The Dalton Story

di MartynaQuodScripsiScripsi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Nuovo arrivo ***
Capitolo 2: *** L'oceano...evaso ***
Capitolo 3: *** Sette in condotta ***
Capitolo 4: *** Cantanti fuori...cella ***
Capitolo 5: *** Il boss delle torte-parte 1 ***
Capitolo 6: *** Il boss delle torte-parte 2 ***
Capitolo 7: *** Il Gambo Solo ***
Capitolo 8: *** Mi hanno chiuso in bagno! ***
Capitolo 9: *** I sosia ***
Capitolo 10: *** La macchina dei sogni ***
Capitolo 11: *** Maledetto telefono ***
Capitolo 12: *** Coltellino milleusi ***
Capitolo 13: *** Il fiume ***
Capitolo 14: *** Nicole viene trasferita ***
Capitolo 15: *** Bandidos ***
Capitolo 16: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Nuovo arrivo ***


 

NUOVO ARRIVO

 

Era una normale giornata nel penitenziario, tanto in un penitenziario le giornate sono tutte uguali.
I detenuti spaccavano le pietre come al solito e il basso, infido Joe Dalton cercava di farsi venire un’idea per evadere.
Per lo sforzo di sollevare il piccone e di pensare contemporaneamente era rosso come una mela e bagnato di sudore, e la sua espressione faceva supporre che stesse meditando un omicidio.
I suoi fratelli lo guardavano impietositi.
Ad un tratto Joe smise di picconare e gridò: “Mi è venuta un’idea!”
“Ma no.” borbottò Jack. Era sicuro, come ogni volta, che il piano del fratello si sarebbe rivelato un totale fiasco.
“Oggi non dovrebbe arrivare un nuovo detenuto?” iniziò Joe.
“E allora?” lo interruppe Averell.
Joe si irritò.
“Come, allora? Quando le guardie apriranno la porta, approfitteremo della distrazione di tutti e taglieremo la corda!”
“Ma io voglio conoscere il nuovo detenuto!” protestò Averell.
“Non dire sciocchezze! Preferisci tornare dalla mamma o…”
“MAMMA!” strillò Averell, e si mise a vaneggiare.
Joe lo guardò soddisfatto.
“Perfetto, così non dovrebbe dare problemi” sentenziò.
Jack e William si guardarono dubbiosi.

Finalmente una diligenza si fermò davanti alla porta del penitenziario.
Le due guardie la aprirono, mentre una folla di detenuti si riuniva per osservare il loro nuovo compagno di sventure.
Intanto i fratelli Dalton scivolavano attaccati al muro, cercando di uscire passando inosservati. E ci stavano pure riuscendo.
Ma Averell era agitatissimo e recalcitrante. Voleva vedere il nuovo detenuto a tutti i costi, e a nulla servì che Joe lo minacciasse di morte o gli dicesse che la mamma lo stava aspettando a casa.
“Vuoi fare il bravo una buona volta?! Così ci farai scoprire!” gli urlava sottovoce.
Dovettero trascinarlo di peso fino al portone, ma in quel momento Emett aprì l’entrata della diligenza e fece scendere il nuovo detenuto.
O meglio, la nuova detenuta.
Infatti la colpevole di un qualsivoglia crimine che era appena stato commesso era una ragazza alta, chiara di pelle, dai lunghi e ricci capelli castani e gli occhi color cioccolata, che guardavano intimiditi la moltitudine di detenuti. Volarono dei fischi.
A questo punto Averell perse completamente il cervello e lanciò un’esclamazione che ovviamente attirò l’attenzione di tutti.
“NOOO!” gridò Joe coprendosi gli occhi.
“Ehi! I Dalton stanno evadendo!” esclamò il direttore Peabody.
“Averell, sei un pasticcione!” lo apostrofò William, accigliato.
I quattro Dalton vennero riportati nella loro cella insieme alla ragazza nuova, che aveva lo sguardo basso per la vergogna.
“Forza, fratelli Dalton, entrate!” li esortarono le guardie spingendoli dentro. Poi si girarono verso la ragazza.
“Quella è la tua cella, Nicole” le dissero, indicando la porta accanto. “Se hai delle lamentele, faccelo sapere.”
Nicole entrò. Non che si fosse aspettata una camera da hotel a cinque stelle, ma quando vide dove avrebbe dovuto passare i prossimi otto anni, le cascarono le braccia.
La cella era una stanzetta buia, appena illuminata dalla luce che entrava dalla finestrella con le sbarre. Sulla parete destra, attaccato al muro con delle catene, c’era una sottospecie di materasso verdastro, che sembrava tutt’altro che pulito.
Sul cuscino, poco più che una federa malandata, era piegata la tenuta da galeotto gialla a strisce nere.
Nicole uscì e gridò: “Ehi, vorrei fare una lamentela!”
Pitt ed Emett, che se ne stavano andando, si girarono interdetti.
“Uh? Così presto?”
“Credevo si vedesse subito” replicò Nicole allargando le braccia. “Non c’è la TV.”
Le guardie scoppiarono in una sonora risata.
“La TV non c’è in nessuna cella” spiegò Pitt quando si calmò.
“E allora come si passa il tempo?” domandò Nicole con una smorfia di disappunto.
“Semplice: SI LAVORA!” rispose Emett, e si allontanò sghignazzando, seguito dal suo compare.
Sulle guance pallide di Nicole comparvero due pozzette rosse.
“Accidenti, quei due si meritano una lezione!” esclamò Averell, che aveva seguito la scena dalla finestrella della porta. “Non si ride in faccia alle signore.”
“Di’ un po’, Averell…ma da quando sei un gentiluomo?” fece William, sdraiato sulla branda.
“Non lo so.” ammise il fratello.
Intanto, ignara dello scambio di battute tra i Dalton, Nicole si sedette per terra.
Prese la divisa da galeotto e la guardò meglio. Non fu contenta di constatare che era da uomo, ma la indossò lo stesso, con un sospiro. Non le stava affatto bene.
Si guardò intorno.
“Otto anni buttati per una dimenticanza…” mormorò, improvvisamente triste.
Si sdraiò sulla branda, con il viso verso il muro.
“Che idiota sono…” sussurrò, mentre le lacrime iniziavano a cadere dai suoi occhi color cioccolata.
Rimase a singhiozzare silenziosamente per qualche minuto, poi udì dei colpi battuti sulla parete opposta.
“Che cos…” esclamò, rizzandosi a sedere.
“SIGNORINA! SIGNORINA NICOLE, MI SENTE?” urlò qualcuno nell’altra cella.
“Chi è?!” ribatté Nicole.
“SONO AVERELL, AVERELL DALTON! IO E I MIEI FRATELLI VOLEVAMO DIRLE CHE SE LE SERVE QUALCOSA, PUO’ CHIEDERE A NOI!”
Nicole si chiese come avessero fatto ad aiutarla se erano in un’altra cella e come avessero potuto uscire ed entrare nella sua se le porte erano blindate dall’esterno.
“Beh, grazie! Al momento però non ho bisogno di niente…” rispose, confusa.
Lo sguardo le cadde sulla finestra.
“Anche se un modo per evadere non sarebbe male…” aggiunse.
Dall’altra parte esplose un’altra voce.
“Ehi, avete sentito? Anche lei vuole evadere!”
“Sarà uno dei fratelli di Averell” pensò Nicole.
“Attenzione che arriviamo!” la avvertì la stessa voce di prima.
Nicole sbarrò gli occhi.
“In che senso, attenzione che arriviamo?” pensò.
“Scusi, mi è sfuggito un…” iniziò, ma udì subito un rumore come se una grattugia impazzita stesse grattando la parete.
Fissò il muro con occhi sbarrati, fino a quando un blocco di cemento non cadde e un viso molto poco rassicurante fece capolino dal “buco”.
“Salve, sono Joe Dalton e voglio evadere.” si presentò Joe.
“…Uh…Piacere”  disse Nicole, troppo stupita per dire qualsiasi altra cosa.
Una faccia uguale a quella precedente si piazzò davanti al buco.
“E io sono suo fratello Jack…”
Una terza faccia totalmente identica (Nicole sentì i sudori freddi) disse:
“Io sono il loro fratello William!”
Qualcuno si abbassò, facendo bella mostra di un viso i-den-ti-co a quello dei fratelli, e dichiarò:
“Invece io s…”
“No, no, fammi indovinare: sei Averell! Giusto?” lo interruppe Nicole, piuttosto sorpresa.
“Ma come hai fatto?” esclamò Averell, stupitissimo.
“Forse perché hai detto chi eri prima?” lo rimbeccò Joe.
“Comunque…per tutti gli anni che siamo stati qui, abbiamo tentato di evadere almeno trentaquattro volte alla settimana, e siamo a corto di idee nuove…Siccome anche tu vuoi evadere, che ne diresti di unire le nostre forze e fare gruppo?” le propose.
Nicole tacque. Prima aveva detto di voler evadere così perché le sembrava che non fosse possibile, ma ora che si era ritrovata davanti quattro veterani della fuga le sembrò una cosa precipitosa scappare subito.
Ma poi si disse, che male c’era? Si sarebbe risparmiata otto anni di prigione.
E poi, non era veramente colpevole. Aveva rubato perché non aveva soldi, e non la avrebbero nemmeno scoperta se si fosse ricordata di staccare l’allarme antifurto.
Così accettò.
“Ah ah, perfetto!” strillò Joe e fece per afferrarle la mano quando la porta della cella si aprì.
“Ok fratelli Dalton, la pausa è finita! Tornate a spaccare le pietre!”  esordì Pitt.
I quattro uscirono controvoglia, mentre Emett apriva la cella di Nicole.
“Tu vieni con me” le disse.
Lei lo seguì e uscirono sul piazzale, dove c’erano già gli altri detenuti che spaccavano le pietre.
I Dalton andarono a prendere i loro picconi e si misero a lavorare.
Nicole li stava osservando quando Emett la richiamò all’attenzione.
“E-ehm! Il direttore Peabody ha detto che, siccome sei una femmina, non puoi spaccare le pietre come gli altri.”
“Ma che razza di maschilista! Io ce la farei benissimo!” pensò Nicole irritata.
“Il tuo lavoro sarà perciò di lavare la roba dei detenuti insieme al Sig. Ming Li Fu.”
In quel momento Nicole preferì miliardi di volte spaccare le pietre al sole, morendo di fatica e spezzandosi la schiena.
Lavare la roba dei detenuti! Si immaginò in mezzo ad acqua, detersivo e bolle, mentre sfregava e sciacquava delle mutande maleodoranti assieme a uno sconosciuto. Che poi, che nome era Ming Li Fu. Povero figlio!
Ma non poté protestare perché Emett la portò in una specie di negozietto con un’insegna scritta in ideogrammi.
“Ehi, Ming! Ti ho portato un’aiutante!”
Dal semibuio arrivò trotterellando un cinese tutto sorridente.
“Ah! Tu essele onolevole nuova detenuta?” chiese.
“Ehm…sì…” rispose Nicole, confusa.
“Bene! Molto bene! Tu andale a lavale vestiti laggiù” le ordinò il cinese.
Nicole vide un’immensa catasta di tenute da galeotto lerce, insieme a un paio di vestiti da donna, qualche smoking e divise da guardia.
“…Tanto non starò per molto qui…” mormorò.

La sera, le guardie suonarono il rancio e un branco di bufali imbizzarriti (leggere: i detenuti) corsero verso la mensa.
Nicole fu l’ultima ad arrivare.
Entrata, individuò subito il tavolo dove erano seduti i fratelli Dalton e li raggiunse.
“Ti aspettavamo!” le disse Averell, sorridendo.
In realtà non era vero, ma siccome era loro complice dovevano trattarla bene.
“Hai pensato a un piano?” le chiese Joe.
Nicole si rese conto di non averlo fatto.
Per non fare una figuraccia, improvvisò:
“E se segassimo le sbarre delle finestre e ci calassimo giù?”
“Ci abbiamo provato almeno duecento volte con tutte le varianti possibili e immaginabili e ci hanno sempre scoperto” sospirò Jack.
“Ma potrebbe funzionare” insistette Nicole. “Tentar non nuoce…”
“Vabbè…Supponendo che funzioni, con cosa ci caliamo giù?” intervenne William.
“Non so…Domani potrei provare a prendere un lenzuolo dalla lavanderia e portarlo in cella.” replicò la ragazza.
“Niente male come piano, speriamo solo che funzioni…”disse Joe.
“Ok, siamo d’accordo.”
In quel momento iniziarono a servire la cena e l’argomento fuga fu temporaneamente dimenticato.

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Capitolo 2
*** L'oceano...evaso ***


L’OCEANO…EVASO


 

Il giorno dopo Nicole tornò in cella con il cuore che batteva all’impazzata. Infatti rubare un lenzuolo non era così facile come aveva previsto. Ming Li Fu l’aveva quasi beccata.
Entrata, batté due volte sul muro. Il blocco di cemento che avevano staccato il giorno prima cadde e al suo posto apparve la faccia di Joe.
“Hai il lenzuolo?” le chiese.
Nicole annuì e glielo passò.
Joe iniziò a strapparlo in strisce e a legarle insieme.
“Ehi, Nicole, prova a venire qui!” disse Averell.
Con un po’ di fatica, la ragazza passò dal buco del muro. Si accorse solo ora delle sbarre alle finestre.
“Oh, no! E le sbarre?” esclamò preoccupata.
“Ah, quelle non sono un problema. Le abbiamo segate già da un po’…” la calmò Jack.
Si avvicinò alla finestra e con un colpetto le fece cadere, sotto lo sguardo stupito di Nicole.
Intanto Joe aveva finito di annodare le strisce del lenzuolo, le attaccò al troncone di sbarra e si calò giù.
I suoi fratelli lo imitarono, tra gridolini eccitati.
Nicole fu l’ultima. Presa la corda, ebbe un attimo di esitazione. Fuori dalla finestra c’era la prateria sterminata del Nevada, senza muri, guardie, palle al piede e tutto il resto. Solo libertà.
Si chiese cosa avrebbe fatto dopo.
Probabilmente sarebbe scappata dall’altra parte del mondo sotto un falso nome, ma le sembrò troppo drastico.
O sarebbe tornata a casa, ma i suoi genitori il suo furto non lo avevano preso affatto bene. Si ricordò le loro facce al processo…tristi, deluse e furiose.
“NICOLE!!”
Nicole si riscosse, prese la corda e scese giù. L’aria fresca della notte la avvolse, provocandole brividi lungo la schiena che sapevano di libertà.
“EEEH!!! Siamo liberi!!!” ruggì Joe e si mise a correre.
“Sssshhh! Cosa urli, che ci sentono!” lo rimbeccò Nicole, che peraltro si era spaventata.
“Ma figurati, urla tutte le volte che esce e nessuno l’ha mai beccato, anche se si fa per dire…” ribatté William.
 Nicole non ne era affatto convinta ma rimase zitta.
“Smettetela di parlare, si ritorna dalla mamma!” strillò Joe, e tutti e quattro i fratelli Dalton persero la testa e iniziarono a correre come dei cretini. Nicole li imitò perché sinceramente non sapeva dove andare.
Ma a un certo punto si stancarono e si fermarono, ansimanti e stanchi per la lunga corsa.
Nicole si sedette su una roccia, ma si sentì un tintinnio di qualcosa che cadeva per terra.
“Oh no! Ho perso un orecchino…” esclamò inginocchiandosi per cercarlo.
Stava tastando qua e là quando sbattè contro qualcosa. Alzò subito la testa e vide un’enorme faccia dall’espressione minacciosa.
“AAAAHHHH!!!!” gridò, tirandosi bruscamente indietro.
I fratelli Dalton si agitarono.
“Nicole, che succede?!” strillò Averell girandosi.
Il faccione si mise a ridere come un pazzo, mentre Nicole lo guardava terrorizzata e cercava di dire ad Averell che c’era un mostro.
“Oh, NOOOO!!! Non è possibile, ancora quegli indiani impiccioni!!” esclamò Joe battendosi una mano in fronte.
“Indiani?” ripeté Nicole perplessa.
“La viso pallida ha ragione! Sono un indiano e mi chiamo Vero Falco!” la informò il faccione.
“Non ci romperai le uova nel paniere anche oggi! Correte!” urlò Joe.
“Ma Joe, sono stanco…” obiettò Averell.
“Non me ne importa niente! Tutte le volte che incontriamo questi dannati indiani, finiamo sempre nei guai!”
“Perché?” chiese Nicole.
“Perché, in un modo o nell’altro, ci fanno sempre tornare al penitenziario!”
“Il viso pallido nevrastenico ha ragione!” Dicendo questo, Vero Falco materializzò un arco da dietro la schiena e incoccò una freccia.
Come lo vide, Nicole andò in panico.
“AAAAHHHHH!!! Ma questo è un pazzooo!!!!!” urlò mentre correva verso il penitenziario.
“NO! Non per di là, Nicole!!!”  strillò Jack. Voleva aggiungere dell’altro ma sentì una freccia sfiorargli i capelli e andò in panico anche lui, perciò scappò.
Ormai le frecce piovevano e i restanti fratelli Dalton corsero via come perseguitati di altri tempi. Solo che Joe urlava:
“DOVE ANDATE, IMBECILLI?!”
Ma chi lo ascoltava più?

Spaventati a morte, i fratelli e Nicole arrivarono al penitenziario, presero la corda che penzolava dalla finestra e salirono in cella.
Joe era nero di rabbia.
“Quell’indiano impiccione! Proprio adesso che ce la stavamo facendo!”
Nicole era piena di sensi di colpa. Se solo fosse scappata dall’altra parte…
“Lasciamo perdere stanotte, sono stanco!” piagnucolò Averell.
“Beh, allora…vi lascio dormire…” mormorò la ragazza.
“Ciao.” disse Joe.
“Ciao…” disse Jack.
“Ciao!” disse William. 
“Buonanotte!!!” esclamò Averell.
Nicole si infilò nella sua cella, chiuse il buco e si mise a dormire.

L’indomani, la signorina Betty riunì tutti i detenuti per il quotidiano seminario.
“Gentili detenuti!” iniziò, con il suo solito fare allegro. “Siccome il seminario della danza della pioggia qualche tempo fa ha avuto un alto indice di gradimento, il signor Vero Falco è venuto ancora una volta a mostrarci come si fa a far piovere!”
Nicole, dietro a due colossi di un metro e ottanta, si alzò in punta di piedi e con sgomento si accorse che il faccione della sera prima stava sorridente a fianco della signorina Betty!
“Oh no! Il pazzo lanciatore di frecce!” pensò con un brivido.
Betty si spostò e Vero Falco iniziò la sua danza della pioggia.
Agitava le braccia e le gambe, girava su se stesso, roteava gli occhi, saltellava, e in più diceva cose senza senso. Sembrava un pollo cretino.
“Anga Anga Wakka Wakka Glù Hatta Hatta Glù Gu Gu…” declamava con un certo ritmo.
A un certo punto, un enorme nuvolone si formò sul penitenziario e, con un fulmine, iniziò a diluviare.
Nicole, fradicia, rimase impressionata oltre ogni dire. Allora non erano tutte scemenze, si disse.
Dopo pochi secondi tornò il sole, e un timido applauso risuonò per Vero Falco.
“E ora, gentili detenuti, tocca a voi!” esordì Betty, con un sorriso che le andava da un orecchio all’altro.
“Questa l’ho già sentita…” pensò Joe.
Immediatamente il penitenziario si trasformò in un manicomio.
Tutti i detenuti (tranne Joe) si sforzarono di imitare alla bell’e meglio Vero Falco, che se la rideva. Infatti non è che ci riuscissero tanto bene.
Tante nuvolette apparivano sulle teste dei detenuti, ma tutte si dissolvevano prima che cadesse una sola goccia d’acqua.
L’unico che se la cavasse decentemente era Averell, che dopo qualche minuto produsse un nuvolone che coprì mezzo penitenziario e scatenò una tempesta. Gli altri si rifugiarono dalla parte del bel tempo.
Ma si udì il rombo di un fulmine e la pioggia iniziò a cadere anche sulla parte soleggiata, causando l’indignazione di tutti.
“Averell, la mamma ha detto che non devi fare dispetti agli altri!” gli gridò William.
“Ma non sono stato io!” rispose Averell, offeso.
“Giusto! Sono stata io!”
Tutti si girarono e videro Nicole che contemplava la propria nuvola con espressione soddisfatta.
“Si allagherà tutto!” gemette qualcuno.
Improvvisamente a Joe venne un’idea per evadere.

Dopo che fu tornato il sole i detenuti ripresero a spaccare pietre o (nel caso di Nicole) lavare i vestiti insieme a un cinese.
La sera, Joe comunicò il suo piano ai fratelli e a Nicole.
“Quando il portone è chiuso, Averell e Nicole scateneranno una grande tempesta, il penitenziario si riempirà d’acqua fino all’orlo, noi galleggeremo fino al muro e usciamo!”
“Ma è un grande spreco di acqua, Joe! Poi la Terra diventerà un deserto totale!” obiettò Averell.
“Non dire scemate, l’acqua piovana viene dalle nuvole che vengono dal mare che viene dai fiumi che vengono dalle sorgenti che vengono dal ghiaccio che viene dall’acqua ghiacciata! È un ciclo: il ciclo dell’acqua! E l’acqua è sempre la stessa.” spiegò Joe, rosso per lo sforzo.
Averell rimase lì con una faccia perplessa. Poi disse:
“Non ho capito.”
“Lascia perdere, non capisci mai niente tu! Piuttosto, stai tranquillo che l’acqua non si spreca, ok?” strillò Joe.
“Per me, si può fare” dichiarò Nicole.

L’indomani mattina (era molto presto) si ritrovarono in un angolo del penitenziario per mettere in atto il loro piano.
“Dai, forza, fate questa danza della pioggia!” li esortò Joe, impaziente di fuggire.
“Ma Joe, non è elegante chiedere di danzare così!” replicò Averell, contrariato.
“Cosa intendi dire? E sbrigatevi, se ci beccano ci rimandano a lavorare!”
“Intendo dire che bisogna chiedere con gentilezza” lo informò Averell. Si girò verso Nicole e, con una faccia da schiaffi modello deluxe, le chiese:
“Permetti questo ballo?”
Nicole stette al gioco e ridacchiando, rispose:
“Con immenso piacere!”
Finalmente iniziarono a danzare.
“Anga Anga Wakka Wakka Glù Hatta Hatta Glù Gu Gu!!!” gridavano.
Jack e William si misero a ridere, mentre Joe fremeva dall’impazienza.
Finalmente arrivarono due nuvoloni neri neri, e iniziò a piovere così forte che non si vedeva due metri più in là.
Si formarono subito delle pozzanghere, ma era robetta.
“Così non va! Mettetevi a ballare anche voi!” ordinò Joe a Jack e William.
“Eeh?” esclamò Jack.
Senza giri di parole Joe li obbligò, ma al massimo producevano una nuvoletta che gli tirava un fulmine addosso e dovettero smettere.
Intanto Averell e Nicole avevano strafatto. Il cielo si oscurò, ci fu un fulmine immenso e il secondo Diluvio Universale si rovesciò sulla terra.
“Oh, che pasticcio…” gemette Nicole.
Ora c’era un centimetro d’acqua per terra, abbastanza per bagnarsi le calze (che tra l’altro erano già bagnatissime, quindi non c’era differenza) e per far pensare a Joe che il suo piano avesse qualche probabilità in più di riuscire.
“Ce la stiamo facendo! Continuate!” urlò.
“È al massimo!” rispose Averell.
“Rompiamo le tubature!!! Rovesciamo l’acqua dei rubinetti!!!”
“Questo è uno spreco.” commentò William.
Ma si precipitarono ugualmente tutti su una fonte d’acqua: Averell sul tubo di gomma delle docce comuni, gli altri cominciarono a riempire secchi e rovesciarli fuori.
Il penitenziario cominciava ad essere allagato sul serio.
Il Direttore Peabody intanto si era svegliato. Aprì la finestra per cambiare l’aria…ma tutta l’acqua gli entrò in camera e fu costretto a chiuderla per evitare un allagamento.
Pensò: “Che tempo orribile!”
Ormai fuori si nuotava invece che camminare. Ogni tanto, Averell e Nicole facevano la danza della pioggia (gli veniva male perché avevano l’acqua fino al collo) per non far smettere di piovere, ma sicuramente non ce n’era bisogno.
“Ho freddo, Joe!” gridò Averell.
“Ho freddo anch’io! Ma non possiamo fermarci ora!” rispose Joe, guardandosi le mani raggrinzite.
“E se la smettessimo di far piovere e per uscire salissimo sul tetto della lavanderia? Con tutta quest’acqua ci riusciremo facilmente e risparmiamo tempo!” propose Nicole, inquieta.
I Dalton riconobbero che era un’idea sensata e iniziarono a nuotare verso la lavanderia.
Erano a metà strada quando Pitt ed Emett si svegliarono.
Dalla finestra videro la massa d’acqua nel penitenziario e si spaventarono un bel po’.
“AAAAAAAHHH!!! Che facciamo?!” strillò Emett.
Pitt rispose:
“Innanzitutto apriamo il portone e facciamo uscire l’acqua!”
Uscirono fuori, sfidando le gocce che violentemente si abbattevano su di loro e lentamente il portone si aprì.
Con un boato, tutta l’acqua venne spinta fuori dal penitenziario, travolgendo i poveri evasori.
“NNNOOOOOOO!!!!!” vociferò Joe.
“AIUTOOOO!!!!!” gridò Nicole, terrorizzata.
Tra urla e strepiti, finirono tutti fuori.
L’acqua scivolò via nella pianura, mentre tra le nuvole appariva un timido raggio di sole e smetteva di piovere.
Non appena Pitt ed Emett si resero conto dei fratelli Dalton, si precipitarono a fargli la paternale.
“Era un altro dei vostri tentativi di evasione, non è vero? Avete provato a evadere con il favore del buio! Credo proprio che andrete in isolamento.” li sgridò Emett.
Joe si mise a ringhiare.
“La prossima volta, proviamo col fuoco?” chiese Averell.
“Averell, non parlare!”
In quel momento le guardie si accorsero che c’era anche Nicole.
Lei arrossì.
“Sono fregata” pensò.
“Ah, ci sei anche tu? No, non andrai in isolamento, non spiegare! Sei uscita per prendere un po’ d’aria quando sei stata travolta dall’acqua, giusto? Ora vi riaccompagniamo nelle celle e vi diamo dei vestiti asciutti.”
Nicole rimase interdetta. Ma era meglio così, anche se le dispiaceva un po’ per i suoi Dalton.
In silenzio, seguì docilmente Pitt nella sua cella, mentre Emett portava i Dalton in isolamento.

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Capitolo 3
*** Sette in condotta ***


SETTE IN CONDOTTA




“Ho un piano!” strillò Joe.
“NUOOOO!!! Davvero?” lo prese in giro Nicole.
Joe una volta tanto non raccolse la provocazione e iniziò:
“Come ben sapete, l’altro ieri John se n’è andato a casa.”
Era vero; il detenuto che stava nella cella di fronte era stato rilasciato per buona condotta, causando in un primo momento la pazza invidia di Joe e in un secondo tempo la sua idea.
La quale era che si sarebbero comportati come degli angeli per farsi rilasciare per buona condotta.
Non sembrava né una cattiva idea né troppo difficile, quindi venne approvata all’unanimità.


Mentre picconavano, passò il direttore Peabody per controllare.
Immediatamente Joe sussurrò ai fratelli:
“Ehi, c’è il direttore! Mostriamogli rispetto!”
I quattro si inchinarono fino a terra.
“Sua Altissima Magnificenza, Le porgiamo i nostri più ossequiosi rispetti!” declamò Jack per fare le cose in grande.
Peabody  rimase come un pesce lesso. Poi raddrizzò le spalle, assunse un’espressione fiera e riprese a camminare.
“C’è cascato come un pollo!” ridacchiò William.
“Se continuiamo così…addio penitenziario!” sogghignò Joe.

Nicole entrò nella lavanderia esclamando:
“Buongiorno, signor…ehm, Fu…?”
Il sig. Fu alzò la testa, incuriosito. Di solito Nicole arrivava con espressione sofferente borbottando “Salve.”
“Tu essele di buon umole oggi?” le chiese.
“Beh, in effetti…” replicò lei, abbozzando un sorriso. “Piuttosto, lei ha dormito bene?”
Il cinese sembrava molto contento di questa sua cordialità e le diede un cioccolatino, per poi iniziare a lavorare.

“I miei omaggi, Signorina!”
Joe baciò la mano della signorina Betty, che arrossì violentemente e si defilò coprendosi il viso.
“Per me, l’hai spaventata” disse Averell.
“Zitto tu, che non capisci niente di donne!” lo sgridò il basso fratello.
“SSSH! Cerca di controllarti, Joe! Ci stiamo giocando l’evasione!” esclamò William.
“Ah, certo!”

Pitt ed Emett entrarono nella lavanderia per controllare.
“Salve! Come state?” esordì Nicole.
I due si guardarono perplessi. Nicole sapeva parlare?
Comunque, per non apparire maleducati, restituirono il saluto.
Finito il controllo, uscirono.
“Nicole sembrava di buon umore, no?” commentò Emett.
Pitt annuì.

A pranzo, i cinque si sedettero composti e in silenzio, ovviamente vennero notati dal direttore, dalla signorina Betty, dalle guardie e da tutti gli altri detenuti.
Un mormorio si diffuse in tutta la mensa. I Dalton che non litigavano? Quello era un giorno di festa nazionale!
Quando iniziava ad arrivare il pasto, solitamente Joe si metteva a urlare: “EHI!!! Venite qui!! C’è gente che muore di fame!!!”
Ma stavolta rimase fermo e composto.
“Ha visto?” mormorò Betty al direttore.
“Certo!” rispose lui. “E’ tutto il giorno che i Dalton si comportano meglio degli altri giorni. Pensi che stamani, quando sono passato davanti a loro, si sono inchinati!”
“A me Joe ha baciato la mano…” sussurrò Betty, arrossendo e guardando il suddetto.
“Invece Nicole essele molto più coldiale degli altli giolni!” li informò Ming Li Fu.
“Confermo!” saltò su Emett.
Non c’era dubbio, si erano proprio dati una regolata, quei quattro cicloni e quella nuvoletta.
Il picco venne raggiuto quando, al secondo, Joe chiese al tipo davanti a lui:
“Ehi Matt, scusa se ti disturbo, ma potresti passarmi il sale, per favore?”
Matt svenne.

Continuarono così per due giorni. Ormai erano in testa alla classifica dei più educati del penitenziario, e tutti pensavano di averli giudicati male.
Il povero Joe stava per impazzire, ma gli altri lo confortavano dicendo che stava andando benissimo e massimo un altro paio di giorni e sarebbero stati fuori.

Quella sera, Peabody indisse una riunione con il personale del penitenziario.
Quando tutti furono arrivati, spiegò:
“Dunque, vi ho convocati perché vi vorrei parlare dei fratelli Dalton e della signorina Nicole. Penso che tutti abbiate notato che in questi giorni si stanno comportando da santi.”
La signorina Betty si immaginò Joe, Jack, William, Averell e Nicole in tunica bianca, aureola, arpa, espressione beata e le scappò una risatina.
Peabody continuò:
“Ho pensato di…rilasciarli per buona condotta.”
Fu approvato all’unanimità.
Ma a quel punto, si udì un urlo fortissimo.
“YYEEEEEEAAAAAAAAHHHHH!!!!!!!!!”
Tutti si spaventarono da matti. Guardarono fuori dalla finestra e videro Joe che si sbracciava e gridava di gioia.
“Ce l’abbiamo fatta!! Ce l’abbia…”
Per sbaglio guardò dentro e vide 5 paia di occhi che lo fissavano truci.
Imbarazzatissimo, fece un sorrisino.
Il direttore si alzò di scatto e aprì la finestra, e si rese conto che Joe non era solo, anzi era sorretto dai suoi fratelli, che non appena videro il massiccio direttore, si bloccarono.
“Bene, fratelli Dalton” iniziò lui con tono freddo e severo, “avevamo intenzione di rilasciarvi, ma dopo questa scappatella, credo proprio che la sola ad avere la libertà sarà la signorina Nicole, che mi sembra che non sia con voi.”
I quattro ci rimasero malissimo. Ci erano arrivati così vicini, ma così vicini! Se solo avessero seguito il consiglio di Nicole, se solo fossero rimasti in cella con lei…il mattino dopo si sarebbero lasciati alle spalle i muri, le palle al piede, i picconi e tutto il resto.
Con il cuore pesante, vennero accompagnati nella loro cella con la palla al piede.
L’aria era tesissima. C’era troppo silenzio. Non era normale che stessero così in silenzio, dopo una delusione così bruciante.
Infatti, dopo pochi secondi, Joe ebbe una crisi isterica.
Cacciò un urlo così acuto che svegliò Nicole, che si era addormentata.
Si alzò e spinse via il pezzo di muro.
“Allora?” domandò, assonnata.
“Beh…ci hanno scoperti. Lasceranno andare solo te.” rispose William, con aria grave.
“Solo io?” ripeté la ragazza.
“Se non ve ne andate voi…allora resterò qui. Siamo una squadra, ormai.” disse risoluta.
“Che cosa?!” esclamò Jack.
“Davvero lo faresti???” domandò Averell, agitatissimo.
“Certamente. Domani mattina andrò a parlare con il direttore. Avete detto voi stessi che vi servo!” confermò lei, con un sorriso coraggioso.


Scusate il luuuuuuungo ritardo, ma ero senza idee.
Grazie per leggere.               Petra Style

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Capitolo 4
*** Cantanti fuori...cella ***


CANTANTI FUORI…CELLA



Era la pausa dopo pranzo. Joe prese in prestito (si fa per dire) un giornale e iniziò a guardarlo, tanto per fare qualcosa.
Sfogliando le pagine vide una notizia molto interessante…

CATTURATO IL LADRO CANTANTE

Ieri sera il noto criminale Elvis Prizly è stato consegnato finalmente alla giustizia, durante un tentativo di rapina in una villa signorile. Come tutti ben sapete, si dice che la sua voce abbia il potere di aprire ogni tipo di lucchetto, porta o cassaforte e di stordire i poliziotti che gli danno la caccia. Ma stavolta la sua miracolosa voce non ha funzionato. Durante la notte è stato interrogato e le sue corde vocali sono state esaminate da esperti, ma non si è rilevato nulla di anormale. Prizly sostiene che ha sempre avuto quell’abilità, ma i medici non sono convinti. Comunque verrà portato entro alcuni giorni al penitenziario del Nevada a scontare 10 anni di carcere.

