Lonely Grace's Zombie Apocalypse

di Floralia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** McDrive ***
Capitolo 2: *** South West Memorial ***
Capitolo 3: *** Campbell's ***
Capitolo 4: *** Captain Morgan ***
Capitolo 5: *** Coca Cola ***
Capitolo 6: *** Jackson Pollock ***
Capitolo 7: *** Albuquerque ***
Capitolo 8: *** Hail and puke ***
Capitolo 9: *** Death ***
Capitolo 10: *** Budlight ***



Capitolo 1
*** McDrive ***


25 Marzo 2014, ore 02:17 a.m. Cortez, Colorado

Grace accolse i dollari nella coppa di una mano, aprì il registratore di cassa e con agilità data dall’esperienza afferrò il resto con la punta delle dita e lo porse al cliente.
Tre dollari.
Tentò di reprimere uno sbadiglio mentre il cliente sistemava le banconote nella tasca del giubbotto.
Era un uomo di mezza età. Suo figlio adolescente lo aspettava ad un tavolino poco distante.
Lo sbadigliò tornò e la ragazza lo accolse, coprendosi solo la bocca con una mano, mentre guardava di sfuggita il cliente appena servito sedersi.
Quei due erano gli unici frequentatori del McDonald a quell’ora.
Connor stava finendo di preparare i due Big Mac che i clienti aspettavano. Il ragazzo aveva le cuffiette alle orecchie e muoveva la testa a tempo di musica.
Grace si chiedeva come facesse ad avere sempre tanta energia.
Anche a scuola era sempre iperattivo e spesso doveva scontare detenzioni.
Tra di loro c’era stato qualcosa, quando avevano sei anni. Le loro madri erano amiche e i due bambini giocavano molto spesso insieme. Si tenevano la mano e si baciavano le guance con quei baci a risucchio e bavosi che solo i bambini sanno fare.
Crescendo si erano divisi sempre di più e la loro era un’amicizia superficiale, che conservava sempre quel minimo imbarazzo per esperienze dell’infanzia di cui ci si pente e vergogna.
Lui era gentile.
Iperattivo, fissato coi videogiochi e la musica tecno, ma simpatico.
Grace non era di certo una di quelle ragazze che giudicano, comunque. Le bastava di andare d’accordo con tutti. Connor era una buona compagnia durante i turni di notte al lavoro e quando non c’erano clienti la lasciava giocare in multiplayer con lui sull’i-phone.
Si girò per nascondere un terzo sbadiglio, poi chiese a Connor a che punto fosse.
“Finito” rispose il ragazzo mentre sistemava i due panini nelle confezioni di cartone.
Grace le prese quando atterrarono sulla passerella, le sistemò su un vassoio con la pubblicità dei valori nutrizionali del nuovo Big Tasty e si diresse al tavolino.
L’uomo accolse l’hamburger con un cenno veloce del capo e un “grazie” appena accennato. Non era di buon umore.
Il ragazzo non emise un suono, ma rimase col volto chinato a fissare la bustina del ketchup.
Aveva un colorito giallognolo.
Grace sorrise e tornò in postazione.
Sbadigliò.
Dopo alcuni secondi dovette rispondere ad un cliente del Mc Drive.
Se ne rese conto in ritardo. Si sistemò meglio l’auricolare e: “Scusi può ripetere?”
Attese.
“Scusi non ho capito cosa ha detto. Vuole ordinare?”
Sentì dei colpi di tosse e un altro rumore che preferì non aver identificato.
“Vuole ordinare qualcosa?” ripeté paziente. Che stronzi i clienti di notte.
Ancora tosse. “Si tesoro” rispose finalmente la voce “voglio dei chicken nuggets e poi voglio anche te”.
Tipico. Ecco uno stronzo.
“Ok” rispose Grace con professionalità. Comunicò l’ordine a Connor.
Poco dopo i chicken nuggets erano pronti. Li portò al cliente in auto.
Era un uomo di quaranta anni circa, con la pancia e la cannottiera macchiata di grasso, una bottiglia di tequila sul sedile del passeggero e due grandi baffi rossi dal tabacco.
“Vieni anche tu con me, principessa?” sputacchiò con una sigaretta in bocca. Ghignò e le mandò un bacio porgendole i soldi.
Erano giusti per fortuna. Grace distese la faccia nel sorriso più sprezzante che riuscì e si allontano, ma solo dopo aver salutato e augurato una buona serata.
Dopo pochi secondi l’auto ripartì, mentre l’uomo ancora urlava parole oscene.
Connor non si era accorto di nulla. Era nel suo mondo, mandava avanti le canzoni dell’i-pod battendo il tempo sul bancone con le dita.
Grace controllò anche i clienti. L’adulto aveva finito l’hamburger e stata giocando con le patatine fritte, lo sguardo basso. Il ragazzo non aveva nemmeno aperto la confezione.
Un senzatetto si materializzò davanti alla porta a vetri. Esitò per qualche tempo e poi entrò. Rivolse un cenno imbarazzato a Grace, poi quasi con vergogna si diresse al bagno.
Connor lo vide. Scambiò uno sguardo con la ragazza, ed entrambi avevano un’espressione seccata. Si intesero: toccava a loro pulire alla fine del turno.
Il ragazzo sospirò pesantemente e tornò alla sua playlist.
Anche Grace sospirò. Poi si voltò verso i due seduti al tavolo.
Appoggiò il gomito sul bancone, il mento sulle mani e cominciò a studiare la coppia.
L’uomo aveva terminato il pasto. Si era voltato appena per squadrare il barbone e lanciargli un’occhiata diffidente. Ora controllava il bagno con la coda dell’occhio.
Il ragazzino era sempre chino sul ketchup.
Aveva i capelli scompigliati e la faccia sconvolta. Profonde occhiaie gli infossavano gli occhi.
Portava un giubbotto arancione scolorito.
Il padre indossava un pesante cappotto nero.
“Grace” la chiamò Connor. “Vieni qui”. Sembrava preoccupato.
Grace tornò in posizione eretta, si stiracchiò e raggiunse l’amico alla postazione di lavoro.
Era chino sull’i-phone, gli occhi ridotti a fessura.
“Che succede?” gli domandò con un mezzo sorriso.
Connor alzò la testa e la guardò dritta negli occhi.
Aprì la bocca ed esitò. La richiuse. Guardò giù verso il telefono, poi su ancora verso l’amica.
Scosse il capo. “Dobbiamo andare a casa” cominciò, mostrando lo schermo dell’i-phone a Grace.
“Non ci pensare nemmeno!” lo anticipò lei, consapevole del fatto che Connor a volte era un vero scansafatiche e avrebbe fatto di tutto pur di saltare il lavoro.
Diede una veloce occhiata allo schermo e lesse qualcosa su incidenti stradali a catena nel centro della cittadina.
Connor si riprese il telefono. “Hai letto?” inalò una gran boccata d’aria e continuò, muovendo le dita sullo schermo e cambiando sito: “Non è normale che ci siano così tanti incidenti a Cortez in una sola sera. Ne abbiamo pochissimi di solito. Qui dice che..” l’i-phone si illuminò e comparve il nome della madre di Connor. Il ragazzo rispose in fretta.
Grace si spaventò. Attese qualche secondo, fissando il viso dell’amico diventare bianco, mentre la madre urlava nel telefono.
Con uno scatto raggiunse la sua borsa, nel retro. Aprì la porta quasi saltandoci sopra. Anche il suo telefono stava squillando. Prese la chiamata: “Papà!”
“GRACE! Perché non rispondi al telefono? Dove sei?”
“Papà cosa succede? Sono al lavoro. Connor mi ha detto che ci sono degli incidenti! Tu stai bene?”
“Io sto bene tesoro! Tu devi tornare immediatamente a casa. Sali in macchina, non ti avvicinare a nessuno e non parlare con nessuno. Non prendere la strada principale.”
“Papà non posso lasciare il lavoro così! Non posso andarmene ci sono clienti…”
“Grace fai come ti ho detto! Non discutere! La gente sta morendo per le strade! Torna immediatamente a casa”
Grace inspirò forte e chiuse gli occhi. Avrebbe perso il lavoro.
Ma conosceva suo padre abbastanza bene da sapere che non stava scherzando e che la situazione era davvero brutta.
“Arrivo papà.” Chiuse la chiamata.
Corse indietro, l’adrenalina a mille.
“Connor dobbiamo andare!” esclamò cercando l’amico con lo sguardo.
Sentì una sirena della polizia e vide che si fermava davanti al McDonald.
Connor la prese per il braccio e la trascinò fuori.
Incrociarono un agente che urlò loro di chiudersi in casa, poi corse dentro al locale per avvertire anche i due clienti.
I due ragazzi raggiunsero il parcheggio correndo. Grace passava sempre a prendere Connor e lo riaccompagnava a casa perché vivevano vicini.
Si precipitarono in macchina. Grace inserì le chiavi e la accese. Mentre faceva retromarcia si udirono due colpi di pistola.
L’auto partì a tutta velocità.
Grace svoltò appena in tempo per evitare la via principale di Cortez. Connor proruppe in un grido di sorpresa quando passarono a pochi metri da un gigantesco ammasso di auto. Un camion-container che trasportava benzina era rovesciato su un lato, altre macchine ci erano finite contro e avevano preso fuoco. Decine di persone scappavano, urlavano, piangevano, cercavano superstiti tra le lamiere.
“Premi l’acceleratore! Subito!” sbraitò Connor in preda al terrore. Grace non se lo fece ripetere due volte. Connor gridò con tutte le sue forze e pochi istanti dopo si sentì una gigantesca esplosione.
Grace cercò di capire cosa succedeva dagli specchietti retrovisori. “Tutte quelle persone! È esploso il camion! Le possiamo aiutare?”
“NO! Portaci a casa il più veloce possibile!”
Grace era sull’orlo delle lacrime. Guidava a tutta velocità nel buio e poteva sentire le grida e gli scoppi che si erano lasciati alle spalle.
Connor le mise una mano sulla spalla. “Grace mi dispiace ma non possiamo fare niente. Non dobbiamo scendere dall’auto finché non siamo a casa. Hai parlato con qualcuno?”
“Ho parlato con mio padre. Mi ha detto di tornare a casa. Tu hai parlato coi clienti?”
“Si. Gli ho detto che c’era un’emergenza in città e che ce ne dovevamo andare tutti. Il resto credo che gliel’abbia detto quel poliziotto.”
“E gli spari? Che succede?”
“Mia madre mi ha detto che ci sono degli schizzati che attaccano la gente.”
Grace lo guardò confusa. “Intendi terroristi? Qualche pazzo con un fucile?”
“Non lo so di preciso. Mi ha detto che sono malati di mente. Mi ha detto di non parlare con nessuno e di non aiutare nessuno. Mio zio Calvin stava aiutando una coppia che si era schiantata in auto vicino a casa sua poco fa,  e lo hanno aggredito. Ora sta andando all’ospedale.”
Grace respirava affannosamente. Niente aveva più senso.
“Credi che sia la stessa malattia di cui stanno parlando da qualche giorno? Quella dei vaccini?” chiese al ragazzo.
“Io non ho sentito niente dei vaccini. Dicevano che è un virus dei topi o qualcosa del genere. Dicevano anche che si prende dai malati di AIDS. Non so se è la stessa cosa. Non si è capito niente di cosa stava succedendo.
“Già” concordò Grace.
Piantò un urlo e riuscì a evitare per un soffio un uomo apparso all’improvviso nel buio.
“Porca puttana!” esclamò Connor affacciandosi al finestrino posteriore.
“Connor siediti e mettiti la cintura!” strillò Grace.
Il ragazzo obbedì, inveendo ancora a mezza voce.
“Ho avvertito anche il barbone nel bagno. Gli ho urlato di scappare.”
Grace gli lanciò un’occhiata meravigliata. “Grazie al cielo! Hai fatto bene!”
“Cristo. Spero che trovi riparo da qualche parte almeno finché la polizia non risolve questa faccenda.”
Grace svoltò nella strada dove entrambi abitavano. Si fermò nel vialetto di Connor. Ad aspettarli c’erano la madre, che corse ad abbracciarlo, e i il padre, che imbracciava un grosso fucile.
La via era animata. Un furgone della polizia con altoparlante stava passando per informare tutti dell’emergenza. Diceva di chiudersi in casa e aspettare il via libera della polizia.
Grace salutò velocemente i genitori di Connor. Abbracciò l’amico per quanto la cintura di sicurezza glielo consentisse e ripartì.
Incrociò lo sguardo di Connor, ma non lo trovò spaventato. Il ragazzo fissava alto nel cielo l’elicottero militare che stava attraversando la zona, e nei suoi occhi comparve un lampo di follia.
Grace non ebbe tempo per approfondire.
Guidò fino a casa. Scese dall’auto e si precipitò dentro.
Suo padre scese velocemente le scale e la prese tra le braccia. Arrivò anche Brandon e si unì all’abbraccio. Grace lo prese in braccio e gli pulì il visetto inondato di lacrime.
Daniel Miller diede un bacio sulla guancia di ciascuno dei suoi figli, poi raccolse le due pesanti valige che aveva lasciato ai piedi delle scale e le caricò in auto.

Grazie a tutti i miei 5 lettori e a quelle persone meravigliose che mi lasciano una recensione, che io amo profondamente.
Spero che la storia vi piaccia!
Un abbraccio a tutti, se volete scoprire cosa succede a Grace, andate avanti con i capitoli!
*Nota: all'inizio la storia era inserita nella sezione di fanfiction di The Walking Dead, ma andando avanti a scrivere mi sono resa conto che a parte gli zombie, non ha niente in comune con la serie dato che non inserisco nè personaggi della serie, nè luoghi. Inoltre mi sentivo sola nella sezione perchè tutte le fanfiction riguardano i personaggi della serie tv e quasi nessuna prende solo l'ambientazione. Quindi eccomi qui :)

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Capitolo 2
*** South West Memorial ***


