Mein Herz Brennt

di FatherAndersonLover
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Back Again ***
Capitolo 2: *** Dove sei stato? ***
Capitolo 3: *** But was that just a dream? ***
Capitolo 4: *** Wilder Wein ***



Capitolo 1
*** Back Again ***


Salve a todos. Sembrano trascorsi secoli dall'ultima volta che mi sono piazzata davanti a una tastiera e ho pubblicato qualcosa, ma ora che sono di nuovo in pista(?) avrei deciso di mettermi alla prova con qualcosa che si discosti un po' dalla mia solita brevitas...questo è l'inizio della mia prima FanFiction a capitoli, quindi siate clementi con me QuQ Ciò detto, buona lettura.
 

«Stupefacente.»
Neppure una nube macchiava il cielo color indaco dell'ottocentesca Berlino, quel pomeriggio - quasi un miracolo, se si considerano gli autunni freddi e piovosi tipici del Nord Europa - e se qualche passante avesse per caso distolto l'attenzione dalle sue abitudinarie faccende per concentrarsi sul paesaggio circostante, avrebbe potuto sentire il cinguettio dei passerotti che ancora non aveva ceduto il passo, tra le fronde già più rade degli alberi, al gracchiare dei corvi.
Christian Lorenz, come spesso era accaduto anche in passato, aveva per un attimo temuto di aver smarrito la strada; dopo tutto erano passati tanti anni da quando per l'ultima volta aveva veduto quelle vecchie mura cinte ovunque da rampicanti secolari, e i vetri di quelle finestre che mai nessuno aveva avuto la premura di pulire come si conviene, in modo che, perennemente semi-opachi, sembravano da anni e anni celare un qualche segreto. Se poi quel luogo, teatro della sua infanzia, non aveva subito mutamenti, lo stesso non si poteva certo dire del musicista stesso: un uomo nel pieno della sua giovane età, dalla figura sottile e slanciata, una lunga chioma color legno d'acero sempre raccolta in una coda bassa e un paio di grandi occhi verdazzurro, la cui profondità era quasi del tutto celata dalle lenti di un paio d'occhialetti tondi e dalla montatura sottile.
«Mio caro!» lo aveva accolto Frau Lorenz, che nei suoi ricordi sempre sarebbe stata viva come zia Mildred, non appena aveva messo piede nella vecchia residenza di città. 
L'aveva tenuto stretto a sé per un tempo fin troppo lungo, come sempre, e come sempre lui non glie l'aveva fatto notare, per eccessiva timidezza o smisurato affetto.
«Sei...cresciuto,giovanotto.» La voce di zio Arthur era poi risuonata per l'ampio salone, con un tono meno entusiastico ma di certo altrettanto affettuoso. «Avrai tanto da raccontare, immagino...» 
Il musicista aveva risposto con un mezzo sorriso a quei premurosi cenni di saluto: non aveva mai padroneggiato né apprezzato granché l'arte delle ciance nobiliari, neppure quando erano i propri genitori, all'epoca ancora in vita, a prendervi parte. Si era poi congedato educatamente, trascinando poi i bagagli lungo la scalinata curvilinea che, ricordava bene, conduceva alla stanza dove da bambino aveva trascorso innumerevoli notti, mentre al piano di sotto ospiti sempre diversi sparlavano della nuova borghesia e aspiravano il fumo nero dei sigari toscani dello zio.
Uno, due, tre passi oltre l'oscurità di quello stretto corridoio, fedele alleata quando si giocava o quando semplicemente non si voleva essere trovati, ed ecco comparire la porta di quella vecchia camera.
Aveva osservato per qualche secondo un religioso silenzio prima di spalancarla, quasi fosse l'uscio di un sepolcro, e quando finalmente l'aveva rivista si era meravigliato di quanto piccola e spoglia fosse; quello che una decina d'anni fa era stato il suo regno segreto, la sua fortezza, era adesso poco più che uno sgabuzzino male illuminato. L'unica sua gioia fu rivedere, proprio al centro di quella stanzetta, coperto da un decennio di polvere ma ancora bellissimo e quasi regale nella sua importanza, il più gradito dei doni che avesse mai ricevuto: un pianoforte Schimmel in solido mogano, con i tasti in avorio indiano; su uno dei piccoli sostegni si poteva ancora leggere chiaramente inciso il suo nome.
Nell'accarezzare nuovamente quella liscia superficie mise la delicatezza che, immaginava, si sarebbe dovuta riservare a un amante, mentre nella memoria gli si facevano spazio ricordi come quando, da bambino, non era capace di pronunciare adeguatamente il nome di quella rinomata marca, per cui fino ai sette anni si era appellato allo strumento con il nome di "'Till".
«E così, mio buon amico, sei stato relegato quassù...» Era un sussurro quasi commosso il suo, da piccolo quel piano era stato la sua sola valvola di sfogo, su di esso aveva concentrato le proprie energie e da esso aveva immaginato di ricevere le attenzioni che sempre gli erano state negate da chiunque altro. «Beh, non sei più solo ora. Nessuno dei due lo è più.» Ciò detto abbandonò le dita sottili sui tasti scoperti, e chiudendo gli occhi lasciò che il suono limpido e puro delle corde tese riempisse la stanza, rimbalzando di parete in parete e riversandosi contro di lui.

