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Lista capitoli: Capitolo 1: *** The day I met the human boy *** Capitolo 2: *** Back to back - are we closer than before? *** Capitolo 3: *** Seasons I'll remember *** Capitolo 4: *** After seventy years ***
Disclaimer: i personaggi sono copyright di Fujimaki Tadatoshi. Note: questa cosa è rimasta a
prendere polvere, perché l’avevo totalmente dimenticata 8D
Conterà di tre capitoli, massimo tre + epilogo, per lo più già scritti, quindi
conto di risparmiare a chi leggerà l’agonia dei miei
aggiornamenti lunghissimi. Attenzione, il rating potrebbe
passare da arancione a rosso in corso d’opera; sto vivendo un momento
conflittuale tra il “ma ci sta che arrivi al rosso?” e il “ma io odio scrivere
rating rosso”. Pace.
1.The day I met the human
boy
Quando guardava davanti a
sé, sistemandosi su uno dei rami più alti – e per questo più isolati – della
quercia secolare su cui era solito rintanarsi in cerca di un po’ di
tranquillità, il panorama mutava di rado.
Da quel lato della montagna non vi erano costruzioni di fattura umana a violare
brutalmente il verde naturale della foresta; il proprio sguardo abbracciava
solo un rilassante paesaggio incontaminato.
Di luoghi di montana Junpei ne aveva visti diversi, ma – vuoi per una questione
di abitudine o, come i più giovani a cui piaceva fantasticare dicevano, per
affetto – quella che lo ospitava da più di un secolo e mezzo gli era
particolarmente cara, quasi quanto quella che aveva ospitato la sua nascita e
fanciullezza.
A rendergliela poi ancora più gradita era l’assenza di città umane nelle
immediate vicinanze: l’unico insediamento degno di nota era un paesino di
piccole dimensioni dal lato opposto a quello verso cui stava volgendo lo
sguardo. Esso contava un numero davvero esiguo di abitanti rispetto alle
odierne “grandi città” e il grosso della popolazione era adulta abbastanza da
non potersi permettere una gita di almeno un’ora per raggiungere il tempietto
ai piedi della montagna, dove si offriva cibo per ingraziarsi le divinità o chi
per loro. Oppure, se erano sufficientemente giovani da poterlo fare, era il
totale scetticismo ad impedirglielo.
A Junpei la cosa andava a genio: troppo a lungo aveva avuto modo di osservare
gli umani che, di per sé, erano creature affascinanti solo se non le conoscevi
troppo; era come i misteri del mondo o della vita, che una volta svelati nella
loro totalità perdevano completamente quel qualcosa che li aveva resi
interessanti.
Aveva visto di loro i lati peggiori e – sebbene più raramente – quelli
migliori; tuttavia, con il passare degli anni erano degenerati, non sapeva se
perché la riverenza di un tempo nei confronti delle forze della natura e delle
divinità fosse venuta meno o se i motivi erano altri, ma il risultato era
comunque una razza capace delle più infime bassezze e macchiata di un cieco,
istintivo, naturale egoismo.
Nauseanti.
«Junpei-dono!»
Aveva imparato fin troppo bene che a quell’appellativo e a quella voce agitata
non seguivano mai comunicazioni interessanti; anzi, era quasi sempre una
seccatura, e altrettanto spesso l’errore di qualche tengu
giovane a cui lui avrebbe dovuto rimediare.
Sospirò stancamente, facendo una lieve pressione con le mani sul tronco dove
sedeva, come per alzarsi; l’istante dopo era a terra.
«Dimmi.» incalzò il giovane di fronte a lui, che sembrava visibilmente
sollevato dall’averlo trovato: «Junpei-dono, poco distante dal piccolo spiazzo
vicino al torrente è stato avvistato…» deglutì, in ansia per quanto sarebbe
seguito.
Junpei inarcò un sopracciglio: quale calamità si erano attirati addosso i suoi
stupidi sottoposti, stavolta? O qualcuno di sgradito – di qualche altro clan,
magari – stava per fargli visita?
«Ebbene?» lo incalzò.
«Un cucciolo.»
Junpei sentì di stare perdendo ogni volontà di ascoltare oltre, ma sapeva di
non potersi sottrarre: «…un cucciolo.» ripeté osservando il più giovane,
scettico.
«D’uomo, signore. Un bambino umano.» chiarì quello.
Ah, ecco. Un bambino.
Lo sbraitare di Junpei
aveva animato per dieci minuti abbondanti la normale quiete del santuario che
fungeva loro da casa; i più giovani tra i tengu avevano temuto una punizione
collettiva ma, alla fine, sembrava se la fossero cavata con quello sfogo fatto
di insulti sulla stupidità della nuova generazione e l’inaffidabilità di chi
avrebbe dovuto istruirli a dovere.
Dopodiché si era diretto nel luogo dove il piccolo umano era stato avvistato.
I tengu non erano creature famose per la loro spiccata pazienza, ma Junpei
emergeva per averne anche meno del normale, il che suonava strano dato il suo
essere uno dei più anziani del clan subito dopo i gradi più alti della
gerarchia su cui si basava la loro società.
C’era stato un tempo in cui la presenza di un bambino umano nel loro territorio
non sarebbe stata considerata strana e, soprattutto, non pericolosa; in
antichità non di rado alcuni bambini venivano smarriti dai propri genitori, e
ritrovati poi distanti da casa, in stato confusionale. Era uno scherzo tipico
della sua razza, una pratica a cui gli umani avevano persino dato un nome.
Poi un giorno, tanti anni prima, quando Junpei stesso era ancora poco più che
fanciullo, la cosa si era ritorta contro di loro: un gruppo di umani
particolarmente coraggioso – o furioso, aveva pensato all’epoca – aveva
risposto all’ennesima sparizione con il fuoco; e non in senso metaforico, ma
appiccando un incendio ad uno dei loro santuari, mietendo numerose vittime tra
i tengu del clan che vi abitava.
Era stato un duro colpo per la loro comunità e per la razza generale, un lutto
che aveva portato tutti loro a riflettere e ad essere più prudenti; a distanza
di secoli, quella pratica si era via via persa fino
ad essere considerata non proibita, ma caldamente sconsigliata.
Non erano più tanti come una volta e soprattutto non possedevano più quella
spavalderia che li portava ad un insaziabile desiderio di stuzzicare le altre
creature.
A parte i novizi: loro sembravano sempre in vena di cose stupide, non importava
in quale epoca o sotto quali regole vivessero. E quando ciò succedeva toccava
ai più grandi – come in quel momento stava succedendo a Junpei – rimediare; non
era un compito particolarmente gravoso in verità, giacché consisteva in un
semplice individuare la vittima, addormentarla se aveva già ripreso conoscenza
e portarla ai piedi della montagna o in un punto dove i suoi compaesani
avrebbero potuto ritrovarla senza troppi inconvenienti.
Nessun contatto, nessuno scambio di parole, nessuna scoperta riguardo la loro
esistenza.
«Mh…» mormorò piano a se stesso, non appena fu
atterrato sul ramo di un albero ed ebbe occhieggiato la piccola radura indicata
dalla comunicazione che aveva ricevuto in merito al posto in cui il bambino
avrebbe dovuto trovarsi.
Peccato non ci fosse ombra di essere vivente o di spirito; solo il rumore del
piccolo ruscello poco distante.
«Signore?»
Per un attimo nella mente di Junpei passarono molte cose, dalla più brutale
delle imprecazioni – che avrebbe fatto vergognare di sé il capo del loro clan –
ad un brivido di terrore, non dato tanto dalla paura per sé che sapeva
certamente difendersi contro un umano ma per la propria comunità, che teneva
nascosta la propria esistenza per un motivo preciso ed intuibile. Tuttavia non
fece movimenti bruschi, voltandosi lentamente ed inquadrando infine la figura
che aveva parlato: erano anni, secoli
che non guardava così da vicino un bambino umano.
A dire il vero, di primo acchito non reputò particolarmente intelligente la sua
espressione: aveva tratti comuni che non lo rendevano certamente speciale ai
suoi occhi, se non per un unico dettaglio da ricercare tanto nello sguardo
quanto nell’espressione, ossia la totale assenza di confusione e paura. Ciò lo
rendeva vagamente interessante, e al tempo stesso problematico; a Junpei,
nemmeno a dirlo, i problemi non erano mai piaciuti.
«Ti sei perso?»
«Hai le ali?» chiesero simultaneamente, l’uno rivolto all’altro; il tengu
inarcò un sopracciglio – non gli piacevano nemmeno i bambini e, in generale,
gli umani curiosi: non portavano nulla di buono. D’altra parte non poteva
nemmeno rimproverarsi di essere stato poco cauto, perché chi mai si sarebbe
aspettato un bambino sperduto che si
arrampica su un albero?
Quello si sedette con attenzione a non scivolare, dandogli l’impressione di
movimenti tutto sommato metodici di chi è abituato a compierne di simili quasi
ogni giorno. Quando fu comodo, si vide rivolgere un ampio sorriso: «Stavo
cercando la strada dall’alto! Nonno dice sempre che se ti perdi devi guardare
da sopra, perché è più facile trovare la via.» spiegò con un certo orgoglio.
Junpei mise da parte il fatto di avere ancora le ali visibili, reputando
inutile nasconderle a quel punto quando erano state viste comunque, e si
concentrò sulle parole pronunciate dal ragazzino: si era perso. Questo
presupponeva che non lo avesse portato qualcuno della sua razza lì per dispetto,
ma che il piccolo umano vi si fosse diretto per conto suo, per chissà quale
motivo.
Ciò non era una consolazione, tutt’altro: avrebbe dovuto confondere la sua
memoria prima che l’immagine dello stesso Junpei prendesse una forma troppo
precisa nella sua mente.
«Allora sono ali vere, quelle?» lo sentì chiedere nuovamente, nella voce e
nello sguardo un entusiasmo facile da individuare; sospirò rassegnato: «Sì, sì,
quello che vuoi.»lo blandì, pronto ad operarsi per sbrigare la faccenda in
fretta e tornare alla sua contemplazione silenziosa dell’altro versante della
montagna, quando il ragazzino decise che era un’idea intelligente – sempre
detto che quelli della sua razza erano immancabilmente stupidi – alzarsi di scatto pieno di entusiasmo.
Su un ramo.
«Davvero?!» esclamò incredulo, con un ampio sorriso e nel breve tempo che
impiegò a scivolare giù rischiando di rompersi qualche osso Junpei si era
proteso in avanti di riflesso, afferrandolo per un braccio e attutendone la
caduta galleggiando in aria d’istinto.
Quando posò i piedi a terra e il suo sguardo incrociò quello meravigliato e
felice del piccolo umano, comprese di aver appena fatto un’idiozia persino più
grande di quel moccioso suicida che aveva appena salvato.
Non c’era stato alcun
seguito strappalacrime in cui lui e quel ragazzino diventavano amici seppur di
età e razze diverse, dopo quell’episodio. Junpei aveva fatto ciò che doveva:
l’aveva stordito, gli aveva confuso i ricordi e lo aveva riportato
personalmente ai piedi della montagna.
Fine della storia, o così era si era convinto sarebbe stato.
L’anno seguente l’accaduto si era ripetuto e lui si era ritrovato davanti lo
stesso ragazzino, forse qualche centimetro più alto ma innegabilmente lo stesso
sorriso, lo stesso sguardo entusiasta e la stessa aria beota.
Succedeva che a volte i ricordi degli umani confusi dai tengu tornassero nitidi
abbastanza da dargli un vago sentore di cosa fosse successo ma, generalmente,
più erano giovani quando venivano confusi e meno tutto riacquistava un senso, o
lo faceva in modo nebbioso abbastanza da non fargli tornare la voglia di
avventurarsi lì. Senza contare che dopo una prima sparizione e conseguente
ritrovamento, gli adulti tenevano i bambini lontani abbastanza perché questi
rimuovessero dalla loro memoria l’intero incidente, così come la paura
instillata in loro dai più grandi; a quel punto nessuno di loro ricordava mai.
Il terzo anno consecutivo in cui se lo ritrovò vicino al ruscello, perse la
pazienza.
«Forse dovrei lasciare che gli altri spiriti ti mangino: mi creerebbe meno
problemi!» sbottò irritato mentre si ritrovava a guardare l’espressione allegra
di quel ragazzino strambo. Gli umani non ricercavano mai la compagnia degli
spiriti o dei “mostri”, come li definivano alcuni di loro: se la prima volta
poteva essere stato troppo piccolo e sorpreso per provare timore, e la seconda
confuso, la terza era stupidità o qualcosa di negativo senza dubbio.
«Urgh… che cosa cattiva.» disse abbozzando un sorriso
meno disteso, ma ugualmente e inspiegabilmente fiducioso che fece storcere il
naso di Junpei.
Sembrava proprio che non si potesse evitare un ulteriore contatto con lui come
chiedergli cosa volesse, il che era sinonimo dell’immischiarsi nelle faccende
umane, cosa che aveva sempre evitato accuratamente di fare; d’altra parte
temeva che una nuova manipolazione della sua memoria sarebbe stata inutile.
Ogni volta che essa tornava intatta abbastanza da permettergli di recarsi di
nuovo lì a cercarlo, era come un anticorpo che si forma contro il virus di
turno: la possibilità che quella tecnica funzionasse era sempre minore.
«Devi smettere di venire qui. Non è un posto per quelli come te.» chiarì, non
senza una sfumatura di antipatia nella voce, senza fare nulla per nascondere
anche solo vagamente il suo astio nei confronti della razza umana; non che il
ragazzino gli avesse fatto qualcosa. Era solo una pessima sensazione a pelle.
«Lo so, lo dice anche il nonno.» ammise con un sorriso impacciato, come tutti i
ragazzini – in questo gli ricordava vagamente i novizi del suo clan – che sanno
di aver fatto qualcosa di sbagliato, sono stati sgridati, ma loro malgrado lo
hanno fatto nuovamente: «È solo che» riprese approfittando di non essere stato
ancora interrotto dal tengu «non so ancora come ti chiami.» concluse, tirando
un sospiro di sollievo che Junpei non seppe interpretare.
Tre anni di seguito a ritrovarsi su una montagna il tempo necessario a farsi
manipolare i ricordi da lui, solo per chiedergli il nome?
«…ma sei stupido?» ribatté incredulo, fissandolo. Non importava quanto avesse
avuto modo di osservare gli umani, quello era troppo persino per lui: erano
imprevedibili, certo, ma sempre in accezione negativa e a quell’età – che tra i
tengu lo avrebbe reso coetaneo di un piccolo appena uscito dall’uovo – non
aveva mai visto nulla di diverso dalla paura negli sguardi che si erano
casualmente posati su creature come lui.
Gli era estranea quella curiosità semplice e genuina; specialmente perché
“innocenza” era qualcosa che aveva smesso di accostare agli uomini: maggiore
era stato nel tempo il potere che avevano acquisito, i mezzi che avevano fatto
propri, più evidente era stata la perdita di ciò che un tempo avrebbero
definito “valori”.
L’ingenuità e la bontà d’animo disinteressata erano fra queste.
«Junpei.» borbottò infine, burbero.
«…è così che ti chiami?»
«Così pare.» ribatté, già pentito per quella debolezza. Non che ci fosse un
particolare pericolo a rivelare il suo nome… non più di quello insito
nell’instaurare un legame.
Abbassare la guardia solo perché si trattava di un bambino non era una scusa
sufficiente o che avrebbe accettato se qualunque tengu gliel’avesse propinata;
eppure ora la stava rivolgendo a se stesso come giustificazione a quello che –
dovette ammetterlo a malincuore – era un guizzo di curiosità nei confronti di quello
strano esemplare di umano.
«Aaah, Junpei-san!» esclamò come se si fosse reso
conto solo in quel momento di aver finalmente ottenuto il nome che tanto aveva
desiderato, facendosi avanti e prendendo la sua mano nelle proprie, più piccole
e dalla pelle liscia e morbida. Notò che gli occhi gli brillavano di vivace e
puro entusiasmo.
