Effetto Forer

di S_a_r_a
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Behind Blue Eyes ***
Capitolo 2: *** Drops of Jupiter ***
Capitolo 3: *** All by myself ***
Capitolo 4: *** Unwritten ***



Capitolo 1
*** Behind Blue Eyes ***


Behind Blue Eyes



 

"Ciao Jack. Allora, come stai?" Il dottor Bertocchi aveva come sempre l'aria stanca e i capelli brizzolati un po' più scombinati del solito.

"Tutto regolare." Forse dopo una notte insonne il suo primo problema non era certo pettinarsi.

"Bene. Dimmi, cos'hai fatto oggi?"

"Niente di che." Era davvero ridicolo stare in quello studio, ogni volta.

"Tua madre sta bene?"

"Sì, grazie." Ah già, doveva tutto a lei, che si preoccupava così tanto per la sua salute mentale.

"Mi fa piacere. C'è qualcosa di cui ti andrebbe di parlare oggi?"

"Veramente, no."

 

 

Una ragazza con una maglietta fucsia. I capelli corvini e liscissimi. Pelle abbronzata. Fisico tonico. Unghie chilometriche. Non può vederle il volto. Sta seduta al tavolo vicino alla vetrata di fronte ad un uomo, sulla quarantina inoltrata, giacca e cravatta. Lo vede bene. Ha un fede al dito. I suoi occhi scuri e severi non si staccano un secondo da lei. Marroni, con una grande ombra grigia. Parla concitatamente, i suoi gesti esprimono sicurezza e un velo di seccatura. La ragazza non si fida, ha paura. Lui le assicura che non deve preoccuparsi, prestò sarà tutto a posto. Lo fa con uno zelo che sembra non abbia imparato a fare altro oltre a quello. Che fai nella vita? Mah niente, ho una laurea con lode in promesse.

Jack conosce bene gli occhi di lui. Sono quelli dell'uomo di affari. Quelli di chi ottiene tutto e non dà niente in cambio. Si ammorbidiscono un po' solo quando lei comincia a singhiozzare, senza perdere la loro fermezza. Le sfiora la guancia per consolarla. Jack si chiede come siano i suoi occhi. Probabilmente piccoli e gialli, evidenziati dall'eyeliner un po' sbavato per le lacrime. Occhi ingenui di chi crede di amare ed essere amato, della donna non ancora donna. L'uomo non lascerà la moglie per lei. Lascerà entrambe, poi ne troverà un'altra da illudere.

Jack chiude il libro di struttura della materia, va alla cassa e paga il suo caffè. Fuori dal bar, dà una sbirciata veloce oltre il vetro. Un paio di occhi dorati, con le venuzze ancora in vista e pieni di trucco guardano ora con dolcezza l'uomo che promette così bene davanti a loro.

Pietoso.

 

 

"Allora se non vuoi cominciare tu, ti sta bene se parlo un po' io?" Il dottore sorrise, un sorriso triste.

"D'accordo". Jack si stava immaginando che cominciasse a spiegare il perché di quella brutta cera, finalmente aveva le prove che la moglie lo cornificava col cognato?

"Io ti capisco. Lo so che sei arrabbiato, molto arrabbiato. Lo so che mi stai odiando profondamente, sarà così ogni volta che vieni qui. So che preferiresti startene per i fatti tuoi. Ma so anche che tua madre è davvero molto preoccupata. Se non vuoi farlo per te stesso, fallo per lei. Non ti chiedo di dirmi niente che tu non voglia, solo ciò che ti senti, non ti forzerò. Per favore. Se non veniamo a capo di niente allora ti autorizzo a non presentarti più. Ma prima vorrei che ci provassimo."

Jack lo ascoltò con attenzione. Era proprio così. Voleva stare solo. Era sempre riuscito a superare tutto da solo. Perché avrebbe dovuto essere diverso stavolta? Perché le persone dovevano intromettersi? Anche se il dottore, per quel che aveva visto, non sembrava lì per volerlo giudicare, come sua madre, lo percepiva. Non pensi di dover fare qualcosa? Ormai è passato già del tempo. Non puoi continuare a seppellirti sotto i libri. Lui stava già facendo tutto. Stava portando tutto sulle sue spalle. Cosa c'era di sbagliato? Doveva fare finta di essere un altro? Ognuno ha il suo modo di affrontare le cose. Questo era il suo. Era così difficile da capire?

 

 

Difficilmente Jack si sente in imbarazzo. Tutt'al più insofferente, non risponde alle domande per scelta. Sa sempre ciò che è giusto per lui. Spesso coincide con un silenzio o un modo un po' brusco di porsi, ma va bene così.

La prima volta che tutto il suo castello crollò fu un sabato sera come tanti altri. Usciva come al solito con i suoi amici al pub, ma quella sera c'erano anche persone che non conosceva. Ciò lo preoccupava, non era molto bravo con i nuovi arrivati di solito. Poi sapeva bene che si sarebbe scordato i nomi tempo 5 minuti. Piacere, Giorgio, Ilaria, Fabio, ciao sono Fulvia.

Si bloccò. Che modo aperto di presentarsi. Gli altri tre si erano limitati a un mezzo sorriso e una stretta di mano viscida, quasi non vedessero l'ora di staccarsi. Lei aveva stretto con più energia e la prima cosa che notò fu che non lo guardava dritto in viso. Aveva gli occhi color cioccolato, o un po' più chiari, forse nocciola, non c'era abbastanza luce da vederne le sfumature. Voleva osservarla meglio, ma gli altri fecero cenno di entrare, perciò si limitò a seguirli. La seguì con lo sguardo e notò che camminava a stenti, ma cercando di mascherarlo. La sua amica le stava vicino e la guidava. Jack scelse un posto a caso, e lo stesso caso volle che Fulvia capitasse di fronte a lui.

"Ma che ore sono? Angela deve sempre metterci una vita, io vorrei ordinare!" Disse Jack esasperato dopo un po'.

A quel punto Fulvia scattò con la mano destra verso il suo orologio da polso con espressione concentrata, aprì il quadrante e tastò lievemente le lancette. "Sono già le 10. Ma Angela non è Angela senza la sua mezzora accademica di ritardo." Rispose ridendo.

