-Mai ferire quello che non puoi uccidere.

di lamialadradilibri
(/viewuser.php?uid=328044)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dicono che ci si ricordi per sempre della prima persona alla quale si ha sparato. ***
Capitolo 2: *** Patetica. ***
Capitolo 3: *** "Vedremo" ***
Capitolo 4: *** Il Mondo Al Di Là. ***
Capitolo 5: *** Ho smesso di vedere gli altri come treni che devo prendere, e che se perderò starò male. D’ora in poi sono io il treno che non va perso. Chi vuole salirci avrà anche il mio cuore, gli altri s’arrangia ***
Capitolo 5: *** «Avrebbe potuto ammazzarmi senz’alcuna paura!» ***
Capitolo 6: *** Rivelazioni scioccanti. ***



Capitolo 1
*** Dicono che ci si ricordi per sempre della prima persona alla quale si ha sparato. ***



Capitolo Uno.

Dicono che ci si ricordi per sempre della prima persona alla quale si ha sparato.
 
«Gabriele, eccomi!» urlai, entrando nell’Auditorium del liceo artistico della mia città. L’intera sala era illuminata da luci soffuse ed era semivuota, alcuni ragazzi sul palco stavano inscenando le prove di un’opera teatrale molto drammatica – o così giudicai dal trucco scuro sui loro volti – e alcuni giubbotti giacevano abbandonati con malagrazia sulle sedie delle prime file.
I miei amici erano proprio sotto il palco e stavano guardando gli attori. Non c’erano tutti: di solito l’intero gruppo era formato da una decina di persone, ma oggi ce n’erano solo cinque e, per di più, alcune facce mi erano sconosciute.
Gabriele, il più alto di tutti che svettava sempre al di sopra della massa, si voltò subito verso me, con un gran sorriso. D’istinto sorrisi anch’io: volevo un bene dell’anima a quel ragazzo che aveva troppi problemi per la sua età. Aveva appena compiuto diciott’anni, ma sembrava avere dodici. Aveva fatto un sacco di scelte sbagliate, ne stava facendo ancora... Ma chi ero io per fermarlo? Dopo averci provato a lungo avevo rinunciato, così da non rovinare la nostra amicizia.
«Eccoti» mi salutò, allegro. Doveva essere una buona giornata per lui, non l’avevo visto mai sorridere così tanto, tranne quando si...
Oh.
«Gabriele...» mormorai, rallentando il passo. Scesi i pochi gradini che ci separavano e mi fermai ad un palmo da lui, mentre un dubbio s’insinuava strisciante come una serpe nel mio cuore. Gli diedi un colpetto su una spalla, esitando. Pensavo avesse smesso. Quella sera, mentre c’abbracciavamo sotto la pioggia ed il gelo ci gelava anche le ossa, me l’aveva giurato. «Hmmm, ti sei...? Gabriele...?»
Una ragazza, sul palco, urlò: «Di nuovo, di nuovo! Perché?». Sussultai, pensando avesse origliato la nostra conversazione, quando in realtà stava soltanto recitando.
Gabriele s’abbassò alla mia altezza piegando la schiena. Si sistemò gli occhiali con una mano, mentre l’altra rimase nascosta dietro la schiena. «Sì.»
.
Per una frazione di secondo pensai d’urlare anch’io.
«Allora...» cominciai, non sapendo cos’altro dire. Il mio amico sorrideva ancora, probabilmente non riusciva  nemmeno a capire cosa stava succedendo, né cosa sarebbe successo in futuro. Io, sicuramente, me ne rendevo conto. E sapevo anche che sarei cambiata. Non potevo restare amica d’una persona così... Non poteva funzionare.
«Vuoi vederla? È bellissima, oltre che buonissima» m’informò, mentre il suo sorriso s’allargava, mostrandomi i suoi denti bianchi e lucidi.
Non riuscii a fermarlo.
Tirò fuori da dietro la schiena un sacchetto. Piccolo, bianco, di plastica.
Aveva un aspetto così banale, e... Così letale.
«No, Gabriele. Lasciala lì» ordinai. La mia voce sembrò il rombo d’un tuono e, per la prima volta, sentii d’odiare il mio amico.
Mi sbatté quasi in faccia il sacchetto. Non osai neppure respirare, in quel momento. Qualcuno, lì vicino, cominciò a ridere. «Dài. Ti servirebbe. Sei così tesa, bella.»
«No.»
Tentai di fare un passo all’indietro, ma lui mi seguì. Avvicinò nuovamente a sé il sacchetto, ed io tornai a respirare. «Che ne è stato dei nostri discorsi?» domandai, con un nodo in gola che sembrava intrappolare le parole. Tenni per me gli insulti, le urla e le lacrime; non era il momento adatto per fare una scenata.
«Discorsi?» Gabriele soppesò la parola, buttandosi a sedere s’una poltroncina blu, sopra ad una giacca. Mi fissò negli occhi. Sorrideva, sì, ma aveva uno sguardo triste, stanco e distrutto. Quello era lui. Non quello divertito, stronzo e menefreghista.
Questo non è lui, mi dissi, stringendo i pugni. Le unghie s’infilarono nella pelle delicata, ma non provai dolore. Feci un voto: avrei affrontato seriamente il mio amico in un altro momento. Ora non era cosciente e, qualsiasi cosa mi avesse detto, io non l’avrei presa in considerazione.  Era fatto, totalmente fatto, drogato.
«Non ricordo nulla di alcun discorso!»
«Pazienza. Lo immaginavo» sussurrai, sedendomi sulla poltrona accanto alla sua, dove non c’erano giubbotti né borse, solo un pacco di sigarette che spostai una sedia più in là.
«Rilassati...!», m’invitò, con un sorriso storto sulle labbra. Non lo ascoltai nemmeno e mi voltai dall’altra parte, per guardare lo spettacolo. Un ragazzo ed una ragazza s’abbracciavano. Lei gli dichiarò amore e stavano per baciarsi – scena un po’ troppo zuccherosa e riproposta in troppi film a lieto fine -, quando nella scena apparve un’altra figura: un altro ragazzo. Era vestito in maniera antica: portava un’armatura ed un elmo con un grande pennacchio. Anche lui urlò qualcosa che però non capii, troppo intenta a pensare a come salvare Gabriele.
Non c’è modo.
Probabilmente era così; non c’era modo. Era tardi.
Eppure... Un modo doveva esserci! Eravamo amici, avevo il dovere d’aiutarlo!
Gabriele posò una mano sulla mia coscia, un gesto che un tempo non mi avrebbe dato fastidio – eravamo amici –, ma in quel momento m’intimorì e scocciò fin troppo. Mi voltai verso di lui e, guardandolo negli occhi, mollai uno schiaffo alla sua mano.
Lui scoppiò a ridere.
«Ho bisogno d’un favore» mi rivelò.
M’irrigidii ed un’ombra passò per il mio sguardo. Un tempo gli avrei sicuramente detto di sì subito, ma oggi no, non più. Almeno non in quel momento.
«Di che tipo?»
Aveva uno sguardo che non prometteva assolutamente niente di buono. Mi mossi sulla poltrona, a disagio. Incrociai le gambe e le braccia e cominciai a mordermi le labbra, un’abitudine che non riuscivo a perdere.
Accadde tutto nell’arco d’un secondo.
Gabriele tirò fuori il sacchetto, sorridendo più che mai.
Dal palco qualcuno urlò: «Arrivano
Il mio amico mi gettò il sacchetto. La plastica luccicò nella penombra ed io, d’istinto, alzai le braccia e lo afferrai.
«Ma che diavolo...»
Lui s’alzò di scatto e s’allontanò da me velocemente. Ora non sorrideva più.
«Corri!»
Mi alzai anch’io. Tentai d’avvicinarmi, ma lui si voltò e cominciò a scappare. Quasi scoppiai in lacrime dal nervoso. Il sacchetto contente la droga sembrava pesare dieci chili tra le mie mani. Volevo soltanto mollarlo lì ed andarmene, ma qualcosa m’impedì di farlo.
L’amicizia.
«Gabriele! Vieni qui! Non giocare, idiota!» urlai, lanciandomi alla rincorsa. Lui fu più agile e svelto: salì sul palco e, da là, m’informò: «Sta arrivando la polizia! Scappa!»
Capii un secondo più tardi cosa intendeva.
Il mio cuore sembrò gelare.
«Gabriele... Dovrei scappare con...?» balbettai, alzando il sacchetto un poco.
Non potevo né volevo crederci. Mi stava lasciando la sua droga e le sue responsabilità! Mi stava facendo diventare una criminale! E tutto questo senz’alcun motivo!
«Sì! Corri! Se beccano me sono nella merda, cazzo! Vai!» urlò. Qualcuno gli posò una mano sulle spalle e cominciò a trascinarlo all’indietro, verso i camerini. Gabriele era rosso in volto, aveva le vene del collo ingrossate e stringeva gli occhiali in un pugno.
«E io? Se beccano me, Gabriele?! Mi stai lasciando la tua droga di merda!»
«E tu fattela!» ribatté, un secondo prima di sparire dalla mia vista.
Se lui era un’idiota, io lo ero di più.
Decisi di essergli amica, un’altra volta. Non lasciai là il sacchetto, lo avrebbero beccato. Io avevo sedici anni, lui diciotto. In ogni caso, non sarei finita in guai serissimi e, anche se forse me lo stavo dicendo solo per rassicurarmi, funzionò: presi un po’ più di coraggio e feci la mia scelta.
Infilai il sacchetto nello zaino.
Mi voltai verso l’uscita e cominciai a correre come non avevo mai fatto.
Tutto questo per salvare Gabriele.
Un’altra volta.
 
Tutto sembrava funzionare.
Ero uscita dal liceo senza incontrare nessun agente.
Che fosse stato uno scherzo? Un’altra bastardata pensata dal mio amico?
Rallentai l’andatura.
Ora che ero fuori dalla scuola, se mi avessero vista correre con un’espressione così disperata avrei solo dato nell’occhio.
Dovevo stare calma.
Il cellulare vibrò nella tasca dei jeans. Mi diedi un’occhiata intorno: non c’era anima viva, né uno studente, né qualcuno di passaggio. La cosa mi turbò fin troppo.
Tirai fuori  il telefonino e accesi lo schermo. C’era un messaggio ... Da Gabriele.
Cosa poteva voler sapere? Mi aveva trattato malissimo, prima.
Dopo un attimo d’esitazione lo aprii.
 
È tutto a posto?
 

Oh, bene. Ora mi chiedeva come andava.
Tenendo fede al mio voto, risposi.
 
Tutto ok. Non c’è nessuno.
 
Dopo nemmeno mezzo minuto, arrivò la sua risposta. Prima di leggerla attraversai la strada e mi diressi verso il boschetto che portava a casa mia. Non sapevo se era una buona idea, ma sicuramente era la migliore e – soprattutto – l’unica che avessi in quel momento.
 
Impossibile. Sta’ attenta.
 
Impossibile? Eppure, davvero non c’era nessuno...
Non riuscii neppure a terminare il pensiero, che un’auto accostò accanto a me. Sussultai involontariamente e lentamente mi voltai verso la vettura, con il cuore in gola.
Magari era un passante, qualcuno che voleva informazioni. D'altronde il liceo artistico si trovava nell’intricata zona industriale della città, dov’era facile perdersi. Io andavo al classico, in centro città, e sulle prime avevo avuto qualche problema ad orientarmi qui, tra tutti questi capannoni e fabbriche.
Merda.
Non era un passante.
Non era nemmeno uno dell’artistico.
Non era nessuno che avrei gradito incontrare.
Le sirene dell’auto della polizia erano spente. Per ora.
«Buongiorno» mormorai. La mia voce risuonò indecisa e terrorizzata. Praticamente equivaleva all'avere appeso un cartello luminoso che diceva "Ho della droga! Arrestatemi!"
Dovevo trovare un buon piano per scappare. Ed in poco tempo.
«Aspetti lì.»
Feci come mi era stato detto. La testa mi girava vorticosamente e mi sentivo malissimo, come se stessi per vomitare anche l'anima da un momento all'altro.
Quando vidi un uomo biondo scendere dall’auto, una scarica d’adrenalina sferzò il mio corpo.
Mi guardai attorno: a sinistra, dall’altro lato della strada, c’era la zona industriale. A destra, a qualche metro da me, iniziava il bosco.
«Nome e cognome, per favore» cominciò,  con voce calma, il poliziotto, dopo essersi messo di fronte alla mia figura. Non riuscii a metterlo a fuoco. Vidi solo che era biondo e molto alto, ma nessun altro particolare di lui mi colpì. La sua divisa calamitò il mio sguardo, minacciosa.
«Io sono... Perché me lo chiede?»
«Una piccola formalità, signorina. Ora mi risponda» rispose, con voce pragmatica.
Deglutii, guardando verso il cielo. La borsa sembrava pesare sempre di più sul mio fianco, la prova che non ero innocente - almeno all'apparenza.
«Guardi, se vuole uscire con me può chiederlo in maniera più galante.»
D’accordo. forse non era la cosa migliore da dire in un momento come quello.
Il poliziotto restò un attimo interdetto.
Carpe diem. Cogli l’attimo.
Io colsi quell’attimo.
Con uno scatto doloroso, mi spinsi verso il bosco. Le mie gambe cominciarono a sferzare l’aria ed i piedi a battere la terra a gran velocità.
«Ferma lì!» sentii urlare dietro me. Non mi fermai. Come no!  In quel momento ero una fuori legge: stavo scappando da un poliziotto e portavo in borsa della droga.
Entrai nel bosco. Qualche ramo mi tagliò le guance, ma ero abituata a correre in un ambiente simile. I boschi sono, a parer mio, il luogo perfetto per fare jogging indisturbati; così sapevo perfettamente dove mettere i piedi, come evitare le radici e come sfruttare gli alberi per nascondermi.
Anche il poliziotto, purtroppo, doveva saperlo, perché me lo ritrovai alle calcagna.
«Ferma! Stai solo peggiorando la tua situazione, credimi!» sbraitò, e la sua voce arrivò a me ovattata.
Oh, no. Non stavo per svenire, vero?
Mi diedi uno schiaffo, incurante del fatto che lui avrebbe potuto vedermi.
Riuscì a risvegliarmi, ma quell’unico momento di disattenzione bastò a non farmi vedere una radice.
Il mio piede s’incastrò. Nella foga non feci altro che tirare, sempre correndo, e caddi rovinosamente.
La borsa fece per volare via, ma all’ultimo riuscii ad afferrarla e stringerla al mio petto. Provai a rialzarmi, ma qualcosa me lo impedì.
Una mano del poliziotto. Premeva sulla mia spalla.
Sull’altra spalla c’era qualcos’altro... Di freddo e duro, e...
Oh.
Lanciai un’occhiata terrorizzata alla pistola. Luccicava alla luce del giorno, e sembrava molto più letale del sacchetto di Gabriele, anche se era piuttosto minuta.
«Bene» bisbigliò l’uomo. Anche lui, come me, era senza fiato. «Ora mi dirai chi sei e perché sei scappata. E dammi la tua borsa.»
«Avevo solo paura», risposi subito, di getto; ovviamente non gli mentii, ero terrorizzata. Ma non ero solo terrorizzata.
Il suo sguardo mi gelò. Non mi ero accorta di quanto celesti fossero i suoi occhi: sembrava di guardare un cielo estivo oppure un profondo oceano.
«Come no.»
Mi feci prendere ancor più dal panico. «È vero! È la prima volta che la polizia mi ferma!» squittii, maledicendo Gabriele per essere nato. Decisamente, non eravamo più amici. Se fossi dovuta andare in centrale avrei confessato tutto. L’amicizia arriva fino ad un certo punto.
«Calmati, allora!» inveì il poliziotto. S’allontanò un po’, ma lasciò la pistola sulla mia spalla. Era così vicino che potevo sentirne l’odore e, soprattutto, vedere la sua divisa terribile, la prova che ero in un bel casino. «Spero tu non mi faccia perder troppo tempo.» continuò, quasi tra sé e sé. Oh, se avesse aperto la borsa gli avrei fatto perdere eccome del tempo!
«Mi scusi, ma... Ma devo andare a casa. Subito, ora» provai ad insistere; scandii le parole molto lentamente, così da avere più tempo per pensare a come fuggire. Ma non c'era via di fuga, solo... Involontariamente il mio sguardo cadde sulla pistola. Deglutii, pentendomi anche dei miei stessi pensieri.
Lui assottigliò gli occhi. Dio, erano stupendi. In più io avevo sempre avuto una gran passione per gli occhi celesti; a parer mio, se una persona ha un colore degli occhi così, è possibile vederle l’anima.
Ma quando provai a vedere l’anima del poliziotto... Niente. Non c’era niente; rabbrividii e, d’istinto, arretrai un po’, carponi.
Lui mi ficcò la pistola sul collo, premendo forte. Boccheggiai per il dolore, ma non gemetti né urlai: non volevo dargli soddisfazione.
«Non. Muoverti. Più.»
«D’accordo... D’accordo.»
Sbuffò, quasi annoiato. «Senti. Questa situazione non piace a me e non piace a te. Dammi la borsa».
Sarebbe stato così semplice. Scoppiare in lacrime, fare la bambina ingenua, dargli la droga e dire “Non è mia! È di Gabriele, Gabriele Brooks!”
Eppure... Qualcosa mi fermò. Non riuscii a tradire il mio amico anche se lui, teoricamente, l’aveva già fatto.
«Mi chiamo Emily. Emily Grande» mentii spudoratamente, cominciando a sfilarmi la tracolla della borsa. Lui, per aiutarmi nel gesto, allontanò la pistola dalla mia carne, rimanendo però chinato su di me.
Fu allora che agii, di nuovo.
La pistola era lì, vicina. Il poliziotto, forse credendo fossi l’ennesima sciocca spaventata che non dà, alla fine, alcun problema, aveva allentato la presa sull’arma.
Agile come un’aquila, rapida come un serpente che esce dalla tana ed afferra con i denti la gola d’un piccolo topo, afferrai la pistola.
L’uomo provò a strapparmela e, per un breve momento che a me sembrò durare all’infinito, ci rotolammo tra gli alberi e le radici. Alla fine, non so come, riuscii ad alzarmi. Mi faceva malissimo un braccio – una rapida occhiata all’arto bastò a farmi sbiancare: era coperto di sangue, dovevo essermi tagliata su una radice o qualche sasso.
Il poliziotto cominciò ad arretrare, ma non sembrava aver alcuna paura. Con voce calma, saggiando ogni parola, mormorò: «Non sparerai, Emily».
Emily. Mi ero scelta proprio un nome orrendo, eh?
«Io... Mi lasci andare! E si scordi di me!», provai a contrattare, contro ogni logica. Io, una minorenne in possesso di droga che era scappata da un’autorità e le aveva mentito e si era – quasi – picchiata con essa e le puntava un’arma contro, stavo cercando di contrattare? Che idiozia.
L’uomo scoppiò, infatti, a ridere. «Ah, è così?» domandò, facendo un passo avanti. No, no, no. Non doveva avanzare! Sicuramente avrebbe avuto la meglio su di me. Fin’ora ero stata fortunata... fin troppo. «Non posso bambina, scusami. Ora su, molla la mia pistola.»
Alzai un po’ il braccio sano che reggeva l’arma. Sembrava pesare più che mai, proprio come il sacchetto di droga. Come poteva Gabriele sopportare sempre tutto ciò? Drogarsi? Non si sentiva in colpa almeno verso sé stesso?
«Mi lasci scappare...» sussurrai e sembrò una supplica.
Allora il poliziotto capì. Ero debole.
Ed agì.
Ma io non ero debole. Ero forte. Dopo aver sopportato il vedere un amico drogarsi, ubriacarsi e diventare sempre più sciupato, ero cresciuta e mi ero rafforzata. Il mio cuore s’era fatto una corazza.
E così, quando lui con un balzo si gettò su me, premetti il grilletto.
BAM.
Il rimbombo risuonò nel bosco. Fu seguito da un gemito trattenuto, ed il poliziotto crollò in ginocchio ad un palmo da me. Se avessi allungato un po’ il braccio, avrei potuto accarezzare i suoi capelli biondi che avevano tutta l’aria d’essere morbidi.
«Mi scusi» balbettai e, sempre stringendo la pistola in mano, mi voltai e cominciai a correre.
Non l’avevo colpito al cuore.
Né ad un organo vitale.
Lo avevo colpito proprio nel mezzo di una coscia. E sì, avevo visto il sangue schizzarne fuori, macchiando la divisa ormai sempre più spaventosa.
Ero una criminale. Decisamente.
Ed una cosa era certa: era tutta colpa di Gabriele.
Infilai la pistola nella borsa e, sempre correndo, tirai fuori di lì telefono e portafoglio. Cominciai ad andare sempre più veloce, finché raggiunsi un piccolo ruscello che scorreva in mezzo al bosco. Poteva essere stato, un tempo, un posto idilliaco. Ora tutta l’acqua di scarico delle fabbriche finiva lì assieme a molti altri rifiuti, bottiglie di birra o Pepsi e siringhe.
Gettai la borsa lì.
Mi liberai delle prove e, come nulla fosse, come se in realtà non avessi sparato ad un'autorità, come se la mia fedina penale fosse ancora linda e come se i miei rapporti con Gabriele fossero intatti, andai a casa.
Un sorriso malinconico spuntò sulle mie labbra. Da quel momento in poi, sarebbe cambiato tutto.