Distolse lo sguardo, come se fosse troppo da guardare, dopo anni di lerciume e
animi lordi.
«Allora?» lo incalzò burbero «Com’è che ti chiameresti, tu?» chiarì la domanda,
notando il sorriso che il più piccolo gli rivolgeva farsi persino più ampio.
«Teppei!» replicò senza perdere tempo «Kiyoshi Teppei!»
Con il senno di poi,
Junpei ammise con se stesso – mai con altri – che era stato disonesto affermare
di aver creduto anche solo per un istante che far contento quel ragazzino,
dicendogli il proprio nome, avrebbe messo fine a quelle visite annuali.
Non solo Teppei si era fatto vedere di nuovo, aspettando sempre nello stesso
posto, ma vi si era recato sempre più spesso; l’intervallo di tempo molto lungo
che le volte precedenti aveva coperto quasi un anno tra una visita e l’altra
era stato dovuto alla confusione dei suoi ricordi, che impiegava mesi a
placarsi e a rimettere insieme tutti i pezzi fino a suggerirgli – se non
l’intento vero e proprio delle sue visite – il bisogno di muoversi e la
curiosità di andare a cercare qualcosa.
In assenza d’intervento da parte di Junpei, tutto quello era venuto a mancare:
Teppei veniva fermato principalmente dall’inverno particolarmente rigido dei
luoghi come quello, quando la neve ricopriva la montagna – e il piccolo paese
ai suoi piedi – divenendo un posto poco consono ad una passeggiata.
Ma all’infuori di quello e della pioggia, nessuna stagione teneva l’umano
lontano da quello che era diventato il loro posto per incontrarsi.
Non che Junpei vi si fosse recato subito e sempre: era capitato più volte che
impegni nella sua comunità lo esigessero, e in molte altre occasioni non si era
mosso per pura testardaggine, conscio della presenza di Teppei vicino al
ruscello e del suo attendere a volte anche per ore.
Dentro di sé assecondava al tempo stesso l’istinto di avvicinarlo e quello di
scacciarlo.
Le volte in cui però gli concedeva la propria compagnia – non senza essere
profondamente irritato proprio da quella sorta di resa da parte propria a non
lasciarlo per l’ennesima volta solo ad aspettare per chissà quanto tempo –
Teppei parlava senza sosta, e raramente gli chiedeva delle cose; se faceva
domande, non insisteva mai troppo, dimostrandosi meno molesto di quanto Junpei
lo avesse di volta in volta giudicato in base a niente più di un pregiudizio
sulla sua razza.
A volte portava con sé del cibo che gli offriva, cose semplici come delle
polpette di riso o pranzi leggeri e pratici da portare fin lì: gli alimenti che
assaggiava sapevano di tempi passati e raccolti, di ricette vecchie che nessuna
spezia odierna sapeva eguagliare.
«Lo ha preparato la nonna.» aveva detto una volta, notando forse che il cibo
era stato particolarmente apprezzato dal tengu, e in quell’occasione Junpei
aveva appreso che il ragazzino era originario del paese e vi abitava, con i
nonni. Non aveva mai domandato dei genitori, perché non gli interessava e
avrebbe creato uno scomodo legame basato su un vicendevole scambio di
confidenze che non era sua intenzione instaurare.
Di contro era stato molto più facile capire perché tanta ostinazione nel
recarsi lì: il paese non ospitava molti umani della sua età, tanto che non era
sede nemmeno di scuole da un certo anno d’età in su, per le quali – così gli
aveva raccontato – dovevano spostarsi nella piccola città che distava un
discreto quantitativo di tempo e di strada che lui percorreva principalmente
con mezzi pubblici, non potendo coprire l’intera distanza con la sola
bicicletta che usava invece per spostarsi dal paese alla montagna.
Così ogni volta Teppei andava lì e lo aspettava, e Junpei non sempre lo
raggiungeva oppure lo faceva ma non subito, quasi cercando di scoraggiarlo; le
prime volte aveva perso anche diverso tempo ad essere interrogato dai giovani
tengu del suo clan, ben consci non solo della sua avversione agli umani in
generale, ma alla sua scarsa pazienza con i giovani e i bambini, a prescindere
dalla razza cui essi appartenevano.
Junpei si irritava, perché non era in grado di dare una risposta.
In quel modo erano passati sei anni.
Durante quel periodo di
tempo così lungo per gli umani e così breve e insignificanti per le creature
comei tengu, Junpei aveva finito
per tradire l’unico proposito che si era posto nel momento in cui aveva scelto
di accordare la propria compagnia a Teppei: quel bambino gli era diventato
caro.
Di per sé non vi era nulla di tragico come una regola della sua comunità che
gli impedisse di relazionarsi ad un umano, pena qualche atroce tortura o
terribile punizione; Junpei aveva piuttosto cercato di preservare se stesso
autolimitandosi in qualche modo. Mantenersi scostante, però, era stato più
difficile di quanto avesse mai creduto possibile. Non avrebbe saputo spiegare
in cosa stesse la difficoltà, almeno finché il capo del suo clan non aveva
voluto parlare con lui a proposito “dell’umano che gli gironzolava intorno”,
com’era stato definito – e non a torto.
La chiacchierata si era rivelata piuttosto informale per la verità: l’anziano
aveva raccontato di quando, un tempo lontano secoli tanto che nemmeno Junpei
era ancora nato, lui stesso aveva avuto a che fare con gli uomini. Anche prima
di allora li aveva sempre definiti creature a loro modo affascinanti, senza che
il tengu più giovane riuscisse mai a comprenderne appieno le motivazioni o a
dirsi completamente d’accordo con esse e con il pensiero generale.
«Certo è strano saperti attaccato ad uno di loro.» aveva ammesso con un sorriso
divertito, pur nella sua solita calma; Junpei in sua presenza si era sempre sentito
come un tengu che ha preso da poco coscienza di come va il mondo, e quella
sensazione si era ripresentata intatta in quella stessa occasione.
«Deve essere speciale.»
«Non particolarmente, signore. È umano come tutti gli altri.» aveva
bofonchiato, poco sicuro delle proprie stesse parole, ma certo che fossero più
ingannevoli di quanto fosse stato nelle sue intenzioni renderle.
L’anziano aveva riso: «Junpei, ti ho visto uscire dall’uovo e diventare un
tengu saggio. Incline all’irritazione e con meno pazienza di quanto ci si
potrebbe aspettare, ma sei una buona guida per i novizi e un accorto compagno.
Ma nessuno meglio di me sa quanto poco ti siano mai interessati gli umani, se
escludiamo il volergli trovare dei difetti.» aveva osservato acutamente, sorseggiando
il tè che aveva avuto la funzione di scusa per quell’incontro.
Junpei si era ritirato nei propri pensieri, cercando di darvi un senso più di
quanto nel tempo e fino a quel giorno fosse riuscito a fare.
«Mi è solo sembrato diverso. Dà quasi l’impressione di aver risparmiato a se
stesso quella corruzione che generalmente anima la sua specie.» aveva ammesso
infine, anche se non era esattamente tutta la verità, benché rappresentasse
forse la ragione più importante.
«Nessun bambino nasce corrotto, Junpei, non nella loro specie più che nella
nostra. È la via che intraprendono – che tutti noi scegliamo – che ci porta al
male o al bene. È un delicato equilibrio che esiste già dentro di noi, questo
lo sai.» aveva fatto notare, rivolgendogli un’occhiata eloquente sebbene
bonaria e priva della sfumatura di un rimprovero.
Allora Junpei aveva pensato agli incontri di quegli anni, alle volte in cui
Teppei era tornato come un fedele suddito nel luogo d’incontro, sempre
fiducioso e come se nemmeno lo sfiorasse il dubbio di non dover essere lì o che
avrebbe atteso inutilmente qualcuno che non si sarebbe presentato. A volte il
tengu era rimasto ad osservarlo in cima a qualche albero, pur arrivando prima
del ragazzino, curioso di vedere se si sarebbe stancato di aspettare e se si
sarebbe arreso, tornando sui propri passi.
Non era mai successo.
Non soltanto quando Teppei era stato bambino, ma anche crescendo e raggiungendo
gli anni dell’adolescenza, in cui tutt’ora si trovava; nulla lo aveva mai
scoraggiato, e quando alla fine Junpei finalmente si mostrava a lui come se
fosse arrivato in quel momento, c’era sempre un sorriso ad accoglierlo; quello
e un incomprensibile ottimismo.
Il ragazzino andava a trovarlo quando poteva, tranne che in inverno: con la
neve era troppo pericoloso addentrarsi nei sentieri di montagna non solo perché
si rischiava di perdere la via, ma anche perché il freddo era pungente e il
tempo variava fin troppo facilmente. Una sola volta quell’umano aveva azzardato
tanto e Junpei lo aveva recuperato davvero per un pelo in mezzo agli alberi e
alla neve, intirizzito e con le guance e il naso rossi, da tutt’altra parte
rispetto al solito spiazzo vicino al torrente. Aveva visto per la prima volta
una legittima paura nel suo sguardo e occhi lucidi che preannunciavano il
pianto – e aveva pianto, specie dopo che Junpei gli aveva gridato contro di
essere troppo stupido per meritarsi di essere salvato, perché nessuno sano di
mente avrebbe fatto una cosa del genere e quella era stata l’unica volta che
Teppei aveva alzato la voce contro di lui.
Per tutto il tempo, tra le mani aveva tenuto una sciarpa per lui – per Junpei –
aspettando, per paura che il freddo della montagna fosse troppo persino per un
tengu.
Junpei la teneva ancora, sebbene non la usasse granché e dal momento in cui
l’aveva accettata, posando una mano fra i capelli castani in un gesto gentile
che aveva sorpreso lui stesso, non era stato più capace di odiare quell’essere
umano così piccolo e già così testardo.
«Ah, Junpei-san!» lo sentì
prima ancora di individuarlo, seduto all’ombra di un albero vicino al corso
d’acqua,una mano levata in aria
per farsi notare. Non che servisse davvero: in sei anni di incontri – durante i
quali erano stati più i racconti di Teppei sugli umani, che non i suoi sulla
propria razza – lo aveva visto crescere ad una velocità sconvolgente per lui,
che con gli uomini aveva sempre avuto poco a che fare, fino a superarlo in
altezza di tutta la testa. In ogni caso, non c’erano così tante persone in
quella zona da non essere fin troppo facile da individuare in mezzo al verde.
Scese, fluttuando come se fosse la cosa più normale del mondo, fino a toccare
terra con i piedi: era passato il periodo in cui Teppei si stupiva di tutto
come era ovvio che un umano facesse. Ora era abituato a quasi tutto ciò che di
sovrannaturale c’era in Junpei: fluttuare in aria, le ali dal piumaggio scuro
che non sempre nascondeva visto che ormai non ce n’era davvero bisogno con lui,
alcune vecchie usanze dei tengu e così via. Su richiesta una volta gli aveva accennato
qualcosa della loro società di tipo gerarchico, senza mai andare troppo nello
specifico comunque; Teppei sembrava sempre farsi bastare ciò che diceva, senza
lamentarsi quando si interrompeva come se oltre ciò che pronunciava vi fossero
segreti inconfessabili.
Al contrario, Junpei quando l’altro era bambino non lo aveva frenato troppo nei
suoi racconti – quando si era abituato al fatto che chiacchierasse più di lui
di tutti i novizi tengu messi assieme, per il semplice fatto che Teppei non era
in soggezione in sua presenza a causa di un rapporto di subordinazione.
Aveva appreso da lui molto più di quanto avrebbe davvero voluto sapere degli
umani in quell’epoca, ma fortunatamente i racconti avevano sempre avuto quel
qualcosa di personale da renderli non un riassunto su una razza che a conti
fatti non amava granché, ma più una narrazione di ciò che Teppei vedeva,
sentiva.
Così era venuto a conoscenza del fatto che vivesse con i nonni – e non aveva
mai chiesto dei suoi genitori di proposito – in quel paesino, fatto di troppi
adulti e troppi pochi bambini della sua età; che l’educazione dei due anziani
però era probabilmente ciò che aveva reso quel ragazzino meno sgradevole di
molti altri della sua specie, ciò che aveva conservato in lui quell’innocenza che
aveva notato fin dall’inizio, seppure inconsciamente.
Ogni volta Teppei gli raccontava qualcosa di nuovo, ma sempre dall’atmosfera
quotidiana e personale: della scuola degli umani, non poi così diversa
dall’ambiente di prima formazione dei tengu, degli amici, del tempo libero, dei
cibi che gli piacevano e quelli che non amava mangiare, di quelli che imparava
a cucinare e di quelli che erano ancora troppo ostici da fare. Gli aveva
raccontato della volta in cui in un tema scolastico aveva parlato di Junpei,
anche se non aveva detto che era un tengu, e di come lo avessero preso in giro
quando si era rifiutato di portare i compagni da lui perché aveva promesso di
non dire mai dove il tengu vivesse e per questo era stato considerato un
bugiardo. Del giorno in cui suo nonno si era arrabbiato con lui perché Teppei
aveva portato in casa un cucciolo abbandonato e sua nonna gli aveva insegnato,
con pazienza e dolcezza, che prendersi cura di un altro essere vivente era
difficile e comportava grandi responsabilità; che non era un impegno che si
potesse prendere a cuor leggero, perché se poi non si era in grado di portarlo
a compimento l’altra parte avrebbe sofferto.
In quell’occasione – come in altre seguite negli anni – Junpei aveva guardato
quello che era poco più di un bambino parlare di cose tanto complicate come
prendersi cura di un’altra persona e gli aveva rivolto un raro gesto gentile,
notando come il viso di Teppei si illuminasse di un sorriso felice e grato,
qualcosa a cui Junpei non era mai stato abituato.
«Quando mi chiami in quel modo mi ricordo che sei ancora un moccioso, solo più
grosso.» pronunciò quando fu ad un paio di passi da lui, incontrando sul suo
viso niente di diverso dal solito incurvarsi di labbra allegro e gentile che lo
accoglieva sempre. Lo vide spostarsi leggermente di lato, per fargli spazio
all’ombra; Junpei si sedette a gambe incrociate.
«Ma ho sempre usato ‘Junpei-san’ da quando ci conosciamo.» fece notare, mentre
dal proprio lato sinistro recuperava una borsa e tirava fuori da essa un contenitore
per il bentou, posandolo davanti a sé e aprendolo.
Junpei aveva smesso di considerarla un’offerta di quelle che gli umani facevano
agli spiriti o alle divinità molto tempo prima, limitandosi a servirsi quando
Teppei gli diceva di farlo senza problemi.
«Non dovresti proprio avere a che fare con i tengu, a dirla tutta. L’avrai pure
qualche amico della tua età, ormai, no?» proruppe con fare burbero; non era la
prima volta che cercava di spingere Teppei a frequentare gli umani più che
quelli come lui, ma fino a quel momento la testardaggine dell’altro si era
rivelata quasi al livello della
propria.
«Certo che ne ho. A scuola, e anche al lavoretto part-time che sto facendo
quest’estate.» replicò allegro «Ma sono due discorsi diversi.» aggiunse – ecco,
si disse Junpei, aveva cantato vittoria troppo presto.
Sbuffò sonoramente, recuperando le bacchette che nel frattempo Teppei gli aveva
porto, prendendo con esse una delle piccole omelette
del bentou; se non altro, era sempre tutto buono.
Passarono diverso tempo in silenzio, limitandosi ad assaporare il pranzo. Solo
ogni tanto Teppei chiedeva se questo o quello gli piaceva – inutilmente, perché
dopo sei anni sospettava che conoscesse fin troppo bene i suoi gusti – e poi
taceva di nuovo.
Junpei con il tempo aveva imparato che il silenzio di Teppei poteva essere
interpretato solo in alcuni modi e sempre gli stessi: o dormiva, o pensava. Il
secondo caso non era mai un bene.