 

 

"E va bene. Parliamo. Ma io non ho molto da dire." Jack ancora non voleva abbandonare la difensiva.

"Beh, sono uno che sa accontentarsi." Il dottore fece per strizzargli l'occhio. Jack non faticò a crederci, per qualche ragione.

"Io non riesco a non pensarci. Mi serve tempo. Ho il dovere di sentirmi così. Per lei. Non è logico aspettarsi qualcosa di diverso. Non so più cosa devo fare. Ma faccio del mio meglio, e questo deve bastare."

"Ciò che dici è giusto, Jack. Nessuno vuole che ti carichi di ulteriore stress."

"Ah no? Allora perché sono qui?"

"Perché un confronto non fa mai male. Non vederla come una cosa negativa."

"Non ne ho bisogno. Non c'è niente che si possa fare. Niente la farà tornare. A che serve stare qui a parlarne?"

"Serve a te, per capire che non sei una macchina, ma che puoi avere bisogno di aiuto. A tutti serve una volta ogni tanto."

"Non a me."

 

 

"Mi piace il tuo nome, è uno dei miei colori preferiti".

"Deve essere molto bello".

Jack si schiaffeggiò mentalemente. Che cosa idiota da dire, proprio a lei.

"Stai tranquillo, non mi sono mica offesa!" Proseguì Fulvia, prendendo vantaggio del silenzio pudico di Jack "Non voglio provi pena per me, ti prego. Non credo ci sia niente di strano nel non saper cosa sia il rosso, o il blu, il giallo. Tutti non sappiamo alcune cose. Pensa a quelli che non capiscono niente di matematica, e a scuola certo non possono liberarsene. Ecco loro meritano di più la tua pietà". Non faceva una piega. L'espressione di Fulvia era come sempre un misto di giocosità e furbizia. Jack iniziò a ridere e la guardava. Quando rideva aveva un'aria ancora più dolce, sembrava una bambina. Chiudeva gli occhi forte forte, poi li riapriva appena si calmava. Non voleva portare occhiali e nascondersi. Di questo Jack le era grato, perché poteva studiarle gli occhi tutte le volte che voleva, senza essere invadente. Erano l'ornamento perfetto per il suo viso. Non avevano un colore solo, ne avevano tanti. Tutti i marroni del mondo erano lì dentro. Aveva guardato tanti occhi nella sua vita, di tutte le forme e di tutti i colori, persino viola. C'è chi non avrebbe trovato quelli di Fulvia niente di notevole, ma per Jack erano i più belli che avesse mai visto.

Non erano la sola cosa che gli piaceva di lei. Aveva tempo a sufficienza per osservarla da capo a piedi. E ogni piccolo difetto che trovava gli faceva nascere un sorriso istantaneamente. Gli dispiaceva che Fulvia non potesse fare lo stesso. Prenderlo in giro per i capelli sempre scompigliati, dirgli che con la barba era sexy o faceva schifo - anche se optava per la seconda perché al tatto le pizzicava troppo le guance -, elogiarlo perché si sarebbe tuffata volentieri nei suoi occhi blu come il mare, o insultarlo per la mania di mangiarsi le unghie. A volte voleva davvero che lei avesse il suo dono di rapire e custodire le immagini nella memoria in modo così preciso, ma poi pensava che se lui era così bravo a scannerizzare le persone, lei era decisamente una forza nel comprenderle. Aveva occhi molto più potenti dei suoi, vedeva dentro. Lui non sapeva farlo. E questo gli piaceva, potevano aiutarsi a vicenda. Lui la mangiava con lo sguardo, mentre lei gli mangiava l'anima.

"Però voglio testare la tua fantasia. Descrivimelo, il rosso." Fulvia lanciò la sua sfida, adorava mettere Jack in difficoltà. Era proprio un fisico, sempre attaccato ai fatti e alle cose certe. Tutto si poteva spiegare secondo lui, quindi perché doveva esserci un'eccezione?

"Il rosso è...uhm...è un colore acceso, forte, come un pugno nello stomaco." Rispose Jack, abbastanza sicuro.

"Wow, interessante. Però non basta, vorrei qualcosa di più, puoi fare di meglio, genio." Lo stuzzicò un po' Fulvia.

"Che cosa vuoi sapere allora, di preciso? Non fare i giochini con me." Rispose fintamente scocciato Jack.

"Che canzone ti viene in mente con il rosso?"

Accidenti. Quella sì che era una domanda interessante. Non ci aveva mai pensato. Lo sguardo gli cascò sulla sua maglia dei Queen e dopo poco ebbe un'illuminazione.

"Bohemian Rapsody. Quando la ascolto mi prende e tira pugni nello stomaco da quanto è forte. Perciò la trovo bella."

"Questa risposta mi piace." Dovette ammettere Fulvia. "Quindi anche quando pensi a me funziona così?"

"Chi ti ha detto che penso a te?" Jack guardo storto Fulvia, ma appena lei aprì la bocca stupita e contrariata gli scappò da ridere. La abbracciò stretta a sé e la baciò. Voleva che la sua vita fosse tutta così.

 

 

"Ascoltami Jack. Io non penso affatto che sia strano. Anzi, è tutto normale. Solo devi cercare di avere più coscienza di ciò che provi davvero. Per poterlo tirare fuori, con calma."

"Io non voglio tirare fuori niente. Perché lo dovrei fare? Quello che ho passato è mio." Jack ancora non era disposto a mollare.

"Certo, e nessuno te lo ruberà. Sono qui perché tu possa condividere il tuo dispiacere." Nemmeno il dottore voleva ancora mollare.

"Condividere. Non averne voglia è da pazzi, quindi. Altrimenti non staremmo nemmeno qui a parlare."

"Non dico che sei pazzo. Quella fase nella storia della "medicina" è passata, per fortuna. Però è probabile che tu ti faccia del male."

"Il dolore non si può cancellare, seguire una terapia non mi aiuterà di certo." Asserì con fermezza Jack.

"Certo. Il dolore è parte integrante della vita. Il mio lavoro non sta nell'annullarlo, se fosse davvero così, penso che dopo aver finito con tutte le persone della terra si potrebbero sgravare l'università e la società intera dal peso di questa disciplina e vivremmo tutti per sempre felici e contenti."

 

 

"Ehi splendore, come andiamo oggi?" Jack corse subito a sedersi accanto a Fulvia.