Meme1.
Sì, è un po' strana. Lo ammetto. Ma e' che io sono un po' strana quindi, cos'altro aspettarsi? Yee.
Allora, questo capitolo è lunghissimo. E adorabile, no? (: Che ne dite? Errori? Qualche frase che lascia delle perplessità? Ditemelo e lo rivedrò.
Spero vi possa interessare e che qualcuno recensirà :)
A presto.




 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Patetica. ***


Capitolo Due.

Patetica.
 

 
«Oggi nella tua scuola verrà la polizia.»
Dire che me l’aspettavo sarebbe risultata una bugia. In realtà, avevo avuto già qualche brutto presentimento quella mattina, alzandomi – quelli del tipo “sta a casa idiota, non ti svegliare!” – ma lo avevo subito ricollegato all’interrogazione di chimica che avrei avuto alla prima ora.
«Ah. Perché?»
Perché? Che dire! Probabilmente quell’agente era morto dissanguato là nel bosco ed ora l’intero commissariato cercava me, l’assassina, la serial killer da strapazzo.
Solo che io non ero un’assassina. Vero?
Mamma affondò con pigrizia il cucchiaio nel suo tè alla menta aromatizzato con un po’ di limone e giusto un po’ di latte. Mi chiesi come faceva a bere certe assurdità! «Cara... Io non dovrei dirtelo, ma...»
Mi allungai verso di lei, appoggiandomi sul tavolo tra il cartone del latte e un contenitore di zucchero. Piccola parentesi: mia madre, Anna Elizabeth, era un giudice, quindi veniva a conoscenza di certe informazioni dalla polizia. Tipo che sua figlia era un’assassina. «Cosa? Dài, spara!»
Spara!
Rabbrividii alla mia battuta. Decisamente, la mia vita non sarebbe stata più la stessa.
«Hai saputo, immagino, che la polizia è da una settimana che va in giro per le scuole...»
Annuii. Come non saperlo? Gabriele mi aveva mandato decine di messaggi per dirmelo e per chiedermi cosa avessi combinato quel pomeriggio, perché il liceo artistico era pieno di poliziotti ad ogni ora del giorno.
«Beh, questo perché c’è stato uno scontro tra un poliziotto ed una ragazza, una settimana fa. Lui è rimasto ferito. Non gravemente, certo, ed ora gira per le scuole per vedere se riesce a trovare quella maniaca. Non è pazzesco?» mi chiese, afferrando la sua tazza di tè.
Annuii, incassando la testa tra le spalle. Okay. Evidentemente non ero un’assassina, ma mi ero aggiudicata il titolo di “maniaca”. E da mia madre!
«Cavolo. È pazzesco.»
Lei affogò le sue preoccupazioni nel tè, bevendolo tutto d’un sorso. «Sì che lo è! Spero la prendano, sai?»
Ottimo.
«E sai perché?» continuò a domandarmi, sbattendo con forza la tazza sul tavolo. Arretrai di scatto, quasi cadendo dalla sedia. Mamma aveva un’aria selvaggia, i suoi occhi marroni erano animati da qualcosa che avevo già visto, l’emozione forte che provava ogni volta che aveva tra le mani un caso interessante: la voglia di giustizia.
«Quell’agente – Alec Mitchell – ha solo ventisette anni! Non ha famiglia. Avrebbe potuto togliergli la vita!» esclamò, alzando lo sguardo al cielo. «Avrebbe potuto toglier lui la possibilità d’essere felice!»
E così quell’uomo aveva un nome ed un’identità. E mamma sembrava adorarlo.
Lo avrebbe adorato a tal punto da sbattermi in galera?
Prima che potessi controllare le mie parole, sbottai: «Che ne sai? Magari non è stato colpito da qualcuno! E se avesse voluto morire?»
Un’ombra cupa oscurò il suo sguardo. «Cosa?» mormorò, ed aveva una voce roca ed inconfondibile che non prometteva nulla di buono.
«Magari lui si è sparato, e... Chi lo sa! Magari alla fine non è riuscito ad uccidersi – ci vuole coraggio, no? Ed ora questa è una messinscena...»
«ZITTA!»
Nella stanza calò il silenzio. Mamma si alzò dalla sedia e cominciò a portare le tazze nel lavandino. Io non osai alzarmi per aiutarla.
Ma che diavolo avevo detto?! Non conoscevo neppure quell’uomo – cioè, tecnicamente non lo conoscevo, ma avevo sparato alla sua gamba – e l’avevo accusato d’essere un suicida!
Mamma, dandomi le spalle, sussurrò: «Alec ha una difficile storia alle spalle, Cara. Semmai lo incontrassi, guardalo con rispetto».
Si voltò e mi guardò dritta negli occhi. Io ero ancora seduta lì a tavola a sentirmi un’idiota  e terribilmente in colpa.
Mamma aveva uno sguardo serissimo. Più serio che mai. Concentrato, anche. Non sembrava lei.
«Ne ha passate tante. E spero solo che questa non sarà la goccia che farà traboccare il vaso.»
Non riuscii più a sopportare il peso di quella situazione. Mi alzai, l’abbracciai e le dissi: «Ti voglio bene. tu me ne vuoi?»
Lei continuò a lavare i piatti. Il rumore dell’acqua era l’unico che si sentiva nella stanza. «Sì. Che razza di domanda è?»
Vedremo se me ne vorrai ancora, quando la verità verrà a galla.
Con un sorriso così falso da far male anche a me, uscii dalla cucina ed andai a prepararmi per la scuola.
 
Ero quasi davanti al portone d’ingresso della scuola – attorno a me c’erano solo ragazzi, quella pazza della mia amica Emma, ma nessun poliziotto –, quando il mio telefono vibrò. Una chiamata. Possibile che mamma si fosse dimenticata di dirmi qualcosa?
Oppure...
Con il cuore in gola, sfilai il cellulare dalla tasca dei jeans. Emma mi diede una spintarella e mi disse che sarebbe andata da sola in classe e che mi avrebbe tenuto un posto accanto a sé. Quasi non la udii.
Gabriele.
La chiamata era di Gabriele.
Sbuffando – più per l’agitazione che per una reale scocciatura – risposi: «Sì?» la mia voce risuonò annoiata, ma dentro me s’agitavano emozioni ben più imprevedibili: paura, odio, rimorso, nostalgia e molto altro odio.
«Cara! Perché non mi rispondevi? Che cazzo è successo?»
Mi sedetti sul muretto accanto al portone. Un ragazzo di quinta mi urtò e non si scusò, andando avanti. «Quel che è successo è successo. Non chiamarmi. Mai più, Gabriele. Intesi?»
Lui rimase un secondo zitto. Probabilmente stava boccheggiando come un pesce, scioccato, magari nel bagno del liceo con una cicca in mano. «Che cosa... Perché?»
«Perché?» Nella mia mente s’agitarono pensieri diversi. Volevo ammazzare Gabriele, non poteva essere così idiota!  O magari era fatto e non riusciva a capirmi... Ma no, questa volta non lo avrei perdonato. No! Qualsiasi cosa avesse detto – a partire dal suo “Perché?” – me la sarei ricordata. Punto.
Alla fine decisi che, semplicemente, non ne valeva la pena. Tra noi due non c’era più contatto, non c’era uno scambio di parole sensato. Non c’era più niente. Gabriele s’era fumato la nostra amicizia come una sigaretta ben rollata con dell’erba dentro. «Gabriele, su. È successo che la polizia mi ha quasi beccato. Ma non devi sapere di più.»
«COSA?!» sbraitò. Immaginai il suo volto, rosso. E le sue mani in aria che s’agitavano. Una stringeva il cellulare fin quasi a romperlo... Oppure no. Magari urlava e basta, ma in realtà era tranquillo. Solo lui, sé stesso e l’erba. «Che cazzo hai fatto! Idiota! Cazzo!»
«La smetti d’inveire? È tutta colpa tua. Ora devo andare. Cancella il mio numero, ciao!»
Lui stava ancora urlando quando spensi la chiamata.
E poi il terrore s’impossessò di me. Il giardino era vuoto, quindi la campanella doveva essere già suonata. E magari la polizia – Magari Alec Mitchell – era già nella mia classe. Sarei entrata, mi avrebbero riconosciuta. “Venga in centrale, signorina.” “Perché?” “Oh, lo sa perché.” E la classe sarebbe rimasta zitta.
Oppure no. Insomma, alla prima ora c’era verifica di chimica. La prof non l’avrebbe mai rimandata, giusto?
Mi diedi forza e mi alzai. Fare lippa avrebbe significato farsi notare ancora di più e l’ira di mamma.
Cercando di sorridere – imitai il sorriso di Gabriele – mi affrettai verso la classe.
 
«Prego, entri. Mancava solo lei.»
Guardai la mia prof di chimica e scienze della terra come se fosse un alieno. Mi aveva aspettato fuori dalla classe, con la schiena appoggiata alla porta. Quando la aprì, capii il perché.
La polizia.
«Buongiorno» mi salutò l’unico poliziotto nella stanza. Non era Alec Mitchell, grazie al cielo. Doveva avere l’età di mio padre, quarant’anni, e la sua testa era già metà pelata. Aveva un sorriso stanco. Il sorriso di chi davvero non ce la fa più, ma poi dice “Dài, ancora un’altra volta’’ ed entra in un’altra classe, o in un’altra cella, o trova un altro cadavere.
«Salve» replicai. La tensione dentro me si sciolse come un cioccolatino burroso al sole, e sembrò fungere da balsamo per i miei muscoli che si rilassarono velocemente. «Scusate il ritardo; ho avuto una chiamata.»
«Non si preoccupi. Sieda, forza.»
Lo stavo già facendo. Emma mi diede un’altra spintarella e si sistemò i capelli dietro le orecchie. «Che culo abbiamo?» mi domandò, con un sorriso più allegro e gioviale che mai.
Tentai d’imitarla. «Oh, sì. Niente test.»
Già. Che culo.
«Ragazzi, questo è l’agente Rossi.» c’informò la professoressa, sedendo alla cattedra. Aveva un’espressione un po’ seccata – non aveva potuto fare la sua verifica, d'altronde – ma poiché era una persona molto alla mano e dolce, fu molto gentile ed educata con l’agente – o forse lo fu soltanto perché davanti a sé aveva un poliziotto, non lo so.
«Sì, ragazzi. Hmmm, ci spiace del disturbo, ma stiamo cercando una ragazza. Bionda, media altezza e corporatura. Abbiamo solo questo per l’identikit, però... Se mai vi venisse in mente qualcuno, non esitate ad aiutarci» spiegò l’agente Rossi, girando tra i banchi. Anche lui, come Alec, aveva un non so che di spaventoso e magnetico.
«Tu?» mi domandò, sempre sogghignando, Emma. «Sei bionda» continuò, sussurrando e rigirandosi tra le dita una ciocca dei miei capelli color dell’oro «Media altezza...» proseguì, indicando la mia figura con un gesto della mano «E media corporatura» finì. Mi pizzicò un fianco e quasi urlai.
«Sei pazza?!» squittii dal dolore, stringendo la carne lesa. Ci mancava solo che la mia migliore amica mi accusasse! «E poi è pieno di gente come me».
«Stavo scherzando...» replicò, guardandomi storto. Aveva ragione: avevo avuto una reazione esagerata, quasi imbarazzate; ma avevo i miei motivi.
«Ragazzi, il mio collega arriverà a momenti. Ha un po’ di problemi a camminare, per questo... Oh, eccoti, Alec! Tutt’a posto?» l’agente Rossi scattò verso la porta – la sua pancia sobbalzò – per aiutare un uomo ad entrare.
Alec Mitchell.
Era bellissimo. Sembrava un po’ un divo di Hollywood; aveva dei lineamenti piuttosto marcati, naso ed orecchie minute e i suoi bellissimi occhi azzurri.
Emma batté una mano sul mio banco, facendolo traballare un po’. «E’ bellissimo!» mormorò.
Già, lo era. E camminava molto lentamente, zoppicando un po’.
Ed era colpa mia.
Io. Ero io l’artefice.
«Buongiorno, signor Mitchell.» lo salutò la prof, avvicinandosi a lui.
Io continuai ad osserva la sua gamba zoppicante. Alec Mitchell si sedette su una sedia accanto alla cattedra e sbuffò – per il dolore? La fatica? – affondando il viso nelle mani.
«Salve» sussurrò con voce d’angelo, così piano che quasi non lo sentii.
Emma, intanto, stava elogiando la sua bellezza “epica”, “divina”, “da dio greco”, “pare Zeus”, “anzi no pare Apollo”, “pare la perfezione”. Le avrei volentieri tirato un pugno. IO AVEVO SPARATO A QUELL’UOMO! Ma lei non poteva saperlo... Così mi trattenni, disgustata da ciò che avevo causato.
Da ciò che Gabriele aveva causato.
D’un tratto l’agente Mitchell alzò lo sguardo e lo posò su ognuno di noi. L’altro agente, il signor Rossi, cominciò a blaterare qualcos’altro sulla ragazza che stavano cercando, su di me.
Quando lo sguardo di Alec s’avvicinò a me, feci rotolare una penna giù dal banco. «Ops!» dissi, abbassandomi a raccoglierla. Emma mi lanciò un’occhiata perplessa ed inarcò le sue sopracciglia fini.
Non ero nemmeno a metà strada, che una voce dura e implacabile sferzò l’aria. «Tu.» disse.
E sapevo d’essere io l’interessata.
 
L’agente Rossi s’infilò tra me e l’agente Mitchell. Eravamo fuori dalla scuola, proprio dove poco prima m’ero seduta a parlare con Gabriele al telefono.
«Allora... Cara, Cara Michielin, giusto?»
Scrollai le spalle, tenendo lo sguardo a terra. Dovevo tradire Gabriele. E subito.
«Dobbiamo portarla in commissariato. È piuttosto urgente, non si disturbi perciò a prendere la sua roba.»
Non ci pensavo nemmeno. Sentivo su me gli occhi gelidi di Alec Mitchell. Quanto doveva odiarmi? Quanto male gli avevo causato?
E tutto ciò per un’amicizia che credevo indissolubile.
«D’accordo, d’accordo. Ora basta. Muoviti, Cara. O piuttosto Emily?»
Non osai nemmeno guardarlo . «Cara... Cara va bene.»
L’agente Rossi cominciò a parlare di diverse cose, mentre c’avviavamo all’auto della polizia. Quando nominò i miei genitori, m’irrigidii ed il mio cuore cominciò a battere velocissimo.
«Ora non c’è tempo per chiamare i tuoi, ma dovremo farlo. Cara, ti rendi conto di ciò che hai fatto?» mi domandò l’agente Rossi, aprendomi la portiera. Io non riuscii a rispondergli, entrando nella vettura. Quell’ uomo sembrava più un padre o un nonno premuroso che un poliziotto. Avrei solo voluto scoppiare a piangere ... Ma non potevo. Alec Mitchell, l’uomo che ne aveva passate tante – un po’ come Odisseo? –, era seduto nel sedile accanto a me e mi fissava dall’alto in basso, sprezzante.
«Io...» cominciai, senza sapere che cosa dire. Quando le parole mi morirono in bocca, sospirai ed appoggiai la testa al sedile. «Niente.»
«Meglio così» l’agente Rossi mi guardò dallo specchietto e partì.
 
Al commissariato nessuno mi guardò con disprezzo o sorpresa – o magari shock –, come avevo temuto. Per il momento nessuno s’accorse che ero la figlia del giudice della città, ma sapevo che era solo questione di tempo, e poi tutto sarebbe venuto a galla.
L’agente Rossi mi camminava di fianco ed io e lui trotterellavamo dietro all’agente Mitchell, che ora sembrava aver ripreso vigore e zoppicava un po’ meno.
D’un tratto l’agente Rossi rallentò e mi afferrò il polso. «Sarà crudele con te, sappilo» mi sussurrò, mentre avanzavamo più lentamente. La schiena dell’agente Mitchell sparì dalla mia vista, dietro un angolo. «So che eri soltanto spaventata, ma hai agito malissimo. E vorrà anche capirne il perché». Mi guardò negli occhi. L’intensità del suo sguardo mi fece capire che era sincero al cento per cento. «Non provare a mentirgli. Non ci riuscirai».
In silenzio, riprendemmo a camminare più rapidamente. L’agente Rossi si allontanò un po’ da me ed andò ad aprire la porta d’una piccola stanza che si snodava in altre due stanze. Poiché entrambe le porte delle altre stanze erano aperte, notai che una era più illuminata e sembrava più piccola, mentre l’altra doveva essere più spaziosa, ma era semibuia.
L’agente Rossi mi indicò quella semibuia, mentre lui entrò in quella illuminata, sbattendo dietro sé la porta grigia.
Mi asciugai i palmi delle mani sui jeans, agitatissima. Sicuramente nella stanza semibuia c’era Alec Mitchell, ed io non volevo proprio incontrarlo.
 