Joe finì di leggere l’articolo in preda a una tremenda eccitazione. Gli era appena venuta un’idea fantastica per evadere.
“JACK! WILLIAM! AVERELL! NICOLE!” chiamò a voce altissima.
Nel giro di alcuni minuti il resto della banda arrivò, e sapevano tutti perché Joe li aveva chiamati.
“Allora? Qual è il piano?” domandò Jack.
“Leggete qui!” rispose Joe porgendogli il giornale.
Quando finì di leggerlo, Averell commentò:
“Non ho capito.”
Joe alzò gli occhi al cielo.
“Uffa! Quando questo Elvis Prizly arriverà al penitenziario, gli chiederemo di insegnarci a cantare come fa lui così apriremo la porta e fuggiremo! Hai capito adesso?” spiegò irritato.
“Ah…” fece il fratello alto.
“Ma io non so cantare!” intervenne Nicole. Se non riusciva a mettere insieme due note decenti, sarebbe rimasta per altri otto anni nel penitenziario senza i fratelli  Dalton, gli unici che dessero un po’ di colore alla sua vita.
“Neanche noi. Quel tizio si dovrà dare da fare…” disse William.

Due giorni dopo, una diligenza entrò nel penitenziario e i detenuti si riunirono per vedere il nuovo arrivato, il famigerato Elvis Prizly.
Le guardie aprirono la porta della diligenza e il penitenziario fu come investito da una luce accecante, che si diradò poco dopo.
Elvis Prizly era lì, ed era splendido. Aveva i capelli neri lucidissimi di brillantina, con un tirabaci che stava ritto sulla fronte. Gli occhi erano blu, sfavillanti come due zaffiri. Le labbra erano piegate in un sorriso enigmatico, che tracciavano due pieghine sul volto altrimenti liscio e perfetto come la buccia di una pesca noce.
Vestiva la divisa da detenuto, e a tracolla aveva una chitarra con delle dediche scritte sopra col pennarello indelebile.
A quella vista, la signorina Betty sentì le gambe molli e arrossì.
Nicole abbassò lo sguardo, vergognosa.
Elvis si guardò un momento intorno, poi iniziò a scendere dalla diligenza con passo sicuro ed elegante.
Non ci vuole un genio per capire che tutti i detenuti lo odiarono e invidiarono fin dal primo istante in cui lo videro.
Il ladro cantante si diresse davanti al direttore Peabody ed esordì:
“Salve, mister. Non è malaccio, questo posto, l’unica pecca è che ci sono poche ragazze.”
E strizzò l’occhio a Nicole e Betty. La prima arrossì e si nascose dietro Averell, la seconda svenne.
“Questo trucchetto lo voglio imparare anch’io!” pensò Joe, immaginandosi che gli avrebbe fatto comodo quando avrebbe rapinato una banca con una donna come direttrice.
Pitt ed Emett lo portarono nella sua cella e lentamente la folla si dissipò.
“Non mi piace quel tipo!” dichiarò Jack stringendo i pugni.
“Neanche a me, ma ci serve per evadere! Dobbiamo sopportarlo.” rispose Joe.
“Ha fatto svenire Betty! È una brutta persona!” piagnucolò Averell.
“Anche noi siamo brutte persone! Siamo dei ladri, banditi criminali!” gli ricordò William.
Nicole aveva le guance che bruciavano e non si pronunciò.

Mentre lavoravano, Joe andò a parlare a Elvis, spiegandogli il suo piano.
“Fammi capire, baffetto, io dovrei insegnare a cantare a te, ai tuoi fratelli e alla signorina? Beh, penso che si possa fare…” accettò Prizly alla fine.
“Perfetto” concluse Joe stringendogli la mano.
Si misero d’accordo che avrebbero fatto le lezioni nella pausa dopo pranzo.

La prima lezione si rivelò un vero disastro.
“Prima di tutto, fatemi vedere -o meglio sentire, ah ah ah!-  quello che sapete fare.” disse Elvis appoggiandosi al muro.
Ma poi dovette implorarli di smettere.
I fratellini erano stonatissimi e Nicole, che non aveva mai cantato in vita sua se non alle recite scolastiche, non era da meno.
“Beh, suppongo che avrò da lavorare…” boccheggiò il ladro cantante, mentre Averell gli faceva aria con la mano.
Si rialzò.
“Dunque, prima di tutto dovete respirare col diaframma… Tradotto, con la pancia” continuò notando le facce perplesse degli aspiranti evasori.
E così sprecò tre quarti d’ora a cercare di insegnargli cos’è il diaframma e a prenderglielo.
Poi fecero dei vocalizzi (un branco di galline impazzite avrebbe fatto di meglio), infine ricominciò il turno di lavoro e dovettero smettere, e meno male, altrimenti tutto il penitenziario sarebbe finito in ospedale in preda a una crisi nervosa.

Purtroppo i fratelli Dalton vennero presi in giro da tutti gli altri detenuti.
“Ehi, Joe!” sghignazzò un tipo. “Vuoi cantare all’Opera, eh? Sarà un successone, vi tireranno addosso uova e pomodori marci per tutto lo spettacolo!”
“Capisco Nicole, ma voi! Il canto è roba da femminucce!” urlò un altro, sbellicandosi dalle risate.
Fu come se fosse esplosa una bomba. I detenuti iniziarono a inneggiare “Femminucce! Femminucce! Signorine! Signorine!”
Joe si tirò su le maniche, pronto a fare a botte ma fu bloccato da un suono idilliaco.
Gli altri carcerati ebbero la stessa sorte.
Tutti si girarono, incantati. Elvis Prizly, il ladro cantante, stava cantando a bassa voce l’inno nazionale, e aveva praticamente ipnotizzato l’intero penitenziario.
Avanzò verso i tipi che avevano preso in giro i fratelli, li fissò per un attimo e cantilenò:
Smettetela di insultare i miei discepoli! Il canto è un’arte nobile…Su, tornate a lavorare!”
Meccanicamente, i detenuti fecero come gli era stato detto (o cantilenato, che dir si voglia).
I fratelli ci rimasero basiti.
“WOW! È impressionante! Ci riusciremo anche noi??? Ti prego, dimmi di sì!” strillò Averell, con gli occhi lucidi.
Elvis si passò una mano tra i capelli, inorgoglito.
“Se riuscirete a imparare a cantare decentemente, magari…” rispose.

A cena, i Dalton raccontarono a Nicole per filo e per segno cosa era successo quel pomeriggio. Lei ci rimase piuttosto sorpresa.
“Non c’è che dire, questo è uno che fa sul serio” mormorò, guardandolo. Si era seduto al tavolo della signorina Betty e scherzava con lei.
“Vi rendete conto che siamo incappati in un miracolo?” berciò Joe. “Basta che impariamo bene e siamo fuori!”
I believe in miracles…I believe in a better world for me and you…” cantò William.
Il resto del fratellame e Nicole esultarono. Forse si stava avvicinando la data (anzi, la Data) della Liberazione?

Dopo quella sera, si dedicarono anima e corpo al canto. Ogni minuto libero che avevano, lo trascorsero facendo vocalizzi e provando pezzi via via più difficili. Si dice che la fortuna aiuta gli audaci, e la dea bendata non si dimenticò di loro.
Le loro voci, grazie anche ai consigli di Elvis, miglioravano a vista d’occhio (“o a sentita di orecchio, ah ah ah!” aveva commentato Prizly).
Passavano i giorni. Una mattina, Nicole si svegliò con il piede sbagliato.
Pensò che avrebbe dovuto sprecare tutto il giorno a lavare mutande sporche e si arrabbiò con il direttore Peabody per averle assegnato questo lavoro schifoso.
“Tutta colpa dei pregiudizi! Secondo lui, una donna non riesce ad alzare un cavolo di piccone?” pensò accigliata.
Senza accorgersene, si mise a canticchiare:
Ma cadessi dalle scale
Brutto stinco di maiale…”

Improvvisamente si sentì un urlo e un tonfo prolungato.
Alcuni soffocati “che diavolo…” risuonarono dalle altre celle.
Si sentì la signorina Betty strillare:
“Aiuto! Il direttore Peabody è caduto dalle scale!”
Roboanti risate squassarono il penitenziario da cima a fondo. Ogni detenuto rideva rotolandosi per terra, pensando di essersi finalmente vendicato del direttore.
Solo Nicole non rideva. Si era bloccata, incredula di ciò che aveva appena fatto. Aveva canticchiato che il direttore cadesse dalle scale ed era successo.
Un momento, si disse. La sua voce…stava acquisendo i poteri di quella di Elvis?
“Non può essere…” pensò esterrefatta.
Decise, prima di cantar vittoria, di fare un’altra prova.
Piena di speranza, cantò:
Fratelli Dalton, ascoltate!
La porta della cella sfondate!”

Dalla cella dei Dalton iniziarono a sentirsi degli SBANG! SBANG! SBANG!
I fratelli erano stati ipnotizzati e nei loro cervelli c’era soltanto un pensiero: sfondare la porta.
Nicole rimase basita oltre ogni dire.
Lentamente, un sorriso andò a dipingersi sul suo bel viso pallido.
“YEEEEEEEEEAAAAAAAAAAHHHHHH!!!!” urlò saltando di felicità.
“Ce l’ho fatta! Ce l’ho fa…”
BOOM!
I Dalton avevano divelto la porta, che si spiaccicò al suolo con un gran polverone.
“Ehi, ma cosa abbiamo fatto?” chiese Jack perplesso.
“Non lo so, ho sentito una voce nella testa che mi ordinava di sfondare la porta…” spiegò Joe, non meno perplesso del fratello.
“Ragazzi, sono stata io!” esclamò Nicole da dentro la sua cella.
“TU?” ripeté Averell.
“Sì! E sono stata io a cantare che Peabody cadesse dalle scale ed è caduto! La mia voce è diventata come quella di Elvis…Magica!” continuò lei, felice.
“Complimenti, bella!” gridò Elvis dall’altra cella.
Nicole arrossì, ma tanto non la vide nessuno.

Durante il giorno, anche i fratelli provarono la loro voce e constatarono con gioia che riuscivano anche loro ad ipnotizzare la gente, proprio come faceva Prizly.
“Stasera: evasione!” ghignò Joe.

Quella sera, quatti quatti, i fratelli, Nicole ed Elvis che si era aggregato all’ultimo momento, uscirono sullo spiazzo.
“Dai che stavolta ce la facciamo…”mormorò Jack.
 Si avvicinarono al portone.
“Dovete cantare che il portone si apra! Capito?” sussurrò Elvis.
Gli evasori fecero segno di sì con la testa, incrociarono le braccia dietro la schiena e iniziarono:
Addio, porton
È l’ora per noi di andar
Se ti aprissi e ci lasciassi uscir…”

Erano un coro perfetto.
Lentamente, lentissimamente, gli ingranaggi della serratura iniziarono a scorrere. Le loro magiche voci facevano l’effetto di una chiave e più il portone si apriva, più la loro trepidazione cresceva…
Finalmente, dopo minuti che parsero secoli, il portone si aprì abbastanza da lasciar passare almeno una persona alla volta.
I cinque evasori stavano per smettere di cantare quando Elvis con uno scatto infilò lo spazio e si mise a correre nella prateria del Nevada.
“Bye bye, ergastolani!” gridò.
“Presto, usciamo anche noi!” esclamò William.
Non poterono neanche fare un passo, perché improvvisamente si trovarono puntati addosso due fucili carichi, e non a salve.
“Ok fratelli Dalton, volevate scappare ma avete fatto troppo rumore…” sogghignò Emett.
“La canzone era bella, però” rincarò Pitt. “Ma potrete esercitarvi quanto volete nella vostra cella con la palla al piede!”
“NOOOOOOO!!!!” urlò Joe buttandosi per terra.
Le guardie si accorsero di Nicole, che cercava di nascondersi in qualche modo.
“No, no, tranquilla! Eri uscita per vedere cosa stava succedendo, no?” puntualizzarono.
“Ma che razza di fortuna sfacciata! Come mai se la scampa sempre?!” mugugnò Joe, invidiosissimo.

Nicole ci era rimasta un po’ male quando Elvis se n’era andato.
“Beh, tanto non mi avrebbe presa in considerazione comunque, stava dietro a Betty!” si disse.
A dire il vero non le era interessato più di tanto, ma in un angolino ci aveva sperato.
Il blocco di cemento della parete cadde e spuntò la faccia sorridente di Averell.
“Ehi, Nicole, non ti senti sola lì? Vieni qui con noi…” le propose.
“È da dieci minuti che fa le prove per chiedertelo!” la informò un William dall’aria esausta.
“Davvero?” domandò lei, interessata.
Mentre si trasferiva, pensò che era meglio Averell che centomila Elvis.


Salve! Non avete perso le speranze, vero?
È solo che in questo periodo sto affrontando l’esame di terza media, e con la tesina, e con il resto scrivere mi è stato un po’ difficile…
Ora vado, che domattina ho la prova scritta di matematica.
Petra Style.

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Capitolo 5
*** Il boss delle torte-parte 1 ***


IL BOSS DELLE TORTE-parte 1



 

Nel penitenziario regnava il caos completo.
Infatti, i detenuti avevano organizzato una manifestazione piuttosto esagerata contro il fatto che alla fine dei pasti non fosse servito il dolce.
Durante la settimana precedente avevano preparato dei cartelli con su scritte frasi tipo “NO ALLA DIETA”, “IL DOLCE È UN DIRITTO”, “DOLCE LA MIA VITA”…
E dopo colazione, la manifestazione era iniziata. Si erano alzati, avevano preso i loro cartelli, erano usciti sul piazzale e avevano iniziato a marciare, urlare slogan, sbattere coperchi di pentole e lanciare pezzi di cibo che avevano messo appositamente da parte durante la settimana, così che il penitenziario ora sembrava un porcile.
Erano passate due ore e i detenuti non accennavano a smettere di manifestare.
Il direttore, la signorina Betty e le due guardie si erano rifugiati nell’ufficio di Peabody cercando un modo per risolvere la questione.
“Potremo semplicemente accontentarli!” dichiarò Betty risoluta.
“Ma sarebbe un’enorme spesa per il penitenziario! La legge dice che non possiamo spendere più di un tot…” obiettò Peabody.
“Forse, se arrivassimo a un compromesso…Per esempio, dare il dolce il lunedì e il giovedì” propose Pitt.
“O nei giorni dispari!” soggiunse Emett.
“Sarebbe comunque una spesa superflua in più” insistette il direttore.
“È impossibile trovare una soluzione soddisfacente se parliamo solo fra noi! Io dico di ascoltare le ragioni di un manifestante e metterci d’accordo!” ribatté Betty.
La proposta venne accettata e Peabody aprì la finestra.
“Ehi, signori detenuti!” gridò.
A poco a poco il caos cessò e tutti si voltarono verso di lui.
“Abbiamo deciso di parlare con uno di voi per ascoltare le sue ragioni e accordarci per il dolce a fine pasto.” spiegò.
Urli di evviva e applausi seguirono queste parole.
Tornato il silenzio, Peabody continuò:
“Chi vuole venire?”
Nessuno si offrì volontario, anzi, tutti fecero un passo indietro.
Ma nel gruppo che si formò non c’era abbastanza spazio per tutti e qualcuno, per ragioni di comodità degli altri, venne buttato fuori a caso.
Quel qualcuno era Nicole.
Che, in circostanze normali, non si sarebbe presentata per tutto l’oro del mondo.
(Ripensandoci, per tutto l’oro del mondo ci avrebbe fatto un pensierino.)
“Splendido!” trillò Betty. “Signorina Nicole, venga in direzione, per favore.”
Nicole si girò a guardare tutti gli altri con un’espressione della serie “perché? Perché avete buttato fuori me?”, alla quale i fratelli Dalton risposero con una faccia che diceva “non è colpa nostra”.
Con un sospiro, si avviò verso la direzione.

Non era una bella sensazione essere seduta su una sedia scomoda con quattro paia di occhi addosso che pretendevano risposte. A Nicole ricordava tanto l’interrogatorio che aveva subìto dopo il suo furto, con la sola differenza che adesso non stava piangendo a dirotto.
Ma rimaneva comunque un momento di tensione.
“Smettila di fare la scema!” pensò, risoluta. “Per lo meno qui sono gentili!”
Peabody si schiarì la voce.
“Dunque, signorina, come sa l’abbiamo convocata perché ci chiarisca tutta questa protesta del dolce dopo i pasti.”
Nicole arrossì lievemente. Non sapeva cosa rispondere.
Poi si ricordò del discorso che Averell (tanto per la cronaca, era stato lui ad aizzare il resto dei carcerati) aveva fatto all’inizio dei preparativi.
Glielo spiattellò tutto, aggiungendo anche delle motivazioni personali. Poi ci prese gusto e li informò anche che i detenuti avevano sempre fame, che non potevano picconare bene, diede una spiegazione sugli spaventosi danni che la malnutrizione può causare e confidò che pensava che i Dalton cercassero sempre di evadere perché la loro mamma gli cucinava i dolci e il penitenziario no.
Forse fu quest’ultimo punto a convincere il direttore.
“Va bene, hai dato una spiegazione esaustiva e completa, puoi andare!” disse.
Nicole non si fece pregare e tornò in fretta al piazzale, dove i detenuti la accerchiarono sommergendola di domande.
“Li hai convinti?”
“Che hanno detto?”
“Ci daranno il dolce?”
“Vuoi un chewingum?”
“E lasciatela quietare! Ci mancate solo voi!” intervenne Joe trascinandola via.
“Ma io veramente…volevo il chewingum” balbettò lei.
Joe non la ascoltò e la portò dagli altri fratelli Dalton.
“Cosa gli hai detto?” domandò Jack.
Nicole riferì tutto la spiegazione, sottolineando che aveva riferito fedelmente tutto il discorso di Averell. E forse servì anche a qualcosa, dato che il suddetto si gonfiò di orgoglio.
“Non so se li ho convinti, però.” concluse, un po’ preoccupata di non esserci riuscita.
“Staremo a vedere” rispose William rivolgendo lo sguardo alla finestra della direzione, dove al momento il personale del penitenziario stava discutendo sulla faccenda.

La mattina seguente, mentre tutti i detenuti spaccavano le pietre, il cuoco del penitenziario uscì dalla mensa sbattendo la porta.
Non indossava più il grembiule e il cappello da cuoco, reggeva una valigetta sudicia e aveva un’espressione talmente infuriata che sembrava che una macchina fosse passata su una pozzanghera vicino a lui schizzandolo dalla testa ai piedi.
“Che ti succede?” gli domandò qualcuno.
“Che mi succede? Sono stato licenziato in tronco, ecco cosa succede!” gridò il cuoco, furente.
“Eh, mi dispiace, ma sai, c’è crisi…” commentò beffarda Nicole, che passava di lì con un enorme cesto di biancheria in mano. Il cuoco (o meglio, l’ex-cuoco) la aveva sempre trattata come uno straccio vecchio senza motivo, ed era rimasta così sollevata per il fatto che se ne andasse che il suo piccolo coraggio si era temporaneamente ingigantito.
Perché si pentì subito di aver detto quella cattiveria..
L’ex-cuoco la guardò con due occhi talmente taglienti che lei si sentì abbastanza punita, e si affrettò a defilarsi.
Mormorando cose che per ragioni di educazione non riporterò,  l’ex-cuoco uscì dal penitenziario e partì.
“La piccola Nicole sta diventando coraggiosa” pigolò Averell con gli occhi lucidi. “Ha preso in giro quel gigante del cuoco…”
“Ma che ti prende?” lo rimbeccò Joe infastidito.
“Smettetela di litigare, abbiamo un problema GROSSO adesso!” esclamò Jack.
“Il cuoco è stato licenziato, e adesso chi ci preparerà da mangiare?”
“È vero! Ma che gli è saltato in mente al signor Peabody, di liquidare l’unico qui che sapeva cucinare!” urlò William disperato.
“Dobbiamo andargli a parlare!” esordì Averell, con l’aria di un gran condottiero.
“Ehi! Chi comanda sono io, capito?!” strillò Joe facendo per assestargli una sberla.
L’urlo di qualcuno da dietro li fece sobbalzare.
“FERMO!!!”
“Che dia…” gemette Joe, ma una specie di turbine giallo e nero lo scaraventò a terra e rotolarono nella polvere.
La prima cosa che Joe vide furono i grandi occhi color cioccolata di Nicole.
Lei si mise a sedere di scatto, sporca di polvere e stravolta, e disse, con voce tremante:
“Non ci provare.”
“A fare che?” si informò Joe, frastornato.
“A picchiare Averell.” rispose Nicole, che non si capacitava di quello che aveva fatto.
Joe rimase attonito. Jack e William si misero a sghignazzare tirandosi delle gomitate e Averell si mise a saltellare felice.
Non era mai capitato che qualcuno lo difendesse.
“EHI!” esclamò una voce piuttosto irritata.
I fratelli e Nicole si girarono e videro Ming Li Fu che, sdegnato, iniziò a dire, indicando la ragazza:
“Cosa tu fale? Tu dovele lavolale! Tu avele fatto cadele tutti i vestiti!”
Nicole arrossì e cominciò a raccogliere tutta la roba.
I Dalton rimasero a guardarla per un paio di minuti, finché William non si accorse che il loro bisogno di mangiare era appena stato privato di colui che forniva il cibo e che volevano andare a parlare col direttore.
Salutarono Nicole e si avviarono alla direzione.

Peabody era immerso nella lettura del giornale quando sentì bussare.
“Avanti!” disse.
La porta si aprì rivelando quattro facce identiche accigliate.
“Ah, fratelli Dalton! Qual buon vento?” esclamò il direttore, posando il giornale sulla scrivania.
“Qual CATTIVO vento, vorrà dire!” puntualizzò Joe.
“Lei, signor direttore, ha osato licenziare il cuoco! L’unico nel penitenziario che sapesse cucinare! Ma si rende conto che ha condannato i detenuti a morire di fame?”
Il direttore apparve per un attimo sorpreso, poi sorrise enigmatico.
“Tranquillo, ho già assunto un sostituto. Dovrebbe arrivare tra qualche ora.” spiegò.
“Speriamo sia più bravo” sussurrò William a Jack.

Verso le undici, una diligenza entrò nel penitenziario.
“Un nuovo detenuto?” domandò qualcuno ad alta voce.
“Accipicchia, la criminalità sta salendo!” commentò un altro.
Tutti si avvicinarono alla diligenza, dalla quale scese un tipo basso e grassottello che si guardò intorno con aria intimidita.
Il direttore Peabody gli si avvicinò e lo presentò.
“Signori detenuti, questo è Buddy Valastronson, il nuovo cuoco del penitenziario.”
Alla parola cuoco, un applauso suonò per il signor Buddy, che si sorrise timidamente.
Il direttore lo accompagnò in cucina, mentre i detenuti tornavano al lavoro.

A mezzogiorno, iniziò la pausa pranzo e i detenuti si avviarono in mensa più incuriositi del solito.
I Dalton e Nicole presero posto al loro solito tavolo, lanciando occhiate alla cucina.
“Dite che questo nuovo cuoco sarà bravo?” domandò sottovoce Averell.
“Io spero che sia meglio di quello precedente, che mi trattava come uno straccio bagnato” sussurrò Nicole, rabbrividendo.
A un certo punto venne servito il primo.
Tutti i detenuti si sporsero per vedere cosa ci fosse nei piatti…e rimasero sbalorditi.
Spaghetti al ragù!
“Il cuoco di prima non sapeva neanche cosa fossero!” esclamò Nicole, impaziente di mangiarli.
Presto tutta la mensa si riempì di schiamazzi e di schizzi di ragù e spaghetti per terra, a causa della troppa foga con cui i detenuti li mangiavano.
Non c’era dubbio, Buddy conosceva il suo mestiere.
Dopo la frutta (una macedonia) i detenuti iniziarono ad alzarsi, perché credevano che l’ora di pranzo fosse finita.
Ma la signorina Betty li fermò.
“Ehi, signori detenuti, non ve ne andate! C’è una sorpresa!”
Dalla cucina, arrivò Buddy che spingeva un carrellino con sopra una enorme torta al cioccolato.
I detenuti impazzirono letteralmente, si accalcarono davanti al carrellino per essere i primi ad avere una fetta di quella torta.
Finalmente il dolce!
“Calmatevi, ce n’è per tutti!” gridava la signorina Betty, cercando di ristabilire l’ordine.
Nicole stava per essere schiacciata tra la calca, quando qualcuno le diede un colpetto sulla schiena.
Era Averell.
“Ce l’hai fatta, Nicole!” gridò contento.
“…A fare che?” domandò lei confusa.
“A convincere il direttore a dare il dolce!” le ricordò Averell, sempre più contento.
“Ah…”
Un lieve sorriso si dipinse sul viso di Nicole.
Ma poi un tizio che pesava almeno 100 chili cadde urlando all’indietro e li separò.

Ben presto Joe si rese conto che il nuovo cuoco era una forza della natura.
Non solo cucinava benissimo, ma era anche capace di fare dei dolci straordinari.
Una volta lo aveva spiato dalla finestra della cucina, e si era accorto con immensa sorpresa che qua e là c’erano delle torte a forma di lampadario, gabinetto (con tanto di sciacquone funzionante) lavandino e divano!
E stava dando gli ultimi ritocchi a una torta a forma di vestito da donna!
Improvvisamente, gli venne un’idea per evadere.

“Ho un piano!” annunciò quella sera nella cella ai suoi fratelli e a Nicole.
“Oggi ho notato che il cuoco sa fare delle torte straordinarie!”
“Te ne sei accorto adesso?! È da due giorni che cucina lui!” lo interruppe Jack, stupito.
“Ma non nel senso che sono buone! L’ho spiato dalla finestra della cucina e ho visto delle torte a forma di gabinetto, lavandino, divano e…cos’era…lampara?” precisò Joe.
Gli altri fecero una faccia della serie “vai da uno bravo”.
“Vi giuro che è così! Date un’occhiata voi stessi!” insistette Joe.
Poco convinti, i restanti fratelli e Nicole uscirono dalla cella, per poi ritornare poco dopo basiti.
“Avevi ragione” concluse William.
“Che vi dicevo?” commentò Joe. “Comunque, il mio piano è questo: chiederemo al cuoco di fare una torta a forma di aereo, così ci saliremo, voleremo sopra il muro e saremo liberi!”
“È il piano più improbabile che abbia mai sentito!” esclamò Nicole, per poi contraddirsi subito dopo. Sfido, sono 5 capitoli che provano a evadere con metodi improbabili!!!
Infine, il piano venne approvato.
Il giorno dopo, nella pausa dopo pranzo, il gruppo si recò in cucina a parlare con Buddy.
Il cuoco stava lavorando a una delle sue creazioni (una Torre Eiffel alta tre metri) quando si vide arrivare i più brutti ceffi che avesse mai visto.
“Oh, signori! A cosa devo questa vostra…ehm…visita?” domandò teso.
Joe si fece avanti con un sorriso cordiale per lui e malefico per il cuoco.
“Innanzitutto, volevamo complimentarci: lei cucina veramente benissimo.”
“Grazie…” farfugliò Buddy.
“E, seconda cosa: sappiamo che lei fa delle torte molto speciali. Potrebbe farne una a forma di aereo abbastanza grande da contenerci?” chiese Joe.
“Beh, ecco…credo di sì” rispose il cuoco, pensando che Nicole aveva proprio una faccia da tagliagole.
“Perfetto” sentenziò Joe. “Ci chiami quando ha finito, va bene? Chieda dei fratelli Dalton e della signorina Nicole. A dopo!”
E il gruppo batté in ritirata.
Buddy si mise subito al lavoro, del resto non voleva essere gambizzato da dei pericolosissimi criminali.
“Credete che ce la farà?” domandò William.
“Se non vola, possiamo sempre mangiarcelo” propose Averell, che in un angolino sperava che non funzionasse solo per divorare la torta.

Chiedo scusa per la pessima storpiatura del nome, “Buddy Valastronson” è davvero orrendo.
Siccome questo capitolo stava andando per le lunghe, ho deciso di dividerlo in due parti.

Esito dell’esame? Promossa!
Grazie a tutti quelli che mi seguono.

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Capitolo 6
*** Il boss delle torte-parte 2 ***


IL BOSS DELLE TORTE-parte 2



 

Passarono alcune ore. Ogni volta che la guardia di turno si girava dall’altra parte, i Dalton correvano a sbirciare dalla finestra della cucina.
E ogni volta si vedeva Buddy lavorare a qualcosa di sempre più grande.
“Ma ce la fa?” sussurrava Joe, impaziente.
Finalmente, proprio quando pensavano che non avrebbe più finito, Emett andò a chiamare Nicole e i fratelli.
“Vi vuole il cuoco” annunciò, chiedendosi il perché.
Il gruppo raggiunse subito la cucina.
Buddy, quando li vide arrivare, sentì i sudori freddi.
“Ecco la vostra torta, signori” balbettò indicando qualcosa che sembrava tutto meno che una torta.
Appoggiato sul tavolo, c’era un’enorme aereo grigio di pasta di zucchero, con i finestrini e tutto.
Era perfetto, tanto che sembrava un vero modellino.
I Dalton e Nicole si avvicinarono a bocca aperta.
“È fantastico!” esultò la ragazza.
“È gustoso!” rincarò Averell con il dito sporco di torta.
“Non lo rovinare! Mi dica, può volare?” domandò Joe a Buddy.
Il cuoco impallidì, sudò freddo e mormorò, con un filo di voce:
“Ehm, veramente no…Ma posso rimediare!”
“Con calma, non c’è bisogno di agitarsi così” disse William.
Buddy, senza dargli retta, si precipitò a costruire un motore per l’aereo, un motore di torta, si intende. L’impresa non fu particolarmente difficoltosa perché aveva un’infarinatura sull’ingegneria meccanica.
Con cautela infilò il motore nell’aereo e lo richiuse.
“Adesso penso che possa volare…” mormorò timorosamente.
Joe afferrò l’enorme vassoio e lo portò fuori sul piazzale, attirando l’attenzione dei detenuti che cominciarono a chiedersi cosa stesse succedendo.
“Ma dove vai?” lo richiamò Nicole.
“Voglio vedere se vola davvero! Salite anche voi!” mentì Joe esaltato, per evitare di essere fermato nel suo piano di fuga.
Gli altri quattro, con un leggero batticuore, salirono sull’aereo di torta, che purtroppo si afflosciò un po’.
“Che diavolo state facendo?!” sbraitò qualche detenuto, non ottenendo risposta.
I cinque osservarono i numerosi pulsanti e leve, che riproducevano perfettamente i comandi di un aereo vero.
“Quale dobbiamo schiacciare per farlo partire?” domandò William.
Nicole guardò bene la pulsantiera e notò un pulsante rosso, con scritto sopra “ON”.
“Ho trovato l’on!” annunciò, fiduciosa.
Stava per dire qualcos’altro quando Joe senza pensarci due volte con uno scatto fulmineo lo schiacciò.
L’aereo cominciò a fremere. Il motore si stava riscaldando producendo uno strano ronzio e le ruote iniziarono a girare.
“Sta partendo!” urlarono i fratelli.
“Speriamo che vada tutto bene” mormorò debolmente Nicole. Non aveva mai preso un aereo in vita sua e sentiva una leggera nausea.
L’aereo intanto aveva iniziato a percorrere il piazzale del penitenziario sempre più veloce, avvicinandosi pericolosamente al muro.
“Ma perché non vola?!” strillò Averell.
“Boh, forse bisognerà tirare qualche leva…” suggerì Nicole, ma neanche lei aveva la minima idea di cosa si dovesse fare.
“Attenti!” urlò William.
Gli altri non fecero in tempo a voltarsi che l’aereo si schiantò contro la parete del penitenziario spappolandosi completamente.
Pezzi di torta grigia volarono per tutto il penitenziario, in terra, sui detenuti, persino sul vestito della signorina Betty, che urlò disgustata.
Ma quelli messi peggio erano i Dalton e Nicole. Sembrava che avessero combattuto una battaglia di torte in faccia per ore e ore e poi si fossero rotolati nello zucchero per pulirsi.
“Oh, no, la mia bella torta…” esclamò Buddy frustrato, che aveva assistito alla scena.
I detenuti scoppiarono tutti a ridere sguaiatamente.
Nicole riemerse in uno stato pietoso. La torta le si era incastrata tra i capelli, le si era appiccicata ai vestiti, alle mani e al viso inumidendola dalla testa ai piedi. Sembrava una bambola di pezza rotta che stava perdendo la segatura.
“Magari se avessimo chiesto al cuoco come funzionava, prima di usarlo…” mormorò delusa, guardando lo scempio.
“Ehi, Nicole, stai bene?” domandò Averell. Non era messo meglio della ragazza, ma si alzò e cercò di ripulirla come poteva.
“Grazie, comunque niente di rotto” rispose lei arrossendo (ancora quel maledetto rossore! Perché le capitava sempre nei momenti meno opportuni?).
“Volevate volare, eh? Ma prima non bisogna avere la patente di volo? Ah, ah, ah!!” li prese in  giro un tizio tra le risate.
William e Jack guardarono Joe con espressione avvilita, mentre quest’ultimo schiumava di rabbia.
“Ehi, tu!” strillò a Buddy.
Il cuoco trasalì.
“Sì, signore?” farfugliò terrorizzato. Quel criminale era certamente arrabbiatissimo, ed era per colpa sua! Se l’aereo fosse stato più robusto non sarebbe successo quel pasticcio.
“Facci un’altra torta uguale, e poi spiegaci come funziona!” sbraitò Joe in preda a una crisi di nervi.
“Subito, signore!” urlò Buddy fiondandosi in cucina.
“Beh, intanto che il cuoco vi prepara la torta, ripulite tutto e cambiatevi! Poi tornate a spaccare le pietre…ehm, lei, signorina, a lavare i panni. Forza!” ordinò il direttore.
Ai cinque non restò altro che prendere guantoni e sacchi della spazzatura e fare piazza pulita dei resti dell’aereo.
Averell staccava i pezzi più puliti e se li mangiava.
“Ma che schifo!” lo apostrofò Jack disgustato.
“Guarda che è buono” ribatté Averell continuando a mangiare.
“Sì, ma è stato in terra per dieci minuti!”
“Se lo mangia e non fa pieghe vuol dire che non è cattivo” intervenne timidamente Nicole.
“Ecco!” Averell mise il broncio. “Lei è l’unica che mi capisce e voi che siete i miei fratelli no!”
“Ma il fatto è che…Aaah, lascia perdere!” sbuffò Joe rimettendosi a lavorare.

