era stato più difficile di quanto avesse mai creduto possibile. Non avrebbe saputo spiegare in cosa stesse la difficoltà, almeno finché il capo del suo clan non aveva voluto parlare con lui a proposito “dell’umano che gli gironzolava intorno”, com’era stato definito – e non a torto.
La chiacchierata si era rivelata piuttosto informale per la verità: l’anziano aveva raccontato di quando, un tempo lontano secoli tanto che nemmeno Junpei era ancora nato, lui stesso aveva avuto a che fare con gli uomini. Anche prima di allora li aveva sempre definiti creature a loro modo affascinanti, senza che il tengu più giovane riuscisse mai a comprenderne appieno le motivazioni o a dirsi completamente d’accordo con esse e con il pensiero generale.
«Certo è strano saperti attaccato ad uno di loro.» aveva ammesso con un sorriso divertito, pur nella sua solita calma; Junpei in sua presenza si era sempre sentito come un tengu che ha preso da poco coscienza di come va il mondo, e quella sensazione si era ripresentata intatta in quella stessa occasione.
«Deve essere speciale.»
«Non particolarmente, signore. È umano come tutti gli altri.» aveva bofonchiato, poco sicuro delle proprie stesse parole, ma certo che fossero più ingannevoli di quanto fosse stato nelle sue intenzioni renderle.
L’anziano aveva riso: «Junpei, ti ho visto uscire dall’uovo e diventare un tengu saggio. Incline all’irritazione e con meno pazienza di quanto ci si potrebbe aspettare, ma sei una buona guida per i novizi e un accorto compagno. Ma nessuno meglio di me sa quanto poco ti siano mai interessati gli umani, se escludiamo il volergli trovare dei difetti.» aveva osservato acutamente, sorseggiando il tè che aveva avuto la funzione di scusa per quell’incontro.
Junpei si era ritirato nei propri pensieri, cercando di darvi un senso più di quanto nel tempo e fino a quel giorno fosse riuscito a fare.
«Mi è solo sembrato diverso. Dà quasi l’impressione di aver risparmiato a se stesso quella corruzione che generalmente anima la sua specie.» aveva ammesso infine, anche se non era esattamente tutta la verità, benché rappresentasse forse la ragione più importante.
«Nessun bambino nasce corrotto, Junpei, non nella loro specie più che nella nostra. È la via che intraprendono – che tutti noi scegliamo – che ci porta al male o al bene. È un delicato equilibrio che esiste già dentro di noi, questo lo sai.» aveva fatto notare, rivolgendogli un’occhiata eloquente sebbene bonaria e priva della sfumatura di un rimprovero.
Allora Junpei aveva pensato agli incontri di quegli anni, alle volte in cui Teppei era tornato come un fedele suddito nel luogo d’incontro, sempre fiducioso e come se nemmeno lo sfiorasse il dubbio di non dover essere lì o che avrebbe atteso inutilmente qualcuno che non si sarebbe presentato. A volte il tengu era rimasto ad osservarlo in cima a qualche albero, pur arrivando prima del ragazzino, curioso di vedere se si sarebbe stancato di aspettare e se si sarebbe arreso, tornando sui propri passi.
Non era mai successo.
Non soltanto quando Teppei era stato bambino, ma anche crescendo e raggiungendo gli anni dell’adolescenza, in cui tutt’ora si trovava; nulla lo aveva mai scoraggiato, e quando alla fine Junpei finalmente si mostrava a lui come se fosse arrivato in quel momento, c’era sempre un sorriso ad accoglierlo; quello e un incomprensibile ottimismo.
Il ragazzino andava a trovarlo quando poteva, tranne che in inverno: con la neve era troppo pericoloso addentrarsi nei sentieri di montagna non solo perché si rischiava di perdere la via, ma anche perché il freddo era pungente e il tempo variava fin troppo facilmente. Una sola volta quell’umano aveva azzardato tanto e Junpei lo aveva recuperato davvero per un pelo in mezzo agli alberi e alla neve, intirizzito e con le guance e il naso rossi, da tutt’altra parte rispetto al solito spiazzo vicino al torrente. Aveva visto per la prima volta una legittima paura nel suo sguardo e occhi lucidi che preannunciavano il pianto – e aveva pianto, specie dopo che Junpei gli aveva gridato contro di essere troppo stupido per meritarsi di essere salvato, perché nessuno sano di mente avrebbe fatto una cosa del genere e quella era stata l’unica volta che Teppei aveva alzato la voce contro di lui.
Per tutto il tempo, tra le mani aveva tenuto una sciarpa per lui – per Junpei – aspettando, per paura che il freddo della montagna fosse troppo persino per un tengu.
Junpei la teneva ancora, sebbene non la usasse granché e dal momento in cui l’aveva accettata, posando una mano fra i capelli castani in un gesto gentile che aveva sorpreso lui stesso, non era stato più capace di odiare quell’essere umano così piccolo e già così testardo.

«Ah, Junpei-san!» lo sentì prima ancora di individuarlo, seduto all’ombra di un albero vicino al corso d’acqua,  una mano levata in aria per farsi notare. Non che servisse davvero: in sei anni di incontri – durante i quali erano stati più i racconti di Teppei sugli umani, che non i suoi sulla propria razza – lo aveva visto crescere ad una velocità sconvolgente per lui, che con gli uomini aveva sempre avuto poco a che fare, fino a superarlo in altezza di tutta la testa. In ogni caso, non c’erano così tante persone in quella zona da non essere fin troppo facile da individuare in mezzo al verde.
Scese, fluttuando come se fosse la cosa più normale del mondo, fino a toccare terra con i piedi: era passato il periodo in cui Teppei si stupiva di tutto come era ovvio che un umano facesse. Ora era abituato a quasi tutto ciò che di sovrannaturale c’era in Junpei: fluttuare in aria, le ali dal piumaggio scuro che non sempre nascondeva visto che ormai non ce n’era davvero bisogno con lui, alcune vecchie usanze dei tengu e così via. Su richiesta una volta gli aveva accennato qualcosa della loro società di tipo gerarchico, senza mai andare troppo nello specifico comunque; Teppei sembrava sempre farsi bastare ciò che diceva, senza lamentarsi quando si interrompeva come se oltre ciò che pronunciava vi fossero segreti inconfessabili.
Al contrario, Junpei quando l’altro era bambino non lo aveva frenato troppo nei suoi racconti – quando si era abituato al fatto che chiacchierasse più di lui di tutti i novizi tengu messi assieme, per il semplice fatto che Teppei non era in soggezione in sua presenza a causa di un rapporto di subordinazione.
Aveva appreso da lui molto più di quanto avrebbe davvero voluto sapere degli umani in quell’epoca, ma fortunatamente i racconti avevano sempre avuto quel qualcosa di personale da renderli non un riassunto su una razza che a conti fatti non amava granché, ma più una narrazione di ciò che Teppei vedeva, sentiva.
Così era venuto a conoscenza del fatto che vivesse con i nonni – e non aveva mai chiesto dei suoi genitori di proposito – in quel paesino, fatto di troppi adulti e troppi pochi bambini della sua età; che l’educazione dei due anziani però era probabilmente ciò che aveva reso quel ragazzino meno sgradevole di molti altri della sua specie, ciò che aveva conservato in lui quell’innocenza che aveva notato fin dall’inizio, seppure inconsciamente.
Ogni volta Teppei gli raccontava qualcosa di nuovo, ma sempre dall’atmosfera quotidiana e personale: della scuola degli umani, non poi così diversa dall’ambiente di prima formazione dei tengu, degli amici, del tempo libero, dei cibi che gli piacevano e quelli che non amava mangiare, di quelli che imparava a cucinare e di quelli che erano ancora troppo ostici da fare. Gli aveva raccontato della volta in cui in un tema scolastico aveva parlato di Junpei, anche se non aveva detto che era un tengu, e di come lo avessero preso in giro quando si era rifiutato di portare i compagni da lui perché aveva promesso di non dire mai dove il tengu vivesse e per questo era stato considerato un bugiardo. Del giorno in cui suo nonno si era arrabbiato con lui perché Teppei aveva portato in casa un cucciolo abbandonato e sua nonna gli aveva insegnato, con pazienza e dolcezza, che prendersi cura di un altro essere vivente era difficile e comportava grandi responsabilità; che non era un impegno che si potesse prendere a cuor leggero, perché se poi non si era in grado di portarlo a compimento l’altra parte avrebbe sofferto.
In quell’occasione – come in altre seguite negli anni – Junpei aveva guardato quello che era poco più di un bambino parlare di cose tanto complicate come prendersi cura di un’altra persona e gli aveva rivolto un raro gesto gentile, notando come il viso di Teppei si illuminasse di un sorriso felice e grato, qualcosa a cui Junpei non era mai stato abituato.
«Quando mi chiami in quel modo mi ricordo che sei ancora un moccioso, solo più grosso.» pronunciò quando fu ad un paio di passi da lui, incontrando sul suo viso niente di diverso dal solito incurvarsi di labbra allegro e gentile che lo accoglieva sempre. Lo vide spostarsi leggermente di lato, per fargli spazio all’ombra; Junpei si sedette a gambe incrociate.
«Ma ho sempre usato ‘Junpei-san’ da quando ci conosciamo.» fece notare, mentre dal proprio lato sinistro recuperava una borsa e tirava fuori da essa un contenitore per il bentou, posandolo davanti a sé e aprendolo.
Junpei aveva smesso di considerarla un’offerta di quelle che gli umani facevano agli spiriti o alle divinità molto tempo prima, limitandosi a servirsi quando Teppei gli diceva di farlo senza problemi.
«Non dovresti proprio avere a che fare con i tengu, a dirla tutta. L’avrai pure qualche amico della tua età, ormai, no?» proruppe con fare burbero; non era la prima volta che cercava di spingere Teppei a frequentare gli umani più che quelli come lui, ma fino a quel momento la testardaggine dell’altro si era rivelata quasi al livello della propria.
«Certo che ne ho. A scuola, e anche al lavoretto part-time che sto facendo quest’estate.» replicò allegro «Ma sono due discorsi diversi.» aggiunse – ecco, si disse Junpei, aveva cantato vittoria troppo presto.
Sbuffò sonoramente, recuperando le bacchette che nel frattempo Teppei gli aveva porto, prendendo con esse una delle piccole omelette del bentou; se non altro, era sempre tutto buono.
Passarono diverso tempo in silenzio, limitandosi ad assaporare il pranzo. Solo ogni tanto Teppei chiedeva se questo o quello gli piaceva – inutilmente, perché dopo sei anni sospettava che conoscesse fin troppo bene i suoi gusti – e poi taceva di nuovo.
Junpei con il tempo aveva imparato che il silenzio di Teppei poteva essere interpretato solo in alcuni modi e sempre gli stessi: o dormiva, o pensava. Il secondo caso non era mai un bene.
«Junpei-san, mi stavo chiedendo» esordì, l’espressione pensierosa «una volta mi hai spiegato che i tengu depongono uova e nascono da quelle, giusto? Quindi non vi sposate? O c’è una cerimonia simile?» domandò con quella sfumatura di curiosità che aveva sempre avuto, affiancata dalla capacità – che sembrava profondamente e tragicamente radicata nel suo essere – di fare domande scomode o indiscrete.
Junpei sorrise, in modo diverso dal più giovane: non sarebbe stata quella la prima volta che gli rifilava informazioni assurde o esagerate, anche se lo aveva fatto soprattutto quando era ancora un bambino, capace di credere a tutto ed entusiasmarsi con poco, per quanto irreale suonasse.
«Ci sono anche matrimoni, certo.» iniziò quindi «Per prima cosa, si va dal tengu più anziano del clan e si chiede la sua benedizione. Poi si va a proporsi alla famiglia e generalmente il padre o il fratello maggiore sottopone il pretendente ad una prova sulla montagna che dura tre giorni e tre notti. Se all’alba del quarto giorno il pretendente ha superato la prova ed è ancora vivo» sottolineò, sogghignando appena e guardando Teppei con la coda dell’occhio «la proposta vera e propria può essere fatta, e il fidanzamento diviene ufficiale. A quel punto il matrimonio è questione di tempo.» concluse.
L’assenza di una replica sorpresa da parte dell’altro, però, lo indusse a portare completamente lo sguardo su di lui, perplesso nel trovarlo serio, quasi impensierito.
«Ohi.» lo richiamò, pronto a spiegargli che non c’era granché di vero in quanto aveva appena raccontato, inventando di sana pianta, che Teppei inspirò e si voltò in sua direzione: «Junpei-san, tuo padre è ancora vivo? O hai un fratello maggiore?» domandò.
«Eh?»
«La persona che deciderà la prova per il tuo pretendente, chi è?» chiarì meglio guardandolo, serio in volto.
Solo quando non lo vide sorridere e non riuscì a scorgere nemmeno l’ombra della curiosità infantile che aveva sempre animato il suo sguardo, Junpei comprese.
Quella domanda non era interesse per una razza.
Era una questione personale.