«Junpei-san, mi stavo chiedendo» esordì, l’espressione pensierosa «una volta mi
hai spiegato che i tengu depongono uova e nascono da quelle, giusto? Quindi non
vi sposate? O c’è una cerimonia simile?» domandò con quella sfumatura di
curiosità che aveva sempre avuto, affiancata dalla capacità – che sembrava
profondamente e tragicamente radicata
nel suo essere – di fare domande scomode o indiscrete.
Junpei sorrise, in modo diverso dal più giovane: non sarebbe stata quella la
prima volta che gli rifilava informazioni assurde o esagerate, anche se lo
aveva fatto soprattutto quando era ancora un bambino, capace di credere a tutto
ed entusiasmarsi con poco, per quanto irreale suonasse.
«Ci sono anche matrimoni, certo.» iniziò quindi «Per prima cosa, si va dal
tengu più anziano del clan e si chiede la sua benedizione. Poi si va a proporsi
alla famiglia e generalmente il padre o il fratello maggiore sottopone il
pretendente ad una prova sulla montagna che dura tre giorni e tre notti. Se
all’alba del quarto giorno il pretendente ha superato la prova ed è ancora vivo» sottolineò,
sogghignando appena e guardando Teppei con la coda dell’occhio «la proposta
vera e propria può essere fatta, e il fidanzamento diviene ufficiale. A quel
punto il matrimonio è questione di tempo.» concluse.
L’assenza di una replica sorpresa da parte dell’altro, però, lo indusse a portare
completamente lo sguardo su di lui, perplesso nel trovarlo serio, quasi
impensierito.
«Ohi.» lo richiamò, pronto a spiegargli che non c’era granché di vero in quanto
aveva appena raccontato, inventando di sana pianta, che Teppei inspirò e si
voltò in sua direzione: «Junpei-san, tuo padre è ancora vivo? O hai un fratello
maggiore?» domandò.
«Eh?»
«La persona che deciderà la prova per il tuo pretendente, chi è?» chiarì meglio
guardandolo, serio in volto.
Solo quando non lo vide sorridere e non riuscì a scorgere nemmeno l’ombra della
curiosità infantile che aveva sempre animato il suo sguardo, Junpei comprese.
Quella domanda non era interesse per una razza.
Era una questione personale.
Note utili:
1. –dono: versione
"superiore" al -san (ma non corrisponde al -sama),
molto formale e utilizzato quando si ha un rispetto davvero elevato verso una
persona. (wikipedia) Generalmente, aggiungo,
utilizzato da un sottoposto ad un superiore volendo, in tempi antichi.
2. Tengu:
creatura fantastica dell’iconografia popolare giapponese. Generalmente sono
raffigurati come uomini-uccello. Siccome riassumerlo in una nota è un suicidio,
vi rimando a wikipedia.
3. Bentou:
il pranzo al sacco giapponese.
Capitolo 2 *** Back to back - are we closer than before? ***
2.
Back to back – are we closer than before?
Ciò che da bambino aveva
spinto Teppei ad andare a cercare Junpei era stato qualcosa che andava oltre la
semplice, infantile curiosità e che non aveva niente a che fare con l’essere
senza amici, anzi. Era vero che il paese ai piedi della montagna in cui viveva
con i suoi nonni non vantava certo la presenza di molti bambini della sua età
con i quali giocare, ma non si poteva nemmeno parlare di totale isolamento.
Oltretutto, Teppei era sempre stato un ragazzino estremamente socievole e,
nella sua semplicità, piuttosto portato nel relazionarsi con gli altri: aveva
un modo di fare gentile, che crescendo si era fatto persino più dolce, complice
quel riguardo nei confronti altrui che si sviluppa crescendo e che in lui aveva
trovato solide basi anche nel modo in cui sua nonna gli aveva insegnato a
prendersi cura degli altri e quanto farlo fosse importante.
Quando Junpei gli aveva finalmente rivelato il suo nome, smettendo quindi di
confondergli la mente, Teppei non aveva pensato mai a lui come mostro, sebbene
le ali di corvo e la corporatura un poco diversa dagli adulti umani a cui era
abituato fossero evidenti. Era sempre stato affascinato da lui: da bambino lo
era stato come se una favola avesse improvvisamente preso forma di fronte ai
suoi occhi; da ragazzino era stato come sentirsi in qualche modo un
privilegiato, ad avere un amico – perché così considerava Junpei – tanto
speciale. Poi però, crescendo ancora e facendo passare gli anni,
quell’infantile bisogno di vederlo, che una volta avrebbe accostato al
desiderio di ascoltare aneddoti che il tengu gli raccontava, era diventato
diverso. La curiosità era divenuta pura e semplice voglia di stare insieme,
condividere uno spazio, sfiorarlo in movimenti casuali; il fascino per una
creatura diversa si era trasformato in profondo affetto, che era andato
spandendosi come una macchia il cui inchiostro veniva avidamente assorbito
dalla carta.
Teppei si era riscoperto affascinato non dal sovrannaturale che c’era in
Junpei, ma dall’umanità che negli anni aveva scorto in lui, sfumatura dopo
sfumatura; e, lentamente, si era ritrovato ad amare di lui ogni espressione,
ogni parola – anche quelle non proprio gentili –, e a desiderare di sfiorarlo
con un sentimento ben più difficile, complesso e forte di quanto non avesse mai
provato prima.
Voler accompagnare Junpei
per tutta la propria vita non era stata una decisione presa con leggerezza, o
mossa da un’inclinazione momentanea. Avrebbe potuto pensarlo a quindici anni,
quando per la prima volta aveva sentito il bisogno di poter rivendicare un
qualche “diritto” su di lui, per quanto brutto potesse suonare detto in quel
modo.
A quindici anni poteva essere la curiosità, e a sedici una cotta momentanea;
per questo non aveva detto nulla, continuando ad incontrarlo normalmente.
Ma ora aveva diciotto anni e nulla di quel primo istinto era cambiato, anzi,
aveva finito con l’intensificarsi: voleva appartenere al tengu e viceversa.
Tuttavia non era stato così ingenuo da ignorare volutamente il loro essere di
due razze diverse, e tutto ciò che questo avrebbe potuto implicare: usanze,
modi di pensare e costumi diversi dai suoi, anche e soprattutto per quanto
riguardava l’unirsi a qualcuno. Aveva cercato spesso di indagare mascherando
l’interesse come semplice e pura curiosità per un mondo sconosciuto e con poche
cose in comune con il proprio, e aveva custodito ogni informazione con cura per
poter avere un quadro più completo possibile prima di chiederglielo.
Prima di sperare di essere abbastanza per Junpei, anche se era soltanto un
essere umano.
Ad essere completamente sincero almeno con se stesso non si era aspettato una
risposta affermativa… ma neanche la reazione negativa a cui aveva assistito: il
tengu era passato dalla confusione, all’incredulità, alla rabbia. Quell’ultimo
sentimento, una volta che era stato visibile e riconoscibile sul suo viso,
aveva colpito Teppei: aveva sperato in una sua reazione ed era pronto al fatto
che non fosse necessariamente positiva, ma non aveva mai desiderato leggere nel
suo sguardo quel che invece vi aveva scorto.
Rifiuto totale e immediato, senza possibilità di appello, tanto che si era
sentito le gambe molli, incapaci di sostenere un peso che non aveva mai
avvertito così insostenibile prima di quel momento: il peso di se stesso e di
quello che era – e di ciò che provava.
Junpei lo aveva rifiutato con una tale forza che Teppei era stato quasi
intontito per la prima manciata di secondi in cui l’altro aveva parlato,
dandogli dell’idiota almeno ogni due parole e sbraitandogli contro; a
sorprendere l’umano non era stato tanto l’alzare la voce, a cui si era abituato
con gli anni classificandolo come semplice modo di fare del tengu, ma la forza
del categorico “no” che quella stessa voce aveva pronunciato.
Era stato come se Junpei, pur non dicendolo per intero, avesse reso chiaro
quanto la sola idea di corrispondere ciò che Teppei aveva chiaramente messo a
nudo con quella proposta fosse per lui inaccettabile.
Era sembrato quasi disgustato e quello aveva fatto più male di tutto il resto,
persino del rifiuto a proseguire oltre la conversazione e del suo voltarsi e
andare via senza aggiungere una sola parola, né assicurargli con un saluto che
si sarebbero rivisti.
«Cosa succede?» sentì domandare così vicino al proprio orecchio da sussultare,
non essendosi minimamente accorto dei movimenti con cui sua nonna aveva varcato
la soglia del salotto, inginocchiandosi lì nel corridoio esterno e posando
accanto a lui – lo notò solo in quel momento – un vassoio con un bicchiere di
tè freddo.
La guardò confuso per qualche istante, prima di aprirsi in un sorriso leggero: «Cosa?»
chiese di rimando, osservandola sedersi accanto a lui e posare lo sguardo sul
piccolo giardino su cui quel corridoio si affacciava. La calura del giorno
aveva lasciato il posto ad una serata fresca e con una brezza leggera, ma
piacevole.
«Quando eri bambino, sai» iniziò la donna, senza lasciar vagare troppo lo
sguardo altrove rispetto al punto in cui lo aveva fatto sostare «non piangevi
mai. Io e il nonno ci siamo preoccupati tanto, anche se i vicini dicevano
sempre “Tecchan è davvero un bravo bambino, non piange mai”.» prese a
raccontare, attirando la sua attenzione. A dire il vero non capiva del tutto il
perché di tanta ansia di fronte al suo non piangere spesso quanto i suoi
coetanei.
«I bambini hanno il grande privilegio di poter mostrare tutto quello che
provano senza essere giudicati, perché hanno la sincerità per farlo. Ridono
quando sono felici, urlano quando qualcosa non va, piangono quando sono tristi.
Ma io e tuo nonno non sapevamo mai se qualcosa non andava, dovevamo capirlo
dalle tue espressioni o da qualcosa di insolito che potevi fare. Penso»
continuò, voltandosi e rivolgendogli un sorriso amorevole «che avremmo dovuto
dirti che piangere andava bene. Però ora sappiamo che quando parli meno del
solito qualcosa ti preoccupa, e che quando guardi fuori come ora, è successo
qualcosa di importante.» concluse stupendo il nipote, sebbene non
negativamente.
Ai suoi occhi sua nonna era sempre stata brava non solo a capire le persone, ma
anche a comprendere come rapportarsi a loro nei momenti in cui nessun altro
sapeva come fare; aveva sempre ammirato, di lei, quella capacità di stare
accanto agli altri senza mai risultare invadente, ma una presenza desiderata e
ben voluta.
Abbozzò un sorriso: «Non ho proprio segreti, per voi.» disse, non rimpiangendo
la cosa, anzi.
L’anziana si lasciò sfuggire una risata sommessa: «La famiglia è così, Tecchan.
Devi trovare il modo di proteggere le persone che ami, anche se loro ti amano
meno o se per farlo devi sacrificare qualcosa. Ma di solito per il loro
benessere ne vale sempre la pena.» ammise, allungando una mano e posandola sul
braccio del nipote, con gentilezza.
Teppei sospirò piano, portandone a sua volta una su quella di lei, stringendola.
Non aveva mai preso in considerazione di parlare ai suoi nonni di Junpei: non
tanto perché fosse preoccupato del loro giudizio in merito al sesso dell’altro
o per la sua natura non umana – per quanto c’era una possibilità che non la
prendessero subito bene, appartenendo ad una generazione molto attaccata alle
tradizioni e alla superstizione –, perché sapeva che l’amore di quella coppia
che lo aveva cresciuto come se fosse loro figlio superava qualsiasi altra cosa.
E perché erano stati proprio loro ad insegnargli non tanto la tolleranza,
quanto che la forma della felicità variava da persona a persona e che nessuno
aveva alcun diritto di giudicare quella altrui.
“Ci sono cose” diceva suo nonno, specie quando Teppei era piccolo, “che ognuno
vede da sé”; ai tempi non aveva capito cosa intendesse ma ora pensava che gli
fosse più chiaro.
Si era semplicemente abituato a non parlare di certe cose con loro.
«Nonna, quando il nonno ti ha chiesto di stare con lui come l’hai presa?»
chiese, in un modo molto indiretto di parlare del vero problema che lo
assillava. L’anziana, tuttavia, sembrò comprendere comunque dove il nipote
volesse arrivare e ridacchiò piano portando una mano a coprire la bocca, in
quel gesto meccanico che faceva parte di tutti i ricordi d’infanzia di Teppei.
«Mmh…» fece lei, con quel qualcosa di meditabondo che
sembrava essere parte degli anziani, una calma tutta personale con cui si
affrontano cose già viste, già vissute: «Molto, molto felice. Ma prima della
felicità, credo di essermi sentita in ansia.» ammise con la dolcezza nel tono
di voce e negli occhi che vagavano per il giardino come poco prima aveva visto
fare a suo nipote. Teppei, da parte sua, era sorpreso da quella risposta e lo
si notava facilmente dall’espressione che ne rispecchiava completamente la
confusione: «In ansia?» le fece eco vedendola sorridere amorevolmente, pur
senza tornare a guardare lui.
«Vedi, Tecchan» iniziò «io amavo molto tuo nonno già allora. L’affetto dell’uno
per l’altra era del tutto ricambiato e tutte le persone desiderano questo.
Tuttavia la vita è molto lunga, anche se a volte ci sembra tanto breve.»
proseguì e al ragazzo sembrò quasi di assistere a quelle che molti chiamavano
“reminiscenze”. Sembrava di vedere una persona in trance, o meglio ancora, di osservare qualcuno che vedeva e sentiva
cose che non si percepivano affatto; ricordi, pensò – sua nonna non vedeva il
giardino, non sentiva la brezza sulla pelle. Probabilmente vedeva un paesaggio
di un’altra stagione e un giovane affascinante di fronte a sé che di lì a poco
le avrebbe chiesto di sposarla dieci, cento, mille volte, tante quante avrebbe
rivissuto quel prezioso frammento di memoria.
«Decidere di condividere la propria esistenza con qualcuno, per tutta la sua
durata, non è una decisione che si prende a cuor leggero. Devi sapere che in
tutti quegli anni che vi aspettano ci saranno momenti belli ma anche molti
difficili, o dolorosi. Volte in cui si potrebbero dire cose che non si pensano,
anche. Ma c’è un’altra cosa.» e solo in quel momento portò lo sguardo sul
nipote, il sorriso ancora ad incurvarle le labbra sottili estendendo quella
dolcezza non solo alla bocca ma anche agli angoli degli occhi, con le loro
rughe e il loro modo familiare di farsi appena all’ingiù.
«Dopo tanti anni, bisogna essere pronti a dire addio.» disse, in un modo che
Teppei non sapeva bene come interpretare in realtà, nonostante il tono di voce
dell’anziana non fosse mutato rispetto a poco prima. Eppure quelle parole lo
colpirono: non era mai stato così ingenuo da non notare che i suoi nonni, che
per lui erano praticamente dei genitori, fossero più avanti con l’età di tutti
i padri e le madri dei suoi compagni e amici, ma… non aveva mai preso in
considerazione che lui sarebbe potuto rimanere solo con uno dei due; che, un
giorno, lei o lui avrebbe lasciato l’altro. Il pensiero di loro due separati
era così innaturale da farlo sentire a disagio nel formularlo, sebbene fosse
cosciente del realismo insito nello stesso.
E capì: certo, non era da escludere che la rabbia e il rifiuto di Junpei
fossero dovuti anche a molto altro, ma si rese conto, Teppei, di quanta
leggerezza ci fosse stata nelle sue parole anche se lui era convinto di aver
preso in considerazione ogni eventualità quando le aveva pronunciate.
Solo ora capiva davvero tutto
l’egoismo a cui aveva dato voce nel momento in cui aveva implicitamente
proposto a Junpei di legarsi a qualcuno che un giorno, indipendentemente dalla
sua volontà, lo avrebbe lasciato da solo abbandonando quel mondo perché
mortale.
