Lumache alla vaniglia

di MrsGreyC
(/viewuser.php?uid=214265)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Primo incontro ***
Capitolo 3: *** Stringimi forte ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Lumache alla vaniglia

Image and video hosting by TinyPic


Prologo

 
Da qualche giorno mi sono trasferita a Parigi, quella che in realtà è la mia città natale. Alla mia nascita, i miei genitori si erano appena appartati in Italia, a causa del lavoro di mio padre, per cui sono cresciuta tra le affollate strade di Milano. Sono abituata a tutte quelle persone colte, in abiti eleganti, che corrono qua e là senza sosta, sempre con l’agenda piena. È uno stile di vita che ammiro, in maniera speciale la passione che viene impiegata nel fare attività di ogni genere.
La mia adolescenza si rivelò piuttosto frenetica. Dati i progetti di mia madre, fui costretta a studiare arte e letteratura per cinque anni. Lei ha sempre desiderato che continuassi la sua carriera e diventassi una wedding planner o quello che è. Ma ad essere sincera dell’arte non me ne fregava un cazzo. E così, dopo cinque lunghi anni passati a una facoltà di letteratura classica, decisi di abbandonare i progetti di mia madre e dedicarmi alla medicina.
Io volevo diventare come mio padre, un medico. Il mio sogno è quello di aiutare coloro che soffrono. Nel particolare ho sempre voluto dedicarmi alle malattie dell’infanzia. Dopo la morte di mio padre l’ho giurato a me stessa: avrei donato la mia vita agli altri.
Mio padre era un famoso medico che, a quanto ne so, salvò la vita di molte persone. Parlo al passato perché un giorno partì come volontario in Africa, per aiutare i sempre più numerosi feriti che affollavano la regione, ormai devastata dalle guerre.  Tuttavia, nella sua eroica impresa, restò vittima di una cospirazione.
A volte, quando sono sola, metto la testa sotto il cuscino e lo penso. Quando ero bambina e avevo paura che i mostri venissero a prendermi, lui mi portava a letto con sé e mi diceva di mettere la testa sotto il cuscino e di chiudere gli occhi. Poi mi prendeva la mano e la scaldava del suo affetto.  Solo così nessuna ombra mi avrebbe fatto del male. Ah, quanto vorrei che fosse ancora al mio fianco…
Mi considero “abbastanza” carina. Porto una 40-42, che in alcuni periodi di maggiore rotondità mi strizzo addosso, pur di non ammettere di aver bisogno di una taglia in più. Ho un sedere sodo, un seno piccolo ma che riscuote un discreto successo, i capelli scarmigliati di un bel rossiccio,  gli occhi color sabbia con qualche sfumatura di verde e, ahimè, lentiggini. Lentiggini  ovunque!
Non sono mai stata una bellezza da copertina, di quelle che fanno voltare gli uomini per strada con lo sguardo da “Wow, che bella ragazza”. Né una di quelle che si concede solo ai veri principi azzurri. Però, appena superata la maledetta adolescenza, ho capito che potevo piacere. Ho sempre pensato che la bellezza fosse importante.
La bellezza serve alle donne per essere amate dagli uomini, mentre la stupidità serve ad amarli.