 
“Papà ho tanta paura”. Brandon ruppe il silenzio carico di tensione che si era creato all’interno della vettura.
Grace istintivamente si voltò verso il sedile posteriore e prese la mano del fratellino nella sua.
La vecchia Ford Focus sfrecciava per le vie di Cortez più che al di sopra dei limiti di velocità.
Nonostante Daniel Miller prestasse molta attenzione alla guida, era notte e gli abitanti si riversavano per strada. Più di una volta dovette schivare all’ultimo momento un passante o un autoveicolo che veniva caricato al di fuori di una casa.
Raggiunsero il South West Memorial Hospital dopo una decina di minuti. La strada principale era completamente sbarrata e sorvegliata da uomini in divisa militare.
Daniel bestemmiò tra i denti e batté un pugno sul volante, azionando il clacson.
La strada era completamente ingombra di automobili e persone a piedi. Molti cercavano di sorpassare la barriera dei militari, altri di scavalcare le recinzioni. Un agente dal tetto della sua vettura urlava nel megafono che l’ospedale era in quarantena. Nessuno poteva entrare o uscire. Tutti dovevano tornare a casa e barricarsi fino al termine dell’emergenza. Evitare il contatto con i contagiati.
“Rimanete in auto!” sbraitò Daniel prima di precipitarsi fuori dal veicolo e sbattere la portiera. Grace sobbalzò e si tolse la cintura per sporgersi verso il vetro. Seguì con lo sguardo il padre mentre cercava di farsi strada nella folla.
“Tornate alle vostre abitazioni. Vi contatteremo per darvi informazioni sui vostri famigliari che sono attualmente all’interno dell’ospedale nei prossimi giorni” ripeteva l’agente col megafono.
La folla urlava, piangeva, combatteva. Un militare sparò un colpo verso il cielo e ci fu un coro di urla.
“Mamma!” Brandon cominciò a singhiozzare indicando l’ospedale.
Grace lo prese in braccio e lo posò sulle proprie ginocchia.
Si accorse di stare tremando. “Brandon ascoltami.” Provò a fingersi calma. “Papà sta andando a prendere la mamma. Non dobbiamo preoccuparci.”
Sentì le lacrime del fratello inzupparle la maglietta del McDonald all’altezza della spalla.
Per un attimo pensò a quanto fosse sporca e non igienica.
Sua madre era dentro quell’ospedale. Le persone sparavano.
Chiuse gli occhi e scosse la testa, come per disfarsi dei pensieri che le attraversavano la mente.
Si concentrò nuovamente su suo padre. Si accorse di non poterlo più vedere tra la folla. Attese alcuni altri minuti, mentre le persone sfrecciavano intorno all’auto, alcuni tornavano a casa, altri giungevano all’ospedale. Vide dei feriti, alcuni zoppicavano, le persone che li accompagnavano supplicavano i militari di farli entrare. Un uomo aveva perso un braccio e sembrava svenuto, sostenuto da una donna e un poliziotto.
Si sentì un altro colpo di pistola e Grace non ce la fece più. Aprì lo sportello e lasciò Brandon sul sedile anteriore. Il bambino la guardò con occhi enormi, rotondi.
“Torno subito, vado a vedere se papà è entrato” disse Grace per rassicurarlo. “Chiuditi dentro, non fare entrare nessuno.” Terminò la frase dandogli un bacio sulla fronte, poi si diresse correndo verso la folla.
Provo a penetrare il muro umano. Chiese “permesso”, fu colpita ripetutamente da braccia, gambe e piedi, ma non si fermò.
Scorse suo padre e tentò di avvicinarsi.
“Le dico che mia moglie non è infetta!” urlava come Grace non gli aveva mai visto fare in tutta una vita.
“É un’infermiera! Per favore mi faccia entrare a prenderla!”
“Mi dispiace signore ma nessuno può entrare o uscire.”
“Ho capito! Ma le dico che mia moglie non è infetta!”
Un altro militare si avvicinò e diede una spinta a Daniel. L’uomo riuscì a mantenersi in piedi ma andò a sbattere contro un uomo anziano in lacrime. Si scusò e si rivolse al militare. Grace trattenne il fiato.
Il militare proruppe, con fare aggressivo: “Non sei l’unico che ha famiglia là dentro. Ora vattene a casa e ringrazia il signore di non essere morto.”
“Lei non può trattarmi così! Non capisce che non si risolverà nulla con la violenza!”
“Tu non capisci che tutte le dannate persone qui vogliono entrare. Ma tutti quelli dentro all’ospedale sono spacciati. Non possiamo fare nulla se non proteggere quelli che ancora ce la possono fare. E sono gli idioti come te che ci impediscono di fare il nostro lavoro.
Daniel era ammutolito. Anche la folla attorno ai due si era calmata.
L’uomo trovò con lo sguardo la figlia. I suo occhi erano carichi di tristezza. Si voltò vero il suo interlocutore, e con calma rispose: “So che tutto quello che mi dice è vero. Ma mia moglie è lì dentro, e io farò qualsiasi cosa per portarla in salvo.”
Il militare sostenne lo sguardo. Scosse la testa e puntò il dito verso l’ospedale. Le parole gli uscirono con difficoltà dalla gola. “Anche mia moglie è lì dentro. E mia figlia. Ora torna a casa per favore.”
Daniel lo guardò diritto negli occhi, annuì e si diresse verso Grace. La prese per mano e raggiunsero l’auto dove Brandon aveva sbirciato tutto il tempo attraverso il finestrino.
Grace fece per aprire la portiera del passeggero, ma suo padre scosse la testa.
“Grace” le disse, prendendole il volto tra le mani “ora tu devi fare esattamente quello che ti dico. Hai capito?”
Grace annuì, mentre sentiva lo stomaco sprofondare.
“Devi guidare l’auto fino a casa. Devi barricarti dentro con Brandon, e aspettare che io e la mamma torniamo. Partiremo tutti insieme. Voglio che stiate sempre in cantina. Blocca la porta. C’è acqua e cibo, e le vecchie brandine di quando eravate bambini.”
“Papà ti prego vieni con me non posso fare tutto da sola” lo implorò Grace. Il terrore aveva cominciato ad annebbiarle la vista.
Daniel le mise le chiavi in mano. Le prese le mani nelle sue. “Ti prego Gracie.” Gli occhi gli divennero lucidi. “Non so come andranno le cose qui. Ma non posso andarmene senza la mamma. Non pensare che sia egoista. Tu devi proteggere te stessa e Brandon. Ci rincontreremo presto.”
La abbracciò forte e a lungo. Abbraccio forte Brandon e gli sussurrò qualcosa all’orecchio.
Il bambino non voleva lasciarlo andare. Piangeva come un neonato e il faccino era invaso di moccio.
Grace lo prese e lo caricò in auto. Cercò gli occhi del padre per un ultimo addio, ma poté vedere solo la schiena dell’uomo, che tentava nuovamente di penetrare il blocco.
Salì in auto. Mise in moto. Brandon strillava come un’aquila. Lo prese di peso e lo assicurò al sedile con la cintura mentre il mostriciattolo si divincolava e cercava di morderla.
“MAMMA! PAPÁ!”
Grace cercò di calmarlo ancora. Provò a parlargli, a spingerlo indietro.
Si voltò per tornare al posto del conducente e lanciò un grido.
C’era un uomo che batteva i pugni contro il finestrino. Grace provò ad urlare ancora ma non uscì nessun suono dalla sua gola. Solo puro terrore strozzato. Gli occhi dolorosamente spalancati. Le mani contratte nella stoffa del sedile. La faccia di quell’uomo era stata mangiata per metà.
Fu con grande dolore che mise in moto e fece manovra per tornare indietro. Cozzò contro altre auto, sbagliò a inserire tutte le marce, urtò un uomo e continuò. Brandon piangeva e sbraitava. Dalla folla si alzarono urla disumane. I militari fecero fuoco.
La Ford Focus sfrecciava nuovamente per le strade di Cortez. Grace non capiva più nulla. Sentiva un unico suono acuto nelle orecchie. Tutti i muscoli erano irrigiditi.
Alcune persone fecero ampi gesti dal ciglio della strada per chiederle di fermarsi. Grace si riscosse dal torpore causato dalla paura.
Non fece in tempo a fermarsi. Mai fermarsi.
Accelerò.
Brandon si liberò della cintura dopo vari tentativi e si alzò in piedi.
Grace gli urlò di sedersi con tutte le energie che aveva in corpo, ma il bambino non ascoltava e si dimenava. Voleva tornare indietro.
Grace inchiodò.
“Siediti subito!”
“Voglio tornare da mamma e papà! Non voglio stare con te! Portami da loro!”
“Brandon non fare lo stupido! Dobbiamo tornare a casa! Dobbiamo aspettarli a casa!”
“Come fanno a tornare se non hanno la macchina! Tu sei stupida! Dobbiamo tornare a prenderli!”
Le diede uno schiaffo.
“Idiota!” Grace lo prese per le braccia e lo costrinse di nuovo sul sedile. Il bambino scalciò e la morse. “Ti odio!” urlava. “Ti odio!” mentre la colpiva con i pugnetti.
“Stai zitto e stai seduto. Per favore Brandon per favore!”
Grace era in preda alla disperazione.
Riuscì a calmarlo dopo alcuni minuti. Ma il bambino le teneva ancora il broncio.
Grace controllava spasmodicamente la strada per assicurarsi che non arrivassero altri uomini infetti come quello con la faccia a brandelli.
Ripartì. Ora viaggiavano in silenzio.
Incrociarono diversi veicoli militari, tutti diretti verso Il South West Memorial.
Brandon ebbe un altro attacco di pianto e urla e si slacciò nuovamente la cintura. Grace si voltò per sgridarlo e rimetterlo a posto, e non fece in tempo a notare i due fari che si avvicinavano a velocità estrema dall'oscurità. Tentò di sterzare, ma era troppo tardi. Le due auto collisero.
L’impatto fu tremendo. Tutto ciò che Grace vide furono vetri e sangue. Sentì il suo corpo sbalzato con violenza e trattenuto con altrettanta violenza dalla cintura. Batté la testa contro le pareti dell’auto e forse contro la terra. Nero.
Si svegliò. Tossì, vomitò su se stessa. Si liberò della cintura. Non riusciva bene a vedere. Il sedile del passeggero era vuoto. Il vetro del parabrezza infranto e coperto di sangue. Scese dall’auto e cadde a terra. Le gambe non la reggevano. Si trascinò sull’erba e poi a gattoni verso quello che sembrava suo fratello. Il bambino era disteso sull’erba, le gambe e le braccia in posizioni innaturali, un vetro conficcato nell’occhio destro, morto. Grace lo toccò, gli prese le mani. Gli pulì il viso, esportò il vetro. Piangeva e rideva e tremava incontrollatamente. Prese Brandon in braccio, lo strinse a se, ma la testa del bambino ricadde sulla schiena e penzolò come un meloncino.
Grace mollò la presa e vomitò tutto ciò che aveva in corpo sull’erba. Vomitò e chiamò aiuto e pianse e poi si sedette sulle ginocchia e rise. Rise fino a farsi male guardando la testa del fratello che ciondolava come un arbre magique.
Scorse l’altra auto, poco distante. Il conducente provava ad uscire dall’abitacolo, ma l’auto era capovolta.
Grace si alzò e fece per dirigersi, o gattonare, verso l’auto. Poi sentì dei passi poco lontani. Si voltò e cercò di scrutare nel buio assoluto. L’unica fonte di luce erano i due fari dell’auto di suo padre, forti e brillanti tanto che facevano male agli occhi.
Era un uomo.
“Aiuto!” gridò la ragazza. “Mi aiuti!”
L’uomo non accelerò il passo.
Con andatura claudicante raggiunse la Ford Focus e solo quando fu a pochi passi da lei, Grace notò che aveva un coltello infilzato nel petto.

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Capitolo 3
*** Campbell's ***


La Mercedes rossa sfrecciava sull’autostrada bagnata a gran velocità, facendo lo slalom tra le carcasse di automobili abbandonate lungo il tragitto.
Il guidatore era impegnato in una furiosa discussione con una donna che gli sedeva accanto.
Una ragazzina di circa quindici anni piangeva forte appallottolata sul sedile posteriore, stretta tra le braccia di un ragazzo più grande.
Il ragazzo urlava ai due impegnati nella lite di smetterla, ma non era ascoltato. Portava una pistola agganciata ai jeans.
Grace sedeva il più in disparte possibile accanto ai due ragazzi, le dita affondate nelle ginocchia, la cintura di sicurezza che la tratteneva a ogni scossone.
Nella campagna adiacente talvolta si poteva scorgere un gruppo di persone impegnate in una strana passeggiata claudicante, talvolta corpi senza vita abbandonati agli elementi naturali.
La gramigna e i papaveri ondeggiavano al passaggio dell’auto, un pettirosso spiccava il volo da un ramo d’abete.
Il sole era basso quasi al limitare delle montagne lontane all’orizzonte.
L’auto intraprese una strada nella campagna e giunse al limitare di una graziosa cittadina di nome Greeley.
La via era vasta e con una buona visuale. Ai due lati erano situati negozi e fast food.
Il silenzio greve era rotto solo dal rombo del motore della Mercedes e dalle urla furiose che l’auto si portava dietro.
Parcheggiarono nei pressi di un grande Walmart.
L’uomo alla guida scese dall’auto, fece il giro e trascinò la donna con cui stava discutendo fuori dall’auto, tenendola per i capelli. Iniziò a picchiarla, mentre lei si difendeva urlando, graffiando, scalciando. Il ragazzo scese dal sedile posteriore e intervenne nella rissa.
Grace si precipitò fuori dalla Mercedes non appena riuscì a liberarsi dalla cintura. Non si fermò nemmeno ad osservare la scena, ma urlò i ringraziamenti per averle dato un passaggio e sfrecciò verso l’ingresso del supermercato. Superò con agilità e silenziosamente un gruppo di ambulanti intenti a divorare un gatto e respirò l’odore di decomposizione che emanavano quei corpi non-morti. Percorse l’intero cortile nascondendosi dietro bidoni, strisciando contro le auto per non farsi vedere dai numerosi corpi che si aggiravano vacui e inquieti e così raggiunse la porta principale.
Fu a quel punto che udì uno sparo.
Si voltò per un secondo, in tempo per vedere che gli ambulanti avevano cambiato obiettivo, attirati dal forte rumore.
Sfruttò la situazione a suo vantaggio.
Estrasse dalla tasca la lista che aveva compilato dietro un volantino.
Raggiunse il secondo piano, distrasse gli eventuali ambulanti lanciando qualsiasi cosa le capitasse a tiro nella direzione opposta alla sua meta, per ingannarli.
L’edificio era buio e l’aria impregnata di polvere. In ogni corsia che percorreva Grace poteva udire i bassi grugniti dei non- morti alla ricerca di cibo.
Regnava il disordine: era evidente che molti altri prima di lei avevano tentato di fare scorta di cibo e rifornimenti. Giacevano sul pavimento scaffali ribaltati, riviste sparpagliate e una quasi uniforme patina vischiosa di frutta marcia, sangue e brandelli di carne.
Grace si avvolse la sciarpa che portava al collo attorno al naso e alla bocca per sfuggire al fetore ma dovette lo stesso resistere a violenti attacchi di vomito.
Riluttante, immerse le mani nella poltiglia e se la cosparse sui vestiti. In tal modo gli ambulanti non avrebbero potuto sentire il suo odore umano e attaccarla.
Si inoltrò tra le corsie, tendendo l’orecchio per evitare zone troppo affollate. I grugniti e i suoni strascicati dei non-morti la accompagnarono lungo tutto il percorso.
Fu difficile individuare tutto ciò che le serviva, ma riuscì a raggruppare oggetti e cibo a sufficienza. Quando sentì gli spari provenire dal piano inferiore, prese la più vicina uscita di emergenza e si dileguò a piedi.
Quando si sentì abbastanza sicura per fermarsi, era ormai giunta in piena campagna, l’autostrada a qualche centinaio di metri.
Il tramonto stava lasciando il posto alla notte e Grace, sfiorata dalla brezza, avvertì sulla pelle i primi brividi.
Si creò una tana raggruppando cumuli di erba secca e fieno e vi si rifugiò.
Pensò che con l’inverno avrebbe dovuto trovare una soluzione differente.
Quando si fu guardata intorno abbastanza a lungo ed ebbe appurato che non c’erano pericoli, aprì lo zaino nero e controllò ciò che aveva saccheggiato dal buio Walmart.
Compreso lo zaino, era riuscita a recuperare un martello di medie dimensioni, un paio di torce a batteria e una a manovella, due cacciavite, un coltello da cucina ancora racchiuso nella plastica dell’involucro, una borraccia e una bottiglia di coca cola, due spazzolini, un dentifricio, una confezione di shampoo, quattro accendini e dello spago.
Inoltre in un borsone rosso –che si affrettò a ricoprire di terra per mimetizzarlo- aveva inserito lattine di zuppa e cibo prese a caso da uno scaffale.
L’ultimo oggetto era un romanzo di Stephen King, spesso ma leggero.
Grace era consapevole che il peso della merce che portava con sé era eccessivo, ma preferì non liberarsi di nulla perché tutto le poteva tornare utile.
Non aveva potuto prendere né vestiti, né medicinali né un sacco a pelo, e si dispiacque di ciò perché erano i primi tre elementi della sua lista.
Scoprì però che aveva raccolto inavvertitamente anche un pennarello indelebile nero.
Se lo passò tra le dita, incuriosita. Lo provò sul palmo della mano: funzionava.
Cenò ingollando una porzione di zuppa di pollo Campbell’s direttamente dalla lattina e quando ebbe finito si lavò i denti a secco con spazzolino e dentifricio. Assaporò il gusto di menta e pulizia che non sentiva da tempo.
Alzò il viso verso il cielo scuro e poté intravedere alcune stelle attraverso le coltri di nubi.
I capelli castani le danzavano intorno al viso, solleticandole il naso.
Pensò al suo viaggio che da un mese a quella parte l’aveva condotta a nord, oltre Denver, molto lontano da dove era nata e vissuta.
Pensò alla confusione, alle morti, alla paura.
Pensò alla falsa promessa di salvezza e a come aveva dovuto badare a se stessa per tutto quel tempo.
L’ultimo pensiero andò ai suoi genitori, che vivi o morti erano e sarebbero stati sempre vicini a lei Si voltò di scatto, convinta di aver udito un rumore. Le ci vollero dieci minuti per tranquillizzarsi, eppure aveva ancora il cuore in gola.
Come tutte le notti, come tutti i giorni, viveva nella paura.
Faticò ad addormentarsi, e si svegliava spesso al minimo rumore. Dopo poco tempo recuperò il pennarello indelebile e disegnò sul proprio avambraccio tre figure stilizzate e sorridenti: mamma, papà e Brandon.
Se li strinse al cuore e chiuse gli occhi.
Il giorno seguente l’alba portò col vento un persistente odore di putrefazione.
Grace si svegliò di scatto, ansimando per la paura.
Raccolse le due borse senza nemmeno pensare e cominciò a correre verso l’autostrada, sbandando per la vista annebbiata e il corpo intorpidito.
Le sneakers consunte affondavano a ogni passo nella terra umida e solo quando colpirono l’asfalto la ragazza poté accelerare il passo.
La strada era intasata di auto abbandonate. Da alcune provenivano i lamenti di non-morti bloccati all’interno delle vetture.
Grace non pensò nemmeno un attimo a rifugiarvisi. Il movimento era la chiave.
Aveva già vissuto quella situazione: l’odore, lo sgomento, la fuga, i nascondigli. Non poteva più sbagliare.
Voltò freneticamente il capo alla ricerca della fonte del fetore. Nulla.
Continuò dando le spalle alla città.
Quando non ebbe più fiato, rallentò e proseguì camminando.
Udì un rombo alle sue spalle, progressivamente più intenso.
Trovò rifugio fulminea infilandosi sotto un camioncino bianco.
La Mercedes rossa le sfrecciò accanto qualche secondo dopo.
Attese ancora contando i secondi nella mente, poi sgusciò fuori e riprese a correre.
Fu troppo tardi quando si accorse del leggero tremolio dell’asfalto e del brusio indistinto che poteva udire a fatica nell’intervallo tra i propri respiri affannati.
Si bloccò, inorridita,
Una massa compatta, lugubre, grigia e putrida era a poche centinaia di metri in fronte a lei, e ci stava correndo contro.
Troppo tardi per cambiare direzione. Troppo tardi per nascondersi.
Scavalcò il guardrail e si mise a correre verso l’aperta campagna, ma presa dal panico tornò sui suoi passi. La piatta vastità non offriva rifugio.
Girò in tondo, aprì portiere e le richiuse. Uscì di nuovo verso la campagna e di nuovo tornò sull’autostrada. Quando ormai non riusciva più a respirare e le lacrime le rigavano il viso, individuò un camion abbastanza alto, vi spinse contro un’auto e salì sopra il cassone del grande mezzo.
Vi si gettò sopra, sdraiata, tremante. Si appiattì contro la superficie fredda e smise di respirare. Non si mosse, non fiatò.
Il sudore le colava dalla fronte.
Sotto di lei, l’orda di cadaveri stava attraversando il groviglio di mezzi abbandonati. La puzza era insopportabile. Gemevano e rantolavano. Grattavano i finestrini delle auto con le unghie, strascicavano i piedi sull’asfalto. Si urtavano tra di loro, urtavano il metallo.
Alcuni si fermarono sotto il camion e tentarono di arrampicarsi goffamente.
Dalle loro gole fuoriuscivano stridori disumani.
Grace si sentì ondeggiare. Le parve che sempre più di quelle creature si ammassassero attorno al suo rifugio.
Cercando di muoversi il meno possibile estrasse una lattina dalla borsa.
Zuppa di ostriche Campbell’s.
Si alzò a sedere e lanciò la lattina poco distante, che si fracassò contro il finestrino di una Ford, poi tornò ad appiattirsi e a fingersi morta.
Sembrò funzionare: gli ambulanti erano attratti dal rumore.
Il tempo si dilatò.
Grace rimaneva aggrappata con le unghie sopra il camion e i non-morti le sfilavano sotto.
Ogni centimetro del suo corpo bruciava e doleva, esposto al sole che ormai era alto nel cielo e contratto dalla paura.
Strinse i denti fino a che non le fecero male.
Il tempo non passava.
I lamenti, i suoni orridi si ripetevano.
Il fetore ristagnava.
Ad un certo punto, forse anni dopo, non sentì più nulla.
Attese ancora e ancora.
Quando si decise a sbirciare oltre il bordo, ormai il sole aveva cominciato la discesa nel cielo.
L’orda aveva spostato l’auto che la ragazza aveva usato come scala per salire sul camion.
Scese dalla parte anteriore, e atterrò rovinosamente al suolo.
Non controllava più bene la mobilità del suo corpo.
Gemette e cadde sdraiata sulla schiena.
Ansimò e ringraziò in un sussurro di essere ancora viva.
Decise di rimettersi subito in marcia.
Sulla fiancata del camion erano impressi i graffi e il sudiciume che avevano lasciato gli ambulanti. Grace li osservò.
Estrasse il pennarello nero e scrisse sulla superficie bianca: “Salite qui per rifugio di emergenza.”
Si sentì meglio.
Contemplò per qualche momento la scritta, poi aggiunse sotto: “Che Dio vi aiuti” e riprese la marcia.