«Entro oggi.»
Mi ridestai ed entrai nella stanza più grande. Era quasi vuota: c’era soltanto un lungo tavolo con due sedie ed un enorme specchio – grande quasi quanto una parete – di fronte ad esso. L’agente Mitchell si sistemò sulla sedia in modo da dare le spalle allo specchio e mi indicò, senza guardarmi nemmeno, una sedia dalla quale avrei potuto benissimo vedere il mio riflesso.
«Allora» esalò, senz’aspettare che finissi di sistemarmi. Avevo il cuore in gola. Infilai le mani tra le cosce e cominciai a maledire Gabriele in più lingue possibili per tenermi occupata. «Cara Michielin. Età, sedici. Studentessa del liceo classico...» cominciò, afferrando un plico di fogli.
Mi vennero i brividi. Avevano già cercato informazioni su di me? e quanto c’avevano messo per trovarne, mezz’ora?
Quando lessi in alto alla pagina “Situazione Familiare’’, provai l’impulso di saltare in piedi, strappare quella cartella e mettermi ad urlare.
Quella era la mia vita! Quelli erano i miei problemi! Quella ero io! L’agente Mitchell non aveva alcun diritto d’impicciarsi di ciò che era mio, non poteva!
L’uomo davanti a me si passò una mano tra i capelli biondi, arricciando le labbra perfette che Emma aveva tanto elogiato. «Genitori separati. Ed il nome di tua madre mi è familiare... Potresti fare una ricerca, scusa?»
All’inizio non capii a chi stesse parlando. Poi compresi: si rivolgeva all’agente Adam che, come avevo visto in più film, poteva vedermi dallo specchio e sentire tutto ciò che veniva detto qui dentro.
«Non credo che lei conosca mia madre.» mentii, mantenendo lo sguardo su quel foglio. “Situazione Familiare”. Era scritto lì? Era scritto lì quello che, circa un anno prima, avevo provato a fare? E Alec Mitchell, l’Ulisse dei giorni nostri, come mi avrebbe giudicata?
Il biondo sogghignò. «Non sai mentire.»
«E lei non sa fare a cazzotti.» Mi uscì spontaneo insultarlo. Fu più forte di me, non ci fu nulla da fare.
L’agente Mitchell mi fissò a lungo; aveva uno sguardo indecifrabile e, nuovamente, quando cercai di vedergli l’anima, fallii.
«Cosa c’è d’interessante che non dovrei leggere, qui?» mi domandò dopo qualche minuto di completo e teso silenzio, dando un colpetto al plico di fogli.
«Niente. Non c’è niente, agente» mentii ancora.
«La tua bocca dice così», replicò lui, piegando il capo per guardarmi «ma i tuoi occhi dicono tutt’altro. Cos’è successo, Cara Michielin?»
Strinsi forte i pugni e scossi il capo.
No.
Non gli avrei detto una sola parola.
E poi, lui avrebbe letto tutto più tardi.
Chissà se avrebbe riso? Mi avrebbe definita “patetica” e “sciocca” anche lui, come tutti gli altri?
Io non volevo assistere.
«Alec, Alec! Vieni, dà un’occhiata qua!» lo richiamò una voce resa metallica dall’autoparlante forse un po’ vecchio ed usato della stanza. Alec Mitchell si alzò subito e mi lasciò sola nella stanza; sola con quel plico di fogli maledetto.
Non riuscii neppure a sfiorarli. Quell’unica, piccola frase, mi terrorizzò a morte.
Situazione Familiare”.
 
Dopo qualche minuto l’agente Mitchell tornò nella stanza, accompagnato dall’agente Rossi. Alec Mitchell aveva un’espressione accigliata, incredula, scioccata ed anche tradita; non riuscii a capire cosa gli stesse passando per la testa. L’altro uomo, invece, aveva uno sguardo soltanto sorpreso.
Fu il biondo a parlare.
«Tua madre è Anna Elizabeth?»
Quando annuii, cominciò ad insultare qualcuno a caso ed uscì dalla stanza, sbattendo forte la porta.
Sobbalzai. L’agente Rossi mi guardò e sembrava quasi dispiaciuto. Poi, scuotendo il capo, uscì dalla stanza e chiuse dietro sé la porta.
Ero sola. Di nuovo.

(Me)me1.

Ed insomma, questo e' quanto. Che ve ne pare del Capitolo 2? Sono contenta d'aver ricevuto due recensioni al 1° capitolo, ma spero di riceverne ancora di piu', oggi! D'ora in poi la storia comincera' a farsi sempre piu' movimentata, fino alla spannung . Cioe' il *booom*, il massimo, il momento che ti lascia "Oh mio dio Oddiommio" e poi non capisci piu' niente e vuoi solo leggere di piu' tralalala' . Cerchero' di darvi questo. Il *booom*, per intenderci .
Inoltre, se volete leggere più cose mie, ho fatto diverse storie. Vi consiglio soprattutto :
The Help (che e' una ff di Harry Potter);
Stay Strong (seguito di The Help; lo sto ancora finendo);
Attento al cartello TOM (e' una storia d'un solo capitolo. Protagonisti: Tom Riddle e un gufo!);
Guerra e pace (una delle mie prime storielle tralalala')
Buttateci un occhio! o un piede!
A presto,
la vostra dolcissima, carissima, amorevolissa,
meme1.
PS: Se volete potete dirmi qualche storia carina da leggere :3

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** "Vedremo" ***


Capitolo 3.

Vedremo”.

NdA. Questo capitolo è assurdamente lungo, almeno per quanto riguarda i miei standard. Quindi, se avete intenzione di leggerlo, prendetevi un po' di tempo e calma, va bene? Vi piacerà molto, spero; c'è un graduale aumento di tensione finché l'agente Mitchell... A-ah. Meglio star zitta. Leggerete voi, se arrivate fino all'ultima riga. Buona lettura! Mi raccomando recensite in molti!


Restai in quella stanza per un bel po’ di tempo.
Non così tanto da farmi diventare una psicopatica, ma abbastanza da rendermi più nervosa e scontrosa che mai. Per di più ero certa che l’agente Rossi e Alec Mitchell, proprio in quel momento, stessero parlando con mia madre – con mio padre sicuramente no, visto che se n’era andato in Argentina più di due anni fa.
«Che situazione di merda» sussurrai. La voce mi uscì dalle labbra piano, ma sembrò sferzare l’aria e far scendere di qualche grado la temperatura della stanza, tant’era gelata e tagliente.
Non ero certo la tipica cocca di mamma che si preoccupa anche solo se prende un brutto voto, ma non potevo ignorare semplicemente fino all’ultimo momento il fatto che mi avrebbe linciata non appena avesse messo piede nella mia stessa stanza. Era un rischio considerevole, visto che mia madre all’età di venticinque anni aveva preso lezioni di boxe da uno dei maestri migliori della città – ora morto, pace all’anima sua. Avrebbe potuto tagliarmi a metà come un pezzo di burro!
Il cellulare vibrò nella tasca anteriore dei jeans. Non me l’avevano requisito, e non sapevo se l’avrebbero fatto. Certamente dovevano averne l’autorità.
Fortunatamente avevo già cancellato tutti i messaggi che mi aveva inviato Gabriele, essendo una persona molto previdente e pessimista, così almeno quel problema non mi si poneva.
Accesi lo schermo: Emma mi aveva inviato un messaggio. In rubrica l’avevo salvata come “Migliore amica pazza <3” quindi forse, semmai mi avessero preso il telefonino, non l’avrebbero riconosciuta. Potevo permettermi di scriverle.
 
Mi spieghi?
 
Be’.
Normalmente le avrei detto di sì e le avrei spiegato tutto subito. Ma ora? Non ero così sciocca da scavarmi da sola la fossa.
Così, seppur riluttante, risposi solo con poche righe e senza fare riferimento né a Gabriele né a ciò che avevo fatto.
 
Sono in commissariato. Penso ci sia stato un malinteso... Credo che uscirò al più presto. Vedi se puoi venirmi a trovare?
(PS: se mia madre mi ammazza, voglio una bara bianca. Grazie mille.)
 
La risposta non tardò ad arrivare – non passò neanche un secondo, ed il telefono stava già vibrando -, ma non potei leggerla perché tre persone entrarono nella mia stanza. Infilai il cellulare in tasca, mentre l’atmosfera diveniva tesissima.
«Cara.»
«Mamma.»
Mia madre non sembrava poi così tanto una mamma. Aveva ancora indosso la sua divisa da lavoro – gonna a tubino scura, camicia vaporosa bianca e girocollo di perle chiare –, e sembrava più che altro una diva di Broadway. Chissà, magari lei ed Alec Mitchell, in un futuro prossimo, avrebbero potuto girare un film assieme.  Il giudice e il poliziotto, un nuovo film poliziesco che vi emozionerà. Da maggio in tutte le sale!
Anche mamma, vestita così, incuteva un po’ di timore, proprio come gli agenti. Sicuramente il più spaventoso – e stupendo – era l’agente Mitchell, comunque; era di nuovo seduto davanti a me e mi fissava con un’espressione a dir poco adirata. Ma c’era dell’altro che non riuscivo a comprendere. Cosa gli passava per la testa?
Quando mi accorsi che lo stavo fissando, spostai lo sguardo su un volto più tranquillizzante: quello dell’agente Rossi. Lui però non osò guardarmi e, anzi, cominciò a parlare con mia madre – lei era ancora in piedi a pochi passi dalla porta, con le braccia incrociate ed un’espressione d’odio superbo. L’odio diventa superbo, se è mia madre a provarlo. Ed è micidiale.
«Signora Elizabeth...» cominciò l’agente Rossi. Aveva un’aria da cucciolo bastonato, adesso, e non osò guardarla negli occhi. A quanto pare, quella donna non spaventava solo me.
«Signorina.» puntualizzò mamma. Io ero l’unica, lì dentro, a sapere che l’aveva fatto non perché era pignola, ma perché stava soltanto prendendo tempo e allontanando il momento nel quale le avrebbero posto la domanda. Era un vizio che s’era presa al lavoro e non aveva più perso.
«Oh... D’accordo... Ad ogni modo, sua figlia è accusata dal mio compagno – l’agente Mitchell – d’uso d’arma da fuoco contro un’autorità. E non solo: è pure scappata da un agente, gli ha mancato di rispetto...»
Mancato di rispetto?!
Lanciai un’occhiata d’odio superbo all’agente Mitchell. D’accordo, avrei potuto risparmiarmi la battuta sull’uscire assieme, ma lui era davvero così pignolo? Pazzesco.
«Ed inoltre vorremmo sapere cosa conteneva la borsetta di sua figlia, mercoledì scorso.»
Oh. Ottima proposta. Chi sarebbe andato a recuperarla in mare – o comunque dove altro sfociava quel torrente?
Quasi dissi qualcosa di sarcastico a riguardo, ma mia madre mi anticipò: «Avrei delle perplessità. Sappiate che non la difenderò in maniera differente perché è mia figlia, ma pretendo di poterle parlare da sola – in quanto sua madre, d'altronde –, tra un po’.»
L’agente Rossi annuì, quasi rapito dalle parole di mia madre. Chissà, magari era un suo fan. «D’accordo. E’ comprensibile, d’altronde. Ma certo. Perplessità riguardo a...?»
«Un po’ di cose» rivelò mia madre, con sguardo enigmatico.
«Prego, sieda!» sbottò Alec Mitchell, sbattendo con forza il palmo della mano sul tavolo della stanza. Un rimbombo risuonò nell’aria e rimbalzò nelle parenti e, quando fu calato il silenzio, mia madre andò a sedersi accanto all’agente Mitchell. L’agente Rossi si accomodò accanto a me e mi lanciò un’occhiata truce.
«Mi spieghi le sue perplessità.» Cominciò l’agente Mitchell, guardando la sua mano, arrossata per il colpo.
«Alec.» lo riprese mia madre. L’aveva chiamato Alec. Quella cosa fu così imbarazzante e fuori luogo, che per un po’ nessuno parlò; mamma, però, non sembrava affatto in imbarazzo e, anzi, scrollò le spalle con dispiacere. «Qualsiasi cosa è successa... Farò in modo che te la dimentichi.»
Cos’era quell’intimità? Perché mia madre gli parlava come se lo conoscesse da una vita? D’accordo, poteva averlo intravisto un po’ di volte al lavoro, ma cos’era questo? Questo comportamento era assurdo, non riuscivo a comprenderlo.
«Hai già infranto una promessa, Anna, non farne altre.» bisbigliò Alec Mitchell – o semplicemente Alec –,  nascondendo il volto tra le mani. La sua frase mi disorientò ancora di più, lasciandomi perplessa. Decisamente, quei due non s’erano visti solo al lavoro.
Cominciai ad avere seri dubbi – dubbi superbi – su mia madre. E non m’era mai capitato. Per me era sempre stata l’eroina, la Donna, la Super Mother e così via.
Ma ora?
Non che io fossi la figlia modello, ovviamente.
In ogni caso, mamma non ribatté a quell’affermazione così poco chiara.
Fu l’agente Mitchell a riprendere parola, sempre nascondendo il volto tra le mani. «Allora... Su cos’hai dubbi?»
«Tutto».
L’agente Rossi s’intromise. «Tutto? Tutto cosa? La prego d’essere più chiara, signora... Signorina...»
Mamma gli lanciò un’occhiata di fuoco. «Se mi lascia finire, agente Rossi, sarò più chiara. Ora, posso andare avanti?»
L’agente Rossi incassò la testa tra le spalle e mormorò qualcosa come «sì» e «scusi».
«Il mio dubbio maggiore è che stiate sbagliando ragazza. Ma!» sbottò, prima che l’agente Rossi potesse interromperla ancora «è una supposizione, la mia. Stia buono, agente, sant’Iddio!».
Alec Mitchell tornò a mostrare il suo volto ed i suoi stupendi occhi a tutti noi. «Forse dovresti solo parlarle. E vedere che è cambiata. Cattive compagnie, magari? Droga, alcol? Si comportava strana ultimamente? E tutto ciò è sfociato in un atto di rabbia repressa a danno di un’autorità, ricordo a tutti voi».
Non riuscii più a sopportarlo. Primo, aveva già trovato il tasto dolente. Alcol, cattive compagnie. Alla fine non è sempre quello a distruggere un adolescente? Se poi ci si mette di mezzo la droga, è finita. E per Gabriele era così: finita. Per di più, da mezz’ora tutti parlavano di me come se non esistessi.
Ed ora Alec Mitchell mi accusava d’averlo colpito così, per scherzo! Per sfogare la rabbia!
La mia rabbia – vera rabbia, rabbia superba – uscì fuori in un fiume di alate parole che ferirono il diretto interessato: «Rabbia repressa? La mia era paura!» urlai, senza rendermi conto che, così facendo, avevo confermato a tutti d’essere stata io ad aver colpito il biondo, il dio greco. «Non sono una stupida bambina che spara per divertirsi o perché è sbandata! Io, io...»
«Magari sei davvero sbandata» ribatté prontamente l’agente Mitchell, con voce lievemente alterata, «E perché avevi paura? Dimmi la verità, ragazzina: cosa c’era nella borsa?»
Boccheggiai.
Mamma osservò la mia reazione senza averne di sue. Alzò soltanto un sopracciglio e, con voce calma, m’invitò a parlare. «Digli cosa c’era. O non c’era. Agenti, dovete sapere che l’adolescenza è un’età difficile. Si è un po’ strani, mettiamola così. Mia figlia si  sarà spaventata. Qualsiasi altro ragazzo della sua età avrebbe reagito così! Ciò ovviamente non la scusa, sia chiaro. E non è sbandata.» Mi difese come se fosse in tribunale, aggiungendo l'ultima frase dopo un secondo d'esitazione.
Credeva che fossi sbandata? Be', io ero certa al cento per cento di non esserlo. Avevo agito così solo per quel bastardo di Gabriele, nient'altro. Non avevo problemi in testa, dannazione!
«Se è soltanto così» intervenne ancora Alec Mitchell. Probabilmente era un uomo – bellissimo! – che doveva sempre dire la sua ed avere l’ultima parola. Sì, doveva essere così. Ma anche mamma era una persona del genere e, sinceramente, non avevo idea di chi avrebbe messo punto e a capo a questa conversazione così aliena. «non sarà così difficile dire ciò che c’era nella borsa».
E tradire un amico.
Un amico caro, con cui ne ho passate tante.
Lo tradirò?
Mi schiarii la gola.
«Vorrei poter parlare un po’ con mia madre » annunciai, fingendo d’essere docile e spaventata. «E’ tutto così strano.»
L’agente Rossi ci cascò con tutt’e due le scarpe. Ma l’agente Mitchell no. Mi scrutò con quei suoi occhi celesti per un po’, poi s’alzò ed uscì dalla stanza. L’altro poliziotto lo imitò.
 
Mamma m’impedì di parlare. Mi zittì subito. «Rispondi solo sì oppure no.»
Annuii. Avevo il cuore in gola e le mani sudate. Per di più, il mio telefono stava squillando in tasca da mezz’ora. Chissà quanti SMS mi aveva mandato Emma?
«Hai sparato?»
Inutile mentire. «Sì».
Mamma sospirò pesantemente, nonostante dovesse aver già più o meno capito cos’era successo quel mercoledì. Dovevo averla delusa più che mai, soprattutto perché lei sembrava adorare Alec Mitchell. Chissà come si sentiva, ora. Divisa a metà tra il dover scegliere me, sua figlia, oppure l'agente... Ed Alec Mitchell cos'era, poi? Non ero così sicura di volerlo sapere.
«D’accordo» mormorò, massaggiandosi le tempie. Io mi sentii un’idiota, un’inadatta, una sciocca. Una sbandata.
«Per questo ‘sta mattina eri così agitata, è vero?», domandò senza guardarmi.
«Sì.» Non riuscii a fermare le parole. Dovevo sfogarmi dicendo la verità a qualcuno e quella era mia madre... Quindi, perché non dirle ciò che provavo? Era la cosa più naturale e giusta. «Mamma, dio mio! Credevo d’ averlo ucciso e tutto questo perché... Per...»
Lei alzò un sopracciglio, scocciata. «Non fai mai come ti dico.» Ringhiò quasi, a voce bassissima. Quasi non la udii.
Un secondo dopo l’agente Mitchell entrò nella stanza, zoppicando. «Continua»
 mi esortò, guardandomi dritta negli occhi.
Cazzo. Aveva sentito tutto, ovviamente. Ed ero un’idiota, ovviamente.
Lo guardai negli occhi . «Per un amico».
È il momento di tradire il traditore.
 
Tempo mezz’ora e avevo detto tutto all’agente Mitchell. Alla fine lui mi guardò senz’alcuna emozione e volle parlare solo con mia madre e l'agente Rossi. Quando uscirono, io mi alzai e camminai un po’ per la stanza, stiracchiandomi. Ero stata seduta così a lungo che camminare mi sembrò un’azione strana.
Presi il mio cellulare e aprii lo schermo.
7 messaggi non letti. Be’, pensavo peggio.
 
Cara. Sei in commissariato? È un ERRORE? Oddio, dimmi che è un errore.
 
Cara. Rispondimi. Chi tace acconsente, quindi... è un errore ? Dimmi di sì. Scrivimi..
 
Ops. Forse non puoi scrivere. Ma dài, ti basta solo un SMS breve. Solo un ‘sì’.
 
Perché è un sì, no?
 
Comincio a pensare che dovrò chiamare l’agenzia funebre. La bara la volevi bianca, giusto?
 
Rispondimi.
 
Non era un errore.
 
Quando lessi l’ultimo messaggio il cuore mi balzò nel petto. Mi affrettai a digitare come una forsennata, fregandomene del fatto che qualcuno sarebbe potuto entrare da un momento all’altro.
 
Come lo sai? Non potrò parlare a lungo. Non giudicarmi.
 