Il mio trasferimento a Parigi è stato approvato da tre mesi. Ho firmato un contratto per un appartamento in affitto presso la splendida Tour Eiffel che divido con la mia migliore amica Monique, una bellissima biondona con gli occhi castani da cerbiatta e quelle gambe kilometriche che fanno impazzire gli uomini. Lei è bella, ricca, intelligente e popolare. Tutto ciò che ogni ragazza vorrebbe essere: perfetta. Ed era tutto il mio contrario. A Monique piace divertirsi e affrontare la vita con allegria e ottimismo, superando i momenti difficili con gli amici. Ed io, invece, sono più un tipo solitario che si diverte leggendo un libro o sorseggiando una buona tazza di tè caldo.
-Non sarai mai come lei, Janet!- al diavolo Monique e la mia vocina interiore che non fanno che ricordarmelo. Ma-non-importa. Al momento l’aspetto era irrilevante. E ancora più irrilevante era trovarsi un ragazzo. SOPRATTUTTO trovarsi un ragazzo.
Dopo una serie di brutte esperienze, avevo deciso di lasciar perdere. Avevo la grandissima capacità di attirare gli esemplari della specie detta “maschile” (se così si può definire dati gli scempi che si trovano lì fuori) più assurdi. Ero passata dal tizio apparentemente intellettuale e tranquillo che si rivelò poi un sadico fissato con il bondage e tutte quelle robacce disgustose, a quello che sta’ con te solo per soddisfare i suoi bisogni senza provare nulla.
Avevo lasciato Marco dopo circa tre anni di complicità. Quel lurido bastardo mi lasciò per stare con Marika, la donna da amare.
Una sera, nel pieno della mia relazione, se così vogliamo chiamarla, passai l’intero pomeriggio a restaurarmi in centri benessere per lui. Quella sera, avevo intenzione di proporgli una decisione concreta e dividere un appartamento.
Ci incontrammo in un elegante bar chiamato “Jacky”. Avevamo prenotato un tavolino all’aperto. Lui era già lì ad aspettarmi, nonostante arrivai in anticipo.
Mi avvicinai a lui, euforica. Gli diedi un casto bacio sulle labbra e poi occupai il mio posto.
Lui mi guardò con un’espressione indecifrabile, forse stranita. Io gli sorrisi e poi, gli presi la mano dicendo: «Hai già trovato qualcosa?» riferito a un bilocale.
Lui la ritrasse. In quel momento il mio stomaco si chiuse, quasi intuisse il pericolo imminente e corresse ai ripari.
Qualcosa stava andando storto.
«A questo proposito …» sospirò fissando un punto imprecisato del tavolino, «dobbiamo parlare … ».
Eccolo, era arrivato lui, il maledetto “Codice”. L’uomo che amavo stava per usare il Codice.
Il Codice è composto da tutta quella serie di frasi, modi di dire, atteggiamenti, pose, sguardi, che le coppie usano, spesso inconsciamente, quando qualcosa nella storia inizia ad andare male.
“Non riesco a darti quello che…”, “Non sei tu, sono io”, “E’ meglio per tutti e due”, “Non riesco a fare di meglio, è colpa mia” sono alcuni fondamentali intramontabili del Codice.
Marco aveva preferito un banalissimo “dobbiamo parlare”. Dopo la sua affermazione, seguì un silenzio interminabile.
Il cameriere appoggiò due calici di Champagne sul tavolo e io rimasi a fissare il mio in cagnesco, pensando all’allegro significato che doveva rappresentare come uno specchio del mio umore.
Mi feci coraggio, esitante, nonostante non riuscissi a staccare gli occhi dal bicchiere. Alzai la testa, guardai Marco e gli chiesi: «Di cosa dobbiamo parlare?»
Lui mi fissò  a lungo, poi il suo sguardo si concentrò sul calice. Si concesse un sorso e rispose: «Di Marika»
«Di chi?»
«Di Marika, della tua amica Marika»
Cosa cazzo c’entrava la mia amica Marika con me, Marco, lo champagne, il tavolino prenotato, il rinnovo estetico, le scarpe nuove, il trucco perfetto?
«Ma-ri-ka?», chiesi, fissandolo nei suoi profondi occhi grigi.
«Si, Marika».
«Tu conosci Marika?»
«Si, me l’hai presentata tu un paio di mesi fa. Eravamo all’inaugurazione di quel Beauty Shop a cui mi avevi trascinato e c’era anche lei. Ricordi?» Ricordavo.
Marika era arrivata tardi e aveva preso posto con un gruppo di amici, tutti maschi, che non fecero altro che bere vino tutta la sera. Così, a un certo punto, venne da noi per evitare l’imbarazzo crescente accanto a quei disgustosi alcolizzati.
Era più giovane di me di quasi due anni, alta, bionda e magra. Aveva il sorriso più radioso che una donna potesse avere.
Quella famosa sera, le presentai Marco. Avevano scambiato qualche battuta, chiacchierato un po’ e poi si erano salutati.
E adesso me la ritrovavo citata in una conversazione che stava prendendo una bruttissima piega, mentre il mio champagne bolliva sotto il caldo di Milano.
«Ti ho presentato Marika un paio di mesi fa, certo» dissi lentamente. Poi presi un grosso respiro e sbottai. «Posso sapere cosa diavolo c’entra lei adesso?»
Marco mi guardò spaventato e irrigidito.
«Ecco … non so come dirtelo. In fondo tu ed io siamo sempre stati una bella squadra. Tu sei una donna vincente e niente ti intimorisce, quindi da amanti siamo sempre stati affiatati. Ma io ora ho già ventisette anni, non sono più un liceale …»
«E allora? Qual è il punto?» chiesi con voce insicura. Le gambe mi facevano male per via del tremolio.
«Il punto è che con la nostra complicità, i nostri bei momenti insieme, ho capito che mi mancava qualcosa. Ho bisogno di avere qualcuno che mi ami, capisci?»
Sussultai dal terrore. «E credo di aver trovato la persona giusta … Marika».
Ricapitoliamo un po’ la storia. Conosco un ragazzo mozzafiato, di cui mi innamoro follemente. Passiamo dei bellissimi momenti insieme. Io metto da parte dei risparmi per anni per poi trasferirmi e stare più tempo con lui. Finalmente decido di prendere in mano le redini di una storia seria e lui inizia ad amare un’altra!
-Bene, fantastico- affermò la mia vocina sardonica.
Un brivido freddo mi attraversò la schiena, e una lacrima mi solcò il viso, facendo sbavare tutta la matita posta nella congiuntiva dell’occhio.
«Ti senti bene?» mi disse Marco, inquieto.
La mia schiena veniva percorsa da brividi sempre più frequenti, nonostante il caldo delle savane africane, che facevano a gara per raggiungere la fine della mia spina dorsale. Ricordai di essere una donna vincente e tutte quelle balle che mi diceva Marco. Presi un lungo respiro.
«Mi stai chiedendo se mi sento bene? Mi hai appena lasciato e ora mi chiedi se sto bene?»
«”Lasciato”? Cosa intendi?» Cosa intendo? Provai a biascicare tra le lacrime e i singhiozzi.
«Mi stai dicendo che non l’hai capito?»
Iniziai a fissarlo, tra le lacrime. Possibile che il mio uomo ideale fosse in realtà il cretino che mi stava di fronte e mi feriva mortalmente? Possibile che in quei tre lunghi anni non si fosse accorto di cosa significasse per me?
«Non volevo ferirti, so quanto ci tieni a me, ma le cose succedono, l’amore arriva e non sceglie con chi. Succede e basta, capisci?»
Era ufficiale. Era un imbecille. «Ma come fai a dirmi questo? E io? E noi?»
«Janet, il sesso tra noi era splendido, avevamo una sintonia meravigliosa, ma tu sei una donna libera, indipendente, forte. Non hai bisogno di qualcuno che ti protegga, ti piace vivere da sola divertendoti. Sono stato bene con te, eravamo una bella squadra»
Eccolo, ancora con quell’espressione. “Una bella squadra”.
«Ma poi l’amore è arrivato e io non ho potuto farci nulla. Mi sono innamorato, tutto qua.»
In quell’esatto momento, mi resi conto che non avevo capito niente. Mentre io l’amavo dall’attimo esatto in cui l’avevo conosciuto, lui aveva cercato in me solo compagnia, in attesa della donna della sua vita. Mentre io passavo i mesi a costruire qualcosa, lui mi usava come cuscinetto emotivo per trovare l’amore vero.
Non avevo capito niente. Ero io la vera idiota.
Dopo una lunga pausa, mi guardò, mi porse un fazzoletto e disse: «Non preoccuparti. Non ci separeremo, resteremo buoni amici. Ci tengo a te».
Lo guardai in lacrime, con il mascara che mi aveva interamente sfigurato il viso. E con una voce flebile, confessai «Ti amo».
Lui spalancò gli occhi e sbiancò.  «No, non è possibile. Tu non mi ami … sei solo molto presa dalla situazione … sei triste perché mi hai perso come amante … noi non ci siamo mai amati … noi eravamo una bella squadra …» e continuava a ferirmi.
Le mie labbra iniziavano a balbettare volgarità. Ero colma di rabbia, rimorso, collera, voglia di ammazzare qualcuno. Voglia di ammazzare lui.
Con un gesto del palmo, quasi involontario, gettai a terra il fazzoletto che mi aveva appena piantato in mano. Lo guardai incavolata nera, sconvolta. Non dissi niente. Mi alzai.
Lui mi corse dietro, mi afferrò la mano sinistra, mi accarezzò le nocche, dicendo: «Spero che un giorno tu possa tornare ad essere mia amica … che un giorno potremmo continuare a essere la bella squadra che eravamo».
Ora capivo cosa significasse essere una bella squadra. Eri una bella squadra quando andavi a letto con un amico senza provare sentimenti, quando non complicavi le cose, quando permettevi all’uomo che ti aveva rubato il cuore di amare una tua amica.
Lo guardai con uno sguardo vacuo e disperato, dopo aver appena dato spettacolo in quel simpatico bar.
«Dove stai andando? Non te la sarai mica presa?» disse con un mezzo sorrisetto stampato in faccia.
«Dove sto andando? Se me la sono presa? Mi hai spezzato il cuore, dove vuoi che vada?»
«Adesso non esagerare. Tra qualche giorno ti passerà e capirai di non essere mai stata innamorata veramente di me. Quando tornerai, ti accoglierò a braccia aperte»
Sorrisi sarcastica. «Sai che ti dico, caro il mio Marco?»
Arricciò le sopracciglia, strinse le spalle. «Cosa devi dirmi?»
Sorrisi beffarda. «Vaffanculo». Girai i tacchi e me ne andai. Nell’esatto istante in cui i miei occhi voltarono direzione, mi sentii davvero figa. Alcune persone che osservarono l’intera scena, mi guardarono con uno sguardo che mi parlava. “Hai la mia stima”, “hai fatto bene”, “sei grande”.
Per la prima volta scrissi stampata la parola FINE sulla mia fronte. Poi, dopo settimane passate ad allagare il cuscino della mia stanza sempre più buia e in disordine, mi alzai per guardarmi allo specchio. Ero in uno stato orribile.
Mi vestii e vidi con sorpresa che i vestiti mi stavano larghi. Dovevo aver perso fino ai quattro kili. Ero alquanto soddisfatta e, anche il polso, aveva riacquistato vigore, come se mi fossi appena ripresa da un coma intensivo. La 40 mi stava larga. – Oddio -.
A quel punto la situazione di una venticinquenne era quella di realizzarsi e assicurarsi un futuro. Senza uomini bastardi. Avrei atteso quello giusto, presto o tardi.
 