Chi non abbia provato nuovamente un intenso piacere dopo essersene visto lungamente privato, mai potrà capire pienamente come il cuore di Christian vibrò in quei magici istanti, né il brivido d'esaltazione che percorse le corde, ancora in lieve vibrazione, del pianoforte. Addio solitudine, addio notti insonni vegliate al lume del rancore e della malinconia...il padrone era tornato.

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Capitolo 2
*** Dove sei stato? ***


Aveva mangiato poco o niente, quella sera. A dir la verità l’appetito non era mai stato proprio del nostro giovane pianista, ma lo stress del viaggio e l’emozione nell’aver rivissuto tanti ricordi in così breve tempo avevano cancellato da lui anche il benché minimo languore. Si era limitato, per questo, a osservare in silenzio lo zio e la zia scambiarsi sorrisi vuoti e passarsi vicendevolmente le pietanze, domandandosi se fosse questa la fine a cui erano destinati tutti gli amori che si trascinano per tanti anni, e sempre con la stessa monotona banalità. 

Passate le dieci di sera, quasi vincolato da un coprifuoco auto-imposto, dopo aver augurato cordialmente la buonanotte agli ospiti si avviò al piano di sopra, lasciandoli ai loro improperia aristocratici e aspettando che i propri occhi si abituassero alla differenza tra la luce acciecante del salone e la penombra tetra della sua cameretta. Quante volte, da bambino, aveva implorato i genitori affinché lo assistessero, a volte fino anche a dopo che il sonno aveva preso il sopravvento su quegli occhietti sognanti...certo non ne avrebbe avuto bisogno, ora. E anche se ne avesse avuto, a chi l’avrebbe domandato? 

Si svestì di malavoglia, gettando gli abiti stropicciati su un divano appoggiato a una parete, e piano scivolò al di sotto delle candide lenzuola; pose il capo sul cuscino, chiuse gli occhi, e nel giro di un paio di minuti Morfeo stava già avvolgendolo con il candido manto di fine sabbia che una tradizione comune a tutte le culture gli attribuisce.

 

-Crick-

Un rumore improvviso, come di vetri infranti, lo strappò a un sonno profondo come pochi ne aveva sperimentati prima, o ne avrebbe mai sperimentati dopo. Cos’era accaduto? Con fatica dischiuse gli occhi, e nella pallida luce del plenilunio realizzò che, come cento altre volte era capitato, aveva dimenticato di togliere gli occhiali prima di addormentarsi, e ora i due vetri circolari erano in frantumi sul suo cuscino, la cui federa immacolata era macchiata da talune piccole macchie cremisi. 