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Capitolo 4
*** Captain Morgan ***


Gli alberi dalle foglie verde acceso dell’estate frusciavano al passaggio del vento tra i rami.
Il sole imponente nel cielo aveva raggiunto il mezzogiorno e splendeva mitigando la frescura portata dalla forte brezza.
Un fiumiciattolo scorreva rapido lungo il suo letto di ciottoli e ghiaia, ombreggiato dalla fitta vegetazione del bosco.
Grace si inginocchiò e si spogliò dei vestiti luridi che indossava.
Rimasta nuda, immerse con cautela prima i piedi e poi la parte inferiore del corpo nel fiume, controllando a intervalli regolari che non arrivasse nessuno dal fitto del bosco.
Utilizzò fino all’ultima goccia rimasta nella confezione di shampoo, sfregandosi la pelle e i capelli fino a far colare la schiuma densa colorata del nero della sporcizia che aveva raccolto.
Battendo i denti e rabbrividendo si sciacquò nell’acqua gelata. Immerse anche gli indumenti sporchi e li sfregò contro i ciottoli levigati.
Si alzò in piedi, stringendo le braccia al petto, così da farsi investire dal vento.
Ogni suo muscolo era irrigidito e tremante, ma la pelle si stava asciugando.
Indossò i nuovi abiti: una larga camicia a quadretti e dei jeans vecchi e logori.
Si infilò le scarpe senza calze e strizzò i capelli sulle rocce ricoperte di muschio.
Le gocce picchiettarono al suolo.
Legò i capelli in una treccia bassa, raccolse le sue cose e riprese la marcia.
Il bosco aveva molto da offrire: rifugi ombrosi durante le ore più calde del giorno, radure in cui splendeva il sole, nascondigli e cibo.
D’altra parte Grace si sentiva costantemente osservata da quando cinque giorni prima si era addentrata nel parco naturale.
Ogni scricchiolio, ramoscello spezzato o cinguettio di uccello erano un segnale d’allarme.
La ragazza proseguì lungo il corso del fiumiciattolo, sperando di raggiungerne la foce.
Nonostante avesse razionato il cibo in scatola, il borsone rosso pesava meno che mai, segno che le erano rimaste poche scatolette.
Si strofinò il collo dolente con una smorfia, trovando il colletto della camicia impregnato dell’acqua che i capelli umidi vi avevano lasciato.
 
La sera arrivò tardi, portando con sé gli odori del bosco e dell’estate.
Grace approfittò delle ultime luci del tramonto per trovare un rifugio.
Aveva individuato con grande gioia una pista turistica, ed era giunta ad una struttura montata su un albero, adibita a postazione per il bird watching.
Quando la scorse da lontano sorrise per il sollievo e vi corse incontro. Abbandonò le borse al suolo e girò intorno al grosso albero.
Non c’era possibilità di salire.
Si intravedeva una scala di corda raggomitolata in alto, sulla piattaforma, situata almeno a tre metri di altezza.
Grace si guardò alle spalle sentendo la paura che le cresceva in petto.
Sfilò il coltello da cucina dallo zaino e tentò di arrampicarsi sul tronco conficcando il coltello nella corteccia per fare presa.
Dopo essere caduta a terra per la terza volta, mentre le ombre prendevano il posto della luce, corse allo zaino e vi estrasse il cacciavite.
Srotolò tutta la matassa di spago che possedeva e legò stretto il cacciavite.
Lo lanciò sulla piattaforma, prima con disperazione, poi con più calma per migliorare la precisione.
Dopo qualche tentativo agganciò la scala e con uno strattone ne fece scendere un capo a terra.
Si disse che avrebbe gioito una volta al sicuro e, raccolti gli zaini, si arrampicò.
Giunta sulla piattaforma tirò su la scala di corda e si appoggiò con le spalle al muro, chiudendo gli occhi per qualche istante.
Ormai non poteva più scorgere nulla nel buio assoluto della natura.
Si mise in piedi e a tentoni entrò nella casetta, tastando con le mani davanti a sé.
Con il piede urtò qualcosa di morbido e cadde indietro per lo spavento, inciampando in arti umani sconosciuti.
Si coprì la bocca con la mano per non urlare.
Con il respiro affannoso si allontanò il più possibile dal corpo, strisciando sul pavimento di assi di legno.
Raggiunse ansimando lo zaino, estrasse il coltello e la pila e li puntò entrambi contro il corpo.
Sdraiato inerme, supino, c’era un uomo anziano, con vestiti da escursione e metà del viso imbrattata di sangue.
Grace si rese conto che all’uomo era stato sparato in testa e, secondo quello che aveva imparato da Marzo a quella parte, ciò significava che il corpo non era né vivo, né non-morto.
Nonostante fosse rincuorata, non abbassò la guardia.
Si avvicinò all’uomo e lo osservò a lungo.
Il respiro della ragazza era pesante e accelerato, sovrastato solo dal rumore degli insetti notturni e del sottobosco vivo e strusciante.
Nella mano destra lo sconosciuto teneva una pistola.
Grace soppesò la decisione di gettarlo dall’albero.
Se l’avesse fatto avrebbe avuto più spazio, ma avrebbe anche rischiato di attirare animali selvatici o non-morti in cerca di carne fresca.
Constatò che la morte era avvenuta il giorno stesso o forse quello prima, dato che non c’era ancora il persistente odore di cadavere né segno di putrefazione.
La ragazza decise che era troppo pericoloso gettarlo a terra, quindi gli frugò nelle tasche, lo spogliò del gilet mimetico e lo rivoltò sulla schiena.
Infine ispezionò gli oggetti che giacevano sul pavimento: lattine di cibo e bottiglie di liquore, tutte vuote.
Grace sentì un rantolo provenire da un punto imprecisato della foresta e spense la luce.
Allontanò il cadavere spingendolo con i piedi fino alla parete.
Si sdraiò a terra e si raggomitolò coprendosi con il gilet.
L’aria si faceva sempre più fredda.
Si asciugò il naso.
Tentò di dormire, ma sentiva la presenza estranea accanto a sé.
Le sembrava che in ogni istante il vecchio si sarebbe svegliato e l’avrebbe attaccata.
Dopo qualche tempo si assopì, ma si riscosse all’improvviso.
Vedeva nel buio le ultime immagini dell’incubo che l’aveva risvegliata: corpi che la inseguivano nel bosco. Le loro bocche putride si aprivano davanti al viso della ragazza, addentandole le guance, strappando la carne.
Grace aprì la bocca in un grido muto e fu scossa dai singhiozzi.
Afferrò il coltello e in preda al panico lo infilò nel cranio del vecchio, fino a che non sgorgò tanto sangue da inzuppare la camicia azzurra del cadavere, e inondarne il viso ruvido e pacificato dalla morte.
 
Il giorno seguente cominciò presto per Grace.
Fino dalle prime luci dell’alba aveva deciso che era inutile tentare di dormire. Lo stomaco vuoto e la paura la tenevano sveglia e sofferente.
Inoltre era scoppiato un forte temporale, e l’aria era sferzata dai tuoni e dallo scrosciare incessante della pioggia.
Grace decise che avrebbe aspettato che il temporale cessasse al sicuro nel suo nuovo riparo.
Si tenne occupata: pulì il coltello, inserì la pistola appena trovata nello zaino e per prenderla dovette fare leva con il coltello per aprire le dita del morto che la stringevano saldamente.
Fece l’inventario di ciò che le era rimasto.
Aprì e divorò con gusto un’intera lattina di zuppa di pomodoro.
Mentre ne leccava i bordi, stando attenta a non tagliarsi la lingua con l’alluminio tagliente, scorse tra le bottiglie di liquore vuote accatastate contro la parete una certa quantità di liquido ambrato.
Tra tintinnii di vetro spostato, trovò con enorme sorpresa una bottiglia integra di Captain Morgan.
La prese tra le mani e controllò che il tappo fosse sigillato.
Si guardò intorno, incredula, come a controllare che nessuno la stesse guardando.
La pioggia batteva aspramente sul tetto della casetta di legno e si insinuava all’interno, picchiettando in rade gocce sul pavimento.
Grace si appoggiò alla parete ed estrasse il pennarello indelebile e il libro di Stephen King: It.
L’aveva letto l’anno prima, quando lei e la sua famiglia avevano passato una lunga e noiosa vacanza in Louisiana.
Stappò la bottiglia e ne prese un sorso. Si sentì bruciare la gola.
Con il pennarello indelebile scrisse sulle assi del pavimento il proprio nome, seguito da un ringraziamento per la bottiglia.
Guardò le parole appena scritte.
Sbuffò e si affrettò a scrivere un piccolo epitaffio al morto.
Si distese, allargando le ginocchia in modo tale da avere una buona visuale su una delle finestre.
Prese altri due sorsi di Rum e ascoltò il rumore della pioggia.
Dopo poco sentì il dolce torpore dell’alcol che le rilassava i muscoli e una vaga sensazione di calore.
Aprì il libro alla pagina bianca finale e andando a ritroso cominciò a scriverci sopra con il pennarello indelebile, tenendo il tappo tra i denti.
“Sono Grace Miller. Sono in una casetta per l’avvistamento degli uccelli, insieme ad un cadavere che si è sparato ieri. Beveva molto.”
Bevve un ultimo sorso dalla bottiglia, poi la sistemò nel borsone rosso e richiuse la cerniera.
“Brandon è morto. È successo il primo giorno, quando tutto è andato in pezzi. Mia mamma si era già trasformata, e ho dovuto spararle in fronte. Papà non l'ho trovato, ma sono certa che sia morto .
Quando sono scappata dall’ospedale non sapevo ancora cosa fossero queste creature. Non sapevo ancora nulla. Ho imparato tutto da sola.
Delle persone mi hanno aiutato, ma sono tutte morte. Io mi ero nascosta nel mobile sotto il lavandino del bagno. Non li hanno uccisi i non-morti, ma i vivi.
Ci sono gruppi armati di banditi che uccidono la gente per prendere le loro provviste, altri lo fanno per il gusto di uccidere. All’inizio mi sono fidata di un gruppo di persone, a Cortez, ma poi mi hanno picchiata e usata. Mi usavano come esca per distrarre i vaganti mentre recuperavano cibo.
Ho imparato a nascondermi, a essere invisibile.
Non starò mai più con nessun gruppo.
Le persone con cui stavo facendo il viaggio verso Denver erano molto gentili. C’erano anche dei bambini. Speravano di essere accolti in una base militare. Quando siamo arrivati la base era infestata. Un giorno sono tornata con della frutta secca che ho trovato in una cantina e li ho trovati tutti morti. Avevano sparato anche ai bambini.”
Sospirò.
Sentì un piccolo gruppo di vaganti transitare sotto la casetta.
In breve tempo i rantoli scomparvero, soffocati dalla pioggia.
“Sono stata molto fortunata. Molte persone mi hanno aiutata. Questa casetta sull’albero è una benedizione.
Ma ho paura che quando arriverà l’autunno non sopravvivrò.
La mia speranza era di arrivare a Denver e poter vivere in un luogo protetto, come i militari ci avevano promesso. Ma non esiste un posto del genere.
Non esiste più la tranquillità.
Ho pensato di morire di fame e di sete. Ho bevuto l’acqua sporca delle pozzanghere e ho mangiato insetti.
Ho vissuto come un animale da quando sono arrivata nel nord del Colorado. Ho dormito nel fieno e mi sono ricoperta di terra e sudiciume per non essere individuata.
Ringrazio ogni giorno papà per avermi portata in campeggio ed avermi insegnato a cacciare e accendere il fuoco.
Molti non sono stati fortunati come me.
Ogni tanto immagino che mamma e papà siano ancora vivi e mi stiano cercando.
Ma non è reale.”
Grace si alzò, stiracchiò i muscoli, si accertò che nessuno avesse individuato il suo nascondiglio, fece stretching.
Il collo e la schiena le dolevano molto, a causa degli zaini che portava sulle spalle da quando aveva saccheggiato il Walmart.
Con il pennarello indelebile cominciò a disegnare sul legno. Cercò di copiare il paesaggio maestoso del Colorado, con le sue montagne innevate e la natura rigogliosa.
Passò un’altra notte. La ragazza tremava stringendosi nei vestiti leggeri.
Accanto a lei il corpo andava in decomposizione e la ferita alla testa era ormai un banchetto aperto per le mosche.
La mattina seguente partì appena una sottile lama di luce penetrò dalla finestra intagliata, dando prova che il cielo era tornato sereno.
Si accertò di aver preso tutto e si incamminò sul sentiero turistico, camminando sulla terra fangosa.
Quando si accorse che stava lasciando delle tracce troppo evidenti, assicurò con dello spago una manciata di foglie ad ogni scarpa.
Camminando controllò la pistola: non c’erano colpi.
 