Ci si libera di tante preoccupazioni quando si decide, non di essere qualcosa, bensì qualcuno.


Spazio autrice: Ed eccomi qui. Spero vi sia piaciuta questa idea appena partorita. No, okay, è una bugia. Ad essere sincera, questa è una storia scritta un po' di tempo fa. La sto riscrivendo dalle fondamenta al fine di renderla più scorrevole (e anche più sensata, in verità). Ritengo sia un'idea piuttosto simpatica, non voglio anticiparvi il seguito ma spero davvero di avervi incuriosito! Nel primo vero capitolo di questa storia entrerà in scena il nostro bel principe: altro, magro, capelli biondi, labbra carnose e occhi blu, tanto blu, dannatamente blu.Vi stresserò con i suoi occhi fino alla morte! Basta, sto zitta non dico nient'altro u_u Ho bisogno di avere anche dei consigli da parte vostra, anche nel caso in cui ci siano errori. :) Recensite! :D Grazie a tutti, ci risentiamo sotto il primo capitolo. Bacioni!
Claudia Ricciardi

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Primo incontro ***


Image and video hosting by TinyPic
 
Primo in(s)contro

Nell’affollato vagone della metropolitana, i passeggeri mi guardano entrare correndo, sui miei tacchi dodici, un attimo prima che le porte si chiudano alle mie spalle.
In metropolitana si sente un buon odore di frittura. All’angolo del vagone, una affabile signora mantiene due grosse teglie di fiori di magnolia e un pentolone contenente piselli lessati con olio e cipolle.
Le due contrastanti fragranze invadono il vagone rendendo affamati tutti i passeggeri, me compresa.
Dall’altra parte del vagone, il profumo non arriva a causa del nauseante odore di sudore di un ciccione. -Suvvia, Janet, si dice ‘uomo in carne’- Uomo in carne, grazie al cazzo.
Mancano solo due fermate e il panico mi sovrasta.
Da ben due settimane ho affrontato diversi colloqui in ospedale e in altri centri di cure, ma fino ad ora niente mi attira particolarmente. Ritengo che la maggior parte di quelli visitati sia da riformare dalle fondamenta.
In questo dannato vagone puzza e mi viene un enorme senso di nausea. Non vedo l’ora di scendere.


Guardo accigliata il display del mio smartphone cercando di capire dove diavolo mi trovo. –Hmm, Route de le fenouil …-
Sul mio dizionario italiano/francese, la parola fenouil la traduce in finocchio.
“1. Fenouil [finocchio] 2. fam. offens [omosessuale] pédé m.”


Stringo gli occhi a fessura, cercando di interpretare il significato e scoprire in quale assurdo posto mi trovo.
Dopo aver realizzato che “fenouil” non centra nulla con “pédé”, inizio a seguire le indicazioni.

Arrivo alle tre meno dieci, alquanto sollevata di non essere in ritardo e mi ritrovo davanti un enorme palazzo di diciassette piani, tutto in vetro e acciaio.
Sull’insegna di vetro, davanti l’entrata c’è in caratteri molto sobri la scritta “L’angle du Paradis”.
Mi inoltro nell’imponente atrio, con il fiatone e, mentre cerco di interpretare le indicazioni riguardanti la disposizione degli uffici, vedo una splendida signora sulla quarantina che mi sorride amabilmente. Indossa un elegante tubino blu e tortora di Calvin Klein e mi raggiunge con quel suo raffinato portamento.
La donna mi conduce in un’enorme sala d’attesa e mi fa accomodare, prendendo la mia giacca nera di Elisabetta Franchi. Poi chiede il mio nome e l’appuntamento.
«Mi chiamo Janet Dumas, ho un colloquio all’oncologico/pediatrico».
La signora dai lunghi capelli scuri, mi rivolge improvvisamente un sorriso caloroso e io ricambio esitante.
 «Oui, mademoiselle Dumas, la stavamo aspettando. Prego attenda qualche minuto. Sono subito da lei».
La vedo scomparire per un attimo dietro la reception e poi ritornare verso di me: «Prego da questa parte. Mi segua» . Mi accompagna in un corridoio lungo kilometri. Dopo aver percorso mezzo corridoio, mi fa cenno di prendere l’ascensore sulla destra.
L’ufficio del caposala Daniel Perrain si trova in fondo al corridoio, al quinto piano. Prima di entrare, la signora mi porge un cumulo di scartoffie da compilare durante l’attesa. Firmate tutte le scartoffie, mi avvicino un po’ goffamente all’ascensore, con gli occhi incollati su quei fogli.
Leggere mentre si cammina non è proprio un’idea brillante.
Premo il pulsante e dopo qualche secondo, le porte si aprono. Faccio per dirigermi all’interno, sempre intenta a leggere la pila di sciocchezze che reggo con entrambe le braccia, ma prima di riuscirci, inciampo in un maledetto mobiletto ai miei piedi e perdo l’equilibrio, finendo tra le braccia di qualcuno che sta uscendo dall’ascensore. Impreco mentre i fogli sfuggono alla mia presa e iniziano a volare ovunque.
Poco prima di cadere a terra rovinosamente tiro fuori una qualche specie di urlo per lo spavento preso. Bene, e dopo aver dato spettacolo, posso etichettare la giornata come “normale”. –Cazzo!- divento paonazza per la vergogna mentre mi maledico mentalmente.
Alzo gli occhi per vedere chi mi ha salvato miracolosamente l’osso sacro e mi ritrovo dinanzi a un ragazzo alto, biondo, con gli occhi di un azzurro così intenso da ricordare il colore del mare artico.
«Tutto bene?» chiede mentre prova a rimettermi in piedi.
«Bene… Scusami… Grazie…». Sento  le guance avvampare.
«E’ stato un piacere. Non capita tutti i giorni che le donne mi cadano tra le braccia».
Che figuraccia! Mi fissa con un sorriso splendido stampato sul viso e io voglio solo sparire dal disagio.
«Grazie ancora per avermi salvato …». Mi abbasso e cerco di raccogliere tutti quei fogli inutili. Il ragazzo posa il grosso pacco che porta in grembo e tenta di aiutarmi. Gli faccio cenno di non preoccuparsi ma insiste. Infine, recupero la borsa che mi è caduta nell’urto e mi rimetto in piedi, chiamando in fretta l’ascensore nella speranza di potermi nascondere dal suo sguardo.
«Se avrai voglia di precipitare ancora, spero di essere nei paraggi». Ha un delizioso accento francese. Mi rivolge un ampio sorriso e io resto nuovamente paralizzata. Faccio per guardarlo furtivamente. È un figo da paura. “Accidenti!”
Mi infilo nell’ascensore lanciandogli un sorriso imbarazzato. Lui aspetta la chiusura delle porte, e sempre con il sorriso stampato in faccia, mi saluta con la mano.
Ora, parliamo della sua mano. Quanti pensieri perversi mi sono venuti in mente dopo quella visione strabiliante. Oh, vorrei quella mano su tutto il mio corpo … – Via, Janet, tieni a freno questi ormoni pazzi!- mi rimprovera la mia dea interiore.
Oddio.
Non riesco a scrutarlo bene, ma inquadro chiaramente il suo abbigliamento:  camicia di lino bianca con le maniche arrotolate fino al gomito e jeans che gli cadono sui fianchi in quel modo decisamente attraente. È-così-sexy.
Porta un enorme scatolone che probabilmente deve consegnare a qualcuno che lavora nell’edificio. Un fattorino. –Mhmm, cazzo al fattorino!-