Nessuna risposta. Emma s’era volatilizzata.
Ed un’altra volta eccomi lì, sola.
Il mio stomaco brontolò. Ero comunque umana e, dopo diverse ore passate senz’acqua né cibo, stavo iniziando a sentire i miei bisogni. Per di più, avevo un terribile bisogno d’andare in bagno – non appena ne avessi visto uno, mi ci sarei buttata a capofitto, senza curarmi di mantenere contegno.
«Agente Rossi?» chiesi ad alta voce, rivolta al nulla. Niente, nessuna risposta. Chissà se c’era qualcuno di là, qualcuno che mi stava osservando? «Mamma?» riprovai, con voce più esitante. Ero davvero sola, allora. Non c’era niente e nessuno lì... Mi avrebbero lasciata morire di fame, di sete e di stenti? Questa era la punizione?
«C’è qualcuno?» chiesi ancora, mettendomi a sedere. Niente. Il rumore del silenzio sembrò assordarmi. «Agente...» la mia voce morì in gola. Chiamare l’agente Mitchell sarebbe stato un errore, poco ma sicuro.
«Cosa diavolo ti serve, ora?»
Sobbalzai. Alec Mitchell mi aveva risposto, alla fine. E la sua voce era seducente, suadente, sembrava avvolgermi in un caldo abbraccio. I miei muscoli s’irrigidirono di scatto e dolorosamente per la sorpresa. Mi sfuggì un gemito.
«Stai bene?...» domandò sempre la sua voce, piuttosto riluttante.
L’agente Rossi mi aveva detto che Alec Mitchell si sarebbe comportato freddamente, se non con malvagità, nei miei riguardi. In realtà era soltanto stato un po’ stronzo – probabilmente era solo il suo carattere –, ma niente di più. Ora si stava pure preoccupando per me, o così pareva.
Probabilmente era frutto della mia fervida immaginazione.
Ero così dannatamente confusa da tutto! Non c’era un punto fermo al quale fare appello – neppure mia madre era più d’aiuto!
«Sì... No. Potrei uscire? Ho fame, sete e...»
«D’accordo» tagliò  corto, con voce fredda. «T’accompagno».
 
«Non ce n’è bisogno... Può andare, se ha da fare».
«Ho da fare te» mi zittì senz’alcuna emozione l’agente Mitchell, appoggiato alla macchinetta delle bevande con una spalla. Io ero lì davanti a lui a scegliere cos’avrei mangiato, con due spiccioli in mano, ma in realtà l’idea d’abbuffarmi davanti all’uomo al quale avevo sparato non m’ispirava poi granché fiducia.
«Bene.» Esclamai con un po’ troppa forza, per poi gettare le mie monete all’interno della macchina, premendo il tasto «83». Un delizioso pacchetto di patatine fritte, probabilmente risalente all’epoca di Alessandro Magno. Quando uscì dal distributore con un leggero tonfo, mi piegai per raccoglierlo; nell’alzarmi notai che l’agente Mitchell mi stava fissando con quei suoi grandi occhi azzurri, senza nemmeno tentare di nasconderlo. Dire che il suo sguardo era penetrante e magnetico, in quel momento, sarebbe stato un eufemismo.
Con tutto il coraggio del quale disponevo, aprii il pacchetto e glielo avvicinai. «Ne vuole un po’?».
Lui accennò un sorriso falso e di circostanza. «No.» Grazie?
Ignorando la sua maleducazione, mi portai una patatina in bocca. Il sapore del sale per un momento mi zittì – adoravo il sapore del sale. Così... salato!
Fu lui a parlare, anche se probabilmente io avrei potuto porgli molte più domande – per esempio: Perché e come diavolo conosce mia madre? Cos’è la storia della promessa? Siete amanti, eh? Ci scommetto una mano! Ovviamente non gliene avrei posta nessuna. Già con la mia battutina patetica mi ero guadagnata un’accusa in più, perché aggravare ulteriormente la mia posizione?
«Perché mi hai sparato?» domandò, scostandosi una ciocca di capelli dagli occhi. Il suo sguardo non era cambiato, anzi, e per sostenerlo dovetti sforzarmi molto. Alla fine vi rinunciai, limitandomi ad osservare il mio pacchetto di patatine pressoché intatto. «Voglio dire, se è vero che avevi con te della droga che non era tua, perché non me l’hai detto?», precisò, prima che potessi dargli la mia risposta standard sulla paura.
«Oh.» Il mio sguardo s’incupì. Già, perché non avevo tradito Gabriele prima? Non era stato poi così difficile farlo, oggi – anzi, subito dopo aver detto le fatidiche paroline, m’ero sentita libera. «Penso che...» D’un tratto le mattonelle del pavimento si fecero molto interessanti. «Penso che credessi ancora in Gabriele, o qualcosa di simile. È ovvio che mi sbagliavo.»
Alec Mitchell non rispose subito. Sentivo i suoi occhi su di me, e cominciai a muovermi irrequieta sul posto. Questo colloquio stava prendendo una brutta piega, davvero.
«Cosa credevi, esattamente?» domandò infine, con voce satura di curiosità. Ma non sembrava comprendermi. D'altronde gli avevo sparato, non mi avrebbe mai perdonata e sicuramente non l’avrebbe fatto per una sciocchezza simile.
E poi... Sembrava starsi trattenendo dal dire qualcos'altro. C'era dell'altro che non voleva farmi sapere - almeno, non ora.
Scrollai le spalle, osando guardarlo negli occhi per un secondo. Riabbassai lo sguardo, intimorita dal suo. Dovevo sembrargli un’adolescente patetica... E lo ero.
«Credevo nell’amicizia tra me e Gabriele.»
La calma era durata abbastanza. La quiete prima della tempesta è destinata a morire, prima o poi.
L’agente Mitchell batté un poderoso pugno contro il distributore, la cui luce si spense con uno sfarfallio sinistro.
Sobbalzai involontariamente e il sacchetto di patatine mi volò di mano. 
Non provai neppure a raccoglierlo.
Alzai lo sguardo, preoccupata. Ed ora, cos’avevo detto? Mi ero soltanto aperta un po’ con lui!
«E così al giorno d’oggi per un’insulsa amicizia si può anche sparare, vero?! Hai almeno la minima idea di ciò che ho passato?! Sai che avresti potuto uccidermi là, no? E che sarei potuto morire dissanguato? Ti è passato almeno per la mente? Ah no, giusto! Tu eri troppo occupata a gettar via la tua cazzo di borsetta, per coprire il culo al tuo amico drogato! Sentimi, stupida ragazzina..» La sua voce era impregnata da una rabbia ed un odio che aveva represso così bene per troppo tempo. Non c'era modo di placarlo e scusarmi lo avrebbe fatto solo innervosire di più. Anche se fin dal principio avrei voluto farlo, scusarmi con lui.
S’avvicinò d’un passo. Io non osai nuovamente guardarlo negli occhi e, con il cuore a mille, posai lo sguardo sul suo collo muscoloso.
«Farò il possibile per farti soffrire, lo giuro.»
«Io...»
Dannazione!
Non potevo farmela addosso per così poco! Un uomo mi minacciava ed io che facevo? Me ne stavo lì zitta a sentirmele? Oh no, col cazzo!
Io non ero così! non ero certo attaccabrighe, ma non ero sottomessa!
Alzai il volto, guardandolo dritto nelle palle degli occhi. «
Ottimo, s’impegni pure. E sappia che sbagliare è umano e che, se avesse almeno un po’ di capacità di comprensione, sarebbe stato perlomeno ad ascoltare ciò che avevo da dirle! Ma sa che c’è? Può provare a farmi soffrire quanto vuole, non ci riuscirà!»
Lo sbalordimento sostituì l’ira. Per poco. «Vedremo» sussurrò malignamente Alec Mitchell, chinandosi su di me. Per qualche secondo, l’unica cosa che vidi furono le sue iridi azzurre. Senz’anima. Non arretrai.
«Vedremo» ripetei anch’io, con sguardo sfrontato.
In realtà avrei soltanto voluto chiedergli scusa.
E poi lui aveva già cominciato a farmi soffrire.
In un certo senso, aveva già vinto. Ma, pensai mentre lui se ne stava andando velocemente, lasciandomi sola, avrei potuto nascondergli i miei sentimenti, così come lui faceva con me. L’agente Mitchell non si sarebbe nemmeno accorto d’averla avuta vinta.


 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Il Mondo Al Di Là. ***


Capitolo Cinque.

Il Mondo Al Di Là.

NdA. La storia sta prendendo una piega un po' soprannaturale (come genere, intendo...), quindi modificherò la presentazione ed aggiungerò un tag. Avviso a parte, buona lettura! In questo capitolo c'è molto Alec Mitchell c:
 

«Cara?»
Per un secondo mi sembrò che Gabriele volesse abbracciarmi. Per un attimo pensai anche che volesse domandarmi scusa per ciò che aveva causato. Improbabile, sì.
Ma poi la sua espressione cambiò. Radicalmente. Nei suoi occhi passò l’odio e l’ardore di chi è intenzionato a fare del male a qualcuno – a me –, e s’avvicinò a passi pesanti.
Gabriele. Il mio amico. La mia anima gemella.
Ma io ero ancora a metà tra la realtà – tristezza, amarezza, dolore, solitudine, shock, paura, follia, ansia, abbandono – e il limbo – nulla –, così le mie emozioni furono molto attenuate. Non piansi, né gridai, né gli mollai un ceffone. Guardai questo ragazzo così carino e così fatto – “Vuoi vederla? È bellissima, oltre che buonissima” – venirmi incontro, finché a separarci non ci fu che uno strato d’aria sottile.
«Oh, Gabriele, ciao. Anche tu qui? Che sorpresa
Istigare le persone alla violenza mi sembrò altroché eccitante. E Gabriele era la cavia perfetta.
«Cara, non giocare col fuoco» mi avvertì. Il suo respiro sfiorava il mio viso. Ed era caldo, fetido, quasi umido. Sporco.
«Tu non parlarmi di questo, Gabriele. Non puoi più, amico.»
Amico. La parola uscì forzatamente dalla mia gola e sembrò assolutamente fuori luogo.
«Ho giocato con il fuoco, sì. Ed anche tu» ribatté prontamente, con cipiglio sicuro.
«Tu mi hai trascinata nei tuoi giochi» ringhiai, con la rabbia che montava dentro. Io non avevo scelto proprio niente! Mi ero ritrovata in fuga senza nemmeno sapere da cosa scappassi ed il perché.
Il ragazzo ridacchiò, sistemandosi gli occhiali sul naso dritto. La sua risata mi lasciò addosso la sensazione che si prova dopo aver toccato qualcosa di freddo e liscio, ma non solido, come una crema... una gelatina viscida.
«Bazzecole. Non  farmi irritare, Cara. E dimmi perché mi hanno chiamato» continuò, sussurrando, Gabriele. Solo allora notai quant’era teso, come una corda di violino.
Non sapeva.
Ma poteva immaginare, certo.
Cos’avrei dovuto fare?
Tentennai, scioccata. Come diavolo poteva non sapere? Perché non gliel’avevano detto?
«Penso te lo dirà un poliziotto» risposi evasiva, guardando da un’altra parte. Non potevo crederci.
«Senti, già sono incazzato perché mi hanno portato qui ... Ed è colpa tua» precisò. «Quindi ti conviene dirmi la verità in fretta, se vuoi passarla liscia.»
Passarla liscia. Passarla lisca.
«Io sono già nei casini, Gabriele... L’hai capito, è vero?»
Nessuna risposta.
«Gabriele... Sono nella merda anch’io  ed anche tu!» provai ad insistere, con voce grave.
Ciò sembrò riscuoterlo. «Quanto siamo nella merda?»
Nonostante l’idea d’un “noi” piuttosto che un “io” ed un “tu” m’irritasse molto, tentai d’ignorare il fastidio e, con un sorriso di circostanza, borbottai: «Un bel po’.»
Un bel po’. Ovviamente non sapevo ciò che sarebbe accaduto da quel momento in poi.
 
«Cara, tutto a posto?»
Prima che io o Gabriele potessimo dire anche solo un’altra parola, l’agente Rossi ci sorprese e mi si avvicinò rapidamente. Il suo sguardo mi suggerì la preoccupazione che, di lì a poco, potesse accadere qualche cosa di terribile e d’un tratto mi sentii un’idiota ad aver provocato Gabriele. Semmai qualcosa fosse accaduto, la situazione d’entrambi sarebbe peggiorata. Drasticamente.
«Sì, è tutto okay. Ma vorrei andarmene, posso?»
«Devi!» esclamò gravemente l’agente Rossi, portandosi una mano in tasca. Estrasse un accendino rosso di piccole dimensione e iniziò ad accendere e spegnere la fiamma in modo ripetitivo, quasi come fosse una specie di tic nervoso. La mia espressione sorpresa gli suggerì che non ero al corrente dei miei programmi per la giornata – qualcuno s’era limitato a trascinarmi dal mio ex amico drogato per poi abbandonarmi là sola con lui –, così continuò: «Alec non te l’ha detto?» domandò, perplesso. «Beh, devi andare nella sala degli interrogatori. Sai dov’è, no?»
 Ma certo, pensai mentre una sgradevole sensazione m’invadeva il petto. Ormai sono di casa, qui.
In più, Gabriele non stava dicendo una parola. Si limitava ad ascoltare ed osservare, con aria incuriosita ed indispettita. Cosa stava pensando, accidenti?
«Ad ogni modo... Vai lì, c’è l’agente Mitchell. Forse anche tua madre, non ne sono certo».
Annuii, decisamente irritata. «D’accordo ... Andrò lì» mormorai, voltando le spalle all’agente ed a Gabriele. Proprio mentre stavo uscendo, udii l’agente Rossi dire al mio ex amico che era in un mare di guai, perché i suoi test erano risultati...
SBAM!
Lo sbattere brusco d’una porta mi impedì d’ascoltare oltre. Sbuffando, esasperata, mi diressi verso la sala degli interrogatori.
Camminai velocemente per due interi corridoi, ed arrivai alla fatidica porta con il fiatone. Vedevo le stelle. Non ero più abituata a fare esercizio fisico dopo cosa, qualche giorno ferma?
Mi appoggiai al muro più vicino a me. La mia unica speranza di non crollare.
E fu allora che li sentii. L’agente Mitchell. Mia madre.
Stavano parlando. Non proprio a bassa voce, ma nemmeno urlando. Tuttavia, il loro tono era quello di qualcuno adirato, che sta per fare qualcosa di stupido.
«Dimenticherai tutto!» sbottò ad un certo punto mia madre, con voce più alta. Da allora riuscii a comprendere ogni loro  parola, perché iniziarono ad urlare. La domanda era: perché?
«Dimenticare? Non mi interessa più.» M’immaginai che Alec Mitchell stesse ghignando tra sé e sé. Dentro me s’accese un istinto omicida.
«E allora cosa vuoi?» domandò mia madre. Se non la si conoscesse, si potrebbe dire che quella era la sua resa, il suo modo di dire ’’Va bene, hai vinto’’. Ma in realtà quello era il modo di mia madre di vincere. Far credere che inizi a cedere, per poi distruggere l’avversario. Metaforicamente, intendo. Ero io quella a sparare...
«Dille la verità» ringhiò Alec Mitchell. Probabilmente i suoi occhi erano più scuri del solito, e la sua bocca era piegata all’ingiù.
La verità. Una proposta allettante.
Seguì un breve silenzio. Mia madre ... Stava davvero per cedere?
«Alec, non chiedermi una cosa simile» inveì poco dopo, con voce più indecisa, insicura. Più vinta.
Il mio  cuore sobbalzò. Distratta, mi persi qualche parola di ciò che Alec Mitchell stava dicendole. «Dille la verità! È ora che la sappia, anche perché è in pericolo!» esclamò nuovamente, a voce ancor più alta.
In pericolo? Alludeva a Gabriele?
«No...»
«Dille chi è. Perché è  nata. Qual è il suo compito. Cos’è veramente! Questo lo saprà, no? E già che ci sei, dille dov’è suo padre. Dov’è veramente. È ora che sappia qualcosa in più sulla sua vita, non è vero?»
Ed ora mia madre sarebbe scoppiata a ridere, vittoriosa. Avrebbe dichiarato l’avversario vinto, poiché aveva mentito durante un processo – o, in questo caso, una semplice discussione a quattr’occhi. E avrebbe fatto sì che Alec Mitchell non avrebbe mai più insinuato cose simili sul mio conto.
Aspettai che cominciasse, mentre un’ansia strana s’insinuava su per le mie vene, sempre più vicina al cuore.
Passò quasi un minuto. Mamma non aggiunse altro... Non cominciò a distruggere Alec Mitchell... Ormai l’ansia aveva raggiunto il mio cuore e la mia mente.
Ed un pensiero – assurdo. Perché doveva essere assurdo, no? – cominciò a farsi strada nella mia mente.
Ciò che aveva detto Alec Mitchell... era vero?...
Mamma ricominciò a parlare. Ma sapevo già che non era per smentire tutto.
«Perché?» sussurrò, pateticamente.
La voce dell’agente s’indurì. «Come hai potuto mentirle così a lungo? È vero, non è ancora maggiorenne... il problema è ancora un po’ lontano» iniziò, serio. Io non riuscivo a capire. Problema? Quale problema? «Ma già che lei è qua... Velocizziamo i tempi! Tanto più che è in pericolo, ripeto! Non t’interessa davvero niente della sua incolumità?»
«Dannazione, sì! M’interessa. È per questo che non voglio dirle nulla. Così è più al sicuro, ignorando tutto! Alec, non capisci?! Non costringermi a dirle ogni cosa... Ricordati di cos’ho fatto per te!» supplicò mia madre.
Io nemmeno mi sforzavo più di capire.
«Mi ricordo, sta’ tranquilla.»
«Ma...»
«Lei sarà più al sicuro conoscendo ciò che è davvero. Sul serio, devi dirglielo. O lo farò io.»
 
In realtà mia madre non mi chiamò mai. Venne l’agente Mitchell in persona, dopo qualche minuto. Io mi ero sforzata di mettermi in piedi e, con aria perplessa e scioccata, mi ero allontanata velocemente dalla porta. Mi sentivo instabile, ma non ero riuscita ad entrare nel limbo, questa volta.
«Vieni.» Ordinò.
Ed andai. Cos’altro avrei potuto fare?
 
