La casa degli specchi

di Silver Pard
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cenerentola ***
Capitolo 2: *** La bella addormentata ***
Capitolo 3: *** La bella e la bestia ***
Capitolo 4: *** Il gatto con gli stivali ***
Capitolo 5: *** Cappuccetto Rosso ***
Capitolo 6: *** Le fate ***
Capitolo 7: *** I sei cigni ***
Capitolo 8: *** Biancaneve ***
Capitolo 9: *** Mr Fox ***
Capitolo 10: *** Hansel e Gretel ***
Capitolo 11: *** Tremotino ***



Capitolo 1
*** Cenerentola ***


NdT: okay, forse è il caso di aggiungere una nota xD
Tutte le one-shot di questa raccolta sono delle rivisitazioni e rielaborazioni di fiabe molto famose. Le versioni che l’autrice ha scelto come base sono però generalmente più oscure, più cupe di quelle a cui siamo stati abituati, con radici talvolta addirittura medievali.
In alcune delle storie, l’autrice fa riferimento esplicito alla versione da cui ha preso maggiore ispirazione, citando spezzoni o frasi dagli originali – e, quando possibile, ho pensato fosse giusto segnalarvi quello a cui riesco a risalire, postandovi link delle traduzioni corrispondenti che sono riuscita a trovare in rete.
In generale, per una panoramica un po’ più completa, un giro almeno su wikipedia sarebbe consigliabile; non saranno pagine perfette, ma di sicuro riportano informazioni interessanti e non tanto ovvie.
Questa prima storia dovrebbe essere tratta dalla Cenerentola dei fratelli Grimm.



Ashes ~ Cenere






Mia madre era una strega. Non nel senso di cattiva persona. Semplicemente aveva un potere, e invece di flagellarsi, levando preghiere all’etere affinché cambiasse qualcosa che non poteva essere cambiato, lo ha accettato e sfruttato.

Era una persona impetuosa, mia madre. Mi ricordava il proverbiale vecchio gatto che impera sullo sgabello della cucina: indifferente; padrone di sé; da non scherzarci. Non sarà il paragone più lusinghiero che possa farle, ma è il più sincero, e rende meglio l’idea della sua natura: mia madre era il gatto che sceglie di entrare a causa del freddo, ma resta solo finché lo desidera, sempre pronto ad andarsene senza degnare di uno sguardo le persone che l’hanno adorato e accudito.

Come altrimenti avrei potuto sapere di chiedere a mio padre di regalarmi il primo ramo di nocciòlo che gli avesse urtato il capo sulla via del ritorno? Avrei preferito vestiti e gioielli come le mie sorellastre, certo che li avrei preferiti, ma mia madre era stata chiarissima nei desideri che aveva espresso sul suo capezzale, e si era premurata che capissi bene cosa chiedere.

Era una strega, mia madre, e lo sono anch’io.

Così ho piantato il ramo di nocciòlo, e l’ho guardato crescere per evitare la nuova moglie di mio padre. Era una donna superba, e ha portato con sé le due figlie, di una bellezza molto tenue, ornamentale. Non avevano fuoco, avrebbe commentato mia madre, tirando sdegnosamente su col naso. L’elemento di mia madre era l’acqua; lei corrodeva o aggirava i suoi guai. Presto o tardi, ogni cosa seguiva il corso che lei prediligeva.

Io non ho la forza di volontà di mia madre, il suo flusso costante. Io ho il fuoco. Troppo, forse. È per questo che non sono venuta a patti con la mia nuova matrigna. Non le ho dato il benvenuto, come ordinatomi da mio padre. Non mi sono fatta piacere le mie nuove sorelle, benché fossero, tutto considerato, persone piacevoli. Il problema di essere streghe, immagino, è che si è sempre costretti a sospettare dei secondi fini delle persone. Il rogo è una morte dolorosa.

Quando mio padre è morto, quasi non me ne sono accorta. Era un mercante, sempre lontano da casa; una figura che aveva sempre sbiancato di fronte all’energia di mia madre. Ma quando sono stati i libri in biblioteca, a sparire, me ne sono accorta eccome. Mi sono accorta di quando i mobili pregiati hanno fatto la fine dei libri. Mi sono accorta dei vestiti nuovi che andavano alle mie due sorelle (non mi interessavano le circostanze sotto cui erano stati comprati, non mi importava che la mia matrigna li avesse elemosinati in ginocchio, tra suppliche, prestiti e recite della parte della vedova impoverita). Mi sono accorta di quando i miei gioielli, ereditati da mia madre, hanno cominciato a fare pure loro la fine dei libri, e un bel giorno la mia matrigna mi ha trovato con in mano delle forbici affilate, circondata dagli stracci dei vestiti nuovi che le mie sorellastre non avrebbero mai indossato.

Quando ho capito che l’amicizia con le mie due sorellastre avrebbe potuto dimostrarsi vantaggiosa, mi sono resa anche conto di essermi già bruciata il loro aiuto. Erano brave persone, ma per chi ha sempre conosciuto benessere, la perdita delle ricchezze è terrificante, fa perdere il controllo e la pazienza, senza contare che erano loro i vestiti nuovi che avevo ridotto a brandelli senza alcun rimorso.

Durante il giorno, appartenevo al fuoco e alla terra; ho imparato a cuocere il pane, a tener vivo il fuoco e a stare nel retrocucina, tutte arti di fuoco che ero lieta di apprendere e che mi sono valse il disprezzo delle mie sorelle. Alla notte, andavo all’albero di mia madre e danzavo come danzava mia madre, facevo magie come le faceva mia madre, e in fondo ero felice.




Era ovvio che le cose non rimanessero così. La magia di mia madre era forte, e non lo avrebbe permesso.

Lei era acqua, e non esiste ostacolo che non possa superare.




Ero invidiosa, quando sono andata all’albero di mia madre per chiederle di farmi andare al ballo. Avevo diciassette anni e avevo voglia di ballare, di sapere cosa le mie sorelle ci trovassero di gratificante negli sguardi interessati degli uomini, di sapere cosa si provasse ad essere una ragazza normale per una volta, solo per una volta.

Così ho indossato il vestito procuratomi da lei, ho infilato le scarpette tutte d’oro, mi sono legata i capelli e li ho fissati con dei gioielli, come lei aveva stabilito per me. Mi sono alzata, sono uscita e ho danzato come fuoco che può finalmente scatenarsi. Ho ballato con il principe. Non ho avuto voce in capitolo – era il principe; come potevo dire di no? E ho ballato con il principe fino alla mezzanotte, sperando fino all’istante stesso del rintocco dell’orologio che mi lasciasse andare, che mi lasciasse ballare con qualcun altro nella mia sera di libertà, che mi lasciasse libera. Ho danzato, e danzato, e l’ho odiato, e al contempo l’ho amato, perché la magia di mia madre era d’acqua e la mia di fuoco, e in un sentimento potente come l’amore dobbiamo essere sempre in contraddizione.

Al rintocco della mezzanotte, sono scappata a casa, e ho buttato via il vestito maledicendo mia madre e la sua magia, perché sapevo che sarei tornata la notte successiva, e quella dopo ancora.

E così è stato, sebbene sperassi ogni volta che la magia di mia madre allentasse la presa su di lui, che mi lasciasse in pace solo per un paio d’ore per ballare con qualcun altro, chiunque egli fosse, chiunque io desiderassi – non è buffo come, dopo aver ricevuto il sogno di ogni ragazza, me ne volessi sbarazzare?

Alla terza notte, quando sono scappata via, speravo ancora che quello non fosse che un interludio della mia vita, soltanto tre giorni che brillavano di magia, a cui guardare con affetto nel lontano futuro – ah, figli miei, avrei potuto essere una principessa se solo avessi voluto. Solo che non volevo.

Ma il mio principe era astuto, e mia madre era forte, determinata a impormi un lieto fine, a darmi il meglio che si potesse chiedere dalla vita.

Il principe ha fatto spalmare della pece sugli scalini, e una delle belle scarpette che mi hanno donato le colombe di mia madre ha ceduto ed è rimasta incollata, e per quanto abbia tirato non sono riuscita a staccarla.

A casa, in cucina, mentre scrutavo le ceneri per intravedere il futuro che mi avrebbero predetto, non ho visto altro che fango.




Quando alla porta di mia madre sono arrivati degli uomini che portavano la scarpetta, io sono rimasta nel retrocucina, mentre le mie sorelle si facevano prendere dal panico e dalla speranza, e si studiavano i piedi con un singolare misto di pessimismo e speranza.

Sapevo che a loro non sarebbe entrata. Creata per il mio piede con la magia, sarebbe stata sempre troppo grande o troppo piccola per qualunque piede che non fosse il mio. Ma io non volevo sposare un principe. Avevo ballato con lui, e mi era piaciuto. Ma sposarlo? Neanche tutto il potere di mia madre avrebbe potuto convincermi del tutto che era quello che volevo. Non volevo diventare principessa o regina, essere inibita, rimodellata e costretta a rientrare nell’aristocrazia. Mia madre avrebbe potuto farcela, ma io sono fuoco, e un’esistenza come quella mi avrebbe ridotto in cenere.

Così, quando la più giovane delle mie sorelle è entrata in cucina, in lacrime, ho visto una via di scampo. Glielo si leggeva in viso con quanta disperazione volesse partire, andare incontro a quel lieto fine.

« Per favore, per favore aiutami » mi ha pregato. Ricordavo di come aveva pianto nel cuscino, ricordavo le sue labbra mute e il volto rosso davanti alla lingua acida della sorella, ricordavo di come avesse sempre scelto l’ultimo dei doni, perché sua sorella sceglieva sempre per prima.

Volevo aiutarla, perché era la più gentile delle mie sorellastre, e volevo ferirla, perché sono una persona vendicativa e non dimentico i torti. Mi sono poi resa conto che le due cose non erano completamente incompatibili.

« Dammi il tuo piede » le ho detto. Non le ho mentito, non le ho detto che non le avrebbe fatto male.

« Resta immobile » le ho detto.

« Resisti » le ho detto.

Lo scricchiolio della lama sull’osso somigliava molto al rumore delle articolazioni dei polli che si spezzavano.

L’ho aiutata a uscire dalla cucina, pallida come il latte e la caviglia legata stretta. « Si sente mancare al pensiero di rivedere il suo principe » ho detto loro, e li ho guardati mentre l’aiutavano a montare a cavallo, sperando che il principe ci cascasse.




Un servitore mi ha raccontato in seguito che una delle colombe sull’albero di mia madre ha iniziato a cantare al loro passaggio

(voltati e osserva la sposina, voltati e osserva la sposina, ha del sangue nella scarpina)

ma l’aiutante di campo, prossimo a un esaurimento nervoso e sfinito da una ricerca così futile, ha ribattuto seccamente che uno di loro si sarebbe accorto del sangue che filtrava, se ce ne fosse stato. Ho maledetto la magia di mia madre, che aveva creato una scarpa trasparente come il vetro.

(per il suo piede è troppo stretta, ancor la sposa in casa t’aspetta)

Quando la mia sorellastra maggiore è entrata in cucina, non ho avuto bisogno di sentirla parlare e non ho avuto bisogno di tempo per essere certa del mio intento. Quando è uscita, era nello stesso stato della sorella; per la prima volta nella loro vita, erano pari.

Sapevo già che avrebbe fallito, ma io sono fuoco, e non mi curo di chi brucio.

Le colombe di mia madre hanno cantato, e la squadra di ricerca è tornata alla casa, dove mi hanno trovato ad attenderli.




Il matrimonio è passato in un turbinio di pizzo e di cambi infiniti di abiti, tutti assurdamente stravaganti. Il vestito era talmente pieno di gioielli, e lo strascico era tanto lungo, che potevo fare solo passetti leziosi; la corona era così pesante che a stento riuscivo a tenere alta la testa.

Ho pronunciato i miei voti e ho pianto, e forse il mio principe le ha interpretate come lacrime di gioia, come il popolo, e la testa mi girava per via di tutte quelle strane espressioni, per gli echi che rimbombavano sulle mura della cattedrale, per la baraonda di cuochi, sarti e domestiche che ricercavano tutti la mia approvazione, per la regina che mi studiava con i suoi freddi occhi indagatori, che si chiedeva chiaramente che razza di principessa sarei stata.

Me lo chiedevo anch’io. Il mio principe no. Mi ha portato nella camera nuziale e mi ha insegnato ciò che desiderava che io sapessi.




« Non ti è permesso possedere un coltello » ha detto. « Non ti è permesso possedere un pugnale, non ti è permesso possedere una spada. Preferisco che le mie dita di mani e piedi restino come, quante e dove sono. Non confondermi con i tuoi parenti. »




« Non devi spazzare, non devi accendere il fuoco, non devi cucinare, non devi rassettare. Per queste faccende esistono i domestici. »




« Non ti è concesso lasciare i confini del palazzo senza accompagnamento. »




« Non è necessario che tu vada a visitare l’albero di tua madre. Verrà sradicato e ripiantato nei nostri giardini. »




Fai questo. Non fare quello.

Sei una regina, non una domestica. Sei una bambola, non una persona.

Ero fuoco, ma mia madre era acqua, e oramai sono cenere.

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Capitolo 2
*** La bella addormentata ***


Nota: per questa, la versione principale a cui Silver Pard dovrebbe essersi ispirata è Sole, Luna e Talia, dal Pentamerone di Giambattista Basile.



Nightmare ~ Incubo





Quella se l’è cercata. Sdraiata inerme sul letto, profondamente addormentata, quella se l’è cercata.

Hai fatto solo la cosa giusta. Dopo la lotta con i rovi e la curiosità, è stato proprio come vedere un bicchiere d’acqua che aspetta di essere bevuto dopo una lunga corsa con un tempo afoso. Lei non era nemmeno un premio. Era obbligatoria; era un bicchiere d’acqua, non una medaglia.

Consenziente? Non poteva dire “sì,” e allora? Non ha detto neanche “no,” vero? E poi se l’è cercata.

A onor del vero, tu hai provato a svegliarla. Le hai dato una scrollata, l’hai presa a schiaffi, le hai buttato dell’acqua in faccia, e lei non si è mossa di un millimetro. Era bella, però, e per trovarla avevi perso un ottimo falcone. Magari ti ha sorriso, e tu hai interpretato la smorfia come una richiesta. Magari era il sorriso che viene con i sogni piacevoli, così lontani da te e dalle tue mani che strisciavano lentamente verso le sue gonne, ma seppure non avesse sorriso, e allora? Profondamente addormentata e indescrivibilmente bella: se l’è cercata.

Ovviamente lei non si è divincolata, perciò doveva essere d’accordo. È stata buona sotto di te e ha subito – sempre che sapesse quello che le stava accadendo mentre era immersa in un qualche luogo tanto remoto della terra dei sogni. Ora che ci pensi, forse la ragione per cui questo non ti ha turbato come avrebbe dovuto era che nel corso degli anni hai ricevuto reazioni tanto simili da molte delle tue domestiche, se non conti i loro piccoli gemiti di dolore e disagio che ti hanno sempre infastidito.

E poi te ne sei andato via, fischiettando, tornando da tua moglie (che, oltre a essere sterile e pertanto inutile, non ti ha mai riverito con il rispetto che si confà al tuo status di re, né ha mai mostrato molta solidarietà per i problemi che questo comporta). Se l’hai degnata più di un solo pensiero, è stato un pensiero fugace; forse l’hai pure usata per illustrare qualche barzelletta sconcia – c’era questa ragazza che – veramente spettacolare – una bambolina con i fiocchi e – gambe da qui fino a – seni rotondi e perfetti come la luna… (Le hai anche solo slacciato il corsetto? O le hai semplicemente tirato la gonna sopra i fianchi per arrivare dritto al sodo? Non osare essere offeso. Perché ti comporti come se quello che hai fatto fosse una sorta di unione celestiale con questa povera ragazza indifesa, distesa nel suo feretro? Hai fatto una cosa vile e ignobile. L’hai violentata. Inutile girarci intorno.)

E hai forse provato vergogna quando sei andato ancora una volta a cacciare nel bosco ed è riaffiorato il ricordo? Perché avresti dovuto? Quella se l’è cercata. Sei tornato al castello, e allora ancora non sapevi che fosse sveglia – che uno dei figli che le avevi imposto le aveva succhiato il dito per errore, estraendo la scheggia – quindi è cristallino ciò che avevi in mente.

L’hai trovata che accudiva i bambini, con quei seni pallidi che ricordavi tanto bene parzialmente oscurati dalla leggera infossatura della nuca di un neonato. Li aveva chiamati Sole e Luna. Forse credeva che a generarli fosse stata una fata o qualche altra creatura magica. Se quello era il caso, era destinata a un brusco risveglio (più brusco persino di quello che aveva avuto in origine).

Secondo una versione della tua storia, tu e lei vi siete conosciuti e subito vi siete voluti “bene.” Per te poteva essere così, ma lei forse era di altro parere. Francamente, la preferivi addormentata. Quella prima volta da sveglia – Dio, quanti piagnistei per una cosa che aveva già perso!

Era la madre dei tuoi figli; ovvio che non te ne potessi allontanare. E anche se non hai mai visto quei bambini per più di dieci minuti, cosa importa? Non c’è niente di strano; suvvia, chi è che passa ore con i propri figli? I figli servono ad assicurarti qualcuno che erediti la corona, e andrebbero tenuti lontano dagli occhi e dalla mente fino a che non si rendono necessari.

Tua moglie (che non era la madre dei tuoi figli, nonostante i tuoi ripetuti tentativi di fargliene avere) era una donna furba, e ha fatto velocemente due più due. Beh, doveva per forza essere intelligente; era una nullità in tutto il resto, quella sterile strega.

È stato così che è avvenuto l’orrendo incidente con le torte e il “mangi la carne tua.” Il pensiero di mangiare i tuoi stessi figli ti ha inorridito?

Hai degnato di un solo pensiero la loro madre, la tua bella addormentata, in lacrime e in balia di una crisi isterica, per la quale quei bambini sono la cosa più preziosa che esista al mondo? (Tutti i suoi sudditi sono morti un secolo fa, il suo stupratore rappresenta il suo unico contatto con il mondo esterno – perché ti ostini a rifiutare quel termine?) O forse hai pensato soltanto, beh, gliene posso sempre far fare altri?

Non è stato doloroso far giustiziare la tua prima moglie. Non ti aveva partorito neanche un figlio, e non sembrava riconoscerti che fossi un uomo potente e importante, cui sarebbe dovuto andare di diritto il suo rispetto. Al contrario, ti guardava con qualcosa di simile al disprezzo. Come quelle occhiate che ti lanciava al mattino, dopo che ti eri portato a letto una delle domestiche, come se fosse arrabbiata.