 
 ----Ciao a tutti :) con molta fatica sono arrivata al quarto capitolo, e credo stia andando bene.
Se vi piace, non vi piace, vi fa schifo questa storia please scrivetelo perchè c'è sempre un ampio margine di miglioramento e tanto spazio per il dialogo.
Love-----

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Capitolo 5
*** Coca Cola ***


“Metti giù la pistola!”
“Chi siete?”
“Mettila giù.”
“No.”
“Metti giù la pistola o finirai per farti male.”
“Voglio solo andare per la mia strada. Non voglio problemi.”
“Allora devi mettere giù la tua pistola.”
“Mi sparerai se metto giù la pistola.”
“Non ti sparerò.”
“Perché dovrei fidarmi di te?”
“Perché non sono una persona cattiva.”
Grace sospirò, guardando l’uomo negli occhi.  Le braccia erano tese di fronte al suo viso, stringendo l’arma, tremanti per la tensione.
Le abbassò, titubante.
“Ora falla cadere a terra.” Il tono dello sconosciuto era fermo e incoraggiante.
“Ok.” Grace appoggiò la pistola a terra e la spinse via con il piede “Ma non spararmi.”
Lo sconosciuto sorrise.
Sistemò l’arma nella cintura dei jeans e si avvicinò a Grace.
Le tese la mano.
“Mi chiamo Forrester.”
“Grace”
Si strinsero le mani, ridendo per la tensione.
Forrester era un uomo di circa trentacinque anni, dalla corporatura massiccia, gli occhi azzurri e il viso pulito.
Si avvicinò anche la donna che era rimasta qualche passo indietro.
“Io sono Manu.” Era scura, con tratti esotici nell’aspetto e nell’accento.
“Avete un campo qui vicino?”
“No.” Rispose Manu “Siamo in viaggio. Io Forrester e Russell.”
Grace si guardò intorno. “Dov’è Russell?”
Manu indicò verso il corso del fiume che scorreva a pochi metri da loro.
“è in città, da quella parte. Alla ricerca di cibo e di un rifugio.”
La ragazza si voltò ad osservare la direzione indicata e poté scorgere solo alberi e case e una piazza circolare deserta in lontananza.
Un leggero vento scuoteva le chiome degli alberi creando un intenso fruscio che si univa al possente rumore dell’acqua che scorreva.
“Allora Grace” cominciò Forrester “sei sola?”
“Si.”
“Da quanto?”
“Circa due mesi.”
I due si lanciarono un’occhiata. Forrester scrollò le spalle e aggiunse “Se vuoi puoi rimanere con noi.”
Per alcuni secondi nessuno aggiunse nulla.
Grace guardava lontano, oltre gli alberi. I due guardavano la ragazza in attesa di una risposta.
“D’accordo.”
 
 
Si assicurarono due volte che tutte le tapparelle fossero abbassate e le porte bloccate dall’interno.
Accesero due candele che avevano trovato nei cassetti e altre due che Manu aveva nello zaino.
Russell era un tipo allegro, sui quaranta anni. Parlava con l’accento del sud e stava entusiasticamente raccontando a Grace dei suoi successi con la caccia.
Manu ridacchiava. Anche lei aveva circa quaranta anni, la pelle abbronzata e gli occhi neri da gatta.
 Portava una canotta nera e dei pantaloni attillati che lasciavano intravedere il suo fisico atletico.
“Sai, io sono stata nell’esercito molti anni” disse, passando a Grace una coperta di pile “ed è stata la mia fortuna quando è cominciato tutto questo.”
Posizionarono le poltrone e il divano in modo da formare un cerchio attorno al tavolino su cui erano posate le candele e Grace offrì a tutti la cena.
Non le dispiaceva liberarsi di un po’ del peso che ogni giorno le spaccava la schiena, e i tre furono deliziati dal cibo in scatola.
“Non mangiavamo del cibo in scatola da settimane” spiegò Forrester. “Abbiamo attraversato a piedi il parco naturale e le nostre provviste sono andate perdute guadando il fiume”.
Aveva l’aria di uno che avesse perso molto peso in poco tempo.
Grace gustò la sua zuppa di legumi godendosi il tepore e la comodità del nuovo rifugio.
“Raccontaci di te, ragazzina” iniziò Russell “Raccontaci di come hai fatto a sopravvivere da sola all’apocalisse.”
Nella penombra l’uomo si stagliava magro e atletico illuminato dalle fiamme tremanti.
Aveva i baffi e portava una collanina al collo con un dente di squalo, e a Grace ricordò un cacciatore di alligatori della Louisiana.
“Lavoravo al McDonald la notte che è iniziato tutto.”
“Al McDonald!” fece eco Russell “avresti potuto chiuderti dentro e vivere lì.”
Grace scosse il capo sorridendo e continuò: “Ho perso la mia famiglia quella notte. Tutti morti.”
“Già” Forrester annuì da sopra la scatoletta di zuppa di pollo.
“Credo che ci siamo passati tutti, prima o dopo” confermò Manu.
Grace sospirò.
“Poi ho cercato aiuto. Delle persone mi hanno ospitato nella loro casa. Sono tornata nella casa dove vivevo, a Cortez. Ho messo in uno zaino vestiti, soldi, cibo, medicine. Le foto della mia famiglia.”
“Mia madre era un’infermiera ed era all’ospedale la prima notte. La strada era bloccata dai militari e avevo perso mio padre nella folla. Avevo deciso di tornare a cercarli.”
“Erano passati quattro giorni.
Ho seppellito il corpo del mio fratellino nel prato di fianco alla strada verso l’ospedale. Avevamo avuto un incidente con l’auto. Sono arrivata a piedi all’ospedale.”
Lo sguardo di Grace si perse nel vuoto.
“Non c’erano più militari, soltanto cadaveri che camminavano, e cadaveri che giacevano a terra immobili. Avevo il fucile semiautomatico di mio padre.”
“All’inizio è stato difficile, poi ci ho preso l’abitudine e ho sparato in testa agli infetti che si avvicinavano. Sparavo senza neanche pensarci. Il pavimento era ricoperto di sangue e parti umane. Non ho riconosciuto il corpo di mio padre, ma sono arrivata in tempo per far esplodere la testa di quella che era stata mia madre.”
Nella stanza regnava il silenzio. Il vento frusciava contro i vetri del piccolo edificio.
Alle pareti erano appese certificazioni da istruttore di kayak, informazioni sul luogo e listini di orari e prezzi.
“Deve essere stato molto difficile per te” constatò Manu.
Grace annuì.
Continuò: “All’inizio credevo che gli infetti fossero la minaccia. Ho imparato solo dopo che il vero pericolo sono i vivi. Le bande. Mi hanno preso tutto, mi hanno lasciata ferita e senza possibilità di sopravvivere. Uomini armati che girano per le città in cerca di sopravvissuti da derubare.
È per quello che viaggio da sola, cerco di non farmi notare.”
“Allora capisci bene perché ti ho puntato contro una pistola oggi pomeriggio” ribatté Forrester. “Abbiamo avuto anche noi le nostre brutte esperienze.”
Manu si rabbuiò in viso.
Russell scosse il capo.
Grace si alzò ed estrasse una torcia elettrica e un cacciavite dallo zaino. “Vado a dare un’occhiata in giro.”
Uscì dalla zona di luce delle candele e si diresse verso il bancone di ricevimento.
Vi era posato un vaso di fiori appassiti e alcuni suppellettili, che risplendevano della luce spettrale della torcia.
Trovò alcune chiavi e dei registri delle escursioni con canoa e kayak: nomi, orari, dettagli dell’assicurazione, cifre di pagamenti.
Si soffermò sui fogli per alcuni minuti. Passandoci sopra l’indice raccolse un denso strato di polvere.
Sedette sulla sedia girevole che scricchiolò sotto il suo peso e esplorò il resto del bancone.
I cassetti erano stipati di fogli e ricevute. Trovò del denaro.
Sfogliò e lesse gli opuscoli informativi, poi dei dépliant riguardanti la fauna locale.
Lesse infine il regolamento e le istruzioni per utilizzare uno specifico tipo di kayak per lunghe escursioni.
“Non hai sonno?” domandò Russell dall’altro capo della stanza.
“Arrivo subito” rispose Grace. Si mise in tasca tutti gli opuscoli e si diresse verso i suoi nuovi amici.
Si raggomitolò sul divano di stoffa ruvida avvolgendosi nella coperta di pile.
Era una sensazione strana essere di nuovo in compagnia. Era rimasta sola per così tanto tempo da non ricordarsi più come dormire tranquilli senza avere sempre un occhio aperto per vigilare.
Sorrise e chiuse gli occhi. Davanti a lei danzavano le fiammelle delle candele.
“Buonanotte.”
 
Nel sogno Grace era al volante di un’automobile. Accanto a lei sedeva Brandon, con la testa che penzolava attaccata al corpo solo dalla terza vertebra cervicale. Il bambino emanava bassi e rabbiosi grugniti e protendeva le manine sporche di terra e sangue rappreso verso la sorella, trattenuto nello sforzo soltanto dalla cintura di sicurezza.
Grace gridava e cercava di allontanarsi dal fratello, che avrebbe potuto graffiarla e così condannarla per sempre. Dalla bocca del bambino fuoriusciva un denso muco marrone e i suoi occhi morti erano innaturalmente dilatati in un’interminabile sonno cerebrale.
Grace cercava di non uscire dalla carreggiata, ma sulla strada comparivano sempre nuovi ostacoli.
Sentiva le manine di Brandon graffiarle la manica della felpa all’altezza della spalla e cercò di spostarsi verso sinistra. Brandon stridette e si contorse più che mai. Per lo sforzo l’ultimo lembo di cartilagine e cute che teneva il cranio attaccato al collo cedette e la testa del bambino ruzzolò verso i piedi di Grace, battendo i dentini nel tentativo di addentarla.
Nello stesso momento Grace urlò con tutto il fiato che aveva in corpo e si schiantò contro un muro di mattone vivo.
Si svegliò madida di sudore e automaticamente si alzò dal divano e si gettò verso l’uscita, ma fallì e, inciampando nel tavolino che aveva a lato, cadde sul pavimento sbattendo le ginocchia.
Fece forza con le braccia e sollevò il torso dal pavimento.
La ragazza rimase carponi sul pavimento ansimando pesantemente mentre dalla bocca socchiusa grandi gocce di saliva le colavano lungo il mento e cadevano morbide sulle assi del pavimento.
Sentì il tocco di una mano sulla schiena. Era Manu. La aiutò ad alzarsi senza proferire parola.
“Tutto bene?” chiese Russell.
“Un incubo” interloquì Forrester. La sua espressione comunicava empatia, ma anche dolore.
 
Le scatolette erano terminate. Manu trovò delle caramelle al miele nel ripiano di un mobiletto di legno e le condivise con i suoi tre compagni di viaggio.
Era poco più dell’alba quando i quattro uscirono dall’ufficio del turismo dentro il quale si erano rifugiati e cercando di fare meno rumore possibile aprirono il catenaccio del capannone di legno adiacente utilizzando una delle chiavi trovate nella scrivania della reception.
L’interno odorava di muffa e alghe e anche quello che il cervello di Grace impiegò pochi secondi a elaborare come fetore di cadavere. Afferrò di scatto il polso di Russell e la spalla di Manu, spingendoli via dell’ingresso del capannone.
Russell si voltò verso di lei trattenendola, tenendo il dito indice di fronte alle labbra intimando il silenzio.
Forrester estrasse dalla sacca che portava in spalla un’accetta di medie dimensioni, la cui lama risplendette colpita dai raggi ambrati del sole.
Manu afferrò saldamente la sua mazza da baseball in materiale metallico e Russell tolse la sicura alla pistola e impugnò un coltello da caccia robusto e seghettato.
Anche Grace si affrettò ad estrarre dalla borsa un’arma e scelse il coltello da cucina. Mentre lo estraeva dall’involucro di stracci in cui era rinchiuso, la ragazza si ferì alla mano e intravide il sangue scarlatto fuoriuscire dalla sua mano destra e spruzzare il libro di Stephen King.
Russell aveva già spalancato la porta e faceva cenno ai suoi compagni di seguirlo.
Grace poteva sentire il proprio cuore pulsare nelle orecchie, nella gola, fuori dal taglio sulla mano.
Tentò di deglutire ma scoprì la bocca completamente secca e la lingua arida come carta vetrata.
I compagni della ragazza si erano addentrati nell’oscurità del capanno, attirati dai lamenti strozzati che crescevano di intensità e provenivano dall’estremo angolo sinistro.
Grace si permise alcuni istanti di contemplazione. La luce che filtrava da est rendeva visibili diverse colonne di kayak impilati uno sopra l’altro, di colori diversi, subito di fronte a lei.
Più in fondo, nascoste dall’oscurità, si intravedevano le pagaie appese al muro, i giubbotti di salvataggio e diversi armadi alti fino al soffitto. La struttura era ampia una quindicina di metri e profonda almeno venti. Le colonne di kayak creavano corsie indipendenti sulle quali aleggiava un denso pulviscolo grigio.
Mentre da sinistra i lamenti dei non-morti raggiungevano il culmine, poiché le creature avevano percepito la presenza di carne viva, a Grace sembrò di sentire un flebile suono provenire dalla sua destra.
Sentì il bisogno di seguire il suono e mise piede dentro la struttura.
Camminava piano, sfiorando con la punta delle dita le pareti di resina dei kayak. Le suole delle scarpe scricchiolavano al contatto con il pavimento polveroso.
Sentì suoni di colluttazione provenire dal luogo dove probabilmente erano gli altri tre.
Respirò l’aria fitta di polvere mentre si addentrava nel buio.
Le pupille si dilatarono, il cuore continuava a battere ritmico contro lo sterno.
Il suono era più simile ad un gracidare che ad un lamento di predatore. Grace pensò che le ricordava l’aria che passa attraverso il soffietto del camino, oppure un gatto che rigurgita una palla di pelo.
Aveva percorso una decina di metri in profondità quando scorse davanti a sé un movimento.
Tutto era buio, statico.
Si avvicinò.
Riuscì a distinguere i contorni di un essere umano sdraiato sul pavimento, ma registrò mentalmente un errore di proporzioni.
Si sentiva come ipnotizzata mentre proseguiva verso l’essere che emetteva quei suoni e strinse più forte nel palmo della mano il coltello fino a far bruciare il taglio.
Il primo elemento anatomico che identificò fu la testa. Piccola, coperta di riccioli biondi, il viso sconvolto dalla putrefazione e distorto in un ghigno animale. Il corpo terminava con il tronco, dal quale sporgevano gli intestini in un ammasso nero e marrone.
L’odore era insopportabile.
La bambina poteva avere sette anni, non di più.
Brandon.
Graffiava il pavimento con le manine nello sforzo penoso di raggiungere i piedi di Grace.
Brandon con un vetro conficcato nella testa.
Alzò lo sguardo, facendo schioccare i dentini. Gli occhi erano cavità vuote.
Brandon aveva il collo spezzato.
La bambina emise un rantolo spezzato che ricordava orribilmente il pianto di un neonato vivo.
Brandon aveva lo sguardo vitreo, morto.
Grace lasciò cadere il coltello per terra, si chinò verso la bambina, le accarezzò i capelli.
La creaturina tentò di graffiarla e morderla, ma non aveva energia, era debole e insignificante.
I suoi capelli erano incrostati di sangue, come anche il vestitino di pizzo bianco intriso di sangue putrido.
Grace recuperò il coltello e lo avvicinò alla fronte della bambina, tenendolo premuto contro la superficie cutanea.
Tremava.
Brandon era morto allo stesso modo in cui era morta la bambina bionda. Nessuno li aveva salvati, nessuno li aveva protetti.
Grace non li aveva protetti. Non aveva protetto nessuno.
Nel lungo viaggio da Cortez a dove era ora era riuscita solo a proteggere se stessa.
Sentì le urla di festeggiamento di Russell provenire dall’altro capo della struttura.
Gli occhi della bambina si fissarono nei suoi. Ringhiò mostrando i denti come un gattino, mentre agitava le mani nel tentativo di aggrapparsi alla gamba di Grace.
Un’accetta calò dall’alto e le tranciò di netto il collo.
La testolina bionda ruzzolò di qualche metro, mentre Grace si alzava e indietreggiava per la sorpresa.
Forrester la fissava nella semioscurità.
Lei chinò il capo in un ringraziamento silenzioso e mentre usciva dal capanno si chiese da quanto tempo l’uomo la stesse osservando.
Russell e Manu la raggiunsero all’esterno.
I raggi del sole si facevano sempre più caldi e illuminavano la grandiosa vegetazione di pini verde smeraldo e, poco distante, la superficie liscia di un lago che risplendeva come argento fuso.
“Un suicidio di gruppo.” Sentenziò Russell, e dal suo tono Grace capì che non era necessario aggiungere null’altro.
Forrester emerse dal capannone e consegnò a Grace il coltello da cucina che si era lasciata dietro e aveva inavvertitamente fatto cadere.
A coppie trasportarono quattro kayak all’esterno, ognuno si munì di pagaia e giubbotto salvagente.
Mentre camminava verso i grandi armadi, Grace scavalcò i corpi di quattro adulti che giacevano senza vita sul pavimento in una pozza di sangue putrescente.
I kayak furono trasportati fin sopra ad un molo. Da lì furono calati in acqua e, a turno, i quattro salirono ognuno sul proprio e iniziarono a navigare il lago.
Grace entrò nel kayak che aveva scelto, un modello sportivo blu con portaoggetti integrato.
Infilò le gambe nella cavità anteriore, appoggiando i piedi sui supporti in plastica e spingendo le ginocchia contro le pareti interne.
Si assicurò il giubbotto di salvataggio e impugnò la pagaia in fibra di carbonio.
Solcò l’acqua prima con l’estremità destra, poi con la sinistra in un andamento alternato. L’imbarcazione scivolava silenziosa sulla superficie dell’acqua come su di una lastra d’olio.
Una volta presa velocità, si guardò alle spalle. Forrester pagaiava con forza alcuni metri dietro di lei. Manu era appena salita sul suo kayak rosso, aiutata da Russell, il quale era ancora in piedi sul molo di legno.
Utilizzando l’inerzia smise di remare e incastrò la pagaia dietro la schiena.
Immerse la mano destra in acqua e provò un immediato sollievo alla ferita.
Il panorama era grandioso: l’immenso lago glaciale era circondato dalle montagne in lontananza, che apparivano scure e maestose. Dolci colline ricoperte di pini declinavano nel lago, portando i suoni degli uccelli e il profumo del muschio.
Il sole illuminava le casette di legno disposte lungo gli argini e creava giochi di luce con l’acqua gelida.
Grace si vide superare da Forrester, poi da Manu e da Russell. Tutti e tre avevano in volto un’espressione più distesa e giocavano a schizzarsi con le pagaie.
La ragazza si affrettò a raggiungerli verso il centro del lago.
Dopo alcuni minuti di sforzo avevano erano ormai lontani dalla riva da cui erano partiti.
Grace si spruzzò il viso con l’acqua e si sciacquò le braccia. La velocità e la brezza la fecero asciugare in pochi secondi. Si sistemò i capelli a chignon in cima alla testa e si beò del sole che le scaldava la schiena.
Si incuriosì del portaoggetti e provò ad aprirlo. All’interno vi erano due panini ammuffiti dimenticati probabilmente dal precedente possessore del kayak e una lattina di Coca Cola.
Gettò i panini nel lago e aprì la coca. Bevve alcuni sorsi del liquido color caramello e si deliziò del gusto fresco e del sole caldo, chiuse gli occhi e inclinò la testa all’indietro, sentendosi al sicuro nel centro del lago, lontano dai pericoli.
Quando aprì gli occhi la prima cosa che vide fu lo splendido panorama montagnoso del Colorado, verde e fresco come un rametto di menta.
La seconda cosa che mise a fuoco fu un uomo in lontananza, sulla collina alla sua destra, che camminava con andatura claudicante, senza un braccio.
Camminava lentamente, goffamente.
Lentamente, verso l’odore di carne viva.
Lentamente, poiché non doveva più temere la morte.
 