 

 

 

 

Note utili:
1. –dono:
versione "superiore" al -san (ma non corrisponde al -sama), molto formale e utilizzato quando si ha un rispetto davvero elevato verso una persona. (wikipedia) Generalmente, aggiungo, utilizzato da un sottoposto ad un superiore volendo, in tempi antichi.
2. Tengu: creatura fantastica dell’iconografia popolare giapponese. Generalmente sono raffigurati come uomini-uccello. Siccome riassumerlo in una nota è un suicidio, vi rimando a wikipedia.
3. Bentou: il pranzo al sacco giapponese.

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Capitolo 2
*** Back to back - are we closer than before? ***


2. Back to back – are we closer than before?

 

 

Ciò che da bambino aveva spinto Teppei ad andare a cercare Junpei era stato qualcosa che andava oltre la semplice, infantile curiosità e che non aveva niente a che fare con l’essere senza amici, anzi. Era vero che il paese ai piedi della montagna in cui viveva con i suoi nonni non vantava certo la presenza di molti bambini della sua età con i quali giocare, ma non si poteva nemmeno parlare di totale isolamento. Oltretutto, Teppei era sempre stato un ragazzino estremamente socievole e, nella sua semplicità, piuttosto portato nel relazionarsi con gli altri: aveva un modo di fare gentile, che crescendo si era fatto persino più dolce, complice quel riguardo nei confronti altrui che si sviluppa crescendo e che in lui aveva trovato solide basi anche nel modo in cui sua nonna gli aveva insegnato a prendersi cura degli altri e quanto farlo fosse importante.
Quando Junpei gli aveva finalmente rivelato il suo nome, smettendo quindi di confondergli la mente, Teppei non aveva pensato mai a lui come mostro, sebbene le ali di corvo e la corporatura un poco diversa dagli adulti umani a cui era abituato fossero evidenti. Era sempre stato affascinato da lui: da bambino lo era stato come se una favola avesse improvvisamente preso forma di fronte ai suoi occhi; da ragazzino era stato come sentirsi in qualche modo un privilegiato, ad avere un amico – perché così considerava Junpei – tanto speciale. Poi però, crescendo ancora e facendo passare gli anni, quell’infantile bisogno di vederlo, che una volta avrebbe accostato al desiderio di ascoltare aneddoti che il tengu gli raccontava, era diventato diverso. La curiosità era divenuta pura e semplice voglia di stare insieme, condividere uno spazio, sfiorarlo in movimenti casuali; il fascino per una creatura diversa si era trasformato in profondo affetto, che era andato spandendosi come una macchia il cui inchiostro veniva avidamente assorbito dalla carta.
Teppei si era riscoperto affascinato non dal sovrannaturale che c’era in Junpei, ma dall’umanità che negli anni aveva scorto in lui, sfumatura dopo sfumatura; e, lentamente, si era ritrovato ad amare di lui ogni espressione, ogni parola – anche quelle non proprio gentili –, e a desiderare di sfiorarlo con un sentimento ben più difficile, complesso e forte di quanto non avesse mai provato prima.

Voler accompagnare Junpei per tutta la propria vita non era stata una decisione presa con leggerezza, o mossa da un’inclinazione momentanea. Avrebbe potuto pensarlo a quindici anni, quando per la prima volta aveva sentito il bisogno di poter rivendicare un qualche “diritto” su di lui, per quanto brutto potesse suonare detto in quel modo.
A quindici anni poteva essere la curiosità, e a sedici una cotta momentanea; per questo non aveva detto nulla, continuando ad incontrarlo normalmente.
Ma ora aveva diciotto anni e nulla di quel primo istinto era cambiato, anzi, aveva finito con l’intensificarsi: voleva appartenere al tengu e viceversa.
Tuttavia non era stato così ingenuo da ignorare volutamente il loro essere di due razze diverse, e tutto ciò che questo avrebbe potuto implicare: usanze, modi di pensare e costumi diversi dai suoi, anche e soprattutto per quanto riguardava l’unirsi a qualcuno. Aveva cercato spesso di indagare mascherando l’interesse come semplice e pura curiosità per un mondo sconosciuto e con poche cose in comune con il proprio, e aveva custodito ogni informazione con cura per poter avere un quadro più completo possibile prima di chiederglielo.
Prima di sperare di essere abbastanza per Junpei, anche se era soltanto un essere umano.
Ad essere completamente sincero almeno con se stesso non si era aspettato una risposta affermativa… ma neanche la reazione negativa a cui aveva assistito: il tengu era passato dalla confusione, all’incredulità, alla rabbia. Quell’ultimo sentimento, una volta che era stato visibile e riconoscibile sul suo viso, aveva colpito Teppei: aveva sperato in una sua reazione ed era pronto al fatto che non fosse necessariamente positiva, ma non aveva mai desiderato leggere nel suo sguardo quel che invece vi aveva scorto.
Rifiuto totale e immediato, senza possibilità di appello, tanto che si era sentito le gambe molli, incapaci di sostenere un peso che non aveva mai avvertito così insostenibile prima di quel momento: il peso di se stesso e di quello che era – e di ciò che provava.
Junpei lo aveva rifiutato con una tale forza che Teppei era stato quasi intontito per la prima manciata di secondi in cui l’altro aveva parlato, dandogli dell’idiota almeno ogni due parole e sbraitandogli contro; a sorprendere l’umano non era stato tanto l’alzare la voce, a cui si era abituato con gli anni classificandolo come semplice modo di fare del tengu, ma la forza del categorico “no” che quella stessa voce aveva pronunciato.
Era stato come se Junpei, pur non dicendolo per intero, avesse reso chiaro quanto la sola idea di corrispondere ciò che Teppei aveva chiaramente messo a nudo con quella proposta fosse per lui inaccettabile.
Era sembrato quasi disgustato e quello aveva fatto più male di tutto il resto, persino del rifiuto a proseguire oltre la conversazione e del suo voltarsi e andare via senza aggiungere una sola parola, né assicurargli con un saluto che si sarebbero rivisti.
«Cosa succede?» sentì domandare così vicino al proprio orecchio da sussultare, non essendosi minimamente accorto dei movimenti con cui sua nonna aveva varcato la soglia del salotto, inginocchiandosi lì nel corridoio esterno e posando accanto a lui – lo notò solo in quel momento – un vassoio con un bicchiere di tè freddo.
La guardò confuso per qualche istante, prima di aprirsi in un sorriso leggero: «Cosa?» chiese di rimando, osservandola sedersi accanto a lui e posare lo sguardo sul piccolo giardino su cui quel corridoio si affacciava. La calura del giorno aveva lasciato il posto ad una serata fresca e con una brezza leggera, ma piacevole.
«Quando eri bambino, sai» iniziò la donna, senza lasciar vagare troppo lo sguardo altrove rispetto al punto in cui lo aveva fatto sostare «non piangevi mai. Io e il nonno ci siamo preoccupati tanto, anche se i vicini dicevano sempre “Tecchan è davvero un bravo bambino, non piange mai”.» prese a raccontare, attirando la sua attenzione. A dire il vero non capiva del tutto il perché di tanta ansia di fronte al suo non piangere spesso quanto i suoi coetanei.
«I bambini hanno il grande privilegio di poter mostrare tutto quello che provano senza essere giudicati, perché hanno la sincerità per farlo. Ridono quando sono felici, urlano quando qualcosa non va, piangono quando sono tristi. Ma io e tuo nonno non sapevamo mai se qualcosa non andava, dovevamo capirlo dalle tue espressioni o da qualcosa di insolito che potevi fare. Penso» continuò, voltandosi e rivolgendogli un sorriso amorevole «che avremmo dovuto dirti che piangere andava bene. Però ora sappiamo che quando parli meno del solito qualcosa ti preoccupa, e che quando guardi fuori come ora, è successo qualcosa di importante.» concluse stupendo il nipote, sebbene non negativamente.
Ai suoi occhi sua nonna era sempre stata brava non solo a capire le persone, ma anche a comprendere come rapportarsi a loro nei momenti in cui nessun altro sapeva come fare; aveva sempre ammirato, di lei, quella capacità di stare accanto agli altri senza mai risultare invadente, ma una presenza desiderata e ben voluta.
Abbozzò un sorriso: «Non ho proprio segreti, per voi.» disse, non rimpiangendo la cosa, anzi.
L’anziana si lasciò sfuggire una risata sommessa: «La famiglia è così, Tecchan. Devi trovare il modo di proteggere le persone che ami, anche se loro ti amano meno o se per farlo devi sacrificare qualcosa. Ma di solito per il loro benessere ne vale sempre la pena.» ammise, allungando una mano e posandola sul braccio del nipote, con gentilezza.
Teppei sospirò piano, portandone a sua volta una su quella di lei, stringendola. Non aveva mai preso in considerazione di parlare ai suoi nonni di Junpei: non tanto perché fosse preoccupato del loro giudizio in merito al sesso dell’altro o per la sua natura non umana – per quanto c’era una possibilità che non la prendessero subito bene, appartenendo ad una generazione molto attaccata alle tradizioni e alla superstizione –, perché sapeva che l’amore di quella coppia che lo aveva cresciuto come se fosse loro figlio superava qualsiasi altra cosa. E perché erano stati proprio loro ad insegnargli non tanto la tolleranza, quanto che la forma della felicità variava da persona a persona e che nessuno aveva alcun diritto di giudicare quella altrui.
“Ci sono cose” diceva suo nonno, specie quando Teppei era piccolo, “che ognuno vede da sé”; ai tempi non aveva capito cosa intendesse ma ora pensava che gli fosse più chiaro.
Si era semplicemente abituato a non parlare di certe cose con loro.
«Nonna, quando il nonno ti ha chiesto di stare con lui come l’hai presa?» chiese, in un modo molto indiretto di parlare del vero problema che lo assillava. L’anziana, tuttavia, sembrò comprendere comunque dove il nipote volesse arrivare e ridacchiò piano portando una mano a coprire la bocca, in quel gesto meccanico che faceva parte di tutti i ricordi d’infanzia di Teppei.
«Mmh…» fece lei, con quel qualcosa di meditabondo che sembrava essere parte degli anziani, una calma tutta personale con cui si affrontano cose già viste, già vissute: «Molto, molto felice. Ma prima della felicità, credo di essermi sentita in ansia.» ammise con la dolcezza nel tono di voce e negli occhi che vagavano per il giardino come poco prima aveva visto fare a suo nipote. Teppei, da parte sua, era sorpreso da quella risposta e lo si notava facilmente dall’espressione che ne rispecchiava completamente la confusione: «In ansia?» le fece eco vedendola sorridere amorevolmente, pur senza tornare a guardare lui.
«Vedi, Tecchan» iniziò «io amavo molto tuo nonno già allora. L’affetto dell’uno per l’altra era del tutto ricambiato e tutte le persone desiderano questo. Tuttavia la vita è molto lunga, anche se a volte ci sembra tanto breve.» proseguì e al ragazzo sembrò quasi di assistere a quelle che molti chiamavano “reminiscenze”. Sembrava di vedere una persona in trance, o meglio ancora, di osservare qualcuno che vedeva e sentiva cose che non si percepivano affatto; ricordi, pensò – sua nonna non vedeva il giardino, non sentiva la brezza sulla pelle. Probabilmente vedeva un paesaggio di un’altra stagione e un giovane affascinante di fronte a sé che di lì a poco le avrebbe chiesto di sposarla dieci, cento, mille volte, tante quante avrebbe rivissuto quel prezioso frammento di memoria.
«Decidere di condividere la propria esistenza con qualcuno, per tutta la sua durata, non è una decisione che si prende a cuor leggero. Devi sapere che in tutti quegli anni che vi aspettano ci saranno momenti belli ma anche molti difficili, o dolorosi. Volte in cui si potrebbero dire cose che non si pensano, anche. Ma c’è un’altra cosa.» e solo in quel momento portò lo sguardo sul nipote, il sorriso ancora ad incurvarle le labbra sottili estendendo quella dolcezza non solo alla bocca ma anche agli angoli degli occhi, con le loro rughe e il loro modo familiare di farsi appena all’ingiù.
«Dopo tanti anni, bisogna essere pronti a dire addio.» disse, in un modo che Teppei non sapeva bene come interpretare in realtà, nonostante il tono di voce dell’anziana non fosse mutato rispetto a poco prima. Eppure quelle parole lo colpirono: non era mai stato così ingenuo da non notare che i suoi nonni, che per lui erano praticamente dei genitori, fossero più avanti con l’età di tutti i padri e le madri dei suoi compagni e amici, ma… non aveva mai preso in considerazione che lui sarebbe potuto rimanere solo con uno dei due; che, un giorno, lei o lui avrebbe lasciato l’altro. Il pensiero di loro due separati era così innaturale da farlo sentire a disagio nel formularlo, sebbene fosse cosciente del realismo insito nello stesso.
E capì: certo, non era da escludere che la rabbia e il rifiuto di Junpei fossero dovuti anche a molto altro, ma si rese conto, Teppei, di quanta leggerezza ci fosse stata nelle sue parole anche se lui era convinto di aver preso in considerazione ogni eventualità quando le aveva pronunciate.
Solo ora capiva davvero tutto l’egoismo a cui aveva dato voce nel momento in cui aveva implicitamente proposto a Junpei di legarsi a qualcuno che un giorno, indipendentemente dalla sua volontà, lo avrebbe lasciato da solo abbandonando quel mondo perché mortale.