"Non mi lamento, mi hanno dato al gelatina al lampone come premio, sai? Stanno migliorando. L'infermiera simpatica poi mi passa semrpe un sacco di schifezze appena può, dio la benedica".

Dio, questo sconosciuto. Jack si chiedeva spesso chi fosse, se stesse sulla sua nuvoletta a giocare a bridge con gli arcangeli a farsi cazzi suoi. Perché agiva così. Perché si fosse impegnato tanto a creare una come Fulvia, per poi farle questo. Jack le accarezzò la testa, ormai non le era rimasto nemmeno più un capello. Le diede un bacio sulla tempia e appena vide che il viso di lei non riuscì a trattenere una smorfia di dolore, allentò la stretta del suo abbraccio. "Scusami, non volevo farti male."

"Non fa niente, mi sto indebolendo un po', ma questo non vuol dire che adesso non devi più darmi le strizzate che mi piacciono tanto."

"Ma io non voglio farti del male. Ne hai già abbastanza. Io.." Le parole gli si fermarono in gola. Non ce la faceva a vederla così. Tentava di soffocare le lacrime, ma con lei ogni barriera prima o poi si rompeva. Fulvia gli mise le braccia intorno al collo e pianse silenziosamente insieme a Jack.

"Senti, visto che non ho ancora molto tempo.."

"Non dirlo."

"Che cosa?"

"Non dire che non ce la farai."

"Ma amore, lo sai anche tu che.."

"Tu sei una roccia, non sarà certo questo a portarti via da me. Tu combatti e vincerai. Lo so." Jack la guardava, aveva il viso stanco e affaticato dalla chemioterapia. Parlava più per convincere se stesso che lei, ma doveva farlo. Doveva.

"Farò quel che posso, come sempre. Anche io avevo progetti diversi. Ma se non andassi molto in là, voglio che tu stia con me, per favore, per il tempo che resta. Poi ti lascio stare." Fulvia si sforzò di accennare un sorriso.

"Non parlare così! Io non ti lascio e nemmeno tu lo farai!" Jack, non aveva più il controllo. Fulvia non sapeva cosa dire. Cercava di fare forza a entrambi, ma non aveva ancora capito quanto aveva paura davvero e quanto sperare alle parole di Jack. Voleva solo abbracciarlo e restare così per sempre.

 

 

"Allora mi dica lei come affrontarlo. Visto che a quanto pare il mio metodo non va bene." Sbottò Jack. Non ne poteva più.

"Mi hai raccontato di Fulvia, Jack, ma non vuoi dirmi come ti senti. In queste ultime sedute ho scoperto molte cose, ma non ancora quella più importante."

"Come vuole che mi senta? Io sono morto. Con lei. Tutto ciò che di più bello mi è capitato in vita lo devo a lei. Mi ha insegnato tutto ciò che non ho mai capito. Che cosa dovrei dirle? Quanto mi ritengo patetico per questa scena?" Jack si vergognò profondamente per una lacrima che gli sfuggì e si apprestò a cacciarla via con la mano.

Il dottore lo osservò e rimase per un po' in silenzio. Poi disse "Va bene Jack. Questo è sufficiente. Vedi che se vuoi puoi fare tutto? Se vuoi puoi andare, ne riparliamo domani."

Jack fu sorpreso da questa iniziativa, rimase un po' lì a pensare. Poi si alzò e guardò negli occhi il dottore, "mi scusi."

"Di che cosa, Jack? Non hai niente da rimproverarti. Tutti abbiamo i nostri momenti un po'..difficili."

"Lei dottore è in uno di quei momenti?" Chiese Jack, meravigliato da se stesso per quell'audacia.

"Le questioni che riguardano me e mia moglie non sono il motivo per cui ci vediamo, quindi per ora le terremo fuori. Magari un giorno davanti a un caffè te ne parlerò." Ecco di nuovo il sorriso triste. Jack lo salutò e uscì dallo studio.

 

Era in camera sua, aveva un coltellino svizzero in mano. Lo avvicinò all'occhio destro, con la lama puntata dritta sulla pupilla. Pianse e pianse finché aveva fiato.






Salve amici efpiani e non! Questa raccolta è un esperimento assoluto nel genere, quindi siate buoni e pazienti. Ci terrei moltissimo a sapere, da chiunque voglia, un parere, anche gli insulti sono accettati Ma non farò troppo pressing, sarà un grande piacere se anche uno solo la leggerà. Un saluto e un arriverci!

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Capitolo 2
*** Drops of Jupiter ***


Drops of Jupiter

 


 

"Carissimi sagittari e sagittarie, questa settimana la vostra vivacità subirà qualche duro colpo: Saturno è in opposizione. La quotidianità e soprattutto l'amore sono i campi che potrebbero subire qualche brusco cambiamento, quindi fatevi trovare pronti. Se avete conti in sospeso non lasciateli in balia del destino, agite prontamente e prendete le redini della situazione. Se c'è qualcosa che dovete dire da tempo, ma non ne avete avuto mai il coraggio, fatelo. La vostra perseveranza vi assicurerà un ottimo successo, grazie agli influssi positivi del vostro fidato Giove.

I giorni fortunati sono martedì 15 e sabato 19".

Non è possibile. Questo è l'inizio della fine!

Ecco cosa pensava Rebecca, mentre leggeva avidamente l'inserto astrologico del settimanale che ora non riusciva più a guardare. Era stata tranquilla per gli ultimi venti minuti, stesa sul divano mangiando un biscotto ipercalorico di tanto in tanto. E ora la sua ususale spensieratezza si sgretolava così, con lei impotente.

Saturno contro era lo spauracchio che più la tormentava da un po' di tempo. Aveva letto su internet che è un evento molto raro, avviene una volta ogni ventisette anni per ogni segno. Si era tenuta costantemente informata su dove si trovasse per poter prevedere il transito nefasto, ma aveva decisamente sbagliato i conti. La matematica non le andava molto a genio. Così adesso si trovava già con un piede nella fossa e starsene a poltrire non era decisamente l'atteggiamento adatto a salvarsi. Ci voleva il programma protezione testimoni della CIA per difenderla dalla sfiga. Cominciò ad andare avanti e indietro per la casa, mangiando altri biscotti, finché non decise di chiamare Vittoria.