 

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Capitolo 6
*** Jackson Pollock ***


La prima sera trovarono rifugio presso una casetta di legno che sorgeva lungo l’argine destro del lago, appena prima dello sbocco sul grande fiume che serpeggiava all’interno delle montagne.
Tirarono i kayak a riva e si avvicinarono alla struttura con circospezione, ognuno di loro impugnando un’arma e una torcia elettrica.
Non era ancora del tutto buio, ma il cielo si tingeva di blu e verde e le prime stelle brillavano fievolmente appena sopra le montagne.
Grace si ricordò che una volta suo padre indicando il cielo le aveva detto che alcuni di quei puntolini luminosi non erano vere stelle, ma satelliti inviati dall’uomo nello spazio. Alcuni di essi captavano e rinviavano trasmissioni, altri erano vere e proprie basi spaziali che ospitavano astronauti.
Si chiese se ci fossero ancora delle persone lassù. Se fossero terrorizzate dall’assenza di comunicazioni con la terraferma. Se si sentissero sole nell’immenso vuoto siderale.
I quattro giunsero alla costruzione. Russell forzò la serratura della porta con il coltello da caccia. Manu entrò per prima, seguita dagli altri due.
Grace attese all’esterno, accertandosi che non arrivasse nessuno.
Si guardava attorno guardinga, stringendo il coltello in una mano e la torcia elettrica-spenta- nell’altra.
L’aria era satura di umidità e risuonava del fremito dei grilli.
A circa quindici metri di distanza i quattro kayak poggiavano sulla riva erbosa, risplendendo lucidi alla scarsa luce naturale.
Il lago sciaguattava mite per opera del vento, increspandosi in onde regolari.
Forrester e Russell emersero dalla casa reggendo il cadavere di un uomo adulto. Manu emerse qualche secondo dopo, tenendo in braccio alcuni stracci e una pala di metallo.
Grace li seguì al di là della collina e quando intese le loro intenzioni, si diede da fare per aiutarli a scavare una buca nel terreno.
L’uomo era in stato di decomposizione avanzata. Le sue sembianze erano irriconoscibili, la pelle gonfia e tirata. Era diventato un ricettacolo per gli insetti e per altri piccoli animali.
Lo seppellirono con tutti i vestiti poiché non era possibile recuperare nulla.
Ricoprirono la buca di terra e Grace recuperò una pietra larga e piatta che poggiò dove avrebbe dovuto essere la testa. Scrisse alcune parole con il pennarello indelebile e si diresse verso la casa di legno, dove gli altri tre già si affaccendavano a sistemare.
Vi erano due stanze. Una, larga circa quattro metri per sette, fungeva da ingresso, cucina e salotto. Una porta dava su una piccola ma graziosa stanza da letto. Al di fuori, nel giardino, sorgeva un piccolissimo bagno. Tutto era in legno e l’ambiente poteva risultare gradevole se si escludeva la grande macchia di sangue che occupava gran parte della testata del letto e il muro retrostante.
La puzza di cadavere era innegabile e insopportabile. Spalancarono tutte le finestre e accesero un piccolo fuoco nel caminetto. Manu vi gettò sopra alcuni rametti di piante aromatiche che aveva trovato nel giardinetto sul retro.
I due odori combinati sollevarono in Grace un impellente bisogno di vomitare.
“Vado a fare un giro. Cerco di trovare qualcosa da mangiare” sentenziò.
“Non puoi andare in giro a quest’ora. È pericoloso” la incalzò Manu.
Russell annuì. Forrester invece diede una lunga occhiata al soffitto, poi disse: “Vado io con lei. Questa è l’ora adatta per catturare qualche rospo. Magari troviamo delle erbe commestibili.”
Russell sbuffò sotto i baffi. “Meglio avere lo stomaco vuoto che rischiare di imbattersi in cadaveri. O in bande.”
“Capisco cosa vuoi dire. Ma io e Grace faremo attenzione. Niente luci, passo leggero.” Si voltò verso la ragazza in cerca di una conferma.
Grace annuì
I due uscirono dalla casa chiudendo la porta alle loro spalle.
L’aria fresca e pulita era contaminata dall’odore del cadavere che fino a pochi minuti prima aveva occupato il letto e che, probabilmente qualche giorno prima, aveva tentato di ricreare un’opera d’arte moderna sul muro retrostante infilandosi in bocca un revolver e premendo il grilletto.
“Forrester” Grace chiamò l’uomo, che già si incamminava verso la riva del lago “teniamo le luci spente?”
L’uomo annuì una volta sola, e le fece cenno con la mano di seguirlo.
La sua figura massiccia si stagliava scura contro la superficie argentea del lago. L’effetto ricordò a Grace il gioco delle ombre che sua padre eseguiva sui muri della sua stanzetta quando Brandon era appena nato.
Le grandi mani nodose si univano a formare un coniglietto, poi un cane, poi si distendevano in ampie ali d’aquila. Suo padre la guardava di sottecchi per vedere che effetto le faceva, e lei impazziva di gioia nell’ammirare il suo piccolo teatrino privato.
Si incamminarono una dietro l’altro lungo la riva, fino a quando raggiunsero un fitto canneto che si addentrava nel lago, rendendo impossibile determinare dove l’acqua terminasse e dove iniziasse la terra.
Forrester le fece il gesto di ascoltare, portandosi un dito all’orecchio.
Grace capì. I suoi occhi si stavano lentamente abituando al buio, mentre gli altri sensi si acuivano.
Si addentrarono nel canneto, sollevando l’orlo dei pantaloni per non inzupparli.
“Accendi la torcia piccola, fai attenzione se vedi del movimento. Cerchiamo rospi.”
“Come ne riconosco uno?”
Forrester si voltò verso di lei nella semioscurità e Grace immaginò che stesse facendo una faccia sarcastica.
Accese la piccola torcia che ormai era umida del sudore della mano.
Camminarono nella palude, tra le piante acquatiche, fino a quando l’acqua non arrivò a metà polpaccio. Nell’aria aleggiava un forte odore di uova marce e nugoli di moscerini si addensavano sulla superficie bassa, producendo un ritmico ronzio.
Grace udì un singolo penetrante grido.
Si irrigidì, la torcia le cadde dalle mani.
Altri gridi brevi seguirono, mentre la ragazza scivolava nel panico. Cercò di recuperare in fretta la torcia per illuminare la fonte delle urla e per trovare Forrester e nel frattempo il suo corpo aveva inviato gli impulsi per scappare. Inciampò nei propri piedi e cadde nel fango di faccia.
Durante la caduta aveva la bocca aperta in un grido di terrore, così quando atterrò le entrò il fango in bocca e le andò di traverso.
Incapace di respirare, Grace cercò di risollevarsi, solo per ricadere di nuovo a terra. Vomitò la melma e riuscì a mettersi in ginocchio, mentre l’aria risuonava di grida disumane e le mani le tremavano incontrollatamente. Gli occhi bruciavano, ricoperti dal fango.
Due mani la afferrarono per le spalle e la tirarono su. Grace si divincolò, rifilando alla cieca pugni e gomitate. Una andò in segno in una zona morbida dell’aggressore, il quale si lasciò ad espressioni molto colorite con la voce di Forrester.
“Sono i rospi! Sono i maledetti rospi che gracidano!”
Grace si pulì il viso con le mani, afferrò la torcia e si tirò in piedi. Le grida continuavano, così come gli improperi di Forrester.
Accese la luce e la puntò in direzione di questi ultimi. L’uomo teneva entrambe le mani strette intorno al pube e, vedendo la luce, voltò il capo in direzione di Grace. Aveva un’espressione sofferente. “CHE PROBLEMA HAI?”
Grace sputò fango e tentò di scrollarsi di dosso un po’di melma.
Intorno ai due centinaia di rospi gracidavano a volume assordante e il suono mostruoso assomigliava alle grida di esseri umani.
Forrester le si avvicinò, zoppicando per il dolore al basso ventre e ansimando. Prese a ridere.
Grace lo guardò a occhi spalancati e iniziò a ridere a sua volta.
All’inizio le sfuggì dalla gola una risatina nervosa, poi rise talmente di gusto da dover prendere fiato. Tossiva e sputava e rideva e entrambi non riuscivano a smettere.
“Ti prego scusami!” Grace aveva ritrovato il contegno.
“Non ti preoccupare. Devi smettere di essere così nervosa però. Immagina cosa fosse successo se avessi avuto una pistola in mano.”
Grace scosse la testa. “Scusami ancora. Spero di non averti colpito troppo forte.”
“Mi hai messo K.O. per un po’, devo ammetterlo.”
Ripresero a ridere.
Risero nell’oscurità illuminata solo dalla lama di luce ambrata della torcia, circondati dai rospi e dalle piante acquatiche, nella notte senza luna.
Forrester si raddrizzò e prese la torcia dalle mani di Grace. Estrasse anche il coltello dalla fodera agganciata ai pantaloni.
“Adesso cacciamo.”
 
 
I rospi che producevano versi simili alle grida umane avevano corpicini sodi e scivolosi.
Per quattro volte Grace pensò di averne afferrato uno, per poi farselo sfuggire dalle mani.
Sia la ragazza, sia Forrester cercavano di produrre il minor rumore possibile. Si muovevano cauti nella melma e comunicavano tra di loro a voce bassa.
“Questo è un posto sicuro per cacciare. Se ci fossero dei vaganti non sentirebbero il nostro odore per la puzza del canneto, e non sentirebbero le nostre voci perché sono coperte dai versi dei rospi.”
“Sei sicuro che non saranno attirati da questo rumore assordante, invece?”
“Non sono sicuro di nulla. Ma teniamo gli occhi aperti.”
Forrester le mostrò come afferrare gli anfibi in modo che non sfuggissero alla presa. Dopodiché li infilzava nella testa con il coltello da caccia e se li cacciava nelle tasche dei pantaloni.
“Che lavoro facevi prima?” chiese Grace mentre cercava di scrollarsi di dosso del fango dai jeans.
Forrester scrutò per qualche secondo in direzione della casetta prima di rispondere.
I vetri erano scuri, probabilmente coperti da cartone o coperte per non far intendere che ci fosse nessuno all’interno.
“Sono un biologo marino. A febbraio ero in Messico, con una spedizione, studiavamo l’habitat delle balene.”
Grace si grattò il naso, sporcandolo ancora di più. “Wow! Sembra davvero un bel lavoro.”
“Già.”
Un uccello notturno lanciò un richiamo che giunse da lontano, rimbombando tra le sporgenze rocciose.
“Tu invece eri commessa del McDonald. Sembra un lavoro promettente.” Il suo tono era ironico.
“Mi ci pago gli studi.”
“Quanti anni hai?”
Grace sbuffò ridacchiando. “Che giorno è oggi?”
“Il diciannove agosto.”
La ragazza lo guardò meravigliata. “Come accidenti fai a saperlo?”
Forrester alzò il polso per mostrare quello che Grace pensò essere un orologio.
“Allora quanti anni hai?”
“Ancora diciassette. Ne faccio diciotto il venticinque.”
L’uomo si bloccò, scosse la testa e si fece silenzioso.
Grace si mise in ginocchio nel fango, piegando le canne e facendosi strada nel fango per riuscire ad afferrare un enorme rospo che emetteva suoni acuti e isterici.
Con uno scatto cercò di racchiuderlo tra i due palmi, ma riuscì solo a stringergli una zampa all’ultimo secondo, prima che riuscisse a balzare via. Prese il coltello e lo infilzò in dodici punti diversi prima di riuscire a colpirlo in testa. Imprecò tra i denti.
“Mi dispiace. Per te.” sentenziò Forrester ad un tratto.
“Mi dispiace che tu non abbia potuto vivere abbastanza, prima che ti venisse portato tutto via” aggiunse in tono amaro.
Grace non si scompose. Infilò la grossa preda nella tasca della camicia e si incamminò verso l’uomo.
“Sarebbe meglio se tornassimo.”
“Si.”
Si incamminarono seguendo le orme che avevano impresso all’andata.
“Tu quanti anni hai?”
“Trentasei.”
Grace respirò a fondo. “Hai figli?”
“Non più” rispose Forrester semplicemente.
La ragazza attese, immersa nei pensieri, prima di rispondere.
Erano circondati dal buio assoluto, puntellato di stelle frementi.
“Mi dispiace.”
“Grazie.”
Proseguirono in silenzio fino a quando raggiunsero la baita.
Grace si pulì meglio che poté sulla riva del lago, e indossò dei vestiti puliti.
Riuscirono ad accendere un fornello, dato che il gas era fornito da una bombola. I rospi furono puliti e scuoiati, tritati e stufati insieme alle verdure che Manu aveva trovato in dispensa: patate dolci e cipolle.
Il risultato fu una deliziosa cena che consumarono tutti e quattro seduti intorno al tavolino di legno, conversando a bassa voce.
“Perché la gente si uccide così spesso?” chiese Grace ad un tratto “Come l’uomo che viveva in questa casa.”
Manu e Forrester si scambiarono uno sguardo indecifrabile.
Russell inghiottì un boccone e le rispose: “Ci sono tante cose che le persone fanno, Grace. Molti non riescono a superare le difficoltà e prendono la strada più facile.”
“Come può essere più facile uccidersi? Io non ci riuscirei mai.”
Questa volta fu Manu a intervenire: “Per come la vedo io, succede a volte che ci si sente deboli. Magari hai perso la tua famiglia, li hai visti morire. A volte ci sono dei momenti in cui la tristezza supera qualsiasi altro sentimento, e ti senti in trappola.”
Forrester aggiunse: “Se aspettassi, se ci dormissi sopra, magari il mattino dopo penseresti che vale ancora la pena vivere. Ma se la sera prima avevi a disposizione una pistola, probabilmente hai ceduto e ti sei sparato.”
Grace era sempre più confusa. “Non ha nessun senso. Uccidersi è egoista, verso le persone che contano su di te. Cosa può esserci di peggio?”
“Hai visto con i tuoi occhi che esistono cose peggiori della morte” rispose Manu “cose che ti perseguitano per il resto della vita.”
La ragazza annuì. “Capisco quello che dite.”
La conversazione proseguì, ma mentre gli altri parlavano di esperienze passate e orrori vissuti da quando l’epidemia si era diffusa, Grace si perse nei ricordi che le affollavano la mente.
Una stanza piena di persone, uomini, donne e bambini, tutti stesi a terra, con le labbra blu, congelati nell’istante della morte. Lei entrava, correva a scuoterli, urlava per svegliarli, cadeva a terra in preda al pianto. Un bambino era rinchiuso nell’abbraccio della madre, sulle guance fredde si intravedevano ancora le scie delle lacrime.
 Rimasta improvvisamente sola, Grace scappava via da quella stanza di morte e cercava riparo altrove.
La casetta del bird-watching, l’uomo che si era sparato in fronte e aveva lasciato una bottiglia di liquore. Tutte le altre, vuote, testimoniavano i giorni e le ore duranti i quali l’idea finale era stata concepita e decisa.
Le persone nel capanno, che dopo essersi sparate avevano lasciato la bambina bionda a morire di fame. Grace si chiese se fosse stato un gesto d’amore o una dimenticanza. Forse la bambina era stata morsa e non c’era più nulla da fare.
Infine, l’uomo della baita sul lago.
Grace si alzò e si diresse verso la camera da letto, la cui porta era stata chiusa per impedire all’odore di cadavere di appestare il resto della casa.                    
Si accorse con la coda dell’occhio che Forrester la stava osservando.
Abbassò la maniglia ed entrò. Fu subito avvolta dall’oscurità.
La ragazza accese la piccola pila che portava nella tasca dei nuovi jeans da uomo di tre taglie più grandi che si era dovuta stringere in vita con un pezzo di corda.
Illuminò la stanza.
L’odore era nauseante.
Il copriletto e il cuscino presentavano schizzi di sangue rappreso.        
La testata del letto era di un colore indefinibile rosso-marrone, e vi erano mosche e altri insetti sopra.
La parete era imbrattata di residui di sangue e materia cerebrale, sparpagliati secondo i contorni dell’esplosione che aveva terminato la vita di un uomo e si era continuata nelle immediate vicinanze.
Il tutto aveva un’aria vagamente familiare.
Grace rimase a fissare il bizzarro assembramento di resti umani, spostando il peso del corpo da un piede all’altro.
Quando infine riuscì a mettere a fuoco il pensiero che stava cercando, esplose in una breve risatina: le ricordava Convergens, il quadro di Jackson Pollock che aveva visto nel museo d’arte di Denver, in gita con la scuola.