Salgo in ascensore fino al quinto piano e quando le porte si aprono, mi ritrovo in una sala molto spaziosa, un po’ spoglia con le pareti tutte colorate. Sono nel reparto pediatrico, il reparto in cui vorrei dedicare la mia intera vita.
Attraverso l’atrio e poi svolto a destra. Mi fa sorridere amabilmente la vista di tutti i gioiosi bambini che ridono e scherzano nonostante la flebo. Bisognava essere davvero forti per alcuni da sorridere in quel modo nonostante i casi tristi e, talvolta, disastrosi.
Raggiungo finalmente l’ufficio del dott. Daniel Perrain. A causa della precedente imbarazzante figuraccia ho una paura matta. Mi tremano le gambe, accidenti. Non credevo si potessero bruciare tutte queste calorie stando ferma, con le spalle strette e i brividi freddi che corrono sulla mia schiena. Il mio tailleur di Audrey Hepburn può confermare.
Busso con la mano tremante. Una voce calda e confortevole mi risponde «Entri pure».
Una ragazza bionda, con un caschetto esagerato viene ad aprirmi la porta. Mi accoglie dentro ed esce, chiudendo la porta alle mie spalle.
Entro e vedo un’enorme scrivania tutta in legno intrecciato. L’ufficio è arredato con gusto decisamente moderno. Ci sono moltissimi trofei, ma ad attirare la mia attenzione è un quadro. È l’imitazione dell’Urlo di Munch. Fisso l’opera che da sempre è la mia preferita. A quanto ne so, l’originale è in mostra al pubblico in occasioni straordinarie, mentre solo le imitazioni costano una cifra spropositata.
Dietro la scrivania, c’è un bell’uomo sulla quarantina vestito in abito scuro intento a fissarmi.
«Le piace il mio Munch, mademoiselle?».
«Si, ho sempre amato questo quadro. Per me ha un preciso significato». Difatti, l’Urlo era uno dei quadri preferiti di mio padre. Egli era anche un discreto pittore e, prima di partire per l’Africa, iniziò la sua imitazione del quadro. Purtroppo non riuscì a finirla, ma non smisi mai di ammirarla.
«Conosco il suo volto, mademoiselle. Dove ci siamo già incontrati?» mi pietrifica con uno sguardo piuttosto freddo ma gentile.
«Salve, Dott. Perrain. Dopo la cerimonia di laurea all’università di medicina di Milano, c’è stato un incontro tra alcuni esperti con i rappresentanti delle varie facoltà tra cui io. Lei ha risposto a delle domande che le ho rivolto personalmente sullo sviluppo prenatale. Dopo la riunione le ho personalmente fatto domanda per un colloquio in questo settore. Mi ha dato appuntamento per oggi».
«Oh, ora ricordo. Mademoiselle Dumas, che piacere incontrarla nuovamente! Inizialmente non l’avevo riconosciuta, ha cambiato taglio di capelli?» lo guardo stranita. Scuoto il capo.
«Ehm, in realtà no … Comunque mi piacerebbe entrare in questo settore. Sono venuta per il colloquio. Ci sono posti disponibili?» ammicco.
«Ma per lei, mademoiselle, certo che ci sono posti. Se n’é appena liberato uno nella nursery. Può avere a disposizione anche un ufficio qui all’oncologico-pediatrico.»
«T-tutto qui?» gli rivolgo un’occhiata alienata, ma delusa dal colloquio.
«Intende il colloquio? Oh, non si preoccupi. Ho avuto modo di conoscere il suo livello,  alla cerimonia di laurea. Ho subito capito che sarebbe stato un privilegio averla qui».
«La ringrazio, sono molto lusingata».
«Allora, se mi vuole seguire un attimo, le faccio visitare il settore».
«Dopo di lei …».
 
