Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
I had a brief dream just now,
[…] is it the past? Or the future?
Le fronde degli alberi si
muovono pigramente, una brezza leggera che ne accarezza le foglie, portando con
sé un assaggio dell’estate ormai prossima. Le chiome offrono un’ombra piacevole
nel primo pomeriggio, come ora; il tempio è immerso nel silenzio, ad eccezione
del figlio maggiore della famiglia che lo abita da generazioni: è lì, sul
vialetto principale, che spazza via la polvere e qualche foglia caduta fuori
stagione.
Tiene la schiena dritta e le braccia fanno fare avanti e indietro alla scopa di
saggina con cui pulisce. Ha l’espressione assorta di chi compie gesti meccanici
pensando ad altro.
Accanto a lui c’è un bambino, non visto: lo osserva curiosamente, girandogli
intorno senza alcun motivo se non l’infantile sete di conoscenza di ogni nuova
cosa su cui si posa lo sguardo, tipica dell’età che dimostra. È un cucciolo, e
lo si nota dalla morbida coda che spunta fuori dal kimono.
Il ragazzo non lo nota, o per meglio dire, non
lo vede. Il cucciolo ridacchia, gli gira intorno ancora una volta, poi si
allontana; trotterella entusiasta verso uno degli alberi e abbraccia di slancio
quella che sembra per lui una figura di riferimento.
«Kami-sama!» esclama allegro e una mano si posa con
gentilezza sulla sua testa, lasciandovi qualche carezza che sembra accontentare
il piccolo. Lo guida verso un punto più riparato e prende posto a terra, la
schiena contro la corteccia di un albero; attende e non deve farlo a lungo:
proprio come il piccolo, che prende posto accanto a lui, ci vuole poco perché
piccoli youkai arrivino da ogni dove.
Alcuni scendono dai rami, altri arrivano dalla terra, altri ancora spuntano vicino
a qualche fiore.
Sono tutti spiriti minori che circondano quell’entità che li accoglie
cordialmente, giorno dopo giorno.
«Kami-sama» il cucciolo di kitsune richiama la sua
attenzione, con successo: «gli umani non ci vedono mai?» domanda con curiosità.
La divinità sorride in maniera enigmatica, a conoscenza della risposta senza
bisogno di dover richiamare alla memoria alcuna nozione o ricordo; è una
risposta quasi automatica quella che dà, sebbene il tono non perda mai quella
sfumatura di pacata dolcezza.
«Quasi nessuno.» ammette, posando un’altra carezza sul capo del piccolo «Non
più almeno. Con il passare del tempo gli esseri umani divengono sempre più
increduli e scettici, e non è facile vedere le cose a cui non si crede.»
replica con pazienza.
Qualche spirito confabula con il vicino, e tra loro uno si fa un poco più
avanti: se il giovane umano che si sta occupando del vialetto lo vedesse, non
gli sembrerebbe altro che un uomo in miniatura.
«Kami-sama, avete mai parlato con uno di loro?» gli
domanda, curioso e dubbioso al tempo stesso.
Sul volto della divinità il sorriso si fa più ampio, gli occhi pieni di cose
viste e custodite con cura nel cuore per molto tempo.
«Ne ho conosciuto qualcuno, sì.» confida «Molti, molti anni fa. Forse persino
un centinaio.» ammette con un calcolo fatto quasi pigramente e di cui non è
sicuro. Sono passati troppi anni e, per chi ha come unica realtà l’immortalità,
non è facile tenere il conto.
«Uno di loro viveva qui.» continua, inclinando il collo all’indietro e
guardando la chioma dell’albero sotto cui siedono: «Non mi sorprenderei se un
giorno un suo erede potesse vederci.» dice, una risata leggera che riempie
l’aria e desta ancor più la curiosità degli youkai.
«Era gentile?»
«Era giovane?»
«Era molto forte?»
Le domande si susseguono, e la divinità lascia che ognuno ponga la sua; quando
c’è di nuovo un silenzio carico di aspettativa, una mano va ad indicare il
giovane che una volta posata la scopa utilizzata si sta stiracchiando,
sbadigliando senza troppa attenzione a coprire la bocca, certo di non essere
visto.