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Capitolo 7
*** Albuquerque ***


La mattina portò odore di pini e alghe, oltre ad un sottile ma persistente sentore di putrefazione.
Grace si svegliò di soprassalto. Nel sogno era intrappolata nel fango. Connor era con lei, cercava di tirarla fuori, le urlava incoraggiamenti.
Si mise seduta e constatò che i suoi compagni di viaggio si erano già alzati.
Si tirò in piedi aggrappandosi alla mensola della finestra. Scostò il sacco di iuta che Manu aveva usato per coprire il vetro e guardò fuori.
Manu e Russell stavano preparando i kayak, caricandoli con le provviste trovate nella casetta.
Forrester esaminava l’acqua del lago con le maniche tirate fin sopra i gomiti.
La ragazza si grattò la testa, poi il collo, la schiena, il pube. Era un’abitudine che aveva ormai da qualche settimana, da quando aveva dormito una sera nella paglia, o tra stracci sporchi, e aveva irrimediabilmente contratto dei parassiti. Ogni tanto sentiva una puntura acuta ad un polpaccio, o sulle braccia e ritrovava una zecca attaccata alla cute. Ogni volta digrignava i denti mentre la staccava dalla solida presa e la gettava lontano. Una volta se n’era messa una in bocca perché aveva troppa fame e masticandola aveva sentito uno scrocchio che le aveva provocato i brividi alla schiena, ma aveva continuato fino ad ingoiare il magro boccone.
Si strinse in vita i pantaloni e sentì che il suo stomaco gorgogliava per la fame. Niente zecche da mangiare, purtroppo.
“Buongiorno” la salutò Russell quando la vide uscire nel sole del mattino “preparati per partire.”
Forrester si avvicinò agli altri tre, reggendo tra le mani un intrico di alghe scure e dall’apparenza viscida.
“Forrester” cominciò Manu con fare dubbioso “non credo sia una buona idea. Non sembra igienico.”
“Neanche morire di fame è molto igienico” la rimbeccò.
“Vuoi dire che dobbiamo mangiare alghe?” chiese Grace.
“Chi vuole, può.”
Russell alzò entrambe le mani al cielo e prese una manciata di alghe che si portò alla bocca e masticò con gusto.
Grace si avvicinò e lo imitò. La consistenza in bocca era simile alla plastico, ma il gusto ricordava il fango insipido. Tuttavia lo stomaco smise di gorgogliare.
“Non era così male, o sbaglio?” Forrester fissò il suo sguardo negli occhi di Grace.
La ragazza fece spallucce e ringraziò per la colazione.
Manu mantenne l’aria schifata sul volto e rifiutò.
Grace si diresse verso il suo kayak blu e sistemò lo zaino nel portapacchi interno. Rovesciò il kayak su un lato così da svuotarlo dall’acqua che c’era all’interno.
Quando ebbe finito, risciacquò i lati sporchi di fango con l’acqua del lago, carezzando la superficie di resina con le mani.
Osservò i suoi compagni di viaggio: Manu e Forrester stavano ancora discutendo riguardo alle alghe, mentre Russell sistemava il suo zaino nel kayak.
Grace si disse che doveva ingannare il tempo, così prese il pennarello indelebile dallo zaino e cominciò a disegnare sul kayak. Scrisse il suo nome e cognome, abbozzò un piccolo autoritratto e quando fu soddisfatta vi tracciò attorno dei rospi stilizzati, che saltavano in tutte le direzioni.
Grace Miller, regina dei rospi urlanti.
 
 
 
 
La giornata si prospettava afosa.
Nugoli di moscerini indugiavano sulla superficie dell’acqua, addensandosi in particolare attorno ai singoli pezzi di legno che galleggiavano portati dalla corrente.
Grace imprecò e schiaffeggiò l’aria di fronte al proprio naso nella speranza di uccidere alcuni degli insetti che la perseguitavano, o almeno di allontanarli.
Il kayak nel frattempo procedeva sull’acqua profonda per inerzia, fendendone la superficie scura.
“Dannati moscerini” si lamentò Russell a qualche metro di distanza.
“Prova ad aprire la bocca e lasciarli entrare” suggerì Manu, “così almeno hai qualcosa da mangiare.”
Forrester rise, a circa tre metri alla destra di Grace. Il suo kayak era originariamente giallo, ma l’uomo l’aveva ricoperto di teli scuri e fango, così da mimetizzarlo.
Grace riprese in mano la pagaia e ricominciò a fendere l’acqua con andamento alternato.  In poco tempo prese nuovamente velocità.
Erano circondati su entrambi i lati da scoscese rocciose che declinavano verticalmente nel letto del fiume. Più in alto vi erano le montagne, ricoperte sulla cime da spruzzi di neve candida.
“Oppure potremmo mangiare quelle maledette patate, se le avessimo cotte prima di partire” Russell rimbeccò Manu.
La donna smise di pagaiare e alzò il capo al cielo.
“Se l’avessimo fatto, adesso saremmo ricoperti di mosche, oltre che di moscerini. E avremmo perso tempo.”
Forrester si intromise: “Non c’è bisogno di litigare. Abbiamo tutti fame, ma cuoceremo le patate al prossimo stop.”
Russell guardò indietro, verso la ragazza. “Grace, cosa ne pensi tu?”
Grace scosse il capo, reprimendo uno sbadiglio nella manica della camicia. “Penso che vada bene qualsiasi cosa.”
“Hai trovato qualcosa da mangiare, nel baule del kayak?” chiese Forrester.
“No, soltanto una cola.”
“Mangerei anche della fottuta carta in questo momento.” sbraitò Russell.
Manu lo zittì e lo schizzò con la punta della pagaia.
Russell la schizzò a sua volta, provocando una sequela di improperi in una lingua che Grace non riuscì ad identificare.
Forrester si avvicinò alla ragazza, fino a quando i due kayak non furono paralleli, distanziati da una quarantina di centimetri.
“Non ci hai ancora detto cosa hai intenzione di fare, Grace. Vuoi venire con noi ad Albuquerque?”
“Non ho ancora capito bene cosa intendete fare, una volta lì.”
“Ecco, abbiamo sentito delle voci in giro. Manu le ha sentite. Dicono che ad Albuquerque c’è un quartiere sicuro. Un centro di accoglienza.”
“Come è possibile? Credi che ci sia ancora?”
“Non ne sono sicuro.”
“Quello di Denver sembrava il paradiso. Ci hanno detto che ci avrebbero dato rifugio, cibo e un posto per dormire.”
“Ci sei stata?”
“Si.”
Forrester smise di pagaiare. Guardò Grace negli occhi.
“Non era un paradiso, quindi?.”
Grace sbuffò. “No, non lo era.”
“Era infestato. I militari sparavano a vista, vivi e morti. Tutti uguali.”
“Quello di Albuquerque sembra diverso. Dicono che in New Mexico l’epidemia è arrivata dopo almeno una settimana. Hanno avuto tempo di prepararsi e mettere su un campo profughi. Hanno armi, provviste, radiocomunicazioni.”
“Sembra fantastico.”
Forrester esitò. “Ci vuoi venire?”
Grace sorrise all’uomo e fu scossa da un sospiro.
La corrente del fiume era forte abbastanza da trascinare i kayak senza che fossero spinti dalla forza umana.
“Credo che mi fermerò prima. Voglio tornare a Cortez.”
“Che cosa vuoi fare lì? I centri abitati sono posti molto pericolosi.”
“Lo so. È solo che ho bisogno di tornarci, di vedere casa mia.”
Forrester sembrò tirare fuori le parole dal fondo di un pozzo “Non mi sento tranquillo a farti andare da sola. Ecco, non adesso che so che non hai neanche diciotto anni.”
Grace gli lanciò un’occhiata di sottecchi. “Me la so cavare da sola.”
“Non è questo.”
“Farò attenzione.”
“Questa è una scelta che devi fare tu. Non sono tuo padre. Ma se cambi idea, sappi che sei sempre la benvenuta ad unirti a noi.”
“Grazie, lo apprezzo molto.”
“…e ricordati che cosa ho fatto per te a Cheyenne!” urlò Russell.
Manu ridacchiò e gli mandò un bacio sulla punta delle dita.
“Oh, non di nuovo.” Forrester bisbigliò, scuotendo il capo.
“Che cosa è successo a Cheyenne?” chiese Grace incuriosita.
“Niente di adatto alla tua età.” Rispose Forrester.
I due dovettero separarsi per evitare una grossa roccia che sorgeva dall’acqua del fiume. Grace raggiunse Russell e Manu nel gruppo di testa. Pose la stessa domanda a Manu.
La donna le sorrise e continuò a pagaiare vigorosamente. La sua pelle al sole brillava delle sfumature dell’oro che mettevano in risalto i suoi muscoli definiti.
“Abbiamo fatto l’amore, io e Russell” confessò poi, rivolgendosi a Grace. “Eravamo in una tenda per campeggiatori, e solo dopo abbiamo scoperto che eravamo circondati da vaganti. A decine.”
Russell rise al ricordo di quell’avventura.
Grace era completamente rossa in viso, balbettava sillabe sconnesse. Per fortuna il rumore della corrente impedì agli altri di accorgersi del suo imbarazzo.
“Allora Grace, vieni con noi ad Albuquerque?” la rimbeccò Russell.
“Non credo, mi dispiace. Voglio tornare a Cortez.”
L’uomo grugnì infastidito. “Non troverai nulla a Cortez. La cosa più inutile e pericolosa che si può fare è tornare indietro nel proprio passato a ricercare fantasmi. Hai detto che tutta la tua famiglia è morta, a Cortez?”
“Si.”
“Allora che cosa cerchi?”
“Voglio solo tornare a casa mia, toccare le mie cose. Visitare la tomba di mio fratello.”
L’immagine del sogno in cui la testa di Brandon rotolava ai suoi piedi con i dentini scattanti le piombò davanti agli occhi.
“Non ti farà bene. Ti stai mettendo in pericolo.”
“Ho deciso che è quello che voglio fare. Farò attenzione. Quando ho finito magari posso raggiungervi ad Albuquerque.”
“Mi sembra un buon piano”, rispose Manu.
Russell riprese: “ Non è detto che ci ritroveremo lì. Ho un piano B: se Albuquerque non è più sicura, allora andremo a casa di mio cugino, a Santa Fe. Ha una grande villa, con i pannelli solari.”
“Sai se è ancora vivo?”
“No, ma lo scoprirò varcando la soglia di casa sua, non ti pare?”
L’uomo rise sotto i baffi.
Manu scosse il capo.
“Non starebbe male, una bella doccia calda. E un pasto cucinato al forno. Abiti puliti…” cominciò Forrester.
Grace immaginò se stessa in una vasca di acqua calda e bagnoschiuma profumato.
“Forrester, non è il caso di farsi aspettative su qualcosa che non sappiamo neanche esistere. Russell non vede suo cugino da anni.” Fece Manu.
“Ma la casa dovrebbe essere ancora lì, comunque!”
Grace soppesò l’opportunità di vivere in una casa con corrente elettrica. Riscaldamento per l’inverno, acqua calda, una cucina funzionante. Il suo stomaco emise un gorgoglìo acuto, che si disperse tra le parole degli altri.
In lontananza si vedeva dove gli argini del fiume si addolcivano, lasciando spazio ad una banchina ghiaiosa e, più lontano, ad una distesa erbosa.
“…dovremmo passare PRIMA da Santa Fe, e poi sulla strada…”
Grace ebbe l’impressione di udire dei suoni in sottofondo alla conversazione che stava avvenendo tra i suoi compagni di viaggio.
“…non dovrebbe essere lontano se…”
Grace lanciò un urlo e subito si coprì la bocca con entrambe le mani. La pagaia cadde e la ragazza la afferrò un attimo prima che affondasse nell’acqua.
“Porca puttana.” Anche gli altri tre si erano accorti della minaccia che li attendeva.
Grace si guardò intorno terrorizzata, alla ricerca di una via di fuga. Nel punto in cui erano, gli argini del fiume erano ancora troppo scoscesi per essere scalati. Tornare indietro era impossibile a causa della corrente.
Di fronte a loro, appariva da dietro uno sperone di roccia la spianata di sabbia e ghiaia dove l’acqua del fiume si abbassava di diversi metri, e costeggiava un centro abitato formato da casette bianche con i tetti di tegola, e un grande campeggio disseminato di tende e camper.
Migliaia di vaganti si ammassavano e producevano suoni disumani. C’era odore di morte.
La corrente stava trascinando i kayak nel mezzo della baraonda. Alcuni vaganti avevano provato a guadare il fiume, e adesso venivano trascinati a valle dalla potenza dell’acqua. Su entrambe le rive, i non-morti si accalcavano, spingendosi l’uno sull’altro, latravano come creature infernali alla ricerca di carne umana.
“RIMANIAMO SUI KAYAK!” Russell informò gli altri. “Non possono raggiungerci nell’acqua. Se ci provano, gli spariamo. Usate le pagaie quando finiscono le munizioni. Rimanete al centro del fiume!”
Grace fu colta dal panico assoluto. Raggiunse la pistola nello zaino, poi si ricordò che era scarica.
“Qualcuno ha delle munizioni?” domandò con i denti che battevano. Si morse la lingua.
“Per che modello?” Chiese Forrester, che intanto stava caricando un fucile a due canne.
Grace gli mostrò la pistola, tenendola alta sopra la testa.
Stavano quasi raggiungendo lo sbocco che dava sulla spianata, da dove sarebbero stati visibili e sarebbero diventati bersagli.
Forrester le lanciò un sacchetto di stoffa. Grace lo prese al volo. Tremava. Aprì il tamburo della pistola e vi ficcò dentro i proiettili. Cinque colpi erano tutto ciò che aveva.