La visita dura circa un’oretta. In questo lasso di tempo, ho osservato a lungo le condizioni dei bambini, ho provato dispiacere per alcuni e mi sono congratulata con due donne che avevano appena partorito. Il caposala Perrain, mi lascia da sola a gironzolare nel reparto. «Poi passa nell’ufficio del  dott. Stern, devi compilare alcuni moduli». Ha già acquistato confidenza, ma meglio così.
Mi metto a guardare addolcita tutti i neonati nella nursery. Il mio sguardo è distratto a osservare le meravigliose minuscole creature che ospitano quei seggi alle spalle di una grande vetrata.
A un certo punto, mi arriva un messaggio e, mentre sono intenta a prendere il cellulare, dirigo lo sguardo nella mia borsa. Prima ancora di riuscire a posare gli occhi sul mio cellulare, vedo uno scatolone in primo piano. Guardo meglio.
Ed eccolo. Di nuovo lui. Per un attimo mi sento un mito a non sbatterci contro.
Stavolta ha in mano uno scatolone più grosso di quello di prima. È senza dubbio il fattorino più carino che abbia mai incontrato.
Si avvicina a me con il suo sorriso perfetto e gli occhi divertiti.
«Ci si rivede … Sono contento che questa volta tu riesca a reggerti sulle tue gambe».
Mi sento un’imbecille.  In momenti come questi non faccio altro che desiderare  una botola che si apre sotto di me, facendomi sprofondare nelle cantine e sparire per sempre.
«Si … Ecco, mi sto sforzando di mantenere l’equilibrio» rispondo, cercando di essere spiritosa. Continua a fissarmi con insistenza e, per sfuggire al suo sguardo di ghiaccio, mi metto a studiare i corridoi così da non perdermi al ritorno.
«Ti sei persa?», mi chiede gentilmente avvicinandosi. Ha un buonissimo profumo, dio. È così virile. Potrei  saltargli addosso.
 –Te ce meni tu o te ce butto io?- mi scuote sbavando la mia dea interiore, con un accento romano.
Cerco di reprimere un attimo quel pensiero e alzo lo sguardo. «Non proprio. Ho appena finito il colloquio con il Dott. Perrain. Sono stata assegnata in questo settore, così stavo dando un’occhiata in giro. Tra poco devo passare dal Dott. Stern a compilare dei moduli» rispondo entusiasta e con il sorriso a mille.
«Che coincidenza! Anche io sono diretto nell’ufficio del Dott. Stern. Vieni, ti faccio strada». Il suo accento è molto elegante ed anche terribilmente sexy.  Mi perdo al pensiero di camminare accanto a Mr. Occhioni stupendi – Cazzo, cazzo, cazzo!-
Prendiamo nuovamente l’ascensore, indirizzato al piano di sopra.  L’ascensore si ferma al piano e lui galantemente mi invita a entrare. L’idea di dividere con lui quell’ascensore soffocante fa fremere la parte più profonda di me. Devo far ricordo a tutte le mie forze per resistere all’impulso di saltargli addosso e incidere un segno di rossetto rosso sul suo colletto bianco. – Calma, calma, calma-
Noto che mi fissa con quei suoi mari in volto e cerco di concentrarmi su qualsiasi  altro punto che lo escluda dalla mia vista. Penso che sto per collassare qui. – No, resisti. Non puoi cadere di nuovo. Respira e vedi di stare dritta!- mi ammonisco.
Devo assolutamente riscattarmi dalla figura pessima di due ore fa.  Voglio essere gentile e dimostrargli che non sono una completa idiota.
«Deve essere un bel lavoro il tuo» commento sorridendo. Mi guarda un po’ perplesso. «Be’, consegnare pacchi in giro per Parigi … conoscere un sacco di gente», mentre pronuncio queste parole mi rendo conto di quanto ridicole possono sembrare alle orecchie di uno sconosciuto.
E infatti ride: «Oh, oui. E’ veramente un bel lavoro, si incontrano molte persone interessanti» ammicca fissandomi con quei suoi occhi grandi come fanali. Divento paonazza e mi guardo le mani.
«Sono molto pesanti i pacchi che consegni?»  – Bel colpo, Janet! Sai fare domande davvero intelligenti … - cerco di zittire la mia dea interiore ma con scarsi risultati.
«Be’, consegno pacchi di ogni tipo: grandi, piccoli, enormi». Sorride e non mi stacca un secondo gli occhi di dosso. Il suo sguardo è magnetico. Vorrei ringraziarlo per la cortesia delle sue parole e per non aver permesso ulteriori figure imbarazzanti. Mentre cerco di nascondere il rossore sul viso, le porte si aprono. – Finalmente cavolo!-
«Prima le signore» mi fa l’occhiolino.
«Signorina» preciso, con fare saccente. Lui ride.
Mi conduce fuori dall’ascensore e mi fa strada verso l’ufficio del Dottor Stern. A quanto pare, deve consegnare proprio a lui l’enorme scatolone che sta trasportando.
«Sei molto carina quando cammini senza inciampare». Mi coglie alla sprovvista e ricomincio ad arrossire in un solo istante. – Accidenti, lo fa apposta-
«Grazie … Ti assicuro che di solito non crollo tra le braccia di sconosciuti», dico fissandomi i piedi per non incrociare il suo sguardo.
Giungiamo davanti alla porta del dottore. Mr. Bellissimo bussa leggermente per segnalare la sua presenza, poi entra.
«C’est moi!» mi viene da urlare come una liceale al suono del suo francese.
«Vieni pure» risponde una voce giovane dall’interno. Dall’altro lato della scrivania, posizionata al centro della stanza vedo un sorridente ragazzo della mia età, con indosso un paio di jeans e una T-shirt dei Clash.
«Ti ho portato ciò che stavi cercando» dice il fattorino con tono sicuro. «E poi ho trovato un nuovo acquisto presso la nursery».
Mi fissano entrambi, sorridendo. – Ma anche una cosa a tre non mi dispiace-, la mia perversa vocina interiore non fa che dire cose oscene che non erano poi tanto da lasciar perdere che ignoro.
«Lei deve essere la nostra nuova risorsa milanese» dice Stern, scrutandomi e indicandomi una sedia sulla quale accomodarmi.
«Sono Janet Dumas e in realtà sono nata a Parigi» replico.
«E’ un piacere conoscerla, Janet. Se permette, potremmo darci del tu».
«Volentieri».
«Grazie Étienne», dice al principe dagli occhi blu, dopo aver appoggiato lo scatolone sulla scrivania. «Spero di rivederti presto, Janet, magari al prossimo giro in ascensore», rivolgendomi uno sguardo ironico. «Ah, tanti auguri per il posto» termina sorridendo. Ricambio il suo con un sorriso timido. – Étienne, Étienne, si chiama Étienne!- urlo dentro.
«Ti ringrazio» mi sento un po’ a disagio. Étienne ci lascia soli chiudendosi la porta dietro di sé. Paul Stern mi scruta per un momento, poi inizia: «Dunque, tu hai frequentato il liceo di letteratura classica, poi sei entrata nell’università di medicina a Milano e ti sei laureata con i voti migliori d’istituto nella facoltà oncologica. Hai frequentato un corso pediatrico per un anno sempre a Milano e ora ti sei trasferita qui a Parigi». Mai sentito riepilogo più veloce della mia vita, escludendo la presenza di uomini e puttanelle da quattro soldi. Chiedo venia per il linguaggio indecente e poco consono. Ogni riferimento a Marco e Marika è puramente casuale.
«È esatto» gracchio intontita.
«Bene, Janet, firma qui» mi indica tre spazi bianchi su diversi fogli. Firmo senza leggere. Mi consegna le copie dei fogli e mi invita a prendere un caffè in onore della mia ammissione.
«Ti ringrazio, Paul, ma magari un’altra volta» rifiuto e mi pento di colpo. – Étienne è andato via, idiota! Paul pure è molto *%&£*$%*? – inizio a dare i numeri.
«Quando vuoi, cherì. Siamo a Parigi» sorride al massimo che può e io mi avvio verso la porta.
Nel prendere l’ascensore, stavolta, sono un attimo esitante. Lo chiamo e aspetto l’apertura delle porte con fare vigile, nella speranza di non combinare altri disastri. Chissà se lo incontro. Sogno. – Suvvia, ragazzina! È andato via, ficcatelo in testa! -
L’ascensore si apre e io tiro un sospiro di delusione nel trovarlo vuoto. Prima di alzare lo sguardo ed entrare, qualcuno mi picchietta la spalla con il dito. Mi volto di scatto, tremante, quasi sul punto di inciampare nei tacchi. – Non può essere  -
«Cercavi me?» ed eccolo di nuovo. Étienne. Étienne. Étienne. Étienne. Étienne. Cazzo Étienne.  Étienne. Étienne.
Resto quasi senza fiato. Voltandomi, mi ritrovo a pochissimi centimetri da quello sguardo di ghiaccio. Avvampo.  – Oddio-quanto-sei-sexy - ripete la mia coscienza. «Cazzo, si!» esclamo a voce flebile, in risposta alla mia dea interiore.
«Che cosa? Non ho capito», dice cominciando nuovamente a fissarmi. Siamo talmente vicini che se mi protendo un altro po’, riesco a toccargli la punta del naso -quel bellissimo naso- con il mio.
Indietreggio di un passo, rossa peperone.
«Ehm … Ci si vede ancora!» quasi urlo dall’imbarazzo.
Lui ricambia la mia affermazione con un sorriso dolcissimo. Accidenti, mi ha sicuramente sentita.
«Hai da fare … Ehm … Ti va un caffè? Devo farti le mie congratulazioni». Ebbene si, mi ha appena invitato a prendere un caffè. Per parlare. Per conoscerci. Per- Oddio. Ho bisogno di una settimana per riprendermi. Qualcuno mi faccia aria, per favore. Potrei morire felice, nonostante non vada molto d’accordo con il caffè.
Ho appena rifiutato lo stesso invito da parte di Paul e se lo venisse a sapere si offenderebbe. Sono esitante. – Ma chi se ne frega!- Scusa Paul, ma in circostanze del genere, sfido chiunque a rifiutare Mr. Perfezione. Magari poi portami in un posto isolato, mi va bene anche in ascensore per la nostra prima volta, davvero!
 - Janet Dumas, non farti pensieri sconci, non farti pensieri sconci. È solo un caffè. Solo.Un.Caffè. - E grazie al cazzo.
Alla fine mi decido. Prendo un respiro lunghissimo nella speranza di rispondere con una voce passabile e accetto l’invito. «Ti ringrazio, mi piacerebbe molto».
 