Verso sera, il secondo aereo fu completato e il cuoco, tremando come una foglia, spiegò agli evasori come funzionava.
“Vedete, per farlo partire dovete schiacciare questo pulsante…per decollare tirate questa leva, per dare la direzione muovete questa qui, e per aumentare o diminuire la velocità spostate questa in avanti o indietro!”
“Stavolta ce la facciamo” pensò Joe, e salì a bordo, seguito dagli altri.
Schiacciarono il pulsante e le ruote cominciarono a girare.
Nicole bruciava d’ansia. Forse questa era la volta buona, finalmente sarebbero riusciti a fuggire. Il piano non faceva una piega, perché mai non avrebbe dovuto funzionare?
Ma nonostante tutta la sicurezza che ostentavano i fratelli, lei era convinta che ci fosse dietro l’angolo una complicazione inaspettata. Come tutte le altre volte, fra l’altro.
Improvvisamente, l’aereo decollò.
“Addio Buddy! E grazie!” urlò Joe sghignazzando. “Siamo liberi come l’aria!”
Oltrepassarono il muro del penitenziario con grida di trionfo, mentre il povero cuoco a terra si torceva le mani, disperato. Aveva appena aiutato dei pericolosissimi criminali ad evadere!

Vero Falco scrutava il cielo alla ricerca di segni premonitori, quando vide un grande uccello grigio stagliarsi sulla luna piena, lanciando versi stranissimi (le urla dei fratelli!).
“Dunque, vediamo” ragionò corrugando la fronte, “grosso uccello associato alla luna piena vogliono dire che nasceranno molti figli…Ma un momento! Se l’uccello grida, vuol dire…Per il Grande Spirito! Saranno tutti pazzi!”
L’indiano scattò in piedi spaventato e corse al villaggio, per dare notizia dell’infausto segno del cielo.

Ma i Dalton e Nicole erano ben lungi dal sospettare di aver seminato il panico nel villaggio indiano, tutti presi dal volo di libertà e da un insolito calore che proveniva da sotto i sedili.
Allarmati, controllarono e si resero conto che la torta si stava squagliando! Probabilmente il motore, facendo il suo lavoro, si era scaldato troppo.
I poveri evasori non ebbero il tempo di pensarci perché l’aereo divenne troppo mollo per sostenerli e iniziarono a precipitare.
I Dalton si misero a urlare, Nicole era paralizzata dalla paura.
Non riusciva a credere che stava per schiantarsi a terra e morire sul colpo, o al massimo passare il resto della vita su una sedia a rotelle.
SPLAT!
Ad un certo punto la caduta si arrestò, e strano a dirsi, Nicole non sentì neanche tanto male.
“Siamo morti?” domandò debolmente.
“Certo che no!” rispose la voce di Joe con energia. “Anzi: a noi è successo un mucchio di volte!”
La ragazza si rizzò a sedere e quello che vide le mozzò il fiato. I quattro fratelli avevano i capelli spettinati, le facce arrossate, un occhio tumefatto e i denti di fuori.
Le loro facce erano talmente buffe che iniziò a ridere a crepapelle.
“C’è poco da ridere!” sbuffò Joe. “Noi potremo anche essere ridicoli, ma dovresti vedere in che condizioni è il tuo bel visino candido!”
Effettivamente, Nicole a questo non aveva pensato.
Smise di ridere e si passò una mano sulla faccia. Si sentì l’occhio destro gonfio e preferì non andare avanti con l’esplorazione.
“Non ti preoccupare per il tuo bel viso” la tranquillizzò Averell, impietosito. “Tanto nella scena successiva passa tutto. Questo è un cartone!”
“Sì,” urlò Olivier Jean-Marie, uno dei registi “e potrebbe anche andare avanti, se non perdeste tempo in salamelecchi!”
“Zitto tu!” gli intimò una voce femminile fuori campo. “Sarà anche il tuo cartone, ma questa è la MIA storia, e sono io a dire ai personaggi quello che devono fare! Smamma bello!”
“Oh no! È Martyna Petra Style, l’autrice! Meglio che faccia come dice lei…” mormorò Olivier intimorito, sgattaiolando via.
Nicole lo guardò andarsene basita. Aveva fatto appena due sconvolgenti scoperte.
“Ti ci abituerai presto” tagliò corto Jack.
Stava per dire qualcos’altro quando balzarono fuori Pitt ed Emett completi di fucile.
“Un altro dei vostri tentativi di evasione! Ma se si è accorto mezzo penitenziario che stavate volando via!” sbottò Emett.
“Oh, no, stavolta incolperanno anche me!” pensò Nicole, convinta che stavolta la avrebbero punita per bene.
Ma con suo grande stupore, Pitt le disse:
“Sì, lo sappiamo, tu non credevi che volessero evadere e sei salita anche tu. Non hai bisogno di spiegazioni!”
“Ma non è giusto che non la incolpino mai e noi sì!” esclamò Joe mentre si incamminavano.
“Perché lei non vuole evadere” lo rimbeccò Emett.
E tu che ne sai? pensò Nicole con un sorrisetto.

La mattina dopo, a Buddy entrò un aeroplanino di carta in cucina. Lo aprì e lesse: Facci un aereo di torta come quello di ieri, solo termoisolante! Firmato: i fratelli Dalton e Nicole.
Rabbrividendo, il cuoco si mise subito al lavoro. Meno male che aveva a casa un paio di libri di ingegneria termica…

“Allora, signorina, com’è andato il seminario?” domandò il direttore Perabody a Betty.
“Bene, anche se Joe Dalton mi chiedeva ogni cinque minuti di andare in bagno, come suo solito tra l’altro…” rispose lei.
Non poteva immaginare che Joe facesse solo finta di andare in bagno e in realtà dava un’occhiata alla cucina per controllare che Buddy stesse facendo quello che doveva fare!
Il povero cuoco lo aveva visto ed era terrorizzato all’idea che lo stessero addirittura tenendo d’occhio!
Bene o male, riuscì a terminare il nuovo capolavoro e lo consegnò ai fratelli e a Nicole. Che, inutile dirlo, ci saltarono sopra e decollarono. Stavolta la ragazza era sicura e non si fece più tanti pensieri come le prime volte.
Anche perché, per non essere scoperti, avevano deciso di decollare nella pausa pranzo quando tutti erano a ingozzarsi!
“Addio, Buddy!” sghignazzò Joe al tesissimo cuoco.

Volavano da circa un chilometro quando videro dei grossi nuvoloni scuri.
“Non mi piacciono quelle nuvole…” mormorò William cupo.
“Sciocchezze, stavolta è quella buona...” lo rassicurò Joe, ma neanche a farlo apposta un fulmine si schiantò addosso all’aereo elettrizzandoli e facendoli precipitare.
L’unica che lo trovò divertente fu Nicole, che aveva vinto la paura di cadere.
“Ho sempre sognato di farmi i capelli afro!” dichiarò, alludendo al fatto che il fulmine glieli avesse sparati.
Tornarono al penitenziario come se non fosse successo niente (o quasi, dato che Joe stava dando in escandescenze) e il messaggio che Buddy ricevette fu il seguente: Facci un aereo di torta come quello di ieri, solo termoisolante e con un parafulmine! Firmato: i fratelli Dalton e Nicole.
Menomale che ho quelle due o tre nozioni di ingegneria elettrica, pensò Buddy.

In poco tempo (ormai era allenato) costruì l’aereo e lo consegnò agli evasori.
Salirono, decollarono e riandarono incontro alla tempesta.
Joe però era sicuro che sarebbero riusciti a superarla: avevano il parafulmine!
Per i primi minuti andò tutto bene. I fulmini si scaricavano sul parafulmine senza nessun danno, ma quando iniziò a piovere, l’acqua sciolse l’aereo e i poveri ragazzi precipitarono di nuovo!
“Ehi, ho pensato a una cosa!” esordì Jack, non per niente era caduto di testa. “La prossima volta dobbiamo cercare di prevedere tutti i pericoli  a cui possiamo andare incontro, così da dire al cuoco di costruire un aereo attrezzato!”
“Che bella idea!” si congratulò Nicole ammirata, e Averell sentì una fitta di gelosia verso il fratello, subito repressa. Non era mai stato geloso di niente e nessuno, ma in quel momento non riusciva a farne a meno. Tutto perché Nicole aveva detto che era una bella idea. Che problema c’era?
“Gente strana, le femmine” si disse, perplesso.

Buddy entrò in bagno, e vide attaccato al muro un foglio ripiegato che diceva “Per Buddy”.
Ebbe un tremito. Sapeva benissimo di che si trattava, e fu tentato di lasciarlo lì e fingere di non averlo mai visto, ma la parte di lui che teneva alla vita gli ordinò di fare quello che c’era scritto e non fiatare.
Facci un aereo come quello di ieri, solo termoisolante, con un parafulmine, resistente all’acqua, al vento, al sole, alla luna, alle stelle, agli UFO, alle pallottole, e alla iella! Firmato: i fratelli Dalton e Nicole.
Fantastico, pensò Buddy. In perfetto orario.

In seguito, si consumò la solita routine. I fratelli e Nicole superarono benissimo la tempesta e proseguirono esultanti verso la libertà.
Contemporaneamente, nel villaggio indiano, il capo Lupo Pazzo teneva un discorso.
“Segnali funesti hanno solcato il cielo la notte scorsa” iniziò, solenne. “Un grande uccello che si staglia sulla luna lanciando il suo verso significa molti nati, ma impazziti! Ed esiste un solo modo per prevenire questa catastrofe!”
Fece una pausa. Tutti i Braccia Rotte erano col fiato sospeso.
“Ed è eliminare il grande uccello che grida!” concluse trionfante Lupo Pazzo.
Un urlo deciso seguì queste parole.
“C’è bisogno dell’aiuto di tutti! Voi, guerrieri, e anche voi, donne, prendete i vostri archi e frecce e scagliatele verso il grande uccello che grida non appena lo vedete! Sta per passare di qua, Vero Falco ha avuto una visione!” proseguì Lupo Pazzo.
(In realtà Vero Falco stava prendendo il sole quando aveva notato in lontananza l’aereo.)
Gli indiani urlarono ancora più forte e corsero a prendere archi e frecce, dopodiché si ricompattarono aspettando che il grande uccello che grida alias l’aereo passasse di lì.
Frattanto che si avvicinavano, Nicole notò il gruppo di Braccia Rotte.
“Guardate! Ci sono gli indiani!” esclamò, contenta.
“Gli indiani?” ripeté Averell, che dopo l’attimo di gelosia nei confronti di Jack non la mollava un attimo.
“Sì!” confermò lei indicandoli, e solo ora si accorse degli archi e frecce puntati giusto su di loro. “Ma…che stanno facendo?” domandò.
Joe diede un’occhiata…e si mise a strillare.
“Santo cielo! Stanno per tirare!”
Come a sottolineare le sue parole, una raffica di frecce gli piombò addosso distruggendo l’aereo e facendolo precipitare, tanto per cambiare.
“Urrà! Abbiamo ucciso il grande uccello che grida!” esultò Lupo Pazzo, felice.

Il seguente aereo che il cuoco dovette costruire doveva rispettare queste condizioni:
Facci un aereo come quello di ieri, solo termoisolante, con un parafulmine, resistente all’acqua, al vento, al sole, alla luna, alle stelle, agli UFO, alle pallottole, alla iella e alle frecce degli indiani! Firmato: i fratelli Dalton e Nicole.
E l’aereo resistette alla tempesta e a una seconda raffica di frecce degli indiani, che credettero che il grande uccello invulnerabile che grida fosse un segno che mandava il Grande Spirito per dire: “Tenetevi i vostri nati pazzi e non molestate gli animali”.
Dopo il villaggio indiano, seguirono due chilometri di calma.
La prateria del Nevada si stendeva a perdita d’occhio dovunque, e la calma era quasi irreale.
Il silenzio si poteva quasi toccare. Nessuno degli evasori osava pronunciare quella fatidica frase. Fino ad un certo punto.
“Siamo liberi” mormorò Nicole con la sua vocina da usignolo.
“Sì! Siamo liberi come l’aria!” urlò Joe facendo un salto di mezzo metro.
Allora fu improvvisata una specie di festa, con tanto di torta. Bastava prendere dei piccoli pezzettini dall’aereo, facendo attenzione a non danneggiarlo.
Ma solo pochi minuti dopo, una voce li chiamò.
“Ehi, voi! Sì, voi vestiti a righe gialle e nere!”
Perplessi, i cinque si girarono e videro, a pochi metri di distanza, un vero piccolo aereo, dal cui finestrino era affacciato un pilota.
“Ce l’avete la licenza di volo?” domandò sollecito.
Nicole sentì il panico che le attanagliava lo stomaco e arrossì come non aveva mai fatto.
“Sì, che ce l’abbiamo!” mentì William.
“Perfetto. Fatemela vedere” ordinò l’altro pilota.
“Magari un’altra volta” tentò di svicolare Jack.
“Devo dedurne che mi avete raccontato una bugia?” si informò il bellimbusto. “Spiacente, ma dovete tornare da dove siete venuti.”
“No! Mai!” urlò Joe, e spinse in avanti la leva della velocità.
Fin troppo forte.
Affondò nella torta fino alla spalla, e il mondo gli cascò addosso. O meglio, loro cascarono addosso al mondo.
“CE L’AVEVAMO QUASI FATTAAAAAAA!!!........” strepitò mentre precipitavano.

Due giorni dopo, una seconda manifestazione per il dolce ancora più violenta di quella di prima mise il penitenziario ancora più in disordine.
“Tutto perché Mr. Valastronson ha deciso di licenziarsi in tronco! Perché l’ha fatto?” si lamentava il direttore, chiuso nel suo ufficio.
Vi dirò io perché: l’ultimo biglietto includeva anche di scrivere una licenza di volo, e Buddy, stufo che le sue belle torte andassero ogni volta in poltiglia, aveva tirato fuori il coraggio e si era licenziato.
E i fratelli Dalton e Nicole non erano riusciti a evadere anche questa volta.

“Non è giusto! Nicole se la scampa sempre e noi fratelli Dalton no!” urla Joe.
“Per tua informazione, Nicole è il mio personaggio e la mia protetta, e per quanto mi riguarda se la scamperà sempre! Pussa via!” grido io. Lo acciuffo per un orecchio e lo sbatto fuori.
Credeva davvero di farmi cambiare idea?

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Capitolo 7
*** Il Gambo Solo ***


 

IL GAMBO SOLO




L’ospite del quotidiano seminario era Lupo Pazzo, il quale, a detta della signorina Betty, avrebbe dovuto raccontare alcune leggende dei Braccia Rotte.
“Dunque, potrei cominciare dal mito della creazione del mondo! In principio c’era il Nulla, ed esisteva da sempre, ma ad un certo punto si scocciò e decise di creare qualcosa per ammazzare il tempo. Si mise le dita nel naso e con le caccole creò i paesaggi, gli animali e gli uomini…”
Dal suo posto, Nicole si coprì la faccia e iniziò a ridacchiare.
“Ma dopo che ebbe creato il mondo, non c’era più spazio per il Nulla, che allora si suicidò. Ecco perché il mondo fa così schifo: perché è fatto con le caccole del naso!” finì di raccontare Lupo Pazzo, ignaro del fatto che i detenuti non lo stessero affatto prendendo sul serio.
Snocciolò alcune stupidaggini sul perché il cielo è azzurro, perché gli uomini non vogliono mai chiedere indicazioni e perché le donne non sanno leggere le carte geografiche, finché non raccontò la terrificante leggenda del Gambo Solo.
“All’inizio, lo spaventoso essere che noi chiamiamo Gambo Solo era solo un ragazzo albino, vale a dire che aveva i capelli bianchi, gli occhi rossastri ed era molto pallido. Un bel giorno, alcuni ragazzi normali che volevano fargli uno scherzo pesantuccio lo mandarono in un campo dove pascolavano dei bisonti. Ad un certo punto questi ragazzi, che si erano nascosti dietro alcune rocce, iniziarono a fare chiasso spaventando i bisonti, che scappando andarono addosso al povero Gambo Solo, che ci rimise una gamba e sparì, gridando vendetta. E ancora oggi, può capitare di vederlo. Non ha una gamba e porta sempre un tomahawk con sé. E lo usa per uccidere tutte le persone con i capelli scuri che trova…L’unico modo per difendersi è gridare il nome della sua fidanzata, la signorina Shar, che di nome fa Kapadapi. Sapete, è una squaw!” precisò Lupo Pazzo. “Così lui viene preso dai ricordi e sparisce.”
“Ma cos’è?!” sussurrò Joe seccato.
“È la storia più strana che io abbia mai sentito” commentò Nicole, ma non poté trattenere un brivido.
Averell se ne accorse.
“Non preoccuparti, tanto è solo una leggenda…” la tranquillizzò.
E aggiunse, tanto per fare le cose in grande:
“E poi, il Gambo Solo se la prende solo con chi ha i capelli scuri…”
Nicole lo guardò con gli occhi sbarrati.
“Ma Averell, noi abbiamo i capelli scuri!” gli ricordò.
Averell ci rimase male…Che gaffe, ragazzi!

Il giorno trascorse senza particolari avvenimenti, Joe non riuscì a trovare nessun modo per evadere e per una volta tanto fu una giornata tranquilla.
La sera, i detenuti andarono a dormire nelle loro celle.
Augurata la buonanotte ai Dalton, Nicole si sdraiò sul suo letto e chiuse gli occhi.
Ma non passò molto tempo che iniziò a farsi delle immagini mentali spaventose.
Si immaginò che il Gambo Solo stesse risalendo le scale del penitenziario, a saltelli con il tomahawk in mano…ecco che arrivava al piano delle celle…si muoveva silenziosamente per le porte, e si accostava alla sua…entrava nella cella…una con i capelli scuri, finalmente potrò placare la mia sete di sangue, pensava…
Nicole rimase alcuni secondi ghiacciata dalla paura. Non era una stupida e sapeva benissimo che il Gambo Solo non era nella sua cella, ma non riusciva a convincersene.
Prese in fretta una decisione, non appena si calmò un pochino si alzò, afferrò il cuscino stringendolo convulsamente tra le mani e tolse il pezzo di muro.
“Dalton? Siete svegli?” domandò sottovoce.
“Mi stavo per addormentare” le rispose la voce seccata di Joe.
“Posso dormire con voi? Ho paura…del Gambo Solo.” confessò Nicole un po’ vergognosa.
“Certo che puoi!” confermò Averell.
“Ma devi stare per terra…” disse Jack poco convinto.
“Tranquilli, non mi da fastidio” affermò Nicole entrando.
“Vabbè, allora buonanotte” mormorò William nel dormiveglia.
Il pavimento era duro, ma la ragazza si addormentò quasi subito lo stesso.

Si svegliò verso le due di notte a causa di uno strano rumore. Un rumore che tornava a intervalli regolari, come…dei saltelli?
Nicole si sentì invadere dal terrore. E se fosse stato il Gambo Solo? No, non esiste, è solo una leggenda indiana, si disse cercando di calmarsi. Ma stava di fatto che il rumore c’era, e lei non riusciva ad associarlo ad altro se non a qualcuno che saltellava.
“Oh, piantala lì! Ti stai autosuggestionando! Neanche i Dalton hanno sentito niente” pensò facendo un respiro profondo.
Ma se i fratelli continuavano a dormire, i detenuti delle celle accanto no.
Iniziarono a volare insulti e proteste.
“George, razza di idiota! Finiscila di fare tutto ‘sto casino!”
“Idiota a me? Sarai furbo tu!”
“Smettetela, rompiscatole! Qui c’è qualcuno che vuole dormire!”
Anche i Dalton si svegliarono, uno dopo l’altro.
“Cosa succede?” biascicò Joe.
“Si sono sentiti dei rumori…” spiegò Nicole preoccupata del peggio.
“FATE SILENZIO!” ruggì il direttore Peabody dalla sua camera.
Tutti si zittirono di colpo, e l’assenza di rumore sarebbe stata perfetta se non ci fosse stato il rumore saltellante, che a quanto pareva si era avvicinato di molto.
Nicole osava appena respirare. Sapeva che il Gambo Solo non esisteva, ma chi era allora? Nel caso fosse stato il mostro, si ricordò, per scacciarlo bisognava urlare il nome della sua fidanzata…Ma com’è che si chiama? si chiese. Aveva un nome difficile…Iniziava con la K…?
Ad un certo punto, un colosso di un metro e ottanta chiamato Dave si stancò e uscì dalla sua cella bofonchiando:
“Chi diavolo è questo tonto? Adesso lo prendo e gli tiro un cazzottone che…”
In fondo al corridoio, vide un ragazzo pallido, dai capelli candidi, vestito di stracci. Nella mano destra aveva un tomahawk sporco di sangue, e gli mancava una gamba intera.
L’enorme Dave, a quella vista, sbiancò fino a diventare cereo e sembrò rimpicciolirsi.
Il ragazzo avanzò verso di lui saltellando sulla sua unica gamba per alcuni passi, finché il silenzio teso come un elastico non venne spezzato dal detenuto che cacciò un urlo a pieni polmoni facendo spaventare a morte tutti gli altri.
“AAAAAAAAAAAAAHHHH!!!! IL GAMBO SOLO!!! IL GAMBO SOLOOOO!!!”
Nicole si sentì morire, proprio come i fratelli Dalton e tutti gli altri detenuti che avevano i capelli scuri.
Un’ondata di panico allo stato puro si abbatté sul penitenziario da cima a fondo. Urlando come dei forsennati, i detenuti e il personale si precipitarono fuori dalle rispettive stanze per rifugiarsi nella lavanderia.
La porta e le finestre vennero sbarrate con tutto quello che capitava a tiro, mentre il Gambo Solo si aggirava per il penitenziario cercando mori da uccidere.
Tremanti e piagnucolanti, i detenuti si strinsero gli uni gli altri cercando di rincuorarsi a vicenda. Nicole singhiozzava stretta ad Averell, il quale non sapeva che pesci prendere. Betty era semisvenuta e il direttore tentava di mantenere la calma.
“Coraggio, signori! Abbiamo il metodo per farlo sparire, no? Basta pronunciare il nome della sua fidanzata, la signorina Shar!” dichiarò con un mezzo sorriso.
“Già” approvò Emett, “ma chi avrebbe il coraggio di farlo?”
“Beh, credo che qualcuno con i capelli chiari sia l’ideale” azzardò Pitt.
La proposta venne accettata subito. Gli unici nel penitenziario che non avevano i capelli scuri erano Betty, Peabody, Emett, e tre detenuti.
Ma i tre tizi fecero finta di niente, Emett si nascose dietro il fucile e il direttore disse che lui di capelli non ne aveva quasi più e perciò il Gambo Solo avrebbe potuto confondersi.
Rimase la signorina Betty dai capelli arancioni.
“Oh, e va bene!” sbottò alla fine, accigliata. “Lo farò io, ma sappiate che siete dei bei codardi. Perché dobbiamo sempre fare tutto noi donne?”
“Giusto!” approvò Nicole.
Betty la ringraziò con un sorriso e uscì dalla cantina, pronta ad affrontare il Gambo Solo.
Il mostro non si fece attendere. Dopo pochi secondi uscì sul piazzale, tomahawk in mano ed espressione catatonica, che diventava crudele ogni volta che riusciva a uccidere un povero Cristo.
Betty si spaventò, anche se in realtà non correva alcun pericolo.
I detenuti nella cantina sobbalzarono.
“Urli quel nome! In fretta!!” la incitò qualcuno.
Betty si riscosse, si drizzò e gridò, con voce stentorea:
“MISS KAPADAPI SHAR!!”
Non appena si rese conto di quello che aveva detto, arrossì violentemente e si tappò la bocca, mentre gli imbarazzati detenuti non sapevano da che parte guardare.
Se non altro quell’oscenità ebbe l’effetto desiderato e il Gambo Solo si bloccò improvvisamente, se possibile sbiancò ancora di più e sparì.
La povera Betty rimase lì, rossa con un peperone con la bocca tappata, mentre gli altri tiravano un sospiro di sollievo.
Qualcuno uscì per andare a complimentarsi.
“Signorina, lei è semplicemente eroica! Pochi hanno il coraggio di urlare quelle cose in pubblico” dichiarò Peabody.
“Poteva andare peggio!” Questo fu il commento di Joe.
“Ci ha salvati dal mostro!”
“Dovrebbero darle una medaglia!”
Betty, ancora rossa, sorrideva coraggiosamente e salutava i detenuti festanti, convinti di essersi liberati del Gambo Solo.
Almeno finché Averell non cacciò uno strillo e saltò in braccio a Nicole, indicando un punto.
Tutti si girarono e con orrore si accorsero che il Gambo Solo era ricomparso!
Il ragazzo fantasma iniziò a muoversi verso di loro, più veloce di prima, agitando il tomahawk con fare minaccioso.
Una nuova ondata di panico si abbatté sui detenuti, che cominciarono a scappare da tutte le parti urlando a pieni polmoni il nome della fidanzata, facendosi una ragione del fatto che affermavano in modo piuttosto volgare di aver bisogno del gabinetto.
Il Gambo Solo sembrava disorientato. Aveva una moltitudine di mori davanti e non sapeva chi fare fuori, siccome ogni volta che si avvicinava la vittima urlava il nome della sua fidanzata.
E non faceva in tempo ad andarsene che gli capitava sotto il naso qualcun altro.
Ben presto Peabody capì che se continuavano così, il mostro sarebbe rimasto piantato lì dov’era. Bisognava urlare quel nome una volta per tutte, così entrò nel penitenziario, corse nel suo ufficio, accese l’altoparlante e pronunciò il nome della squaw.
Senza il “miss”.
Il Gambo Solo si bloccò e sparì di nuovo.
Stavolta i complimenti se li prese Peabody, che rimase lì un quarto d’ora a rilasciare interviste e firmare autografi.
“E adesso, ti dispiacerebbe scendere?” chiese Nicole ad Averell. “Pesi.”
“Ah, certo!” Detto questo, Averell saltò giù.
“Te lo sei camallato per tutto questo tempo?!” esclamò Jack.
“Beh, insomma, non potevo fermarmi a posarlo” spiegò Nicole un po’ vergognosa.
Ma dovettero lasciar perdere perché il direttore stava elaborando un piano di liberazione dal Gambo Solo.
“Ascoltate! Abbiamo visto che urlare quel nome lo fa allontanare solo per poco, e gli unici che sanno qualcosa su di lui sono i Braccia Rotte! Dobbiamo mandarne a chiamare uno e farci dire come si manda via definitivamente!”
A Joe venne un’idea.
“Noi! Noi! Ci andiamo noi Dalton!” esclamò saltellando.
Gli altri lo guardarono molto poco convinti e Averell gli tirò una gomitata, allora Joe pensò che forse era meglio rendersi più insospettabili.
“E anche Nicole…no?” aggiunse. Come se volesse convincerli, la ragazza fece la faccia più angelica che poteva.
Peabody meditò per qualche momento, poi disse:
“Va bene, potete andare! Ma non provate ad evadere, mi sono spiegato?”
“Non si preoccupi signore, li tengo d’occhio!” lo rassicurò Nicole con un sorriso convincente.
Il personale pensò che Nicole era proprio una ragazza affidabile e Pitt ed Emett aprirono il portone del penitenziario.
I Dalton corsero fuori urlando come dei pazzi.
“Ragazzi, non mi sembra il caso…” li richiamò lei.
I fratelli si fermarono subito e iniziarono a camminare normalmente.
“Questo è un miracolo!” pensò Peabody impressionato.

Nicole convinse i Dalton a camminare normalmente e dirigersi verso il villaggio indiano, così da confondere le idee al direttore e agli altri.
I fratelli ammisero che aveva sale in zucca.
“Però oltrepassiamo la roccia dove c’è il villaggio e poi ce la battiamo!” precisò Joe.
“Oh no! Non sarebbe meglio prima mandare un indiano al penitenziario ad aiutare gli altri? Poveretti, se la devono vedere con un fantasma da soli!” obiettò la ragazza.
“Che cuore tenero!” sghignazzò Joe.
Averell si arrabbiò, prese il fratello per le spalle e lo sollevò, pensando in questo modo di punirlo.
“Ehi! Che stai facendo?! Mettimi subito giù!” urlava dibattendosi inutilmente.
“No! Scapperemo solo dopo aver mandato un indiano al penitenziario ad aiutare gli altri!”  sentenziò Averell a muso duro. Joe non si poteva permettere di prendere in giro Nicole!
Jack e William, impressionati, si affrettarono a dire che per loro andava bene. Averell, soddisfatto, affidò Joe (che continuava a scalciare e dimenarsi) a Nicole, che, soddisfatta e riconoscente, iniziò a dargli del bambolotto, metterlo a testa in giù, dondolarlo per le mani e lanciarlo in aria per poi riprenderlo.
“Io non sono un bambolotto, sono il terrore del West!” protestava impotente tra un lancio e un altro mentre andavano.
Alla fine Nicole, impietosita, lo lasciò andare, non prima di avergli detto che era troppo carino per essere il terrore del West.
Joe arrossì mentre i fratelli se la ridevano.

“Capo, capo!” Vero Falco abbatté un paio di sfortunati ragazzi che passavano di lì e qualche tenda mentre correva da Lupo Pazzo.
“Cosa c’è?”
“Visi pallidi a ore dodici! Sono i fratelli a scaletta e la signorina” rispose lo sciamano agitato.
Lupo Pazzo ponderò solennemente per qualche secondo, da vero capo che era.
“Sicuramente vorranno evadere! Riportiamoli al penitenziario, sicuramente in cambio ci daranno delle saporite gomme da masticare!” sentenziò.
Vero Falco trovò la decisione del capo molto ragionevole e, radunati altri tre indiani, andarono incontro ai fratelli e a Nicole per riportarli dove erano venuti.

Dal canto suo, Nicole non sospettò minimamente la vera ragione di quel comitato di benvenuto.
“Buonasera!” iniziò. “Abbiamo un problema, al penitenziario. Vedete, il Gam…”
Non riuscì a dire altro perché Lupo Pazzo la sollevò personalmente e gli altri quattro si occuparono dei fratelli Dalton.
Joe si batté una mano in fronte e gli altri tre rimasero male per la ragazza.
“Ehi! Che state facendo?” domandò lei cercando di divincolarsi.
“Vi riportiamo al penitenziario. Non stavate evadendo?” la informò il capo con la massima cordialità.
“Te l’avevo detto! Questi indiani ci rompono sempre le uova nel paniere! Dovevamo andarcene, invece di fare il bel gesto di avvisarli del Gambo Solo!” sbottò Joe arrabbiato.
Mentre Nicole arrossiva  di vergogna, gli indiani si bloccarono.
“Il Gambo Solo?” ripeté Vero Falco.
“È nel penitenziario. Abbiamo cercato di liberarcene urlando il nome della sua fidanzata, ma è rimasto lì. Non volevamo evadere (ehm, ehm) ma siamo venuti qui solo per un aiuto” spiegò Jack.
Gli indiani si scambiarono uno sguardo indecifrabile.
“Allora scusateci tanto” disse Lupo Pazzo mettendo giù la ragazza. “Ma vedete, se ci sono tante persone con i capelli scuri lui pensa che non valga la pena di andarsene. Bisogna ricorrere a un metodo più drastico.”
Arrivati al penitenziario, Peabody si stupì del fatto che i Dalton non avevano provato a scappare. Fece un mucchio di complimenti a Nicole pensando fosse merito suo.
Lei tenne le labbra serrate per evitare che le scappasse una sola parola sul fatto che lei voleva evadere subito dopo aver avvertito gli indiani!
Il Gambo Solo al momento non si vedeva, ma tutti ritennero opportuno farsi rivelare il metodo con cui cacciarlo definitivamente.
“Ascoltate!” esclamò Lupo Pazzo. ”Esiste un modo infallibile con cui disfarsi del Gambo Solo…sempre legato alla sua adoratissima fidanzata, Miss Shar.”
A quelle parole, Betty arrossì.
Lupo Pazzo prese un’aria ispirata. “Egli l’amava con tutto se stesso, era la ragione per cui esisteva, ogni sua azione, parola, respiro, battito del cuore era per lei…”
“Sì, abbiamo capito!” lo interruppe Pitt, nauseato.
“Ecco…già. Siccome la amava così tanto, faceva tutto quello che gli diceva.” riprese l’indiano abbastanza scocciato. “Insomma, se gli apparisse davanti e gli dicesse di smetterla di uccidere le gente con  capelli scuri, lui la accontenterebbe subito. Il piano è questo: una ragazza possibilmente molto giovane e non fidanzata deve travestirsi da Miss Shar, ordinare al Gambo Solo di andarsene e lui prontamente lo farà. Così il penitenziario sarà disinfestato.”
Calò il silenzio. Le uniche donne presenti erano (come si sa) Nicole e Betty, che però fecero finta di niente agli sguardi imploranti di tutti i detenuti.
“Ma non potrebbe farlo una squaw vera?” domandò Nicole con una vocina sottile.
“Impossibile, hanno tutte paurissima del Gambo Solo!” sbuffò Vero Falco.
“Perché, noi no?” replicò Betty acida.
“Ah sì? Strano, credevo che i visi pallidi non credessero a queste cose” disse lo sciamano.
“Ma se non ci credessimo, perché mai ci saremmo disturbati a chiamarvi?” sbottò Peabody stufo e impaziente che il Gambo Solo venisse scacciato.
Questa discussione non aveva senso e perciò la lasciarono perdere. Subito dopo Betty e Nicole fecero testa o croce per vedere chi doveva travestirsi da indiana e mandare via il fantasma.
La moneta volteggiò in aria, cadde per terra e uscì croce. Cioè Nicole.
La poveretta impallidì mentre tutti le facevano grandi feste, le stringevano la mano e le auguravano buona fortuna.
Gli indiani la portarono al loro villaggio per farla travestire e spiegandole cosa doveva dire al Gambo Solo.