Ciao a tutti :) Grazie infinite per le recensioni! Chiedo scusa se la storia ogni tanto fa un po' schifo ^___^ spero vi piaccia. Ho diviso questo capitolo solo per la lunghezza, in realtà è un pezzo unico. Enjoy the following! :D

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Capitolo 8
*** Hail and puke ***


L’odore di carne putrefatta era insostenibile. Grace udì Manu vomitare sporgendosi oltre il bordo del kayak.
La ragazza cercò di reprimere i conati, ma dovette cedere. L’intero contenuto dello stomaco si riversò nel fiume. Le alghe, impastate con i succhi gastrici, galleggiarono attaccandosi ai bordi del kayak. Grace vomitò di nuovo. In bocca aveva il sapore della bile.
Il rumore era assordante. Oltre i gemiti dei non-morti, si sentivano le urla dei vivi che erano stati sorpresi dalla gigantesca orda. Si udirono degli spari.
Grace si abbassò sulla superficie del kayak, sperando di esporre il meno possibile a eventuali proiettili vaganti.
Confluirono sulla spianata.
Immediatamente furono individuati dai non-morti. Da entrambe le rive, piccoli gruppetti si distaccarono dalla grande massa intenta al massacro dei campeggiatori e si diressero verso il fiume.
“PAGAIATE!” urlò Forrester. Grace non elaborò nemmeno l’ordine. Le sue mani spontaneamente impugnarono la pagaia e iniziarono a solcare l’acqua con furia. Per i primi cinquanta metri i vaganti furono inghiottiti dalla corrente, poi il letto del fiume cominciò ad abbassarsi.
Due vaganti camminavano verso Grace, le gambe immerse nell’acqua.
La ragazza remava con tutte le forze.
Ad un tratto sentì il kayak strisciare sulla sabbia del letto del fiume. Spinse con la pagaia, poi spinse con le mani, toccando il fondo ghiaioso. Altri tre vaganti le si avvicinavano da dietro.
Scese dal kayak, cercò di spingerlo verso l’acqua più profonda. I suoi compagni avevano cominciato a sparare. Non riusciva a vedere, né a capire se stessero sparando per aiutarla, o se fossero in difficoltà anche loro.
Mentre spingeva il kayak, la pagaia cadde. Si fermò per recuperarla. In una mano stringeva la pistola.
Si sentì afferrare alle spalle. Si voltò di scatto, tirando un calcio che fece barcollare l’aggressore. I suoi occhi erano spalancati e vitrei. Altri tre le furono addosso.
Grace sparò un colpo, indietreggiando. Inciampò nel kayak e finì distesa, mandando il secondo colpo al cielo. Si trovò addosso una donna imbrattata di fango e sangue, senza un braccio, che tentò di morderle la faccia.
Grace urlò e se la scrollò di dosso facendo forza con entrambe le gambe. La donna cadde e le afferrò il polpaccio. Batteva i denti in direzione della carne viva.
Grace calciò e nel frattempo sparò in fronte all’enorme uomo dallo sguardo vitreo che veniva verso di lei a braccia tese. L’uomo le cadde addosso. Un altro le fu addosso, cercò di morderle il collo ma era bloccato dal vagante enorme che ricopriva la ragazza. Grace sparò in testa alla donna che le aveva preso il polpaccio. Mancò. Sparò di nuovo. Questa volta la testa esplose e la ragazza ricevette lo spruzzo di sangue putrido in faccia.
Mirò verso il secondo uomo, ma la pistola sparava a vuoto. Solo cinque colpi.
Si liberò dell’enorme vagante che le stava addosso, spinse l’altro che puntava al suo collo, raggiunse la pagaia.
La fatica non esisteva. Il mondo non esisteva. Esisteva solo il mostro affamato di carne che le stava venendo addosso.
Grace lo colpì in testa con la pagaia. Un altro vagante la afferrò da destra, altri cinque, dieci, trenta vaganti venivano verso di lei.
Sferrò altri colpi e nel frattempo cercava di spingere l’imbarcazione verso l’acqua più profonda. Ci riuscì. Saltò dentro al kayak e prese a remare con forza. Non sentiva il dolore. Non sentiva nulla.
Non sento il dolore – pensò – potrebbero avermi morsa e non lo saprei.
A decine i vaganti strisciavano sul fondo del fiume nella sua direzione. Alcuni erano in piedi, altri erano carponi. L’acqua ne era piena.
Grace remò al massimo delle sue possibilità.
Sferrò qualche colpo con la pagaia per allontanare i vaganti che con le mani si aggrappavano ai bordi del kayak facendolo rollare nel tentativo di raggiungere la loro preda.
Grace colpì in faccia un mostro che alla sua destra l’aveva afferrata per l’avanbraccio e se lo stava portando alla bocca. Alla sua sinistra un non-morto afferrò il kayak e la forza dell’impatto ribaltò l’imbarcazione di 180 gradi.
Grace finì sott’acqua.
 Aveva le gambe incastrate nell’incavo del kayak.
I capelli fluttuavano attorno al viso della ragazza, che cercava disperatamente di uscire dall’abitacolo per poter ritornare alla superficie. I suoni erano ovattati.
Attorno a lei, le sagome dei non-morti si affollavano. Mani come artigli fendevano l’acqua in ogni direzione, nel tentativo di agguantare, lacerare, uccidere.
La corrente continuava a trasportare l’imbarcazione a valle, e con essa i vaganti che vi si affollavano intorno.
Dalla bocca di Grace uscirono grosse bolle d’aria e poi migliaia piccolissime, nell’ultimo sforzo di liberare le gambe.
La ragazza riuscì a fendere la superficie dell’acqua e trasse un gran respiro. Si aggrappò
Allo scafo le kayak, scalciando e tirando pugni ai cadaveri viventi che ormai fuoriuscivano solo dal collo in su dall’acqua.
In qualche secondo non ve ne fu più nessuno. Il kayak procedeva nell’acqua alta. Un urlo di donna sferzò l’aria e Grace fu certa che la proprietaria della voce sarebbe stata mangiata viva qualche istante dopo. Infatti udì altri urli strazianti.
Provò a rigirare il kayak. Riuscì al terzo tentativo. La pagaia era andata.
Le urla della donna morente continuavano. Tagliavano l’aria come una lama.
Grace entrò nel pozzetto del kayak, e sistemò le gambe.
Provò a remare con le mani. Voltandosi vide l’abominevole spettacolo di migliaia di corpi in decomposizione che banchettavano, sciamando come locuste.
Alcuni vaganti ancora la inseguivano lungo gli argini del fiume, ma ormai la corrente era forte abbastanza da sospingerla via velocemente.
Non c’era traccia degli altri tre.
Grace tremava forte. Non aveva mai tremato così forte.
Sbatteva i denti con così tanta forza che temette di esserseli rotti. Si toccò le braccia, poi le gambe, il tronco, il collo. Non trovò morsi. Ripeté l’operazione altre quattro volte.
Altri vaganti spuntavano nel paesaggio, ma ormai il fiume era troppo profondo e vasto.
Aveva freddo. Aveva fame. I muscoli le dolevano terribilmente. Le gambe erano paralizzate dai crampi. Si afferrò la pancia. Si vomitò addosso. La saliva colò sulle cosce.
La ragazza continuò ad avere conati, poi si ripulì il viso con l’acqua.
Di fronte a lei, all’orizzonte, grandi nuvole nere si addensavano e tuonavano, illuminandosi di bianco. Presto si alzò una forte brezza che portava con sé granelli di sabbia.
Grace si sentì graffiare il viso.
Il kayak proseguiva sul fiume, il quale si stava tingendo delle tonalità del grigio.
Sembrava Argento liquido.
Grace era sola.
Il fiume scorreva lungo una grande pianura coltivata, addentrandosi, a qualche chilometro di distanza, tra grandi sporgenze rocciose.
La pianura era interamente coltivata a girasoli. Il giallo acceso dei fiori stonava fortemente con quello che passava nella mente di Grace.
Voleva urlare a pieni polmoni, ma aveva paura di attirare altri vaganti.
Il temporale stava arrivando veloce, spinto dalle raffiche di vento. Presto Grace sentì alcune gocce picchiettare sulla superficie del kayak. Cominciò una pioggia leggera.
L’intera area era completamente deserta. Qua e là, tra i girasoli, si aggiravano alcuni vaganti. I loro lamenti erano gradualmente coperti dal rumore della pioggia mentre cresceva di intensità.
Grace cominciò a piangere. Singhiozzò, mentre la pioggia le scorreva lungo il viso e si mischiava alle lacrime.
L’imbarcazione si muoveva rapida sulla superficie dell’acqua, attraversando la campagna fiorita.
Cominciò a grandinare.
Grace sentiva i chicchi di ghiaccio colpirle la pelle e la testa.
Sentì prima il dolore, poi vide il sangue. Si toccò la testa e le sue dita ne furono piene.
La ragazza cominciò a remare con le mani più forte che poteva. Raggiunse la curva con la quale il fiume si addentrava tra le scoscese di roccia. In un istante individuò i suoi compagni.
Si erano riparati sotto una sporgenza rocciosa che ricopriva una piccola spiaggia di ghiaia raggiungibile solo tramite imbarcazione. Forrester, da lontano, le puntò addosso il fucile. Subito la riconobbe e gettò l’arma per immergersi nell’acqua in direzione della ragazza.
La raggiunse. “Stai bene?”
Grace annuì e si tirò fuori dal kayak. Anche se l’acqua era alta meno di un metro, cadde e finì con la testa sott’acqua. Forrester la afferrò e la portò a riva.
Russell la prese da sotto le ascelle e la trasportò al riparo. “Credevamo che ti avessero preso!”
Manu era già lì, sdraiata supina.
La donna era insolitamente pallida e respirava piano.
Grace sgranò gli occhi: la gamba di Manu era completamente ricoperta di morsi.
 


Hej! Spero che hai miei 5 lettori sia piaciuto questo capitolo, è un po' più di azione rispetto ai precedenti ^__^ io mi sono divertita un mondo a scriverlo. Fatemi sapere cosa ne pensate. Se mi lasciate una recensione so che esistete e che non siete solo un glitch! Grazie a tutti per aver usato il vostro tempo a leggermi, davvero grazie.

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Capitolo 9
*** Death ***


Quando Russell uscì dalla casetta di muratura, non si fermò a parlare. Si ripulì il coltello sui jeans, poi si diresse in tutta fretta verso la strada, zaino in spalla.
Non disse addio a Grace, né strinse la mano a Forrester.
Si incamminò senza voltarsi indietro, col viso scuro.
Gli ultimi due giorni erano stati strazianti. Per Grace era stato come rivivere i momenti dopo la morte di Brandon. Manu peggiorava ogni ora, mentre la febbre saliva. Russell era sicuro di poter trovare una soluzione. Aveva fatto prendere alla donna tutte le medicine che avevano, più altre trovate nella casetta dove Manu giaceva ora senza vita.
Grace aveva fatto il possibile. Aveva cucinato una zuppa annacquata di erbe e patate, aveva ripulito la fronte di Manu con un panno umido per tutta la notte. Era rimasta a guardare durante le ultime ore, durante le quali Russell urlava e piangeva di rabbia stringendo la sua compagna al petto. Manu piangeva, sussurrando le ultime parole.
Grace piangeva silenziosamente, seduta in un angolo. Aveva il terrore anche solo di respirare troppo forte.
Forrester era rimasto a margine. Sapeva fin dal primo momento come tutto sarebbe andato a finire.
Troppa rabbia, troppo dolore.
Grace guardò la figura dell’uomo allontanarsi e scomparire altre una collinetta.
Si sentì vuota, arida.
Stava piovigginando, ma né lei, né Forrester si allontanarono per cercare riparo. Rimasero all’aperto, guardando nella direzione dove Russell era scomparso. Grace non sapeva da quanto lui e Forrester si conoscessero. Si chiese se fossero amici, se Forrester si sentisse abbandonato tutto d’un tratto, senza neanche aver ricevuto l’ultimo addio.
La ragazza di riscosse e si incamminò verso la casetta.
Manu era sdraiata sul letto dove aveva trascorso le ultime ore di vita. Una ferita sulla tempia destra indicava il punto dove pochi minuti prima Russell aveva infilato il suo coltello da caccia.
Grace si voltò ad osservare Forrester che faceva capolino sulla soglia.
Guardò nuovamente il corpo senza vita della donna dalla carnagione color bronzo. Le scostò una ciocca di capelli dalla fronte.
“Dovremmo seppellirla?” chiese a Forrester.
L’uomo sospirò e con voce stanca rispose di no.
Grace allora prese un lenzuolo di lino che giaceva appallottolato in fondo al letto e vi coprì il corpo.
Forrester le si avvicino e le pose una mano sulla spalla. La attirò a sé e la strinse in un abbraccio, carezzandole i capelli con la mano. Grace respirò l’odore dell’uomo, se ne riempì i polmoni e se ne saziò. Quel contatto inaspettato era caldo e confortevole.
I due rimasero così, stringendosi l’un l’altra.
La pioggia picchiettava sui vetri, il vento ululava attraverso la porta socchiusa.
Il naso di Manu disegnava una cunetta sul lenzuolo. Aveva un’aria definitiva, solenne.
Quel corpo era stato dimora di una donna bella e forte fino a pochi minuti prima. Ora la necrosi prendeva piede lentamente, silenziosamente.
I tessuti erano collassati, il sangue era immobile nelle vene.
I parassiti, gli spazzini, cominciavano i lavori. La carcassa sarebbe stata smaltita completamente in alcuni mesi.
Grace pensò al viso di sua madre, con un piccolo foro di proiettile in fronte. La ragazza le era di fronte, col fucile di suo padre stretto in mano. La donna giaceva a terra, avvolta dalla divisa da infermiera. La sua pelle calda, contro cui Grace aveva premuto il viso tante volte e di cui aveva respirato il dolce odore, era raggrinzita e sporca di sangue. I bei capelli castani erano impastati di sporcizia. Il viso era distorto in un grugno infernale. I denti erano incrostati di sangue e carne umana.
Grace si era odiata per aver sparato in fronte a sua madre. Ma quella non era più lei. Era un mostro che voleva cibarsi della sua carne. Aveva visto le sue mani premere il grilletto, e sua madre cadere a terra. La donna che sapeva di miele e che le intrecciava i capelli. La donna che cucinava i tacos il giovedì, che cantava mentre faceva le pulizie, che lavorava i turni di notte e non si dimostrava mai stanca.
Mentre barcollava verso l’uscita del South West Memorial Hospital, arrampicandosi sulle pile di cadaveri ammassati nei corridoi, Grace non si sentiva più se stessa. Sentiva di essere un guscio vuoto. Cercava tra i corpi il volto di suo padre. I vaganti banchettavano a carponi come animali, divorando le carcasse appena uccise. La ragazza sapeva di essere in pericolo, sapeva di dover essere triste, di dover provare dolore, ma non ci riusciva.
Grace si strinse più forte contro il corpo massiccio di Forrester, e si deliziò del fatto che nessuno dei due aveva intenzione di lasciar andare.
 

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Capitolo 10
*** Budlight ***


Quando sciolsero l’abbraccio, Grace fu percossa da un brivido di freddo a causa della differenza di temperatura.
Raggiunse il suo zaino, che era rimasto in un angolo vicino alla porta d’ingresso, ed estrasse il pennarello indelebile.
Scrisse sul lenzuolo di lino con cui aveva ricoperto il cadavere di Manu.
Si interruppe a mezz’aria e si rivolse a Forrester, aggrottando le sopracciglia: “Qual era il suo cognome?”
Forrester si strinse nelle spalle e si diresse verso la cucina.
Grace cominciò a scrivere
 
Manu, dea dalla pelle di bronzo
 
Seguì a creare un piccolo ritratto della donna. Un viso allungato con i tratti spigolosi e gli occhi a mandorla.
Forrester ritornò nella stanza con lo zaino in spalla e sorrise amaramente alla vista del piccolo epitaffio.
 
