Schegge

di Neverland98
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Passion ***
Capitolo 3: *** Mother/sister ***
Capitolo 4: *** Speak now ***
Capitolo 5: *** Don't tell me what to do ***
Capitolo 6: *** Lies ***
Capitolo 7: *** Prisoner ***
Capitolo 8: *** Secrets ***
Capitolo 9: *** Turning the light on ***
Capitolo 10: *** Truth ***
Capitolo 11: *** Answers ***
Capitolo 12: *** Gotcha ***
Capitolo 13: *** Feels ***
Capitolo 14: *** Safe home ***
Capitolo 15: *** Coming to hell ***
Capitolo 16: *** Price to pay ***
Capitolo 17: *** What if...? ***
Capitolo 18: *** Training ***
Capitolo 19: *** Mia per sempre ***
Capitolo 20: *** The end (?) ***
Capitolo 21: *** Let's stop ***
Capitolo 22: *** It's on ***
Capitolo 23: *** Hurricane ***
Capitolo 24: *** Will you ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


La bambina avanza decisa verso sua madre, ha una mano nascosta dietro la schiena. Dall'espressione di dolore dipinta sul suo volto si capisce che regge in quella mano qualcosa di molto pesante. “Cos'hai lì, tesoro?” le chiede la mamma. La bimba non risponde, si ferma a poca distanza, il vento estivo le scompiglia le trecce bionde. La mamma si inginocchia e tende le mani verso la figlioletta, sorridendo ampiamente: “Coraggio, amore. Fammi vedere, che hai trovato?”.
La bambina muove appena la mano dietro la schiena, facendo trasparire per un secondo l'immagine di un giocattolo scuro. “Che giocattolo è quello?” c'è una nota di ansia nella sua voce.
Finalmente la bambina mostra il giocattolo, che non è affatto un giocattolo, e lo punta dritto verso il cuore della mamma.
Amore! Dove l'hai presa? Mettila via subito! E' pericoloso! Potresti farti male!” la donna si alza in piedi e avanza rapidamente verso la figlia, nel tentativo di disarmarla prima che sia troppo tardi.
Alla bambina questo non piace, affatto. Preme il grilletto.
Spara.

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Capitolo 2
*** Passion ***


In piedi sul balcone, Elsa osservava il mare da lontano, affascinata dall'andirivieni frenetico delle onde che si infrangevano sugli scogli.
Era l'ora del tramonto e l'acqua aveva assunto sfumature meravigliose, il cielo si era tinto di rosa e il silenzio veniva interrotto solo dal suono delle onde e dal canto dei gabbiani.
Si era stretta nell'accappatoio avvertendo la brezza fresca accarezzarle la pelle ed era rientrata in casa.
Tim
Una lacrima le bagnò la guancia.
Domani mi sposo!
Sospirò, contemplando l'abito da sposa steso sul letto.
-Dove sei? - sussurrò fissando il mare che si congiungeva all'orizzonte:- Perchè te ne sei andato?
Era stato lui a parlarti la prima volta, ti si era avvicinato silenzioso, non te n'eri nemmeno accorta, persa com'eri nei tuoi pensieri.
- Ti sei fatta male cadendo?
Come prego?
Voglio dire cadendo dal paradiso. Perchè sei un angelo no?
Ah ah. Che modo patetico e assolutamente squallido per provarci con una ragazza! Ti do un consiglio: la prossima volta che decidi di provarci con me... non farlo!
Era stato allora visto che avevi visto il suo sorriso per la prima volta, quel sorriso insopportabile e sensuale, arrogante e romantico.
Era stato allora che te n'eri innamorata.

 

I ricordi le trapassavano la carne come lame aguzze riaprendo cicatrici non ancora riemarginate.
Pensandoci ora pareva quasi comica come cosa, un uomo affascinante e circondato da belle ragazze che in quella sera d'autunno aveva notato una ragazza senza trucco, con la tuta e una ventina di buste della spesa appese alle mani. Non era mai stata particolarmente bella né si era mai sentita come tale, ma solo quando era tornata a casa, si era specchiata e aveva visto il mascara colato intorno agli occhi e la coda disfatta dal vento forte, aveva capito che quel tipo così carino l'aveva solo presa per il culo. Probabilmente una scommessa tra amici: “Provaci col panda biondo laggiù!”.
Sicuramente era andata così.
Almeno all'inizio.

- Ciao angelo!
Si era seduto accanto a te.
Ci conosciamo?
Avevi bevuto un po' del cappuccino davanti a te, meditando una via di fuga da quel bar che improvvisamente era diventato un po' troppo affollato.
La verità è che dopo la figura di merda del giorno prima avresti solo voluto nasconderti sotto il tavolino al quale eravate seduti.
Ma come non ti ricordi? Ieri sera... Vicino al centro commerciale... Andiamo! Non dirmi che cadendo hai battuto la testa così forte da avere problemi di memoria!
Aveva sfoggiato di nuovo il suo sorrisetto da schiaffi.
Ah già, ora ricordo! - avevi replicato – E mi pare di averti dato anche un consiglio... A quanto pare sei tu ad avere problemi di memoria.
Aveva ampliato il suo sorriso: - Touchè

Prese tra le mani l'abito bianco e lo osservò per bene. Non le piaceva affatto. Era troppo da principessa e lei al suo matrimonio aveva sempre sognato di indossare una abito più semplice ma elegante, possibilmente di seta. L'aveva accettato solo perchè non aveva voglia di litigare anche per questo. In fondo James era perfetto: ricco, bello e innamorato perdutamente di lei.
Forse era stato per questo che aveva accettato di sposarlo.
O forse per attuare una vendetta trasversale nei confronti di Tim e farlo pentire di essersene andato.
Probabilmente una cosa stupida e infantile, ma in quel momento le era parsa la cosa migliore da fare e non poteva certo tirarsi indietro il giorno prima del matrimonio. Non era così stronza. Non avrebbe fatto a James quello che Tim aveva fatto a lei.

 - 
Allora me lo dici il tuo nome?
Continuava a fissarti, seduto di fronte a te.
Sai che c'è? Questo bar è diventato troppo piccolo per i miei gusti!
Avevi fatto per alzarti, ma lui ti aveva trattenuto per il polso. Un gesto delicato ma deciso. L'avevi guqrdato di sbieco: - Cosa cavolo hai intenzione di fare?
Ah, bene! L'angelo più acido che abbia mai incontrato.- aveva alzato gli occhi azzurri al cielo.
Non sono acida!- avevi ritratto la mano irritata dal fatto che uno sconosciuto potesse trattarti così.
Dimostralo allora. Dai, ti offro qualcosa...
Avresti voluto dirgli che avevi appena finito di bere il caffè, ma il suo sguardo magnetico ti aveva zittito. Ti eri seduta con aria contrariata.
E vabbè, se proprio devo!
Finalmente ti ho convinto! Cosa prendi?
Un caffè!
Un'altro?- ti aveva fissato allibito indicandoti la tazzina vuota davanti a te.
Quella era stata la tua seconda figura di merda.
Ecco perchè sei così acida!- era tornato a sorridere e tu eri tornata a trattenere l'istinto di mollargli un ceffone.
Spiritoso! Comunque sono in grado di reggere anche dieci caffè, se voglio! Ma per non farti preoccupare prenderò una brioche!
Grazie per il pensiero!
Aveva chiamato un cameriere e gli aveva riferito le ordinazioni sue e della “sua signora”, come aveva sussurrato nell'orecchio del cameriere guardandoti con aria di sfida.
Non sono la tua signora.- lo avevi informato quando era tornato a sedersi.
Non ancora!-
E questa volta ti aveva sorriso davvero.

Adagiò con eccessiva cura l'abito sul letto e si accasciò sul pavimento stringendosi le ginocchia.
Ormai aveva le guance fradice.
Si rese conto solo in quel momento di essere rimasta in accappatoio e decise di indossare qualcosa di decente per la cena.

-Sei bellissima!
Ti aveva sussurrato nell'orecchio stringendoti più forte. Sentivi i suoi baci invadenti sul collo e chiuso gli occhi. Ti aveva rovesciato sotto di sé e ti aveva sfilato la camicetta.
E tu sei un bugiardo!
Avevi replicato aiutandolo a spogliarti.
Avevate passato tutta la notte insieme, finchè le luci dell'alba non erano entrate dalla finestra di casa sua svegliandoti.
Lui dormiva ancora.
Ti eri rivestita in silenzio ed eri sgattaiolata via senza smettere di ridere.


- Amore?
James entrò in camera senza bussare
E' pronto! Vieni di sotto?
Certo, tra un attimo!
L'uomo le si era avvicinata baciandola con passione.
Domani sarà il più bel giorno della mia vita!
Aveva mormorato abbracciandola.
Anche per me!
E il suo cuore aveva ripreso a sanguinare.





 

 

 

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Capitolo 3
*** Mother/sister ***


-  Ti va di ballare?
La sua voce ti aveva raggiunto morbida, quasi una carezza. Ti eri voltata, felice che fosse lì, con lo smoking elegante e il suo adorabile/odioso sorrisetto.
-  Non vedo perchè no!
Si era inchinato in modo teatrale e ti aveva portato fino al centro della pista da ballo.
Avevi sempre odiato quel tipo di ricevimenti, quelli che richiedono l'abito lungo fino a terra e dove la musica non è altro che il gracchiare lento dei violini e del pianoforte.
La verità è che stavi cercando di cambiare vita, stavi cercando di cambiare te stessa.
Henry ti aveva spezzato il cuore.
Glielo avevi offerto su un piatto d'argento e lui l'aveva calpestato senza – forse – neppure accorgersene.
Era per questo che avevi deciso di passare le tue ferie lì: un paesino sul mare colorato e tranquillo, perfetto per lasciarsi alle spalle una delusione amorosa.
Tim era entrato nella tua vita senza un invito: aveva preso quel che era rimasto del tuo cuore e se in un primo momento gli aveva ridato un calore tanto agognato, in un secondo momento l'aveva annientato del tutto.
In quel momento però tu ancora non lo sapevi .
Avevi deciso di accettare l'invito alla festa di compleanno della donna più ricca del paese ben sapendo che ti aveva invitato solo per sbatterti in faccia la sua ricchezza, così come alle altre centinaia di allegri sconosciuti.
Avevi accettato l'invito perchè non era da te.
E tu volevi cambiare.
Dovevi
Te n'eri stata in un angolo avvolta nel tuo vestito scuro che sfiorava il marmo pregiato del pavimento, decisa a rimanere là per tutta la sera.
Ma Tim aveva sconvolto i tuoi piani.
Aveva sconvolto la tua vita.

La notte prima del matrimonio non si dorme mai, è quasi una regola.
Elsa non era stata l'eccezione: aveva passato il tempo a girarsi e rigirarsi tra le lenzuola profumate del letto a baldacchino, il suo pensiero era andato
costantemente a Tim.
Ogni volta che chiudeva gli occhi vedeva il suo volto, lineamenti duri e comunque irresistibili e occhi azzurri in cui tuffarsi.
Anche James era molto bello, ma di una bellezza diversa.
Era un uomo di circa dieci anni più grande di lei, dai capelli scuri nei quali facevano capolino impietosi i primi fili grigi.
Gliel'aveva presentato sua sorella a una festa, era il migliore amico del suo fidanzato e a dire di Amanda “l'uomo perfetto per lei”.
Voleva molto bene a suo sorella.
Si passavano poco più di un anno, ma Amanda si era sempre comportata in modo protettivo con lei, proprio come avrebbe fatto la loro madre se non fosse stata vittima di un incidente stradale quando erano piccole.
Amanda era la ragazza perfetta: bellissima, intelligente e studiosa.
Fin dai tempi del liceo aveva avuto numerosi spasimanti, ma lei non aveva mai preso in considerazione nessuno, troppo presa a studiare e a occuparsi della sua sorellina.
Si era laureata in medicina un anno prima della norma, aveva trovato lavoro in una azienda medica prestigiosa e ormai era sposata da un anno con Jack, uno dei ragazzi più belli che Elsa avesse mai visto.
Amanda non aveva mai visto di buon occhio Henry e come sempre aveva ragione.
Però lei non era mai riuscita a comprendere a pieno Elsa, nonostante il profondo affetto che le univa.
Amanda non capiva il desiderio disperato di una ragazza vissuta all'ombra della sorella maggiore, il suo disperato bisogno di emergere, di provare per una volta l'emozione di essere la prima.
Henry l'aveva fatta sentire proprio così.
Con lui Elsa si era sentita speciale, avevano fatto tante pazzie insieme e aveva deciso di ignorare gli avvertimenti di sua sorella, la stessa persona che l'aveva aiutata a rialzarsi dopo che Henry l'aveva gettata a terra.
Cosa aveva imparato da tutto questo? Semplice: i consigli di Amanda erano sempre giusti.
Ecco perchè ora stava per sposare James, perchè se sua sorella diceva che era l'uomo giusto per lei, allora era davvero la sua occasione di trascorrere una vita serena.
 

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Capitolo 4
*** Speak now ***


- Sveglia!Sveglia!Sveglia!

La voce squillante di Amanda la strappò dal mondo dei sogni e la riportò alla fredda realtà.
Al matrimonio.

- Ciao Mandy! - bisbigliò stropicciandosi gli occhi:- Che ore sono? -

Sua sorella la fulminò con lo sguardo: - E' l'ora che muovi il culo e vai a prepararti! -
Elsa si alzò stancamente e andò a lavarsi, al suo ritorno la camera da letto pullulava di estetisti, parrucchieri e damigelle d'onore.
- E questi chi sono??
- Sono quelli che ti aiuteranno a rendere il giorno più bello della tua vita, il giorno più bello della tua vita!- cinguettò Amanda spingendola – letteralmente – nelle mani degli esperti.


- Sei mai stato sposato?
- No, ma ho rischiato!
- Spiritoso!
- Tim aveva ridacchiato mettendoti un braccio intorno al collo.

Era seguito un momento di silenzio, passato a fissare il mare davanti a voi e il sole che scompariva all'orizzonte. Eri stata tu a rompere quel silenzio.
- Ti piacerebbe sposarti?
- Dipende!
- Da cosa?
- Dalla ragazza!
- In che senso?
- Vedi, io non sono un ipocrita, quando, tra mooolto tempo, deciderò di sposarmi, sarà per tutta la vita! Però siccome non ho alcuna voglia di impegnarmi così seriamente, non ho nemmeno intenzione di sposarmi!
- E che centra la ragazza in tutto questo?
- Beh, se incontrassi una ragazza speciale, voglio dire 
davvero speciale, che riuscisse a farmi venir voglia di sposarla, allora lo farei di corsa!
Altri minuti di silenzio.
- Hai mai incontrato una ragazza così? Cioè che sia quasi riuscita a farti innamorare?
- Si.
- Ah...

Era evidente che lui non aveva voglia di parlarne. Forse lei l'aveva ferito, forse le era successo qualcosa, in ogni caso non saresti stata tu a riaprire vecchie ferite.
- L'ho incontrata sotto la pioggia
- Come?
- La ragazza speciale, intendo. Poi l'ho rivista il giorno dopo in un bar intenta a ingozzarsi di caffè, poi ci siamo visti a una festa di compleanno e abbiamo ballato, poi...
- Vai al diavolo!- avevi riso dandogli un colpetto sulla spalla: - Sei un idiota!-

Tim ti aveva stretto più forte e ti aveva dato un bacio sulla guancia:- Ma perchè non mi credi mai quando ti dico la verità?- aveva sorriso.
- Perchè non lo fai mai!-

Eravate scoppiati a ridere entrambi.


All'altare James aspettava con ansia la sua futura sposa.
Era innamorato come mai in vita sua e si sarebbe impegnato a renderla sempre felice.
Avevano deciso di celebrare il matrimonio nel loro giardino, pieno di addobbi candidi e di ospiti dai vestiti firmati che chiacchieravano del più e del meno.
A proposito, la sua sposina era un po' in ritardo, ma non era il caso di preoccuparsi, sicuramente era colpa del parrucchiere che ci stava mettendo un po' più del dovuto. Decisamente molto più del dovuto.
Guardò l'orologio: le dieci e mezza.
La cerimonia sarebbe dovuta iniziare alle dieci.
Le due navate, costituite da varie file di divanetti di seta bianca, erano ormai tutte piene, mancava solo la protagonista: Elsa.
Sapeva che non l'aveva mai amato veramente, ma non gli importava: l'importante era che avesse deciso di passare la vita con lui. “E se avesse cambiato idea?”, si chiese James,”Se avesse deciso all'ultimo momento di lasciarmi?”.
I minuti passavano lenti e gli ospiti gli rivolgevano occhiate interrogative e un po' di scherno.
“Dove sei Elsa? Perchè non arrivi?”
L'uomo aveva iniziato a sudare guardandosi intorno, di sicuro si era verificato qualche contrattempo con i truccatori. A proposito dov'erano Jack e Amanda? Magari la stavano aiutando a fuggire... Mannò, che cosa andava a pensare! Elsa non gli avrebbe mai fatto una cosa del genere, ma và! Avrebbe dovuto essere preoccupato nel caso le fosse successo qualcosa, invece di essere così meschino!
Sentiva i battiti del suo cuore accellerare.
Si voltò di scatto all'udire il suono di un paio di tacchi che correvano sull'erba, Amanda aveva un aspetto trafelato ed era paonazza.
“Ecco – si disse – ci siamo! Viene a dirmi che Elsie se n'è andata!” rivolse uno sguardo carico di apprensione ad Amanda. La donna, dal canto suo, gli rivolse un sorriso smagliante e corse a sedersi al banco dei testimoni.
James si sentì avvampare.
Elsa apparve infondo al corridoio come una visione. L'abito bianco le fasciava il corpo perfetto, i capelli biondi erano raccolti in uno chignon elaborato ed il trucco leggero evidenziava gli occhi azzurri.
Era il cognato ad accompagnarla all'altare e sembrava giusto, perchè se Amanda era come una madre, allora suo marito era quel che di più simile Elsa avesse a un padre.
James la fissava avanzare leggiadra come una farfalla agitando lo strascico immacolato. Durante il percorso che la conduceva all'altare, Elsa fissò il tappeto rosso sul quale camminava, ignorando del tutto le occhiate affettuose e i sorrisi che le arrivavano da entrambe le navate.
Il sole splendeva alto nel cielo e non c'era nemmeno una nuvola ad oscurarne la luminosità e James si sentiva uno schifo per aver dubitato in quel modo della fedeltà della sua sposa.
Elsa lo raggiunse e gli rivolse il suo sorriso più bello.
- Sono felice che tu sia qui!- bisbigliò James mentre il prete andava avanti con il cerimoniale.
- Anch'io!
Le parole dell'anziano pastore li riportò alla realtà:
- Se c'è qualcuno contrario a questa unione, parli ora o taccia per sempre!
​- Io mi oppongo!
Tutti gli ospiti si girarono sgomenti verso una figura distante, in fondo al corridoio.
Elsa avvertì un colpo al cuore. La testa prese a girarle come mai in vita sua, il caldo divenne insopportabile, le persone e le cose che la circondavano andarono via via sfocandosi e le voci degli invitati sconcertati le giungevano alle orecchie come echi lontani.
Cadde a terra svenuta.

 

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Capitolo 5
*** Don't tell me what to do ***


- Ti devo lasciare!
- Cosa? Perchè?
- Mi dispiace tanto Elsie!
- Ma... ma tu non puoi! Cioè no, no! Insomma sei stato tu a provarci con me! Hai iniziato tu, tutto questo! E adesso te ne vai così? Senza nemmeno una spiegazione?! Non hai capito niente, tesoruccio!
- Elsa smettila! Non pensavo che le cose sarebbero... andate 
così! Sono state le due settimane più belle della mia vita, ma ora devo andarmene!
- Dimmi almeno perchè!
- Addio Elsie!

Si svegliò di soprassalto, intorno a lei l'oscurità totale. Si rese conto di essere su un letto, per quanto ne sapeva poteva anche essere in un ospedale nel bel mezzo della notte. Ma cosa era successo? Ah già, il matrimonio! Quindi era sposata ora! Con Tim! No, con James! Ma ricordava anche Tim!
Sentiva la testa scoppiare.
Ad un tratto la porta si aprì, lasciando entrare uno spiraglio di luce e la figura imponente di James avvicinarsi a lei.
- James! Che è successo, dove mi trovo?
- Stai tranquilla amore, è tutto apposto!- la strinse forte e la stese delicatamente sulle lenzuola:- Riposati ora!-
- Ma che è successo? Siamo sposati?- odiava il modo in cui il suo fidanzato le stesse nascondendo le cose.
- Non ancora!- Elsa colse una nota di amarezza in quest'ultima affermazione.
- Ma perchè? - gli afferrò un braccio mentre stava per lasciare la stenza:- Ti prego Jim! Dimmi che sta succedendo! Perchè non siamo sposati?
- Il nome Timothy Jonas ti dice qualcosa?
- Timothy...- non le sembrava di ricordare un simile nome.
- Forse lo conoscevi come Tim!
Elsa avvampò.
- Tim... che centra Tim? Che succede?
- Quindi è vero- sussurrò James, più a sé stesso che a Elsa.
- James.. per favore...
- E' tardi Elsa!
- Come...?
- Addio!
- Che vuol dire addio? Perchè? Non puoi lasciarmi! - urlava scossa dai singhiozzi- dove sono? James non te ne andare!James! James!!

 

- Che ne pensi di questo ristorante?
- Che è troppo raffinato per i miei gusti!- avevi replicato sorridendo.
- Forse...
Silenzio.
- Posso farti una domanda Tim?

Aveva annuito distrattamente.
- Non mi hai mai parlato della tua vita... che lavoro fai? Di dove sei?
- Perchè ti interessa?- aveva risposto un po' troppo seccato.
- Mah... così! C'è qualche problema?
- Assolutamente no!- aveva sbattuto il pugno sul tavolo.
- Okay, credo che ci sia decisamente qualche problema! Forse sono io... Me ne vado!- ti eri alzata decisa.
- No,Elsie aspetta!- aveva mormorato:- Scusami! E' che sono solo un po' stanco!
- Ma perchè? Non sei qui in vacanza?
- Più o meno.

Rimase inginocchiata sul letto, incapace di muoversi.
La porta si aprì di nuovo e questa volta fu Amanda ad entrare, aprì la finestra lasciando entrare la luce del giorno. Elsa strizzò gli occhi.
Si rese conto solo in quel momento di avere ancora l'abito da sposa.
Amanda si bloccò davanti al letto, in piedi. Aveva gli occhi lucidi e una sigaretta in mano.
- Cosa cazzo hai fatto Elsa?
Elsa sgranò gli occhi sempre più confusa.
- Cosa ho fatto io?- strillò.
Ne aveva piene le scatole dei rimproveri che le venivano posti senza una spiegazione.
- Si tu!
- Ah, non ne ho proprio idea! Mi stavo per sposare, poi qualche cretino per qualche motivo ancora più cretino ha urlato 'io mi oppongo', probabilmente credeva di essere in qualche film idiota....
Quel cretino – la interruppe Amanda parlando trai denti – è Timothy Jonas! Killer di professione, pluriricercato e latitante da anni!
Sentì un tuffo al cuore.
- Ma... ma... dov'è lui ora?- era l'unica cosa intelligente da dire che le era venuta in mente in quel momento.
- Io ti dico che sei andata a letto con un assassino, che ha minacciato di morte più volte il tuo fidanzato, che tra parentesi ti ha lasciato, privandoti della tua unica possibilità di vivere una vita decente, e tu mi chiedi dove sia ora??
- Dov'è?
- Fottiti Elsa!
- Dimmi dov'è!
- Non ti riguarda!
- Sì che mi riguarda! - Elsa si alzò finalmente dal letto- non riguarda te! Ti voglio tanto bene Mandy, ma ne ho piene le palle di te che prendi decisioni al posto mio! Io non sono come te, non sono perfetta né voglio esserlo! Tim è l'unico uomo che io abbia mai amato davvero, l'unico che mi abbia fatto sentire viva, e non me ne frega niente di quello che ha fatto, perchè tutti possono sbagliare! Percui dimmi dov'è e levati dalle palle, sorellina!
- Amanda era scioccata.
- Per la prima volta in vita sua, Elsa trovava il coraggio di ribbellarsi.
La cosa la lasciò completamente spaesata.
- Dov'è, Amanda?
- E' qui fuori...
- Fallo entrare!
- Sarà meglio che ti tolga quel vestito, però.
- Certo Mandy – aveva addolcito il suo tono di voce: - Farò come dici tu!-


 

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Capitolo 6
*** Lies ***


“Elsa!”
esclamò Tim vedendola. Entrambi avevano un aspetto trasandato, lui indossava uno smoking, la cravatta allentata e la camicia un po' fuori dai pantaloni. Elsa si era sciolta i capelli biondi ancora impregnati di gel e portava un vestito corto incurante del freddo.
Forse non si era nemmeno accorta che faceva freddo.
Si abbracciarono.
In quel momento sembrò che niente fosse più importante, niente a parte loro.
Si strinsero col disperato bisogno di due anime che erano state separate fin troppo a lungo, ma che alla fine si erano ritrovate, perchè entrambe sapevano che nel preciso momento in cui si erano incontrate l'una era diventata parte dell'altra.
Non si baciarono, non ancora.
Era tutto troppo maledettamente complicato.
Stavano ancora insieme? O erano solo due sconosciuti? Due sconosciuti che si sono amati, ma sempre degli sconosciuti?
“Che ci fai qui Tim?” Elsa si sottrasse con forza dall'abbraccio. Le parole di sua sorella le tornarono in mente colpendola come un pugno. Un serial killer.
Un serial killer bellissimo.
Un serial killer dolcissimo.
Un serial killer spietato.
“Vedo che non hai perso la tua indole dolce!” scherzò Tim stancamente.
“Sei un serial killer, Tim?”
“Come?!”
“Amanda dice che sei un serial killer!”
“E certo, tu credi a tutto quello che dice tua sorella, giusto! Fai tutto quello che dice lei, me n'ero dimenticato!”
Gli occhi di Elsa furono attraversati da un lampo.
Un lampo di puro, semplice, bruciante odio.
“Vattene Tim! Tu non sai niente di me! Niente! Mi hai lasciata sola e adesso ti ripresenti qui, come se niente fosse, mi rovini il matrimonio e credi anche di potermi trattare in questo modo? Tu...”
Le labbra di Tim sulle sue la interruppero bruscamente.
Avrebbe voluto sottrarsi a quel contatto tanto desiderato e tanto pericoloso, ma i muscoli del suo corpo non rispondevano ai comandi del cervello.
Si lasciò travolgere da quel bacio e le sensazioni che le provocò, sapeva di menta e caffè, di lacrime e di bugie.
“Ti chiedo scusa Elsie... E' che è tutto così... - deglutì passandosi una mano tra i capelli chiari - … Complicato!”
“Ma perchè, Tim? Perchè mi hai lasciato? E perchè sei qui ora?”
Era così stanca di avere tante domande e nessuna risposta.
“Devi venire con me!”, la afferrò per il polso e fece per trascinarla verso la porta d'ingresso.
“No!”, Elsa non era decisa a cedere, puntò i piedi per terra e cercò di contrastare la spinta dell'uomo.
Tim si voltò stupito.
“No, Tim! Non verrò con te! Per una volta sarò io a decidere della mia vita! E io decido di non venire con te!”
“Elsa, tu non capisci...” la voce di Tim era diventata incredibilmente dolce.
“E allora spiegami!” lo implorò.
Le accarezzò il volto: “Mi dispiace tanto, veramente!”.
Estrasse dalla tasca della giacca una bomboletta di spray e glielò spruzzò sul viso.
Prima che Elsa avesse il tempo di urlare, giaceva già svenuta tra le braccia di Tim.