Si levò con fatica dal suo comodo giaciglio, e senza sapere con precisione dove si stesse dirigendo si diede alla ricerca di qualcosa, magari un mero drappo di stoffa, per ripulirsi il viso dal sangue. Fu proprio la mancanza degli occhiali, unita all’oscurità profonda che lo avvolgeva, a impedirgli in un primo istante di notare un’alta sagoma nera, in piedi accanto all’ampia finestra. In effetti, probabilmente non si sarebbe mai accorto della sua presenza se solo quella creatura dalla natura tutt’ora, a distanza di quasi due secoli, non ben definibile non si fosse fatta avanti per posare una delle sue mani, umana, sull’esile fianco destro del pianista, il quale, consapevole di dover essere solo in quella stanza, in un primo momento fu assalito dal dubbio di essere vittima di uno scherzo, forse giocato dalla stanchezza o dalla stessa propria fervida immaginazione; dubbio che, certo, gli fu del tutto tolto quando, voltatosi, si trovò di fronte un uomo. Era alto poco meno di lui, una folta chioma corvina incorniciava il viso dai tratti tutt’altro che delicati, e l’estremità di qualche ciocca andava a baciare gentilmente le clavicole, profondamente scavate nelle ampie spalle; un paio di forti braccia dalla muscolatura decisamente pronunciata si abbandonavano lungo i fianchi, al livello dei quali il suo corpo era disordinatamente fasciato da un drappo di stoffa nero notte che si prolungava fino al suolo, adagiandosi con grazia naturale sul pavimento di marmo della stanza. Le due caratteristiche che, tuttavia, rimasero più impresse nell’attonito musicista furono un paio d’occhi color ghiaccio, sottili come feritoie e intensi come il dolore della lama di un rasoio sulla pelle viva, e le innumerevoli cicatrici da taglio che, per lo più verticali, percorrevano ogni centimetro di pelle scoperta dell’individuo, eccezion fatta per il viso. Va da sé che il giovane Christian si sentì gelare quando realizzò che un estraneo, per di più di quelle inquietanti fattezze, si trovasse a pochi centimetri da sé, nella propria stanza. Da quanto tempo si trovava lì? Lo conosceva? Conosceva i suoi genitori? Gli avrebbe fatto del male?

«Sta’ tranquillo.» Un sibilo si mosse da quelle labbra dalla forma perfetta, come se i pensieri del pianista fossero in qualche modo giunti senza affanno alla mente di quell’individuo misterioso; un suono caldo e profondo, eppure dannatamente inquietante. «Piuttosto...dove sei stato, per tutto questo tempo?»

Di fronte a quegli interrogativi dal tono quasi accusatorio il pianista indietreggiò di qualche passo, prima d’inciampare in un lembo di lenzuola da lui distrattamente lasciate scivolare sul pavimento, e fissò quell’essere avanzare verso di lui, scosso da un tremore inesplicabile a coloro che non si sono mai trovati in una situazione simile. 

Fu solo dopo alcuni freddi, interminabili istanti che Christian trovò il coraggio di domandare, a mezza voce, quasi come un pulcino abbandonato dalla madre che esalasse nel nido uno dei suoi ultimi pigolii: «C-chi siete, di grazia? E...e cosa cercate qui?»

Una risata dal tono acre echeggiò per la camera, mentre la figura si muoveva verso di lui a carponi, come una pantera avanza verso la preda indifesa. Questi allungò una mano verso la guancia del pianista, che immediatamente sussultò, serrando gli occhi in attesa del peggio; la accarezzò con delicatezza, portandosi le dita sporche di quel sangue puro alle labbra per leccarne via fino all’ultima goccia, e solo allora decise di dare una risposta, seppur breve e sibillina, alle domande del suo compagno.