 
Image and video hosting by TinyPic
 

Spazio autrice: Come avevo promesso, rieccomi qui. Avete presente quei momenti in cui vi sentite dei miti per l'eroica impresa appena compiuta? Ecco, mi sento esattamente così. Riscrivere da capo una storia, cambiando praticamente quasi tutto è stressante, però sono molto contenta dei risultati. Stavolta sto cercando di rendere il contesto molto più lento. (nella versione originale facevano sesso il primo giorno O.O) Stavolta cercherò di tirarla moooolto per le lunghe. E che altro, vi ringrazio per aver letto questo primo noiosissimo primo capitolo. Grazie a tutti se vorrete continuare a leggere la storia, se vorrete aggiungerla tra le storie preferite e se vorrete (Dio, ti supplico) recensire. ^^ Mi sono impegnata un sacco. Nel prossimo capitolo vedrete una svolta. Non voglio correre, difatti voglio dare solamente un'impressione. Non aspettatevi una corsa nel lettuccio!
Al prossimo capitolo!
Claudia 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Stringimi forte ***


Image and video hosting by TinyPic


Consolami, stringimi forte

Sono le cinque e un quarto del pomeriggio, circa. Stamattina ero piuttosto in ansia per la giornata che mi aspettava. Invece adesso, sono più tranquilla che mai. –Ceeeeerto, tranquillissima Janet!- No, okay, non è vero. Sono un ghiacciolo. Sembro calma, quieta, interdetta. Ma è-tutta-apparenza.
Sto camminando al fianco di Mr. Accidenti-quanto-sei-porco e non so come ho fatto a non inciampare finora.
Le persone ci guardano con gli occhi spalancati. Alcuni ci scambiano per modelli, altri per fidanzati, altri per non so cosa. E il mio stomaco fa le capriole.
Parlando di stomaco, mi rendo conto che è da stamattina che non tocco cibo. Improvvisamente sento un morso di fame, ma lo ignoro beandomi della mia felicità.
Ricapitoliamo la giornata: affronto quello che doveva essere un traumatizzante colloquio ma che poi si è rivelato una passeggiata a Central Park, ho fatto una colossale figura imbarazzante con un ragazzo dannatamente perfetto, ho conosciuto il ragazzo dannatamente perfetto, ho preso l’ascensore con lui ormai d’abitudine e ora ci sto andando a prendere un caffè. Non può essere che una giornata dannatamente perfetta.
Si, se non considero le scarpe che mi fanno un male incredibile, Monique che deve avermi chiamato almeno cinque volte ma non ho risposto e mia madre che voleva che la chiamassi per pranzo ma non l’ho fatto. Non ho intenzione di subirmi un’altra paternale sul cibo.
Non pensate che io abbia qualcosa contro il cibo, in realtà non mi fa né caldo né freddo. È con me che ho qualche problema. Vedete, ho sempre amato la bellezza magrissima, i classici stereotipi che la tv, i giornali e le sfilate di moda stanno imponendo al mondo in questo 21° secolo.
Io sono magra, certo. Ma per costituzione, la mia ossatura non mi permetterà mai di raggiungere un livello del genere. Per questo, meno mangio meglio è. L’anno scorso ho avuto vari problemi con il cibo. Mentalità anoressica, credo la chiamino. Io dico: stronzate. IO MANGIO, solo che quando ho molti impegni, mi dimentico i pasti. Nei giorni in cui sono libera, invece, cerco di dimenticarmi di mangiare di proposito, ma finisce sempre che non ci riesco.
Per questo dentro sto ballando. Non basta la presenza di Ètienne Sei-Il-Fattorino-Più-Bello-Del-Mondo, c’è da aggiungere anche l’assenza di troppe calorie nello stomaco. Tutto ciò mi rende euforica. Mi sento come se mi fossi ubriacata. Sono felicissima, tutto qui.
La gente continua a fissarci. Una bambina ci indica con il dito rivolgendosi alla madre e credo di sentirle dire: “Mamma, quelli sono un principe con la sua principessa?”
Urlo mentalmente e i miei neuroni esplodono.
Cammino esitante sui miei trampoli e credo di essere sul punto di inciampare. Ma a scegliere scarpe più comode in un giorno come questo? –Ehh, no mia cara. Chi bella vuole apparire … -  Un po’ deve soffrire, si lo so. Maledico la mia dea interiore che mi prende in giro ma al tempo stesso si congratula.
Arriviamo in un locale, in una piazzetta opposta al viale che ospita l’Angle du Paradis. Ètienne mi precede euforico, ma improvvisamente qualcosa blocca il mio passo energico.
Due bambini stanno giocando a palla sul ciglio della strada. C’è una dolcissima bambina più piccola di loro con dei stupendi ricci castani che, a quanto pare, sembra essere la proprietaria di quella palla di Winnie De Pooh. Li guarda triste, sul punto di piangere. Poi improvvisamente noto che i più grandi la stanno insultando. Lei si acciglia e, anche se vorrebbe ignorare tutto, è costretta a curarsene poiché hanno la sua palla. Brutti nani mascalzoni.
Sembra tenerci davvero tanto. Il bambino con la maglietta rossa se ne accorge e lancia la palla in strada. Lei non ci pensa due volte e si precipita a recuperarla. Nel traffico.
Prendo un colpo. Poi due. Poi tre. La testa mi gira forte ma mi lascio prendere dall’adrenalina. Tic tac, tic tac. Il tempo scorre, i secondi corrono.
Non mi curo affatto di Ètienne e lui, non trovandomi, guarda i dintorni sbigottito. Scalcio le scarpe sul marciapiede e, scalza, inizio a correre più in fretta che posso. Una lussuosa Audi A3 nera, alla mia vista, è costretta a frenare la sua velocità. Nel farlo sgomma per una decina di metri e io salto in avanti nella speranza di non finire a dipingere di rosso il suo cruscotto.
La bambina inizia a urlare. Si accoccola a terra spaventata più che mai. La raggiungo senza fiato e la prendo in braccio. Stringo forte cercando di consolarla. I suoi occhioni azzurri fanno piovere un intero inverno.
La palla di Winnie è finita sotto la ruota. È bucata, sgonfia. Senza pietà.
Piange e mi fa una pena infinita. La sollevo e inizio a camminare verso il marciapiede. Poi la metto a terra, le sposto una ciocca ribelle dal viso e asciugo le sue lacrime con il dorso della mano.
Il proprietario dell’Audi si catapulta fuori dall’auto e ci raggiunge per controllare che non sia successo niente. Leggo sollievo nei suoi occhi, ma non ricambio. Alcune persone applaudono, altre iniziano a circondarci col sorriso stampato in faccia. Ma io sono preoccupatissima. Cosa ci faceva una bambina così piccola da sola in strada?
“Conosco questa scena”
«Dimmi, piccola, come ti chiami?» le dico in francese.
Tra una lacrima e un’altra mi risponde: «Christine. Non vuole sgridarmi, signorina?». Sorrido intenerita.
«Certo che no, quei furfanti sono stati davvero cattivi, non è vero?» Annuisce e io fulmino con lo sguardo gli altri due bambini che stanno osservando la scena pentiti. «Su, sta’ tranquilla, è tutto passato. La prossima volta chiedi l’aiuto di un adulto, va bene Christine?»
Annuisce di nuovo. È una bambina così timida e taciturna, così educata … ma allora perché si trovava sulla strada?
«Dov’è la tua mamma?» con un cenno della mano, mi indica il bar accanto a quello in cui mi sta aspettando Étienne. Mi ricordo di lui e volto lo sguardo nella sua direzione. Mi osserva sbalordito e mi lancia un sorriso. Inizia a correre verso di me subito dopo aver raccolto le mie scarpe.
Una donna esce correndo dal bar accanto. Si dirige preoccupata verso di noi, così capisco che è la mamma della piccola Christine.
Mi alzo e sistemo la gonnella della bambina. Lei afferra la piccola e la abbraccia forte. La guarda terrorizzata alla ricerca di qualche possibile graffio, ma non trova niente. Poi la mette a terra, accanto a lei.
Mi guarda e mi rivolge un sorriso cordiale, un po’ timoroso. Mi da la mano, dicendomi in francese: «Ti ringrazio di cuore, cherì. È stata solo colpa mia … Se non avessi litigato con mio marito, lei non si sarebbe spaventata e non sarebbe corsa fuori. Mi dispiace tantissimo, come potrò ricambiare il tuo gesto?».
Ora capisco tutto. Povera piccola, cos’ha dovuto sopportare … So bene cosa si prova: vedere una madre e un padre che litigano tra loro è quanto di più distruttivo per un figlio. Mi è successa la stessa cosa, ma non era una lite qualunque, una di quelle occasionali. Era la vita di ogni giorno fino a che non si optò per il divorzio. Credetemi, so per certo di aver sofferto molto più di loro. E la storia si ripete. “Non di nuovo”
 Sono felice che sia tutto passato per Christine. Sono risollevata ora che so che è tutto passato. «Non si preoccupi, signora. Chiunque avrebbe fatto ciò che ho fatto. Mi sono trovata a vedere la scena, altrimenti non so cosa sarebbe successo. Mi dispiace» pronuncio queste parole e, in realtà, non credo che chiunque avrebbe fatto lo stesso. La gente guarda e basta. Non tutti sono disponibili a aiutare gli altri, se c’è la possibilità di rimetterci.
«Non devi dispiacerti. Sei stata davvero gentile, ti ringrazio così tanto». Sento il braccio di Étienne avvolgermi il fianco, così gli rivolgo una rapida occhiata e lui sembra angosciato.
Ora guarda la bambina e le dice: «È stata davvero carina, la signorina, non è vero?» parla di me. Mi esplode il cuore. Lei risponde, sciolta dal sorriso e da quegli occhi di ghiaccio: «Si».
Mi guarda: «Grazie signorina». Si gira nuovamente verso Étienne con le guance rosse e gli sorride. Lui ricambia e io inizio a sciogliermi per tutta questa dolcezza.
