“Adesso basta!”
L’urlo fu seguito da un gran tonfo, come quello provocato da
una pentola caduta a terra.
I clienti del bar si ammutolirono per pochi istanti,
fissando la porta scorrevole oltre al bancone. In seguito scoppiarono tutti a
ridere e tornarono a divertirsi bevendo e mangiando, come se non fosse successo
nulla. In effetti, scene come quella non erano di certo novità allo Spade Café.
“Se ti becco ancora a ingozzarti dentro il frigo giuro che
ti affogo!” gridò un ragazzo. Era alto e muscoloso, con i capelli neri e
spettinati, sui quali portava un cappello da cowboy arancione. Indossava una
camicia gialla e un paio di jeans neri fino al ginocchio, coperti da un
grembiule bianco che recava qualche macchia.
“Ma io ho fame Ace!” si lamentò un altro ragazzo.
Se ne stava seduto su una cassa di legno, a distanza di
sicurezza da Ace.
Era un po’ più basso rispetto al ragazzo e meno muscoloso. I
capelli erano scuri come i suoi, ma più corti e spettinati. Anche il modo di
vestire era simile: portava una camicia rossa e un paio di jeans. Anche lui
indossava un cappello, ma di paglia, con una striscia di stoffa rossa.
“Rufy io questo cibo devo venderlo, se tu continui a
mangiare qualsiasi cosa ti passi davanti come faccio a guadagnare dei soldi?”
“Ah… non ci avevo pensato” nonostante stesse subendo
l’ennesimo rimprovero, esibiva un sorriso vivace.
“Fuori dalla cucina” sospirò Ace. “Non rimettere piede qui
dentro finché non te lo dico io”
“Va bene” borbottò Rufy con una smorfia.
Passò davanti al ragazzo, accelerando il passo per evitare
di ricevere un pugno. Oltrepassata la porta, si ritrovò dietro il bancone del
locale, guardandosi intorno nella speranza di trovare qualcosa da mettere sotto
i denti.
“Non riuscirai a evitare padelle e coltelli per sempre,
sai?”
Rufy posò lo sguardo davanti a sé e il suo sorriso si
allargò: “Ciao Sabo! Non sapevo fossi qui”
“Ace era venuto a dirtelo. Che hai combinato?”
“È ora di cena e io ho fame, ma lui non vuole darmi da
mangiare… così mi sono arrangiato” spiegò tranquillamente.
“Ma che dici? Di solito cenate molto più tardi delle sette”
gli fece notare Sabo.
“Qualsiasi ora è adatta per mangiare… Comunque sono quasi le
otto” disse Rufy, indicando l’orologio.
Sabo rimase un attimo perplesso. “Ma che stai dicendo?”
“Mancano venti minuti alle otto” disse Rufy.
Sul volto di Sabo si dipinse un’espressione di stupore,
mista a terrore. Saltò giù in fretta dalla sedia e prese dei soldi dalla tasca
dei pantaloni, lasciandoli sul bancone.
“Devo scappare! Salutami Ace, digli che ci vediamo lunedì”
Uscì dal locale senza attendere la risposta dell’amico.
Prese la bicicletta che aveva lasciato accanto alla porta e iniziò a pedalare
velocemente, lasciandosi alle spalle il quartiere del Grey Terminal.
Non si era reso conto di quanto fosse tardi. Non si era
nemmeno reso conto di che giorno fosse.
Ultimamente, a dire il vero, quelle che di solito erano le
sue priorità erano passate totalmente in secondo piano: gli studi, il suo
futuro, non avevano più molta importanza.
Negli ultimi tempi viveva alla giornata, pensando più al
divertimento che al suo dovere. E si sentiva bene: non era mai stato così bene
in vita sua.
Però, quella spensieratezza gli sti stava ritorcendo contro
e il fatto che si ritrovasse a pedalare come un pazzo verso l’università a
venti minuti dalla chiusura ne era la prova.
Doveva assolutamente arrivare in tempo: quella relazione
doveva essere pronta per lunedì e non gli sarebbero state concesse proroghe. Se
avesse portato a casa un altro brutto voto sarebbe stato di certo un dramma,
anche se sarebbe stato solo il secondo di tutta la sua carriera scolastica.
Purtroppo, il tragitto dal Grey Terminal all’università non
era così corto: pedalando al massimo delle sue possibilità avrebbe impiegato
circa 15 minuti a raggiungere l’edificio.
Sentiva i muscoli delle gambe bruciare intensamente e,
durante il percorso, rischiò anche di investire un paio di persone, ma non se
ne curò più di tanto. Non si curò nemmeno della pioggia, che aveva iniziato a
scendere copiosamente, inzuppandolo fino alle ossa. Non guardò più neanche
l’orologio, temendo di non riuscire ad arrivare in orario.