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Capitolo 7
*** Prisoner ***


Elsa si guardò intorno, aveva ancora la vista annebbiata e sentiva la testa pesante. Improvvisamente ricordò tutto. Il matrimonio saltato. Il ritorno di Tim. Tim. L'aveva narcotizzata... Ma perchè?
Sentì un conato di vomito e si guardò intorno. Era la seconda volta in una giornata che si risvegliava su un letto non suo. Maledizione! Immediatamente un turbinio di immagini l'avvolse, ma sembrava tutto reale, come se fosse al cinema e potesse vedere le immagini proiettate. La pareti che la imprigionavano scomparvero, lasciando il posto ad un cielo azzurro e a distese di prati verdeggianti.
C'era una bambina piccola, vestita di grigio, con il viso triste. Sembrava avere qualcosa in mano, sicuramente era una bambola. No, a guardarla meglio non lo era. Quello strano oggetto scuro che la bambina stringeva, doveva essere molto pesante, a giudicare dalla smorfia di dolore sul viso minuto. Le venne voglia di andare ad aiutarla, non sapeva bene perchè, ma doveva andare incontro a quella bambina e darle una mano a sopportare quel peso. Elsa si guardò intorno e comprese di trovarsi in un giardino, un giardino in campagna, come quello che aveva sua nonna. Lei e Amanda amavano trascorrere l'estate in campagna con la nonna. Potevano scorrazzare di qua e di là per i campi di grano, mungere le mucche, giocare con gli animali e mangiare tutta la frutta fresca che il loro stomaco poteva contenere. Onestamente non ricordava perchè a un certo punto, quando aveva otto anni, smisero di passare lì l'estate. Probabilmente fu per la morte di sua madre, anzi, sicuramente. Ma per qualche motivo, nonostante gli sforzi per cacciare fuori dalla sua mente ostinata qualche ricordo, c'era soltanto il nero. Non c'era nessun ricordo di come avesse detto addio ai nonni, di quando suo padre avesse proibito loro di tornare in quella campagna.
Niente.
Niente di niente.
E ora si trovava di nuovo lì, in quel giardino, con una bambina sofferente davanti.
“Da qua, piccola...” le allungava la mano, ma la bimba continuava a fissarla con i suoi occhioni azzurri, stringendo i denti e nascondendo prontamente il suo giocattolo dietro la schiena.
“Sta tranquilla, non voglio rubartelo... Voglio solo aiutarti.” sorrise, non era mai stata un tipo materno, ma con quella bambina era diverso. Era come se... Come se fosse sua figlia. Che sciocca! Lei non aveva una figlia, era impossibile! Eppure si somigliavano così tanto...
La bambina mosse qualche passo nella direzione di Elsa.
“Si, brava, tesoro. Così...” aveva un sorriso che le andava da un orecchio all'altro e le tese le mani dolcemente.
Ad un tratto la bimba le puntò contro il giocattolo, che non era affatto un giocattolo.
Era una pistola.
Il suo ultimo pensiero, mentre un proiettile le perforava il cuore, fu cosa ci facesse una bambina di otto anni con in mano una pistola.

 

 

 

 

Quanto tempo era passato da quando era chiusa in quella stanza? Settimane? Mesi? Anni?
Probabilmente sì, anche se era difficile dirlo vivendo nell'oscurità totale e passando le giornate stesa su un letto a fissare Dio solo sa cosa. Forse alla fine sarebbe impazzita. Forse era già impazzita. O forse era morta. Sì, questa doveva essere l'ipotesi esatta. E quello era ciò che c'era dopo la morte: il buio eterno. Non sei morta, stupida! Le suggerì una voce Altrimenti perchè continueresti a ricevere del cibo?
Già, non ci aveva pensato. Da quando era lì ogni giorno le avevano servito tre pasti, ecco come aveva fatto a capire che passava il tempo, regolandosi in base al cibo che le veniva spinto sotto la porta. A quel punto si accendeva una luce non molto forte, in realtà, ma accecante per i suoi occhi abituati al buio. Il cibo era davvero buono. O forse era solo la fame. Mangiava velocemente, con ingordigia, poi la luce veniva spenta e a tentoni raggiungeva il letto e aspettava il pasto successivo.
Ormai riusciva a vedere discretamente al buio. Grazie anche all'aiuto della memoria. Sapeva dove si trovava la porticina che dava sul bagno, dove si trovava il letto altissimo e dove c'era la porta.
La porta.
Aveva provato per ore, nel suo immenso tempo libero, ad aprirla, ma senza risultato. Sorrise amaramente al pensiero che un tempo questo sarebbe stato il suo sogno, dormire dalla mattina alla sera. Ecco perchè voleva sposare James, un uomo ricco. Con lui non avrebbe mai dovuto lavorare. La sua vita sarebbe stata perfetta.
E invece...
Sentì le guance bagnate dalle lacrime, ma sapeva che non era tristezza. Da quando era rinchiusa lì dentro i suoi sentimenti umani erano quasi scomparsi, ora era diventata di una freddezza straordinaria. E aveva finalmente ammesso di non aver mai provato niente per James, né di aver mai voluto bene a sua sorella o a qualcuno in generale. All'inizio si era fatta schifo da sola, poi aveva imparato ad accettarsi e alla fine sembrava che il suo cuore avesse finalmente fatto uscire la pietra ricoperta di rosso dal quale era composto. Ecco perchè quelle lacrime non erano di tristezza. Ma di rabbia. Se avesse avuto un arma, si sarebbe uccisa già da molto tempo. Ma armi non ce n'erano. Persino quando mangiava non le davano coltello e forchetta, solo cucchiai. Perchè volevano tenerla in vita? Si divertivano a torturarla? Se era così avevano capito male. Lei sarebbe uscita di lì prima o poi e a quel punto non ci sarebbe stata più traccia del suo cuore. Sarebbe stata un mostro, un killer.
E li avrebbe uccisi tutti, i suoi carcerieri. Uno per uno.

 

 

 

 

 

 

Publico con estremo ritardo questo capitolo! Vi chiedo scusa, ma sono stata impegnata a finire un altra fanfiction. Spero che troverete più tempo per recensire :D

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Capitolo 8
*** Secrets ***


“Che ne facciamo di lei?”
L'uomo aspirò profondamente dal sigaro, per poi liberare cerchi di fumo nell'aria.
L'altro lo guardava con una smorfia di disgusto, aveva sempre odiato l'odore acre del fumo.
Ma ovviamente non poteva mostrarlo.
“Ha parlato?” chiese l'uomo col sigaro.
“No, e sinceramente non credo che lo farà. Sto iniziando a pensare che non ne sappia niente...”
“Ma è inammissibile! - sbattè il pugno sul tavolo di legno – E' ovvio che finge! Dobbiamo farla parlare...”
L'altro non si scompose minimamente, andando avanti con tono calmo: “Be' se vogliamo sapere qualcosa, credo che sarebbe utile liberarla da quella stanza, tanto per cominziare.”
Da quanto tempo è là dentro?” si grattò il mento tenendo il sigaro tra l'indice e il medio.
“Sei mesi. A questo punto anche la sua sanità mentale potrebbe essere stata compromessa... Voglio dire, sei mesi al buio, in una stanzetta...”
“Tenente! - l'uomo lo interruppe bruscamente – E' una procedura standard per noi! L'abbiamo sempre fatto e ha sempre funzionato. Dopo sei mesi in quelle condizioni la mente è più malleabile ed è più facile ottenere informazioni. Lei è sempre stato d'accordo... Cosa c'è adesso? Non le importerà mica di quella ragazza...”
“No, assolutamente. Dico solo che avendola conosciuta, so che c'è una possibilità che lei reagisca diversamente da come crediamo a questo “trattamento”. Non mi è sembrata molto stabile...”
L'uomo col sigaro annuì: “Ha solo venticinque anni ed è istabile. Questo dimostra che abbiamo ragione, che ha subito un qualche trauma infantile. L'instabilità emotiva, alla sua età, è per forza causata da un trauma subito nell'infanzia.”
“Quindi che facciamo?”
“Lasciamola così ancora una settimana. Poi la libereremo, se ne occupi lei, tenente. E voglio che assista anche all'interrogatorio, chiaro?”
“Certo. Posso andare?”
Fece di sì con la testa: “Ah, tenente? - lo bloccò mentre stava ormai per uscire dalla stanza – Stia molto attento. Nel nostro lavoro non c'è spazio per l'amore, lo tenga bene a mente!”
Come se la mente potesse controllare il cuore.

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Capitolo 9
*** Turning the light on ***


Vivendo nel buio della solitudine e nella solitudine del buio, si cambia.
Pian piano i tuoi sensi si affievoliscono, non riesci più a distinguere gli oggetti neppure con il tatto. L'udito non è più affidabile, sente rumori quando non ce ne sono e quando ce ne sono davvero, li amplifica, rendendoli insopportabili.
Quella stanza doveva essere umida, a giudicare dal rumore assordante delle gocce che cadevano di tanto in tanto sul pavimento o su di lei. C'era anche un topo, l'aveva sentito squittire. Ma forse era solo la sua immaginazione. Però era bello non essere sola. Parlava spesso con il topino, gli aveva raccontato praticamente la storia di tutta la sua vita. L'animaletto si limitava a stare in silenzio, e nel buio Elsa lo immaginava seduto vicino a lei ad ascoltarla con attenzione. Come con lei non aveva mai fatto nessuno. Nelle ultime settimane il cibo era diminuito notevolmente, doveva essere diventata magrissima, perchè quando si raggomitolava su sé stessa per combattere il freddo, sentiva le costole sporgenti. Infatti era anche molto debole e passava le giornate stesa sul letto, sempre che non si stesse confondendo col pavimento. I capelli erano luridi e impolverati, come constatava ogni volta che trovava la forza di pettinarli con le dita. Si chiese che aspetto avrebbe avuto quando sarebbe uscita da lì, sicuramente sarebbe scomparsa ogni traccia della sua flebile bellezza. Sarebbe stato scioccante vedersi allo specchio, visto che l'ultima volta che l'aveva fatto era ben vestita e pettinata per il suo matrimonio. Il suo matrimonio con James. A proposito, lui non doveva amarla poi così tanto se l'aveva abbandonata appena si era trovata in difficoltà. Ma perchè si trovava in quella situazione? Non l'aveva ancora capito.
Sentì il rumore di una chiave che girava nella serratura ma probabilmente stava di nuovo sognando.
E invece no.
La porta si aprì lasciando entrare una luce accecante che la costrinse a chiudere gli occhi, “Finalmente”, pensò, “Sono libera!”.
Continuava a tenere gli occhi chiusi per difendersi dalla luce. Qualcuno dalle braccia robuste la prese in braccio e la trasportò in un posto più luminoso, senza smettere di camminare. Avrebbe voluto aprire gli occhi e vedere chi e dove la stava portando, ma riuscì solo a coprirsi la faccia con le mani.
Infine arrivarono in un posto meno luminoso, più luminoso della sua stanza, ma abbastanza buio da permettere di aprire gli occhi. Solo allora si rese conto di trovarsi in un ampio salone con le tende socchiuse. Nessuna traccia di uno specchio. Era seduta su un divano di seta, sola. Forse stava sognando, era solo la sua immagginazione, nessuno l'aveva portata lì.
Ad un tratto qualcuno entrò nella stanza, doveva essere una donna, né particolarmente alte né particolarmente bella. “Ciao!” disse la donna, Elsa non rispose, non riusciva ad articolare alcun suono. “Dove sono?” chiese con voce roca, appena potè.
“Sta tranquilla – sorrise la donna – Adesso ci diamo una bella sistemata, che dici?” le si avvicinò e l'aiuto ad alzarsi dolcemente. Elsa fu sorpresa di saper camminare ancora, seppure a fatica. Zoppicava incerta, avvinghiata al corpo della sua accompagnatrice.
“Ti va di fare un bagno?” le chiese senza smettere di sorridere.
Elsa annuì.
“Bene, perchè la vasca è già pronta. Dopo che sarai di nuovo pulita, potrai indossare vestiti nuovi e...” parlava con dolcezza, come una madre ad una figlia, anche se non dovevano passarsi molto.
Proprio l'atteggiamento di Amanda.
“Dove mi trovo?” ripetè Elsa durissima.
“Per il momento non te lo posso dire “ almeno non dava risposte vaghe, era diretta.
Elsa si godette un bagno che durò circa due ore,gustandosi la sensazione della schiuma candida che le scivolava sul corpo, eliminando via tutta la sporcizia.
I capelli divennero man mano meno ispidi e sudici, fino a tornare biondi e lucenti come sempre. Si accorse che erano molto cresciuti ed ebbe la conferma che era passato tantissimo tempo. La donna che l'aveva accompagnata in bagno le massaggiò i capelli applicandovi uno shampoo profumato e le lavò la schiena con una spugna morbida. Elsa si chiese quella spece di serva che si occupava di lei e soprattutto chi gliel'avesse mandata. I suoi occhi si erano abituati alla luce, anche se di tanto in tanto doveva strizzarli e tenerli chiusi per un po'. Dopo il bagno, la sua cameriera la aiutò ad indossare un vestitino di seta cobalto, molto comodo e raffinato. Le fece addirittura la ceretta, le mise uno smalto scarlatto a mani e piedi e le truccò con cura il volto. Quando Elsa potè finalmente vedersi allo specchio, quasi cacciò un urlo. Era più bella di quanto fosse il giorno del suo matrimonio. Prima di quella tortura. “Quanto tempo sono stata in questa stanza?” chiese senza più avere la voce roca.
“Sei mesi” disse la cameriera senza troppi giri di parole.
Sei mesi.
Elsa sentì un colpo al cuore. E Amanda? Sua sorella sapeva dove si trovava? E Tim?
Fece un giro su sé stessa davanti allo specchio, era decisamente bellissima. Quasi più di Amanda.
Indossava un paio di scarpe di vernice dai tacchi vertiginosi, ma stranamente non aveva difficoltà a camminare.
“In che mese siamo?”
“Giugno”
Giugno.
Elsa si avvicinò alla finestra, lasciando che la brezza le accarezzasse il volto. Si trovava in una spece di castello, la finestra era molto alta. Tutto intorno la campagna deserta.
Sentiva il canto dei grilli e il sole giocava con i raggi sul suo volto. Chiuse gli occhi e inspirò a fondo l'odore dell'erba fresca.
“Che ore sono?”
“Le dieci.”
La cameriera se ne stava in piedi, immobile, qualche passo dietro Elsa.
“Signorina, ha fatto?” le chiese.
“Perchè? Dobbiamo andare da qualche parte?”
“Veramente sì, venga con me.”
L'afferrò per un polso e la portò fuori dalla stanza, Elsa la seguiva confusa. Camminarono in fretta, scesero delle innumerevoli rampe di scale e si ritrovarono in un sotterraneo dalle pareti dipinte di grigio, qualche finestra adornava le pareti.
“Vada in quella porta infondo...” le indicò un grande portone in fondo al corridoio.
“Ma...” Elsa si girò in cerca della cameriera, ma era scomparsa.
Non aveva altra scelta, fece un respiro profondo, si diresse a passo svelto verso la porta, entrò.
 

 

 

 


Ehilà, qui la cosa si fa complicata! Non posso che notare la scarsità di recensioni... Capisco che possiate avere poco tempo, ma per me è importante sapere cosa ne pensate, se è il caso di andare avanti... Vabbè, alla prossima :)

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Capitolo 10
*** Truth ***


Spinse con fatica il portone pesante ed entrò in una stanza molto piccola, simile a quella dove si svolgono gli interrogatori nelle carceri. Su una parete laterale c'era un grande vetro rettangolare di quelli che non permettono di vedere all'esterno ma, stando dall'altra parte, permettono di vedere all'interno. Perchè era lì? Dovevano interrogarla? Perchè? La faccenda non le piaceva.
“Si sieda!” le ordinò una voce metallica, attraverso l'interfono appeso al soffitto.
Elsa obbedì, accomodandosi su una sedia arrugginita e posando le braccia sul grande tavolo rettangolare. “Dove mi trovo?” domandò Elsa con tono arrabbiato. Di colpo la porta dalla quale era entrata, posta alle sue spalle, si aprì lasciando entrare due uomini, uno era basso, grosso, vestito elegantemente e stringeva tra le dita un sigaro fumante. L'altro era molto più giovane, alto, attraente, con due profondi occhi azzurri. Tim. “Tim!” esclamò Elsa sconcertata.
Lui continuava a fissarla durissimo, impettito nel suo smoking lucido, non lasciando trasparire alcuna emozione. Come se la vedesse per la prima volta.
Elsa gli corse incontro e si buttò fra le sue braccia, tutti i suoi propositi di odio e vendetta erano svaniti nell'istante in cui si era riacceso l'amore per quell'uomo. Tim non ricambiò la stretta, la lasciò fare per un po' e poi l' allontanò delicatamente. “Hai fame?” le chiese.
Elsa lo guardò allibita. Era ricomparso al suo matrimonio dopo essere scomparso, l'aveva narcotizzata, qualcuno – con cui evidentemente lui aveva a che fare – l'aveva rinchiusa in una stanza buia per sei mesi, non sapeva dove si trovasse, finalmente rivedeva Tim e la cosa più intelligente che gli fosse venuta in mente da dire era “hai fame?”. In realtà sì, aveva fame. Ma soprattutto aveva fame di risposte. “Tim, dove sono?”, lui scosse la testa senza dire una parola.
“Signorina Brent – intervenne l'uomo col sigaro – io sono il colonnello Smith e lui è il tenente Bruce Jona, siamo agenti della CIA”. Mostrò il distintivo. Elsa continuava a non capire: “Sì, ma che volete da me? E perchè mi avete rinchiuso in quella stanza? – guardò Tim con occhi sgranati – Volete uccidermi?”
Il colonnello Smith rise di una risata roca, scossa qualche volta dai colpi di tosse. Camminava disinvolto per la stanza, mentre Elsa era rimasta in piedi, immobbilizzata, a poca distanza da Tim.
“Ma noi non vogliamo ucciderla, anzi” fece qualche cenno rivolto al vetro e poco dopo entrò la cameriera di prima con un vassoio ricolmo di cibo. Elsa faticò a mantenere la concentrazione.
“La prego, miss Brent, si accomodi, mangi!” disse Smith in tono mellifluo.
Elsa lo guardava con diffidenza, ma la fame era troppa e alla fine si sedette e iniziò a mangiare, prima cercando di mantenere un po' di decoro, poi sempre con più foga.
“Immagino si stia chiedendo come mai si trova qui...” continuò il colonnello.
“Per essere un colonnello non è molto sveglio, eh?” replicò Elsa tra un boccone e l'altro.
“E' spiritosa, mia cara, mi piace. Ma le consiglio di ascoltare attentamente, perchè non lo ripeterò” Si schiarì la voce: “Da ormai quasi vent'anni per gli Stati Uniti si aggira un pericoloso serial killer...” Elsa ricordò le parole di Amanda.
“Non è Tim... cioè il tenente Jona il serial killer?”
“Signorina Brent, la pregò di non interrompermi!” urlò autoritario.
Elsa non battè ciglio, ormai non le importava più di niente.
“Dicevo, il tenente ha assunto l'identità di un certo Timothy Jonas con il preciso scopo di arrivare a lei”
Elsa sussultò. L'incontro sotto la pioggia, la figura di merda al bar, il ballo, le loro notti insieme, i pomeriggi autunnali passati a fissare il mare... Era stato tutto una finzione.
Rivolse a Tim -cioè Bruce - lo sguardo più carico d'odio che potè, storcendo le labbra in una smorfia di disgusto. Bruce non lo diede a vedere, ma ebbe un brivido.
“Ma perchè io? Che volete da me?”
“Vede, mia cara, noi crediamo che lei ci possa aiutare a trovare quel serial killer...”
“State scherzando, vero?”
“Miss Brent! - intervenne Bruce – la prego di stare a sentire!”
“Miss Brent?! Non eri così timido quando passavi la notte con me...” sibilò.
“Era solo lavoro!” Bruce non riusciva a sostenere lo sguardo di Elsa, preferiva osservare un punto imprecisato davanti a lui.
Elsa si alzò lentamente, ferita a morte da quelle parole. Gli si avvicinò lentamente e gli tirò uno schiaffo, Bruce la lasciò fare anche se avrebbe potuto bloccarla facilmente.
“Miss Brent!” urlò il colonnello.
Elsa lo ignorò, fissando Bruce con gli occhi pieni di lacrime: “Come hai potuto, razza di stronzo? Hai finto per tutto quel tempo e mi hai mandato a monte il matrimonio... - fece per colpirlo di nuovo, ma questa volta lui la bloccò – lasciami stare! Io... io... Ti odio! Ti odio Tim, Bruce o qualunque sia il tuo nome! Ti odio e niente potrà mai cambiare questo!” poi si rivolse a Smith: “E quanto a lei, io non ho alcuna intenzione di collaborare con voi, né ora né mai.”
“Non ci sfidi, miss Brent.”
“E invece l'ho appena fatto!” sibilò con occhi pieni di odio.