«Come aspetto si somigliano abbastanza.» inizia, osservando il suo pubblico: «Era
un umano difficile, con un tipo di gentilezza molto complicata.» descrive con
un’immagine precisa di fronte agli occhi, come se il diretto interessato fosse
lì in quello stesso momento.
Si sistema meglio, accomodandosi: sarà un lungo racconto.
Fare la strada a piedi quando le serate al locale giungevano al termine era
diventata un’abitudine.
Il suo appartamento non era né vicino né particolarmente distante da dove si
esibiva con la band, e forse il clima ormai quasi invernale avrebbe preteso di
approfittare almeno di una bicicletta; tuttavia, benché ne possedesse una e
fosse conscio che a quell’ora l’ultimo treno fosse già partito, capitava che di
tanto in tanto coprisse la distanza fino al suo monolocale a piedi.
Portò una mano a coprire uno sbadiglio, portandola poi di nuovo nella tasca
della giacca e affondando un poco il viso nella sciarpa blu che aveva al collo.
Quello era l’unico indumento che indossava quasi tutto l’anno: doveva pur
preservare la propria voce, dal momento che era il vocalist.
La serata era andata bene, erano stati pagati e avevano tempo per decidere la
scaletta della prossima esibizione. Poteva tornare anche più tardi del previsto
a casa con la consapevolezza di poter dormire di più la mattina dopo, libero da
impegni di alcun genere. Occhieggiò la busta che teneva nell’altra mano,
contenente del cibo gentilmente offerto dal locale, avanzato alla chiusura
dello stesso; sembrava proprio che potesse evitare la deviazione verso il conbini vicino
casa sua.
«Ohi, fermati!» sentì esclamare, il tono piuttosto irritato a quanto sembrava.
Aveva proseguito senza badare troppo ai pochissimi passanti che si potevano
incrociare a quell’ora – per lo più impiegati attardatisi sul posto di lavoro e
qualche ubriaco innocuo se lasciato andare per la sua strada – e si sentì quasi
risvegliato dal proprio torpore da quella voce squillante.
Assottigliò lo sguardo, cercando di distinguere qualcosa di preciso nel buio
davanti a sé, fuori dalla luce dei lampioni sulla via; apparentemente nulla.
Inspirò. Di nuovo youkai, forse?
«Stupida, inutile lanterna!» sbottò di nuovo la stessa voce e allora riuscì a
distinguere un movimento al proprio fianco; voltando appena il viso, si ritrovò
ad osservare un ragazzo che lo sorpassò, svelto.
A dire il vero, prima ancora di lui era stata una luce vista solo con la coda
dell’occhio a portarlo per istinto a girarsi: la lanterna in questione – un
cosiddetto chochinobake se non
ricordava male, uno youkai minore del
tutto innocuo – era sfrecciata oltre lui, fuggendo da chiunque fosse il padrone
della voce che le inveiva contro. E proprio quest’ultimo era stato il ragazzo
rientrato poco dopo nel suo campo visivo.
«Questo succede perché accetti lavori stupidi.» lo redarguì annoiato quello che
a una prima occhiata scambiò lui stesso per un altro umano; l’unica cosa che lo
fece ricredere fu la sensazione che gli dava: era diversa da quelli di spiriti
minori come quella lanterna, ma simile nell’essenza di base.
Hideyuki li vedeva da che aveva memoria e, con il tempo, aveva imparato a non
prestarvi troppa attenzione sia per non destare sospetti in chi non li vedeva,
sia per non stuzzicare la loro curiosità. A forza di incontrarne, però, era
riuscito a distinguere sempre più chiaramente quando erano inoffensivi: aveva
letto qualcosa in merito, ma il più era una questione di puro istinto – o, come
alcuni lo chiamavano, di “sensibilità”.
La norma era quel chochinobake:
spiriti deboli, magari fastidiosi o dispettosi, ma innocui. Poteva essercene
qualcuno di medio livello, quello era indubbio, ma non aveva mai incontrato uno
youkai che gli desse quella
sensazione di pura violenza.
Anche se sembrava del tutto a proprio agio vicino al ragazzo umano che era
ormai diversi passi davanti a lui.
