A Fairytale for a Lifetime

di Beauty
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1. C'era una volta (prima parte) ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2. C'era una volta (seconda parte) ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3. C'era una volta (terza parte) ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4. Interludio ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5. C'era una volta (quarta parte) ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo
 
Le tende di velluto rosso erano appena accostate, e l’unica fonte di luce che illuminava la stanza del Grand Hotel di Garden Hill erano le fiamme che scoppiettavano nel grande camino di pietra.
Nathan Storm perse solo qualche attimo a ravvivarle con un attizzatoio, per poi tornare a rivolgere la sua attenzione al fascio di carte sistemato ordinatamente sul bordo del letto. Non poté fare a meno di sorridere, compiaciuto di se stesso: aveva vinto.
Si avvicinò al letto, prendendo in mano i fogli ed esaminandoli per quella che, in quella giornata e in quelle precedenti, doveva essere stata la millesima volta. Ormai sapeva che non c’era niente fuori posto, che tutto era stato meticolosamente organizzato e documentato, che non c’era alcun dettaglio che avrebbe potuto annullare o far andar storta l’intera faccenda, ma non si sentiva comunque di rischiare.
Fece scorrere più e più volte lo sguardo sulle pagine, osservando ogni singolo dato di quell’immensa raccolta: fotocopie di documenti privati; trascrizione di testimonianze; cifre su cifre, scontrini, spezzoni di messaggi e resoconti di intercettazioni telefoniche. Ogni cosa era stata raccolta e organizzata alla perfezione. E il giorno dopo, quando avesse presentato quei fascicoli al commissariato di Garden Hill, sarebbe iniziato il vero e proprio scontro tra Titani. Ma non lo preoccupava più di tanto: non c’era niente che potesse andare storto, adesso.
Aveva vinto.
Rimise a posto l’intera documentazione, per poi sedersi sul bordo del letto, sospirando. Gli attraversò la mente l’idea di buttare giù un altro bicchiere di scotch o due, ma il suo mal di testa unito alla razionalità lo costrinse a desistere. E poi, il carrello che il cameriere gli aveva consegnato in camera due ore prima, quando quella riunione si era conclusa, era già stracolmo di bottiglie di alcolici mezze piene e bicchieri usati vuoti. Non era quella la serata per ubriacarsi, si disse; aveva bisogno di restare sobrio e calmo fino all’indomani. Doveva essere lucido.
Rimase a fissare le fiamme del camino fino a che gli occhi non iniziarono a bruciargli. Si prese il capo fra le mani, passandosi le dita fra i capelli. Non era tranquillo: qualcosa, come una specie di voce nella sua testa, continuava a ripetergli che non era stato saggio da parte sua voler rimanere ancora una notte al Grand Hotel. Sì, certo, quella era una camera confortevole e lussuosa, il meglio che si potesse avere; il proprietario lo conosceva e lo trattava con tutti gli onori, e poi con un po’ di razionalità, proprio per il fatto che si trattava di un albergo, era anche il posto più sicuro in cui potesse stare, ma non riusciva comunque a tranquillizzarsi.
Si sarebbe certamente sentito più al sicuro a casa sua, nella sua villa munita di telecamere e sistemi d’allarme; oppure, meglio ancora, data la situazione avrebbe dovuto levare le tende e lasciare Garden Hill, almeno per quella notte, ma ormai era lì, e c’era ben poco che potesse fare.
Scoccò un’occhiata al suo orologio da polso: era quasi mezzanotte. Si decise ad alzarsi dal letto, non prima di aver controllato un’ultima volta il fascio di documenti ancora posato sul materasso, e uscì dalla camera da letto. La suite era molto grande, contava non solo la stanza in cui dormiva ma anche un grande salone e un bagno con doccia e idromassaggio. Fu lì che si diresse, aggrappandosi stancamente al lavandino: rimase a fissare il rubinetto dorato per un tempo che gli parve infinito, quindi sollevò lentamente il capo, incontrando la propria immagine riflessa nello specchio.
Era possibile apparire così tanto invecchiati nell’arco di una settimana?
Erano stati i sette giorni più duri della sua vita: oltre al solito stress per la routine lavorativa, si era andato ad aggiungere anche quell’insopportabile peso dovuto al fatto che, ormai, il momento della verità – e della giustizia – si stava avvicinando. Naturale che il suo aspetto ne avesse risentito.
Il suo volto affilato era pallido in modo insano, gli occhi cerchiati, i capelli castani scompigliati, la barba leggermente più lunga del solito, la giacca macchiata di scotch e la camicia sbottonata sul collo gli davano un’aria trasandata. Che avrebbero detto tutti, vedendo che l’uomo che possedeva mezza Garden Hill – e forse di più – era ridotto come un senzatetto?
Chiuse gli occhi, aprendo il rubinetto in modo che l’acqua fredda scorresse nel lavandino. Si sciacquò la faccia più volte, chiedendosi se fosse il caso di provare almeno a dormire, sebbene sapesse già che non ci sarebbe mai riuscito, non quella notte. Troppa ansia. Troppa eccitazione. Troppe facce che gli danzavano di fronte agli occhi...
Chiuse il rubinetto, drizzandosi in piedi, quando un improvviso schianto proveniente da due stanze più in là lo fece trasalire. L’uomo si voltò di scatto in direzione della porta aperta del bagno, ma non vide nessuno. In ogni caso, dai rumori che udì, non gli fu difficile indovinare che qualcuno – con ogni probabilità più di uno – fosse entrato.
Né gli era necessario domandarsi che cosa volessero.
In lontananza, oltre il salotto, vide delle sagome scure entrare dalla porta sfondata e iniziare ad aggirarsi per la stanza. Un attimo dopo, iniziarono a provenire i rumori dei primi oggetti che andavano spostati o distrutti.
- Qui non ci sono!
- Prova laggiù in fondo…
- Nella cassettiera!
- Continuate a cercare…
- Forza, muovetevi!
Erano almeno in quattro, forse anche cinque. Non gli conveniva andar loro incontro, ma la consapevolezza di ciò che stava per accadere gli fece salire il sangue alla testa. Uscì velocemente dal bagno, cercando di ragionare a mente lucida sul da farsi. Gli sfiorò il pensiero se qualcuno, in tutto il Grand Hotel avesse udito lo schianto della porta sfondata, ma smise immediatamente di pensare a qualsiasi cosa non appena udì le parole trionfanti di uno degli intrusi.
- Eccole! Le ho trovate! Forza, muoviamoci, andiamocene…
L’uomo sentì il sangue pulsargli furiosamente nelle tempie. Non pensò più a nulla, e prese a correre velocemente in direzione della camera da letto. Si arrestò sulla soglia, aggrappandosi con una mano allo stipite della porta, ansimando furiosamente per la rabbia.
Di fronte a lui c’erano cinque uomini. Forse la consapevolezza di essere uno contro cinque lo avrebbe inquietato, ma anche la minima traccia di paura scomparve quando vide uno di loro – un giovane che non doveva avere più di diciotto anni, praticamente un ragazzino – rigirarsi malamente il fascicolo di documenti fra le mani.
I cinque alzarono lo sguardo su di lui, per nulla intimoriti. Nathan Storm digrignò i denti in una smorfia rabbiosa, stringendo un pugno lungo un fianco. Puntò lo sguardo sul diciottenne, uno sguardo di fuoco.
- Mettilo giù…!- ringhiò.- Mettilo giù, subito! Hai capito, figlio di puttana?
Avrebbe dovuto immaginarselo. Un po’ se lo aspettava, era ovvio che gente come quella non sarebbe rimasta lì a guardare, ma doveva ammettere che anche per gente come loro mandare dei ragazzini – perché quei cinque erano grandi e grossi, ma il più vecchio doveva avere al massimo vent’anni – era veramente squallido. In ogni caso, lui non era disposto a lasciar perdere, non ora.
Il diciottenne gli rispose sfoderando un sorriso che aveva più del ghigno beffardo. Si rivolse agli altri quattro:
- Che vi avevo detto? Sapevo che questo bastardo ci avrebbe dato altre rogne…!
- Ridammi quelle carte!- ringhiò l’uomo.- Subito! Hai sentito, ragazzino?
- Ma che paura…!- ghignò l’altro.- Mi spiace, ma non posso farlo. Abbiamo ordini ben precisi, e i soldi non crescono sugli alberi…
- Me ne fotto di quello che dicono quei pidocchi che ti hanno assoldato!- ululò Nathan.- Dammi immediatamente quei documenti, se non vuoi che ti strappi la lingua!
- Strapparmi la lingua?- fece il diciottenne, inarcando le sopracciglia.- Devo ricordarti che noi siamo in cinque e tu sei da solo? O forse preferisci che te lo ricordi Riley?
Detto questo, fece un cenno a uno dei suoi compagni, un energumeno di almeno un metro e novanta con spalle larghe e un’espressione tanto stupida quanto minacciosa. Nathan vide il ragazzone scagliarsi contro di lui; senza pensarci, afferrò la lampada posta sul comodino di fianco a lui, sradicandone i fili della corrente. Nel momento in cui Riley gli fu abbastanza vicino, l’uomo sollevò il soprammobile in aria e colpì l’aggressore con tutta la forza di cui era capace, fracassandogli l’oggetto in testa.
La lampada andò in mille pezzi, mentre Riley si accasciava sul pavimento gemendo e uggiolando di dolore, e sulla sua fronte il sangue iniziava a spillare dalla ferita che Nathan gli aveva procurato.
L’uomo cercò di approfittare dell’attimo di cedimento dell’energumeno per concentrarsi su come sbarazzarsi anche degli altri quattro, ma questi gli furono immediatamente addosso con una velocità incredibile. Due lo afferrarono per le braccia; Nathan cercò di difendersi, ma quelli lo sbatterono violentemente contro una parete. Un terzo gli sferrò un potente pugno nello stomaco, tale da farlo piegare in due e mozzargli il respiro.
Per tutto il tempo, il diciottenne era rimasto a guardare la scena con apparente soddisfazione, tenendo saldamente in mano il fascicolo di documenti.
L’uomo tossì, cercando di riprendere fiato. I due aggressori lo tenevano ancora saldamente per le braccia; il diciottenne mosse un passo in direzione del camino acceso.
- Spiacente, mio caro, ma questi sono gli ordini…- disse semplicemente; quindi, con noncuranza, si voltò e scagliò il fascicolo nel fuoco. Le fiamme iniziarono ben presto a divorare la carta.
- No…- boccheggiò l’uomo, inorridendo alla vista delle pagine bruciate; cercò di lanciarsi in avanti per recuperare ciò che restava dei documenti, ma i due lo tenevano ancora immobilizzato.- No!
Il fuoco aveva ormai divorato quasi tutti i fogli. Riley si era rialzato, con ancora il volto sanguinante, e si era avvicinato al gruppo. I due aggressori lasciarono andare l’uomo che, ancora dolorante per il colpo ricevuto, cadde riverso a terra.
Nathan cercò di rialzarsi, strisciando in direzione del pavimento, ma un calcio all’addome da parte del diciottenne bloccò i suoi tentativi. L’uomo si contorse per il dolore.
- Oh, e per la cronaca: anche questo fa parte del lavoro - ghignò il ragazzo.
In un attimo, i cinque gli furono addosso.
Nathan venne investito da una scarica infinita di colpi; calci e pugni lo raggiungevano da ogni parte, con violenza inaudita, colpendogli le gambe, le braccia, il torso, la testa, la faccia. L’uomo sentiva il sangue spillargli dal volto e dalle mani, mentre i colpi non cessavano di arrivare, anzi, si facevano via via sempre più forti e violenti.
Il pestaggio continuò per circa altri cinque minuti, al termine dei quali l’uomo era praticamente incosciente. Nathan si lasciò sfuggire dalle labbra un gemito soffocato, quasi un sibilo, mentre il dolore che avvolgeva il suo corpo si faceva lancinante. Delle fitte allo stomaco lo spingevano a contorcersi per la sofferenza, ma non ne aveva la forza. Sentiva che due o tre costole erano rotte, così come probabilmente anche il polso sinistro e il setto nasale. C’era sangue dappertutto, e lui non riusciva a muoversi, e neppure ad aprire gli occhi.
Non ebbe la forza di opporsi quando delle braccia lo afferrarono e lo trascinarono via. Udiva delle voci esaltate, che alle sue orecchie risuonavano solo come dei mormorii confusi. Si sentì lasciar cadere su qualcosa di abbastanza morbido, probabilmente il materasso del letto; un attimo dopo, sentì qualcosa di freddo e liquido bagnargli tutto il corpo.
C’era un odore forte, penetrante. Odore di alcool. Era dappertutto, riuscì a pensare. Nella stanza, sul letto, su di lui. Era insopportabile.
Udì ancora alcune voci, poi dei passi allontanarsi velocemente e infine uscire dalla stanza, la porta richiudersi. Nel frattempo, una luce fortissima aveva iniziato a farsi strada di fronte alla sua vista appannata, per poi espandersi di più, tutt’intorno alla stanza.
Fuoco!
Nathan riuscì a comprenderlo in un lieve barlume di lucidità. Le fiamme avevano invaso la stanza, fuoriuscendo dal camino, crepitando lungo il pavimento, divorando le tende. Anche il letto e le coperte stavano andando a fuoco.
L’uomo sentì il calore circondarlo rapidamente, fino a che non sentì i suoi stessi vestiti, la sua pelle bruciare. Nathan Storm urlò di dolore, mentre, in lontananza, udiva il rumore delle sirene.
Poi, tutto si fece più confuso. Il dolore era fortissimo, lo stava distruggendo, ma improvvisamente il calore diminuì, anche se la sofferenza lancinante non se ne andò.
Nathan smise di urlare, vedendo le fiamme estinguersi e degli uomini sollevarlo e metterlo su una barella. Il dolore non se n’era andato, era insostenibile, lo stava ancora divorando.
Un infermiere gli pose una mascherina sul volto.
La vista si oscurò, e tutto divenne buio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: So che come inizio non è esattamente da favola, anzi, ha più da film splatter da quattro soldi, lo so, ma vi posso assicurare che dal prossimo capitolo migliorerà e che questa scena era fondamentale per il proseguimento della storia. A proposito di questa, ci tengo a precisare che è la prima volta che scrivo su questo fandom, e ci terrei a sapere che ne pensate. Anche solo un va bene o un fa schifo, giusto per sapere se devo continuarla o no.
Anche se vale sempre la facoltà di ognuno di utilizzare la propria fantasia, qui ho inserito dei link su come potrebbero essere le protagoniste di questa storia – che entreranno in scena dal prossimo capitolo. Dunque, dunque…ecco qui.
Per Biancaneve (qui chiamata Blanche) ho scelto Katie McGrath perché…beh, come aspetto fisico mi sembrava quella più indicata a “interpretare” questa principessa:
 
http://ic.pics.livejournal.com/carpenyx/8684780/95530/95530_original.png
 
Per Cenerentola (qui Evelyn) ho scelto Sophie Lowe:
 
http://pmctvline2.files.wordpress.com/2013/03/once-wonderland.jpg?w=625
 
Per Belle (che qui ho chiamato Annabelle…originale, vero? XD), ho scelto invece Emilie De Ravin (non so se qualcuno segue Once Upon a Time, ma…beh, è appannaggio da lì):
 
http://i2.photobucket.com/albums/y18/ingenue_pamina/EdRSB.jpg
 
Stesso appannaggio di cui sopra, Meghan Ory per Cappuccetto Rosso (aka Roxanne):
 
https://si0.twimg.com/profile_images/3404874071/ecf19f66ad532c6cb2f870c5d5664790.jpeg
 
La Bella Addormentata, invece (qui con il nome di Caroline), ho pensato a Evan Rachel Wood: http://images.movieplayer.it/2007/07/11/wallpaper-di-evan-rachel-wood-64975.jpg  
So che c’entra poco, ma personalmente adoro la leggenda di Robin Hood, così ho voluto inserire Lady Marian (qui Marion, altro grande slancio di originalità :P), e ho scelto Kathleen Munroe:
 
http://images1.wikia.nocookie.net/__cb20111221202041/stargate/images/7/7a/AmandaPerry.jpg
 
Ho mantenuto invece il nome di Jasmine, e ho pensato di darle il volto di Vanessa Hudgens:
 
http://cdn2.stbm.it/pianetadonna/gallery/foto_gallery/astrologia/i-vip-nati-a-dicembre/vanessa-hudgens_1.jpeg?-3600
 
Per Esmeralda (altro nome mantenuto)...scelta difficilissima, lo ammetto, e ancora non ne sono del tutto convinta, ma Marisol Nichols mi sembrava la più adatta: http://www4.images.coolspotters.com/photos/26506/marisol-nichols-profile.jpg Infine, per Ariel (anche qui ho mantenuto il nome), ho scelto Sophie Turner:
 
http://appuntisparsidiunanerd.files.wordpress.com/2013/08/sansa-stark-sansa-stark-34083818-600-9001.jpg
 
Vale sempre il discorso della fantasia, comunque…Ah, un’altra cosa: per quanto riguarda il famoso Prince Charming…beh, come avrete intuito, data la situazione, qui sarà parecchio modificato il suo ruolo, ma ritengo opportuno informarvi che la sottoscritta detesta profondamente il Principe Azzurro e quindi…beh, aspettatevi parecchie novità ;).
Ripeto, una recensione, anche critica o negativa, mi farebbe molto piacere. Fatemi sapere se la storia v’interessa e devo continuarla oppure no.
Grazie, un bacio,
Beauty

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Capitolo 2
*** Capitolo 1. C'era una volta (prima parte) ***


Capitolo 1
 
C’era una volta
(prima parte)
 
 
I’m not Snow-White,
But I’m lost inside this forest.
I’m not Red Riding Hood,
But I think the wolves have got me.
Don’t want the stilettos,
I’m not, not Cinderella.
I don’t need a knight, so baby take off all your armour.
You be the Beast and I’ll be the Beauty.
Who needs true love as long as you love me truly?
Will you wake up me boy if I bite your poisoned apple?
 
[Natalia Kills, Take me to Wonderland]
 
Faceva freddo, quella mattina, e fu proprio a causa di questo che Evelyn Marsh si alzò ben due ore prima che la sveglia suonasse. Nella soffitta all’ultimo piano del Grand Hotel non c’era altro riscaldamento se non un vecchio termosifone che raramente si degnava di funzionare. Il soffitto di legno era basso e spiovente, l’ambiente angusto e l’unica fonte di luce nelle ore diurne era rappresentata da una finestrella appena sopra al letto. D’inverno c’era sempre umidità e spesso ci pioveva dentro, mentre d’estate si soffocava dal caldo.
Non era esattamente il luogo migliore per una camera da letto, ma negli anni Evelyn ci aveva fatto l’abitudine. La ragazza aprì gli occhi, accorgendosi solo vagamente che il sole non era ancora sorto e lei stava congelando. Si tirò su a sedere in fretta, improvvisamente sveglia, e si avvolse la coperta intorno alle spalle, rabbrividendo. Era fine ottobre, e a giudicare dalle nuvolette di fumo che le uscivano dalla bocca ad ogni respiro, là dentro dovevano essere sottozero!
Evelyn si sporse davanti, innervosita, tirando due pugni decisi al termosifone nella speranza di sentire il familiare ronzio che le assicurava ogni volta che la sua unica fonte di riscaldamento non fosse sprofondata in stato comatoso, ma non udì niente. Sferrò un terzo pugno, rabbiosamente, digrignando i denti. L’inverno ancora non era ufficialmente iniziato, e già il riscaldamento l’abbandonava al suo destino…avrebbe dovuto farlo presente a Lucrezia…
Evelyn fece una smorfia.
Sì, come no. Come se a Lucrezia importasse veramente qualcosa di lei e dei suoi problemi con il termosifone. Per quel che la riguardava, avrebbe anche potuto morire assiderata. Ma forse papà…
…papà delegava tutte le questioni riguardanti il Grand Hotel a Lucrezia. E poi, ora era in tournée.
Evelyn sbuffò, stringendosi ancora di più nella coperta e lasciandosi cadere pesantemente distesa sul materasso. Scoccò un’occhiata alla radiosveglia: erano le cinque del mattino. Il suo turno sarebbe iniziato alle otto, ma rimettersi a dormire era pressoché impossibile, dato che là dentro si gelava, e poi…
La ragazza udì un insolito brusio proveniente dall’esterno del Grand Hotel. Sollevò il busto dal materasso, rimanendo in ascolto. Sembravano voci, rumore di oggetti spostati, di passi. E provenivano dall’esterno, ma dovevano essere al di fuori della zona dell’albergo, realizzò, dato che era ancora troppo presto perché gli ospiti si fossero già alzati, e il personale di servizio era molto discreto e silenzioso. Evelyn si tirò su a sedere, abbandonando il letto sempre tenendosi la coperta avvolta intorno alle spalle, ben decisa a tagliare la testa al toro e a finirla con le supposizioni.
Zampettò a piedi scalzi sino alla finestrella della soffitta, sollevandosi sulle punte per vedere meglio.
Fuori era ancora buio pesto, data la stagione invernale, ma fortunatamente i lampioni accesi nel giardino del Grand Hotel e alcune luci oltre la siepe che delimitava il confine fra l’albergo e la casa vicina l’aiutavano un poco a scorgere cosa stava succedendo: come previsto, il brusio in questione proveniva da oltre la proprietà di suo padre.
Evelyn aggrottò le sopracciglia, perplessa, non appena scorse il movimento nel cortile della villa confinante. Era una casa molto vecchia, in stile coloniale, quella che confinava con il Grand Hotel di Garden Hill. Sorgeva nel mezzo di un grande parco, con fiori, piante esotiche e un imponente labirinto formato da siepi e rampicanti; aveva le pareti bianche e, a giudicare dalla sua forma, contava almeno tre piani, più un numero ignoti di ampie terrazze, anch’esse ricolme di vasi pieni di terra e fiori rari. Da che ne aveva memoria, Evelyn non ricordava che ci avesse mai abitato nessuno, là dentro: certo, di tanto in tanto si vedevano alcuni domestici, come giardinieri e cameriere, che si affaccendavano per tenere in ordine, ma la ragazza poteva affermare con sicurezza di non aver mai scorto i proprietari, né tantomeno un viavai di gente così intenso e di prima mattina.
Uomini e donne, perlopiù domestici, muratori e facchini, trasportavano all’interno della villa una gran quantità di roba, da mobilia, a soprammobili, a tende, e chi più ne ha più ne metta, scaricando scatoloni e oggetti imballati da dei grossi camion da trasloco, e parlandosi a vicenda ad alta voce.
Chiunque possedesse quella casa, aveva deciso di tornare ad abitarci.
Evelyn fece spallucce, allontanandosi dalla finestra e mettendosi alla ricerca dei propri vestiti. Non era mai stata un tipo curioso, e d’altra parte, da anni ormai quasi più niente la stupiva, figurarsi un trasloco. Fece un sorrisetto pensando che, di sicuro, Tysha e Tamara sarebbero subito corse ad arrampicarsi su qualche albero per poter sbirciare meglio, non appena avessero saputo la novità.
Evelyn raccolse la sua divisa dalla sedia, dirigendosi in bagno per sciacquarsi la faccia e darsi una rinfrescata. Quando aveva sposato suo padre, Lucrezia aveva immediatamente stabilito il nuovo ordine delle cose, a cominciare da lei: a dodici anni, Evelyn aveva dovuto dire addio alla sua stanza, sacrificata in nome della comodità delle due figlie di Lucrezia, e trasferirsi all’ultimo piano del Grand Hotel, in quella stanzetta con annesso solo un piccolo bagno.
Come previsto, l’acqua del lavello era ghiacciata, ma la ragazza s’impose di farsi forza. Indossò velocemente la sua divisa, ovvero una gonna nera lunga fino al ginocchio, camicetta bianca, collant e scarpe col tacco. Se Lucrezia decideva di collocarla alla reception, allora di norma indossava anche una giacca scura con un cartellino su cui era scritto il suo nome, ma in genere a lei toccava servire i tavoli oppure dare una mano ai cuochi nelle cucine, quindi non si disturbò neppure a prenderla.
Si sistemò i lunghi capelli biondo scuro con un paio di colpi di spazzola, quindi prese un bel respiro, guardandosi allo specchio. Era un gesto che ripeteva tutte le mattine, prima di iniziare la giornata lavorativa: le serviva a darsi coraggio.
Scendi in campo e fatti onore, Evelyn Marsh. Comincia la battaglia.
 
I corridoi del Grand Hotel erano già illuminati, così come il grande salone d’ingresso e tutte le altre stanze, sebbene in giro non ci fossero ospiti, ma solo dipendenti, quelli più sfortunati di lei che avevano iniziato il turno tre ore prima. Evelyn scese velocemente le scale, salutando con un sorriso gli altri dipendenti. Alcuni di loro – quelli che ancora non sapevano chi era lei, in realtà – le rivolgevano un informale ciao!, oppure un ehi, Evey!; ma la maggior parte non mancava mai di farle un cenno con il capo e di dirle buongiorno, signorina Marsh.
Evelyn non era sicura che tutto questo le piacesse, ma d’altra parte non era neppure sicura di cosa fosse giusto e cosa invece sbagliato. Sapeva solo che, alla prova dei fatti, aveva smesso di essere la signorina Marsh da quasi dieci anni, ormai.
Quando arrivò nell’atrio, la ragazza si rese conto che c’era qualcosa che non andava: il turno di prima mattina era di regola il meno affollato, e invece ora lei riusciva a scorgere camerieri ed inservienti che di solito non sarebbero dovuti essere lì se non prima di mezzogiorno. Tutti sembravano essere molto affaccendati a pulire i pavimenti e spolverare le suppellettili, anche se questo era stato fatto la sera prima; sporgendosi un poco in avanti, oltre la hall, Evelyn riuscì a scorgere le porte aperte del salone da ballo: anche là dentro, un vasto assortimento di personale stava rassettando l’ambiente.
A quel punto, la ragazza ebbe l’assoluta certezza che Lucrezia avesse in gioco qualcosa di veramente grosso: la sala delle feste era forse la stanza più grande dell’intero albergo, e non veniva mai usata se non per occasioni veramente importanti, come ricevimenti oppure balli di gala. Evelyn ricordava vagamente che, l’ultima volta che era stata aperta, era stato per il matrimonio di un amico di suo padre, un facoltoso imprenditore, e della sua seconda moglie. All’epoca lei aveva undici anni, la sua vita non aveva ancora preso quel drastico giro di boa, eppure riusciva a ricordare qualche particolare: per esempio, che fosse stato un gran ballo con le coppie che danzavano in quell’immenso salone, che da solo occupava un quarto dell’intero edificio, e che vi avevano partecipato personaggi molto importanti. Alcuni di questi erano attori e registi, o comunque personaggi in vista – dato che lo sposo era un imprenditore e che la sposa, tale Grimilde De Nobili, una famosa attrice di origini italiane –, e anche lo stesso Nathan Storm – uno degli uomini più ricchi della città, nonché il reale proprietario del Grand Hotel – si era degnato di partecipare, insieme al banchiere King e ad altri componenti della crème della città, e che alla festa erano presenti altri due ragazzi, i figli dell’amico di suo padre, nati dal primo matrimonio: una era una ragazzina che doveva avere più o meno la stessa età, con i capelli neri e l’espressione che emanava snobbismo da ogni dove, e un ragazzo più grande, sui diciassette o diciotto anni, che invece le era sembrato molto gentile ed educato…
Evelyn si diede una scrollata, riemergendo dai ricordi e ritornando alla realtà. Sì, decisamente si preannunciava qualche novità e, per scoprirlo, non le occorreva altro che chiedere. E lei sapeva benissimo a chi.
 