«Mamma?» La mia voce liberò tutta la mia preoccupazione. E confusione, soprattutto. Ma era comprensibile, e lei probabilmente lo ricollegò al fatto che ero finita in un commissariato.
Quando mi guardò, nei suoi occhi lessi rabbia. Non verso me, bensì... Verso sé stessa. Allora era vero. Avevamo trascorso una vita nascondendo una cose all’altra. Solo che io le avevo nascosto d’aver provato a fumare, il fatto che Gabriele si faceva, qualche 5 in chimica... E lei? Cosa non mi aveva detto?
Le sue bugie avevano l’aria d’essere molto più gravi.
«Cara... Vieni, siedi qui» sussurrò, indicando una sedia accanto alla sua. L’agente Mitchell non era lì, ma probabilmente ci stava ascoltando dalla saletta accanto.
«Perché l’agente Mitchell non si unisce a noi, anziché ascoltare da dietro uno specchio?» sbottai, irritata, guardando dritta verso lo specchio in questione. Mi rimandò un’immagine confusa della vecchia me: non avevo più nessuna luce negli occhi, né il mio sorriso brillava.
Andai a sedermi vicino a mia madre. Che non sentivo poi così vicina a me.
«Arrivo subito, Cara» replicò dopo un secondo l’agente Mitchell, con voce divertita. Un attimo dopo s’aprì la porta della stanza e l’agente entrò. Mi rifiutai di guardarlo.
«Allora, perché siamo qua? È per... Gabriele?» stetti al gioco, e fece più male che un pugno allo stomaco.
Soprattutto perché mia madre annuì. Intenzionata, forse, a mentire ancora.
«Lo hai visto? Come affronta tutto ciò?»
Le rivolsi un’occhiata gelida.
«E tu, come affronti tutto ciò?»
Silenzio. Mia madre balbettò qualcosa di sconnesso.
E Alec Mitchell mi smascherò. «Hai origliato, Cara?»
Il mio sguardo lo incenerì. «Mi avevano detto di raggiungervi. E così ho fatto, ovviamente. Parlavate – animatamente – così ho aspettato fuori. Ma poi vi siete messi a urlare, e così sentire è stato ... inevitabile.»
Silenzio. Anche Alec Mitchell avrebbe balbettato qualcosa?
No. Ovvio. «Bene!» esclamò, «Così perderemo meno tempo!»
«Già. Su, c’è un bel po’ di roba che devi dirmi, mamma.»
Ma mamma non parlò. S’era chiusa a riccio. Patetica.
«Solo...» mi ammonì un secondo in ritardo. «Promettimi che mi capirai.»
Il mio sguardo divenne ironico. Tagliente. «No.»
«Per favore.» ribatté lei, prontamente. Ecco, un barlume della mia vera madre. La combattiva.
«No. Io non ti mentirò.» Dissi semplicemente.
«D’accordo... Allora immagino sia ora di dirti un po’ di verità in più.» sussurrò mia madre, osservandomi negli occhi.
Chissà, ora non doveva nutrire più grande stima per l’agente Mitchell, eh? L’aveva costretta in una condizione simile... Per mettermi al sicuro. Ma da cosa? L’avrei scoperto presto.
«Tutta la verità, mamma» precisai. «Ma non partiamo da me» non ero ancora pronta per una cosa simile, no. «Dimmi chi è, per te, l’agente Mitchell. Perché lo stimavi (stimi?) così tanto? Cos’avete in comune? Dimmi tutto.»
Qualcuno tossicchiò alle mie spalle. L’agente.
«Va’, dille tutto. Io sarò di là, sentirò ogni cosa... Ma non credo che vedermi aiuterebbe nessuna di voi» si congedò l’agente, tornando a sparire. Ottimo. Non volevo davvero averlo tra i piedi – non più.
Mia madre prese un bel respiro, guardandosi attorno.
Dai suoi occhi traspariva l’amore nei miei confronti.
La preoccupazione... Di cosa? Di non essere abbastanza forte da dirmi tutta la verità, senza omettere nulla?
E l’odio. L’odio verso Alec Mitchell o, più genericamente, verso ciò che stava per fare.
O forse solo verso sé stessa.
Ed io? Cosa pensavo di lei? Cos’era lei, ora, per me?
«Non è così facile da spiegare...» esordì.
Scrollai le spalle, scocciata. Perché volevo sapere, conoscere. La curiosità ed il dubbio mi divoravano. «Dimmi tutto comunque.»
«Lo farò» promise. «Ma dammi tempo.»
Assottigliai gli occhi. «Hai già avuto una decina d’anni di tempo, mamma.»
Colpita!
«Sì... Ma temo... Sia...»
«Mamma.»
Non l’avevo mai vista così. Mai.
Cosa c’ era di tanto preoccupante nella verità?
«Va bene. Ma non giudicarmi, almeno!» sospirò.
Non risposi.
Non giudicarla? L’avevo già fatto.
Era una bugiarda.
 
«Per spiegarti di Alec ... Dovrò dirti qualcosa in più su tuo padre.»
Non riuscii a resistere e la interruppi: «Dov’è?»
Lei si morse le labbra, guardandomi dritta negli occhi. «In America. New York.»
New York?
«Mamma... Perché non è in Germania, come aveva detto?»
Lei guardò da un’altra parte. «Se è per questo, lui non è nemmeno un commercialista, Cara.»
«E cos’è?»
Continuando a evitare il mio sguardo, rispose: «Lavora per... Un’agenzia segreta, chiamiamola così.»
Un’agenzia segreta. Che razza d’idiozia era? Mio padre non aveva niente di speciale, né nell’aspetto, né nel carattere. Era un normale commercialista... O no?
«E tu, mamma?» mi giunse spontaneo chiedere, con voce tremante ma carica di sarcasmo. «Cosa sei, tu? L’assistente di Capitan America, per restare in tema?».
Lei mi fissò un unico, lungo, istante. «No. Lavoro come giudice e nient’altro. È tuo padre la... Star, se così si può dire.»
«E che cosa cazzo c’entra Alec Mitchell?»
«Lasciami parlare, su.» M’invitò gentilmente, in modo totalmente diverso da come aveva fatto con l’agente Rossi. Annuii, rimanendo in silenzio, così continuò: «Tuo padre lavora per delle persone di... Ecco, ti parrà strano, ma loro sono di un altro mondo. È un mondo buono!» s’affrettò ad aggiungere, come se le avessi detto qualcosa in merito. «Tuttavia, alcuni criminali sono riusciti a scappare di lì... Venendo sulla Terra. Tuo padre  è uno degli agenti che li cercano. Ora credono che i criminali si trovino a New York, per cui lui è lì.»
Due mondi. Criminali. New York. Papà “agente segreto”.
«Mamma... E’ uno scherzo proprio ben riuscito, sai?»
Lei strabuzzò gli occhi. «E’ la verità!» e lo giurò su un qualche dio.
Incrociai le braccia sotto il petto; stavo per inviperirmi sul serio, ora. «E Alec Mitchell? O vogliamo chiamarlo Alec e basta, ma’? Lui, ripeto, che ha a che fare con noi?»
Lei continuò a guardarmi male. Avevo la stessa espressione anch’io. «Alec... Anche lui lavora per quell’agenzia. Solo che lui è dell’altro mondo... Vedi, è un po’ complicato. Ci sono, sulla Terra, agenti dell’uno e dell’altro mondo, però agli umani è quasi proibito visitare il Mondo Al Di Là, come lo chiamo io.»
Silenzio. Non avevo niente da dire, era proprio una gran cazzata.
Proseguì. «E... Be’,  Alec ogni tanto ti tiene sott’occhio. Quel giorno – quando gli hai sparato – lui era appena tornato da New York per vedere come stavi –lo fa una volta alla settimana –, ma poi è successo il putiferio
Sì, come no.
Il putiferio ce l’aveva lei in testa!
«E perché mi tiene d’occhio?» chiesi, tentando di non ridere.
«Perché tu, vedi... Sei speciale. Il tuo compito è quello di prendere le orme di tuo padre, perché ritengono – quelli del Mondo Al Di Là – che tua abbia la sua stessa capacità».
«Quale?»
Lei prese un bel respiro, tentando di calmarsi. «Vedi... Non lo so bene, non l’ho mai davvero capito. Infondo, per me è impossibile anche solo pensarci, comunque... Riuscite ad isolare le emozioni. Paura, terrore, tristezza, ansia... Così siete quasi invulnerabili, capaci di lottare più a lungo.»
Il limbo.
Doveva essere una coincidenza, davvero.
Cambiai discorso, sentendo l’ansia sopraggiungere. E io non ero in grado di dominarla.
«Cos’è successo, in passato, tra te e Alec Mitchell?»
«Ecco...  Negli inseguimenti, quand’era più giovane e gli era più difficile controllare le sue capacità – o poteri, ecco –, ha combinato un po’ di guai sulla Terra. E io l’ho salvato più volte dalla galera.»
Bene. Molto bene.
Non c’avevo capito un’acca.
Ma d’accordo, sì, come no. Avrei finto di crederci.
Mi alzai in piedi, irritata. La sedia raschiò il pavimento. «Io non seguirò le orme di nessuno» Chiarii. «fingerò che tu non sia pazza e che non abbia una probabile relazione con l’agente Mitchell, a causa della quale i rapporti con mio papà – che è in Germania – tra di voi stanno crollando, così lui sta molto tempo via. Fingerò sia tutto okay, normale. Che tu non abbia nominato un altro mondo, criminali e poteri. Vado a prendermi un caffè.»
Ma qualcosa – qualcuno – m’impedì d’andarmene.
Alec Mitchell, sulla porta.
Mi lanciò un’occhiata senz’alcuna emozione e mormorò, sicuro di sé : «Venite con me, dobbiamo andarcene. Ora!»
Solo allora notai che aveva con sé alcune borse. A guardarle meglio, notai che erano valigie mie e di mia madre.
Ma che cosa...
Mia mamma s’alzò e corse fino a noi. Anche la sua sedia raschiò il pavimento polveroso. Mi afferrò una mano e la strinse forte.
«E’ un’emergenza?» s’informò, spaventata.
Quando l’agente Mitchell annuì, cominciammo a correre verso l’uscita del commissariato. L’agente correva per indicarci la via, mamma perché era spaventata ed io perché venivo trascinata da lei, ma non provavo nessuna emozione. Niente.
Quando fui cosciente di quella cosa, un’ansia mi montò dentro, assieme a... Paura? O un senso di potere?
Non riuscii a comprenderlo, perché venni buttata all’interno di un Suv dall’aria costosa. L’agente Mitchell, al quale gli occhi brillavano in maniera innaturale, spargendo una luce celeste nell’abitacolo, mi allacciò la cintura di sicurezza. Quando lo sue mani sfiorarono, inavvertitamente, il mio corpo, un brivido mi percorse. Erano bollenti.
Mamma si sedette sui sedili posteriori. Respirava affannata.
Io mi guardavo attorno, confusa.
«Più tardi qualcuno pagherà per questo scherzo» li avvisai, senza rivolgermi però a qualcuno in particolare.
Alec Mitchell mi lanciò una breve occhiata scostante – i suoi occhi erano completamente celesti, privi di pupilla. Inutile dire che erano meravigliosi e, nonostante la situazione più che assurda, il mio cuore sobbalzò nel petto e quasi arrossii.
Il ragazzo cominciò a guidare guardandosi attorno come un forsennato, mentre mia madre lo aiutava avvertendolo se vedeva qualcuno di sospetto.
Okay, forse la faccenda era seria.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Ho smesso di vedere gli altri come treni che devo prendere, e che se perderò starò male. D’ora in poi sono io il treno che non va perso. Chi vuole salirci avrà anche il mio cuore, gli altri s’arrangia ***



Capitolo Quattro.



Ho smesso di vedere gli altri come treni che devo prendere, e che se perderò starò male.
D’ora in poi sono io il treno che non va perso.
Chi vuole salirci avrà anche il mio cuore, gli altri s’arrangiano.
Cit.
 

NdA. Salve! Questo non è uno dei capitoli più felici, ma c’è una buona dose d’Alec Mitchell,anche se d’ora in avanti aumenterà sempre più. Parola di scout! :)

 
Era sera. In commissariato il tempo sembrava non scorrere mai ed anzi, le lancette dell’orologio sembravano muoversi a rallentatore – proprio come succedeva ogni volta durante l’ora di storia dell’arte oppure di greco, quando mi sembrava che anche solo un minuto ne durasse mille.
Io me ne stavo lì seduta nel mezzo di un corridoio a caso, fissando il pacchetto di patatine intatto da prima. Aspettavo.
Aspettavo d’essere salvata.
Un messaggio di Emma, con una dedica sentimentale, magari.
Mia madre che veniva ad abbracciarmi, piangendo. «Qualsiasi cosa sia successa, ti salverò: non m’importa nulla di Alec Mitchell!».
Alec Mitchell che s’avvicinava a me, pentito per la scenata di un po’ prima.
Mio padre che veniva qua dopo un lungo viaggio a chiedermi come stavo. Se volevo le sue deliziose minitorte.
Ma non accadde nulla.
Restai là nel corridoio sola per un’ora e  mezza. Non passò nessuno per tutto il tempo, nemmeno per controllarmi, anche se avevo il sospetto d’essere osservata ventiquattr’ore su ventiquattro da qualche telecamera. E chissà, magari davanti allo schermo d’un PC, a fissare la mia figura buttata a terra, c’erano proprio Alec Mitchell e mia madre.
Rimasi lì  nel silenzio più totale, intervallato solo da qualche mio sospiro, a capire quant’ero sola e patetica. E che non c’era scampo a tutta quest’assurdità. E che la mia vita, ormai, aveva preso una piega terribile verso il basso. E che non sarebbe risalita più.
 
Alla fine qualcuno arrivò.
Erano le ventidue in punto, e l’agente Rossi uscì da una stanzetta alla fine del corridoio, di fronte a me. Mi si avvicinò a passo malfermo, insicuro; poi si chinò alla mia altezza – io ero seduta sul pavimento – e mormorò, quasi a disagio: «E’ ora d’andare a dormire, Cara...».
Poi mi guardò come si guarda la cosa più fragile ed instabile al mondo. E la si deve sfiorare, toccare, per aiutarla. Ma non si vuole, perché chi lo sa, si potrebbe rompere. L’agente Rossi mi guardo così e mi afferrò delicatamente una mano, aiutandomi a tirarmi su. Quasi non percepii la sua presa.
«Sei stata tutto il pomeriggio qui?» mi domandò, a voce bassissima, mentre percorrevamo il corridoio allontanandoci dalla stanza da dov’era giunto. Mi sembrava d’essere in una biblioteca, dove si deve parlare piano per non disturbare. Ma qui non c’era anima viva che si sarebbe potuta seccare al suono d’una voce, il commissariato sembrava uno di quei castelli deserti che mostrano nei film o nelle serie TV horror.
Gettai il sacchetto di patatine in un cestino mezzo vuoto. «» mormorai, alzando le spalle e passandomi successivamente una mano sugli occhi. La mia voce, relativamente alta, sembrò stonare con quella leggera dell’agente accanto a me, che però non commentò.
Dio, mi sentivo di merda.
La testa mi pulsava più che mai e mi sembrava che anche l’agente Rossi, che stava sussurrando ogni frase a voce molto bassa, stesse urlando a più non posso in un megafono. Mi allontanai un po’ da lui per non sentirlo più – tanto non aveva niente d’interessante da dirmi e no, dannazione, non la volevo una minestrina o qualcos’altro.
Aprì una porta bianca. C’erano solo porte bianche, corridoi bianchi, tavoli bianchi. L’unica porta grigia che avevo visto era quella della sala dell’interrogatorio.
Si fece indietro ed entrai. «Qui potrai riposare un po’.» M’informò, senza guardarmi negli occhi. Mi temeva perché ero figlia d’un giudice? Perché il suo comportamento era cambiato così tanto?
Poi capii perché era così imbarazzato. Mi aveva condotta in una... Cella. Sì, era proprio una cella, con tanto di sbarre alle finestre. La porta si poteva aprire solo dall’esterno e là dentro c’era soltanto un lettino con un materasso fino che dava l’idea d’essere molto duro e scomodo. Niente cuscino.
«Ah» mi sfuggì.
«Già. È perché l’agente Mitchell ha insisto tanto, sai, io t’avrei lasciata andare a casa... Insomma, con tua madre, che potresti combinare eh?» Abbozzò una risata, girandomi attorno. Si sedette sul letto e il suo corpo non sprofondò nemmeno d’un centimetro nella gommapiuma del letto. Doveva essere durissimo. «E comunque, temo tu sia più al sicuro qui che con lei, no?» continuò. Probabilmente non capiva che stava solo facendo peggio, chi lo sa.
«Immagino di sì...» sussurrai. Mi stava guardando sempre con un’espressione di riverenza mista a timore, ma io non ne capivo il perché. Stavo per chiederglielo – perché mi guardi così? – ma riuscii a trattenermi all’ ultimo.
«Quindi, mia madre se n’è già andata?»
La mia voce uscì piatta dalle labbra, come se non stessi provando nulla. In realtà stavo soffrendo come un cane, non ne potevo già più di quella situazione così scomoda che stava durando fin troppo. E poi l’idea che mia madre mi avesse abbandonato era inaccettabile.
L’agente Rossi sembrò rendersi conto del mio tumulto interno. Accennò un sorriso paterno e s’alzò dal letto, avvicinandosi a me d’un passo. «Oh, sì... E’ dovuta scappare. Sai com’è, il lavoro». Decisamente, l’agente Rossi s’era preso una cotta per il lavoro di mia madre. Ogni volta che pronunciava quella dannata parola, i suoi occhi brillavano d’una luce nuova. Chissà, magari anche lui sarebbe voluto diventare giudice, quand’era giovane.
Sorrisi anch’io, ma in modo totalmente differente. «D’ora in poi sarò io il suo lavoro» precisai, piccata.
«Già».
«Senta, agente Rossi, potrebbe dirmi una cosa? Non c’entra assolutamente con ciò che sta succedendo... Cioè, in parte, ma non con il lavoro della polizia e così via... Può?»
«Vediamo. Dimmi» mi esortò, con voce dolce. Non si avvicinò di più  a me, restò nei suoi spazi ed  io gliene fui infinitamente grata. L’agente Rossi si stava rivelando il mio punto fermo in quel caos là in commissariato e nel mio cuore, al contrario di Alec Mitchell, quell’uomo così dannatamente bello. Sentivo già la mancanza dei suoi occhi e, per di più, una parte di me s’aspettava davvero di vederlo avvicinarmisi per scusarsi e baciarmi.
Mi schiarii la gola. No! Non dovevo perdere il coraggio, altrimenti l’agente Rossi sarebbe stato costretto a tirarmi fuori le parole di bocca con le pinze. Senza guardarlo negli occhi, sussurrai: «LeisacosacètralagenteMitchellemiamadre
«Ehm, cosa?...» domandò l’agente Rossi, confuso. I suoi occhi sembravano due punti interrogativi, proprio come nei fumetti.
Avevo parlato così veloce che non si era capita un’acca. Il mio cuore batteva fortissimo e nella mia mente c’era una parola: tradita! Ero stata tradita! da mia madre. Lei mi aveva tradita! e così io ero costretta a chiedere ad un agente di polizia di fare lo spione per me. Tradita!
Guardai la punta delle mie scarpe da ginnastica. Erano logore. «Lei... Lei sa cosa c’è tra l’agente Mitchell e mia madre?»
Ci fu un secondo di silenzio, nel quale lo sguardo dell’agente Rossi si oscurò. Osservò il soffitto della stanza e cominciò ad arretrare, finché non cadde nuovamente sul letto. E nuovamente non affondò di un centimetro. «Non sai davvero niente?...» domandò sorpreso. Nel suo sguardo, per un secondo, lessi compassione. Scossi il capo. Dannazione, io non ne sapevo niente! Non conoscevo davvero mia madre a quanto pareva, lei era stata sempre e solo un giudice con me, niente di più! E me ne rendevo conto solo ora, in una cella d’un commissariato.
«Io... Non posso parlare, scusa, Cara. Chiedi all’agente Mitchell, semmai. Davvero, scusa.» Ed era dispiaciuto. Potevo leggerlo nei suoi occhi così sinceri e così puri, a modo loro. « Devo andare...» m’informò dopo un secondo d’esitazione, avanzando verso la porta.
L’idea di rimanere ancora sola mi terrorizzò. No, non di nuovo... Per favore!...
Ma non potevo certo dirlo all’agente Rossi. Ad un agente in generale.
Non potevo dire nulla. Perché in realtà non c’era nulla da dire.
E così, per trattenerlo un po’ di più là dentro con me, domandai: «Gabriele? Quando verrà qua?»
Perché ero certa che sarebbe venuto. Doveva pagarla cara, questa volta.
L’agente Rossi aveva una mano poggiata sulla maniglia. Tossicchiò. «L’abbiamo già chiamato, Cara. Verrà domani».
Ah, bene, pensai, piccata, guardando la testa un po’ pelata dell’agente. Lui, il drogato!, può passare la notte a casa ed io no!
Una vocina, una vocina così veritiera da risultare bastarda, proclamò: Lui, il drogato, è solo un drogato. E non un assassino come te, piccoletta.
Aveva ragione. Ovviamente.
L’agente Rossi mi augurò ’’buona notte’’. Probabilmente stava scherzando.
Si voltò, mi diede le spalle ed in un secondo sparì.
 