I novizi avevano inquadrato subito la situazione, sebbene ci si sarebbe aspettato il contrario. Certo, nessuno di loro poteva vantare di aver intuito anche quale fosse la motivazione dietro l’evidente malumore di Junpei; tuttavia, proprio l’essere stati a stretto contatto con lui per gli insegnamenti che impartiva, li aveva in qualche modo aiutati ad individuare le prime avvisaglie della sventura che stava per abbattersi su tutti loro.
Sì, perché Junpei nel pieno di un umore nero quasi quanto le sue ali di tengu era qualcosa che nessuno – esperto o meno – avrebbe mai augurato a se stesso o alla comunità.
Qualche giorno prima era tornato, da dove nessuno di loro lo sapeva, ed era stato inavvicinabile da allora: più sgarbato del normale, irascibile ben oltre il sopportabile; il tutto senza un apparente motivo. Se da una parte, inizialmente, molti di loro avevano pensato a qualche errore o mancanza dei più giovani a cui l’altro avesse dovuto rimediare a causa della sua posizione, presto quell’opzione si era fatta sempre meno plausibile. Sfumata via, a differenza di quella rabbia che rendeva la figura di Junpei tesa e inavvicinabile.
Lo stesso tengu non faticava ad immaginare, se si applicava a farlo razionalmente, quanto insostenibile dovesse essere divenuto il tutto per portare i suoi compagni a richiedere l’intervento dell’Anziano. Non riusciva a fargliene davvero una colpa, nei vaghi momenti di lucidità in cui analizzava la cosa – vaghi e brevi, rimpiazzati dalla figura di Teppei, dalle sue sciocche parole, dall’irritazione per le stesse e convogliando tutto in un moto di forte stizza verso qualsiasi cosa.
Credevano che farlo parlare con l’Anziano avrebbe migliorato le cose? Non sapevano nemmeno quale fosse il problema, né nessuno di loro si era degnato di chiedere!
Bastardi senza spina dorsale, ecco a chi stavano mettendo in mano la comunità con l’avanzare delle generazioni! Oh, ma gli avrebbe fatto sputare piume e sangue durante l’addestramento, poco ma sicu—
«Junpei.» gli arrivò all’orecchio un richiamo bonario ma dal tono fermo, segno che non doveva essere stato il primo, sebbene lui non avesse avuto minimamente sentore degli altri. Abbandonando i suoi pensieri e alzando lo sguardo di fronte a sé lo accolse lo sguardo dell’Anziano.
Quasi fosse di nuovo un tengu alle prime armi, come l’aura dell’altro lo aveva sempre fatto sentire a prescindere dalla propria età e posizione gerarchica nella comunità, chinò il capo in un saluto rispettoso benché un poco incerto. Il più grande si era già accomodato di fronte a lui, e un giovane novizio posava ora di fronte ad entrambi una tazza di tè.
Junpei strinse i pugni, frustrato, lo sguardo rivolto al pavimento: se anche l’Anziano si fosse interessato alla problematica e gli avesse chiesto cosa fosse accaduto, come avrebbe potuto spiegargli l’accaduto? Certo, si era sempre dimostrato ben più benevolo dello stesso Hyuuga nei confronti degli umani, ma un conto era la convivenza pacifica tra due specie e un altro era dire che uno stupido mortale si era messo in testa di… proporsi come compagno di vita. Gli veniva stizza solo a pensarci – o forse era irritato dal fatto che la prima motivazione che aveva trovato al categorico “no” pronunciato non fosse stato il disgusto, ma una serie di regole scritte e non della sua comunità.
«Questo è sempre stato tipico di te, Junpei.» sentì esordire l’altro tengu, alzando nuovamente lo sguardo su di lui, incoraggiato o forse persino esortato da quelle sue parole: «Questo cosa?»
«Il modo che hai di innervosirti come se non ci fosse mai una soluzione al problema.» chiarì con un sorriso benevolo; Junpei si sentì messo a nudo come un ragazzino e, esattamente come se lo fosse ancora, tentò inutilmente di negare l’evidenza: «Cosa vi dice che io abbia un problema?» azzardò, inarcando appena un sopracciglio e ritrovandosi a far fronte alla reazione che meno ci si aspetterebbe dal capo di una comunità che cerca di mettere ordine fra i suoi appartenenti.
Una risata divertita.
«Junpei, conosco buona parte dei tuoi pensieri ancor prima che tu li formuli.» lo redarguì con tono divertito «Inoltre quando sei irritato per cose di poco conto che tu reputi ostacoli insormontabili sei particolarmente divertente da osservare.» ammise senza nemmeno tentare di mascherare la palese presa in giro nelle proprie parole.
Junpei fece per replicare, punto sul vivo, ma si astenne; non che ci fosse modo di spuntarla in uno scontro verbale con quello che a conti fatti era stato il suo maestro.
«…Non prendetevi gioco di me, o almeno non così apertamente.» borbottò con tono burbero, allungando una mano per prendere la tazza e sorseggiare del tè – prendere tempo, e aspettare la domanda a cui non avrebbe dovuto rispondere volente o nolente.
«Va bene, va bene…» fece l’Anziano, prendendo a sua volta la tazza ma limitandosi a rigirarla pigramente tra le mani; il silenzio fece sentire Hyuuga ancora più sotto pressione, nonostante il suo interlocutore sembrasse del tutto rilassato. E, soprattutto, per nulla intenzionato a prendere il discorso tanto presto come Junpei aveva temuto. Tuttavia si rendeva conto che non si trattava affatto di disinteresse, in quel momento, anzi; il tengu gli stava solo usando la cortesia di lasciare che fosse lui stesso ad iniziare a parlare, senza bisogno di essere “obbligato” come i novizi, troppo timorosi per pronunciarsi senza essere interpellati.
Cercava di mettere insieme la frase giusta. Non tutto il discorso, no, sperare in tanto sarebbe stato utopico non solo perché non c’era un modo corretto di affrontare l’argomento, ma anche perché lui – Junpei – non era affatto ferrato su quegli argomenti. D’altronde non si poteva certo attribuire al caso, che lui non avesse eredi diretti.
«Ricordate l’umano di qualche tempo fa?» tentò, poco sicuro che fosse l’inizio che aveva tanto cercato, ma arrendendosi a quello in mancanza di qualcosa di meglio. L’altro sorseggiò il proprio tè, lasciando credere a Hyuuga di stare facendo mente locale; chiaramente non era affatto così: «Il giovane che di tanto in tanto incontri ancora?» gli fece eco con quella che poteva sembrare un’altra domanda, ma che era retorica e lo sapevano entrambi.
Dovette ammettere con se stesso di non avere idea di come interpretare la cosa. Se incontrare Teppei fosse stato considerato un problema e – com’era ora evidente – l’Anziano ne fosse stato al corrente fin dall’inizio, di certo a Junpei sarebbe stato impedito molto tempo prima di continuare con quella sorta di indulgenza verso se stesso e verso il ragazzo umano. Ed era pur vero che non c’era traccia di risentimento o rimprovero nella frase che era stata appena pronunciata.
Decise di azzardare ulteriormente: «Sì, lui.» confermò innanzitutto «Mi ha posto una domanda strana. Direi del tutto insensata e fuori luogo!» si affrettò a correggersi, guardando lui direttamente il tengu che gli stava di fronte, aspettandosi forse l’occhiata di chi sa già tutto, o una di rimprovero, oppure di disapprovazione.
Ma trovò solo l’espressione placida di chi attende pazientemente di sentire il resto.

Junpei aveva avuto fin da giovanissimo quello che poteva considerarsi tanto un pregio quanto un difetto, ossia l’abitudine a parlare di getto una volta che si riusciva a farlo confidare. Era stato un percorso piuttosto lungo, perché era stato il tipo di tengu che cercava di darsi un contegno anche quando la posizione di novizio gli avrebbe in qualche modo “concesso” errori o infantilismi, com’era stato per i suoi coetanei. Invece, forse l’essere diretto discepolo di uno dei candidati a divenire capo della comunità – come poi era effettivamente avvenuto – doveva averlo fatto sentire in dovere di apparire migliore, di evitare gli errori grossolani e le distrazioni eccessive. Come logica conseguenza, non era mai stato il tipo di tengu che faceva gruppo, benché l’attaccamento alla comunità fosse comunque radicato in lui; già all’epoca l’Anziano aveva trovato diverse difficoltà nel farlo aprire quando c’era un qualche problema o dubbio ad assillarlo al punto tale da divenire irascibile come in quel caso. In quello Junpei sembrava non essere cresciuto poi molto, dopotutto.
Come aveva imparato negli anni, quindi, il vecchio tengu si era solo seduto e aveva atteso i suoi tempi, che si sentisse pronto a parlare, anche se di certo lo avrebbe fatto lasciandosi trasportare dalle emozioni; non era qualcosa di strettamente negativo, ma sapeva anche che Junpei era difficile da comprendere, se non vi era un certo controllo nel modo in cui esponeva i fatti.
Ascoltò in silenzio di come Hyuuga si fosse affezionato a quel bambino umano – ma era certo che il più giovane non se ne fosse reso conto –, e di come si fosse dimostrato indulgente nell’atto stesso di permettergli e permettersi di vederlo di nuovo, anno dopo anno. Di come non se la fosse sentita di abbandonarlo, anche se aveva mascherato la cosa come insofferente noia e assenza di cose da fare.
Man mano che il racconto dell’altro era andato avanti, il vecchio tengu aveva realizzato con facilità dove sarebbero andati a parare alla fine; e quando Junpei, indignato, arrabbiato e innegabilmente imbarazzato accennò alla dichiarazione dell’umano, l’Anziano non riuscì a fingersi stupito.
Il tè nella tazza quasi finito inspirò, tacendo ancora, riconoscendo in Junpei il disagio dato dalla poca abitudine a parlare di cose molto private o che implicavano i sentimenti. Voltò lo sguardo verso la propria destra, incontrando l’esterno della stanza in cui stavano parlando. Benché conscio di stare lasciando sulle spine il più giovane, attese ancora.
Quando parlò, gli sembrò di sentire la tensione del suo discepolo scivolare via almeno in parte: «Siamo vicini al cambio della stagione, mh?» esordì, il tono lontano di chi ha vissuto troppi anni per riuscire a raccontare tutto quello che ha visto.
«…Scusate?» pronunciò Junpei, troppo stupito da quella frase senza nessun senso logico rispetto a ciò di cui stavano discutendo e che tanto lo aveva fatto infuriare.
«Noi vediamo molte primavere, Junpei.» proseguì l’altro «Molti inverni, e altrettante estati. Autunno dopo autunno le foglie cadono ingiallite. Anno dopo anno vediamo i fiori di ciliegio fiorire e appassire, la neve rendere impervie le montagne dove viviamo, le ombre proiettarsi a terra riparandoci dal caldo torrido, le piogge riempire di umidità l’aria.» osservò il vecchio tengu, lasciandosi andare quasi pigramente in un sospiro lento e profondo, calmante. Fermo.
«Junpei, ricordi la tua prima neve?»
«Sì.» ammise, nonostante fossero passati secoli: il gelo sotto i piedi, il paesaggio così bianco da confondersi con il cielo e sembrare una favola di quelle che si raccontano solo ai cuccioli, di qualsiasi razza.
«E la neve di dieci anni fa?»
«…Non di preciso, ma era una come tante altre. Non ci sono stati incidenti, né altro di particolare.» fece notare, senza capire, ma abbastanza certo di quanto diceva. Solo dopo la sua risposta vide l’Anziano voltarsi con un sorriso enigmatico sulle labbra, uno che a Junpei ricordò tempi molto lontani, quando era poco più che fanciullo e c’erano tante cose del mondo che non riusciva a comprendere.
«Noi viviamo moltissimi anni, Junpei. Ma quelli davvero importanti sono quelli che riesci a ricordare con precisione.» disse «Quel che devi domandarti è se ricordi o meno le stagioni passate con quell’umano che ti fa tanto arrabbiare. Il resto non è molto importante. Siamo una razza meno problematica degli uomini, per quelle quisquilie mortali che tanto li impensieriscono.» concluse.
Hyuuga si sentì sciocco, nel ricordare ogni stagione e ogni incontro, dal giorno in cui si era arreso a quel bambino così stupido di nome Kiyoshi Teppei.