La ragazza entrò nelle cucine ostentando noncuranza, salutando con un allegro buongiorno a tutti!, ma nel contempo facendo saettare lo sguardo tutt’intorno alla ricerca di Marge, una delle cuoche.
Marge era, come la definiva spesso Gus, l’aiuto-chef, il loro Garden Hill Mirror personale, dato che sapeva tutto di tutti pressoché in tempo reale. Jack, un inserviente, ripeteva spesso che avrebbe potuto aprire una rubrica di gossip sul suddetto giornale – beccandosi puntualmente un colpo di mattarello in piena nuca. Lei certamente avrebbe saputo darle delle delucidazioni.
Tuttavia, non appena mosse un passo all’interno della cucina già sovraffollata – Gus e Jack stavano discutendo su una crema viennese un po’ grumosa, Xander, Paul e Marge erano già al lavoro per preparare la colazione, Pavel, l’inserviente, si stava prendendo una pausa caffè – l’attenzione di Evelyn ci mise poco a spostarsi dalla cuoca a un’altra figura girata di spalle, in piedi di fronte al lavello che sistemava sul ripiano della cucina alcuni pacchi involti con carta da dolci.
La figura si voltò non appena la udì entrare, sorridendole.
- Ehilà, Evey! Come stai?
Evelyn sorrise, andandole incontro.
- Ciao, Roxy…- salutò.
Roxanne Davies, che praticamente faceva parte dell’arredamento fisso delle cucine del Grand Hotel, sebbene non lavorasse propriamente lì. E sua grande amica sin dalle elementari.
Roxanne le sorrise, voltandosi nuovamente per finire di sistemare gli involucri sul ripiano.
- Buongiorno, Evey…- la salutò Gus, mentre la ragazza si sedeva al tavolo della cucina e Paul le poneva di fronte una tazza di caffè con una brioche al cioccolato. Era un’abitudine che nessuno di loro aveva perso, quel rituale della colazione, e a volte Evey si stupiva che tutti si ricordassero dei suoi gusti di quando aveva dodici anni. Azzannò un pezzo della brioche, salutando tutti quanti con la bocca piena.
- Che ci hai portato oggi, Roxy?- s’informò, buttando giù un sorso di caffè.
- La tua nemesi ha ordinato sette torte di mele, tredici mousse al cioccolato, nove crostate di albicocca, una quantità vergognosa di gelato…- elencò Roxanne.- Oh, e ci ha consegnato una lista di venti ordinazioni diverse per sabato sera.
- Che c’è sabato sera?- Evelyn non si lasciò sfuggire l’occasione, scrutando a uno a uno i suoi amici.
- Come, non lo sai?- fece Jack, inarcando le sopracciglia.
- Ho visto che stanno rimettendo in sesto la sala grande…
- C’è una festa - spiegò Marge, ringalluzzita.- Una festa di Halloween.
Evelyn rischiò quasi di strozzarsi con il caffè, ma riuscì a ingoiare tutto il sorso senza rovesciarne.
- Una festa di Halloween?- fece eco, un po’ sorpresa.- Lucrezia ha davvero accettato di dare una festa di Halloween qui?- era parecchio sorprendente, a pensarci bene; il Grand Hotel era un albergo a cinque stelle, raffinatissimo, non di certo il luogo adatto per la baldoria che simili ricorrenze portavano inevitabilmente con sé. Se poi si aggiungeva il carattere musone e perbenista della sua matrigna, beh, allora sì che era veramente una notizia bomba.
- Che ti dico sempre? I soldi a questo mondo compiono anche l’impossibile!- dichiarò Roxanne, voltandosi verso di lei e appoggiandosi al bancone della cucina.- Comunque, sappi che mia nonna è incazzata come una iena: un’ordinazione così con neanche tre giorni di preavviso…
- Non ce la vedo tua nonna incazzata…- ridacchiò Evelyn.
A dire il vero, la nonna di Roxanne non era esattamente quella che di solito si usa definire come una dolce e fragile vecchina. Aveva sul groppone settantacinque anni suonati e un cancro al seno scampato per il rotto della cuffia, per non parlare di quel crepacuore che era stata la madre di Roxy, ma era ancora in forma fisicamente e caratterialmente. Soprattutto caratterialmente.
Evelyn non aveva mai visto la signora Davies arrabbiata, ma una volta la sua amica le aveva raccontato che aveva cacciato a suon di colpi di battiscopa un cliente che cercava di spillare alcune monetine dalla cassa. E, in effetti, con tutto quel che aveva passato e ancora passava, se non si aveva un carattere forte e deciso non se ne usciva con le ossa intere…
La signora Davies gestiva una pasticceria, Le delizie della nonna. E i suoi dolci erano davvero delle delizie: quand’era piccola, Evelyn si faceva invitare quasi tutti i giorni a merenda da Roxy, e ogni volta non mancava mai una tazza di cioccolata con panna accompagnata da un vassoio ricolmo di paste. E non pasticcini da thé, ma veri e propri dolci: krapfen ripieni di marmellata, ciambelle con le mandorle, cannoncini alla crema, sfogliatelle, meringhe, bigné al cioccolato, ventagli di pastafrolla, tortine con la frutta…
Lei e Roxy spazzolavano via tutto finché non si ritrovavano con la pancia talmente piena da non riuscire quasi più a muoversi. Poi, dopo il matrimonio di suo padre con Lucrezia, quelle visite si erano diradate sempre di più fino a scomparire del tutto, ma lei e Roxanne erano comunque rimaste amiche, e anche con sua nonna i rapporti erano buoni, complice anche il filo conduttore che legava il Grand Hotel alla pasticceria più famosa e frequentata della città.
Già, perché Le delizie della nonna non era solo una semplice pasticceria rinomata, a Garden Hill, ma ogni giorno riforniva di dolci le cucine dell’albergo. Suo padre aveva preso l’abitudine di rifornirsi dalla signora Davies anni e anni prima che Evelyn nascesse, e da allora non aveva più smesso; anche la sua matrigna, non appena era divenuta dirigente del Grand Hotel al posto di suo padre, sembrava esserne soddisfatta, e così lei e Roxy potevano vedersi quasi ogni giorno.
Roxanne aveva cominciato a lavorare con sua nonna appena finito il liceo. Era una ragazza in gamba, e anche molto bella, a suo parere – alta, snella, capelli castani e occhi scuri –, oltre che un vero peperino, ma spesso la sua testa calda l’aveva portata a compiere delle stupidaggini. Si era fatta bocciare due volte alle superiori, essenzialmente per il suo tener testa a quelle che lei definiva le ingiustizie dei professori, più che per vere difficoltà. Era riuscita a prendere il diploma con il minimo dei voti e un calcio nel fondoschiena, ma il suo unico commento in merito era stato per esprimere la sua contentezza nell’essersi tolta dalle palle quella zavorra di liceo. Aveva iniziato a lavorare in pasticceria con sua nonna, si occupava di servire al bancone e ai tavoli e di fare le consegne a domicilio, oltre che di aiutare la signora Davies a preparare i dolci. Era abbastanza brava, sempre sorridente e ci sapeva fare con i clienti, ma lei non aveva mai nascosto a nessuno di voler puntare più in alto.
Cosa intendesse di preciso, Evelyn non lo sapeva – e sospettava che neppure la sua amica avesse le idee del tutto chiare –, ma certo era che il suo carattere ribelle e la sua voglia di fuga da quella città erano la disperazione di sua nonna. La signora Davies aveva perso suo marito molto giovane, dopo pochi anni di matrimonio, ed era rimasta con un locale da mandare avanti, debiti da pagare e una figlia da crescere da sola. La madre di Roxy aveva più o meno lo stesso carattere della figlia – o almeno così dicevano i pochi che si ricordavano di lei –, ma era di gran lunga più intrattabile e insofferente, oltre che fannullona. A quanto dicevano, aveva cambiato una marea di posti di lavoro, prima di finire a pulire i pavimenti in un ufficio in centro. Di andare a lavorare con sua madre, non ne aveva neppure voluto sentir parlare; alla fine, aveva conosciuto uno scapestrato con cui era andata a convivere per poco tempo, fino a che lui non aveva preso il volo quando aveva scoperto di averla messa incinta.
Era tornata a casa con la coda fra le gambe, aveva avuto Roxy e, dopo un paio d’anni, l’aveva mollata alle cure della nonna per andare a vedere che aria tirava in Florida. Si era stabilita lì, tornando una volta l’anno per incontrare la figlia; questo fino a che Roxanne aveva avuto quindici anni: poi, le visite si erano fatte più rare, così come anche le telefonate. Si sapeva che sua madre si era risposata e aveva avuto altri due figli, ma mandava gli auguri di Natale un anno sì e due no.
Roxy non parlava quasi mai di sua madre, ma la signora Davies viveva nel terrore che anche sua nipote potesse fare la stessa fine della figlia.
- Dai, che di fronte ai soldi non ci si può permettere di piantare il muso!- la rimbrottò Xander.- Anche la signora Marsh s’è fatta convincere da dei bei quattrini…
- Ah, allora è una festa privata!- fece Evelyn.- Chi è che l’organizza?
- Una certa Woods - rispose Marge.
Roxanne si avvicinò al tavolo, piantandole davanti un cartoncino color crema. Evelyn lo guardò: era un invito, scritto in corsivo con lettere dorate.
 
Caroline Woods e famiglia vi invitano sabato 31 ottobre
Alle ore 21:30
 Grand Hotel di Garden Hill, Gillyflower Avenue 53
Al ballo in onore della festa di Ognissanti
 
E’ richiesta la maschera
 
- Caroline Woods…- mormorò Evelyn, pensosa.- L’ho già sentita da qualche parte…
- E’ la figlia del rettore della Garden Hill University - spiegò Gus.- La solita figlia di papà che ha voglia di perdere tempo…
- Tu come ce l’hai avuto questo?- chiese la ragazza, sventolando l’invito sotto il naso di Roxanne.
- Sono piena di risorse, non lo sapevi?- ridacchiò l’altra, strappandoglielo di mano. - E comunque, nel caso t’interessasse, le tue sorellastre sono state invitate…
- Beh, lo credo - fece Gus.- Sono le figliastre di un pianista di fama mondiale, oltre che della proprietaria dell’hotel…
- La signora Lucrezia non è la proprietaria - lo rimbeccò Marge.- E poi, cosa ti credi? Quella è la figlia di un rettore, e loro due capre più stupide di Heidi. Le avrà invitate solo per cortesia, dato che la festa si svolge qui…
- Ma allora anche…
Gus si bloccò appena in tempo, ma questo non fece altro che creare un alone di spessa tensione nella stanza. Tutti ammutolirono, alla disperata ricerca di qualcosa da dire che rompesse il ghiaccio. Perfino Roxanne parve trovarsi in imbarazzo.
Evelyn fece finta di nulla, bevendo l’ultimo sorso di caffè ormai pressoché freddo. Sapeva cosa Gus stava per dire, e non sopportava tutto ciò. No, lei naturalmente non era stata invitata. La cosa non le pesava – non era mai stata un tipo da feste come Roxy, e poi, chi la conosceva, questa Caroline Woods? –, ma faceva comunque male quando la verità ti veniva sbattuta sotto gli occhi in quel modo, da una semplice piccolezza.
Evidentemente, pensò, non era più nemmeno degna di essere un membro a tutti gli effetti della famiglia Marsh. Anche se ne aveva più diritto di quanto non ne avessero Lucrezia e le sue figlie. Questo, Roxy gliel’aveva ripetuto sin dal primo giorno, e sempre più spesso da quando le cose avevano iniziato ad andar male. Di fatto, quello era un altro dei diritti che loro tre si erano prese.
Suo padre, Nicholas Marsh, era un pianista e un compositore, molto famoso non solo a Garden Hill e negli USA, ma anche all’estero. E sempre in tournée. Evelyn lo vedeva molto poco, ma era sempre stato affettuoso con lei, specialmente dopo che sua madre se n’era andata.
Heloise Marsh. Un nome che era stato cancellato dalla storia del Grand Hotel.
La madre di Evelyn – e questo la ragazza lo sapeva – era forse anche peggiore di quella di Roxanne: lei, almeno, di tanto in tanto si ricordava di avere una figlia. Heloise, invece, sua figlia l’aveva rifiutata e rinnegata quando aveva solo nove anni, scappando in Europa con un uomo che non era il marito e non facendosi mai più vedere né sentire.
Evelyn aveva pianto a lungo, ma alla fine l’affetto di suo padre era stato in grado di curare le ferite. Nicholas aveva portato avanti quell’albergo – la cui gestione gli era stata affidata dalla madre, una miliardaria canadese che Evelyn non ricordava di aver mai conosciuto – e la sua carriera di pianista senza mai trascurare i suoi doveri di padre. Erano stati bene, loro due, finché era durata, ma poi lui aveva deciso di risposarsi.
Ed era arrivata Lucrezia, e con lei le sue figlie, Tysha e Tamara. L’Ape Regina e le sue due oche al seguito. Avevano iniziato a comportarsi da padrone già dal giorno del matrimonio.
Suo padre era spesso in tournée, a volte anche per mesi, e aveva affidato la gestione dell’hotel alla nuova moglie. Lucrezia ne aveva subito approfittato, naturalmente. A cominciare da lei.
A volte Evelyn si faceva pena da sola, al pensiero di com’era finita: cameriera nell’albergo di suo padre. Lucrezia era stata categorica: se voleva continuare a studiare al conservatorio, allora doveva lavorare. Senza stipendio, naturalmente; tutto il denaro che guadagnava, secondo la sua matrigna, bastava a sufficienza per farle studiare quello stupido violino.
Più volte, nel corso dell’adolescenza, le era passato per la mente di scappare e andare via, ma alla fine si era detta che, se davvero voleva essere libera, un giorno, doveva stringere i denti e resistere: sapeva di essere una brava violinista, e per di più continuava a studiare e ad esercitarsi.
Aveva ventidue anni. Prima o poi, avrebbe preso il volo. Doveva solo resistere.
La tensione parve smorzarsi da sé. Jack fece per spostare alcune stoviglie, e cozzò inavvertitamente contro Roxanne.
- Ehi, ma guarda dove vai!- lo rimbrottò la ragazza.
- Sei tu che non dovresti essere qui…- lui le diede una spintarella.- Hai portato qui le tue torte, ora smamma!
- Secondo te me ne vado così?! Caccia fuori la grana!- lo esortò.
- Non sono io che ti devo pagare. Vai dalla padrona, se vuoi i soldi!
Roxanne sbuffò, tornando a rivolgersi a Evelyn.
- Sì, come no, e secondo te mi paga, quella?- borbottò.
- Qualche problema con Lucrezia?- s’informò l’amica.
- Sì, come al solito - Roxanne sbuffò.- E’ la fine del mese. In questo periodo fa sempre storie…dice che prima deve pagare quello Storm…
- Ah, sì…l’affitto…
Evelyn sapeva di cosa stava parlando Roxanne, dato che sia il Grand Hotel sia la pasticceria erano sulla stessa barca. Il terreno su cui sorgevano apparteneva non a loro, bensì a Nathan Storm, forse uno degli uomini più ricchi di tutta Garden Hill.
Possedeva quasi mezza città, e forse di più: la maggior parte delle persone vivevano in case o appartamenti di sua proprietà, oppure che sorgevano su terreni affittati o comprati da lui. Non era esattamente un uomo molto amato, per questo fatto, ed Evelyn era sicura che, dieci anni prima, non poche persone gli avessero augurato la morte quando era incorso in quel brutto…incidente.
Già, incidente. Così almeno aveva decretato la polizia. Poco importava se Nathan Storm fosse stato massacrato di botte e l’incendio scoppiato in quella stanza fosse chiaramente di natura dolosa.
Era stato un incidente, e caso chiuso.
Era successo proprio lì, al Grand Hotel. Evelyn ricordava ancora lo spavento di quella notte, le sirene che suonavano e i passi affrettati lungo i corridoi. Suo padre era subito accorso e l’aveva portata fuori da lì, e solo al mattino lei aveva saputo cosa era accaduto.
Una stanza dell’albergo – la più lussuosa, fra l’altro – aveva preso fuoco. E dentro c’era un uomo: Nathan Storm. Era stato portato via in ambulanza, d’urgenza, e da quel che si diceva aveva trascorso parecchio tempo in ospedale, prima di riuscire a rimettersi completamente.
Anche se il fuoco gli aveva procurato dei danni irreparabili…
Nessuno seppe spiegare con esattezza cos’era successo. Alcuni dissero che Storm si era semplicemente ubriacato, ma quando trapelò la notizia di un pestaggio e di alcool sparso per appiccare un incendio, molti altri sostennero l’ipotesi che si trattasse di una vendetta, o un regolamento di conti. D’altronde, la vittima era uno degli uomini più ricchi della città.
In ogni caso, Nathan Storm era sopravvissuto, anche se si diceva che il fuoco gli avesse procurato delle cicatrici orribili, che il suo volto ora fosse una maschera di carne bruciata. In ogni caso, nessuno da quella notte lo vide praticamente più: era sempre stato un uomo molto solitario, sempre sulle sue, mai una confidenza concessa più del dovuto. Da quella sera, Storm si era chiuso in una sorta di auto-isolamento nella sua villa fuori città, da cui non usciva mai. Gestiva i suoi affari solo via computer e gli unici a incontrarlo erano i suoi domestici – che, a quanto pareva, avevano ricevuto l’ordine di non parlare di lui e della sua vita con nessuno.
Evelyn si riscosse, scoccando un’occhiata all’orologio da polso: il suo turno sarebbe iniziato fra meno di mezz’ora. Roxanne s’infilò la giacca, tirando su la zip con un gesto deciso.
- Te ne vai di già?- s’informò l’amica.- Stamattina non sei di turno, o sbaglio?
- No, ma ho trovato un altro lavoro: faccio la baby-sitter.
- Povero bambino…non traumatizzarlo troppo…- Gus ridacchiò sotto i baffi, ricevendo in risposta un simpatico dito medio da parte di Roxy. La ragazza salutò tutti con una mano, uscendo dalla cucina.
Evelyn sospirò, alzandosi in piedi.
- Grazie per il caffè, Paul…- mormorò.- Sarà ora che mi metta al lavoro…
- Resta ancora un po’. Il tuo turno inizia fra mezz’ora…- le disse Jack.
- Solo se qualcuno mi dice che sta succedendo là fuori - Evelyn si appoggiò con entrambi i palmi al ripiano del tavolo.- Abbiamo dei nuovi vicini?
- Oh, sì. Sono arrivati ieri sera, tardi - partì all’attacco Marge, suscitando dei sorrisetti generali.- Certi austriaci. Sono la madre e due figli. E quel che resta del padre…
- Che vuoi dire?
- Non lo sai?!- Marge si voltò a guardarla, scandalizzata.- E’ appena morto. Un imprenditore, un certo von Schneider…
- Von Schneider?- fece eco Evelyn, in un improvviso flash.- Ma…era per caso quel von Schneider che si è sposato qui? Una decina di anni fa? Sai, quello con due figli che sposava un’attrice italiana…
- Brava, proprio quello…- ammiccò la cuoca.- Ora sono tornati qui per seppellirlo. E’ morto una settimana fa, ma dovevano fargli l’autopsia…
- Autopsia?- ripeté Gus, stralunato. Marge annuì con fare deciso.
- Morto ammazzato. A coltellate.
Sotto lo sguardo attonito di tutti, la cuoca aprì un cassetto e ne estrasse un giornale. Era un quotidiano, appena comprato, il famoso Garden Hill Mirror. Marge lo sbatté sul ripiano del tavolo, e tutti si accalcarono per leggere la prima pagina.
Evelyn lo prese fra le mani, aggrottando le sopracciglia quando scorse la testata.
 
NUOVA VITTIMA DEL LUPO
Garden Hill nella morsa del terrore
 
La nuova vittima del lupo: Hans von Schneider, facoltoso imprenditore austriaco
 
Da un anno a questa parte, ormai, la città di Garden Hill vive nella paura
e nel terrore. Secondo la consuetudine, un assassino guadagna a pieno ti-
tolo il nome di serial killer quando raggiunge quota 3 vittime. Ebbene, il
mostro che terrorizza la città ne ha finalmente acquisito possesso. Sono a
quota 3 le sue vittime, con oggi: il famigerato Lupo ha infatti ucciso Hans
von Schneider,  imprenditore  di origini austriache da poco ritornato negli
USA – e precisamente a Garden Hill – con la famiglia. Schneider lascia la
moglie, Grimilde De Nobili, attrice italiana un tempo nota al pubblico, e i
due figli: Sebastian, di 28 anni, e Blanche, di 22…
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Ci ho messo un po’ ad aggiornare, ma per un paio di settimane non potrò più farlo causa impegni al di fuori di EFP, quindi ci tenevo a pubblicare ora il primo capitolo. Questo comprende altre due parti, in cui compariranno le altre protagoniste. So che può sembrare un po’ palloso, ma d’altra parte chi mi conosce e segue le mie storie sa che i primi capitoli con me sono sempre introduttivi. Prima di tutto, ci tengo a farvi sapere che nel prologo ho cambiato alcuni nomi e immagini delle protagoniste – aggiungendo inoltre un’altra “principessa” alla storia – quindi, vi invito a farci un breve salto, se non avete ancora visto, ond’evitare confusione.
Le tre parti saranno legate da un filo conduttore che comprenderete in seguito. Qui abbiamo fatto la conoscenza di Cenerentola e Cappuccetto Rosso. Nella prossima avremo di nuovo Evelyn, più Marion, Annabelle, Jasmine e Ariel; nella terza ancora Roxanne, Ariel, Esmeralda, Caroline, Blanche e ancora Annabelle. Nel frattempo, vi lascio con due domande. Una è un indovinello: vi anticipo che ci sarà una mamma in questa storia…di chi è il bambino di cui si deve occupare Roxanne?
La seconda: come avrete capito, Nathan Storm è un personaggio importante…ma chi è, secondo voi?
Ciao, ci vediamo al prossimo capitolo (se vorrete)!.
Un bacio,
Beauty

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Capitolo 3
*** Capitolo 2. C'era una volta (seconda parte) ***


Capitolo 2
 
C’era una volta
(parte seconda)
 
I don’t wanna be like Cinderella,
Sitting in a dark, cold, dusty cellar,
Waiting for somebody to come and set me free.
I don’t wanna be like someone waiting,
For a handsome prince to come and save me.
On I will survive,
Unless somebody’s on my side.
Don’t wanna depend on no one else.
I’d rather rescue myself.
 
[The Cheetah Girls, Cinderella]
 
Metropolitana di Garden Hill
 
….e i due figli: Sebastian, di 28 anni, e Blanche, di 22.
Ma chi è, questo criminale? E perché si è guadagnato il nome di “Lupo” – esattamente come il lupo cattivo delle fiabe, o come i licantropi che popolavano gli schermi cinematografici in bianco e nero degli anni Trenta.
La sua identità è ancora sconosciuta, dato che il Lupo sembra essere tanto scrupoloso nel nascondere i suoi delitti almeno quanto è feroce nel compierli. A tutt’oggi, si pensa a una personalità disturbata, oppure a una sorta di vendicatore, anche se Hans von Schneider non era affatto un uomo impegnato in politica et similia. Gli inquirenti stanno indagando le conoscenze all’interno delle fondazioni di beneficienza e opere umanitarie istituite dall’ultima vittima, per non escludere alcuna ipotesi, ma attualmente non sembra che si tratti di omicidi premeditati. Il Lupo ha agito tutte e tre le volte a notte fonda, e utilizzando sempre lo stesso modus operandi: le vittime sono state massacrate a coltellate, probabilmente da una mannaia o un rasoio, e sul corpo di due di esse – fra cui anche Schneider – sono stati trovati segni di morsi e graffi…
 
Annabelle Nichols richiuse il Garden Hill Mirror senza terminare di leggere l’articolo: da una parte, perché le vicende di cronaca nera troppo sanguinolente non le erano mai piaciute – era roba per Marion, quella –, e dall’altra perché l’altoparlante all’interno del vagone della metropolitana aveva appena annunciato la sua fermata. La ragazza sospirò, infilando il giornale nella borsa insieme ai libri per l’università, alle penne e ai numerosi fogli scribacchiati, in mezzo ai quali era riuscita a trovare posto anche una versione ingiallita de La favola di Amore e Psiche di Apuleio. Suo fratello Logan e Marion dicevano sempre che prima o poi, o la borsa le sarebbe scoppiata in mano o la tracolla le avrebbe lussato una spalla per il troppo peso. Ipotesi non troppo lontane da una possibile realtà, in effetti.
Annabelle attese che le porte automatiche della metropolitana si aprissero, quindi sgusciò fuori facendosi strada fra pendolari nervosi e frettolosi e altri studenti come lei. Non appena mise piede sulla banchina, si strinse istintivamente la borsa al fianco: là dentro non aveva solo i libri di scuola e alcuni dei suoi velleitari tentativi di diventare una scrittrice, ma anche il portafogli e il cellulare…e aveva vissuto troppo a lungo in posti dove i furti e gli scippi erano all’ordine del giorno, da potersi concedere il lusso di non prendere precauzioni, per quel che poteva.
Superò la folla di viaggiatori e salì velocemente le scale che conducevano fuori dalla metro, inspirando a fondo quando giunse all’aria aperta. Si voltò: la Garden Hill University si stagliava di fronte ai suoi occhi in tutta la sua imponenza, proprio al di là della strada.
 