Con discrezione, Hideyuki lo guardò; mentre si chiedeva se quel ragazzino fosse
vittima di un suo giogo o se ci fosse qualche altra motivazione per quella
sospetta vicinanza, lo youkai stesso
incrociò il suo sguardo. Un istante di genuina sorpresa fu quello che scorse
nei suoi occhi, prima di notare il sorriso divertito che gli dipinse sul volto.
«Oh-oh. Sembra che ci sia un tuo simile, Haruki.»
disse, anche se apparentemente non bastò ad attirare l’attenzione del compagno:
«Grazie al cazzo, sono in una strada pubblica!» sbottò, credendo erroneamente
che quello dell’altro fosse un avvertimento in merito alla presenza di un umano
e quindi di orecchie indiscrete.
«E comunque sarà pure inutile ma è un lavoro, e puoi andartene dove ti pare se
ti annoi tanto. So occuparmi da solo
di una stupida lanterna!»
«Andarmene perdendomi il divertimento delle tue imprecazioni? Mai.» ribatté
l’altro.
«Uhm…»
Non era il tono dubbioso né dell’uno né dell’altro, e Hideyuki fu probabilmente
l’unico ad accorgersene, perché la voce apparteneva a qualcuno che – dalla
posizione dei due litiganti, che al momento si guardavano ignorando la strada –
solo lui aveva inquadrato.
«State cercando questa?» azzardò di nuovo avvicinandosi al ragazzo che era
stato chiamato Haruki, che finalmente si voltò vedendo la lanterna quasi
afflosciata su se stessa che gli veniva porta. La guardò stupito e confuso,
prima di inquadrare chi effettivamente l’aveva allungata verso di lui: una
ragazza.
«…Tu la vedi.» fu ciò che disse – attestando l’ovvio, a giudicare dal sigillo
che proprio lei sembrava aver applicato sulla lanterna.
«Sì.» replicò lei semplicemente, avvicinandogliela ulteriormente.
«Fregato da una ragazzina.»
«E sta’ un po’ zitto!» sbottò all’indirizzo del suo “compagno”, senza
allontanare lo sguardo da lei, guardingo.
«Se non ti serve, la libero.» disse solamente lei, piuttosto tranquilla,
passando lo sguardo da Haruki allo youkai
al suo fianco; Hideyuki era certo che lo vedesse, oltre che sentirlo.
«Mi serve.» disse brusco, prendendola fra le mani senza troppe cerimonie. Lei
non parve badarci troppo, interessata più a chi lo affiancava che non al chochinobake.
«Curioso trovare un’umana che non si spaventi di fronte a certe cose.» buttò lì
con disinvoltura lo youkai.
«Mai quanto vedere un demone vicino ad un essere umano senza che il primo
cerchi di mangiare il secondo.» ribatté, ma non particolarmente seccata.
Hideyuki sbuffò divertito, e questo lo tradì, perché Haruki finalmente sembrò
notarlo.
«Che diavolo…?»
«Te l’ho detto» lo interruppe il demone «sembra che ci sia un tuo simile. O
addirittura due.»
Note Conbini:
mini-market aperti 24 ore su 24. youkai: traducibile con “apparizioni”, “spiriti”
o “demoni”, sono una classe di creature della mitologia giapponese. (wikipedia)
La citazione in apertura è della canzone “Buddy”,
opening di Last Exile: Fam
the Silver Wing, cantata da Sakamoto
Maaya.
Because
we, who do nothing but searching,
are very similar to a mirror:
though we connect just by facing each other,
we still can’t touch each other.
Dopo quell’infelice uscita
da parte del demone avevano passato una manciata di minuti a guardarsi: era
stato chiaro da subito che nessuno dei tre quella sera si era aspettato di
incontrare altre persone capaci di vedere gli youkai.
Se avesse dovuto sbilanciarsi sulla reazione propria e degli altri due, Chiaki
avrebbe affermato che il più giovane dei ragazzi doveva averla trovata una
seccatura, mentre per l’altro sembrava una novità degna di nota per i primi
minuti: una sorpresa, ma nulla di sconvolgente. Forse conosceva già qualcuno
con la propria capacità e non se ne era stupito più di tanto.
Chiaki non avrebbe saputo spiegare bene cosa aveva provato. Curiosità, quella
di sicuro: l’unica altra persona con una percezione simile alla sua era suo
padre, che non vedeva, ma appunto percepiva;
c’era una differenza abissale tra le due cose, ma era ciò che più si avvicinava
a quei due.