I novizi avevano inquadrato subito la situazione, sebbene ci si sarebbe
aspettato il contrario. Certo, nessuno di loro poteva vantare di aver intuito
anche quale fosse la motivazione dietro l’evidente malumore di Junpei; tuttavia,
proprio l’essere stati a stretto contatto con lui per gli insegnamenti che
impartiva, li aveva in qualche modo aiutati ad individuare le prime avvisaglie
della sventura che stava per abbattersi su tutti loro.
Sì, perché Junpei nel pieno di un umore nero quasi quanto le sue ali di tengu era
qualcosa che nessuno – esperto o meno – avrebbe mai augurato a se stesso o alla
comunità.
Qualche giorno prima era tornato, da dove nessuno di loro lo sapeva, ed era
stato inavvicinabile da allora: più sgarbato del normale, irascibile ben oltre
il sopportabile; il tutto senza un apparente motivo. Se da una parte, inizialmente,
molti di loro avevano pensato a qualche errore o mancanza dei più giovani a cui
l’altro avesse dovuto rimediare a causa della sua posizione, presto
quell’opzione si era fatta sempre meno plausibile. Sfumata via, a differenza di
quella rabbia che rendeva la figura di Junpei tesa e inavvicinabile.
Lo stesso tengu non faticava ad immaginare, se si applicava a farlo
razionalmente, quanto insostenibile dovesse essere divenuto il tutto per
portare i suoi compagni a richiedere l’intervento dell’Anziano. Non riusciva a
fargliene davvero una colpa, nei vaghi momenti di lucidità in cui analizzava la
cosa – vaghi e brevi, rimpiazzati dalla figura di Teppei, dalle sue sciocche
parole, dall’irritazione per le stesse e convogliando tutto in un moto di forte
stizza verso qualsiasi cosa.
Credevano che farlo parlare con l’Anziano avrebbe migliorato le cose? Non
sapevano nemmeno quale fosse il problema, né nessuno di loro si era degnato di
chiedere!
Bastardi senza spina dorsale, ecco a chi stavano mettendo in mano la comunità
con l’avanzare delle generazioni! Oh, ma gli avrebbe fatto sputare piume e
sangue durante l’addestramento, poco ma sicu—
«Junpei.» gli arrivò all’orecchio un richiamo bonario ma dal tono fermo, segno
che non doveva essere stato il primo, sebbene lui non avesse avuto minimamente
sentore degli altri. Abbandonando i suoi pensieri e alzando lo sguardo di
fronte a sé lo accolse lo sguardo dell’Anziano.
Quasi fosse di nuovo un tengu alle prime armi, come l’aura dell’altro lo aveva
sempre fatto sentire a prescindere dalla propria età e posizione gerarchica
nella comunità, chinò il capo in un saluto rispettoso benché un poco incerto.
Il più grande si era già accomodato di fronte a lui, e un giovane novizio
posava ora di fronte ad entrambi una tazza di tè.
Junpei strinse i pugni, frustrato, lo sguardo rivolto al pavimento: se anche
l’Anziano si fosse interessato alla problematica e gli avesse chiesto cosa
fosse accaduto, come avrebbe potuto spiegargli l’accaduto? Certo, si era sempre
dimostrato ben più benevolo dello stesso Hyuuga nei confronti degli umani, ma
un conto era la convivenza pacifica tra due specie e un altro era dire che uno
stupido mortale si era messo in testa di… proporsi come compagno di vita. Gli
veniva stizza solo a pensarci – o forse era irritato dal fatto che la prima
motivazione che aveva trovato al categorico “no” pronunciato non fosse stato il
disgusto, ma una serie di regole scritte e non della sua comunità.
«Questo è sempre stato tipico di te, Junpei.» sentì esordire l’altro tengu,
alzando nuovamente lo sguardo su di lui, incoraggiato o forse persino esortato
da quelle sue parole: «Questo cosa?»
«Il modo che hai di innervosirti come se non ci fosse mai una soluzione al
problema.» chiarì con un sorriso benevolo; Junpei si sentì messo a nudo come un
ragazzino e, esattamente come se lo fosse ancora, tentò inutilmente di negare
l’evidenza: «Cosa vi dice che io abbia un problema?» azzardò, inarcando appena
un sopracciglio e ritrovandosi a far fronte alla reazione che meno ci si
aspetterebbe dal capo di una comunità che cerca di mettere ordine fra i suoi
appartenenti.
Una risata divertita.
«Junpei, conosco buona parte dei tuoi pensieri ancor prima che tu li formuli.»
lo redarguì con tono divertito «Inoltre quando sei irritato per cose di poco
conto che tu reputi ostacoli insormontabili sei particolarmente divertente da
osservare.» ammise senza nemmeno tentare di mascherare la palese presa in giro
nelle proprie parole.
Junpei fece per replicare, punto sul vivo, ma si astenne; non che ci fosse modo
di spuntarla in uno scontro verbale con quello che a conti fatti era stato il
suo maestro.
«…Non prendetevi gioco di me, o almeno non così apertamente.» borbottò con tono
burbero, allungando una mano per prendere la tazza e sorseggiare del tè –
prendere tempo, e aspettare la domanda a cui non avrebbe dovuto rispondere
volente o nolente.
«Va bene, va bene…» fece l’Anziano, prendendo a sua volta la tazza ma
limitandosi a rigirarla pigramente tra le mani; il silenzio fece sentire Hyuuga
ancora più sotto pressione, nonostante il suo interlocutore sembrasse del tutto
rilassato. E, soprattutto, per nulla intenzionato a prendere il discorso tanto
presto come Junpei aveva temuto. Tuttavia si rendeva conto che non si trattava
affatto di disinteresse, in quel momento, anzi; il tengu gli stava solo usando
la cortesia di lasciare che fosse lui stesso ad iniziare a parlare, senza
bisogno di essere “obbligato” come i novizi, troppo timorosi per pronunciarsi
senza essere interpellati.
Cercava di mettere insieme la frase giusta. Non tutto il discorso, no, sperare
in tanto sarebbe stato utopico non solo perché non c’era un modo corretto di
affrontare l’argomento, ma anche perché lui – Junpei – non era affatto ferrato
su quegli argomenti. D’altronde non si poteva certo attribuire al caso, che lui
non avesse eredi diretti.
«Ricordate l’umano di qualche tempo fa?» tentò, poco sicuro che fosse l’inizio
che aveva tanto cercato, ma arrendendosi a quello in mancanza di qualcosa di
meglio. L’altro sorseggiò il proprio tè, lasciando credere a Hyuuga di stare
facendo mente locale; chiaramente non era affatto così: «Il giovane che di
tanto in tanto incontri ancora?» gli fece eco con quella che poteva sembrare
un’altra domanda, ma che era retorica e lo sapevano entrambi.
Dovette ammettere con se stesso di non avere idea di come interpretare la cosa.
Se incontrare Teppei fosse stato considerato un problema e – com’era ora
evidente – l’Anziano ne fosse stato al corrente fin dall’inizio, di certo a
Junpei sarebbe stato impedito molto tempo prima di continuare con quella sorta
di indulgenza verso se stesso e verso il ragazzo umano. Ed era pur vero che non
c’era traccia di risentimento o rimprovero nella frase che era stata appena
pronunciata.
Decise di azzardare ulteriormente: «Sì, lui.» confermò innanzitutto «Mi ha
posto una domanda strana. Direi del tutto insensata e fuori luogo!» si affrettò
a correggersi, guardando lui direttamente il tengu che gli stava di fronte,
aspettandosi forse l’occhiata di chi sa già tutto, o una di rimprovero, oppure
di disapprovazione.
Ma trovò solo l’espressione placida di chi attende pazientemente di sentire il
resto.
Junpei aveva avuto fin da
giovanissimo quello che poteva considerarsi tanto un pregio quanto un difetto,
ossia l’abitudine a parlare di getto una volta che si riusciva a farlo
confidare. Era stato un percorso piuttosto lungo, perché era stato il tipo di
tengu che cercava di darsi un contegno anche quando la posizione di novizio gli
avrebbe in qualche modo “concesso” errori o infantilismi, com’era stato per i
suoi coetanei. Invece, forse l’essere diretto discepolo di uno dei candidati a
divenire capo della comunità – come poi era effettivamente avvenuto – doveva
averlo fatto sentire in dovere di apparire migliore, di evitare gli errori
grossolani e le distrazioni eccessive. Come logica conseguenza, non era mai
stato il tipo di tengu che faceva gruppo, benché l’attaccamento alla comunità
fosse comunque radicato in lui; già all’epoca l’Anziano aveva trovato diverse
difficoltà nel farlo aprire quando c’era un qualche problema o dubbio ad
assillarlo al punto tale da divenire irascibile come in quel caso. In quello
Junpei sembrava non essere cresciuto poi molto, dopotutto.
Come aveva imparato negli anni, quindi, il vecchio tengu si era solo seduto e
aveva atteso i suoi tempi, che si sentisse pronto a parlare, anche se di certo
lo avrebbe fatto lasciandosi trasportare dalle emozioni; non era qualcosa di
strettamente negativo, ma sapeva anche che Junpei era difficile da comprendere,
se non vi era un certo controllo nel modo in cui esponeva i fatti.
Ascoltò in silenzio di come Hyuuga si fosse affezionato a quel bambino umano –
ma era certo che il più giovane non se ne fosse reso conto –, e di come si
fosse dimostrato indulgente nell’atto stesso di permettergli e permettersi di vederlo di nuovo, anno dopo anno.
Di come non se la fosse sentita di abbandonarlo, anche se aveva mascherato la
cosa come insofferente noia e assenza di cose da fare.
Man mano che il racconto dell’altro era andato avanti, il vecchio tengu aveva
realizzato con facilità dove sarebbero andati a parare alla fine; e quando
Junpei, indignato, arrabbiato e innegabilmente imbarazzato accennò alla
dichiarazione dell’umano, l’Anziano non riuscì a fingersi stupito.
Il tè nella tazza quasi finito inspirò, tacendo ancora, riconoscendo in Junpei
il disagio dato dalla poca abitudine a parlare di cose molto private o che
implicavano i sentimenti. Voltò lo sguardo verso la propria destra, incontrando
l’esterno della stanza in cui stavano parlando. Benché conscio di stare
lasciando sulle spine il più giovane, attese ancora.
Quando parlò, gli sembrò di sentire la tensione del suo discepolo scivolare via
almeno in parte: «Siamo vicini al cambio della stagione, mh?»
esordì, il tono lontano di chi ha vissuto troppi anni per riuscire a raccontare
tutto quello che ha visto.
«…Scusate?» pronunciò Junpei, troppo stupito da quella frase senza nessun senso
logico rispetto a ciò di cui stavano discutendo e che tanto lo aveva fatto
infuriare.
«Noi vediamo molte primavere, Junpei.» proseguì l’altro «Molti inverni, e
altrettante estati. Autunno dopo autunno le foglie cadono ingiallite. Anno dopo
anno vediamo i fiori di ciliegio fiorire e appassire, la neve rendere impervie
le montagne dove viviamo, le ombre proiettarsi a terra riparandoci dal caldo
torrido, le piogge riempire di umidità l’aria.» osservò il vecchio tengu,
lasciandosi andare quasi pigramente in un sospiro lento e profondo, calmante.
Fermo.
«Junpei, ricordi la tua prima neve?»
«Sì.» ammise, nonostante fossero passati secoli: il gelo sotto i piedi, il
paesaggio così bianco da confondersi con il cielo e sembrare una favola di
quelle che si raccontano solo ai cuccioli, di qualsiasi razza.
«E la neve di dieci anni fa?»
«…Non di preciso, ma era una come tante altre. Non ci sono stati incidenti, né
altro di particolare.» fece notare, senza capire, ma abbastanza certo di quanto
diceva. Solo dopo la sua risposta vide l’Anziano voltarsi con un sorriso
enigmatico sulle labbra, uno che a Junpei ricordò tempi molto lontani, quando
era poco più che fanciullo e c’erano tante cose del mondo che non riusciva a
comprendere.
«Noi viviamo moltissimi anni, Junpei. Ma quelli davvero importanti sono quelli
che riesci a ricordare con precisione.» disse «Quel che devi domandarti è se
ricordi o meno le stagioni passate con quell’umano che ti fa tanto arrabbiare.
Il resto non è molto importante. Siamo una razza meno problematica degli
uomini, per quelle quisquilie mortali che tanto li impensieriscono.» concluse.
Hyuuga si sentì sciocco, nel ricordare ogni stagione e ogni incontro, dal
giorno in cui si era arreso a quel bambino così stupido di nome Kiyoshi Teppei.
Junpei aveva fatto quel che gli era sempre riuscito bene, grazie alla sua natura
piuttosto longeva: rimandare. Aveva giustificato a se stesso il non aver
cercato Teppei e il non essersi recato al luogo dell’appuntamento in mille
modi: gli impegni per la comunità, gli insegnamenti ai novizi, il festival
estivo che ogni anno riuniva i tengu dei clan limitrofi.
Fingeva di stare pensando, ma a cosa non lo sapeva nemmeno lui; combattuto tra
il dover necessariamente trovare un modo dire a Kiyoshi che sbagliava, e la
convinzione che l’altro avesse già dimenticato, già rimosso, che potesse essere
uno scherzo – ma lo sguardo serio con cui lo aveva guardato gli tornava in
mente e allora, non senza una certa irritazione, capiva che fingere che l’altro
non gli avesse parlato con il cuore in mano sarebbe stato troppo persino per la
sua abitudine di inventare scuse per le questioni scomode.
Al tempo stesso, però, Hyuuga si sentiva sempre più frustrato: perché mai
doveva lasciarsi toccare dalle parole di un umano? Non era forse tipico della
razza di Teppei abbandonarsi al fascino iniziale tanto delle cose quanto delle
persone, per poi abbandonare tutto da un giorno all’altro per capriccio o per
noia?
Sì che lo era. Aveva visto troppi umani per non conoscere il loro modo di fare,
e non importava quanto Teppei fosse sembrato diverso fin da bambino, era certo
che ci fosse un solo tipo di adulto che si potesse diventare. Non era così per
tutte le razze, in fondo? Anche i tengu potevano differire più o meno in alcuni
tratti del carattere, ma la sostanza era sempre la medesima.
E allora, si diceva, perché mai perdere tempo?
Teppei avrebbe dimenticato, si sarebbe “annoiato” e alla fine avrebbe lasciato
stare – ma Junpei non aveva alcuna intenzione di diventare l’oggetto
abbandonato o in cui perdere interesse, non nel modo che faceva stare male, non
rispolverando sentimenti sopiti dal tempo.
Con questa conclusione formulata nella propria mente, dopo due interi mesi in
cui aveva osservato Teppei senza mai farsi notare, vedendolo recarsi con
fastidiosa puntualità all’albero dov’era diventata loro abitudine incontrarsi,
Junpei lo avvicinò di nuovo. Se deve dimenticare, si era detto, cancellerò personalmente ogni ricordo.
Dopotutto, non era così che sarebbe dovuta andare fin dall’inizio?
Teppei non ricordava molte
occasioni in cui avesse perso davvero la pazienza, al punto da alzare la voce
senza nemmeno rendersene conto; e, di certo, non aveva mai pensato che si
sarebbe ritrovato a rivolgere quel trattamento a Junpei.
Era stato così felice di vederlo raggiungere quel luogo in cui aveva ormai
perso la speranza di incontrarlo di nuovo, che quasi non aveva creduto ai
propri occhi, finché l’altro – atterrando silenziosamente con i piedi sull’erba
– non aveva palesato la sua effettiva presenza. Teppei si era alzato in piedi
di scatto, temendo stupidamente che se non si fosse sbrigato, il tengu sarebbe
andato via.