Grand Hotel di Garden Hill
 
Evelyn diede una rapida occhiata al suo orologio da polso, quindi si aggrappò con entrambe le mani agli stipiti della porta della cucina, dondolandosi avanti e indietro sulle punte delle scarpe mentre spiava nella hall dell’ingresso. Non c’era traccia né dell’Ape Regina né delle sue due figlie, e questo era già un buon inizio di giornata…anche se sapeva fin troppo bene che Lucrezia o le sue sorellastre presto o tardi si sarebbero fatte vive, oh sì, eccome.
Evelyn sospirò, sistemandosi meglio la maglietta e decidendosi a iniziare il suo turno. Fortunatamente, sarebbe stata impegnata solo fino alle tre del pomeriggio, quel giorno, e dopo avrebbe avuto tutto il tempo libero per potersi esercitare al violino. Uscì dalla cucina, attraversando velocemente la parte del Grand Hotel riservata al personale e inoltrandosi nell’atrio dell’albergo. Le luci illuminavano tutto l’ambiente sebbene fosse mattina presto, e gli altri dipendenti erano già pronti, tutti rigidi e composti nelle loro divise. Evelyn prese a incamminarsi in direzione della reception, quando urtò inavvertitamente contro qualcuno.
- Mi scusi, non l’ho fatto apposta…- mormorò, un po’ stordita. Aveva sbattuto la fronte proprio contro la spalla del malcapitato; si massaggiò una tempia, facendo una smorfia.
- Non fa niente…
Il tono non era esattamente quello che una persona di solito usava quando davvero non faceva niente. Evelyn sollevò lo sguardo, un po’ infastidita, ma quello che vide fu in grado di spiazzarla. La persona contro cui aveva sbattuto era un giovane uomo sulla trentina, elegante ma completamente vestito di nero. E gli occhi cerchiati e l’espressione sofferente sul suo volto suggerivano che ci fosse anche un motivo per un tale abbigliamento.
- Ehm…- Evelyn fece un passo indietro come un militare, raddrizzando le spalle e guardando l’ospite negli occhi.- Davvero, mi scusi, non volevo…
- Ho detto che non fa niente.
Non sembrava arrabbiato. Piuttosto…stanco. Sì, ecco. Come se non vedesse l’ora di porre fine alla conversazione. Evelyn si schiarì la voce, cercando di assumere un tono professionale.
- Posso aiutarla in qualche modo?
Le venne in mente che, più che lei, avrebbe potuto dargli una mano un bravo psicanalista, ma s’impose di non fare la maligna. L’uomo sospirò impercettibilmente, gettando delle occhiate stanche tutt’intorno.
- Mi hanno detto che in questo albergo cucinate i pasti e li consegnate a domicilio…- mormorò.
- Sì, è corretto. Desidera ordinare qualcosa? La colazione, o…
- Il pranzo, per favore. Vorrei che fosse consegnato a mezzogiorno e mezzo.
- D’accordo. Mi segua…
Evelyn marciò fino al bancone della reception, sentendosi a disagio come non mai. Non era mai stata brava ad affrontare il dolore altrui, ed era chiaro che quell’uomo non stesse passando un bel periodo. Si posizionò dietro al registro, strappando un foglio di carta da un taccuino e scribacchiandoci sopra l’orario della consegna.
- Ha detto mezzogiorno e mezzo, vero?
- Sì, esatto.
- E…cosa le piacerebbe?- domandò.- Oggi abbiamo pasta al forno con carne e patate come secondo, ma se vuole possiamo anche…
- Va bene il piatto del giorno. Per tre, per favore.
Evelyn si morse un labbro inferiore, scrivendo l’ordinazione. Evidentemente con quello c’era ben poco margine di conversazione, realizzò; si scostò una ciocca di capelli dietro a un orecchio, scoccandogli un’occhiata di sottecchi: era molto più giovane di quanto sembrasse, di certo non poteva avere più di ventotto anni. Aveva i capelli scuri tagliati corti, e gli occhi castani, ed era alto e magro. Il naso forse era un po’ troppo lungo e dritto per i suoi gusti, ma tutto sommato si trattava di un uomo piacente. Se non fosse stato per quelle occhiaie…cavolo, era chiaro come il sole che doveva aver trascorso la notte in bianco.
Chissà che cosa è…
- Signorina?- chiamò lui.- Signorina, va tutto bene?
Evelyn realizzò di essere rimasta impalata a fissarlo come un’ebete per tutto quel tempo; si riscosse rapidamente, battendosi una mano sulla fronte.
- Sì, sì…mi scusi, io…il criceto si è fermato per un secondo!- buttò lì, lasciandosi sfuggire una risatina nervosa per poi darsi dell’imbecille un attimo dopo. L’ospite fece uno sbuffo divertito, sollevando un angolo della bocca in un debole sorriso, ma subito tornò serio e sofferente.
- Vuole…vuole anche un dolce?- propose la ragazza, nel tentativo di recuperare la figuraccia.
- Non…non so…Mia sorella e la mia matrigna forse non gradirebbero, viste le circostanze…Ma…
- Ci pensi - Evelyn sorrise.- Ho tutto il tempo…Ma, se posso darle un consiglio, abbiamo una torta di mele favolosa…
- Torta di mele?- fece eco l’uomo. Di nuovo, sollevò l’angolo della bocca in un accenno di sorriso.- A mia sorella piaceva molto. Magari potrebbe mangiare qualcosa, almeno oggi. Sì, vada per la torta di mele…
- Okay…- Evelyn segnò il tutto.- Dovrebbe darmi un nome e l’indirizzo.
- Sebastian von Schneider. Abito qui a fianco.
La penna bic le scivolò dalle dita non appena realizzò chi avesse di fronte, sbatacchiando contro il ripiano di legno prima di finire sul pavimento…e prendere a rotolare sulle piastrelle. Evelyn s’inginocchiò letteralmente a terra, facendo scomparire la propria testa sotto il bancone della reception, lasciandosi sfuggire un merda! sibilato fra i denti. Raccattò la penna, rendendosi conto di essere avvampata; tanto per completare l’opera, una poderosa capocciata contro il bordo della reception mentre si rialzava fece voltare mezza hall nella sua direzione.
Sebastian von Schneider inarcò le sopracciglia, evidentemente perplesso, sporgendosi in avanti con il capo per vedere oltre il bordo del bancone.
- Si è fatta male?
Evelyn mugolò qualcosa a denti stretti, massaggiandosi la sommità del capo. Si rimise in piedi malamente, rischiando quasi d’inciampare nelle sue stesse scarpe.
- No, è tutto okay…
Tutto okay un corno, per poco non mi rompo la testa!, sussurrò una vocina proveniente dal suo inconscio, ma Evelyn l’ignorò, scostandosi una ciocca di capelli dietro un orecchio.
- Lei è il figlio di Hans von Schneider?- si lasciò sfuggire, senza riflettere.
A quella domanda, Sebastian si irrigidì visibilmente, schiarendosi la voce nello stesso modo in cui, Evelyn associò, se la schiariva sempre suo padre quando qualcuno lo stava infastidendo.
- Sì. Ma le sarei infinitamente grato se evitasse di parlare di mio padre, o chiedermi dettagli su come è stato ucciso. Esistono i giornali, per quello.
- Oh, no!- Evelyn arrossì fino alla punta dei capelli, desiderando solo che il pavimento si spalancasse e l’inghiottisse in quel preciso istante.- No, certo che no, io…io volevo…Non avevo nessuna intenzione di…
- E’ tutto chiaro? Posso contare che eseguirete la consegna per l’orario che ho stabilito?
- Ehm…noi…Sì, certo. Certo, non ne dubiti.
Sebastian annuì, facendo un lieve cenno con il capo in segno di saluto, quindi girò i tacchi e marciò fuori dall’hotel. Una frazione di secondo dopo, i primi mormorii e le prime risatine iniziarono ad aleggiare nell’aria.
Evelyn si sistemò nervosamente una ciocca di capelli, inspirando ed espirando a fondo per far diminuire il rossore sulle guance come le aveva insegnato Roxanne a quindici anni – fidati, vecchia mia, stai parlando con un’esperta in figure di merda, vuoi che non sappia come gestirne i postumi? –, mentre cercava allo stesso tempo di metabolizzare e dimenticare il fatto di aver appena fatto una figuraccia di proporzioni cosmiche.
- Grande, Cenerentola! Ora fossi in te andrei a fargli le condoglianze, così, tanto per gettare ancora più sale sulle ferite…
Quella voce supponente e arrogante era fin troppo familiare da poter essere ignorata, ma in compenso fu sufficiente a farle scordare per un attimo ciò che aveva appena combinato e indurla a voltarsi roteando gli occhi al cielo. Evelyn si appoggiò con il dorso al bancone, inarcando un sopracciglio.
In genere, le sue sorellastre si muovevano sempre in coppia – come le oche, appunto! –, ma stranamente e per sue grande fortuna in quel momento c’era traccia solo di una di loro nella hall.
Tamara se ne stava appoggiata con una spalla allo stipite della porta che dava sul corridoio di destra, con le braccia incrociate, masticando rumorosamente un chewing-gum. Evelyn odiava i chewing-gum, ma ancora di più odiava le persone che lo masticavano solo perché secondo loro le faceva sentire fighe. Tamara si sentiva figa in ogni istante della giornata, sia che masticasse un chewing-gum o no, ma a lei sembrava solo una cretina.
Aveva i capelli neri, lisci e sciolti sulle spalle. Era diversa da sua sorella Tysha – lei li aveva castani, come Lucrezia –, ed era anche più alta e più magra, non a caso era la maggiore delle due.
Ed era la più stronza, in assoluto.
- Che vuoi?- l’apostrofò Evelyn.
- Non ti sembra che un buongiorno sarebbe carino da parte tua?
- E’ vero, ma ha smesso di essere un buongiorno nel momento in cui sei arrivata tu.
- Pensavo che non lo fosse più dopo la figura di merda che hai appena fatto - ghignò Tamara, facendo scoppiare una bolla di chewing-gum sulle labbra.
Evelyn alzò gli occhi al cielo, sospirando.
- Allora? Che cosa vuoi?- incalzò.
- Mi manda la mamma - Tamara abbandonò la porta, muovendo qualche passo verso di lei.- Ha detto di darti una mossa. Devi aiutare a preparare la sala da ballo. Sabato c’è…
- …una festa di Halloween privata organizzata da una certa Woods a cui parteciperà la crema di Garden Hill, fra cui anche tu e tua sorella. Lo so già, Tamara, aggiornati. E comunque, per tornare al punto…- Evelyn incrociò a sua volta le braccia al petto.- Lucrezia potrebbe anche abbassare le ali. Io lavoro come una serva qui dentro da anni, e non prendo una lira. Potrei anche mollarvi se lo volessi, lo sai questo?
- Non avresti dove andare. E poi, la mamma ti da vitto e alloggio gratuiti. E ti paga il conservatorio.
- Quelli mi spettano. E’ mio padre il proprietario, non tua madre, ed è lui che mi paga le lezioni. Lucrezia mi tratta come una schiava, non mi da un centesimo e mi frega pure le mance! Dov’è lei, mentre io mi faccio il culo qui?
- Se non ci fosse mia madre, il Grand Hotel a quest’ora sarebbe una mansarda abbandonata - replicò Tamara, tranquillamente.- Tuo padre non c’è mai, è lei che manda avanti la baracca.
- Questo è tutto da vedere - il tono di voce di Evelyn si abbassò di diversi toni, e la ragazza si portò più vicino a Tamara.- Che diamine è successo con Storm?- sibilò.
L’altra trasalì, indietreggiando di un passo, reazione che alla bionda fece comprendere che dovesse sapere, se non tutto, almeno le linee generali dell’intera vicenda. Quello che le aveva raccontato la sua amica le aveva insinuato un tarlo nell’orecchio, e ora doveva capire quale fosse il problema.
- Che c’entra Storm?- Tamara si schernì.
- Dimmelo tu - incalzò Evelyn.- Roxanne Davies mi ha detto che Lucrezia le ha fatto storie. Non avete pagato Storm, forse?
- Ma niente!- sbuffò l’altra.- Quello ce l’ha con noi perché dieci anni fa è quasi bruciato vivo qua dentro e ora ha una faccia peggio del Joker! Ha solo piantato un po’ di grane per degli arretrati…
- Arretrati?- fece eco la bionda.- Quanti arretrati? Da quanto tempo Lucrezia non paga?
- Non lo so, io…
- Tamara, quanti arretrati?- incalzò Evelyn, afferrandola per un braccio.
- Ma che vuoi?!- Tamara le urlò in faccia, liberandosi dalla sua presa.- Fatti i cazzi tuoi, intesi?
- Questi sono cazzi miei!- ringhiò la bionda.- Questo albergo è di mio padre, e sono dieci anni che tua madre non fa altro che mandare gli affari a puttane! Lo sai che se non paghiamo Storm quello si riprende il terreno? Lo sai che se non gli diamo i soldi finiamo tutti in mezzo a una strada?
Tamara si allontanò da lei, massaggiandosi il braccio. Le scoccò un’occhiata piena di rancore, prima di voltarsi e correre via, sbattendosi la porta alle spalle.
Evelyn rimase a fissare il punto in cui era sparita la sua sorellastra, intontita.
Qualche problema con Lucrezia?
(Sì, come al solito. E’ la fine del mese. In questo periodo fa sempre storie…dice che prima deve pagare quello Storm…)
Ha solo piantato un po’ di grane per degli arretrati…
(Quanti arretrati? Da quanto tempo Lucrezia non paga?)
Lo sai che se non gli diamo i soldi finiamo tutti in mezzo a una strada?
Si riscosse solo quando avvertì lo sguardo di tutti i presenti su di sé. Si voltò, innervosita, fissandoli tutti in cagnesco.
- Beh? Che avete da guardare? Lo spettacolo è finito!
 
Garden Hill’s University
 
- Hola chica!
L’urlo disumano alle sue spalle fece quasi rovesciare ad Annabelle la tazza di cappuccino che stava bevendo, oltre che farle prendere uno spavento colossale. Tuttavia, la sua amigdala e le funzioni a essa correlate si quietarono una frazione di secondo dopo quando un paio di braccia abbronzate le circondarono le spalle da dietro, e la testa di Marion Fitzwalter spuntò vicino al suo orecchio.
- Ti ho spaventata? - ghignò quest’ultima, appoggiando il mento contro la clavicola di Annabelle. La ragazza sospirò, posando con cautela la tazza sul bancone e riprendendo a leggere il suo volume di Storia del teatro inglese come se niente fosse.
- Diciamo che le mie coronarie ne usciranno indenni…
Marion ridacchiò, scollandosi finalmente da lei e raggiungendo il posto libero sullo sgabello accanto ad Annabelle. La caffetteria della Storybrooke’s University quel giorno era insolitamente poco gremita, il che era un fatto eccezionale dato che notoriamente somigliava a un idroscalo, specie di prima mattina.
Marion ordinò un caffè e una brioche alla crema, prima di piantare i gomiti sul bancone e tornare a guardare Annabelle.
- Non hai lezione stamattina?- s’informò.
- Solo due ore, e inizio alle dieci…
- Da quanto sei qui?
- Una mezz’ora. E tu? - Annabelle la guardò.- Non hai…tirocinio, hai detto, o una specie di stage?
- Sì, infatti. Sono qui per questo…- Marion ammiccò, sfoderando un sorrisetto sornione che, tuttavia, non riuscì ad abbindolare l’altra. Annabelle inarcò un sopracciglio: conosceva Marion Fitzwalter da quando, tre anni prima, aveva iniziato a frequentare i corsi alla facoltà di lettere della Garden Hill’s University. Lei ora aveva ventitré anni, e la sua amica ventisei: Marion stava per laurearsi in giornalismo, e nel frattempo aveva già iniziato a svolgere qualche piccolo incarico per il Garden Hill Mirror. Nulla di eclatante, solo qualche piccolo articolo, ma la sua amica diceva sempre che alla grana non si risponde mai di no.
Comunque, quell’aria furbetta non la convinceva per niente.
Marion fece spallucce ostentando noncuranza, ed estrasse dalla borsetta – un modello in pelle nera che ti sbatteva in faccia il marchio Gucci da qualunque parte ti voltassi, il regalo di zia Prudence per Natale, le aveva spiegato una volta – un block-notes, iniziando a scribacchiarvi sopra senza alcun ritegno.
A quel punto, Annabella aveva pressoché raccolto la sfida, e si sporse verso di lei cercando di sbirciare. Marion ridacchiò sotto i baffi, cercando di schernirsi e coprendo il foglio con un avambraccio.
- E dai! Che cos’è? - rise Annabelle.- La tesi?
- No, quella è ancora fossilizzata nel pc - Marion la guardò.- Ti do un indizio: hai letto il Garden Hill Mirror, stamattina?
- Sì…un po’, in metro…
- E non hai notato niente di particolare?- la ragazza ammiccò.
Annabelle ci pensò su per un paio di secondi, quindi iniziò a rovistare nella borsa alla ricerca del giornale. Quando finalmente lo estrasse, Marion glielo strappò letteralmente di mano.
- Ah-ha!- esultò, piantandolo sul bancone e indicando ad Annabelle la pagina su cui lei stessa aveva interrotto la lettura, quella mattina. La ragazza si sporse per vedere meglio: Marion le stava indicando l’articolo sul Lupo.
- L’hai letto questo?- le chiese.
- Sì, ma solo a metà…
- E per caso non ti è caduto l’occhio sull’autore?
Annabelle le lanciò un’occhiata interrogativa; Marion sogghignò, indicandole la firma alla fine dell’articolo.
 
M. F.
 
- M. F.?- lesse Annabelle, comprendendo al volo.
Marion sorrise compiaciuta.
- Marion Fitzwalter - precisò con orgoglio.
- Hai scritto un articolo sul Lupo?!- si lasciò sfuggire Annabelle, ad alta voce, attirando l’attenzione di gran parte dei presenti.
- Shhht!- fece Marion, soffocando insieme all’amica una risata e avvolgendole un braccio intorno alle spalle per tirarla più vicino a sé.- Sì, ma non urlare…- bisbigliò.- Teoricamente sarebbe dovuto essere un trafiletto sull’omicidio di quel von Schneider, ma stavolta mi sono impuntata e ho sventolato questo sotto il naso del direttore…
- E lui te l’ha accettato?- chiese Annabelle, ancora incredula.
Non perché fosse diffidente nei confronti di Marion; anzi, era conscia del suo talento di giornalista – non per niente entrambe condividevano la passione per la scrittura, sebbene la sua amica avesse avuto il coraggio di decidersi a pubblicare qualcosa, a differenza sua – e del fatto che, se c’era una cosa che non le mancava, era la determinazione necessaria per svolgere il mestiere di giornalista. Ma restava pur sempre una novellina, in quel campo. Il suo professore aveva trovato a lei e ad altri tre studenti quell’impiego come stagisti alla redazione del Garden Hill Mirror cinque mesi prima, e sebbene Marion si lamentasse spesso che ai laureandi come lei non facessero altro che fare fotocopie e preparare il caffè, restava comunque il fatto che si stava facendo le ossa, e aveva già pubblicato diversi articoli, poca roba, ma sufficiente.
Annabelle aveva letto tutti i suoi articoli: erano tutti ben scritti, Marion aveva uno stile che riusciva a catturare l’attenzione del lettore anche sulle questioni più noiose, ma in quanto stagista il direttore le aveva sempre affidato casi di minor importanza, come il resoconto di un concorso di bellezza per bambine oppure la classica storiella del gattino che si era arrampicato su un albero e non voleva scendere.
Non era ancora capitato che scrivesse un articolo di cronaca nera. E invece, adesso, se ne usciva fuori con un pezzo tutto suo di ben mezza pagina sul Lupo!
Marion storse il naso, tornando a guardare il giornale.
- Ha fatto un po’ di storie, ma alla fine l’ho convinto. Sì, okay, mi ha fatto cambiare un po’ di cose…Ad esempio, questa frase qui non c’era prima, e anche il titolo l’ha stravolto completamente…Il mio era molto meno eclatante, sai, non mi piace pigiare troppo sul macabro e l’orrorifico…Comunque, è un bell’inizio, no?
- Assolutamente - Annabelle le rivolse un gran sorriso.
- E non è tutto…- Marion abbassò nuovamente la voce.- Non è ancora sicuro, ma il direttore ha accennato alla possibilità di…mandarmi sul campo.
- Cioè…intendi, sul luogo del delitto?
- Beh, no, non proprio…Credo che intendesse più un’intervista al commissario che si occupa del caso…
- Grande!- esclamò Annabelle.
- Sì, una nota positiva in una giornata nera…- commentò Marion, bevendo un sorso di caffè prima di addentare la brioche.- Stasera devo andare a cena con mio zio…orrore, orrore, orrore…- assunse un’espressione fintamente affranta ma che, Annabelle lo sapeva, nascondeva un fondo di fastidio.
- A proposito…come sta?- le chiese.
- Chi? Zio John? Oh, lui sta benone, rompe le scatole che è una meraviglia…
- No, intendevo…l’altro zio.
Marion esitò un attimo, riducendo le labbra a fessura, quindi le rivolse un sorriso amaro.
Ad Annabelle si strinse il cuore. Le volte in cui qualcuno le menzionava zio Richard erano anche le uniche volte in cui il carattere d’acciaio di Marion sembrava vacillare.
Sin da quando l’aveva conosciuta, quasi quattro anni prima, Annabelle aveva sempre ammirato la sua amica. Marion Fitzwalter era uno di quei tipi che avrebbero preferito venire spezzati in due piuttosto che piegarsi di fronte a chicchessia.
In poche parole, tutto il contrario di lei. Spesso Annabelle si chiedeva come avessero fatto loro due a diventare amiche…e altrettanto spesso si rispondeva che, forse, era per il fatto che entrambe provenivano da famiglie disastrate.
Marion era la nipote di John King, il quale era diventato ufficialmente il banchiere più ricco di Garden Hill dopo l’incidente occorso a suo fratello maggiore Richard. La parentela era dovuta al fatto che la madre di Marion, Elaine King, era la sorella più piccola dei due. Stando a quanto si raccontava in giro, Elaine era stata allontanata dai suoi genitori quando aveva deciso di sposare Theodore Fitzwalter, che all’epoca era un autista presso una delle tante banche della famiglia. I nonni di Marion le avevano sbattuto la porta in faccia, e a quanto pareva anche John aveva troncato i rapporti con lei.
L’unico con cui Elaine fosse rimasta in contatto era Richard, che era anche colui che si era preso la responsabilità di Marion quando, a otto anni, era rimasta sola a seguito della morte di Theodore ed Elaine. Un incidente d’auto.
Da allora, Marion era stata affidata a zio Richard e aveva sempre vissuto con lui e con sua moglie, zia Prudence, che la trattava come una figlia. La sua amica ogni tanto le diceva che zia Prudence le faceva un po’ pena: la donna, infatti, aveva perso una bambina a poche ore dal parto, ed era molto probabile che vedesse nella nipote quella figlia che non aveva mai avuto.
E in effetti, in casa King Marion era sempre stata trattata come una figlia…fino all’incidente di Richard.
Già, incidente…se si poteva chiamare incidente un colpo di pistola.
La polizia era abbastanza concorde che si fosse trattato di un agguato, una specie di vendetta – chissà, magari di qualcuno a cui il banchiere aveva negato un prestito –, eppure non si era ancora arrivati a un colpevole.
Era successo tutto dieci anni prima: Richard King stava uscendo dalla banca all’orario di chiusura, e qualcuno gli aveva sparato sulla soglia. Le telecamere di sorveglianza avevano filmato solo un uomo completamente vestito di nero e con il volto nascosto da un casco.
Richard King si era accasciato a terra e aveva chiuso gli occhi…occhi che ancora doveva riaprire ora, a distanza di dieci anni.
Non si era più risvegliato dal coma. I medici dicevano che la sua situazione era stabile, ma non vi era alcun miglioramento. Le funzioni cerebrali erano intatte, ma non poteva respirare da solo e tutte le cure sembravano non funzionare.
Dopo due anni, John King – che nel frattempo aveva preso il posto del fratello – aveva suggerito di staccare la spina per porre fine alle sue sofferenze, ma zia Prudence restava comunque sua moglie e di conseguenza quella ad avere l’ultima parola – e lei non aveva alcuna intenzione di arrendersi.
- Al solito- rispose Marion, piattamente, bevendo un altro sorso di caffè.- Più che altro è zia Prudence che non mi sembra molto in forma. Avrei voluto incontrarla, stasera, ma…
- Perché? Lei non viene a cena con te e tuo zio?
-Macché!- Marion sbuffò.- Quei due si scannano non appena fiutano l’odore dell’altro…E sinceramente, non la posso biasimare. E’ una settimana che cerco una scusa per non andarci…
Ecco un altro punto dolente.
Dopo ciò che era successo a Richard King, la custodia di Marion era passata al parente più prossimo, ovvero suo fratello John. Per fortuna era durata poco, dato che da lì in capo a un paio di mesi lei aveva compiuto diciotto anni, ma i rapporti non erano mai stati dei migliori, e con il tempo non avevano fatto altro che peggiorare.
Zio John era l’esatto opposto di zio Richard: farfallone, poco propenso ad ascoltare le ragioni della nipote e soprattutto, la sua volontà. Marion diceva sempre di dovere tutto a zia Prudence, perché era stato solo grazie al suo intervento se aveva potuto studiare giornalismo invece di finire a fare la segretaria in una delle banche di John King. Suo zio avrebbe voluto al massimo che studiasse economia, ma Marion avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di allontanarsi da lui e dalla sua aura.
A prima vista, Marion Fitzwalter poteva apparire come la classica figlia di papà con i soldi, snob e arrogante, e anche il suo stile nel vestirsi spesso aiutava: non disdegnava gli abiti firmati, se regalateli da zia Prudence, ed era sempre elegante, senza mai un capello fuori posto – quel giorno per venire in università aveva indossato scarpe di vernice con il tacco, pantaloni di seta nera, camicetta bianca e un orologio firmato Liu Jo! –, ma in realtà era molti più di questo.
Non appena era stata ammessa all’università, aveva preso armi e bagagli e si era trasferita in uno degli alloggi per gli studenti messi a disposizione del campus, nonostante casa sua distasse meno di un quarto d’ora dall’edificio scolastico. Le era dispiaciuto lasciare da sola zia Prudence, le ripeteva sempre, ma stare sotto lo stesso tetto con zio John era diventato insostenibile.
Studiava, lavorava sodo ed era sempre di buon umore.
E soprattutto, aveva avuto coraggio. Un coraggio che Annabelle le invidiava tantissimo. Coraggio di prendere in mano la sua vita, di andarsene da una casa dove aveva solo sofferto e di mostrare a tutti il proprio talento…
Tutte cose che lei non era mai riuscita a fare.
Prima che la malinconia – unita al pensiero di ciò che l’avrebbe attesa a casa al suo ritorno – s’impadronisse di lei, Annabelle sussultò al gesto di Marion che le piantò di fronte un cartoncino color crema con scritte dorate in rilievo.
- Una delle poche cose positive che si possono trarre dalle cene con mio zio- spiegò, di fronte all’espressione allibita della sua amica. Annabelle sbatté più volte le palpebre, perplessa, quindi prese in mano il cartoncino.
Si trattava di un invito.
 
Caroline Woods e famiglia vi invitano sabato 31 ottobre
Alle ore 21:30
 Grand Hotel di Garden Hill, Gillyflower Avenue 53
Al ballo in onore della festa di Ognissanti
 
E’ richiesta la maschera
 
Guardò Marion.
- Ne ho sgraffignato uno di nascosto a zio John - ridacchiò la ragazza.- Ce n’è uno per te e uno per me.
- E’ una festa di Halloween?- mormorò Annabelle, rigirandosi il cartoncino fra le mani.
- Non sai leggere? Certo che è una festa di Halloween!- esclamò Marion.- E l’organizza niente meno che la figlia del rettore!
- Quindi sarà una cosa in, vero?- Annabelle incarcò un sopracciglio, restituendole l’invito.- Grazie, Marion, ma non ci tengo a farmi sbattere fuori come un’imbucata…
- Ma nessuno saprà che se un’imbucata, se presenti questo!- la ragazza glielo rimise in mano a forza.- E dai, Annabelle! Zio John vorrà sicuramente che io ci vada per mantenere buoni i suoi rapporti sociali, ma io mi rompo sempre a queste feste! Se ci fossi anche tu, allora…
- Marion, lo sai che non è il mio ambiente - disse Annabelle.- Sarà tutta gente delle classi alte, persone con i soldi, che sanno come comportarsi…Io non sono mai stata neppure a un ballo di fine anno al liceo!
- Che t’importa? Ci sarò io, in due bastiamo e avanziamo…
- Non ho nemmeno un vestito, né i soldi per comprarmelo. E poi, sinceramente, mi sentirei in colpa a lasciare da solo Simon la sera mentre io vado a divertirmi…
- Per il vestito si può trovare una soluzione. Ti aiuterò io, se vuoi. Quanto a tuo fratello…Annabelle, so che per te è difficile e che sei l’unica che si occupa veramente di lui, ma tua sorella è sempre chiusa in quella stanza giorno e notte, può anche prendersi cura di lui per una sera, no?
- Non mi fido di Theresa.
- Okay, non è il massimo dell’affidabilità, ma tuo fratello potrà badare a lui, no?- incalzò Marion.- Logan è a casa la sera, vero? Può pensare lui a Simon…Oppure c’è anche tuo padre…
- Marion, davvero, non so se…
- Per favore!- Marion le si aggrappò a un braccio, assumendo un’aria così supplichevole che le strappò una risata.- Ti prego, Annabelle! Mi avrai sulla coscienza se non vieni. Morirò ammazzata dagli sbadigli…!
- Io…
- Almeno pensaci!- insistette.- La festa è sabato prossimo, hai tutto il tempo! Facciamo così: tu domani sera mi telefoni e mi dici cosa hai deciso, così pensiamo anche all’abito, okay?
Annabelle fece uno sbuffo divertito, roteando gli occhi.
- E va bene. Prometto che ci penserò, ma non garantisco niente.
- Grande! Allora, io stavo pensando a un abito da chiromante o cortigiana, tu invece potresti vestirti da…
- Marion!
- Scusa.
 