Quando tornarono al penitenziario, i detenuti erano ancora lì che facevano festa alla prossima liberazione dal fantasma, che al momento si aggirava per le celle. Qualcuno lo aveva visto passare da una finestra e gli avevano riso contro.
Tutti si avvicinarono a Nicole per vederla e trovarono che il travestimento fosse ben riuscito.
“Stai molto bene!” commentò Averell, ma non era proprio sicuro che si dicesse così.
“Se non fosse così pallida sembrerebbe una vera squaw” osservò Emett con aria da critico.
“Ci sarebbe il mio fondotinta nella mia stanza, ma c’è il Gambo Solo dentro!” intervenne Betty, dispiaciuta di non poter aiutare.
“Non fa niente, tanto deve sembrare uno spirito. Va bene che sia pallida” sentenziò Lupo Pazzo.
Più che pallida, in questo momento Nicole era terrea. Seguita a debita distanza dagli altri, entrò nel penitenziario alla ricerca del ragazzo.
Dentro c’era un silenzio irreale. In punta di piedi, la ragazza salì le scale e arrivò al piano delle celle, dove era stato visto l’ultima volta.
Aveva paura. Beh, se si avventava contro di lei poteva sempre urlare il nome. Finora aveva funzionato, più o meno.
Girò l’angolo e lo vide. Trattenne a stento un urlo.
Gli indiani non persero tempo e le puntarono una potente torcia addosso, così che il Gambo Solo la vedesse in controluce e pensasse che era la vera miss Kapadapi…lo sapete.
Nicole fece del suo meglio per tenere le spalle dritte e un’espressione impassibile, per quanto si sentiva invasa da un terrore che la esortava a mollare tutto e scappare via.
I detenuti, specialmente i fratelli Dalton, trattenevano il fiato.
Il Gambo Solo la guardò e sussultò. Dalle sue labbra pallide uscì un sussurro.
“Kapadapi…”
Nicole rimase immobile.
“Kapadapi…” ripeté il ragazzo avvicinandosi. Lasciò cadere il tomahawk e le sfiorò la faccia con una mano ghiacciata.
Per quanto terrorizzata potesse essere, Nicole continuò a rimanere immobile.
“Kapadapi…” sussurrò per la terza volta il Gambo Solo. “È passato tanto tempo…”
Solo allora Nicole parlò. Temeva che le uscisse un pigolio patetico, ma si sforzò perché la sua voce risuonasse decisa e forte.
“Colei che tu vedi è lo spirito di Kapadapi. Per ordine del Grande Manitù, io proteggo le persone che tu, senza alcuna ragione, uccidi. Perciò io ti chiedo, per il compito che svolgo e anche per amor mio…di andartene da questo penitenziario e non tornare mai più.”
Nicole aveva la bocca secca, le mani ghiacciate e gocce di sudore freddo le imperlavano il viso. I detenuti erano più o meno nelle stesse condizioni.
Il Gambo Solo tremò e impallidì.
“Se tu mi chiedi questo, io lo farò, mia amata. Addio.”
La baciò sulla fronte, indietreggiò di alcuni passi e in una nuvola di fumo bianco, sparì.
Per qualche secondo nessuno fiatò, poi a Nicole cedettero le gambe.
Averell si lanciò travolgendo tutti quelli che trovò al suo passaggio e la afferrò appena prima che rovinasse a terra.
Tutti iniziarono a gridare e far festa, inneggiando alla ragazza che li aveva liberati dal Gambo Solo.
Finché, dopo che il caos diminuì un po’, non si sentì qualcuno sbellicarsi dalle risate dentro una cella.
Insospettito, Peabody mandò Pitt ed Emett ad aprirla e con loro immensa sorpresa trovarono un giovane indiano sporco di farina rotolarsi per terra ridendo come un deviato.
“E tu chi sei?!” urlò il direttore basito.
Non ottenne risposta e si girò verso Lupo Pazzo, Vero Falco e gli altri indiani, che avevano cominciato a ridere anche loro.
“Che cosa significa…?” domandò.
“La verità è che il Gambo Solo non esiste!” spiegò il capo quando si fu calmato. “Stamattina (o forse è meglio dire ieri, sta spuntando il sole!) durante il seminario ho visto che non prendevate sul serio le leggende dei Braccia Rotte, così mi sono inventato sul momento la storia del ragazzo albino e ho organizzato tutta questa messinscena per vendicarmi!”
Quando vide su di sé gli sguardi in cagnesco di tutti i detenuti, fece una risatina imbarazzata.
“Comunque niente male come attrice Nicole, eh…no?”
I detenuti si misero a inseguire lui e gli altri indiani per tutto il penitenziario, promettendo botte.
Approfittando del portone aperto, i fratelli Dalton e Nicole provarono a evadere, ma vennero fermati subito.
E Nicole, stavolta, se la cavò con la supposizione di Pitt ed Emett che stesse andando a cambiarsi.

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Capitolo 8
*** Mi hanno chiuso in bagno! ***


MI HANNO CHIUSO IN BAGNO!



Era da quella mattina che un detenuto di nome Mark non si trovava.
Mentre picconavano, era sparito. Prima nessuno ci aveva fatto caso, ma all’ora di pranzo si erano tutti accorti che mancava.
La signorina Betty aveva ordinato di andare a cercarlo e che non si poteva mangiare finché non lo si fosse trovato, un ordine che molti detenuti avevano accolto malissimo, ma avevano obbedito senza fiatare perché prima si trovava Mark prima si mangiava.
Stavano tutti girando per il penitenziario, chiamando a gran voce e rovistando nelle celle disperatamente, pensando al povero pranzo che si raffreddava.
Nicole imboccò per l’ennesima volta il corridoio delle celle, e le ricontrollò tutte da cima a fondo. Come previsto, non c’era traccia di Mark, come tutte le altre volte.
Uscendo dall’ultima cella, le cadde lo sguardo sul bagno. La porta era chiusa e dall’interno, se ci si faceva caso, provenivano dei lamenti soffocati.
Nicole aggrottò le sopracciglia e si avvicinò alla porta.
“Mark?” azzardò.
I lamenti diventarono parole.
“Nicole? Sei tu? Oh, ti prego, tirami fuori di qui! Sono chiuso dentro!”
Nicole non vide la chiave nella serratura. Diede un’occhiata in giro, e la chiave non si trovava.
“Nicole? Ci sei?” esclamò Mark.
“Sì, ma la chiave non c’è!” rispose la ragazza.
“Per forza, se l’è portata via quell’infame! Hai una forcina, un qualcosa…”
Nicole non aveva forcine, ma pensò che Betty sicuramente ne aveva.
“Aspetta, vado a cercarne una!” disse, e si avviò correndo verso la camera di Betty.
La porta era aperta e fu subito dentro.
Rabbrividì. Sapeva che poteva essere fraintesa se qualcuno passava di là, perciò si diresse in fretta verso il bagno per levare il disturbo più presto possibile.
Sfortunatamente le forcine non erano in vista, Nicole era costretta a frugare tra le cose di Betty.
Pregando che nessuno entrasse, aprì cassetti, sportelli e armadietti vari, e finalmente nell’ultimo trovò le forcine.
Sospirando di sollievo, ne prese una e uscì dal bagno, ma ebbe una brutta sorpresa.
Betty era lì sulla porta che stava per entrare.
Oh, no, pensò Nicole, bloccandosi dalla vergogna.
“Eh? Nicole, cosa ci fa qui?” domandò stupita la signorina Betty.
La risposta fu un balbettio sottile sottile.
“I-Io n-non sta-sta-stavo fa-face-cendo ni-ni-ni-en-ente, ho so-so-solo tro-tro-trova-va-vato Ma-ma-ma-mark chi-chi-uso in ba-ba-ba-gno e mi-mi-mi se-se-serviva una-una-una fo-fo-fo-rci-ci-cina per li-li-berarlo, la-la pre-pre¬-go non pe-pe-pensi ma-male, a-a-a-ve-vevo buo-buone in-in-tenzioni!”
“Si calmi, è rossa come un pomodoro! Se è entrata in camera mia perché ha trovato Mark allora va bene.” la calmò Betty. 
Nicole uscì dalla stanza a passi veloci e si diresse ai bagni delle celle, mentre l’altra andò a radunare i detenuti sul piazzale.

La ragazza arrivò su dai bagni senza fiato. Il cuore le batteva ancora forte per la figuraccia di prima e si appoggiò alla porta per riposarsi qualche secondo.
Mark la sentì.
“Nicole? Sei tu?”
“Sì” ansimò lei, “ora ti tiro fuori!”
Inserì la forcina nella serratura e dopo qualche manovra, la porta si aprì.
Mark balzò fuori stravolto, aveva i capelli scompigliati, le occhiaie e la faccia bagnata, sicuramente aveva pianto.
Si aggrappò a Nicole come un koala a sua madre, strepitando qualcosa sul fatto che era la sua salvatrice, che le doveva un favore eccetera eccetera.
Lei, imbarazzata, provò a calmarlo e andare al dunque.
“Va bene, lo terrò presente, ma perché eri chiuso in bagno?” domandò.
“È stato Peter, il mio compagno di cella!” strillò Mark. “Stanotte l’ho battuto per dieci volte di fila a carte, così lui si è arrabbiato e dopo colazione, con la scusa di accompagnarmi in bagno, mi ha chiuso dentro! Che esperienza terribile! Non gli parlo più!”
“Beh, sarà difficile, dato che sta in cella con te. Comunque ora ti porto giù nel piazzale. Ti farà bene un po’ d’aria” concluse Nicole avviandosi per il corridoio con Mark al seguito.

Quando arrivarono, gli altri detenuti erano già lì. Molti avevano chiesto a Betty perché non potevano andare a mangiare già che Mark era stato ritrovato, e la risposta era stata che bisognava aspettare tutti per correttezza.
“Sai che me ne faccio, della correttezza?” aveva sibilato Joe a denti stretti.
“Ah, eccoli che arrivano!” esclamò la signorina allegramente, ignara del maligno commento di Joe.
I detenuti tirarono un sospiro di sollievo quando videro Nicole e Mark uscire dal penitenziario, pensando che finalmente si poteva mangiare.
Ma il Fato capriccioso volle che il pranzo dovesse aspettare ancora, perché con grande disappunto di tutti Betty domandò a Mark:
“Signor Mark, cosa ci faceva chiuso in bagno?”
“È stato Peter! Si è arrabbiato solo perché stanotte l’ho battuto dieci volte a carte! Io non ho fatto niente!” schiamazzò Mark dando prova di una grande maturità.
Dalla massa di detenuti saltò su il suddetto Peter.
“Non è vero signorina Betty, non lo ascolti, dice sempre le bugie! Si è chiuso da solo per mettermi nei guai! E sono io che l’ho battuto dieci volte ieri, lui fa schifo a carte! Bleee!” urlò aggiungendo una linguaccia alla fine.
Gli occhi di Mark si riempirono di lacrime.
“Signorina Betty, ha visto cosa mi ha fatto?” mugugnò.
“Basta con questa scena da prima asilo, vogliamo mangiare! Fate la pace e non se ne parla più!” sbottò qualcuno.
“Mi sembra una buona idea! Su, chiedetevi scusa!” confermò Betty con un gran sorriso.
Ci volle un po’, ma finalmente Peter e Mark fecero la pace e si poté andare a mangiare. I detenuti si precipitarono in mensa con il loro classico stile “branco di bufali” e tutto tornò alla normalità.

A tavola, Joe sembrava pensieroso, e i sospetti dei fratelli e Nicole si realizzarono quando dichiarò “Ho un piano!”
“Sarebbe?” lo incalzò Jack.
“Chiuderemo tutto il personale in bagno, così potremo prendere la chiave nell’ufficio di Peabody indisturbati ed evaderemo! Che ve ne pare?” spiegò Joe sorridendo perfidamente.
“Va bene, ma chi li farà uscire dopo che ce ne saremo andati? Moriranno di fame, chiusi lì dentro!” obiettò Averell.
Joe si spiaccicò la mano in fronte.
“Furbo, ci sono gli altri detenuti! Penseranno loro a tirarli fuori!” sbuffò infastidito.
“Ah…” fece Averell soddisfatto.
“Mi sembra una buona idea, d’altro canto il più delle volte non siamo riusciti ad evadere perché qualcuno del personale ci ha presi. Personale chiuso in bagno vuol dire via libera…” disse William fiducioso.
“E via libera vuol dire evasione!” concluse Joe e si scatenò in una risata malefica che fece spaventare tutta la mensa.

Pitt & Emett stavano facendo la guardia al portone quando arrivò Averell con la faccia più innocente del mondo.
“Vuoi che ti apriamo il portone! Ah ah aaah! Caschi male!” sghignazzò Pitt.
“Non oggi, volevo chiedervi per favore mi accompagnate in bagno?”
Le due guardie rimasero di sasso.
“Ah, ho capito, vuoi distrarci in modo che i tuoi fratelli aprano il portone con la chiave che hanno appena rubato! Ormai vi conosciamo!” lo prese in giro Emett.
“No, davvero, non vogliamo evadere, vi prego accompagnatemi in bagno, non mi ricordo più dov’è!” insistette Averell, e per rincarare la dose iniziò a ballare facendo finta che gli scappasse la pipì.
Le guardie si guardarono perplesse.
“Facciamo una cosa: tu resta qui mentre io lo accompagno. Sennò non se ne va più” disse Emett a Pitt.
“Oh, grazie mille!” pigolò Averell, e si allontanò con Emett al seguito.
La guardia lo portò nel bagno della mensa e lo lasciò da solo.
“Eh? Dove vai?” lo trattenne Averell.
“Ti ho accompagnato, adesso me ne posso anche andare…” spiegò Emett.
“No, devi entrare dentro!” dichiarò il Dalton prendendolo di peso e sistemarlo sulla tavoletta, dopodiché chiuse a chiave la porta.
“Che stai facendo? Averell? AVERELL! Ti ha dato di volta il cervello?!” urlò Emett tempestando di pugni la porta, mentre Averell sfilava la chiave della serratura e se la mangiava.

La preda di Jack e William era il direttore Peabody, che al momento si trovava in ufficio, e per intrappolarlo avevano pensato di fingere di litigare furiosamente davanti ai bagni del suo piano, così da attirarlo sul posto e al momento buono cacciarlo dentro.
Sogghignando tra sé e sé, presero posto e William attaccò:
“Sei proprio uno scemo!”
“Senti chi parla!” ribatté Jack.
Dal suo ufficio, Peabody cominciò a insospettirsi.
“Mi chiedo dove hai il cervello, perché nella testa proprio no! Rifletti, prima di fare le cose!” gridò William, fingendosi arrabbiato.
“Cosa? Non provare a dare la colpa a me, signor io-sono-il-più-bravo-di-tutti-e-non-faccio-mai-errori!”
“L’hai detto, amico! Io non sbaglio mai!”
A questo punto il direttore uscì dall’ufficio per vedere cosa stesse succedendo. Vide Jack e William  sulla porta del bagno a litigare e rimase un po’ interdetto. Se si ricordava bene, non li aveva mai visti arrabbiati.
“Ehi, calmatevi, fratelli Dalton! Fate così rumore che non riesco a pensare. Che sta succedendo?” esordì.
“Questo essere senza cervello ha…ha buttato tutto il rotolo della carta igienica nel gabinetto e ha tirato la catena! Ora il tubo è intasato! Mi dica se non è stupido!” spiegò William dando uno spintone al fratello, il quale ribatté:
“Te l’ho già detto mille volte, non ho buttato la carta nel gabinetto, mi è caduta! E sei stato tu a tirare la catena, perché credevi che ci avessi buttato lo Scottex che ho usato per asciugarmi le mani!”
Peabody corrugò la fronte, preoccupato. Un tubo intasato gli sarebbe costato una cifra per l’idraulico, ma non voleva che i due fratelli litigassero.
“Non preoccupatevi, tanto si può sempre sturare…Però fatemi vedere…” disse, entrando nel bagno.
Questa era l’occasione che Jack e William aspettavano; non appena Peabody fu dentro gli chiusero la porta e se ne andarono sghignazzando.

Joe aveva deciso di occuparsi della signorina Betty, ma non sapeva come fare.
La spiò per qualche minuto, e ad un tratto un detenuto in lacrime andò da lei e le mostrò un graffio ad una mano.
“Mi sono fatto male mentre picconavo!” piagnucolò.
“Non si preoccupi, ora la porto in infermeria e le metterò un cerotto! In poco tempo tornerà come nuovo!” lo tranquillizzò Betty con un sorriso materno.
Si avviarono e Joe li seguì senza farsi notare. Se in infermeria ci fossero stati dei servizi igienici, avrebbe potuto fingere di essersi fatto male, così Betty lo avrebbe portato in infermeria e lui ne avrebbe approfittato per chiuderla dentro.
Arrivati in infermeria, mentre la signorina metteva il cerotto al tipo, Joe controllò l’infermeria. In un angolo, una porta con su scritto “TOILETTE” lo fece sogghignare malignamente.
Uscì dall’infermeria e corse in cucina, dove rubò un barattolo di salsa e se ne spalmò mezzo sul braccio, in modo che sembrasse sangue.
Tornò sul piazzale e raggiunse Betty, che stava salutando il detenuto di prima.
Joe cercò di stamparsi in faccia l’espressione più sofferente che poteva e la chiamò.
“Signorina Betty…”
“Cosa c’è, Joe?” domandò lei abbassando lo sguardo.
Joe tirò su col naso.
“Mi sono fatto male…” spiegò tirandosi su la manica e scoprendo il braccio imbrattato di salsa.
Betty impallidì.
“Ma come ha fatto? Si è tagliato le vene?” pensò.
“Tranquillo, va tutto bene, ora la porto in infermeria e le metterò una garza” sentenziò.
Joe dovette faticare per non mettersi a sghignazzare durante il tragitto, ma fortunatamente riuscì a fingere di sentire molto male.
Mentre l’ignara Betty cercava le garze in un cassetto, Joe le si avvicinò furtivo e la prese di peso.
“Eh? Che sta facendo?!” strillò Betty dibattendosi.
Joe non rispose, aprì la porta del bagno, ce la lanciò dentro e chiuse a chiave. Come prevedeva la tabella di marcia.

Da più di quaranta minuti ormai Nicole aspettava che Ming Li Fu andasse in bagno.
Accovacciata a un cestello per lavare le uniformi da galeotto, in piedi per stendere quelle già lavate, appoggiata all’asse da stiro per stirare, continuava a tenerlo d’occhio, ma niente. Nicole cominciava a chiedersi se i cinesi conoscessero qualche segreto per non andare mai in bagno.
All’improvviso le venne un’idea. Mollò il ferro da stiro e domandò:
“Signore, io vado a bere. Vuole che le porti qualcosa?”
“Tu avele avuto buona idea! Sì, glazie!” accettò Ming con entusiasmo.
Con un sorriso stirato, Nicole andò in cucina, prese una bottiglia e i due bicchieri più grossi che trovò, poi tornò alla lavanderia.
Mentre il cinese continuava a dire che aveva avuto una buona idea, riempì i bicchieri abbastanza tanto da provocargli un’urgenza e abbastanza poco da non destare sospetti.
Il suo piano riuscì. Lei bevve pochissimo, invece Ming svuotò il bicchiere. Dopo pochi minuti dichiarò che doveva fare una cosa e uscì dalla lavanderia.
Nicole aspettò qualche secondo, perché si allontanasse, poi uscì anche lei e lo seguì.
Ming entrò in mensa e, arrivato al bagno, bussò due volte.
Nicole si tenne pronta a scattare dopo che fosse entrato per chiuderlo dentro, ma con suo grande sgomento la voce soffocata di Emett risuonò dall’interno.
In quel bagno qualcuno dei Dalton ce lo aveva chiuso dentro!
La ragazza pensò che ora Ming Li Fu lo tirasse fuori e li incastrassero, ma per fortuna il cinese sentenziò:
“È occupato!”
E tornò indietro.
Nicole si appiattì contro la parete perché non la vedesse, poi continuò a pedinarlo.
Il cinese cercò di entrare anche nel bagno dell’infermeria e in quello del piano di Peabody, e infine, alquanto seccato, decise di provare in quello del piano delle celle.
Convinto della sua buona fede, non si immaginava minimamente che Nicole gli fosse dietro.
Constatò con una certa soddisfazione che il bagno delle celle era libero, ci entrò dentro e chiuse la porta.
Era il momento. Nicole girò la chiave, la tolse dalla serratura e la buttò dal finestrino sopra il lavabo. Lo fece così silenziosamente che Ming non si accorse di nulla.

Compiuta l’opera, la ragazza raggiunse i Dalton sul piazzale.
“Ho chiuso in bagno Ming!” annunciò.
“Alla buonora… Meglio tardi che mai” sbuffò Joe.
“Non è colpa mia se non gli scappava mai…” si difese lei.
“Lasciamo perdere ora, dobbiamo prendere le chiavi dall’ufficio di Peabody!” tagliò corto Jack.
Gli altri riconobbero che aveva ragione, entrarono nel penitenziario e iniziarono a salire le scale.
Pensavano che, senza il personale ad ostacolarli, sarebbero finalmente evasi, ma si erano dimenticati di Pitt.
Al momento il suddetto Pitt si era accorto che era da un bel po’ che Emett era andato ad accompagnare Averell in bagno, troppo tempo.
Quanto ci vuole, si era detto, per andare in bagno, fare la pipì e tornare? Cinque minuti al massimo, ed era da un’ora ormai che Emett mancava.
Cominciava a sospettare davvero che ci fosse sotto uno dei soliti piani dei fratelli Dalton per evadere, come aveva sospettato fin dall’inizio, e siccome non vedeva in giro nessuno del personale si convinceva sempre di più.
Decise di rischiare e si allontanò dal portone per cercare i colleghi.

Nicole finora era stata solo una volta nell’ufficio del direttore e in quel momento trovare la chiave era stato l’ultimo dei suoi problemi, ma i fratelli sembravano sapere esattamente dove cercare, infatti dopo pochi minuti Joe teneva sghignazzando la chiave in mano.
“Dov’era? Così la prossima volta so dove cercarla” disse Nicole incuriosita.
“Era nel cassetto, come al solito… Gliel’abbiamo rubata non so quante volte e Peabody si ostina a metterla sempre nello stesso posto, non si può dire che sia furbo” rispose Joe con un ghigno.
Uscirono in fretta dall’ufficio, certi di stare per lasciarsi alle spalle le assurde divise a righe gialle e nere, palle al piede e tutto il resto.
Quello che non sapevano era che Pitt aveva controllato il bagno della mensa, e ci aveva trovato Emett. Lo aveva liberato ed era stato informato che Averell lo aveva chiuso in bagno.
“Lo dicevo io! I Dalton hanno chiuso in bagno tutti quelli del personale per evadere senza ostacoli!” esclamò Pitt agitato.
“Presto, dobbiamo trovare gli altri e fermare i fratelli!” ruggì Emett, e partirono di corsa in direzioni opposte verso i bagni.
Pitt incrociò i Dalton e Nicole mentre andava a liberare Peabody, ma i cinque si nascosero dentro una stanza con la porta aperta senza essere notati.
“Perché Pitt è libero? Chi si doveva occupare delle guardie?” sibilò Joe con un orribile presentimento.
“Io!” dichiarò Averell. Il momento dopo desiderò di non averlo fatto.
Joe andò su tutte le furie.
“Brutto imbecille, a causa tua ora il mio piano è rovinato! Perché non ti sei occupato anche di Pitt?!” urlò, balzando in aria e alzando la mano per tirargli un cazzotto.
Solo che si fermò a mezz’aria, perché Nicole lo aveva prontamente afferrato.
“Ti ho già detto che non lo devi picchiare! Manesco!” lo sgridò.
Jack e William si misero a sghignazzare tirandosi gomitate, Averell sospirò di sollievo e Joe mormorò qualche frase di scusa.
“Possiamo ancora evadere. Basta che ci sbrighiamo ad arrivare al portone!” dichiarò la ragazza mettendo giù Joe. “Adesso, corriamo!”
I cinque si lanciarono giù per le scale e corsero al piazzale.
Circa a metà strada, però, Nicole vide la signorina Betty ed Emett uscire dall’infermeria, e Pitt, il direttore Peabody e Ming Li Fu fuori dalla porta del penitenziario.
Si fermò di colpo, ma purtroppo i fratelli non se ne accorsero e continuarono a correre verso il portone.
Nicole stava per gridare di fermarsi quando Pitt ed Emett la sorpassarono, raggiunsero i Dalton che stavano infilando la chiave nella serratura del portone e gli puntarono i fucili addosso.
“Ok, fratelli Dalton, ci avete provato! Bell’idea, però…” sghignazzò Pitt.
“È stato orribile, essere chiuso in bagno! Mi sa che dovrete rimanere in cella con le palle al piede per un bel po’!” strillò Emett con la pelle d’oca.
“Averell, non ti do il ceffone che meriteresti perché sennò Nicole mi legna, ma te lo giuro, se non fosse qui…” iniziò Joe con fare minaccioso.
“Già, ma siccome sono qui non gli puoi neanche torcere un capello!” lo interruppe Nicole, che aveva sentito nonostante fosse lontana dal portone.
Lo sbuffo seccato di Joe venne soffocato dalle risate dei suoi fratelli.

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Capitolo 9
*** I sosia ***


I SOSIA



 “Di nuovo con questa storia! Ma perché scappate sempre dal villaggio?! Ditemi perché! Perché??” sbraitò Lupo Pazzo arrabbiatissimo ai quattro ragazzi.
“Te l’abbiamo già detto, capo. Vogliamo vedere la grande gabbia dei visi pallidi!” rispose il piccoletto non meno irritato dell’altro.
“E dopodiché gireremo il mondo!” saltò su il secondo, più alto di quello che aveva parlato prima ma più basso degli altri due.
“Ve lo ripeto per l’ennesima volta, nella grande gabbia dei visi pallidi non c’è nulla da vedere! Io ci sono già stato, saprò quello che dico! O no?!”
“E nel resto del mondo, allora?” domandò sarcastico il terzo.
Lupo Pazzo fece un gesto di stizza.
“I visi pallidi sono avari, corrotti, stupidi e approfittatori! Con le loro invenzioni infernali stanno rovinando il mondo! E poi credono che noi indiani siamo inferiori, se andate in mezzo a loro ne ricaverete solo prese in giro!”
I tre gemelli gettarono uno sguardo insistente  al quarto e più alto, che sembrava infischiarsene del litigio. Guardava con occhi dolci la giovane squaw a un passo dietro di loro, che gli sorrideva.
Il terzo gli tirò una gomitata.
“Di’ qualcosa, Sciacallo Famelico!” gli sussurrò.
L’indiano sembrò risvegliarsi.
“Ah…Ehm…Come va la vita, capo?” domandò cordialmente.
I tre si spiaccicarono una mano in fronte.
“Razza di idiota, mai che collabori tu!” gridò il piccoletto saltandogli addosso, ma si ritrovò bloccato a mezz’aria a causa della squaw che lo aveva afferrato.
“Incubo Orribile! Quante volte ti ho già detto che non devi picchiare tuo fratello?!” lo sgridò dandogli un bello scrollone.
Gli altri due cominciarono a tirarsi gomitate, mentre Lupo Pazzo interveniva:
“Ecco, a proposito…Perché continuate a rapire la giovane Falce di Luna? Lei ha la testa a posto, e non vuole scappare!”
“E che ne sai, tu?” pensò Falce di Luna posando Incubo Orribile.
I quattro fratelli gemelli di altezze diverse (Incubo Orribile, Aquila Scaltra, Mente di Fuoco e Sciacallo Famelico) e la loro amica Falce di Luna si erano messi in testa di girare il mondo e perciò ogni santo giorno cercavano di scappare dal villaggio indiano con metodi estremamente fantasiosi, gentilmente suggeriti da Incubo Orribile.
La cosa che Lupo Pazzo e nessuno degli indiani aveva mai notato era che i cinque ragazzi erano le copie esatte di Joe, Jack, William, Averell e Nicole, se non fosse stato per il colore della pelle.
Sia i Dalton che gli indiani avevano la stessa forma del viso, i baffetti, i capelli con il ciuffo e le diverse altezze, e sia Nicole che Falce di Luna avevano capelli ricci e castani, occhi color del cioccolato e gli stessi tratti. Inoltre tutti e dieci avevano quasi gli stessi caratteri.
Per farla breve, erano dei sosia con la pelle diversa.
“Stavolta passate, ma se vi becco ancora a cercare di scappare vi appendo al totem a testa in giù e vi cuocio come sacrificio al Grande Spirito! Sono stato chiaro?! E ora fuori!” ordinò Lupo Pazzo accigliato.
I quattro fratelli e la squaw uscirono dalla tenda più che volentieri e si fermarono sul ciglio della roccia dove sorgeva il campo indiano.
“Che facciamo ora, Incubo Orribile?” domandò Sciacallo Famelico.
“Intanto voi due potreste piantarla di farvi gli occhi dolci, e poi lasciatemi pensare…Ci sono!” esclamò alla fine.
“Stanotte metteremo della Pozione Che Fa Dormire nel pentolone della cena, così tutti si addormenteranno profondamente e noi potremo andare a vedere la gabbia dei visi pallidi!”
Aquila Scaltra, Mente di Fuoco e Falce di Luna acconsentirono, mentre Sciacallo Famelico obiettò:
“Ma Incubo Orribile, se mettiamo la pozione nel pentolone non ci addormenteremmo anche noi?”
“Certo che no, stupido! Noi non ceneremo! Era implicito!” strillò il fratello.
“Che cosa?!” esclamò l’altro. “Ma morirò di fame!…”
La faccenda sarebbe degenerata in un furioso litigio se Falce di Luna non avesse salvato la situazione promettendo a Sciacallo Famelico che gli avrebbe fatto un panino prima di andare.
Risolto il problema, i cinque andarono a procurarsi la Pozione Che Fa Dormire, custodita in un vasetto nella tenda di Vero Falco, che al momento era in raccoglimento spirituale in una grotta. (A dire la verità, si era addormentato da tempo.)