Junpei non aveva parlato subito, nemmeno quando lui l’aveva fronteggiato, a
pochi passi di distanza. Teppei aveva atteso in silenzio, forse intuendo che ci
fosse bisogno di tempo, per qualsiasi pensiero stesse cercando di esprimere a
voce Hyuuga.
Quando però la pausa si era fatta un po’ troppo lunga per non preoccuparlo,
aveva azzardato a prendere lui la parola per primo: «Junpei-san…?» aveva
azzardato, facendosi impercettibilmente in avanti con il busto, sollecitando
tacitamente un contatto visivo che il tengu gli concesse per un breve istante,
prima di riportare entrambi gli occhi sul manto erboso.
Forse già questo avrebbe dovuto dar ad intendere al giovane che il loro non era
un incontro voluto da entrambi, in un certo senso; tuttavia la sua natura
ottimista non gli permise di dare forma più definita al pensiero che gli si
agitava in testa da mesi. O almeno, riuscì a tenerlo sopito finché Junpei non
prese finalmente parola: «Dovresti smettere di venire qui. Ti cancellerò i
ricordi ancora una volta.»
Basito, così si era sentito Teppei, e probabilmente l’espressione lo aveva
mostrato subito.
«…Ricorderò di nuovo, come tutte le altre volte.»
«No.» lo aveva interrotto senza guardarlo «Sui bambini usiamo un rituale semplice,
perché più sono giovani, minori sono i ricordi che hanno e rischiamo di
cancellare troppo. Ma ormai sei adulto, è impossibile che io cancelli le
memorie che hai di te stesso o della tua famiglia. Oltretutto sono anni che non
uso alcuna magia su di te, non sei stato più esposto ad essa, quindi dovrebbe
avere maggiore effetto di una volta.» aveva spiegato con una tranquillità che –
Teppei non poteva immaginarlo – non era stato certo avrebbe mantenuto una volta
lì.
Incoraggiato dalla cosa, Junpei aveva continuato: «Dopotutto, gli umani non
dovrebbero sapere della mia comunità. È un pericolo per noi, e non è qualcosa
di cui voglio essere responsabile.»
«Junpei-san…»
«E tu sei umano, hai passato già troppo tempo con esseri con cui non hai nulla
a che spartire.»
«Junpei-san!»
«Decisamente è la scelta più saggia. È la cosa migliore anche per te—»
«Junpei, vuoi smetterla?!» aveva urlato, tanto che persino il tengu aveva
istintivamente alzato lo sguardo per la prima volta da quando aveva iniziato a
dare le sue spiegazioni, ritrovandosi a fissare un’espressione mai scorta sul
volto di Teppei. Era palesemente arrabbiato, certo, ma sembrava in qualche
modo… deluso. E rattristato.
Ma Junpei finse di non riconoscere quelle due emozioni, fissandosi unicamente
sulla prima e attribuendola al suo negargli qualcosa senza il suo consenso.
«Perché sei tu a dover decidere? Perché dici che è meglio per me?» chiese,
guardandolo e facendo un passo in avanti; il tengu avrebbe voluto abbassare lo
sguardo e sfuggire da quello di lui, ma non riuscì a farlo. L’espressione di
Teppei aveva il potere di farlo sentire in colpa – o forse sarebbe successo
comunque.
«È perché sono umano?» chiese a bruciapelo «Ti disgustano così tanto, è per
questo? Perché sono solo l’ennesimo umano, solo uno tra i tanti che non ti
piacciono?!» rincarò la dose, facendo un passo in avanti; Junpei, benché non
avesse di certo nulla da temere da lui, si ritrovò a fare un passo indietro per
riflesso. Dandosi mentalmente dello stupido, senza saper dare una spiegazione
al proprio movimento e atteggiamento, rispose di getto pur sapendo che sarebbe
stato meglio tacere: «S— no!» si corresse all’ultimo momento, ancora una volta
contro ogni logica.
Il piano era chiaro, semplice, facile da mettere in atto: avrebbe spiegato le
sue ragioni a Teppei, che a lui piacessero o meno, dopodiché avrebbe cancellato
dalla sua memoria il ricordo di se stesso (e di ciò che dei tengu gli aveva
raccontato), per poi andarsene per sempre.
Era un tempo immensamente lungo, “per sempre”; ma, si era detto, solo per lui.
Per Teppei sarebbe stato fin troppo breve, e alla fine non avrebbe risentito
della mancanza di qualcuno o qualcosa di cui non ricordava l’aspetto né il
nome.
Invece ora che era il momento decisivo, ora che avrebbe dovuto solo allungare
una mano e instaurare il contatto minimo necessario ad applicare il rituale,
era come se sapesse che toccandolo si sarebbe bruciato. Era razionalmente una
sciocchezza, eppure sentiva di non volere altro che allontanarsi da lui il più
possibile e questa era una sensazione che – nei confronti di un umano – aveva
già provato. Differiva davvero in niente più che una sfumatura, qualcosa di
quasi impalpabile che Junpei non avrebbe saputo nemmeno da dove cominciare ad
analizzare.
«Non riesci a fidarti di me, neanche dopo tanti anni? O sono solo io che ti
disgusto?!» esclamò Teppei, tornando all’attacco.
«Non l’ho mai detto!»
Junpei non capiva. Non avrebbe mai pensato di vedere l’altro così arrabbiato, o
nel panico – in effetti non avrebbe saputo dire con certezza quale delle due
emozioni animasse di più Teppei, o forse erano a modo loro così bilanciate che
non c’era una vera risposta corretta. Era solo strano, ma d’altro canto gli
umani erano così: volubili, certo, ma passionali.
«E allora cosa—?»
«Perché morirai!» urlò con tutto il fiato che aveva in corpo, guardandolo con
un odio che aveva rivolto solo a se stesso e all’egoismo per cui, in quei due
mesi, non era riuscito mai a pensare davvero di non rivederlo mai più: «Morirai
come tutti gli esseri umani, come tutti i mortali e allora resterò soltanto io,
com’è sempre stato! E tu non hai idea di come sia essere sempre e solo tu! Passo l’eternità a vedere la vita
spegnersi con la stessa velocità con cui si estingue un fuoco abbandonato, come
se nulla fosse, come se non fosse importante!
Mi stai chiedendo di darti tutto e poi riprendermelo quando sarai morto? Perché
è questo che stai facendo!»
Teppei lo guardò sorpreso, confuso, incredulo. Avrebbe voluto dirgli che era
così, che le persone prima o poi vanno via, che per quanto le si ami non le si
può tenere al proprio fianco per sempre come si vorrebbe. Avrebbe voluto
dirgli, forse anche sgridandolo, che lui meno di chiunque altro poteva
comportarsi così da bambino; che amare qualcuno non dipende da quanto si è pronti
a dirgli addio, perché pronti non lo si è mai.
Ma si rese conto che forse, nonostante le sue parole potessero farlo sembrare
capriccioso e superficiale, era proprio perché sapeva tutte quelle cose – e che
le aveva probabilmente provate – che Junpei agiva in quel modo e aveva… paura.
Come tutti.
Avrebbe voluto dirgli, allora, che ne valeva la pena. Anche se poi ci si doveva
dire addio.
Avrebbe voluto dirglielo, ma quando aveva allungato una mano per prendere la
sua, Junpei era già sparito.
La prima volta lo aveva rivisto dopo pochi giorni.
Teppei aveva sospirato nel trovare vuoto il luogo in cui erano soliti vedersi e
in cui avevano discusso; Junpei aveva stretto i pugni, stizzito: se dal modo di
fare dell’umano o dal proprio, non lo sapeva.
Se dal suo fuggire o dall’irrazionale pretesa che nonostante tutto Kiyoshi gli
stesse ancora dietro come aveva sempre fatto, non lo sapeva.
Ancora troppo arrabbiato da quello che sarebbe dovuto essere l’ultimo incontro,
non lo aveva chiamato.
Teppei, dopo un’attesa più breve del solito, era andato via.
La seconda volta che lo
aveva rivisto era stato davvero per caso.
Stava controllando il lavoro dei novizi ai confini della montagna – laddove, in
teoria, nessun umano si addentrava mai – e lo aveva intravisto. Anche se non lo
avrebbe mai ammesso con se stesso, era stato naturale seguirlo dapprima con lo
sguardo e poi più da vicino, anche se bene attento a non farsi vedere. Era
stato come riscoprire una sensazione provata anni prima, quando Teppei era
soltanto un bambino; all’epoca Junpei aveva giustificato il tutto come una
sorta di dovere morale, ammettendo che un cucciolo era pur sempre un cucciolo,
a prescindere dalla razza. Così aveva trovato la scusa perfetta per fingere di
lasciare Teppei nel luogo dell’incontro e poi seguirlo fino al limitare della
montagna, assicurandosi che nessuna creatura della foresta gli si avvicinasse,
fosse stato anche solo per curiosità.
Ora che l’umano era però in un’età che la sua razza definiva “adulta”, e che di
protezione si supponeva non avesse più bisogno, cosa mai rimaneva a Junpei come
motivazione ufficiale?
Ne aveva poi davvero bisogno?
Non con i novizi, certo, e nemmeno con l’Anziano che gli aveva aperto gli
occhi. Ne aveva bisogno per se stesso, per credere in quelle parole che aveva
pronunciato a Teppei, dimostrandosi sicuro di sé e della propria decisione.
Così lo aveva seguito, alla ricerca di una sorta di permesso, e lo aveva
osservato restare deluso – dalla propria assenza, si era detto dimostrando
persino una certa arroganza, forse.
Si era fatto avanti solo quando Teppei era ormai lontano, l’attenzione rivolta
totalmente a qualcosa che gli aveva visto lasciare a terra.
Quando aveva preso tra le mani il foglio poggiato con cura sotto un sasso
perché il vento non lo facesse volare via, le poche parole scritte sopra – e
che avrebbero dovuto farlo sentire sollevato – scatenarono in lui tutt’altro
tipo di sentimenti.
Si sentì arrabbiato, preso in giro, rassicurato e infine imbarazzato.
“Non potrò venire per qualche tempo. Ma
tornerò sicuramente, Junpei-san”.
Perché?
Perché poche parole di uno stupido umano dovevano farlo sentire a quel modo?
Durante il tempo passato insieme, raramente a Junpei era capitata l’occasione
di osservare l’altro nel completo silenzio, come ora.
In verità all’inizio era certo che l’assenza di parole e del proprio farsi
notare dall’altro fosse per via della loro ultima discussione, una propria
ponderata scelta per tenere fede alla posizione presa. Per quasi un intero mese
Teppei non si era più presentato, come annunciato in quel breve messaggio, e
Junpei si era detto che quella doveva essere l’occasione perfetta per dirsi
addio.
Aveva mantenuto le distanze. Ma poi…
«Riposati, nonna.» lo sentì pronunciare, lasciando scorrere di nuovo la porta
che doveva dare sulla stanza della signora, evidentemente; gli scorse sul viso
un sorriso affettuoso, ma adombrato dalla stanchezza.
Fingere di non sapere cosa l’avesse portato lì sarebbe stato bello, ma una
menzogna inappropriata al momento: Junpei poteva non avere un carattere facile,
era il primo a riconoscerlo, ma non si poteva dire che fosse irrispettoso in
merito alla sofferenza altrui. Tra l’altro sarebbe stato impossibile non
sentire quell’odore: sembrava essersi attaccato ai muri, penetrando fin nel
legno del pavimento.
Un odore misto di vecchio e nuovo, di naturale e artificiale: incenso e fiori
recisi.
L’odore dei morti.
E appena percepibile, ormai quasi del tutto sovrastato da quello, il sale delle
lacrime; molto meno forte del mare, di cui Junpei aveva sentito raccontare da
piccolo, ma ugualmente riconoscibile.
Teppei stonava lì, pensò; forse perché era sempre stato abituato ad associare a
lui la vita – per quanto più breve della propria – e l’estate, sebbene si
fossero incontrati anche nelle altre stagioni.
Calore, questo associava a Teppei da quando lo conosceva. Nulla che avesse a
che fare con il freddo della morte, ad ogni modo.
«…Scusami se non sono più venuto, Junpei-san.»
Junpei non gli rispose, limitandosi a sedersi alle spalle dell’altro,
accomodandosi; privo delle ali, accuratamente nascoste, sarebbe potuto sembrare
a chiunque un umano dagli abiti strambi.
«Non eri obbligato. Io ti ho cacciato.» osservò soltanto, il tono
innaturalmente calmo.
«Volevo vederti.» ammise con disarmante sincerità «Ma è stato un periodo…»
«Lungo.»
«Già.»
Era strano parlare così con lui: con una calma quasi immobile, e il tono basso
di chi ha paura di svegliare qualcuno.
«Scusami, Junpei-san.» ripeté dopo un tempo che il tengu non avrebbe saputo
quantificare.
«Piantala di scusarti. Avevi lasciato un messaggio.»
«Non per quello.» lo interruppe Teppei, con un sospiro profondo e lento,
facendo aderire – con la titubanza dei primi contatti quand’era bambino – la
schiena a quella di Junpei; forse si aspettava un rifiuto, perché ci volle un
po’ prima che si rilassasse: «Per quello che ho detto quella volta.»
«Mh.»
«Ero solo così arrabbiato… perché io non penso di riuscire a dimenticarmi di
te.»
«Mh.»
«Junpei-san?»
«Dimmi.»
«Credevo di sapere che prima o poi bisogna dire addio. Anche a te ha fatto così
male?»
Junpei tacque qualche istante, sospirando. Era un bene, non doversi guardare
negli occhi: «Ogni volta.»
«Per questo volevi mandarmi via? O è per questo che ora mi tieni la mano?»
disse con un accenno di risata nella voce, ma non di quelle felici. Era più il
tipo di risata nervosa di chi è sull’orlo delle lacrime, e cerca comunque di
non piangere.
Avrebbe potuto dirgli moltissime cose, alcune forse anche brusche e inadatte.
Invece, gli strinse solo la mano, leggermente.
«Sta’ zitto. I ragazzini dovrebbero solo pensare a fare i ragazzini.»
pronunciò con un tono falsamente stizzito.
Non avrebbe lasciato quella mano, almeno finché la schiena contro la sua non
avesse smesso di tremare.
A Teppei non era mai
capitato di non rendersi conto del tempo che passava.
Certo, gli era successo di distrarsi ogni tanto e rendersi conto che fosse più
tardi del previsto, quello sì; ma la sensazione di distacco in merito a ciò che
lo circondava e che accadeva intorno a lui gli era del tutto estranea. Era come
essere lì ed essere isolati al tempo stesso. Fissava gli oggetti, o anche il
vuoto ogni tanto, rendendosi conto di quel che faceva solo dopo – minuti, ma
anche ore.
Distratto, ma non avrebbe saputo dire da cosa; non c’erano pensieri ad
occupargli la mente.
Le persone avevano una
forza di cui forse nemmeno loro stesse erano coscienti. Questo aveva pensato
Teppei, vedendo sua nonna presenziare all’organizzazione del funerale, alla
lettura dei sutra, alla cremazione di
suo nonno che ormai non era più con loro. Teppei si sentiva perso quando
avrebbe dovuto essere un punto di riferimento, e aveva visto in lei il solido
appiglio che era sempre stata, benché pensasse che i ruoli avrebbero dovuto
essere invertiti.
Sua nonna non aveva pianto in nessuna di quelle occasioni e lui non riusciva
del tutto a capire; nonostante quanto detto da lei, ossia che nell’accettare
una vita insieme si accetta di doversi prima o poi separare, non riusciva a
concepire un modo in cui potesse davvero essere così. Credeva che dirlo fosse
facile, che pensarlo finché la persona che si ama gli era accanto fosse
sopportabile. Tuttavia considerava anche impossibile riuscire ad avere fede in
quelle parole anche quando si sentiva un vuoto simile.
Se per lui la perdita di suo nonno – e di un padre, quindi – era così difficile
da assimilare pur avendo vissuto molti meno anni con lui rispetto a sua nonna,
come riusciva lei a non sentire il bisogno di piangere? Teppei credeva di
capire e, al tempo stesso, di non riuscirci affatto.