Garden Hill’s High School
 
…morsi e graffi. Sembra quasi che l’assassino si senta veramente come uno dei sopraccitati lupi mannari. Tuttavia, questo non è un film dell’orrore, e la licantropia – intesa in termini clinici – non è ancora stata confermata. Certo, in passato ci furono dei serial killer che si credevano dei lupi, come lo spagnolo Manuel Blanco Romasanta o il tedesco Peter Stubbe, ma naturalmente si trattava di menti disturbate, con una percezione distorta della realtà e del proprio sé…
 

Jasmine Bharrahaji piegò il nuovo numero del Garden Hill Mirror e lo nascose sotto il banco, attenta a non farsi scoprire. La professoressa stava spiegando loro il metodo per stabilire dominio e codominio di una funzione sul piano cartesiano, metodo di cui Jasmine non riusciva proprio a comprendere l’utilità e la possibilità applicativa nella vita comune. Per quanto si sforzasse di trovare anche la più remota professione che avrebbe potuto svolgere da adulta, non riusciva a trovarne una che avrebbe implicato il saper svolgere uno studio di funzione.
Ma d’altra parte, non riusciva neppure a trovare il motivo per cui il preside e i professori si divertissero a torturare in quel modo gli studenti affibbiando loro ben due ore filate di matematica di prima mattina, il primo giorno della settimana.
Per di più, quel giorno il Garden Hill Mirror non offriva neppure delle letture sufficientemente interessanti per aiutarla ad alleviare un poco le sue sofferenze. A dire il vero, a lei non è che piacessero granché gli articoli del quotidiano – la politica l’annoiava, non capiva nulla di economia, non praticava sport e la cronaca nera non l’entusiasmava più di tanto -; preferiva di gran lunga leggere qualche rivista di moda, di cronaca rosa o di gossip, piene di pettegolezzi che riguardavano le celebrità.
Ma purtroppo suo padre non tollerava che lei leggesse simili oscenità, e non aveva neppure la possibilità di rubarne qualcuna a sua madre, dato che Sharifah non era molto appassionata di queste cose, e dunque riusciva a procurarsene una solo comprandola per pochi spiccioli la mattina mentre andava a scuola, oppure recuperandone una dalla spazzatura per poi sbarazzarsene immediatamente prima di tornare a casa.
Ma quel giorno non era riuscita a procurarsi nulla, e non le restava altro da fare se non continuare ad annoiarsi a morte. Si guardò in giro, invidiando infinitamente le sue compagne: la maggior parte di loro aveva un cellulare in mano e stava inviando di nascosto degli SMS oppure facendo dei giochini elettronici. Lei neanche ce l’aveva, un cellulare: suo padre si era sempre rifiutato di comprargliene uno e se doveva fare una chiamata le toccava usare una cabina telefonica se era in giro, oppure il telefono fisso da casa – Jasmine sospettava che anche quella fosse una mossa di suo padre volta a controllarla ancora di più.
Come se già non la tenesse d’occhio abbastanza…
Jasmine sospirò, riprendendo a scrutare le sue compagne di classe. Era un’abitudine che aveva preso sin da piccola, quella di scrutare la gente: le piaceva guardare le espressioni del volto, gli abiti che indossavano, come portavano i capelli…in quel modo, pensava, riusciva a comprendere qualcosa di più su di loro.
Anche se alla prova dei fatti, quello che vedeva la faceva sempre stare peggio di quanto già non si sentisse.
Tutte le sue compagne di classe indossavano jeans strappati oppure minigonne, camicette aderenti, t-shirt con sopra il volto di un personaggio famoso oppure top sbracciati che lasciavano intravedere l’ombelico. Tutte o quasi erano truccate, avevano i capelli acconciati alla moda e indossavano scarpe con i tacchi. Lei, invece, era costretta a venire a scuola tutti i giorni con addosso una maglia a maniche lunghe, anche d’estate, una gonna che le arrivava fino alle caviglie oppure dei jeans a vita alta, e non poteva indossare altro se non scarpe da tennis o ballerine.
Di truccarsi, non se ne parlava neanche. Sebbene Sharifah lo facesse tutti i giorni, Jasmine aveva ricevuto l’esplicito divieto da parte di suo padre – alla tua età chi si trucca è solo una donnaccia! – e i capelli dovevano sempre essere raccolti come minimo in una treccia.
Erano le regole che il Sultano le aveva imposto sin da piccola.
Aveva anche cercato di costringerla a indossare il chador, e non solo il venerdì quando andavano tutti insieme alla moschea, ma per fortuna Sharifah aveva preso le sue difese, opponendosi. Se non ci fosse stata sua madre, pensava spesso Jasmine, molto probabilmente lei a quest’ora se ne sarebbe andata in giro con addosso il burka.
Il Sultano ne sarebbe stato capace. Oh sì, eccome.
Il vero nome di suo padre era Muhammad Bharrahaji, ma era stato soprannominato il Sultano un po’ per scherzo e un po’ per beffa, per via del suo atteggiamento spesso e volentieri altezzoso. Caratterialmente non era cattivo, anzi, era un vero bonaccione alle volte, ma era sempre stato molto fissato con il senso del dovere e del rispetto della loro cultura.
A Jasmine sarebbe andato anche bene così: non le dispiaceva mangiare i cibi indiani che Sharifah cucinava a pranzo e a cena; era una brava religiosa, andava alla moschea tutti i venerdì a pregare e seguiva le leggi del Corano per quanto le era possibile.
Ma non aveva nemmeno le fette di salame sugli occhi.
Sapeva che tutto il fanatismo di suo padre era solo…fanatismo, appunto. Conosceva tante altre ragazze indiane come lei che potevano fare ciò che volevano e avevano una vita normale. Lei invece no: non si era mai sentita come le altre ragazze o le sue compagne del liceo. E presto, questa sua diversità l’aveva condotta a una specie d’isolamento.
A quel pensiero, Jasmine prese a guardarsi intorno con più attenzione, cercando con lo sguardo l’altra ragazza che, esattamente come lei, era finita ostracizzata per un motivo o per un altro.
Era seduta due banchi di fronte a lei, e teneva il capo rosso fuoco chino sul quaderno: si trattava di Ariel Waters, che aveva sedici anni ed era una classe avanti rispetto a tutti gli altri della sua età. Jasmine non aveva mai seguito i successi di Ariel, ma ne sapeva qualcosa: già a sedici anni era una promessa nel mondo del nuoto e, a quanto pareva, quell’anno avrebbe partecipato alle Olimpiadi di Tokyo. Era una tipa silenziosa e taciturna, parlava con poche persone e non appena la campanella terminava filava subito via, ad allenarsi nella piscina della Garden Hill’s High School o in quella privata di casa sua. Spesso si presentava a scuola senza aver fatto i compiti perché aveva trascorso il pomeriggio seguente ad allenarsi, ma nonostante tutti i rimproveri dei professori la storia si ripeteva ogni volta, e a fine anno restava sempre promossa solo grazie all’influenza sociale di suo padre.
La campanella che segnava la fine delle due ore di matematica suonò, e Jasmine tirò un sospiro di sollievo, raccogliendo le proprie cose pronta a dirigersi all’aula di biologia. I suoi compagni di classe fecero lo stesso.
Uscendo, Jasmine vide che Ariel sostava accanto al cestino della spazzatura e vi gettava dentro quello che aveva tutta l’aria di essere un cartoncino color crema e oro.
Jasmine attese che la folla di studenti si diradasse quindi, incuriosita, si avvicinò velocemente al cestino e ne estrasse ciò che Ariel aveva gettato via. Lesse attentamente ciò che vi era scritto.
Era l’invito a una festa di Halloween.
 
Garden Hill’s University
 
- Scusami, è tutta mattina che ti assillo con i miei problemi e tu non hai ancora parlato…- fece Marion mentre camminavano lungo il marciapiede che conduceva alla metropolitana. Spesso, finite le lezioni, se terminavano a un orario comune la sua amica l’accompagnava fino alla metro prima di tornare nel suo alloggio al campus.- Come va con la tesi?
- Male…- confessò Annabelle, con una smorfia.- Ho chiesto al professor Lightcandler di darmi un consiglio, ha detto che vedrà di trovare qualcosa…
- Non hai ancora idea di cosa fare?- s’informò Marion.
Annabelle scosse il capo con costrizione. Aveva stabilito di laurearsi a febbraio, e ancora non aveva uno straccio d’idea per la sua tesi. Aveva solo qualche spezzone confuso nella sua mente, ma nulla di concreto. Nulla che valesse la pena di provare a buttare giù.
- Strano, la fantasia non ti manca…- commentò Marion.- A proposito…hai poi messo mano a quel romanzo che mi dicevi?
- Marion, ne abbiamo già parlato: non è il caso.
- Ma perché?- Marion smise di camminare, e le si parò di fronte in modo che Annabelle non potesse proseguire.- Annabelle, l’idea è geniale!
- E’ banale, invece, e poi è solo un abbozzo.
- Che c’è? Hai paura che nessuno voglia pubblicarlo? Abbi fede; tu inizia a buttarlo giù, poi vedrò io di parlare con il direttore del Garden Hill Mirror o…
- Marion, no!- sbottò Annabelle, sgranando gli occhi.- Marion, a parte che i raccomandati mi disgustano, io non sono una scrittrice…Non riesco neanche a trovare l’argomento per la mia tesi…
- Annabelle, ascoltami: io sono una giornalista e, lo ammetto, riesco solo a scrivere basandomi su fatti reali. Ma tu hai una mente fantastica! Quei racconti che scrivi sono oro colato, il mio direttore pagherebbe fior di quattrini per vederne pubblicato uno…
- Marion, io…
Annabelle non terminò la frase. Il rombo di un motorino che si avvicinava le raggiunse con violenza, e subito una moto trasandata si accostò a loro velocemente. Prima che potesse rendersene conto, Marion si vide afferrare la borsetta dal motociclista.
Lanciò un urlo a metà fra la sorpresa e la protesta, ma con uno strattone lo scippatore riuscì a strappargliela di mano, facendo barcollare la ragazza. La moto sbandò, strisciando la fiancata contro un muro di cinta. Marion finì a terra, sbucciandosi i palmi delle mani contro il marciapiede, mente la moto si allontanava a tutta velocità.
-Bastardo!- strillò Annabelle.
- Merda!- imprecò Marion mentre l’amica l’aiutava a rialzarsi.- Stronzo figlio di puttana! Sei riuscita a vedere la targa?
- No, non l’ho vista…
- Cazzo…!
Marion rimase a fissare il punto in cui era scomparsa la moto. Dentro la borsetta aveva tutto: soldi, documenti, cellulare…e l’abbozzo del suo nuovo articolo sul Lupo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Dopo lunga e penosa malattia…eccomi qua :D. Dunque, non sono molto soddisfatta di come è venuta fuori Annabelle, ma nel prossimo capitolo scopriremo perché è così insicura ;). Ah, keep an eye sui genitori di Marion e sulla figlia di zio Richard e zia Prudence :). Nel prossimo capitolo scopriremo anche chi è il ladro e che connessione ha con le protagoniste e chi è la mamma di questa storia :).
Comunque, ci avete azzeccato tutte su Nathan ;). Compliments!
Ringrazio tutti coloro che hanno recensito…ho trovato parecchie infatuazioni per il Lupo ;).
Ciao, un bacio,
Beauty

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Capitolo 4
*** Capitolo 3. C'era una volta (terza parte) ***


Capitolo 3
 
C’era una volta
(terza parte)
 
Once upon an ancient time
Beauty was born in a someone.
She was the Snow-White of mine
And if you’re no copy, my darling, become one.
Snow-White skin, ebony hair
And lips as red as blood.
 
[Xandria, Snow-White]
 
Officina meccanica Bob’s, Tulip Street n. 18
 
Logan Nichols gettò lo straccio sporco su una seggiola accanto alla Honda a cui stava lavorando, riemergendo dal cofano aperto dell’auto che metteva bene in mostra il motore. Era inutile perderci troppo tempo: la cinghia era partita, il che equivaleva a dire che la macchina era buona solo per la discarica. Logan sbuffò, pulendosi malamente il volto sporco di grasso con una manica della tuta grigia dell’officina. Era mezzogiorno, lui era in piedi dalle cinque, non aveva fatto colazione e stava morendo di fame. La sua mente stava vagando al suo borsone gettato in un angolo di quel vecchio garage adibito a officina meccanica abusiva, e al sandwich al tonno e maionese che sua sorella Annabelle gli aveva preparato quella mattina. Abbassò un poco la cerniera della tuta, allontanandosi dalla Honda.
- Ehi, Bob, io mi prendo una pausa!- annunciò urlando rivolto al suo capo, in quel momento chino a esaminare il motore di una Volvo grigia. Bob rispose con un grugnito, tornando al suo lavoro.
Logan recuperò il pranzo dal borsone e uscì dall’officina.
Questa non era altro che un garage, un vecchio portico che poteva contenere fino a un massimo di tre automobili per volta, se si voleva tenere dentro anche il materiale necessario per ripararle e qualche gomma di scorta, oltre alle cassette per gli attrezzi che lui e il suo capo – gli unici due dipendenti dell’officina – dovevano portarsi da casa ogni giorno. Altre automobili – un furgone bianco con il paraurti pressoché sbriciolato, una Kia e una Plymouth del ’57 – erano parcheggiate all’esterno, invadendo quasi mezza corsia della strada peraltro poco trafficata. Niente di tutto ciò era anche solo minimamente regolamentare; Logan lo sapeva, l’aveva sempre saputo sino al momento in cui aveva iniziato a lavorare lì otto anni prima, e tutto ciò che gli era concesso era solo sperare che a nessuno venisse mai in mente di fare una telefonatina alla polizia, altrimenti sia lui che il vecchio Bob avrebbero passato un per nulla gradevole soggiorno al fresco.
Non era una bella vita, quella, sempre a farsi saltare il cuore alla gola ogni volta che udivi una sirena della polizia in lontananza, ma in fondo Logan non aveva granché di cui lamentarsi. La paga non era quella di uno sceicco, ma comunque abbastanza buona; aveva un lavoro, cosa che molti dei suoi amici o comunque degli altri ragazzi della sua età che vivevano in Tulip Street non avevano; lui era, come diceva sempre sua sorella Kate, un pezzente rotto in culo esattamente come tutti quelli della loro famiglia e aveva ragione, ed era stato già abbastanza fortunato ad aver trovato un mestiere onesto e per di più che gli piacesse: non poteva pretendere anche che tutti i cavilli legali fossero al loro posto.
Lui portava a casa la pagnotta ogni giorno con quel lavoro, e questo gli bastava. E poi, lui ci aveva sempre saputo fare, con i motori. Si poteva quasi dire che fosse più bravo con quelli che con le persone.
Logan addentò il suo sandwich, ringraziando di avere una sorella minore tanto brava nel cucinare: se non ci fosse stata Annabelle, pensava spesso, tutti loro sarebbero morti di fame. Si chiese distrattamente dove fosse lei in quel momento, dato che non riusciva mai a ricordare gli orari esatti delle lezioni all’università. Quel pensiero lo fece sorridere: Annabelle era sempre stata il genietto di casa, come la chiamava sempre papà, e di conseguenza l’unica di loro ad aver avuto le palle per affrontare l’università dopo il diploma. Quello, sua sorella Theresa nemmeno l’aveva preso – aveva mollato a sedici anni per stare con quel coglione che alla fine aveva sposato –, mentre Kate se l’era bruciato ben presto, finendo a lavorare in quello schifoso locale dove ballava mezza nuda per un branco di idioti che avrebbero concluso la serata masturbandosi in qualche latrina pubblica; suo fratello Simon, beh, frequentava ancora le medie e con parecchia fatica dato il suo handicap, e Logan sapeva già da adesso che molto probabilmente nemmeno lui sarebbe arrivato a laurearsi.
Quanto a lui…Logan ammetteva di non averci neppure mai pensato, e forse era meglio così: era sempre stato un emerito caprone a scuola, avrebbe soltanto gettato via del denaro che alla sua famiglia serviva per mangiare. E poi, la sua passione erano sempre state le auto: sin da ragazzino, gli bastava gettare una sola occhiata al motore di una macchina per capire cosa c’era esattamente che non andava, e non aveva mai sbagliato un colpo. Aveva frequentato i corsi commerciali al liceo e, non appena si era diplomato, aveva subito iniziato a cercare lavoro. Era stato prima un fattorino, poi un magazziniere e infine cameriere in una tavola calda. Non aveva grandi speranze di poter trovare qualcosa che gli permettesse di conciliare la sua passione con una busta paga – e, date le condizioni in cui versava la sua famiglia in quel momento, si sarebbe accontentato di qualunque lavoro, fosse stato anche pulire le fogne con uno spazzolino da denti –, ma poi era capitato da Bob’s ed era stato abbastanza fortunato da farsi assumere. L’officina era abusiva, non c’era alcun rispetto per le più elementari norme di sicurezza, il suo capo puzzava di benzina, sudore e cavoli bolliti, ma…lo pagavano, gli piaceva il suo lavoro e lui era contento. Ed era abbastanza.
(Per te, forse sì…ma che mi dici di Ryan?)
Quel pensiero inaspettato fu in grado di smorzare un poco il suo entusiasmo, ma Logan non ebbe il tempo di farsi prendere dalle mille preoccupazioni che il nome Ryan e ciò che esso rappresentava inevitabilmente portavano con sé, perché il rombo di un motore – una moto, nessun dubbio – si fece sentire dal fondo della via, prima che il mezzo in questione comparisse in lontananza. Logan ingoiò l’ultimo pezzo di sandwich, sporgendosi un poco dal marciapiede su cui era seduto per vedere meglio.
La moto si diresse a tutta velocità verso l’officina e, a mano a mano che si avvicinava, il ragazzo iniziò a comprendere di chi si trattasse. Si alzò dal marciapiede e, un attimo dopo, la moto si arrestò di fronte a lui. Logan gettò un’occhiata all’interno per assicurarsi che Bob non stesse guardando.
- Ehi, Logan!- lo salutò amichevolmente il guidatore, con il volto ancora nascosto dal casco. Quando se lo tolse, Logan poté vedere il gran sorriso che gli stava rivolgendo il suo amico Robin. Ricambiò, un po’ incerto.
- Come te la passi?- domandò, chiedendosi come mai fosse venuto da lui. In genere, loro due s’incontravano quando entrambi avevano terminato la giornata lavorativa, spesso la sera in compagnia di altre persone. Era rarissimo che venisse a fargli visita sul lavoro. E in questi casi, Robin aveva sempre un motivo.
Robin McAllister. Logan avrebbe anche potuto scriverne la biografia, talmente tanto era il tempo che lo conosceva: figlio di irlandesi trasferitisi da Dublino a Garden Hill, suo padre era un ex muratore rimasto infortunato sul lavoro e sua madre una casalinga. Trent’anni – tre più di lui –, un diploma rivelatosi buono solo come carta straccia, un lavoro da magazziniere alla Garden Hill’s University che non bastava nemmeno per arrivare a fine mese, e uno stipendio che se ne andava tutto per pagare le spese mediche di suo padre.
Uno che per tutta la vita aveva campato annaspando nella merda in cui era nato, proprio come lui.
Non serviva essere dei geni per capire come mai loro due fossero divenuti amici.
Robin fece spallucce, ponendosi il casco sottobraccio e restando in equilibrio sulla moto ferma. Questa, osservò Logan, era un rottame vecchio di almeno quindici anni, ma che comunque faceva ancora la sua figura grazie al modo in cui la teneva il suo proprietario, sempre pulita e revisionandola periodicamente. Unica pecca: sulla fiancata destra c’erano almeno una decina di righe che la volta precedente non c’erano.
- Che hai fatto?- domandò Logan, accennando all’ammaccatura. Era quasi come se Robin avesse…sbandato, e strisciato contro qualcosa, un muro o un ostacolo. Il ragazzo comprese al volo, e si corrucciò. Robin, per tutta risposta, sfoderò una borsetta femminile nera firmata Gucci, iniziando a rovistarci dentro.
Logan lo guardò, indietreggiando di un passo.
- L’hai fatto di nuovo?- incalzò, incrociando le braccia al petto.
- Non ho mai smesso, a dire il vero. Ehi, guarda cosa abbiamo qui…!- esultò, estraendo dalla borsetta un cellulare touch screen ultimo modello e un portafoglio in pelle targato Armani.- Non male come bottino, eh?- ammiccò, ignorando lo sguardo di rimprovero di Logan.- Tua sorella le sa scegliere bene le amicizie…
- Hai scippato la borsetta a mia sorella?!- Logan strabuzzò gli occhi.
- Non a lei, alla sua amica. La famiglia dei miei amici è zona proibita, lo sai…
- Robin, quanto ancora pensi di poter andare avanti in questo modo?- il ragazzo gettò un’occhiata alla borsetta.- Ti beccheranno prima o poi, lo sai…
- Quando e se accadrà me ne preoccuperò. Per ora, il mio problema resta arrivare a fine mese e pagare le spese mediche di mio padre…
Logan non replicò; sapeva che sarebbe stato inutile, e comunque non se la sentiva di ribattere. Che avrebbe potuto dirgli? Non si ruba, Robin, piuttosto abbandona tuo padre al suo destino e vivi una vita onesta. No, neanche per sogno. Non sarebbe stato da lui, e si sarebbe trattato solo di falso moralismo, oltre che di idiozia pura. Sebbene Logan disapprovasse ciò che faceva il suo amico, lui stesso non era nelle condizioni di poter fare il santarellino. Nessuno che abitasse in Tulip Street lo era.
Da sempre, quel quartiere era la zona più povera e malfamata di Garden Hill. Gli affitti erano ben più bassi rispetto ad altre zone della città – e quantomeno chi abitava lì sopportava di meno la bestia nera-Storm –, ma in compenso ci sarebbe stato da andare in giro con il giubbotto antiproiettile. Gli edifici erano cadenti e malandati, e nella maggior parte di essi vivevano delinquenti come Ryan o poveracci come lui e la sua famiglia. O ladruncoli come Robin e quella che lui definiva la sua banda: cinque sbandati che vivevano tutti insieme in un appartamento solo, stipati dentro come bestie, e che campavano barcamenandosi fra lavoretti saltuari e mal pagati e piccoli scippi e furtarelli per arrotondare lo stipendio. Logan sapeva che avrebbe dovuto tenersi alla larga da gente come lui e quei ragazzi, ma in fondo non se la sentiva di giudicarli male. Era amico di Robin da tanti anni, e Johnny era stato suo compagno di banco alle elementari, e peraltro Alì era un ragazzo simpatico. Erano brave persone, in fondo, e che, nonostante tutto, erano molto meglio di gente come il marito di Theresa.
Tulip Street era il regno popolato da persone come lui. Di giorno, dovevi guardarti le spalle prima che qualcuno arrivasse di soppiatto e ti rubasse anche i vestiti che avevi addosso, o di piantasse un coltello nella schiena per fregarti il portafogli. Di notte, era meglio se ti chiudevi in casa con la doppia serratura e un buon sistema d’allarme, se avevi la fortuna di potertelo permettere: Logan aveva provato sulla sua pelle i brividi di paura di quando terminava il lavoro in officina più tardi del solito e si ritrovava a percorre e a piedi il tragitto che lo separava dalla porta di casa sua. I portici e i garage abbandonati di Tulip Street erano completamente bui, c’era un lampione che funzionava ogni dieci, e ogni angolo che svoltavi dava accesso a qualche vicolo laterale semibuio dove chiunque avrebbe potuto nascondersi pronto a farti la festa non appena gli fossi capitato sotto tiro. Dovunque ti girassi incontravi prostitute ubriache che fumavano spinelli o sigarette in attesa di qualche cliente, alcolizzati che uscivano barcollando da qualche bar o coinvolti in qualche rissa, disgraziati che si nascondevano in qualche angolo per bucarsi, clochard raggomitolati in cappotti sudici che dormivano in mezzo ai bidoni della spazzatura, pusher che intascavano mazzette di dollari per un pacchetto di eroina.
Spesso e volentieri, sul giornale leggevi di qualche sparatoria o di qualcuno che era stato accoltellato proprio in Tulip Street. E ancora più spesso si trattava di gente che non c’entrava nulla. In effetti, bastava veramente poco per ritrovarti in mezzo a qualche casino senza c’entrarvi nulla.
Una sera, quando aveva vent’anni, Logan era tornato a casa con un occhio nero e il labbro sanguinante; mentre Annabelle gli disinfettava il taglio lui, con un pacchetto di surgelati premuto sullo zigomo, aveva raccontato a tutti cos’era successo: tornando dal lavoro era incappato in una rissa fra ubriachi. Aveva cercato di fermarli, ma l’unico risultato era stato quello di venire coinvolto a sua volta.
Invece di consolarlo o di congratularsi con lui per ciò che aveva tentato di fare, suo padre era andato su tutte le furie e l’aveva afferrato per il bavero della maglietta urlandogli che era un emerito imbecille, che solo un pazzo o un idiota si sarebbe messo in mezzo in una situazione simile e in un quartiere come il loro. Vedesse di non fare più una cosa del genere, gli aveva detto; aveva già perso una moglie, non voleva perdere anche suo figlio.
Logan tornò a guardare Robin. Il suo amico aveva scovato ben cinquecento dollari dal portafogli; ne intascò metà, porgendogli gli altri duecentocinquanta. Il ragazzo scattò all’indietro, scuotendo il capo.
- Non li voglio - disse fermamente.- Io la roba rubata non la tocco.
- Perché, credi che il tuo capo i pezzi di ricambio li compri su Ebay?- fece Robin, porgendogli i soldi con insistenza.- Fammi sentire un po’ meno una merda: dai, prendili, lo so che ti servono.
- No!- Logan scosse il capo con forza.- Io i soldi me li guadagno, non li rubo alle poverette come fai tu.
- Una che ha potuto permettersi una borsa come questa sicuramente avrà anche la possibilità di ricomprarsela. E’ per questo che rubo sempre nei quartieri alti. Mi sento meno in colpa…dai, prendili.
- Robin, no…Non voglio la carità.
- Non ti sto facendo la carità, ti voglio dare una mano - Robin scese dalla moto, assicurandola in equilibrio sul cavalletto, e andò incontro a Logan.- Per favore…siamo amici da quanto tempo, eh? Credi che mi piaccia rubare? Non piace né a me né ai ragazzi, ma finché questo schifo di città ci tratta come delle pezze da scarpe dobbiamo arrangiarci in qualche modo. Avanti, Logan…
- Robin…
- Cosa vi ha fatto ultimamente Ryan?
A quella domanda, Logan indietreggiò come se l’avessero schiaffeggiato. Vide il suo amico sogghignare; come sempre, lui e la sua verve erano in grado di colpire proprio i punti più sensibili.
- Me lo ricordo quello che mi hai raccontato, sai?- continuò Robin.- Perché invece di sottostare alle sue prepotenze non lo sbattete semplicemente fuori di casa?
- Lo sai il perché…
- Anche tua sorella ne trarrebbe vantaggio, credimi.
- Non è solo per Theresa. Lo sai meglio di me quello che fa.
- Io non so niente. Sarò un ladro, va bene; ma differenza sua, io non vendo la morte - Robin si fece improvvisamente serio.- Per quanto ancora intendete sottostare ai suoi ricatti? E non dirmi che fa parte della famiglia perché sarebbe la più grande cazzata che un essere umano potrebbe raccontare!
- Gli dobbiamo dei soldi, Robin. Parecchi - aggiunse Logan, con una smorfia di rabbia mista ad amarezza.- E non ci lascerà in pace finché non glieli avremo ridati, tutti, interessi inclusi. E poi, va’ a sapere in cosa è invischiato quello stronzo: non mi voglio mettere contro un pusher.
- Come vuoi. Ma in ogni caso, come hai appena detto, gli dovete dei soldi - Robin gli porse nuovamente la mazzetta, il sorriso un poco ritrovato.- Prendili. Ma…fammi un favore: nascondili. Non darli in mano a quel bastardo. Usali…non lo so, come preferisci. Aiuta tuo padre, pagagli le medicine, o impiegali per tuo fratello. O meglio ancora…- Robin ghignò.- Fai un bel regalo a quello schianto di tua sorella. L’ho vista stamattina: da quando era una ragazzina devo dire che è cresciuta bene!
- Ehi, idiota, giù le zampe da Annabelle!- Logan rise, dandogli una spintarella scherzosa. Si fece di nuovo serio, e guardò prima la mazzetta poi l’amico.- Grazie, Robin…- mormorò, prendendo i soldi con incertezza.- Te li restituirò, te lo giuro.
- Non li rivoglio indietro. E’ un regalo - Robin sorrise.- Piuttosto…- si schiarì la voce.- Ho una proposta da farti…
Logan inarcò un sopracciglio, in attesa che continuasse. L’amico sembrò in difficoltà; prese a guardare il marciapiede, mettendosi le mani in tasca.
- Scusami. Forse avrei dovuto chiedertelo prima, ma ti giuro che l’averti dato quei soldi non c’entra nulla con ciò che sto per proporti. Voglio che tu mi risponda sinceramente, senza sentirti in obbligo.
- E’ qualcosa di illegale?
Robin annuì.
- Come sempre, quando si tratta di me - tornò a guardarlo, abbozzando un sorriso.- Sabato prossimo ci sarà una festa di Halloween. Al Grand Hotel di Garden Hill, hai presente? L’organizzano…certi Woods, gente benestante. A quanto pare sarà presente tutta l’alta società della città…
- E…?
- Ho trovato chi ci farà entrare - proseguì Robin.- E’ un dipendente dell’albergo. Siamo già d’accordo: lui ci farà entrare dal retro mentre sta lavorando. Non se ne accorgerà nessuno. Non parteciperemo alla festa, naturalmente.
- Tu e gli altri andrete lì per rubare, vero?
- Sì. Non c’è un obiettivo preciso: si tratta semplicemente di entrare e arraffare tutto ciò che è possibile senza che nessuno se ne accorga, e poi filarsela.
- E cosa c’entro io?
- Un uomo in più mi farebbe comodo - Robin allargò le braccia, guardandolo negli occhi.- A fine serata divideremo il bottino, e tu potresti portare a casa abbastanza da tenere buono Ryan per un po’ di tempo. Per aiutare la tua famiglia…tuo padre è stato appena licenziato, vero?
Logan non rispose, né confermò. Chinò il capo, a disagio: sì, era vero, suo padre era stato licenziato. Quei pidocchi della fabbrica in cui lavorava avevano preferito lasciarlo a casa, invece che sopportare le periodiche visite a cui Maurice si sottoponeva per via dei suoi problemi al cuore. I soldi che lui portava a casa dall’officina bastavano a malapena per mangiare e per pagare le bollette; Annabelle faceva qualche lavoretto qua e là per arrotondare, e il denaro che guadagnava se ne andava tutto nelle spese mediche di papà e di suo fratello; Kate si era sempre rifiutata di portare in casa i soldi del suo stipendio, preferendo spenderlo in abiti succinti e cosmetici; Theresa non aveva mai lavorato in vita sua, e non faceva altro che fingere malesseri e piangere giorno e notte a causa di quello stronzo di suo marito; e Simon, povero bambino!, aveva un disperato bisogno di cure da logopedisti e psicologi che loro non erano mai stati in grado di permettersi.
Ma non poteva rischiare. Logan sapeva che, se qualcosa fosse andato storto, non li avrebbero rilasciati con una ramanzina come dei dodicenni. Il prossimo passo sarebbe stata la gattabuia, e lui non aveva nessuna intenzione di finire in carcere per un guadagno dubbio.
Tornò a guardare Robin e scosse il capo.
- Mi dispiace, amico, ma preferisco tenermi pulito, per quanto ci riesco…- mormorò.- Scusa. Non ti offendere…- sembrava quasi ridicola una simile conversazione a proposito di una rapina, quasi come se il suo amico lo avesse invitato a mangiare una pizza insieme, anziché derubare della gente.
- E chi si offende?- Robin gli rivolse un sorriso, dandogli una pacca su una spalla.- Comunque, se cambi idea, sai dove trovarmi.
Gli rivolse un cenno di saluto con una mano, quindi rimontò sulla moto, infilandosi il casco.
- Ci si vede, Logan!
Il ragazzo lo salutò, rimanendo a guardare finché l’amico non fu sparito in fondo alla via, con il motore della moto che ancora gli rombava nelle orecchie.
 