Ti ricordi di una mattina, quando – era successo con la moretta, quella lagnosa, che aveva strillato e pianto a dirotto (non poteva aver avuto più di quattordici anni) – entrando nella stanza, l’avevi vista seduta nella poltrona accanto alla finestra, che cullava la ragazza avanti e indietro come se la stesse consolando (consolare di cosa? Faceva parte della servitù, avrebbe dovuto ringraziare di tanta attenzione), e lei ti aveva guardato come se valessi meno dello sporco che si raschiava via dagli stivali da equitazione. Che strano che tua moglie non fosse riuscita a vedere al di là della sua gelosia per la tua ultima amichetta, rendendosi conto che quei figli non erano certo colpa della donna. Ma dopo tanti anni passati a essere sminuita e lentamente oppressa per la sua mancanza di figli, forse la ferita che le avevano inferto questi era semplicemente troppo profonda.

La tua nuova moglie è rispettosa e docile. Non oppone resistenza; alla notte rimane molle e non ti scaccia (non è sottomissione, per come la vedi tu; è sapere come risparmiarsi del dolore). Nel cuore della notte, quando sei profondamente addormentato, perso nella landa dei sogni dove lei ha trascorso tanto tempo e dove ne avrebbe volentieri trascorso altro, lei ti guarda con occhi carichi di odio, ma non oppone resistenza. Il suo mondo è morto, e ormai è alla tua mercé, alla tua corte, non può scappare da nessuna parte.

Ma se tu dovessi mai toccare i suoi figli…

Il giorno della sua nascita, delle fate le hanno elargito alcuni doni. Magia grande, magia potente. Benedizioni come quelle non svaniscono mai. Sarà protetta per sempre.

Guarda. Guarda quant’è bello tuo figlio. Guarda quant’è adorabile tua figlia. Sei un uomo scrupoloso. Tu sei un re; per quanto ti riguarda, ogni cosa esiste per il tuo divertimento, e puoi usarla e gettarla a tuo piacimento. Dopotutto, sono figli tuoi, tua proprietà. Cosa ti può mai impedire di…?

Fargli del male. Stai acquisendo una certa esperienza nel ferire l’anima, invece del corpo.

Va’ avanti.

Guardali. Lascia che la tua mente vagli le possibilità. Lascia che ti convinca che tanto non sono tuoi, che chiunque avrebbe potuto trovare la donna addormentata e farle ciò che le hai fatto tu. Getta pure quella sottile patina di civiltà, sii la bestia che sei stato il giorno che l’hai vista addormentata.

L’hai sconfitta; lei è il cane che si rannicchia pateticamente quando tu entri nella stanza, che ti lecca la mano con squallida gratitudine ogniqualvolta non alzi il pugno. Va’ avanti, dunque. Convinciti della sua debolezza. Guarda nel modo sbagliato ai suoi figli. Dalle tutta la forza di cui ha bisogno per infilzarti un coltello nella gola.

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Capitolo 3
*** La bella e la bestia ***


Nota: la versione base è probabilmente quella più popolare della fiaba, ma credo che l’influenza del bel film Disney sia evidente :)
31/06/2012: … no, wait, ho parlato con l'autrice e mi ha detto che in realtà la storia è fondamentalmente basata sul film Disney con alcuni elementi presi dall’originale e altre versioni, lol xD



Faded ~ Appassito





È notte, e viene svegliata dalle lacrime che le bagnano il cuscino. Suo marito si rigira nel letto, ma è il movimento delicato dei sogni remoti. Non ne è turbata; tanto non vorrebbe che lo sapesse.

Ma la Bestia, ah, la Bestia l’avrebbe saputo.

Forse percepiva l’odore della sua inquietudine e della sua tristezza nell’aria; certo è che sapeva sempre quando si svegliava tanto in pena, istantaneamente, indipendentemente da dove si trovassero tutti e due. Faceva irruzione nei suoi appartamenti con un’esecrabile mancanza di decoro, esigendo spiegazioni. Lei strillava e gli spintonava il petto ampio, e lui si faceva buttare fuori dalle sue stanze, sapendo quanto la divertiva l’idea che una creatura così potente si prostrasse davanti alla sua fragilità, e dopo ne parlavano, una volta che lei ritornava un po’ in sé.

La Bestia le manca.

Sa che è finita nel modo giusto – il principe meritevole riacquista la forma umana per riprendere la corona umana, la servitù torna visibile, l’incantesimo sul castello si spezza. Chi è lei per negare loro tutto questo? Lei non è una principessa. Non ha affrontato alcuna tribolazione, non ha combattuto alcun mostro (se ne è innamorata). Non è coraggiosa, o saggia, o bella, o buona. Lei era (è) semplicemente una donna innamorata. Non vuole essere ingrata o struggersi per qualcosa che è andato perduto.

Ma la Bestia le manca lo stesso.

Lo osserva costantemente, suscitando il divertimento garbato e complice dei domestici, dei nobili e delle dame di corte. Cerca la Bestia. Non lo trova, benché qualche volta lo intraveda.

La pelle del suo principe è tanto liscia, tanto chiara e glabra. Mangia educatamente – non graffia la porcellana né capovolge bicchieri per via delle grosse zampe deformi, troppo grandi e troppo ingombranti, poco adatte a compiti tanto delicati. Le sue mani ora sono affusolate ed eleganti, le unghie tagliate con cura.

Si chiama Reuben. Non si sognerebbe mai di vagare per i corridoi chiamando il suo nome (adesso hanno domestici che riferiscono a ciascuno di loro che si stanno cercando, e il nome le lascia ancora uno strano sapore sulle labbra. Non lo usa mai, e lui non pare accorgersene). Ha una voce dolce, melodiosa. Porta vestiti eleganti che gli calzano a pennello – è un tripudio di guarnizioni dorate, bottoni d’oro e ricami d’avorio. Risplende, dalla punta dei capelli a quella degli stivali lucidati, risplende effimero e pallido come un raggio di sole in un giorno grigio.

Le manca il cupo rimuginare della Bestia, il suo pelo scuro, il suo odore pesante. Le manca appoggiarsi a lui e sentire il battito forte e fermo del suo cuore, tanto diverso da quello di suo marito. Di notte gli posa una mano sul petto e gli sente il cuore attraverso pelle, invece della pelliccia, lo sente muoversi a un ritmo più veloce, e debole.

Le manca il silenzio del castello. Quando invisibile, la servitù non aveva potuto parlare, ed era passato molto tempo prima che la Bestia le rivolgesse la parola al di fuori delle proposte di matrimonio che le faceva ogni notte. Il castello stesso sembrava attutire ogni suono (sta cominciando a dimenticarlo; un giorno si sveglierà e non avrà alcuna idea del perché il suono del proprio cuore, il suono del cuore della Bestia, avesse avuto tanta importanza). I suoi tacchi non risuonavano sul pavimento; il fuoco non crepitava o sibilava nei camini, e la sua forchetta non tintinnava mai quando toccava il piatto. Si era detta che così doveva essere il limbo. Ascoltava il suono del proprio cuore per rassicurarsi di non essere morta o di non star sognando. Ascoltava quello di lui per sapere di non essere sola.

Il castello ora è tutto un rumore, pieno di voci allegre, fuochi scoppiettanti e suoni su suoni, non più tenui bisbigli nella polvere.

I suoi occhi sono tanto gentili. Non li riconosce più. Le manca il fuoco della Bestia.

Non è mai stato violento da che lo ha conosciuto, in parte era già domato, ma sapeva lo stesso che era nella sua natura – che nelle prime fasi dell’incantesimo era stato preda di furenti attacchi d’ira, aveva ruggito ed era stato una vera bestia, sapeva che un tempo nella sua pelle c’era stata la foresta, nei suoi occhi il bagliore rosso del fuoco. La guida paziente di tutti gli invisibili non aveva potuto placare completamente quella ferocia. Per questo, quella prima notte, aveva avuto paura di incontrarlo.

L’aveva amata con passione, possessivamente, sin dal primo momento in cui l’aveva vista, il riconoscimento istantaneo di una femmina attraente, una possibile compagna, da parte di un animale maschio. Aveva ricordato una variante dello sguardo nei suoi occhi, vista accesa negli occhi dei ragazzi con cui era cresciuta e negli occhi degli sconosciuti che l’avevano pregata di ballare e poi avevano provato a portarla via. Per questo, dopo la prima notte, la paura era rimasta.

Nel corso del tempo quello sguardo si era ingentilito, ma aveva sempre saputo che da qualche parte nella Bestia quel fuoco non si era estinto. Quando iniziò a conoscerlo, a intessere con lui una confortevole rete di abitudini, a ritrovarsi sposata a lui senza cerimonie o anelli, smise di temerlo. Aveva imparato ad amarlo non a dispetto della sua natura selvaggia, ma grazie a quella.

L’amore che le dimostra adesso è fiacco e pallido al confronto, e ripensa alla loro vecchia vita con un dolore per la sua fine che sa non condiviso da lui. Le manca il silenzio e le manca la solitudine, e le manca quando erano soltanto loro due, nessun altro, e le manca più di tutto la sua presenza.

Sapeva sempre quando c’era, dovunque si trovasse nel castello. Lui lo riempiva della sua presenza, il suo spirito si spiegava e rimbombava tra corridoi stregati e stanze dimenticate. Potevano trovarsi in due ali opposte, e lei sapeva comunque che lui era nel castello, che quello era il suo castello. Ora che è uomo, sa che c’è solo quando lo vede.

Ha preso l’abitudine di andarsene sempre più spesso a leggere in biblioteca. L’uomo che era la sua Bestia non ha più il tempo (l’inclinazione?) di farle da ombra, di profondere tempo ed energie per divertirla. Ha troppo da fare con la vita da re, con discussioni parlamentari, decreti, commerci, e chissà cos’altro. Va a caccia con i suoi uomini nella foresta mentre lei se ne sta in biblioteca, a rammentare i giorni tanto lontani in cui la Bestia la guardava in silenzio da un punto qualunque della stanza, a ricordare di quando ogni tanto abbandonava il libro per sedersi accanto a lui ed essere felice semplicemente di stare con lui. Si tendeva verso di lui e discutevano di ciò che aveva letto, e sovente lui si accigliava, ricordandole bruscamente che era una bestia, condizione che dimenticava sempre più di frequente. A volte suo marito entra in biblioteca mentre lei è presente, e se ne accorge solo quando allunga una mano per toccarle una spalla.

Le manca la sensazione della pelliccia folta e ruvida sulle dita, le manca il suo odore pesante di fumo di legno e di pino, e di un qualcosa di intenso e muschiato che non ricorda più a dovere. Quando spinge il naso in una pelliccia di lupo appena fatta e inspira profondamente, qualcosa nella sua mente si scuote, sussurra della Bestia, ma persino quella fragile connessione si sta dissipando.

Le mancano i suoi ruggiti gutturali e le manca la sua voce profonda e rauca. Le manca essere la cosa più importante della sua vita. Le manca essere l’unica persona che lo facesse sorridere.

Aveva soltanto voluto dirgli che lo amava. Nulla di più. Non l’aveva detto per salvarlo; non l’aveva detto per l’uomo pallido che l’ha rivendicata come sua moglie, o per altro. Il suo cuore era stato semplicemente troppo pieno, e la paura che lui morisse senza saperlo troppo grande. Non aveva mai desiderato quest’uomo pallido, questo principe, quest’ombra della Bestia.

Lei aveva amato la Bestia, era stata felice e soddisfatta della Bestia. Non aveva mai rimuginato molto sul futuro, era stata troppo contenta del presente, ma se mai ci aveva pensato pure solo di sfuggita, aveva semplicemente immaginato le loro vite scorrere come avevano sempre fatto: solo loro due, legati dall’amicizia (dall’amore), fino alla fine dei loro giorni nella tenebrosa foresta, gli unici a conoscere e piangere la scomparsa l’una dell’altro. Una vita semplice. Una vita piacevole. Una vita appagata.

Certi giorni si mette nuda davanti allo specchio e percorre le cicatrici chiare che ha sulle mani, sulle braccia: i segni lasciati dagli artigli quando non faceva abbastanza attenzione. Lei adora quei segni, ma suo marito non li sopporta. Fa l’amore con lei con gli occhi chiusi perché non riesce a tollerare la vista dei segni dentellati sulla sua clavicola, dove una volta l’aveva afferrata per scuoterla in balia di una rabbia disperata e iper-protettiva, e gli artigli dei pollici avevano penetrato nella carne fino a tagliarla. Non gli piace vedere i graffi delle volte in cui provava a prenderle il braccio per portarla da qualche parte e le perforava accidentalmente la pelle. La memoria del suo tempo da Bestia si sta disgregando come l’incantesimo, e un giorno non sarà più in grado di ricordare nulla se non per la cronaca sulla sua pelle.

Questa è di quella volta che, troppo impaziente di mostrarmi la sala da ballo appena ripulita, si dimenticò di stare attento.

La ricorda come la prima volta in cui si era veramente resa conto di quanto fosse espressivo il suo volto, nonostante la pelliccia, le zanne, il grugno. Era stato prima speranzoso e ansioso di compiacerla, e poi costernato per la propria goffaggine e addolorato dalla vista della sua ferita.

Quella è successa quando gli ho fatto una sorpresa e si è girato troppo in fretta per fermarsi.

Era stata una delle rare occasioni, dopo il consolidarsi delle loro confortanti abitudini, in cui l’aveva temuto. Fu più che altro sorpresa, nel vederlo voltarsi di scatto con le zanne scoperte e il braccio proteso. In quell’istante le erano venuti in mente gli orsi e le loro maestose zampe pesanti, capaci di spezzare la spina dorsale di un uomo in un sol colpo.

Questi sono di quella volta che mi stavo arrampicando sulla grande quercia in cortile, sono caduta e lui mi ha presa.

Non si era mai arrampicata su di un albero prima di allora. Adesso, certo, è una regina; non potrà indossare mai più i suoi semplici vestitini fatti in casa e tirarsi le gonne sopra le ginocchia per arrampicarsi sugli alberi. Non si era mai arrampicata sugli alberi prima di diventare l’ospite della Bestia perché le figlie beneducate dei mercanti semplicemente non si arrampicavano sugli alberi. Ci aveva messo molto tempo a sentirsi a suo agio in presenza della Bestia, e gli invisibili (che però non sono più invisibili e dovrebbe smetterla di pensare a loro in questi termini) la innervosivano, e un giorno, tutto d’un tratto, mentre guardava la quercia le fu chiaro che da lì nessuno l’avrebbe giudicata più. Non c’era nessuno oltre alla Bestia, e come avrebbe potuto condannarla per essersi arrampicata sopra un albero?

L’aveva sgridata severamente per aver fatto una cosa così stupida (il terrore provocato dalle sue urla era già un ricordo) e lei aveva avuto il buon gusto di mostrarsi mortificata fino al ritorno nella sua stanza per spalmarsi del balsamo sui lividi e sui lunghi graffi seminati dagli artigli che l’avevano sfiorata; poi era scoppiata a ridere e non era riuscita a fermarsi.

Eccola lì. La prima volta in cui si era resa conto che con lui poteva essere felice.

Quei pallidi semicerchi sono di quella volta che ho provato a farlo ballare con me e lui continuava a pestarmi il piede.

Lui non voleva ballare. Aveva protestato affermando (non a torto) che la sua psicologia non era esattamente progettata per la danza. Lei se ne era infischiata, infiammata dal desiderio di ribaltare la situazione ed essere lei a divertirlo, per una volta. Ogni suo capriccio sarebbe stato esaudito, le aveva detto quando era arrivata al castello – glielo ricordò quando gli chiese di ballare, insistendo con fermezza che era suo capriccio che lui ballasse con lei – e nel suo piccolo voleva ripagarlo.

Si erano arresi dopo che lei aveva guaito dal dolore (non più per la sorpresa) per la quinta volta. Lui si era accigliato ed era stato di una sincerità commovente nell’assicurarsi che non fosse gravemente ferita, e lei gli aveva gettato le braccia al collo e si era messa a ridere come una pazza nella sua folta criniera, desiderando di potersi tenere stretta quel momento per sempre.

Eccolo lì. Il momento in cui aveva capito di poterlo amare.

Lì.

Una volta gli aveva preparato una torta. Gli invisibili (ma non sono più invisibili; non allo stesso modo) l’avevano servita a cena. Era scialba e poco invitante nel bel mezzo del banchetto regale che le faceva trovare ogni notte, ma lui aveva preso comunque una fetta, anche se gli si era sbriciolata tra gli artigli e le zanne, e le briciole erano ruzzolate fin dentro la pelliccia scura e intricata.

Eccola lì. La prima volta in cui gli aveva sorriso.

Aveva lavorato nei giardini, determinata a farvi nascere fiori che non fossero rose, e quando aveva visto i primi germogli verdi era stata estasiata e si era girata verso di lui, ridendo euforicamente.

Eccola lì. La prima volta in cui aveva riso con lui.

Benvenuta, Bella, non aver timore

Qui sei regina e padrona.


Ha paura. Ha paura di non essere nulla più di un ornamento da appendere al braccio e con cui scaldare il letto alla sera, perché sicuramente la sua vita non ha più niente del semplice appagamento di prima. Ha paura che l’amore che provava per lui sia appassito come il suo per lei. Ha paura che si sia sciolto come neve, lasciando null’altro che terra spoglia.

Coltiva lo spazio freddo che lui ha lasciato dietro di sé. Col tempo, spera, qualcosa potrebbe fiorire.

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Capitolo 4
*** Il gatto con gli stivali ***


Master ~ Padrone






Il Marchese è un uomo pallidino e nervoso che avrebbe potuto conservare la bellezza di un tempo, se la paura e le ansie costanti non avessero solcato il suo viso. Accoglie con un sorriso impacciato e teso, non riesce mai a mantenere l’attenzione fissa sugli ospiti. La ragione della sua distrazione talvolta si palesa. Il Gatto entra nella stanza con una sicurezza che i re possono solo invidiare.

Il Marchese ha paura del Gatto. Forse lo odia, ma di certo ne ha paura.

Quello si accovaccia sul davanzale, accanto al fuoco e al tavolo, e lo rimira con lo sguardo divertito e altezzoso tipico delle specie feline. Sua moglie ride dei suoi timori, e ciononostante lei e la servitù stanno sempre alla larga dal Gatto.

Non ha mai avuto un nome. Solo “il Gatto.” I bambini lo chiamano “Micio,” e il Marchese si chiede sempre quand’è che comincerà a fare le scarpe (stivali) a tutti loro. Sa che sta solo aspettando il momento giusto. È un gatto, dopotutto.