"No, giura!" Fu la prima cosa che uscì dalla cornetta.

"Ti dico di sì, ho controllato anche sul blog di Monica, e sai che quella non sbaglia un colpo". Rebecca era molto sicura, in quel caso avrebbe voluto però sbagliarsi di grosso.

"Cavolo, allora sei proprio fregata", ammise Vittoria rassegnata.

"Quindi che faccio?"

"Non so Reb, potrebbe essere meno peggio di quel che sembra", cercò di razionalizzare Vittoria.

"Se lo dici tu. Ma parla anche di amore, vuol dire che le mie chance con Fabio sono praticamente già sfumate?"

"Mhm beh, se ci pensi, con o senza Saturno, non è ancora scattata la scintilla tra voi. Se fossero cambiamenti in positivo?"

Rebecca colse finalmente il succo della questione. "Hai ragione. Devono essere cambiamenti in positivo, ma sono io che devo permetterlo. Penso che comincerò da ora a risolvere le mie questioni in sospeso".

"Ottimo, che hai intenzione di fare?"

"Lo scoprirai", disse Rebecca con un sorriso sornione, "stasera venite da me alle otto allora?"

"Uffa, ma io sono curiosa! Allora aspetto un resoconto, a stasera!".

Già si poteva palpare la determinazione nell'aria. Troppo tempo era passato senza una svolta. Era giunta l'ora di agire, non si poteva più aspettare. Rebecca non aveva mai avuto tanta forza di volontà come in quel momento, perciò cominciò a fare la lista delle questioni in sospeso.

 

 

"Buongiorno, sono Erica del servizio clienti Vodafone, posso aiutarla?"

"Salve, sono una vostra cliente da molto tempo, ci tenevo a precisare che il vostro servizio è una delusione profonda, non fate che rubarmi soldi appena potete, solo perché sono un po' imbranata con questa faccenda delle promozioni!" E Rebecca riattaccò con veemenza. Aveva appena dato il via alle danze.

Mise un segno di spunta di fianco al primo punto della sua lista con soddisfazione, poi uscì dalla macchina. Era appena arrivata da suoi, negli ultimi tempi la invitavano a pranzo senza mai avere una risposta positiva, rischiava di essere diseredata.

Quel martedì 15 era proprio il giorno giusto per essere produttivi. Per fortuna il capo era stato così magnanimo da concederle la giornata per questioni familiari urgenti, o il panico avrebbe prevalso. Con Saturno c'era poco da scherzare, meglio togliersi il dente subito.

Dopo qualche chiacchiera, lasagne e le solite raccomandazioni dei genitori, che si preoccupavano se a casa mangiasse bene e non cedesse ai surgelati, andasse di corpo regolarmente, chiudesse sempre la porta a chiave la sera perché non si sa mai, Rebecca potè salutarli con l'anima un po' più in pace. Aveva delle faccende urgenti, non poteva proprio rimandare, altrimenti sì sarebbe fermata. Spuntato anche il secondo dovere della giornata, rimise in moto la Smart per procedere verso quello che sarebbe stato un pomeriggio catartico e illuminante.

Rinnovò l'iscrizione alla palestra in cui non entrava da un anno per il trauma, meglio essere preparati a una catastrofe essendo in forma. Poi restituì alla biblioteca le vecchie edizioni dell'oroscopo annuale di Paolo Fox che teneva in salotto da più di un mese, dove aveva segnato a matita tutto ciò che il grande profeta delle stelle aveva indovinato, infatti diceva sempre "non dovete credere agli oroscopi, ma verificarli". Sagge parole. Poi recensì tramite internet il vecchio hotel al mare dove andava sempre da bambina, da quando aveva cambiato gestione era proprio scaduto, era giusto che anche il resto del mondo non rimanesse deluso. Mandò una mail all'Algida chiedendo di rimettere in commercio i Magnum dell'edizione Sette peccati capitali, era quella meglio riuscita e durata troppo poco. Comprò un manuale sulla pace interiore, di qualche esperto orientale in materia, e fece fare la revisione alla macchina.

 

 

Non rimaneva che la cosa più importante. L'aveva lasciata per ultima, con la scusa di poter avere un passaggio dopo. Doveva vedere Fabio e saggiare i suoi sentimenti per lei, sempre che ce ne fossero oltre un'amicizia. Se doveva andare tutto male o tutto bene, tanto valeva avere un'anteprima. Lo invitò per un caffè, in fondo non si vedevano da un po', non c'era niente di male. Giove evidentemente doveva averci messo lo zampino, perché Fabio era libero e anche molto disponibile. Nel giro di mezzora aveva raggiunto Rebecca al bar.

"Allora, come ti sta andando il lavoro ultimamente?" Chiese allegramente Rebecca, mentre mescolava lo zucchero col cucchiaino. L'odore pungente e forte si infilava tra le narici senza chiedere il permesso. Insieme a quello irresistibile del dopobarba di Fabio, una tortura.

"Benone, vado in trasferta in Germania tra quattro giorni, in azienda sono l'unico a parlare tedesco, sapevo che prima o poi sarebbe tornato utile". Fabio era visibilmente emozionato per la cosa e anche un po' impacciato, Rebecca non capiva il perché. Era sempre molto bravo in qualsiasi cosa facesse, non c'era da stupirsi che gli avessero dato questa opportunità. Questo però poteva compromettere tutto. Quattro giorni significava sabato, ovvero un giorno perfetto per rimediare al disastro astrologico imminente con un appuntamento chiarificatore, magari un giro in centro per poter tirare fuori il discorso. E lui partiva?

Rebecca tentò di mantenere un tono spumeggiante come al solito. "Bello, quanto stai via?"

"Una settimana, tempo di fare il mio dovere e anche di farmi un giro per Monaco. Ho i primi due giorni liberi, quindi vorrei sistemarmi un po' e godermi il posto"

"Fantastico! Deve essere molto bello, non ci sono mai stata."

Rebecca aveva il sorriso più finto che potesse sfoderare in volto, ma Fabio non poteva accorgersene, era troppo preso da un altro pensiero.