Ehilà! Nuovo capitolo nuovi colpi di scena! Aggiornerò al più presto :D

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Capitolo 11
*** Answers ***


Due energumeni, più simili ad armadi che a uomini, le piombarono davanti impedendole di uscire.
Elsa provò a passare in mezzo ai due corpi, facendosi largo con le gomitate, ma l'aver passato sei mesi al buio e immobile non avevano aumentato la sua forza fisica, già scarsa in condizioni normali.
“Lasciatemi andare” esclamò tra i denti, ma i due non si mossero, avevano gli occhi coperti dai vetri spessi di occhiali da sole scurissimi, nonostante nella stanza l'unica fonte luminosa fosse la vecchia lampadina penzolante dal soffitto.
“Fate come dice!” ordinò Smith, i due uomini alzarono le sopracciglie rade senza capire, ma poi ubbidirono agli ordini e si spostarono. Elsa aprì a fatica la porta pesante e fece per uscire, ma la voce del colonnello la bloccò a metà strada.
“Vada pure, miss Brent, corra via da quella porta e poi via da questo castello... ma cosa farà una volta che sarà fuori di qui?” l'uomo parlava con una freddezza incredibile e Elsa sentì il sangue gelarle nelle vene, rimanendo paralizzata.
“Chiamerà sua sorella? Non credo che le convenga, visto che tutti i suoi cari la credono morta...”
Elsa sentì un tuffo al cuore e si voltò finalmente verso Smith.
“Come non lo sapeva? - la prese in giro aspirando dal sigaro – Cosa pensava che credessero i suoi cari, riguardo la sua sparizione? Che se ne fosse andata in vacanza? O magari che fosse fuggita? No, loro sanno benissimo che lei non avrebbe il coraggio di prendere una decisione di sua volontà come scappare e farsi una vita, mentre al contrario erano certi che lei fosse una ragazza debole, insicura e capacissima di suicidarsi...”
Quelle parole ferirono Elsa più di quanto avrebbe potuto fare la lama di un coltello.
“... Quindi è bastato un sms a sua sorella in cui diceva di voler farla finita e bla bla bla..., la sua macchina vicino ad una scogliera e nessuna traccia del suo corpo, sicuramente trasportato chissà dove dalla corrente del mare...” Smith ridacchiò, chiaramente fiero del suo piano.
Elsa avrebbe voluto dargli uno schiaffo, o meglio: ucciderlo, ma non aveva armi con lei e non era assolutamente in grado di uccidere un colonnello della CIA a mani nude. Si voltò nuovamente e uscì dalla porta, ma Smith continuò a parlare: “Ovunque andrà, miss Brent, noi la troveremo. Siamo la più grande organizzazione investigativa del mondo, abbiamo uomini ovunque. Davvero è disposta a vivere nel terrore? Sapendo che un giorno la troveremo, senza la possibilità di avere amici, un fidanzato perchè potrebbero essere nostri agenti?”
Elsa ripensò a quanto facilmente si fosse stata fatta abbindolare da Tim e abbassò lo sguardo.
“E se mi uccidessi?” si girò di scatto, fissando Smith con aria di sfida.
L'uomo resse il suo sguardo tranquillamente, anzi, con voce estremamente calma e pratica rispose: “Certo, sarebbe un'alternativa valida. Ma perchè porre fine alla sua vita a soli venticinque anni, quando, se ci aiutasse, potrebbe vivere a lungo, nell'agio e nella ricchezza?”
Elsa prese a giocherellare con una ciocca di capelli, dubbiosa.
“Cosa devo fare?”
“Mah, niente di che, in realtà. Si limiti a rispondere alle nostre domande e a fare quanto le chiederemo...”
“Ma perchè proprio io? Sicuri di non aver sbagliato persona?”
Smith e Jona, del quale Elsa aveva cercato di ignorare la presenza, si scambiarono uno sguardo d'intesa sorridendo sotto i baffi.
“Sicurissimi, miss Brent. Noi non commettiamo errori, comunque il perchè abbiamo scelto lei lo saprà a tempo debito, per il momento la preghiamo di sedersi...”
Elsa a malincuore fece quanto le era stato ordinato e prese posto sulla vecchia sedia arrugginita vicino al tavolo. Smith lanciò uno sguardo significativo a Tim – cioè Jona – il quale annuì ed uscì dalla stanza, Elsa pensò che sicuramente fosse appostato dietro al vetro, in modo tale da poterla vedere senza essere visto.
Nella stanza rimasero solo Elsa seduta al tavolo, i due uomini-armadi di prima, vicino alla porta, e Smith che girava intorno al tavolo con passi lenti.
“Bene, mia cara, iniziamo da domande semplici, anzi, perchè non ci racconta lei tutto quello che sa del suo passato?”
Elsa rimase visibilmente stupita, seguendo con lo sguardo gli spostamenti dell'uomo.
“Qualcosa tipo nacqui, crebbi, fui? Stronzate del genere?” chiese arrogante.
Smith alzò gli occhi al cielo: “Sì, esatto. Proprio quel tipo di stronzate.”
“Bene, allora, sono nata a Nashville, negli Stati Uniti. Mia madre si chiamava Elizabeth Jameson, veniva da Londra ed era una casalinga, mio padre invece era Nicholas Brent e faceva il muratore.” Smith la stava a sentire attentamente, ogni tanto lanciando sguardi significativi oltre il vetro.
“Continui”
“Beh, ho una sorella di nome Amanda Jessica Brent, non molto più grande di me, bellissima, bravissima, studiosa, intelligente, con una bella casa, un marito adorabile eccetera... - pronunciò queste parole con una sorta di fastidio, quasi di nausea – Io sono una ragazza difficile, che avrebbe dovuto sposarsi sei mesi fa con un uomo molto ricco, James Collins, e che invece si trova qui senza motivo... Fine!” finse un sorriso e si buttò all'indietro sullo schienale della sedia.
“Vede miss Brent, questa non è la sua storia, questa è la storia della sua famiglia. Lei è talmente abituata a passare la vita all'ombra di qualcun altro, a non emergere mai, a non essere considerata importante, da non riuscire nemmeno a raccontare la propria storia...” spiegò Smith cercando di avereun tono comprensivo, ma le sue parole avevano il retrogusto amaro della menzogna.
“Cos'è lei? Una spece di psicologo dei poveri o...” Elsa incrociò le braccia seccata.
Smith la ignorò.
“Voglio solo che si sforzi di ricordare qualche evento importante avvenuto durante la sua infanzia... Chessò, qualcosa che abbia potuto farla soffrire particolarmente...”
Elsa fissò il pavimento, cerano tantissime cose che nella sua vita l'avevano fatta soffrire quindi aveva l'imbarazzo della scelta. Ma riguardo l'avvenimento importante l'unica cosa che le tornò in mente, per qualche strano motivo, fu il sogno – o l'allucinazione, non sapeva dirlo - che aveva avuto durante i suoi mesi di prigionia. Ricordò la bambina molto simile a lei che sparava un colpo di pistola sullo sfondo di un paesaggio tanto familiare che Elsa aveva amato.
“Be', in realtà quando avevo otto anni successe qualcosa, qualcosa di strano... - una vocina nella sua testa le diceva che non avrebbe dovuto confidarsi con degli agenti della CIA, ma era tutta la vita che aspettava di poter parlare di quell'avvenimento. - Io credo... credo...” Smith la fissava intensamente, mentre gli occhi di Elsa si riempivano di lacrime e le parole le uscivano sempre più a fatica, spezzate. “... Credo di...” strizzò gli occhi e inspirò a fondo per ricacciare indietro le lacrime. Quando finalmente parlò, la sua voce e il suo sguardo furono di una durezza impressionante.
“Credo di aver ucciso mia madre!”

 

 

 

 

Salve salve! Chiedo umilmente scusa per avervi fatto aspettare così tanto, ma sono stata molto impegnata (causa abbuffamenti natalizi), comunque ne approfitto per farvi gli auguri passati di Natale e augurarvi un felicissimo anno nuovo! Ci vediamo nel 2014! :D 

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Capitolo 12
*** Gotcha ***


Sinceramente non so se continuerò, per andare avanti voglio almeno due recensioni. Aspetterò e vedrò.


Elsa credeva che quella frase avrebbe lasciato sconvolti tutti i presenti nella sua stanza, ma questi non batterono ciglio e la cosa la rincuorò.
“Come è successo?” chiese Smith senza toglierle gli occhi di dosso.
“Io... - era la prima volta che Elsa ne parlava e sentiva un fastidioso nodo in gola - … Io non lo so. So solo che quando ero piccola passavo le vacanze estive in campagna, dai miei nonni. Poi non ci siamo andati più...”
“E cosa le fa pensare che lei abbia ucciso sua madre? Ha un ricordo preciso? Gliel'ha detto qualcuno?”
“No!” si affrettò a dire Elsa: “Nessuno mi ha mai detto niente” abbassò lo sguardo e prese a giocherellare con una pellicina fino a farla sanguinare.
“E allora?” Smith la guardava sempre con più interesse.
“E allora non lo so. So solo che a un certo punto abbiamo smesso di passare l'estate dai nonni, precisamente l'anno in cui mamma è morta.”
“Voleva bene a sua madre?” non era la prima volta che Smith doveva interrogare delle persone emotivamente istabili, quindi sapeva perfettamente che non bisognava aggredirle ma lasciarle parlare, al massimo aiutarle con qualche domanda mai troppo specifica.
“Sì” Elsa sollevò lo sguardò e fissò i suoi occhi azzurri in quelli neri di Smith. Ripensò a sua madre, ma era passato troppo tempo e tutto ciò che ricordava era il profumo alla frutta del suo shampo e il calore che provava quando sua madre la stringeva fra le braccia. Aveva ucciso l'unica persona che avesse mai davvero amato. Perchè non aveva ucciso quell'ubriacone di suo padre o quell'antipatica di sua sorella? Perchè non aveva ucciso se stessa?
“Allora è stato un incidente...” suppose Smith con il tono più morbido possibile
“Credo” disse Elsa, ma una vocina nella sua testa le diceva che non era andata così, che non era stato un incidente. C'era sotto qualcosa di più grande. Di più brutto.
“Com'è morta sua madre?”
Elsa si strinse nelle spalle: “Non ne sono sicura. All'epoca papà ci disse che aveva avuto un incidente d'auto, ma ricordo perfettamente che il giorno dopo rimasi molto turbata nel trovare fuori casa l'auto perfettamente illesa.”
“Eravate in campagna?”
“Sì. Papà disse che mamma era tornata in città perchè doveva fare delle commissioni, e aveva avuto un incidente lungo la strada.”
Smith annuì e aspirò dal sigaro: “Ho letto i fascicoli sull'autopsia di sua madre, all'epoca fu giudicato suicidio. E' morta a causa di un proiettile dritto al cuore.”
Improvvisamente Elsa ricordò la visione che aveva avuto in quella stanza, la bambina di otto anni con una pistola in mano. La bambina le somigliava molto. Abbassò lo sguardo, ora era sicura di essere stata lei l'assassina di sua madre. Chissà cos'aveva pensato mentre moriva, cos'aveva provato nel vedere la sua figlioletta che le sparava a sangue freddo. Sua madre era l'unica che avesse mai creduto in Elsa quanto in Amanda, senza mai fare distinzioni. Sicuramente aveva cambiato idea.
“Avevate una pistola?” continuò Smith.
Elsa ci pensò un po': “Sì, - disse poi – mio padre. Mamma non voleva, una volta li ho sentiti litigare, perchè mamma aveva paura che io o mia sorella avremmo potuto trovare la pistola e ferirci.” La cosa era tragicamente comica, pensò Elsa sentendo una stretta al cuore.
“Sapeva dove la teneva suo padre?”
“In cantina!” rispose pronta Elsa. Si stupì molto, non credeva di saperlo, la risposta le era scivolata fuori dalla bocca.
“Le piacciono le armi?”
“Quando ero piccola sì, ora non particolarmente. Mi interessava come poter avere un'arma ti faceva sentire potente, spaventava gli altri” non sapeva perchè si stava confidando con quelle persone, forse perchè, anche se per lavoro, erano le prime e uniche persone che la ascoltavano con interesse.
“Molto bene, miss Brent, vedo che si sta impegnando, bravissima. Ma ora voglio che faccia particolare attenzione, ascoli: si ricorda perchè aveva preso la pistola il giorno della morte di sua madre?”
“No...” Elsa fece una smorfia dispiaciuta: “No, mi dispiace”
Smith e Jona si scambiarono uno sguardo d'intesa.
“Va bene, miss Brent, basta così per oggi.” disse Smith uscendo dalla stanza.
Poco dopo i due “armadi” che facevano la guardia alla porta si avvicinarono a Elsa e la presero per le braccia, costringendola ad alzarsi dalla sedia.
“Dove mi portate?” strillò Elsa tornando la donna combattente di sempre.
“Fermi!” ordinò Bruce che era rimasto nella stanza. I due uomini lo guardarono stupiti. “Miss Brent ha fatto quanto le avevamo chiesto, non dev'essere riportata nella Stanza d'Isolamento. Sarà mia ospite”
“Va al diavolo!” urlò Elsa, nascondendo il fatto che la proposta di Bruce l'avesse piacevolmente sorpresa.
“Lo so che mi odi, Elsa. Ma non credo che tu preferisca venire a casa con me, che tornare in quella stanza buia e dimenticata dall'uomo” mostrò il suo sorrisetto sbruffone e solo in quel momento Elsa si rese conto di quanto le fosse mancato.
E poi Elsa non voleva tornare in quella stanza buia.
“E va bene” si rassegnò Elsa. Gli energumeni la lasciarono andare, Bruce la scortò fuori dalla stanza. “Scusami” mormorò lui legandole una benda intorno agli occhi.
“Che diavolo fai?”
“Non puoi sapere dove ti trovi, ti toglierò la benda appena saremo in macchina, abbastanza lontani da qui. Appoggiati”
Elsa non avrebbe voluto, ma con quella odiosa benda non riusciva a vedere niente e voleva evitare di andare a sbattere contro qualche parete.
Anche se le costava ammetterlo, era davvero felice di rivedere Tim... Bruce... O comunque si chiamasse. Lui era con lei, e questo -purtroppo- le bastava.




Mi scuso per il ritardo, ma a causa delle feste natalizie non ho avuto molto tempo, ma ora eccomi qui! 
Enjoy!

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Capitolo 13
*** Feels ***


Elsa si appoggiò al braccio muscoloso di Bruce provando un senso di piacere inaspettato. Le mani di lui erano salde una sul braccio di Elsa e una sulla vita, guidandola delicatamente verso l'uscita.
Elsa non riusciva a rallentare il battito del suo cuore, le sue emozioni oscillavano tra la felicità di essere finalmente con Bruce, libera e lontana da tutti, e la paura che lui stesse di nuovo con lei solo per “lavoro”. Elsa si accorse che erano usciti da quella specie di castello, quando sentì il vento accarezzarle la pelle. Da quanto tempo.
“Resisti, Elsa, la mia macchina è a pochi passi” le comunicò Tim dolcemente.
Camminarono ancora un po', Elsa sentì il rumore dello sportello che si apriva e Bruce l'aiutò ad entrare. Nei pochi attimi che fu da sola in macchina, mentre Bruce stava facendo il giro per entrare al posto di guida, Elsa provò a slacciarsi la benda per dare un'occhiata in giro, ma era legata bene e la mano forte di Bruce stringendole saldamente il polso, le abbassò il braccio prima che Elsa potesse riuscire a toglierla. Maledizione, era già entrato in macchina. Ma quanto ci aveva messo? Cinque secondi. “Non provarci nemmeno, Elsa”
“Perchè?” la donna incrociò le braccia nascondendo il dolore al polso.
“Perchè altrimenti dovrò ucciderti” disse in tono pratico.
Elsa sentì il sangue gelarle nelle vene, sarebbe stato capace di farlo. Decise di fare la brava.
Bruce dovette essersi pentito di essere stato così duro, perchè a metà del percorso chiese: “Come sta andando il viaggio?”
Erano in macchina da circa un'ora, Elsa era seduta affianco a lui, al posto del passeggero.
“Benissimo, considerata la situazione” lei non accennava ad ammorbidirsi, e Bruce non poteva biasimarla.
Ad un tratto il ruomore delle ruote che strisciavano sull'asfalto fece capire ad Elsa che si erano fermati. “Siamo arrivati?”
“No, ma siamo abbastanza lontani, ti posso togliere la benda” e in pochi secondi Elsa potè vedere di nuovo. Ma come aveva fatto?, si chiese Elsa, quel cavolo di nodo era impossibile da sciogliere!
Poi si ricordò che lui era un agente della CIA.
Elsa si guardò intorno, era sera tardi, loro si trovavano su un'autostrada mentre tante altre macchine sfrecciavano accanto.
“Wow” si lasciò sfuggire Elsa.
“Siamo a due chilometri da casa mia, resisti angelo!”
Elsa sobbalzò. Angelo.
Era tornato il vecchio Tim...
“Chi questa volta?” chiese Elsa dopo che furono ripartiti.
“Come?” Bruce girò appena la testa per guardarla.
“Chi ti ha dato questa volta l'incarico di stare con me?”
L'espressione di Bruce si fece seria: “Nessuno”
“Bugiardo” sibilò Elsa tra i denti, continuando a tenere le braccia incrociate e a fissare la strada davanti a sé.
“No, Elsa, questa volta è vero. Prima era solo lavoro, ma adesso devi credermi, sto passando del tempo con te perchè ne ho voglia”
“Dammi una buona ragione per crederti!”
“Non lo so” ammise Bruce serio.
Continuarono il viaggio in silenzio. Le parole apparivano un ostacolo insormontabile.
“Siamo arrivati” comunicò Bruce circa due ore dopo, parcheggiando la sua ferrari scarlatta in un grande giardino verdeggiante.
“Tu abiti qui?” chiese Elsa estasiata mentre osservava l'enorme villa dipinta di bianco con alcune pareti di vetro. L'abitazione era in mezzo ad un giardino enorme adornato da una fontana bianca al centro, decorata in stile Greco.
“Il mio lavoro è molto gratificante” Bruce fece l'occhiolino e si diresse da Elsa per aprirle lo sportello da bravo gentiluomo. Ma Elsa era ancora arrabbiata e decise di scendere per conto suo, regalandogli un sorrisetto di scherno.
Bruce sospirò platealmente.
“Vieni, entriamo”
Attraversarono l'enorme parte di giardino che li separava dalla porta d'ingresso.
“Giusto per chiarire – iniziò Elsa – non credere che facendo qualche moina io potrò perdonarti per avermi usata, ingannata – contava sulle dita - , tradita e rinchiusa per sei mesi in una cella buia in cui ho rischiato di impazzire” pronunciò queste parole con un tono glaciale, sfidando Bruce con lo sguardo.
Lui si limitò a ricambiare lo sguardo, senza dire niente. Raggiunsero la porta ed entrarono, appena furono in casa Bruce accese la luce: “Hai fame? Ti preparo qualcosa?”
“Che ore sono?” quanto le era mancato poter sapere l'ora.
“Mezzanotte”
“Non ho fame”
“Guarda che non devi preoccuparti per me, anche se è tardi posso prepararti qualcosa al volo” cercò di alleggerire la situazione con un sorriso.
“Non me ne frega proprio niente di te” fu la secca risposta.
“E' vero, ma oggi hai mangiato un po' di frutta dopo sei mesi di quasi digiuno. Hai fame, che vuoi da mangiare?”
Elsa non sapeva che dire. Aveva davvero fame.
“E va bene, che ne dici di una brioche, tanto per cominciare?” Bruce faceva riferimento al loro secondo incontro al bar.
“Bruce?” chiamò Elsa dopo che lui fu scomparso in cucina. Era stranissimo pronunciare quel nome.
“Si?” lui si affacciò dalla porta.
“E' legale questa cosa? Voglio dire, è legale che io sia qui con te invece che essere nella mia prigione?”
Bruce scosse la testa noncurante: “Non credo”
“E cosa succede se scoprono che... beh, hai disubbidito agli ordini?”
“Mi faranno una bella ramanzina, ma niente di più.”
Elsa fu quasi delusa nel vedere che infondo lui non stava rischiando tanto per lei.
“Ah, e potrebbero togliermi dall'indaggine”
“Allora è meglio che mi riporti indietro” Elsa si voltò verso la porta d'ingresso.
“Stai scherzando?” Bruce le corse incontro e l'attirò per un braccio. “Vuoi davvero tornare là dentro?”
“No, ma tu non sei obbligato a correre rischi per me” pronunciò queste parole meravigliandosi della sua fermezza.
“No,è vero. Ma voglio farlo. E poi vedrai che non mi succederà niente, sono troppo in gamba, hanno bisogno di me!” Bruce tornò in cucina con il sorrisetto sbruffone stampato in volto, mentre Elsa fu costretta a sorridere a sua volta.
Voleva...
No, non doveva.
Sì, ma...
No, assolutamente!
Sì, invece.
No.
Sì.
E prima che il cervello potesse aggiungere altro, il cuore prese il controllo del corpo di Elsa e lo condusse come una marionetta in cucina. Elsa si gettò tra le braccia di Bruce e lo strinse forte, lui ricambiò la stretta e la baciò.
“Elsa, io...” mormorò Bruce stringendola per i fianchi.
Il volto della donna si rigò di lacrime.
“Non lasciarmi – singhiozzò con la testa nell'incavo del collo di Bruce – Non lasciarmi anche tu! Non ce la faccio più ad essere abbandonata!”

 

Ehilà! Pubblico questo nuovo capitolo perchè ho ricevuto due recensioni, e ringrazio Ery98sole  e Sognatriceaocchiaperti! Al prossimo :D

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Capitolo 14
*** Safe home ***


Bruce ricambiò la stretta e affondò il volto tra i capelli di Elsa, assaporandone il profumo e perdendosi nei ricordi piacevoli a cui lo riportava la vicinanza del corpo di lei. La sentiva ansimare contro il suo petto e le sue lacrime passavano oltre il cotone leggero della maglietta e raggiungevano la pelle, raggiungevano il cuore.
Cosa poteva dire? Mentirle, dirle che non se ne sarebbe mai andato?
Fissò un punto imprecisato di fronte a sè. Non era la prima volta che doveva far innamorare una ragazza, in fondo lui era una spia, era il suo lavoro. Ma era la prima volta che era la ragazza a farlo innamorare. La abbracciò più forte, immagazzinando quel ricordo e assorbendolo a pieno.
Di malavoglia, la allontanò delicatamente da sé.
“Ehi, Elsie, non piangere! Non lo sai che gli angeli non piangono?” sorrise, teneva le mani sulle spalle di Elsa e la guardava negli occhi azzurri e incredibilmente tristi.
“Vaffanculo” la donna accennò a una risata passandosi il dorso della mano sugli occhi.
“Vedi? Così mi piaci! Acida e bellissima come sempre” Bruce ammiccò.
Bellissima. Nessuno gliel'aveva mai detto e lei non aveva mai neppure preso in considerazione l'idea di esserlo. Crescere al fianco di Amanda non era stato facile. Crescere all'ombra di una ragazza ogni giorno più bella, perfetta, simpatica, amata da tutti e ricercata da tutti i ragazzi, non era stato esattamente una favola.
Nei suoi sogni , però, era sempre stata Elsa la protagonista. Il principe azzurro faceva salire Elsa sul cavallo bianco, dopo averla individuata tra un centinaio di Amande.
Ovviamente la realtà faceva molto più schifo.
“Sei un idiota” tirò su col naso, vergognandosi di trovarsi in quello stato davanti a Bruce. “E comunque scusa, è stata una giornata, è stato un periodo, difficile... Non so da dove mi siano uscite quelle cose...”
Bruce la fissò inespressivo e Elsa lo maledisse per essere così incomprensibile. Gli dispiaceva? Non gliene fregava un cazzo? Che dicesse qualcosa, maledizione!
“Certo, lo capisco”
Forse sarebbe stato meglio se fosse stato zitto.
Rimasero in silenzio per un po', non sapendo che dirsi, e la situazione diventò imbarazzante.
“Vieni, ti faccio vedere la tua camera da letto...” la invitò a seguirla al piano di sopra. Elsa annuì e iniziò a salire le scale dietro di lui.
Era strano, si disse Elsa, pensare che tutti quelli che la conoscevano la credevano morta. Avevano anche celebrato il funerale? Tecnicamente lei ora non esisteva.
Stranamente la cosa non la rattristava né la spaventava. Un'opportunità in più, ecco cosa le stava offrendo tutta quella situazione. La possibilità di ricominciare tutto da capo, di essere quello che avrebbe sempre voluto, senza nessuna Amanda a scegliere al posto suo, nessun Harry a spezzarle il cuore, nessuno scaffale da riordinare al supermercato...
Già, perchè questo era lei: la commessa di un grande supermercato a New York. Niente di più niente di meno.
Amanda aveva deciso che Elsa non sarebbe mai stata in grado di frequentare un'università e laurearsi, quindi l'aveva raccomandata per un buon posto in un negozio molto grande e pieno di clienti.
Fanculo Amanda.
Lei avrebbe benissimo potuto fare l'università, avrebbe potuto fare tutto quello che voleva.
Scrivere, sì, le sarebbe piaciuto scrivere un libro, un domani. Magari proprio sulla sua vita, su tutto quello che aveva passato e stava passando...
Al liceo era tra i più bravi a scrivere i temi.
Sembrava che Elsa avesse un'unica qualità, l'unica che non avrebbe mai voluto avere: l'intelligenza. Più sei intelligente, meno sei felice. Sei sempre portata a ragionare sulle cose, mentre le altre ragazze, quelle giuste, non ci pensano, fanno le cose e basta. Elsa non era così non lo era mai stata. Elsa pensava, Elsa usava l'immaginazione, Elsa sarebbe stata benissimo in grado di decidere per sé, se solo le fosse stato permesso. Ma perchè Amanda le aveva fatto questo? Forse a modo suo pensava di proteggerla.
Eppure non era servito a niente, vista la situazione in cui Elsa si trovava adesso. Ma se l'era cercata, in questo caso aveva fatto tutto da sola. Non aveva mai parlato ad Amanda di Tim, ed ebbe l'ennesima conferma di essere pericolosa quando decideva autonomamente. Se avesse ascoltato Amanda adesso sarebbe stata la bella moglie di un miliardario raffinatissimo, piena di servi e regali per gli anniversari, e magari anche con un paio di bambini ben educati che suonavano il piano giù di sotto. No, decisamente questo era molto più eccitante. In modo perverso, sadico e ottuso, era l'esperienza più eccitante di tutta la sua vita.
“Siamo arrivati” Bruce si fermò davanti a una porta dipinta di bianco e la aprì, invitando Elsa ad entrare in una bellissima stanza da letto, con una grande finestra sulla parete opposta alla porta e un letto a due piazze dalla testiera di legno e le lenzuola candide.
“Vuoi dire sono arrivata” lo corresse Elsa maliziosa.
“Giusto!” Bruce si parò le mani davanti in segno di difesa e alzò gli occhi al cielo: “Ci ho provato!” ammiccò e tornò verso le scale.
Era un bravo attore, non c'erano dubbi.