Successe tutto contemporaneamente, nemmeno a farlo apposta. Quella notte, mentre i cinque indiani sgattaiolavano via dal villaggio con il sottofondo degli altri che russavano, i Dalton e Nicole scavavano una buca sotto il portone del penitenziario con dei cucchiai che avevano “preso in prestito” dalla mensa.
Finalmente la buca fu abbastanza grande perché ci potessero passare. Si infilarono sotto e con un po’ di fatica si ritrovarono fuori dal penitenziario, con il portone alle spalle e la sconfinata prateria del Nevada davanti.
Nicole avvertì ancora la sensazione d’ansia che provava tutte le volte che si trovavano fuori, destinata a trasformarsi in delusione (e dopo ancora sollievo per il fatto di non essere stata beccata) quando le guardie li riportavano dentro. Sarebbero finalmente riusciti ad evadere, stavolta? Cosa poteva andare storto? Tutti i detenuti e il personale dormivano profondamente, a causa della massiccia dose di sonnifero che avevano messo nel pentolone della cena.
Loro ovviamente non avevano cenato, sostenendo che non avevano fame. Sorrise, ripensando ad Averell che protestava con Joe che se non mangiava sarebbe morto. Alla fine, gli aveva promesso che gli avrebbe fatto un panino, e Averell era stato così contento che la aveva abbracciata.
Nicole sentì una strana scossa e preferì non pensarci più. Si riscosse e seguì i Dalton, ma non passò molto tempo che intravide alla luce della luna cinque sagome che venivano verso di loro.
“Guardate là!” esclamò indicandole.
I quattro Dalton si fermarono e guardarono meglio.
“Sembrano delle persone...E corrono verso di noi!” osservò Jack.
“Non saranno mica delle guardie? Non oso guardare!” si lamentò Joe coprendosi gli occhi.
“Vi dirò, a me sembrano cinque indiani, di cui un bambino e una ragazza…” disse William.
“Ma che ci fanno degli indiani fuori dal villaggio?” domandò Nicole incuriosita.
Anche i ragazzi Braccia Rotte avevano notato che c’era qualcun altro nella prateria, e si fermarono per controllare.
“Chi sono quelli?” domandò Falce di Luna un po’ timorosa.
“Visi pallidi, credo…E a giudicare da come sono vestiti, suppongo che provengano dalla gabbia.” rispose Mente di Fuoco.
I due gruppi si zittirono per qualche minuto, studiando gli altri. Potevano oltrepassarli e basta senza che li ostacolassero, o li avrebbero fermati? In tal caso, addio fuga, come tutte le altre volte.
La situazione si risolse quando Averell, desideroso di farsi nuovi amici, urlò agitando un braccio:
“Ciao! Siete Braccia Rotte?”
“Ma che stai facendo?!” lo rimbeccò Joe preoccupato.
La risposta di Sciacallo Famelico non si fece attendere.
“Sì! E voi venite dalla grande gabbia dei visi pallidi?”
“No, siamo del penitenziario e stiamo evadendo! Perché non venite qui?” rispose Averell tutto contento.
“Hai sentito, Incubo Orribile? Vuole che veniamo da loro! Possiamo? Per favore…” chiese Sciacallo Famelico con occhi imploranti.
Incubo Orribile alzò le spalle. “Tanto ormai il danno è fatto, e comunque possiamo difenderci…”
Per sicurezza portò una mano alla cintura e constatò che il suo tomahawk non era andato perso da qualche parte.
I due gruppi cominciarono ad avanzare l’uno verso l’altro, prima lentamente, poi iniziarono a correre sempre più velocemente.
Mentre correvano, si misero a ridere e a piroettare di felicità, e quando si raggiunsero a metà strada, ci furono abbracci, baci, feste e quant’altro, come degli amici che non si vedevano da anni. Il perché, non lo seppero mai.
Si sedettero per terra e iniziarono a parlare.
“Prima avete detto che venite dal penitenziario. Dove si trova?” domandò Aquila Scaltra.
“È lì!” Averell indicò tutto trionfante il penitenziario centinaia di metri dietro di loro.
Gli indiani ebbero dei moti di stupore.
“Ma è la grande gabbia dei visi pallidi…” esclamò Incubo Orribile sorpreso.
“Forse voi lo chiamate così, in effetti è proprio una grande gabbia di uomini…Comunque, chi siete?” domandò Nicole, incuriosita dalle nuove conoscenze.
Gli indiani dissero i loro nomi, e si presentarono anche i Dalton e la ragazza.
“Che ci fate fuori dal vostro villaggio?” domandò William.
“Noi vogliamo visitare il penitenziario e vedere il mondo, ma Lupo Pazzo non vuole! Così siamo costretti a cercare di scappare, però non ci siamo mai riusciti…E stavolta dobbiamo farcela, perché se ci becca di nuovo ci appende per i piedi al totem e ci cuoce in sacrificio al Grande Spirito!” spiegò Sciacallo Famelico, non potendo trattenere un brivido.
“Invece noi vogliamo evadere dal penitenziario! Siamo fatti per rapinare banche, assaltare i treni e le diligenze, vivere avventure, non per spaccare pietre tutto il giorno!” sbottò Joe.
“E lavare i panni sporchi” aggiunse Nicole.
“Allora è vero che nel penitenziario ci chiudono i criminali…Senza offesa!” disse Falce di Luna un po’ intimidita.
“Che strano,” pensò,” a prima vista avrei detto che fossero persone oneste come i fratelli, forse perché gli assomigliano…”
Anche Nicole non aveva affatto l’aria di una criminale…C’era qualcosa di familiare, di molto familiare nei suoi occhi color cioccolata e nei capelli ricci e castani…Non poteva averla già vista da qualche parte, del resto proveniva dal penitenziario…
All’improvviso, le venne un lampo. Come aveva fatto a non notarlo prima?
“Un momento! Tu hai i miei stessi capelli!” esclamò agitata, indicando la ragazza pallida.
I ragazzi rimasero sorpresi, mentre Nicole si girava e guardava meglio Falce di Luna.
“È vero! E tu hai i miei stessi occhi!” confermò esterrefatta.
“E il mio naso!”
“E la mia bocca!”
“E le mie orecchie!”
Trascorse qualche secondo di silenzio carico di tensione, durante il quale le due ragazze si osservarono a occhi spalancati e bocca aperta. Alla fine, sorrisero.
“Siamo identiche!” urlarono all’unisono, balzando in piedi.
Allora anche i Dalton e gli indiani se ne accorsero.
“È vero! Siete uguali!” gridarono in coro.
Nicole e Falce di Luna scoppiarono a ridere e si abbracciarono di slancio, e inspiegabilmente partì il ritornello di Tu Sei Lei di Ligabue.
Tu sei lei…Tu sei lei…Fra così tanta gente! Tu sei lei…Tu sei lei…E lo sei stata, sempre!
Da dietro un masso spuntò Olivier Jean-Marie, con un fascio di documenti in mano.
“Ehi! Questa canzone non c’era nella colonna sonora dei Dalton!” protestò corrucciato.
Da dietro un altro masso spuntò Martyna Petra Style con il computer.
“Olivier, mon cher, ma ci stava così bene! E comunque, l’autrice di questa storia sono io, per l’ennesima volta!”
I due litigarono per un po’, ma alla fine Olivier diede ragione alla sdegnata autrice e se ne andarono.
“Chi diavolo erano quei due pazzi furiosi?” domandò Incubo Orribile con una smorfia.
“Il regista e l’autrice, ti ci abituerai presto. Ehi, ora che mi ci fate pensare, anche io e te siamo uguali!” notò Joe sentendosi invadere dall’eccitazione.
“E io sono uguale a te!” gli fece eco Jack indicando Aquila Scaltra.
“E io a te!” ripeté Mente di Fuoco, prendendo William per mano.
“Allora penso che noi due abbiamo la stessa faccia…” concluse Averell avvicinandosi a Sciacallo Famelico.
“Siete i nostri sosia!” urlò Nicole entusiasta.
Tutti furono così contenti di aver trovato il proprio doppio che improvvisarono una festa, e alla fine a Joe venne un’idea.
“Siccome noi vogliamo evadere e voi volete visitare il penitenziario, perché non ci scambiamo i posti per un po’ di tempo? Tanto siamo uguali, nessuno se ne accorgerà!”
“È una splendida idea, del resto stavo per dirla io” acconsentì Incubo Orribile. “Voi siete d’accordo, non è vero?” domandò ai fratelli e a Falce di Luna.
“Si mangia bene, al penitenziario?” si informò Sciacallo Famelico.
“Benissimo!” rispose Averell, contento che il sosia avesse i suoi stessi interessi.
“Ok, allora penso che si possa fare” decise l’indiano soddisfatto.
“Perfetto, adesso dovete insegnarci ad essere voi, e noi vi insegneremo ad essere noi” disse Jack, pratico come sempre.
Così, i Dalton e Nicole illustrarono ai loro sosia la struttura del penitenziario, descrissero il personale e i detenuti, gli orari, gli incarichi e gli spiegarono come dovevano comportarsi, raccomandandosi di provare a evadere ogni giorno.
E gli indiani descrissero il villaggio, come era scandita la giornata, gli insegnarono a tirare con l’arco, usare il tomahawk, le tradizioni e le danze rituali, presentarono gli altri indiani e tutto il resto. Non fu particolarmente difficile imparare i comportamenti dato che erano quasi uguali, bisognava solo fare attenzione a un paio di cosette.
Alla fine, si scambiarono i vestiti.
“Buona fortuna! Ricordatevi, ci vediamo qui tra una settimana!” raccomandò Incubo Orribile vestito da galeotto.
“Contaci, gemello!” lo rassicurò Joe vestito da indiano.
Si salutarono senza fare economia di abbracci e partirono verso le rispettive mete.
Per fortuna i detenuti e il personale da una parte e i Braccia Rotte dall’altra dormivano ancora profondamente, così i due gruppi poterono entrare l’uno nella cella e l’altro nella tenda indisturbati, e si addormentarono impazienti di arrivare all’indomani.

Per i primi tre giorni tutto filò liscio, a parte qualche iniziale confusione riguardo alla loro pelle, ma gli indiani al penitenziario diedero la colpa al troppo sole e i Dalton e Nicole al villaggio dissero che forse avevano fatto troppa tintarella di luna.
Disgraziatamente, la quarta sera, successe il patatrac.
Vero Falco tornava da un corso di aggiornamento sciamanico durato tutta la settimana precedente (quindi non era stato al villaggio la notte dello scambio) e passò davanti alla tenda dei presunti quattro gemelli indiani. Sapeva che tentavano sempre la fuga, così decise di dare un’occhiata dentro per accertarsi che fossero lì.
Per poco non gli prese un accidente.
“AAARRGGHH!! Fratelli Dalton! Cosa ci fate qui? E che ne avete fatto dei gemelli?!” gridò catapultandosi nella tenda.
I Dalton sobbalzarono.
“Eh? Vero Falco, chi sono i fratelli Dalton?” farfugliò Joe in un disperato tentativo di salvarsi.
“Non fate i finti tonti!” ribatté lo sciamano. “Io ho sempre saputo che eravate i sosia dei gemelli, anche se quei ciechi degli altri non se ne sono mai accorti! Fuori il rospo! Dove sono i gemelli?”
“Dalton, che sta succede…Aaaah!”
Nicole, insospettita dal rumore, aveva aperto la tenda ed si era spaventata vedendo Vero Falco, che aveva tutta l’aria di non essere contento.
“Buonasera, mademoiselle!” la salutò cordialmente quest’ultimo con un gran sorriso, per poi tornare a rivolgersi ai fratelli. “Visto? Anche lei vi ha chiamati Dalton! Forza, ditemi che avete fatto ai gemelli, o sarò costretto a torturarvi!”
E dai, picchia e mena, riuscì a cavargli di bocca tutta la storia dello scambio. Non sospettò minimamente che anche Nicole c’entrasse, anzi, pensò che i fratelli le avessero raccontato una bugia perché si scambiasse con Falce di Luna.
Alla fine, legò i fratelli, sparse la notizia e insieme all’indignatissimo Lupo Pazzo andò al penitenziario per informare Peabody.

“Mi state dicendo che i Dalton e Nicole in realtà non sono loro, ma dei sosia indiani?” ripeté il direttore stupefatto.
“Proprio così.  Si sono scambiati quattro giorni fa. Era una cosa vantaggiosa per tutti, dato che i Dalton vogliono evadere e i nostri gemelli vedere il mondo…Ovviamente hanno ingannato Nicole e Falce di Luna perché li seguissero” confermò Lupo Pazzo.
“Quella povera squaw! Mi domando cosa ci trovi in Sciacallo Famelico…” gemette Vero Falco.
“È esattamente quello che penso io di Nicole! Come farà a piacerle Averell, è un mistero!” gli fece eco Peabody.
Esaurite le lamentele, il direttore mandò Pitt e Emett a prendere i gemelli e Falce di Luna e iniziarono il cammino verso il villaggio Braccia Rotte.
Quando arrivarono, con i quattro gemelli indiani con le mani legate con una sola corda e Falce di Luna libera dietro di loro, i fratelli Dalton erano già stati portati sotto il totem, in mezzo agli sguardi indignati di tutti e Nicole ansiosissima in un angolo.
I gemelli indiani vennero spinti vicino ai Dalton e Vero Falco prese la parola.
“I qui presenti Incubo Orribile, Aquila Scaltra, Mente di Fuoco e Sciacallo Famelico si sono scambiati di posto con i visi pallidi Joe, Jack, William e Averell! A causa del loro avventato gesto, ora i loro spiriti si saranno certamente fusi tra loro! Si meriterebbero questa punizione, ma il sottoscritto Vero Falco è generoso e li aiuterà! Diamo inizio al Sacro Rito di Separazione!”
Cinque o sei indiani iniziarono a battere su dei tamburi per creare l’atmosfera, e lo sciamano iniziò a cantilenare strane frasi, a girare su sé stesso e roteare le braccia, sotto lo sguardo spaventatissimo dei Dalton e dei loro sosia.
“Oh no!” gemette Falce di Luna, che era andata vicino a Nicole. “Sta sbagliando tutto! I loro spiriti non si sono fusi! Se continua così, si fonderanno veramente! Dobbiamo fermarlo!”
“Va bene,” acconsentì Nicole, non meno preoccupata di lei, “ma come possiamo fare?”
“Io ho un’idea, una volta ho letto il Manuale dello Sciamano di nascosto…Ascolta, tu vai lì e tappagli la bocca, in modo che non possa più parlare, e io reciterò la contro-formula! Cerca di tenerlo zitto finché non finirò, è molto importante!” spiegò Falce di Luna sudando freddo.
Nicole deglutì a vuoto. “Ok, ho capito tutto. Dimmi quando posso andare…”
Falce di Luna assentì e si tennero pronte. Dopo alcuni secondi, quando Vero Falco stava per pronunciare l’ultima parola, la squaw urlò “Vai, ora!”
Nicole scattò verso lo sciamano, lo urtò e ruzzolarono qualche metro più in là. I Braccia Rotte si agitarono, Vero Falco cercò di dimenarsi ma lei cercò di tenerlo fermo e gli tappò la bocca con due mani, mentre Falce di Luna cominciava a recitare la contro-formula.
Lo stupore dei Dalton e dei gemelli fu indicibile.
“Che stanno facendo?!” urlò Averell, l’unico tra i suoi fratelli che era riuscito a spiccicare parola.
“Ci stanno salvando!” gli rispose Mente di Fuoco, che anche lui aveva letto il Manuale dello Sciamano.
“Per tutti gli spiriti, cosa stai facendo?” esclamò Lupo Pazzo scagliandosi su Nicole e cercando di staccarla da Vero Falco.
Nicole resistette più che poté, ma erano due contro una e alla fine lo sciamano riuscì a togliersela di dosso, ma troppo tardi, perché Falce di Luna aveva appena finito di recitare la contro-formula.
Tra lo sgomento di Lupo Pazzo e Vero Falco e lo stupore di Peabody, delle guardie e dei  Braccia Rotte le corde che legavano i Dalton e i sosia scomparirono magicamente e furono liberi.
I ragazzi, tra urli di evviva, si misero a saltare tutto intorno e ad abbracciare Nicole e Falce di Luna, tra gli applausi del pubblico.
“Ehi, Vero Falco, stai bene?” domandò Lupo Pazzo accigliato.
“Sto benissimo, grazie. Sai, Nicole e Falce di Luna devono essere molto affezionate ai fratelli, hanno addirittura osato sfidarmi per liberarli! Anche se io lo stavo facendo a fin di bene…” replicò lo sciamano, che in fondo non se l’era presa.
“Va bene, fratelli Dalton, ora dovete tornare al penitenziario! E non provate mai più a fare uno scambio, e soprattutto non coinvolgete anche la povera Nicole!” ordinò Peabody in versione rompiscatole.
“Uffa! Eravamo praticamente evasi!” si lamentò Joe.
Ma erano troppo stanchi per ribattere. Si scambiarono i vestiti e, controvoglia, salutarono molto calorosamente i sosia, i quali gli donarono chi una collanina, chi una piuma di uccello, chi un coltellino di osso per ricordo. E miracolosamente riuscirono a farsi promettere da Peabody e Lupo Pazzo che si sarebbero potuti vedere ogni tanto.
Alla fine, grazie a mille proteste del direttore, lasciarono il campo indiano un po’ tristi.

Mentre camminavano, Averell si avvicinò a Nicole e le disse, a voce bassa:
“Sai una cosa? Falce di Luna era molto carina, ma preferisco te.”
Nicole si fermò, rossa come un pomodoro.
“Grazie, volevo dirti la stessa cosa a proposito di Sciacallo Famelico, ma tu mi hai preceduto…”
Averell sorrise. “Beh, è bello che pensiamo la stessa cosa, no?”
“Sì…bellissimo” mormorò Nicole con un filo di voce.

Molti chilometri più lontano, in mezzo alla prateria, si poteva vedere Olivier Jean-Marie scrivere 100 volte su un foglio “Martyna Petra Style è l’autrice di The Dalton Story” sotto lo sguardo perfidamente soddisfatto dell’autrice.

 

 

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Capitolo 10
*** La macchina dei sogni ***


LA MACCHINA DEI SOGNI





“Che strano tipo” commentò Nicole riferendosi al nuovo arrivato. “Si chiama Bert, giusto?”
“Esatto” confermò Joe.
I cinque erano in mensa per la colazione e stavano osservando da lontano Bert, il detenuto nuovo arrivato la sera prima, che sembrava essersi già ambientato bene nel penitenziario dato che stava scherzando con i compagni di tavolo.
“Che cos’ha fatto per essere rinchiuso qui?” domandò Jack.
“È uno scienziato pazzo che ha distrutto una casa con i suoi esperimenti” rispose William. “Pare che abbia ottenuto il permesso di lavorare a una sua invenzione qui al penitenziario.”
“Ah sì?” fece Joe. “Che invenzione è?”
“Non lo so” rispose il fratello.
“Hmm…” Joe rifletté. “Penso che dopo mangiato mi informerò.”
“Perché, ti interessa la scienza?” domandò Averell.
“Solo quando può servirmi per evadere…” ghignò Joe.

Finita la colazione, i cinque si alzarono e si mossero verso Bert, il quale non poté trattenere un sorriso. Aveva intenzione di fare amicizia con tutti, ma se gli altri lo andavano a cercare per primi le cose erano più facili. E poi, notò, c’era anche una ragazza tra i cinque tipi che lo stavano raggiungendo. Non sarebbe potuto andare meglio!
“Ehilà!” iniziò tutto contento.
“Ciao!” restituì il saluto Averell.
“Io sono Bert e voi?” continuò lo scienziato, rassicurato dalla ben disposizione del Dalton.
“I fratelli Dalton e Nicole”  rispose Joe, che a differenza del nuovo arrivato aveva ben altro per la testa che fare amicizia. “Vado subito al dunque, sappiamo che hai ottenuto il permesso di lavorare a una tua invenzione mentre starai qui al fresco.”
“Esatto!” confermò Bert compiaciuto.
“Ecco, appunto. Possiamo sapere cos’è?”
Bert toccava il cielo con un dito. “Ah, modestamente è una genialata! È una…macchina dei sogni!”
“Una macchina dei sogni?” ripeté Nicole.
“Proprio così! Renderà veri i sogni che le persone faranno di notte! Non è magnifico?”
A Joe venne un’idea.
“E quando sarà pronta?” domandò, fingendosi indifferente.
Bert si fece pensieroso.
“A dire il vero, non lo so…Ci sono ancora molte cose da completare e la scienza è imprevedibile, non si può mai dire…Ma se siete interessati, vi farò sapere al più presto!”
Joe era soddisfatto.
“Bene, tante grazie, ora dobbiamo andare a spaccare le pietre…” tagliò corto.
“Ma sono io che vi ringrazio!” ribatté Bert. “Nessuno si interessa mai alle mie invenzioni…”
Ma i Dalton e Nicole se ne andarono prima che potesse imbottirli di chiacchiere sul suo genio incompreso e, usciti dalla mensa, iniziarono a pianificare l’evasione: quando Bert avrebbe finito di costruire la macchina dei sogni, loro si sarebbero offerti di provarla per primi, avrebbero sognato di evadere e sarebbero stati liberi come l’aria.

Da quel giorno, Bert non si fece vivo per una settimana. Era sempre dietro alla sua macchina dei sogni e questo era tutto quello che i detenuti sapevano. Dalla porta chiusa della sua cella provenivano rumori metallici indistinti che non chiarivano affatto la situazione, al massimo avevano portato alla disperazione qualcuno che desiderava solo poter dormire nel silenzio.

L’ottava sera, finalmente, il rumore cessò. I detenuti non fecero in tempo a pensare che quello scienziato da strapazzo aveva finito di trafficare con le sue cose scientifiche che una risata diabolica e folle echeggiò nel penitenziario, facendo tremare anche l’animo dei più coraggiosi.
Nicole si sentì pervadere da un formicolio convulso e prima che potesse accorgersene aveva già spinto il pezzo di muro rifugiandosi nella cella dei Dalton.
“Che ci fai qui? Hai avuto un incubo?” si informò Averell reprimendo uno sbadiglio.
“Non hai sentito quella risata satanica? Bert è completamente pazzo!” squittì Nicole tremando.
“No che non l’ha sentita, appena ha toccato il letto si è addormentato” spiegò Jack, spaventato come lei e i restanti due fratelli.
 Qualcuno bussò alla porta della cella dei Dalton e Joe andò ad aprire.
“Venite! La macchina è pronta!” sussurrò Bert, che tratteneva a stento la felicità.
Nicole, Jack e William erano restii, ma Joe li obbligò senza tanti complimenti e si inoltrarono nel corridoio.
La cella di Bert era in fondo. Lo scienziato spinse la porta con malcelata trepidazione, rivelando al centro della stanza un grosso oggetto coperto da un telo.
“È quella?” domandò Joe a bassa voce.
“Sì!” rispose Bert. Estremamente soddisfatto, entrò nella cella e, con un gesto plateale, tirò via il lenzuolo dalla macchina dei sogni. La quale si rivelò essere un letto dentro una campana di vetro scintillante, attraversata da svariati tubi e fili elettrici.
I Dalton e Nicole, incuriositi, si avvicinarono per osservarla meglio.
“È splendida, vero?” disse Bert con aria estatica. “È da quando mi sono laureato che sogno di costruirla…finalmente ho raggiunto lo scopo della mia vita!”
“Sì, molto bello, ora noi…” iniziò Joe desideroso di andare subito al sodo, ma Bert continuò:
“Non avete idea di quante ore ho passato lavorandoci su! Ogni tanto mi accorgevo di aver sbagliato, così dovevo stracciare tutto il progetto e ricominciare daccapo! Era uno strazio!” Sbuffò, poi si rivolse ai Dalton e Nicole.
“Allora, chi la vuole provare?”
Tutti e cinque fecero finta di niente guardandosi la punta delle scarpe e sperando che qualcuno si facesse avanti presto.
“Averell, vai tu” ordinò Joe dopo aver constatato che il fratello non si sarebbe offerto volontariamente.
Nicole si fece istintivamente avanti.
“No! Vado io!”
I Dalton e Bert la guardarono interrogativi.
“Guarda che se vuoi vado io…” si schermì Averell.
“No, no, lascia stare…” borbottò lei e si rivolse a Bert.
“Beh, che devo fare?”
Lo scienziato si illuminò.
“È molto semplice, devi solo sdraiarti sul letto e dormire” spiegò indicando la campana di vetro che mandava bagliori. “La macchina farà il resto.”
Nicole annuì e fece due passi verso la macchina, poi ebbe un’intuizione e si girò.
“Ma…ecco, non ho sonno!”
Ber sogghignò in un modo che non piacque a nessuno dei presenti.
“Lo avevo previsto. Ta-daan!” esclamò cavando di tasca una boccetta piena di uno strano liquido e un cucchiaino. “Una cucchiaiata di questo sonnifero e ti ritroverai catapultata in men che non si dica nel mondo dei sogni!”
Sonnifero? Aveva un bruttissimo suono. Perché, si chiedeva Averell, non aveva insistito per andare lui? Nicole non avrebbe dovuto bere quel…coso!
Con il cuore a mille e ignara dei pensieri di Averell, Nicole aspettò che Bert aprisse la campana di vetro e si sedette sul letto.
Lo scienziato aprì la boccetta e versò un po’ di sonnifero nel cucchiaino, dopodiché, ghignando, lo accostò alle labbra della ragazza, la quale aprì la bocca e lo inghiottì.
Fece appena in tempo a pensare che aveva un sapore orribile che la vista le si confuse e stramazzò sul letto addormentata.
“Perfetto!” esclamò Bert, sotto lo sguardo attonito dei fratelli Dalton.
Balzò atleticamente di lato e chiuse la campana di vetro, con Nicole dentro che somigliava tanto a Biancaneve dopo aver morso la mela avvelenata.
“Ora dobbiamo solo aspettare che sogni! Non so precisamente come, ma quello che accade nel suo sogno accadrà anche qui!” spiegò trepidante.
I Dalton assentirono e si misero ad aspettare, fissando Nicole nella campana di vetro. Ora che la stavano guardando bene, si accorsero che i tubi e i fili metallici erano percorsi da uno strano e quasi impercettibile bagliore di luce, che si intensificava man mano che passava il tempo.
Dopo svariati minuti, improvvisamente la cella sparì e il buio li avvolse, causando urla di paura e di sorpresa.
“Bert! Che diavolo succede?!” strillò Joe.
“Ssshh! Il suo sogno si sta avverando!” replicò lo scienziato, anche se era un bel po’ spaventato anche lui.
Il buio si dissolse, lasciando spazio a una grande sala di pietra, senza quasi luce, con armature, statue e arazzi medioevali alle pareti. Un’ampia scala coperta da un tappeto nero era sul lato opposto.
La campana di vetro, notarono tutti con terrore, era vuota. Dov’era finita Nicole?
La risposta arrivò subito. La ragazza correva giù per la scala rischiando di rompersi l’osso del collo, inseguita da un enorme drago nero che sputava fuoco.
“Nicole!” urlarono i Dalton.
“Aiuto!” replicò lei facendo gli ultimi gradini a due a due.
Il drago si alzò in volo e gettò una fiammata su di loro. I Dalton e Bert scapparono da tutte le parti e si convinsero che era meglio fuggire di lì.
Ma nella stanza non c’erano altre porte!
“Bert!” urlò Joe balzando a destra e a sinistra per evitare le fiammate. “Ti sei divertito abbastanza, ora stacca quella macchina infernale! Facci tornare indietro!”
“Non posso!” gridò Bert mettendosi fuori tiro. “Questa è la realtà! La macchina ha fatto sì che ci trasportassimo sul piano dei sogni di Nicole! Anche se si svegliasse, rimarremmo qui!”
Joe non gli saltò addosso solo perché in quel momento doveva salvare la pelle, ma si accontentò di promettergli botte.
Mentre i due litigavano, Nicole ebbe un lampo. Non si ricordava affatto che cosa ci fosse sopra la scala, ma forse poteva essere una via di fuga.
“Dobbiamo salire su!” urlò.
Approfittando del fatto che il drago in quel momento non le stava dietro, cominciò a correre a gambe levate verso la scala, seguita dagli altri.
Fecero i gradini di corsa con il drago alle costole e arrivati in cima, videro un  pianerottolo dal soffitto basso, da cui partivano altre due rampe di scale, una grande sulla destra e una molto più stretta a sinistra.
“Di là, a sinistra!” urlò William, intuendo che sulla scala stretta e col soffitto basso il drago non sarebbe potuto passare.
Si lanciarono su per la scala e come William aveva previsto il mostro si incastrò tra i gradini e il soffitto. Si dimenò e ruggì, ma ben presto capì che era una battaglia persa e così se ne andò, salendo su per la scala larga.
I Dalton, Nicole e lo scienziato si lasciarono cadere sui gradini esausti, sospirando di sollievo.
“Grazie William, ci hai salvati tutti” gracchiò Bert con gli occhi stralunati.
“Di niente” borbottò William, che ancora non si capacitava.
Rimasero alcuni minuti seduti sui gradini in silenzio per riprendersi dallo spavento, dopodiché si riunirono per fare il punto della situazione.
“Una domanda, Nicole: ma che sogni fai?!” esclamò Jack che aveva rischiato di finire arrostito più volte.
“Non lo so!” si difese lei. “Non mi capita spesso di avere incubi…”
“Fantastico, proprio quando testiamo quella diavoleria infernale sogni un drago che cerca di ucciderci! Se non è sfortuna questa…” si lamentò Joe.
“L’importante è che nessuno si sia fatto male!” tentò di mettere pace Averell.
“Ha ragione, ora piuttosto pensiamo a come tornare indietro!” tagliò corto William.
Joe lo guardò come se fosse suonato.
“Ma che bisogno c’è? Siamo evasi, no?”
Stavolta toccò a lui essere guardato come si guarda un povero pazzo, stavolta da tutta la congrega.
“Evasi sì, ma nell’universo dei sogni di Nicole, imprigionati in un castello senza via di uscita e per giunta con un drago in giro!” ribatté Jack, poi rabbrividì. “Preferisco il penitenziario che morire arrostito!”
“Anch’io…” gli fecero eco tutti.
“E va bene, volete tornare indietro? D’accordo, torniamo indietro! Ma come?” sbottò Joe.
“Un modo ci sarebbe…” mormorò Bert.
Tutti si girarono verso di lui, con gli occhi pieni di speranza.
“…Basterebbe che qualcuno sognasse il penitenziario nella macchina dei sogni e torneremmo indietro” spiegò lo scienziato un po’ incerto.
“Non è un’idea malvagia, ma è pericolosa” obiettò Nicole. “Se il drago ci sente e torna qui, siamo veramente finiti.”
“In ogni caso, non abbiamo scelta!” esclamò Joe con l’aria di un gran condottiero. “Ma cercate di non sognare il penitenziario!”
“Vuoi andare giù?” domandò Jack incredulo.
“Basterà fare silenzio e il drago non ci sentirà” lo rassicurò il fratello.
Gli altri si convinsero, d’altronde non avevano davvero scelta e, quatti quatti, iniziarono a scendere le scale.
Arrivati in fondo alla rampa, con gli occhi puntati sull’altra rampa tesero le orecchie, caso mai il drago stesse scendendo. Non sentirono nulla, quindi scesero sul pianerottolo e poi le scale che conducevano alla sala.
La macchina dei sogni era lì dove l’avevano lasciata. Riluceva nella flebile luce della sala come un fantasma e aveva un che di inquietante.
Purtroppo, quando i sei avevano appena finito di scendere, Averell starnutì.
Un ruggito terrificante fece tremare le pareti e una serie di tonfi fortissimi fece presupporre che il drago si stesse precipitando giù per le scale in preda alla fame.
Tutti si misero a gridare come pazzi e iniziarono a correre verso la macchina dei sogni.
Bert alzò di scatto la campana di vetro e tirò freneticamente fuori da una tasca il sonnifero e il cucchiaino.
“Chi va?!” urlò stravolto.
Senza por tempo in mezzo Jack saltò sul letto e spalancò la bocca per ricevere la dose di sonnifero.
Mentre il drago balzava sul pianerottolo sputando fiamme, Bert svitò il tappo della boccetta e versò il sonnifero nel cucchiaino, facendone cadere un po’ per terra dalla foga.
Il drago si girò verso di loro e con un ruggito fragoroso si impennò graffiando l’aria con gli artigli. Bert infilò il cucchiaino nella bocca di Jack che cadde addormentato subito, poi sbatté giù la campana di vetro con talmente tanta forza che si incrinò.
Il drago si lanciò nella discesa ruggendo e sputando fiamme con il sottofondo dei Dalton e Nicole che urlavano di paura, ma ad un tratto sparì.
Sparì anche la sala buia, l’eco dei ruggiti del mostro si spense.
I sei si materializzarono sul palco di un saloon gremito. Numerosi cowboys dall’aria poco rassicurante alzavano in aria i boccali di birra, fischiando, schiamazzando e facendo commenti poco educati.
“Jack, e poi dicevi di me che faccio sogni strani…JACK!?” esclamò Nicole sobbalzando.
Il Dalton vestiva un corpetto attillato color rosso acceso senza spalline, una gonna nera corta con numerose sottovesti e un paio di stivaletti con i tacchi alti, in più era vistosamente truccato. Aveva addirittura un neo finto sulla guancia destra.
“Ma cosa…AAH!”
Nicole urlò di nuovo quando vide gli altri Dalton e Bert conciati allo stesso modo.
Con un orribile presentimento, si girò e vide uno specchio posato accanto al tendone, e constatò con immensa vergogna e spavento che la sua immagine era quella di una ballerina da saloon particolarmente in tiro.
“Oh no, dobbiamo andarcene immediatamente di qui! Dov’è la macchina dei sogni?!” strillò in preda a un attacco isterico.
“Non vorrete lasciarci così in fretta, bellezze!” urlò un tipo dalla prima fila. “Siete appena arrivate…”
“Macché bellezze!” sghignazzò un altro indicando i Dalton e Bert. “Quelle quattro lì sembrano degli uomini!”
“Aspettate un momento!” intervenne un terzo, evidentemente un attento osservatore. “Ma sono degli uomini! Hanno persino i baffi!”
Il pubblico iniziò a urlare deluso e a gettare pomodori marci addosso ai poveri Dalton e Bert (Nicole fu graziata in quanto femmina autentica) e dovettero rifugiarsi dietro le quinte, inciampando più volte a causa dei tacchi.
“Non mi sono mai sentito tanto ridicolo in vita mia! Jack, mi vergogno di te! Che razza di sogni fai?!” sbraitò Joe cercando qualcosa da sbattere in terra per la rabbia.
Jack balbettò qualche parola di scusa, ma Bert interruppe la discussione.
“Ha ragione Nicole, siamo inguardabili con questa roba addosso, dobbiamo andarcene di qui subito! Ma dove diavolo è finita la macchina?!”
La trovarono dietro alcuni attaccapanni pieni di vestiti di scena e Averell si offrì di usarla.
“Ogni notte sogna la mamma, quindi probabilmente ci porterà da lei!” dichiarò Joe mentre il fratello si sedeva sul letto.
Bevve la sua razione di sonnifero e cadde addormentato, e in pochi minuti la quinta scomparve.
I sei si ritrovarono nella foresta pluviale. L’aria era umida, faceva frescolino e le enormi foglie degli alberi oscuravano i raggi del sole rendendo l’ambiente buio.
“La mamma, eh?” disse Jack sarcastico.
“La mamma? Come, dov’è la mamma?” domandò Averell guardandosi intorno.
“Non certo qui” grugnì Joe, furibondo.
“Beh, tanto vale riprovare” disse Bert alzando la capsula. “Chi vuole andare, stavolta? Sono rimasti solo Joe e William. Oh, e me.”
“Vado io!” si offrì William.
“Ti prego, sogna la mamma!” lo supplicò Averell con i lucciconi.
William promise e si sottopose alla procedura.

“No! No! NO! Ma che male ho fatto mai, per avere dei fratelli così cretini?!” urlò Joe inferocito. E, una volta tanto, Averell era d’accordo con lui.
“Mi aveva promesso che avrebbe sognato la mamma! E invece no! Uffa!” si lamentava.
William aveva sognato una biblioteca piena di libri scientifici e ora si aggirava tra gli scaffali estasiato, prendendo ogni tanto un libro con gli occhi che luccicavano.
Jack e lo scienziato non sapevano che fare, mentre per calmare Averell dovette intervenire Nicole.
“Ci rimangono ancora Joe e Bert” disse, cercando di apparire fiduciosa. “Sicuramente uno di loro sognerà la mamma.”
Averell si asciugò le lacrime.
“Speriamo” mormorò.
Joe saltò sul letto.
“Su, dammi quel sonnifero, sennò quello non finisce più di piangere!” esortò Bert.
Bert eseguì e Joe cadde addormentato.
La biblioteca si dissolse, con grande disappunto di William, e si ritrovarono nel deserto.
La sabbia si stendeva a perdita d’occhio, il cielo azzurro e terso metteva inquietudine e qualche cactus si ergeva solitario.
“Beh, siamo liberi” borbottò Jack. “Ma non sappiamo dove siamo.”
Gli altri annuirono sconcertati.
“Forse io posso darvi una mano” disse una voce ben nota alle loro spalle.
Si girarono di scatto e l’espressione dei Dalton, specialmente quella di Joe, diventò sgomenta e arrabbiata.
Dietro di loro, in groppa a un cavallo bianco, c’era un cowboy dai capelli neri, che li fissava divertito masticando un ciuffo d’erba.
Joe esplose letteralmente.
“NO!” gridò, il viso stravolto. “NO! LUCKY LUKE NO! TI ODIO, VAI VIA! HO DETTO SPARISCI DALLA MIA VISTA! TUTTO MA NON LUCKY LUKE! QUEL DANNATO COWBOY NOOOOO!!!”
Gli altri fecero un balzo indietro dalla paura. Nicole si attaccò atterrita ad Averell e Bert aprì la campana di vetro, si gettò sul letto, tracannò quello che restava del sonnifero e con le ultime forze la chiuse.
Il sorriso di Lucky Luke scomparve insieme al deserto.