Non c’erano stati molti parenti. Per lo più le condoglianze erano arrivate dai
compaesani, soprattutto quelli dell’età dei suoi nonni, che avevano condiviso
con loro una vita intera; alcuni dei nipoti, che erano stati compagni di classe
di Teppei, erano passati da casa Kiyoshi.
Il via vai di persone aveva suscitato in lui sentimenti contrastanti: in buona
parte si trattava di gratitudine, non tanto per le parole di circostanza
tipiche di quelle occasioni, quanto per tutte le persone che avevano apprezzato
suo nonno tanto da dispiacersi per la sua scomparsa. Però, forse
egoisticamente, avvertiva quel continuo avvicendarsi di persone in casa
stancante. Una di quelle cose che ti fanno trattenere troppo il dolore dentro,
quando invece avresti bisogno dell’intimità di una stanza vuota per poterlo
lasciar andare.
A prescindere dai propri pensieri, comunque, aveva affiancato sua nonna in ogni
momento.
Così, erano passati quarantanove giorni.
Era stato strano avere Junpei
in quella quotidianità. “Strano” in un modo che Teppei non sapeva bene come
considerare, a dire il vero: positivo per la sua vicinanza, negativo per l’occasione
in cui si erano avvicinati, incerto perché non sapeva ancora davvero quale
fosse la loro, di situazione.
Non se l’era sentita di iniziare il discorso, però. Avvertiva ancora addosso
quel torpore che gli faceva sembrare lontana ogni cosa, che fossero le parole
di qualcuno o i suoi gesti, le proprie stesse azioni, che avvertiva come un
ripetersi meccanico di abitudini.
Junpei arrivava per lo più la sera, al tramonto, dopo che Teppei e sua nonna
avevano cenato. Soprattutto i primi giorni dopo il funerale aspettava che sua
nonna andasse a riposare nella sua stanza, per palesarsi al giovane. Teppei non
sapeva bene se si trattasse di un’accortezza nei confronti di sua nonna, già
spossata dagli avvenimenti, o qualcosa che aveva a che fare con la segretezza
della sua razza; sperava che ci fosse un pizzico della prima motivazione e ci
credeva davvero, perché lui meglio di chiunque altro – almeno tra gli umani –
aveva conosciuto la burbera gentilezza di cui Junpei era capace.
Era stato dopo una quindicina di giorni, o poco più: sua nonna, che si prendeva
un lungo tempo per pregare e parlare di fronte all’altare di famiglia adiacente
alla sua stanza, era tornata in cucina dove Teppei stava lavando i piatti della
cena. In quell’occasione aveva visto Junpei per la prima volta.
Kiyoshi non sapeva se l’altro avesse cambiato i suoi abiti proprio perché
l’aveva sentita arrivare o meno, ma quando aveva portato lo sguardo sull’anziana
e poi nuovamente su di lui, al posto delle vesti da tengu che solitamente gli
vedeva addosso, Junpei aveva una perfetta copia della divisa scolastica di
Teppei. Sua nonna, dopo un primo momento di perplessità, aveva sorriso con
gentilezza avvicinandosi a quello che per lei non era che un ragazzo umano.
Junpei, rimasto nell’angolo più remoto della stanza fino a quel momento ad
osservare Teppei, si era scostato dal muro andandole incontro; aveva fatto un
leggero inchino, pronunciando le sue condoglianze con tono serio e rispettoso.
Sua nonna aveva riso piano, con ancora strascichi della stanchezza nella voce,
ma senza forzature: «È così raro trovare dei giovani tanto seriosi.» aveva
detto bonariamente, poggiando una mano sul braccio del tengu con fare
amorevole, come se anche lui fosse suo nipote «Ti ringrazio…?»
«Junpei.»
«Junpei-kun.» gli aveva sorriso, spostando lo sguardo su Teppei e servendosi di
un bicchiere d’acqua, portandolo via con sé; prima di lasciare la cucina, si
era premurata di dire al tengu: «La prossima volta fermati a cena, Junpei-kun.»
Da quel giorno, il tengu
si era sempre presentato con la divisa scolastica, forse in previsione di un
altro incontro inaspettato. Non aveva assecondato subito il desiderio della
nonna di Teppei di averlo a cena da loro, ma un pomeriggio si era
inaspettatamente fatto trovare alla fermata dell’autobus a cui Teppei scendeva
tornando da scuola. Si era incamminato verso la casa del più giovane, in
silenzio e con le mani in tasca; Teppei, senza affiancarlo per rispettare
quella distanza che l’altro aveva messo volutamente tra loro, lo aveva
osservato. Non aveva faticato a comprendere l’errore di sua nonna: Junpei,
vestito in quel modo, sembrava davvero un suo coetaneo.
Per un attimo, aveva davvero desiderato che lo fosse, ma non aveva detto nulla.
Quella sera Junpei aveva cenato con loro. Nonostante non vi fosse stato alcun
tipo di preavviso, sua nonna era stata ben felice di ospitarlo e cucinare in
più per il proprio ospite; Teppei aveva anche compreso il perché della strada
fatta insieme: fingendo di essere compagni di scuola, sarebbe stato strano se
Junpei non fosse tornato con lui.
Per tutto il tempo della preparazione, di cui sua nonna aveva insistito per
occuparsi da sola in modo che il nipote tenesse compagnia all’altro, Teppei si
era chiesto quanto tutto quello costasse a Junpei e perché lo stesse facendo.
Lui che amava così poco gli esseri umani si stava prendendo la briga di
fingersi uno di loro, mangiare il loro cibo, seguire il loro modo di parlare e
per cosa? Teppei non era riuscito ad inquadrarlo.
Avrebbe mentito dicendo che averlo lì con loro gli dispiacesse, eppure – aveva
pensato – non sapere cosa spingesse
Junpei in quella direzione lo faceva sentire comunque a disagio.
Tuttavia il tengu non aveva dato cenno di avere alcun problema di sorta, né che
in qualche modo il rapporto suo e di Teppei – ma si poteva poi chiamare
“rapporto”? – stesse attraversando una fase di totale confusione e indecisione,
nonché poca chiarezza. Avevano mangiato, con le chiacchiere di poco conto della
televisione a fare da sottofondo; Junpei aveva risposto alle domande di sua
nonna, mai troppo invadenti né specifiche. Il tengu non aveva dovuto mentire
nemmeno, in certe occasioni: era bastato camuffare alcuni dettagli dell’occasione
in cui aveva conosciuto Teppei, ad esempio, ma per il resto il giovane aveva
avuto la sensazione che l’altro stesse cercando di pronunciare meno bugie
possibili.
Quando avevano finito di mangiare aveva insistito per aiutare Teppei a
sparecchiare e lavare i piatti. Inizialmente Kiyoshi aveva creduto fosse solo
per far sì che sua nonna andasse a riposare, ma quando si erano diretti in
cucina senza di lei, Junpei lo aveva davvero affiancato vicino al lavabo
offrendosi tacitamente di asciugare le stoviglie.
Non aveva parlato per tutto il tempo, se non per formulare qualche commento che
Teppei aveva trovato persino goffo, suggerendogli che il tengu non doveva
essere abituato a certe cose: “tua nonna è a posto”, aveva detto, “il cibo era
buono” aveva aggiunto poco dopo.
Teppei aveva semplicemente sorriso, replicando con semplicità e senza forzarlo
a parlare.
Quando avevano finito, però, Junpei si era fermato sulla soglia della cucina
quando il più giovane si era mosso per accompagnarlo all’ingresso, convinto che
il tengu volesse andar via: «Voglio salutare.» aveva detto.
«Credo che la nonna stia già dormendo, ma posso controllare.» aveva affermato
Teppei, facendo per muoversi in direzione della stanza e ritrovandosi ad essere
fermato dallo stesso Junpei.
«Non lei. Tuo nonno.» aveva chiarito: «Voglio pregare per lui.»
Quello era stato il venticinquesimo giorno.
Teppei credeva di aver
conosciuto più lati di Junpei in quei quarantotto giorni passati che in tanti
anni di incontri più o meno regolari: era probabile che fosse una sensazione
data anche dal fatto che molti di questi incontri erano avvenuti quando lui era
solo un bambino, al quale non si può raccontare più di tanto nemmeno volendo.
Tuttavia, Teppei era abbastanza sicuro che il tutto fosse dovuto anche alla
novità di vedere Junpei muoversi in un ambiente familiare a lui piuttosto che
al tengu, com’era stata invece la montagna.
Vederlo pregare di fronte all’altare di famiglia aveva acuito in Kiyoshi una
sensazione che non sapeva definire con esattezza, ma che era piacevole. Poi,
con il passare dei giorni, aveva saputo anche darle un nome o almeno una
connotazione più precisa: si trattava di felicità. Seppur in occasione di un
lutto, vedere la persona che più di tutte voleva al proprio fianco muoversi con
sempre maggiore familiarità in casa sua, negli spazi che lui stesso occupava e
in cui era cresciuto, rendeva Teppei felice.
Era come se anche Junpei stesse lentamente entrando a far parte della famiglia.
«Me ne occupo io.» assicurò al tengu, prendendogli le ciotole della cena di
mano. Junpei lo seguì ugualmente in cucina, lasciandosi sfuggire un verso
stizzito fra le labbra; sembrava ormai essersi abituato alla divisa scolastica
– che, aveva scoperto Teppei, non era un’illusione come la prima volta ma ne
aveva proprio sottratta una a chissà chi e chissà dove – quasi quanto alla
presenza di sua nonna. Kiyoshi aveva notato che, seppur in modo burbero, il
tengu si rivolgeva a lei con gentilezza e di questo gli era profondamente
grato.
Mentre apriva il getto dell’acqua, sentì chiaramente lo sguardo dell’altro su
di sé.
Non riusciva a spiegarselo, ci pensava da un po’: Junpei non era stato lì tutti
i giorni, anche se con il passare degli stessi l’intervallo di tempo tra una
visita e l’altra si era fatto più breve, tanto da arrivare ad un giorno sì e
uno no. Non sempre l’altro andava a casa sua, probabilmente conscio di come
sarebbe sembrato strano anche per un amico molto stretto presentarsi
nell’abitazione altrui troppo spesso.
Non gli aveva mai tenuto la mano come durante la sua prima visita, non l’aveva
mai sfiorato nemmeno casualmente e soprattutto non aveva mai preso il discorso
interrotto bruscamente sulla montagna.
Teppei lo aveva assecondato, in realtà: con il funerale e la scomparsa di suo
nonno, i suoi pensieri si erano tenuti lontani da quelle questione.
Ora però, iniziava a chiedersi quali fossero le intenzioni del tengu o come
dovesse interpretare le sue azioni: se Junpei era lì, era perché tutto sommato
gli aveva perdonato quella richiesta fatta d’istinto, seppur seriamente?
L’aveva dimenticata o aveva finto di farlo?
Quel silenzio era un ulteriore rifiuto? O un’accettazione? O nessuna delle due
cose?
Avrebbe voluto chiederlo, ma rimandò ancora una volta.
Era il quarantanovesimo giorno, e non era ancora pronto a dire addio definitivamente.
Né a suo nonno, né a Junpei.
Si era ripetuto molte
volte che tornare a casa di Kiyoshi non avrebbe fatto bene a nessuno: non
all’umano, che sembrava cercare il suo sguardo per cogliere risposte che
nemmeno il tengu sapeva di avere, né allo stesso Junpei.
Conoscere la nonna di Teppei aveva risvegliato in lui un lato umano che credeva
di aver sepolto da qualche parte, sotto strati di delusioni e tradimenti da
parte di quella specie che tanto mal sopportava; l’anziana invece era una
persona buona, come buono era suo nipote. La somiglianza tra loro era
impressionante e spaventosa.
Fingersi un umano non era una cosa poi molto impegnativa, se si aveva
abbastanza forza spirituale per farlo, e quella non era mai stata un problema
per il tengu. Più complesso era stare al passo con le domande che di tanto in
tanto la donna aveva fatto, credendolo amico di Teppei. L’umano era intervenuto
poche volte, Junpei sospettava per evitare di dare due versioni diverse che
avrebbero solo complicato la situazione inutilmente. Li osservava e basta,
mentre condividevano il pasto.
Dopo mangiato Junpei rivolgeva una preghiera al defunto, aiutava con i piatti –
o osservava Teppei occuparsene – e andava via. A volte davvero, a volte no.
Ogni tanto si era nascosto tra gli alberi, celandosi ad occhi umani, e aveva
aspettato che le luci della stanza di Teppei e di sua nonna si spegnessero.
Poche altre volte aveva sbirciato nella camera di lui, avvertendone il sonno
agitato dalla propria posizione nascosta e non così lontana come voleva far
credere a se stesso, convincendosi di un’indifferenza ormai inesistente.
Teppei non parlava nel sonno, raramente si lamentava con versi privi di
significato; si rigirava anche poco nel letto, rispetto a quanto la stazza del
ragazzo gli avesse sempre fatto credere, o quanto il ricordo dell’unica volta
in cui l’aveva visto appisolarsi in sua presenza testimoniava. Anche se allora
era un bambino, e i piccoli hanno sempre il sonno più movimentato.
Non era rimasto fino all’alba, quello mai. Se lo era imposto.
E in quel modo aveva fatto passare quarantotto giorni: gli stava vicino dicendo
poche parole, quasi tutte per sua nonna e nessuna davvero rivolta a Teppei. Ne
evitava lo sguardo se non era necessario che il proprio incontrasse il suo, e
non gli aveva più preso la mano né aveva azzardato qualsiasi altro tipo di
contatto fisico nei suoi confronti.
Junpei aveva due modi di affrontare le situazioni: o non le capiva, e la cosa
lo irritava, oppure le capiva fin troppo bene ma non gli piaceva quello che
comprendeva. Il caso di Teppei apparteneva a quest’ultima categoria. Si era
legato a lui, si era permesso ciò che per secoli si era precluso – o che mai si
era concesso, in effetti, non in quel modo almeno – e non sapeva gestirlo se
non agendo per estremi opposti.
Più sentiva l’istinto di stargli vicino, più si allontanava.
Più pensava di volergli sfiorare la mano, solo per dare conforto, più si
concentrava su qualsiasi altra cosa: asciugare i piatti che Teppei lavava,
guardare annoiato la televisione di cui comprendeva assai poco.
Poi pregava all’altare di famiglia, per salutare rispettosamente un defunto e
anche per chiedere perdono; laddove avrebbe dovuto fare del bene stava facendo
del male, e non è mai ciò che un genitore spera per suo figlio, in nessuna
razza.
Se lo spirito del nonno di Teppei era ancora lì, ad osservarli, non doveva
essere molto grato a Junpei.
«…Junpei-san!» il richiamo dell’umano lo risvegliò dai pensieri che lo avevano
distratto. Non aveva idea di cosa potesse aver detto fino a quel momento né,
quindi, cosa si aspettasse in risposta da lui; maledicendosi mentalmente per
quella disattenzione, lo guardò interrogativamente.
«Qui ho finito.» gli fece notare Teppei, abbozzando un sorriso gentile «Sarai
stanco.» aggiunse, in un tacito invito ad andare se voleva. Kiyoshi non sapeva,
evidentemente, quanta poca spossatezza fisica sentisse la sua razza rispetto a
quella umana.
Junpei non sapeva come interpretare quelle parole, però. Non credeva che Teppei
lo stesse cacciando via; d’altra parte, i suoi gesti gli erano apparsi diversi
durante tutta la cena. Più rigidi, in un certo senso.
Non ci voleva un genio a ipotizzare cosa affliggesse Teppei. Era tipico di
molti umani, Junpei lo aveva visto accadere: erano una razza che sopportava
poco il dolore fisico, data la loro fragilità, ma ancor meno quello spirituale.