Garden Hill’s High School
 
La sala mensa era forse il luogo più brutto di tutto il liceo.
Jasmine si allontanò dal bancone dove le cuoche servivano il pranzo, reggendo in mano il vassoio stracolmo e facendo vagare lo sguardo per l’intera stanza alla ricerca di un posto libero. Quel giorno la mensa proponeva spaghetti al pomodoro con puree di patate e salsiccia come secondo, e yogurt per dolce. Jasmine aveva fatto il pieno di tutto, prendendo anche due salsicce: suo padre non voleva che lei mangiasse carne di maiale, dal momento che era contro le regole dettate dal Corano, e infatti a casa Sharifah cucinava sempre e solo carne di pecora o di montone. Ma lì il Sultano non poteva vederla, e quindi Jasmine poteva mangiare tutto ciò che voleva.
Si allontanò dalla fila di altri studenti che attendevano che fosse servito loro il pranzo, facendosi strada fra la calca. Si lasciò sfuggire una smorfia: stare nei luoghi troppo affollati non le era mai piaciuto, e la mensa era uno di questi. L’ora di pranzo equivaleva a un salto indietro nel tempo e nello spazio, nella giungla all’epoca giurassica in cui vigeva la legge del più forte. L’ambiente puzzava di cibo precotto, e l’aria era piena di vociare che rendeva l’atmosfera invivibile.
Jasmine iniziò a vagare per i tavoli, e si bloccò quando vide la scena di fronte a sé. Seduta da sola a un tavolino isolato rispetto a quello degli altri c’era Ariel Waters. La ragazza teneva lo sguardo puntato sul proprio piatto, rigirando gli spaghetti con la forchetta senza ingoiare alcun boccone. Non sembrava triste, solo…pensosa. Come se avesse in mente chissà quale problema di difficile risoluzione.
I capelli rossi erano sciolti sulle spalle, e la posizione china faceva in modo che i ciuffi le ricadessero sul volto così da coprirle gli occhi azzurri come il mare. Era vestita alla solita maniera, con dei jeans, scarpe da ginnastica e una felpa sportiva. Jasmine non ricordava di averla mai vista indossare altro se non abiti sportivi e comodi.
La ragazza si fece coraggio, avvicinandosi a lei.
- Ehm…ciao!- mormorò quando le fu a pochi passi di distanza, abbozzando un sorriso.
Ariel sollevò lo sguardo di scatto, evidentemente non si aspettava una visita o che qualcuno le si avvicinasse. La guardò come stralunata.
- Ciao…- soffiò, chiaramente perplessa.
- Posso sedermi?- chiese Jasmine, continuando a mantenere il sorriso. Ariel esitò un secondo, quindi annuì, facendole cenno di accomodarsi. La ragazza si sedette malamente sulla seggiola di fronte a lei, posando il vassoio sul tavolo con soddisfazione.
- Oggi c’è andata bene, non trovi?- commentò, riferendosi al pranzo.- Temevo che ci rifilassero gli avanzi della minestra della settimana scorsa…
Ariel abbozzò un sorriso di cortesia, ma non rispose; Jasmine fece finta di nulla, attendendo qualche secondo una replica o un commento che non arrivò. Sospirò, aprendo il suo yogurt e prendendone un cucchiaino. Ariel, di fronte a lei, sembrava ancora intenta a scrutare il suo piatto di spaghetti.
- Che palle matematica, eh?- ritentò Jasmine.- Tu ci hai capito qualcosa di tutta quella roba?
- Ehm…poco, a dire il vero - di nuovo, Ariel abbozzò un sorriso di cortesia, per poi tornare a fissare il proprio piatto. Jasmine sbuffò: evidentemente, o quella era un’asociale nata oppure non aveva voglia di fare conversazione. Decise di arrivare subito al punto: tirò fuori dalla tasca della felpa l’invito color crema che aveva raccattato dal cestino dell’immondizia e lo piazzò in bella vista sul vassoio di Ariel.
La rossa parve riscuotersi dal suo torpore, e sbatté le palpebre per la sorpresa.
- Ti ho visto che lo buttavi via, e così l’ho raccolto - spiegò Jasmine.- Ho pensato che di sicuro dovevi esserti sbagliata…
- Ehm…- Ariel prese brevemente l’invito fra le mani, quindi lo posò di nuovo sul tavolo della mensa.- No, io…in effetti, l’ho buttato di proposito…
- E perché?- fece la mora, strabuzzando gli occhi. Il Sultano di norma le proibiva di andare a qualunque festa, e l’ultima volta che qualcuno le aveva proposto di parteciparvi era stato in seconda elementare. Avrebbe firmato col sangue per essere stata lei quella a ricevere l’invito, invece di sbarazzarsene come aveva fatto Ariel.- E’ l’invito a una festa di Halloween, no?
- Ecco…sì, credo. Non ho letto molto bene…
- E non hai intenzione di andarci?- insistette Jasmine, sporgendosi in avanti. Per contro, Ariel si strinse le braccia al petto, appoggiando il dorso contro lo schienale della sedia di plastica. Abbassò lo sguardo: tutta quell’invadenza non le piaceva. Lei e Jasmine Bharrahaji erano compagne di classe da quattro anni, e non si erano mai scambiate più di due o tre parole. Che cos’era ora tutto quel comportarsi da migliore amica?
- No - replicò, piatta.
- Perché no?- fece la mora. Ad Ariel sembrava quasi una bambina in vena di capricci. Fece spallucce con noncuranza, buttando lì la prima bugia che le venne in mente:
- Non mi piacciono le feste.
- Tu sei matta! A chi è che non piacciono le feste?- Jasmine era incredula.
- A me. E poi, ho altro da fare…
- Tipo?
- Piscina. Ho gli allenamenti.
- Anche la sera di Halloween alle ventuno e trenta?- Jasmine le sventolò l’invito sotto il naso. Ariel voltò il capo di lato: stava iniziando a innervosirsi.
- Non mi va di andarci, ecco tutto - borbottò alla fine.- Prendilo pure. Buttalo nella spazzatura, se vuoi…
- O-okay…- mormorò Jasmine, perplessa. Ariel la fissò negli occhi per un breve attimo, quindi afferrò il proprio vassoio, si alzò in piedi e versò tutto il suo contenuto nella spazzatura; infine, senza una parola, uscì a grandi passi dalla mensa lasciando Jasmine con solo l’invito color crema in mano e una valanga di stupore.
Che diamine aveva fatto di male?
 
Casa Woods, Bluebell Road n. 3
 
- Posso esprimere un’opinione?
- Sì, certo, papà.
- Quello che stai facendo è una kitsch in piena regola!
Caroline Woods gettò il capo all’indietro, abbandonandosi a una sonora risata mentre si lasciava cadere sul sofà di velluto accanto al suo fidanzato, Philip Kingsley. Il rettore Woods inarcò un sopracciglio con fare severo, ma in fondo non ce l’aveva con sua figlia per quella reazione: quello che aveva detto corrispondeva a ciò che pensava, era vero, ma, sebbene disapprovasse il modo alquanto colorito e poco consono in cui sua figlia stava gestendo l’intera faccenda, ma le aveva pur sempre promesso che l’avrebbe lasciata fare, quindi non aveva di che lamentarsi, né tantomeno intromettersi.
- Papà, come sei antico!- commentò allegramente Caroline, scrutando con attenzione gli ultimi inviti restanti, quelli che le mancavano da spedire.- Quello che io e Philip stiamo facendo è all’avanguardia. Invece del solito party pieno di vecchi noiosi, sfrutteremo la serata di Halloween per divertirci e al contempo fare l’annuncio.
- Io resto comunque dell’opinione che una simile notizia sarebbe dovuta essere comunicata in maniera più sobria - fece il rettore Woods.- Capisco che siate ancora giovani e che i soliti party pieni di vecchi noiosi, come li chiami tu, vi annoino, ma si tratta comunque di un avvenimento importante.
- Papà, è un matrimonio, non un funerale!
- Appunto.
- Stephen, non fare il brontolone come al solito - l’ammonì la signora Woods, seduta tranquillamente su una poltroncina, anche lei intenta ad esaminare gli inviti color crema.- Hai dato loro carta bianca in proposito, ricordi? Lasciali fare. E poi, personalmente, credo che l’idea sia molto originale.
Caroline rivolse a suo padre un sorriso trionfante, consapevole dell’approvazione della madre. Stephen Woods, per tutta risposta, accese un sigaro. A quella vista, sua moglie chiamò una delle cameriere della casa dicendole di aprire la finestra.
Caroline riprese a scrutare la lista degli invitati, accoccolandosi ancora di più accanto al suo fidanzato. Philip era arrivato solo da mezz’ora, e si sarebbe intrattenuto a pranzo fino a quella sera, ma l’intera famiglia Woods era già in piedi e al lavoro dalle otto del mattino.
Erano tutti e quattro seduti in salotto, lei, Philip e i suoi genitori. L’intera casa – una villa a due piani con giardino e piscina – splendeva dalle fondamenta alla soffitta, e l’ambiente era reso ancora più luminoso dalla massiccia presenza del colore bianco e dei cristalli.
Sua madre adorava il bianco e i cristalli, pensò Caroline. Helen Woods aveva arredato personalmente la casa integrando elegantemente lo stile neoclassico con tutte le comodità dell’epoca moderna, senza scivolare nel volgare o nel pretenzioso. Era ciò che le ripeteva sin da piccola: la propria superiorità economica e sociale si dimostrava non attraverso il vanto e l’ostentazione, bensì con la sobria e discreta manifestazione del proprio buon gusto.
Lo stesso salotto in cui si trovavano aveva il pavimento rivestito di moquette chiara appena in contrasto con il sofà e le poltroncine foderate di velluto bianco come la mobilia tutt’intorno. Il tavolino era di vetro, così come la tavola della sala da pranzo in cui Caroline e la sua famiglia consumavano i pasti. La stessa camera da letto della ragazza era un tripudio di coperte, lenzuola e cuscini bianchi, e perfino le tende del baldacchino erano di quel colore. In qualunque ora del giorno e della notte, l’ordine assoluto regnava sovrano, e le tre cameriere e il maggiordomo si occupavano di rimuovere ogni granello di polvere che incontrassero, oltre a naturalmente svolgere le mansioni di tutti i giorni e servire i pasti. Un autista si premurava di accompagnare la signora e la signorina dove desiderassero – Stephen Woods aveva la patente, ma né Caroline né sua madre avevano mai avuto bisogno di imparare a guidare un'auto – e un ragazzo, Christopher White, veniva a casa loro una volta a settimana per occuparsi del giardino. Caroline non ricordava che in casa sua ci fosse mai stato trambusto o disordine: l’unico luogo in cui si poteva trovare qualcosa fuori posto, a cominciare dal colore della mobilia diverso dal bianco, era la cucina, dove una cuoca stava sempre chiusa a preparare i pasti perché come diceva sempre Goffman, ciò che non rientra nel teatro della vita quotidiana va escluso fisicamente da esso, anche se non si può eliminare.
Ed era proprio così. La signora Woods aveva organizzato la sua casa come il palcoscenico di un teatro, e orchestrava la vita di tutti i giorni come una rappresentazione in cui attori e costumisti si muovevano in un turbinio armonioso. Caroline sperava con tutto il cuore che, una volta sposata, sarebbe stata brava come sua madre nel fare altrettanto.
- In ogni caso, vi chiedo umilmente di spiegarmi che cosa c’entrano quegli inviti con la festa che state organizzando!- fece il rettore dopo poco.- Quel colore non ha nulla a che fare con Halloween.
- E’ color crema come le partecipazioni a un matrimonio - rispose Caroline.- Rimanda a quello. Così le persone intuiranno qualcosa, e rimarranno piacevolmente sorprese nel sapere che quella festa era stata organizzata appositamente per annunciare ufficialmente il nostro fidanzamento…- nel dire questo, la ragazza gettò un’occhiata compiaciuta all’anello di brillanti che portava all’anulare sinistro. Non era stata una vera e propria proposta di matrimonio, quella che Philip le aveva fatto: semplicemente, una sera, i Kingsley avevano ricevuto i Woods a casa loro e insieme avevano deciso che, beh, insomma, ormai Caroline aveva quasi venticinque anni e Philip ventisei, e dopo due anni di fidanzamento era il caso che si sposassero e formassero una famiglia loro. A quel punto, il suo fidanzato aveva tirato fuori l’anello e glielo aveva messo al dito, semplicemente, senza neanche una parola.
Sulle prime c’era rimasta un po’ male: sin da piccola aveva sempre sognato che il suo futuro marito s’inginocchiasse di fronte a lei e le facesse un discorso molto romantico, prima di chiedere la sua mano. Era stata un po’ deludente come proposta di matrimonio, tuttavia Caroline era ben intenzionata a passarci sopra: era una piccolezza, in fondo, e ciò che importava era che presto avrebbe sfilato lungo una navata avvolta in un bellissimo abito bianco.
E che, quel sabato, lei e Philip avrebbero annunciato ufficialmente il loro fidanzamento.
- Ma che c’entra con Halloween?- insistette Stephen.- Una festa del genere, poi…Con quello che si sente alla televisione…siete sicuri che non scoppierà qualche guaio? In queste occasioni la gente tende sempre a fare baldoria…
- Stia tranquillo, signor Woods - intervenne Philip.- Io e Caroline abbiamo selezionato molto attentamente gli invitati. Non sarà una vera e propria festa…più che altro, un ballo in maschera, se si può chiamare così.
- Per l’appunto. E, domando perdono se vi interrompo, abbiamo ancora delle persone da invitare. Quindi, avanti, rimettiamoci al lavoro…!- li incitò Helen, chinandosi a prendere delle buste posate sul tavolino.
- Ah, ecco! A questo proposito, mamma…- Caroline scorse velocemente la lista degli invitati.- E’ proprio necessario invitare…certe persone?
- A chi ti riferisci, cara?
- Beh, ad esempio, le due sorelle Snow.
- Chi?- Stephen si voltò a guardarla, inarcando un sopracciglio.
- Le proprietarie dell’Arendelle - precisò Helen.- E sì, Caroline, è necessario. Dopotutto, abbiamo acquistato le decorazioni per il ballo al loro negozio, e poi Elsa e sua sorella Anna mi sono sembrate due ragazze ammodo…
- Come vuoi - Caroline inarcò un sopracciglio, per nulla convinta.- E che mi dici invece della signora Marsh e delle sue figlie?
- La signora Marsh è la proprietaria del Grand Hotel, è una forma di educazione.
- A me però Tysha e Tamara Marsh non sono sembrate molto ammodo come dici tu…
- Abbi pazienza, cara.
- E, mamma, era proprio necessario invitare anche Grimilde von Schneider e i suoi figli, con quello che è appena successo? Trasformeranno la festa in un funerale vivente!
- Beh, quantomeno saranno in tema con la serata - commentò Helen Woods, tranquillamente.- E, a questo proposito, Caroline, ho dimenticato di informarti che ho organizzato un appuntamento fra te, Philip, e i due giovani von Schneider. Per domani sera.
- Che cosa?!- Caroline strabuzzò gli occhi, drizzandosi a sedere.- Ma…ma…mamma! Neppure li conosco! E poi, loro due saranno in lutto, e io devo pensare a organizzare la festa…
- Prendila come l’occasione adatta per conoscervi. Loro potranno distrarsi e tu anche…
- Ma…
- E’ una questione di rapporti sociali - spiegò Stephen, pacato.- Caroline, la signora von Schneider è una persona molto influente nell’alta società. E’ il caso di mostrarsi cordiali e poi, questo costituirebbe un passo avanti per te e Philip. Quando sarete sposati ed entrerete a far parte della cerchia influente di Garden Hill, avrete già due alleati su cui contare. Philip, mi avevi accennato di voler far carriera in politica, tempo fa, o sbaglio?
- No, signor Woods, non sbaglia.
- Bene. La famiglia von Schneider è la più indicata per…
- Ho sentito dire che Blanche von Schneider è una strega capricciosa - commentò Caroline, svogliatamente. Continuò a far scorrere lo sguardo sulla lista degli invitati, e sgranò gli occhi quando arrivò in fondo.
- Oh, no!- esclamò.- Mamma, ti prego, questo no!
- Qual è il problema, cara?
- Hai davvero intenzione di invitare Nathan Storm?!- sbottò la ragazza.- Oh, ti prego, mamma! Un uomo così…con quella faccia, poi…!
- Tu che ne sai?- fece Helen.- Non l’hai mai nemmeno visto.
- Ma so che sembra la morte in vacanza!
- Non ti preoccupare, tesoro - disse Stephen.- Non verrà. Non è mai più uscito da casa sua dopo l’incendio. In parecchi l’hanno già invitato a diverse occasioni pubbliche, e non si è mai presentato. Gli inviamo un invito solo per cortesia, ma sta’ pur certa che non si presenterà.
- Lo spero. Non voglio un individuo del genere, alla festa per il mio fidanzamento…
 
Casa Garcìa, Poppy Street n. 9
 
Era in ritardo. Di nuovo. Prima o poi l’avrebbero licenziata, lo sentiva. Ma lei che colpa ne aveva se le baby-sitter erano tutte delle gran ritardatarie?
E sei i cellulari finivano sempre nei posti più improbabili?
Esmeralda Garcìa si distese sul pavimento dell’appartamento al quinto piano in cui viveva, allungando un braccio sotto al divano sfondato nel disperato tentativo di recuperare il proprio telefono. Certamente doveva essere stato suo figlio a gettarlo fin là sotto. Anche se non riusciva proprio a ricordare in che frangente avesse potuto mettere in mano a un bambino di due anni un cellulare…
Sbuffò, raccattando finalmente il telefonino e tornando in ginocchio sul pavimento. Si guardò intorno: fra poco sarebbe arrivata la baby-sitter e il suo appartamento faceva orrore. Nell’unica stanza che fungeva da cucina, soggiorno e camera da letto per lei – prima dormiva nella camera accanto, ma da quando era nato suo figlio aveva imparato ad accontentarsi del divano – era invasa da giocattoli per neonati, qualche tutina azzurra e colorata buttata qua e là, più un biberon in precario equilibrio sul bordo del tavolo e un ammasso di piatti sporchi nel lavello. Avrebbe dovuto mettere in ordine prima, ma ormai era tardi per rimediare.
Esmeralda sospirò, abbandonando il capo contro il bordo del divano. Spesso pensava che avrebbe dovuto cercare una casa più grande. Quell’appartamento squallido in Poppy Street – il quartiere appena vicino a Tulip Street con cui faceva il paio per la pessima fama – sempre umido e sporco, dalle pareti scrostate in cui spesso pioveva dentro, non era il luogo migliore per crescere un bambino, lo sapeva. Ma poi, si ricordava sempre che i suoi amici Alain e Chase vivevano al piano di sotto, che lei faceva due lavori fissi più innumerevoli saltuari per tirare avanti, che non aveva un marito e che Daniel era ancora piccolo, e un trasferimento avrebbe potuto turbarlo troppo.
Non è che avesse molte scelte, in proposito.
Il campanello suonò.
Esmeralda si alzò da terra con uno sbuffo, borbottando un era ora!, fra i denti e andò ad aprire la porta.
Quella Roxanne Davies, chiunque fosse, iniziava veramente male.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: So che Blanche manca del tutto e che di Esmeralda c’è pochissimo, ma ho deciso di dare al capitolo un’impostazione diversa (facendo anche procedere la vicenda). Dal prossimo vedremo i preparativi per la festa, e nel frattempo…Logan accetterà la proposta di Robin? Caroline si sposerà oppure succederà qualcosa di inaspettato? E ancora, Storm deciderà di andare alla festa dopo anni di reclusione? E chi è Ryan e che cosa vuole?
Due comunicazioni di servizio: la prima è che ho deciso di aggiungere alla storia anche Rapunzel e Elsa e Anna di Frozen; la seconda, per chi se lo stesse chiedendo, è che Logan e Robin hanno i volti di Michael Socha e Tom Ellis. Ah, e Alain e Chase sono Clopin e Quasimodo ;). Ringrazio SognatriceAocchiAperti, Jessica21 e Princess Vanilla per aver recensito. Grazie, lo so che per ora è un po’ noioso, ma migliorerà presto :).
Ciao, un bacio,
Beauty

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Capitolo 5
*** Capitolo 4. Interludio ***


Capitolo 4
 
Interludio
 
Casa Garcìa, Poppy Street n. 9
 
Proprio come si era aspettata, il suo sesto senso sulle fregature non aveva fallito neppure quella volta, e il sospetto che quella Roxanne Davies a cui lei stava incoscientemente per affidare suo figlio fosse una delle tante sbandate di dubbia credibilità divenne quasi una certezza.
Non era bastato quel ritardo colossale con cui si era presentata: quando aveva aperto la porta e se l’era ritrovata di fronte, Esmeralda era stata vittima di uno shock.
La pseudo baby-sitter era vestita con un paio di jeans con degli strappi vertiginosi all’altezza delle ginocchia, una maglietta bianca che, pur essendo ottobre inoltrato, lasciava scoperto l’ombelico – al quale era stato praticato un piercing –, anfibi neri e una felpa rossa con il cappuccio che aveva avuto decisamente troppi incontri ravvicinati con la candeggina. A completare il quadro ci si metteva un make-up pesantissimo e marcato, soprattutto il rossetto, di uno sfavillante rosso vermiglio.
Esmeralda provò il fortissimo impulso di richiudere la porta seduta stante, ma si trattenne.
- Buongiorno! Posso entrare?- trillò Roxanne, facendosi strada in casa senza attendere la risposta. Esmeralda non rispose, e richiuse la porta d’ingresso con un gesto secco nella speranza che l’altra comprendesse il suo nervosismo – tentativo peraltro vano.
Roxanne si tolse la felpa di dosso come se si trovasse a casa sua e la gettò sulla prima sedia che le capitò a tiro, prendendo a guardarsi intorno. Esmeralda incrociò le braccia al petto, sempre più innervosita.
- Piccola come casa - commentò la baby-sitter.- Me l’aspettavo più grande.
- E io mi aspettavo un po’ più di puntualità!- sbottò Esmeralda tra i denti, trattenendosi dall’aggiungere e di educazione alla frase. Roxanne sgranò gli occhi, guardandola come non riuscisse a capire cosa aveva appena detto, ma dopo due secondi sfoderò un sorriso a trentadue denti.
- Beh, che vuoi che siano cinque minuti di ritardo?- chiese con noncuranza.
- Cinque minuti, niente; venti, invece, sono tutt’altra cosa - ribatté l’altra, aggiungendo alla lista di difetti che aveva appena iniziato a compilare su quella ragazza anche il fatto che non le avesse dato del lei; ma non se la prese troppo. Da che si ricordasse, nessuno in vita sua si era mai sognato di chiamarla signora.- Comunque, se non ti dispiace, la prossima volta gradirei che fossi qui nell’ora stabilita.
(Ammesso e non concesso che ci sarà, una prossima volta).
Roxanne sbuffò sfacciatamente, alzando gli occhi al cielo, ma si rassegnò ad annuire. Un attimo dopo, il sorriso a trentadue denti tornò a spuntare sul suo volto.
- Allora…!- esordì allegramente.- Dov’è il piccolino?
Esmeralda le fece cenno di seguirla, conducendola nella stanza accanto mentre si ripeteva mentalmente la cifra stracciata che le aveva chiesto quella per badare a suo figlio: due dollari l’ora. Praticamente niente. Una baby-sitter comune ne avrebbe chiesti almeno cinque, che lei non si poteva permettere.
Roxanne ubbidì: la seconda camera equivaleva a una stanza da letto e dei giochi. Tutto ciò che era stato piazzato là dentro era su misura per un bambino: c’era un lettino con delle sbarre in modo che il pupo non cadesse mentre dormiva, una cassapanca che fungeva da fasciatoio, un passeggino, un cavalluccio a dondolo e una marea di giocattoli per la prima infanzia, cubetti colorati, pupazzi di peluche, palline di stoffa e, impilati ordinatamente in un angolo, vestiti e tutine sistemati accanto a uno scaffale dove trovavano posto creme e salviette disinfettanti e almeno tre scatole di pannolini.
Ultimo ma non ultimo, proprio sotto la finestra – chiusa a doppio giro di chiave – era collocato un box con all’interno cuscini imbottiti e altri giocattoli. E un fagottino che in quel momento pareva concentrato nell’assaggiare una paperella di gomma.
Esmeralda si avvicinò al box – un regalo del suo amico Chase; quando era nato suo figlio lei non poteva neppure permettersi del latte in polvere, figurarsi una culla o un box, così lui glieli aveva costruiti. Il suo amico era sempre stato bravissimo nei lavori creativi, specialmente quelli di falegnameria, e in quei due anni le aveva regalato non solo la culla e il box per il bimbo, ma anche un lettino quando era stato il momento e perfino il fasciatoio e lo scaffale in cui teneva tutti i detergenti e i pannolini. Alain scherzava spesso dicendo che, presto, lei si sarebbe ritrovata con una mobilia interamente nuova senza neppure bisogno di doverla chiedere.
Non appena si accorse della presenza della mamma, il bambino lasciò perdere la paperella e le rivolse un gran sorriso dai dentini piccoli e bianchissimi, iniziando a fare versetti senza senso e a saltellare sul sederino per la contentezza. Roxanne pensò che doveva avere poco meno di due anni, o giù di lì.
Esmeralda si chinò verso di lui, prendendolo in braccio e sollevandolo da terra.
- Ecco qui…- soffiò, sistemandosi meglio il bimbo fra le braccia.- Lui è Daniel - disse.
- Oddio, ma quant’è carino! Che bello, che bambolotto!- trillò Roxanne e, senza dare tempo a Esmeralda di replicare, protese le braccia verso di lui in modo che la madre glielo passasse. Il figlio della ragazza era davvero un bel bambino, cicciottello senza essere in sovrappeso, con i capelli castani e gli occhi neri e delle guanciotte tutte da sbaciucchiare. Azione, quest’ultima, che Roxy non tardò a mettere in pratica, lasciando sul volto di Daniel numerose sbavature rosse.
Esmeralda inarcò un sopracciglio, non sapendo se sentirsi rincuorata per quell’atteggiamento, perplessa per l’esuberanza della baby-sitter o disgustata per quelle tracce di rossetto sulle guance di suo figlio.
- E’ adottato?- domandò Roxanne, dopo due minuti buoni in cui non fece altro che strapazzarselo di abbracci e ricoprirlo di baci. Esmeralda scosse il capo.
- No, è mio.
- Davvero?- la baby-sitter sembrò perplessa.- Eppure, pensavo…il colore della pelle non è…
Esmeralda si trattenne a stento dal mandarla al diavolo. Era abituata a quel genere di domande, praticamente tutti quelli che non la conoscevano gliele ponevano. Lei era di origini ispaniche, sicché aveva la carnagione scura e i capelli neri. Daniel da parte sua aveva preso solo gli occhi, mentre lui aveva la pelle più chiara e i capelli castani. Spesso e volentieri le persone pensavano fosse stato adottato. O rubato dalla carrozzina, se erano in vena di malignità.
- Sì, il padre era americano - tagliò corto, infastidita, facendo cenno a Roxanne di seguirla di nuovo in cucina, mentre lei continuava a fare versetti e smorfie senza senso a suo figlio – il quale continuava imperterrito a fissarla serio come se avesse di fronte una povera ritardata. Esmeralda sghignazzò, ma subito tornò pensierosa: Daniel non si era mai trovato a proprio agio con gli estranei, praticamente le uniche persone con cui stava volentieri erano lei e gli “zii” Alain e Chase, e sperava con tutto il cuore che quella pazza scatenata che si era tirata in casa non lo lasciasse piangere fino a che non fosse tornata.
- Chi è il bambino più bello del mondo? Chi è il bambino più bello del mondo? Chi è…
- Qui c’è tutto quello che devi sapere - intervenne Esmeralda, bruscamente, nel tentativo di porre fine alla scena di Roxanne che faceva le boccacce a Daniel. Sfoderò un foglietto tutto scribacchiato da una delle tasche dei pantaloni e lo piantò sul tavolo.- Danny ha già pranzato, alle sedici e trenta gli devi dare un omogeneizzato. Li trovi nello scaffale a destra, a lui piacciono quelli all’albiccocca…Da bere, c’è del succo di frutta in frigorifero e dell’acqua. Non gli dare robaccia come aranciata o Coca Cola, ed evita il cioccolato, se proprio lo vuole solo un cucchiaino…E non metterlo di fronte ai cartoni animati per più di mezz’ora di fila, o diventa rintronato nel giro di dieci minuti…
- Okay…- borbottò Roxanne.- Senti, ma se c’è scritto tutto su quel foglio, basta che me lo lasci e ci penso io…
- Tanto ormai ho fatto tardi, preferisco spiegartelo di persona…- ribatté Esmeralda, acida.- Tu sai come si cambia un pannolino, vero?
- Certo che sì!- rispose prontamente la baby-sitter, ringraziando silenziosamente sia la sua capacità di mentire senza vergogna sia la faccia tosta ereditata dalla nonna. No, va bene, non aveva mai cambiato un pannolino in vita sua, ma…ehi, se lo sapevano fare le altre, allora avrebbe imparato anche lei, giusto?
- D’accordo. Qui - Esmeralda le indicò una lunga colonna sul foglio, in cui una serie di nomi erano affiancati da una sequenza di numeri.- Qui ci sono scritti tutti i numeri di telefono che ti serviranno se dovessi trovarti in difficoltà. Questo è il mio cellulare, questi due invece quelli dei miei amici, questo il recapito del luogo in cui lavoro…- aveva ritenuto opportuno scrivere non solo il numero della palestra dove insegnava, ma anche quello della signora da cui andava a fare le pulizie due mattine a settimana, e tanto per essere sicuri anche quello del Topsy Turvy e di un paio di sue colleghe – sebbene dubitava che quella stronza di Kate Nichols avrebbe mai risposto a una chiamata, specialmente da parte sua.- Hai capito? E se ti serve aiuto, scendi le scale e citofona a Trouillefou…
- Che? Tro…che cosa?
- Trouillefou. Alain Trouillefou - ripeté Esmeralda, appellandosi a tutta la sua – scarsa – pazienza.- E’ un amico, per qualunque cosa lui mi ha assicurato che ti potrà dare una mano…
(Nella speranza che non sia impegnato con una delle sue conquiste occasionali…Oh, santo Dio…!).
Si schiarì la voce.
- Hai capito? Vuoi che te lo scriva?
- No, grazie. Non ce ne sarà bisogno…nel caso, suonerò al nome più strano che troverò…- ghignò Roxanne, ritornando a fare smorfiette a Daniel. Esmeralda alzò gli occhi al cielo, più con atteggiamento di supplica che di esasperazione, quindi afferrò la borsa e infilò il suo vecchio cappotto nero sulla tuta da ginnastica che indossava.
- Io torno verso le diciotto di questa sera…- le disse.- E’ tutto chiaro?
- Cristallino. Vai tranquilla, io e Danny ci divertiremo un mondo, vero cucciolotto?- ammiccò Roxanne al bimbo, il quale manteneva stoicamente la sua serietà. Esmeralda sospirò, avvicinandosi a suo figlio e stampandogli un bacio a schiocco su una guancia.
- ‘A mamma!- fece Daniel, muovendo un braccino.
- Ciao, Danny. La mamma torna presto, okay? Fa’ il bravo…- quest’ultima frase avrebbe voluto dirla più a quella svitata che a suo figlio, ma ancora una volta si morse la lingua. Salutò entrambi con una mano, prima di prendere la porta e uscire.
Roxanne rimase in piedi tenendo in braccio Daniel, il quale fissava silenziosamente il punto oltre il quale sua madre era sparita. Era serio, molto calmo. La ragazza gli sorrise, facendolo trotterellare un po’ fra le braccia.
- Allora, piccolo, che vogliamo fare? Hai fame?- chiese.- Vediamo cosa c’è nella dispensa, vuoi?- Roxanne si avviò verso la credenza, iniziando a rovistarvi dentro.- Bingo!- esclamò, estraendo un intero barattolo di crema di cioccolato. Mise Daniel seduto sul tavolo, piazzandosi su una sedia di fronte a lui per tenerlo in equilibrio. Prese un cucchiaino e lo imboccò con un po’ di cioccolata spalmabile; il bambino parve gradire molto, e per la prima volta le rivolse un sorriso con la bocca sporca. Roxanne ridacchiò.
- Bravo che sei! Facciamo così: un cucchiaio a te e uno a me, poi di nuovo uno a te e uno a me…non lo diciamo alla mamma!- gli fece l’occhiolino, al che Daniel iniziò a ridere, prendendo un altro cucchiaio di cioccolato.
 