 

 

Elsa non chiuse occhio per tutta la notte, troppo impegnata a fissare il pavimento. E a sentire lo stomaco che brontolava, tra una cosa e l'altra alla fine Bruce si era dimenticato di prepararle la cena. Guardò l'orologio sul comodino: le tre e mezzo del mattino. Niente male. Chissà se Bruce stava dormendo...
Decise di andare a controllare, così ne avrebbe approfittato anche per sgranocchiare qualcosa. La strada per la cucina la ricordava perfettamente.
Bruce le aveva prestato una sua camicia come pigiama, in assenza di altro. Elsa aveva i capelli sciolti che ricadevano morbidi sulle spalle e il corpo sottile avvolto solo da una camicia di lino. Si chiese quanto fosse conveniente muoversi in quelle condizioni, di notte, nella casa di una spia-probabile serial killer. Cosa avrebbe fatto Amanda? Avrebbe riso maliziosa come solo lei sapeva fare, mostrando i denti scintillanti e assottigliando gli occhi verdi. Sarebbe rimasta in giro il tempo necessario per farsi vedere dall'uomo che bramava e poi sarebbe tornata distrattamente nella sua stanza, aspettando che lui venisse a trovarla. Anche nel sottile gioco della seduzione Amanda era imbattibile. Elsa, dal canto suo, in una situazione analoga avrebbe assomigliato di più a una foca in amore che cerca a tutti costi di violentare il suo compagno.
No, avrebbe fatto a modo suo.
Anche perchè lei non aveva né denti perfetti da mostrare né occhi bellissimi da assottigliare. Scese le scale che collegavano i due piani della casa, sorprendendosi dell'agilità che aveva acquisito nel buio. Raggiunse la cucina e aprì il frigo, che accese automaticamente la sua lampadina e illuminò di colpo il viso di Elsa, costringendola a strizzare gli occhi un paio di volte. “Che diavolo...!” esclamò cercando nel frigo qualcosa di commestibile. Trovò il necessario per un panino al formaggio e questa volta si concesse il lusso di accendere la luce per prepararsi la cena.
Di Bruce nessuna traccia. Che stesse dormendo? In fondo anche le spie sono esseri umani, hanno bisogno di dormire. O no?
Si sedette al tavolo della cucina, dando le spalle alla porta, e addentò il panino.
Dei passi leggeri alle sue spalle, la fecero sobbalzare. Si alzò in piedi di scatto e si voltò verso la porta pronta a lanciare il panino come arma tremenda contro un probabile intruso.
Bruce alzò le mani e rise: “Mi arrendo! Mi arrendo! Ma ti prego non farmi del male... Non sporcarmi il pigiama con il philadelphia!”
“Sei uno stronzo, lo sai vero?” Elsa si rese conto solo in quel momento di quanto potesse risultare ridicola la sua posizione e si sedette di nuovo, dando di proposito le spalle a Bruce che se ne stava appoggiato allo stipite della porta. L'uomo fece il giro del tavolo e si sedette di fronte ad Elsa, come quella volta nel bar...
“Scusa, mi sono dimenticato di prepararti la cena...” teneva il volto tra le mani, trapassando Elsa con lo sguardo. Era uno schianto, decisamente. Indossava solo i pantaloni del pigiama, e anche se non era la prima volta che Elsa lo vedeva così, questa volta fece più attenzione. Notò quanto fosse muscoloso a torso nudo e quanto ogni centimetro di pelle fosse attraversato da una cicatrice.
“Ti verrà il raffreddore!” lo ammonì Elsa.
Bruce si strinse nelle spalle senza cambiare posizione: “Pazienza”
Elsa smise immediatamente di mangiare, non aveva più fame.Era una pazzia quella che stava per fare, Amanda non l'avrebbe mai fatta. Ecco perchè lo fece. Si alzò dalla sedia e, sotto lo sguardo curioso di Bruce, fece il giro del tavolo e gli si sedette in braccio.
“Elsa, io...”
“Shh!” gli sussurrò lei prima di iniziare a baciarlo. Bruce ricambiò il bacio e la strinse a sé iniziando a baciarle il collo. Elsa sussultò. Bruce si alzò dalla sedia e la prese in braccio, lei gli circondò la vita con le gambe, piantandogli i talloni nella schiena e appendendosi al collo. I muscoli di lui erano tesi per lo sforzo, ma il suo volto era completamente rilassato. Con un gesto alla cieca buttò giù dal tavolo le stoviglie che aveva posizionato Elsa e che si frantumarono sul pavimento con un “crash” assordante. Il tavolo era duro e un po' scomodo, ma Elsa non ci fece caso, accogliendo Bruce che si stendeva su di lei e tendeva il collo per baciarla.
Senza dubbio, sarebbe stata una lunga notte.

 

 

 

Ehilà! Ecco il nuovo capitolo! Enjoy :D

 

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Capitolo 15
*** Coming to hell ***


Elsa si svegliò quando i raggi del sole, passando attraverso la finestra socchiusa, iniziarono a giocarle sul volto. Aprì gli occhi pigramente e si stiracchiò sentendosi soddisfatta. Si mise seduta e si accorse di trovarsi sul pavimento freddo della cucina, sotto il tavolo. Nessuna traccia di Bruce. Individuò in un angolo della stanza la camicia che aveva usato come pigiama e la indossò nuovamente. Si mise in piedi barcollando e strizzando gli occhi per la luce. Il suo sguardo si posò su un pacco incartato di rosso posizionato sul tavolo. C'era anche un biglietto: “Per Elsa”. Sciolse il nastro di seta che avvolgeva la confezione e la aprì, all'interno trovò un meraviglioso vestito verde acqua con una cintura azzurra da legare in vita. Elsa sorrise mentre teneva sospeso il vestito davanti a sé, trovandolo meraviglioso. Tornò a leggere il biglietto: “Sono uscito per dei servizi, torno verso le dodici e andiamo a pranzo fuori. Fino a quel momento non ti azzardare ad uscire di casa, nemmeno per andare in giardino!

  • Bruce”

Benissimo, pensò Elsa, non era un'ospite, ma una prigioniera.
Prese sottobraccio il vestito e si diresse alla ricerca di un bagno qualunque per fare la doccia. Salì le scale che la collegavano al piano di sopra, guardandosi intorno curiosa. Era la casa più grande e bella che avesse mai fisto, arredata con stile e raffinatezza, le pareti erano dipinte in toni leggeri, mai eccessivi. Il piano di sopra, come quello di sotto del resto, era pieno di porte e porticine dalle forme più varie. Le aprì una per una, ed era arrivata alla decima porta del piano superiore, quando si bloccò di fronte ad una chiusa a chiave. Provò a girare la maniglia più volte, ma inutilmente. Cosa si nascondeva là dentro? Perchè era l'unica porta chiusa a chiave? La curiosità non le dava pace. Se solo avesse avuto una forcina avrebbe potuto fare come nei film e scassinare la porta... Si chinò e cercò di dare un'occhiata furtiva attraverso il buco della serratura, ma riuscì ad intravedere solo pareti grigie e quello che sembrava lo schermo di un computer enorme. Avvertì un brivido di freddo, doveva decisamente vestirsi, non poteva rimanere così. Continuò nella sua ricerca del bagno e infine lo trovò, una stanza grandissima, con le pareti decorate da piastrelle blu notte. Al centro c'era una grandissima vasca da bagno livello terra, dalla forma rotonda. “Wow!” esclamò Elsa, le sarebbe piaciuto usarla, non ne aveva mai vista una. Ma erano già le dieci, tra meno di due ore Bruce sarebbe stato lì e in quel lasso di tempo Elsa avrebbe fatto in tempo solo a riempire la vasca. No, optò per la doccia.
Si spogliò – cosa molto facile visto il suo abbigliamento – ed entrò. La doccia era molto spaziosa e comoda, all'interno trovò un bagnoschiuma e uno shampoo maschili. Riconobbe in loro lo stesso odore che amava in Bruce e decise di usarli. L'acqua le scivolava addosso piacevole e ricordò la celebre scena del fim “Psycho” che lei e Amanda guardavano sempre da bambine. Amanda ne era terrorizzata, preferiva le storie d'amore, e Elsa non perdeva l'occasione per farle degli scherzi e spaventarla. Sorrise a quel pensiero, alla fine era stato divertente crescere con Amanda. Una goccia d'acqua, non proveniente dal tubo della doccia, le scivolò sulla guancia. Curiosa la raccolse col dito e la fissò interdetta. Una lacrima. Amanda. Inutile fingere, le mancava eccome sua sorella. Non poteva chiamarla, altrimenti la CIA, Bruce, gliel'avrebbe fatta pagare. Finì di sciacquarsi velocemente e quando uscì si rese conto di avere lo stesso odore di Bruce. Trovò il phon e lo adoperò per asciugarsi i capelli insieme ad una spazzola e infine indossò il vestito nuovo. Stava una meraviglia, nonostante tutto era felice. Indossò le scarpe che portava il giorno prima e tornò davanti alla porta chiusa a chiave. In uno dei cassetti del bagno aveva individuato una forcina, e una punta di gelosia l'aveva invasa. Di chi era? Sicuramente di una delle... ragazze di Bruce. Ma perchè la conservava ancora? Forse la sua proprietaria era stata speciale per Bruce, forse l'aveva addirittura amata. Si rigirò la forcina tra le dita guardandola con odio, come se quella cosa fosse la ragazza speciale di Bruce. Elsa avrebbe voluto sapere molte più cose sul conto di quell'uomo, di certo aveva una storia molto interessante. Com'era finito ad essere un agente della CIA? E come l'aveva presa la sua famiglia? Lo sapevano? A proposito, aveva una famiglia?

Decisa, Elsa infilò la forcina nella serratura e iniziò a muoverla a destra e a sinistra come aveva visto fare tante volte nei film. Solo che lei era molto più imbranata di quelle attrici bellissime e abili. Non seppe dire per quanto tempo cercò di scassinare la serratura, ma fu costretta a smettere sentendo dal piano di sotto il rumore delle chiavi che aprivano la porta di casa. Bruce era tornato, erano le dodici. Si precipitò in bagno e rimise la forcina esattamente dove l'aveva trovata, agli agenti della CIA non sfugge niente.
“Elsa?” chiamò la voce di Bruce. Elsa si precipitò al piano di sotto e gli corse incontro cercando di sembrare distante, cercando di cancellare dalla sua mente gli eventi di quella notte.
“Ti piace? Ti sta benissimo...” Bruce osservò il vestito di Elsa e sorrise. Elsa dovette mordersi il labbro per non fare altrettanto.
“Cos'è questa storia?” Elsa incrociò le braccia sotto al seno.
“Che storia?” Bruce parve sinceramente sorpreso.
“Il fatto che sono tua prigioniera!” sbottò la donna.
“Più che prigioniera direi ospite” Bruce le rivolse lo sguardo più eloquente della sua vita.
“Stupido...” macelò Elsa tra i denti e dandogli le spalle. E in cuor suo maledicendosi per la loro notte.
“Andiamo... - Bruce la raggiunse e, una mano sul fianco e una sul mento, la cotrinse dolcemente a voltarsi. - … Preferisci essere rinchiusa qui con me?” sfoggiò il suo sorrisetto e le fece l'occhiolino. Elsa si sottrasse dalla presa e sostenne il suo sguardo: “Io proprio non ti capisco! Un attimo prima ti comporti come se ti importasse di me e un attimo dopo come se tu fossi costretto a stare con me...” abbassò lo sguardo e si morse il labbro per impedirgli di tremare e per ricacciare le lacrime che erano pronte ad uscire.
L'espressione di Bruce si fece dubbiosa e un po' malinconica, la raggiunse nuovamente e la baciò. Elsa ricambiò il bacio e gli permise di farsi cingere la vita, mentre lei gli avvolgeva il collo con le braccia sottili. “Sono ancora più confusa...” mormorò Elsa allontanandosi appena.
Bruce riprese a baciarla, ma sapeva di non poter andare avanti così. Non poteva baciarla ogni volta che esigeva delle risposte, anche se la cosa non gli dispiaceva. Ma Elsa, a dispetto di quanto potessero pensare tutti, era una ragazza intelligente e presto avrebbe preteso le sue risposte ad ogni costo, anche a quello della vita. Perchè lei stava rischiando la vita, eccome. Bruce non poteva più fingere che non fosse così. Fingere era il suo mestiere, certo, ma aveva giurato a sé stesso che non si sarebbe mai più innamorato di una donna, non dopo quello che era successo a Mia. Non voleva perdere anche Elsa. Avrebbe voluto chiedere di farsi esonerare dall'indagine, di farsi sostituire, ma poi? Cosa ne sarebbe stato di Elsa nelle mani di un tenente più sadico e spietato? No, non poteva abbandonarla.
“Ti va di andare a pranzo?” le sussurrò all'orecchio.
Elsa si sottrasse immediatamente dall'abbraccio e lo guardò come se fosse matto: “Ma pensavo di non poter uscire...”
“Non da sola, ma con me sì” le fece l'occhiolino e le aprì la porta per farla uscire. “Andiamo, Elsa, sali in macchina. Conosco un ristorantino fantastico da queste parti...”
Elsa lo vide chiudere la porta di casa a chiave ed entrò nella Ferrari scarlatta parcheggiata nel prato.
“Ah, e se qualcuno dovesse chiedertelo...” disse Bruce entrando in macchina al posto del guidatore e Elsa, sul sedile accanto, lo guardò attentamente: “Il tuo nome è Jenna Malone”.
Mise in moto e partirono.

 

Elsa osservava il panorama fuori dalla finestra, seduta sulla poltrona, con una tazza fumante di cioccolata tra le mani. Il silenzio del pomeriggio era interrotto solo dalla pioggia che si abbatteva gelida e impietosa sui vetri chiusi. Sospirò, Bruce era uscito di nuovo e le aveva detto che sarebbe tornato verso sera. Reclinò il capo all'indietro adagiandosi sullo schienale, aveva delle pesanti borse sotto gli occhi a testimonianza delle notti in sonni che si erano susseguite da quando Bruce la stava ospitando in casa sua. Due settimane. Non avevano più parlato di camere d'isolamento e interrogatori, andavano a pranzo e a cena fuori, in ristoranti meravigliosi, e la notte facevano l'amore. In tutto questo si scambiavano di rado un 'buongiorno'. Elsa allungò il braccio e afferrò il telecomando della tv poggiato sul tavolino davanti a lei. Il salone di casa di Bruce era molto spazioso, con una grandissima libreria e una mega tv a schermo piatto, di fronte alla quale c'era un tavolino di legno e cristallo e, subito dopo, un divano di pelle candida. Di lato, invece, c'era la grande finestra a cui si appoggiava la poltrona di Elsa.
Si alzò pigramente e abbandonò la tazza vuota sul tavolo e, già che c'era, decise di stendersi sul divano. Accese la tv e fece zapping da un canale all'altro finchè non sentì il pollice andare in cancrena. Era una vera noia. Ad un certo punto la sua attenzione fu catturata dal telegiornale e dalla voce asettica ma elegante del conduttore. “Si è verificata un'altra sparizione a New York, ieri notte. La donna scomparsa si chiama Amanda Jessica Brent, medico e.....”
Elsa rimase immobile, incapace di qualsiasi pensiero lucido. Una foto di lei e Amanda abbracciate comparve sullo schermo. Gli occhi verdi di sua sorella scintillavano e sprizzavano gioia, mentre i suoi parevano più grigi e spenti. “Amanda è la ragazza a destra, mentre quella a sinistra era sua sorella Elsa Brent, venuta a mancare sei mesi fa in circostanze misteriose.”
Elsa avvertì un forte conato di vomito e il sapore dolce della cioccolata che aveva appena bevuto divenne insopportabile, rendendole la lingua pesante e il palato appiccicaticcio. Si mise a sedere con gesti rapidi e scoordinati, con il cuore che le batteva all'impazzata e l'affanno che la stava soffocando. Tossì più e più volte tenendosi con le mani la gola e stringendola in una morsa implacabile. Un po' di saliva le era andata di traverso e annaspava senza tregua come se stesse affogando dentro se stessa. I colpi di tosse divennero sempre più forti e gutturali, si mise carponi sul divano e reclinò il capo in avanti, rivolto al pavimento, pronta a rigurgitare il misero contenuto del suo stomaco. Il vomito, a differenza delle lacrime, non tardò ad arrivare e man mano che fiotti densissimi le uscivano dalla bocca spalancata, Elsa si sentiva sempre più libera. Quando, dopo circa un quarto d'ora, si rese conto di non aver più niente da vomitare a parte l'anima, rimase nella stessa posizione a fissare il pavimento sporco, allibita.
Amanda era scomparsa.
Cosa avrebbe detto Bruce quando l'avrebbe trovata in quello stato?
Appena finalmente fu in grado di muoversi, si mise a gambe incrociate sul divano, tenendo le caviglie con le mani e fissando un punto imprecisato davanti a lei. I suoi occhi erano ancora sbarrati, ma sentiva il battito del cuore tornare regolare. Nel frattempo il telegiornale era terminato e al suo posto era partita la publicità di uno spazzolino da denti super tecnologico. Anche la pioggia stava smettendo, il rumore giungeva sempre più ovattato. La lancetta dell'orologio si muoveva con un 'clock' deciso, mentre Elsa si portava una mano al cuore sconvolta. Non poteva neppure scendere dal divano, davanti a lei si allargava una pozza nauseante e verdastra. Una lacrima scese silenziosa. Era spaventata. Si sentiva piccola e spaventata, come un pulcino che è appena uscito dall'uovo. Mamma. Amanda.
Una lacrima. Un'altra. Un'altra ancora.
Le guance di Elsa divennero presto più fradice del prato del giardino. Si accoccolò su sé stessa, avvicinando le ginocchia al petto e stringendole con le braccia, per poi affondarvi il viso e nasconderlo.
Fu avvolta dal buio e chiuse gli occhi sperando di non doverli aprire mai più.
Non sapeva dire con esattezza quanto tempo fosse rimasta in quella posizione, quasi fetale, ma quando finalmente trovò il coraggio di lasciarsi andare le ginocchia e mettersi seduta, scoprì di non essere più sul divano del salone, ma sul letto della sua camera da letto. Il buio pesto inondava la stanza, la finestra era socchiusa e permetteva all'aria fresca di entrare. Elsa era sotto le coperte, stesa. Stesa? Non ricordava di essersi stesa, né tantomeno di essere salita nella camera da letto che le aveva affidato Bruce o di essersi spogliata e aver indossato la camicia che usava come pigiama. Fu presa da un attacco di panico. Era tornata in quella stanza buia? O non ne era mai uscita? Era stato tutto un sogno – un'allucinazione? Il cuore tornò a battere all'impazzata, fu nuovamente presa dall'affanno e ricominciò a respirare a fatica. “Bruce!” strillò senza curarsi di sembrare pazza.
Niente.
“Bruce!!” strillò più forte, mettendosi a sedere e liberandosi dalle coperte improvvisamente troppo pesanti, soffocanti.
Ancora niente.
“Bruce!!!”.
Alla fine era successo, sorrise amaramente, era impazzita. Non era mai uscita dalla stanza buia.
“Bruce...” questa voltà sussurrò, quasi implorò, il nome dell'unica persona che era ancora con lei. Si prese il viso tra le mani e attese in silenzio lacrime che non arrivarono mai.
“Elsa, tutto bene?” la voce preoccupata di Bruce irruppe nella stanza insieme a lui, dopo aver spalancato la porta e lasciato che sbattesse contro il muro. Bruce era una scia durissima e splendente in contrasto con l'oscurità che lo circondava. Elsa rimase a bocca spalancata, troppo felice per poter dire qualcosa. Bruce si passò una mano tra i capelli biondi e sospirò. “Come ti senti, Elsie?” sussurrò dolcemente sedendosi sul letto accanto a lei. Elsa lo fissò con gli occhi che iniziavano ad inumidirsi, e gli toccò il volto per accertarsi di non stare sognando. “Bruce, sei davvero tu?” una lacrimuccia timida si face largo sul suo volto e seguì la curva morbida della guancia, fino a raggiungere le labbra socchiuse e a depositare sulla lingua un sapore salato e amato. Bruce le prese dolcemente le mani e le bloccò sul letto, i suoi occhi fari splendenti nell'oscurità. “Si, Elsa, sono io. Va un po' meglio?”. La donna ci pensò un po' su, che cosa era successo? Ah, sì: l'attacco di panico, il vomito, Amanda. “Io... - ci pensò un attimo per essere certa di dare la risposta giusta - … Credo di sì...” disse poi rilassandosi. “Molto bene. Domani mattina ne parliamo meglio, che dici?” le sistemò una ciocca ribelle dietro l'orecchio e fece per alzarsi. “Bruce!” lo richiamò Elsa quando lo sentì vicino alla porta. Bruce si voltò verso di lei, il pallore lunare rischiarava delicatamente l'ambiente. “Resta...” mormorò Elsa, Bruce rimase immobile non sapendo bene cosa fare. Non si era mai trovato in una situazione del genere. “Ti prego, resta qui...” Bruce si ritrovò a sorridere, uno dei pochi sorrisi sinceri che solo le persone speciali riuscivano a fargli affiorare. “Certo...” sussurrò con voce morbida, una carezza per le orecchie di Elsa che a quella risposta già sentiva il cuore rallentare. Bruce ritornò sul letto e si stese accanto a lei, infilandosi sotto le coperte calde. Elsa lasciò che le braccia di lui le stringessero il corpo e che posasse il volto sulla sua spalla. Per la prima volta da che entrambi potessero ricordare, sentirono un calore autentico provenire da dentro di loro. Erano rivolti verso la finestra e per un po' Elsa si perse nella sua luce, qualche secondo prima di abbandonarsi al sonno più profondo di tutta la sua vita.

 

Avanzi cauta nella grande cucina, il tuo è un incedere lento e timoroso nell'ambiente che ti circonda. L'odore piacevole di cornetti appena sfornati ti stordisce. Amanda è seduta al tavolo della cucina e dà alle spalle alla porta, a te. Deve avere circa dieci anni. Anche vostra madre ti dà le spalle, troppo presa ad armeggiare con i fornelli. “Buongiorno, Elsie!” esclama radiosa Amanda e a quelle parole anche tua madre si gira. “Ben svegliata, tesoro! Coraggio, siediti che ho preparato i cornetti...” ti sorride dolcemente, come solo lei sa fare, e posa al centro del tavolo un vassoio pieno di croissant fumanti. Prendi posto di fronte a tua sorella, davanti a te c'è una tazza di latte e una ciotola con dei biscotti al cioccolato, mentre accanto a quella di Amanda ci sono biscotti alla crema. Bevi il latte con ingordigia, hai sempre amato il latte caldo, e mentre ti porti la tazza alle labbra ti soffermi ad osservare il volto di tua madre. Ha occhi stanchi cerchiati da pesanti occhiaie, ma la cosa che ti colpisce di più è la macchia violacea che si espande sullo zigomo destro. Guardi Amanda alla tua destra, lei sembra non essere turbata dalla cosa, sta mangiando il suo cornetto come se niente fosse. Vostra madre è seduta dal lato del tavolo opposto al vostro, con il volto fra le mani, fissandovi sorridente. “Che è successo, mamma?”. A quella domanda il flebile sorriso scompare e raddrizza le spalle: “Cosa?” chiede stupita, troppo stupita. Amanda ti guarda aggrottando le sopracciglia. “Hai la guancia viola...” il tuo ditino da bambina di otto anni si protende verso il viso della mamma. Lei si porta immediatamente la mano alla guancia come per coprirla, e sgrana gli occhi: “No, niente, cara... Assolutamente niente... E' solo che poco fa ho sbattuto all'anta del frigo, mentre lo aprivo. Sono cose che succedono, dovete stare attente!” le sue pupille di giada vagano da te e Amanda con aria severa, poi si alza e si gira verso la cucina. Adesso non riesci più a vederla in faccia, ti appare solo la sua massa di ricci scuri e la parte di dietro del suo corpo perfetto. Mamma e Amanda sono uguali, stessi occhi, stessi capelli e stessi lineamenti delicati. Tu invece hai preso da papà, occhi grandi e grigi, capelli mossi e chiari e lineamenti seicenteschi. Dall'ingresso proviene il rumore della porta che si apre, la mamma sembra sobbalzare. Tu non ci fai troppo caso, allungando la mano verso il vassoio dei cornetti. Tua madre invece si volta di scatto verso di voi, un lampo di preoccupazione, della durata di mezzo secondo, le attraversa gli occhi, poi si rivolge a voi con la voce che le trema, facendovi segno di alzarvi. “Su, bambine, andate nella vostra stanza a giocare...”. Amanda ubbidisce, come al solito, ma tu hai intuito che c'è qualcosa che non va. Chi è entrato in casa? E' estate, precisamente le due settimane in cui papà non lavora, dev'essere per forza lui. Perchè la mamma si preoccupa? “Che succede?” le chiedi trapassandola con lo sguardo. Non hai nemmeno mangiato un cornetto. “Niente, tesoro. Solo che è tardi, devo liberare il tavolo e iniziare a cucinare...” Amanda si ferma sulla porta, aspettando te per uscire. “Ma mamma” protesti “Sono solo le nove del mattino!” la guardi confusa. “Ho detto di andare in camera tua! Perchè devi sempre disobbedire?”. Si porta le mani ai fianchi, contrariata. Il suo corpo è attraversato da un tremito quasi impercettibile, ma frequente. Passi pesanti si avvicinano alla cucina. “Allora, che fate ancora qui?” vi urla la mamma. Amanda ti prende per mano e ti conduce verso il corridoio: “Andiamo, Elsie...” ti sussurra all'orecchio. Non vorresti, ma ti lasci condurre al piano di sopra, nella vostra cameretta. Amanda chiude la porta e inizia a parlare animatamente di quale gioco fare, ma tu non la ascolti, troppo sorpresa dal comportamento di vostra madre e dalla voce forte di vostro padre che proviene dal piano di sotto. Un rumore di piatti rotti, di stoviglie rovesciate e urla soffocate sono tutto ciò a cui riesci a pensare.