Non riuscivano ad abituarsi alle separazioni e si appellavano a quelli che
erano niente più che mezzi che li illudevano della sopravvivenza di un legame
che il passare degli anni avrebbe inevitabilmente logorato. Passavano la vita a
guardare vecchie foto, indossare vestiti che gli ricordavano un giorno
speciale, portare oggetti regalati da chi non c’era più; poi un giorno
succedeva che si rendevano conto di averli persi per sempre e crollavano.
Era quello che aveva temuto, era quello che si aspettava di vedere da un
momento all’altro, era quello che credeva rendesse Teppei diverso.
Il quarantanovesimo giorno dalla morte di suo nonno stava giungendo al termine.
Allo scoccare della mezzanotte sarebbe iniziato il cinquantesimo e il defunto,
che fosse stato giudicato degno del paradiso o di uno dei mondi infernali,
sarebbe sparito per sempre abbandonando quel luogo anche con lo spirito.
Non sapeva quanto l’umano fosse pronto a questo.
In effetti dubitava che lo fosse e basta.
«Cosa…?» pronunciò Teppei,
stupito, osservando nella sua stanza e fermo sulla soglia.
Aveva accompagnato lui stesso Junpei alla porta, salutandolo con un sorriso e
assicurandogli che era tutto a posto e non aveva bisogno di nulla – l’altro non
lo aveva chiesto, ma lui aveva voluto dirlo ugualmente, sospettando ormai che
quella vicinanza fosse dovuta ad una sorta di dovere morale che l’altro sentiva
nei suoi confronti. Alla fine Teppei si era ritrovato a credere che il tengu si
sentisse responsabile di quanto gli aveva detto quel giorno in cui avevano
discusso: non perché volesse rimangiarsi il rifiuto che con tanta forza gli
aveva rivolto, ma per il modo in cui glielo aveva comunicato.
Non sarebbe stato strano, considerando la sua indole. Ma Teppei avrebbe voluto
che capisse che non ce l’aveva con lui, che tutto ciò che lo faceva sentire
triste era semplicemente nella morte di suo nonno; ora più che mai comprendeva
la paura di Junpei e, nonostante i suoi sentimenti non fossero mutati, non
avrebbe mai potuto fargliene una colpa.
Dunque perché ora il tengu era di nuovo lì, nella sua stanza?
«Hai dimenticato qualcosa?» chiese, dandosi poi dello stupido. Junpei non aveva
nulla con sé che potesse dimenticare lì in casa, o che fosse così urgente
recuperare da non poter attendere al giorno dopo.
L’altro, come c’era da aspettarsi, sbuffò seccato. Rimase fermo dov’era, seduto
sul bordo della finestra lasciata aperta; doveva aver guardato fuori fino a
quel momento, almeno a giudicare dalla posizione del busto.
Il tengu tornò a guardare fuori, come se Teppei non fosse mai entrato, e
l’altro si richiuse la porta alle spalle. Non si avvicinò, però, occhieggiando
il futon steso con cura prima di
andare in bagno. Dopo un primo momento di indecisione vi si sedette, pur senza
sollevare le coperte.
«Noi non vediamo gli spiriti dei defunti.» iniziò Junpei senza preavviso «Vediamo
i nostri simili e gli altri youkai, ma non gli spiriti dei defunti umani. Avvertiamo
l’odore della morte, o quello di persone che sono vicine ad essa. Possiamo
sentire che una vita si spegne, se siamo esperti e vicini abbastanza. Ma non
vediamo le anime e comunque se anche le vedessimo non potremmo parlarci
probabilmente.» continuò, senza ancora portare lo sguardo su di lui.
Teppei non riusciva a capire dove l’altro volesse andare a parare, ma ebbe la
sensazione che quello del tengu fosse una sorta di rimprovero rivolto a se
stesso: «Junpei-san…?»
«Perciò non so dirti come funzioni. Non so dirti se sia rimasto qui finora o
no.»
«Junpei-san.» mormorò con gentilezza, e il tengu si irrigidì quando sentì le
braccia del più giovane cingerlo come poteva – data la sua posizione – in un
mezzo abbraccio. Era il contatto più intimo che gli avesse mai concesso negli
ultimi anni, e la cosa più simile ad un contatto fisico degli ultimi mesi.
«Non c’è bisogno di sapere queste cose… nessun umano
le sa.» ammise.
«Non ho idea di cosa abbiano bisogno gli umani in queste situazioni. E con te è
ancora più difficile. Hai sempre quel sorriso stampato in faccia, e mi irrita.»
disse senza tanti giri di parole, muovendosi appena perché il più giovane
sciogliesse l’abbraccio. Teppei lo fece, per non obbligarlo a una dimostrazione
di affetto che doveva pesargli, un po’ come il senso di colpa che – era ancora
più evidente ora – provava nei suoi confronti.
«Junpei-san, io non ce l’ho con te.» decise di dire infine; forse il tengu non
se lo era aspettato, perché si voltò a guardarlo per la prima volta da quando
era nella stanza: «Voglio dire, per quello che mi hai risposto.» chiarì meglio,
cercando la comprensione negli occhi dell’altro.
Vi trovò solo confusione, o incredulità, non seppe distinguere tra le due cose.
Teppei tornò a sedersi sul futon: «Lo
capisco, cosa volevi dire. Le persone che se ne vanno lasciano un vuoto enorme.
Io pensavo di saperlo bene, perché non ho i genitori… ma in realtà non li
ricordo nemmeno, se non fosse che i nonni mi hanno mostrato delle loro
fotografie.» spiegò, spostando lo sguardo su un punto imprecisato del tatami. Junpei avrebbe voluto interromperlo
ma non lo fece, aspettando di capire quale fosse il vero punto della questione.
«Ma ora so com’è, passare tanti anni della propria vita con qualcuno e poi non
averlo più vicino. E non è nemmeno il tipo di amore che provava mia nonna per
mio nonno. Quando ti ho detto che avrei voluto stare con te, non avevo pensato
a questo. Mi ero preoccupato di usanze, o che non essendo come te qualcuno
della tua famiglia potesse non considerarmi adatto, ma non che un giorno tu
saresti rimasto solo. Mi dispiace.» si scusò, alzando gli occhi fino ad
incontrare quelli di Junpei, leggermente sgranati di fronte a quel discorso che
avevano evitato per mesi – no, si disse, che lui aveva evitato rimanendo sulla sua montagna senza dare
possibilità a quell’umano di comunicargli quello che davvero pensava in merito.
«Quello che voglio dire è che non devi sentirti in colpa per quello che mi hai
detto.» proseguì: «Certo, è stato un po’… brusco.» e gli sfuggì uno sbuffo
appena divertito, perché in realtà gli scatti di Junpei erano sempre stati
divertenti a modo loro, se non si prendeva troppo a cuore quel che di negativo
pronunciava nei momenti di irritazione «Ma ho capito cosa volevi dire. E lo
rispetto. Anche se quello che provo io non cambia.» sembrò volerlo
sottolineare.
Junpei sapeva cosa sarebbe venuto dopo: Teppei, comprensivo, gli avrebbe detto
che gli perdonava quello scatto di rabbia e che non c’era però altro per cui
dovesse scusarlo. Lo avrebbe fatto perché era troppo buono per dire altro, per
dargli colpe che forse Junpei aveva davvero o forse no.
Ma ciò che il tengu non voleva assolutamente sentirgli dire era che lo
ringraziava per premure che credeva gli avesse rivolto per il senso di colpa;
perché, nonostante fosse il primo a preferire quella versione, sapeva che non
era stato quello a muoverlo, a farlo scendere a compromessi.
Per questo si era alzato, e aveva coperto in poco la distanza che c’era fra
loro, allungando una mano e tappandogli malamente la bocca: «Sta’ zitto.»
sibilò piano, ricevendo in risposta solo l’occhiata sorpresa di Teppei.
«Sta’ zitto.» ripeté.
Il modo in cui Teppei lo bacia è tante cose insieme: impacciato perché è la
prima volta – Junpei sospetta in generale, non solo con lui –, insicuro,
prudente. Tiene le labbra sulle sue come se dovesse scostarsi da un momento
all’altro, come se si tenesse pronto a qualsiasi movimento da parte sua che
possa suggerirgli che non gli va più, o che è sbagliato, o chissà che altro.
Junpei lo odia. Lui è ancora perso da qualche parte nella propria testa a
capire dove sia finito il buon proposito di “non lo fare”, sicuramente andato
altrove insieme al rispettoso “è in lutto”, che lo fa sentire un approfittatore
di debolezze altrui, che poi in realtà è un po’ quello che caratterizza la sua
razza. Ripetersi che sono passati quasi cinquanta giorni – che sono quasi due
mesi – non rende meno pressante l’idea di stare facendo una cosa orribile; un
orribile bello, perché il calore di Teppei è sempre stato così: avvolgente, a
volte anche asfissiante, ma bello.
Ma si sente in colpa lo stesso.
Forse, si dice mentre Teppei stringe l’abbraccio ma allontana le labbra, è
perché lo ha rifiutato in quel modo e poi lo ha baciato all’improvviso, proprio
quando l’altro gli ha detto di capire le sue ragioni.
«Junpei-san…» lo chiama in quello che è poco più di un mormorio che gli sfiora
le labbra, perché sono ancora vicine alle sue; si è scostato ma non così tanto,
quasi troppa distanza risultasse spaventosa. Junpei crede di capire perché.
Anche lui teme che se si allontanano troppo, avvicinarsi di nuovo non sarà più
possibile.
«Mh?» non può fare altro per fargli capire che lo sta
ascoltando, considerando che non lo guarda in viso. È un imbarazzo nuovo e
totale. I tengu non sono così fisici
come gli umani, loro nascono da delle uova,
e questo non presuppone effusioni oltre un certo livello… e comunque lui non ha
mai nemmeno preso in considerazione di metter su una progenie, no.
«Queste… cose» esita per un istante, Teppei, e a lui sembra che sia perché non
sa che parole usare, lui che chiacchiera senza sosta da quando lo conosce: «noi
umani le facciamo con la persona che amiamo.»
…Davvero quell’idiota glielo sta spiegando convinto che lui non lo sappia?
Per un attimo, in un moto di stizza, Junpei fa schioccare la lingua in un verso
seccato e volta appena il visto verso destra. Teppei assume un’aria perplessa
per qualche istante – o così gli sembra, sbirciando con la coda dell’occhio – e
poi prosegue con pazienza.
La voce che gli trema un po’, almeno rispetto al solito.
«A me va bene. Ma a te?» è un interrogativo terribile e diretto, che lo fa
quasi sobbalzare neanche gli avessero rovesciato in testa una secchiata di
acqua gelida; Junpei sgrana gli occhi perché sa che da questo non può sfuggire,
non di nuovo, non stavolta. O potrebbe farlo, ma significherebbe non tornare
mai più, perché c’è un limite a quanto l’animo umano può essere ferito – no,
più che umano, forse si tratta solo di Teppei, sì. Di lui e di quell’umano, e
questa è la realtà; ha rimandato troppo a lungo, con le scuse più disparate e
ora basta, davvero.
Se lo dice mentalmente, basta, un po’
come a sgridarsi da solo visto che nessun altro lo può fare al momento.
La domanda di Teppei è implicita ma chiara, come palese è la sua volontà di non
muoversi da quella posizione finché lui non gli avrà risposto; così le mani
sostano una sul futon e una sul
fianco del tengu, toccando più stoffa che non il suo corpo, e le labbra stanno
lì a quella distanza che non è lontana e non è vicina, ed è troppo e troppo
poco allo stesso tempo.
Junpei lo odia, sì. Prova per lui un sentimento così forte che non se lo sa
spiegare, e questo lo irrita ancora di più, e odia se stesso perché anche ora
l’impulso irrefrenabile non è un gesto d’amore, non uno rassicurante ma solo
quello di alzarsi e andare via – scappare,
scappare, scappare.
Non sa dare l’anima Junpei, se ne è convinto per secoli dopo che l’anima se l’è
sentita strappare via da un umano che non era amante ma un amico, e di
quell’amicizia non si è dimostrato degno.
Ha il timore della morte lui che non la conoscerà che fra molti secoli, e poi
ha il terrore di prendere anima e cuore e darli a qualcuno; quando ha guardato
Teppei in quei giorni si è chiesto molte volte se a lui avrebbe potuto
affidarle quelle due cose che pensava di aver lasciato da qualche parte a prendere
polvere, come si fa con gli oggetti che non servono più ma un giorno potrebbero
servire, e allora si mettono da parte senza che vengano gettati via del tutto.
Poi di fronte a lui, ancora alla stessa distanza, c’è Teppei che lo guarda e
aspetta; lo guarda cercando di non mettergli fretta e Junpei lo vede e lo sente
in ogni modo possibile – nella mano sul fianco che trema leggermente, negli
occhi che non distolgono lo sguardo ma non riescono del tutto a celare il
timore di un ennesimo rifiuto, di un ripensamento. Francamente lui dei
sentimenti umani capisce poco, soprattutto quando si parla di paure, e non è
fatto per consolare né rassicurare.
Non è proprio fatto per parlare, Junpei, e allora ci rinuncia in partenza.
Prende in prestito l’intercalare umano dei giovani di oggi e se lo ripete: fanculo, e
intende proprio tutto, dalle sue paure a come Teppei lo guarda, lo tocca, lo
cerca, lo aspetta, lo perdona – fanculo, se lo deve sentire quasi risuonare dentro mentre le
sue labbra toccano quelle altrui. La mano che gli sfiorava i vestiti ora è un
braccio che gli cinge la vita, che lo avvicina al corpo caldo del più giovane.
Junpei deve ammettere di non essere stato affatto sincero, quando una volta ha
detto di odiare tutto degli umani: ama il calore che hanno, non solo quello
fisico, ma quello che hanno dentro e che troppo spesso si spegne, si raffredda
piano, ti abbandona.
Teppei ne è l’esempio vivente e Junpei crede – ma si guarda bene dal dirlo
mentre si scosta piano – che sia la cosa più bella che l’altro abbia sempre
avuto, fin da bambino. Quel calore che più che scaldargli le mani tutte le
volte che l’altro le ha tenute nelle sue, gli ha scaldato il cuore senza che
nemmeno lui se ne accorgesse.
«Devi veramente smettere di parlare.» lo sussurra piano, con un rossore che mal
si accosta alla sua età che presupporrebbe l’assenza di qualsiasi pudore in
certi contesti, proporzionale ad un’esperienza data per scontata ma
inesistente. Gli trema la voce e gli tremano le labbra, ma spera davvero con
tutto se stesso che Teppei capisca senza che lui debba dire altro.
La mano che gli sfiora il
corpo con attenzione e premura non è fredda, eppure Junpei sente istintivamente
i brividi lungo la schiena.
Non sa definire il momento in cui il leggero sfiorarsi di labbra è divenuto un
bisogno molto più fisico e meno casto, o quando per la prima volta ha pensato
che un bacio non fosse abbastanza, che mancasse qualcosa per sentirsi uniti e
vicini. Il corpo di Teppei è nudo davanti ai suoi occhi e questo lo imbarazza
da morire; ogni volta che le proprie dita ne sfiorano la pelle leggermente
sudata si sente strano, come se facesse qualcosa che deve essere celato al
mondo. L’altro ha il viso affondato nel suo collo, che a tratti mordicchia
piano e poi sfiora con la lingua, con tocchi inesperti e incerti. Sembra
controllare in ogni momento che quello che fa non spaventi Junpei e non gli sia
sgradito, e questo lo imbarazza anche di più ma lo fa sentire stranamente
felice.
Il tengu inclina il capo leggermente, lasciandogli più spazio mosso
dall’istinto; le labbra di Teppei risalgono e si posano un po’ dove capita – la
linea della mascella che Junpei ha il vizio di serrare quando avverte dei
brividi che con il freddo non hanno nulla a che fare, la guancia, la bocca. Vi
si sofferma e la bacia, piano e con dolcezza.