"Già, infatti sarebbe un peccato andarci da solo, mi piace di più viaggiare in compagnia.." L'ultima parola venne soffocata da un'energica sorsata, Fabio cercò di dissimulare l'imbarazzo scomparendo temporaneamente dietro la tazzina, sperando che la scusa del caffè ancora bollente potesse reggere a spiegare le guance che gli si stavano imporporendo.

"Sì, lo penso anche io, è orribile viaggiare da soli. Sono esperienze, vanno condivise. Certo, per motivi di lavoro non è sempre possibile, però non è orribile se vai da solo, lo devi fare per forza, ed è una bella cosa. Quindi non sto dicendo che fai male, dico che fai bene, sì, carpe diem, come si dice! Eh, forse dovrei smetterla di sparare cagate.."

"Come dici?" Chiese Fabio, quasi ridestatosi da una sorta di sonno riflessivo.

"No niente, riflettevo ad alta voce"

Coraggio Rebecca, ricomponiti, per l'amor di dio..

"Quindi suppongo ci porterai qualcuno, o qualcuna. Dai, chi è la fortunata? La conosco?"

La pianti di fare la scema? Dovresti scoprire se prova qualcosa per te, non farti dire che va dietro a un'altra! Cosa tra l'altro molto probabile, perché tu sei un'idiota e uno così non ti cagherà mai.

"Ecco...veramente sì, cioè mi piacerebbe, ma lei ancora non lo sa, volevo farle una sorpresa e chiederglielo domani. Ho già i biglietti pronti. Però purtroppo non potrebbe farmi compagnia nella settimana perché sarò oberato di lavoro, quindi le proporrei un weekend. Mi farei perdonare al mio ritorno, dici che potrebbe farla contenta?"

Ecco. Rebecca, sei ufficialmente la persona più infelice della terra, puoi cominciare a ordinare la tua lapide. Per la bara invece ti conviene riprendere le misure, sei ingrassata.

"Wow, certo che direbbe di sì! E che vuoi che sia, un weekend fuori porta è più che bastevole, ti aspetterebbe a braccia aperte poi". Fabio notò una punta di amarezza nelle parole di Rebecca. O forse era un rimprovero molto velato. Che idea stupida. Non si può proporre una cosa del genere a una ragazza, prima era meglio un appuntamento semplice, poteva pensar male.

"Però devi sapere che a noi donne piace la corte, magari un po' di preavviso serve. Metti che è impegnata. Oppure si spaventa, un viaggio è qualcosa di impegnativo."

Brava Rebecca, adesso punta sullo screditarla. Come se avessi qualche speranza comunque.

"Hai ragione, forse corro un po' troppo, dovrei andarci più cauto". Il sorriso di Fabio era ora incurvato verso il basso, guardava Rebecca con occhi da cerbiatto ferito. Ma lei non osava guardarlo. Era ovvio, si era sentita offesa. Come pensava che una donna potesse accettare simili proposte? Rebecca cercò di concentrarsi sul suo caffè per il resto del tempo. Voleva fuggire da quel profumo stuzzicante di dopobarba sempre impeccabile perché ormai non percepiva altro che l'olezzo della sconfitta.

 

 

"Ma capite? C'è già un'altra nella sua testa, e io che lo sospettavo, ho voluto lo stesso umiliarmi!" Rebecca trincava come un turista all'Oktoberfest, se non altro poteva avere un assaggio di Germania che non avrebbe mai visto a fianco del suo Fabio. Le sue amiche pendevano dalle sue labbra tutte intorno al tavolo della sua cucina. Si era data un sacco da fare per resistere ai colpi di Saturno, ma alla fine su Fabio aveva vinto lui. E ora la guerriera afrranta raccontava le sue prodezze senza vergogna.

"Su Reb, non te la prendere, tu non hai mica niente che non va! E poi se lui preferisce una qualsiasi quando potrebbe avere una svitata e fantastica come te è proprio un deficiente!", disse spontaneamente Maria.

Rebecca fu rincuorata sul momento, una risata si sollevò insieme ai bicchieri di birra ber un brindisi alla sua salute. Se non altro c'erano loro a farla sempre stare bene.

 

 

Intanto Fabio era in aeroporto a farsi rimborsare due biglietti, su cui era stampato sopra il nome di Rebecca. Era il più infelice della terra.







Popolo di efp, bentrovato! Gli esami sono un vero impedimento in questa sessione, ma tra una cosa e l'altra cerco di non farmi abbandonare dall'ispirazione. Spero questi racconti vi colpiscano in qualche modo, buona lettura a tutti, e come sempre un invito a farmi sapere che ne pensate, bene o male che sia ;)

 

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Capitolo 3
*** All by myself ***


All by myself




 

Era meraviglioso. La sensazione di volare, il ventre leggero senza sostegno. Una volta cerulea sopra la testa e nuvole spumose sembravano suggerire una bella giornata d'autunno. Non sapeva come fosse possibile, ma poco importava. Poi due braccia comparvero dal nulla e l'avvolsero in cintura per assicurarsi che non cadesse. Sapeva benissimo che era lui. Una testa contornata da un elmetto metallico riempì il suo campo visivo appena si girò per guardarlo. Se avesse dovuto descrivere la felicità non v'era alcun dubbio che sarebbe stata esattamente quello che aveva davanti. Si avvicinarono lentamente. Pochi centimetri separavano i due nasi ormai...

Invece ora guardava il soffitto nella penombra del mattino. Porca miseriaccia.

Sonia si girò scocciata su un fianco, avvolgendosi come una crisalide nel suo bozzolo di lenzuola a pois. Era solo un ingannevole frutto della fase REM delle sette. Per una volta che il suo inconscio si decideva a farle un favore portandola a caso tra le braccia di Magneto c'era da festeggiare. Peccato non essere andati un po' oltre però. Potevano anche far svolazzare qualche macchina insieme, magari in testa a un po' di gente, sapeva che lui sarebbe stato d'accordo. Non solo era un bell'uomo, intelligente e potente da far paura, ma condivideva con lei quel senso delizioso di disprezzo per il genere umano. Lui i non mutanti, lei i mediocri e stupidi non mutanti. Le due cose andavano perfettamente a braccetto, era il suo uomo. Spesso si complimentava mentalmente con la Marvel per aver creato un personaggio tanto perfetto, se non fosse che trovarne uno in carne e ossa era più difficile di manipolare metalli a piacimento senza superpoteri. Perciò si accontentava di qualche fantasticheria.