Era un fascio di nervi e si rilassò, solo leggermente,
quando si accorse di essere a un centinaio di metri di distanza
dall’università, un complesso di edifici costantemente rimodernato, con grandi
finestre e porte che lasciavano uno scorcio dell’interno, attorniato da mura in
cemento bianco. Oltrepassate quelle mura, si diresse a sinistra, notando che la
luce dell’ingresso era ancora accesa. Abbandonò la bicicletta vicino al muro,
senza perdere tempo a mettere il lucchetto (suo padre l’avrebbe ucciso se
l’avesse visto) e aprì la grande porta, salendo in fretta le scale.
Con un sorriso di trionfo, e sull’orlo di un infarto, aprì
la porta della biblioteca e raggiunse la reception.
“C’è nessuno?” chiese, ansimando a causa del fiatone.
Non ricevette nessuna risposta. Iniziò a imprecare: doveva
esserci qualcuno per forza, altrimenti la luce non sarebbe stata accesa. No,
era impossibile che la bibliotecaria se ne fosse dimenticata, sarebbe stata
licenziata in tronco. Provò a suonare il campanello, ma non ricevette alcuna
risposta.
Con un sospiro, si coprì il viso con le mani, facendosi
prendere dal panico.
Era finito: suo padre non l’avrebbe perdonato stavolta. Sua
madre avrebbe iniziato a piangere, chiedendosi cosa avesse fatto di male per
meritarsi un figlio del genere. Per non parlare di quel parassita che viveva
con lui e che si trovava costretto a chiamare fratello: lui avrebbe assistito
alla scena ghignando, sorridendo tronfio nel vederlo nei guai con i genitori.
“E adesso che gli dico?”
“Ti serve qualcosa?”
Il cuore di Sabo saltò un battito: da chissà dove era
spuntata una ragazza, all’incirca della sua età. I capelli color caramello
incorniciavano un viso dolce. Indossava una camicia bianca sopra una minigonna
nera e ai piedi calzava stivali dai tacchi alti. Lo fissava curiosa con i suoi
grandi occhi neri, chiedendosi probabilmente cosa ci facesse uno studente in
biblioteca a quell’ora.
“Dimmi che non stai andando via” la implorò.
“Beh, a dire la verità…” iniziò lei, ma Sabo la interruppe.
“Ti prego, puoi aspettare? Mi servono assolutamente dei
libri per una ricerca. Se non la finisco entro lunedì posso iniziare a scavarmi
la fossa da solo”
Koala guardò stupita il damerino biondo di fronte a lei: per
essere figlio di nobili era veramente poco sveglio. Com’era possibile
ricordarsi all’ultimo minuto dei propri doveri di studente?
“Scusa ma sto già chiudendo…”
“Cavolo, per favore! Ti prego, ti scongiuro, sai che avrai
la mia vita sulla coscienza se non mi aiuti?”
La ragazza sbuffò: se lei avesse avuto il permesso di
studiare, di certo l’avrebbe fatto seriamente. Odiava vedere i nobili avere
tutto a disposizione e sprecarlo come se nulla fosse.
“Cosa sarebbe successo se io non fossi stata qui?”
“Te l’ho detto, in quel caso mi sarei già sotterrato”
Koala gli lanciò un’occhiataccia, lasciando cadere la giacca
e la borsa vicino al computer.
“Prega che i libri che ti servono non siano nelle mani di
altri furbi come te”
Sapeva di non poter parlare ai nobili in quel modo, ma non
le importava: non vedeva l’ora di andare a casa, doveva preparare la cena e
pulire la cucina. Se la stanchezza gliel’avesse permesso si sarebbe anche
concessa un bagno caldo.
“Mi dispiace” si scusò ridacchiando.
“Immagino… dammi pure la lista”
Sabo le porse un foglio, dove erano scritti i titoli dei
libri e dei saggi che gli servivano.
Per un po’ calò il silenzio tra i due: Koala batteva
velocemente sulla tastiera, segnando altrettanto velocemente i codici dei
libri, mentre Sabo la osservava, rilassandosi un po’ di più a ogni aggiunta che
la ragazza segnava sul foglio.
“Direi che hai proprio una fortuna sfacciata” strappò il
foglietto e gli diede una delle due metà. “Tu cerca questi, io cerco gli altri
due”
“Sul serio?”