Era abbastanza certa, nonostante non avesse avuto molto tempo per osservarlo e
sincerarsene, che quel demone in compagnia di uno dei ragazzi fosse il più
forte che avesse mai visto fino a quel momento. O almeno, la sensazione che
aveva avuto era stata quella.
«Chiaki, la colazione!» sentì chiamare dal piano di sotto, la voce femminile
familiare ormai.
«Arrivo!» esclamò di rimando, controllando sul piccolo specchio della scrivania
che la cravatta della divisa fosse ben annodata sotto il colletto della
camicia; recuperò la cartella e uscì dalla stanza.
Avrebbe voluto chiedere
loro qualcosa di più e, forse, avrebbe dovuto farlo davvero. La situazione però
non gli era sembrata del tutto adatta al fare conoscenza o domande in generale:
quello che dei due le era parso il più giovane, sembrava aver totalmente perso
interesse nel momento in cui aveva recuperato la lanterna; non c’era molto da
stupirsene, se si considerava che era stata il punto focale della sua
attenzione fin da quando Chiaki lo aveva sentito parlare per la strada.
L’altro, dopo una prima occhiata interessata, era stato evidentemente
intenzionato ad andare per la sua strada.
Chiaki non era certa di voler fermare nessuno dei due, o di voler davvero
sapere come fosse stato possibile non incontrarsi mai prima di allora se tutti
e tre vedevano le stesse cose.
Farsi gli affari propri era sembrato molto semplice e più comodo, e aveva
assecondato quello piuttosto che la curiosità: non aveva detto il proprio nome,
non aveva chiesto il loro – anche se aveva dedotto che quello del ragazzo con
il demone fosse Haruki, visto che era stato chiamato così.
«Hiiragi-san» si voltò di riflesso, incrociando lo sguardo di una compagna di
classe: Aikawa Mizuna era la capoclasse dall’inizio dell’anno, una delle più
discrete tra le sue coetanee. La vide che le sorrideva con cortesia, e incurvò
le labbra in modo da poter ricambiare.
«Aikawa-san.» salutò, aggiungendovi un cenno del capo. Era per comunicazioni di
poco conto che Aikawa la fermava fuori da scuola, di solito; ma a giudicare
dalla piccola folla che c’era all’ingresso, pensò che dovesse esserci qualche
novità dell’ultimo minuto che coinvolgesse l’intera classe o qualcosa del
genere.
«Alla prima ora studieremo per conto nostro. Dovremmo comunque fare l’appello
prima possibile, puoi avvisare quelli della nostra classe, se li incontri?»
«…Ah.» le scappò prima che potesse rendersene conto, conscia subito dopo che
non suonava molto cortese da parte propria: «Credevo fosse successo qualcosa.»
si salvò in corner, con un’occhiata alla folla «Non c’è problema.» assicurò poi
in merito al favore chiesto.
«In un certo senso è per la folla.» ammise l’altra con una leggera alzata di
spalle: «Uno studente del primo anno è tornato dopo diversi giorni di assenza,
e sembra che come prima cosa abbia iniziato una rissa stamattina.» disse
sospirando.
Chiaki alternò lo sguardo da lei al punto dove il brusio degli studenti
sembrava più forte; avvicinandosi, tra le varie teste, riconobbe quella di
Ikeda-sensei: non era un docente particolarmente severo, e insegnava
letteratura contemporanea nella classe di Chiaki. Da quanto ricordava, era il
responsabile di una classe del primo anno.
«Che diamine avete da guardare?!» sentì sbottare poco più avanti, senza
riuscire a inquadrare il padrone della voce a causa delle persone che le
coprivano la visuale. Vide però il professore assumere un’aria di rimprovero e
muoversi di lato, portando con sé lo studente che stava attirando tanto
l’attenzione.
Dalla propria posizione Chiaki non riuscì a sentire cosa disse l’uomo, ma
finalmente le fu possibile vedere chi fosse il suo interlocutore.
«Aikawa-san, conosci il nome di quello studente?»