«Proprio non ricordi, mio giovane Master? - domandò, e sulle labbra aveva un sorriso nel quale risultava difficile discernere entusiasmo e frenesia - Il tempo ha segnato la tua memora a tal punto da farti scordare ogni cosa? Perfino...il tuo ‘Till?»

E sulle tetre note di quella domanda sollevò un lembo della veste scura, rivelando un nome impresso con lettere di fuoco sulla propria caviglia. “Christian”.

Il musicista dovette spendere diversi secondi per ricollegare quel termine all’infantile nomignolo con il quale era solito chiamare il proprio pianoforte, e anche quando questo gli riuscì, di certo non gli fu più chiara l’identità dell’individuo che si trovava, ora, pericolosamente vicino al suo volto...che stava schiudendo pian piano le labbra...che...che aveva appena premuto la bocca contro quella di Christian, coinvolgendolo in un bacio intenso come mai aveva neppure potuto sognare, passando le dita fra i suoi lunghi capelli sciolti e accarezzandolo appena dietro la nuca, per uno, dieci, cento secondi prima di lasciarlo andare e passarsi la lingua, biforcuta come quella di un rettile, sulle labbra.

«Oh, ma ricorderai ogni cosa, stanne certo...» fu la sua predizione, poi, d’improvviso, quel folle ghigno scomparve per lasciare il posto a un’espressione quasi malinconica, che non solo ingentiliva l’intera sua figura, ma sortiva in Christian una qualche ineluttabile attrattiva. 

L’uomo, o ‘Till, a questo punto, accolse in un abbraccio il corpo tremante del giovane musicista, al quale più nessuna capacità di esprimersi era rimasta se non in qualche mugolio senza significato, e a sé lo tenne stretto, come temesse che da un momento all’altro questo potesse smaterializzarsi.

 

Le mani calde sono così fredde...

 

“Vorrei scaldarti nel mio abbraccio - pensava - ma fredde sono le mie membra, ghiaccio il mio corpo, gelido acciaio il mio cuore. Non abbandonarmi...dove sei stato?”

Tutto tacque.

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Capitolo 3
*** But was that just a dream? ***


Le sette del mattino. Un primo, timido raggio di sole filtrato attraverso le nubi aveva sfiorato il viso del giovane Christian, destandolo da quel sonno nel quale neppure si era accorto di essere scivolato la notte prima. Quella notte...la notte in cui, se ancora poteva riporre fiducia in ciò che ricordava, lo spirito di un vecchio pianoforte gli aveva fatto visita.

Dopo essersi preso un paio di minuti buoni per riuscire a rimettersi in piedi, con gli occhi ancora assonnati e privi del notevole vantaggio dato dagli occhiali, percorse l’intera stanza alla ricerca di qualsiasi cosa potesse testimoniare il passaggio di qualcosa di sovrumano: le lenzuola che la sera prima coprivano ordinatamente il materasso si trovavano sul pavimento accanto al corpo del pianista, l’ampia finestra spalancata e le tende spostate con frettolosa imprecisione. Una rapida corsa nella stanza del pianoforte gli permise di sincerarsi che lo strumento fosse perfettamente al suo posto, senza segno alcuno di spostamento. Possibile che avesse sognato? Possibile che fosse impazzito del tutto? Eppure ogni cosa gli era parsa così reale, ogni cosa era vivida nella sua mente come stesse accadendo in quel preciso istante...