Junpei aveva fatto quel che gli era sempre riuscito bene, grazie alla sua natura piuttosto longeva: rimandare. Aveva giustificato a se stesso il non aver cercato Teppei e il non essersi recato al luogo dell’appuntamento in mille modi: gli impegni per la comunità, gli insegnamenti ai novizi, il festival estivo che ogni anno riuniva i tengu dei clan limitrofi.
Fingeva di stare pensando, ma a cosa non lo sapeva nemmeno lui; combattuto tra il dover necessariamente trovare un modo dire a Kiyoshi che sbagliava, e la convinzione che l’altro avesse già dimenticato, già rimosso, che potesse essere uno scherzo – ma lo sguardo serio con cui lo aveva guardato gli tornava in mente e allora, non senza una certa irritazione, capiva che fingere che l’altro non gli avesse parlato con il cuore in mano sarebbe stato troppo persino per la sua abitudine di inventare scuse per le questioni scomode.
Al tempo stesso, però, Hyuuga si sentiva sempre più frustrato: perché mai doveva lasciarsi toccare dalle parole di un umano? Non era forse tipico della razza di Teppei abbandonarsi al fascino iniziale tanto delle cose quanto delle persone, per poi abbandonare tutto da un giorno all’altro per capriccio o per noia?
Sì che lo era. Aveva visto troppi umani per non conoscere il loro modo di fare, e non importava quanto Teppei fosse sembrato diverso fin da bambino, era certo che ci fosse un solo tipo di adulto che si potesse diventare. Non era così per tutte le razze, in fondo? Anche i tengu potevano differire più o meno in alcuni tratti del carattere, ma la sostanza era sempre la medesima.
E allora, si diceva, perché mai perdere tempo?
Teppei avrebbe dimenticato, si sarebbe “annoiato” e alla fine avrebbe lasciato stare – ma Junpei non aveva alcuna intenzione di diventare l’oggetto abbandonato o in cui perdere interesse, non nel modo che faceva stare male, non rispolverando sentimenti sopiti dal tempo.
Con questa conclusione formulata nella propria mente, dopo due interi mesi in cui aveva osservato Teppei senza mai farsi notare, vedendolo recarsi con fastidiosa puntualità all’albero dov’era diventata loro abitudine incontrarsi, Junpei lo avvicinò di nuovo.
Se deve dimenticare, si era detto, cancellerò personalmente ogni ricordo.
Dopotutto, non era così che sarebbe dovuta andare fin dall’inizio?

Teppei non ricordava molte occasioni in cui avesse perso davvero la pazienza, al punto da alzare la voce senza nemmeno rendersene conto; e, di certo, non aveva mai pensato che si sarebbe ritrovato a rivolgere quel trattamento a Junpei.
Era stato così felice di vederlo raggiungere quel luogo in cui aveva ormai perso la speranza di incontrarlo di nuovo, che quasi non aveva creduto ai propri occhi, finché l’altro – atterrando silenziosamente con i piedi sull’erba – non aveva palesato la sua effettiva presenza. Teppei si era alzato in piedi di scatto, temendo stupidamente che se non si fosse sbrigato, il tengu sarebbe andato via.
Junpei non aveva parlato subito, nemmeno quando lui l’aveva fronteggiato, a pochi passi di distanza. Teppei aveva atteso in silenzio, forse intuendo che ci fosse bisogno di tempo, per qualsiasi pensiero stesse cercando di esprimere a voce Hyuuga.
Quando però la pausa si era fatta un po’ troppo lunga per non preoccuparlo, aveva azzardato a prendere lui la parola per primo: «Junpei-san…?» aveva azzardato, facendosi impercettibilmente in avanti con il busto, sollecitando tacitamente un contatto visivo che il tengu gli concesse per un breve istante, prima di riportare entrambi gli occhi sul manto erboso.
Forse già questo avrebbe dovuto dar ad intendere al giovane che il loro non era un incontro voluto da entrambi, in un certo senso; tuttavia la sua natura ottimista non gli permise di dare forma più definita al pensiero che gli si agitava in testa da mesi. O almeno, riuscì a tenerlo sopito finché Junpei non prese finalmente parola: «Dovresti smettere di venire qui. Ti cancellerò i ricordi ancora una volta.»
Basito, così si era sentito Teppei, e probabilmente l’espressione lo aveva mostrato subito.
«…Ricorderò di nuovo, come tutte le altre volte.»
«No.» lo aveva interrotto senza guardarlo «Sui bambini usiamo un rituale semplice, perché più sono giovani, minori sono i ricordi che hanno e rischiamo di cancellare troppo. Ma ormai sei adulto, è impossibile che io cancelli le memorie che hai di te stesso o della tua famiglia. Oltretutto sono anni che non uso alcuna magia su di te, non sei stato più esposto ad essa, quindi dovrebbe avere maggiore effetto di una volta.» aveva spiegato con una tranquillità che – Teppei non poteva immaginarlo – non era stato certo avrebbe mantenuto una volta lì.
Incoraggiato dalla cosa, Junpei aveva continuato: «Dopotutto, gli umani non dovrebbero sapere della mia comunità. È un pericolo per noi, e non è qualcosa di cui voglio essere responsabile.»
«Junpei-san…»
«E tu sei umano, hai passato già troppo tempo con esseri con cui non hai nulla a che spartire.»
«Junpei-san!»
«Decisamente è la scelta più saggia. È la cosa migliore anche per te—»
«Junpei, vuoi smetterla?!» aveva urlato, tanto che persino il tengu aveva istintivamente alzato lo sguardo per la prima volta da quando aveva iniziato a dare le sue spiegazioni, ritrovandosi a fissare un’espressione mai scorta sul volto di Teppei. Era palesemente arrabbiato, certo, ma sembrava in qualche modo… deluso. E rattristato.
Ma Junpei finse di non riconoscere quelle due emozioni, fissandosi unicamente sulla prima e attribuendola al suo negargli qualcosa senza il suo consenso.
«Perché sei tu a dover decidere? Perché dici che è meglio per me?» chiese, guardandolo e facendo un passo in avanti; il tengu avrebbe voluto abbassare lo sguardo e sfuggire da quello di lui, ma non riuscì a farlo. L’espressione di Teppei aveva il potere di farlo sentire in colpa – o forse sarebbe successo comunque.
«È perché sono umano?» chiese a bruciapelo «Ti disgustano così tanto, è per questo? Perché sono solo l’ennesimo umano, solo uno tra i tanti che non ti piacciono?!» rincarò la dose, facendo un passo in avanti; Junpei, benché non avesse di certo nulla da temere da lui, si ritrovò a fare un passo indietro per riflesso. Dandosi mentalmente dello stupido, senza saper dare una spiegazione al proprio movimento e atteggiamento, rispose di getto pur sapendo che sarebbe stato meglio tacere: «S— no!» si corresse all’ultimo momento, ancora una volta contro ogni logica.
Il piano era chiaro, semplice, facile da mettere in atto: avrebbe spiegato le sue ragioni a Teppei, che a lui piacessero o meno, dopodiché avrebbe cancellato dalla sua memoria il ricordo di se stesso (e di ciò che dei tengu gli aveva raccontato), per poi andarsene per sempre.
Era un tempo immensamente lungo, “per sempre”; ma, si era detto, solo per lui. Per Teppei sarebbe stato fin troppo breve, e alla fine non avrebbe risentito della mancanza di qualcuno o qualcosa di cui non ricordava l’aspetto né il nome.
Invece ora che era il momento decisivo, ora che avrebbe dovuto solo allungare una mano e instaurare il contatto minimo necessario ad applicare il rituale, era come se sapesse che toccandolo si sarebbe bruciato. Era razionalmente una sciocchezza, eppure sentiva di non volere altro che allontanarsi da lui il più possibile e questa era una sensazione che – nei confronti di un umano – aveva già provato. Differiva davvero in niente più che una sfumatura, qualcosa di quasi impalpabile che Junpei non avrebbe saputo nemmeno da dove cominciare ad analizzare.
«Non riesci a fidarti di me, neanche dopo tanti anni? O sono solo io che ti disgusto?!» esclamò Teppei, tornando all’attacco.
«Non l’ho mai detto!»
Junpei non capiva. Non avrebbe mai pensato di vedere l’altro così arrabbiato, o nel panico – in effetti non avrebbe saputo dire con certezza quale delle due emozioni animasse di più Teppei, o forse erano a modo loro così bilanciate che non c’era una vera risposta corretta. Era solo strano, ma d’altro canto gli umani erano così: volubili, certo, ma passionali.
«E allora cosa—?»
«Perché morirai!» urlò con tutto il fiato che aveva in corpo, guardandolo con un odio che aveva rivolto solo a se stesso e all’egoismo per cui, in quei due mesi, non era riuscito mai a pensare davvero di non rivederlo mai più: «Morirai come tutti gli esseri umani, come tutti i mortali e allora resterò soltanto io, com’è sempre stato! E tu non hai idea di come sia essere sempre e solo tu! Passo l’eternità a vedere la vita spegnersi con la stessa velocità con cui si estingue un fuoco abbandonato, come se nulla fosse, come se non fosse importante! Mi stai chiedendo di darti tutto e poi riprendermelo quando sarai morto? Perché è questo che stai facendo!»
Teppei lo guardò sorpreso, confuso, incredulo. Avrebbe voluto dirgli che era così, che le persone prima o poi vanno via, che per quanto le si ami non le si può tenere al proprio fianco per sempre come si vorrebbe. Avrebbe voluto dirgli, forse anche sgridandolo, che lui meno di chiunque altro poteva comportarsi così da bambino; che amare qualcuno non dipende da quanto si è pronti a dirgli addio, perché pronti non lo si è mai.
Ma si rese conto che forse, nonostante le sue parole potessero farlo sembrare capriccioso e superficiale, era proprio perché sapeva tutte quelle cose – e che le aveva probabilmente provate – che Junpei agiva in quel modo e aveva… paura. Come tutti.
Avrebbe voluto dirgli, allora, che ne valeva la pena. Anche se poi ci si doveva dire addio.
Avrebbe voluto dirglielo, ma quando aveva allungato una mano per prendere la sua, Junpei era già sparito.


La prima volta lo aveva rivisto dopo pochi giorni.
Teppei aveva sospirato nel trovare vuoto il luogo in cui erano soliti vedersi e in cui avevano discusso; Junpei aveva stretto i pugni, stizzito: se dal modo di fare dell’umano o dal proprio, non lo sapeva.
Se dal suo fuggire o dall’irrazionale pretesa che nonostante tutto Kiyoshi gli stesse ancora dietro come aveva sempre fatto, non lo sapeva.
Ancora troppo arrabbiato da quello che sarebbe dovuto essere l’ultimo incontro, non lo aveva chiamato.
Teppei, dopo un’attesa più breve del solito, era andato via.

La seconda volta che lo aveva rivisto era stato davvero per caso.
Stava controllando il lavoro dei novizi ai confini della montagna – laddove, in teoria, nessun umano si addentrava mai – e lo aveva intravisto. Anche se non lo avrebbe mai ammesso con se stesso, era stato naturale seguirlo dapprima con lo sguardo e poi più da vicino, anche se bene attento a non farsi vedere. Era stato come riscoprire una sensazione provata anni prima, quando Teppei era soltanto un bambino; all’epoca Junpei aveva giustificato il tutto come una sorta di dovere morale, ammettendo che un cucciolo era pur sempre un cucciolo, a prescindere dalla razza. Così aveva trovato la scusa perfetta per fingere di lasciare Teppei nel luogo dell’incontro e poi seguirlo fino al limitare della montagna, assicurandosi che nessuna creatura della foresta gli si avvicinasse, fosse stato anche solo per curiosità.
Ora che l’umano era però in un’età che la sua razza definiva “adulta”, e che di protezione si supponeva non avesse più bisogno, cosa mai rimaneva a Junpei come motivazione ufficiale?
Ne aveva poi davvero bisogno?
Non con i novizi, certo, e nemmeno con l’Anziano che gli aveva aperto gli occhi. Ne aveva bisogno per se stesso, per credere in quelle parole che aveva pronunciato a Teppei, dimostrandosi sicuro di sé e della propria decisione.
Così lo aveva seguito, alla ricerca di una sorta di permesso, e lo aveva osservato restare deluso – dalla propria assenza, si era detto dimostrando persino una certa arroganza, forse.
Si era fatto avanti solo quando Teppei era ormai lontano, l’attenzione rivolta totalmente a qualcosa che gli aveva visto lasciare a terra.
Quando aveva preso tra le mani il foglio poggiato con cura sotto un sasso perché il vento non lo facesse volare via, le poche parole scritte sopra – e che avrebbero dovuto farlo sentire sollevato – scatenarono in lui tutt’altro tipo di sentimenti.
Si sentì arrabbiato, preso in giro, rassicurato e infine imbarazzato.
Non potrò venire per qualche tempo. Ma tornerò sicuramente, Junpei-san”.
Perché?
Perché poche parole di uno stupido umano dovevano farlo sentire a quel modo?