Ora Christine guarda la palla sgonfia e il suo sorriso si spegne.
«Dai, non piangere più. Vedrai che la mamma te ne comprerà un’altra ancora più bella, vero?» la signora risponde di si con un cenno del capo e mi bacia entrambe le guance. Poi si allontanano, mano nella mano, e ci salutano.
Sono commossa. Ho le lacrime. Se penso a ciò che poteva succedere …
Étienne nota le lacrime che non mi sono accorta di versare. Senza alcun preavviso, mi abbraccia alle spalle. Forte. «Non piangere, io dovrei piuttosto. Mi hai quasi fatto morire. Sei stata così … amabile». Le sue parole mi pietrificano. Mi giro e lo abbraccio ma non riesco a fare nient’altro. Alcuni si congratulano ancora, altri rientrano nel loro quotidiano. Non li ascolto perché il mio pensiero è altrove.
Grazie, Dio. Grazie per avermi dato la forza, stavolta. Grazie per il lieto fine. Grazie di tutto. Grazie per aver evitato che andasse come l’ultima volta …
Étienne mi strappa dai miei pensieri e vorrei davvero ringraziarlo. So bene dove sarebbe arrivata la mia mente per come era iniziata.
«Mi rendo conto che sei davvero bassa senza queste» indica le scarpe che tiene in mano. Le mie scarpe. Accidenti, è vero, gli arrivo praticamente sopra il petto. Be’ non sono io quella bassa, è lui che è un gigante!
-Chissà se il ragazzo è sviluppato anche da qualche altra parte- la mia dea interiore salta qua e là e inizia a sparare cretinate. E quando mai … Decido di ignorarla anche se ha tutte le ragioni di questo mondo perché ciò che dice non ha nessun senso.
«Se vuoi restare scalza, per me non c’è problema. Ti capisco, io al posto tuo non le metterei manco morto». Mi penetra con quel suo sguardo da sei-bella-anche-bassa così profondo tanto che potrei perdermi.
«Sei stata così dolce ad aiutare quella bambina. Vorrei saltarti addosso per l’ammirazione». “Allora fallo”. Istintivamente mi mordo il labbro, avvampando.
“Non puoi saltarmi addosso per l’ammirazione, bisogna essere eccitati per farlo”. – Scema, non intendeva questo!- mi pizzica la mia dea interiore. Inizio a litigare con me stessa. Penso che è stata proprio lei a dire frasi indecenti e sconnesse poco fa, e ora mi ammonisce. Stupida coscienza, muori e soffri, ti odio.
Mi limito a sorridergli imbarazzata e lui mi cinge la vita con il braccio intenerito e mi accompagna all’entrata.
Finalmente entriamo nel bar, che riscopro un ristorante. L’interno è strabiliante.
L’arredamento è caratterizzato principalmente dal bianco e dall’acciaio. Devono esserci all’incirca trenta tavoli. L’ambiente è molto elaborato ma piuttosto spazioso. Vedo su ogni tavolo bicchieri di cristallo, fruscianti tovaglie di lino e una composizione di peonie rosa pallido, raccolte intorno a un candeliere d’argento, accanto al quale c’è un cestino di leccornie avvolto nella seta.
Una giovane ragazza dai riccioli biondi con un’uniforme bianca abbinata a delle scarpe nere con un plateau esagerato, viene verso di noi. Étienne le dice qualcosa all’orecchio e lei, intimidita, annuisce ma in un primo momento non ci capisco nulla. Ci fa salire al secondo piano e tutto mi è più chiaro. “Wow, c’è il secondo piano!”.
Qui, l’arredamento mantiene sempre uno stile rigorosamente somigliante al piano di sotto, ma c’è una parete di un rosso lucido ricoperta da tantissimi quadri che crea un distacco meraviglioso. Non ci sono molte persone, a differenza del piano di sotto. Ci conduce in una splendida terrazza e ci fa accomodare.
Siamo soli.  “Accidenti!” – Calma, calma, calma –
Il tavolino è diverso da quelli del primo piano. È rotondo e nero lucido, stile classico. I piedi del tavolo descrivono delle curve senza un particolare criterio e si intrecciano tra loro. La tovaglia è bianca con dei raffinati motivi rossi e al centro c’è un vaso bianco con delle rose rosse avvolte in tre diversi nastri di organza bianchi e neri. Siamo piuttosto lontani dagli altri clienti.
La vista oltre la terrazza è impressionante e con un ambiente del genere mi sembra di aver viaggiato nel tempo. Mi sento vivere in un’altra epoca ed è fantastico.
- Ammettilo, il ragazzo ci sa proprio fare – osserva saccente la mia coscienza. Be’, ha davvero ragione.
Prese le ordinazioni, un cappuccino e un caffè macchiato, la cameriera ci lascia ad attendere.
Durante l’attesa, Étienne mi sorride. «Inizialmente credevo volessi scappare da me. Poi quando ti ho visto ritornare con quella bambina in braccio stavo per commuovermi. Devi aver preso un bello spavento, vero?» mi dice nel modo più coinvolgente possibile, con quei suoi occhi di ghiaccio. La mia espressione cambia. Ricordo così bene …
«È vero, sono subito entrata nel panico. Gli altri bambini hanno iniziato a prenderla in giro e lei non poteva non curarsene perché avevano la sua palla … Uno di loro se n’è accorto e … be’ … mi sono precipitata ad aiutarla. Scusa se mi sono dimenticata di te» gli sorrido. Perlomeno, ci provo. Ma il mio sguardo si spegne.
«In altre circostanze mi sarei offeso, ma l’hai fatto per una causa nobile quindi non preoccuparti» risponde senza staccarmi gli occhi di dosso, con un sorriso diverso dal solito. Si è accorto del mio cambio di umore ma non mi dice niente. Non vuole farmi ricordare. Dio, grazie.
«Allora, sei contenta dell’impiego? Sei stata piuttosto fortunata, non è facile entrare al centro» cambia argomento e voglio inchinarmi ai suoi piedi. – Feticista!- mi provoca la mia dea interiore. È una bastarda questa qui, che cavolo!
«Be’, dopo essermi fatta il …» mi trattengo. Forse è meglio se mantengo un linguaggio colto. «Dicevo, dopo aver faticato per anni, credo sia il minimo. Non penso si possa parlare di fortuna» mi rendo conto troppo tardi di aver assunto un tono troppo arrogante. Lui ride. Oh, accidenti! Mi acciglio mentre le guance iniziano a bollire.
«Non lo metto in dubbio, mademoiselle» mi fa l’occhiolino e avvampo in un istante. “Mi ha fatto l’occhiolino! Posso morire!”
Il suo sguardo è così seducente e, per quanto mi sforzi di non vederne la malizia, non ci riesco.
«Quindi, perché hai deciso di impegnarti così tanto? Dove vuoi arrivare?».
Gli lancio un sorriso d’intesa. «Mi basta arrivare dove sono ora. Vedi, io credo che se sei nato senz'ali, non devi fare mai nulla che impedisca loro di crescere» gli rispondo. Lui mi guarda sbalordito.
«Sei ammirevole, Janet. Sei l’unica ad avermi stupito così tanto in un giorno». “Parla di me!” Gli faccio spallucce. È stato mio padre a dirmi queste parole, prima della sua partenza … Mi guardo le mani e inizio a torturare un tovagliolo. Brutti ricordi affiorano.
«Lo so, mi hanno detto di essere una donna vincente» rispondo, sorridendo riluttante. Non mi rendo conto della frase virile ma concisa, che ho appena pronunciato. Per qualche strana ragione sembra arrossire ma forse me lo sto sognando.
Dopo qualche minuto, arriva mademoiselle Riccioli D’oro con le nostre ordinazioni.
Sorseggiamo il nostro caffè. Lui lo finisce in pochissimo tempo, mentre io, tra una chiacchiera e un’altra, impiego più tempo.
Il tempo passa quasi senza accorgercene.
A un certo punto, senza rendermene conto, nel sorseggiare il mio cappuccino mi rimane un po’ di schiuma  sopra il labbro superiore. Étienne mi guarda ridendo. Poi la sua espressione diventa più seria.
Lo vedo alzarsi dalla sedia e avvicinare il suo viso al mio, posando entrambe le mani sul tavolino.
Un secondo. Chiudo gli occhi d’istinto.
Due secondi. Sento il suo respiro.
Tre secondi. Le sue labbra carnose sfiorano le mie.
Ritorna a sedere con il sorriso stampato su quel bel faccino. “Cos’era quello?” Freno l’impulso di prenderlo a sberle solo per la sua espressione divertita. Ha una maledettissima faccia da schiaffi e io sto per esplodere.
«Ma voi donne lo fate apposta?» lo guardo espirare, perplessa, con la classica espressione del “perché l’hai fatto?”.
Mi guarda leggendomi negli occhi. «Avevi un po’ di schiuma» ride.
Bastardo! Farmi morire così, non si fa!
 È stata una mossa repentina, così … audace. Non sarebbe passata nemmeno per l’anticamera del cervello a un tipo come Marco. Resto paralizzata per un po’ e le lancette ricominciano a tornare al passato. “No! No!” protesto.
Lui si alza per andare a pagare il conto e io tiro velocemente fuori il mio specchietto dalla pochette.
Cosa mi sta succedendo? Credevo di aver cancellato tutto, ma allora perché …
Il pensiero mi sconvolge e le lancette continuano ad andare all’indietro. “NO!”
Non riesco a distrarmi nemmeno con il pensiero di Ètienne che mi bacia per togliermi la schiuma. È troppo per me. Sbatto le palpebre nella speranza di ritornare al presente. Ma il tempo si resetta, ricomincia da capo.
Inizio a percorrere ciò che mi ero imposta di dimenticare. Voglio fermarmi. “Fermati, non voglio pensarci!”  Vedo una luce bianca, un miraggio, un tunnel.
Una famiglia. La felicità. Poi la tristezza e il vuoto.
È un ricordo.
La vista si offusca e credo di sbattere a terra, ma è morbido. Faccio resistenza cercando il mare in Étienne, ma è tardi. Le lancette si fermano e ritornano al passato. Vedo nero.
 