D’un tratto, poi, un’illuminazione, un’improvvisa epifania lo fulminò: si precipitò nuovamente verso la camera nella quale aveva passato la notte, avvicinandosi con calma quasi ansiosa allo specchio appeso alla parete per analizzarsi la guancia. Non una traccia di sangue vi trovò, non una minuscola macchiolina vermiglia. Se la ferita avesse sanguinato durante la notte, priva d’ogni tipo di fasciatura o sutura, il suo viso sarebbe stato visibilmente imbrattato di sangue. Poteva quel dettaglio minuscolo essere preso in esame in quanto prova che qualcuno era stato nella sua stanza, che gli aveva parlato, che lo aveva toccato...e credetemi se vi dico, lettori, che nel richiamare alla memoria ciò che d’altro rammentava fosse accaduto, quando quelle labbra tanto carnose sebbene appartenenti a una creatura eterea e inconsistente si erano posate sulle sue in una danza del tutto nuova, il nostro protagonista avvampò, ricacciando quei pensieri indietro, come se qualcuno da qualche parte potesse decifrarli e farne un pubblico scandalo.

Quel mattino raggiunse i suoi ospiti al piano di sotto diversi minuti più tardi di quanto fosse solito fare, ma fortunatamente per lui zio Arthur e zia Mildred erano troppo impegnati a disquisire circa loro stessi per incuriosirsi di fronte a quell’evidente seppur lieve ritardo, o all’espressione stravolta del musicista.

Non una parola, né tanto meno un accenno a quanto successo la sera precedente; era già stato considerato un pazzo visionario quando era bambino, a sufficienza da bastargli per una vita intera. Aveva per anni avuto paura di raccontare i sogni che faceva, anche dopo la morte dei suoi genitori, per paura che qualche medico dal camice immacolato comparisse dal nulla per somministrargi l’ennesima medicina, per costringerlo all’ennesima doccia gelata o all’ennesima notte di solitudine in una stanza vuota, le braccia costrette contro i fianchi da una camicia di forza sfibrata. Il tutto perché raccontava storie che la mente di qualsiasi fanciullo di quell’età partorisce, storie che vedevano protagonisti spiriti della notte e splendide melodie suonate solo per lui, per quel piccolo pianista senza alcun amico ad eccezione del proprio strumento.

« Mio caro - cinguettò zia Mildred, dopo aver realizzato che non avrebbe potuto ignorare il nipote per tutta la mattinata - hai dormito bene? Immagino sia stata dura abituarsi nuovamente a un luogo tanto pregno di dolorosi ricordi...»

Naturalmente, per quanto le intenzioni di quella tenera donna, ormai prossima ai sessant’anni e che tuttavia vestiva ancora come una debuttante, fossero chiaro segno d’affetto, il tastierista liquidò la domanda con un “sì” roco e poco convinto.

« Oh...tua zia ha intenzione di presentarti agli ospiti di questa sera, ragazzo» asserì zio Arthur, lisciandosi i folti baffi, inconsapevole del profondo turbamento che la notizia aveva instillato in Christian. Sarebbe dovuto entrare in contatto con dei perfetti sconosciuti? Avrebbe trascorso una serata tra futili chiacchiere e sorrisi falsi, tra l’ipocrisia di chi lo salutava amabilmente solo grazie alla posizione sociale che occupava?

« Forse potresti suonare qualcosa per l’occasione, dopotutto credo che quel tuo vecchio piano sia ancora qui da qualche parte...»

Avrebbe avuto gli occhi di tutti i presenti puntati addosso, sarebbe stato esposto alla critica comune...addirittura al pubblico ludibrio, se come spesso accadeva la sua timidezza avesse sabotato l’abilità delle sue mani. Cosa mai aveva fatto per meritare una cosa simile?

« Possibile che...» sibilò il musicista a denti stretti, i pugni serrati sotto il livello del tavolo e l’intero corpo scosso da un fremito quasi isterico.

« Che cosa, caro...?» domandò zia Mildred con noncuranza, intenta com’era a imburrare il pane.

Non uno degli oggetti presenti a tavola rimase al suo posto quando il pianista, scattato in piedi, vi sbattè violentemente entrambe le mani.

« Possibile che nessuno tenga mai conto di ciò che desidero io?»