Si alzò pigramente dal letto, maledicendo la sveglia che sarebbe suonata dieci minuti dopo e il suo cervello troppo vigile per non averglieli concessi a sognare ancora un po'. Andò in bagno strascicando i piedi lungo il corridoio, con l'orlo dei pantaloni che puliva il pavimento. Doveva smettere di mettere pigiami vecchi che le stavano due volte, quando aveva dodici anni forse anche tre. Davanti allo specchio, due occhiaie profonde e una cucciolata di cagnolini felici che la salutavano dalla maglia stavano a comunicarle che, in presenza di un ipotetico fidanzato, avrebbe indossato qualcos'altro o non si sarebbe fatta vedere. Ma sarebbe stata troppo pigra per farlo sul serio, un vero uomo certo non si sarebbe spaventato per inezie simili. Si diede una bella lavata e andò a sgranocchiare svogliatamente qualche biscotto. No, era troppo faticoso masticare, serviva un po' di latte caldo per ammorbidirli. Pensò alla giornata che l'attendeva: due ore di matematica, una di inglese, storia e filosofia. Poi grazie al cielo di nuovo a casa. Non perché non le piacesse la scuola, non le piaceva la gente che c'era a scuola, si intende. Però tutto sommato le materie del giorno avrebbero reso la sofferenza del giorno più breve, almeno non c'era italiano. Odiava italiano e quella lagna interminabile della Ricchetti, che partiva a biascicare qualche cosa su Foscolo e terminava chissà come sui suoi gatti. Avrebbe apprezzato di più la letteratura da sola e senza imposizioni istituzionali, senza dubbio.

Giunto il momento di vestirsi, si fermò un momento davanti all'armadio. Il suo obiettivo era dare meno nell'occhio possibile come ogni giorno. Fece mentalmente la conta dell'ordine in cui aveva messo ultimmante le poche paia di jeans che aveva e scelse quelli che stavano nell'oscurità da più tempo, poi una maglia e una golfino di cotone nero. Infilò le solite scarpe, agguantò con una mossa fluida il cappotto che indossò velocemente e uscì con lo zaino in spalla.

La sferzante arietta di novembre non la svegliò come sperava, ma intanto diede quella botta di vita necessaria ad affrontare metà giornata. I lunghi capelli non pettinati si impregnarono di quella piacevole umidità che li gonfiò all'istante, ma Sonia non ci badava, tanto non avrebbe potuto combatterli comunque. Aspettò l'autobus seduta alla fermata, guardandosi i piedi. Forse era il caso di andare a far spese, la punta delle scarpe era rovinata, le suole poi, anziché repellere, assorbivano acqua come spugne dalle pozzanghere. Mentre lei studiava quale calzatura sarebbe stata più funzionale, i suoi compagni di scuola giungevano alla pensilina. Purtroppo alcuni – troppi - abitavano nel suo quartiere ed era costretta ad affrontare il viaggio insieme a loro, ma badò bene a nascondere metà faccia nella sciarpa, per precauzione.

Finalmente il veicolo giunse davanti a loro e per poco non fece il bagno a tre sbarbine starnazzanti transitando un po' troppo veloce su una pozza a ridosso del marciapiede. Ecco una divertente occasione persa, pensò subito Sonia. Salì insieme agli altri e diede il via al rito speciale di ogni mattina. L'abitudine spingeva ogni gruppetto a posizionarsi in posti prestabiliti, come a costituire un ordine nell'ecosistema dell'autobus, così ogni membro del branco che via via si aggiungeva poteva ritrovare gli amici. Probabilmente era l'unica cosa che trovava davvero interessante dei suoi compagni: la disposizione, come animali che marcavano il territorio e sceglievano il luogo migliore da cui osservare gli altri o fare giochi stupidi cercando cose gialle sulla strada. La logica spingeva tutti, incondizionatamente, e li legava con fili invisibili.

Ecco che saliti i gradini dell'entrata vedeva la giungla perfettamente ordinata. Alla sua sinistra, i dark con i loro giacchettini di pelle borchiati e gli anfibi ridevano come iene, al centro i tamarri sportivi con i pantaloni da educazione fisica già addosso che parlavano di qualche partita della domenica e in fondo, dalle parti del conducente, le fighettine spocchiose che guardavano i ragazzi – quelli al centro ovviamente - e probabilmente tramavano quale farsi alla festa della scuola di sabato. Sonia cercò un posto libero il più al riparo possibile da quella fauna. Per fortuna lo trovò vicino al finestrino di fronte a lei, davanti ai metallari sghignazzanti e dietro ai calciatori gesticolanti. Nessuno dei due gruppi l'avrebbe guardata, erano troppo presi dai loro affari, e questo era ciò che voleva. Si ripeté che era solo l'ultimo anno e non avrebbe più dovuto dovuto fare quella strada dopo gli esami, per farsi forza. Si rilassò istantaneamente, mentre la confusione imperversava intorno a lei lasciandole il suo spazio prezioso.

I primi minuti di viaggio furono tranquilli e regolari, poi a una fermata qualcuno catturò la sua attenzione involontariamente. Michele, quel tipo fuori di testa che le aveva presentato Giorgia tempo prima, a volte si dimenticava che frequentavano la stessa scuola. Lo guardò discretamente avanzare tra i branchi del mattino. Come passò le ragazzine, quelle gli lanciarono occhiate di scherno che tanto lui non poteva vedere, e se anche le avesse viste le avrebbe compatite. Nell'osservarlo Sonia l'avrebbe potuto descrivere solo con...nero. Capelli, giacca, calzoni, anfibi. Nero. Distolse lo sguardo quando era ormai vicino per non sembrare interessata o invadente, aspettandosi che la superasse per andare a sedersi coi darkettoni cui aveva fatto cenno dietro di lei. Grade fu la sorpresa quando invece si fermò proprio di fianco a lei e la salutò. Esibì un accenno di sorriso impacciato e aspettava una risposta.

Allarme rosso, allarme rosso, agire naturalmente, non fare passi falsi, ripeto,non fare passi falsi.

Sonia ringraziò che non ci fosse una superficie riflettente, non voleva vedere che espressione idiota si fosse impossessata del suo viso prima di riuscire a spiccicare un semplice ciao.