I sei si materializzarono…sul piazzale del penitenziario.
Il sole stava sorgendo, tingendo di azzurro il cielo che fino a poco prima era stato blu. Poche nuvole accompagnavano l’astro del giorno nella sua rinascita.
Era uno spettacolo meraviglioso.
I sei, straniti e con le occhiaie, si radunarono.
“Siamo tornati a casa” mormorò Nicole. Le tante emozioni provate l’avevano svuotata di ogni energia.
Joe venne preso dall’agitazione.
“Possiamo ancora andarcene!” esclamò febbrilmente. “Presto Bert, dammi il sonnife…”
Si sentì un piccolo scoppio e un rumore di vetro che si infrange. Una vite rotolò ai loro piedi.
Calò un silenzio gelato, e con una lentezza che tradiva la paura, si girarono tutti verso la macchina dei sogni.
Purtroppo il peggio era accaduto. Della stupefacente invenzione di Bert rimanevano solo i cocci, simbolo inesorabile della loro ennesima disfatta.
“Oh, no…” esalò lo scienziato precipitandosi sulla macchina.
Quando vide che non c’era più nulla da fare, scoppiò in singhiozzi, mentre i costernati Dalton e Nicole provavano a consolarlo con pacche sulle spalle.
“Era il lavoro di una vita!” piangeva il povero Bert. “Probabilmente si è rotta perché l’abbiamo usata troppo…”
“Non preoccuparti, Bert…” cercò di tirarlo su Nicole. “La ricostruirai…”
“Sì, ma ci metterò anni…”
In quel momento suonò la sveglia e una mandria di detenuti uscì sul piazzale diretta di corsa alla mensa.
Bert si alzò asciugandosi le lacrime con una manica.
“Beh, che ne dite…Andiamo a fare colazione anche noi?” domandò con un sorriso, come per ringraziarli di aver provato a consolarlo.
I Dalton e Nicole assentirono e cominciarono a camminare.
È strano, pensò Averell. Avrebbe voluto impedire che i sogni di Nicole fossero incubi, ma non sapeva né perché né come fare.

 

…Uno, due, tre, prova…
Boh, non è poi così difficile scrivere con queste diavolerie moderne. Computer, bah!
Cari lettori di The Dalton Story, sono Joe e ho preso momentaneamente possesso del computer di Martyna mentre lei è andata un attimo in bagno…
Per prima cosa voglio dirvi che le dispiace immensamente per il ritardo. Si è scervellata, ha scartato almeno ventiquattro idee perché non erano convincenti, ci ha provato insomma, finché non le è venuta questa idea (balorda).
È appunto di questo che volevo parlarvi. Perché non ci fa evadere una volta per tutte? Perché mi costringe ad essere uno dei protagonisti di questa storia con un contratto che mi ha estorto ingannandomi con quella faccetta d’angelo?
Se avete un minimo di cuore, ditele che deve farci evadere! Oh, e di smettere di farla passare liscia a Nicole! Sarà divertente, ma è snervante!
Ora vi saluto, perché se Martyna mi scopre a toccare il suo computer mi sbatte la testa sulla tastiejfheqwoef2048ty4hieqaod fhrw3irhghihwihvbi3ghgvudw0roKIRVGIBwr3gh8incnowhuigfepoIFFIERIEDFNIFCKD34ir4euvgbeiqbnwipr0fwviebpodbhpirwhb0peiffd

 

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Capitolo 11
*** Maledetto telefono ***


MALEDETTO TELEFONO


 


Seduta alla sua scrivania, la signorina Betty consultava alcuni cataloghi e dépliant che avrebbero potuto farle comodo per i suoi seminari.
Cercava qualcosa che fosse nuovo e frizzante, in grado di spezzare la monotonia dell’ambiente del penitenziario. Infatti, si era accorta che da qualche tempo i detenuti mettevano musi più lunghi del solito, cosa che aveva attribuito alla ripetitività delle giornate.
Scartò il dépliant di un tipo che vendeva attrezzi da giardinaggio e quello di un grossista di corde, finché le capitò in mano un foglio di colore blu elettrico.
L’innovazione del futuro, recitava una scritta rossa a caratteri cubitali. Sul lato destro, c’era la fotografia di un giovane uomo dal sorriso smagliante che teneva in mano un oggetto rettangolare con uno schermo illuminato. Lo schermo recava una data e un’ora su uno sfondo che rappresentava una valle.
Telefoni cellulari del prof. Marty Koper. Telefonate, messaggi, giochi e applicazioni in pochi centimetri, continuava la scritta.
Betty sobbalzò sulla sedia. A parte il fatto che il prof. Marty Koper era davvero bello, ma aveva addirittura inventato un telefono piccolo e portatile, al posto di quei pietroni che non si potevano spostare!
Poteva essere un buon stimolo per i detenuti? Forse telefonando e mandando messaggi avrebbero aumentato la propria confidenza con la tecnologia e i giochi e le applicazioni di cui parlava il dépliant erano educativi.
Betty era ormai convinta. Alzò la cornetta del telefono (“addio, monolite” pensò), compose il numero e aspettò che il centralino la mettesse in linea con il professore.

L’indomani, una diligenza entrò nel penitenziario. Due uomini robusti scaricarono una cassa piena di scritte “FRAGILE” sotto lo sguardo incuriosito di tutti.
“Quindi lì ci sono i cellulari?” domandò Peabody preoccupato a Betty. “Le dirò, signorina, ho accettato di comprarli perché lei sembrava tanto convinta, ma non mi fido molto di queste diavolerie moderne…”
“Ehi! Quella era la mia battuta!” esclamò Joe irritato, al quale faceva ancora male il cranio per le capocciate sulla tastiera del computer di Martyna.
 “Su, non sia così diffidente! Pensi che stimolo può essere per i nostri detenuti!” ribatté Betty, che aveva gli occhi lucidi per quella magnificenza.
Dopo che i due tizi ebbero aperto la cassa, la signorina dai capelli arancioni ne tirò fuori una scatoletta che conteneva il famigerato cellulare.
La aprì e mostrò il dispositivo ai detenuti, tra i quali serpeggiò un mormorio interessato.
“Questo è il telefono cellulare!” iniziò, tutta emozionata. “Ne riceverete uno a testa. Una volta acceso, potrete telefonare e inviare messaggi a tutti quelli che lo possiedono! Inoltre, è possibile scaricare applicazioni e giochi!”
Risuonarono applausi e fischi. Quella diavoleria moderna sembrava molto più interessante del previsto.
I detenuti si misero in fila per ricevere il loro cellulare e la scheda SIM. Dopo averla inserita, tutto il piazzale risuonò delle musichette di accensione.
“Wow! Guarda, Joe! Si è acceso!” disse Averell eccitato.
“Sì, anche il mio si è acceso” brontolò il fratello, pensando se avrebbe potuto servirsene per scappare.
Jack e William cercavano di indovinare quali sistemi elettronici lo facessero funzionare, mentre Nicole guardava il suo un po’ intimorita, finché non apparvero tre colonne di numeri.
Le fissò senza capire.
“Ehm…Cosa devo fare ora?” domandò ad alta voce.
“Ora deve digitare i quattro numeri che troverà nel foglietto dentro la scatola della SIM” le spiegò Betty, che girava tra i detenuti per aiutarli. “Mi raccomando, li impari a memoria! Deve digitarli ogni volta che accende il telefono.”
“Ah, grazie!” Nicole frugò nella scatolina e trovò un foglietto con una patina argentata. La grattò e, come per magia, apparvero quattro numeri.
“Uno…Due…Tre…Quattro…” mormorò mentre li toccava.
“Accidenti, che codice difficile!” commentò Averell. “Anch’io non credo che riuscirò a imparare il mio…” borbottò pensieroso.
“Se vuoi, puoi dirmelo e me lo chiedi quando ne hai bisogno” si offrì lei.
“Sarebbe fantastico!” esclamò Averell illuminandosi.
“Va bene!” gli fece eco Nicole sorridendo. “Dimmi il tuo codice!”
Averell sbirciò sul foglietto.
“Zero zero zero zero!” enumerò.
Nicole, sbigottita, si chiese quanto potesse essere difficile ricordarsi un codice simile, ma si guardò bene dal dire qualcosa.

In capo a una settimana, tutti i detenuti diventarono maghi del cellulare.
Non c’era detenuto che non si fosse scaricato almeno una decina di app, tra cui ovviamente WhatsApp. Anzi, avevano addirittura creato il gruppo del penitenziario.

Albert
Raga k facciamo oggi al seminario????? XD lol

Jonas
Boh é.è

Signorina Betty
Studieremo le coccinelle! :D

avverrel
le cocinele porrtano fortuna

Signorina Betty
Signor Averell, credo intenda dire “le coccinelle portano fortuna” ;)

avverel
grazzie

Nicole
*audio*

William
Nicole k hai dtt?????????? Nn si kapisce nnt :O

Nicole
Scs sn in lavanderia e ming sta ascoltando musica ù.ù

Ovunque nel penitenziario si poteva vedere gente attaccata al telefonino che mandava messaggi, si faceva selfie, registrava audio, giocava o condivideva foto e video.
Nelle celle, in mensa, persino mentre spaccavano le pietre, gli occhi di tutti erano incollati al cellulare. Anche le guardie, anche Peabody, anche Ming.
La magia del telefono aveva ammaliato tutti.

Dopo qualche tempo, mentre Joe si trovava davanti al portone, la batteria del suo cellulare si scaricò.
Il Dalton fece una smorfia seccata. L’unica cosa brutta di quel gioiellino era che si scaricava veramente troppo in fretta e ora sarebbe dovuto andare in cella a ricaricarlo.
Alzò lo sguardo e vide il portone, sorvegliato come al solito da Pitt ed Emett…i quali si stavano facendo un selfie dopo l’altro.
Allora in Joe si risvegliarono gli antichi istinti pre-telefono, quando era ancora un duro criminale rinchiuso in carcere che tentava di evadere ad ogni piè sospinto.
Ebbe un fremito di rabbia: da ormai più di due settimane quel maledetto coso lo aveva ipnotizzato facendogli dimenticare l’evasione! Come aveva potuto essere così stupido!?
Joe sentì una gran voglia di tirarsi dei pugni in testa, ma a vedere le due guardie in quello stato gli venne un’idea.
Corse alla sua cella, dove sapeva di poter trovare i suoi fratelli e Nicole, e in effetti li trovò, appiccicati al telefono.
Jack si faceva selfie, William stava cambiando il suo stato di WhatsApp e Nicole e Averell messaggiavano tra loro, con un cuoricino rosso alla fine di ogni frase.
“Ehi!” sbraitò Joe.
“Mh?” fece Jack ragionando sulla posizione da prendere per farsi l’autoscatto.
“Ma vi siete accorti che a causa di questo affare diabolico non abbiamo più provato ad evadere?” sbottò Joe mentre attaccava l’affare diabolico alla presa per ricaricarlo.
Gli altri sobbalzarono.
“Hai ragione!” esclamò William guardando preoccupato il suo telefono.
“Come abbiamo potuto non accorgercene?” domandò Nicole.
“Evidentemente questo coso era stato appositamente progettato per distrarci in modo che non potessimo più evadere” azzardò Joe. “Ma l’importante è che ora ce ne siamo accorti…grazie a me.”
“Hai un piano per caso?” volle sapere Jack.
“Certo” gongolò Joe. “Ho notato che anche le guardie sono prese dal cellulare. Probabilmente non se ne accorgeranno se gli prendiamo le chiavi e scappiamo!”
Gli altri si guardarono tra loro, speranzosi.
“Potrebbe funzionare…”
“Posso mandare un messaggio sul gruppo per salutarli?” chiese Averell tutto allegro.
“NO!” strillò Joe. “Ci faresti scoprire!”
Averell alzò le spalle, facendo finta che non gliene importasse niente.
“Allora, andiamo?” sollecitò William.
Joe esitò.
“Ehm…Forse è meglio lasciare che i cellulari si carichino, prima di iniziare…” disse timidamente.
“Beh, in fondo non è una cattiva idea. Del resto, potrebbero servirci” approvò Nicole mettendo in carica il suo.
Joe sospirò di sollievo.

Mezz’ora dopo, i cellulari erano carichi, così i Dalton e Nicole li staccarono dalla presa e uscirono sul piazzale.
Pitt ed Emett erano ancora dietro a farsi autoscatti con le facce più stupide di questo mondo, talmente presi da non accorgersi da quello che accadeva all’esterno del telefonino.
I cinque si avvicinarono prudentemente. Non dovevano essere troppo precipitosi, altrimenti le guardie si sarebbero accorte di loro.
Emett aveva la chiave del portone attaccata alla cintura, esattamente alla portata di Joe. Il Dalton si accostò a lui e, con cautela per non farsi scoprire, riuscì a sfilarla, aprì lentamente il portone e s’infilò fuori, subito seguito dai fratelli e Nicole. 
Il deserto giallo del Nevada si stagliava davanti a loro, una promessa di libertà che finora non aveva  mai mantenuto. Avvertirono di nuovo il solito brivido destinato a tramutarsi in delusione, sperando che quella volta non dovesse farlo.
Senza parlare per non far capire che erano usciti, camminarono per qualche centinaio di metri davanti a loro, poi Joe ruppe il silenzio.
“Siamo liberi!”
Cominciarono a correre e urlare di felicità, ormai quasi sicuri di avercela finalmente fatta.
Ad un certo punto, videro cinque sagome stagliarsi all’orizzonte. Anche loro stavano correndo e gridando e, a guardarli bene, avevano un’aria molto familiare.
“Ehi, ma sono i nostri sosia!” esclamò Nicole, riconoscendo i loro gemelli indiani con i quali avevano vissuto un’avventura non tanto tempo prima.
“Hai ragione! Ehilà, ragazzi!” urlò William agitando un braccio.
I cinque indiani li videro.
“I sosia bianchi!” esclamò Falce di Luna.
Cominciarono a corrersi reciprocamente intorno, come avevano fatto la prima volta che si erano incontrati, e quando si raggiunsero ci furono grandi feste.
“Quanto tempo!” disse Aquila Scaltra, tutto allegro.
“Come state?” chiese Nicole, felicissima di rivedere Falce di Luna.
Esauriti i convenevoli, si sedettero per terra a chiacchierare.
“Stavate evadendo?” domandò Incubo Orribile.
Joe sogghignò.
“Sì, e penso anche che questa sia la volta buona!”
Tirò fuori il telefonino dalla tasca e gli indiani si avvicinarono per osservarlo meglio.
“Che cos’è? A che serve?” disse Sciacallo Famelico, incuriosito.
“Questo è un cellulare” spiegò Joe compiaciuto. “Serve a telefonare, mandare messaggi e giocare. Ha ipnotizzato tutti al penitenziario lasciandoci via libera! E il bello è che non l’abbiamo ordinato noi!”
“Wow” commentò Mente di Fuoco. “Chissà come funziona…”
“Quando abbiamo attraversato la frontiera, magari ci possiamo studiare su insieme” propose William.
A Joe e a Incubo Orribile venne un lampo.
“Giusto, la frontiera! Sarà meglio muoverci, prima che ci becchino!” esclamò il piccoletto indiano.
Tutti convennero che avevano ragione. Si alzarono e cominciarono a camminare di buon passo, parlando del più e del meno, forse verso la libertà.

Dopo un’oretta di marcia, la sabbia e le rocce del deserto lasciarono spazio all’erba: erano arrivati vicino a un corso d'acqua.
“Oh, che bello!” disse Nicole. “Possiamo rinfrescarci un po’!”
Gli altri annuirono: la calura del deserto era debilitante, anche se ci erano abituati.
Dopo qualche minuto passato a bere, a schizzarsi e a bagnarsi la testa, una voce si levò.
“Ma bene, cosa abbiamo qui?”
I ragazzi alzarono lo sguardo e videro sull’altra sponda del torrente Vero Falco a cavallo, con un’espressione soddisfatta dipinta sul faccione e una corda sottobraccio.
“Scappiamo!” urlò Incubo Orribile lanciandosi in una corsa sfrenata. Gli altri non se lo fecero ripetere due volte.
Vero Falco sogghignò. Alzò lo sguardo al cielo e prese a cantilenare una strana melodia.
I Dalton, Nicole e i sosia sentirono che correre stava diventando sempre più faticoso. Era come correre nei sogni: ci si sforza di andare veloce ma le gambe sembrano intorpidite. Ben presto si ritrovarono tutti immobilizzati.
Soddisfatto, Vero Falco spronò il cavallo e attraversò il fiume, raggiungendoli. Smontò, li mise in fila e cominciò a legargli le mani.
“È inutile che mi guardiate così” sghignazzò. “Dovreste essere abituati al fatto che non riuscite mai a scappare. E, per l’amor del cielo, almeno smettetela di portare con voi Falce di Luna e Nicole!”
Joe ed Incubo Orribile digrignarono i denti mentre lo sciamano rimontava a cavallo con la corda in mano. Gli altri si limitarono a guardarsi tra loro, desolati, e cominciarono a tornare indietro.

Un’ora dopo, al villaggio indiano, i Dalton e Nicole erano chiusi nella tenda dei loro sosia insieme a loro, aspettando che le guardie del penitenziario li venissero a prendere.
“Questo è uno dei più grandi fiaschi che abbia mai fatto in vita mia!” si lamentò Joe.
“Già, proprio ora che avevamo il piano perfetto…” rincarò Jack. “Il telefono ha distratto le guardie in modo tale che non si accorgessero di noi! Ma non abbiamo tenuto conto degli indiani…”
“Posso vedere il telefono?” chiese Falce di Luna.
Nicole le diede il suo e la ragazza indiana iniziò a studiarlo, rigirandoselo tra le mani e aprendo le varie app.
“Non leggere i messaggi però!” raccomandò Nicole preoccupata.
“Tranquilla, tanto ho capito tutto” la rassicurò Falce di Luna, restituendoglielo, e si rivolse ai Dalton.
 “Se convincete la signorina Betty a fornirne uno anche a noi indiani, tutti si distrarranno come è successo al penitenziario e avremmo via libera!” disse.
“Ehi! Non male come idea!” saltò su Nicole, fiera della sosia.
“Sì, sì, molto bella, ma qui i piani li faccio io!” sbottò Incubo Orribile, irritato.
“Sei solo invidioso perché lei ha più sale in zucca di te!” la difese Sciacallo Famelico.
“Grazie, insomma…” si schermì Falce di Luna, arrossendo.
“Si può fare! Se riusciamo a convincere Betty, ve lo facciamo sapere. Vi lascio il mio telefono, così vi mandiamo un messaggio” disse William, e passò il suo telefono a Mente di Fuoco.
“A volte vorrei avere io il tuo spirito di sacrificio…” sospirò Jack.
La porta della tenda venne scostata e le facce annoiate di Emett e Pitt fecero capolino.
“Forza, fratelli Dalton, uscite! Mi si sta scaricando il cellulare…” li esortò Emett.
I Dalton e Nicole uscirono dalla tenda, strizzando di nascosto l’occhio ai loro sosia, e seguirono le due guardie verso il penitenziario.

Quella sera, i cinque si radunarono nella cella dei Dalton attorno a Joe. Il piccoletto aveva in mano il telefono e picchiettava lo schermo con il pollice per l’ansia.
“Dite che ci cascherà? Fra tutti, è quella che è rimasta più indipendente dal telefono” disse.
“Almeno dobbiamo provare” sentenziò William, che aveva fretta di riavere il suo cellulare. “Se non altro finirà come le altre volte.”
Joe si convinse. Aprì WhatsApp, cercò la conversazione con la signorina Betty e scrisse:

Signorina betty, ho pensato xkè nn dare anke agli indiani un cell?

La risposta non si fece attendere.

Potrebbe essere un ottimo mezzo per fargli prendere confidenza con la tecnologia! È una splendida idea!

I Dalton e Nicole tirarono un sospiro di sollievo. Potevano farcela.
Joe inviò un messaggio ai sosia indiani (cioè a William) per avvertirli che la loro idea aveva avuto successo e la serata proseguì.

Due giorni dopo, mentre erano in cella dopo mangiato, a Jack arrivò un messaggio.

00000123
Abbiamo i cell!!!!!!!!!!!! Gli altri sn tt ipnotizzati!!!!!! By aquila skaltra XDXDXD lol :D:D:D spakkano trp!!!!!!!!!!!!!

Jack si affrettò a rispondere:

Ok bro, adesso arriviamo ;D

Si mise il cellulare in tasca e chiamò gli altri.
“Ragazzi, i sosia hanno i telefoni! Possiamo andare!”
I fratelli saltarono giù dalle brande, chiamarono Nicole e uscirono dalla cella.
Si mossero con cautela come la volta precedente, in modo da non distrarre nessuno che fosse attaccato al cellulare, e arrivarono sul piazzale.
Pitt ed Emett si stavano facendo autoscatti come sempre, così non fu tanto difficile rubare la chiave e uscire.
Corsero come pazzi fino a che non videro i cinque indiani, anche loro in corsa, che brandivano dei cellulari.
“Al villaggio nessuno può staccarsi da questi gioiellini! Ma chi è il genio che li ha inventati?!” esordì Incubo Orribile, contentissimo.
Si scambiarono velocemente i numeri e senza aspettare un altro minuto si diressero in fretta verso la frontiera.
Per lungo tempo camminarono senza sosta, superarono il fiume della volta precedente approfittandone per bagnarsi la testa e farsi selfie nelle posizioni più stupide.
Camminarono, camminarono e ancora camminarono. Camminarono finché non videro un grande cartello di legno con una scritta di vernice rossa.
 

 MEXICO
 

“Ce l’abbiamo fatta!” urlò Joe al settimo cielo. “Siamo evasi, non torneremo più al penitenziario!”
“Urrà!!” I dieci piantarono una cagnara assurda, iniziarono a saltare, abbracciarsi, ridere e fotografare il cartello, in preda ad una felicità incontenibile.
Come ultimo atto nel Nevada, si fecero una foto di gruppo con il cartello alle spalle, e la inviarono ai gruppi del penitenziario e del villaggio indiano con la didascalia “SIAMO FUGGITI, ALLA FACCIA VOSTRA! XP”
Ma non appena la foto fu inviata, il cellulare di Nicole si spense.
“Oh, no!” esclamò. “Si è scaricato…”
“Hai il caricabatteria? Magari da qualche parte c’è una presa…” azzardò Averell.
Nicole impallidì.
“L’hai lasciato in cella?” chiese Jack, per poi sobbalzare. “No! Anch’io ho dimenticato il mio!”
“Penso che il mio abbia avuto la stessa sorte!” intervenne Sciacallo Famelico, che aveva solo pensato di portarsi dei panini.
Anche gli altri si accorsero di non avere portato il loro caricabatteria, e la felicità che avevano provato un attimo prima svanì completamente, lasciando il posto a un panico incontrollato.
“Come faremo a sopravvivere, con i cellulari scarichi?!” strillò Falce di Luna.
“Dobbiamo tornare indietro e prendere i caricabatteria!” ruggì Joe, e si misero a correre a perdifiato verso dove erano venuti.

“Per l’ennesima volta, spegnete quei telefoni e fate attenzione!” stava urlando la signorina Betty, rossa in viso.
Era l’ora del seminario, e nessuno dei detenuti pareva essere minimamente interessato a seguire. Continuavano a messaggiare e fare foto in giro, facendo sorgere alla signorina qualche dubbio.
Da quando aveva fatto recapitare i cellulari al penitenziario, i detenuti non se ne erano più staccati. Spaccavano le pietre a rilento, non parlavano quasi più tra loro e facevano sempre meno attenzione ai suoi seminari. Tutte cose che le fecero pensare se aveva fatto bene a introdurre quella  nuova tecnologia.
Certo, avrebbe potuto essere utile per comunicare a distanza, ma così stava degenerando! Betty si disse che probabilmente aveva fatto male i suoi conti e quel cellulare per il momento era solo un gingillo poco educativo.
“Su, basta adesso con quel telefono! Datemeli tutti, forza!” esclamò risoluta.
“Cosa?!” Finalmente i detenuti si staccarono un attimo dall’attrezzo.
“Vi sta facendo male” decretò Betty. “Se non me li date di vostra spontanea volontà me li verrò a prendere io!”
E, non ricevendo risposta positiva, iniziò a girare tra le panche strappando di mano i telefoni ai detenuti, molti dei quali si misero a piangere.
Betty ripeté l’operazione anche con Pitt ed Emett, Peabody e Ming, e non si risparmiò nemmeno il suo.
Si diresse ai cassonetti della spazzatura e si liberò di tutti i telefoni.
“Oh, evviva!” esclamò, sfregandosi le mani.
In quel momento, i Dalton e Nicole entrarono come furie nel penitenziario sfondando il portone, con i telefoni in mano, urlando come pazzi dalla disperazione.
Appena li vide, Betty ebbe un lampo.
“Mi sembrava che mancassero…Comunque non saranno risparmiati!” disse tra sé, aggrottando le sopracciglia.
Li raggiunse e si parò loro davanti, facendoli frenare bruscamente.
“Favorite i cellulari, fratelli Dalton! Da oggi, non se ne parlerà più!” disse, con voce perentoria.
Alla loro reazione muta e stupita, aggiunse:
“E sarà il caso che vada anche a trovare i Braccia Rotte, prima che degenerino anche loro!”
I Dalton e Nicole erano troppo esterrefatti per reagire. Si lasciarono togliere i cellulari senza nessuna resistenza, e rimasero a contemplare Betty che li buttava nel cassonetto.
“…Che è successo?” borbottò Nicole.
“È successo che non siamo evasi neanche questa volta!” sbraitò Joe.
“Che smacco sarà per i sosia…” mormorò Jack pensieroso.
“Ci ha pure tolto i telefoni!” aggiunse William.
“Beh, forse ci stavamo attaccando troppo” disse Averell sorridendo. “E poi, non era divertente mandare i messaggi alle persone che stavano a un metro da te! A proposito, Nicole…”
“Sì?” incalzò lei.
Averell tentennò un po’.
“Ti…va se ci sediamo vicini al seminario?”
“Oh, certo!” replicò lei, che era arrossita.
Gli altri tre Dalton li fissarono con un’espressione indecifrabile, mentre se ne andavano felici e contenti.

 

La casa era buia. L’orologio ticchettava ed era l’unico rumore che si poteva sentire, rendendo l’atmosfera insopportabilmente spaventosa.
Martyna sapeva che di lì a poco avrebbe visto il Male incarnato. Deglutì e si terse il sudore freddo dalla fronte, cercando una via di scampo.
Passare normalmente dalla porta era semplicemente un suicidio, dato che LUI avrebbe fatto lo stesso percorso per entrare.
Non poteva uscire dalla finestra perché era al quarto piano e non c’era tempo di strappare le strisce del lenzuolo e legarle per formare una corda. Chiamare la polizia? Sarebbe arrivata certamente troppo tardi.
Martyna doveva rassegnarsi. Non poteva fuggire al suo orribile destino.
Eppure, ci doveva essere un modo! C’è sempre, un modo per cavarsela!
Il portone dell’appartamento, con uno scricchiolio da gelare il sangue, cominciò ad aprirsi con una lentezza quasi irreale.
Martyna trattenne a stento un urlo. Era spacciata.
Febbrilmente, si guardò intorno e decise di nascondersi nella dispensa. Forse LUI avrebbe pensato che non fosse in casa…
Con il cuore in gola, la ragazza si infilò nello stanzino e si chiuse la porta dietro, mentre il portone si apriva gettando un fascio di luce nella casa buia, una fascio di luce interrotto dalla sagoma di un uomo con un basco storto in testa.
Olivier Jean-Marie.
Il regista.
L’uomo sogghignò diabolicamente ed entrò.
“Martyna? Dove sei?” chiamò, con tono pericolosamente mellifluo.
Dalla dispensa, Martyna sudava freddo e pregava che non la trovasse.
“Oh…oh…Forse non è in casa…” disse Olivier, con un tono così bambinesco che la ragazza si rese conto di essere stata scoperta. Infatti Olivier aprì di scatto la porta della dispensa, con una risata malvagia da far tremare le ossa.
Martyna cadde in ginocchio.
“Ti supplico, risparmiami” mormorò, in lacrime.
Olivier ghignò.
“Avevamo un contratto, mia cara Autrice” iniziò, girandole intorno. “Contratto che prevedeva che aggiornassi una volta al mese circa, contratto che chiudeva un occhio sul primo ritardo. E l’ultima volta che hai aggiornato, l’hai fatto in ritardo. Quest’oggi, è il secondo ritardo.”
Martyna era raggelata. Sapeva a cosa stava andando incontro.
Olivier, invece, era malignamente soddisfatto.
“Ti ricordi cosa prevedeva il contratto, in caso di ritardo ripetuto?” le domandò, prendendole il mento tra indice e pollice.
“Ma…era scritto in piccolo, io…” tentò di difendersi Martyna, ma Olivier la interruppe.
“Avresti dovuto accompagnarmi da McDonald’s e pagare” le ricordò, tronfio come non mai.
A quelle parole, Martyna si rialzò. I denti erano digrignati, gli occhi mandavano lampi.
“Non riuscirai a farmi entrare in un McDonald’s! Sognatelo!” gridò.
Olivier sogghignò nuovamente.
“Pensaci, Martyna…Perché ho un piccolo asso nella manica che potrebbe farti cambiare idea.”
Schioccò le dita. Due omoni della sicurezza entrarono dal pianerottolo, tenendo ferma per le braccia…
“Nicole!” esclamò Martyna, sbarrando gli occhi.
Nicole la guardò impotente, mentre Olivier spiegava:
“Io posso rinunciare alla tua compagnia da McDonald’s…se sarà lei ad accompagnarmi.”
“Non farlo, Martyna, mi sacrifico volentieri…” provò a convincerla Nicole, ma Martyna abbassò la testa.
“No…Nicole, tu non puoi farlo. Non sopravvivresti…” mormorò l’autrice, passandosi una mano sugli occhi. Si rivolse a Olivier, che trasudava soddisfazione da tutti i pori.
“Andiamo pure” disse, con la voce che tradiva una profonda disperazione. “Ma lascia andare Nicole.
Con un risolino malefico, Oliver accennò ai due bodyguards di fare come aveva detto l’autrice.
“È un piacere fare affari con te, Martyna” dichiarò, mentre si avviavano.