Un pianto asmatico soffocava quell’accusa, la prima che mai avesse esternato di tante che gli avevano stretto il cuore nel corso degli anni. Era una persona tranquilla, lui, doveva esserlo per lo meno in presenza d’altri. Certo era già capitato che avesse crisi simili, ma le riservava al silenzio della propria stanza, alla federa candida del suo cuscino consacrava le sue lacrime, a quelle pareti scolorite le sue grida disperate. Forse anche per questo motivo l’anziana coppia trasalì di fronte alle copiose lacrime che rigavano quelle guance emaciate.

« Sono stanco di essere esposto come un trofeo di caccia, sono stanco di essere posto al centro di una stanza in modo che donne e uomini che nulla sanno di me e che nessun interesse provano nei confronti della mia musica possano trafiggermi con i loro sguardi ipocriti e...e magari, in separata sede, definire mediocre un talento che ho coltivato per una vita, che si è nutrito delle mie lacrime e dei miei sacrifici! Sono...sono stanco di essere il vostro agnello sacrificale, il prezzo da pagare perché voi possiate crogiolarvi nella vostra popolarità»

Si alzò, dopo aver ripreso a respirare, e a passi decisi sebbene del tutto scoordinati salì le scale che l’avrebbero condotto al suo rifugio dal mondo esterno, dalle mille domande di zia Mildred e dall’ira di zio Arthur, da tutto ciò che avvelenava la sua arte pura.

Aveva bisogno d’ispirazione, aveva bisogno di sicurezza...aveva bisogno di ‘Till.

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Capitolo 4
*** Wilder Wein ***


- Ding -

 

Quell’ultima nota ancora echeggiava nella sua mente, a ormai diverse ore dal momento in cui aveva riempito quella grande sala gremita di nobili, di anziane signore dal seno, ormai sfiorito, compresso da corpetti al limite della decenza e da gentiluomini affiancati dai giovani rampolli ai quali troppo presto era stato insegnato a tenere un sigaro fra le labbra o una donna al suo posto. Per loro aveva suonato il giovane Christian, note già conosciute, composizioni fiorite dai suoi ultimi anni d’intenso studio, e tutto ciò che era stato capace di ottenere era stato un applauso senza un vero suono, durato appena qualche secondo prima di spegnersi tra il disinteresse totale.

“ Una vera promessa, non trovate? ” aveva domandato zia Mildred a svariate sue conoscenti, le quali si erano limitate a segni d’assenso poco convinti. Alcune, con meno peli sulla lingua, avevano affermato di aver già sentito melodie simili in Francia, in Austria, e di fronte all’imbarazzo della padrona di casa l’avevano rassicurata sostenendo che non fosse poi una tragedia il non avere un genio musicale in famiglia.

Ora, a distanza di due giorni, quelle critiche in apparenza prive d’importanza eppure taglienti come lame di rasoio attraversavano senza sosta la mente del pianista che, seduto al proprio strumento da quelle che gli erano parse decadi, cercava disperatamente tra i fantasmi del passato quella peculiarità nelle proprie composizioni che tanto aveva stupito i suoi parenti quando, da bambino, aveva deliziato i loro pomeriggi con la musica del suo pianoforte. Ma nel posare le dita su quei tasti appena umidi di lacrime colme di auto-compatimento nessuna dolce sinfonia, nessun’aria che esprimesse immensa gioia o profondo dolore riusciva ad aprirsi un varco oltre il suo cuore per arrivare alle mani.

Era questo, dunque, l’epilogo definitivo della sua arte? Un artista fallito, appena sbocciato e già destinato ad appassire in così breve tempo...

Un movimento lento e rassegnato fu quello che tentò di chiudere il pianoforte su quei tasti scoloriti, se non fosse stato per una seconda mano, impegnata nel compiere il movimento contrario. Per un attimo Christian pensò che il proprio subconscio gli stesse vietando di mettere da parte la sua musica, ma gli fu sufficiente sollevare lo sguardo perché il tessuto scuro di un lungo abito già veduto prima entrasse nel suo campo visivo: in un primo momento quell’orlo sdrucito, poi quell’ampio tessuto che arrivava a stringersi su un paio di fianchi evidentemente muscolosi e quasi si lacerava su quel petto segnato da profonde cicatrici. In ultimo quegli occhi, fissi nei suoi in un’espressione di mesto e quasi irato rimprovero, come se a pochi centimetri da essi fosse passata inesorabile la prospettiva di un secondo abbandono.