Durante il tempo passato insieme, raramente a Junpei era capitata l’occasione di osservare l’altro nel completo silenzio, come ora.
In verità all’inizio era certo che l’assenza di parole e del proprio farsi notare dall’altro fosse per via della loro ultima discussione, una propria ponderata scelta per tenere fede alla posizione presa. Per quasi un intero mese Teppei non si era più presentato, come annunciato in quel breve messaggio, e Junpei si era detto che quella doveva essere l’occasione perfetta per dirsi addio.
Aveva mantenuto le distanze. Ma poi…
«Riposati, nonna.» lo sentì pronunciare, lasciando scorrere di nuovo la porta che doveva dare sulla stanza della signora, evidentemente; gli scorse sul viso un sorriso affettuoso, ma adombrato dalla stanchezza.
Fingere di non sapere cosa l’avesse portato lì sarebbe stato bello, ma una menzogna inappropriata al momento: Junpei poteva non avere un carattere facile, era il primo a riconoscerlo, ma non si poteva dire che fosse irrispettoso in merito alla sofferenza altrui. Tra l’altro sarebbe stato impossibile non sentire quell’odore: sembrava essersi attaccato ai muri, penetrando fin nel legno del pavimento.
Un odore misto di vecchio e nuovo, di naturale e artificiale: incenso e fiori recisi.
L’odore dei morti.
E appena percepibile, ormai quasi del tutto sovrastato da quello, il sale delle lacrime; molto meno forte del mare, di cui Junpei aveva sentito raccontare da piccolo, ma ugualmente riconoscibile.
Teppei stonava lì, pensò; forse perché era sempre stato abituato ad associare a lui la vita – per quanto più breve della propria – e l’estate, sebbene si fossero incontrati anche nelle altre stagioni.
Calore, questo associava a Teppei da quando lo conosceva. Nulla che avesse a che fare con il freddo della morte, ad ogni modo.
«…Scusami se non sono più venuto, Junpei-san.»
Junpei non gli rispose, limitandosi a sedersi alle spalle dell’altro, accomodandosi; privo delle ali, accuratamente nascoste, sarebbe potuto sembrare a chiunque un umano dagli abiti strambi.
«Non eri obbligato. Io ti ho cacciato.» osservò soltanto, il tono innaturalmente calmo.
«Volevo vederti.» ammise con disarmante sincerità «Ma è stato un periodo…»
«Lungo.»
«Già.»
Era strano parlare così con lui: con una calma quasi immobile, e il tono basso di chi ha paura di svegliare qualcuno.
«Scusami, Junpei-san.» ripeté dopo un tempo che il tengu non avrebbe saputo quantificare.
«Piantala di scusarti. Avevi lasciato un messaggio.»
«Non per quello.» lo interruppe Teppei, con un sospiro profondo e lento, facendo aderire – con la titubanza dei primi contatti quand’era bambino – la schiena a quella di Junpei; forse si aspettava un rifiuto, perché ci volle un po’ prima che si rilassasse: «Per quello che ho detto quella volta.»
«Mh
«Ero solo così arrabbiato… perché io non penso di riuscire a dimenticarmi di te.»
«Mh
«Junpei-san?»
«Dimmi.»
«Credevo di sapere che prima o poi bisogna dire addio. Anche a te ha fatto così male?»
Junpei tacque qualche istante, sospirando. Era un bene, non doversi guardare negli occhi: «Ogni volta.»
«Per questo volevi mandarmi via? O è per questo che ora mi tieni la mano?» disse con un accenno di risata nella voce, ma non di quelle felici. Era più il tipo di risata nervosa di chi è sull’orlo delle lacrime, e cerca comunque di non piangere.
Avrebbe potuto dirgli moltissime cose, alcune forse anche brusche e inadatte.
Invece, gli strinse solo la mano, leggermente.
«Sta’ zitto. I ragazzini dovrebbero solo pensare a fare i ragazzini.» pronunciò con un tono falsamente stizzito.
Non avrebbe lasciato quella mano, almeno finché la schiena contro la sua non avesse smesso di tremare.

 

 

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Capitolo 3
*** Seasons I'll remember ***


3. Seasons I’ll remember

 

 

 

A Teppei non era mai capitato di non rendersi conto del tempo che passava.
Certo, gli era successo di distrarsi ogni tanto e rendersi conto che fosse più tardi del previsto, quello sì; ma la sensazione di distacco in merito a ciò che lo circondava e che accadeva intorno a lui gli era del tutto estranea. Era come essere lì ed essere isolati al tempo stesso. Fissava gli oggetti, o anche il vuoto ogni tanto, rendendosi conto di quel che faceva solo dopo – minuti, ma anche ore.
Distratto, ma non avrebbe saputo dire da cosa; non c’erano pensieri ad occupargli la mente.

Le persone avevano una forza di cui forse nemmeno loro stesse erano coscienti. Questo aveva pensato Teppei, vedendo sua nonna presenziare all’organizzazione del funerale, alla lettura dei sutra, alla cremazione di suo nonno che ormai non era più con loro. Teppei si sentiva perso quando avrebbe dovuto essere un punto di riferimento, e aveva visto in lei il solido appiglio che era sempre stata, benché pensasse che i ruoli avrebbero dovuto essere invertiti.
Sua nonna non aveva pianto in nessuna di quelle occasioni e lui non riusciva del tutto a capire; nonostante quanto detto da lei, ossia che nell’accettare una vita insieme si accetta di doversi prima o poi separare, non riusciva a concepire un modo in cui potesse davvero essere così. Credeva che dirlo fosse facile, che pensarlo finché la persona che si ama gli era accanto fosse sopportabile. Tuttavia considerava anche impossibile riuscire ad avere fede in quelle parole anche quando si sentiva un vuoto simile.
Se per lui la perdita di suo nonno – e di un padre, quindi – era così difficile da assimilare pur avendo vissuto molti meno anni con lui rispetto a sua nonna, come riusciva lei a non sentire il bisogno di piangere? Teppei credeva di capire e, al tempo stesso, di non riuscirci affatto. 
Non c’erano stati molti parenti. Per lo più le condoglianze erano arrivate dai compaesani, soprattutto quelli dell’età dei suoi nonni, che avevano condiviso con loro una vita intera; alcuni dei nipoti, che erano stati compagni di classe di Teppei, erano passati da casa Kiyoshi.
Il via vai di persone aveva suscitato in lui sentimenti contrastanti: in buona parte si trattava di gratitudine, non tanto per le parole di circostanza tipiche di quelle occasioni, quanto per tutte le persone che avevano apprezzato suo nonno tanto da dispiacersi per la sua scomparsa. Però, forse egoisticamente, avvertiva quel continuo avvicendarsi di persone in casa stancante. Una di quelle cose che ti fanno trattenere troppo il dolore dentro, quando invece avresti bisogno dell’intimità di una stanza vuota per poterlo lasciar andare.
A prescindere dai propri pensieri, comunque, aveva affiancato sua nonna in ogni momento.
Così, erano passati quarantanove giorni.

Era stato strano avere Junpei in quella quotidianità. “Strano” in un modo che Teppei non sapeva bene come considerare, a dire il vero: positivo per la sua vicinanza, negativo per l’occasione in cui si erano avvicinati, incerto perché non sapeva ancora davvero quale fosse la loro, di situazione.
Non se l’era sentita di iniziare il discorso, però. Avvertiva ancora addosso quel torpore che gli faceva sembrare lontana ogni cosa, che fossero le parole di qualcuno o i suoi gesti, le proprie stesse azioni, che avvertiva come un ripetersi meccanico di abitudini.
Junpei arrivava per lo più la sera, al tramonto, dopo che Teppei e sua nonna avevano cenato. Soprattutto i primi giorni dopo il funerale aspettava che sua nonna andasse a riposare nella sua stanza, per palesarsi al giovane. Teppei non sapeva bene se si trattasse di un’accortezza nei confronti di sua nonna, già spossata dagli avvenimenti, o qualcosa che aveva a che fare con la segretezza della sua razza; sperava che ci fosse un pizzico della prima motivazione e ci credeva davvero, perché lui meglio di chiunque altro – almeno tra gli umani – aveva conosciuto la burbera gentilezza di cui Junpei era capace.
Era stato dopo una quindicina di giorni, o poco più: sua nonna, che si prendeva un lungo tempo per pregare e parlare di fronte all’altare di famiglia adiacente alla sua stanza, era tornata in cucina dove Teppei stava lavando i piatti della cena. In quell’occasione aveva visto Junpei per la prima volta.
Kiyoshi non sapeva se l’altro avesse cambiato i suoi abiti proprio perché l’aveva sentita arrivare o meno, ma quando aveva portato lo sguardo sull’anziana e poi nuovamente su di lui, al posto delle vesti da tengu che solitamente gli vedeva addosso, Junpei aveva una perfetta copia della divisa scolastica di Teppei. Sua nonna, dopo un primo momento di perplessità, aveva sorriso con gentilezza avvicinandosi a quello che per lei non era che un ragazzo umano.
Junpei, rimasto nell’angolo più remoto della stanza fino a quel momento ad osservare Teppei, si era scostato dal muro andandole incontro; aveva fatto un leggero inchino, pronunciando le sue condoglianze con tono serio e rispettoso.
Sua nonna aveva riso piano, con ancora strascichi della stanchezza nella voce, ma senza forzature: «È così raro trovare dei giovani tanto seriosi.» aveva detto bonariamente, poggiando una mano sul braccio del tengu con fare amorevole, come se anche lui fosse suo nipote «Ti ringrazio…?»
«Junpei.»
«Junpei-kun.» gli aveva sorriso, spostando lo sguardo su Teppei e servendosi di un bicchiere d’acqua, portandolo via con sé; prima di lasciare la cucina, si era premurata di dire al tengu: «La prossima volta fermati a cena, Junpei-kun.»

Da quel giorno, il tengu si era sempre presentato con la divisa scolastica, forse in previsione di un altro incontro inaspettato. Non aveva assecondato subito il desiderio della nonna di Teppei di averlo a cena da loro, ma un pomeriggio si era inaspettatamente fatto trovare alla fermata dell’autobus a cui Teppei scendeva tornando da scuola. Si era incamminato verso la casa del più giovane, in silenzio e con le mani in tasca; Teppei, senza affiancarlo per rispettare quella distanza che l’altro aveva messo volutamente tra loro, lo aveva osservato. Non aveva faticato a comprendere l’errore di sua nonna: Junpei, vestito in quel modo, sembrava davvero un suo coetaneo.
Per un attimo, aveva davvero desiderato che lo fosse, ma non aveva detto nulla.
Quella sera Junpei aveva cenato con loro. Nonostante non vi fosse stato alcun tipo di preavviso, sua nonna era stata ben felice di ospitarlo e cucinare in più per il proprio ospite; Teppei aveva anche compreso il perché della strada fatta insieme: fingendo di essere compagni di scuola, sarebbe stato strano se Junpei non fosse tornato con lui.
Per tutto il tempo della preparazione, di cui sua nonna aveva insistito per occuparsi da sola in modo che il nipote tenesse compagnia all’altro, Teppei si era chiesto quanto tutto quello costasse a Junpei e perché lo stesse facendo. Lui che amava così poco gli esseri umani si stava prendendo la briga di fingersi uno di loro, mangiare il loro cibo, seguire il loro modo di parlare e per cosa? Teppei non era riuscito ad inquadrarlo.
Avrebbe mentito dicendo che averlo lì con loro gli dispiacesse, eppure – aveva pensato – non sapere cosa spingesse Junpei in quella direzione lo faceva sentire comunque a disagio.
Tuttavia il tengu non aveva dato cenno di avere alcun problema di sorta, né che in qualche modo il rapporto suo e di Teppei – ma si poteva poi chiamare “rapporto”? – stesse attraversando una fase di totale confusione e indecisione, nonché poca chiarezza. Avevano mangiato, con le chiacchiere di poco conto della televisione a fare da sottofondo; Junpei aveva risposto alle domande di sua nonna, mai troppo invadenti né specifiche. Il tengu non aveva dovuto mentire nemmeno, in certe occasioni: era bastato camuffare alcuni dettagli dell’occasione in cui aveva conosciuto Teppei, ad esempio, ma per il resto il giovane aveva avuto la sensazione che l’altro stesse cercando di pronunciare meno bugie possibili.
Quando avevano finito di mangiare aveva insistito per aiutare Teppei a sparecchiare e lavare i piatti. Inizialmente Kiyoshi aveva creduto fosse solo per far sì che sua nonna andasse a riposare, ma quando si erano diretti in cucina senza di lei, Junpei lo aveva davvero affiancato vicino al lavabo offrendosi tacitamente di asciugare le stoviglie.
Non aveva parlato per tutto il tempo, se non per formulare qualche commento che Teppei aveva trovato persino goffo, suggerendogli che il tengu non doveva essere abituato a certe cose: “tua nonna è a posto”, aveva detto, “il cibo era buono” aveva aggiunto poco dopo.
Teppei aveva semplicemente sorriso, replicando con semplicità e senza forzarlo a parlare.
Quando avevano finito, però, Junpei si era fermato sulla soglia della cucina quando il più giovane si era mosso per accompagnarlo all’ingresso, convinto che il tengu volesse andar via: «Voglio salutare.» aveva detto.
«Credo che la nonna stia già dormendo, ma posso controllare.» aveva affermato Teppei, facendo per muoversi in direzione della stanza e ritrovandosi ad essere fermato dallo stesso Junpei.
«Non lei. Tuo nonno.» aveva chiarito: «Voglio pregare per lui.»
Quello era stato il venticinquesimo giorno.