Poi l’abbandona e scende, ignora il collo stavolta e posa un bacio casuale
senza badare al dove e si sposta lateralmente, fino ad arrivare alla spalla.
Traccia un percorso tutto suo che Junpei a malapena riesce a seguire
razionalmente, figurarsi giudicare errato o giusto, sempre ammesso che si possa
considerarli l’uno o l’altro. E a dirla tutta, c’è un picco di disagio nel
momento in cui la mano di Teppei che ha sostato fino a quel momento lungo il
suo fianco si sposta e lo priva dell’ultimo indumento che gli era rimasto
addosso: essere nudo, letteralmente,
lo fa sentire vulnerabile e gli ricorda che stanno arrivando in un territorio
decisamente inesplorato per entrambi.
Si rende conto anche che per assurdo sta lasciando fare quasi tutto all’altro e
che è semplicemente perché se ne sta approfittando; è pur vero che non vanta
una capacità maggiore di lui nel contesto sessuale, ma non fatica nemmeno
troppo ad indovinare quanta confusione ci sia nella mente dell’altro, perché
questa si fa palese nell’incertezza dei gesti e nel ripetersi di quelli a cui è
mentalmente più abituato o pronto, come il suo tornare quasi con regolarità
alle sue labbra.
In Junpei si fa strada un moto di tenerezza inatteso e allunga una mano per
raggiungere il sesso di Teppei; lo sente sussultare sorpreso e apre un occhio,
sbirciando il viso altrui e trovandolo di fronte al proprio, le labbra appena
schiuse e gli occhi leggermente sgranati per l’improvvisata del tengu.
Junpei sbuffa appena, brontola qualcosa che in realtà non ha senso compiuto,
dopodiché annulla la distanza tra loro e approfitta dello stupore altrui per
osare un poco ancora e approfondire lui stesso il bacio – non è il primo
“serio” di quella sera e non sarà l’ultimo, e sa che la sua capacità
comunicativa è pessima abbastanza da preferire ad essa il silenzio o l’unico
modo in cui pensa di potergli comunicare che, anche se è imbarazzante e avrà
problemi dopo, adesso è con lui e lo
desidera e va bene qualsiasi cosa Teppei voglia da lui, qualsiasi modo in cui
deciderà di toccarlo.
La mano inizia a muoversi, lenta e non poi così audace come Junpei aveva
pensato, ma sente Teppei agitarsi appena sotto di lui e l’altra sua mano
posizionarsi dietro la sua nuca, le dita appena insinuate fra i capelli, a metà
tra una carezza e un avvicinarlo ancora di più a sé. Lo sente rispondere al
bacio, la lingua che tocca la sua – poi così com’è iniziato Teppei lo
interrompe, si scosta appena e gli morde piano e quasi per gioco il labbro
inferiore.
«Junpei-san…» sussurra piano e fa scendere la mano in una carezza lenta lungo
la schiena nuda.
«Piantala.» mormora e aumenta un poco la velocità delle carezze lungo
l’erezione dell’altro, a cui sente sfuggire fra le labbra un gemito
inaspettato, a giudicare da come subito dopo torna a baciarlo, quasi a
nasconderlo nonostante sappiano entrambi che è perfettamente normale. Ma a
Junpei sta più che bene così, almeno fin quando la mano di Teppei che era
rimasta sul suo fianco fino a quel momento non si ritrova – lui non sa come – tra
di loro, sfiorando quella di Junpei che si muove su e giù, arrivando a toccare
il membro del più grande.
C’è un momento di totale panico misto ad eccitazione, in lui: per motivi che
non sa spiegarsi – specialmente adesso
– si era formata in testa la convinzione che sarebbe stato solo lui a toccare
Teppei. Non aveva minimamente preventivato che l’altro l’avrebbe ricambiato,
per quanto ridicolo suoni a lui stesso quel pensiero.
Abbandona qualsiasi ragionamento, anche se non per sua scelta, mentre la stanza
sembra riempirsi di respiri pesanti e aria calda, un calore diverso dall’afa
estiva e più pesante, saturo di un odore che Junpei non sa riconoscere. Vi
avverte una scia del profumo di Teppei, ma non sa dire se ci sia veramente o se
quello che avverte sia piuttosto la pelle dell’altro, sotto le proprie mani e
vicina al proprio corpo.
C’è la fretta tipica della prima volta, man mano che le carezze si fanno più
intime e i respiri veloci, i baci più urgenti.
Junpei riversa un gemito nella bocca dell’altro, colto alla sprovvista da un
movimento imprevisto: Teppei si fa vicino con un leggero colpo di reni,
abbandona per un attimo la sua erezione e vi sfrega contro la propria, ora
vicina. La mano torna a masturbarli entrambi e Junpei sente il calore affluire
al viso e la propria voce farsi strana. Allaccia le braccia al collo del più
giovane e vi si abbandona, anche se odia pensarlo in quei termini; considera
una ripicca personale scostarsi e privarlo del bacio che Teppei cerca
istintivamente, gli occhi ancora chiusi che vengono aperti quando non trova ciò
che cerca.
Lo sguardo lucido lo cerca confuso, si acciglia appena: «Junpei-san…» quasi lo
bisbiglia, la voce roca ed erotica che fa sentire Junpei un ragazzino e gli
appesantisce il cuore con troppe cose – felicità, completezza, imbarazzo,
aspettativa, soddisfazione, desiderio.
Gli nega quel contatto per qualche breve istante ancora, poi è lui stesso a
cercarlo di nuovo, con le labbra e con il corpo; c’è un istante in cui lo cerca
anche con l’anima, però. Un breve, unico istante in cui ha bisogno di non
sentire il calore del suo corpo contro il proprio, le loro erezioni che
sfregano l’una contro l’altra rendendo impossibile qualsiasi pensiero, ma di
sentire Teppei al di là di tutto quello.
Fa persino in tempo ad insultarsi per un bisogno così sentimentale, ma è
destinato ad essere sorpreso e il fautore è Teppei, com’è sempre stato negli
ultimi undici anni della sua esistenza: lo coglie alla sprovvista ancora una
volta quando smette di toccarlo e di masturbare entrambi, con uno sforzo di
volontà che sospetta non essere così indifferente. Abbandona la sua bocca ma
non lo guarda, rimane così vicino che per parlare praticamente lo bacia ancora
e ancora, anche mentre sussurra, anche mentre respira e basta.
Pronuncia piano le parole degli amanti, le parole che si dicono gli adulti e
che a Junpei fanno paura più di tutto; gli dice quella frase che lo riempie di
una felicità che sente quasi fuori luogo, e che al tempo stesso dicono che
Teppei ha scelto e che anche lui lo ha fatto, anche se non le ricambia subito.
Sono molto più di quello che sembrano quando vengono pronunciate, perché
l’esempio di amore che Teppei ha avuto è durato tutta una vita, e quindi Junpei
sa – lo ha sempre saputo in fondo – che l’altro non lo dice con superficialità
come sarebbe anche comprensibile alla sua età. E gliele sussurra piano prima di
qualsiasi altra cosa, prima che il piacere fisico di entrambi raggiunga il
culmine impedendogli di fare altro che non sia respirare a fondo l’aria e
respirarsi quasi a vicenda, vicini e incapaci di lasciarsi andare.
Lo fa prima di tutto quello, perché dopo sembrerebbe sbagliato, sembrerebbe
secondario e non lo è, Junpei questo lo ha capito; qualcosa si smuove dentro di
lui, all’altezza dello stomaco per la sorpresa, all’altezza del cuore perché lo
commuove.
E poi gli trema il petto, perché gli scuote lo spirito – e allora sì, forse può
dare anima e cuore a qualcuno, tirarli fuori da dove li ha messi da parte in
attesa di chi lo avrebbe convinto che poteva affidarle ad una persona, lasciare
che questa se ne prendesse cura.
Può prendere quel che ha di più fragile e darlo a Teppei, e giurargli che non
scapperà più.
Che la parte più importante non sarà l’addio, ma tutte le stagioni che sarà
capace di ricordare.
Note utili: Futon: vuol dire letteralmente “materasso
arrotolato”. È il materasso tradizionale della cultura giapponese. Youkai:
traducibile come “apparizioni”, “spettri” o “demoni” sono una classe di
creature della mitologia giapponese. Tatami: tradizionale pavimentazione
giapponese.
I quarantanove giorni a
cui si fa riferimento nella fanfic sono quelli in
cui, a partire dalla morte del defunto, si dice l’anima faccia un viaggio al
termine del quale sarà giudicata e indirizzata verso il paradiso o verso uno
dei mondi infernali, abbandonando definitivamente il regno dei vivi.
Alla fine il rating rimane
arancione. La lemon mi ha boicottata (o io ho
boicottato lei?) y_y
Rimane a questo punto solo l’epilogo.
Grazie a chi ha seguito o letto fin qui <3
Spostò lo sguardo verso la
finestra chiusa, ricercando con esso l’esterno.
La stanza era calda, grazie alla stufa accesa in un angolo, lasciando
all’immaginazione il clima invernale. Tutto ciò che del panorama preannunciava
in qualche modo il freddo era il colore del cielo, di quel grigio che era quasi
un bianco sporco, fastidioso alla vista e che non permetteva di indovinare con
facilità quale momento della giornata fosse.
Si sistemò meglio seduto sul cuscino, muovendo appena le gambe incrociate alla
ricerca di una posizione meno rigida; istintivamente, mosse la mano
giochicchiando con il maglione che indossava.
Lo faceva sorridere, vedersi addosso quell’abbigliamento: un tempo non avrebbe
mai creduto possibile vestire abiti umani per il semplice fatto che farlo
avrebbe significato mescolarsi a loro.
Inclinò un poco la testa andando a poggiare la tempia contro il vetro freddo;
il libro che fino a poco prima aveva avuto la sua completa attenzione era lì,
sulle sue gambe, aperto ad una pagina di cui aveva già dimenticato il contenuto
letto qualche istante prima di distrarsi a guardare fuori.
Era strano essere così toccati dalla percezione di un tempo che trascorreva
troppo lentamente. Non era mai stato un problema, vista la sua natura. Eppure
ora, anno dopo anno, diventava sempre più acuta la sensazione di relatività che
avvertiva.
Non che avrebbe mai ammesso quanto lunghe sembrassero le ore in assenza di quello
stupido di Teppei e quanto, invece, sembrassero durare un soffio e nulla di più
in sua presenza.
«Junpei!» sentì chiamare dall’ingresso, ma si guardò bene dall’alzarsi e
andargli incontro: non era uno stupido cane, non si sarebbe certo messo a
scodinzolare. Al contrario abbandonò l’esterno per tornare con lo sguardo – e presumibilmente
con totale attenzione – alle pagine del libro.
Avvertì i rumori tipici di quando Kiyoshi rientrava dalla spesa: le scarpe
abbandonate all’ingresso, le buste poggiate sul tavolo, i passi sempre della
stessa cadenza ad indicare il muoversi avanti e indietro nel piccolo spazio
della cucina, le ante aperte e chiuse per sistemare al proprio posto gli
acquisti.
Poi altri passi ancora, sempre più vicini, e alla fine Teppei rientrava nel suo
campo visivo affacciandosi sulla soglia della stanza, come ora.
Junpei non riusciva smettere di stupirsi dei piccoli ma significativi
cambiamenti nell’aspetto dell’altro, specialmente se pensava a quanto diverso
fosse quando si erano incontrati per la prima volta. Ormai non c’erano più né i
lineamenti infantili di bambino, né quelli di un’acerba età adulta: il viso
mostrava quello che era in tutto e per tutto un uomo, ancora giovane, ma
cresciuto.
Il tengu provava sentimenti contrastanti, quando si
rendeva conto di quanto inesorabile fosse il tempo di Teppei, che avanzava
senza pietà; eppure quello stupido, chissà come, sembrava capire cosa lo
angosciasse tanto e allora si avvicinava e lo abbracciava con quel fare
entusiasta da bambino e quel modo goffo di abbracciarlo di quando era ragazzo –
anche se ora la prima cosa era dovuta al carattere gioviale e la seconda alla
stazza che si ritrovava, con il fisico ormai formato del tutto.
Junpei avrebbe mentito sostenendo che bastasse così poco a far sparire le sue
preoccupazioni, o che bearsi del calore di un corpo che ti abbraccia con tanto
affetto lo illudesse che non ci sarebbe mai stato bisogno di pronunciare quell’“addio”
a cui non sarebbero mai stati pronti.
Tuttavia sospirava, lo rimproverava mentre con la mano cercava la sua e poi –
solo poi e solo quando voleva – gli dava la piccola soddisfazione di un bacio
leggero sulle labbra e di un “bentornato” pronunciato senza insulti, ma con l’affetto
smisurato di cui nessuno si accorge mai, se non chi riceve quelle parole e se
le tiene strette nel cuore.
«Ah, nevica!»
La ricorderà, insieme a tutte le altre.
«Posso farle una domanda?» azzardò il novizio, portando lo sguardo sull’Anziano
indaffarato con le pratiche per l’imminente passaggio della carica.
Il tengu più grande alzò gli occhi dalla pergamena,
posandoli benevolo sull’altro, in un tacito assenso. Il giovane, seppur
titubante, si fece coraggio e diede voce al dubbio che – a giudicare dalla
reazione degli altri novizi presenti – doveva essere comune: «Mi chiedevo— ci
chiedevamo, in effetti» si corresse, agitato «…ecco,
tutti pensavamo che alla fine sarebbe stato Junpei-dono
a succedervi. Una volta tornato dal suo soggiorno tra gli umani.» spiegò come
meglio gli riuscì, temendo forse di aver detto qualcosa di troppo o che non fosse
suo compito far notare.
Ma l’Anziano non ebbe reazioni particolari in merito, se non un silenzio
meditabondo e quasi pigro.
«Avrei potuto richiamarlo, sì» ammise «e Junpei, oh, sarebbe tornato.» aggiunse
senza alcun dubbio in merito: «Tuttavia sarebbe stato una guida inadatta.
Succede così, quando la comunità non è il primo pensiero di chi la guida.»
concluse blandamente, come se quanto aveva appena detto non fosse piuttosto
grave.
Il senso di appartenenza di un tengu alla propria
comunità era forse uno dei valori fondamentali della razza stessa.
Eppure qualcuno come Junpei, la cui avversione agli umani era sempre stata
piuttosto chiara oltre che conosciuta, aveva perso chissà quando la qualità che
lo aveva contraddistinto per secoli rendendolo il più adatto ad una carica che
quasi tutti avevano considerato già ufficiosamente sua.
«Ma gli umani non possono vivere così a lungo.» obiettò incerto e con tono
basso un altro dei novizi, visibilmente confuso.
Se Junpei fosse stato lì, non si sarebbe sorpreso della risata che riempì la stanza, troppo abituato alle reazioni spesso
incomprensibili da parte di quello che era stato il suo maestro; ma i novizi si
stupirono nel vedere l’Anziano ridere di cuore.
«Oh no, gli uomini non vivono neanche la metà del nostro tempo, Junpei lo sa
bene.» convenne divertito «Ma è rimasto ad osservare la neve.» concluse come se
fosse la cosa più naturale del mondo.
«La neve, signore?»
«Già. La prima neve di ogni anno.» assicurò, mentre il tempio in cima alla
montagna veniva coperto lentamente, in silenzio.
Settant’anni fa, la prima neve iniziava a
scendere.
Quel giorno, nello stesso luogo,
l’inverno comincia con dita che si intrecciano le une con le altre,
ancora una volta.
E con questo si conclude
la fanfic.
Ho pensato diverse volte di cambiare, di dare la sensazione di una realtà più “cruda”
ma inevitabile, ossia la morte di Teppei. Ma francamente mentre scrivevo non mi
sembrava si adattasse all’atmosfera che penso di aver racchiuso nell’epilogo, e
quindi buh, ho preferito così.
Grazie a chi ha recensito e a chi ha dedicato anche solo un pochino di tempo
alla lettura (L)