Commissariato di Garden Hill
 
Marion uscì dalla centrale di polizia stanca e di malumore, e scese in gradini con passo nervoso. Annabelle la seguì, un po’ titubante. Aveva accompagnato la sua amica al commissariato dopo che aveva subito lo scippo, in modo che potesse sporgere denuncia: l’agente che si era occupato di loro era stato molto gentile, ma le varie procedure burocratiche avevano rubato loro quasi tre ore, e alla fine delle stesse a Marion era stato comunicato che, certamente, si sarebbero impegnati per trovare il ladro, ma era bene che non si facesse troppe illusioni: raramente uno scippatore veniva arrestato e, se anche succedeva, ancora più raro era rivedere la merce che era stata rubata.
In poche parole, erano venute lì per niente.
Marion sbuffò, tirandosi indietro i capelli con una mano. Aveva iniziato a tirare un venticello gelido, e i ciuffi castani le ricadevano continuamente sul volto.
- Mi spiace, Marion…- mormorò Annabelle. L’altra si strinse nelle spalle.
- In fondo, sapevo che non avrei rivisto più la mia borsa. E’ un peccato, era un regalo della zia…
- A proposito, che ha detto?
- Chi? Zia Prudence? Oh, lei era più preoccupata per il fatto che fossi caduta e mi fossi sbucciata le mani…- Marion si strinse nuovamente nelle spalle.- Ora mi toccherà bloccare tutte le carte di credito e il bancomat, e ci vorrà un casino di tempo prima di poterne avere di nuove e farmi rifare i documenti…quello stronzo, chiunque sia spero che si rompa la testa con quella moto…!- borbottò; estrasse dalla tasca dei jeans il pacchetto di sigarette Marlboro che aveva chiesto ad Annabelle di comprarle un’ora prima, e ne accese una, cominciando a fumare nervosamente.- E stasera, chi lo sente mio zio! Appena saprà che mi hanno fregato cinquecento dollari e le carte di credito…
- Ma non è stata colpa tua!- protestò Annabelle.- Voglio dire, ti hanno rubato la borsa…
- Non gliene frega niente. Lui pensa solo ai suoi soldi di merda, e chi s’è visto s’è visto. Come ti spieghi che tutti quelli che chiedono un prestito a lui finiscono rovinati?
L’altra non rispose, chinando il capo. Si sistemò le pieghe dei jeans, i capelli scompigliati dal vento.
- Ti accompagno fino al campus - si offrì.
- No, lascia stare…- Marion si tolse la sigaretta di bocca, lasciandola cadere sul marciapiede e schiacciandola con un tacco della scarpa.- Quello che mi brucia di più è che c’era mezzo abbozzo del mio articolo, in quella fottuta borsa…
- Puoi sempre riscriverlo.
- Sì, ma sai che nervoso?- Marion la guardò, quindi si accese un’altra sigaretta.- Grazie per le sigarette, Annabelle…Domani ti restituisco i soldi.
- Non fa niente…
- Sai che non è vero - Marion le puntò lo sguardo addosso.- Ancora problemi a casa?
- Al solito - rispose Annabelle, evitando di dare una spiegazione precisa. Non le piaceva parlare di quel che accadeva quotidianamente nella sua famiglia, di norma non raccontava nulla a nessuno e si era sentita di svelare alcuni particolari alla sua amica solo dopo molto tempo, quando aveva compreso di potersi fidare di lei. Ma restava comunque il fatto che non erano situazioni piacevoli.- A proposito, sarà meglio che vada…- mormorò, sistemandosi meglio la borsa a tracolla.- Sicura che non vuoi che ti riaccompagni fino al tuo alloggio?
- No, non preoccuparti, tanto è solo un quarto d’ora di metro. E forse non vado nemmeno direttamente lì…Magari prima di andare a prepararmi per questa sera faccio un salto in ospedale…- rispose Marion, cupa. Spense anche quella sigaretta.- Piuttosto…che mi dici per quella festa?
- Eravamo d’accordo che ti avrei telefonato.
- Sì, ma…chi poteva saperlo, magari avevi cambiato idea…- Marion parve ritrovare brevemente il sorriso e assunse di nuovo quell’aria sorniona. Annabelle sospirò, scuotendo il capo con rassegnazione.
- Grazie, ma fossi in te non ci conterei troppo…- mormorò.- Ho un po’…di casini.
- Beh, la speranza è l’ultima a morire, dico bene?- Marion si allontanò, salutandola con una mano.- Ci si sente, chica!
Svoltò l’angolo, scoccando un’occhiata all’orologio. Era quasi mezzogiorno e mezzo, non certo l’orario di visite all’ospedale di Garden Hill…ma avrebbe fatto un tentativo.
Aveva bisogno di zio Richard.
 
Villa Storm, Thorned Rose n. 12
 
Christopher White sbuffò, rialzandosi da terra e abbandonando il rastrello sull’erba, asciugandosi le gocce di sudore dalla fronte. Sebbene fosse fine ottobre, quel giorno faceva insolitamente caldo, e il sole di mezzogiorno continuava a battergli prepotentemente sul capo. Si maledisse per non aver preso un berretto. Legato all’esterno della villa con il guinzaglio avvolto intorno a una delle sbarre di ferro del cancello, il suo Terranova abbaiò, forse anche lui infastidito dal caldo. O semplicemente stufo di starsene lì.
- Sven!- lo riprese il ragazzo.- E dai, fai il bravo! Lo sai che non posso farti entrare!
Il Terranova – un bestione di quasi trentacinque chili, Christopher si rimproverava spesso di dargli troppo da mangiare – abbaiò un’altra volta, quindi si accucciò sul marciapiede con un guaito, prendendo a muovere tristemente la coda. Il ragazzo sbuffò nuovamente, togliendosi di dosso la giacca e tornando a raccogliere le foglie secche dal giardino.
Spesso si domandava perché diamine non avesse dato ascolto ai suoi genitori e non fosse diventato avvocato, a quest’ora avrebbe avuto molti meno mal di schiena e qualche soldo in tasca in più, ma per una testa dura come la sua la facoltà di legge certamente non avrebbe sprecato né tempo né denaro, e dunque eccolo lì, a lavorare come giardiniere a ore nelle case dei ricchi. Fortunatamente, la villa di Nathan Storm non aveva un giardino come quello dei Woods: lì, piante esotiche e aiuole fiorite spuntavano da ogni dove, e lui impiegava tutta la mattina solo per curarsene, quando andava da loro. Invece, il giardino del numero 12 di Thorned Rose era…quasi un cimitero dei fiori.
Era molto ampio, quasi il doppio della proprietà dei Woods e perfino più grande di quello dei King, ma non c’era altro se non un vialetto acciottolato e una distesa di erba ben curata. Niente alberi, fatta eccezione per un salice piangente posto ai confini occidentali della cancellata, quest’ultima costituita da sbarre di ferro scuro che terminava in spuntoni appuntiti. L’unico elemento vagamente floreale là dentro era rappresentato da un’aiuola di rose rampicanti sulla fiancata posteriore della casa, ma si trattava più di un cespuglio incolto di rovi che altro, dal momento che in quei cinque anni che lavorava lì, Christopher avrà visto sì e no un paio di boccioli striminziti spuntare in mezzo a quella selva, e nessuno durava abbastanza a lungo da fiorire.
E – questa era una sensazione che Christopher sapeva rasentare l’idiozia, ma nonostante ciò era sempre in grado di mettergli i brividi quando ci pensava – sembrava quasi che non solo il giardino, ma anche l’intera casa, fossero immersi nel silenzio e nell’immobilità assoluta. Come se il tempo si fosse fermato e non avesse nessuna intenzione di riprendere a correre.
Il ragazzo ringraziava sempre che, dato il poco lavoro, lui dovesse venire in quella casa solo una volta la settimana e il tempo che vi trascorreva fosse di poche ore, perché l’ambiente era inquietante.
La villa di Storm era a due piani, più la soffitta, ed era imponente: la signora Dallas, la governante, una volta gli aveva detto che contava ben ventidue stanze. Non aveva nulla di pretenzioso come invece l’avevano l’abitazione di John King o dell’armatore Water, ma sembrava che la famiglia Addams ne avesse fatto la residenza autunnale. Le pareti esterne erano dipinte di grigio scuro, i tetto spiovente aveva le tegole appuntite; una scalinata in pietra conduceva alla veranda di marmo da cui si aveva accesso all’interno, mentre sulla ringhiera della scala e dei terrazzi, invece dei pomelli, vi erano delle statue di gargoyle e mostri. Christopher si domandava spesso da dove provenisse quel dubbio gusto per il macabro, ma d’altra parte non si sarebbe potuto aspettare di meno da uno la cui casa era sorvegliata da telecamere a circuito chiuso.
Il ragazzo se n’era accorto solo diverso tempo dopo aver cominciato a lavorare lì, e per un attimo aveva anche creduto di essere capitato a casa di un serial killer. Ben cinque telecamere puntate verso l’esterno sorvegliavano chi entrava e chi usciva, ed erano state piazzate in modo da non lasciare nessun angolo del giardino non visto.
Il fatto più sconcertante, inoltre, era che estate e inverno, giorno e notte, porte e soprattutto finestre della villa rimanevano sbarrate, specialmente al piano superiore. Di tanto in tanto, la signora Dallas, Howard e sua moglie Ginny o qualcun altro dei domestici spalancavano le ante del piano terra per far prendere un po’ di aria e luce alle stanze, ma a Christopher non era mai capitato di vedere aprirsi anche le finestre del secondo piano, che rimanevano sempre chiuse, serrate. L’ambiente interno era perennemente in penombra: qualche volta il ragazzo era entrato in cucina invitato dalla signora Dallas per offrirgli un bicchiere d’acqua o di succo d’arancia, e aveva potuto vedere con i suoi occhi che la luce era appena sufficiente per vedere dove si mettevano i piedi.
Aveva provato anche a fare un paio di domande sul proprietario, ma in quelle occasioni l’affabilità e la gentilezza del personale di servizio si trasformava in stoico mutismo, e Christopher si era dovuto accontentare di quel che dicevano in città, ovvero che nessuno aveva più visto Nathan Storm uscire dalla sua villa da ben dieci anni.
Christopher venne distratto dalle sue elucubrazioni mentali da Sven, che aveva ripreso ad abbaiare. Abbandonò il rastrello sull’erba, ben deciso a gridare al cane di smetterla, ma quando alzò il capo vide che c’era un motivo per tutta quell’agitazione: l’automobile del postino si era appena accostata alla cancellata, e l’uomo aveva fatto scivolare una busta nella cassetta delle lettere.
Quando fu rimontato in macchina e se ne fu andato, Christopher udì la porta aprirsi, e la signora Dallas fare capolino sulla soglia.
- Posta!- annunciò il giardiniere, con giovialità.
- Sì, lo so, sono uscita apposta…- sbuffò la donna, iniziando a scendere i gradini che Christopher ringraziava tutti i giorni essere di pietra e non di legno. In caso contrario, era sicuro che sarebbero crollati sotto il non indifferente peso della governante.
Okay, va bene, la signora Dallas non era una balena, ma neppure una piuma, se era per quello. La conosceva da anni, e non ricordava che fosse mai stata magra. Era una donna sulla sessantina – supponeva, almeno, l’unica volta che si era azzardato a chiederle l’età si era beccato una mestolata sulla capoccia! – più tonda che alta, con i capelli grigi tenuti ordinati in un’anonima crocchia. Era sempre vestita in maniera dimessa, con un vestito semplice e un grembiule, esattamente come più o meno tutto il resto del personale di servizio. Christopher si chiedeva se fosse Storm a imporre quel tipo di vestiario.
- Aspetta, Ruth, te la vado a prendere io!- si offrì, mollando il rastrello a terra quando la vide arrancare in direzione del vialetto.
- Tu fa’ il tuo lavoro, o finirai per venire licenziato!- in barba alla mole, la signora Dallas aveva già raggiunto la cassetta della posta, e ne aveva estratto le lettere. Christopher non riprese il rastrello, rimanendo a guardarla mentre passava le buste a una a una, tornando verso la porta.
- Novità?
- Che?- l’attenzione della signora Dallas era stata attirata da una busta in particolare, color crema.- No, nessuna…ma a te che importa, lavativo?!
- Era solo per chiedere…!- Christopher rise, riprendendo il rastrello in mano e ricominciando a rimettere a posto le foglie secche.- Lavori per l’uomo più misterioso di tutta la città, devi pur aspettarti qualche domanda…!
- Lo sai che il signor Storm non vuole che si parli di lui. Vedi di stare zitto, o uno di questi giorni finiremo tutti per essere licenziati per colpa tua…- la signora Dallas era ancora concentrata su quella busta color crema, ma non si azzardava ad aprirla. Riprese a salire i gradini.
- Beh, vedila dal lato positivo: se vieni licenziata, poi più niente t’impedirà di sparlare a destra e a manca del tuo ex capo!- Christopher rise, mentre la donna roteò gli occhi, fingendosi esasperata.
- Ne hai per molto?- gli chiese.
- No, un paio di minuti e ho finito.
- Allora passa dentro dalla porta sul retro, dico a Ginny di prepararti un caffè. Non farti sentire, mi raccomando…lo sai che il signor Storm non vuole che…
- …non vuole che facciate entrare nessuno senza il suo esplicito consenso, sì. Grazie, Ruth.
La signora Dallas rivolse al ragazzo un sorriso bonario, quindi rientrò. Una volta dentro, quando si fu assicurata che la porta d’ingresso fosse ben chiusa, abbandonò le lettere – più che altro bollette della luce e qualche raccomandata, tutte cose per le quali il signor Storm aveva delegato Howard affinché se ne occupasse, a meno di qualche disguido che richiedesse il suo personale intervento – su un cassettone posto accanto alla parete, tranne la busta color crema. Ne lesse per l’ennesima volta l’intestazione, aggrottando le sopracciglia.
- Ruth, cosa c’è? Brutte notizie?
Ginny, una donna sui quarantacinque, magra e non molto alta, con i capelli castani un po’ in disordine, si era affacciata sulla soglia della cucina, osservando la scena. La signora Dallas scosse il capo, facendole cenno di avvicinarsi.
- Notizie, nulla di più. Non sono sicura se siano buone o cattive, Ginny…- le passò la busta color crema, che la donna non si fece scrupolo ad aprire e a leggerne il contenuto. Si trattava di un invito, l’invito a un ballo.
- Dio, da quanto tempo non vedevo una cosa simile!- esclamò, mantenendo tuttavia un tono di voce basso, confidenziale, quasi sussurrando alla signora Dallas.- Quando è stata l’ultima volta, Ruth? Tu te lo ricordi?
- Esattamente dieci anni fa. Per il matrimonio di Hans von Schneider…la notte in cui…- non terminò la frase, scambiandosi un’occhiata eloquente con Ginny.
- E’ vero. Anche…anche questa volta si tratta del Grand Hotel. Pensi che…- la donna si umettò le labbra.- Pensi che sia il caso di riferirglielo, o…
- Dovreste lasciar perdere - dichiarò all’improvviso una voce maschile, facendole sobbalzare. Howard, il marito di Ginny, si avvicinò a grandi passi, strappando alla moglie la busta dalle mani.
- Ehi!- protestò lei.- Ma ti sembra il modo?!
- Abbassate la voce!- bisbigliò la signora Dallas.- Volete farvi sentire da tutto il vicinato?
- Quale vicinato? Siamo a ben tre chilometri dalla città, dove lo vedi il vicinato, Ruth?- al trio si aggiunse una quarta persona, una ragazzetta con i capelli biondo paglia raccolti in una coda di cavallo, che indossava solo un grembiule sopra dei jeans lisi e strappati, anfibi neri, una t-shirt con lo stampo di una pantera e almeno una decina di bracciali con le borchie intorno ai polsi. Aveva un piercing al naso e masticava rumorosamente un chewing-gum.
- Jules, torna a lavare i piatti!- le ordinò Ginny, venendo bellamente ignorata.
- Che cos’è?- la ragazza bionda si avvicinò con curiosità, parlando a voce alta come se nulla fosse.
- Non è un tuo problema, torna a lavorare!- bisbigliò Howard.
- Papà, finiscila di rompere!- borbottò Jules, strappandogli di mano l’invito e leggendone le righe.- Sgranò gli occhi.- Oh, cazzo! Ma è una ficata d’invito quella che sto leggendo?!
- Usa quel linguaggio un’altra volta e giuro che ti lavo la bocca con il detersivo!- minacciò Ginny, riprendendosi la busta. La signora Dallas pensò che quel povero pezzo di carta stesse diventando come un bagaglio smarrito in aeroporto, passava da una mano all’altra senza trovare una collocazione.
- Porca vacca, ma è per il Fantasma dell’Opera quella meraviglia?!- trillò Jules, cercando di riprendersi l’invito.- No, ma per favore! Tutto questo spreco per Double-Face di sopra che di sicuro non ci andrà…! Vacca boia, se fosse per me…
- Ma visto e considerato che non lo è, Jules, modera l’entusiasmo e soprattutto i termini e torna al lavoro!- ringhiò Howard.- Il signor Storm è già stato abbastanza gentile da assumerti dopo che ti sei fatta sbattere fuori da tutti i locali di Garden Hill, vedi di non…
- Ruth, ma andiamo! Si tratta di una festa come di quelle che solo a Hollywood ne fanno! Storm di sicuro non ci andrà, e non c’è il nominativo…non potresti…ehm…fare uno strappo alla regola e…
- Jules, tu non vai da nessuna parte!- dichiarò fermamente Ginny.- Dov’è Garrett? E Sean? Dove diamine sono finiti?
- Saranno a giocare a carte da qualche parte…Comunque, Ruth…
- …comunque, Jules, su una cosa hai ragione: Storm non ci andrà - Howard tolse nuovamente di mano l’invito alla moglie e lo gettò nella spazzatura poco distante. La signora Dallas si precipitò a raccoglierlo.
- Howard, ma sei impazzito? Non puoi gettare via la posta senza prima aver informato il signor Storm!
- Ho semplicemente fatto ciò che farà lui quando gli consegnerai quell’invito. Sai bene che non ci andrà. Non è mai uscito da questa casa dalla notte dell’incidente, perché dovrebbe farlo ora?
- In effetti, Ruth…- s’intromise timidamente Ginny.- Sei sicura che sia il caso di dirglielo? Non vorrei mai che si arrabbiasse…Lo sai com’è, quando perde la pazienza…
- Non me lo dire!- borbottò Jules, incrociando le braccia al petto.- Ho ancora nelle orecchie la sua voce l’ultima volta che mi ha urlato dietro. Tutto per uno stupido caffè…
- Magari avresti anche potuto evitare di rovesciarlo sui documenti, il caffè.
- Non è stata colpa mia. Me lo sono ritrovato di fronte all’improvviso, e con quella faccia sembra John Merrick direttamente dal diciannovesimo secolo…
- Forse è stato proprio per il fatto che l’hai fissato con disgusto che si è arrabbiato. E sputa quella gomma, non ne posso più di vederti ruminare come una zebra!
- In ogni caso, non abbiamo il diritto di decidere per lui - dichiarò la signora Dallas, cercando di lisciare l’invito alla bell’e meglio.- Devo dirglielo. Poi, si vedrà.
Senza attendere risposta, la donna prese a salire le scale che conducevano al piano di sopra, reggendosi con una mano alla ringhiera di legno di ciliegio. Al secondo piano della villa la luce era ancora più esigua, e le ci volle qualche istante prima di abituarsi. Il signor Storm viveva praticamente nel suo studio, da cui usciva pochissimo, dove lavorava, dove si faceva portare i pasti e da cui comunicava con il mondo esterno solo via computer o, raramente, con il telefono. Il suo stile di vita era nettamente cambiato dopo l’incidente che gli aveva deturpato il volto, così anche come il suo carattere: era sempre stato un tipo abbastanza schivo, poco incline alla confidenza facile, ma dopo quel che era successo tendeva ad arrabbiarsi con più facilità che in passato, e per questioni di gran lunga più futili, tanto che spesso neppure loro sapevano come comportarsi. Vivevano con uno spettro, con un padrone che si limitava a chiedere e ordinare, e che non vedevano quasi mai.
La signora Dallas si avvicinò alla porta dello studio dove sapeva che lui fosse, e bussò con cautela.
- Chi è?- fece una voce dall’esterno, calda e profonda, ma assolutamente priva d’intonazione. La signora Dallas si schiarì nervosamente la voce.
- Sono io, signor Storm. E’ arrivata…posta.
- Avevo disposto che fosse Howard ad occuparsene.
Male. Molto male. Stavolta si riuscivano ad avvertire le prime punte di irritazione. La signora Dallas perse un profondo respiro.
- Lo so, signor Storm, ma…ho ritenuto opportuno informarla, stavolta. E’…è arrivato un invito per lei. L’invito a…un ballo in onore della festa di Ognissanti…- lesse, con parecchia fatica data la poca luce.
- Grazie per la premura, signora Dallas, ma può gettarlo via.
- Ne…ne è sicuro?- insistette la donna. Non l’avrebbe mai ammesso, ma lei lavorava in quella casa da vent’anni, da quando ancora c’erano i genitori del signor Storm, e si poteva dire che l’avesse visto crescere: le dispiaceva che si fosse chiuso in quell’isolamento. Uscire gli avrebbe fatto bene, nonostante…beh, quello.- E’…da parte di una certa Caroline Woods. La figlia del rettore, sa? Penso che potrebbe prendere in considerazione l’idea di…
- Ho detto di gettarlo via, signora Dallas. La ringrazio, ma non insista.
La donna assunse un’espressione delusa, fissando la porta. Emise un sospiro, chinando il capo.
- Come desidera, signore.
Non ottenne altra risposta. Ridiscese le scale, e si diresse in salotto.
Alle sue spalle, Jules si lasciò sfuggire un gemito di disappunto quando la signora Dallas gettò l’invito nel fuoco del camino.
 