Teppei credeva di aver conosciuto più lati di Junpei in quei quarantotto giorni passati che in tanti anni di incontri più o meno regolari: era probabile che fosse una sensazione data anche dal fatto che molti di questi incontri erano avvenuti quando lui era solo un bambino, al quale non si può raccontare più di tanto nemmeno volendo. Tuttavia, Teppei era abbastanza sicuro che il tutto fosse dovuto anche alla novità di vedere Junpei muoversi in un ambiente familiare a lui piuttosto che al tengu, com’era stata invece la montagna.
Vederlo pregare di fronte all’altare di famiglia aveva acuito in Kiyoshi una sensazione che non sapeva definire con esattezza, ma che era piacevole. Poi, con il passare dei giorni, aveva saputo anche darle un nome o almeno una connotazione più precisa: si trattava di felicità. Seppur in occasione di un lutto, vedere la persona che più di tutte voleva al proprio fianco muoversi con sempre maggiore familiarità in casa sua, negli spazi che lui stesso occupava e in cui era cresciuto, rendeva Teppei felice.
Era come se anche Junpei stesse lentamente entrando a far parte della famiglia.
«Me ne occupo io.» assicurò al tengu, prendendogli le ciotole della cena di mano. Junpei lo seguì ugualmente in cucina, lasciandosi sfuggire un verso stizzito fra le labbra; sembrava ormai essersi abituato alla divisa scolastica – che, aveva scoperto Teppei, non era un’illusione come la prima volta ma ne aveva proprio sottratta una a chissà chi e chissà dove – quasi quanto alla presenza di sua nonna. Kiyoshi aveva notato che, seppur in modo burbero, il tengu si rivolgeva a lei con gentilezza e di questo gli era profondamente grato.
Mentre apriva il getto dell’acqua, sentì chiaramente lo sguardo dell’altro su di sé.
Non riusciva a spiegarselo, ci pensava da un po’: Junpei non era stato lì tutti i giorni, anche se con il passare degli stessi l’intervallo di tempo tra una visita e l’altra si era fatto più breve, tanto da arrivare ad un giorno sì e uno no. Non sempre l’altro andava a casa sua, probabilmente conscio di come sarebbe sembrato strano anche per un amico molto stretto presentarsi nell’abitazione altrui troppo spesso.
Non gli aveva mai tenuto la mano come durante la sua prima visita, non l’aveva mai sfiorato nemmeno casualmente e soprattutto non aveva mai preso il discorso interrotto bruscamente sulla montagna.
Teppei lo aveva assecondato, in realtà: con il funerale e la scomparsa di suo nonno, i suoi pensieri si erano tenuti lontani da quelle questione.
Ora però, iniziava a chiedersi quali fossero le intenzioni del tengu o come dovesse interpretare le sue azioni: se Junpei era lì, era perché tutto sommato gli aveva perdonato quella richiesta fatta d’istinto, seppur seriamente? L’aveva dimenticata o aveva finto di farlo?
Quel silenzio era un ulteriore rifiuto? O un’accettazione? O nessuna delle due cose?
Avrebbe voluto chiederlo, ma rimandò ancora una volta.
Era il quarantanovesimo giorno, e non era ancora pronto a dire addio definitivamente.
Né a suo nonno, né a Junpei.

Si era ripetuto molte volte che tornare a casa di Kiyoshi non avrebbe fatto bene a nessuno: non all’umano, che sembrava cercare il suo sguardo per cogliere risposte che nemmeno il tengu sapeva di avere, né allo stesso Junpei.
Conoscere la nonna di Teppei aveva risvegliato in lui un lato umano che credeva di aver sepolto da qualche parte, sotto strati di delusioni e tradimenti da parte di quella specie che tanto mal sopportava; l’anziana invece era una persona buona, come buono era suo nipote. La somiglianza tra loro era impressionante e spaventosa.
Fingersi un umano non era una cosa poi molto impegnativa, se si aveva abbastanza forza spirituale per farlo, e quella non era mai stata un problema per il tengu. Più complesso era stare al passo con le domande che di tanto in tanto la donna aveva fatto, credendolo amico di Teppei. L’umano era intervenuto poche volte, Junpei sospettava per evitare di dare due versioni diverse che avrebbero solo complicato la situazione inutilmente. Li osservava e basta, mentre condividevano il pasto.
Dopo mangiato Junpei rivolgeva una preghiera al defunto, aiutava con i piatti – o osservava Teppei occuparsene – e andava via. A volte davvero, a volte no. Ogni tanto si era nascosto tra gli alberi, celandosi ad occhi umani, e aveva aspettato che le luci della stanza di Teppei e di sua nonna si spegnessero.
Poche altre volte aveva sbirciato nella camera di lui, avvertendone il sonno agitato dalla propria posizione nascosta e non così lontana come voleva far credere a se stesso, convincendosi di un’indifferenza ormai inesistente.
Teppei non parlava nel sonno, raramente si lamentava con versi privi di significato; si rigirava anche poco nel letto, rispetto a quanto la stazza del ragazzo gli avesse sempre fatto credere, o quanto il ricordo dell’unica volta in cui l’aveva visto appisolarsi in sua presenza testimoniava. Anche se allora era un bambino, e i piccoli hanno sempre il sonno più movimentato.
Non era rimasto fino all’alba, quello mai. Se lo era imposto.
E in quel modo aveva fatto passare quarantotto giorni: gli stava vicino dicendo poche parole, quasi tutte per sua nonna e nessuna davvero rivolta a Teppei. Ne evitava lo sguardo se non era necessario che il proprio incontrasse il suo, e non gli aveva più preso la mano né aveva azzardato qualsiasi altro tipo di contatto fisico nei suoi confronti.
Junpei aveva due modi di affrontare le situazioni: o non le capiva, e la cosa lo irritava, oppure le capiva fin troppo bene ma non gli piaceva quello che comprendeva. Il caso di Teppei apparteneva a quest’ultima categoria. Si era legato a lui, si era permesso ciò che per secoli si era precluso – o che mai si era concesso, in effetti, non in quel modo almeno – e non sapeva gestirlo se non agendo per estremi opposti.
Più sentiva l’istinto di stargli vicino, più si allontanava.
Più pensava di volergli sfiorare la mano, solo per dare conforto, più si concentrava su qualsiasi altra cosa: asciugare i piatti che Teppei lavava, guardare annoiato la televisione di cui comprendeva assai poco.
Poi pregava all’altare di famiglia, per salutare rispettosamente un defunto e anche per chiedere perdono; laddove avrebbe dovuto fare del bene stava facendo del male, e non è mai ciò che un genitore spera per suo figlio, in nessuna razza.
Se lo spirito del nonno di Teppei era ancora lì, ad osservarli, non doveva essere molto grato a Junpei.
«…Junpei-san!» il richiamo dell’umano lo risvegliò dai pensieri che lo avevano distratto. Non aveva idea di cosa potesse aver detto fino a quel momento né, quindi, cosa si aspettasse in risposta da lui; maledicendosi mentalmente per quella disattenzione, lo guardò interrogativamente.
«Qui ho finito.» gli fece notare Teppei, abbozzando un sorriso gentile «Sarai stanco.» aggiunse, in un tacito invito ad andare se voleva. Kiyoshi non sapeva, evidentemente, quanta poca spossatezza fisica sentisse la sua razza rispetto a quella umana.
Junpei non sapeva come interpretare quelle parole, però. Non credeva che Teppei lo stesse cacciando via; d’altra parte, i suoi gesti gli erano apparsi diversi durante tutta la cena. Più rigidi, in un certo senso.
Non ci voleva un genio a ipotizzare cosa affliggesse Teppei. Era tipico di molti umani, Junpei lo aveva visto accadere: erano una razza che sopportava poco il dolore fisico, data la loro fragilità, ma ancor meno quello spirituale. Non riuscivano ad abituarsi alle separazioni e si appellavano a quelli che erano niente più che mezzi che li illudevano della sopravvivenza di un legame che il passare degli anni avrebbe inevitabilmente logorato. Passavano la vita a guardare vecchie foto, indossare vestiti che gli ricordavano un giorno speciale, portare oggetti regalati da chi non c’era più; poi un giorno succedeva che si rendevano conto di averli persi per sempre e crollavano.
Era quello che aveva temuto, era quello che si aspettava di vedere da un momento all’altro, era quello che credeva rendesse Teppei diverso.
Il quarantanovesimo giorno dalla morte di suo nonno stava giungendo al termine. Allo scoccare della mezzanotte sarebbe iniziato il cinquantesimo e il defunto, che fosse stato giudicato degno del paradiso o di uno dei mondi infernali, sarebbe sparito per sempre abbandonando quel luogo anche con lo spirito.
Non sapeva quanto l’umano fosse pronto a questo.
In effetti dubitava che lo fosse e basta.

«Cosa…?» pronunciò Teppei, stupito, osservando nella sua stanza e fermo sulla soglia.
Aveva accompagnato lui stesso Junpei alla porta, salutandolo con un sorriso e assicurandogli che era tutto a posto e non aveva bisogno di nulla – l’altro non lo aveva chiesto, ma lui aveva voluto dirlo ugualmente, sospettando ormai che quella vicinanza fosse dovuta ad una sorta di dovere morale che l’altro sentiva nei suoi confronti. Alla fine Teppei si era ritrovato a credere che il tengu si sentisse responsabile di quanto gli aveva detto quel giorno in cui avevano discusso: non perché volesse rimangiarsi il rifiuto che con tanta forza gli aveva rivolto, ma per il modo in cui glielo aveva comunicato.
Non sarebbe stato strano, considerando la sua indole. Ma Teppei avrebbe voluto che capisse che non ce l’aveva con lui, che tutto ciò che lo faceva sentire triste era semplicemente nella morte di suo nonno; ora più che mai comprendeva la paura di Junpei e, nonostante i suoi sentimenti non fossero mutati, non avrebbe mai potuto fargliene una colpa.
Dunque perché ora il tengu era di nuovo lì, nella sua stanza?
«Hai dimenticato qualcosa?» chiese, dandosi poi dello stupido. Junpei non aveva nulla con sé che potesse dimenticare lì in casa, o che fosse così urgente recuperare da non poter attendere al giorno dopo.
L’altro, come c’era da aspettarsi, sbuffò seccato. Rimase fermo dov’era, seduto sul bordo della finestra lasciata aperta; doveva aver guardato fuori fino a quel momento, almeno a giudicare dalla posizione del busto.
Il tengu tornò a guardare fuori, come se Teppei non fosse mai entrato, e l’altro si richiuse la porta alle spalle. Non si avvicinò, però, occhieggiando il futon steso con cura prima di andare in bagno. Dopo un primo momento di indecisione vi si sedette, pur senza sollevare le coperte.
«Noi non vediamo gli spiriti dei defunti.» iniziò Junpei senza preavviso «Vediamo i nostri simili e gli altri youkai, ma non gli spiriti dei defunti umani. Avvertiamo l’odore della morte, o quello di persone che sono vicine ad essa. Possiamo sentire che una vita si spegne, se siamo esperti e vicini abbastanza. Ma non vediamo le anime e comunque se anche le vedessimo non potremmo parlarci probabilmente.» continuò, senza ancora portare lo sguardo su di lui.
Teppei non riusciva a capire dove l’altro volesse andare a parare, ma ebbe la sensazione che quello del tengu fosse una sorta di rimprovero rivolto a se stesso: «Junpei-san…?»
«Perciò non so dirti come funzioni. Non so dirti se sia rimasto qui finora o no.»
«Junpei-san.» mormorò con gentilezza, e il tengu si irrigidì quando sentì le braccia del più giovane cingerlo come poteva – data la sua posizione – in un mezzo abbraccio. Era il contatto più intimo che gli avesse mai concesso negli ultimi anni, e la cosa più simile ad un contatto fisico degli ultimi mesi.
«Non c’è bisogno di sapere queste cose… nessun umano le sa.» ammise.
«Non ho idea di cosa abbiano bisogno gli umani in queste situazioni. E con te è ancora più difficile. Hai sempre quel sorriso stampato in faccia, e mi irrita.» disse senza tanti giri di parole, muovendosi appena perché il più giovane sciogliesse l’abbraccio. Teppei lo fece, per non obbligarlo a una dimostrazione di affetto che doveva pesargli, un po’ come il senso di colpa che – era ancora più evidente ora – provava nei suoi confronti.
«Junpei-san, io non ce l’ho con te.» decise di dire infine; forse il tengu non se lo era aspettato, perché si voltò a guardarlo per la prima volta da quando era nella stanza: «Voglio dire, per quello che mi hai risposto.» chiarì meglio, cercando la comprensione negli occhi dell’altro.
Vi trovò solo confusione, o incredulità, non seppe distinguere tra le due cose.
Teppei tornò a sedersi sul futon: «Lo capisco, cosa volevi dire. Le persone che se ne vanno lasciano un vuoto enorme. Io pensavo di saperlo bene, perché non ho i genitori… ma in realtà non li ricordo nemmeno, se non fosse che i nonni mi hanno mostrato delle loro fotografie.» spiegò, spostando lo sguardo su un punto imprecisato del tatami. Junpei avrebbe voluto interromperlo ma non lo fece, aspettando di capire quale fosse il vero punto della questione.
«Ma ora so com’è, passare tanti anni della propria vita con qualcuno e poi non averlo più vicino. E non è nemmeno il tipo di amore che provava mia nonna per mio nonno. Quando ti ho detto che avrei voluto stare con te, non avevo pensato a questo. Mi ero preoccupato di usanze, o che non essendo come te qualcuno della tua famiglia potesse non considerarmi adatto, ma non che un giorno tu saresti rimasto solo. Mi dispiace.» si scusò, alzando gli occhi fino ad incontrare quelli di Junpei, leggermente sgranati di fronte a quel discorso che avevano evitato per mesi – no, si disse, che lui aveva evitato rimanendo sulla sua montagna senza dare possibilità a quell’umano di comunicargli quello che davvero pensava in merito.
«Quello che voglio dire è che non devi sentirti in colpa per quello che mi hai detto.» proseguì: «Certo, è stato un po’… brusco.» e gli sfuggì uno sbuffo appena divertito, perché in realtà gli scatti di Junpei erano sempre stati divertenti a modo loro, se non si prendeva troppo a cuore quel che di negativo pronunciava nei momenti di irritazione «Ma ho capito cosa volevi dire. E lo rispetto. Anche se quello che provo io non cambia.» sembrò volerlo sottolineare.
Junpei sapeva cosa sarebbe venuto dopo: Teppei, comprensivo, gli avrebbe detto che gli perdonava quello scatto di rabbia e che non c’era però altro per cui dovesse scusarlo. Lo avrebbe fatto perché era troppo buono per dire altro, per dargli colpe che forse Junpei aveva davvero o forse no.
Ma ciò che il tengu non voleva assolutamente sentirgli dire era che lo ringraziava per premure che credeva gli avesse rivolto per il senso di colpa; perché, nonostante fosse il primo a preferire quella versione, sapeva che non era stato quello a muoverlo, a farlo scendere a compromessi.
Per questo si era alzato, e aveva coperto in poco la distanza che c’era fra loro, allungando una mano e tappandogli malamente la bocca: «Sta’ zitto.» sibilò piano, ricevendo in risposta solo l’occhiata sorpresa di Teppei.
«Sta’ zitto.» ripeté.