 

I suoi occhi si aprirono con un 'click' improvviso, quasi spaventoso. Elsa si portò una mano al petto, sentendo il cuore battere forte. Era ormai giorno, i raggi del sole facevano capolino attraverso la finestra. Avrebbe voluto alzarsi, ma qualcosa di pesante la bloccava. Il braccio di Bruce. A fatica riuscì a voltarsi verso di lui, continuando a giacere sotto le coperte e sotto il suo braccio. Lui dormiva accanto a lei, il respiro era regolare e il viso rilassato. Lei indossava la camicia e lui i pantaloni del pigiama, come al solito niente maglietta. Le labbra di Elsa furono illuminate da un sorriso. Osservò Bruce, aveva gli occhi chiusi e i capelli arruffati, era steso di lato. Si raggomitolò contro il suo petto, abbastanza vicina da sentirgli battere il cuore, sentendosi protetta. Per la prima volta al suo risveglio lui era ancora lì, e la cosa le provocò una gioia indescrivibile. Ma fu un attimo, subito ripensò al sogno che aveva fatto, lei e Amanda ancora bambine durante una normale colazione estiva, sua madre e, infine, suo padre. Nel sogno Elsa aveva otto anni, a quell'età e in quel periodo dell'anno aveva ucciso sua madre. Probabilmente il sogno era ambientato pochi giorni prima. Ma era un sogno o un ricordo? Sentiva la testa in fiamme e le tornò in mente il telegiornale del giorno precedente. Povera Mandie, chissà che fine aveva fatto. Nelle mani di uno stupratore? Un serial Killer? Un serial killer... Bruce. Improvvisamente fu attraversata da un orribile pensiero, e se nella scomparsa di Amanda centrasse la CIA? Se centrasse Bruce? Non voleva particolarmente bene a sua sorella, ma non voleva nemmeno vederla morta!
Il canto degli uccellini giungeva delicato nella stanza, unendosi all'odore piacevole dell'erba bagnata. Elsa non ricordava di essere mai stata così serena, Bruce che le dormiva accanto, lei rintanata tra le sue braccia, il sole splendente e gli uccellini che cinguettavano. Come in una fiaba. Si accorse di stare sorridendo mentre osservava il volto dai lineamenti durissimi di Bruce, la mandibola volitiva cosparsa da sporadici ciuffi di barba. Gli occhi erano piccoli, sottili, le iridi di ghiaccio nascoste dalle palpebre rosate. Elsa gli passò delicatamente la mano tra i capelli, come una carezza e scese poi sul volto, ricalcandogli il profilo con l'indice. Le palpebre di Bruce si strinsero ed emise un respiro un po' più forte, si stava svegliando. Aprì gli occhi pigramente e aggrottò le sopracciglie, guardandosi intorno. “Buongiorno” mormorò Elsa, anche le labbra di Bruce si incresparono in un sorriso. “Buongiorno...” Bruce allontanò dolcemente Elsa da sé e si stiracchiò, per mettersi poi seduto e appoggiarsi alla testiera del letto. Elsa fece altrettanto e si sedette accanto a lui, reclinando la testa di lato per poter continuare a guardarlo. Non l'aveva mai visto così vulnerabile, voleva capire cosa stesse pensando. Era felice? Sereno? Confuso? Arrabbiato? “Hai fatto proprio una bella dormita!” lo prese in giro Elsa. Bruce si coprì il volto con le mani e si stropicciò gli occhi mostrando il suo sorrisetto beffardo. “Sarà stata la stanchezza...”

Rimasero un po' in silenzio, l'espressione di Elsa si fece cupa. “Comunque grazie...” Elsa si strinse le ginocchia al petto e vi poggiò il mento, fissando un punto davanti a sé ed evitando lo sguardo di Bruce. “Di cosa?” chiese lui sorpreso, “Di essere rimasto...” si voltò verso di lui, seria. Bruce si passò una mano tra i capelli e si strinse nelle spalle, noncurante. Elsa avrebbe dovuto rimanerci male per questa mancanza di interesse nei suoi confronti che lui le dimostrava, ma si era innamorata di Bruce per questo, per i suoi modi di fare arroganti, per la sua bellezza, perchè Bruce era un suo degno avversario. Abbandonò pesantemente all'indietro la testa, che raggiunse la testiera in mogano del letto con un tonfo sordo. “Che è successo ieri sera?” chiese guardando il soffitto. Bruce girò il viso verso di lei: “Dovresti dirmelo tu. Ti ho trovato che dormivi sul divano, davanti a te c'era un mare di vomito...” non c'era ribrezzo nelle sue parole, ma Elsa si maledisse lo stesso per aver fatto l'ennesima figura di merda, costringendolo a ripulire il suo vomito. Avrebbe voluto sprofondare. “Mi dispiace...” disse in un sospiro, mordendosi il labbro fino a farlo sanguinare. “Tranquilla, l'aspirazione di tutta la mia vita era pulire il vomito di una bella fanciulla!” fece l'occhiolino e di nuovo comparve il suo sorrisetto. Elsa avrebbe voluto mandarlo a quel paese, ma non ne aveva la forza. Rimase in silenzio nella stessa posizione che aveva assunto il giorno prima, sul divano. La mano ruvida di Bruce che le si posava sulla spalla, la fece sobbalzare. “Ehi, Elsie, stavo scherzando...” mormorò in tono di scuse. Elsa estrasse il volto dall'incavo formato dalle braccia, e lo girò verso Bruce. Lui la guardava preoccupato. Elsa si sforzò di sorridere: “No, scusa... E' solo che sono successe così tante cose, è tutto così... complicato...” . Bruce la ascoltava con attenzione. “... Ho visto il telegiornale, ieri. Amanda, mia sorella, lei è... scomparsa...” lo guardò ansiosa, ma lui continuava ad osservarla e a tacere. Era il momento di fare la domanda, Elsa lo sapeva. “Centrate voi, Bruce? Centra la CIA?” il suo sguardo si fece durissimo e trapassò gli occhi di Bruce. Lui scosse la testa lentamente: “No, Elsa. O meglio, in un certo senso sì. Ti ricordi quando Smith ti disse che avresti dovuto collaborare con noi per trovare un serial killer?”. Elsa annuì. “Potrebbe essere stata vittima di quel serial killer, le modalità sono le stesse...” adesso furono gli occhi di Bruce a rabbuiarsi. “Come... le stesse modalità? E perchè in un certo senso centro io? E' perchè era mia sorella? Come...”
“Elsa!” la voce di Bruce era bassa, ma volitiva. “Se tu ci avessi aiutato, probabilmente avremmo potuto evitare questo omicidio...” la guardò con aria di rimprovero.
Elsa abbassò lo sguardo: “Mi... mi dispiace. Ma... che vuol dire 'le stesse modalità'?” le tremava la voce.
“A casa sua, precisamente sul letto di tua sorella, c'erano due schegge di vetro colorato, lunghe circa dinque centimetri, una nera e una bianca.”
Come faceva Bruce a sapere tutte queste cose?
“Sch... Schegge...?” balbettò Elsa, l'unica cosa che riuscì a dire.
“Sì, in tutte le case delle persone scomparse, o sul letto, o sul divano, o sul tavolo... C'erano due schegge di colori diversi. Alcuni avevano una schegga rosa e una arancione, un altro una verde e una blu... Quelle di Amande erano nere e bianche!” parlava sempre con più foga, con più rabbia.
Elsa ci pensò su: “Ti aiuterò!” esclamò dopo un po'.
Bruce la guardò sorpreso.
“Ho detto che ti aiuterò!” scese dal letto e si alzò in piedi, stringendo i pugni.
“Sei sicura?” anche Bruce si alzò.
“Sì!” lo guardò negli occhi.
Bruce annuì: “Bene, allora oggi pomeriggio torneremo da Smith.”
Il cuore di Elsa iniziò a martellare in petto, in che razza di guaio si era cacciata? Perchè non contava mai fino a duecento prima di parlare?
“Bruce?”
Bruce stava per uscire dalla stanza, ma si bloccò appena le labbra di Elsa pronunciarono il suo nome.
“Sì?”
“Ritornerò in quella stanza?”
Lo sguardo di Bruce si addolcì notevolmente, a volte Elsa gli ricordava una bambina. Le andò incontro e la strinse forte: “Non temere Elsa” mormorò tra i suoi capelli, stringendola forte: “Ti prometto che nessuno ti farà più del male!”
Una promessa che gli sarebbe costata ogni cosa.















Ehilà! Capitolo abbastanza lungo, sperio non sia troppo noioso! Comunque mi dite perchè le recensioni sono così poche? Eppure visualizzate in tanti... Vabbè, spero che troverete più tempo! Ciaoo :)

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Capitolo 16
*** Price to pay ***


Elsa non riusciva a vedere niente, la benda era saldamente stretta intorno ai suoi occhi. Sentiva il rumore della Ferrari che correva lungo l'autostrada, ma nient'altro. Sapeva che Bruce era accanto a lei, che era mattina, che stavano andando a parlare con Smith, ma non sapeva né dove né come. Ad ogni modo, non le importava. Bruce era con lei, le aveva promesso che nessuno le avrebbe fatto del male e anche se non avrebbe dovuto, si fidava di lui.
“Come sta andando il viaggio?” le chiese la voce profonda di Bruce. Elsa decise di girarsi comunque verso di lui, anche se non poteva vederlo. “Bene, quanto manca ancora?”
“Un po'” replicò Bruce vago, non poteva comunicarle niente, nemmeno quanto distasse il castello dell'interrogatorio da casa sua.
Elsa si rassegnò e incrociò le braccia.
Rimasero in silenzio per il resto del viaggio, finchè Bruce parcheggiò la macchina e aprì lo sportello per far scendere Elsa. Le slegò la benda e la donna dovette strizzare gli occhi un paio di volte per mettere a fuoco il paesaggio che la circondava. Erano nel giardino che circondava il Castello. “Vieni” Bruce la prese per mano e la condusse attraverso il prato. Elsa si sentì immediatamente più tranquilla quando le loro dita si intrecciarono. Raggiunsero il portone d'ingresso, Bruce indossava un paio di pantaloni beige e una giacca casual coordinata. La camicia azzurra aveva i primi bottoni sbottonati ed era in parte fuori e in parte dentro i pantaloni. I capelli biondi erano scompigliati dal vento e gli occhi azzurri erano coperti da Rey ban scurissimi. Elsa, dal canto suo, portava un paio di jeans all'ultima moda e una casacca violetto, tutti regali di Bruce. L'uomo bussò tre volte alla porta finchè questa non si aprì con un tonfo sordo. Inquietante, pensò Elsa. Bruce le fece cenno di entrare e lei obbedì, stando bene attenta a non perderlo di vista nel buio dell'ambiente. “Una luce è troppo costosa?” obbiettò irritata Elsa. Bruce le strinse la mano: “O il buio o la benda, scegli tu.”.
“Non è che cambi molto, però!” Elsa si lasciò guidare. Ma come faceva Bruce a vedere?
“No, è vero. Ma noi agenti della CIA siamo fantasiosi...” scherzò lui.
“Ma tu come fai a non sbattere contro un muro? Sei un vampiro, un pipistrello... Cosa sei di preciso?”
“Ah-ah, davvero spiritosa! Comunque si chiama 'memoria', mia cara, forse ne hai sentito parlare...” “I.d.i.o.t.a.” scandì Elsa in modo melodrammatico.
“Ehi, attenta, se ti lascio la mano poi dovrai cavartela da sola, al buio. E qualcosa mi dice che non riusciresti a fare un paio di passi senza inciampare in te stessa...” allentò appena la stretta della mano, quel tanto che bastava per rendere la sua minaccia un po' più credibile. Poi strinse di nuovo. “Be', se ce la fai tu ce la può fare chiunque...” Elsa si finse noncurante, ma sapeva che Bruce aveva ragione.
“Fingerò di non aver sentito! Comunque attenta, ora iniziano le scale...
Elsa fu costretta a tacere, troppo impegnata a cercare di non cadere. Non voleva dargli questa soddisfazione. Ma quante erano quelle maledette scale? Duemilasettecento?
“Ancora viva?” chiese Bruce sornione
“Io si, tu non per molto...”
Bruce ridacchiò, cogliendo la minaccia.
Terminarono di salire le scale e Bruce la strattonò appena per farle segno di fermarsi.
“Siamo arrivati”
Elsa sentì di nuovo il rumore di una porta che si apriva, e questa volta potè vedere l'ambiente che la circondava. Purtroppo. Sembrava una stanza delle torture. Una volta, da bambina, suo padre portò lei e Amanda al Museo delle Torture Medioevali di New York. Amanda non sarebbe mai voluta andarci, ma papà gliel'aveva ordinato e lei aveva obbedito. Elsa,invece, era sempre stata un po' sadica e, doveva ammetterlo, un pizzico sanguinaria. Sua madre era morta da un paio d'anni, quindi adesso era loro padre, un uomo violento e possessivo, ad 'occuparsi' di loro. Quel giorno Amanda compiva dodici anni e loro padre aveva trovato un modo decisamente originale di festeggiare il compleanno. Il museo era tetro e buio, gli strumenti da tortura venivano esposti in teche di vetro, con tanto di scheletri finti sparsi qua e là. Amanda ne era rimasta scioccata e anche Elsa, nonostante il suo carattere, ne fu decisamente colpita.
Ora, la stanza in cui si trovava adesso con Bruce conteneva gli stessi attrezzi del museo. Era una sala grande e tetra, non c'era né un lampadario né lampadine in generale, ma qua e là erano appese torce antiche dalle punte di fuoco. Le pareti erano scavate in roccia e l'ambiente era molto umido, il pavimento era invece decorato da affreschi sbiaditi e sorreggeva un infinità di teche come quelle del museo della Tortura.
Elsa si voltò di scatto verso Bruce, guardandolo con odio: “Che diavolo avete intenzione di farmi?” sgranò gli occhi.
“Tranquilla, Elsie, questo è solo per creare un po' di suggestione. Sei mai stata in un posto simile?”
Elsa si chiese se fosse stato meglio mentire o dire la verità. L'ultima volta aveva optato per la seconda ipotesi, ma lei era una donna a cui piaceva cambiare.
“No! O meglio, ho visto questo tipo di stanze in tivù, nei film horror...” doveva stare molto attenta a non farsi smascherare.
“Come si chiamavano i film?” Bruce la guardò con occhi che sembravano dire 'guarda che lo so che mi stai mentendo, stupida! Non ti servirà a niente!'.
“Be', ora non ricordo. A volte non li vedevo dall'inizio, sai: facendo zapping, la notte...” cercava di evitare lo sguardo di lui, e questo la tradì.
“Elsa, vuoi una dimostrazione pratica di come si usano questi giocattolini?” la scosse per le spalle. Elsa sentì il sangue gelarle nelle vene. Davvero Bruce avrebbe potuto torturarla?
Bruce si pentì delle sue parole, ma non aveva altro modo per spingerla a dire la verità. Doveva fare pressione sulle sue debolezze, sulle sue paure. Era anche questa una forma di tortura, Bruce lo sapeva e si sentiva uno schifo, ma meglio un po' di pressione psicologica che qualche amputazione...
“Salve!” la voce roca di Smith riecheggiò nell'ambiente umido. L'uomo era entrato dall'altra porta di fronte Bruce e Elsa, era vestito elegantemente e stringeva il suo solito sigaro tra indice e medio. Elsa si strinse a Bruce cercando protezione. Fu un moto involontario, razionalmente non l'avrebbe mai fatto, avrebbe preferito sembrare fredda e distaccata, ma Smith le incuteva un certo terrore. “Salve, colonnello” disse Bruce con voce sicura, scostando non molto delicatamente Elsa da sé. “Che piacere, miss Brent. Come è stata questa vacanza a casa del tenente?” Smith sorrise mellifluo. Elsa era rimasta abbastanza scioccata dal modo in cui Bruce l'aveva allontanata da sé, ma non lo diede a vedere, ne avrebbero riparlato dopo.
“Molto bene, grazie. Il tenente è stato così gentile ad offrirsi di ospitarmi...” rivolse a Bruce uno sguardo di sfida. Le aveva detto che avrebbe potuto passare dei guai se la notizia della sua ospitalità sarebbe giunta alle orecchie del colonnello, e Elsa desiderava fare tutto ciò che poteva per vendicarsi. Una vocina fastidiosa le diede della stupida, in fondo Bruce era stato molto gentile con lei, l'aveva ospitata, ricoperta di regali, fatta sentire amata... E soprattutto l'aveva salvata dalla stanza d'Isolamento nella quale adesso Elsa rischiava di tornare.
Bruce alzò gli occhi al cielo arrabbiato.
“Con lei faremo i conti più tardi!” Smith rivolse a Bruce un'occhiata significativa.
Si metta in fila, avrebbe voluto dire Elsa, prima io e poi lei!
“Prego, miss Brent, non sia così rigida. Si accomodi...” indicò la stanza con un gesto vago.
“Dove? Sul trono di chiodi o nella vergine di Norimberga?” replicò Elsa stringendo i pugni.
“Senza dubbio l'umorismo non le manca! Ma ci dica, è già stata qui in passato?” Smith iniziò a camminare con passi molto lenti lungo la stanza. Era quasi ridicolo mentre cercava di psicanalizzare Elsa.
“Sì, da bambina”
Altro colpo inferto a Bruce. E di nuovo la voce che le dava della stupida. Maledizione, improvvisamente tutte le valide ragioni per odiare Bruce non sembravano più tanto valide. Si stava comportanto da stronza, non volle nemmeno voltarsi verso di lui per vedere la sua espressione.
“Quando, precisamente?”
“Il giorno del dodicesimo compleanno di mia sorella... Ma si può sapere che ve ne importa? Io sono venuta qui solo per dirvi che accetto di collaborare con voi...” Elsa era esausta.
“Davvero?” gli occhi piccoli di Smith si illuminarono.
“Si!”
“Bene!” gioì il colonnello.
Poi tornò serio: “Comunque, stava dicendo?”
“State scherzando, vero?” Elsa lo guardò come se fosse matto.
“Andiamo, miss Brent. Che c'è di male nel fare due chiacchiere tra amici?” allargò le braccia platealmente.
“Oh, assolutamente nulla. Se si è amici. E se non si minaccia di tortura la persona che sta 'chiacchierando'!” mimò le virgolette.
“Devo ammetterlo, Jona, è davvero uno spasso! Capisco perchè ti piace!”
Elsa resistette all'impulso di guardare Bruce che se ne stava alle sue spalle. Aveva sorriso?
Fatto sta che non disse nulla. E Elsa si sentì uno schifo per avergli fatto del male davanti ad un suo superiore.
“Dunque, Miss Brent, diceva che andò ad un museo della Tortura per il compleanno di sua sorella. Chi vi portò lì? Non le sembra uno strano posto per una festa di compleanno?”
“Ci portò mio padre, erano passati due anni dalla morte di mamma. Papà era un uomo...” Elsa pensò al termine adatto “... Complicato...!”
Sì, complicato era il termine giusto.
“Come 'complicato'?” Smith aggrottò le sopracciglia folte e aspirò dal sigaro.
“Non so bene come spiegare... violento, possessivo... ma a suo modo anche amorevole...”
“L'ha mai picchiata?”
“Puff...!” Elsa alzò gli occhi al cielo e sorrise amaramente. “Più volte di quante immagini..”
Smith annuì: “E sua sorella? Picchiava anche lei?”
“No, vuole scherzare? Amanda era la figlia perfetta! Non la si doveva toccare nemmeno con un dito! Io venivo punita anche per i suoi sbagli...” strinse i pugni, di nuovo stava tornando l'odio per sua sorella.
“Capisco. E vostra madre? Quando era in vita ,cosa faceva mentre vostro padre vi picchiava?”
“Posso sedermi?” Elsa sentì improvvisamente le gambe cederle e la gola diventare secca. “E potrei avere anche un bicchier d'acqua?”
Smith sorrise: “Certo, ovvio. Vede, miss Brent? Se lei si comporta bene con noi, noi ci comportiamo bene con lei...”
Le parole dovevano essere rassicuranti, ma per Elsa suonarono come una minaccia.
Smith fece un cenno ad una delle guardie presenti nella stanza e quella uscì un paio di minuti per ritornare poi con una sedia di legno e un bicchiere di carta. Elsa sussurrò un “grazie” e si sedette pesantemente, poi prese il bicchiere e ne bevve il contenuto con ingordigia.
“Dunque, miss Brent, le avevo chiesto cosa facesse sua madre in quelle situazioni...”
Elsa non potè rispondere subito, si distrasse ad osservare Bruce che, da dietro di lei, si dirigeva accanto a Smith. Lo guardò cercando di scusarsi, ma gli occhi di lui erano impassibili. Elsa si morse il labbro.
“Miss Brent?” la richiamò Smith.
“Sì, scusi! Dunque, no: la mamma non faceva niente, ma per il semplice fatto che quando era ancora viva papà non ha mai alzato un dito su di noi...”
“E su sua madre?”
La domanda colpì Elsa come un pugno. Ricordò il sogno della notte precedente e il cuore iniziò a martellarle in petto.
“Io... Non lo so, non l'ho mai visto fare del male alla mamma. Ma non lo escluderei, varie volte mamma sembrava spaventata da lui e aveva degli strani lividi sul volto...”
“Quindi potremmo dire che dopo la morte di sua madre, suo padre si fosse ritrovato senza la sua 'vittima di turno', ecco perchè ha iniziato a prendersela con lei..”
Elsa si passò una mano tra i capelli e deglutì a vuoto: “Può darsi...”.
Ripensò ai ceffoni e ai pugni, ai calci e alle umiliazioni. Tutto perfettamente livido nella sua mente. “E lei è proprio sicura di non aver mai visto suo padre picchiare sua madre?” cosa le stavano nascondendo?
“No... No, ne sono sicura. Altrimenti me lo ricorderei...” aggrottò le sopracciglia e fissò il pavimento cercando un ricordo che non sapeva di avere.
“Capisco...”
Ci fu qualche momento di silenzio. Bruce lanciò a Smith uno sguardo incomprensibile, il colonnello annuì.
“Bene, miss Brent. Le faccio i miei complimenti per la sua decisione di aiutarci, perciò nei prossimi giorni sarà addestrata alle basi del combattimento corpo a corpo e, soprattutto, le verrà insegnato ad usare una pistola.”
Elsa fu percorsa da un brivido d'eccitazione. Cercò lo sguardo di Bruce, ma ad accoglierla c'erano solo iridi ghiacciate e inespressive. L'aveva fatta grossa, in fondo lei non sapeva davvero cosa potevano fargli per averla ospitata. Si guardò intorno e un orribile pensiero l'attraversò. Tortura?
“Comunque, per oggi abbiamo finito” riprese Smith.
“Perfetto. Elsa, andiamo: ti riaccompagno in macchina...” Bruce le indicò sbrigativo la porta.
“Non così in fretta, tenente!” lo richiamò il colonnello senza scomporsi.
Tum Tum
Bruce sbuffò e fissò il pavimento: “Accompagno miss Brent in macchina e torno...” deglutì.
“Sarà meglio per lei” gli rinfacciò Smith.
Bruce afferrò Elsa per un braccio e la condusse fuori dalla stanza. La donna sentiva il braccio dolerle, ma credeva di meritarselo, quindi non si lamentò.
Appena furono fuori dalla stanza, ad accorglerli c'era di nuovo il buio impenetrabile.
Questa volta però le mani di Bruce non furono accoglienti come all'andata, ma guidarono Elsa con forza e, probabilmente, con rabbia. Non dissero nulla per tutto il percorso, Elsa avrebbe voluto piangere, forse aveva perso l'unica persona che le fosse rimasta, l'unica di cui le importasse.
Uscirono dal castello quando ormai il sole stava tramontando e il cielo si era tinto di tutte le sfumature dell'arancio. Bruce la fece entrare in macchina e sbattè lo sportello. “Bruce...” lo richiamò lei vedendo che stava tornando nel castello. “Che vuoi?” sbraitò lui con gli occhi fiammeggianti. “Mi... mi dispiace per prima. Forse non avrei dovuto dire che...” si morse il labbro.
“No, non avresti dovuto!” urlò Bruce, Elsa non l'aveva mai visto così. “Ma a te che importa? Sei solo un'egoista, ecco cosa sei. Non ti importa niente degli altri, e adesso io dovrò pagare perchè tu non hai saputo tenere la bocca chiusa! Fai schifo, Elsa, fattelo dire!” le voltò le spalle e continuò a camminare verso il portone. Elsa rimase allibita e scoppiò, finalmente, a piangere. Pianse perchè sapeva che Bruce aveva ragione e perchè adesso anche lui la vedeva per quello che era davvero.

 






Ehilà! Ecco qui il nuovo capitolo, enjoy ;)

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Capitolo 17
*** What if...? ***


Elsa non sapeva dire quanto tempo fosse passato prima che Bruce rientrasse in macchina. Ore? Probabilmente sì. Era rimasta a fissare il prato che la circondava. Che gli stavano facendo? Il pensiero non le dava tregua. Bruce le aveva giurato che nessuno le avrebbe fatto del male e invece lei poteva aver firmato la sua condanna a morte.
Avrebbe voluto morire.
Guardò il cielo e vide che era diventato scuro, la cosa non le piacque affatto. Bruce era dentro il Castello da troppo tempo, e se... E se non ne fosse uscito mai più? Il cuore prese a martellarle in petto. Calma, doveva stare calma. Iniziò a muoversi freneticamente come un leone in gabbia, accavallava le gambe, le scioglieva, le accavallava di nuovo... Non riusciva a darsi pace. Bruce, cosa ti stanno facendo?
Persa tra i suoi pensieri, non si rese neppure conto che lui l'aveva raggiunta ed era entrato in macchina. Il rumore dello sportello che sbatteva la fece sobbalzare. Senza tanti convenevoli Bruce le prese il volto con forza e le coprì gli occhi con la solita benda.
“Bruce...”
“Che vuoi?”
Non poteva vederlo, chissà se aveva i segni di una qualche violenza.
“Cosa... cosa ti hanno fatto?”
“Che te ne frega?”
Elsa sentì il sangue gelarle nelle vene, non poteva – non voleva – perderlo.
“Senti, mi... mi dispiace per prima... Io... non volevo che ti accadesse nulla di male...”
Le labbra di Bruce si incresparono in un sorriso amaro: “No, certo. Tu non vuoi mai...”
E chissà perchè quelle parole colpirono Elsa come una pugnalata.
“Okay – si sistemò i capelli dietro le orecchie – è chiaro che abbiamo un problema! Però, però... Io... devo saperlo, tu... Mi odi?”
Bruce aggrottò le sopracciglia e il silenzio che seguì per Elsa fu devastante.
Chi tace acconsente.
“No, non ci riesco...” ammise Bruce in un sussurro. Dopo un po'.
Il cuore di Elsa fece le capriole per la felicità.
“Pensi che un giorno potrai perdonarmi?” il tono di lei era pratico, né supplichevole né malinconico. Solo asettico.
Bruce girò la testa verso di lei e abbozzò un sorriso più dolce: “Purtroppo per me, l'ho già fatto!”
Riportò lo sguardo sulla strada e nessuno dei due parlò per il resto del tragitto.