 
 Image and video hosting by TinyPic


Spazio Autrice: Allora, cari lettori, vi ringrazio tantissimo se siete arrivati fin qui e ancor di più se vi siete appassionati alla mia storia. ^^
ÈTIENNE L’HA BACIATA! Cosa cosa? Eh, già l’ha fatto davvero. Ma lei non ci bada più di tanto. E che è successo di così grave da farle dimenticare una cosa simile?
Janet, sembrava la classica ragazza con gli ormoni pazzi, con una vocina che la pizzica qua e là e con un suo mondo colmo di cuori e fiori. E adesso, la riscopriamo diversa. C’è qualcosa che la blocca, un passato a cui non vuole pensare, a cui non può pensare. Lei credeva di aver superato tutto ma non è così. Ma cos’è che tanto la spaventa? Non voglio accennarvi niente, ma lo scoprirete presto o tardi. J Intanto spero vivamente che vi sia piaciuto e vi ringrazio tanto. Grazie a coloro che si impegnano e perdono un po’ di tempo per lasciarmi una recensione (anche piccola piccola). E grazie anche a tutti voi lettori che leggete silenziosi senza commentare. Mi fa molto piacere e sono felice di avervi interessato con le mie sciocchezze idee pazze! Alla prossima, vi adoro! :**
Tanti baci, vostra Claudia 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2603116