“Senti, so che ci metterei solo cinque minuti in più, ma la
storia del tempo prezioso non vale solo per voi nobili. Ora, visto che per
colpa tua sto facendo uno straordinario non retribuito, sarebbe il caso di
collaborare, non credi?”
Sabo annuì sbalordito. Nessuno gli aveva mai parlato così;
beh, a parte Ace ovviamente. Di solito le persone del ceto medio e dei poveri
facevano tutto ciò che i nobili ordinavano, senza fiatare. Lei, invece, non
solo aveva parlato, ma aveva anche preteso di essere aiutata. Gli venne da
ridere: non era infastidito dal suo comportamento, anzi. Era una delle poche
volte in cui era stato trattato come una persona normale.
Seguì la ragazza verso l’ala di scienze politiche, dove
entrambi iniziarono a cercare il materiale di cui aveva bisogno, sempre in
rigoroso silenzio.
In tutto erano tre libri e quattro saggi: Koala si chiese
come avrebbe fatto quel ragazzo a finire tutto entro lunedì.
Sempre senza parlare tornarono alla reception, dove Koala
inizio la registrazione.
“Nome e numero di matricola” disse con voce automatica.
“Outlook Sabo, G.U.220988” rispose con una smorfia.
“È solo un nome” gli fece notare la ragazza.
“Comincia a starmi stretto questo nome” affermò scocciato.
Koala non osò fargli domande, si vedeva che non aveva voglia
di parlarne.
“Tieni. Hai tempo un mese per riportarli e… beh, immagino tu
conosca le altre regole”
Lui prese i libri e sorrise. “Non so come ringraziarti”
“Lasciami andare a casa, per cominciare” Koala spense il
computer, poi si infilò la giacca e si diresse verso l’uscita, seguita dal
ragazzo.
“Sul serio, c’è qualcosa che posso fare?”
“Non presentarti mai più all’ora di chiusura” disse
sorridendo.
Lui annuì. Scesero le scale insieme, senza parlare. Avrebbe
potuto andarsene, ma preferì attendere che la bibliotecaria chiudesse la porta.
“Perché sei ancora qui?”
“Non è bello lasciare una ragazza da sola al buio”
Koala scoppiò a ridere.
“Non ho certo bisogno di una guardia del corpo… ma grazie
del pensiero. Buona serata”
“Dove sei stato?”
Sabo alzò gli occhi al cielo. Ecco l’accoglienza della sua
famiglia: non un saluto, niente “Come stai?” o “Va tutto bene?”. No, quell’accoglienza
era riservata a Stelly.
A lui erano riservate le occhiatacce, i rimproveri e qualsiasi
altro gesto che potesse farlo sentire uno schifo.
“In biblioteca papà”
“Sai che devi essere a casa prima di cena. Specialmente se
abbiamo ospiti”
“Mi dispiace, stavo studiando e non mi sono accorto di
quanto fosse tardi” disse, in tono meccanico.
L’uomo sospirò: “Vai a prepararti, gli ospiti saranno qui
tra poco”
Sabo annuì, oltrepassando suo padre. Salì in fretta le
scale, per poi chiudersi nella sua stanza. Non aveva nessuna voglia di
accogliere gli ospiti di suo padre quella sera. A dire la verità nemmeno nelle
altre occasioni ne era stato entusiasta, ma quella sera era ancora peggio.
Vestirsi bene, discutere di tutte le cavolate frivole
tipiche dei nobili, sorridere a battute stupide e a malcelati sguardi d’invidia
non faceva più parte di lui.
Odiava l’idea di dover essere il perfetto rampollo di buona
famiglia, pronto a sposare una snob e a migliorare la propria posizione sociale
ad ogni costo. Proprio come suo padre. Ultimamente, si era chiesto spesso se il
vero figlio degli Outlook fosse lui o il parassita. Nonostante avesse solo
quattordici anni, Stelly si stava rivelando il perfetto cocco di mamma e papà.
Erano tutti così fieri di lui. E Sabo non capiva perché i suoi genitori si
ostinassero a riporre le loro speranze in lui, invece che Stelly.
Sabo stava cercando di allontanarsi da quel mondo e più ci
provava, più la sua famiglia cercava di trattenerlo. Ma lui non aveva più
voglia di farsi trattenere.
Voleva essere libero, pensare con la sua testa e cambiare vita.
La sua e quella di molti altri.
Saaaalve!! Ecco il primo capitolo,
spero che vi piaccia.
Spero anche di poter aggiornare presto, ma mi devo laureare,
quindi farò un po’ di fatica.
Intanto ringrazio Sayan_lover per
la recensione.
Ringrazio anche chi ha messo la storia tra le preferite e/o
seguite,
baci Dianna