Il modo in cui Teppei lo bacia è tante cose insieme: impacciato perché è la prima volta – Junpei sospetta in generale, non solo con lui –, insicuro, prudente. Tiene le labbra sulle sue come se dovesse scostarsi da un momento all’altro, come se si tenesse pronto a qualsiasi movimento da parte sua che possa suggerirgli che non gli va più, o che è sbagliato, o chissà che altro.
Junpei lo odia. Lui è ancora perso da qualche parte nella propria testa a capire dove sia finito il buon proposito di “non lo fare”, sicuramente andato altrove insieme al rispettoso “è in lutto”, che lo fa sentire un approfittatore di debolezze altrui, che poi in realtà è un po’ quello che caratterizza la sua razza. Ripetersi che sono passati quasi cinquanta giorni – che sono quasi due mesi – non rende meno pressante l’idea di stare facendo una cosa orribile; un orribile bello, perché il calore di Teppei è sempre stato così: avvolgente, a volte anche asfissiante, ma bello.
Ma si sente in colpa lo stesso.
Forse, si dice mentre Teppei stringe l’abbraccio ma allontana le labbra, è perché lo ha rifiutato in quel modo e poi lo ha baciato all’improvviso, proprio quando l’altro gli ha detto di capire le sue ragioni.
«Junpei-san…» lo chiama in quello che è poco più di un mormorio che gli sfiora le labbra, perché sono ancora vicine alle sue; si è scostato ma non così tanto, quasi troppa distanza risultasse spaventosa. Junpei crede di capire perché. Anche lui teme che se si allontanano troppo, avvicinarsi di nuovo non sarà più possibile.
«Mh?» non può fare altro per fargli capire che lo sta ascoltando, considerando che non lo guarda in viso. È un imbarazzo nuovo e totale. I tengu non sono così fisici come gli umani, loro nascono da delle uova, e questo non presuppone effusioni oltre un certo livello… e comunque lui non ha mai nemmeno preso in considerazione di metter su una progenie, no.
«Queste… cose» esita per un istante, Teppei, e a lui sembra che sia perché non sa che parole usare, lui che chiacchiera senza sosta da quando lo conosce: «noi umani le facciamo con la persona che amiamo.»
…Davvero quell’idiota glielo sta spiegando convinto che lui non lo sappia?
Per un attimo, in un moto di stizza, Junpei fa schioccare la lingua in un verso seccato e volta appena il visto verso destra. Teppei assume un’aria perplessa per qualche istante – o così gli sembra, sbirciando con la coda dell’occhio – e poi prosegue con pazienza.
La voce che gli trema un po’, almeno rispetto al solito.
«A me va bene. Ma a te?» è un interrogativo terribile e diretto, che lo fa quasi sobbalzare neanche gli avessero rovesciato in testa una secchiata di acqua gelida; Junpei sgrana gli occhi perché sa che da questo non può sfuggire, non di nuovo, non stavolta. O potrebbe farlo, ma significherebbe non tornare mai più, perché c’è un limite a quanto l’animo umano può essere ferito – no, più che umano, forse si tratta solo di Teppei, sì. Di lui e di quell’umano, e questa è la realtà; ha rimandato troppo a lungo, con le scuse più disparate e ora basta, davvero.
Se lo dice mentalmente, basta, un po’ come a sgridarsi da solo visto che nessun altro lo può fare al momento.
La domanda di Teppei è implicita ma chiara, come palese è la sua volontà di non muoversi da quella posizione finché lui non gli avrà risposto; così le mani sostano una sul futon e una sul fianco del tengu, toccando più stoffa che non il suo corpo, e le labbra stanno lì a quella distanza che non è lontana e non è vicina, ed è troppo e troppo poco allo stesso tempo.
Junpei lo odia, sì. Prova per lui un sentimento così forte che non se lo sa spiegare, e questo lo irrita ancora di più, e odia se stesso perché anche ora l’impulso irrefrenabile non è un gesto d’amore, non uno rassicurante ma solo quello di alzarsi e andare via – scappare, scappare, scappare.
Non sa dare l’anima Junpei, se ne è convinto per secoli dopo che l’anima se l’è sentita strappare via da un umano che non era amante ma un amico, e di quell’amicizia non si è dimostrato degno.
Ha il timore della morte lui che non la conoscerà che fra molti secoli, e poi ha il terrore di prendere anima e cuore e darli a qualcuno; quando ha guardato Teppei in quei giorni si è chiesto molte volte se a lui avrebbe potuto affidarle quelle due cose che pensava di aver lasciato da qualche parte a prendere polvere, come si fa con gli oggetti che non servono più ma un giorno potrebbero servire, e allora si mettono da parte senza che vengano gettati via del tutto.
Poi di fronte a lui, ancora alla stessa distanza, c’è Teppei che lo guarda e aspetta; lo guarda cercando di non mettergli fretta e Junpei lo vede e lo sente in ogni modo possibile – nella mano sul fianco che trema leggermente, negli occhi che non distolgono lo sguardo ma non riescono del tutto a celare il timore di un ennesimo rifiuto, di un ripensamento. Francamente lui dei sentimenti umani capisce poco, soprattutto quando si parla di paure, e non è fatto per consolare né rassicurare.
Non è proprio fatto per parlare, Junpei, e allora ci rinuncia in partenza.
Prende in prestito l’intercalare umano dei giovani di oggi e se lo ripete: fanculo, e intende proprio tutto, dalle sue paure a come Teppei lo guarda, lo tocca, lo cerca, lo aspetta, lo perdona – fanculo, se lo deve sentire quasi risuonare dentro mentre le sue labbra toccano quelle altrui. La mano che gli sfiorava i vestiti ora è un braccio che gli cinge la vita, che lo avvicina al corpo caldo del più giovane.
Junpei deve ammettere di non essere stato affatto sincero, quando una volta ha detto di odiare tutto degli umani: ama il calore che hanno, non solo quello fisico, ma quello che hanno dentro e che troppo spesso si spegne, si raffredda piano, ti abbandona.
Teppei ne è l’esempio vivente e Junpei crede – ma si guarda bene dal dirlo mentre si scosta piano – che sia la cosa più bella che l’altro abbia sempre avuto, fin da bambino. Quel calore che più che scaldargli le mani tutte le volte che l’altro le ha tenute nelle sue, gli ha scaldato il cuore senza che nemmeno lui se ne accorgesse.
«Devi veramente smettere di parlare.» lo sussurra piano, con un rossore che mal si accosta alla sua età che presupporrebbe l’assenza di qualsiasi pudore in certi contesti, proporzionale ad un’esperienza data per scontata ma inesistente. Gli trema la voce e gli tremano le labbra, ma spera davvero con tutto se stesso che Teppei capisca senza che lui debba dire altro.