Un nome, Padrona? è ciò che la Signora di Carabas gli immagina domandare in tono vuoto, disdegno stupefatto negli occhi d’oro, la parola “Padrona” impregnata di spontaneo e quasi impercettibile scherno. Che me ne farei di un nome? Sappiamo tutti benissimo chi sono. A volte si degna di avvicinarsi agli ospiti, guardandoli con singolare disprezzo finché il Marchese non lo presenta a disagio come “Il Marchese di Carabas.”

I suoi ospiti pensano sia una battuta.

(Signor Marchese di Carabas è il vostro nuovo nome, mio Padrone. Non siete mai stato nessun altro. Tenetelo bene a mente.)

« Micio » lo chiama imbarazzata la Marchesa, sentendosi ridicola, e sapendo che non c’è logica ragione per tanto nervosismo. È solo un gatto. Quello alza la testa e tira sdegnosamente su col naso. Viene colta, come ogni volta che la sua strada incrocia quella del Gatto, da un’improvvisa empatia con i topi.

Una volta, lo trovava incantevole. All’epoca era lucente e mellifluo, naturalmente elegante; aveva mormorato timidamente al suo nuovo marito che quel muso le pareva dipinto da fate, che avevano tracciato quei disegni irregolari e marmorizzati con dita affusolate. Suo marito aveva riso tanto a lungo e così forte che aveva temuto morisse soffocato.

Allora era un gatto bellissimo. Forse è la sua immaginazione, o l’isteria latente che riveste ogni parte della tenuta dei Carabas, ma adesso sembra più grosso. Più feroce.

(Brava gente che falciate, se non dite che tutto questo grano appartiene al signor Marchese di Carabas, sarete tutti triturati a pezzettini, come carne da polpette.)

Anche suo padre era rimasto colpito dal Gatto, ricorda. Lei lo aveva trovato dolce quando, con quelle sue curate zampette bianche (stivali? Quelli non saranno mica), aveva presentato loro una lepre, un pesce e una coppia di fagiani… Suo padre era rimasto colpito dal servilismo del Gatto. Qualunque uomo riesca ad asservire un gatto, aveva detto il giorno del suo matrimonio quando lei aveva pianto e lo aveva implorato di non portarla all’altare, è un uomo degno di rispetto.

(Brava gente che mietete, se non dite che tutto questo grano appartiene al signor Marchese di Carabas, io)

Ha imparato a voler un gran bene (ad amare, addirittura) suo marito, anche se forse in segreto lo guarda un po’ dall’alto in basso. La sua fortuna è un gatto molto astuto, dopotutto.

(Brava gente)

Ricorda il loro primo banchetto insieme, quando aveva visto uno sconosciuto con abiti presi in prestito che la fissava dall’altro capo del lungo tavolo, suo padre allegro e caloroso. Aveva capito che stava prendendo in considerazione l’idea di affidarla a quell’uomo, di prenderlo come futuro genero, come futuro re. Aveva un volto abbastanza gradevole, rammenta di aver pensato; ricorda anche di aver notato che aveva le mani ruvide e piene di calli – le mani di un lavoratore, altro dettaglio che aveva apprezzato, perché era stanca di bellimbusti pallidini che non facevano che blaterare di caccia, cavalli e falconi. Si era detta che forse era un nobile abbastanza saldo da non temere che si sapesse che svolgeva lavori umili, ma prima della fine della cena aveva scoperto che era un ricco nobile quanto lei una lavandaia.

Non sapeva come usare le posate, si rifiutò di mangiare fino all’arrivo del Gatto; poi il Gatto gli si accovacciò sulla spalla, si mise a fargli le fusa all’orecchio mentre lui gli accarezzava goffamente le orecchie, nervoso, con tocchi leggeri – decisamente insufficienti per una reazione così entusiasta. Lei lo aveva preso in giro, dicendo che forse il Gatto gli stava bisbigliando qualcosa all’orecchio, perché tutto sommato lui le piaceva (non abbastanza da sposarlo, perché un marito e un pretendente sono molto spesso due cose assai diverse) e aveva pensato che, dovendo essere molto affezionato al Gatto, lui avrebbe apprezzato il complimento. Per tutta risposta lui era caduto nel panico fino al sibilo arrabbiato del Gatto, che lo aveva placato all’istante.

(Non sapete quanto siete stato fortunato, Padrone.)

Il Gatto lo aveva seguito fedelmente durante il tour del palazzo che aveva dato loro suo padre, come oggi non farebbe mai, e i commenti del ragazzo erano stati puntuali, intelligenti, penetranti… e sempre seguiti da un tenue miaodel Gatto.

Era a disagio, chiaramente un po’ teso tra i nobili e i cortigiani. Lei lo osservava e si era accorta, sorridendo con meravigliata gioia – e forse era stato questo a convincere suo padre più di ogni altra cosa, perché era stato un brav’uomo che per lei aveva voluto la felicità, oltre che un buon partito – che a volte imitava il Gatto in tutta la sua superba e sofisticata superiorità. In quel momenti, si amalgamava alla perfezione.

(Posso rendervi ricco, se solo mi ci ingegno.)

Il Gatto non è più tanto accomodante. A volte le capita di guardare suo marito, che guarda il Gatto, e capisce, senza parlare, che lui si sta chiedendo quando morirà e che spera con fervore succeda presto.

« Non per dire, Padrona » le dice un giorno la sua domestica personale, con una cauta occhiata di sbieco per controllare che il Gatto non sia nei paraggi. « ma quella cosa mi dà i brividi. »

Lei stessa ha un po’ paura del Gatto, anche se lei è la sua favorita: si accoccola accanto al fuoco quando lei va a leggere lì, le permette addirittura – a volte – di accarezzargli le orecchie. Le fa fusa a profusione; suo marito spergiura di riuscire a sentirle dal corridoio, benché i muri siano fatti di pietra spessa oltre mezzo metro. È contento di lei, e lei è lieta di accontentarlo, e si dimentica di quanto suo marito rabbrividisca alla vista del Gatto, dimentica i domestici che arrivano a voltarsi e uscire dalla stanza che avevano intenzione di pulire quando ci vedono il Gatto dentro, dimentica il terrore che la assale quando vede il Gatto sporgersi sopra la culla per sbirciare il bambino… Suo marito era pur sempre un contadino, per quanto lei abbia imparato ad amarlo. È solo superstizioso, pensa in quei momenti accanto al fuoco, il suono costante e pesante delle fusa del Gatto che riempiono l’aria come tuoni lontani, il pelo tanto soffice contro le sue dita tremanti.

(Non dovete far altro che trovarmi un sacco e farmi fare un paio di stivali, e vedrete come la sorte non sia stata tanto cattiva con voi quanto credete.)

Ogni tanto si chiede come suo marito sia incappato in questa tenuta, perché chiaramente non ci vive dalla nascita. Nella loro prima settimana lì si perdeva sempre; aveva impiegato un mese per scoprire l’entità delle sue terre, e negli anni è capitato ancora che ammettesse, con evidente imbarazzo, di essersi perso. Lei è abbastanza saggia da non fare domande – il suo matrimonio è pieno di compromessi discreti come questo.

Crede di conoscere già la risposta, ma si sente stupida per averci anche solo pensato. Quando i suoi occhi incontrano quelli del Gatto, è la prima a distogliere lo sguardo.

(Fate silenzio, ragazzo.

« Ma Gatto- »

Niente ma! Non vi avevo detto che vi avrei procurato una fortuna? E non è stato forse così? Dov’è la vostra obiezione? Non è questo il momento per acquisire una coscienza, ragazzo.
)

Lei sa. Certo che sa. Sarà una principessa, ma non è stupida.

Talvolta si chiede, irrazionalmente – dev’essere un pensiero irrazionale, si ripete, anche se ha molta paura di sbagliarsi – se adesso il Gatto esigerà il suo primogenito. È un bel bambino, Costantino, sebbene un po’ incline al rischio. È affascinato dal Gatto come il gatto da lui sin da quando era un neonato con le guance paffute, e a volte pensa sia fermamente convinto di avere nove vite come il Gatto.

(Un dono per Sua Altezza Reale il Re dal mio munifico, egregio padrone, il Marchese di Carabas.)

La prima parola di Costantino è stata “Gatto.” La seconda è stata “Micio.”

Era stata ad accudire la sua culla per mesi, aveva atteso con estrema pazienza le sue prime parole, volendo sentire dal suo amato figlio che lui sapeva quando lei gli volesse bene e che ricambiava il suo affetto per lei, intrappolata in un matrimonio con un uomo che non conosceva e non era sicura avrebbe mai potuto amare (era un’inguaribile romantica, prima del suo matrimonio). La parola “Gatto” fu come lo schiaffo che suo marito non le ha mai dato. Quando la sua parola successiva era stata “Micio” le era venuta una crisi isterica – con grande sardonico divertimento del Gatto, in aggraziato equilibrio sulla sbarra in legno del lettino – e i domestici l’avevano messa a letto che ancora piangeva, e l’avevano assistita per giorni finché non aveva ritrovato la forza per affrontare ancora una volta suo figlio e provare a estorcergli un “mamma.”

Per quell’episodio odia ancora il Gatto. Appena un po’. Ha la sensazione che lui lo sappia. Di certo, suo marito ne è convinto. « Non guardarlo così » la implora a bassa voce, e non riesce a velare completamente l’esasperazione nei propri occhi quando gli rivolge lo sguardo. Ha il sospetto che questa sia l’unica ragione per cui il Gatto non le serbi rancore per il suo odio.

(Ah, notevole invero, ma potete, essendo voi una creatura di tale grandiosa – e imponente, certamente siete imponente – stazza, trasformarvi in qualcosa di piccolo… qualcosa come… un topo?)

Finge di non capire la paura di suo marito, e forse è per questo che il Gatto le si rannicchia in grembo e le concede di accarezzargli il pelo marmoreo. Non gli importa che lei menta; forse è proprio per questo che lei gli piace, essendo lui stesso il signore delle menzogne.

(Vi confesso che la cosa mi sembra impossibile…)

Si sveglia nella notte, sudata, la testa piena di immagini dei suoi figli soffocati nel sonno dal pelo folto del Gatto, incubo ricorso spesso sin dalla nascita di Costantino, perché il Gatto tende a sdraiarsi nel lettino accanto ai bambini quando sono appena nati. Il Gatto è la ragione per cui va dalla sua vecchia balia a chiedere pozioni e polveri per evitare il concepimento, e ancora ricorda di come la scoperta delle arti della donna l’aveva stupita e sbalordita. Il Gatto è la ragione per cui i suoi figli nascono sempre a diversi anni di distanza, perché ogni volta attende che superino la prima infanzia prima di poter tirare un sospiro di sollievo, prima di poter sopportare anche solo il pensiero di averne un altro. Si aspetta sempre che questa sia la volta buona che il Gatto si stanchi di loro e semplicemente-

(… un topolino davvero saporito. Dormi sereno, topolino, farò buon uso della tua dimora.)

-si stiracchi. Si rotoli sulla schiena. Prema il corpo pesante e peloso contro le loro bocche piccole come boccioli di rosa.

A volte si domanda come sia morto il padre di suo marito, come abbia fatto il Gatto a capitargli in eredità.

(Non state ad affliggervi, nuovo padrone)

Sogna suo marito, che affoga davanti agli occhi del Gatto, perché ovviamente non sa nuotare, ha paura delle acque profonde e sempre ne ha avuta fin dal giorno in cui suo padre l’ha incontrato mentre faceva il bagno

(Aiuto! Il Marchese di Carabas sta affogando!)

nel fiume. Il Gatto costituisce il mondo dei suoi sogni, con gli occhi d’oro luccicanti e scaltri. Costituisce il mondo al di fuori dei suoi sogni.

Il Gatto al momento dormicchia sul suo letto e la guarda con gli occhi mezzi socchiusi, l’ozio personificato. Allunga una mano, prudente, aspetta che lui le dia il suo tacito permesso prima di accarezzare i disegni curvilinei e ondeggianti dipinti sul suo muso da dite fatate.

(Obbeditemi, e la vostra fortuna è bell’e fatta.)

Sì, ha paura del Gatto, ma è un padrone generoso, finché la servitù se ne sta al posto suo.

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Capitolo 5
*** Cappuccetto Rosso ***


Red ~ Rosso






C’era una ragazza che passeggiava nel bosco, un cesto appeso al braccio – portalo alla nonna, non attardarti e segui il sentiero.

Conosceva il bosco, conosceva i sentieri, conosceva il lupo. Non si è stupita quando, seduta all’ombra di una quercia, ha alzato gli occhi e incrociato quelli del lupo. Il sorriso del lupo ben si addice al suo.

Facciamo un gioco, ha detto il lupo, piegando il muso di lato per studiarla meglio con gli occhi d’oro.

« Un gioco » ha ripetuto la ragazza, curiosa, tendendo una mano e insinuandola nel folto colletto di pelliccia attorno alla nuca del lupo, ignara dell’irrigidirsi dei muscoli al tocco della sua mano pallida e irruvidita dal lavoro. « Che tipo di gioco? »

Il lupo ha ghignato.

(Segui il sentiero, figlia mia, o il Lupo Cattivo potrebbe ingoiarti tutta intera.)

Questo è il gioco, ha detto il lupo, la voce che imitava quella dei leali segugi del suo villaggio, dei cani e degli uomini che la guardavano con occhi devoti. Vediamo chi arriva prima a casa di tua nonna.

Il respiro caldo del lupo contro la sua guancia. Le sue mani curiose nel pelo lungo del lupo.

« Che succede quando si vince? » ha chiesto la ragazza, la testa china di lato come un uccellino curioso.

(segui il sentiero, figlia mia!)

Ah, questa sì che è una bella domanda, ha decretato il lupo, sfoderando un bianco sorriso affilato. Io andrò da una parte, e tu andrai dall’altra, e vediamo chi dei due arriva per primo.

« Ma qual è il premio? » ha incalzato, sfrontata, bellissima e impetuosa, e il sorriso del lupo si è allargato, allargato quando lei non guardava già più.

Il sentiero di spilli, o il sentiero di aghi, ha continuato noncurante il lupo, stiracchiando il corpo lungo e slanciato, voltando la testa per mostrare i denti ai suoi occhi rabbuiati.

« Aghi » ha risposto fermamente.

Il lupo ha riso sommessamente. Sei sicura? No, bella signorina, credo che il sentiero di spilli ti si addica di più. Io prenderò quello di aghi. Avanti, piccolina, vediamo chi ottiene il premio.

« E il premio è…? » ha detto sarcastica, cocciutamente determinata a non perdere terreno.

Le costole del lupo, perfettamente visibili attraverso la pelliccia. Le ciocche dei suoi capelli castani, che cascavano sciolti dal cappuccio rosso incorniciando un volto ancora rotondo, segno di un’infanzia a stento salutata. Il suo profumo, e la fame che divorava il lupo. Preda, gli sussurrava il suo odore. Cacciatore, rivendicavano i suoi occhi.

Corri, ha detto il lupo.

Il lupo ha corso, magro e famelico. La ragazza è rimasta ancora un po’ ai piedi della quercia, tormentandosi i ricci con le dita sottili, pensando al lupo, agli occhi e al ghigno del lupo, e alla promessa che pensava di potervi leggere.

Il lupo ha raggiunto la porta di sua nonna prima che lei inziasse a camminare, il profumo della ragazza ancora nel naso.

« Apri la porta, nonnina » ha chiamato a gran voce, il ricordo della voce della ragazza che gli usciva dalla gola, dolce e acuto. « Sono la tua nipotina. »

« Alza il chiavistello e entra, mia cara. »

Dove stai andando, figlia mia dal cappuccio rosso?

Facciamo un gioco

(un gioco?)


La nonna, oh, dalla carne così vecchia e erosa, dal sangue così denso di anni ormai conclusi. Sì. Un altro gioco è d’obbligo, un’altra prova per stabilire chi vincerà, l’odore o la vista.

« C’è della carne e del vino sulla mensola » le dice quando alza il chiavistello e entra, le guance che sbocciano rosse per il freddo, gli occhi irraggiati dall’invincibilità dei giovani.

Il sangue e la carne sono la vita.

Sangue e carne, l’alleanza più vecchia del mondo, risalente ad ancor prima che il dio crocifisso dicesse ai suoi seguaci questo è il mio corpo, questo è il mio sangue, bevete, mangiate in memoria di me.

Il sorriso del lupo si allarga, si allarga, quando lei beve, quando lei mangia.

Puttana! sibila il gatto nella voce d’ombra e fumo dei felini saltando sul davanzale. Mangiare la carne e bere il sangue della tua stessa nonna!

Il sorriso del lupo si affila quando lei non lo sente.

Vieni a letto, sdraiati accanto a me.

Il cappuccio rosso che scivola via dai ricci bruni, il soprabito rosso sangue ripiegato con cura per essere gettato nel fuoco, seguito dal grembiule bianco con i suoi lacci fastidiosi, e dal vestito da contadinella, semplice, rozzo e macchiato, che salgono, ormai fumo, verso l’alto. Gli occhi del lupo, che splendono.

Butta i vestiti nel fuoco; non ne avrai più bisogno.

« Oh, nonna- » Un accenno di farsa. « Che occhi grandi che hai. »

« È per vederti meglio, mia cara » gracchia con la voce di sua nonna, stando al gioco, perché è ancora un gioco fra loro due, e il sorriso che gli fa lei è trionfante quanto il suo.

Il bagliore dei suoi occhi lucenti, malizioso, che lo sbircia da sotto le lunga ciglia scure. Il pelo ruvido del lupo contro la sua pelle chiara, rosea.

Vieni a letto, sdraiati accanto a me.

« Nonna, che orecchie grandi che hai. »

« È per ascoltarti meglio, mia cara. »

L’odore del sangue e della carne della sua famiglia sulle labbra rosse rosse. Il muso volpino del lupo contro il suo collo, la lingua che raschia contro la guancia venata dal sangue, bianca di paura.

« Oh, nonna, che braccia grandi che hai. »

« È per abbracciarti meglio, mia cara. »

Il battito sordo del suo cuore tra le costole, accelerato da una paura compresa troppo tardi, ed è un peccato, pensa il lupo in un anfratto della sua mente affamata, che abbia dovuto sbagliare così tardi, quando mancava così poco.

« … Che denti grandi che hai… »

Un brivido le percorre la pelle, e lui sa la risposta per finire il gioco, perché quei suoi occhi mentono e lui ha fame. Il suo sorriso si allarga.

« È per mangiarti meglio, mia cara » dice.

Et en disant ces mots, ce méchant Loup se jetta sur le petit chaperon rouge & le mangea.

(Segui il sentiero, figlia mia)

Facciamo un gioco.

(Qual è il premio?)