"In che classe sei tu?"

"5 D"

"Quasi quasi ci andrei l'anno prossimo, ti va di farti bocciare con me? Così posso copiare tutti i tuoi compiti! Giorgia dice che sei brava e la aiuti spesso in matematica". Ecco che il sorriso di Michele si allargò, aveva una faccia proprio buffa.

"Non direi, miro ad andarmene il prima possibile", anche Sonia si sciolse un pochino, ma restava sul chi vive.

"Peccato, io invece potrei non riuscirci, finché Raspadori mi mette 4 e fa pressing sugli altri a seguire il suo esempio." Michele abbassò gli occhi con finto dispiacere.

"Ce l'ho anche io, e non mi sembra così atroce tutto sommato", rispose Sonia sinceramente.

"Non vale, tu sei anche una bella ragazza, io non posso nemmeno contare sul fascino del mio pizzetto". Come faceva ad avere la battuta pronta a ogni cosa? Sonia era sconcertata. E soprattutto non era abituata a ricevere complimenti di quel genere da ragazzi. Si gongolò per un attimo, poi ricordò che provenivano dal pulpito di un deficiente, quindi non valeva un gran che. Lo diceva sicuramente a tutte per fare il simpatico.

"Non è certo per questo che non mi mette 4", si affrettò a dire Sonia, con una punta di veleno sulla lingua nemmeno tanto mascherata e un sorriso sornione.

"Non ne dubito". Michele si fece serio all'istante, capendo che quel modo di fare non l'avrebbe aiutato nel mostrarsi suo amico.

Sonia notò che aveva sulla spalla una cuffia penzolante da cui usciva un rumore .

"Non ti dà fastidio ascoltare la musica così alta?", chiese.

"Questione di abitudine. Vuoi provare?". Michele avvicinò l'auricolare all'orecchio di Sonia prima che lei potesse dire qualcosa in contrario e la reazione non fu delle migliori. Non appena il suono le investì il timpano, si scostò bruscamente all'indietro con sguardo orripilato e Michele rise di gusto.

"Beh, adesso vado, ci vediamo!" E proseguì andando dai suoi amici dietro e lasciando Sonia alle sue riflessioni.

Erano stati cinque minuti molto stressanti, non ci era abituata. Si scosse un momento come a scrollare la sensazione di disagio di dosso. Sperava che fosse un caso incontrarlo quella mattina, ma non sapeva che invece avrebbe preso il suo stesso bus ogni giorno per fermarsi a parlare cinque miseri minuti con lei.







Mi dispiace per l'attesa, gli esami e un po' di vacanze mi hanno tenuto lontano dalla storia, però sono tornata :) chissà che non ci sia occasione che qualcuno di nuovo ci incappi e la legga! Saluti a tutti e, come sempre, spero piaccia e mi facciate sapere ciò che vi passa per la testa, bello o brutto che sia.
 

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Capitolo 4
*** Unwritten ***


Unwritten



 

Il sole alto nel cielo di settembre. La temperaura mite. L'aria piena di calore timido del forno e profumo di cacao. Un foglio bianco e una penna, così vicini ma non si toccano mai.

Questa è la triste storia d'amore della penna e del foglio di Emma.

Proprio così. Emma tentava in tutti i modi di metterli insieme. Ma un destino infelice era più forte di lei. Si chiamava mancanza di ispirazione. Erano ormai giorni che si metteva comoda col suo quaderno e non riusciva a scrivere nulla. Niente. Aveva provato al computer, ma finiva per distrarsi su facebook o non riemergere più da qualche sito di decoupage. Non sapeva più che inventarsi. E dire che l'unione magica dell'inchiostro con la cellulosa aveva sempre funzionato. Prima in modo timido, come chi deve ancora valutare le intenzioni di un corteggiatore, poi in un'esplosione di passione irrefrenabile in cui non si distingue dove finisce uno e comincia l'altro. Si vede che stavolta avevano litigato di brutto, ma di quelle discussioni che l'atmosfera rimane permeata di calore per molto tempo, e non conviene affrettare il momento della riconciliazione; perché rabbia più rabbia fa schizzare via in direzione opposte, come poli di ugual segno a contatto.

Lo strillo del timer decise per lei che era il caso di rinunciare all'impresa e occuparsi della torta. Mentre ne assaggiava una fetta compiaciuta, pensò ai baffoni di papà che si sarebbero allargati immensamente in un sorriso appena fosse tornato a casa. Era una semplice torta, ma per lui la cosa più gustosa del mondo. Non amava i pastrocchi che lei si divertiva a sperimentare ogni tanto, con tutti quegli arzigogoli decorativi di panna. Quindi si lagnava finché Emma non si decideva a tornare sul classico e borbottava un paio di invettive sulla frenesia che hanno i giovani di fare i giovani, sempre a cercare il nuovo.

Si concesse una seconda fetta, ma meno generosa, poi tornò al triste foglio bianco e alla misera penna lì di fianco. Nemmeno la cioccolata aveva il potere di innestare qualche idea nella sua mente vuota. Di questo passo sarebbe stata bandita dal concorso cui teneva tanto, la scadenza per la consegna della storia era vicina. E poi che figura avrebbe fatto? Se partecipava anche quel petulante di Dario non poteva permettersi di farsi fregare così. Voleva dimostrare a tutti di poterlo battere. La motivazione che bruciava nel suo animo era tale forse da permetterle di scalare una montagna, ma bloccava la sua mente.

I due vili amanti – foglio e penna - vennero abbandonati a se stessi, Emma non aveva trovato alcun modo di farli incontrare. Li posò sulla scrivania, chissà che non si avvicinassero da soli nel frattempo e componessero il racconto del secolo.

Doveva schiarirsi le idee in qualche modo, ma non certo stando sola. Ragion per cui si apprestò a procurarsi la compagnia che le avrebbe dato la giusta spinta: Edgardo.