«Mh? Kirihara… credo. Ma non so il nome.» ammise lei, distogliendo l’attenzione
da lui e cercando con lo sguardo qualche compagno che potesse essere arrivato
nel frattempo: «Allora ci vediamo in classe, Hiiragi-san.» disse,
allontanandosi senza aspettare la sua risposta.
Chiaki annuì distrattamente, raggiungendo il proprio armadietto.
Mentre si cambiava le scarpe, pensò che ancor più assurdo del non essersi mai
incontrati seguendo gli youkai fosse
non aver mai notato Kirihara Haruki lì a scuola.
Non si era davvero
sorpresa quando, fatto l’appello e segnate le assenze sul registro, nella sua
classe si era formato subito un brusio di sottofondo. Era chiaro che, se anche
qualcuno avesse avuto intenzione di studiare, la scena all’ingresso doveva aver
destato troppa curiosità nella maggior parte di loro.
Chiaki aveva tenuto il libro aperto di fronte a sé, segnando di tanto in tanto
qualcosa sul quaderno; non era però nulla di così impegnativo da isolarla dai
commenti altrui.
Sembrava che Haruki fosse abbastanza “famoso”, tra gli studenti del primo anno:
sgarbato e scostante, aveva anche una buona media nel complesso, ma c’erano
volte in cui mancava anche per un’intera settimana. Ufficialmente sembrava che
la sua famiglia chiamasse sempre per avvisare che si trattava di febbre o
visite dal medico e per questo i docenti non avevano mai fatto particolari
questioni, da quanto si sapeva. Tuttavia Kirihara non aveva affatto l’aria di
un ragazzo cagionevole, e la rissa sfiorata quella mattina non aveva fatto che
confermare le supposizioni dei più avvezzi al pettegolezzo.
Chiaki non riusciva a capire il perché di tanto interesse, ma soprattutto il
motivo per cui si dovesse ricamare tanto sopra le questioni private di un’altra
persona per nessun motivo se non la propria soddisfazione.
Non che fosse una novità non comprendere appieno i suoi coetanei, a dire il
vero. Era già da considerarsi un miracolo che non venisse considerata a propria
volta una disadattata sociale dai suoi compagni di classe, cosa che doveva
principalmente alla capacità di interagire con loro in un modo che – seppur
distaccato – era cortese abbastanza da non farla sembrare “strana”, ma solo
riservata.
«E quindi? Lo hanno rimandato a casa?»
«No, sembra che sia in infermeria perché nessuno può venire a prenderlo. Così
ho sentito da un suo compagno di classe prima, almeno!»
Chissà se in infermeria quel demone gli teneva compagnia, si chiese
all’improvviso, senza neanche un vero e proprio motivo. Fermò la penna poco
prima che si posasse di nuovo sul foglio per annotare l’ennesimo vocabolo
inglese: in effetti, ora che ci pensava, non lo aveva visto nemmeno prima
nell’atrio.
Forse era da evocazione? Non le sembrava di ricordare qualcosa del genere,
anche se doveva ammettere di non aver ancora controllato i demoni che
rientravano in quella categoria e che erano anche di alto livello. Non per
negligenza, quanto perché negli appunti generali c’era scritto che contratti
con demoni simili avvenivano molto più in passato, ed erano stretti solo con
umani dal potere spirituale molto elevato e una formazione rigida per avere a
che fare con essi.
Chiaki, però, aveva sempre a che fare con youkai
di medio o basso livello, e soprattutto con persone che al massimo ne erano
influenzate o possedute, che nemmeno li vedevano – di conseguenza non era
plausibile che stringessero alcun patto.
Rabbrividì impercettibilmente: aveva idea che avere un contratto con uno di
quelli non fosse niente di positivo. Soprattutto, il prezzo da pagare doveva
essere qualcosa che rendeva il contratto davvero pericoloso.
Si chiese chi fosse Kirihara Haruki per fare una cosa tanto sciocca, oppure in
quale guaio si fosse cacciato per esservi costretto.
Osservò la porta
dell’infermeria con astio, solo al suo interno.
Spostò lo sguardo, portandolo verso la finestra chiusa, visto il freddo che
faceva fuori; l’infermiera lo aveva lasciato lì, dicendo che sarebbe andata via
il tempo sufficiente a prendere un caffè in sala professori e tornare. Era via
da almeno un quarto d’ora.