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Capitolo 6
*** Le fate ***


Nota: Questa fiaba di Perrault io l’avevo letta, ma dubito sia molto nota :O Vi rimando a una versione che ho trovato su internet.
Per i più pigri, una fata fa un incantesimo alla beniamina di turno per premiarla della sua bontà: ogni volta che questa poveraccia parla, le escono fiori e pietre preziose dalla bocca. Alla sorella cattiva, che prova a farsi fare lo stesso incantesimo, escono invece serpi e rane perché, uh, è cattiva (di qui il titolo inglese della fiaba, “Diamonds and Toads”). Alla fine la protagonista, cacciata di casa, incontra un principe nel bosco che se ne innamora (citazione testuale: “considerando che il dono della Fata valeva più di qualunque grossa dote che potesse avere un’altra donna”) e se la sposa, mentre la sorella cattiva, anch’essa cacciata di casa, se ne va a morire nel bosco.
(Seems fair.)




Mute ~ Muta





Andatevene. La mia signora è indisposta e non riceve visitatori. Seppure così non fosse, mio buon signore, è fin troppo tardi. Vi prego di andarvene prima che chiami le guardie-

Tom? Tom Piper? Certo che mi ricordo di te! Quella storia col maiale, eh? No? Sette anni di fuga sono parecchi per un reato tanto triviale.

E l’hai trovata la tua fortuna?

Beh, ti auguro di trovarla. Richard? Oh, sta corteggiando Betty. Se ricordi le faceva catenelle di fiori da metterle in testa; adesso invece lavora sodo per darle una catenina d’oro da mettere al collo.

Un po’ troppo giovane? Non essere sciocco, Tom, adesso ha sedici anni, e un giovanotto più felice e generoso non lo si trova da nessuna parte. La gente del villaggio lo chiama Robin, ho sentito, fa sempre sì con la testa… A proposito dei tuoi fratelli, non riconosceresti nemmeno il piccolo Harold. Io di sicuro non l’avevo riconosciuto l’ultima volta che sono stata al villaggio, quindi tu che speranze hai, che manchi da sette anni? È un bambino assai solenne, e ha degli occhi bellissimi; farà strage di cuori come te, quando sarà grande.

Sì, non è molto gentile da parte mia, vero? Ma oh, quanto mi sei mancato, Tom!

Cosa ti porta qui, Tom? Fammi indovinare. Hai sentito delle dicerie all’estero o dovunque tu sia stato riguardo la nostra Regina. Vuoi sapere se è bella come hai sentito… No, vuoi sapere se è vero che a ogni sua parola escono rose e diamanti. Non è così?

Sei cattivo come tutti gli altri! Vattene, vattene – mia signora? Mia signora! Cosa c’è che non va, qual è il problema?

Oh.

Tacete, mia signora, so che sta andando tutto male, ma al mattino sarà tutto passato. Su, su, non piangete; sono qui, no?

Sì, lo so, ho già detto che domattina chiamerò il carpentiere per riparare i mobili. Sì, temo proprio che la sottoveste sia rovinata e non possa essere rammendata. No, lui non se ne accorgerà né gli importerà, Cara.

Oh, questo è Tom, solo Tom, mia signora. È del villaggio, e non lo vedevo da anni. È veramente molto buono; non avete nulla da temere, mia signora.

Master Puss vi farà da guardia; vero, Master Puss? Non lasciatevi ingannare dal suo aspetto civilizzato, mia signora, tutti i gatti hanno cuori di leoni.

La porta è sbarrata; stanotte non entrerà di nuovo in questi appartamenti, Cara. Io e Tom ce ne stiamo fuori in balcone; buttate uno di quei sassolini in quella giara laggiù se vi servo. Non chiamate; le vostre labbra hanno bisogno di tempo per guarire, e se mi perdete sangue su quella nuova sottoveste macchiando le mie belle cuciture mi arrabbierò molto.

… No, mia signora. La colpa è tutta sua. Voi non avete fatto niente di male.




Lo odio lo odio lo odio!

Anche questo mese ha avuto delle perdite. Lui dice che è per questo che la picchia, ma lo sanno tutti che lo fa per i diamanti che produce a ogni strillo. La picchia al pensiero di tutti i gioielli che potrebbe produrre una ninnananna; la picchia perché piange quando le ordina di spogliarsi; la picchia perché rabbrividisce al suo sorriso; la picchia perché si rifiuta di parlare.

Una volta l’ha fatta abortire. Oh, il medico reale ha detto che è caduta dalle scale della torre, certo che l’ha detto, ma noi domestiche sappiamo tutte perché quella povera creaturina è venuta al mondo prima.

… Perdonami. Non dovrei parlare di segreti risaputi.

No! Non è giusto che ci tratti tutte male allo stesso modo! Può trattare come preferisce me, Susan o Marie; noi siamo domestiche e lui è il re. Ma lei è la regina! Non dovrebbe trattarla come se… come se non fosse più utile o intelligente di un segugio o di un cavallo, da portar fuori e mettere in mostra per poi rimetterla da parte fino alla prossima battuta di caccia!

Quanti anni pensi che abbia?

Sedici, diciassette? Ne ha ventidue, un anno più piccola di me. Per forza che è pallida e piccola; mangia a stento. Per forza che i suoi occhi sembrano grandi e giovani; vive nel terrore.

Il Re – ma all’epoca era principe ereditario, ricorderai – l’ha sposata sette anni fa, non molto dopo che tu… sei partito. Lei aveva quindici anni e pareva una cosa rubata al bosco, tutta tremante, timida e pronta a volarsene via a un soffio di vento nella direzione sbagliata. Indossò il vecchio vestito da sposa della Regina Madre, e le stava molto bene, tutto fatto di strass e perline, con un grosso zaffiro alla gola.

Ho pianto lacrime di gioia egoista al vederla. Il Principe era… come dire… assai convinto del suo posto nel mondo e di ciò che gli spettava, e io, essendo solo una domestica, non avevo alcun diritto di dissentire.

Oh, sta’ zitto Tom, dai; “i Frank avevano capito bene la monarchia” per davvero! Vuoi morire impiccato?

Era una donna molto taciturna. Non muta quanto adesso, ma anche allora era molto taciturna. Non era molto difficile capire il perché, naturalmente. Mi ringraziava sempre con grande cortesia quando finivo di sistemarle i capelli o le allacciavo il vestito o semplicemente le leggevo un libro, e ogni volta, ogni volta, un diamante o uno smeraldo o qualche altro gioiello, o una rosa o un nontiscordardimé o qualche altro fiore le cadeva dalle labbra.

Certo che sembra una bella cosa! Chi non vorrebbe arricchirsi parlando? Non è una bella cosa, Tom. Le fa male, questo lo sai. I gioielli sono freddi e affilati; ogni volta che mi ringraziava, si spaccava un labbro e sanguinava. Quei bei gioielli che stai immaginando stipati a casa di mia madre sono sempre macchiati del suo sangue.

E il Re. Ovviamente al Re non importava. Con lei è stato l’amore in persona nei primi mesi, sempre a prenderla, a portarla in braccio e a informarsi con gran sollecitudine della sua salute, ma anche allora lei rabbrividiva un po’ quando lui si avvicinava. Se con lei i suoi modi a letto erano gli stessi che usava con le domestiche non posso biasimarla. Non che fosse crudele, o perlomeno all’epoca non lo era di proposito; è che non sembrava sapere o credere che la donna con cui stava servisse ad altro scopo oltre il suo personale piacere.

In fondo è re.

A noi domestiche non è mai importato molto del Re, ma siamo disposte a stare nel suo stesso castello se significa servire lei.

Abbiamo inventato una rudimentale specie di lingua dei segni, noi domestiche e la Regina. Guarda: solleva il pollice e l’indice, lì, così. Apri e chiudi, uno, due e tre. Candela. Copriti gli occhi con una mano; allarga un po’ le dita, sbircia. Paura. Una paura piccola, come gli uccellini che vogliono nutrirsi dalla tua mano ma non osano. Avvicina le mani come in una coppa, stringile al petto, e spingile in avanti. Dono.

Abbiamo riso tanto dei nostri tentativi di trovare le parole tra sventolii di mani – la Regina ovviamente non rideva, lei non ride mai – e ci siamo divertite molto. Molto più di quanto abbiamo il diritto di aspettarci, essendo le domestiche di una regina.

Non è stato divertente quando suo marito l’ha fatta piangere con i suoi commenti maligni sui giochi e su come dovesse far miglior uso delle mani, invece di intrattenere la servitù. L’ha ferita terribilmente con le sue frasi crudeli sulla stregoneria, dicendo che se avesse continuato a filare parole con le sue belle mani avrebbe tessuto una corda con cui strozzarsi.

Non è una regina molto brava. Oh, è aggraziata sulla pista da ballo ed è gentile, buona, generosa e comprensiva, e chi fra noi la serve morirebbe volentieri per lei, ma come regina è davvero mediocre. Non conosce i protocolli, non sa i momenti giusti in cui parlare, i momenti giusti in cui tacere, non sapeva che è inopportuno ridacchiare quando il prete dà la sua benedizione, non immagina neanche che non dovrebbe parlare e regalare dell’oro ai mendicanti in strada per lenire la loro miseria.

Le è stato insegnato dolorosamente e chiaramente che non dovrà più spazzare i pavimenti, né cucinare né pulire, né attingere l’acqua dal pozzo del castello. Le è permesso cucire, ma i suoi ricami non vanno bene: crescendo ha imparato a fare l’orlo ai vestiti e a rammendarli, non ad abbellirli. Non le è concesso parlare con le mani davanti agli altri.

Ha commesso quest’errore solo una o due volte.

Ogni volta che faceva per rispondere con le mani a ospiti premurosi, lui le bloccava la mano con la propria – sobbalzavo sempre quando lo faceva, perché lei ha delle mani così minute e delicate, mentre quelle del Re sono pesanti e immense – e ha sibilato fermamente che per parlare avrebbe usato la bocca, aggiungendo, ne parliamo dopo. E ovviamente lei parlava e gli ospiti rimanevano a fissare a bocca aperta gli zaffiri, gli smeraldi e i fiori che le cadevano dalle labbra; perle ai porci. A volte le sue labbra si tagliavano così tanto che i diamanti parevano rubini.

Dopo lui la rimproverava della sua disobbedienza, lo faceva sempre, e nonostante se ne lamentasse tanto era fluente quanto noi con la sua lingua delle mani. « Cos’ho fatto? » ci ha implorato lei la prima volta che lui le ha mostrato le parole dei suoi pugni. « Cos’ho sbagliato? Perché è arrabbiato con me? » E non si curava nemmeno del fatto che così non faceva altro che aumentare il proprio dolore con i gioielli a cui lui teneva tanto.

Il giorno dopo lui le ha regalato dei fiori, certo. Era così sollevata che non fosse più arrabbiato che quasi non le importava che i fiori fossero proprio quelli che erano cascati dalle sue labbra la sera prima quando le aveva ordinato di parlare, o che il bel girocollo di diamanti legati assieme da oro e argento fosse composto dalle gemme che lei aveva versato raccontandogli la storia di come era stata maledetta – benedetta, sì, ma certo che intendevo benedetta, che altro avrei potuto intendere? – con la capacità di proferire diamanti e rose.

E la vita è andata avanti, e le botte sono diventate gradualmente più frequenti, e lei ha cominciato a parlare sempre meno invece che sempre di più come voleva lui.

Noi l’aiutiamo come possiamo. Facciamo tutte la nostra parte, interferiamo, ma Marie è la più coraggiosa di tutte; cammina a testa alta quando scende al villaggio per delle commissioni, anche quando viene chiamata puttana dal suo stesso padre, perché è quella con più coraggio di tutte, al punto da farsi trovare dal Re quando è ubriaco e pieno di desiderio.

Sta diventando saggio, e forse più determinato.

Adesso vuole che la Regina abbia un figlio. Pensa a un erede, o forse a tutti i gioielli che lei potrebbe creare cantando una ninnananna – perché quale madre non canta ai propri figli? – e poco ma sicuro non pensa al suo corpicino e ai suoi fianchi stretti, non più grandi di quelli di una bambina. O forse ci pensa – quale modo migliore per sbarazzarsi di una moglie causa di tanto imbarazzo? Le donne muoiono di parto ogni giorno. Ah, ma adesso sono io che non dovrei parlare per paura della botola e della corda.




Venire via con te? Non essere sciocco, Tom. Come potrei? Lasciare la mia padrona tutta sola con quel bruto?

Beh, certo che ha altre domestiche, ma non è questo il punto. Siamo amiche, Tom. Come potrei lasciarla, come potrei strapparle uno dei suoi pochi, gracili sostegni? Non lo farò nemmeno per te.

Adesso vattene, Tom. Non chiedermelo più, perché potrei accettare, e poi dovrei vivere con questa vergogna per il resto dei miei giorni.




Ti avrei sposato, se me l’avessi chiesto. Davvero. Ma no, tu dovevi viaggiare e vedere strani posti, senza degnare di un pensiero la tua goffa vicina, con i capelli arruffati e le gonne sempre lacere e macchiate.

Andavamo dalla strega a sciogliere la cera nelle notti di luna piena, noi bambine del villaggio, e a chiedere dei nostri futuri mestieri, i nomi dei nostri futuri amori.

Quando avevo sette anni, la cera mi ha detto che avrei servito una regina. Non sapevo significasse che sarei stata infelice e triste.

Quando avevo sette anni, la cera mi ha detto il tuo nome. Non sapevo significasse che non avrei mai badato alla tua casa o generato i tuoi figli, ma solo che sarei rimasta a struggermi disperatamente per te.

Sei stato via troppo a lungo. Lei ha bisogno di me molto più di te.

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Capitolo 7
*** I sei cigni ***


Nota: Per chi non conoscesse o ricordasse la fiaba, riassunto molto in soldoni: sei fratelli vengono trasformati in cigni da una matrigna cattiva, la settima sorella per spezzare l’incantesimo è costretta a restare in silenzio per sei anni e a cucire delle camicine ai suoi fratelli.
Allo scadere dei sei anni all’ultima camicia manca una manica, e al sesto fratello resta un’ala di cigno.




Blend ~ Fusione





Sensazioni, non pensieri. Fame, paura, freddo, calore, pericolo, riparo. Volo, salvezza, pericolo, sopravvivenza. Terra, acqua, cielo. Queste le cose che il cigno conosce.

Pensieri più che sensazioni. Coscienza, giustizia, ragione, misericordia, amore, crudeltà. Queste le cose che l’uomo conosce.

Il cigno sogna. Plana su ali bianche dalla sua compagna, riposandosi tra le canne; piumosi pulcini di cigno comunicano il loro saluto. Non è un sogno vero e proprio, o un ricordo come lo conosce l’uomo. È un altro tipo di adesso che si dipana quando il cigno dorme, reale nella mente del cigno quanto tutto ciò che avviene quando è sveglio.

L’uomo ha un sonno agitato; i pensieri vanno ai suoi fratelli, a sua sorella, tanto lontani. Sta pensando alle mani di sua sorella, di nuovo lisce e bianche, non più consunte e coperte di calli, non più mutilate dal compito gravoso che ha restituito ai suoi fratelli la forma umana. Sta pensando alla sua voce, roca e spezzata dopo anni di silenzio, resa bella da un coraggio e da una forza che vanno al di là di quelle di uno qualunque dei suoi fratelli. Sta pensando a suo padre, morto da vent’anni, distrutto dalla perdita di tutti e sette i suoi figli. Sta pensando ai suoi fratelli, alla natura animalesca che abbandona i loro occhi, non più cigni nel corpo, e nonostante questo con i cuori ammantati da piume.

Un fratello è ora re, gli anni tra le piume che si diradano nella sua mente come foschia calante, perché la regalità non ha bisogno di cigni se non sulla tavola imbandita. Un fratello vive nelle profondità della foresta, ricerca la conoscenza della quercia, la magia per trasformare e mantenere la mente di un uomo. Un fratello sorveglia i loro confini, e i regni vicini parlano di uno spirito selvaggio in bianco trattenuto dalla Strega Seeufer (perché così chiamano la loro preziosa sorella) che attacca chiunque tenti di entrare tramite sotterfugio. Un fratello dà la caccia alla strega che li ha maledetti, percorrendo una strada senza fine. Un fratello naviga un mondo di colpo troppo piccolo, cercando la libertà senza le ali.

Il sesto fratello, il sesto cigno si abbandona alla deriva, dilaniato tra due mondi.

(Fame. Bisogno. Voglia. Assenza.)

Il cigno si sveglia con un grido furioso a cui dà voce l’uomo. L’uomo si sveglia di soprassalto, con un movimento visibile solo nello spandersi dell’ampia e unica ala di cigno.

(Gli manca sua sorella, i suoi fratelli, il castello che era stato casa sua sin da quando era piccolo, vorrebbe andare-)

(Compagna e nido, protezione dai predatori, nutrimento buono e assenza di sfidanti, sensazione di-)

La passeggiata nella foresta è un esercizio di volontà, l’uomo che va contro gli istinti del cigno. L’uomo desidera la solitudine degli alberi, il cigno è a disagio lontano dalla vista, e dal suono, e dall’odore dell’acqua. Il cigno sa come sono fatte la libertà dell’acqua e del cielo. L’uomo sa che l’acqua porta insediamenti, e gli insediamenti significano persone. Sia l’uomo che il cigno sanno che le persone sono pericolose.

(Casa.)

È rimasto presso i suoi fratelli per un breve periodo. Lui e il cigno erano sempre in contrasto tra loro, con l’uomo che anelava più di ogni altra cosa al loro calore, e il cigno che lo costringeva a rifuggire il loro tocco. La gente del villaggio allungava le mani per sfiorare l’ala splendente al suo fianco come fosse un talismano, e i loro cani abbaiavano al suo passaggio; il cigno andava nel panico e l’uomo si ritraeva. Intrappolato al sicuro all’interno della pietra spessa delle mura del castello, il cigno si era consumato e l’uomo era diventato pallido ed emaciato. Era troppo difficile essere entrambi in mezzo a persone che erano intere.

(Cielo. Castello. Lago. Famiglia. Pericolo. Sicurezza. Pesante. Volare. Pesante. Restare.)

Andavano a guardare i cigni sul lago, lontano dalla sua casa d’infanzia. Forse il cigno sperava di vedere tra loro la sua compagnia, la sua prole.

Quando era sotto l’effetto dell’incantesimo, non sapeva di essere un uomo ricoperto di piume di cigno. Era un cigno, e conosceva la vita come la conosce un cigno. Nelle poche ore da uomo, la sua unica premura era che sua sorella fosse rimasta protetta, e tutte le sue azioni compiute mentre era avvolto dalle piume erano sogni distanti di un’altra vita. I cigni hanno un solo compagno a vita.

(Assenza. Sentire la mancanza di un altro pezzo di sé.)