Villa Storm, Thorned Rose n. 12, esterno
 
Dall’altra parte della strada, Ryan Black era appostato da più di un’ora in attesa che l’invito fosse consegnato a Nathan Storm e, ora che aveva visto l’auto del postino allontanarsi e la vecchia governante rientrare in casa con il plico di lettere, poteva dirsi soddisfatto.
Si allontanò. Aveva creduto di non rivedere più quel bastardo di Storm dieci anni prima, quando lui e i suoi compagni avevano tentato di bruciarlo vivo, ma era sopravvissuto e loro avevano quasi rischiato di venire ammazzati dal Principe per non essere riusciti a ucciderlo. Quella era stata la fine che aveva fatto Riley, due anni dopo: morto ammazzato. Non dal Principe, era finito accoltellato in una rissa, ma di fatto loro erano rimasti prima in quattro, e poi con il passare degli anni in due: uno era finito in galera per stupro, e l’altro era morto per overdose.
Alla fine erano rimasti solo lui e Harold. Ma Harold era un figlio di papà con i soldi, e non appena aveva visto che le cose si mettevano male aveva cercato di tirarsi fuori. Non ci era riuscito del tutto.
Ryan estrasse il walkie-talkie dalla radio, portandoselo all’orecchio.
- Sono Harold - rispose una voce dall’altra parte. Notò che era impaurita e nervosa, e questo lo disgustò.
- Obiettivo raggiunto. I Woods hanno invitato anche Storm. Vuol dire che sabato la casa sarà libera.
- Chi te lo assicura? E’ da dieci fottuti anni che non esce, perché dovrebbe farlo adesso?
- Il ballo sarà al Grand Hotel, e ci saranno anche i von Schneider. Se sta continuando ad indagare, allora non potrà mancare. Il Principe vuole che recuperiamo quei documenti.
- Non è che stiamo entrando in casa del Lupo in persona, eh? E poi, in due siamo troppo pochi. Occorre qualcun altro che faccia da palo.
- Non preoccuparti, so benissimo a chi rivolgermi. Tu tieniti pronto.
Senza aggiungere altro né salutare, Ryan chiuse la conversazione, e prese ad avviarsi tranquillamente verso quella che era diventata casa sua da lì a qualche anno. Era un’abitazione squallida, e la puttana che gli toccava sopportare era anche peggio, ma allora non aveva potuto fare altrimenti: era agli esordi nella sua carriera di pusher, il Principe gli stava col fiato sul collo e la polizia ancora di più. Sposare Theresa Nichols era stato inevitabile, ma in fondo aveva tratto dei vantaggi da quel matrimonio.
Sua moglie era una depressa cronica che dipendeva totalmente da lui, faceva tutto ciò che le ordinava, e poteva divertirsi a estirpare denaro e favori da quella famiglia di molluschi che aveva acquisito: un suocero vedovo e cardiopatico, un ragazzino che faceva tanto il gradasso ma che di fatto aveva ancora il latte agli angoli della bocca, una sgualdrina ancora più troia della sua gentil consorte, una bambina sapurita che faceva di tutto per opporglisi fallendo miseramente e un handicappato in grado solo di mugolare.
Più facile a farsi che a dirsi. E, ora che ci pensava, suo suocero gli doveva un favore…
 
Piscina The Three Lilies, Garden Hill
 
Ariel riemerse dall’acqua, prendendo una rapida e generosa boccata d’aria prima di rituffarsi e riprendere lo stile a farfalla che suo padre le aveva imposto come tecnica alla fine dell’allenamento. Era l’ultima vasca. L’ultima vasca.
La ragazza fece una capriola sott’acqua prima di toccare con i palmi delle mani il muro che delimitava la fine della corsia, quindi riemerse in contemporanea al fischio acuto di suo padre. Anzi no, il suo allenatore. Era stato lui stesso a metterlo in chiaro sin dal primo giorno in cui era divenuto a tutti gli effetti il suo coach. Non appena entrambi mettevano piede in piscina, lui categoricamente cessava di essere papà e si trasformava nel Mister Triton Water.
- Abbiamo finito. Avanti, esci - più che un’esortazione, il tono di voce di suo padre rasentava più un ordine. Ariel rimase a mollo nell’acqua che odorava di cloro, muovendo appena gambe e braccia per mantenersi a galla.
- Posso restare ancora un po’ qui?- chiese.- Solo un’altra vasca a stile libero. Senza cronometro.
- No, Ariel, non oggi. Non siamo qui per divertirci, e il tempo che avevamo a disposizione è scaduto. Ho detto esci, avanti…
Ariel sospirò, nuotando lentamente verso la scaletta e togliendosi la cuffia. Suo padre le gettò l’accappatoio sulle spalle non appena fu completamente fuori dall’acqua: i lunghi capelli rossi erano bagnati e appiccicati al cranio. Aveva bisogno di una doccia, subito.
- Sei migliorata, ma puoi fare di più - Triton gettò un’occhiata al cronometro.- Solo trentadue secondi, stavolta. Brava, ma devi essere più veloce. Le Olimpiadi di Tokyo saranno fra pochi mesi, e il tuo tempo è nella media. Devi cercare di nuotare più velocemente, o non arriverai neppure alla fine della prima vasca che le altre atlete ti avranno già superata.
- Va bene, papà - soffiò Ariel, asciugandosi il volto con una manica dell’accappatoio. Trentadue secondi…decisamente troppi. Era sicura che tutte le altre ne avrebbero impiegati almeno venticinque per due vasche, se non di meno.
Il vociare di tutti i frequentatori della piscina – suo padre aveva richiesto al proprietario uno spazio di tempo privato ogni giorno affinché lei si potesse allenare, pagando un extra sull’iscrizione anche per tenere la piscina aperta più a lungo la sera – cominciò a riecheggiare sulle pareti, e Ariel e suo padre iniziarono ad avviarsi verso gli spogliatoi. Triton le avvolse un braccio intorno alle spalle.
- Cos’hai portato per pranzo, oggi?
- Due barrette e dell’insalata. Va bene?
- Certo. Ma cerca anche di mangiare qualcosa che contenga carboidrati di tanto in tanto. Senza esagerare, ma ti darebbe energia.
- Okay, papà.
Gli spogliatoi erano deserti. Ariel raccolse dal suo zainetto la saponetta e l’asciugamano ma, prima che potesse dirigersi verso le docce, suo padre la bloccò.
- Prima che tu vada, volevo chiederti una cosa…
Ariel annuì, sedendosi su una panca quasi istintivamente. Era una scena che si ripeteva spesso: quando Triton annunciava di dover dire qualcosa a qualcuno, sia lei che le sue sorelle dovevano immediatamente filare in salotto, sedersi sul divano e attendere quanto necessario finché lui non avesse finito. L’uomo le rivolse un debole sorriso.
- Stamattina tua madre e Alana mi hanno detto che non hai ancora scelto il tuo abito per il ballo. E’ sabato prossimo, quanto intendi aspettare? Vuoi ridurti all’ultimo momento?
- Io…io a dire il vero…- Ariel si mordicchiò il labbro inferiore, colta alla sprovvista.- Io a dire il vero non pensavo di andarci.
- Hai ricevuto un invito, no?
- Sì, ma…l’ho gettato via.
(Per mettere i puntini sulle i, è stata la Bharrahaji a buttarlo…spero).
Triton sospirò, passandosi una mano prima fra i capelli, poi accarezzandosi la barba lunga e bianca. Proprio come quando era irritato.
- E si può sapere perché lo hai fatto?
- Ma…io…- Ariel si accorse di stare balbettando, il che non avrebbe fatto altro che far innervosire ancora di più Triton. Cercò di riprendersi.- Io pensavo…sai, gli allenamenti…tu stesso mi dici sempre che non posso permettermi di perdere tempo…credevo che nemmeno tu saresti stato d’accordo…
- In effetti, non mi piace molto che tu ti distragga dai tuoi obiettivi, ma hai fatto una sciocchezza a gettare via l’invito senza dirmelo. Ora tua madre non potrà venire con te perché dovrà cederti il suo. Ma non è un problema, so che hai sale in zucca, mi fido di te. Ma ricordati, Ariel, che c’è un motivo per cui devi andare a quella festa, anche se sarai da sola: i Woods sono persone molto influenti, e ti hanno invitata perché sanno che sei una promessa nel nuoto, l'atleta di questa città. Questo potrebbe agevolarti, una volta arrivata a Tokyo. E poi, pensa al mio lavoro. E’ una questione di rapporti sociali, capisci?
Ariel annuì a denti stretti, chinando il capo. Avrebbe dovuto aspettarselo: lei a quella festa non ci voleva andare, ma suo padre era pronto ad andar contro tutti i suoi principi pur di mantenere buoni i rapporti con le altre famiglie influenti di Garden Hill. Da che ricordasse era sempre stato così.
Lei proveniva da una famiglia…perfetta. In tutto e per tutto.
Suo padre, Triton Water, era un armatore molto ricco, proprietario di ben due compagnie navali. Sua madre Athena era una giornalista televisiva parecchio famosa a Garden Hill. Ariel aveva sei sorelle maggiori, e tutte loro erano eccellenti in qualcosa: Aquata aveva avuto il QI più alto del liceo ed era uscita con il punteggio massimo all’università, e tutt’ora dirigeva un acquario come biologa marina; Andrina era la prima ballerina dell’Opéra di New York, e ora lavorava lì; Arista aveva vinto al concorso di bellezza di Miss America; Attina era due volte medaglia olimpica di pallavolo; Adella era il Primo Violino dell’orchestra di Garden Hill e Alana aveva recitato come comparsa in un film candidato al Premio Oscar e per lei si apriva una radiosa carriera di attrice.
E lei, Ariel?
Lei era un’ottima nuotatrice. Le piaceva stare in acqua, lo considerava il suo ambiente, forse si poteva dire che stesse meglio in piscina che a casa sua, ma per tutta la vita aveva sempre sentito la necessità di confrontarsi con quegli obiettivi irraggiungibili che erano i suoi genitori e le sue sorelle. Athena le ripeteva spesso di non preoccuparsi, che ognuno era bello e speciale per quello che era, e che lei doveva fare della sua vita quello che più riteneva giusto.
Triton non era dello stesso parere, e non appena si era accorto del talento di sua figlia l’aveva messa sotto torchio, con allenamenti che duravano anche tutto il giorno, spesso facendole saltare la scuola per permetterle di stare più ore in piscina. Era per quello che Ariel spesso non studiava, non faceva i compiti e non aveva amici. E, con il tempo, si era sempre più immedesimata nella mentalità di suo padre. Per lei esisteva solo il nuoto, nulla più.
Ma di tanto in tanto esisteva lo strappo alla regola. L’armatore Water era un uomo importante, in vista in tutta la città, ed era normale che dovesse mantenere delle buone relazioni sociali: motivo per il quale lei e le sue sorelle erano spesso costrette a partecipare a ricevimenti a cui a nessuna di loro andava di prendere parte.
Era sempre così: se volevi partecipare a una festa per divertirti, allora tanto valeva che ti mettevi il cuore in pace e ci rinunciavi; ma se invece si trattava di tenere buoni gli avvoltoi benestanti della città, allora potevi benissimo diventare carne da macello senza tanti complimenti.
Triton le diede un buffetto su una guancia, sorridendole.
- Non preoccuparti. Tua madre non sarà dispiaciuta, vedrai. Ora va’ a farti una doccia e intanto pensa al vestito che ti piacerebbe indossare. Occorrerà tempo per confezionarlo.
Ariel annuì nuovamente, alzandosi in piedi e dirigendosi verso le docce con la morte nel cuore.
 
Covo del Lupo (da qualche parte in Tulip Street)
 
Il telefono squillò un paio di volte, quindi si accese la spia rossa della segreteria.
Il Lupo la lasciò fare, senza alzarsi dalla sedia su cui era seduto, nel buio più totale.
Poggiato sul tavolino, c’era un articolo di giornale in prima pagina, riguardante la morte di Hans von Schneider. Poco più sotto, un trafiletto annunciava la fuga di un uomo da un ospedale psichiatrico di Boston.
- Sono io - fece la voce nella segreteria, profonda e cavernosa, chiaramente truccata.- Obiettivo portato a termine. Sabato notte, al Grand Hotel. Ti farò avere più informazioni in seguito. Ricordatelo: sabato notte, al Grand Hotel.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Angolo Autrice: Questo capitolo era necessario per diverse questioni che avrete certamente compreso. Dal prossimo finalmente avremo Blanche, Anna ed Elsa (Rapunzel comparirà più tardi) e il prossimo ancora sarà dedicato essenzialmente ad Annabelle e alla sua famiglia, all’appuntamento serale fra i fratelli von Schneider e Caroline e Philip, alla cena indigesta fra Marione John King e a Jasmine, e sarà anche l’ultimo di una sezione che vedrà presentate le varie protagoniste e le motivazioni che le indurranno a partecipare alla festa di Halloween…serata in cui, come avrete intuito, ne capiteranno di tutti i colori, e non solo presso il Grand Hotel. Dopo quest’altro, si avrà un ulteriore macro-capitolo che vedrà i vari preparativi per il ballo e poi, finalmente…la grande serata! Ne vedremo delle belle, statene certe :).
Dunque, sorpresona: Ryan, il marito della sorella di Annabelle, era anche uno dei cinque teppisti che hanno conciato Storm per le feste (per la precisione, era il capo). E…chi si cela sotto il nome de il Principe? Chi è Harold e cosa hanno in mente di fare lui e Ryan? E ancora, che combina il Lupo?
Dai prossimi capitoli faremo la conoscenza di zio Richard, del Sultano e di sua moglie Sharifah, di zio John e di Grimilde, della famiglia di Annabelle al completo e di zia Prudence, oltre a naturalmente le protagoniste mancanti.
So che per ora Annabelle non è molto simpatica, ma miglioerà presto, vedrete ;).
Rispondo alle domande di LadyAndromeda: allora, il nome Alain l’ho preso in prestito da una storia che ha scritto una mia amica, in cui ha chiamato Clopin appunto con questo nome. Quanto a Chase…allora, ho cercato diverse varianti per il nome Quasimodo, da Quentin, Carl e simili, e alla fine questo mi è sembrato il più adatto. Il padre di Daniel no, non è Febo e se ci sarà Fiordaliso…non era contemplata all’inizio ma mi hai fatto venire voglia di inserirla, quindi sì ;).
Ringrazio Landil, Anamique, Jessica21, Princess Vanilla e LadyAndromeda per aver recensito :).
Ciao a tutti!
Beauty

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Capitolo 6
*** Capitolo 5. C'era una volta (quarta parte) ***


Capitolo 5

 

C’era una volta (quarta parte)

 

There’ll be actual real live people

It’ll be totally strange

But wow, am I so ready for this change.

Cause for the first time in forever

I’ll be dancing through the night.

Cause for the first time in forever

I won’t be alone.

 

[Kristen Bell, For the first time in forever]

 

Villa von Schneider, Gillyflower Avenue n. 26, esterno

 

Evelyn varcò il cancello della casa dei von Schneider che mancavano cinque minuti a mezzogiorno e mezzo. Era in perfetto orario, ma aveva rischiato di fare tardi e di consegnare il pranzo freddo perché Tamara aveva fatto la spia dall’Ape Regina, e non appena Lucrezia aveva saputo che il figlio dell’imprenditore austriaco assassinato era stato al Grand Hotel si era scapicollata fuori dal suo ufficio ed era entrata nelle cucina come se fosse stata Willy Coyote all’inseguimento di Beep Beep. Era stata una scena che aveva avuto anche del comico, in quanto la signora Marsh aveva lo sguardo spiritato e continuava a guardarsi in giro come se si aspettasse un attacco nucleare da un momento all’altro. Aveva preso a saltellare istericamente intorno al tavolo dove Marge stava triturando le verdure sbraitando che avrebbe licenziato tutti quanti se non avessero consegnato il pranzo a Villa von Schneider in orario, che doveva essere tutto perfetto e che se solo qualcuno dei vicini avesse osato lamentarsi lei…

In genere le minacce di Lucrezia erano sempre in grado di ridurre tutti alla sottomissione – nonostante si tendesse a pensare il contrario, la sua matrigna manteneva sempre le promesse, in ogni senso –, ma quella visione era stata talmente assurda che Jack e Pavel avevano dovuto uscire dalle cucine in tutta fretta e andare a nascondersi in uno dei bagni per sfogare tutta la loro ilarità senza essere visti, e Marge si era morsa la lingua per non scoppiare a ridere in faccia alla proprietaria.

Comunque, quella notizia non aveva fatto altro che inasprire ancora di più il carattere di Lucrezia, la quale aveva sfogato tutto il suo nervosismo su Evelyn. Ora la ragazza si ritrovava non solo con le mansioni di tutti i giorni e in aggiunta anche il dover aiutare a preparare il salone da ballo per sabato sera, ma le toccava pure consegnare di persona il pranzo a casa von Schneider.

Non l’aveva mai fatto – consegnare i pasti a domicilio in genere era compito di Pavel –, ma non era per quello che era preoccupata: anche se era infantile, dopo la figuraccia di quella mattina avrebbe voluto evitare di incontrare di nuovo Sebastian von Schneider. Era sicura che non appena se lo fosse ritrovato davanti sarebbe avvampata fino alla radice dei capelli e il ricordo della sua gaffe l’avrebbe perseguitata fino a che non fosse uscita da quella casa.

Il giardino della villa era sorprendentemente ben curato, sebbene si notasse che fosse trascorso del tempo dall’ultima volta che qualcuno aveva abitato in quella casa: Evelyn non aveva trovato una selva di erbacce e piante rampicanti come si era aspettata, ma diversi giardinieri erano al lavoro per estirpare le ultime spine di rovi o sostituire le piante secche che spuntavano qua e là. Poco più in là del cancello sorgeva un labirinto costruito da siepi, e ancora più avanti vi era invece un campo da tennis privato, a pochi metri da una fontana che, almeno per il momento, non faceva zampillare acqua. A Evelyn tornò alla mente la descrizione presente in un romanzo italiano che suo padre le aveva regalato a quindici anni, di ritorno da un viaggio a Roma, Il giardino dei Finzi Contini. E a pensarci bene, Sebastian von Schneider le aveva ricordato molto l’Alberto del libro.

Passò velocemente accanto a due giardinieri che stavano chiacchierando con una donna con addosso una divisa da cameriera, venendo ignorata, e proseguì spedita sino alla porta d’ingresso.

 

Ospedale The Yellow Lily, Garden Hill

 

Marion entrò nel reparto con ancora la sigaretta accesa in bocca, venendo prontamente redarguita da un infermiere sul fatto che non si potesse fumare là dentro. La ragazza lo sapeva, ma le era passato di mente: spense la sigaretta di malavoglia, gettandola in un cestino della spazzatura.

Aveva iniziato a fumare quando aveva sedici anni, poco dopo che zio Richard era stato ferito ed era entrato in coma. Era stato un periodo d’inferno, quello: zia Prudence non faceva altro che piangere dalla mattina alla sera, e a complicare ancora di più le cose ci si metteva zio John che, oltre a essersi accaparrato la proprietà delle banche del fratello, non faceva altro che tormentare la cognata e litigare con lei su chi dovesse prendersi cura della nipote. Quanto a lei…beh, non sapeva che fare: non era in grado di aiutare la zia, le mancava zio Richard, e non voleva assolutamente andare a stare con zio John. La notte dormiva pochissimo, e finiva sempre con lo svegliarsi in lacrime, tanto che per farla stare buona zia Prudence si era ridotta a darle della camomilla e dei sonniferi per farla riposare, ma con scarso successo. Se fosse andata avanti così, avrebbe finito per avere un esaurimento nervoso.

Era stato per quello, credeva, che aveva iniziato a fumare. Lo supponeva, almeno, dato che non ricordava con esattezza il perché avesse cominciato. Forse non l’aveva neppure deciso consciamente. Un pomeriggio stava tornando a casa da scuola e si era trovata di fronte a un negozio che vendeva giornali e tabacco; diverse sue compagne di classe fumavano e, anche se Marion sapeva che lo facevano solo per sentirsi grandi, aveva letto che le sigarette potevano avere anche un effetto antistress. Non se n’era neppure accorta, e nel giro di due minuti si era ritrovata di fronte al commesso con in mano tutti i pochi spiccioli che aveva in tasca, chiedendo un pacchetto di Marlboro e un accendino.

La prima sigaretta era stata…strana. Marion aveva avvertito un bruciore intenso alla gola e ai polmoni, gli occhi le lacrimavano, ma l’aveva fumata tutta, seduta su una delle panchine dei giardini pubblici di Garden Hill. Aveva tossito e le era rimasto un sapore amaro in bocca, ma ne aveva accesa un’altra, e poi un’altra ancora: arrivata alla quarta sigaretta, si era sentita quasi bene, rilassata e serena come non lo era da giorni, e per un attimo si era anche convinta che sarebbe andato tutto per il verso giusto, che zio Richard si sarebbe risvegliato presto e che ogni cosa si sarebbe aggiustata per il meglio.

Non era stato così, naturalmente, ma da allora lei non aveva più smesso di fumare. Non era accanita come molte altre persone che conosceva, anzi, trascorreva anche una settimana di fila senza accendere una sigaretta, ma quando era nervosa, triste, o qualcosa andava male, non riusciva a resistere, e faceva fuori anche un intero pacchetto in una giornata.

Percorse il lungo corridoio sentendo il rimbombo dei propri tacchi sul pavimento come se stesse camminando sul vetro. Il reparto dove zio Richard giaceva da dieci anni era di gran lunga il più silenzioso di tutto l’ospedale, forse anche più di quelli oncologici: c’erano pochi infermieri e tutti scarsamente affaccendati, a meno che non si trattasse di lavare i malati o sistemare qualche flebo: d’altronde, che esigenze potevano avere delle persone che dormivano?

Proprio così, dormivano. Marion si era abituata a pensare che, in quei dieci anni, Richard King non avesse fatto altro che dormire: un sonno lungo e profondo, ma dal quale non era certo che si potesse risvegliare. Le prime volte, quando lei e la zia andavano a trovarlo, la speranza che potesse riaprire gli occhi era più viva di adesso, ma ogni volta Marion usciva dall’ospedale in lacrime. Non le era mai piaciuto quell’ambiente, con le pareti asettiche e l’odore di disinfettante, e ancora di meno le piaceva dover sfilare di fronte a tutte quelle camere dai cui vetri non vedevi altro se non persone distese a letto con gli occhi chiusi, persone che dormivano da chissà quanto tempo, e chissà quando e se si sarebbero risvegliate. No, gli ospedali non le piacevano, ma credeva che su ciò avesse influito anche il suo passato: era stato in un ospedale che si era risvegliata a otto anni, era stato in un ospedale che le avevano comunicato che mamma e papà non c’erano più, in ospedale che aveva pianto da sola fino a che gli zii non l’avevano portata via. L’ospedale era dolore, niente di più e niente di meno.

Marion raggiunse velocemente la stanza di zio Richard: era una delle ultime in fondo al corridoio, e il banchiere King era l’unico paziente sistemato all’interno di essa. La ragazza bussò contro lo stipite della porta aperta, più per abitudine che per altro, e fece un istintivo sorriso che l’uomo non vide.

Richard King era un uomo di quarantasette anni, ancora tutto sommato giovane, con un viso gentile incorniciato da dei capelli castano chiaro e una barba leggera e curata, ma il suo stato l’aveva reso pallido e con le occhiaie nere perennemente stampate sotto gli occhi chiusi. Un tempo, ricordò Marion, quegli occhi erano castani e sempre allegri: suo zio non aveva nulla a che fare con il prototipo del banchiere serio e senza scrupoli come quelli che se ne vedevano nei film – e come di fatto era anche zio John, se si ometteva quel serio; prima che gli sparassero, e quando lei era ancora una ragazzina, lui era l’anima della famiglia, e non riusciva a risultare severo neppure quando indossava il completo con giacca e cravatta neri e imbracciava la ventiquattrore per andare in ufficio. Era un tipo allegro, solare, sempre con la battuta pronta ma al contempo sapeva essere molto autorevole, senza tuttavia incutere paura o ricorrere a minacce. A Marion piaceva stare con lui, così come con zia Prudence: ma se lei era quella con cui poteva parlare di tutto, quella che la coccolava e le rimboccava le coperte prima di addormentarsi, quella che accorreva quando piangeva o aveva avuto un incubo, zio Richard era un bonaccione, quello con cui potevi ridere e scherzare ma nel contempo anche quello su cui potevi contare. Era molto diverso da zio John: se lei combinava qualche marachella o prendeva un brutto voto, il secondogenito subito alzava la voce o tentava di allungarle uno schiaffo, mentre invece suo fratello maggiore risolveva sempre le cose con calma. Di fronte a una disobbedienza, la faceva sedere sul divano e le spiegava dove aveva sbagliato e perché non doveva fare più una cosa del genere; se tornava a casa con un brutto voto, invece di sgridarla o metterla in punizione cercava di darle una mano a comprendere quali errori aveva commesso e fare in modo di non ripeterli.

Marion pensava sempre che sarebbe stato un ottimo genitore, insieme alla zia, se la loro bambina non fosse morta dopo poche ore che era venuta alla luce.

- Ciao, zio!- salutò con allegria simulata, afferrando una sedia e ponendola accanto al bordo del letto, prima di accomodarsi.- Sono Marion.

Parlava spesso con lui, anche se non le poteva rispondere. I medici avevano detto a lei e alla zia che se un malato in stato comatoso aveva qualcuno che chiacchierava con lui, allora aveva il 10% di possibilità in più di svegliarsi rispetto ad altri che invece non avevano nessuno. Finora non era accaduto nulla ma, se Marion all’inizio faticava a comunicare con lui, e anzi scoppiava a piangere dopo poche parole senza risposta, ora le veniva abbastanza facile conversare.

- Scusa se non sono venuta l’altro giorno, ma…beh, lo sai, fra il lavoro, l’università e tutto il resto, quasi non riesco nemmeno a respirare!- proseguì, prendendogli la mano.- Oggi mi hanno rubato la borsa, sai? Un maledetto su una moto…sono andata dalla polizia con Annabelle, sai, quella mia amica, te ne avevo parlato…ma mi hanno detto che mi devo rassegnare…- si umettò le labbra, pensierosa. Quello non era esattamente il migliore argomento di cui conversare, soprattutto visto e considerato che si era sempre imposta di parlargli solo di cose allegre. Cambiò velocemente discorso.- La zia sta bene. Anche il suo lavoro procede alla grande, è sempre piena di pazienti…presto dovremo mettere delle brande in casa, ogni volta che entro trovo sempre qualcuno in attesa in salotto!- fece una breve risata.- Ha detto che verrà da te stasera, dopo che avrà terminato. Ha una nuova pettinatura, sai? Si è decisa a togliersi quell’orrenda permanente, e ora ha i capelli lisci che porta sempre sciolti sulle spalle. Le stanno infinitamente meglio secondo me. Appena la vedo dovrò parlarle del vestito che vorrei indossare…ah, non te l’ho detto, c’è una festa di Halloween sabato prossimo! Visto che devo andarci, ho chiesto anche ad Annabelle di venire…

 

Negozio Arendelle, Orange Blossom n. 7

 

La signora Woods si era presentata al negozio per ben tre volte in due giorni, e quella era la quarta. Anna rimase in disparte in un angolino dietro al bancone, con le braccia incrociate, vedendola andare via salutando cordialmente e raccomandandosi di non mancare sabato sera.

Beh, era proprio in quell’ultimo punto che giaceva il problema.

Helen Woods era uscita dall’Arendelle carica di borse e pacchetti, tutti ricolmi di decorazioni che sarebbero servite ad addobbare il salone da ballo del Grand Hotel per la festa di Halloween sabato sera. Era passata al loro negozio almeno una decina di volte in quell’ultima settimana, si era intrattenuta a chiacchierare con la loro madre e aveva lasciato loro quell’invito per sabato sera. Anna sapeva che lo aveva fatto solo per educazione, perché aveva svaligiato mezzo negozio per le decorazioni, non certo perché lei e la sua famiglia facevano parte dell’élite di Garden Hill. Ma non gliene fregava niente. Lei a quella festa ci voleva andare…con o senza sua sorella.

Elsa era in piedi dietro al bancone, e stava aiutando sua madre a rimettere a posto i residui di carta colorata con cui avevano avvolto i pacchetti della signora Woods. C’era una lieve tensione che aleggiava nell’aria, e tutt’e tre le donne della famiglia Snow se n’erano accorte. Attendevano solo che la bomba scoppiasse.

Anna pestò un piede a terra.

- Allora?- incalzò, rivolgendosi a sua sorella.- Che hai intenzione di fare? Chiuderti in camera e piangere come fai di solito?

- Anna…- sibilò Angela Snow, provando a redarguirla, ma la ragazza non si fece intimidire.

- Anna un corno! Perché devo sempre essere io quella che fa le spese di tutto, in questa famiglia?!

- Se vuoi, tu puoi andarci - mormorò Elsa, sempre così dannatamente docile e gentile.- Non sta scritto da nessuna parte che dobbiamo essere in due…

- Lo so, ma purtroppo sono l’unica a pensarla così!- Anna marciò fino al bancone, piantando i palmi delle mani sul ripiano e ritrovandosi con il volto a pochi centimetri da quello di sua sorella.- Ti prego, Elsa! Perché devi sempre rendere tutto così difficile? E’ solo una festa, non ti farebbe altro che bene!

- Anna, basta…- s’intromise Angela, autorevole.- Anna, se tua sorella non se la sente allora non possiamo costringerla.

- Ma se lei non ci va, vuol dire che nemmeno io posso! Mamma, uffa! Ma che regola stupida! Ho diciotto anni, posso uscire una sera anche senza di lei…

- Nessuno ti ha dato il permesso di andarci, comunque, con o senza tua sorella. Devo ancora parlarne con tuo padre…e, Anna, credimi, a diciotto anni non si è ancora abbastanza maturi da…

- E lo sarebbe lei, matura, che a ventuno anni non fa altro che piangere e deprimersi?

- Anna!- strillò la signora Snow, a metà fra lo scandalizzato e il furioso, ma sua figlia maggiore non sembrò essere troppo arrabbiata con la sorella: Elsa si afferrò le spalle con le mani, incrociando le braccia al petto, quindi chinò il capo e abbandonò silenziosamente l’area dell’Arendelle adibita al pubblico, correndo verso la porta accanto. Anna la seguì a ruota, un po’ per non doversi sorbire l’ennesima ramanzina della madre e un po’ perché stava iniziando a sentirsi leggermente in colpa: ma non era una novità. Qualunque discussione con sua sorella si concludeva ormai da anni in quel modo, con Elsa che assumeva l’aria di un cane bastonato e lei che si sentiva uno schifo di persona.

La rincorse: Elsa aveva superato anche lo stanzone adibito a magazzino, e ora aveva raggiunto il cortile sul retro del negozio che faceva un tutt’uno con il giardino di casa loro, e aveva cominciato a giocare con Olaf, il loro cane, un pastore maremmano bianco come la neve e con la vivacità di un ciclone.

Olaf scondinzolò alla vista della padroncina, distendendosi quindi sull’erba e cominciando a rotolare sul dorso. Elsa gli grattò la pancia come piaceva a lui, ridacchiando.

Anna le si avvicinò.

- Ehi, Elsa…- chiamò, piano. La maggiore delle sorelle Snow sollevò il capo, puntando gli occhi in quelli della minore. Occhi azzurri, di un azzurro pallido, molto diversi da quelli di Anna. Ma d’altra parte, loro erano talmente diverse che non sembravano neppure sorelle: Elsa era bionda, alta e slanciata, mentre lei era piccola di statura, con un fisico non grasso ma comunque più formoso, e aveva gli occhi castani come i capelli. L’una somigliava più al padre, l’altra alla madre. E lo stesso valeva per il carattere: come l’Artico e l’Antartico.

- Scusa - le disse la sorella, freddandola. Anna si sentì ancora più colpevole: era lei quella che avrebbe dovuto scusarsi, non Elsa.- Scusa, Anna. E’ che…non so se me la sento.