«Soffri la solitudine?»
«Sta’ zitto. Lasciami perdere quando sono a scuola.»
Shiki ridacchiò, conscio di non poter essere scacciato comunque, e che il
lasciar in pace o meno il suo umano preferito dipendesse quindi unicamente
dalla sua volontà e bontà d’animo.
«Non che senza di me tu abbia molte persone con cui parlare, comunque.»
osservò, fingendo che il commento fosse casuale: «E dire che ieri sera hai
avuto l’occasione di fare amicizia. Invece sei andato via con la lanterna.
Avevano pure un buon odore, sai? Almeno la ragazza.»
«Maniaco.»
«Non intendevo in quel senso, ma volendo…» insinuò divertito, osservandolo di
sbieco lì dov’era, sdraiato con nonchalance sullo stesso letto dov’era seduto
Haruki. Lui non si voltò, sospirando seccato e sobbalzando appena solo quando
sentì la porta aprirsi.
Per un attimo temette che l’infermiera lo avesse sentito parlare – e ai suoi
occhi sarebbe apparso solo nella stanza, come succedeva sempre. Non che fosse
una novità, qualcuno che lo pensava fuori di testa o gli dava del bugiardo.
Quando si voltò, tuttavia, non seppe bene cosa provò: se sollievo o una sorta
di irritazione per lo più ingiustificata. Di sicuro non aveva idea del perché
la ragazza della sera prima rimanesse impalata sulla soglia, specialmente
perché non aveva l’aria di chi non si aspettava di trovare l’altro lì, ma
quella di chi ha trovato proprio chi stava cercando.
Chiaki rimase ferma per qualche istante, dopodiché entrò definitivamente
nell’infermeria lasciando scorrere la porta alle proprie spalle, chiudendola.
«L’infermiera non c’è.» disse subito lui con tono brusco, puntando lo sguardo
verso la scrivania vuota.
Lei mosse qualche passo, ma si fermò vicina ad uno sgabello dove solitamente si
sedeva chi aveva bisogno di qualche medicazione veloce; vi prese posto in
silenzio, composta, le mani poggiate in grembo.
Haruki non si era aspettato il silenzio in risposta, ma ne era ben contento. A
dispetto delle parole di Shiki – che poi erano palesemente prese in giro – non
aveva alcuna intenzione di fare l’amichetto con due tizi sconosciuti solo
perché anche loro vedevano quella roba. Nemmeno se uno dei due, come la
ragazza, era della sua stessa scuola.
«Non sono venuta per l’infermiera.» la sentì dire, mandando in pezzi le sue
speranze di essere ignorato esattamente come lui aveva intenzione di fare con
lei. Chiaki però non fu granché demoralizzata dall’atteggiamento dell’altro: «In
verità sono venuta per parlare con lui.» aggiunse, indicando Shiki che aprì un
occhio, sentendosi chiamato in causa.
Haruki non poté nascondere del tutto la leggera sorpresa, dovuta di certo al
fatto che non fossero molte le persone che lo avvicinavano per parlare con il
demone che tecnicamente nessuno avrebbe dovuto essere in grado di vedere.
Sentì Shiki mettersi a sedere, e già immaginava che espressione potesse avere
in quel momento; sospirò.
«Lusingato.» disse infatti, osservandola. La stava studiando, poco ma sicuro: «È
sempre meglio attirare l’attenzione di una signorina che di un bamboccio
scorbutico.» aggiunse in un evidente riferimento a Haruki, il quale fece
schioccare la lingua in un verso di stizza.
«Cosa vuoi chiedermi?» la incalzò quindi Shiki, ignorando il suo contraente o
qualunque cosa Haruki fosse per lui.
Chiaki non rispose subito. Sembrava prendere tempo, se per elaborare il proprio
quesito o la presenza di Shiki Haruki non lo sapeva né era particolarmente
interessato a scoprirlo: «Volevo chiederti se hai visto qualche studente
posseduto qui a scuola.» espresse infine la ragazza, gli occhi su di lui, senza
sfumature spaventate o preoccupate. Quello fece voltare Haruki: poteva essere
anche abituata a vedere youkai come
lui, ma era sicuro che non fosse normale incontrare uno come Shiki e che, se
davvero era dotata, non era possibile
che non percepisse almeno un minimo il livello del demone. E, se così era, che
non avesse la minima reazione in sua presenza. «Se è un modo carino di chiedermi se ho posseduto
Haruki, ammetto che almeno è originale.» replicò lui, sardonico.