Allora tornano una volta e poi ancora a sedersi accanto al lago, a guardare i cigni che ci volano dentro, e l’uomo conta i pulcini tra le canne e ride al pensiero che sarebbe persino in grado di distinguere un cigno dall’altro, un pargolo dall’altro. Il cigno emette richiami desolati a una femmina di cigno con il becco segnato, seguita da sette pulcini che hanno appena cominciato a perdere il piumaggio marrone.

Vederli torce qualcosa, inclina pericolosamente il mondo, e l’uomo non riesce a impedire al cigno di rilasciare un sibilo d’avvertimento quando una volpe si avvicina un po’ troppo al ciglio dell’acqua, ai cigni che nuotano sulla sua superficie.

(Proteggere. Assicurare la sopravvivenza. L’immortalità di un uomo risiede nei suoi figli, e questo è uno scherzo amaro, tanto amaro.)

Il mondo è fatto di paura. Paura degli uomini, dei cani, del tempo freddo, del ghiaccio sui laghi. Ha paura dei ratti e dei loro occhi astuti, perseguitato da una vecchia immagine del loro sguardo affamato dritto su di lui, in mezzo ai frammenti di pallide uova blu-verdi. Ha paura degli alberi, che lo intrappolano. Ha paura della volpe e del lupo, e ha paura della freccia, della spada e della lancia, perché l’uomo li conosce e sa che significano morte.

Il cigno ha paura dei ratti, delle volpi e dei lupi, di un’ala danneggiata, di un nido troppo vicino all’argine di un fiume. L’uomo ha paura di tutto.

(Cielo. Sicurezza. Imprigionato, perduto, troppo buio, troppo pesante, troppo umano.)

Ha dimenticato il suo nome. Si chiede se sia mai stato importante.

(Pronunciandolo, sentiva sapore di cenere. Aveva creduto che abbandonandolo avrebbe potuto sentirsi più leggero, ma così non è. È ancora la metà di uno e niente dell’intero, e il cielo è ancora troppo lontano per le sue dita.)

Si divide in due. Lui è l’uomo, ma c’è anche il cigno, e a volte si amalgamano l’uno nell’altro, e nessuno dei due è separato dall’altro quanto gradirebbero entrambi.

Guardano i cigni sul lago, e nessuno dei due riesce a decidere se vorrebbero essere tra loro.

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Capitolo 8
*** Biancaneve ***


Nota: Una delle mie preferite, e la prima che ho tradotto.
La fiaba originale bene o male penso la conoscano tutti; più che altro, ci sono diversi riferimenti letterari e alla mitologia nordica, ma visto che potrei solo confondervi le idee lascio le ricerche ai più curiosi.
Vi dico soltanto che gli “Splendenti” in inglese sono gli “Shining Ones” – non so bene cosa siano, quindi, uh… xD




Cold ~ Freddo





Neve. Sangue. Ala di corvo, tesa a schermare il pasto.

Queste le materie di cui è composta. Fredda come la neve, incanta. Tagliente come il becco del corvo, strappa via i cuori. Di sangue sono il fiume che traversa e le orme rosse che semina al suo passaggio, nella sua ricerca di calore.




Dicono che la Regina sia una strega, ma non è così. Non ne sa più della fattucchiera media, conosce i balsami e le tinture che alleviano e guariscono, i veleni che portano follia o morte. Cose banali, alla portata di qualunque donna che se ne intenda di erbe. Le differenze tra lei e quelle donne sono due: la prima è che lei è regina; la seconda è che lei ha un barlume di vero potere.

La Regina possiede uno specchio. Magico, naturalmente. Si protende verso il vetro, e gli rivolge una domanda che distruggerà la vita della sua figliastra. Non “Chi è la più bella?”, perché gli specchi che rispondono a quella domanda sono bugiardi o rotti. Lei chiede: “Cosa ne sarà del mio paese?




Quando la principessa ha sette anni, un boscaiolo la porta nella foresta. È bella, pur con i suoi modi scontrosi e scostanti (la dolcezza e la temperanza non erano tra le qualità che sua madre le aveva augurato), ammantata da sciamito e velluto.

Il boscaiolo ha un’ascia affilata assicurata alla cintura, e nello zaino nasconde il portagioie vuoto della Regina.




Sangue sulla neve. Morte. Distruzione. Fiamme. Il volto adulto della principessa, spietato.

La regina strilla e si ritrae violentemente, e quando i singhiozzi smettono chiama i suoi consiglieri, i suoi maghi. Racconta la sua visione, e quelli si guardano tra loro.

C’era stato un cattivo presagio, il giorno in cui era nata la principessa, la principessa tanto amata dal padre, che aveva fatto scorrere copiosamente il sangue di sua madre. Sköll aveva finalmente stritolato il sole tra le sue fauci e l’aveva ingoiato proprio mentre la principessa emetteva il suo primo grido, riempiendosi la bocca della linfa vitale della madre. Il lupo l’aveva rigurgitato qualche minuto dopo, non riuscendo a tollerarne il calore, come sempre sarebbe stato fino alla fine del mondo, quando avrebbe potuto ingoiare ogni cosa a suo piacimento, ma rimaneva comunque un cattivo presagio, e bambini nati sotto un tale auspicio non potevano essere altro che maledetti.

Il loro responso per la Regina è di utilizzare misure più drastiche del rinchiuderla in una torre, facendola diventare il fulcro di una ribellione o la fonte di pretendenti che rivaleggino per il trono.

Passa il tempo, ma alla fine riescono a convincerla della ragionevolezza della loro tesi.

La Regina vuole bene alla sua figliastra, ma il ricordo del volto nel vetro è ancora nitido, e quella non è la sua figliastra, ma un mostro.




Il boscaiolo ha i calzoni sbottonati, e sotto il suo corpo possente la principessa si dimena e strilla come un gatto randagio; una mano enorme le copre il viso, le preme la testa nel terriccio argilloso, l’altra cerca di dividerle le ginocchia bianche.

La principessa non è mai stata toccata così da un uomo: le mani del boscaiolo sono pesanti e violente, si insinuano in posti che solo le sue infermiere e le addette alla vasca hanno mai toccato prima. Il moccio le scorre nella bocca ansimante, e le sue stesse grida le invadono le orecchie con il loro squallore.

Un corvo osserva da un ramo sopra di loro, e ridacchia con cattiveria delle sue condizioni.




« Portami il suo cuore, di modo che io- di modo che possa essere certa che il fatto è compiuto. »

Portami il suo cuore, di modo che possa guardarlo e consolarmi al pensiero che almeno non verrà mai spezzato, almeno non la saprò mai in lacrime per amore, di modo che possa consolarmi al pensiero che il buon Dio accoglie i bambini piccoli nel suo abbraccio.

Portami il suo cuore, di modo che non possa tornare in vita.

Portami il suo cuore, di modo che possa conservare il suo amore.

Portami il suo cuore, perché è così che ci si occupa di creature di sangue.

Portami il suo cuore.





Il gracidio del corvo ha risvegliato qualcosa dentro di lei. È questo che dirà il boscaiolo. La ragazza risolleva il viso di scatto per guardarlo negli occhi, e il sangue del labbro spaccato unito ai capelli neri spiegati come seta lucente fanno sembrare chiara la sua pelle, più chiara della neve. Ha degli occhi talmente neri che, spergiurerà nel suo bicchiere, il bianco è completamente sparito, facendola sembrare una degli Splendenti.

Si strappa la spilla dal vestito, gli conficca con precisione la punta nella coscia, sull’arteria gigantesca, e la trascina nella carne. Quando lui si allontana, urlando un’imprecazione e promettendo di fargliela pagare, lei riesce a divincolarsi e a scappare, inciampando qua e là, nella foresta. Non appena lui inizia a rincorrerla si stacca la spilla, e il sangue comincia a sgorgare, all’inizio sottile e rosso, poi sempre più veloce e a fiotti, zampillante e quasi nero.

Riavvicina i lembi di pelle, fa delle cuciture veloci e abborracciate con il kit che porta sempre con sé in caso di ferite quando va a tagliare gli alberi.

Porta alla Regina il cuore insanguinato di un capriolo nel portagioie dalle rifiniture delicate, e spergiura che è quello della ragazza, perché nella sua mente, mentre spaccava le costole del capriolo con una rozzezza dovuta alla rabbia, lo era.




La Regina fa affumicare ed essiccare il cuore, e lo appende tra i bulbi d’aglio a uno spago di sorbo. Di magia non ne sa più di una buona fattucchiera, ma come bisogna occuparsi di creature fredde di sangue è risaputo, soprattutto presso i contadini che tanto spesso sentono la loro presenza.




« Chi è questa creatura? » la schernisce il nano mentre lei si rannicchia nell’angolo della stanza.

« Cos’è questa creatura? » sbuffa un altro, sprezzante.

« Ha mangiato dal mio piatto? » domanda il quinto, gli occhi scuri brillano di sospetto nel volto duro.

« Ha bevuto dalla mia tazza? » chiede il settimo mestamente – le tazze sono d’oro, e nessuna creatura apprezza veramente l’oro come un nano.

« È entrata in casa nostri, fratelli » dice il terzo, passando un dito sul filo dell’ascia. « Cosa ne facciamo di questa intrusa? »

Lei si getta finalmente per terra, come ha visto fare a cortigiani e servitori quando la collera coglieva suo padre. Non le è rimasto un briciolo di orgoglio: della veste di seta e raso non resta ormai che un paio di stracci che da tempo non sono più della sua misura, si è tagliata i neri capelli di seta quasi fino al cuoio capelluto quando ha scoperto che ci strisciavano piccole creaturine. Li supplica di risparmiarla e offre in cambio tutto ciò che le viene in mente.




La Regina trascorre lunghe ore nella camera che apparteneva alla principessa. Tocca i vestitini di seta riccamente colorata e di pizzo ancor più prezioso, costellati di aghi di pino per mantenere fresco l’odore. Accarezza i fianchi grigio d’asino del cavallo a dondolo, piange nella sua criniera. Bacia il cuore appeso in mezzo all’aglio; piange e dice che non avrebbe mai voluto farle del male, mai, solo che-

Neve sul sangue. Morte. Distruzione. Una figura che danza e strilla con ai piedi scarpette rosso fuoco. Il volto adulto della principessa, crudele, impietoso.

Solo che lei è regina. Il suo paese viene prima di ogni altra cosa. Il dovere prima del cuore; è legge anche tra i guerrieri che non rispettano alcun codice.

Il volto della principessa, rigato dalle lacrime.

Ma le sue notti sono dolci e senza sogni, ha la coscienza pulita. Queste cose, l’hanno persuasa i suoi consiglieri, talvolta sono il prezzo necessario da pagare.




Cucina, pulisce e spazza. Lava i piatti, impara a cucire, a tessere e a rammendare. Affila i coltelli, ascolta i nani quando sono ubriachi, chiassosi e esultanti al pensiero dei giorni di gloria in cui spaccavano crani e fendevano corpi in due con un colpo ben assestato, filtra l’oro dagli scarti, e scopre come usarli.

Impara a giudicare la qualità dell’oro e dell’argento con i denti e le unghie. Impara a distinguere un gioiello da un bel pezzo di vetro. Impara che la pietra ha un odore, e che i nani vedono meglio al buio che durante il giorno, quando la luce è troppo forte per loro.

Di giorno va a caccia, quando i nani cercano oro nelle profondità della terra. La carne che cucina non è sempre di una creatura dei boschi.

Sogna il sangue mentre cuce pezzi di cuoio pesante per farne cotte di maglia. Sogna il ghiaccio mentre affila i coltelli e se ne infila negli stivali e sulla cintura, e uno più piccolo tra i capelli mal tagliati. Sogna le cornacchie che si contendono un vasto campo di soldati morti mentre cucina carne che non appartiene né ai pesci, né ai volatili, né ad animali a quattro zampe.

Sogna di tornare bambina, di far dondolare la mano di suo padre mentre lui la porta a fare il giro degli sconfinati giardini della reggia, e si sveglia con il labbro rotto a morsi e gli occhi neri di odio e il cuore pieno di ghiaccio.




La gente del mercato diventa inquieta, comincia a pretendere provvedimenti dalle pattuglie armate quando sempre più persone attraversano la foresta senza più riemergerne. Esigono che i soldati proteggano il loro paese e la loro gente.

I soldati parlano tra loro di mostri, di donne morte che camminano nelle foreste e attraggono i loro amici tra gli alberi. Parlano di cadaveri decapitati o impalati.

La Regina tocca il cuore in mezzo all’aglio e va al suo specchio.




Il primo tentativo è un pettine lavorato così finemente che è impossibile resistergli: sa che ai nani piacerebbe rimirarlo, paragona derisoriamente la tecnica di realizzazione alla loro. La testa le sanguina a profusione quando glielo rimuovono.

Sa bene che non dovrebbe provare il corsetto – ma è passato così tanto tempo dall’ultimo bel vestito che ha avuto, veramente tanto, e non riesce più a ricordare quanto la sua matrigna si lamentasse e si sventolasse mentre le domestiche glielo legavano stretto. D’altro canto, non ricorda nemmeno le risate della sua matrigna per le imitazioni dei suoi rantoli ansimanti che le faceva dal letto su cui era seduta a guardarla, o di quando si chinava a strofinarle la guancia contro la propria, lasciandole cipria sottile color pesca sul viso bianco.

I nani tagliano i lacci e le fanno aria fino a che il suo respiro torna regolare e profondo, e le dicono di smetterla di comportarsi da stupida incosciente. Ha dimostrato innumerevoli volte di non essere idiota, a dispetto del suo retaggio. Perché persiste nel cercare di dimostrare il contrario?

Nel profondo del suo cuore ghiacciato, crede che la risposta sia che lei vuole morire, vuole che gli assassini di sua madre riescano, non ne può più di essere inseguita.

La mela – la vecchia che ha lasciato cascare il cestino stava mordendo proprio questa prima di scappare; la polpa rivelata dal pezzo staccato è bianca e succosa. Dà un morso alla metà intatta, sente l’amarezza della belladonna in un istante, e sta soffocando quando i nani rincasano presto dal lavoro, immaginando già quello che avrebbero trovato. Le fanno assumere un potente emetico, e lei vomita fino a che non le rimane più niente da buttare fuori se non bile screziata di sangue.

Due settimane dopo il fallito tentativo della mela, compare un uomo di cui ha un vago ricordo, e se non fosse stata distratta a massacrare il mercante grasso provvisto di una borsa piena d’oro quando lui aveva cominciato a borbottare a bassa voce, avrebbe riconosciuto nell’intonazione i primordi di un incantesimo, o si sarebbe accorta che le sue parole appartenevano a una lingua usata soltanto dagli eruditi dell’arcano, e gli avrebbe scagliato contro i suoi pugnali correndo come il vento.

È troppo tardi, e le imprecazioni che urla mentre si volta le rimangono conficcate in gola quando viene tramutata in cristallo.




Sono passati nove anni, e la principessa avrebbe sedici anni e sarebbe probabilmente fidanzata, se non già sposata. La Regina siede nella cameretta immutata, poggia le mani ordinatamente intrecciate sulla pancia come se la principessa fosse figlia sua e potesse ancora sentirla scalciare nel ventre vuoto.

Ora ha sogni agitati, pieni di morte onnipresente, e non ha il coraggio di guardare nello specchio.

Il mago che per primo le aveva parlato del cattivo presagio sotto cui era nata la principessa le ha dato la notizia qualche ora fa. La ragazza, la sua figliastra, l’unica figlia che avrà mai, è morta.

Non piange. Ha versato tutte le sue lacrime anni fa.

Il vento taglia, e ulula come un lupo, e lei si rammenta di una vecchia leggenda secondo cui le anime infelici si trasformano nel vento delle notti d’inverno, che urlano la propria furia e il proprio dolore.

« Yelena » bisbiglia, e spera che il nome tanto a lungo taciuto guiderà la sua figlia perduta a una qualche forma di pace.




Lui ha ventiquattro anni, la sua educazione si palesa nell’indole nervosa e nel viso dalle ossa sporgenti e dal naso aquilino, e il suo sorriso è imbruttito dall’impazienza.

Il suo cuore si è ghiacciato, e lei ha scoperto tempo or sono che l’unica cosa in grado di scaldarlo è lo scorrere del sangue, e la presunzione della sua gratitudine da parte di quest’uomo la lascia sbigottita e divertita, ma molto in superficie, perché il ghiaccio è spesso e lui non è nulla più di una vaga luce che tremola sul bordo dei suoi sensi, e forse neanche quello.

Che razza d’uomo desidera un cadavere per moglie? Un principe – perché solo un principe potrebbe permettersi uno stregone abbastanza competente da invertire il suo incantesimo. Un principe, ma a lei che importa dei principi? Lei era una principessa di un lignaggio ben superiore al suo.

Lui è infatuato. È debole. Non sente il sapore del sangue in bocca in ogni secondo della giornata, il suo cuore è troppo volubile per diventare duro come il diamante. È patetico, una preda debole che arranca con una freccia nel fianco, troppo stravolto per rendersi conto che presto cadrà in ginocchio e morirà.

Bene.

Lei fa ciò che sa fare meglio, e lo manovra come i tasti del pianoforte che la sua matrigna aveva nelle sue stanze. Nel giro di qualche settimana, le darà tutto. Qualunque cosa. E poi – beh, un uomo è pur sempre un uomo. Niente di più, che si consideri principe o povero.

Uccidere un uomo è piuttosto semplice, come lei ben sa. Una daga affilata al posto giusto, dove le vene e le arterie picchiettano cariche di vita. Una testa mozzata. Un pugnale al cuore. Gli cavi gli occhi, gli spezzi le gambe, ti assicuri che non possa più essere una minaccia, e poi lo finisci in tutta comodità. Non c’è bisogno di veleni, non c’è bisogno di falsa misericordia. C’è onestà nel modo in cui uccide, con una spada e un sorriso. Almeno di questo può andare cupamente fiera.

Proprio come lui ha intenzione di usarla, lei lo userà. Lui le darà il suo regno, il suo esercito, il suo potere.

Non ne può più di essere inseguita. Lei è sangue, e neve, e cornacchia e molto, troppo forte per lasciarsi fermare.




« Yelena » dice la Regina quando arrivano, lei con in pugno una spada insanguinata, lui con gli occhi sgranati e pallido dalla nausea. I corridoi rimbombano di grida, e sui pavimenti di pietra si scivola sul sangue, e il profumo di fumo addensa l’aria.

« Yelena » ripete mentre la sua figliastra – bellissima con quell’aria cenciosa degli Splendenti, letale più di ogni altra cosa – la raggiunge e le bacia la guancia con le sue labbra fredde. Salve. Addio.