Quella notte non dormii sul letto; mi sedetti a terra appoggiandomi alla branda e rimasi là a guardarmi i piedi, le mani e lo schermo del cellulare che, pian piano, si scaricò, finché il sonno non mi accolse tra le sue braccia. In realtà anche lì non riuscii a stare tranquilla: l’immagine dell’agente Mitchell tormentò anche i suoi sogni, solo che là faceva ciò che volevo io. «Scusami», diceva nei miei sogni, abbracciandomi e portandomi via dal commissariato.
E fu l’ immagine dell’agente Mitchell a turbare anche la mia mattina. La sua voce mi svegliò, e poi l’agente aprì la porta, entrando nella mia cella.
«Benvenuto nella mia dimora!» lo accolsi, tirandomi su dal pavimento. Non lo guardai nemmeno una volta, sapevo ciò che avrei letto nel suo sguardo duro – odio, certo, ma anche compassione. Dopo tutto ero solo una sciocca bambina che aveva voluto giocare un po’ con le armi ed ora era pentita e triste. Per di più, mi aveva vista dormire per terra. Come una bestia. Ottimo.
Uscii dalla stanza senza aggiungere una parola. Dal canto suo, nemmeno l’agente Mitchell fu così sgarbato da farlo. Mi seguì fino alla porta del bagno e mi aspettò là fuori, in silenzio. Soltanto quando uscii, ancora ostinata a non degnarlo d’un’occhiata, sbottò: «Dormito bene?»
Guardai il soffitto sopra di me. C’erano sei lunghe lampade in tutto il corridoio, di cui tre non andavano. «Sì, molto. Lei?» chiesi cortesemente, cominciando a camminare un po’ a caso per il commissariato. Sentivo la presenza dell’agente poco dietro di me, ma non volevo dargli la soddisfazione di vedermi turbata, così continuai a girovagare senza meta.
«Non molto.» Mi rivelò. Drizzai le orecchie, curiosa. E così, mentre io lottavo per dormire, anche lui si rigirava nel letto senza poter riposare? D’un tratto, irrazionalmente, mi sentii molto meno sola. Quasi mi voltai per abbracciare l’uomo che mi aveva costretta a dormire in una cella. «Sai, i letti sono fatti per starci sopra» Aggiunse dopo una breve pausa. La sua voce sogghignava.
Guardai il bidone più vicino a me. Esterno di plastica nera, interno di nylon verde scuro. Là dentro avevo buttato le mie patatine, il giorno prima. Quando il mio stomaco brontolò rumorosamente, quasi mi ci avvicinai per recuperarne un po’. «Quello non è un letto, agente. È una panchina» obbiettai rigidamente, voltandomi verso una finestra. Camminai fin lì, con Alec Mitchell dietro.
«Come vuoi.» replicò, con voce calma. Fuori pioveva e tutto aveva un aspetto grigio e mogio, che mi intristì ancor più. Ma poi eccolo là, il riflesso dell’uomo accanto a me. Bellissimo. Aveva i capelli spettinati ed i suoi occhi parevano ancora più celesti. Non indossava la divisa ma una tuta grigia con pantaloni blu scuro ed il suo fisico risaltava più che mai. Mi costrinsi a non fissarlo – anche se, tecnicamente, non lo fissavo. Non direttamente, almeno. «Oggi verrà qui Gabriele... Gli faremo alcuni test» Rivelò, con voce piatta.
Sapevo che cosa stava facendo. Mi stava mettendo alla prova per controllare le mie reazioni. Sarei scattata allarmata, terrorizzata all’idea dei test? Questo avrebbe confermato che ero una bugiarda e che Gabriele era invece a posto.
Io però me ne rimasi lì. Un sorriso sadico si dipinse sulle mie labbra. «Ottimo.» sussurrai passando un dito sul vetro gelido della finestra. Il mio intero corpo fu  trapassato da un brivido e il mio stomaco brontolò ancor più forte. Questa volta l’agente doveva averlo sentito, ma non disse nulla.
E poi feci una cosa che aveva dell’incredibile. Stringendo le braccia sotto il petto, mi voltai verso il poliziotto. Lui mi guardò passandosi una mano tra i capelli biondi. Aveva un’espressione perplessa e quegli occhi dannazione che occhi stupendi si ritrovava ed erano un po’ sprecati su di lui. Mi avvicinai d’un passo all’agente. Avevo il cuore in gola e lui era lì, così bello ed etereo.
«Ora io ho una domanda, Alec Mitchell».
Lui non mostrò segnali d’essere contrariato. Anzi, rispose interessato. «Dimmi.» mormorò, con la curiosità che gli accendeva la voce. Mi costrinsi a non abbassare lo sguardo e lui lo ricambiò con fervore; nei suoi occhi non c’era traccia né di risentimento né di odio, sembrava soltanto interessato. Probabilmente era una giornata buona, per lui.
Ma non per me.
«Tra te e mia madre, cosa c’è?»
Questa volta domandare mi riuscì molto più facile. Non saprei spiegarne il perché, ma le parole uscirono con facilità dalla bocca ed un sorriso – bastardo – illuminò il mio viso. Volevo mettere al muro quest’uomo, fargli capire che là dentro non ero solo io l’unica malvagia. E soprattutto farlo sentire male. Male, perché lui era stato uno stronzo con me, non s’era comportato correttamente e mi aveva minacciata. Ed ora l’avrebbe pagata.
In più il rimorso nei confronti della donna che mi partorì accresceva la mia smania di vendetta. E non potevo prendermela con lei – sarebbe stato come dire «Datemi l’ergastolo», d'altronde – anche se lo desideravo così tanto. E poi eccolo là, l’agente Alec Mitchell. La preda perfetta.
Ma non andò come doveva andare. L’agente non mi guardò con orrore e non mi rivelò d’essere l’amante o chissà cos’altro di mia madre, non perse il controllo.
«Cara. Cara, per favore. Sii più intelligente.» mormorò, prendendomi per un polso. Il mio cuore accelerò. La sua stretta era così forte da far male e le sue mani erano gelide. Un’ombra oscurò il suo sguardo e, per la prima volta, ebbi davvero paura di lui. Ero solo un’ impertinente. Come mi era saltato in mente d’andare a dar fastidio al lupo che dorme nella tana, eh? D’altra parte, la curiosità, la smania di conoscenza, mi tratteneva dallo scappare con la coda tra le gambe.
«Rispondimi» sbottai. Il mio tono sembrò autoritario e deciso, quando in realtà volevo soltanto andarmene via e piangere per lo stress. Non ero che una bambina brava a fare l’attrice.
Alec Mitchell scosse il capo. Si avvicinò ancor più – quanto ancora? – e il suo odore mi arrivò addosso come un pugno. Il suo sguardo, ora, era sì incazzato, odioso, ma anche... Ferito. Evidentemente, avevo trovato il tasto dolente. Avrei dovuto esserne felice, ed invece... Eccomi lì, a sentirmi una merda per essere stata troppo curiosa. Quando l’agente Mitchell era nei paraggi io non ero più io, non ragionavo più come prima. Anzi, non ragionavo e basta. E la cosa non mi piaceva.
«Non c’è nulla da dire» sussurrò a pochi centimetri da me, sconsolato. Poi mi lasciò il polso e s’allontanò velocemente, come per paura di fare qualcosa di sbagliato – picchiarmi?
«A me sembra di sì...»
«C’è una persona che vuole vederti. Ed in più, dopo avrai un colloquio con Gabriele. Muoviti, Cara, non c’è tempo da perdere» ringhiò sbrigativo, dandomi le spalle e incamminandosi. Il mio nome, sulle sue labbra, sembrò un insulto più che mai.
 
La ’persona’ era Emma. Non appena la scorsi lì in commissariato, seduta rigidamente su una seggiola di plastica con l’aria di chi si sente estremamente fuori luogo e se ne andrebbe subito, se potesse, mi venne l’impulso istintivo di nascondermi dietro la schiena dell’agente Mitchell e poi scappare via.
Emma.
Era venuta lì, per me. Una prova d’amicizia e lealtà incredibile, tuttavia ... Cos’avrebbe detto? Infondo, ero pur sempre trattenuta in commissariato. Ed anche da abbastanza tempo. Avrei letto ansia, paura, incredulità nel suo sguardo? Tanto più che ero colpevole. Totalmente ed innegabilmente!
Quando mi fermai davanti alla porta socchiusa che dava alla sala d’attesa con sguardo indeciso, Alec Mitchell si voltò e mi guardò sospettoso.
«Starò con voi tutto il tempo» precisò.
Per un secondo pensai fosse per proteggermi, nel qual caso che Emma avesse provato a insultarmi o peggio – cosa che non mi sembrava così impossibile, visto che la mia amica era molto impulsiva. A quell’idea il mio cuore cominciò a scalpitare ed una sensazione che mi mancava scaldò il mio cuore: l’idea di non essere sola.
Poi l’agente aggiunse, quasi con malignità: «Non vorrei mai che provasse a farti scappare!»
Bum! Colpita ed affondata.
Ma non gliel’avrei data vinta così.
Oh, no!
«Che cazzata! E sta fuori dalla stanza, chiaro? Non ti voglio tra i piedi, pretendo d’avere privacy!»
Detto ciò aprii del tutto la porta ed entrai nella stanza d’attesa in gran stile, lasciando dietro me un agente biondo, bellissimo e molto scioccato.
 
«Cara!»
Emma mi saltò al collo. Anch’io la abbracciai, dimenticando i miei pensieri di poco prima. d'altronde, perché mai avrebbe dovuto essere incazzata con me? Lei non era mai stata molto amica di Gabriele ed anzi, quando aveva scoperto che si drogava l’aveva ancor più allontanato da sé. Non si sarebbe mai potuta incazzare per il fatto che l’avevo tradito, no.
Ed io?
Io come mi sentivo ad aver tradito un amico che m’era stato vicino nei momenti difficili?
Che quando voleva sapeva essere così dolce da farti sciogliere?
Che aveva il più bel sorriso del mondo?
Io, come stavo vivendo tutto ciò?
Scacciai quelle domande. Ma che cazzate. Io avevo fatto ciò ch’era giusto, punto. Nient’altro.
Vero?
«Emma... Sei qui...» sussurrai, con un nodo in gola che quasi m’impediva di parlare.
Lei annuì, passando una mano sulle mie guance. Il suo tocco fu leggero e delicato, così chiusi gli occhi per assaporare la sensazione d’avere un’amica così leale. Quando li riaprii, la trovai che mi stava fissando con una dolcezza infinita. «Piangi» mormorò, con gli occhi arrossati.
Ed allora avvenne. Sì, l’ammetto, potrebbe essere considerata una scena un po’ patetica. Molto patetica. Ma fu più forte di noi: scoppiammo in singhiozzi e c’abbracciammo per un tempo che mi sembrò infinito.
 
«Allora, dimmi perché sei qua.»
«Uh.» Domanda di riserva?
Io ed Emma stavamo passeggiando nel parcheggio davanti al commissariato. Ero riuscita a convincere Alec Mitchell a lasciarci uscire, avevo davvero bisogno d’aria. Lui aveva accettato, anche se sapevo che, proprio in quel momento, i suoi occhi azzurri dovevano starci guardando da qualche finestra.
«Non ti giudicherò.» continuò, con sguardo sincero.
Mi fidai. D'altronde sia mia madre che gli agenti sapevano già tutto ciò che avevo fatto e pure il perché.
«Ho... Ho sparato ad un agente.»
Silenzio.
Emma mi guardò con occhi sgranati. «Ed è... è... Insomma, è...»
«No, no! È vivo!» squittii, preoccupata di ciò che stava pensando di me. «Hai visto l’agente con cui ho parlato, prima? Quello che è venuto in classe, lo ricordi?»
Lei annuì solennemente. «Sì, il dio greco» confermò, con voce timorosa.
«Be’, ecco... A lui. Ho sparato a lui» bisbigliai.
«Oh. Ma sta bene.» balbettò, insicura se aver paura di me o no.
«Assolutamente!» E’ solo uno stronzo assurdo, ma non credo che per questo ci sarà cura, pensai malvolentieri.
«E... Beh, potrei sapere perché?... Insomma, se vuoi...»
«Volevo difendere Gabriele» risposi, ansiosa. Sapevo che si sarebbe irritata al suono di quel nome, e così fu.
«Va avanti.» mi esortò.
«Lui... Beh, mi ha costretto a tenergli un po’ di roba. Sul momento non ho capito che era una cazzata, e stava arrivando la polizia, così... Sono scappata. Con la roba, intendo». Più andavo avanti a raccontare, più mi sentivo un’imbecille. Non sarei mai dovuta fuggire! «Poi è arrivato Alec Mitchell... Il dio greco. Ho corso, ma poi s’è messa male  e così... Cristo, Emma! Avevo paura, non guardarmi così
Lei non cambiò espressione. Nei suoi occhi chiari leggevo dubbio, orrore, sorpresa, ira... E non potevo sopportarlo.
Così andai avanti, stremata: «Per una settimana ho vissuto col terrore d’averlo ammazzato. Era là, nel bosco... Ed io avevo paura... Volevo morire, è stato un periodo orribile. So che non è una giustificazione l’aver avuto paura, ma sono umana! Sbaglio!» finii così, con la voce più alta di qualche ottava.
Ed Emma non cambiò espressione. «Mi chiedo se tu usi o no il cervello. Per Gabriele hai quasi ammazzato una persona. Un agente, per di più! So che tutte le persone sono uguali e non ci sono distinzioni, ma... Cazzo, Cara, un agente! Gli hai sparato. Non è giustificabile. Non so davvero come andrà a finire questa storia, ma non credo andrà bene.» Si tappò la bocca proprio dopo l’ultima parola, forse anche lei scioccata da ciò che aveva detto.
Aspettai che mi chiedesse scusa – scuse che non avrei accettato in ogni caso, almeno non subito – e, quando non accadde, iniziai ad allontanarmi lentamente da lei. Mi sembrava d’essere in una sorta di limbo dove niente è reale.
Non provai più niente.
Dolore? Tristezza? Senso d’abbandono?
No, niente.
Anche Emma mi aveva tradita. Anziché aiutarmi, mi aveva massacrato.
Non riuscii più a sopportare la situazione. Corsi dentro al commissariato, superando un Alec Mitchell pressoché infastidito, che sbottò «Era ora! Quanto c’avete messo!». Lo ignorai, mandandolo mentalmente a ‘fanculo. ‘Fanculo tutto, lui e la sua dannata bellezza ed anche il suo strano rapporto con mia madre! Quando finalmente raggiunsi la mia cella, l’unico luogo dove meritavo di vivere,  a quanto pareva,  e mi ci chiusi dentro, fregandomene del fatto che sarei potuta rimanere lì ore ed ore, riuscii a scoppiare in lacrime. E fu liberatorio.
 
«Cara, devi uscire.» m’informò ad un tratto una voce dall’altra parte della porta. Quando questa si aprì, l’agente Mitchell mi osservò senza nessuna espressione in particolare, né mi giudicò. Osservò le lacrime, i capelli spettinati, il volto sciupato ed i vestiti spiegazzati e non sembrò averne alcuna opinione – né buona, né cattiva.
Anche lui era in un limbo? Anche lui, come me, non provava più niente? Dal canto mio, dopo aver pianto per un tempo indeterminato, ma abbastanza lungo da schiarirmi le idee, avevo capito che non mi importava più di nessuno. Né di mia madre, né di Emma, né di Gabriele, né di Alec Mitchell o tantomeno del fatto che gli avevo sparato.
«Devi incontrare Gabriele, Cara. Alzati.»
Mi ero distesa sul letto. E sì, era dannatamente duro, ma tanto non ero andata lì per dormire. Quando Alec Mitchell nominò il mio ex amico, il mio corpo ebbe un guizzo involontario. Stavo forse uscendo dal limbo? Tentai di calmarmi e, grazie al cielo, ci riuscii. Il limbo era la mia droga, non potevo farne a meno. Quest’inaspettato menefreghismo mi piaceva fin troppo.
«Non ci verrò a parlare, scusa, bellezza» dichiarai, voltando le spalle all’agente. Il mio tono era piuttosto fastidioso, ma a chi importava? A me, sicuramente, no.
Alec Mitchell sbuffò, entrando nella cella. Per qualche secondo valutai l’ipotesi d’alzarmi e, rapidamente, chiuderlo qua dentro. Subito la scartai: lui era comunque giovane, sebbene fosse più anziano di me, e doveva essere molto forte e veloce. In un secondo mi avrebbe presa e portata da Gabriele.
«Da quando sei così indifferente?» mi domandò. La sua voce era così bella... Oddio, avrei voluto rubargli le corde vocali!
«Da più o meno un’ora» buttai là una cifra a caso, stropicciandomi gli occhi.
«Ed è bello?» continuò Alec Mitchell.
«Molto...» borbottai, confusa. Doveva esserci qualche inganno o tranello sotto. L’agente Mitchell non mi aveva mai posto così tante domande al di fuori della sala per l’interrogatorio.
Mi voltai, sentendo puzza d’inganno, ma era già troppo tardi.
Alec Mitchell si tuffò su di me e mi afferrò come un sacco di patate, portandomi fuori dalla stanza. Le provai tutte: tirare i capelli, pugni, calci, ma lui non si fermò. Quando riuscì a trascinarmi fuori mi mise giù, con aria soddisfatta.
«Bene. Allora non sarà un problema andare a fare due chiacchiere con Gabriele» esclamò, sogghignante. Sembrava avere dieci anni in meno, un ragazzino scapestrato e divertito. Ma durò un secondo – e tanto bastò a lasciarmi ammaliata – e poi l’agente tornò ciò che era: uno stronzo.

 
 
NdA. Piccola parentesi.
 
#Grazie
So che è appena  finito un capitolo, sarete già stufe marce di me, però devo dirvi una cosa.
Pensiero generale: “Cazzo, una dedica chilometrica! Chi la sopporta più?”. Ma tranquille, è breve, sul serio. Giuro!
Allora, probabilmente è una pazzia pubblicarla perché. .. non vi conosco, nemmeno so il vostro vero nome, ho a disposizione dei nickname e, talvolta, delle storie.
Tuttavia ringrazio tutte voi  per aver aperto la mia pagina e scelto qualche mia storia ... Che vi sia piaciuta o no, per me è importantissimo. Grazie.
Spero di non essermi dilungata troppo. In ogni caso, sono poco meno di 150 parole, non ci avete messo molto a leggere, no?
Meme1.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** «Avrebbe potuto ammazzarmi senz’alcuna paura!» ***


Capitolo SEI.