L'ultrasettantenne vicino di casa di Emma aveva ormai cataratte e osteoporosi galoppanti, ma un cervello fino. Anche Emma non sapeva capacitarsi di come un corpo tanto provato da ogni insidia della senilità potesse mantenere tanto spirito concentrato. E c'è da dire che Edgardo amava particolarmente i dolcetti che Emma gli portava ogni volta caldi di forno, il che aumentava della giusta dose la vanità fresca di Emma e l'appetito di un palato vecchio ma ancora goloso. Però Edgardo mostrava questa debolezza in modo discreto. Era egli stesso la discrezione. Si può dire che con Edgardo c'era più da intuire che ascoltare. Ma alcuni suoi segnali facevano chiaramente intendere a Emma che i manicaretti venivano apprezzati. Era Vedovo da molti anni, senza figli. Ma non se ne lamentava. Non era uno di quegli anziani che raccolgono ogni occasione di parlare con chiunque capiti. Quando Emma lo incontrava nel palazzo si spaventava quasi, le sembrava una specie di orco bianco e gobbo, non salutava mai nessuno. Finché un giorno non lo vide davanti al portone, immobile, fissava la strada. Gli chiese se dovesse entrare e lui rispose:"aspetto un'occasione."

Quello fu l'inizio di un rapporto indefinibile. Emma fu subito incuriosita e decise di fargli un po' compagnia. A differenza di Edgardo non conosceva molto il significato della parola riservatezza. Le parole sono un'arma potente, lo sapeva bene. Era un peccato lasciarle appese allo stendino della mente senza poterle mostrare a tutti nel loro splendore. Adorava farle uscire dalla bocca e dalla penna. Forse più di far uscire biscotti da forno. Ma grazie a questi ultimi, potè approfittare spesso di far visita a Edgardo quando aveva un po' di tempo e dovette imparare a trattenere le prime.

Andò a suonare al suo campanello. Edgardo aveva un sesto senso incredibile nell'indovinare quando avrebbe ricevuto la sua visita. In quei momenti si metteva nella poltrona più vicina al portone, in modo da rendere più breve il tratto di cinque metri che lo separava dal ricevere la sua ospite. Aveva imparato negli anni che le distanze minori sono quelle che ad una certa età come la sua si percorrono in più tempo, specialmente se il passo è incerto. Anche questa volta leggeva un giornale in tranquillità ed era pronto. Non ricevendo altre visite non poteva che essere lei. Per quanto non volesse ammetterlo, era contento di passare del tempo con Emma. Non era mai stato un campione di affettuosità nemmeno in gioventù, non ci si poteva aspettare che fosse diversamente dopo il giro di boa. Ma aveva caro il suo rito di attesa e questa volta fu premiato con una bella fetta di torta. Tremendo come le donne conquistino il mondo insinuandosi per le vie del piacere più semplice.

"Allora, quante stragi oggi?", cominciò Emma.

"Solo due, la gente sente già lo spirito natalizio". Beh, poteva andar peggio. Era diventato quasi un gioco tenere la conta degli articoletti di cronaca nera.

Si sedettero sul divano mentre discutevano, Edgardo cominciò ad assaggiare piccoli bocconi della torta. Emma aspettava un responso che non arrivava. Calò il silenziò, scandito dal respiro e il masticare di Edgardo, Emma non emetteva un suono. Si sentiva stranamente a disagio. Di solito inondava la casa con il fluire candido dei suoi pensieri non appena vi entrava, come fosse la cosa più naturale del mondo. Ma come poco prima, era in preda a un blocco che non comprendeva. Edgardo non tardò a notarlo. "Beh, non mi racconti niente? Sei sempre piena di storie! Non vorrai privarmi del piacere di ascoltarti." Ed era vero. Edgardo era un ottimo ascoltatore. Non parlava molto, ma Emma si era abituata, e non le dispiaceva. La maggior parte del tempo era lei a tenere banco, con tutte le sue avventure più o meno realistiche. Però era anche vero che l'aveva colta in fallo. Emma stava ancora pensando a cosa rispondere, ma non riusciva a sbrogliare il groviglio spinoso che la stava avvolgendo. "C'è qualcosa di cui ti vorrei parlare, in effetti. Come si fa a trovare la formula giusta per la vittoria?"

Che domanda insolita. Edgardo la squadrò per un po' con un cipiglio curioso, ma senza rispondere.

"Ti avevo detto di quel concorso letterario, no? Ecco, non ho ancora scritto nulla. Non so perché, mi fa imbestialire. Ci tengo così tanto, che mi fa imbestialire ancora di più. E quel so-tutto-io di Dario! Devi sapere che è una persona insopportabile e non fa che vantarsi di tutto ciò che fa. Partecipa anche lui, voglio dargli una bella lezione! Che poi non è nemmeno così bravo, però non tollero il pensiero che la sua fortuna sfacciata lo salvi questa volta". Emma aveva letteralmente preso fuoco. Cominciò ad arrossire, conoscendo l'inclinazione poco propensa verso i grandi slanci di Edgardo si sentì molto stupida. Tuttavia ormai aveva il chiodo fisso e doveva pur sfogarsi un po'.

"E così vuoi proprio stracciarlo, eh?"

"Solo un pochino", ammise Emma, rasserenata dal sorriso di Edgardo. Aveva trovato un complice inaspettato.

"Per far vedere che sei brava oppure per dimostrarlo a te stessa?". Contropiede.

"Entrambe le cose, perché no?". No, Emma era in grado di vincere il concorso, non c'era da aver paura. Perché farsi venire dei dubbi?

Edgardo finì il suo dessert in silenzio, meditabondo. Poi guardò Emma e disse:"se scrivi con la stessa passione con cui hai fatto questa torta, che cosa temi?"

"Di non riuscire a colpire con qualcosa di interessante la giuria". Emma fu lusingata. Faceva sempre molto piacere stimolare quelle sue corde che ogni tanto suonavano un solo accordo intenso, come un complimento così sincero e diretto.

"Quindi cerchi un tema sensazionale".

"Più che sensazionale. Straordinario."

Edgardo incrociò le braccia e fissò un punto imprecisato davanti a sé. "Ragazza mia, di cose straordinarie ne hanno già parlato tutti. Io ne ho viste, belle e brutte. Non c'è più niente di nuovo. Però puoi fare qualcosa di buono lo stesso, come questa torta".






Carissimissimi, oramai manca poco. Sono lentissima da far paura. Di questo me ne vergogno, sì. Mi limito a lasciarvi qui anche questo racconto sperando di deliziarvi un pochettino. Un bacio a tutti gli avventori che leggeranno!

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