« Siete invitata al matrimonio » dice, il tono distaccatamente educato, come se non fossero state combattute battaglie per arrivare a questo momento, come se intorno a loro il palazzo non stesse bruciando.

La Regina ride, perché non c’è davvero nient’altro da fare. Tutto ciò che ha visto nello specchio si è avverato, eccetto per un particolare.




Quando il matrimonio giunge al termine, il cadavere viene trattato con il rispetto degno di una regina, anche se il ferro le viene fuso nelle piante dei piedi, fin dentro le ossa, e da lì non verrà più tolto.

(Questo è per il ricordo di Yelena, per la bambina che non mancava di nulla, che era così felice, che la donna di nome Shrike con il suo vizio di impalare la preda non riesce a tollerare nemmeno i più vaghi ricordi che sono riusciti a sopravvivere ai suoi zelanti sforzi di cancellarli.)

La principessa svanisce dopo tre giorni di luna di miele, una vedova senza nulla al di fuori di quello che riesca a portare (che però non è affatto poco, visto che conosce le alterazioni specifiche da apportare ai vestiti per trasportare e celare quanto più oro possibile).

Lei è sangue, neve e corvo, e nel desiderio di sua madre, il lieto fine non era contemplato.

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Capitolo 9
*** Mr Fox ***


Nota: Mr Fox è una variante inglese di Barbablù. Come dice Silver Pard, è stata messa per iscritto per la prima volta nel 1821 sotto forma di nota esplicativa al discorso di Benedict in “Much Ado about Nothing” (“Tanto rumore per nulla”), Atto I, Scena 1: “Like the old tale, my Lord: it is not so, nor ’twas not so; but indeed, God forbid it should be so!”
Questa è una fedele traduzione italiana della fiaba, ed è anche quella che ho usato come riferimento generico. Ah, odio usare il “voi,” è probabilmente tra le cose che più detesto in assoluto, ma in questo caso l’ho trovato abbastanza calzante.
(per quanto riguarda gli aggiornamenti… er xD devo ammettere che sono stata parecchio irregolare con questa raccolta, i capitoli si sono succeduti completamente a caso, indifferentemente dopo qualche giorno o dopo qualche mese. I prossimi due – gli ultimi attualmente pubblicati – non dovrebbero farsi attendere tanto, ma in linea di massima se ne riparla comunque verso ottobre/novembre. Grazie a tutti per le belle recensioni “estive” <3)




Bold ~ Osa





Sapete, amor mio, che il vostro nome significa “volpe” su al nord? Signor Tod, signor Fox. Non è curioso? Potreste ripetermi da dov’è che provenite, amor mio?

Dall’incantevole contea dello Yorkshire, dove le colline sono verdi e il cielo sovente è grigio.

Allora è buffo che non ne foste stato a conoscenza.

Ah, ma ho vissuto diversi anni a Londra, e ho perduto tutto il verde e l’impudenza della mia contea natale. Era molto tempo che una fanciulla non sapeva di chiamarmi signor Fox.

Ma io ora lo so.

Infatti. E presto, vi chiamerete voi stessa signora Fox? Procreeremo una figliata, amore mio, una prole frignante e ululante? Danzeremo alla luce pallida della luna e mi guarderete combattere da ogni parte per il favore del vostro sorriso?

Non avrei nessun altro. Oh, come potrebbero solo sperare di paragonarsi al verde dei vostri occhi, al bel rosso dei vostri capelli – russet, amor mio, come le foglie d’autunno.

Ma loro, poveri cuccioli, vi crederebbero sprecata con uno come me. Perché voi siete giovane, e nel vostro sorriso dimora il sole, e mi ergo pallido e stinto accanto alla vostra pelle del colore delle pesche, ai vostri capelli del giallo intenso del grano maturo e alle vostre labbra piccole, rosse e dolci come una fragola selvatica. C’è del grigio tra le mie ciocche rosse-

Distinta, mio signore, vi danno un’aria distinta, quelle venature d’argento, e il vostro viso è affilato e bello come non mai.

-e di certo un giorno vi chiederete perché mai avete sposato me, e guarderete a quei giovani che vi stanno attorno con le bocche aperte, e penserete di elargire il vostro favore altrove.

Mai! Tali pensieri non vi si addicono, carissimo. Non siete forse voi il mio unico vero amore? I nostri cuori non sono forse legati stretti, più saldamente di tutti i filamenti del Fato?

Ah, vorrei potervi tentare a entrare in casa mia. Vi mostrerei delle cose incredibili. –Oh, ma arrossite?

No!

Non ci sono rose come il fiore delle vostre guance, amore mio. Arrossite, dico, senza il bisogno delle pitture e delle ciprie tanto apprezzate dalle vostre simili.

E con questo cosa intendete dire?

Solo che fin troppe giovani si perdono tra i cosmetici, nel tentativo di carpire e catturare, quando sarebbe più opportuno che mostrassero i loro visi per quel che sono. Alcune di loro, mia cara, sembrano addobbate per la guerra, e altre sono meramente assurde. Non hanno alcun bisogno di tali fronzoli; una donna non è mai tanto bella quanto nel primo rossore della giovinezza. Non capisco perché sentano il bisogno di nasconderlo.

Ma voi non siete una donna, amor mio.

E Dio non voglia che lo sia mai.

Invero, altrimenti io dovrei essere una vecchia serva. Dobbiamo imparare da giovani a celare le macchie della nostra pelle, le imperfezioni del nostro corpo, perché altrimenti come sapremmo cosa fare quando il primo rossore della giovinezza ci sfugge?

Io vi amerò fin quando le stelle cadranno dal cielo e non un attimo prima. Quando i vostri biondi capelli saranno grigi, io vi amerò ancora, e quando il vostro viso sarà segnato e rugoso come una mela avvizzita, io vi amerò, e quando il vostro corpo sarà rattrappito e vecchio, quando i vostri seni non saranno più fermi e si afflosceranno sul vostro petto, quando il vostro ventre sarà morbido e rilassato e i vostri occhi non avranno più quella sfumatura luminosa del blu dei fiordaliso, io vi amerò. Anche se ovviamente, sento di dover aggiungere, spero mi permetterete di amarvi anche prima di aver raggiunto quell’età.

Voi vi fate beffe di me. Non mi piace.

Lo dico con la massima sincerità, vi assicuro.

Ah, sono la donna più fortunata al mondo, credo.

No, io sono l’uomo più fortunato. Presto vi avrò tutta per me, e voi sarete mia. Un anello è sufficiente, credete, per dimostrarlo? C’è chi ignora cose così piccole. Forse una notte dovrei mordere e non più baciare, e scrivere che siete di mia proprietà in viola sul vostro lungo collo bianco, dove nessuno potrà fraintendere.

Che uomo sciocco, come se potrei anche solo guardare un altro quando ho voi. Dovrei essere io a marcare voi, caro mio, perché ci sono molte più donne che prenderebbero alla leggera un anello e proverebbero a derubarmi di voi, anziché il contrario.

Menzogne, mia cara, ma menzogne squisite. Non eravate forse la Lady Mary dai cento pretendenti, e io nulla più che uno tra i tanti?

Ah, ma eravate il più coraggioso e galante di tutti.

Per questo – un bacio. Un prezzo onesto, credo.

Provate ancora, mio caro; non era sufficiente.

Ancora, dite? Non sarebbe saggio, perché come altrimenti potrei mai riuscire a fermarmi?

Ho detto alcunché sul fermarsi?

Perfida donna, quanto mi tentate. No, signora Fox, per quello bisognerà prima camminare insieme sulla strada bianca, la lunga strada di gesso che porta a casa mia, dove io e voi saremo uomo e moglie. —Piangete, amore mio?

Non è niente, niente. Sono solo tanto felice.

Presto, amore mio, balleremo assieme, la prima danza del resto delle nostre vite, e voi sarete mia moglie e io sarò vostro marito. Ogni dì al risveglio sarò immerso nell’odore del vostro profumo e penserò a quanto sono fortunato, e sacrificherò tempo e bei gioielli costosi per voi nella tenue speranza che non distolgate mai il viso da me.

Ah, che meravigliose bugie che raccontate.

Bugie? Io dico solo la verità.

Vi annoierete di me. Quando mi gonfierò per i figli volgerete lo sguardo a donne esili e ancora belle, e invecchierò aspettando il vostro ritorno alla sera, e dimenticherete tutto ciò che amavate di me e cercherete un’altra.

Non è così e Dio non voglia che lo sia mai. Non ho forse già detto che vi amerò sinché sarò nella tomba, sinché il sole non si abbatterà nel mare e non si spegneranno le stelle? Adorerò la curva della vostra pancia, vi appoggerò la testa per sentire mio figlio che fa capriole sotto la vostra pelle. Per me non ci sarà altra donna, non guarderò mai più un’altra ragazza – a meno che non avremo una figlia; credi che avremo una figlia, una bambina piccola contro i cui pretendenti potrei ringhiare e ruggire? Li spaventerei così tanto che non avrebbero più il coraggio di guardarla senza permesso.

E un figlio?

In quel caso, gli insegnerei a cacciare – I vostri parenti non vanno a caccia, carissima?

Volpi, sì. Voi no? Avrei detto che era lo svago di ogni gentiluomo di campagna.

No, non credo. Tutti quei segugi per una volpe sola? È il ritratto della crudeltà, e come se non bastasse una crudeltà fine a se stessa, perché qual è il premio se non uno scampolo di pelliccia di volpe insanguinata? Non allontana le bestie dai pollai. No, non credo che lo insegnerò a nostro figlio. Ma gli insegnerò come farsi una casa tutta sua, sperando che un giorno abbia la stessa mia fortuna. Ma avremo sia figli che figlie, perché non avremo forse una figliata, non riempiremo la mia casa della nostra prole, che gridi e faccia capriole e riempia le stanze vuote di rumore?

Signora Tod; ha un bel suono. Signora Mary Tod, moglie e madre.

Un bellissimo suono davvero. Sorridete, amore mio, perché le vostre labbra sono al colmo della loro bellezza quando sorridono.

Ah, ma sono ancora più belle quando baciano.

Non posso negarlo. Ah, madre di tutti i miei futuri figli, vieni a farti stringere.




Quanto siete pallida, mia cara, proprio oggi, nelle più felici delle mattine.

Sì… sì, io… io ho fatto un brutto sogno.

Un sogno? Beh, i sogni indicano il loro contrario. Ma raccontatecelo, e la vostra dolce voce farà volare il tempo in un attimo fino al felice momento in cui saremo uniti.

Ho sognato… io… oh, non volete sentirlo; è stato un sogno sciocco e tremendo.

Ma assilla la vostra mente, mia cara. Di creto è meglio condividerlo. Non si dice lo stesso per i guai? E gli stessi invitati, poveretti, sono a corto di storie-

« Non è vero! Fino all’Apocalisse ne abbiamo, di storie! »

Ah, ma le state forse condividendo? No, sedetevi, avete già alzato troppo il gomito, signore, per raccontare una bella storia quest’oggi, nel giorno delle mie nozze. Continuate, amore mio, raccontateci il vostro sogno.

Ho sognato… ho sognato che l’altra sera decidevo di seguire la strada bianca, la lunga strada di gesso che porta a casa vostra. Smarrivo la via molte volte, ma alla fine la trovavo, la strada che io e voi divideremmo assieme.

Ed era di vostro gradimento? Spero sinceramente di sì, sebbene se così non fosse potremmo naturalmente trovarne un’altra.

Oh, avete una casa molto bella, con le sue alte mura e il suo bel giardino. Benché forse un po’ oscura, un po’ cupa.

Non importa; la vostra presenza la illuminerà in maniera incommensurabile.

E ho sognato che sul cancello c’era scritto: “Osa, osa.”

Ah, ma non è così.

E così prendevo coraggio – poiché devo confessare, ero di gran lunga più turbata di quanto sentivo di dover essere – e avanzavo nel cortile vuoto, e sopra il portone vedevo scritto: “Osa, osa, ma non osare troppo.”

Dio non voglia.

Il portone era aperto – quale mirabile ingenuità da parte vostra – e allora entravo, aspettando un vostro ritorno a casa da un momento all’altro, e rimanevo nella sala grande ad aspettare di accogliervi con dolci baci.

… Non è così, così non è mai stato, e Dio non voglia che lo sia mai. Forse un altro racconto, dolcissima, mia tortorella?

E nella sala vedevo un piedistallo, e sopra c’era intagliato: “Osa, osa, ma non osare troppo, o il sangue dentro il cuore ti si ghiaccerà di botto.”

Non è così, né così è mai stato, e Dio invero non voglia che lo sia mai.

Io… e adesso comincia il mio incubo, signor Tod-

Signor Tod? Non siamo forse fidanzati, non viviamo l’uno nel cuore dell’altra? Questa mattina siete terribilmente formale, amore mio. Di certo gli ospiti non si spiaceranno se mi chiamate come è vostro diritto.

Perché conoscete la mia curiosità, è di quelle che uccidono i gatti, e perciò non potevo aspettarvi nella sala, e andavo a sbirciare nelle vostre belle stanza per vedere – per vedere forse dove avremmo potuto mettere la camera dei bambini, o per speculare, magari, su dove avrei potuto intrattenere gli ospiti. Ho aperto una porta nella ala est – ma non riesco a rammentare quale – e ho visto che era piena di corpi, di scheletri e cadaveri, arti mozzati e occhi spenti, e c’era una ragazza, una ragazza con un viso come il mio…

« Che il cielo ci difenda da sogni così tetri! Può mai esser vero? »

Non è così, né così è mai stato, e Dio non voglia che lo sia mai, caro suocero! Che incubo tremendo avete avuto, carissima. Un’altra storia, una più leggera! Forse dovremmo suonare una canzone, un qualcosa di leggero e arioso che ci faccia battere i piedi e dimenticare tali cupe fantasie?

E ho sognato, che ero lì con la mano sulla bocca, che sentivo un grido, e tornavo di corsa all’ingresso, superando tutte le vostre belle stanze fino ad arrivare all’ampio balcone sopra la sala, da dove vi vedevo trascinare una donna per i lunghi capelli, per i suoi lunghi capelli scuri. Strillava come una banshee, e voi la maledicevate e ringhiavate, e io vedevo – vi vedevo sollevare la spada e tranciarle la gola di netto, e chiudevo gli occhi e pregavo mentre ascoltavo il suo grido gorgogliante e sospirante-

Nel vostro sogno, nel vostro incubo.

Sì, nel mio sogno, nel mio incubo. La smembravate e tagliavate e pugnalavate e piangevate amare lacrime di furia, scolpendo il suo corpo in tanti pezzi-

Lei – non è stato così.

E nella vostra furia la trascinavate via senza rendervi conto di aver lasciato la sua mano sul pavimento di marmo insanguinato, la sua povera mano bianca con l’anello di diamante-

Non è così! Né così è mai stato! E Dio non voglia che lo sia mai! Io-

Smettetela di ripeterlo! È così ed è stato così, perché posso mostrare la sua mano, signor Tod! Vedete?

Vedo perfettamente. Mi condannate a morte.

Mostro, mostro, è meritata!

Voi non capite!

Cosa c’è da capire, volpe, voi-!

Le vostre labbra tremano, vi sono lacrime appese alle ciglia, il vostro corpo rabbrividisce mentre vi stringo le braccia, voi mentite, amore mio. Guadagnatemi soltanto il tempo di scappare!

Mi avreste trattato così, mi avreste ucciso e vi sareste dilettato col mio corpo?

Mai! Un uomo potrà uccidere sua moglie per gradi, ma una volpe non ferisce la sua compagna. Lo giuro, lo giuro! Amore mio, non fatemi trascinare via da voi, non lasciate che mi uccidano!

È troppo tardi. I randelli vi hanno già spezzato le ossa; ho sentito lo schianto quando mio padre vi ha scagliato il suo sulla spalla, e mio fratello sulla gamba; uno degli ospiti vi ha colpito alle costole e gli altri vi girano attorno, perché sono tutti onesti cacciatori di volpi. Sono stati chiamati i segugi; adesso non potrei fermarli nemmeno se lo volessi. Voi non cacciate le volpi; voi non conoscete la sete di sangue che tinge gli occhi dei cacciatori di rosso quando si tratta di sangue.

Come strillate, come gridate, oh vi prego, oh vi prego, basta.

Oh, oh, vi prego, vi prego, non gridate più.




Mamma? Mamma, mi racconti di papà?

Papà non c’è più.

Non è questo che intendevo.

Lo so.

Mamma, perché i miei capelli sono rossi e non gialli come i tuoi?

Il tuo papà aveva i capelli rossi.

E i miei occhi?

Sì, hai anche i suoi occhi.

È per questo che non ti piace guardarmi? Mamma?

Sì, è per questo che non riesco a guardarti. Sei l’immagine di tuo padre; è una fitta al cuore vederlo così fedelmente ricreato.

Oh. Immaginavo di non piacerti.

Ma io ti voglio bene. Ti voglio bene più di ogni altra cosa. Adesso ricorda, mio dolce bambino, che se dovessi perderti, la strada bianca ti riporterà a casa.

Sì, mamma. “A fox went out on a shiny night, and he begged for the moon to give him light, for he’d many miles to go that night before he’d reach his den-O. Den-O! Den-O! For he’d many miles to go that night before he’d reach his den-O!”

Mamma? Non piangere, mamma. Lo sapevi che il nostro nome significa volpe in Scozia?







Altra nota: La canzoncina del bambino fa parte di una poesia di Neil Gaiman su questa fiaba, traduzione approssimativa: “Una volpe uscì in una notte brillante, e implorò la luna di dargli la luce, perché gli mancavano molte miglia quella notte per raggiungere la sua tana.”

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Capitolo 10
*** Hansel e Gretel ***


Witch ~ Strega





« Ci vogliono ammazzare. »

Hansel è più piccolo di sua sorella e questa conclusione lo inorridisce.

Gretel porta gli occhi scuri al suo viso smunto, all’intreccio di esili vene blu nella pelle, chiara come il latte, che aderisce strettamente alle ossa. « Ovvio » mormora.

« Ma non capisci? » insiste lui con l’energia isterica che gli raccomanderebbe di non sprecare, se lei stessa ne avesse la forza. « Papà e mamma, ci vogliono ammazzare! »

Gretel non dice nulla.

Lui rabbrividisce. « Non preoccuparti però » le dice, gattonando nel letto per rannicchiarsi vicino a lei e condividere il loro gramo calore corporeo, per evitare che l’indomani i loro genitori scoprano di non avere più bisogno di ucciderli. « Ho un’idea. »

Hansel è sveglio e intelligente; Gretel sa da sempre che lui è il pupillo dei genitori, che se non fosse per gli estremi della fame la mattina seguente porterebbero soltanto lei nella foresta. Lei somiglia troppo alla madre, amareggiata per qualcosa che ha perso o non ha avuto la forza di conservare.