 
“Perché ce n’erano così tanti?” chiese Grace.
Camminavano attraverso i giardini delle villette a schiera che costeggiavano la strada principale della cittadina. Anche se dovevano scavalcare una recinzione ogni venti metri, avevano deciso che sarebbe stato più sicuro che camminare in piena vista sulla strada. La loro meta era la centrale idroelettrica che si intravedeva lontano, tra le colline.
“Sono attirati dai suoni e dall’odore dei vivi.”
“Saranno stati meno di una ventina quei campeggiatori. Come hanno fatto ad attirare migliaia di vaganti?”
Forrester la aiutò ad issarsi su una staccionata di legno color tek.
“Credo che siano stati sfortunati.”
Grace balzò a terra. “Che cosa intendi?”
“Credo che quell’orda si sia formata spontaneamente. È possibile che gli individui affetti abbiano una sensibilità che permette loro di riconoscersi a vicenda e che li spinge istintivamente a formare un branco.”
Grace fu scossa da un brivido di orrore. “Ma sono morti!”
Forrester colpì l’aria col palmo della mano, come a scacciare quell’osservazione ovvia.
“Come possono avere istinti?” insisté Grace. “Per quello che so io prima muoiono, poi si trasformano.”
“Non è chiaro neanche a me.” Rispose Forrester. “Ma non per questo rifiuto di vedere l’evidenza.”
Il giardino che stavano attraversando era cosparso di foglie e l’erba arrivava a metà polpaccio.
“Stai dicendo che quel branco si è formato nel tempo, mentre il nucleo principale continuava a marciare, e per caso sono incappati in quel gruppo di campeggiatori?”
“Non per caso. Avevano dei generatori di corrente a cherosene. Questo vuol dire che producevano luce, calore e rumore.”
Grace si issò su una staccionata bianca piena di graffi. “Proprio mentre passavamo noi?”
Forrester la imitò e ebbe un attacco di risate incerto. “Si. Ma credo che fossero lì almeno dalla notte prima. Erano tutti barricati nei camper, ma dopo ore l’orda ha cominciato a sfondare le porte e le munizioni hanno cominciato a finire. È solo una teoria.”
Grace si fermò di botto.
“Credi che ci siano dei sopravvissuti? Dovremmo tornare indietro ad aiutarli?”
Forrester la guardò con un misto di sconcerto e ilarità. Proseguì semplicemente, senza rispondere.
“Forrester!” Grace lo rincorse. “Non è una domanda così stupida! Dobbiamo tornare indietro a cercare sopravvissuti?”
“Per fare cosa?” rispose Forrester. Nella sua voce si poteva udire una flessione di rabbia. “Non possiamo neanche prenderci cura di noi stessi, come facciamo ad aiutare altri?”
Proseguirono oltre un’altra staccionata. Entrarono in un cortile ampio. Ovunque erano sparsi giochi per bambini, resi quasi irriconoscibili dall’effetto del tempo atmosferico.
“Non abbiamo cibo, né medicine, né la forza. Non si deve mai tornare indietro. Tornare indietro ti farà ammazzare.”
Grace sentì il calore del sole sul naso. Si tastò il cuoio capelluto, passando le dita sulle piccole croste che si erano formate dove la grandine l’aveva colpita il giorno prima.
“Qual è il tuo piano quindi?”
L’uomo rimase in silenzio e proseguì distanziandola di qualche metro. Non diede cenno di aver udito la domanda, ma dopo qualche tempo si arrestò e si voltò verso Grace. Le fece cenno di arrestarsi e si portò il dito all’orecchio in modo suggestivo.
Grace rimase immobile, in attesa di udire il rumore che aveva fatto arrestare Forrester.
In principio lo aveva scambiato per il rumore dell’acqua che scorre sul letto del fiume sassoso, ma poi cominciò a distinguere il suono di cingolato. I due si scambiarono uno sguardo allarmato e si affrettarono a cercare riparo dietro ad una siepe di tasso. Tra le foglie videro fare capolino all’inizio della strada residenziale un grosso panzer dell’esercito degli stati uniti, a cui si accodavano diversi altri veicoli militari.
Grace fu scossa da un brivido quando sentì un tocco leggero sulla spalla. Era Forrester che le scostava i capelli e si portava un dito davanti alle labbra per intimarle di non fare rumore. Grace si sentì a disagio e dovette resistere alla tentazione di allontanarsi perché aveva paura di spezzare qualche rametto e attirare l’attenzione. A bordo dei veicoli scoperti i soldati sedevano nel cassone con le armi imbracciate e di tanto in tanto miravano in lontananza, forse a vaganti dispersi.
I due seguirono la carovana con lo sguardo e quando tutti i veicoli scomparvero oltre l’orizzonte Grace si voltò verso Forrester per avere la sua conferma che potessero proseguire.
L’uomo sussurrò: “Penso che sia più prudente aspettare ancora un po’, per essere sicuri che non ci siano ritardatari”.
Grace si sedette massaggiandosi le ginocchia intorpidite per essere stata accucciata a lungo e esplorò il panorama intorno con lo sguardo, mentre l’udito era ancora concentrato nel captare il minimo rumore che provenisse dalla strada. Il centro abitato era circondato dai monti delicatamente innevati sulla cima ed era immerso nella natura. Il parco naturale dal quale erano emersi giorni prima era soltanto uno degli esempi della conservazione della natura del Colorado.
Un sole timido tingeva i fili d’erba d’oro e rifletteva sulle finestre delle case vuote rendendole ancora più spettrali.
Infine Forrester le fece cenno di proseguire.
Mentre camminavano, il passo accelerato per recuperare il tempo perso, le rispose. “L’importante per ora è riuscire a trovare una soluzione temporanea, al futuro penseremo poi. Hai fame?”
“No.”, mentì Grace. Cominciava a provare fastidio verso quell’uomo che si stava dando così tanto da fare per prendersi cura di lei, anche se non riusciva ad ammetterlo a se stessa.
“Non ci credo. Adesso proviamo ad entrare in una di queste villette e vedere se troviamo qualcosa.”
Provarono ad entrare nell’abitazione del giardino successivo, ma la porta era blindata e le finestre avevano le sbarre. Ebbero più fortuna con la seconda casa, infatti la porta sul retro era stata divelta e pendeva di traverso sostenuta soltanto dai cardini superiori.
Forrester impugnò l’arma che portava ad una fodera attaccata alla cintura, un coltellaccio che era appartenuto a Manu, ed entrò.
Grace cercò di mettere a fuoco la sua figura mentre spariva nell’oscurità, ma invece riuscì a identificare una seconda ombra che si avvicinò di colpo a Forrester e dovette soffocare un grido di sorpresa e orrore con le mani. Si guardò intorno e individuò un sasso mentre le tempie pulsavano e non fece in tempo a rialzarsi e correre in aiuto del suo compagno di viaggio che questo uscì correndo dalla casa e le gridò di scappare.
Grace mollò il sasso a terra e le gambe furono più veloci dei pensieri. Entrambi si arrampicarono come lemuri sulla staccionata e non si fermarono prima di averne superate altre quattro. Infine Forrester cadde steso sull’erba finta del prato di una villetta color ambra e si massaggiò i muscoli.
Grace era piegata in due per riprendere fiato. “Che cos’era?”, riuscì infine ad articolare.
“Vaganti. Erano fermi in piedi nel buio, li ho visti solo all’ultimo secondo”.
Grace passò lo sguardo sul corpo sudato di Forrester e un presentimento terribile la prese alla gola. Fu con voce tremante che chiese: “Ti hanno morso?”
L’uomo si alzò a sedere e rimise a posto il coltello che ancora stringeva in mano. “No.”
Si rimise in piedi e camminò in direzione della porta della casetta color ambra, che sembrava fatta di semplice legno di quercia dipinto di rosso.
Grace non poté fare a meno di pensare che un tempo c’era stato qualcuno che aveva dipinto quella porta di rosso, forse pensando che potesse essere il cancello d’ingresso a quel regno sacro che è la casa, una casa dove sentirsi protetti e poter amare ed essere amati.
“Aperta.”, disse semplicemente Forrester mentre estraeva nuovamente il coltello e si infilava nell’abitazione.
Grace attese sul prato che l’uomo riemergesse, mentre il vento le solleticava il naso. Infine fece capolino alla porta e la invitò ad entrare. Era chiaro che non erano i primi ad essere entrati a cercare provviste nell’abitazione. I cassetti dei bei mobili intarsiati dell’ingresso erano rovesciati a terra e il pavimento era ricoperto di schegge di vetro e porcellana. La cucina era completamente vuota e c’era odore di marcio. Grace seguì con il dito i contorni di una fotografia nella quale si vedevano due coniugi di mezza età abbracciati su una gondola. Altre fotografie ritraevano quelli che potevano essere amici, figli o nipoti. Sorrisi arrivavano da ogni parte.
“Grace”, la chiamò Forrester, “Vieni a vedere.”
La ragazza lo raggiunse. Nel pavimento erano delineati i contorni di una botola di legno che in precedenza era stata nascosta da un tappeto. “Non penso che nessuno sia ancora sceso qua.”
Grace osservò il viso dell’uomo, che sotto la stanchezza e la preoccupazione tradiva una punta di speranza.
“Vuoi che scenda io?”, gli propose.
Lui in tutta risposta scosse il capo e impugnò il coltello. Non appena sollevarono la botola l’ambiente fu invaso dall’odore intenso di putrefazione. Lo stomaco di Grace si strinse e un po’ di acido le risalì in bocca.
Forrester si sfilò la maglietta rivelando un fisico magro ma non atletico. Aveva della pelle extra, il che significava che doveva aver perso molto peso.
Si avvolse l’indumento intorno alla testa coprendo le vie aeree. Prima di scendere scambiò un altro sguardo con Grace, che annuì in segno di incoraggiamento.
Grace attese di vederlo scomparire nel buio e gli passò la pila elettrica, poi andò in cucina e sputò nel lavandino. La cantina poteva essere piena di vaganti, così come la strada, le case, il letto del fiume, le colline. Si dovette appoggiare con entrambe le mani al bancone di formica e cominciò a respirare forte e in maniera sincopata. Si disse che stava avendo una crisi di panico e non seppe cosa fare. Scivolò a terra e affondò il viso tra le ginocchia. A poco a poco riuscì a normalizzare il respiro, anche se le colava il moccio dal naso. Si ripulì con la manica della giacca e dovette affrettarsi nuovamente verso il salotto perché sentiva che Forrester era risalito.
La accolse con una buona notizia. “Ci sono i cadaveri dei proprietari sotto. Almeno hanno avuto la decenza di spararsi in testa.”
Grace accennò un sorriso poco convinto e lo aiutò a trascinare una cassa piena di birra Budlight fino all’ingresso. “Torniamo giù? Quanto cibo c’è?”
L’uomo scosse la testa e indicò la cassa di birra con la punta del coltello. “C’era solo quello.”
Grace lo fissò negli occhi, poi annuì amaramente e senza forza e continuò a trascinare la cassa fuori, sul prato di plastica.
Forrester richiuse la porta di ingresso e sospirò pesantemente mentre si infilava nuovamente la maglietta.
Grace si era seduta per terra di fianco alle birre.
“Allora”, cominciò Forrester, “possiamo fare in questo modo: io vado fino alla centrale idroelettrica e controllo la situazione, mentre tu rimani qui nel prato e aspetti il mio ritorno. Se la centrale è off-limits, allora proviamo ad aprire un’altra casa.”
Aggiunse subito in risposta all’espressione di Grace: “Non mi guardare così! Lo so che è rischioso, ma qual è l’alternativa? Preghiamo che la centrale sia agibile.”
Grace distolse lo sguardo sbuffando. Sentì le dita dell’uomo che le sollevavano il mento e le riportavano il viso verso il proprio. “Non fare così, sto facendo del mio meglio.”
Grace si liberò dalla presa alzandosi in piedi. “Lo so, e ti ringrazio.”
“Mi sembra un buon piano, comunque.”, aggiunse.
I due rimasero così per qualche secondo, poi Forrester fece schioccare la lingua sul palato e si avviò verso la staccionata. “Fai attenzione. Dovrebbe essere sicuro, ma se succede qualcosa allora raggiungimi alla centrale.” Attese la conferma verbale della ragazza e partì.
Grace rimase ancora una volta sola in compagnia dei suoi pensieri e di tutte le morti che portava sulle spalle. Giocherellò con la torcia elettrica e con i suoi possedimenti, poi provò a scrivere qualcosa sul diario-libro.
L’idea di fare un sonnellino la terrorizzava.
Decise che non le importava di sembrare ridicola e che tanto intorno non c’era nessuno a guardarla ed estrasse alcune lattine dalla confezione di plastica. Su ognuna scrisse un nome e disegnò un volto stilizzato. C’erano Brandon, suo padre, sua madre, Manu e Connor.
Li posizionò tutti in cerchio davanti a sé e li contemplò per qualche tempo. Quando la sete ebbe la meglio, aprì una lattina di Budlight e cominciò a bere. La sensazione di freschezza e rilassatezza compensavano il gusto terribile. Dopo la seconda birra cominciò a parlare con le lattine.
“E questo è quello che si prova ad avere un attacco di panico. Vi chiederete tutti perché io non l’abbia avuto prima di adesso. Me lo sono chiesta anche io e penso sia perché non mi sono ancora mai concessa di pensare veramente a quello che è successo.”
Si passò una mano tra i capelli e inclinò indietro il capo in preda alla più meravigliosa sensazione di libertà che avesse mai provato. “Siete tutti morti probabilmente. Siete morti, obliterati, finiti. Siete dentro dei vermi o che so io ormai. Non avremo mai più conversazioni insieme.”
Si fermò a riflettere sull’enormità di quella affermazione e le sembrò giusto eliminare Connor dall’equazione perché su di lui non aveva notizie e non poteva rattristarsi troppo. Così lo stappò e iniziò a berlo ma dovette fermarsi e sputacchiare a causa di un attacco di risate.
“Un attimo fa mi lamentavo dei professori a scuola e della paga a lavoro e adesso non esiste più nulla. Tu”, e indicò Brandon, “mi hai fatto diventare pazza con tutti i tuoi capricci e tutte le tue storie inventate con cui andavi da papà piangendo solo per farmi dispetto. Frugavi sempre nella mia stanza e ogni volta che stavo studiando venivi a disturbarmi. E ho seppellito il tuo corpicino nella terra.” Grosse lacrime le scesero ai lati del viso. Dovette nuovamente asciugarsi il naso.
“Non è colpa mia.” Continuò a ripetersi mentre affondava il viso tra le ginocchia e si dondolava avanti e indietro.
“Mi dispiace.” Tirò su col naso rumorosamente. “Mi dispiace che siate tutti morti e che io non abbia potuto salvarvi. Sono solo Grace, non posso salvare nessuno. Sono solo me.”
 
Ore dopo, quando Forrester ritornò sconfitto, la ritrovò stesa a terra che rideva con tutte le lattine vuote intorno a sé. Per un attimo rimase pietrificato a guardare la scena, poi quando Grace voltò il viso verso di lui e si esibì in un enorme sorriso e una risata cristallina, Forrester sorrise a sua volta. La ragazza si alzò in piedi e corse ad abbracciarlo. “Sei tornato! Credevo che non saresti più tornato, sono così contenta di vederti.” L’uomo ricambiò l’abbraccio e la strinse forte a sé, assaporando l’odore dei suoi capelli e godendo del dolce calore della sua pelle.
“Cosa hai trovato?” La ragazza era così genuinamente contenta che l’uomo non riuscì a evitare di ridere. Lei gli lanciò uno sguardo giocoso di rimprovero e cominciò a roteare su se stessa sull’erba, seguendo una melodia inesistente. “Dimmelo!”
Quella vista di innocenza e gioia gli scaldò il cuore. Si sedette a terra e prese a sua volta una birra.
“Non ci crederai mai. L’intera struttura è presa dall’esercito. Quelli che abbiamo visto passare venivano da lì.”
“Noooo!” Grace si gettò a terra e rotolò su se stessa in preda ad una tristezza poco convincente. “Adesso allora dobbiamo andare a buttare giù una porta. Meno male che ci sei tu, Forrester, che butti giù tutte le porte per me.” Le era tornato il sorriso in viso.
Forrester lo ricambiò e prese un altro sorso di Budlight. “Lo faccio con piacere.”
 
Superarono a fatica la staccionata della casa color ambra perché Grace continuava a cadere a terra e alla fine Forrester dovette portarla a schiena. Lei gli cinse il collo con le mani e si fece trasportare mentre con il pensiero vagava nell’universo pieno di stelle e polli arrosto.
L’uomo scelse una casa che gli sembrava opportuna e, dopo aver appoggiato con cautela Grace al muretto d’ingresso, scassinò la serratura e si addentrò per controllare che non ci fossero pericoli. Grace osservava i raggi di sole rossi della sera che giocavano con i vetri delle finestre e le tegole del tetto e prese a ridere senza motivo. Sentiva nelle orecchie un suono ronzante e la testa le ricadeva spesso all’indietro.
“Tutto a posto. Dispensa vuota, però, si vede che qualcuno è arrivato prima di noi.”
Grace allungò le braccia verso l’uomo come una richiesta a essere presa in braccio e lui la accontentò.
La portò dentro quella casa sconosciuta che odorava di polvere tanto da pizzicare il naso e su per le scale di legno il cui corrimano Grace percorse con la punta del dito indice sinistro.
Sentiva il mondo girare e pulsare e una gioia inspiegabile scaldarle il petto.
“Andrà tutto bene, vero Forrester?” Chiese con la guancia premuta sulla spalla dell’uomo.
“Faremo andare tutto bene. Insieme.”
Grace si sentì rincuorata e si strinse ancora di più a quell’essere umano che annullava la sua solitudine.
Forrester la adagiò sul letto matrimoniale di quella che doveva essere la camera padronale. La luce rossastra che penetrava dalle fessure delle tende creava un’atmosfera di segreto.
Il profilo di Forrester era un’unica linea rossa visibile nell’oscurità polverosa.
Grace pensò che le sarebbe piaciuto dormire e pensare al resto una volta riposata in un letto decente, per una volta. Chiuse gli occhi e li riaprì subito, per trovare che la linea rossa del volto di Forrester era ancora lì. Le risalì lungo la schiena la stessa sensazione che aveva provato quella mattina, quando l’uomo le aveva scostato i capelli.
“Vuoi dormire?” Propose verso la figura del suo compagno di viaggio, sperando di rendere palesi le sue intenzioni. Lui avrebbe potuto prendere posto in un’altra stanza da letto, oppure dormire nel letto grande con lei. Non le sarebbe importato.
“No.” Rispose semplicemente l’uomo.
Grace si chiese se Forrester avesse intenzione di andare alla ricerca di cibo in altre abitazioni oppure se avesse qualcosa di importante di cui parlarle. Allargò le mani per toccare il copriletto morbido mentre aspettava che l’uomo aggiungesse qualcosa.
Lui semplicemente si chinò sopra la ragazza cogliendola di sorpresa e premette le labbra contro le sue.
Grace si sentiva pietrificata. Non riusciva a capire cosa stesse succedendo e non voleva dire qualcosa di sbagliato. Sentiva la testa girare e dubitò per un momento di stare vivendo la realtà.
Poi Forrester le infilò una mano sotto i vestiti e con l’altra le spinse le mani sopra la testa e Grace si irrigidì di colpo e non dubitò più, perché il terrore aveva il sapore terribile e inconfondibile della realtà.

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