NdA. Ho aggiornato¸ come avrete già notato (?), l’intro della storia! Semmai date un’occhiata! E buona lettura!-
 
«Se la caverà».
«No! Non può cavarsela! Lei non è come suo padre, lo so!»
Continuai a fingere di dormire con il volto appoggiato al finestrino gelido del Suv di Alec Mitchell. Mi faceva male uno zigomo, ma non osai muovermi.
Mia madre mi stava dando per spacciata. Lei, che non s’arrendeva – e non faceva arrendere nessuno – mai! La domanda era: perché? Se la situazione era così grave, io non l’avevo ancora ben chiaro.
«Dovrà» inveì, mesto, l’agente di polizia. Che non era un agente, in realtà. O meglio: non era un semplice agente. Lui era un agente segreto, proprio come mio papà. Mi sforzai di crederci. E poi doveva essere così, perché il viaggio in auto stava durando, ormai, da ore. Una perdita di tempo che mia madre non avrebbe mai accettato se non per una giusta causa.
«Ho paura, Alec» sussurrò mia madre, dopo un po’ di silenzio. La sua voce tremava. Si sarebbe messa a piangere? E io l’avrei consolata, nonostante tutto?
«Anch’io ne avevo, mai tu mi salvasti. Ti aiuterò. La aiuterò» promise, con voce dolce. La voce d’un vecchio amico. «Ma non posso garantirti che si troverà bene, di là».
Mia madre accennò una risata arrochita dalle lacrime. «Ah! Ti assicuro che starà malissimo. È molto abitudinaria» bisbigliò, mentre una nostalgia ingiustificata s’impossessava della sua voce. «Vedrà suo padre, di là?»
Di là. Di là, dove?
«Probabile. Ma lo vedrà poco. A New York c’è stato un bel po’ di casino, con i criminali. Ne abbiamo uno in pugno, però».
Silenzio. Mia madre singhiozzò.
Per un attimo ebbi l’impulso di aprire gli occhi, voltarmi ed abbracciarla, spingendomi oltre il mio sedile e quello dell’agente.
Ma poi Alec Mitchell parlò: «Scusa».
«Per cosa?»
«Per essere stato così crudele con lei» rispose, con voce sincera. Disorientata, mi limitai ad ascoltare. «Ma quando mi ha sparato... Dovevi vedere la luce nei suoi occhi, Anna. Era sicura di ciò che faceva, determinata».
«Ne sei certo?»
«Oh, sì, Anna!» esclamò, frenando bruscamente. Il mio viso sbatté con forza contro il finestrino e, per mantenere la mia recita, sbuffai e mi sistemai un po’ meglio sul sedile. «Avrebbe potuto ammazzarmi senz’alcuna paura!»
«Cristo...»
«Ho aspettato» continuò Alec Mitchell, senza lasciarle tempo di sfogarsi. «Credevo sarebbe crollata. Per questo ho messo su lo spettacolino della polizia che va nelle scuole: per darle il tempo di confessare. A te, alla polizia... A qualcuno!» Respirò rumorosamente, come se stesse correndo. «Ma niente! È rimasta là, zitta. Certo, disorientata, ma non ha ceduto! È folle. E poi in commissariato... Nemmeno là è ceduta. Sì, ha confessato, ma non c’era tristezza o rimorso in lei».
«Non ha ancora capito bene cos’è successo, Alec...»
«Oh, l’ha capito eccome! E sai quand’è stata l’unica volta che l’ho vista a pezzi?» Mia madre non rispose. «Quando ha litigato con l’amica! È assurdo
«Questo non significa che non abbia paura» ribatté la donna che mi aveva messo al mondo, con voce dura. Perché si metteva sulla difensiva? Cos’aveva detto Alec Mitchell?
Oltre a dire che ero pazza, una (quasi) assassina spietata, un’amica terribile, un’idiota?
«Ne ha. Ma la sa contenere. È come lui, Anna».
Un’altra volta il limbo fu menzionato.
A quel punto non riuscii più ad ascoltare cose simili, così finsi di svegliarmi e quella conversazione cessò.
La prima cosa che vidi, aprendo gli occhi, furono quelli di Alec Mitchell. Completamente azzurri, con delle sfumature più scure vicino alla pupilla. Mi sembrò d’essere al mare e di osservarlo dall’alto, potendo apprezzarne ogni colore. Una sensazione di pace mi tranquillizzò quasi totalmente e, con un sorriso ebete, borbottai: «Buongiorno!»
 
«Tra quanto si arriva?» chiesi dopo un’altra ora passata in quell’auto. Non c’eravamo fermati neppure per andare in bagno, ed Alec Mitchell guidava senza sosta e senza dimostrare d’essere stanco.
Mi lanciò un’occhiata divertita. Oddio. Era bellissimo: aveva il volto rilassato, non più teso come quand’eravamo in commissariato. Dalle labbra rosee sbucarono  i suoi denti come perle bianche, quando mi sorrise tranquillo.
«Ci vorrà ancora poco, Cara. Ti serve il bagno?»
Be’, sì! «Sì» annuii «e ho fame. E», aggiunsi dopo un attimo di pausa, «ho delle domande. Molte domande.»
Mia mamma sospirò piano. «D’accordo» biascicò, sconfitta. «Alec, accosta vicino ad un BeB, mangeremo lì qualcosa. E poi risponderò alle tue domande, Cara».
 
La sosta al BeB durò molto poco, in realtà. Il tempo d’ingurgitare uno scadente caffè con panna accompagnato da una brioche un po’ rinsecchita e di comperare una bottiglietta d’acqua – bevevo acqua in gran quantità, durante ogni viaggio –, e poi eravamo già tutti in auto. Il Suv, seppur grande, sembrò diventare minuscolo non appena Alec Mitchell ci entrò, con i suoi occhi azzurri.
L’immagine delle sue iridi senza pupille mi balzò alla mente. Per un po’ non c’avevo più pensato, ma ora... Ora. Ora che ero in viaggio verso (dove?) per fare (cosa?) con (chi?), l’idea del dio greco, l’agente di polizia più bello dell’universo, mi sembrò un’idiozia. Alec Mitchell, l’uomo al quale avevo sparato, era molto più di un uomo. E non sapevo quanto. E ne ero terrorizzata. Ed affascinata.
Alec Mitchell mise in moto. Io ero seduta davanti e guardavo il paesaggio correre accanto all’auto. Non avevo la minima idea di dove fossimo.
«Dove stiamo andando?» domandai, stringendo la mia bottiglietta d’acqua tra le mani. Era ancora fredda e umidiccia di frigo, ma lo sarebbe rimasta per poco: la temperatura era altissima anche dentro l’auto, nonostante l’aria condizionata fosse accesa.
Fu l’agente a rispondere. «In Trentino. Là c’è una base per andare al Mondo Al Di Là, una delle poche, in Italia».
«Stiamo andando nel Mondo Al Di Là?!» esalai, voltandomi velocemente per dare un’occhiata a mia madre. Stava scherzando, no?! No?! «Riportatemi indietro! Ora! È un ordine!»
«Prendo ordini solo dal mio capitano, Cara. Anna, falla calmare».
«Farmi calmare?!» strillai. E l’idea d’afferrare il volante e causare un incidente – mortale! – non mi sembrò un’assurdità. Eravamo diretti in Trentino! Per poi andare Al Di Là! «Non sono un cane, che si calma! Ed ho il diritto d’andarmene! È un mio diritto! Accosta!»
«In autostrada?» ghignò l’agente, fingendo di soppesare la mia proposta.
Mamma s’intromise. «Lì non sarà così male. E sarai al sicuro, Cara».
«DA COSA?! Cosa c’è di tanto pericoloso da costringermi ad andare in un altro mondo!? Mamma, è uno scherzo, non è vero!? Non ne posso più! BASTA! Accosta, cazzo, Alec!!!»
Ed afferrai il volante. Tentai in tutti i modi di cambiare la direzione dell’auto, ma non ci riuscii. La forza di Alec Mitchell sembrava insuperabile.
«Calmati» m’invitò lui, tranquillo «o ti dovrò sedare».
Le parole mi uscirono di bocca con facilità. Parole stupide, ovviamente. Me ne pentii subito.
«E fallo!»
E lo fece. Mi sedò. Il mondo diventò nero, e non provai più nulla.
 
«I parametri vitali sono a posto... Per un pelo! Alec, quanto gliene hai dato, eh?»
«Non tanto, mi pareva».
«Quasi il doppio della dose indicata per una persona come lei!» strillò un uomo «Oh, se l’avessi uccisa... O danneggiata...!»
Danneggiata? Come se fossi un oggetto!
Questa volta non finsi di dormire.
Aprii gli occhi.
E mi ritrovai in una stanza d’ospedale. Lì con me c’era un medico in camice bianco con una penna nel taschino sopra al cuore, ed Alec Mitchell. Senza la divisa. Era decisamente più figo, così. I suoi occhi risaltavano molto – molto! – di più.
«Cara... Buongiorno!... Come stai?»
«Bene, credo» risposi, massaggiandomi la testa.
Poi un lampo di luce blu – che sembrava provenire dal nulla – mi ricordò d’essere fuggita in auto. Che l’abitacolo era pieno di una luce di quel colore. Io ed Alec Mitchell che litigavamo. Mamma che non mi diceva la verità. Papà. Il Mondo Al Di Là.
E urlai.
E il medico mi sedò. Ancora.
 
«Alzati, non fare assurdità».
Feci di “no” col capo, un’altra volta. La ragazza che si occupava di me da qualche giorno alzò gli occhi al cielo, stremata. Da un bel po’ d’ore cercava di farmi alzare, ma io non volevo. Non volevo e non l’avrei fatto.
«Ti prego!» squittì allora¸ tentando di non perdere la pazienza. Era sicuramente una del Mondo Al Di Là, ma sembrava in tutto e per tutto umana... non aveva code o zampe che spuntavano in luoghi strani, né mani palmate, e nemmeno due intensi occhi azzurri. «Se non ti alzi, oggi... Alec s’irriterà! E se lui si irrita, è la fine» piagnucolò, nascondendo il viso tra le mani.
«Non mi spaventa l’idea di vederlo incazzato» risposi, mettendomi distesa dall’altra parte. Il letto dell’ospedale era comodo e spazioso, una piazza e mezza di cuscini e coperte di lana setosa. Dormire lì era splendido. «Gli ho già sparato e non mi ha uccisa».
«Perché poi sarebbe morto lui stesso!» s’impuntò la ragazza. Doveva avere qualche anno più di me, era bassa e mora di capelli. Un po’ banale. Un po’ come me. «E poi tu non c’entri» continuò, puntando le mani sui fianchi. La posa di chi combatte. «Se non ti alzi io sarò punita!»
«Va bene, mi alzerò» acconsentii, senza però muovermi. La ragazza sbuffò sonoramente e s’avvicinò al letto. «Prima risponderesti a qualche domanda?» chiesi, prima che potesse fare qualsiasi cosa. Con sguardo vacuo, fece di sì con il capo. Sì, sì. Come ai matti. «Allora...»
Mi morsi le labbra. Era  il mio momento. Mio, di nessun altro. Per scoprire la verità.
«Siamo nel Mondo Al Di Là, è così?»
Lei annuì soltanto. «Ho sentito dire che alcuni umani lo chiamano così.» Aggiunse subito.
Bene. Non lasciai al panico la possibilità di immobilizzare il mio corpo. Proseguii, spedita: «Sto per morire?»
Morire. Già, quest’idea mi aveva assillato non poco, negli ultimi giorni. Ero stata là piuttosto sola, nella mia stanzetta... E da qualche altra parte dell’ospedale – perché io volevo credere che fosse un ospedale e non un manicomio o chissà cos’altro –, giungevano urla. Urla strazianti. Preghiere. Suppliche. Colpi. Silenzio. Altre urla.
Avevo fatto sì che il terrore non m’impedisse di respirare, ed ero andata avanti. Tra le urla.
La ragazza mi osservò a lungo. «Hai sentito...»
«Sì!» gracchiai, con la gola secca. «Ogni giorno! Queste urla e... E... Morte! C’è puzza di morte, qui!»
Lei osservò angosciata le mie reazioni.
«E pensi che accadrà anche a te?»
«Ne sono certa! Altrimenti, perché dovrei essere qui!?»
La sua bocca tremolò. Cosa stava tentando di nascondere... Una risata? «D’accordo, Alec dev’essere stato molto silenzioso, con te. Tu non sei qui per morire!» mi rassicurò. O ci provò. «Sei qui per salvarci, tutti! Sei la ragazza che ci salverà dalla Morte Nera, colei che allontanerà i criminali, colei che... Conoscerà l’amore, anche. Non so bene che cosa voglia dire, ma così è stato scritto... Insomma, tu sei Cara, l’eroina!»
«Che diavolo... Dov’è stato scritto tutto ciò?»
La ragazza – Megan! Ecco come si chiamava. L’avevo sentito il giorno in cui ero arrivata ed Alec Mitchell si era rivolto a lei. “Megan, prenditene cura” aveva detto, parlando di me – mi guardò come se fossi pazza. Come se fosse impossibile non conoscere la storia dell’eroina Cara, che salverà tutti... E conoscerà l’amore. L’amore. Che assurdità!
«E’ scritto nelle Scritture» chiarì. «Penso che Alec Mitchell ti debba spiegare un bel po’ di cose».
E non solo lui, Megan, non solo lui, pensai, pensai con un nodo in gola.
E poi me ne resi conto.
Mia madre non c’era. Non era lì con me. Dov’era? Era forse tornata... Tornata a casa?
Mi aveva abbandonata?
MI AVEVA ABBANDONATA IN UN ALTRO MONDO?!
 
Sono dovuta tornare indietro, Cara. Ci sono problemi al lavoro. Tornerò appena possibile, ma forse tuo papà riuscirà a venire a trovarti.
Ti voglio bene. Ricordalo. Resta forte e fidati solo di te stessa.
Con affetto,
mamma.
 
La porta s’aprì di scatto. Ero ancora nella mia stanzetta d’ospedale, ma mi ero seduta sul letto. Era già un passo avanti. Megan mi aveva dato la lettera di mia madre. Non l’avevo aperta subito, però. Sapevo ciò che avrei letto... Sapevo che mi avrebbe fatto male. Alla fine l’avevo fatto. L’avevo letta.
Ora il mio cuore era in pezzi.
Resta forte, aveva scritto. Ma mamma, io non lo sono. Per niente!
Fidati solo di te stessa, continuava. Io non mi sono MAI fidata di me stessa, mamma.
E poi quell’ultima frase... “Con affetto – mamma”. Suonava più sciocca di ...
Ci stavo ancora pensando, commiserandomi, quando Alec Mitchell finalmente entrò nella stanza. Era rimasto lì sull’uscio per un po’ ed io l’avevo bellamente ignorato, ma ora...
«Posso leggerla?» mi domandò, indicando la lettera che stavo ripiegando in grembo.
Osservai per un secondo le sue iridi blu. E feci per dirgli “ma certo!”
Poi la voce di mia madre risuonò nella mia mente. Fidati solo di te stessa. Era il momento di cominciare.
«No» negai, rafforzando il tutto con un gesto del capo. «C’era scritto solo ... Be’, che se n’è andata. Così, nient’altro.»
Dire ad alta voce che l’unica persona la quale mi fosse stata accanto nella mia vita in ogni momento se n’era andata, fece più male che un pugno alla bocca dello stomaco. Boccheggiai, ma l’uomo sembrò non rendersene conto.
Alec Mitchell annuì. «Bene».
Bene. Bene un cazzo!
«Vieni con me».
E un’altra volta, andai.
 
Stanza 4016, Ala B.
 
Alec aveva insistito così tanto perché mi segnassi sul cellulare – che ha campo, tra l’altro – l’ubicazione della mia stanza, che alla fine avevo ceduto. Ed ora eccolo là, il primo appunto sul block-notes del Galaxy. Alla fine avevo scritto anche (Hotel “al Mondo Al Di Là”), pensando fosse una cosa simpatica, ma ad Alec Mitchell non era piaciuta troppo. Non aveva, però, commentato.
Stavamo camminando lungo un corridoio. Bianco. Porte grigie. La sensazione di déjà-vu era incredibilmente forte.
«Fuori, non guardare negli occhi la gente».
Perché?
«Non dare nell’occhio».
Questa sarà facile, pensai amaramente. Da quando se n’era andata mia madre, giravo con la testa incassata tra le spalle e un’aria sconsolata. L’unica cosa divertente che avevo fatto – “divertente” – era stato scrivere quell’ultima nota negli appunti, che aveva così irritato Alec Mitchell.
«E sii più allegra. Qui la gente s’avvicina a chi sembra triste».
«Perché?»
Alec Mitchell mi rivolse un’occhiata malinconica e sconsolata, facendomi strada nei corridoi bianchi dell’ospedale. Niente urla, oggi.
«Perché... cos’hai detto, scusa?» esclamò d’un tratto, voltandosi verso di me con rapidità e stringendo le mie spalle con le sue mani. Le sue unghie premettero la mia pelle, ma non era questo  a fare più male di tutto: le sue mani ustionavano più che mai, come se la sua temperatura interna fosse di 50 gradi. Tentai di divincolarmi, ma me lo impedì. Imperturbabile, ringhiò: «Hai sentito... Urla?»
Urla? Un momento, io non avevo parlato. Lo avevo pensato. E ne ero sicura! Al cento percento! «Tu...» mi ci volle una gran forza di volontà per andare avanti con la domanda ma, non so come, ci riuscii: «Leggi nel pensiero?»
«Cara, hai sentito delle urla?», domandò ancora Alec Mitchell, senza lasciarsi distrarre. Annuii con le lacrime agli occhi, mentre sentivo la mia pelle diventare sempre più bollente. Il dolore era insopportabile, così cedetti. Che idiota. Sul momento, Alec Mitchell si limitò ad annuire. Mi lasciò e, pragmatico, mormorò: «Beh, erano i farmaci. È normale. Sono un po’ allucinogeni, sai. Roba da niente».
E lo disse con tanta sicurezza e velocità, che mi accorsi subito della menzogna. Quel discorsetto se lo era preparato già da tempo per nascondermi la verità dei fatti. Ma così facendo, me l’aveva messa ancora più in mostra.
Non riuscii a trattenermi: diedi un’occhiata alle mie spalle, abbassando un po’ la felpa che stavo indossando – me l’aveva data Megan, assieme ad altri abiti, per uscire. Era grigia, morbida e confortevole. Ma non era mia e, perciò, non sapeva di casa.
La pelle era intatta. Rosea. Solo un po’ arrossata doveva avevano premuto le mani di Alec Mitchell.
Con il cuore che batteva a mille dentro al petto, sussurrai: «Anche questo era un’allucinazione...?»
Alec Mitchell annuì, indicandomi una porta poco più avanti. Di lì provenivano luce e voci. Vita. «Usciamo».
Prima di lasciare l’ospedale, mi diedi un’occhiata alle spalle. Il corridoio era bianco, ma non risplendeva di luce. Sembrava essere oscurato da una forza malvagia, sinistra. Ed era deserto, come se le uniche persone là dentro fossimo stati solo io e l’agente.
Ma non era così. Sapevo che ce n’erano delle altre. Le avevo sentite! Le loro urla strazianti... i mugolii... le risate cariche di pazzia... i lamenti d’agonia...
Là dentro c’era qualcuno. Ma dove? Cosa gli stavano facendo?
Avrei semplicemente potuto credere all’agente. Infondo, la spiegazione era plausibile.
Ma io conoscevo la verità, ormai. E mi ripromisi di non mettere mai più piede all’interno dell’ospedale maledetto.
Nello stesso momento nel quale mi voltai per uscire, un ricordo mi annebbiò la vista e rischiai di cadere. Alec Mitchell mi afferrò prima che svenissi per terra, mentre io vivevo un incubo.

L'orologio sul comò accanto al mio letto d'ospedale segnava le 5.38. Di mattina. Non riuscivo a chiudere occhio tanto che, da un po' di tempo, una ragazza che si occupava di me aveva preso l'abitudine di sedarmi e basta. Mi aveva detto che così avrei dormito almeno un po', ed io avevo accettato. Tutto, piuttosto che questa merda. Le parole erano state le stesse, sì.
Quella sera, però, la ragazza non era arrivata. L'avevo attesa con il cuore in gola. La mia dose, la mia dose. Dov'era la mia dose? Perché non ero già svenuta?
Le ore erano passate. Prima una, ed era andato tutto tranquillo. Poi due, ed ancora niente.
Ma alla terza... Un 
urlo. No, non un urlo. Un lamento animale. Invocazione d'aiuto. La risata di qualcuno. Dissero ch'era forte, lo stronzo. Che la carica elettrica andava resa più forte.
Poi ci fu uno sfregolio. E uno strano odore - di 
carne umana bruciata, di carne morta - cominciò ad farsi strada nell'aria, fino alle mie narici.
Mi si serrò lo stomaco. Altre urla.
Era un incubo, no? Doveva esserlo!
Sfregolii. Urla. Sfregolii.
Ad un certo punto, qualcuno ordinò di rendere le cariche meno potenti. "Così il dolore durerà più a lungo", affermò.
Sfrigolii. Urla. Sfrigolii.
Sfrigolii.
Sfrigolii.
Silenzio.
Qualcuno sbuffò. Dissero ch'era già andato.
E poi scoppiarono in altre risate. Un uomo chiamò un nome. Forte, più volte.
Lo sentii chiaramente. "Alec ! Alec!" urlava. Dicendo che il 
lavoro era finito. "Alec! Dove sei?". 
E poi la voce di Alec Mitchell. Che rideva. E diceva ch'era andato tutto molto per le lunghe questa volta. Congratulazioni. Che bravi. Un giochetto da ragazzi, Alec. Bravi lo stesso.
Rumore d'un corpo che viene scaraventato qua e là.
La mia porta si aprì, lentamente. Serrai gli occhi. Passi leggeri, veloci. Una vena mi si infilò nel braccio.
Alec Mitchell, l'angelo dagli occhi blu, commentò quasi tra sè e sè che ora avrei dormito ancora meglio. E 'fanculo se le dosi erano troppe
. Buio.