La mano che gli sfiora il corpo con attenzione e premura non è fredda, eppure Junpei sente istintivamente i brividi lungo la schiena.
Non sa definire il momento in cui il leggero sfiorarsi di labbra è divenuto un bisogno molto più fisico e meno casto, o quando per la prima volta ha pensato che un bacio non fosse abbastanza, che mancasse qualcosa per sentirsi uniti e vicini. Il corpo di Teppei è nudo davanti ai suoi occhi e questo lo imbarazza da morire; ogni volta che le proprie dita ne sfiorano la pelle leggermente sudata si sente strano, come se facesse qualcosa che deve essere celato al mondo. L’altro ha il viso affondato nel suo collo, che a tratti mordicchia piano e poi sfiora con la lingua, con tocchi inesperti e incerti. Sembra controllare in ogni momento che quello che fa non spaventi Junpei e non gli sia sgradito, e questo lo imbarazza anche di più ma lo fa sentire stranamente felice.
Il tengu inclina il capo leggermente, lasciandogli più spazio mosso dall’istinto; le labbra di Teppei risalgono e si posano un po’ dove capita – la linea della mascella che Junpei ha il vizio di serrare quando avverte dei brividi che con il freddo non hanno nulla a che fare, la guancia, la bocca. Vi si sofferma e la bacia, piano e con dolcezza.
Poi l’abbandona e scende, ignora il collo stavolta e posa un bacio casuale senza badare al dove e si sposta lateralmente, fino ad arrivare alla spalla. Traccia un percorso tutto suo che Junpei a malapena riesce a seguire razionalmente, figurarsi giudicare errato o giusto, sempre ammesso che si possa considerarli l’uno o l’altro. E a dirla tutta, c’è un picco di disagio nel momento in cui la mano di Teppei che ha sostato fino a quel momento lungo il suo fianco si sposta e lo priva dell’ultimo indumento che gli era rimasto addosso: essere nudo, letteralmente, lo fa sentire vulnerabile e gli ricorda che stanno arrivando in un territorio decisamente inesplorato per entrambi.
Si rende conto anche che per assurdo sta lasciando fare quasi tutto all’altro e che è semplicemente perché se ne sta approfittando; è pur vero che non vanta una capacità maggiore di lui nel contesto sessuale, ma non fatica nemmeno troppo ad indovinare quanta confusione ci sia nella mente dell’altro, perché questa si fa palese nell’incertezza dei gesti e nel ripetersi di quelli a cui è mentalmente più abituato o pronto, come il suo tornare quasi con regolarità alle sue labbra.
In Junpei si fa strada un moto di tenerezza inatteso e allunga una mano per raggiungere il sesso di Teppei; lo sente sussultare sorpreso e apre un occhio, sbirciando il viso altrui e trovandolo di fronte al proprio, le labbra appena schiuse e gli occhi leggermente sgranati per l’improvvisata del tengu.
Junpei sbuffa appena, brontola qualcosa che in realtà non ha senso compiuto, dopodiché annulla la distanza tra loro e approfitta dello stupore altrui per osare un poco ancora e approfondire lui stesso il bacio – non è il primo “serio” di quella sera e non sarà l’ultimo, e sa che la sua capacità comunicativa è pessima abbastanza da preferire ad essa il silenzio o l’unico modo in cui pensa di potergli comunicare che, anche se è imbarazzante e avrà problemi dopo, adesso è con lui e lo desidera e va bene qualsiasi cosa Teppei voglia da lui, qualsiasi modo in cui deciderà di toccarlo.
La mano inizia a muoversi, lenta e non poi così audace come Junpei aveva pensato, ma sente Teppei agitarsi appena sotto di lui e l’altra sua mano posizionarsi dietro la sua nuca, le dita appena insinuate fra i capelli, a metà tra una carezza e un avvicinarlo ancora di più a sé. Lo sente rispondere al bacio, la lingua che tocca la sua – poi così com’è iniziato Teppei lo interrompe, si scosta appena e gli morde piano e quasi per gioco il labbro inferiore.
«Junpei-san…» sussurra piano e fa scendere la mano in una carezza lenta lungo la schiena nuda.
«Piantala.» mormora e aumenta un poco la velocità delle carezze lungo l’erezione dell’altro, a cui sente sfuggire fra le labbra un gemito inaspettato, a giudicare da come subito dopo torna a baciarlo, quasi a nasconderlo nonostante sappiano entrambi che è perfettamente normale. Ma a Junpei sta più che bene così, almeno fin quando la mano di Teppei che era rimasta sul suo fianco fino a quel momento non si ritrova – lui non sa come – tra di loro, sfiorando quella di Junpei che si muove su e giù, arrivando a toccare il membro del più grande.
C’è un momento di totale panico misto ad eccitazione, in lui: per motivi che non sa spiegarsi – specialmente adesso – si era formata in testa la convinzione che sarebbe stato solo lui a toccare Teppei. Non aveva minimamente preventivato che l’altro l’avrebbe ricambiato, per quanto ridicolo suoni a lui stesso quel pensiero.
Abbandona qualsiasi ragionamento, anche se non per sua scelta, mentre la stanza sembra riempirsi di respiri pesanti e aria calda, un calore diverso dall’afa estiva e più pesante, saturo di un odore che Junpei non sa riconoscere. Vi avverte una scia del profumo di Teppei, ma non sa dire se ci sia veramente o se quello che avverte sia piuttosto la pelle dell’altro, sotto le proprie mani e vicina al proprio corpo.
C’è la fretta tipica della prima volta, man mano che le carezze si fanno più intime e i respiri veloci, i baci più urgenti.
Junpei riversa un gemito nella bocca dell’altro, colto alla sprovvista da un movimento imprevisto: Teppei si fa vicino con un leggero colpo di reni, abbandona per un attimo la sua erezione e vi sfrega contro la propria, ora vicina. La mano torna a masturbarli entrambi e Junpei sente il calore affluire al viso e la propria voce farsi strana. Allaccia le braccia al collo del più giovane e vi si abbandona, anche se odia pensarlo in quei termini; considera una ripicca personale scostarsi e privarlo del bacio che Teppei cerca istintivamente, gli occhi ancora chiusi che vengono aperti quando non trova ciò che cerca.
Lo sguardo lucido lo cerca confuso, si acciglia appena: «Junpei-san…» quasi lo bisbiglia, la voce roca ed erotica che fa sentire Junpei un ragazzino e gli appesantisce il cuore con troppe cose – felicità, completezza, imbarazzo, aspettativa, soddisfazione, desiderio.
Gli nega quel contatto per qualche breve istante ancora, poi è lui stesso a cercarlo di nuovo, con le labbra e con il corpo; c’è un istante in cui lo cerca anche con l’anima, però. Un breve, unico istante in cui ha bisogno di non sentire il calore del suo corpo contro il proprio, le loro erezioni che sfregano l’una contro l’altra rendendo impossibile qualsiasi pensiero, ma di sentire Teppei al di là di tutto quello.
Fa persino in tempo ad insultarsi per un bisogno così sentimentale, ma è destinato ad essere sorpreso e il fautore è Teppei, com’è sempre stato negli ultimi undici anni della sua esistenza: lo coglie alla sprovvista ancora una volta quando smette di toccarlo e di masturbare entrambi, con uno sforzo di volontà che sospetta non essere così indifferente. Abbandona la sua bocca ma non lo guarda, rimane così vicino che per parlare praticamente lo bacia ancora e ancora, anche mentre sussurra, anche mentre respira e basta.
Pronuncia piano le parole degli amanti, le parole che si dicono gli adulti e che a Junpei fanno paura più di tutto; gli dice quella frase che lo riempie di una felicità che sente quasi fuori luogo, e che al tempo stesso dicono che Teppei ha scelto e che anche lui lo ha fatto, anche se non le ricambia subito.
Sono molto più di quello che sembrano quando vengono pronunciate, perché l’esempio di amore che Teppei ha avuto è durato tutta una vita, e quindi Junpei sa – lo ha sempre saputo in fondo – che l’altro non lo dice con superficialità come sarebbe anche comprensibile alla sua età. E gliele sussurra piano prima di qualsiasi altra cosa, prima che il piacere fisico di entrambi raggiunga il culmine impedendogli di fare altro che non sia respirare a fondo l’aria e respirarsi quasi a vicenda, vicini e incapaci di lasciarsi andare.
Lo fa prima di tutto quello, perché dopo sembrerebbe sbagliato, sembrerebbe secondario e non lo è, Junpei questo lo ha capito; qualcosa si smuove dentro di lui, all’altezza dello stomaco per la sorpresa, all’altezza del cuore perché lo commuove.
E poi gli trema il petto, perché gli scuote lo spirito – e allora sì, forse può dare anima e cuore a qualcuno, tirarli fuori da dove li ha messi da parte in attesa di chi lo avrebbe convinto che poteva affidarle ad una persona, lasciare che questa se ne prendesse cura.
Può prendere quel che ha di più fragile e darlo a Teppei, e giurargli che non scapperà più.
Che la parte più importante non sarà l’addio, ma tutte le stagioni che sarà capace di ricordare.
 

 

 

 

Note utili:
Futon: vuol dire letteralmente “materasso arrotolato”. È il materasso tradizionale della cultura giapponese.
Youkai: traducibile come “apparizioni”, “spettri” o “demoni” sono una classe di creature della mitologia giapponese.
Tatami: tradizionale pavimentazione giapponese.

I quarantanove giorni a cui si fa riferimento nella fanfic sono quelli in cui, a partire dalla morte del defunto, si dice l’anima faccia un viaggio al termine del quale sarà giudicata e indirizzata verso il paradiso o verso uno dei mondi infernali, abbandonando definitivamente il regno dei vivi.

 

Alla fine il rating rimane arancione. La lemon mi ha boicottata (o io ho boicottato lei?) y_y
Rimane a questo punto solo l’epilogo.
Grazie a chi ha seguito o letto fin qui <3

 

 

 

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Capitolo 4
*** After seventy years ***


Epilogo
After seventy years

 

Spostò lo sguardo verso la finestra chiusa, ricercando con esso l’esterno.
La stanza era calda, grazie alla stufa accesa in un angolo, lasciando all’immaginazione il clima invernale. Tutto ciò che del panorama preannunciava in qualche modo il freddo era il colore del cielo, di quel grigio che era quasi un bianco sporco, fastidioso alla vista e che non permetteva di indovinare con facilità quale momento della giornata fosse.
Si sistemò meglio seduto sul cuscino, muovendo appena le gambe incrociate alla ricerca di una posizione meno rigida; istintivamente, mosse la mano giochicchiando con il maglione che indossava.
Lo faceva sorridere, vedersi addosso quell’abbigliamento: un tempo non avrebbe mai creduto possibile vestire abiti umani per il semplice fatto che farlo avrebbe significato mescolarsi a loro.
Inclinò un poco la testa andando a poggiare la tempia contro il vetro freddo; il libro che fino a poco prima aveva avuto la sua completa attenzione era lì, sulle sue gambe, aperto ad una pagina di cui aveva già dimenticato il contenuto letto qualche istante prima di distrarsi a guardare fuori.
Era strano essere così toccati dalla percezione di un tempo che trascorreva troppo lentamente. Non era mai stato un problema, vista la sua natura. Eppure ora, anno dopo anno, diventava sempre più acuta la sensazione di relatività che avvertiva.
Non che avrebbe mai ammesso quanto lunghe sembrassero le ore in assenza di quello stupido di Teppei e quanto, invece, sembrassero durare un soffio e nulla di più in sua presenza.
«Junpei!» sentì chiamare dall’ingresso, ma si guardò bene dall’alzarsi e andargli incontro: non era uno stupido cane, non si sarebbe certo messo a scodinzolare. Al contrario abbandonò l’esterno per tornare con lo sguardo – e presumibilmente con totale attenzione – alle pagine del libro.
Avvertì i rumori tipici di quando Kiyoshi rientrava dalla spesa: le scarpe abbandonate all’ingresso, le buste poggiate sul tavolo, i passi sempre della stessa cadenza ad indicare il muoversi avanti e indietro nel piccolo spazio della cucina, le ante aperte e chiuse per sistemare al proprio posto gli acquisti.
Poi altri passi ancora, sempre più vicini, e alla fine Teppei rientrava nel suo campo visivo affacciandosi sulla soglia della stanza, come ora.
Junpei non riusciva smettere di stupirsi dei piccoli ma significativi cambiamenti nell’aspetto dell’altro, specialmente se pensava a quanto diverso fosse quando si erano incontrati per la prima volta. Ormai non c’erano più né i lineamenti infantili di bambino, né quelli di un’acerba età adulta: il viso mostrava quello che era in tutto e per tutto un uomo, ancora giovane, ma cresciuto.
Il tengu provava sentimenti contrastanti, quando si rendeva conto di quanto inesorabile fosse il tempo di Teppei, che avanzava senza pietà; eppure quello stupido, chissà come, sembrava capire cosa lo angosciasse tanto e allora si avvicinava e lo abbracciava con quel fare entusiasta da bambino e quel modo goffo di abbracciarlo di quando era ragazzo – anche se ora la prima cosa era dovuta al carattere gioviale e la seconda alla stazza che si ritrovava, con il fisico ormai formato del tutto.
Junpei avrebbe mentito sostenendo che bastasse così poco a far sparire le sue preoccupazioni, o che bearsi del calore di un corpo che ti abbraccia con tanto affetto lo illudesse che non ci sarebbe mai stato bisogno di pronunciare quell’“addio” a cui non sarebbero mai stati pronti.
Tuttavia sospirava, lo rimproverava mentre con la mano cercava la sua e poi – solo poi e solo quando voleva – gli dava la piccola soddisfazione di un bacio leggero sulle labbra e di un “bentornato” pronunciato senza insulti, ma con l’affetto smisurato di cui nessuno si accorge mai, se non chi riceve quelle parole e se le tiene strette nel cuore.
«Ah, nevica!»
La ricorderà, insieme a tutte le altre.


«Posso farle una domanda?» azzardò il novizio, portando lo sguardo sull’Anziano indaffarato con le pratiche per l’imminente passaggio della carica.
Il tengu più grande alzò gli occhi dalla pergamena, posandoli benevolo sull’altro, in un tacito assenso. Il giovane, seppur titubante, si fece coraggio e diede voce al dubbio che – a giudicare dalla reazione degli altri novizi presenti – doveva essere comune: «Mi chiedevo— ci chiedevamo, in effetti» si corresse, agitato «…ecco, tutti pensavamo che alla fine sarebbe stato Junpei-dono a succedervi. Una volta tornato dal suo soggiorno tra gli umani.» spiegò come meglio gli riuscì, temendo forse di aver detto qualcosa di troppo o che non fosse suo compito far notare.
Ma l’Anziano non ebbe reazioni particolari in merito, se non un silenzio meditabondo e quasi pigro.
«Avrei potuto richiamarlo, sì» ammise «e Junpei, oh, sarebbe tornato.» aggiunse senza alcun dubbio in merito: «Tuttavia sarebbe stato una guida inadatta. Succede così, quando la comunità non è il primo pensiero di chi la guida.» concluse blandamente, come se quanto aveva appena detto non fosse piuttosto grave.
Il senso di appartenenza di un tengu alla propria comunità era forse uno dei valori fondamentali della razza stessa.
Eppure qualcuno come Junpei, la cui avversione agli umani era sempre stata piuttosto chiara oltre che conosciuta, aveva perso chissà quando la qualità che lo aveva contraddistinto per secoli rendendolo il più adatto ad una carica che quasi tutti avevano considerato già ufficiosamente sua.
«Ma gli umani non possono vivere così a lungo.» obiettò incerto e con tono basso un altro dei novizi, visibilmente confuso.
Se Junpei fosse stato lì, non si sarebbe sorpreso della risata che riempì la stanza, troppo abituato alle reazioni spesso incomprensibili da parte di quello che era stato il suo maestro; ma i novizi si stupirono nel vedere l’Anziano ridere di cuore.
«Oh no, gli uomini non vivono neanche la metà del nostro tempo, Junpei lo sa bene.» convenne divertito «Ma è rimasto ad osservare la neve.» concluse come se fosse la cosa più naturale del mondo.
«La neve, signore?»
«Già. La prima neve di ogni anno.» assicurò, mentre il tempio in cima alla montagna veniva coperto lentamente, in silenzio.

 

Settant’anni fa, la prima neve iniziava a scendere.
Quel giorno, nello stesso luogo,
l’inverno comincia con dita che si intrecciano le une con le altre,
ancora una volta.


 

 

 

 

 

E con questo si conclude la fanfic.
Ho pensato diverse volte di cambiare, di dare la sensazione di una realtà più “cruda” ma inevitabile, ossia la morte di Teppei. Ma francamente mentre scrivevo non mi sembrava si adattasse all’atmosfera che penso di aver racchiuso nell’epilogo, e quindi buh, ho preferito così.
Grazie a chi ha recensito e a chi ha dedicato anche solo un pochino di tempo alla lettura (L)

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