« Che ci provino » promette Hansel con veemenza. « Che ci provino! »





Vi è potere, nel sangue. Vi è potere nel suo scorrere e rifluire nel corpo di una donna al richiamo della luna. Vi è potere nel sacrificio di un animale, nel passare un coltello sulla gola guardando il sangue che sprizza come da una fonte. Le rune scritte nel sangue sono forti come nessun’altra. E tra le cose che permangono, è il sangue a restare più a lungo di tutte.

Devi capire, non ho tempo per il bene e il male. Sono più vecchia della foresta che mi circonda; nel corso della mia vita le cose che erano buone sono oggi disprezzate, e le cose che un tempo erano proibite sono oggi la norma. Me ne infischio se le mie azioni sono ciò che un altro chiamerebbe malvagio. Se alle streghe importasse di quello che pensa la gente di loro non diverrebbero mai streghe.

Dunque vi è potere nel sangue. Questa è la prima verità.

La seconda è che certi sacrifici sono meglio di altri.




Strega.

Questa parola ti perseguita.

Ormai hai trentanove anni, sei una madre, una nonna.

Il mormorare cresce anno dopo anno che invecchi senza invecchiare, ed è vero che le rughe e gli incavi del tuo volto sono creati scaltramente con colle e polveri. È vero che ti premuri di nascondere le mani nel grembiule, o le impieghi in lavoretti da poco quando colta alla sprovvista. È vero che ti tingi i capelli per celare il fatto che non si sono mai ingrigiti. Se dovessi riuscire a raggiungere il doppio della tua età attuale, i tuoi occhi resterebbero acuti e neri come lo sono oggi.

E allora mormorano. Solo le mogli, per ora, meri pettegolezzi, nulla di più. Per ora si limitano a commentare che sembri giovane per la tua età, e che le tue mani non sono state toccate dai reumatismi, e che hai degli occhi ancora in grado di distinguere un piccione da un falco in volo da una lunga distanza.

Un giorno non lontano le parole si torceranno nelle bocche, diverranno bisbigli di eventi di quando tanto tempo fa eri una bambina e sei scappata barcollante dalla foresta, mano nella mano con tuo fratello e lacrime brucianti negli occhi. Le parole si torceranno, e le melanconiche considerazioni sulla tua giovinezza saranno frecciate mal celate sul fatto che non sembri invecchiare come loro.

Le parole si torceranno, e una su tutte verrà ripetuta.




I sassolini bianchi risplendono come argento alla luce. Hansel non lo mette in dubbio.

Sfodera un raggiante sorriso di gioia, i capelli chiari che la luna stinge al colore delle ossa. « Guarda, sorella » dice, indicando il loro sentiero di pietra d’argento. « Guarda come brillano! Saremo a casa prima dell’alba. »

Ah, e cosa succederà allora, pensa Gretel. Continueranno a provarci e riprovarci finché non ci riusciranno. Ma si augura comunque che i sassolini brillino lucenti, perché Hansel deve vederlo. Hansel deve capire ciò che gli ha tenuto nascosto.





Di tutti gli animali, l’uomo è il più grande. Dunque il sangue dell’uomo ha più potenza di ogni altro. E gli innocenti, il loro è il migliore di tutti.

Vedi il mio altare di ossa? Vedi quanto sono piccole? Ci sono anche quelle di mio figlio.




Parleranno delle tue pozioni e dei tuoi impasti. Parleranno del fatto che sai leggere e scrivere, un’abilità superflua e superiore al tuo rango, e si chiederanno dove hai imparato una cosa tanto pretenziosa. Parleranno di come hai salvato il figlio appena nato di Margery Little (e parleranno di come non sei riuscita a salvare Susan e suo figlio, anche se ci hai provato con tutta te stessa). Oh, se parleranno.

Strega.

Fingerai di poter sopportare le loro provocazioni, ma terrai a mente il fato di molte donne prima di te, che erano sagge quanto sei saggia tu, e ciononostante sono rimaste quando le persone che aiutavano si sono rivoltate contro di loro.

Penserai alla foresta, e alla casetta che lì attende una nuova proprietaria.




Per due volte tornano a casa seguendo le pietre. Per altre due volte vengono abbandonati nei boschi a morire.

« Perché? » insiste Hansel, gli occhi disperati e fuori di sé. Il pane non è più dove lo ha sparso, il loro sentiero è stato rimosso da uccelli affamati quanto loro.

« Meglio campare e avere altri figli che tenerci in vita a morire di fame senza mezzi di sostentamento » spiega Gretel.

Lui non la sente. Dà un calcio all’albero più vicino con furia, e poi, fissando il nulla, scoppia a piangere.





Non fare quella faccia scandalizzata. Ho preferito la mia vita a quella del mio figlio appena nato, è così terribile? Non lo sai quante donne muoiono di parto? Di febbre, di emorragia, di mille diverse complicazioni, solo per dare alla luce l’ennesimo marmocchio urlante dalle possibilità molto, molto labili di arrivare anche solo all’infanzia, figurarsi diventare adulto.

È stato puro senso pratico, ragazza mia. I tuoi genitori ce l’avevano, altrimenti non avrebbero cercato di uccidervi. Hanno semplicemente convertito il cibo che potevate mangiare voi in vita per loro; io ho convertito un fardello che sarebbe morto comunque nel potere sufficiente per salvarmi.

Mi sono detta, visto che la maggior parte della nostra specie acquisisce il suo potere con la venuta del sangue, di sicuro il sangue di un neonato innocente versato in una notte di luna piena deve averne ancora di più.

E avevo ragione.




Pareti di marzapane, vetri di glassa di zucchero e ciottoli di cioccolato, con mortaio di caramello e una patina di miele.

Un luogo così poco funzionale per una casa, un dispendio insensato di potere, e in verità non fosti sorpresa il giorno dopo, quando ti svegliasti con la testa pesante e scopristi che le pareti erano di pietra antica e il tetto semplice paglia. Una volta catturato il topo, l’esca per la trappola non serve più.

Ricordi che Hansel era nella gabbia mentre tu eri libera, e di aver fissato la strega con gli occhi vuoti, in attesa.




A Hansel non piace il modo in cui la strega guarda a sua sorella.

Gretel spazza, cucina, pulisce e non parla. Sente la strega rivolgerle la parola e la sente rispondere, e passano lunghe ore in cui Gretel non spazza, non cucina e non pulisce, quando parla con la strega.

Non gli piace il modo in cui gli sta cambiando davanti agli occhi, il modo in cui i capelli, prima così ordinati e legati in strette trecce da bambina, ora scarmigliati e aggrovigliati le si addicono, non gli piace il modo in cui le sue guance, così scavate e desolate, si stanno riempiendo di carne che la fa sembrare una bambina ben curata, una bambina che qualcuno ama, quando non c’è nessuno a badare a lei oltre alla strega.

Hansel ha paura. Sa che la strega desidera mangiarlo, ma non è di questo che ha paura. Ha paura del modo in cui la strega guarda a sua sorella. E soprattutto, ha paura del modo in cui sua sorella guarda alla strega.





Ho saputo cos’eri dal momento in cui ho visto i tuoi occhi. Noi della nostra specie abbiamo tutte gli stessi occhi. Rossi come rubini, rossi come il sangue da cui traiamo potere. I tuoi adesso sono scuri, ma hanno quel luccichio che dimostra che sei una di noi. Quando avrai vissuto a lungo e avrai superato la tua pruderie al sacrificio come me, avrai gli occhi rossi come i miei.

Pruderie, sì, questo è, mia schizzinosa ragazza. Un bambino ogni tre anni e saresti pari ai più grandi uomini con i bastoni e il vecchio latino (come se una lingua morta sia più potente di una viva, dimmi tu). Da dove hanno cacciato fuori quel potere vorrei proprio saperlo.

E naturalmente, devi avere cura a non rivelarlo mai. Agli uomini non piace essere usurpati. Bah, come se non fossero mai stati neonati strillanti attaccati al capezzolo della madre. Perché ci prendiamo pure la briga di darne alla luce non lo saprò mai, a meno che non lo si consideri l’accettabile rischio di creare delle figlie.

Un giorno lo capirai, come vedo questo mondo. Ce l’hai nel sangue, dopotutto.




La strega ti insegnò a leggere, scrivere e ragionare. Insegnasti queste arti ad Hansel una volta fuggiti, nonostante lui fosse un po’ infastidito dalla tua predisposizione. E sinceramente, che utilità poteva trovarvi? Sarebbe stato un falegname come tuo padre, cosa ci guadagnava a essere in grado di scrivere il proprio nome invece di scarabocchiare una semplice croce?

La strega ti insegnò i cicli lunari, le vecchie leggende e le erbe, e le sue parole erano di magia e potere. E lentamente, più l’ascoltavi, e più ricadevi nella routine disciplinata della sua vita; imparasti ad apprezzarla, e a rispettarla, e persino a cercare la sua compagnia, invece di evitarla.

Sapevi che ti stava accudendo. Non eri così stupida da credere che non notasse la differenza tra un osso asciutto e un morbido dito. Sapevi che stava semplicemente aspettando il giorno in cui avessi accettato ciò che eri e ti fossi affidata alla sua tutela, il giorno in cui avessi detto addio a tutto quello che eri stata quando avreste massacrato Hansel insieme.

Ma la lasciasti fare. La strega non credeva che il tuo unico scopo fossero il matrimonio e i figli. La strega pensava che valessi più tu che tuo fratello con i suoi capelli chiari e gli occhi azzurri – tu con il tuo corpo ossuto e le ginocchia sbucciate, con i tuoi capelli biondo pallido che andavano raschiati sulla testa e con i tuoi occhi neri con quel luccichio da strega.

Tuo fratello era in gabbia, e allora? Era sempre stato il preferito dei tuoi genitori. Non era forse arrivato il momento che capisse un po’ la crudeltà? Non era forse arrivato il momento che capisse che non tutti l’avrebbero amato per il suo sorriso smagliante e quegli occhietti azzurri?

Ma non gli auguravi la morte. Quello mai.




Hansel sa che sarà oggi. Il suo sotterfugio è stato smascherato, la strega gli ha afferrato il polso paffuto al posto dell’osso che le veniva porto.

Guarda sua sorella, ma lei è bieca e muta e ha gli occhi neri e profondi, a un passo dalla strega, a guardarle le spalle come un demonio dai capelli scarmigliati che la strega ha evocato come suo famiglio. D’un tratto, non la conosce.

« Prepara il forno » ordina la strega.

« Sorella! Sorella! »

Gretel lo guarda, e per un istante, un battito di cuore rubato alla sua vita, ha gli occhi coperti di sangue, rossi come l’alba del mattino in cui i loro genitori li hanno portati a sperdere per la terza volta.

Gretel lo guarda, e prende un respiro profondo.





Mi sono lasciata invecchiare; mi sono stufata del chiacchiericcio continuo della gente. E allora resto qui a riposare, e ogni due anni o giù di lì tramuto la mia casa nel dolcetto che hai visto il giorno in cui siete passati tu e tuo fratello. Mi porta i bambini, mi porta il sangue di cui ho necessità.

Certo, non è il massimo. Sono passati otto anni dall’ultima volta che un bambino è passato di qui, otto anni prima di te e tuo fratello. Ho dissipato i miei poteri per lo sforzo di rendere la mia casetta di marzapane per ciascuno di quegli anni senza ricompense, ma non ha importanza. Con tuo fratello li ripristinerò, li ripristinerò e ti insegnerò tutto quello che potresti essere.




Ti trasferisci nella casetta. I tuoi vicini sono in agitazione; al mormorare passato di bocca in bocca si è aggiunta quella parola che tanto odi. E allora ti trasferisci nella casetta e gli dai ragione.

Un pensiero fugace a tuo fratello, che ricerca con diligenza la verità nel vino. Un pensiero fugace a tuo figlio, che si prodiga in trucchi di magia al cospetto del re. Un pensiero fugace a tua figlia, al nuovo figlio che tiene in braccio. Un pensiero fugace alla schiera di tombe minute che appartengono a te, i tuoi piccoli che non hanno mai visto il loro primo compleanno.

Beh, una donna sa che quando si sposa deve lasciarsi alle spalle la sua vita. Stai solo ripetendo uno schema che hai già messo in pratica una volta.

Ci metti una settimana a pulire la casa da cima a fondo, un giorno intero per raschiare il forno. Rispolveri i libri della nonna, e cominci a leggere.




« Non so preparare il forno » dice Gretel, tenue e timida come mai in vita sua. « Ancora non me l’avete insegnato. »

La strega sospira, irritata, e la sposta per farsi strada.

Hansel coglie lo sguardo di sua sorella, e annuisce. Con la mente vuota, ci spinge la vecchia dentro.

Scappano dalla casetta al suono delle sue grida, Gretel accecata dalle lacrime, Hansel con le ginocchia molli dal sollievo.

Hansel guarda sua sorella, gli occhi rossi dal pianto, e l’abbraccia stretto, pensando che sia affranta perché ha ucciso qualcuno, anche se era una strega. Adesso che la strega è morta, Gretel tornerà a essere Gretel. Tutto il veleno che la strega le ha bisbigliato all’orecchio svanirà. Correranno a casa, e i loro genitori li accoglieranno festosamente per l’oro che la strega teneva chiuso in casseforti, come sapeva Gretel, e si rimetterà tutto a posto. Andrà tutto bene.

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Capitolo 11
*** Tremotino ***


Nota: Tremotino (Rumplestilzkin in inglese, Rumpelstilzchen nell’originale tedesco) è una fiaba dei fratelli Grimm abbastanza nota, credo, ma per chi non la ricordasse o non la conoscesse posto un link e un riassunto: la figlia di un mugnaio che si era vantato con il re delle capacità della figlia di filare oro dalla paglia, quando il re la costringe a dimostrarlo (pena la morte), si ritrova a fare un patto con una sorta di folletto, dandogli un anello e una collana e promettendogli il suo primogenito. Il re alla fine la sposa e lei partorisce un bambino; il folletto arriva dunque a reclamarlo, ma lei riesce a scucirgli un altro patto: se lei avesse indovinato il suo nome, avrebbe potuto tenersi il figlio, e così effettivamente accade (e Tremotino si arrabbia così tanto da fare una fine abbastanza truculenta, of course).




Name ~ Nome





Piangi e piangi, le tue lacrime e le tue pene non hanno fine, poiché all’autocommiserazione subentra la paura e alla paura la disperazione.

Fili.

La paglia si spezza.

La paglia si spezza.

La paglia si spezza.

Quel poco che regge non può essere attorcigliato al fuso.

Soffochi nella polvere, nella paglia, nell’impotenza. Morirai.

« Perché piangete » dice qualcuno.

Apri gli occhi, offuscati dalle lacrime, incontri gli occhi più strani e accesi che tu abbia mai visto. Non potresti descrivere il loro proprietario nemmeno se ci provassi, sebbene tu lo veda con una tale chiarezza che ora che c’è lui il mondo è un dipinto incompiuto. (Il suo aspetto dovrebbe far ridere? Ce la fai a ridere? Non ne hai voglia.)

« Il Re mi ucciderà » dici, con la semplicità dell’autocommiserazione.

« Siete un gioiellino, incredibile che un uomo sprechi una tale bellezza. »

« Vuole più l’oro di quanto voglia me » dici. Non hai le parole per descrivere cosa questo significhi per te; non sai di cosa essere più spaventata – della morte o dello sguardo senza nome che non comprendi. « Vuole che fili oro da tutta questa paglia, ed è impossibile! »

Le parole si accalcano sulla tua lingua, spiegazioni come: egli ha sangue antico, sangue che brilla, di un qualche tempo e luogo remoto, e per quanto sia diluito, crede di riconoscerci qualcosa in me; ricorda che con delle foglie si può fare un sacco pieno d’oro, ma non che tornano a essere foglie al mattino dopo. Lui ti guarda e le dimentichi.

« Come vi chiamate, gioiellino? »

« E-Elise » mormori. (Sciocca ragazza, ogni storia non fa che raccontarti del potere dei nomi.)

« Elise? Elise. Non credo sia adatto a voi. Avete bisogno di carpire più forza da un nome. Cessate il vostro pianto, mia cara, il compito che vi hanno affidato non è una gran cosa. »

« Lo sapete fare? Sapete filare l’oro dalla paglia? » Ti prudono le dita, insanguinate dalla paglia scheggiata.

« Sì » risponde, sorridendo, aggrovigliando in forme strane il tuo tormento tra le sue lunghe dita.

« Non vi credo » dici. Ti trema la voce (è speranza, è disperazione?). « Voi mentite. »

« Io non mento mai. Dico sempre la verità. Una di quelle due cose è vera. »

I tuoi occhi non si lasciano sfuggire le sue mani, le sue belle mani agili, tra le quali a una certa luce la paglia risplende d’oro. « Mi ucciderà se domattina non trova l’oro. Darei qualunque cosa per vivere » mormori.

« Qualunque cosa? » dice, sorride. « Mia dolce, sciocca ragazza, accorta con le parole. »

(Troppo tardi. In questo momento temi lui più di qualsiasi sovrano.)

« Concedetemi il vostro medaglione (concedetemi la vostra grazia) e per voi filerò l’oro dalla paglia. »

Ti senti piegare le ginocchia dal sollievo (tutto qui, tutto qua quello che vuole?). Slacci il medaglione, un regalo di tuo padre, donato in tempi migliori, e glielo concedi.

(Adesso sei legata a lui – o lui è legato a te – così come se avessi mangiato un frutto dalla sua mano.)

Lui lo tocca, famelico, come se valesse quanto una stanza piena d’oro (quando se lo appende al collo dimentichi il volto di tuo padre, il tuo amore mai sopito per lui che è sopravvissuto a tutte le sue vanterie, e a tutti i guai, e a tutto il dolore che ti hanno causato.)

Il telaio gira e gira e il filo risplende d’oro.




Maledici il Re e di nuovo esamini la stanza in cerca di una via di fuga, le morbide mani da filatrice insanguinate dalla pietra, dalla paglia.

Allora ti siedi, e aspetti, finché non senti lui, il tuo nome come panna sulla lingua: « Elise, mia Elise, come mai le lacrime? »

Tu dici, con gli occhi rossi, la faccia bagnata, la voce che trema di furia e impotenza: « Quando gli basterà? »

Lui dice: « Elise, innocente Elise, il cuore di un uomo ha finitezza, la cupidigia trabocca. Non gli basterà mai. »

Tu chiedi: « Che farò? »

« Concedetemi il vostro anello (concedetemi la vostra grazia), mia dolce, recidete i legami col passato e concedetemene i fili, e filerò e intreccerò e vi tesserò un futuro d’oro brillante. »

(Ti dimentichi di chiedere a te stessa o a lui se è quello che vuoi.)