NdA. Sì, è un capitolo un po' più dark (?) del solito. Ma appena un pelino. E' solo l'inizio, gente . Meme1.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Rivelazioni scioccanti. ***


Capitolo 7.

Rivelazioni scioccanti.



NdA.
Prima cosa: comincio con lo scusarmi per il ritardo di questo capitolo. Lo so, lo so, ci ho messo un secolo a pubblicarlo, però ... Credetemi, l'ho dovuto riscrivere infinite volte. Quando, qualche giorno fa, avevo creduto  di aver trovato la versione buona, l'ho riletto ed ho pensato << No! >>. Era terribile, credetemi. E così ho ricancellato tutto, finché... *TADAN* ecco qui ciò che mi sembra più accettabile. Abbiate pietà, è un capitolo difficile ed è disseminato di cose importanti;spero non sia noiosissimo... A quanto pare non è nemmeno troppo lungo ma o così, o niente. Sorry.

Buona lettura!

-

«Dove sono?»
Alec Mitchell mi rivolse un sorriso circostanziale, che non aveva niente di amichevole. Era il tipico sorriso che si mostra ai matti, subito dopo aver dato loro ragione. "Sì, sì." Non riuscì ad infastidirmi.
 Se ne stava seduto su una sedia di legno piuttosto alta, guardandomi con un’aria strana. Non sapevo dove fossimo – nel mio mondo? O  nel loro? –, né cosa fosse successo dopo il mio svenimento. Naturale, questa volta – nessun ago mi era entrato nella carne. E non sapevo neppure se, disgraziatamente, Alec Mitchell potesse leggere nel pensiero. Perché se era così ... Be’, la cosa si faceva un bel po’ imbarazzante e problematica.
«A casa mia.» rispose, alzandosi d’un tratto. Camminò su e giù per la stanza più volte, mentre io digerivo l’informazione appena ricevuta. In realtà ci riuscii ben poco, perché le sue parole mi restarono bloccate in testa senz’acquisire un significato concreto.
Nonostante ciò, domandai con voce incrinata dalla spossatezza, un «Perché?» ben poco interessato. Ciò che volevo era che spegnesse la luce, tirasse le tende e mi lasciasse dormire. Non volevo né pensare a dov’ero. Né al perché. Né a come sarei tornata a casa. Perché ci sarei tornata, no?
«Perché mi sei svenuta tra le braccia, idiota!» s’indispettì senz’alcun motivo valido. Anche se non ci diedi alcun peso – il limbo si stava rivelando un modo fin troppo efficace per evitare liti inutili –, continuò, quasi a giustificarsi: «Non potevo portarti di nuovo là all’ospedale. Hai già visto... E sentito... Troppo.»
Ecco il succo della conversazione! L’ospedale! Le urla!
Quelle dannatissime urla che, da quel giorno, mi avrebbero sicuramente tormentata nei sogni... Ero certa che le avrei udite per tutta la mia esistenza, chiedendomi cose alle quali non potevo - nè avrei mai potuto! - rispondere.
«Ah.» borbottai. La mia voce era monotono. Che sonno, ragazzi.
«Non preoccuparti, entro oggi qualcuno ti troverà un posto.»
E chi si preoccupava? Quel letto era così comodo. Mi piaceva questo posto.
«Bene.»
«Non hai paura?»
Scossi il capo. Negativo.
Lui mi guardò con un’espressione strana... Ammirazione, pensai, non capendone però il motivo. Era ufficiale: Alec Mitchell era schizofrenico.
«Proprio come pensavo... Uguale a lui.» borbottò tra sé e sé, mentre un sorriso – un sorriso vero, bellissimo – gli increspava le labbra rosee.
«Ho sonno.» Dichiarai, sperando che mi lasciasse lì, in pace. A dormire. O morire, anche.
«Non c’è tempo per il sonno. Oggi verrà tuo padre, Cara.»
Papà. L’immagine del suo volto occupò ogni mio pensiero, e mi sentii più leggera. Avrei visto una persona amica, finalmente! E a proposito d’amici, visto che c’era campo, avrei fatto bene a scrivere un SMS ad Emma. E velocemente, anche.
 
La mattinata passò in fretta. Restai a letto a riposare, con Alec Mitchell che m’informava su ciò che era successo dopo che ero svenuta.
Gli ero praticamente caduta tra le braccia tanto che, commentò con un sorriso idiota, all’inizio aveva pensato che l’avessi abbracciato di proposito.
Ma poi s’era accorto che qualcosa non andava e così, dopo aver deciso che all’ospedale non potevo più stare – avevo sentito troppo, diceva. Non sapeva però, che la cosa ad avermi spaventata di più, era stato il silenzio. Il silenzio dopo le urla. E l’odore. L’odore di morto, che ormai s’era impresso nelle mie narici, e era ovunque andassi io –, mi aveva presa in braccio – uhu, non appena l’avessi detto ad Emma, sarebbe impazzita per questo particolare! – e portata a casa sua.
Più precisamente nella sua camera. Sul suo letto. Dov’ero ora.
«Tutto qui» concluse infine, tornando impassibile.
La sua voce, per tutto il tempo, non aveva dimostrato alcun sentimento. Alec Mitchell pareva soltanto un po’ infastidito dal fatto che avessi sentito le urla, perché Megan non mi aveva sedata.
«Sai, quella notte? La prima volta che ho sentito le urla, dico.» Borbottai, stringendo tra le mani il mio telefono. Avrei scritto ad Emma più tardi, non appena fossi stata sola. Lui annuì. Sapeva, certo. L’aveva intuito. «Be’, tu mi hai dato un bel po’ di sonnifero ...» buttai là, come se non m’interessasse poi molto. «Avresti potuto uccidermi.»
«Non è andata così, però.» contestò, irrigidendo la mascella.
«Lo so... Ma mi chiedevo se quell’uomo che urlava è morto, invece.»
Silenzio.
“Alec! Dove sei? Il lavoro è finito!”
«Alec... Guardami» ordinai, mettendomi seduta a letto. Lui mi guardò. Con i suoi occhi... Totalmente celesti. D’un celeste intenso, pazzesco. Per un momento azzerò la mia capacità di pensare. «Quell’uomo... E’ morto?»
Sbuffò, frustrato. Con le spalle al muro. «Non era un uomo!» precisò. Come se cambiasse qualcosa.
Ma qualcosa cambiava. Eccome. Dovetti mordermi la lingua per non chiedergli cosa fosse stato, perché la curiosità era tanta, troppa. Scrollai il capo, irritata – da lui e da me.
«Che c’entra! È morto?» mi intestardii a chiedere, stringendo forte le lenzuola del letto.
«Vuoi davvero saperlo?»
No! «Sì!»
«Sì. È morto.»
Bam! Persi un battito. Ecco, sciocca! A voler sempre sapere tutto ci si fa male! Idiota!
Lo osservai per un secondo di troppo –i suoi occhi erano tornati come quelli d’un semplice umano, bianchi azzurri neri oh ma che bel mare cosa c’è lì in mezzo?, ed aveva un’aria di sfida.
Non riuscii a trattenermi. Nessuno poteva sfidarmi, non così! «Perché?»
«Cara, la curiosità uccise il gatto. Taci. Tra un po’ arriverà tuo padre» e se ne andò.
 
Mio padre arrivò per pranzo. Quando Alec Mitchell entrò in camera a dirmelo, con un’espressione un po’ preoccupata, mi alzai dal letto con il cuore a mille. Quante cose avevo da dirgli! Non vedevo l’ora d’abbracciarlo. E tornare a casa, finalmente!
Seguii Alec Mitchell fino alla cucina. Non prestai attenzione alla casa, puntando invece gli occhi sulle spalle larghe di lui. Il mio punto fisso, per quel momento. Che idiozia. Quell’ uomo era tutto fuorché un punto fisso. A partire dai suoi sbalzi d’ umore.
«Cara.»
Si bloccò di colpo. E si voltò, a fissarmi. Strano.
«Lasciami andare da mio papà!» sbottai irritata, non curandomi d’essere capricciosa o meno. ‘Fanculo.
«No, Cara. Tuo padre è... Insomma...» Oh, ora stava persino balbettando?! Non potevo crederci.
«Basta!» sbottai, superandolo. Stranamente mi lasciò fare, così aprii la porta che avevo davanti ed entrai in una cucina molto luminosa e grande. Là dentro c’era un uomo. Alto, distinto. Vestito elegante ma non troppo da essere fuori luogo, in quell’ambiente così moderno. Capelli biondi. Occhi azzurri. Quando mi vide, sorrise. Ed aveva un sorriso ammagliante, molto meglio dei sorrisi che ti rifilano i modelli delle pubblicità della Mentadent. Era un sorriso meraviglioso. Uno di quei sorrisi che potresti guardare all'infinito come se fosse sempre la prima volta. Mi si attorcigliò lo stomaco dall'emozione.
Poi lui mi salutò con la mano, sempre sorridente. Come se mi conoscesse da una vita. E la cosa peggiore era che pure io credevo di conoscerlo da un bel po'.
Chi era?
«Mio papà... Dov’è? Dov’è mio padre?!» urlai, voltandomi verso Alec Mitchell. Lui mi osservò senza dire una parola e, silenzioso, scrollò le spalle. Aveva un'aria scettica, strana. Quell' uomo non era certo normale, mi dissi. Ed io ero bloccata  - dovunque fosse,  - per un tempo indeterminato!
Cominciai ad urlare, giunta al limite della sopportazione. Stranamente, Alec Mitchell non mi fermò. «Che cos’è questa?! Eh? È una presa per il culo?! Perché se è così, hai superato il limite! Prima mi porti in un altro mondo, poi quasi m’ammazzi senz’alcun rimorso! E ora? E ora...»
«Cara.»
Sobbalzai. Lo sconosciuto mi aveva chiamato per  nome. Perché lo conosceva? E perché avevo l’impressione che un po’ troppe persone sapessero troppe cose su di me?
Con un’espressione enigmatica, mi voltai verso l’uomo. Aveva qualcosa di familiare. Mi ricordava... Casa, ecco. Mi ricordava casa. Perché?
Ero certa di non averlo mai visto prima. Chissà, magari aveva qualche... Potere, ecco, che usava per confondermi. M’irrigidii interamente. Che fosse stata una trappola? Ed io c’ero cascata, che idiota. Mio papà non era un agente segreto del Mondo Al Di Là, era un semplice lavoratore.
Ed ora ero nei guai.
«No, non sei nei guai...» l’uomo avanzò, tendendo impercettibilmente le mani in avanti.
«Come...?»
Occristo, leggono davvero nel pensiero!
Lui ignorò il mio sconcerto. «Cara, ci sono un bel po’ di cose che devi conoscere.»
 
Mezz’ora più tardi. Davanti a un piatto colmo di pollo, insalata ed una buona dose d’una salsa rosata dall’aspetto inquietante, che mi ricordava fin troppo il colore dei confetti che trovi nelle bomboniere d’un matrimonio o d’un battesimo. Con lo stomaco chiuso da una morsa, e l’attesa nelle vene. E quell’uomo – quello straniero che sembrava così familiare – davanti a me, ad ingozzarsi come una mucca. Aveva detto di scusarlo, sì, perché era da un bel po’ che non mangiava. Perché a New York c’erano stati tempi duri. Sì, sì, d’accordo, tanto io resto solo qui a morire d’ansia.
Alec Mitchell – aveva anche lui ripulito il piatto fino all’ultima briciola –, batté improvvisamente le mani. «Direi che è ora d’andare a lavorare! Se volete scusarmi, a presto!»
Lavorare? Cioè ammazzare uomini ... e non-uomini? È questo il tuo lavoro?
Rimasi lì zitta a vederlo andar via. A vederlo scappare. C’era aria di tempesta.
L’uomo mise giù la forchetta. Nonostante tutto, aveva un’aria così sofisticata. Anche mentre mangiava ed il pollo volava qua e là per la tavola, come se non avesse visto cibo per mesi e mesi. «Allora.»
«Allora.» ripetei senza rendermene conto. Avevo già cercato vie di fuga da quella stanza. E ce n'erano, ma nessuna mi sembrava adatta: una finestra - ma eravamo al terzo piano ed io non avevo strani poteri -; la porta dalla quale ero entrata - ma no, troppo semplice. Ed anche se i piani più semplici talvolta funzionano, quello non mi sembrava il caso -; e poi c'era la porta da dov'era uscito Alec Mitchell - e quella era la via più improbabile, perché per uscire di lì bisognava comporre un codice in un quadrante verde luminoso, proprio come aveva fatto l'agente Mitchell.
Ero bloccata.
«Non creiamo una situazione d’imbarazzo, Cara.» mi rimproverò, guardandomi di sbieco. Veramente lui, la “situazione d’imbarazzo”, l’aveva già creata, mangiando come un porco.
Sbuffò. «Sì, lo so, non mi sono presentato nel migliore dei modi... E poi ehi, non mangiavo cibo così da mesi sul serio! È inutile che pensi male di me, posso sentirti» precisò infine, con un’aria infelice. Tutta la situazione era così strana... Molto strana...
Con il cuore che andava più veloce, tentai d’essere indifferente. «D’accordo. Ma in realtà lei non si è presentato nemmeno, anche se sembra conoscermi fin troppo.» Ecco, bene! Mettere i puntini sulle ‘i’ è di gran lunga meglio che perdersi in inutili giri di parole futili.
Lui annuì soltanto. Ecco, ora sì che stava creando una situazione d’imbarazzo! Per un secondo desiderai avere Alec Mitchell ancora là con me, per potergli chiedere di cacciarlo. Sarebbe stato così bello!
«Be’, Alec è un mio subordinato, quindi in realtà al massimo io caccio lui, non viceversa.» Replicò invece l’ uomo. D’accordo, dovevo proprio abituarmi a non pensare più. Assurdo!
«Non si presenta?»
«Oh, ma dammi del tu!» ridacchiò lo straniero, con un sorriso bellissimo. Ed ero certa d’averlo già visto ... Ma dove? Un uomo così distinto e strano me lo sarei ricordato sicuramente! «Comunque mi chiamo Jordan.»
Ecco. Un nome sconosciuto, proprio come lui.
Sempre più diffidente, domandai: «E cos’è che dovrei sapere?»
«Molte, molte cose.» Ripeté, con un sorriso circostanziale. Prima che potessi ribattere, insultandolo – odiavo le persone che si ripetevano sempre! -, continuò: «Andiamo a farci un giro, d’accordo? Ci sarà un po’ di gente che si chiede come stai».
 
Al di fuori dell’ospedale e della casa di Alec Mitchell, il Mondo Al Di Là era assolutamente normale. C’erano strade, casette a schiera, ville con piscina, alberi qua e là sui marciapiedi, lampioni e cavi del telefono. I negozi erano normalissimi, vendevano prodotti assolutamente accettabili per un’umana, come sapone o vestiti o cibo di marche sconosciute. 
C’era un’unica differenza. Anziché vedere la Luna in cielo, oltre al Sole, c’era la Terra.
Nonostante le somiglianze con il mio pianeta, però, non riuscivo a sentirmi a mio agio lì. Soprattutto perché la Terra incombeva su di me, lassù. Per la prima volta potei guardarla non standoci sopra, e la trovai molto verde e molto blu. Soprattutto, blu. Chissà che stava facendo Emma, lassù? e Gabriele era già stato incarcerato? E mamma?
Dovetti spostare lo sguardo sui miei piedi per evitare un attacco di panico.
Cazzo, quella lì era la Terra! Ed IO potevo osservarla DA UN ALTRO PIANETA!
«Siamo ... Siamo sulla Luna?» mi uscì spontaneo domandare, ficcandomi le mani in tasca. La mia voce risuonò incrinata, un po' come quella di Megan che mi implorava d'alzarmi. Chissà come stava , tra l’altro. Sarei dovuta andarla a trovare. Era stata così gentile, e poi era così spaventata.
«Sì.» Confermò l’uomo, camminandomi accanto. Era altissimo. «L’intero abitato del Mondo Al Di Là – sai che lo chiamiamo così, no? – si trova sulla faccia della Luna invisibile dalla Terra, per precauzione.»
«Precauzione?»
Annuì, solenne. «Già. Non è bene che l’intera umanità sappia di noi, sarebbe impossibile contenere tutti.»
Non era poi così sbagliato. Ma tenere l’umanità totalmente all’oscuro, non comportava comunque dei rischi?
«D’accordo...» mormorai, troncando l’argomento. «Ora però voglio sapere di più su di me, credo».
«Credi?» lo sconosciuto ridacchiò, ed anche la sua risata risuonò elegante, superiore.
Mi strinsi nelle spalle, guardando davanti a me. In strada non c’era nessuno. L’unico rumore era quello dei nostri passi. «Perché qualcuno dovrebbe essersi preoccupato per me?» chiesi, per poi mordermi le labbra. Accidenti  a me! non riuscivo proprio ad impormi su un solo argomento!
«Ti hanno vista in cattive condizioni. È normale» spiegò semplicemente.
Oh, be’. Non era poi così normale; almeno non sulla Terra.
Rimasi un po' in silenzio, ad osservare le poche persone - o non persone? - che camminavano come noi per strada. Qualcuno salutò Jordan, altri si limitarono a lancarci occhiate, ma tutti sembravano ammirare l'uomo accanto a me. Una donna arrivò addirittura a chiedergli di benedirla. Lui si irrigidì totalmente e, con una risata allegra - ma non coinvolgente -, la liquidò.
Il mio cuore cominciò a battere più velocemente, mentre iniziavo a perdere il conto delle cose strane che accadevano nel Mondo Al Di Là.
«D’accordo. Cominciamo con queste rivelazioni o no?» mormorai, stringendo le mani a pugno.
"Ti prego, Jordan! Benedicimi. Ne ho bisogno!" Le parole della donna mi tornarono in mente in modo veloce. Riuscii a scacciarle, ma l'ansia non mi abbandonò.
L'uomo mi fissò per un lungo istante - aveva un'espressione indecifrabile, l'espressione di un angelo al quale sono state strappate le ali ed ora sta precipitando verso l'abisso -, prima di sospirare e riprendere a camminare fissando la strada davanti a sé.
Quando pensavo che sarebbe rimasto silenzioso ancora per un bel po' - ancora per sempre -, dichiarò:
 «Sono tuo padre

D'accordo... E' probabile che in molti diranno << ma che cazz*?! Suo padre non lo conosceva già?! >>.
E be', evidentemente non è così. Ed ecco che la trama si fa più complicata e mi mette a dura prova ... Spero di esserne all'altezza!

Ho davvero bisogno di sentire i vostri pareri, lettoruccie ( già, è un nomignolo tremendo. ve ne troverò un altro ). Vi prego di recensire! Anche solo due righe mi vanno bene, sul serio. Devo capire se lasciare questo capitolo così .... O rivederlo, ancora.

Spero di poter leggere qualche commento ! A presto, 
meme1.


 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2568477