 

“Siamo arrivati” Bruce parcheggiò la macchina in una grande area posteggio e sciolse la benda di Elsa.
“Non siamo a casa...” Elsa si guardò intorno confusa e perchè no, anche un po' impaurita.
“No, non siamo a casa mia. Vieni...” scese dalla macchina e le aprì la portiera, come tutte le volte. “Bruce, perchè sono ancora con te? Non dovrei essere nella stanza d'isolamento?” lo guardò confusa. Era ormai sera inoltrata e all'aperto soffiava un vento decisamente freddo. C'era una notevole escursione termica tra mattina e sera. Bruce colse in Elsa il leggero tremore e si sfilò la giacca per posargliela sulle spalle scoperte. Elsa lo osservò bene, non aveva lividi o contusioni, almeno non troppo evidenti. Era un buon segno, giusto?
“Grazie...” mormorò abbassando lo sguardo. Più Bruce era gentile con lei, più Elsa si sentiva uno schifo.
“Buona condotta...” l'uomo si strinse nelle spalle.
“E perchè continui ad ospitarmi? Perchè non mi hai spedito in qualche alberghetto da queste parti?”
“Vuoi che lo faccia?”
Elsa avvampò: “No, no, assolutamente! Pensavo solo che...”
“Senti, Elsa, sono le dieci di sera, ho fame e sono stanco... Questo è il parcheggio di uno dei ristoranti più in vista di Nashville, siamo qui per mangiare. Allora entriamo?” indicò con il mento l'ingresso del ristorante.
Elsa annuì convinta.
Aveva fame anche lei.

 

Il cibo era ottimo. Per lo più a base di pesce. Elsa sorrise al cameriere che le porse un nuovo piatto di salmone affumicato. Anche Bruce, a differenza del solito, stava mangiando con appetito.
“Allora, tuo padre era un uomo violento, eh?” iniziò Bruce. Non si erano detti niente per tutto il pasto, Elsa fu abbastanza sorpresa e ci mise un po' a rispondere.
“Uh? Ah, si...” abbassò lo sguardo e infilzò un pezzo di salmone con la forchetta.
“Ti picchiava spesso?” Bruce ingoiò un po' del suo pesce.
“Sì” ammise Elsa deponendo le posate come armi.
“E tu che facevi?” aggrottò le sopracciglia, curioso.
“Cosa avrei potuto fare, secondo te?” quella domanda infastidì Elsa.
“Non so. Piangevi, scappavi, ti nascondevi...”
“Da come parli sembra che tu abbia vissuto un'esperienza analoga...” era il momento di Bruce di parlare della sua vita. Ma lui si limitò ad annuire e a sorseggiare un po' di vino.
“Bruce, ti ricordi quando ci siamo conosciuti?”
Lui ridacchiò: “E chi se lo dimentica? Eri bellissima mentre usavi i sacchetti della spesa come ombrello...”
“Spiritoso...” rise anche lei “Ma seriamente, mi dicesti di non esserti mai innamorato. Era una bugia anche quella? Come il fatto che ti chiamavi Tim?”
Bruce riflettè un attimo su cosa dire: “Sì”
“Quindi ti sei innamorato una volta?” Elsa ripensò alla forcina.
“Una volta sola, di una collega. Si chiamava Mia...” Bruce si riempì nuovamente il bicchiere di vino.
“E dov'è ora?” azzardò Elsa, anche se sapeva di non doverlo chiedere.
“E' morta. Una sparatoria, lei si è buttata al posto mio, mi ha fatto da scudo.” Bruce deglutì, era ovvio che si sentiva in colpa.
Elsa non sapeva che dire, allungò la mano e la posò su quella di lui. Bruce non si ritrasse.
“Mi dispiace...” sussurrò.
Bruce si strinse nelle spalle: “Nel nostro lavoro sono cose che capitano.”
“Ed era bella?” Elsa si sforzò di sorridere. Temeva la risposta, ma doveva saperlo.
“Molto” Bruce evitò il suo sguardo “La donna più bella che avessi mai visto”
Elsa si sentì morire, ma non lo mostrò. Per una che aveva passato la vita odiando il proprio riflesso allo specchio, quella non era esattamente la situazione migliore.
“Ti manca?”
Bruce non rispose.
“Perchè ti interessa tanto, non sarai mica gelosa?” sorrisetto arrogante.
“No, io... Sei davvero incredibile!” Elsa incrociò le braccia e mise il broncio.
“Vuoi altro da mangiare?” Bruce indicò il piatto vuoto di Elsa.
“No, possiamo andare...”
“Bene!”
Se ne andarono.
 

Bruce era steso sul divano, dormiva. Non si era neppure cambiato, indossava ancora i pantaloni e la camicia. La giacca l'aveva data a Elsa. Il fuoco del camino illuminava il suo corpo. Elsa entrò nel salone buio e si sedette accanto a Bruce. Gli passò una mano tra i capelli, accarezzandolo.
Mia.
Non era giusto portare rancore verso una donna morta, che tra l'altro Elsa non aveva nemmeno mai conosciuto. Ma la odiava, non poteva farci niente.
Era stata bella, sicuramente in gamba, agile, perfetta...
Tornò a fissare il volto rilassato di Bruce. Lui la credeva di sopra, a letto, ma lei non riusciva a dormire. Si chinò su di lui e gli stampò un bacio delicato sulle labbra. “Non ti sei nemmeno cambiato!” bisbigliò tra sé e sé. Iniziò a sbottonargli la camicia, rapita dalla vista delle cicatrici che emergevano man mano che la stoffa le scopriva. Bruce sembrava non accorgersi di niente, era molto -troppo- stanco. Elsa si chinò nuovamente per baciargli la guancia e scivolare poi sul collo. Era incredibile il modo in cui baciando Bruce, Elsa sentisse un calore invaderle il cuore.
“Che stai facendo...?” la voce assonnata di Bruce fece sobbalzare Elsa. Smise immediatamente di baciarlo e lo guardò negli occhi semi chiusi.
“Ti do fastidio?” sussurrò.
“Naa, lo so che sono irresistibile, non è colpa tua!” di nuovo il sorrisetto.
Elsa ridacchiò e si chinò su di lui, ma invece di baciarlo, gli morse il labbro di sotto.
“Ahi! Hai deciso di farmi morire dissanguato?”
“No, solo di farti soffrire un po'!” Elsa fece l'occhiolino.
Bruce si mise a sedere stiracchiandosi, lei gli si sedette in braccio e gli circondò il collo con le braccia.
“In teoria io volevo dormire...” Bruce sorrise e lasciò che lei gli baciasse le labbra.
“In teoria...” sussurrò Elsa.
Il fuoco del camino scintillava e riscaldava l'ambiente. Ma non era niente rispetto al calore che entrambi sentivano all'interno dei loro cuori arrugginiti.

 

Il fuoco del camino era spento, ecco perchè Elsa aveva freddo. Oppure perchè non aveva niente addosso. Si stropicciò gli occhi con le mani e sbadigliò, nel grande salone filtravano i raggi del sole e giungeva il cinguettio degli uccellini. Elsa sospirò e affondò il volto nel bracciolo del divano, non aveva voglia di alzarsi.
“Oh, buongiorno” Bruce entrò nella stanza stringendo tra le mani una tazza di caffè. Indossava un paio di jeans e una Polo bianca. “Sei proprio un disastro, Elsie. Guarda che fine hai fatto fare a quella povera camicia...” Bruce scosse la testa e indicò la solita camicia sul pavimento. La raccolse e la porse delicatamente ad Elsa.
“Non mi pare di essere stata io a toglierla...” sorrise sorniona e infilò la camicia.
Bruce si sedette accanto ad Elsa che ne approfittò per sottrargli la tazza di caffè.
“Ehi...!” Bruce si finse offeso.
Elsa si mise seduta sul divano con le gambe incrociate e sorseggiò il caffè caldo.
“Qualche problema, amore?” lo prese in giro sbattendo le ciglia.
Bruce la guardò e scoppiò a ridere.
“Che c'è?” chiese Elsa senza capire.
Lui continuò a ridere.
“Bruce!” posò la tazza – ormai vuota – sul pavimento e fissò Bruce con aria interrogativa.
“Sei davvero sexi con quei baffi!” le fece l'occhiolino.
Elsa si portò subito la mano davanti alla bocca: “O mio dio...”
Bruce estrasse dalla tasca un fazzoletto e pulì il caffè che circondava le labbra di Elsa.
“Sei proprio una bambina!” scosse la testa e sorrise.
“E tu sei proprio antipatico!” gli fece il verso e si stese, poggiando la testa sulle gambe di Bruce.
“Salve!” lo salutò guardandolo dal basso.
“Ci conosciamo?” replicò lui.
“Mi chiamo Elsa la Pazza e lei? Anzi, mi faccia indovinare: Bruce il Bugiardo!” ammiccò.
“Ma lo sai che non sei affatto divertente?” si chinò e le catturò le labbra in un bacio leggero.
Elsa si stiracchiò sorridendo: “Oggi inizia il mio addestramento?”
“Ebbene sì. Purtroppo per l'umanità, presto sarai in grado di utilizzare un fucile!” strizzò l'occhio.
“Invece scommetto che sarò più brava di te!” si finse imbronciata.
Bruce si alzò di scatto e la testa di Elsa affondò bruscamente nei cuscini del divano.
“Ehi...!” lo rimproverò.
“Sì, devo ammettere che sei davvero agile, agente Brent!” le fece l'occhiolino e rise, dandole le spalle. Elsa si mise silenziosamente in piedi e lo agguantò alle spalle, circondandogli la vita con le gambe e il collo con le braccia. “Preso!” esclamò Elsa.
“Hai finito?” Bruce alzò gli occhi al cielo.
“Veramente ho appena iniziato!” gli stampò un bacio sulla guancia e tornò sul pavimento con un balzo. Bruce scosse la testa divertito.
Elsa era divertente, doveva ammetterlo. Era impossibile per lui non sorridere quando era con lei, ecco perchè non riusciva a portarle rancore. Smith però era stato chiaro: la ragazza sapeva troppo, alla fine dei giochi, dopo averla usata per trovare il serial killer, doveva essere eliminata. E ovviamente Smith aveva affidato il compito a lui. Era una sorta di punizione per aver ospitato Elsa e aver disobbedito agli ordini. Ma ne sarebbe stato in grado? Aveva ucciso più di una volta, in passato, ma questa volta era diverso. Anche se doveva ammettere che se proprio Elsa doveva essere uccisa, voleva essere lui a farlo, non voleva abbandonarla nelle mani di qualcun altro.
“Bruce, tutto bene?” Elsa gli si parò davanti e gli prese le mani.
“Sì, certo. Pensavo solo che oggi alle quattro dobbiamo tornare da Smith.”
Elsa annuì noncurante.
“Ho fame...” disse dopo un po'.
“Ti preparerò qualcosa io. Tu intanto va' a metterti qualcosa addosso” le strizzò l'occhio, sornione.
Elsa gli mostrò la lingua e scomparve al piano di sopra.

 

La doccia le aveva fatto proprio bene. Bruce aveva provveduto a comprarle un bagnoschiuma e uno shampoo da donna, molto profumati. Il bagno si era riempito di vapore e lo specchio era completamente appannato. Elsa uscì dal box doccia continuando a cantare, indossò l'accappatoio (altro regalo di Bruce) e impugnò il phon. Ripulì il vetro e si asciugò i capelli che formarono delle onde morbide come al solito. Non le piacevano, i suoi capelli. Lei avrebbe voluto averli lisci come spaghetti, per questo da ragazzina li aveva sempre piastrati. Poi si erano bruciati e aveva dovuto accettarli così com'erano. Sbuffò e passò il pettine tra i capelli ormai asciutti. Lo specchio le rimandava l'immagine di una donna non molto alta, magra e con un sorriso sul volto. I capelli biondi erano attraversati da riflessi lucenti e ricadevano morbidi sulla schiena. Erano cresciuti tantissimo. Uscì dal bagno ed avvertì un brivido di freddo attraverso l'accappatoio leggero. Raggiunse la sua stanza e optò per un paio di jeans di Armani e una Polo (ovviamente regali di Bruce) azzurra come i suoi occhi. E come quelli di Bruce. Aveva scelto di proposito di vestirsi come lui, giusto per fargli un dispetto. Ridacchiò e scese al piano di sotto, pronta a godersi la reazione di Bruce.
“Che cosa ti sei messa?” era appoggiato sul bancone della cucina, stava condendo l'insalata e i vestiti costosi erano protetti da un grembiule bianco.
Era buffo e sexy allo stesso tempo.
“Tu piuttosto... Mi piace quel grembiule, ti dona!” fece l'occhiolino.
“Guarda che ti sto preparando il pranzo! Portami rispetto!” si finse offeso.
“Sai anche cucinare! C'è qualcosa che non sai fare?” Elsa si sedette al tavolo e vi appoggiò i piedi.
“No, in effetti. Io so fare tutto! Ora togli quei piedi dal tavolo di cristallo!”
“E se non volessi farlo?” lo guardò con aria di sfida.
“Io non ti preparo il pranzo!” questa volta fu lui a fare la linguaccia.
Elsa scoppiò a ridere: “No, ti prego! Non puoi farmi questo!” lo implorò tra le risate.
Bruce le si avvicinò con in mano il pacco della farina e glielo rovesciò in testa.
“Brutto idiota!”
Bruce stava ridendo e non vide Elsa strappargli la confezione dalle mani e vendicarsi.
“Come hai osato!”
Questa volta fu il turno di lei di ridere.
“Vieni subito qui, se hai coraggio!” Bruce si passò una mano tra i capelli che grondavano farina.
“E tu prendimi, se ci riesci!” Elsa iniziò a correre per tutto il piano di sotto, inseguita da Bruce. Il rumore delle loro risate riecheggiava nell'ambiente.




Ecco il nuovo capitolo! Enjoy ;)

 

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Capitolo 18
*** Training ***


Arrivarono al Castello verso le quattro del pomeriggio. Ovviamente avevano dovuto cambiarsi i vestiti sporchi e al solo pensiero Elsa ancora sorrideva. Stessa procedura di sempre: benda in macchina e buio pesto all'interno del castello. Bruce l'accompagnò fino ad una spece di palestra super attrezzata. “Wow!” esclamò Elsa radiosa.
“Aspetta qui, Elsa. Vado a cercare Smith!” esclamò Bruce uscendo dalla palestra. Elsa annuì distrattamente e osservò estasiata tutte quelle attrezzature super moderne. Alcune le conosceva, il tapiroulant, i pesi... Altre non le aveva mai viste.
“Salve di nuovo, miss Brent!” Smith e Bruce entrarono nella sala.
“Salve...” Elsa si voltò verso la porta.
“Tieni, Elsa.” Bruce le porse una spece di kimono “Vieni a cambiarti, ti accompagno nello spogliatoio”
Elsa prese tra le mani la tuta bianca e la fissò sorpresa.
Gli spogliatoi erano delle stanzette adiacenti alla palestra, non molto grandi ma contenenti lo stretto indispensabile.
“Ti aspetto fuori!” comunicò Bruce uscendo dalla stanza e chiudendo la porta.
Elsa indossò il kimono e lo legò in vita con la cintura, si tolse le scarpe e legò i capelli in una treccia strettissima dietro la nuca. Non c'era uno specchio, peccato.
Bruce bussò un paio di volte: “Elsa? Hai fatto?”
In tutta risposta lei aprì la porta ed uscì.
“Sei uno schianto!” Bruce sorrise e le fece l'occhiolino. Elsa gli mostrò la lingua in segno di scherno.
“Bene, miss Brent. Lasci che le presenti il signor Toshiro, la istruirà sulle basi del Karate” Smith indicò l'uomo giapponese al suo fianco, anche lui aveva lo stesso kimono di Elsa, ma la sua cintura era nera.
“Salve” Elsa non fece in tempo a finire il saluto che lui l'atterrò con un calcio. Elsa si rimise in piedi a fatica, sentendo un forte dolore al mento. “Ehi..” bisbigliò.
“Molto male, Elsa!” l'uomo parlava con un forte accento giapponese “Deve essere sempre pronta, e mai dare confidenza al nemico!”
Elsa indietreggiò appena: “Non dovrebbe prima insegnarmi qualcosa?”
“Per il momento voglio capire il suo livello” e ciò detto allungò il pugno per colpirla. Elsa riuscì a trovare un'agilità che non pensava le appartenesse, e si scansò prontamente. Ruotò la gamba destra e cercò di colpire l'allenatore in piena faccia, ma lui le afferrò la caviglia e storcendola, fece cadere Elsa a terra. La donna si rialzò ignorando il dolore alla caviglia e ai gomiti sui quali era atterrata. “Di certo è un tipo che non si arrende, molto bene!” sorrise Toshiro.
Bruce e Smith erano seduti in un angolo della stanza, osservando lo scontro e facendo commenti a bassa voce. Elsa incrociò lo sguardo di Bruce che scosse la testa, sorridendo beffardo. Lui gliel'aveva detto che si sarebbe fatta buttare a terra facilmente. Elsa gli rivolse uno sguardo di sfida e tornò in piedi con un balzo. Cercò di colpire il suo avversario con un pugno, ma non aveva tecnica, era scoordinata e lui non ebbe difficoltà ad atterrarla nuovamente. Non era passata più di mezz'ora e Elsa aveva già la mandibola indolenzita, una caviglia slogata e un numero inqualificabile di contusioni in tutto il corpo. Ah, e le stava anche sanguinando il naso. Non ci fece caso e fissò Toshiro che le girava intorno. Elsa si sentiva in trappola. Toshiro le fece lo sgambetto e Elsa cadde nuovamente masticando una bestemmia. Si rimise
in piedi.

Un sorriso affiorò sulle labbra di Bruce, Elsa era fatta così, cadeva e si rialzava.
“Bene, Elsa, credo che per oggi sia tutto!” esclamò Toshiro porgendole la mano in segno di saluto. Elsa la strinse più forte che potè, ma invece di vedere il volto dell'uomo contorcersi in una smorfia di dolore, sorrise soddisfatto: “Sarà un vero piacere lavorare con te!”.
Uscì dalla stanza.
Elsa sentì le ginocchia tremarle e fu invasa dal dolore, ogni singola parte del suo corpo era infiammata. Ma non l'avrebbe dato a vedere, il suo orgoglio non glielo permetteva.
Bruce si alzò e le andò incontro applaudendo sarcastico: “Brava! Brava! Come l'hai steso!” ridacchiò. Smith lo ignorò e si rivolse ad Elsa: “Ci vediamo qui, domani. Stessa ora!”
e anche lui uscì dalla stanza.  

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Capitolo 19
*** Mia per sempre ***


“Ahia, mi fai male!” sbottò Elsa.
“Stai ferma, ho quasi finito!” replicò Bruce massaggiandole la caviglia. “Certo che te l'ha conciata bene!” la prese in giro.
Lei gli allungò un calcio nelle costole con quella stessa gamba. Erano seduti sul divano, Elsa aveva la gamba destra stesa sulle gambe di Bruce.
“Scommetto che non avresti trattato Mia così!”
Bruce la fisso in trance. Elsa aveva buttato lì quelle parole senza nemmeno riflettere e ora se ne stava pentendo amaramente.
“Che hai detto?” Bruce la trapassò con lo sguardo.
Elsa si morse il labbro e incrociò le braccia sotto al seno, ormai il danno era fatto: “Ho detto che non avresti mai trattato Mia così!”
“Che centra Mia adesso?” riprese lentamente a massaggiarle la caviglia.
“Non lo so, penso solo che tu sia stato molto più dolce con lei...”
“E io penso che lei non si sarebbe mai fatta slogare una caviglia dal primo giapponese che le attraversva la strada!”
Elsa sentì un tuffo al cuore. Aveva intuito che quella Mia le fosse superiore, ma sentirlo dire da Bruce era tutta un'altra cosa.
“Primo: non era un giapponese qualunque, ma un campione di arti marziali. Secondo, la tua Mia era un'agente, io no. E terzo: lei sarà pure stata una campionessa, ma io sono ancora viva e lei no...”
Bruce smise di colpo di massaggiare.
“Ripeti...?” le ordinò minaccioso.
Elsa si diede mentalmente della stupida. Doveva contare fino a cinquecento, prima di parlare.
“Niente...” abbassò lo sguardo.
Bruce scattò in piedi e fissò Elsa negli occhi: “Non ti azzardare mai più a dire una parola su Mia, chiaro? Lei era una persona speciale, stupenda! Tu non la conoscevi, non puoi giudicarla e soprattutto non varrai mai nemmeno la metà di quello che valeva lei!”
“Sei stato molto esauriente, Bruce” Elsa pensò che una pugnalata avrebbe fatto meno male. Si mise in piedi ignorando il dolore alla caviglia, e si avviò lentamente verso il piano di sopra.
Bruce l'afferrò per il polso: “Aspetta, Elsa, scusa.” mormorò con gli occhi bassi. Lei si strinse nelle spalle e abbozzò un sorriso: “No, scusami tu. Non so che mi è preso...”.
“Credo che ci siamo feriti abbastanza, per oggi!” anche Bruce sorrise. Rimasero un po' in silenzio, con lo sguardo basso. Le parole erano un ostacolo insormontabile.
Poi Bruce fece qualcosa che sorprese Elsa, la prese in braccio e la trasportò fino al piano di sopra.
“Che fai?” gli domandò.
“Non puoi camminare con quella caviglia. E poi è tardi, sei stanca. Hai bisogno di dormire...”
Elsa gli circondò il collo con le braccia e vi nascose il volto, sospirando.
Bruce la trasportò nella sua stanza e l'adagiò sul letto. Elsa aveva ancora indosso il kimono e la treccia disfatta. Reclinò la testa all'indietro, affondandola tra i cuscini. “Mi dispiace per prima” ripetè piano. Bruce sospirò e le si sedette accanto: “Anche a me.”
Elsa lo guardò uscire dalla stanza, senza neppure provare a fermarlo.
Si stese prone, fissando il soffitto bianco. La lampada pendeva drittissima e Elsa non aveva la forza di muoversi.
Mia.
Mia.
Mia.
Sospirò e si girò di lato, raggomitolandosi su sé stessa. La seconda scelta, ecco quello che era, che era sempre stata.
Fuori dalla finestra il sole tramontava tingendo il cielo di tutte le tonalità dell'arancione. Elsa si mise a sedere come un'automa e poi si alzò abbastanza da vedere una cosa che non aveva mai visto prima. Sul comodino opposto, incorniciata d'oro, la foto di Mia.
La afferrò con entrambe le mani e la osservò per bene. Non ci aveva mai fatto caso. In fondo il tempo che trascorreva nella sua camera da letto lo passava dormendo o con Bruce. Questa volta, invece, era pomeriggio e lei non aveva sonno, si era guardata intorno ed eccola là.
Elsa osservò il volto ritratto nella foto. Occhi troppo grandi e troppo verdi, come i prati in primavera. Trasmettevano gioia anche attraverso una vecchia foto. Mia sorrideva appena, le labbra rosate e carnose e le delicate fossette ai lati. Il naso dritto era coperto da una manciata di lentiggini e i capelli corti incorniciavano il volto in boccoli delicati color del cioccolato. Elsa allontanò la foto da sé come se scottasse. L'oggetto rimbalzò sul letto matrimoniale e si fermò appena in tempo per non cadere sul pavimento e frantumare il vetro delicato.
Elsa si sentì invadere da una fitta di odio verso quella donna così bella e così in gamba e le lacrime cominciarono a rigarle le guance. Perchè non poteva essere come lei? Si asciugò le lacrime con il dorso delle mani e si alzò. Voleva raccogliere la foto e rimetterla al suo posto prima che Bruce entrasse nella stanza, poi tornò a letto e in qualche modo si addormentò.
Driiin.
Il suono acuto e prolungato del campanello che suonava perforò i timpani insonnoliti di Elsa. Era la prima volta che suonavano alla porta, chi poteva essere? Perchè non andava ad aprire Bruce?
Infilò la testa sotto il cuscino e cercò di riaddormentarsi. Era mattina ormai, ma Elsa aveva sempre odiato essere svegliata a forza, non lo sopportava. Il sole entrava prepotente attraverso la finestra socchiusa.

Driiin.

“Bruce!” urlò, nel caso lui non si fosse reso conto del campanello.

Driiiin.