« Tu...sei di nuovo qui - biascicò il giovane musicista, ritratta immediatamente la mano e allontanatosi di una decina di passi dallo strumento e dalla sua anima di fuoco. - Oh, VOI...voi siete di nuovo qui, domando perdono... » si corresse immediatamente, senza osar sollevare lo sguardo su quello che pure era l’amico di una vita.

« Sono di nuovo qui, Meister, sì... - sibilò lo spirito per tutta risposta, avanzando con sicurezza verso il proprio padrone fino a quando questi non poté più arretrare - ...e non senza motivo »

Ciò detto si voltò, lanciando uno sguardo apprensivo al pianoforte che, in fondo a quella camera spoglia, pareva ancora più misero di quanto tempo e negligenza non lo avessero reso.

« Dimmi, cosa ti affligge a tal punto da spingerti a rinnegare la tua arte, giovane Chris? ».

Il pianista, nuovamente preso dallo stesso tremore che lo aveva invaso durante il primo incontro con quell’angelo custode, quel demone maledetto, salvezza e dannazione fuse in una sola entità, per un attimo avvertì come piombo riempirgli le vene di fronte a quella domanda. In che modo poteva scagionarsi dalle accuse di qualcuno che aveva assistito assieme a lui al suo fallimento, qualcuno che già conosceva la risposta e di certo non l’avrebbe accettata come una valida giustificazione?

« Ecco io...io temo... - tanto bassa era la sua voce, tanto stridulo e mortificato il tono, tanto vicine al pianto le sue parole, che a stento si riconosceva in quello che diceva. - ...temo di non essere più capace di comporre »

Quella confessione era echeggiata nella stanza per un tempo interminabile, viaggiando dalle labbra di Christian alle orecchie di ‘Till abbastanza lentamente perché il primo facesse a tempo a pentirsi di averla pronunciata e il secondo a rammaricarsi di essere lì per ascoltarla.

« “Non riesci più a comporre”? Tu non...riesci più a comporre? » domandò lo spirito con una calma pericolosa, distorcendo forse involontariamente quelle sue belle labbra nel pronunciare quelle parole, come avessero un sapore aspro e sgradevole.

« Mi stai dicendo che un uccello può improvvisamente dimenticare come volare, o che è possibile che un roseto non sia più capace di far fiorire i suoi boccioli? » 

Una risata irrisoria e quasi perfida accompagnava quelle domande retoriche.

« Tu non hai perso la capacità di comporre, te ne manca soltanto la volontà. Forse tutti questi anni lontano dal sottoscritto ti hanno irrimediabilmente macchiato con l’arrendevolezza, non sei più il mio padrone... » così concluse, lanciando un’ultimo sguardo quasi di compatimento verso il musicista prima di voltargli le spalle. La tela era tessuta, se ancora un briciolo del Chris di una volta fosse rimasto nell’uomo che aveva di fronte di certo questa provocazione gli avrebbe fatto bollire il sangue nelle vene.

« Beh...forse no... » era stato tutto quello che l’altro aveva saputo ribattere prima di chiudersi in una silenziosa meditazione. Forse no? Davvero poteva convivere con l’idea di aver perso l’unica cosa che lo rendesse felice o anche lontanamente capace di affrontare la vita? L’unica e ovvia risposta sarebbe stata un secco “no”, si disse immediatamente, e d’un tratto quelle frecciatine poco prima ignorate e quasi accettate come veritiere presero a bruciare come sale su ferite aperte.