 

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Capitolo 12
*** Coltellino milleusi ***


COLTELLINO MILLEUSI

 




Erano circa le otto di sera quando Averell entrò nella cella piangendo a dirotto.
I suoi fratelli, che fino a quel momento erano rimasti sdraiati sulle brande a farsi gli affari loro, sobbalzarono e si sporsero in fuori.
“Che ti prende?” domandò William.
Averell, in lacrime, gli mostrò il pollice: aveva un taglietto dal quale usciva sangue.
“Ti sembra il caso di piangere per una sciocchezza del genere?” sbottò Joe, che era già abbastanza nervoso perché non gli veniva in mente nessun piano per evadere.
“Fa male!” protestò Averell. “Voglio Nicole!”
“Non la mamma?” obiettò Jack, sorpreso.
Non ottenne risposta, il fratello più alto aveva cominciato a strepitare forte, tanto che la loro vicina di cella tolse il pezzo di muro e fece capolino dal buco.
“Cosa succede? Perché piange così?” chiese, con la fronte corrugata.
“Si è tagliato un dito” sbuffò Joe. “E tanto per la cronaca, vuole te.”
Le guance di Nicole si imporporarono. Entrò nella cella dei Dalton e andò a controllare il pollice di Averell.
“Come hai fatto?” domandò piano.
Averell tirò su col naso.
“Ero in bagno, ho trovato un coltellino milleusi sul lavandino…Ho provato ad aprirlo ma mi sono tagliato…”
“Oh, poverino” commentò Nicole. “Ti fa tanto male?”
Averell esitò.
“Beh, non tantissimo, a dire il vero…” confessò.
Mentre i fratelli si guardavano l’un l’altro alzando le spalle, Nicole continuò:
“Forse è meglio che vada a chiedere un cerotto alla signorina Betty. Torno subito.”
E uscì dalla cella.
Jack e William cercarono di dare sollievo al povero Averell, invece Joe iniziò a rimuginare per conto suo, finché non gli venne un lampo e si alzò dal letto.
“Dove vai?” gli chiese William.
“In bagno” rispose, concentrato. “Voglio vedere quel coltellino.”
“Stai attento, è davvero tagliente!” si raccomandò Averell.
Alzando gli occhi al cielo, Joe uscì dalla cella e si ritrovò Pitt ed Emett davanti.
“Joe, non puoi uscire!” esclamò Emett trattenendolo.
“Come, non posso uscire!” protestò il basso Dalton, irritandosi. “Nicole è uscita! Sta andando da Betty!”
“Hai detto bene: sta andando da Betty. Non vuole evadere come te!” sogghignò Pitt, fiero della sua intelligenza.
“Ma devo andare in bagno!” protestò Joe, che cominciava a scaldarsi.
“C’è già andato tuo fratello” gli ricordò Pitt, sempre sogghignando.
“Io non sono mio fratello!” sbottò Joe.
Pitt si rese conto di aver fallito. Scambiò uno sguardo con il compare e si scostarono.
Sospirando di sollievo, Joe si diresse al bagno in fondo al corridoio e chiuse la porta.
Diede un’occhiata al lavandino e vide subito il coltellino incriminato, gettato dentro il lavabo, con una delle lame fuori leggermente sporca di sangue. Probabilmente Averell lo aveva lasciato cadere in preda alle lacrime.
Non gli venne in mente nessuna idea per evadere con l’ausilio di quel semplice coltellino, ma decise di portarselo via comunque. Chiuse la lama e lo nascose nella manica, dopodiché uscì dal bagno.
Pitt ed Emett gli lanciarono uno sguardo sospettoso, ma non dissero niente. Il Dalton entrò nella cella e si chiuse la porta alle spalle.
“Hai trovato il coltellino?” gli chiese William.
Joe tirò fuori l’oggetto dalla manica e glielo diede.
Averell si ritrasse e William osservò il coltellino, aprendo le diverse lame.
“Fammi indovinare: pensi che potrebbe aiutarci ad evadere?” azzardò Jack.
“Certo che sì” rispose Joe, poi si rabbuiò. “Ma non ho idea di come.”
La porta della cella si aprì ed entrò Nicole, che teneva un cerotto in mano.
“Eccomi qui! Vieni, Averell” disse.
Averell, con un grosso sorriso, saltò giù dal letto e la raggiunse. Nicole, con le dita un po’ tremanti, tolse l’adesivo e applicò il cerotto sul dito del Dalton.
“Ecco qua!” disse, sorridendo. “Tra un paio di giorni sarai come nuovo.”
Averell si strinse nelle spalle. “Ma toglierlo fa male…”
“Non preoccuparti, te lo toglierò io, piano piano. Va bene?”
Averell si illuminò. “Certo! Ah, e grazie!”
Nicole si morse il labbro e abbozzò un sorriso, per poi abbassare lo sguardo. Averell fece per avvicinarsi, ma in quel momento Joe saltò su:
“Ho trovato! Potrei minacciare le guardie in modo che ci aprano il portone! Che ne pensate?”
Nicole si tirò bruscamente indietro, arrossendo violentemente. Averell voltò la testa di lato e Jack e William lo guardarono poco convinti.
“Non penso sia una buona idea. Senza contare che loro hanno i fucili, un coltellino non può fargli paura” disse Jack.
Joe dovette ammettere che aveva ragione. Senza contare che lo avrebbero preso per pazzo e rinchiuso in isolamento…
“Ehi, guardate! C’è anche un cavatappi!” esclamò William, estraendo la suddetta lama.
Joe sobbalzò e glielo strappò di mano, facendo nascere negli altri la certezza che gli fosse venuta un’idea.
“Ho un piano! Ruberò una bottiglia di champagne dalla cucina, ci siederemo sopra, la stapperemo con il cavatappi e voleremo oltre il muro! Che ne pensate?” berciò, infatti.
“Stai dicendo che con lo champagne si può volare?” domandò Averell, gli occhi che brillavano.
“Ma sei sicuro che funzioni?” si informò Nicole, con un sopracciglio alzato.
“No, non può funzionare, Joe. A parte il fatto che non possiamo sederci tutti e cinque su una sola bottiglia, ma nemmeno la spinta sarà sufficiente a farci volare.” spiegò Jack.
Averell sospirò, deluso.
“Però, aspetta un attimo…Forse non è un’idea completamente strampalata!” saltò su William.
Sguardi speranzosi lo raggiunsero.
“Sì! Se riusciamo a prendere molte bottiglie di champagne e le leghiamo tutte assieme, forse potremmo farcela…” continuò.
“Può darsi, ma non riusciremmo mai ad aprirle tutte in fretta! Tempo che finiamo, la maggior parte si sarà già svuotata…” obiettò Jack.
“Sentite, decidetevi, la mia idea è valida o no?!” sbottò Joe.
I due cervelloni si scambiarono uno sguardo di intesa e scossero la testa.
“E se scavassimo un tunnel?” propose Nicole.
“Sarebbe la millemillesima volta che ci proviamo e ci scoprirebbero” grugnì Joe sedendosi sul suo letto, ma poi scattò subito in piedi, con un sorriso che gli andava da un orecchio all’altro.
“Ho un’altra idea! Potrei rubare la chiave del portone dall’ufficio di Peabody, farmi sparare fuori con lo champagne e poi aprirvi!” esclamò, sicuro.
Nicole ed Averell si voltarono verso Jack e William, pieni di aspettativa. I due gemelli rifletterono per qualche istante, poi Jack annuì.
“Penso che si possa fare…”
“Splendido!” strillò Joe esaltato. “Allora io vado a rubare la chiave e tu lo champagne!”
“Ma le guardie non vi faranno uscire…” intervenne William. ”Sarà meglio che esca anch’io e li distragga…”
“Giusto, è meglio così” convenne Joe.
Appena Nicole si rese conto di quello che avevano deciso, corrugò la fronte e arrossì un po’.
“Ma scusate, allora io e Averell saremo…insomma, che cosa faremo?” domandò, con la voce malferma.
William sogghignò sotto i baffi, mentre Joe rispondeva:
“Starete qui, mi pare ovvio! Anzi, tu potresti controllare Averell, che non faccia pasticci!”
Nicole tacque e si appoggiò al muro, con lo sguardo basso e le guance in fiamme. Non era affatto sicura di averne voglia.
“Io non faccio pasticci!” puntualizzò Averell con il broncio.
“S, certo, come no…Forza voi due, andiamo! Abbiamo già perso troppo tempo e io voglio evadere!” ordinò Joe.
“Aspettate, noi…” cominciò Nicole mentre l’ansia le afferrava lo stomaco, ma William, che stava ancora sghignazzando, aprì la porta della cella e uscì.
Subito Pitt esclamò:
“Ehi, ma si può sapere perché voi Dalton stasera continuiate ad uscire?! Non è che tramate qualcosa?”
“No, niente, devo andare in bagno!” mentì William, sforzandosi di non ridere per la faccia sconcertata di Nicole.
“In bagno?!” ripeté Emett. “Ma basta! C’è andato Averell, c’è andato Joe, poi è uscita Nicole, ora smettetela! Cioè, avete problemi di vescica?” (N.d.A. sembrano i miei prof…)
“No, dobbiamo solo espletare i nostri bisogni fisiologici” spiegò William incamminandosi verso il bagno.
“Ma è davvero così urgente?” domandò Pitt esausto, mentre si voltavano verso di lui. Approfittando del fatto che non stavano guardando verso di loro, Jack e Joe scivolarono dalla porta aperta e scapparono giù per le scale.
Soddisfatto, William dichiarò:
“Urgentissima.”
Pitt ed Emett si riconobbero sconfitti e lo lasciarono andare. Sospirando, chiusero la porta della cella senza accorgersi che Jack e Joe mancavano e William raggiunse il bagno, trattenendo le risate. Contava di rimanerci un bel po’.

Nicole provò a spingere la porta, invano.
“Ci hanno chiusi” sospirò.
“Lo so, a volte i miei fratelli pensano che non sappia fare niente” disse Averell rabbuiandosi. “Ma non è vero! Io so fare un sacco di cose!”
Nicole stirò le labbra, avendo avuto la prova che Averell non avesse affatto capito la situazione. Ma i restanti fratelli avevano premeditato di lasciarli soli? O era stato solo un caso?
Volevano che uno dei due si dichiarasse?
Si appoggiò alla porta, mentre il Dalton continuava:
“Poi Joe dice sempre che rovino i suoi piani e mi tira gli schiaffi! Ma tu mi difendi sempre…”
“Beh, Joe non può…insomma, sono sicura che non lo fai apposta!” inventò Nicole, non sapendo esattamente cosa dire. Avrebbe voluto andare nella sua cella a riflettere bene, ma non le sembrò una mossa astuta.
“Uffa, Nicole!” sbottò Averell incrociando le braccia.
Nicole lo guardò con un sopracciglio alzato.
“L’hai fatto di nuovo!” brontolò Averell a mo’ di spiegazione.
“Fatto cosa?” indagò Nicole.
“Mi fai vergognare! Succede sempre più spesso! A volte mi vengono pure le farfalle nella pancia, ma giuro che non ho mangiato nessuna crisalide!” raccontò Averell imbronciato come un bambino.
Nicole si sentì mancare.
“Di solito vengono le farfalle nella pancia pure a me” disse in un soffio, “e nemmeno io mangio le crisalidi.”
Averell rimase un attimo interdetto. Poi sorrise.
“Questo vuol dire che ci possiamo fidanzare?” chiese.
Cosa?!”
“Ah, beh, se non vuoi…” fece Averell stringendosi nelle spalle. Si voltò.
“No-oh, ma cosa vai a pensare!” strillò Nicole prendendogli una mano. I loro sguardi si incontrarono e lei arrossì. “C-certo che vorrei fidanzarmi con te. È solo che non mi aspettavo che lo dicessi.”
“Davvero?” Averell si illuminò. “Che bello! Ho una fidanzata…”
“Che bello, ho un fidanzato” gli fece eco Nicole, con un sorriso timido.
Qualcuno entrò sbattendo la porta. Nicole e Averell si staccarono bruscamente e si voltarono verso William, che aveva un ghigno stampato in faccia.
“Bravi, congratulazioni” disse. “Ero andato in bagno apposta per lasciarvi soli.”
“Lo sapevo” mormorò Nicole, con le guance rosse. 
“Mi vergogno…” borbottò Averell.
“Va bene, non lo diremo a Joe e a Jack per il momento” lo rassicurò William. “Adesso pensiamo ad evadere.”

Pochi minuti dopo entrarono Joe e Jack, il primo con la chiave del portone e il secondo con lo champagne.
“Pitt ed Emett se ne sono andati” sogghignò Joe. “Usciamo!”
I cinque guardarono a destra e a sinistra per il corridoio. Non c'era anima viva e non si sentivano rumori, a parte il russare di qualcuno. In silenzio, uscirono dalla cella, scesero le scale e si ritrovarono sul piazzale.
Joe abbracciò la bottiglia.
“Forza, stappatela!” ordinò.
Jack sollevò la bottiglia con il tappo verso terra, William tolse di tasca il coltellino, aprì la lama del cavatappi e la ficcò nel tappo. Strinse i denti e la girò alcune volte, sempre più velocemente.
Ad un certo punto, con un botto la bottiglia e Joe partirono in aria. I restanti Dalton e Nicole lo osservarono alzarsi per alcuni metri, per poi arrivare al punto massimo della parabola. Joe saltò per afferrare il bordo del muro, ma precipitò a terra con la bottiglia che non sparava più champagne.
Joe si rialzò con la faccia deformata. Gli altri si guardarono delusi.
“Ehi!” Una voce si levò da dietro di loro e si voltarono di scatto.
“Che stavate facendo con lo champagne?” domandò Pitt con occhio critico.
“Ecco, noi…ne abbiamo stappato una bottiglia per…” iniziò William. Gli cadde lo sguardo su Averell e Nicole. “…festeggiare Averell e Nicole che…si sono, ehm, messi insieme. Joe è rimasto attaccato e…”
“Averell e Nicole si sono messi insieme?!” Le guardie sobbalzarono.
“Ma noi non…” Jack non fece in tempo a dire altro che William gli tirò una gomitata.
“Shh, si vergognavano” gli sussurrò il gemello.
Pitt ed Emett batterono le mani.
“William, avevi…” iniziò Averell, ma Nicole lo zittì con un’occhiata.
“Complimenti, davvero” disse Emett.
“Aspettate che lo sappia la signorina Betty…” ridacchiò Pitt.


Nella casa risuonava la Caramelldansen. Olivier Jean-Marie, con le mani premute sulle orecchie, entrò in camera di Martyna.
L’autrice saltava, agitava gambe e braccia e cantava inventandosi le parole di sana pianta, in preda ad una pazza gioia.
“Si può sapere cosa succede qua dentro?!” gridò Olivier.
“È FINITA LA SCUOLA, OLIVIER!” strillò Martyna sbracciandosi a ritmo di musica.
“E allora?” urlò Olivier. “Scrivi, invece di ballare! Festeggerai dopo! Sei in ritardissimo!”
Martyna, con uno sbuffo, smise di ballare e gli si avvicinò.
“Possibile che tu non capisca? Ora che è finita la tortura, aggiornerò in orario!”
“Lo spero” disse Olivier, acido.
Martyna lo guardò storto.
“Su, smettila di predicare e BAILA CONMIGO!!!!”
Lo afferrò per le mani e si lanciarono nelle danze.


…Ragazzi, ora ho una buona scusa.
Negli ultimi tempi, ci hanno riempito di verifiche e interrogazioni, e io studiavo ed ero stanca morta, finivo di ripassare tardi e non riuscivo a scrivere…
Per non parlare della parte del fidanzamento di Averell e Nicole! Mi sono vergognata tanto a scriverlo, l’ho cambiato millemila volte…
Ma alla fine ce l’ho fatta!
Tutto è bene quello che finisce bene, e a presto!
Tschüss (ICH MAG DEUTSCH!!!)
MartynaQuodScripsiScripsi.

 

 

 

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Capitolo 13
*** Il fiume ***


IL FIUME




 

“Una gita al Blue River?” ripeté Peabody con tanto d’occhi.
“Sì!” confermò la signorina Betty sorridendo. “I detenuti sono stressati, hanno bisogno di una vacanza! L’aria del fiume gli farà bene e al ritorno lavoreranno più volentieri.”
Il direttore si aggiustò gli occhiali sul naso. “Ma la sicurezza? È un luogo aperto e non vorrei che qualcuno scappasse!”
“Non si preoccupi, le guardie li sorveglieranno” lo rassicurò Betty.
“E va bene!” cedette il direttore.

Peabody, accigliato, osservò allontanarsi il conduttore della locomotiva che ammirava delle mazzette di banconote. I detenuti si accalcavano e spintonavano per salire prima sul treno e accaparrarsi i posti vicino al finestrino, mentre una folla di civili lì accanto li guardava tremando.
I Dalton e Nicole, a suon di spintoni, entrarono e presero posto. Joe si sistemò alla bell’e meglio nello spazio tra Jack e William, mentre Averell lasciava a Nicole il posto accanto al finestrino.
“Non vedo l’ora di arrivare!” esclamò. “Vorrei proprio fare una bella nuotata.”
“No Averell, è pericolosissimo nuotare nei fiumi!” disse William. “Ci sono i mulinelli che ti risucchiano giù, le correnti che ti trascinano…”
Averell rimase interdetto.
“Ma come? E allora perché ci stiamo andando?”
“Beh…Per stare a riva, prendere un po’ d’aria…” spiegò Nicole. “Ti divertirai anche senza nuotare.”
“Ah, se lo dici tu…” disse Averell con un sorriso.

Il Blue River, come diceva il nome, era di un blu limpido. L’acqua scorreva veloce, urtando le pietre con forti scrosci e producendo schiuma bianca. Gli alberi lo affiancavano nella sua corsa verso il mare.
“Che bello!” esclamò Averell.
“Ascoltate tutti!” disse la signorina Betty. I detenuti si girarono verso di lei.
“Fate tutto quello che volete ma non entrate in acqua!” continuò Betty e indicò il fiume. “Vedete com’è forte la corrente? Se sbatteste contro gli scogli vi fareste molto male.”
“Visto?” sussurrò William ad Averell. Averell guardò il fiume e rabbrividì.
“Hai paura?” gli chiese Nicole a bassa voce.
“Un po’.” Averell si strinse nelle spalle. “Non pensavo che i fiumi potessero essere così cattivi.”
Nicole rimase un attimo zitta. Come consolarlo?
“Beh…” I detenuti si stavano disperdendo. “Si vede che i fiumi non sono fatti per nuotarci dentro.”
“Basta parlare di fiumi!” esclamò Joe. Aveva un luccichio negli occhi. “Piuttosto, guardatevi intorno! Non notate niente?”
I fratelli e Nicole videro gli altri detenuti in riva al fiume che si rincorrevano, toccavano l’acqua con un dito e scappavano subito via. Le guardie gironzolavano in tondo con il fucile in spalla. Peabody e la signorina Betty prendevano il sole.
“Ehm, cosa ci sarebbe da notare, Joe?” domandò Jack.
Joe si batté una mano in fronte. “Non ci sono muri, imbecille! Se ci inoltriamo negli alberi senza farci vedere dalle guardie saremo liberi? È chiaro?”
Gli altri si guardarono tra loro e annuirono lentamente. Cosa poteva andare storto? Non c’erano barriere, le guardie erano lontane…
“Allora coraggio! Corriamo!” esclamò Joe.
“Aspetta. Forse è meglio inoltrarsi tra gli alberi piano, per non allarmare le guardie…” disse William.
Joe ci pensò un attimo.
“Hai ragione. Iniziamo a camminare, e fate finta di niente!”
Averell fischiò e Joe strinse i pugni.
“Zitto! Ci farai scoprire!”
“Ma cosa ho fatto? Sei stato tu a dire di far finta di niente!” disse Averell offeso.
Joe stridette per la rabbia.
“Nicole, diglielo tu, che solo tu sai fargli capire le cose!”
Nicole alzò le spalle e si rivolse ad Averell.
“Vedi, Joe intendeva di far finta di niente, ma senza rumore” spiegò.
“Ah, ora ho capito!” disse Averell sorridendo.
Nicole gli sorrise a sua volta e abbassò lo sguardo.
“Va bene, risparmiateci le scenette romantiche e andiamo!” ordinò Joe.
Si avvicinarono al fiume e ne seguirono il corso, gettandosi occhiate dietro le spalle. Una guardia si voltò verso di loro.
Nicole indicò un punto nell’acqua.
“Guardate, un pesce!”
“Dove?” domandò Averell sporgendosi.
La guardia tornò a farsi i fatti propri
“Non c’è nessun pesce” sussurrò Nicole. “Volevo solo depistare la guardia.”
“Ah…” fece Averell.
Proseguirono finché poterono toccare gli alberi allungando un braccio. Si voltarono. I detenuti giocavano a schizzarsi, Peabody e Betty prendevano il sole e le guardie gironzolavano senza meta.
“Perfetto” mormorò Joe. “Correte!”
Si lanciarono tra gli alberi e proseguirono per un centinaio di metri, ma uno sparo alle loro spalle li fece frenare.
Si voltarono di scatto.
“Il direttore sapeva che avreste provato a evadere!” esclamò Emett che puntava il fucile verso di loro. “Perciò mi ha offerto cento dollari per controllarvi!”
“Forse ho capito il problema, Joe: siamo troppo prevedibili” disse William.
“Zitto, idiota!” sbottò Joe.
“Su, su, niente storie e tornate dagli altri!” disse Emett. “E per l’ennesima volta, lasciate stare Nicole!”
Nicole tirò un sospiro di sollievo.
“Ma i fidanzati non dovrebbero stare sempre insieme?” domandò Averell.
Emett crollò la testa e agitò il fucile. I Dalton e Nicole alzarono le mani e si lasciarono condurre dove erano venuti.
“Bene, ora vi lascio” disse Emett. “Ma ricordate che vi tengo d’occhio!”
Si mise il fucile in spalla e se ne andò.
I Dalton e Nicole rimasero zitti, lanciandosi occhiate l’un l’altro.
“E ora cosa facciamo, Joe? Ha detto che ci tiene d’occhio!” disse alla fine Averell.
Joe strinse i pugni.
“Dobbiamo trovare il modo di distrarlo!” disse William. “Ma come?”
“Forse…” mormorò Nicole.
Gli altri si girarono verso di lei. Nicole li guardò e abbassò la testa.
“No, è troppo campato in aria…”
“Dillo lo stesso!” la incalzò Jack.
Nicole esitò.
“Beh…Si potrebbe trovare il modo di buttare qualcuno in acqua senza farci vedere, nel trambusto nessuno bada a noi e scappiamo.”
Averell sobbalzò. “Ma la signorina Betty ha detto che è pericolosissimo entrare!”
“Zitto! È un’idea geniale, invece!” esclamò Joe con un ghigno. “Devo farti i miei complimenti, Nicole.”
Lei scosse la testa. “No, no, Averell ha ragione…Qualcuno potrebbe farsi davvero molto male!”
Con la coda dell’occhio osservò un detenuto piegarsi sulle ginocchia e allungare un braccio verso l’acqua scrosciante. Lo riconobbe: era Mark. Sarebbe bastata una pacca…
Un altro detenuto che passava di lì starnutì forte. Piegò con uno scatto il busto in avanti e sbatté la testa contro il fondoschiena di Mark, che perse l’equilibrio e cadde nel fiume, sollevando spruzzi.
Mark riemerse annaspando e la corrente lo trascinò per alcuni metri. Il detenuto si aggrappò a un masso e urlò:
“Aiuto!”
Si udì lo strillo della signorina Betty. Guardie e detenuti corsero da Mark.
Nicole e Averell partirono di corsa verso la massa di gente, ma Joe strillò:
“Fermi lì!”
I due si girarono e lo guardarono interrogativi.
“Scappiamo! È l’occasione buona!” spiegò Joe a voce più bassa.
“Ma Mark ha bisogno d’aiuto!” replicò Averell.
Joe digrignò i denti. “C’è tutto il penitenziario ad aiutarlo! Muovetevi!”
Partirono di corsa e si inoltrarono negli alberi, come prima.
“Siete riusciti a vedere se anche Emett è andato ad aiutare Mark?” domandò Joe.
“Non lo so” rispose Jack.
“Io non l’ho visto nella folla…” aggiunse Nicole con un brutto presentimento.
“Continuate a correre!” esclamò Joe. “Forse possiamo seminar…”
Il rumore di uno sparo squarciò l’aria e si fermarono.
“Quando si parla del diavolo…non è vero, Joe?” disse Emett ironico.
Joe era talmente arrabbiato che per poco non gli uscì il fumo dalle orecchie. Fulminò con lo sguardo Emett, i fratelli e Nicole per tutto il tempo che impiegarono a uscire dal bosco e tornare dagli altri.
Mark era avvolto in un asciugamano mentre i suoi vestiti si asciugavano al sole appesi a dei rami, ed aveva un broncio spaventoso.
“Come va, Mark?” gli chiese Nicole.
“Sono sicuro che è stato Peter a buttarmi in acqua! L’altra notte l’ho stracciato a scacchi!” brontolò il detenuto.
“Io?” esclamò Peter che passava di lì. “Ma se ero a parlare con Dave! E poi, ti ho stracciato io a scacchi!”
“Ecco, lo vedi? È bugiardo!” protestò Mark rivolto a Nicole.
“Su, non litigate!” disse lei.
Una folata di vento investì l’albero e le mutande di Mark si staccarono dal ramo e presero il volo nel bosco.
Mark strabuzzò gli occhi.
“Le mie mutande!”
“Le prendiamo noi!” strillò Joe. Corse dietro alle mutande per una decina di metri, ma si fermò. I fratelli e Nicole erano rimasti lì.
“Su, venite!” li incalzò, accigliato. Poi la sua fronte si distese. “Non…non ci arrivo da solo.”
“Non ha tutti i torti” disse Jack.
“Torti o non torti, sbrigatevi!” strepitò Mark. “Si stanno allontanando!”
I Dalton e Nicole rincorsero le mutande, che si posarono sopra un cespuglio. Averell allungò una mano per prenderle, ma il vento si levò di nuovo trascinandole su un ramo basso più avanti.
“Ehi! Tornate qui!” esclamò Averell.
Le mutande presero il volo attraverso il bosco, sostenute da un vento pigro, e i cinque le seguirono.
“Speriamo che questo vento duri ancora a lungo!” ghignò Joe.
“Perché?” domandò Averell. “È meglio che finisca presto, invece! Sennò come facciamo a riprendere le mutande?”
Joe si produsse in un verso gutturale, divenne tutto rosso e lanciò al fratello un’occhiata di traverso.
“Ma se stiamo evadendo, imbecille!”
“Joe!” esclamò Nicole con i pugni sui fianchi. “Non provarci più!”
Joe arrossì e chinò la testa, mentre Jack e William sghignazzavano e Averell abbracciava la fidanzata.
“Grazie che mi difendi sempre” le disse.
“Figurati. Che fidanzata sarei sennò?” rispose lei stringendolo. Sorrise. Ancora non riusciva a capacitarsi
“Sì, siete molto carini” si intromise Joe rosso in viso “ma le mutande si stanno allontanando!”
Ripresero a seguirle, di ramo in ramo, di cespuglio in cespuglio, finché non si spiaccicarono contro un tronco di un albero tagliato.
Averell partì e le afferrò.
“Oh! Finalmente!” esclamò. Osservò meglio il tronco. Era liscio, come se fosse stato levigato, ed era dipinto di rosso con una striscia nera in cima e due palle bianche.
“Guardate com’è decorato questo tronco!” disse Averell. “Credete che gli indiani siano passati di qui?”
Gli altri diedero un’occhiata e cacciarono strilli.
“Averell, quello è Vero Falco!” gridò William.
“Bravi, ce ne avete messo di tempo a riconoscermi” sghignazzò Vero Falco. “Si può sapere perché mai mi sono arrivate delle mutande in faccia?”
“Mark è caduto nel fiume e ha appeso i vestiti a un albero per farle asciugare” spiegò Nicole, trattenendo una risata amara. “Il vento le ha portate via…volevamo solo riportargliele!” mentì.
Vero Falco sorrise. “Allora non avrete problemi se vi riaccompagno, giusto?”
I Dalton e Nicole si guardarono. “No” rispose Joe.
“Perfetto, in marcia allora!” gongolò lo sciamano.

Al limitare del bosco si erano assembrati tutti i detenuti e il personale. Il direttore Peabody sudava freddo.
“Non c’è niente di cui preoccuparsi, direttore, sono solo andati a prendere le mie mutande!” disse Mark.
“Santi numi Mark, ma perché li hai lasciati andare?!” esclamò Peabody con le sopracciglia corrugate. “Lo sai che provano sempre ad evadere! E non credo che questa volta abbiano deciso di fare altrimenti.”
“Signor Peabody, ma lui è disobbediente! Non fa mai quello che bisogna fare!” starnazzò Peter.
Mark batté i piedi per terra. “Lo dico alla signorina Betty!”
“Guardate, eccoli lì!” gridò qualcuno. “C’è anche Vero Falco!”
Peabody sobbalzò.
“Allora non volevate veramente evadere!”
“Ehm, no” borbottò Joe mentre Averell tendeva le mutande a Mark.
Il direttore alzò gli occhi al cielo. “Ora nevica.”
“Beh, l’importante è che siano tornati!” disse Betty.
La massa dei detenuti si sfaldò e tornarono tutti ai fatti propri. Vero Falco si esclamò:
“Oh, quasi mi dimenticavo!”
“Che c’è?” incalzò Jack.
Vero Falco si rabbuiò. “I vostri sosia sono riusciti a scappare…”
“Davvero?” disse Joe con un lampo negli occhi.
Averell sorrise e batté le mani. “Ma è fantastico!”
“Dipende dai punti di vista…” grugnì Vero Falco e tirò fuori una busta. “Hanno lasciato una lettera per voi. Non l’abbiamo aperta.”
Nicole prese la busta e la aprì. Vero Falco disse:
“È stato un piacere, ora devo tornare al villaggio. Non seguite il loro esempio!”
Girò i tacchi e scomparve nel bosco.
I Dalton si strinsero vicino a Nicole, per vedere da vicino la lettera dei sosia.
“Cosa dice?” chiese Averell.
Nicole lesse:

Cari gemelli bianchi,
innanzitutto noi la busta l’abbiamo chiusa, per cui se doveste trovarla aperta molto probabilmente siamo nei guai!
La buona notizia che vogliamo darvi è questa: dopo anni di tentativi andati in fumo, abbiamo trovato il modo di scappare dal villaggio!
Stavolta ci andrà bene. Abbiamo studiato tutto per settimane, accuratamente, facendo mille prove e calcolando tutti i rischi. È un piano geniale, e ce lo diciamo da soli.
Non vi diremo qual è, perché se qualcuno dovesse aprire la busta saremmo fregati. Ma vi diciamo che la nostra meta è Hole Gaulch, sicuramente saprete anche voi dov’è. Abbiamo intenzione di fermarci  per qualche tempo e guadagnare un po’ di soldi, per poi viaggiare per il mondo!
Se doveste riuscire a evadere, per favore raggiungeteci. Si stava così bene insieme…e con la vostra “esperienza”, potremmo guadagnare soldi più facilmente…
Oh! Sapete che Sciacallo Famelico e Falce di Luna si sono fidanzati? E sposati anche quasi subito, dato che qui al villaggio le cose si fanno sempre così in fretta. E, ehm, dato che avevamo un piano da attuare…
Vi auguriamo buona fortuna e speriamo che riusciate a evadere presto, da quella gabbia di visi pallidi!
I vostri amici,
Incubo Orribile, Aquila Scaltra, Mente di Fuoco, Sciacallo Famelico, Falce di Luna.
P.S. Sono Mente di Fuoco, nella busta ho infilato anche un regalo per William. Spero ti piaccia!

“Che bella notizia! Si sono sposati…” esclamò Nicole sorridendo.
“Pensi che dovremmo farlo anche noi?” domandò Averell.
Nicole arrossì. “Ehm, sì…magari fra un po’ di tempo…”
Jack sghignazzò, mentre William rovistava nella busta in cerca del suo regalo. Trovò un foglio piegato in due e lo aprì.
C’erano disegni di tronchi e zattere, con frecce e scritte.
“Cos’è?” domandò Joe.
“Dev’essere…un progetto per fare una zattera!” disse William con gli occhi che scintillavano. “Magnifico!”
A Joe venne un’idea.
“Potremmo costruirne una e scappare per il fiume! Che ve ne pare?”
“Ma Joe, è pericoloso!” obiettò Averell.
Joe alzò gli occhi al cielo. “È pericoloso se ci stai dentro, al fiume, non se ci stai sopra e su una zattera!”
“Se lo dici tu…”
Joe strappò di mano il foglio a William, che si accigliò. “Su, non perdiamo tempo, costruiamo questa zattera!” Guardò le istruzioni. “Per prima cosa bisogna…ehm…”
“Prendere dei tronchi” continuò William riprendendosi il foglio. “Uguali. E legarli stretti assieme.”

Ci misero tre ore a trovare tronchi regolari a sufficienza.
“Ora dobbiamo posizionarli così” William mostrò il foglio ai fratelli e a Nicole “e legarli stretti.”
“Sì, ma con cosa?” disse Nicole. “Non abbiamo una corda.”
I Dalton tacquero, delusi.
“Potremmo chiedere agli altri se ne hanno una” disse Averell.
“Ma figurati!” grugnì Joe.
“La signorina Betty si è portata una borsa con le cose per il bricolage” disse Jack. “Forse ha un gomitolo di spago.”
Indicò la signorina seduta sull’erba a gambe incrociate, che si dava da fare con colla e forbici.
“Vado io. Voi intanto sistemate i tronchi” disse Nicole e si avviò.
William aprì bene il foglio per terra e sistemò quattro pietre ai lati, perché non volasse via. Sistemarono due tronchi lontano l’uno dall’altro e appoggiarono i rimanenti sopra di loro nel senso opposto, dopodiché ne posizionarono altri due sopra quelli per terra.
“Dovrebbe andare” disse William.
“Ma è abbastanza grande per tutti e cinque?” chiese Jack.
William osservò la zattera e si accarezzò il mento. “Forse…”
“Eccomi!” esordì Nicole, con un gomitolo di spago marrone in mano. Era un po’ rossa in viso. “Le ho raccontato che vogliamo costruire un rifugio…”
Legarono i tronchi.
“Fatto” annunciò William.
A Joe brillavano gli occhi e aveva un ghigno stampato in faccia.
“Dovremmo inoltrarci nel bosco per non farci vedere” disse Jack.
Gli altri approvarono. Si misero in fila con la zattera sottobraccio, in modo da coprirla e corsero nel bosco, addentrandosi per qualche centinaio di metri.
“Non ho visto Emett” disse Nicole. “Forse ce la possiamo fare…”
“Ce la faremo” rispose Joe.
Il Blue River scorreva veloce davanti a loro, scrosciando. Posarono la zattera sul pelo dell’acqua, tenendola ferma.
“Chi sale per primo?” chiese Joe.
Gli altri fecero finta di niente.
“E va bene” grugnì il basso Dalton. “Non mollatela.”
Salì sulla zattera.
“Mi regge! Dai, venite!”
A uno a uno, i Dalton seguirono il fratello sulla zattera. Stavano stretti, ma se si stringeva a sua volta c’era posto anche per Nicole, che stava tenendo la zattera con l’ansia che le pesava sullo stomaco.
“Dai! Salta su!” la incitò Averell.
Nicole salì e la zattera partì come un razzo cavalcando la corrente.
“Yuhu!” urlò Averell.
“Siamo liberi!” strepitò Joe.
“Va veloceee…” fece Nicole.
Uno sparo fendette l’aria.
I cinque si voltarono di scatto e videro Emett correre sulla riva del fiume.
“Ehi! Fratelli Dalton! Fermatevi!”
“Non sappiamo come si fa!” lo prese in giro Joe.
La zattera cozzò contro un masso sporgente e i tronchi si allontanarono l’uno dall’altro, per poi separarsi e andare alla deriva, facendo cadere in acqua i Dalton e Nicole.
Era gelida. Presero a dare bracciate e battere i piedi, urlando e sollevando spruzzi. Si aggrapparono alla riva ed Emett, a uno a uno, li tirò su.
“Bel tentativo” commentò. “Ma la prossima volta legate bene i tronchi, anzi, non legateli!”
Joe digrignò i denti.
“Mi si è inzuppato il foglio…” disse William guardando deluso il suo regalo ormai da buttare.
“E tu pensi al foglio in un momento del genere?” strillò Joe.
“Stanno arrivando gli altri!” esclamò Averell.
La massa di detenuti, con in testa il personale, si stava avvicinando.
“Venite, andiamo a casa…” iniziò la signorina Betty, per poi notare i cinque bagnati fradici. Sobbalzò.
“Ehi! Che è successo qui? Siete caduti anche voi in acqua?”
“Sì, stavano provando a evadere…” sghignazzò Emett.
Nicole impallidì. L’ansia le attanagliò lo stomaco in una morsa opprimente. Se avesse detto della zattera, Betty avrebbe scoperto che aveva mentito…
La signorina sospirò e tirò fuori dalla sua borsa cinque asciugamani.
“Meno male che li ho portati…Su, asciugatevi con questi.”
Mark si fece strada tra la folla e li raggiunse.
“Vero che è fredda? È stato orribile quando sono caduto!”
Nicole rise. “Beh, guarda il lato positivo. Non sei stato l’unico.”
“Perché i miei piani devono sempre fallire?!” si lamentò Joe, suscitando sghignazzi nel resto della compagnia.

 

 

 

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Capitolo 14
*** Nicole viene trasferita ***


NICOLE VIENE TRASFERITA



 

Il portone venne aperto e una diligenza si fermò in mezzo al piazzale. I detenuti smisero di picconare e alzarono lo sguardo, mentre il direttore Peabody si precipitava lì.
Dalla diligenza scese un uomo alto ed elegante, con un paio di occhiali cerchiati d’oro e una valigetta in mano.
Peabody si affrettò ad afferrargli la mano. “Signor ispettore! Prego, prego, si accomodi!”
“Sono desolato, ma non ho tempo di accomodarmi. Devo ispezionare altri quattro penitenziari oggi e sono già in ritardo” disse l’ispettore squadrandolo dall’alto in basso. “Lei è il signor Melvin Peabody?”
“In persona” rispose Peabody.
“Molto bene.” L’ispettore tirò fuori dalla cartella un fascio di documenti. “Possiamo procedere con l’ispezione.”
Peabody si voltò di scatto e vide i detenuti immobili a osservare la scena. Li fulminò con lo sguardo e quelli ricominciarono a picconare.
“Come vede, signor ispettore, i detenuti lavorano sodo!” disse.
“M-mh…” L’ispettore scrisse qualcosa su un taccuino.
Mentre si allontanavano, il portone venne chiuso.
“Joe” disse Jack “perché non siamo scappati?”
Il fratello si girò con un ghigno. “Perché Peabody mi ha offerto cinquecento dollari e uno sconto di pena a noi quattro perché non gli facessimo fare brutte figure.”
Jack rimase a bocca aperta.