“Bruce!!” Elsa si sollevò sulle braccia, ormai era chiaro che Bruce non era in casa. Che doveva fare lei? Aprire?
Decise di sì.
Elsa si alzò insonnolita e indossò la sua vestaglietta azzurra. Passò tra i capelli la spazzola sul comodino e li raccolse in una coda disordinata. Infine, infilò alla rinfusa le pantofoline eleganti e scese al piano di sotto.
Nell'atrio, il suono del campanello era ai limiti della sopportazione umana. Il trillo riecheggiava nell'ambiente vuoto e si espandeva a dismisura.
Elsa si avvicinò alla porta e fissò la maniglia per un po'. Si ricordò che poteva esserci un qualche antifurto speciale messo apposta per impedirle di fuggire, ma decise che non gliene importava: la curiosità era troppa e, soprattutto, i suoi timpani erano sul punto di sanguinare.
Decisa, girò la maniglia dorata finchè la serratura scattò con un 'clack'. Però, pensò Elsa, altro che antifurti sofisticatissimi: era tutto un bluff!
La porta si aprì rivelando l'immagine di una donna alta, bella, dagli occhi azzurri e i boccoli corti e scuri.
“Mia!” esclamò Elsa prima di rendersene conto.
“Ciao. Tu sei...?” la donna la guardò indagatrice. Elsa non riusciva a parlare, si maledisse per non aver indossato qualcosa di decente.
“Elsa..” balbettà.
“Molto piacere. Sei la moglie di Bruce?” la sua voce era troppo squillante, quasi sgradevole.
“No... Ma...” andiamo, Elsa, ce l'hai un po' di dignità? “Ma tu non eri morta?” esclamò, convinta.
“Sì, questo è più o meno quello che pensano tutti.” rispose la brunetta con nonchalanche.
Elsa rimase a bocca aperta, poteva anche avere una bellezza eccezionale, ma era antipatica allo stesso modo: “Ma Bruce... Tu l'hai ferito! Lui ti crede morta, si sente in colpa per te! Devi dirgli che stai bene!”
“Ehi, bella! Datti una calmata, okay? Secondo te perchè sono qui?” Mia alzò gli occhi al cielo.
Ma davvero Bruce aveva amato questa stronzetta? Si chiese Elsa.
“Comunque, dov'è lui?” continuò.
“Non lo so.” fu la secca risposta.
“Scusami, ma tu chi saresti esattamente?” Mia la trapassò con gli occhi.
Bella domanda.
“Che ti importa?” Elsa ricambiò lo sguardo di sfida. La odiava, odiava quella Mia e non aveva alcuna intenzione di nasconderlo.
“Veramente non molto.”
“Perfetto.” Elsa sbattè le sbattè la porta in faccia e tornò a letto. Non le importava se Bruce l'avrebbe odiata a vita per aver trattato male Mia, non le importava se lei avrebbe deciso di vendicarsi. L'unica cosa che Elsa sapeva, ora, era che prima si toglieva davanti Miss Perfezione, meglio era.
Dal canto suo, Mia si attaccò al campanello nella speranza che Elsa cedesse e tornasse indietro.
Ma Elsa sapeva essere molto testarda.
Andò nel salone, si accasciò sul divano e accese la TV. La caviglia ancora le faceva male.
Sullo schermo del televisore comparve la sigla del telegiornale e una giornalista dai capelli rossi iniziò a enunciare le ultime novità.
Il cuore di Elsa smise di battere. Il suono prolungato del campanello risultava ovattato. Solo la voce asettica della giornalista appariva chiarissima: “Il killer delle Schegge colpisce ancora. La donna di trentadue anni scomparsa pochi giorni fa, è stata trovata morta nei pressi del lago. Tra le mani stringeva due pezzi di vetro colorati: uno nero e uno arancione. Il suo nome era Amanda Brent.”

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Capitolo 20
*** The end (?) ***


Elsa impiegò un po' di tempo per comprendere la situazione. Le parole della giornalista le riecheggiavano nella testa. Amanda era morta. Non scomparsa, non rapita. Morta.
Elsa sapeva che non era corretto, ma non poteva fare a meno di collegare l'improvviso arrivo di Mia con la morte di sua sorella. Dov'era Bruce adesso? Perchè non era ancora tornato? Stava dando la caccia al killer delle schegge?
Sentì la porta d'ingresso aprirsi e si fiondò verso l'ingresso. “Bruce!”
C'erano così tante cose che voleva – doveva – dirgli. Da dove cominciare? Amanda? Mia?
Le parole le uscirono di bocca prima che se ne rendesse conto: “Amanda è morta! Il killer delle Schegge... l'ha uccisa...”
Bruce le posò le mani sulle spalle: “Calmati, Elsa, calmati. Lo so, mi dispiace.”
“E' stata colpa mia?” del resto era quello che le avevano ripetuto, no?
Bruce scosse il capo: “No, Elsa.”
“Avrei potuto fare qualcosa per evitarlo?” chiese Elsa.
“Sì.”
Boom.
Elsa si sottrasse dalle mani di Bruce e strinse i pugni: “Cosa?”
Bruce sospirò e si passò una mano tra i capelli. Ahi, pensò Elsa, non era un buon segno. Ogni volta che Bruce faceva così voleva dire che si preparava ad annunciarle qualcosa di terribile: “Ho parlato con Smith, siamo entrambi d'accordo di farti smettere gli allenamenti, è inutile: stiamo sbagliando strategia. Abbiamo pensato ad un altro modo in cui potresti di certo esserci utile.”
Elsa sentì il cuore martellarle in petto: “Dimmi.”
“Abbiamo individuato un possibile sospettato come killer delle Schegge. Si chiama Edward Leighton, è un avvocato di mezz'età assolutamente rispettabile. Tuttavia, per ragioni che non posso dirti, attualmente pensiamo sia il nostro uomo.” spiegò Bruce.
Elsa riflettè un po': “E io cosa centro?”
“Tu devi sposarlo.” il tono pratico di Bruce, la colpì come una pugnalata.
“Come??” chiese, esterrefatta.
“Hai capito bene. Conquista la sua fiducia. Fallo innamorare di te. Sposalo.” elencò Bruce.
“E la cosa non ti dispiace? Voglio dire, non sei un po'... geloso del fatto che io possa sposare un altro?” Elsa si morse il labbro di sotto.
“Non lo so. Comunque il lavoro viene prima, la sicurezza della gente viene prima!” disse Bruce.
Non lo so.
“E se non fosse lui l'uomo che cercate? Se vi steste sbagliando?” azzardò Elsa.
“No, Elsa, non ci stiamo sbagliando! Ma essendo un pezzo troppo grosso anche per noi, non abbiamo i mezzi per trovare le prove per inchiodarlo.”continuò Bruce.
“Ma perchè io? Non avete un centinaio di agenti donna più attraenti e meglio addestrate di me?” Elsa incrociò le braccia.
“Ne avevamo una.” tagliò corto Bruce.
Mia.
“Ne avete una! Mia è viva!” urlò Elsa, era il momento di parlare del secondo avvenimento importante della giornata.
“Cosa??” Bruce si voltò di scatto, trapassandola con lo sguardo. Elsa si alzò in piedi: “Mia è stata qui, stamattina. Si è attaccata al campanello e non se ne andava più, ha detto che ti cercava.”
“Stai scherzando!” insinuò Bruce.
“No, Bruce. Te lo giuro!” Elsa mimò una croce sul cuore. Un gesto un po' infantile, ma le veniva
spontaneo ogni volta che doveva promettere – o giurare – qualcosa.

“Come sapevi che era lei?” le chiese Bruce.
“L'ho riconosciuta grazie alla foto che per tutto questo tempo è stata sul mio comodino e della quale non mi ero mai accorta!” sbottò Elsa.
Bruce sembrò paralizzato dal pensiero che la sua amata Mia fosse ancora viva: “E tu che hai fatto?”
“Le...” uh-oh! “Le... Le ho sbattuto la porta in faccia!” Ecco, pensò Elsa, adesso mi uccide!
“Tu cosa??” strillò Bruce.
Elsa indietreggiò di qualche passo: “E' stata antipatica! Arrogante e antipatica! E poi non potevo farla entrare in casa, tu mi hai detto di non far entrare nessuno, tecnicamente non potevo nemmeno aprire la porta!!”
“Quella regola non valeva per Mia!!” urlò Bruce lanciando un pugno contro il muro che si sgretolò all'istante. Il rumore fu assordante e nuvole di intonaco inondarono la stanza.
Elsa rimase completamente paralizzata, ma trovò comunque il coraggio di parlare – di urlare: “Ma cosa cazzo ti aspettavi da me, eh Bruce? Che facessi mille moine e mi inginocchiassi davanti alla donna che ami? Svegliati Bruce!! Mi ha anche chiesto cosa sono io per te! Cosa sono? La tua amante, la tua fidanzata, la tua puttana?? Stai con me solo perchè ti servo per la tua stupida indagine??”
Bruce spalancò la bocca, completamente impreparato a una reazione del genere: “Elsa, io...”
Elsa non gli diede il tempo di finire la frase, deglutì e corse al piano di sopra.
I passi leggeri di lei furono l'unico suono che riecheggiava nella mente di Bruce, incorniciando l'immagine sbiadita del volto di Mia.
Mia. Elsa.
Mia.
Elsa.
Bruce si accasciò sul divano e si prese la testa fra le mani. Sorrise amaramente, tanto quella situazione non sarebbe durata a lungo: appena arrestato Leighton, avrebbe dovuto uccidere Elsa e a quel punto non ci sarebbe stata molta scelta.
Cosa sono io per te?
Una domanda che non gli dava tregua. Non era solo sesso, tra loro; ormai era appurato. C'era qualcosa di più, qualcosa a metà tra l'amore e l'indifferenza. E l'amore per Elsa era la cosa peggiore che potesse accadergli, in quel momento.
Rimaneva Mia, però. Bruce ricordava perfettamente la notte in cui l'aveva persa. Avevano circondato la villa di Santos, uno dei più potenti spacciatori del mondo. Mia era l'unica donna, non si perdeva mai l'azione. Lei e Bruce, insieme ad un'altra ventina di agenti, si erano appostati dietro gli alberi che circondavano l'abitazione. Il capo del gruppo, Colin, aveva il compito di dare il segnale per uscire allo scoperto e far uscire lo spacciatore. Bruce aveva fatto di testa sua. Disprezzava Colin e non gli era andato giù che i loro superiori avessero nominato Colin come responsabile e non lui. Quindi era uscito dal suo nascondiglio da solo, senza aspettare il segnale. Vedendolo arrivare, le guardie del corpo di Santos avevano già imbracciato i fucili e sparato. Prima che un proiettile mortale gli perforasse il cuore, Mia si era gettata davanti a Bruce e l'aveva coperto. Dei momenti che erano seguiti, Bruce aveva solo un ricordo confuso. Sapeva che erano immediatamente partiti gli altri agenti, che qualcuno gli aveva urlato di allontanarsi e di lasciare il corpo ormai morto di Mia. Lui aveva obbedito ed era tornato tra gli alberi, assistendo alla carneficina come se si trovasse in un incubo. Non gli avevano più fatto vedere il corpo di Mia, della donna che aveva amato e aveva dato la vita per lui. Bruce seppe che era stato seppellito e fino ad allora non aveva mai avuto motivo di dubitarne. Ma adesso...
Possibile che Mia fosse ancora viva? E se era davvero così, allora forse Elsa l'aveva fatta andare via per sempre.
L'odio verso di lei tornò alla carica, ma non poteva biasimarla per il suo comportamento: era chiaro che Elsa si stava innamorando di lui.
Comunque, anche Bruce doveva fingersi innamorato, perchè quello era il suo compito. Fece un respiro profondo e si avviò al piano di sopra. L'intonaco e i pezzi di muro che si erano sgretolati comparivano adesso sul pavimento polveroso. Bruce salì le scale e percorse i corridoi del piano di sopra, fino a trovare la stanza di Elsa.
Lei era seduta vicino alla finestra, fissando le gocce che si infrangevano sul vetro e lo rigavano come lacrime. Indossava un delizioso vestitino viola, ma Bruce non ci aveva fatto caso. Quando entrò nella stanza, Elsa girò lentamente la testa verso di lui. Nei suoi occhi c'era qualcosa di incomprensibile, quasi un vuoto. Non erano umidi o arrossati, ma asciutti e vacui.
“Elsa?” azzardò Bruce, facendo capolino oltre la porta.
Silenzio.
“Ecco io... Io volevo chiederti scusa” sospirò, entrando nella stanza a grandi passi “Mi dispiace, ho perso la testa e... Elsa? Elsa, stai bene?” Bruce corse verso di lei e le mise due dita sul collo, scoprendo che il battito del cuore era rallentato in maniera allarmante. Elsa sembrava svenuta, ma aveva gli occhi aperti. Oh, no!
“Elsa! Che hai fatto?” il cuore gli martellava in petto. La paura di perderla lo invase prepotente, allora forse un po' gli importava. Nella mano destra di Elsa, le dita erano attorcigliate saldamente intorno ad un flaconcino che Bruce scoprì essere stato svuotato delle sue pasticche di sonnifero.
Prese in braccio Elsa e le infilò il primo cappotto che trovò nell'armadio. Il battito del suo cuore continuava a rallentare. Bruce corse fuori di casa e la stese sui sedili posteriori della macchina. Guidò a tutta velocità nonostante il pericolo della strada bagnata e la pioggia battente che più che diminuire sembrava aumentare. L'ospedale non era molto lontano, ma a Bruce non era mai parso così lontano. La paura di perdere Elsa non gli dava tregua. Allora alla fine era successo, anche lui si era affezionato a lei. Forse, addirittua l'amava. Per la prima volta dopo la morte di Mia. No, non voleva perdere Elsa e in quel momento ebbe un'illuminazione, seppe perfettamente cosa avrebbe fatto alla fine dell'indagine. Non avrebbe ucciso Elsa. Avrebbe dato le dimissioni. Poi che importa? La CIA avrebbe dato la caccia a entrambi, probabilmente, ma ce l'avrebbero fatta. Se ne sarebbero andati in qualche posto lontano, si sarebbero rifatti una vita. Bruce si rese conto di stare assumento un comportamento infantile, ma che poteva farci se si era innamorato di quella donna bellissima e problematica che era Elsa? La stava portando all'ospedale, anche se era contro le regole. Cosa avrebbero detto una volta arrivati? Che erano marito e moglie? E se i medici si fossero accorti dei loro documenti falsi? No, Smith avrebbe certamente detto di lasciare morire Elsa e,anzi, darle il colpo di grazia. Poi avrebbero trovato un'altra ragazza, un'altra esca e l'indagine sarebbe riprese come se non fosse successo niente. A proposito di ragazze, pensò Bruce, Smith avrebbe fatto i conti con lui riguardo la faccenda di Mia.
La pioggia iniziò a diminuire e le nuvole si diradarono. Stava ormai calando la sera quando arrivarono all'ospedale. Bruce parcheggiò alla meglio e corse verso la struttura con il corpo esangue di Elsa tra le braccia. Furono ricevuti da un'infermiera alla reception, il caos era totale. Medici, infermieri e pazienti assediavano l'ampio atrio e Bruce dovette quasi urlare contro l'infermiera della reception per ottenere intenzione. L'infermiera, una donna di mezz'età dall'aria scettica, gli fece segno di calmarsi e aspettare, poi compose sul telefono interno un numero e poco dopo comparve un dottore in camice bianco.
“Salve” disse “Io sono il dottor Aniston, cosa le è successo?” indicò Elsa.
“Ha tentato di togliersi la vita con un overdose di sonniferi.” annaspò Bruce, rosso in volto.
“Capisco.”
Aniston fece cenno a un paio di infermieri con una barella di raggiungerlo, Bruce vi depose il corpo di Elsa. Il dottore gli fece cenno di aspettare lì: “La informeremo appena possibile.” disse.
Bruce si sedette su una sedia in un angolo, riflettendo sul turbinio di emozioni che l'aveva travolto nell'ultima mezz'ora. Adesso che la rabbia stava scomparendo, si calmò e riflettè lucidamente sulla situazione. Niente da fare, si disse, anche così non si pentiva di quello che aveva deciso.

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Capitolo 21
*** Let's stop ***


L'odore acre di disinfettante si fondeva con quello sgradevole di malattia, i corridoi dell'ospedale erano illuminati solo dalla fioca luce delle lampadine. Bruce si appoggiò pesantemente contro il muro. Tre ore, tre ore che Elsa era in sala operatoria e ancora non aveva sue notizie. Era stata necessaria una lavanda gastrica, aveva spiegato Aniston prima di chiudersi in sala operatoria con un terzetto di infermiere. Bruce individuò un distributore automatico in un angolo del corridoio e vi si diresse a passo svelto, digitando poi il codice del caffè. Un bicchiere fu prontamente riempito del suo liquido scuro e Bruce lo afferrò, bevendone avidamente il contenuto amaro. Doveva rimanere sveglio.
“Signor Malone?” una mano gli si posò sulla spalla. Bruce si voltò di scatto, Aniston indossava ancora il camice bianco, ma con qualche schizzo di sangue in più.
“Come sta?” gli chiese.
“Meglio. L'intervento è andato bene, sua moglie si rimetterà presto. Adesso sta dormendo, se vuole può andare a trovarla.”
“Grazie mille.” Bruce sospirò e strinse la mano del medico.
“La stanza di sua moglie è la prima a destra.” lo informò Aniston con un sorriso.
Bruce annuì e vi si diresse, aprendo la porta con cautela. L'ambiente era piccolo e asettico, di un bianco quasi abbagliante. Un'unica piccola finestra era socchiusa, lasciando trasparire il cielo notturno. Elsa riposava nel letto, aveva gli occhi chiusi e nel polso era infilato l'ago di una flebo. Non c'era nessun rumore, fatta eccezione per il 'BIP' regolare che segnalava l'andamento dei battiti del cuore di Elsa. Bruce si sedette sulla sedia scura vicino al letto e le strinse la mano libera.
Un flebile sorriso gli illuminò le labbra. Era felice che Elsa fosse ancora viva, non si sentiva così da tanto tempo. Le scostò una ciocca sudata dalla fronte e la baciò delicatamente, lasciandosi poi andare contro lo schienale e chiudendo gli occhi.
“Signor Malone?”
Silenzio.
“Signor Malone?”
Al terzo richiamo, Bruce aprì gli occhi pigramente. Si accorse che era giorno a giudicare dai raggi solari che penetravano attraverso la finestra. “Salve, tenente Jona.”
Sentendosi chiamare così, Bruce balzò in piedi: “Colonnello!”
“Non ci aveva detto che la sua amica si era sentita male.” ironizzò Smith.
“Non ho avuto tempo. L'operazione è finita solo poche ore fa.” Bruce sentiva il cuore martellargli in petto, temeva che Smith e le sue due guardie del corpo fossero lì con lo scopo di uccidere Elsa.
“Tuttavia conosceva la procedura che avrebbe dovuto seguire.”
Certo che la conoscevo, pensò Bruce, avrei dovuto lasciarla morire.
“Sarebbe stato inutile lasciarla morire, avremmo dovuto trovare un'altra ragazza e ricominciare tutto da capo, proprio ora che sono riuscita a convincerla a sposare Leighton!”
“E' riusito a convincerla?” chiese Smith sorpreso.
“Certo.”
“Ma allora come mai si trova qui, che le è successo?”
“Ha ecceduto con i sonniferi, evidentemente non riusciva a dormire. Non brilla molto per intelligenza.” spiegò Bruce.
“Immagino, ma la prossima volta che decide di prendere una decisione così importante come quella di portarla in ospedale, è pregato di farmelo sapere!” e detto questo Smith uscì dalla stanza sbattendo la porta.
Il rumore improvviso provoco un tremito nel corpo di Elsa, che pian piano iniziò a svegliarsi.
“Elsa...” sussurrò Bruce, tornando a sedersi accanto a lei.
Elsa lo fissò con occhi vacui: “Mi fa male il polso.”
“Hai una flebo.”
“Sono morta?”
“No, sei salva.”
“Merda.” bisbigliò Elsa, girando la testa dall'altro lato.
“Perchè l'hai fatto?” chiese Bruce, con una sfumatura di rimprovero nella voce.
“Perchè no?” lo rimbeccò Elsa.
“Perchè io voglio che tu viva.”
Elsa rimase colpita da quelle parole.
“Come ti senti?” riprese Bruce.
“Stanca, voglio dormire.”
“Certo, riposa pure.”
Elsa chiuse gli occhi e obbedì, il sonno la avvolse in pochi secondi. Quanto sarebbe rimasta lì? Si chiese. Decise che quando sarebbe uscita dall'ospedale, avrebbe accettato di sposare quell'avvocato- barra- sospettato e avrebbe aiutato Bruce nella sua missione. Era felice, in fondo, di non essere morta. Soprattutto le aveva fatto piacere trovarlo lì accanto a sé, al suo risveglio. Anche se era certa di aver sentito un altro rumore, prima. Forse una porta che sbatteva? Non fece in tempo a capirlo, l'ultimo barlume di lucidità la abbandonò e si addormentò.

 

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Capitolo 22
*** It's on ***


“Ricapitoliamo: io arrivo al ballo, avvicino Leighton con una scusa e ci faccio amicizia, poi lui mi invita a ballare e io accetto”
“Esatto.”
“Molto bene! Avrei solo una piccolissima domanda”
“Sentiamo”
“Come cavolo si fa a piacere alla gente??”
Bruce guardò Elsa sconsolato. Era dalle due del pomeriggio che le stava spiegando il suo piano, e lei aveva, almeno apparentemente, ascoltato con interesse. E adesso, dopo tre ore che Bruce stava parlando, Elsa muoveva questa stupida obiezione!
“E' facile! Va' da lui, digli quanto ti stai divertendo, che hai sentito parlare di lui, che sei felice di poterlo conoscere...” Bruce elencò sulla punta delle dita.
“E se non dovesse funzionare? Se non mi invitasse a ballare?”
“Funzionerà, dopo che ti avranno preparata!” la rassicurò.
“Avranno...?” Elsa lo guardò scettica.
“Certo. A minuti dovrebbero essere qui i tuoi preparatori: tutti estetisti professionisti! Tu sei sicura di
sentirti bene?”
“Ho detto di sì! Mamma mia, Bruce, è una settimana che mi hanno dimesso! Datti una calmata!” sospirò Elsa, lasciandosi cadere sul divano alle sue spalle.
“Come vuoi!” Bruce le si sedette accanto.
Non avevano più parlato di Mia da quando Elsa aveva tentato il suicidio, ma entrambi sapevano che presto avrebbero dovuto affrontare l'argomento.
“Se...” Elsa deglutì: “Se... sposo Edward, poi dovrò...”
Bruce annuì.
“E se vorrà dei bambini? Io non li voglio i bambini! Un bambino ha bisogno di amore, io non ne ho avuto quindi non saprei come darlo. E poi non è giusto che venga coinvolto in tutta questa faccenda! No, niente bambini!”
“Su questo puoi stare tranquilla. Leighton è un sadico, amante del divertimento: non ti chiederà mai di avere dei figli!”
“E allora perchè dovrebbe sposarsi?” obbiettò Elsa.
“Ha avuto già tre mogli, in tutto. Sposa donne di vent'anni più giovani di lui e quando la loro bellezza inizia a sfiorire, chiede il divorzio.”
“Che pezzo di m”
“Elsa!” la bloccò Bruce: “Ricordati che da stasera sei una gran dama, un'arrampicatrice sociale! Non devi mai più, e dico mai più, imprecare!”
Dlin, dlon.
Il campanello che suonava pose fine alla conversazione.
“Vada ad aprire, caro Bruce” ironizzò Elsa, indicando platealmente la direzione della porta con il braccio.
“Questi sono i tuoi preparatori! Con te facciamo i conti dopo!”
“Facciamo tutto quello che vuoi, amore mio!”
Le risate sguaiate di Elsa accolsero gli estetisti e costrinsero Bruce a sospirare sconsolato: “Scusatela, almeno è su di morale! Meglio, no?”
I preparatori, due uomini e tre donne elegantissimi, entrarono riluttanti, storcendo il naso. Ognuno di loro trainava un trolley che tracciava orribili strisce nere sul pavimento.
Quando entrarono nel salone, Elsa si sollevò dal divano e balzò in piedi: “Salve!”
Una delle donne, probabilmente la più affabile del gruppo, sorrise ampiamente: “Salve, cara. Io sono Meridia, loro sono Jeff, Tom, Kurtney e Annie. Io e Annie ci occuperemo della tua pelle, Jeff e Tom renderanno magnifici i tuoi capelli e Kurtney ha l'abito e le scarpe adatti per te! Adesso vieni, tesoro, è già tardi!”
Elsa fu afferrata per un braccio e condotta nella stanza adiacente che Bruce stava indicando, era il bagno più ampio di tutta la casa. In effetti, pensò Elsa, definirlo bagno era riduttivo, visto che in realtà era una SPA.
Bruce attese seduto nel salone, concentrandosi sull'andirivieni degli estetisti che entravano e uscivano dal bagno. Si chiese che aspetto avrebbe avuto Elsa, alla fine e iniziò a fantasticarci; le avrebbero tagliato i capelli? Che colore di rossetto le avrebbero applicato, visto che lei non ne portava mai? E il vestito? Sarebbe stato all'altezza della persona che lo indossava? Guardò l'orologio sul muro di fronte a lui: le sette di sera, erano due ore che gli estetisti si davano da fare e tra poco sarebbe iniziato il Ballo di Beneficenza. Comunque non era un problema, era previsto che Elsa arrivasse in ritardo. Trattenne a stento un sorriso e ripensò a quanto fosse felice del fatto che lei fosse ancora viva. Come sarebbe stata la sua vita, adesso, senza Elsa? Smith avrebbe individuato un'altra ragazza emotivamente fragile e Bruce avrebbe dovuto conquistarla, farla innamorare, lasciarla, ritrovarla... Insomma, la solita procedura. Tornò a osservare l'orologio dalla cornice argenta, le sette e uno. Okay, doveva decisamente darsi una calmata. Ad un tratto sentì la porta scorrevole del bagno aprirsi, lasciando uscire cinque estetisti sudati e scapigliati: “Io dormo per una settimana!” informò Jeff.
“Io per un mese!” gli fece eco Kurtney.
Bruce si alzò e andò loro incontro: “Allora? E' pronta?”
Meridia gli sorrise maliziosa: “Perchè non va a controllare?” poi si scostò dalla porta e lo fece entrare. Bruce sospirò e si preparò mentalmente a quello che avrebbe visto, la stanza profumava di mille essenze diverse, ma quando vide Elsa, il suo cuore smise di battere. La donna di fronte a lui era di una bellezza sovrumana, eterea. Il corpo perfetto era avvolto da uno scintillante abito blu come la notte che si allargava e si schiariva man mano che raggiungeva il pavimento. La scollatura a cuore era illuminata dal meraviglioso collier di brillanti che fasciava il collo candido della proprietaria. Infine, i capelli erano intrecciati come fili d'oro e raccolti all'indietro mediante dei deliziosi fermagli argentei brillanti, mettendo in risalto la fronte alta. Gli occhi grigi incorniciati da un velo di ombretto che sfumava nelle stesse tonalità del vestito, le labbra non molto carnose rese lucide da un velo di rossetto scarlatto. Elsa sbattè le ciglia lunghe e mosse qualche passo: “Allora, che te ne pare?”
“Sei...” Bruce deglutì “Fantastica...”
“Grazie” sussurrò lei suadente: “Vogliamo uscire dal bagno?”
Bruce annuì ancora spaesato dal cambiamento, poi la seguì nel salone: “Grazie mille, signori: avete fatto un lavoro eccellente!”
Meridia annuì: “Lo sappiamo, ne siamo orgogliosi! Buona fortuna!”
“Salve” Elsa li salutò con la mano mentre Bruce li accompagnava alla porta e li faceva uscire.
“Allora” chiese poi: “Mio cavaliere, ha in serbo per me una qualche limousine o devo andarci a piedi a
questo maledettissimo ballo?”