L’anello di tua madre, e della madre di tua madre, una cosetta insignificante che vale più per il ricordo che per l’argento con cui è stato lavorato.

Lui si prende il tuo ricordo e se lo infila al dito più piccolo – senti tua madre che lascia andare i suoi legami di sangue e ti abbandona, e di colpo non sapresti dire perché perderla ti abbia mai stritolato il cuore.

« Ricordate, tre è un numero magico, e il sangue del Popolo delle fate è debole se troppo lontano dalla fonte. »

« Sì » dici.

« Comprendete? Vi tesserò un futuro, ma dovete darmi il modello da seguire. »

« Comprendo » rispondi. « Ho magia sufficiente per tre notti. Lui deve giungere a quella conclusione da solo. »

« Brava » dice. (Il tuo cuore si gonfia, ti riempie il petto, così grande da starti scomodo – così facile da ferire. Quanto è semplice farti piacere.)

« Dopo sarò libera? »

« Le nostre definizioni di libertà non coincidono » dice, « perché siamo creature molto diverse, io e voi. »

(No. No, tu non sarai mai libera.)

Il telaio vortica e vortica e il filo risplende d’oro.




« Non ho nient’altro da darvi » dici l’ultima notte, la terza notte, il che è lungi dalla verità. Hai la stessa valuta di ogni donna. Ci sarebbe anche il sangue, e il sangue versato aumenta sempre il valore di qualcosa, o così sembrerebbe a volte.

Se fossi saggia, ti offriresti, invece che lasciargli chiedere – ma sei giovane, una bambina che non è mai stata innamorata ma ci crede lo stesso, e non ce la fai a obbligarti.

Immagini tutte le cose che uno della sua razza potrebbe chiedere. Immagini: il cuore del tuo primo vero amore in uno scrigno di legno. Il tuo cuore, la sua rottura o il suo sangue. La tua memoria. La tua giovinezza. I tuoi ultimi anni. La tua voce. Il tuo udito. La tua vista. Il tuo corpo è l’ultima cosa che potrebbe chiedere. Eppure fai scegliere a lui.

Lui ti guarda, arriccia le labbra. Il tuo nome è panna nella sua bocca, ma nelle dosi giuste, tutto è veleno.

Si avvicina. « Concedetemi la vostra creatura » sussurra. Senti la sue parole sulla pelle. « Il vostro primogenito, maschio o femmina, non importa, chiedo soltanto che mi diate la vostra creatura. »

« Io – sì » accetti, sommessa e debole come un gattino appena nato. « Ma – potrei non averne mai » mormori, lo sguardo sulla sua gola per evitare quegli alieni occhi smeraldo.

Lui ti stringe la testa tra le mani, i palmi soffici (ovvio, lavora con la lana come te), rivolge il tuo viso al suo. I suoi occhi incontrano i tuoi e ti divorano. Brillano, risplendono, famelici in un modo che non conosci. (Pensi che ti voglia, e sai che per metà è vero.) « Ne avrete » ti dice, un dato di fatto.

(Tua madre ha travagliato e travagliato per farti venire al mondo; eri la sua terza figlia e la sua prima. Ma lui dice che ne avrai e non c’è posto per il dubbio.)

Sospetti di aver frainteso (speri di aver frainteso). « Ve ne occuperete voi? » chiedi, con un tono che avrebbe voluto essere malizioso e risulta invece soltanto curioso.

Lui ride. Lo senti nelle ossa. Pensi, malinconicamente: (se io potessi scegliere) saresti il primo. Pensi, sensatamente: non posso scegliere. Pensi, saggiamente: ho molto da temere da te.

« Vostro figlio » ripete.

(Tieni più alla vita che a un ipotetico figlio. Come chiunque.) « Sì » dici, la voce un po’ più forte (vivrai, tu vivrai, e a costo di un qualcosa che potrebbe non venire mai).

« Ancora » incalza. « Una terza volta vi chiedo – mi darete la vostra creatura in cambio del lavoro di stanotte? Lo giurate? »

« Lo giuro. »

« Chiesto tre volte, per tre volte accettato » dice, si siede, e comincia a filare.

Sei stata sempre una sciocca.




Ti sposi con dei fili di paglia d’oro intrecciati ai capelli scuri, una corona di foglie. Le tue mani odorano di fumo di legno da quando hai trascinato le dita nelle ceneri fredde del telaio.




Il tuo nuovo marito ti chiama con nomignoli come cara, tesoro e amore, ti chiama moglie come per ricordarlo a se stesso.

Credi che non sappia il tuo nome. Se anche lo sa, non ne accarezza mai le sillabe, che non fluiscono da lui come seta, come se la loro stessa esistenza fosse acqua per una gola riarsa.

(Ma nel buio della tua notte di nozze – ed è sul letto nuziale che sei sdraiata, anche se le candele proiettano ombre strane e rendono tutto ancora più alieno di prima – il tuo nome cola come miele dalla sua lingua.

Non è doloroso come immaginavi, quanto ti aveva detto Greta, l’amareggiata Greta che è cresciuta tanto in fretta e tanto bruscamente, eppure ti mordi il labbro e ti si riempie la bocca di sangue, mentre il tuo nome ti viene restituito, panna che si mischia al rame.

La notte successiva è diversa, ma non è sempre così che va?)

Ti sveglia il russare di tuo marito al tuo fianco, la fronte corrucciata come nel tentativo di ricordare qualcosa mentre è intrappolato nei sogni. Lo lasci lì e cerchi le camere riservate a te, linde e nuove, che odorano di cera d’api. Ti lavi con l’aceto e rimiri un’alba solitaria.

(Concedetemi la vostra creatura. Le genti del Popolo delle fate, del Popolo brillante, non si riproducono con facilità o bene.) Nulla cresce nell’aceto, dicono le vecchie mogli.

Appendono il lenzuolo sporco di sangue alla merlatura come un trofeo.




Il tuo corpo ti tradisce, si velocizza e cresce. Maledici la tua fertilità e ti domandi cosa trattenga tuo figlio quando i tuoi fratelli e le tue sorelle sono riusciti a restare nel grembo di tua madre solo il tempo di qualche nome indeciso.

(Il vostro primogenito, maschio o femmina, non importa, chiedo soltanto che mi diate la vostra creatura.)

Odi la corona che non indossi ma senti comunque sul tuo capo. Odi i vestiti, odi il velluto e il broccato che ti schiacciano, odi le domestiche e il modo in cui ti guardano la vita, odi i sogghigni dei nobili, odi la consapevolezza che per quanto ti pieghi e inchini non è mai abbastanza – sbagli la postura, come mangi, come parli, come cammini, niente di quello che fai è mai abbastanza – stanno tutti aspettando che ti spezzi.

Non darai loro la soddisfazione. Raddrizzi la schiena, ti tieni stretto il tuo nome e te ne stai da sola, come sei sempre stata – sempre, a eccezione di tre notti.

Odi il fatto che stai imparando la crudeltà.

(Ami il fatto che stai imparando la crudeltà.)

« Un gioiellino » ti chiama tuo marito (ma non lo dice nel modo giusto – concedetemi la vostra grazia, mia cara, mia preziosa, dolcissima gioia.) « È un gioiellino ma bello come può essere bello un falco, sa essere brutale quando vuole, e letale senza il cappuccio. Fortuna » scherza, « che ce l’ha sempre. »

Lui stima la tua crudeltà; la chiama maestosità – per lui, è come un segno che siete pari, che ha scovato una regina nata, senza averne alcuna idea. Per lui, gli altri uomini lo invidiano per la tua mancanza di smancerie, e forse è così, ma trovano il tuo freddo ritegno di gran lunga più inquietante.

Abbozzi un sorriso stretto (se ti vedessi in uno specchio lucidato forse lo riconosceresti) e gli lasci credere che sei cieca, perché è vero, ma stai imparando ad ampliare la vista giorno per giorno.

Non odi tuo marito (non te ne importa abbastanza da sprecare una tale emozione per lui). Così ti sta bene, ti conviene. Se lo odiassi, sarebbe molto più difficile farti amare da lui, e tu sei determinata a farti amare da lui, o almeno a fargli vedere che sei utile. (Ti occupi dei suoi registri, dei suoi libri, puoi conservare le sue ricchezze invece di accrescere. È un buon patto. Chiedi così poco in cambio, in fondo, soltanto il suo cuore, il suo cuore inesperto che non saprà la differenza tra l’amore e l’affetto necessario.)

« Sei crudele, mio bell’uccellino » dice lui, canzonatorio, perché non sa la verità delle sue parole. Crede che tu stia imparando ad amarlo (non gli passa per la mente che sei tu l’insegnante). Crede che il figlio che porti in grembo ti addolcisca, ti intenerisca il cuore (così è più facile dividerlo in pezzi e gettarlo via) quando in realtà è il contrario. Un cuore fievole non serve a nessuno – non vince le domestiche, non protegge i bambini.

Abbassi le ciglia, mormori: « Sono solo ciò che voi avete fatto di me. »

Sotto la tua mano, il bambino che hai già perso scalcia e si volta.




« La maternità è adatta a voi » constata. « Vi viene naturale. »

Tu culli tua figlia, soffice, calda e vulnerabile, tua figlia con i suoi occhi accesi. (Quanto hai riso la prima volta che l’hai vista – una figlia femmina, a lui non dispiacerà più di tanto la perdita di una figlia femmina – non sapevi che il suo peso tra le braccia, il suo morso al seno avrebbero sciolto il tuo cuore di pietra come purissimo oro.)

« Mi dovete una vita » ti rammenta gentilmente, leggendo i tuoi pensieri.

« Non la sua. »

« Sì, la sua » dice. « Me l’avete promessa. Tre volte me l’avete promessa. »

« Avete chiesto che vi dessi una creatura. » (E ve l’ho data, non lo dici, non puoi riconoscere l’evidenza che si palesa sin dagli occhi di tua figlia.)

« Furbetta » dice, divertito. « Non provate a sfidare me ai giochi di parole, mia cara. »

Ha sempre avuto i denti così affilati, così lunghi?

« Vi prego » implori, ricordi l’avidità con cui guardava le tue lacrime, come se volesse leccartele dalla faccia per assaporare il tuo dolore. Le lasci cadere (debole, che scambi le tue lacrime per debolezza alla maniera degli uomini).

« Rinnegate il nostro contratto » dice, la voce che si fa fredda, tagliente, una daga di ghiaccio in un giorno d’estate.

« No- » dici (sì, dici), pensando agli occhi di tua figlia, accesi e pieni di luce. (La odi, la ami – ma è tua e questa è l’unica cosa che conta.)

« Elise. » Seta nella sua bocca. « Dov’è il vostro coraggio, la vostra forza? I vostri vestiti di velluto hanno annegato tutto ciò che eravate? Che cosa avete da temere da me, io che vi ho aiutato in cambio di nient’altro che un anello, un medaglione e la vostra parola? »

« Vi darò- »

« Qualunque cosa? Mia dolce, sciocca ragazza, sono quelle le parole che ci hanno portato qui. »

« Oro, argento- »

« Paglia? » Ride.

« Vi prego, chiedetemi qualcos’altro, una cosa qualunque, tutto tranne mia figlia. »

« Mia figlia » la corregge. « Mia, perché avete promesso, avete giurato, e un contratto stipulato tre volte non va infranto. »

« Mi portate via l’unica cosa che è mia. »

« Verranno altri bambini. »

« Ma saprò di averla persa. Non voglio sostituirla con altri bambini! Lei non può essere sostituita! »

« Sh, sh. Perché combattete tanto? »

« Voglio tenermi la mia piccola. »

« Non per la paura di cosa vi farà vostro marito quando troverà la culla vuota? Avete imparato ad amarlo, Elise, temete la sua delusione? »

Sputi sul pavimento, torni a essere una contadina. « Questa bambina » dici. « Questa bambina è mia. La amo, non combatto per lei che per la sola ragione che è mia. »

« Brava » commenta, ma il cuore stavolta non ti si gonfia, non si fa più toccare se non dalla figlia inquieta tra le tue braccia. « Vi propongo un patto. »

« Basterà un nome » dici, impotente. (Il cerchio si chiude, punto e daccapo ti ha portato il telaio.)

« Ah, precisamente. Se saprete chiamarmi con il mio vero nome tra tre notti, potrete tenere la bimba. »

(Le genti del Popolo delle fate non hanno nomi umani.)




È piccolo, lui? Credi sia piccolo, ma forse la tua memoria lo ha rimpicciolito per provare a diminuirne la minaccia. Lo dividi a pezzi, ne descrivi ogni segmento con tutta la compiutezza di cui sei capace e speri che messi insieme abbiano senso compiuto. Ha gli occhi accesi, tanto accesi. Non li scambieresti mai per occhi umani. Ha i capelli neri come la notte, lucidi come l’ala di un corvo, e fini come i petali di un soffione, con lineamenti affilati e selvaggi.

I tuoi messaggeri e le tue spie ti guardano con sorrisi indulgenti e forzati. Quelli di lignaggio basso (il tuo lignaggio) ti guardano con pietà, pensano che i tuoi ricordi titubanti appartengano a una ragazza innamorata, che la memoria e la perdita hanno fatto di una cosa ordinaria qualcosa di straordinario (ricordano che avevi una vita prima che accadesse tutto questo). Tu non sai cosa pensino i nobili (cosa pensi tuo marito quando glielo riferiscono). Non ti importa.

« Scoprite il suo nome » dici. « Vi ricompenserò. »

Uno per uno ricordano che hai sangue che brilla, che dalla paglia sai filare oro che non si tramuta in pula alla luce del giorno (ricordano che il telaio è bruciato, ma sono abbastanza saggi da credere che la magia non risieda nello strumento).

Se ne vanno via, in ogni angolo del regno, riportano nomi che nella tua bocca non sanno di nient’altro che di nomi.




« Non mi chiamo così. »

« Non mi chiamo così. »

« Non mi chiamo così. »




« Mia Regina, ho trovato, credo, l’uomo che cercate. »

« Il suo nome? Ditemi il suo nome! »

« Mia Regina, l’ho visto cantare, ma in una lingua che non conoscevo, anche se sono pratico di una dozzina di lingue o più. Mia Regina, se il suo nome era tra quelle parole non saprei ripeterlo. »




« Qual è il vostro nome » dici, la mano sul suo polso, la tua voce un bisbiglio implorante.

Lui ride. Ti bacia, i denti aguzzi contro le tue labbra soffici, e non trasalisci. « Mi congratulo per la vostra arguzia, ma non crediate di potermelo vincere con il vostro corpo, per quanto incantevole. Perciò lasciatemi, bambina, e mantenete la vostra dignità. »

« Ho inviato messaggeri a frugare la terra in lungo e in largo. Ho invitato maghi e streghe e chi semplicemente fa affari con la vostra razza. Ho imparato a memoria il censimento. Vi ho detto tutti i nomi a mia disposizione, dagli antichi ai moderni, dai più usurati ai nomi che ho inventato io. A ciascuno avete detto: “non mi chiamo così.” »

Stringe tua figlia tra le braccia, la culla con delicatezza. Lei fa per toccarlo con le sue minuscole mani, la tua parte migliore, e la sua perdita è in agguato, come un baratro sotto i piedi. « Prendetela, dunque, se dovete » cedi, parole di veleno.

« Un bambino ha bisogno di una madre » dice lui, pigramente.

Nel tuo petto vuoto, il cuore come il nocciolo una pesca rinsecchita crolla, si ferma, si dimena per ricominciare a battere.

« Avete imparato ad amarlo, vostro marito, l’uomo che vi avrebbe ucciso se non foste riuscita a filare oro dalla paglia? »

« Lui mi ama » dici semplicemente. Non con orgoglio, anche se ti sei impegnata tanto perché fosse tale.

« Credete che questo basterà a proteggervi, contadina che non può più filare? »

« Forse » mormori, ma hai gli occhi sul viso di tua figlia.

« Cosa vi lega a questo luogo? »

« Non ho legami » gli dici. « Nessuno all’infuori di mia figlia. Non ricordate? Vi ho concesso i legami del mio passato e li avete recisi, ma non mi avete dato i fili del mio futuro con cui rimpiazzarli. Ci avete solo tessuto qualcosa da farmi calpestare. »

Il tuo ciondolo al suo collo, il tuo anello alla sua mano, tua figlia fra le sue braccia. (Pensi che ti voglia, e sai che è vero.)

« Allora Elise, mia dolce Elise, ricordate cosa mi avete chiesto la seconda notte? Vi ho detto che le nostre definizioni di libertà erano diverse, ma non più di tanto. Lasciate che ora vi dia la libertà, la possibilità di scegliere come preferite. Nella vostra lingua si può dire che il mio nome sia Tremotino. Ora che potrete tenere vostra figlia indipendentemente dalla vostra scelta, venite con me o restate, se volete – ma fate come voi volete. »

« Lasciate che vi dia anch’io la libertà dal nostro patto » dici. « Il mio nome è Elfriede. »

(Dietro di te, un regno di paglia.)






Nota della traduttrice: So. Questo potrebbe essere l’ultimo aggiornamento alla storia. Qualche anno fa Silver Pard aveva detto di star scrivendo un capitolo sul Pifferaio Magico, ma non aggiorna le sue storie da un annetto (due, su fanfiction.net) e questa rivisitazione di Tremotino è datata al 31 gennaio 2011.
La raccolta in originale non è indicata ufficialmente come completa, e forse un giorno Silver Pard la rispolvererà. Fino ad allora, la segnalerò come incompiuta, anche se quest’ultima storia sembra stranamente adatta a chiudere il cerchio, con una fine che sa di fine – di lieto fine, addirittura, che per una raccolta che si è ripromessa di ribaltare il concetto di lieto fine fiabesco è dire tanto. Con una protagonista forte che è libera di trovare la propria felicità come e dove meglio crede, con un co-protagonista maschile che per la prima volta le chiede cosa vuole lei e lascia che sia lei a scrivere il suo lieto fine.
Dal momento che questa è potenzialmente l’ultima storia, nei prossimi giorni potrei dare una sistemata all’intera raccolta (nel frattempo ho ritoccato la presentazione), e colgo l’occasione per ringraziare tutti i lettori e i commentatori che hanno seguito questa traduzione di Hall of Mirrors nel corso degli anni, e anche tutti quelli che sono passati solo di sfuggita e possono avervi trovato qualcosa. Era una di quelle storie che avevo cominciato a tradurre solo per me, perché mi piacciono le fiabe e mi piacciono le riletture moderne che non sentano il bisogno di essere altezzose o politically correct, e sono contenta che altri abbiano apprezzato.
Alla prossima ;)
youffie

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