“…E questa è la lavanderia” disse Peabody e spalancò la porta. Ming Li Fu fece un gran sorriso e salutò con la mano.
“Le divise dei detenuti vengono lavate con un sistema di alta avanguardia!” spiegò il direttore. L’ispettore fece “A-ha…” e annotò qualcosa sul taccuino.
In quel momento Nicole fece capolino da dietro un lenzuolo steso, con una cesta di vestiti in mano.
“Salve…” disse piano.
L’ispettore sussultò. Peabody corrugò la fronte e Nicole indietreggiò.
“Qualcosa non va, signor ispettore?” chiese Peabody.
“Quasi mi dimenticavo.” Il visitatore si aggiustò gli occhiali sul naso. “Devo parlarle.”
Uscirono dalla lavanderia e fecero alcuni passi.
“Quella era la signorina Nicole Tackson, giusto?” chiese l’ispettore.
“Beh, sì” disse Peabody.
“Molto bene.” L’ispettore frugò nella cartella e tirò fuori un foglio. “Se non erro, è stata portata qui perché un anno e mezzo fa il penitenziario femminile era al completo.”
“Beh…sì.” Peabody cominciava a sentirsi un po’ stupido. E, a dire il vero, se n’era quasi dimenticato.
“Ecco. Sono incaricato di comunicarle che si è liberato un posto.”
“Ah” disse Peabody. Poi sobbalzò. “Mi sta dicendo che Nicole dovrà essere trasferita?”
“Sì, mio caro signor Peabody” disse l’ispettore, non potendo trattenere un sorriso di sufficienza. “Dovrebbe saperlo lei prima di tutti che questo è un penitenziario maschile. E glielo avranno specificato quando è arrivata che si trattava solo di una reclusione temporanea. Dico bene?”
“Beh…sì” mormorò il direttore abbassando lo sguardo. Sentì un’improvvisa voglia di darsi uno schiaffo sulla fronte: l’aveva fatto di nuovo!
“Ma…”
“Ma cosa?” Gli occhi dell’ispettore lampeggiarono da dietro gli occhiali.
“Beh…” Peabody non si sentiva di guardarlo in faccia. “Nicole si è ambientata molto bene...Ha trovato degli amici…”
“Signor Peabody…”
“Si è fidanzata, addirittura!” continuò il direttore alzando lo sguardo.
L’ispettore rimase un attimo zitto.
“Capirà certamente che la cosa non riguarda né me né lei, signor Peabody. Una donna non può stare in un penitenziario per maschi.” Si aggiustò gli occhiali e fece un sorriso di circostanza. “Sono certo che se è riuscita ad ambientarsi qui, non avrà problemi a farlo con altre donne.”
“Ma lei non mi ha capito” insistette Peabody. “Ha trovato un fidanzato.”
L’ispettore alzò le spalle. “Mi spiace, ma non è un caso di mia competenza. Non può rifiutarsi.” Gli diede il foglio.
Peabody, con la fronte corrugata, lo lesse.
“Capisco” disse con voce malferma.
“Molto bene.” L’ispettore guardò l’orologio. “Cielo, com’è tardi. Proseguiamo.”

A mensa, a Mark cadde il tovagliolo per terra. Si inginocchiò per raccoglierlo e si accorse che il direttore Peabody e la signorina Betty, seduti al tavolo accanto al suo, stavano discutendo animatamente.
Tornato al suo posto, tese le orecchie.
“Io non glielo dico” dichiarò Peabody. “Non ne ho il coraggio.”
“E chi glielo dice allora?” replicò la signorina Betty, con gli angoli della bocca piegati all’ingiù.
Gettò un’occhiata al tavolo dove erano seduti i Dalton e Nicole. Stavano ridendo e Averell teneva un braccio sulle spalle della fidanzata.
Sospirò, ma si disse che forse era meglio così.
Si rivolse di nuovo al direttore, che la stava guardando con un sorrisino supplichevole.
“Non potrebbe farlo lei? Sa…da donna a donna…”
“Non se ne parla!” esclamò Betty, facendo voltare qualche detenuto. “E comunque è compito suo” proseguì a voce più bassa.
“Ma non posso!” ribatté Peabody accigliato. “Non avrei mai il coraggio di separarla dai Dalton…” Inghiottì. “Sa…a volte riesce a tenerli buoni…”
“Ha ragione, sarebbe crudele…” Betty appoggiò la fronte a una mano. “Ma l’ispettore aveva ragione, questo è un penitenziario maschile…”
“Sarebbe illegale tenerla” concluse il direttore puntando i gomiti sul tavolo. “E siamo punto e a capo.”

Dopo mangiato, Mark raggiunse Nicole.
“Nicole, ti devo dire una cosa!”
“Che cosa?” chiese lei, mentre Averell alzava un sopracciglio.
Mark le si avvicinò, con la fronte corrugata.
“A mensa ho sentito il direttore e la signorina Betty che parlavano di te. Mi sa che ti vogliono trasferire nel penitenziario femminile!”
Nicole rimase a bocca aperta e impallidì. Averell spalancò gli occhi.
“Mark…” balbettò lei. “È uno scherzo, vero?”
“No. Ti giuro di no” disse Mark. “Ti dico, li ho sentiti!”
Nicole si morse il labbro inferiore, mente Averell diceva:
“Ma Nicole, perché ti vogliono trasferire?”
“Una donna non può stare in un penitenziario maschile” rispose Nicole, cercando di non farsi tremare la voce. “Mi hanno portata qui perché al penitenziario femminile non c’era più posto. Me ne sarei dovuta andare, un giorno o l’altro…”
La voce le si spezzò. Averell la abbracciò e Mark le mise una mano sulla spalla.
“Perché non ce lo hai detto?”

“Perché Martyna quando ha iniziato a scrivere questa storia era rincitrullita e in piena sindrome da fangirl e non aveva capito che questo è un penitenziario maschile!” esclamò Olivier Jean-Marie.
“Ouh, bada a come parli!” lo rimbeccò Martyna. Ma anche lei, segretamente, sapeva che era quella la verità.

Nicole sbatté le palpebre per ricacciare giù le lacrime. “Mi sono trovata talmente bene che me ne sono dimenticata…”
“Ma è sicuro?” domandò Averell con la fronte corrugata.
Nicole aprì la bocca per rispondere, ma non uscì alcun suono.
In quel momento arrivarono Peabody e la signorina Betty.
“Nicole,” iniziò la signorina “dobbiamo dirle una…Ehi, ma perché piange?”
La sfiorò il sospetto che sapesse. Sospetto che venne confermato un attimo dopo.
“Mi trasferirete al penitenziario femminile.” La ragazza si strinse a Averell.
“Per favore, non lo fate!” disse il Dalton. “Non è obbligatorio, vero?”
Nicole non resistette più e scoppiò in lacrime, inzuppandogli la spalla. Mark abbassò lo sguardo, sentendosi fuori posto. Il direttore e Betty si guardarono.
“Oh, non faccia così…” mormorò Betty poco convinta.

Gli scossoni cessarono. Nicole alzò la testa che aveva nascosto nelle ginocchia in un angolo della diligenza e il secondo dopo la porta venne aperta. Una guardia fece capolino.
“Sei la nuova detenuta, giusto? Dai, esci di lì.”
Nicole si asciugò gli occhi con la manica e si alzò. Scese dalla diligenza e si ritrovò davanti a un portone massiccio.
La guardia aprì la porticina ed entrarono in un corridoio.
“Seguimi” disse la guardia. “Ti mostro la tua cella.”
Nicole lo seguì su per delle scale. Al primo pianerottolo, c’era un corridoio dalle pareti con la tappezzeria verde, nel quale si aprivano alcune porte. La ragazza pensò che lì ci fosse l’ufficio del direttore e il resto.
La guardia salì un altro piano e arrivarono a un altro corridoio. Lì, c’erano le porte di ferro delle celle. Nicole sospirò.
Proseguirono fino in fondo, poi la guardia prese un mazzo di chiavi e lo inserì nell’ultima porta a sinistra. La porta si aprì con un cigolio e Nicole si affrettò a sbirciare dentro.
C’erano tre brande attaccate con catene alle pareti. Una era occupata da una ragazza mora che guardava in aria, e alla finestra era appoggiata con i gomiti un’altra ragazza dai capelli rossi.
La mora scattò a sedere e sorrise.
“Oh, Elmer! Qual buon vento?”
La guardia storse il naso. “Questa è la vostra nuova compagna di  cella.”
La ragazza sbatté le ciglia. “Interessante. Hai da fare stasera?”
“Sì” grugnì la guardia. Fece entrare Nicole e chiuse la porta.
La mora sospirò di piacere e fece l’occhiolino a Nicole. “Continua a fare il burbero, ma sono sicura che cederà presto!” Ridacchiò. “Ce l’hai un nome?”
“Nicole” rispose Nicole, guardando di sottecchi la cella.
“Io sono Kelly” disse la ragazza. Indicò quella alla finestra. “E lei è Elizabeth.”
Elizabeth sussultò e si girò. “Oh, scusa. Pensavo.”
“Mh…Niente” disse Nicole.
Kelly indicò il letto sopra di lei. “Puoi dormire quassù, se vuoi. I letti in basso sono nostri. Spero che ti vada bene.”
“Oh…certo” mormorò Nicole.
“Così tu vieni dal maschile, eh?” domandò Elizabeth. “Poveretta. Un anno e mezzo insieme agli uomini.”
Nicole sentì una stretta al cuore. “Per la verità…non è stato tanto male…”
“No?” fece Kelly spalancando gli occhi.
“Beh, no. Ho trovato…” Nicole abbassò lo sguardo. “…degli amici…”
“Ho capito, non vuoi parlarne” disse Kelly prendendole una mano. “Va bene, non preoccuparti.” Indicò il letto sopra di lei. “Hai affrontato un viaggio lungo. Sarà il caso che ti riposi.”
Nicole si arrampicò sul letto e si sdraiò. Sulla parete era incisa una scritta: NATA LIBERA!!!!!
Elizabeth andò a sedersi sulla sua branda e la studiò. “Che cos’hai fatto per finire al fresco?”
Nicole sentì un brivido scenderle lungo la schiena. Le tornò in mente l’aula del tribunale e subito dopo scacciò quel pensiero che la faceva profondamente vergognare.
“Io ho…” si umettò le labbra “ho rotto una finestra, cercato di rubare una cassaforte e ho rotto un braccio al proprietario…”
“Che?” esclamò Kelly. Fece per ridere ma si interruppe subito. “E come hai fatto?”
Nicole esitò.
“Avevo preso la cassaforte per portarla via. Volevo studiare dopo un modo per aprirla. Ma la stavo per far passare dalla finestra quando il tipo è arrivato ed è corso da me, ma è scivolato e mi è caduta la cassaforte. Proprio sopra il suo braccio.” Corrugò la fronte. “Ha tirato un urlo così forte che i vicini si sono svegliati, hanno chiamato la polizia e hanno accerchiato la casa.”
Il naso di Kelly fece un piccolo suono, mentre si teneva la mano premuta sulla bocca. Elizabeth le tirò un’occhiataccia.
“Ah!” Nicole fece un mezzo sorriso. “E sono pure riuscita a chiamare signora il giudice…”

“Martyna, ora mi diventi ridicola…” disse Olivier con un sorriso di sufficienza.
Martyna grugnì, prese una matita dalla scrivania e la spezzò sotto il naso del regista.
“Ascoltami bene tu, testa di niente, devo alleggerire la tensione! Non vedi che sotto Genere c’è scritto Comico? E questo capitolo è stato già abbastanza lacrimoso.”

“Che cosa?” Kelly non resistette più e scoppiò a ridere. “Ma dai! Non si può…”
“E invece sì” disse Nicole. “Insomma…aveva una voce un po’ acuta e la parrucca. E io non avevo osato guardarlo. Infatti mi sembrava strano…”
Kelly si asciugò una lacrima. “Non è possibile! Sei una sagoma, Nicole!”
Nicole fece un sorrisino. “Grazie!”
In quel momento la porta si aprì. Una guardia con un paio di baffi fece un passo nella cella.
“Nicole, giusto?” chiese indicandola. “Hai visite in parlatorio.”
La ragazza alzò un sopracciglio. Non si aspettava che i suoi la venissero a trovare tanto presto. Scese dal letto e seguì la guardia fino in parlatorio.
Ma al di là del vetro la aspettava una sorpresa.
“Nicole!” la salutò Falce di Luna.
Nicole si fermò, a bocca aperta. “Falce? Ma che ci fate qui?”
Sciacallo Famelico alitò sul vetro e disegnò una faccia sorridente, mentre Mente di Fuoco rispondeva:
“Ci siamo travestiti e siamo passati al penitenziario per vedere come stavate e se avevate un piano, ma i Dalton ci hanno detto che sei stata trasferita.”
“Avevano delle facce da far paura!” disse Aquila Scaltra.
“Averell non ha mangiato a pranzo” disse Sciacallo Famelico. Posò una mano sulla spalla di Falce di Luna. “Spero che non ti trasferiscano mai!”
“Joe ha detto che quando riescono a evadere vengono qui e ti liberano” informò Incubo Orribile.
Nicole puntò i gomiti sul tavolino. I Dalton…Le dispiaceva, ma Kelly e Elizabeth non avrebbero potuto rimpiazzarli, per quanto gentili fossero. Le sarebbero mancate le sfuriate di Joe.
Averell, poi. Sentì una forte stretta al cuore.
E se non lo avesse più rivisto, scontata la sua pena? A lei restavano sei anni e mezzo, a loro diverse centinaia. E se non fossero mai riusciti ad evadere? Andare a trovarlo in parlatorio non sarebbe stata la stessa cosa. E dubitava fortemente che, se avesse commesso un altro crimine, l’avrebbero riportata al penitenziario maschile.
Le lacrime le pizzicarono gli occhi e lei li spalancò. Non devo piangere, non devo piangere…
“Piangere fa bene, Nicole” disse Falce di Luna. Mise una mano sul vetro, come per accarezzarle una guancia. “Scarica la tensione. Tieni.”
Fece passare sotto il vetro una collanina con attaccato un dente. Nicole si asciugò gli occhi con la manica e la prese.
“Che cos’è?”
“Un dente di lupo” rispose l’indiana. “È un simbolo di coraggio per noi Braccia Rotte.”
Nicole osservò la collanina e se la mise al collo. “Grazie. È molto bella.”
Sobbalzò. Le era venuta un’idea.
Devo evadere di qui!

 

 


Ave, lettori! (La seconda liceo fa male…)
Niente, volevo scrivere due righe per salutarvi e fare due chiacchiere.
Il capitolo volevo postarlo in orario, ma non ho potuto perché sono partita per Brighton con la scuola e poi mi sono serviti un po’ di giorni per riassestarmi.
Oddio…è un po’ triste questo capitolo. E non sono nemmeno sicura di averlo scritto bene. Ma ho fatto del mio meglio! E vi assicuro che i prossimi saranno come al solito.
Solo questo. Beh, ora vi saluto e vi ringrazio per tutto il vostro sostegno!
MartynaQuodScripsiScripsi.
P.S. Se vi capitasse l’occasione di andare a Brighton, ANDATECI!

 

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Capitolo 15
*** Bandidos ***


BANDIDOS


 

Nicole piantò il cucchiaio nella terra e fece forza. La terra si sgretolò. Nicole si sedette sui talloni si tolse la torcia dalla bocca, sospirò e si terse il sudore dalla fronte.
Secondo i suoi calcoli, doveva essere sotto il portone. Ancora un piccolo sforzo e sarebbe stata fuori.
Riprese a scavare, stringendo i denti sulla torcia. La terra le andava negli occhi. Le dita e le ginocchia le pulsavano dal dolore.
Si fermò di nuovo e il viso le si contrasse. Sbatté le palpebre, ma le lacrime non uscirono e questo la fece sentire ancora più frustrata.
Manca poco ormai. Non mollare proprio ora!
Finalmente schivò la terra che le cadeva sopra la testa e si aprì uno spiraglio. Passò un filo di luce lunare e un alito di vento. Nicole sorrise e prese un respiro profondo.
Allargò il buco e mise la testa fuori. Era a un metro dal portone del penitenziario. Il vento le scompigliava i capelli. La luna piena gettava una luce bianca sulla sabbia e sui cactus.
Le guardie!
Nicole uscì in fretta dalla galleria e si spiaccicò contro il portone. Le tremavano le ginocchia.
Allungò il collo. Doveva aspettare che la guardia lassù se ne andasse. Se l’era vista brutta.
Il deserto del Nevada era infinito di fronte a lei. Sempre dritto, per il penitenziario maschile, le avevano detto…Ma quanto ci avrebbe impiegato, a piedi e senza viveri? In diligenza una mezza giornata, ma a piedi…
Udì un rumore di passi sopra di lei. Si sporse ancora di più. Vide una guardia camminare via.
Guardò davanti a lei. Inghiottì. Ora o mai più.
E corse.

“Ho un’idea” disse Joe.
Jack lo guardò dal suo letto. “Che idea?”
Joe ghignò. “Prenderemo della dinamite, faremo saltare in aria il portone e scapperemo!”
“E poi andiamo a prendere Nicole” si intromise Averell.
Joe sospirò. “Sì, non ti preoccupare, la andremo a prendere. Figurati se la lasciamo in balìa di tutte quelle donne.”
William si mise a sedere. “In teoria dovrebbe sentirsi più a suo agio al penitenziario femminile.”
“Non è vero!” sbottò Averell.
“Lasciamo perdere, di sicuro sarà molto contenta se la liberiamo” tagliò corto Jack. “Ora procuriamoci la dinamite.”

Nicole si fermò di scatto e cadde in ginocchio. Ansimò, con la gola secca. La milza le faceva male.
Si girò. Il penitenziario era ormai un puntino dietro di lei.
Si alzò. Era fuori. Sorrise e fece due passi di danza. Al primo colpo!
Udì uno sferragliare e si voltò di scatto. Stava arrivando una diligenza, alla cui guida c’era una donna con un poncho e due lunghe trecce.
“Ehi, chica!” la chiamò. “Che ci fai tutta sola in mezzo al deserto?”
Nicole rimase un po’ interdetta. “Io…vado al penitenziario maschile.”
La donna sorrise. “Bien! Ci vado anch’io! Vuoi un passaggio?”
Nicole sorrise. “Oh, grazie!”
“Salta su!” la incitò la donna. “Io sono Consuelo.”
“E io Nicole” disse Nicole, che non si capacitava della fortuna che aveva avuto.
Salì e partirono.

Un boato squassò il penitenziario dalle fondamenta. Urla e imprecazioni volarono da tutte le parti. I fratelli Dalton infilarono la voragine che c’era al posto del portone.
“Siamo liberi!” urlò Joe.
“Adesso andiamo a prendere Nicole” gli ricordò Averell.
“Sì, va bene! Ti ho detto che ci andiamo!” sbraitò Joe.
Scapparono per il deserto e si fermarono solo quando ebbero oltrepassato la roccia dei Braccia Rotte.
“Spero che non ci bersaglino di frecce” borbottò William.
“Guardate!” Averell puntò un dito davanti a loro. “Vedo un fuoco!”
Un centinaio di metri più avanti c’era un uomo con un bel paio di baffi seduto vicino alla sua diligenza, che si riscaldava al falò.
Joe trasalì.
“Oh no! Scappiamo!”
L’uomo li vide e si alzò in piedi.
“Ehi, voi! Dove andate a quest’ora di notte?”
“Al penitenziario femminile!” rispose Averell.
Joe si trattenne dal tirargli un ceffone.
“Toh, che coincidenza! Ci vado anch’io, e stavo giusto per ripartire” disse l’uomo. Il suo sorriso si era allargato. “Volete un passaggio?”
I Dalton si guardarono.
“Non sembra aver capito che siamo del penitenziario” mormorò Jack.
“E quindi che si fa? Accettiamo?” sbottò Joe.
“Sì, per favore, Joe!” pregò Averell con le mani giunte. “Così arriveremo molto prima!”
“E va bene” cedette il fratello.
E raggiunsero il tipo.

Nicole sentì la pelle sfrigolare e rabbrividì.
“Hai freddo?” chiese Consuelo. Sospirò. “Già. Il deserto è un posto muy raro…molto strano. Bollente di giorno e freddo di notte. Purtroppo non ho una coperta” aggiunse e stirò le labbra.
“Non fa niente” disse Nicole.
Consuelo si illuminò. “Ah! In effetti ho qualcosa che può riscaldarti.”
Si girò e frugò dentro la diligenza. Ne tirò fuori una bottiglia.
Nicole alzò un sopracciglio. “È un alcolico?”
Consuelo scrollò le spalle. “È…una bevanda che si fa dalle mie parti.”
Nicole squadrò per un attimo la bottiglia. E dai. Anche se era alcolico, un pochino non la avrebbe ammazzata.
La stappò e ne bevve un sorso. Aveva un sapore lievemente amaro.
Riprese il tappo e fece per infilarlo nella bottiglia, ma questa le scivolò di mano e cadde nella sabbia, rovesciando un po’ del contenuto.
“Oh, scuuuusaa…” biascicò Nicole. La vista le si appannò. Vide il ghigno in faccia a Consuelo, poi su tutto calò una coltre nera.

Nicole riaprì gli occhi. La guancia destra era premuta su un suolo morbido e odoroso. Non riusciva a staccare le braccia dal corpo né ad aprire la bocca.
Si girò di scatto su un fianco. Era sdraiata su una balla di paglia, in un fienile illuminato solo dai raggi di luna che entravano dalla porta aperta e una finestrella. Legata e imbavagliata.
Un senso di vuoto le afferrò lo stomaco. Dov’era finita? Cos’era successo?
Udì un rumore di passi dall’esterno e si rannicchiò. Con il mento attaccato al petto, sentiva il cuore battere come se volesse uscire. Una goccia di sudore freddo le scivolò sulla fronte.
Nel fienile entrarono Consuelo e un uomo che non aveva mai visto. Tenevano lei per le ascelle e lui per i piedi un tipo alto con una divisa a righe gialle e nere.
Nicole trattenne il fiato. Quello era Averell!
Qualcosa scattò dentro di lei. Le lacrime le pizzicarono gli occhi e non tardarono molto a scenderle copiose sulla faccia. Inghiottì e scoppiò in singhiozzi, attutiti dal bavaglio.
Consuelo e l’altro uomo si girarono verso di lei. La donna ghignò.
“Vedo che ti sei svegliata, Nicole. Sei molto spaventata, vero?”
Anche se avesse potuto, Nicole non avrebbe perso tempo a risponderle. Non aveva la più pallida idea di cosa fosse successo, ma Averell era lì a un metro da lei.
I due legarono e imbavagliarono Averell, e lo lasciarono sul fieno. Poi uscirono dal fienile.
Nicole strisciò verso di lui. Mugolò forte e gli tirò testate, ma il Dalton rimase profondamente addormentato.
La ragazza fece dei respiri profondi finché non smise di singhiozzare e si mise più comoda. Ragionò. Ricordava di aver accettato una bevanda da Consuelo e di essersi sentita stranissima. Poi più niente. Probabilmente l’aveva drogata…ma perché?
Dovevano essere banditi. Ma a che scopo portarla nel fienile? Se avessero voluto derubarla - derubare una ladra, questa era buona! - si sarebbero limitati a perquisirla e a lasciarla in mezzo al deserto.
Dove accidenti volevano andare a parare, quei due?
Consuelo e l’uomo entrarono un’altra volta nel fienile. Lei aveva in spalla Joe, lui Jack. Li depositarono sul fieno accanto a Averell e l’uomo uscì di nuovo. Consuelo prese una corda e cominciò a legare i fratelli. L’uomo ritornò con William e legarono e imbavagliarono anche lui.
Nicole seguiva impotente le operazioni, lambiccandosi il cervello e non venendo a capo di nulla.
Consuelo le rivolse un ghigno. “Non me ne volere. Ma siete dei criminali a piede libero, e dobbiamo fare pur qualcosa per fermarvi.” Trattenne uno sbadiglio. “Domani vi riporteremo ai vostri penitenziari, adesso è troppo tardi. Andiamo, Javier.”
Uscirono dal fienile, chiudendosi la porta alle spalle.
Nicole alzò un sopracciglio; ecco com’era la faccenda…Tirò un altro paio di testate ai Dalton, ma loro continuarono a dormire come ghiri. Abbandonò la schiena sulla parete del fienile, fissando la luce bianca della luna. Avevano fallito di nuovo.

Alcuni gemiti soffocati la scossero dal dormiveglia. Si rizzò di scatto, sbattendo le palpebre per scacciare il sonno, e si voltò verso i Dalton.
Averell, Jack e William la fissavano a occhi sbarrati, Joe scalciava e si dimenava.
Nicole mandò un mugolio e si agitò. William scrollò la testa e strusciò la faccia sulla parete. Il bavaglio gli scivolò sul mento.
“Fate come me” sussurrò.
Gli altri eseguirono.
“Nicole!” esclamò Averell.
“Sshh!” fecero i fratelli.
“Averell!” disse piano Nicole, sorridendo. Sentiva tutto un formicolio dentro di sé. Le era bastato vederlo per essere contenta. Lo avrebbe abbracciato se avesse potuto.
“Cosa ci fai qui?”
“Giusto! È una bella coincidenza” fece eco Jack.
Nicole si strinse nelle spalle. “Ero appena scappata dal penitenziario femminile quando ho incontrato quella donna, Consuelo…Mi ha offerto un passaggio in diligenza e una bevanda che mi ha fatta addormentare.”
“È successo anche a noi” disse Joe. “Solo che noi abbiamo incontrato Javier.“
“E ora che si fa?” chiese Averell.
William scese dalla balla di fieno e si diresse alla porta del fienile. La spinse con il piede e si aprì di poco.
“Frena” sussurrò Joe. “Siamo legati. Non possiamo andare molto lontano così.”
“Deve esserci qualcosa di tagliente qui” bisbigliò Jack guardandosi intorno. “Un vecchio pezzo di ferro…”
“Come quello” disse Averell. Tutti si girarono e videro una zappa appoggiata al muro.
“Esatto, Averell” disse Nicole. Averell si gonfiò d’orgoglio.
Con un calcio, Joe buttò la zappa per terra. Si inginocchiò e cominciò a sfregarsi sulla lama. In capo a qualche minuto, le corde che lo legavano si lacerarono.
Sospiri di sollievo vennero tirati da tutte le parti. Joe liberò i fratelli e Nicole.
“Siamo liberi!” ghignò Joe.
Gli altri ebbero un sobbalzo.
William sbirciò dalla porta socchiusa. Javier e Consuelo si erano accampati con le diligenze a una decina di metri dal fienile. Si erano sdraiati nei sacchi a pelo vicino a un falò spento, dal quale si alzava un sottile filo di fumo.
“Credo che stiano dormendo” bisbigliò.
“Dove andiamo? A Hole Gaulch dai sosia?” disse Nicole.
“Sì!” rispose Averell, entusiasta all’idea.
“Ci servono provviste per il viaggio” osservò Jack. “Hole Gaulch sarà pure vicino, ma non così tanto da poterci arrivare senza mangiare.”
“Potremmo rubarle a loro” propose Joe.
“Per forza, sono gli unici che hanno da mangiare qui” sorrise Jack.
“Vado io” si offrì Joe. “Non dev’essere tanto difficile.”
Uscì dal fienile e si incamminò in punta di piedi verso l’accampamento. Gli altri lo seguivano con lo sguardo, trepidanti.
Joe evitò i due messicani e salì su una diligenza. Javier si mosse nel sonno e si mise a sedere, con gli occhi chiusi.
I restanti Dalton e Nicole trasalirono e si ritirarono nell’ombra del fienile. Javier si alzò grugnendo e caracollò dietro la diligenza in cui era entrato Joe.
“Oh, no!” sussurrò Nicole, così piano che faticò a sentirsi lei stessa. Si accorse di una goccia di sudore freddo che le scivolava sul naso. Se Javier avesse beccato Joe, sarebbe stata veramente finita.
Joe fece capolino dal posto di guida. Scese in fretta e corse in punta di piedi nel fienile. Aveva in spalla una sacca.
“Che spavento!” sbuffò. “Meno male che si è messo a fare la pipì…”
“Ssh!” lo zittì Nicole.
Javier tornò da dietro la diligenza, si infilò nel sacco a pelo e non si mosse più.
I Dalton e Nicole attesero qualche minuto, in un silenzio tombale.
“Possiamo andare?” chiese piano Averell.
“Un momento!” intervenne Joe. “Non sappiamo dove siamo!”
“Aspetta…” borbottò William. “Quella roccia in lontananza! Non la vedete?”
Indicò un punto davanti a loro. “Non vorrei dire una stupidaggine, ma mi pare la roccia dei Braccia Rotte.”
I fratelli e Nicole guardarono meglio.
“È vero!” confermò la ragazza. “La forma è quella!”
“Se arriviamo lì sarà facile pianificare il tragitto per Hole Gaulch” disse Jack.
“Che stiamo aspettando allora? Andiamo!” quasi esclamò Joe.
I cinque uscirono dal fienile e deviarono una decina di metri a destra, per evitare l’accampamento. Poi si diressero verso la roccia di buon passo, e presto distanziarono i messicani.
Il deserto del Nevada si estendeva a perdita d’occhio intorno a loro, con i suoi cactus e le rocce. La volta del cielo era nera sopra di loro, e brillavano le stelle.
Nicole e Averell rimasero un po’ indietro.
“Averell” disse lei.
Il Dalton si girò, tutto sorridente. Anche lei sorrise, un po’ imbarazzata.
“Mi sei, ehm, mancato…”
“Anche tu mi sei mancata!” sbottò Averell. “Non mi sentivo molto bene, senza di te. E nemmeno il cuoco!”
“Il cuoco?” Nicole sbarrò gli occhi.
“Sì! Faceva la pappa cattiva!”
Nicole rise. “Sei unico, Averell!”
Lo guardò di sottecchi ed ebbe un’improvvisa ispirazione. Lo prese per le spalle, si alzò sulle punte e gli diede un bacetto all’angolo della bocca.
Joe si girò di scatto. “Ehi! Voi due. Che state combinando?!”
Averell si accigliò. “Sei solo geloso!”
Jack e William scoppiarono a ridere, mentre Averell, Nicole e Joe arrossivano fino alla radice dei capelli.

 

 

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Capitolo 16
*** Epilogo ***


EPILOGO

 


“Wow” commentò Kelly. “Sono passate ore e ancora non è tornata. Dici che ce l’ha fatta?”
Elizabeth piegò la testa di lato, fissando il buco in mezzo al pavimento della cella. “Certo che ce l’ha fatta. Se le guardie l’avessero beccata, l’avrebbero portata subito qui.”
Rimasero in silenzio per un po’.
“Andiamo anche noi?” propose Kelly in modo casuale. “Tanto Elmer non mi filerà mai.”
Elizabeth alzò le spalle. “Sì, dai.”
Si alzarono dalle brande e scesero nel tunnel.

Peabody era seduto alla scrivania, in un bagno di sudore. Teneva in mano la cornetta del telefono.
“Ma non so come sia potuto succedere, Nicole era una ragazza tranquilla, non ha mai provato ad evadere mentre era qui…Non si arrabbi! E adesso che cosa c’è?” sbottò in direzione della signorina Betty che era entrata.
“Signor Peabody, la informo che ho spedito un telegramma a tutte le autorità!” Si conficcò le unghie nel palmo della mano. “Non c’è un angolo del Nevada che sia sicuro, con i Dalton a piede libero!”
Peabody decise che ne aveva abbastanza delle proteste del direttore del carcere femminile e sbatté giù la cornetta. Si prese la fronte tra le mani. “Lo so, lo so! E così alla fine sono evasi. Che cosa mi faranno, adesso?”
“Li troveranno!” esclamò Betty. “Insomma, ogni volta i loro piani sono andati in fumo!”
“Quello che mi chiedo” sospirò Peabody “è se per caso le evasioni di Nicole e dei Dalton sono collegate.” Guardò la signorina Betty. “Voglio dire, evadono la stessa notte…Forse alla fine Nicole voleva veramente evadere.”
“Col senno di poi, immagino di sì” disse la signorina Betty. Sospirò a sua volta. “Con tutte le volte che è stata trovata con loro, mi domando come abbiamo potuto non accorgercene.”
Distolse lo sguardo dal direttore e si fermò a contemplare il cielo dalla finestra aperta. Le ultime stelle stavano sbiadendo, mentre il sole regalava i suoi primi raggi al mondo.
E nacque un nuovo giorno.

 

 

 

 

 

 

Beh, ehm…capolinea.

Sì, purtroppo sì. Lo so che cercavate di non crederci, nonostante la scritta Epilogo grossa come una casa e l’avviso Completa. (Che modesta che sono).
Posso dichiarare “The Dalton Story” terminata.
Sono un po’ triste a scriverlo, ma anche soddisfatta.
Volete sapere quante pagine di Word sono? 186. Sì, centottantasei pagine scritte con corpo 18 - ho un po’ barato.
Ho riso fino a piangere, ho interpretato certe scene da sola, ho cancellato interi paragrafi e mi ci sono scervellata.
E, oh! Leggendo i primi capitoli, mi sono accorta che da quando ho iniziato a scriverla, il mio stile è cambiato un bel po’. Ad esempio, ora non scriverei mai un “YEEEAAAAAAHHH”.

E vabbè. Non ho altro da dire se non un grande GRAZIE. A tutti quelli che hanno letto, recensito e mi hanno sostenuta.
Un grazie speciale va a Ollurg e Ulfrung (so io chi sono!) sempre stati al mio fianco.
Grazie di cuore, a tutti.
Cordiali saluti,
MartynaQuodScripsiScripsi.

P.S. Non pensate di esservi liberati di me, eh? Tornerò alla carica molto presto con altre storie ancora più belle!

 

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