« Voi...no, TU... - ribattè, stavolta con forza e decisione, tenendo i pugni serrati lungo i fianchi - ...cosa ne vuoi sapere tu della mia musica?? »

Dimenticava probabilmente che colui contro il quale stava sfogando la propria frustrazione lo aveva per primo iniziato all’arte melodica, dopotutto ora l’unica cosa che avesse importanza era difendere la propria passione, immutata nel tempo e incontestabile perfino dal proprio strumento.

« Io metto tutto me stesso in ogni composizione, ogni spartito è intriso delle mie lacrime e del mio sangue, e dell’essenza di ciò che sono, e tu... - rincarò, muovendo stavolta decise falcate in direzione di ‘Till, puntando il dito indice della mano destra, scosso come tutto il suo corpo da un tremolio infervorato, contro il suo ampio petto - ...tu pensi di poter comparire all’improvviso nella mia vita e di potermi sfornare una paternale su quanto io non tenga abbastanza alla mia musica?? Sei...sei un arrogante e nulla più, ecco »

Per diversi istanti ‘Till rimase immobile, impassibile nel constatare con quanto ardore il suo padrone difendesse ciò che amava, tanto che Christian temette che da un momento all’altro gli sarebbe stata inflitta una severa punizione. Così, però, non fu: fra la rada barba di quell’uomo che uomo non era si fece strada un ampio sorriso, splendida e inquietante cornice per quegli occhi posseduti che ora erano tanto vicini a quelli chiari e innocenti del pianista, come volessero divorarlo vivo. Il corpo di lui, tanto esile da ricordare per alcuni tratti quello di una fanciulla piuttosto che quello di un giovane uomo, in pochi attimi si era trovato costretto ad abbandonarsi alle possenti braccia di quell’entità profana, e le sue labbra sottili, intonse quanto la più candida delle tele, avevano alla fine dovuto cedere ai suoi baci. Ancora una volta il musicista si era trovato irresistibilmente coinvolto in quella che poteva sembrare una folle danza di ogni suo senso, e nessuna grazia divina gli avrebbe concesso di sfuggirne.

« Sì...è questo il mio padrone... » sibilò ‘Till, con il tono più animalesco e inquietante che Christian avesse mai udito.

In poco tempo cessò di percepire ciò che era attorno a sé, abbandonandosi quasi volontariamente a quelle mani calde che pareva gli sciogliessero gli abiti di dosso esclusivamente sfiorandoli, a quelle labbra che frenetiche sembravano volersi nutrire del suo collo, al nero corvino di quella folta chioma, unico suo appiglio nel momento in cui iniziò ad avvertire un calore estraneo farsi strada fra le proprie cosce...prima che potesse pienamente realizzarlo, corpo e spirito si stavano unendo in un amplesso grottesco e insieme così soave che neppure nelle sue più vivide fantasie avrebbe potuto sognarlo tanto intenso e disarmante.

Per ogni rantolo soffocato  di ‘Till, per ogni mugolio squillante del giovane pianista, l’aria fresca di una delle tante notti berlinesi pareva risuonare di note sconosciute, violente come il rombo di un tuono e delicate come trilli di campanelle, ognuna con una sfumatura diversa, suonate ognuna nel frangente perfetto per infiammare tutte assieme una melodia di una bellezza tale che, quando il bocciolo del piacere dischiuse i petali scarlatti alla luce del suo massimo apice, a Christian parve di poter morire per quanta eccezionale grazia aveva riempito il suo cuore. Nulla di quello che aveva provato nelle ore precedenti aveva più importanza ora che poteva contemplare il volto del suo compagno, esausto nella pallida luce lunare, le splendide labbra impercettibilmente contratte in un lieve sorriso. L’ultimo suo ricordo, prima di chiudere gli occhi e cedere il passo alle tenebre, un tenero bacio sulla fronte, e una melodia che, ne era certo, non avrebbe scordato, come chiunque l’avesse ascoltata dopo di lui.

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