- Ma perché? E’ solo una festa!- l’egoismo riprese il sopravvento.- Che male può farti?

- Non mi trovo a mio agio in mezzo alle persone che non conosco.

- Ma ci sarò anch’io! E poi…come pensi di superarla questa paura, se non vedi mai nessuno?

Elsa sospirò, continuando ad accarezzare Olaf. Anna s’inginocchiò accanto a lei, fissando l’erba. Si sentiva una maledetta egoista, ma cercava di ripetersi che, in fondo, se insisteva era anche per il bene di sua sorella. Supponeva.

Il punto era che…da anni, ormai, non riusciva più a capire cosa facesse stare bene Elsa e cosa invece no. Ogni volta che le proponeva qualcosa di nuovo, sua sorella rifiutava sempre, qualunque cosa fosse, e spesso a farne le spese era anche lei: sua madre Angela, ma soprattutto suo padre, Robert Snow – che era un avvocato penalista – erano dei bravi genitori, ma molto ansiosi, e nonostante Anna avesse già diciotto anni erano restii a lasciarla uscire senza sua sorella. Che da parte sua se ne stava sempre chiusa in casa.

Elsa era depressa. Letteralmente. No, beh, non proprio depressa: se così fosse stato, avrebbe preso psicofarmaci e roba simile, sarebbe stata in cura in qualche clinica, ma non era il suo caso. Comunque, che sua sorella avesse dei problemi era chiaro come il sole. Erano anni che era in quello stato, a essere precisi da quando lei aveva otto anni e Anna solo cinque. Prima, ricordò la ragazza, Elsa era un tipo sì timido e riservato, ma comunque allegro e giocherellone. Loro due si divertivano spesso, insieme.

Poi, un giorno…più nulla. Così, all’improvviso, senza alcun tipo di avvisaglia. Elsa aveva cominciato a non parlare più, a evitare i contatti con la gente e con lei, a malapena stava insieme a mamma e papà. Aveva addirittura preteso di non dormire più nella stessa stanza con la sorellina minore, e con quel gesto aveva come alzato un muro, una barriera invisibile fra loro due. E fra lei stessa e il resto del mondo.

Con il tempo, Elsa aveva preso a uscire sempre meno di frequente, e a tutt’oggi metteva piede fuori casa solo due volte la settimana: il sabato pomeriggio, per andare a fare la spesa con la mamma, e il giovedì sera, giorno in cui era fissato il suo appuntamento con la psicologa. Aveva preso il diploma con il massimo dei voti – era una ragazza intelligente, d’altronde –, ma aveva avuto troppa paura per affrontare l’università, e così aveva finito con il lavorare anche lei all’Arendelle, il negozio di famiglia che vendeva decorazioni, sotto l’ala vigile e protettiva di mamma e papà. Né Angela né Robert avevano fatto molto per spronarla a reagire, anzi, avevano accettato il cambiamento della loro primogenita tutto sommato con passività, tanto che ad Anna spesso pareva quasi che l’assecondassero.

Elsa non aveva mai spiegato il motivo di un tale cambiamento, non a loro almeno. A dire la verità, l’unica persona in grado di farla parlare un po’ era la dottoressa King, la psicologa che l’aveva in cura da quando aveva dodici anni: lei sembrava la sola con cui Elsa sembrava confidarsi, tanto che al termine di ogni seduta sua sorella appariva più serena, anche se quest’effetto non durava a sufficienza fino al giovedì successivo.

Anna si riscosse. Il pensiero della dottoressa King le aveva fatto venire un’idea.

- Perché non ne parli con la strizzacervelli, se non sei sicura?- propose.

- Non chiamarla così!- protestò Elsa, scoccandole un’occhiataccia.

- Va bene. Scusa. Comunque…lei saprà certamente che cosa è meglio per te, no?

(Ti prego, ti prego, ti prego, fa’ che funzioni…!)

Elsa non disse nulla, ma dalla sua espressione si poteva intuire che stesse prendendo in considerazione quella possibilità. Anna si trattenne dal ghignare di trionfo: sua sorella letteralmente venerava la dottoressa King, era sicura che, se lei le avesse ordinato di smettere di respirare, Elsa non ci avrebbe pensato due volte a ubbidirle.

La maggiore delle sorelle Snow sospirò, facendo un’ultima carezza a Olaf.

- D’accordo. Ci penserò.

 

Villa von Schneider, Gillyflower Avenue n. 26, interno

 

Sebastian si appoggiò al bordo della scrivania, sospirando impercettibilmente e chiudendo gli occhi, con la cornetta del telefono premuta contro l’orecchio. Aveva mal di testa, e le tempie gli pulsavano come tamburi. La notte precedente non aveva chiuso occhio, neppure per un attimo: quando era andato a letto era stanco morto, distrutto, e si era coricato più presto del solito, ma non era riuscito a dormire.

Il ricordo di suo padre, della preoccupazione di quando, a notte inoltrata, non era tornato a casa e neppure rispondeva al telefono, e di quello che era accaduto dopo che lui e Grimilde avevano chiamato la polizia. Hans von Schneider non era mai stato un padre troppo presente: amorevole, certo, affettuoso, aveva cresciuto lui e sua sorella senza far loro mai mancare nulla, ma né Sebastian né Blanche potevano dire di conoscerlo troppo bene. E forse nemmeno la stessa Grimilde, che pure lo aveva sposato, o la prima signora von Schneider, finché era stata in vita.

Hans trascorreva tutto il giorno fuori casa, spesso usciva la mattina presto ancor prima che il resto della famiglia fosse sveglio, e rientrava a casa la sera, tardi, magari anche alle dieci o alle undici di sera. Sebastian si chiedeva spesso come facesse a reggere quel ritmo: naturalmente, sapeva che essere il proprietario e il direttore di una catena di aziende come lo era suo padre era impegnativo, tanto più che la Von Schneider & Co. era un’associazione molto vasta che si estendeva su tutti gli Stati Uniti, oltre che in Austria, la loro patria natale. Anzi, spesso Hans stava via per lunghi periodi, proprio a Vienna, dove si trovava la sede centrale. E adesso, proprio per questo, Sebastian si domandava se non fosse il caso di prendere armi e bagagli e trasferirsi definitivamente là: d’altronde, né lui né quel che restava della sua famiglia avevano molto a che fare con Garden Hill e gli Stati Uniti.

Forse a Grimilde sarebbe piaciuto tornare in Italia, dato che era il suo Paese d’origine; Blanche, era quella che aveva meno radici di tutti: fino a dieci anni, così come lui, aveva studiato in casa, essenzialmente in Austria, ma spesso era al seguito suo e di Hans in qualche viaggio d’affari; poi, durante l’adolescenza, aveva cambiato tre licei, prima a Londra, poi a Berlino, fino a diplomarsi nuovamente a Vienna. Aveva frequentato l’Università della Sorbona, in Francia.

Blanche aveva vissuto i suoi ventidue anni da vagabonda, forse anche più di lui e, a quel che ricordava, non se n’era mai lamentata: non aveva mai stretto grandi rapporti di amicizia con le compagne di scuola, e anche i suoi – seppur numerosi – fidanzati e cotte amorose non erano mai durati tanto, né lei gli era mai sembrata troppo presa dallo scapestrato di turno. A Blanche piaceva viaggiare, tanto che dopo la laurea aveva puntato i piedi per trascorrere un anno a Parigi. Quando ne era tornata era entusiasta, forse le sarebbe piaciuto tornarci.

- Nessuna novità?- domandò alla cornetta.

- No, per ora nessuna. Stiamo continuando con le indagini, ma ci vorrà tempo.

- Ho capito. Vi prego, non archiviate il caso.

- Non si preoccupi, signor von Schneider.

- D’accordo. Grazie, commissario.

Riattaccò. Il commissario Torrance di Garden Hill era stato molto gentile, e gli era sembrato che fosse anche competente nel suo campo, ma ciò non toglieva che non era detto che riuscisse ad arrestare l’assassino di Hans. E poi, volenti o nolenti, presto o tardi avrebbero dovuto lasciare Garden Hill.

Erano lì solo perché suo padre aveva espresso la volontà di essere sepolto in quella cittadina sperduta nel nulla. Che cosa lo legasse a Garden Hill, Sebastian non lo sapeva, né si era mai curato di approfondire la questione: l'ultima volta che erano stati in quella città era stato in occasione del matrimonio di Hans con Grimilde, e sebbene l'evento fosse stato lieto, la serata si era conclusa in maniera a dir poco funesta, con un incendio scoppiato in una delle camere del Grand Hotel e uno degli invitati ferito gravemente.

Qualcuno bussò alla porta. Sebastian sollevò il capo di scatto, concedendo il permesso di entrare.

Una delle ragazze alla pari che Grimilde aveva assunto temporaneamente affinché li aiutasse durante il loro soggiorno si affacciò alla porta.

- Signor von Schneider, è arrivata la ragazza dell'albergo con il pranzo.

 

Palestra The Three Lilies, Garden Hill

 

- Complimenti, ragazzina, anche oggi in ritardo!

- Scusa, la baby-sitter non arrivava più...- bofonchiò Esmeralda di malavoglia, tirandosi su la tracolla della borsa e passando velocemente a un imbronciatissimo Gringoire, il proprietario della palestra dove lavorava. L'uomo si limitò a scoccarle un'occhiataccia, cosa che a Esmeralda fece ricordare la situazione a dir poco precaria in cui si trovava. In genere ci voleva ben altro per zittirla, non certo lo sguardo truce del primo idiota di passaggio, ma il suddetto idiota in quel caso era anche il suo capo e, sospettava, se la teneva lì era solo perché si sarebbe sentito troppo in colpa a licenziare una con un bambino piccolo da mantenere.

In ogni caso, meglio non tirare troppo la corda. Gringoire le ricordava ogni giorno che la teneva lì solo per carità cristiana – e anche per spiarle il fondoschiena mentre insegnava, Esmeralda l'aveva visto –, ci voleva un niente a buttarla fuori a calci.

E lei non era nelle condizioni di perdere quel lavoro, non con Daniel di cui prendersi cura e tutto il resto. Se fosse stata lei sola, si sarebbe sentita meno in colpa a contare sull'aiuto di Alain e Chase, e avrebbe benissimo potuto tirare avanti con il solo stipendio del Topsy Turvy e con quel poco che racimolava facendo le pulizie alla vicina del piano di sotto.

Ma con Danny, beh, era tutta un'altra musica.

Esmeralda entrò di corsa della sala dove teneva lezione, salutando con un urlato buongiorno! le sue allieve, sette ragazze che in quel momento o stavano chiacchierando o facevano stratching. Chiese a una di loro di inserire il CD nella radio, mentre lei abbandonava il borsone in un angolo e si toglieva la giacca.

Si pose di fronte allo specchio. Quel giorno indossava dei pantaloni di cotone rosa chiaro e un top bianco che metteva in risalto la sua pelle scura. Si sistemò i capelli con una fascia fucsia nell'attesa che la musica partisse. Non c'era bisogno di spiegare nulla alle ragazze, l'avevano già provato diverse volte nei giorni precedenti così, quando la radio cominciò a suonare Mambo di Helena Paparizou, Esmeralda non dovette fare altro che cominciare a ballare, e tutte le altre seguirono i suoi passi.

Ringraziava spesso di essere così brava. Ballare era l'unica cosa che le fosse mai riuscita bene, così, senza che nessuno glielo avesse mai insegnato, e inaspettatamente quella dote si era rivelata anche un ottimo mezzo per sopravvivere. Lei non aveva nemmeno preso il diploma, e in una città come Garden Hill, dominata dai ricchi, di posto per quelli come lei ce n'era poco.

Una guida, non ce l'aveva mai avuta: non sapeva neppure chi le avesse dato quel nome che faceva impazzire tanto le suore dell'istituto dov'era cresciuta. Non erano cattive persone, la Madre Superiora e le altre, ma là dentro erano così tanti bambini che a malapena avevano tempo a sufficienza per tutti.

Esmeralda non poteva dire di essersi trovata male, per tutto il tempo in cui era stata lì, anche se forse aveva sentito la mancanza di una vera famiglia, e invidiava tutti quei bambini che invece erano stati poi adottati. Lei no, non le era toccata questa fortuna.

A quattordici anni era già fuori dall'istituto, senza un posto dove andare e con la necessità di badare a sé stessa. Aveva trovato lavoro in un fast-food, ed era stato lì che aveva conosciuto Alain. Era stato come una sorta di fratello maggiore per lei, e non si erano lasciati mai più. Erano arrivati insieme a Garden Hill, ed era stato lui a trovarle un impiego in città: cameriera in un pub.

A Esmeralda non dispiaceva, neppure un po', ma quando aveva scoperto che ballare le avrebbe procurato più soldi che pulire i tavoli non ci aveva pensato due volte, e aveva sostituito il grembiule da cameriera con il completo succinto del Topsy Turvy.

Quel ricordo la ricondusse immediatamente ad altri due, quello di Chase e quello di Brett Cooper. Uno era il suo secondo migliore amico insieme ad Alain, un ragazzo di vent'anni nato con una brutta deformità, ma dal cuore d'oro; l'altro, il padre di suo figlio.

Esmeralda li aveva conosciuti tutt'e due al locale dove lavorava, ma se uno si era rivelato un tesoro, l'altro non era altro che uno spiantato che l'aveva incantata – stupida lei! – con due moine per poi mollarla incinta e sola.

La musica finì, ed esattamente in quell'istante Esmeralda smise di ballare. Fra le altre ragazze, invece, c'era chi era ancora a metà di un passo e chi proprio aveva perso totalmente il filo. Sospirò: era evidente che nessuna di loro avesse idea di cosa significasse andare a tempo.

Disse a una di loro di inserire un altro CD e, nel mentre, si avvicinò al borsone e prese a frugare in una delle tasche alla ricerca del cellulare. Le saltò il cuore alla giugulare quando vide che c'era un SMS non letto, ma le immagini apocalittiche riguardanti gli effetti dell'incapacità di quella di prendersi cura di suo figlio svanirono immediatamente non appena lesse il testo.

 

Gentile sign.na Garcìa,

abbiamo esaminato il suo curriculum vitae e siamo lieti di comunicarle che abbiamo accettato la sua richiesta d'impiego per sabato 31 ottobre. Le sue mansioni consisteranno nell'occuparsi della preparazione e del servizio delle bevande e delle cibarie durante l'evento che si terrà al Grand Hotel di Garden Hill, per un orario complessivo di 8 ore, dalle 21:30 alle 06:00 e un compenso pari a 100 dollari netti. Telefoni al numero soprastante per confermare.

Le ricordo che, trattandosi di un evento in maschera, è richiesto anche da parte sua un costume.

Buona giornata.

 

Lucrezia Marsh

 

Esmeralda tirò un sospiro di sollievo. Non solo non riguardava suo figlio, ma era anche una buona notizia. Aveva fatto domanda per quell'impiego di una sera due settimane prima, e non si aspettava davvero che le rispondessero. Cento dollari erano una miseria e l'orario era massacrante, ma meglio di niente. Solo...dove diamine l'andava a prendere un travestimento, lei?

 

Villa von Schneider, Gilliflower Avenue n. 26, interno

 

Quando era entrata, a Evelyn era subito venuta in mente la sua cosiddetta camera da letto nella soffitta del Grand Hotel, e immediatamente aveva deciso di preferire di gran lunga quest'ultima, al posto di Villa von Schneider. L'ambiente all'interno era come sovrastato da una pesante calotta formata da polvere e buio; le finestre erano state appena riaperte dopo chissà quanto tempo, e c'era una soffocante puzza di chiuso. L'atrio in cui aveva messo piede quando era entrata era enorme, tanto che per un attimo le aveva procurato un capogiro, e le altre stanze non erano da meno.

Tutto era illuminato solo dalla luce del mezzogiorno, che comunque non era sufficiente a rischiarare il tutto, che restava avvolto nella penombra. I soffitti erano alti, forse troppo per una casa in stile coloniale com'era Villa von Schneider, e anche i muri erano grigi e completamente di pietra non dipinta. I pavimenti erano lucidi, sicuramente qualcuno doveva essersi preso la briga di lavarli già da quella mattina, ma le stanze in generale erano spoglie, e i pochi mobili erano tutti ricoperti con delle lenzuola bianche.

Uno dei domestici le aveva fatto strada, e lei l'aveva seguito stringendosi il suo cestino con il pranzo come se temesse che stessero per rubarglielo. Arrivata in quella che doveva essere la sala da pranzo, si era sentita nuovamente sprofondare.

L'unico arredamento consisteva in un lungo tavolo in legno di ciliegio apparecchiato con una tovaglia bianca, tre piatti e qualche posata, più dei bicchieri di cristallo come se ne vedevano solo nei film, decisamente poco adatti a un pranzo informale come quello.

Evelyn si era sentita morire quando aveva scorto seduto Sebastian von Schneider, il ragazzo con cui aveva fatto una figuraccia colossale solo quella mattina. Era seduto a destra del posto a capotavola, e di fronte a lui c'erano due donne: una sui trentasette o trentotto anni, abbronzata, snella e con i capelli lunghi e neri, tutto sommato ancora piacente se non fosse stato per alcune rughe che già iniziavano a spuntare agli angoli della bocca e degli occhi; l'altra avrebbe anche potuto essere scambiata per la figlia di quest'ultima, se non fosse stato per l'età, dato che aveva lunghi e mossi capelli neri come la prima, tuttavia aveva la carnagione molto più pallida, gli occhi verdi e la stessa aria strutta che Evelyn aveva visto addosso a Sebastian quella mattina.

Tutti e tre erano vestiti di nero e, Evelyn aveva notato, il posto vuoto a capotavola sembrava un monito severo e doloroso che incombeva sulla tavola.

Una domestica le aveva preso gentilmente il cesto dalle mani ma, visto che era sola e lei non aveva nient'altro da fare se non tornare a sentire le grida dell'Ape Regina, Evelyn le aveva proposto sottovoce di farsi dare una mano a servire. La ragazza aveva annuito, e nessuno dei commensali aveva fatto commenti.

Evelyn trasalì quando Sebastian pronunciò un flebilissimo grazie dopo che lei gli aveva posto di fronte un piatto con una generosa quantità di pasta al forno. La più giovane delle due donne non ricambiò la cortesia, continuando a fissare il vuoto con lo sguardo puntato verso le proprie ginocchia. Stringeva i braccioli della sedia fino a farsi sbiancare i polpastrelli, e aveva delle occhiaie lunghe fino alla bocca.

- Blanche, almeno oggi devi mangiare qualcosa - soffiò Sebastian. Non era una richiesta né una supplica: aveva piuttosto di ordine implicito.

- Se volevi che mangiassi, potevi anche ordinare qualcosa di diverso dalla pasta al forno - ringhiò lei per tutta risposta, puntandogli addosso uno sguardo stanco e feroce allo stesso tempo.- Non l'ho mai sopportata, lo sai.

- Non è vero, l'hai sempre mangiata. Dai, non farla raffreddare...- mormorò Sebastian, ingoiando a sua volta un boccone a fatica. La donna più vecchia lo imitò, apparentemente noncurante.

- Molto buona...- commentò, rivolgendosi a Evelyn.- Signorina, siete voi che cucinate?

- Sì...abbiamo....abbiamo una bravissima cuoca...- soffiò la ragazza, arrossendo quando Sebastian le lanciò un'occhiata di sottecchi. L'atmosfera era pesantissima, si sentiva.

- Sei andato a buttar via dei soldi quando anche noi abbiamo un cuoco?- sibilò Blanche, rivolta a suo fratello. Sebastian non la guardò, ma si lasciò sfuggire un sospiro stanco.

- Oggi c'è troppo da fare, non potevo chiedergli anche di cucinare. Per favore, Blanche, adesso mangia...

- Che cosa state combinando tutti quanti, a proposito di questo?!- la ragazza si tolse di dosso il tovagliolo che aveva prima steso in grembo, gettandolo malamente sul ripiano del tavolo.- Il funerale è passato, quanto tempo ancora dobbiamo fermarci in questo cavolo di posto?!

- Quanto servirà - stavolta la voce di Sebastian era ferma e decisa, così come il suo sguardo quando lo puntò in direzione della sorella.- Il commissario Torrance mi ha assicurato che lui e il corpo di polizia si stanno dando da fare, ma occorre tempo per queste cose.

- Non è che voi due vi siete messi d'accordo per piantare le radici qui e non me l'avete detto?- Blanche regalò uno sguardo d'accusa sia a suo fratello che all'altra donna.- Io qui non ci resto, avete capito?! Non ci voglio rimanere, voi non avete il diritto di...

- Ti ricordo, Blanche, che tu non hai mai lavorato in vita tua e fino a prova contraria io ti mantengo, dunque finché le cose stanno così tu fai come ti dico di fare, intesi?- stavolta il tono di voce del ragazzo si alzò di diverse ottave, tanto che Evelyn trasalì.

Sua sorella lo guardò con rabbia, sferrando un calcio alla superficie inferiore del tavolo.

- Fottiti, stronzo!- gridò.

- Blanche, io questo linguaggio a tavola non lo tollero!- l'ammonì l'altra donna, bevendo un sorso di vino così generoso da svuotare interamente il bicchiere.- Tuo fratello sta solo cercando di fare il meglio per tutte noi, e personalmente credo che sia una buona idea fermarsi un po' e cercare di rimettere insieme i pezzi, dopo quello che è successo.

- Vuoi rimettere insieme i pezzi, Grimilde...o forse speri che qui in America qualcuno si accorga ancora di te? In Italia ti hanno tutti sbattuto la porta in faccia perché sei vecchia, magari t'illudi che qualche regista qui s'impietosisca...

- Blanche, adesso stai esagerando!- urlò Sebastian, e quasi fu sul punto di alzarsi dalla tavola.- Grimilde, scusa, ti giuro che non intendeva...

- Non fa niente, Sebastian...cambiamo argomento, che ne dite?- propose Grimilde con un sorriso tirato.

- E di che vuoi parlare? Di creme antirughe?- sputò fuori Blanche, velenosa.

- A dire il vero, io e tuo fratello volevamo parlarti di una questione...Oh, signorina, per favore, potrebbe versarmi un altro po' di vino?- domandò la donna a Evelyn. Lei annuì, allontanandosi dalla tavola per prendere la bottiglia nel cesto.- Conosci la famiglia Woods, Blanche?

- Non conosco nessuno in questa maledetta città.

- Hanno una figlia della tua età, sta per sposarsi. Tu e Sebastian avete ricevuto un invito per la festa del suo fidanzamento, che si terrà sabato prossimo al Grand Hotel qui di fianco. E vi ho organizzato un'uscita con lei e il suo futuro marito domani sera.

- Tu hai fatto...che cosa?!- gridò Blanche, squadrando prima lei e poi il fratello. Evelyn comprese al volo che quello era il momento meno opportuno per avvicinarsi al tavolo, e se ne sarebbe anche rimasta in disparte se Grimilde non le avesse fatto cenno di sbrigarsi, con quella bottiglia.

- Blanche, io ora sono solo a gestire l'azienda di nostro padre. Un aiuto mi farà comodo, almeno i primi tempi. E poi, credo che uscire un po' potrebbe aiutarci a...

- Io non vado da nessuna parte!- urlò la ragazza, proprio quando Evelyn stava versando il vino nel bicchiere di Grimilde. Lo strillo la fece sobbalzare, e versò metà vino sulla tovaglia, facendone colare un poco anche sul vestito di Blanche.

La mora si rivoltò come una vipera, alzandosi in piedi e facendola arretrare istintivamente.

- E sta' attenta, cameriera da quattro soldi!- gridò, prima di voltarsi e uscire a grandi passi dalla sala.

Grimilde rimase interdetta, indecisa se alzarsi e rincorrerla o meno. Sebastian puntò lo sguardo su Evelyn, e così anche gli altri due domestici che erano là dentro.

La ragazza si sentì avvampare, un calore fortissimo s'impossessò delle guance e del collo. Non osò guardare in faccia nessuno, e scappò fuori dalla stanza.

Uscì in giardino desiderando solo di scomparire, percorrendo a grandi passi la distanza che la separava dal cancello, quando udì dei passi frettolosi alle sue spalle e qualcuno che la chiamava.

- Signorina!

Di male in peggio, pensò Evelyn, ancora rossa in volto, quando si girò e vide Sebastian von Schneider venirle incontro di corsa. Si fermò solo per cortesia, ma non desiderava altro che andarsene da lì il più in fretta possibile.

Sebastian la raggiunse, trafelato, e prese a frugare in una tasca dei pantaloni.

- Non...non mi ha detto quanto le devo...- ansimò.

(Allora è solo per questo...certo che sì, stupida illusa)

- Sono...sono cinquanta dollari...- mormorò Evelyn, evitando di guardarlo, ancora rossa in volto.

- Ecco...- il ragazzo estrasse dalla tasca cento dollari, e glieli porse. Lei gli rivolse uno sguardo interrogativo.- Il resto...il resto è una mancia - spiegò, un po' imbarazzato.- Per...per scusarmi per il comportamento di mia sorella. Li prenda, sono sicuro che le occorrono.

Non avrebbe potuto uscirsene con una spiegazione più infelice. Evelyn si sentì salire il sangue alla testa, e si allontanò di un passo, guardandolo con rabbia.

- Ma chi si crede di essere?! Che cosa pensate, lei e sua sorella? Certo, trattiamoli tutti come delle pezze da scarpe, tanto poi abbiamo i soldi che risolvono tutto!

- Mi creda, non avevo alcuna intenzione di offenderla, io...

- Beh, lo ha fatto!- ringhiò Evelyn, allontanandosi da lui.- Se li tenga pure, i suoi soldi! La dignità non si compra, se lo ricordi bene!

Sebastian rimase interdetto, immobile al centro del giardino, mentre la ragazza usciva dal cancello e lo sbatteva rumorosamente alle sue spalle.

 

Casa Bharrahaji, Zeodary Street n. 35, esterno

 

Jasmine si tirò su la zip della giacca, stipata contro il finestrino dell'autobus che arrancava lungo la strada in salita. Il quartiere dove abitava era in assoluto il più a est di tutta Garden Hill, e le ci voleva un'ora buona per raggiungerlo dalla scuola. Due, se come quel giorno era in ritardo e le toccava prendere la seconda corsa. Si scostò una ciocca di capelli sfuggita alla treccia da davanti gli occhi, continuando a rileggere le righe dorate incise su quel cartoncino che, a furia di rigirarselo fra le mani, aveva quasi ridotto a un pezzo di carta straccia.

Non l'aveva gettato via come la Water le aveva detto di fare. La rispostaccia che le aveva dato la sua compagna di classe ancora le bruciava, ma quando le aveva sbattuto quell'invito sul vassoio del pranzo non aveva avuto il coraggio di buttarlo via.

Ariel era stata invitata a quella che si preannunciava una festa di Halloween fighissima e non voleva partecipare per starsene in quella sua dannata piscina. Scema, ecco che cos'era. Una povera scema, una povera scema completamente priva di rispetto nei confronti di chi non poteva avere una fortuna come la sua.

Jasmine sbuffò, nascondendo l'invito in una tasca interna della giacca quando la sua fermata fu a pochi metri. Era meglio che il Sultano non vedesse con cosa era tornata a casa, non fosse altro per evitare inutili scenate. Scese dall'autobus, percorrendo il breve tratto che la separava da casa sua.

Quando giunse in prossimità del cortile, si sentì invadere dallo scoramento.

Poco distante dal cancello, era parcheggiata una Cadillac nera. Jasmine conosceva bene quell'auto, e la sua presenza voleva dire solo una cosa: Jafar.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Angolo Autrice: Lo so che ci ho messo tanto ad aggiornare e che in questo capitolo non succede niente di che, ma come tutti gli altri era indispensabile per il proseguimento della storia e per il carattere dei personaggi. Dunque, ora sappiamo ufficialmente che ad andare alla festa saranno Ariel, Caroline, Blanche, Roxanne, Esmeralda, Marion e Anna...per quanto riguarda Jasmine, Evelyn, Annabelle ed Elsa, lo vedremo nel prossimo capitolo che, come ho già anticipato, sarà anche l'ultimo di presentazione. Avremo la cena fra Marion e John King, Jasmine con Jafar e i suoi genitori, Evelyn con di nuovo Roxanne e Sebastian, Elsa e la zia di Marion (sì, è lei la dottoressa King) e un grande spazio sarà dato ad Annabelle e alla sua famiglia, compreso Logan alle prese con la proposta di Robin e Ryan con il suo piano.

Dal prossimo ancora avremo invece i preparativi veri e propri e poi finalmente la grande serata ;).

Ringrazio chi legge e chi recensisce.

Ciao, un bacio,

Beauty

P. S. Dimenticavo...Sebastian ha il volto di Flavio Parenti, Grimilde quello di Rachel Shelley ed Elsa e Anna rispettivamente di Lèa Seydoux e Sarah Bolger ;).

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