Il suo modo di parlare scurrile era l'unica cosa che escludeva la possibilità di un rapimento alieno della vera Elsa.
“No, mia raffinatissima dama, la Lamborghini è qui fuori!” ironizzò lui, scortandola fuori casa e facendola entrare in macchina.
Lei gli sorrise platealmente e quando la macchina partì, il cuore tornò a batterle all'impazzata.

 

L'ambiente era enorme e raffinato, circondato da un immenso giardino verdeggiante. Elsa pensò che ricordava molto la festa alla quale aveva incontrato Bruce durante i loro pirmi giorni insieme, e una fitta di nostalgia la invase.
“Va bene, Elsa, adesso entri prima tu e tra un po' io: nessuno ci deve vedere insieme! Tu sei Jennifer Lilliams e il tuo unico obiettivo e sposare l'avvocato Leighton per mettere le mani sulle sue ricchezze. Punto. Se le cose vanno bene, stanotte avrai da fare con lui, quindi ci sentiremo domani mattina, ma se succede qualche imprevisto, ricorda che io sono nella sala.” detto questo, Bruce le posò un bacio leggero sulla fronte e la vide sparire all'interno del palazzo.
Elsa, dal canto suo, non riusciva a non provare disgusto per la leggerezza del tono di voce di Bruce. Se
le cose vanno bene...

Ricacciò un conati di vomito e si fece largo tra la folla di ospiti eleganti e camerieri dai vassoi d'argento. Ma dove cavolo era Leighton? Bruce le aveva mostrato una sua foto, nella quale non era nemmeno tanto male con i suoi capelli grigi e occhi neri stile 'sosia mancato di Richard Gere'. Comunque, ora di lui non c'era traccia. O forse era solo lei che non riusciva ad individuarlo.
Elsa si guardò intorno nervosa, lo smalto leggero con il quale erano state coperte le sue unghie le impedivano di rosicchiarle. Indietreggiò di qualche passo e incespicò su qualcosa – qualcuno – le cui mani calde, una su un braccio e una sulla vita, le impedirono di cadere.
“Mi scusi!” si voltò in fretta, sbiancando all'istante.
“Non c'è di che.” Leighton scoprì i denti in una sorta di ghigno. Però, no che non era tanto male! Pensò Elsa, Anzi: era un gran bel pezzo di...
“Posso invitarla a ballare?” le chiese indicando il centro della sala già pieno di coppie.
“Certo.” sorrise di rimando, il cuore non accennava a rallentare.
“Le piace la festa, miss...?”
“Lilliams. Jennifer Lilliams.” Elsa lasciò che il suo accompagnatore la scortasse in mezzo alla pista e iniziarono a volteggiare in tondo, al ritmo lento dei violini.
“Io sono Edward Leighton. L'avvocato Edward Leighton” sottolineò l'avvocato Edward Leighton con
superbia.

Elsa fu tentata di sputargli in faccia, ma si trattenne. L'uomo davanti a lei aveva ucciso Amanda, solo questo contava adesso, e lei doveva essere più in gamba di sua sorella, fare quello in cui lei non era riuscita: sopravvivere a Leighton e catturarlo. Un sorriso di sfida le affiorò sul volto.
“Qualcosa non va, Jennifer? Posso darti del tu, vero?”
“Certo, Edward.”
Leighton sorrise compiaciuto: “Allora, sei venuta qui da sola, stasera?”
“Così sembra” esclamò Elsa seducente. Doveva apparire bella e misteriosa, affascinante e sincera. I suoi estetisti avevano provveduto in modo eccellente alla parte estetica, ora era il suo turno di dimostrare quanto valeva.
“Ma non mi dire! Nessun... fidanzato?”
“No. Suona così strano?”
“Un po'”.
Elsa decise di tacere e continuarono a ballare secondo un susseguirsi di walzer e melodie d'autore. Ne approfittò per guardarsi intorno senza dare nell'occhio, ma di Bruce nessuna traccia. Eppure c'era, le aveva promesso che ci sarebbe stato, quindi c'era. Il suo cervello le impediva di ipotizzare il contrario. Però, si disse Elsa, se Bruce era davvero lì allora si sapeva nascondere davvero bene! O, più probabile, era lei ad avere la vista offuscata dall'ansia e dall'emozione.
“Sei stanca?” le chiese Edward.
“No, potrei continuare così tutta la notte! Io adoro ballare, e tu?”
“Diciamo che dipende dalla compagnia. In questo caso, anch'io potrei andare avanti fino all'alba...” la guardò eloquente.
“Magari potremmo passare ad un altro tipo di danza...” Elsa non credeva alle sue parole, non aveva mai sapuito farci con gli uomini. Eppure ora aveva una disinvoltura e una sicurezza di sé impressionanti, una vocina dentro di lei le suggerì che magari dipendeva da tutti gli anni passati ad osservare i comportamenti impeccabili di Amanda.
Leighton ricambiò lo sguardo e la strinse a sé con più foga, corpo contro corpo.
“E dimmi, Edward. Esiste una signora Leighton?”
“Al momento, no.”
“Siamo sicuri?” gli sussurrò Elsa all'orecchio.
“Sicurissimi.”
Lui le baciò l'incavo del collo e salì sul mento per poi arrivare alla bocca. Il bacio fu intenso, piacevole, ma niente in confronto al calore che la invadeva ogni volta che Bruce la stringeva a sé.
Dopo che si furono separati, Edward fu il primo a parlare: “Questo posto ètroppo affollato, non trovi? Io abito proprio a due passi, potremmo continuare la conversazione a casa mia.”
Elsa sorrise platealmente: “Non vedo l'ora”
Edward la prese per mano e la condusse dolcemente verso l'esterno del locale. Fu allora, quando ormai aveva perso le speranze, che Elsa vide Bruce. In un angolo, appoggiato al muro, la cravatta allentata e un bicchiere mezzo vuoto di champagne in una mano. Quando gli passò vicino, lui le rivolse uno sguardo carico di significati nascosti.

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Capitolo 23
*** Hurricane ***


Bruce non riusciva a capacitarsene. Cos'era quella sgradevole sensazione, quasi simile a nausea, che l'aveva invaso quando aveva visto Elsa baciare Leighton? Dopo che lei era guarita, che non era più in pericolo di vita, tutte le certezze su cosa fare a missione conclusa erano svanite. Pensandoci meglio, si era detto, è stata colpa dell'ansia se ho parlato così. Io non voglio davvero abbandonare il mio lavoro per una stupida cotta! ed era tornato ad essere un agente della CIA in missione speciale.
Ma allora perchè gli dava tanto fastidio vederla baciare un altro uomo? In realtà, come spesso accade nelle questioni d'amore, il cuore l'aveva già capito mentre la ragione si rifiutava di ammetterlo. Gelosia. Ecco cos'era quel malessere che gli attanagliava lo stomaco; gelosia. Pensò che era una sciocchezza e si diede mentalmente dello stupido, ma la vista di lei che rideva civettuola e volteggiava tra le braccia di un cavaliere che non era lui, gli dava il voltastomaco. Afferrò un calice di spumante dal vassoio di un cameriere che passava e ne bevve avidamente il contenuto. Giusto per calmarsi i nervi, si era detto. Poi aveva abbandonato il bicchiere sul tavolo del buffet e ne aveva preso un altro già pieno; di champagne, questa volta. Stava commettendo un errore, doveva rimanere lucido nel caso fosse successo qualche imprevisto, ma non riusciva a smettere di bere. I calici di alcol da due divennero tre, poi quattro. Al quinto, Bruce iniziò a sudare e la stanza prese a vorticargli intorno. Si appoggiò al muro con ancora in mano il bicchiere mezzo pieno, si allentò il nodo della cravatta che era diventato troppo stretto e asciugò le goccioline di sudore che gli imperlavano la fronte. Per sua fortuna ebbe un aspetto decente quando Elsa e Leighton lo oltrepassarono mano nella mano, dirigendosi verso l'uscita. Fu abbastanza lucido persino da lanciarle un'occhiata significativa, anche se nemmeno lui sapeva cosa volesse dire. Stai attenta.? Buona fortuna.? In bocca al lupo.?
Chissà cosa avrebbe inteso lei. Comunque, ora che se n'era andata, poteva tornarsene a casa.
Già, a casa.
Si rese conto di non averci mai pensato prima di allora, ma gli si strinse il cuore all'idea di una casa vuota e senza Elsa, senza il suo profumo leggero che aleggiava per le stanze, senza le sue risate, le sue imprecazioni poco raffinate e, soprattutto, senza qualcuno da amare nelle notti più fredde. Si era affezionato a lei, questo doveva ammetterlo. E ora il solo pensiero di essere di nuovo solo lo lasciava senza fiato. Non voleva tornare a casa, almeno non ancora. Decise che sarebbe rimasto alla festa, la solitudine aveva assunto per lui un aspetto più angosciante; quasi la temeva.
Per questo tornò a ballare come se niente fosse, non fece fatica a trovare una bella ragazza disposta a passare la notte con lui e solo a quel punto tornò a casa. Perchè, anche se con una sconosciuta, era meglio che tornare da solo.

 

Il soffitto era a volta, osservò Elsa; dipinto nei toni dell'azzurro e del grigio chiarissimo. Era affascinante, e nell'ambiente aleggiava un inebriante profumo esotico. Elsa individuò una crepa sottilissima nel soffitto e si morse il labbro quando Edward affondò di nuovo. Il letto era molto grande, quasi a tre piazze, e i loro vestiti costosi giacevano aggrinziti sul parquet. La notte non era mai stata così lunga, constatò Elsa che non vedeva l'ora di farla finita. Non che Edward non fosse un bell'uomo, anzi; era anche un amante eccezionale. Ma nei suoi affondi, nei suoi baci, riscontrava un forte senso di malinconia. Non poteva fare a meno di paragonare Edward a Bruce, e non avrebbe dovuto, perchè la differenza era evidente e le faceva stringere il cuore. Per distrarsi, aveva provato a scandagliare con lo sguardo il soffitto, ma a parte qualche minuscola crepa non aveva trovato niente di interessante, che potesse tenerle la mente impegnata. Lui era ancora sopra di lei, una mano sulla spalla e una tra i capelli; e quando finalmente Edward si fece da parte e si adagiò contro l'alta testiera del letto, Elsa non potè non sospirare.
“E' stato fantastico, eh?” commentò lui accendendosi una sigaretta, le pupille ancora dilatate. “Vuoi una?”
Elsa scosse la testa e si sforzò di sorridere: “No, grazie.”
Ripassò mentalmente le fasi del piano: Uno, fare colpo su di lui; due, andarci a letto; tre, fare la preziosa.
Attraverso la finestra, la luce biancastra dell'ora blu si dipanava nella stanza.
“Ora devo andare.” lo informò Elsa, mettendosi a sedere e stiracchiandosi con fare sensuale, come un gatto che fa le fusa.
“Dove? Sono le quattro del mattino!”
“Proprio l'ora in cui contavo di tornare a casa! Andiamo, non ti sarai illuso che restassi con te tutta la notte!” lo canzonò, poi indossò rapidamente il vestito e si recò fuori dalla stanza.
“Lasciami il tuo numero!” le urlò la voce di lui dalla camera da letto.
Elsa estrasse il rossetto scarlatto dalla porshette e scrisse il numero su una parete, a caratteri cubitali. “Fatto!” comunicò, allegra.
Poi scese al piano di sotto, oltrepassò i corridoi della grande villa e uscì.
Una volta fuori, l'aria gelida la investì all'improvviso e sentì una forte voglia di piangere e vomitare. Rimase immobile per un po', inspirando ed espirando con esagerata lentezza, cercando di mantenersi lucida. Aveva lo stomaco in subbuglio e una voraggine enorme nel petto. Stranamente, il suo pensiero andò a James, a quanto le era stato indifferente e quanto invece lo stava apprezzando ora, in confronto a Leighton il Mitomane. Voleva tornare a casa, voleva tornare da Bruce; rifugiarsi tra le sue braccia e versare tutte le lacrime che aveva in petto. Frugò nella borsetta finchè non trovò il palmare e potè chiamarlo.
“Pronto?” le rispose una voce assonnata e... femminile?
“Chi parla?” domandò Elsa con un filo di voce.
“Sono un'... amica del signor Malone!”
Di sottofondo si udiva una risatina soffocata. Ecco, questo era Bruce. Una rabbia cieca mista a qualcos'altro lasciò Elsa senza fiato.
“Allora?” incitò la voce femminile.
Elsa si riscosse: “Può dirgli perfavore di richiamare questo numero? Sono Jennifer Lilliams, gli dica di fare al più presto, è urgente.”
“Va bene, appena può ti richiama!”
Elsa ebbe un'idea. “Signorina! Si ricorda il mio nome?”
“Certo: Jennifer Lilliams! Ti faccio richiamare appena possibile!”
Ecco, ora era certa che Bruce sapesse chi lo stava cercando.
“Buonasera” Elsa chiuse la chiamata e si accasciò sul marciapiede, affondò il volto sulle ginocchia e scoppiò in lacrime.


“Elsa! Che ci fai lì? Corri in macchina, presto!”
Bruce si affacciò al finestrino e le fece cenno di salire a bordo, Elsa non se lo fece ripetere due volte e corse al posto del passeggero. Richiuse lo sportello con un tonfo sordo.
Bruce mise in moto: “Cosa stavi facendo rannicchiata sotto casa di Leighton?”
Elsa si sentì improvvisamente una stupida per essersi mostrata così fragile: “Ero stanca di aspettare e mi sono seduta. Sai, non ho dormito molto.”
“E non potevi cercarti un altro posto? Proprio sotto la sua finestra dovevi fermarti? E se mi avesse visto arrivare?”
“Ne dubito, era molto stanco quando l'ho lasciato.” replicò Elsa pungente.
“Be', però perchè non hai risposto alle mie telefonate? Ti ho richiamato un sacco di volte, poi mi sono messo a cercarti. Temevo ti fosse successo qualcosa di grave.”
Elsa non ricordava di aver sentito il cellulare squillare, ma non lo ammise: “Dev'essersi scaricata la batteria.”
“Sarà.”
Rimasero in silenzio mentre la macchina correva lungo la strada quasi deserta.
Elsa ripensò alle parole di Bruce; era in pensiero per lei! La cosa le avrebbe fatto anche piacere, se non fosse che dubitava avesse trovato il tempo di preoccuparsi, in compagnia di qualche supermodella.
“Chi era la bambola che mi ha risposto al cellulare?” lo prese in giro.
“Ci credi se ti dico che non mi ricordo il nome?”
“Purtroppo sì.”
Sarebbe stato comico, pensò Elsa, se non avesse fatto così male.
 

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Capitolo 24
*** Will you ***


“Sono stata brava, eh?”

“Diciamo.”

“Sono stata in gamba, non è vero?”

“Più o meno.”

“Sono stata a dir poco fantastica, ecco la verità!”

“Se lo dici tu.”

Elsa rise e si coprì le labbra con la mano, le unghie dipinte di rosso erano talmente lucide da riflettere la luce del giorno. Il sole era alto in cielo e i suoi raggi giocavano sui volti di Elsa e Bruce, adagiati sulle sdraio in giardino, a dividerli un tavolino circolare con sopra un paio di aranciate ghiacciate.

Bruce sorrise, il volto all'ombra dell'ombrellone sovrastante. Guardò Elsa che rideva sensuale e non potè fare a meno di notare quanto fosse cambiata. Era solo una settimana che frequentava Leighton, eppure i suoi modi di fare erano diventati quelli di una contessa; non imprecava più, teneva la schiena dritta e sceglieva con cura ogni abito.

“Quando lo devi vedere la prossima volta?”

“Oggi a pranzo, tra un paio d'ore.” rispose, noncurante.

“Allora non è meglio che ti prepari?”

“C'è tempo, Bruce, c'è tempo” detto questo, Elsa reclinò la testa all'indietro e chiuse gli occhi godendosi il sole.

“E che mi dici di lui? Ti sembra particolarmente attratto?”

“Dì la parola, Bruce; coraggio! Innamorato. Sì, mi sembra innamorato!”

“Non intendevo quello. Ricorda che Leighton è già stato sposato tre volte, è molto bravo a fingersi 'innamorato', come dici tu.”

“Sarà” Elsa sorrise sorniona.

Bruce sospirò: “Coraggio, vai a prepararti.”

Elsa emise un brontolio contrariato.

“Coraggio!” la incitò.

Elsa si mise a sedere pigramente e gli rivolse uno sguardo carico di finto odio, poi entrò in casa. Bruce sorseggiò un po' di aranciata dal suo bicchiere e pensò che era felice di avere Elsa con sé un altro po'.

 

“Che te ne pare?”

Elsa si affacciò alla porta del salone. Bruce era seduto sul divano di fronte la TV e seguiva distrattamente un telegiornale locale. Quando la vide, un sorriso sincero gli illuminò le labbra. Indossava un paio di pantaloncini a vita alta bombati e azzurri come i suoi occhi. Le mettevano in risalto le gambe lunghe e sinuose, ed erano coordinati ad un top dallo scollo a cuore, privo di maniche, a righe bianche e azzurre. Infine, una larga e lunga camicia turchese era sbottonata e lasciata cadere con finta noncuranza. I piedi di Elsa erano infilati in delicati sandali chiari e i capelli lasciati liberi e lunghi sulle spalle. Gli occhiali da sole dalla montatura grande e una borsetta di vernice in toni sgargianti, completavano l'outfit.

“Perfetta.” disse in un soffio.

“Grazie. Ora, come ci arrivo a casa sua?”

“Ti do un passaggio, no?”

“Bruce, era solo un modo carino per ordinartelo.”Elsa gli strizzò l'occhio.

Bruce fece il finto esasperato e la scortò fino alla macchina. Raggiunsero rapidamente il centro della città e Elsa potè citofonare a casa di Leighton. Era una calda e bella giornata di giugno, pensò Bruce facendo scendere Elsa e ripartendo, troppo bella per sprecarla lontano da lei.

 

“Ciao, tesoro.”

Edward stampò un bacio delicato sulle labbra di Elsa, che aveva ormai imparato a mascherare il disgusto e a respingere l'impulso di asciugarsi le labbra con il dorso della mano.

“Ciao, Ed. Come stai?”

“Benissimo, cara, benissimo.”

Attraversarono una grande villa che Elsa aveva imparato a conoscere bene e che, con i suoi soffitti a volta e i suoi saloni immensi e quasi vuoti, la metteva a disagio tutte le volte.

Edward la fece accomodare sul divano di pelle scarlatta nel salotto; Elsa accavallò le gambe con fare sensuale.

“Posso offrirti qualcosa da bere?” fece Edward accomodante.

“Sì, grazie. Champagne, tesoro.”

Edward versò il liquore in un prezioso bicchiere di cristallo e lo porse ad Elsa, che sorseggiò lentamente.

“Sai, ci ho pensato bene...” iniziò Leighton “Ma... da quanto tempo è che ci conosciamo?”

Ci siamo, pensò Elsa, adesso mi chiede di sposarlo!

Non potè impedire al cuore di battere all'impazzata.

“Un paio di settimane, penso.” rispose Elsa, vaga; doveva apparire noncurante.

“Be', ecco... Io sono stato già sposato in passato, te l'ho detto, ma nessuna mi ha mai fatto provare quello che mi fai provare adesso tu.”

Elsa non si lasciò impressionare, un buon oratore è molto più pericoloso di un buon spadaccino; chissà con quante donne aveva funzionato la tecnica vecchia, ma sempre efficace, del 'sei l'unica, non posso vivere senza di te' e cretinate varie.

Si limitò a sorridere, fingendosi colpita da quelle belle parole.

“Io, mi stavo chiedendo...” Edward era visibilmente a disagio, in mano stringeva un bicchiere di liquore e camminava in tondo senza trovare il coraggio di guardare Elsa negli occhi.

Su coraggio, pensò lei, chiedimi di sposarti! Così potrò farti pentire di aver ucciso Amanda, brutto figlio di puttana.

“Cosa, Ed?” lo incoraggiò.

Su, avanti. Chiedimi di sposarti!

“Io...”

“Sì?”

“Io volevo...”

“Cosa, tesoro, cosa?” Elsa si morse il labbro, cercando di mantenere la calma.

“Be', prima devo saperlo: tu cosa provi per me?”

Elsa smise di respirare. Che cavolo aveva detto? Le aveva chiesto di sposarlo? No, altrimenti se ne sarebbe accorta; non aspettava altro.

“Come, scusa?” non aveva capito veramente.

“Ho detto: cosa provi per me?”

“Perchè?”

“Rispondi, per favore. E' importante.” Edward aveva assunto un'aria molto seria, Elsa non l'aveva mai visto così. Si alzò lentamente dal divano e gli si avvicinò languida, circondandogli il collo con le braccia e sussurrandogli: “Tu quale vorresti che fosse la risposta?”

Lui la allontanò delicatamente e Elsa gelò.

“Sul serio, Elsie. Dimmelo.”

Elsa ripassò mentalmente il piano e maledisse Bruce quando si accorse che non le aveva detto niente riguardo il trovarsi in una situazione del genere. Avevano sottovalutato Leighton, l'avevano ritenuto frivolo e incapace di amare, dedito ai vizi e al divertimento. E adesso veniva la parte più difficile e Elsa doveva vedersela da sola; da quello che avrebbe detto sarebbe dipesa la buona riuscita della missione. Se avesse detto la risposta che Edward si aspettava, l'avrebbe sposato; altrimenti no. Il punto era: cosa si aspettava Edward? Che facesse la preziosa, gli dicesse che era tutto divertimento? O che rispondesse in modo vago, affascinandolo? O magari voleva davvero che fosse sincera... Ma quanto poteva essere sincere una donna che aveva il compito di farsi sposare solo per poi aiutare la CIA a sbatterlo in galera?

Pensa, Elsa, pensa. Si disse.

Gli occhi grigi di Edward erano fissi nei suoi e pretendevano una risposta. Elsa decise di tentare il tutto per tutto.

“Okay, lo confesso: ti amo, Edward! Ti amo come mai prima, ti amo e vorrei passare il resto della mia vita con te...” ora mi sposi? Non disse.

Edward sorrise e il suo volto parve illuminarsi, la strinse per i fianchi e l'avvicinò a se, baciandola con passione.

“Che bello sentirtelo dire!”disse, poi si rituffò sulle labbra di lei.

Elsa rimase notevolmente delusa; solo questo aveva da dirle? Che era felice? Ma andasse al diavolo!

“Perchè volevi saperlo, Ed?” domandò in un sussurro, allontanandosi appena.

“Be', perchè avevo preso una decisione importante e volevo essere sicuro di non sbagliare.”

“Che decisione?”

“Ecco, Elsa... Oddio! Che stupido ad essere così in imbarazzo, non è vero? Dopo tre mogli... Che sciocco!” rise piano. Elsa non ci vedeva più dall'ansia, se non si sbrigava a dichiararsi sarebbe stata capace di prenderlo a schiaffi. Si limitò a rimanere in silenzio e abbozzare un sorriso.

“Elsa, io... Vuoi... Ecco, sì: vuoi venire a vivere con me?”

Prima che Elsa avesse il tempo di rendersene conto aveva già urlato: “Sì, certo che ti voglio sposare!”

Fu quando si accorse dello sguardo stupito con cui Edward la stava fissando, che si rese conto di aver preso un granchio: “Che c'è? Non mi hai chiesto di sposarti?”

“No, solo di venire a vivere con me.”

Per quanto si fosse sforzata, Elsa non riuscì a nascondere la delusione: “Oh, scusa. Che stupida!” Rise, nervosa.

“No, Elsie, tu non sei stupida.” Edward si lasciò cadere in poltrona, sospirando: “E' che nella vita ho preso tante di quelle decisioni sbagliate, sia nel campo sentimentale che in quello esterno, da farmi aver paura, adesso, di rischiare. E se mi stessi sbagliando ancora? E se anche tu, come le mie precedenti mogli, stessi con me solo per i miei soldi?”

Elsa si morse il labbro e si sentì un verme per quello che gli stava facendo. Già, perchè onestamente Edward poteva sembrare egocentrico, mitomane, arrogante... Ma non un serial killer di professione! D'improvviso le balenò il pensiero che quelli della CIA potessero aver capito male, si stessero sbagliando. Decise che ne avrebbe parlato dopo con Bruce e avrebbe preteso che le illustrasse le prove che facevano sospettare la colpevolezza di Edward.

“Insomma” riprese lui “Non voglio sposarmi di nuovo, non voglio affrontare un nuovo divorzio! Perdonami, io voglio stare con te anche tutta la vita, ma senza essere sposati.”

Elsa deglutì e gli si sedette accanto, accarezzandogli la schiena con tenerezza.

“Certo, Edward, me ne rendo conto. Ti capisco.” e pensò che in situazioni diverse l'avrebbe trovato molto simile a sé stessa.

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