«In verità non è questo che volevo sapere. Mi sono posta il dubbio, ma credo di
aver già trovato la risposta.»
«E quale sarebbe?» domandò incuriosito, più del ragazzo che gli stava accanto.
«La tua riguardo le possessioni qual è?» tornò al discorso iniziale,
guardandolo senza scomporsi. Haruki sbirciò l’espressione di Shiki: non aveva
particolarmente in simpatia quella ragazza, a pelle; però era anche vero che
era la prima volta che qualcuno si rivolgeva al demone con tanta calma. Si
chiese cosa fosse abituata a vedere.
Forse Shiki si chiedeva la stessa cosa, o quantomeno doveva essere incuriosito
da lei, visto che si prese anche la briga di rispondere: «Non che io abbia
notato» disse pigramente «ma cisono
delle presenze, se è quello che ti
interessa.»
Chiaki tacque, portando lo sguardo sulle proprie mani, pensando: delle presenze
si potevano trovare un po’ ovunque a dire il vero, e le scuole erano affollate;
dal punto di vista degli youkai che
volevano dei contatti con gli esseri umani erano uno dei luoghi più sicuri dove
trovare molti della specie. Ma si trattava molto spesso di spiriti minori, per
lo più incuriositi o abituati a fare qualche scherzo innocuo. Non era frequente
la presenza di qualcosa di maligno, che invece temeva fosse quello che stava
cercando.
«…Ho capito.» pronunciò infine, ancora persa in qualche suo pensiero messo
subito da parte per tornare a guardare gli altri due occupanti della stanza: «Ti
ringrazio. Cercherò con più attenzione da sola.» decretò, facendo per alzarsi
mente Shiki sbuffava divertito.
«Non sembra una cosa molto intelligente da fare.» osservò con fare quasi
canzonatorio: «Non capirò mai questa mania di voi esseri umani di immischiarvi
nelle faccende che non vi riguardano.»
«Se un essere umano volesse distruggere la tana di alcuni youkai tu li aiuteresti?» chiese lei a bruciapelo, sistemando le
pieghe della gonna della divisa. Haruki si chiese se si fossero dimenticati non
tanto della sua presenza, quanto del fatto che quella non era una stupida
chiacchierata di fronte a una tazza di tè. Iniziava a spazientirsi e lui non
voleva nessuno lì dentro, specialmente perché non sapeva nemmeno il nome di
quella tizia; anche se almeno, qualora l’infermiera fosse rientrata, nessuno
dei due sarebbe sembrato un pazzo che parlava da solo.
«Alcuni lo fanno. Anche se non si piacciono tra loro.» proseguì, forse perché
non si aspettava una vera risposta da Shiki: «E poi, non vale lo stesso per gli
youkai? Perché vengono nelle scuole,
che sono un luogo umano?» domandò, anche se era retorica o almeno così la
interpretò Haruki.
Nel silenzio che cadde tra loro, la campanella annunciò il cambio dell’ora.
Chiaki piegò un poco il braccio per controllare l’orologio da polso: «Devo tornare
a lezione.» disse rivolta più a se stessa che agli altri due, cui rivolse
invece un semplice cenno del capo, cortese.
Si voltò, raggiungendo la porta, ma guardò al di sopra della propria spalla
verso di loro: «…ti senti male, Kirihara-kun?» chiese studiandolo.
«Eh?» ribatté d’istinto, non avendo idea di come fosse venuta fuori una domanda
simile, se non per il fatto che fosse in infermeria. Ma era sicuro che nessuno
in quella scuola fosse all’oscuro di quanto avvenuto la mattina all’entrata, perciò
era chiaro che fosse lì in attesa che qualcuno venisse a prenderlo.
Haruki odiava buona parte dei suoi coetanei e dei loro modi di fare, ma se
c’era una cosa che sopportava meno delle altre, era quando facevano i finti
tonti per mostrarsi pieni di buone intenzioni che non erano altro che ipocrisia
bella e buona. Si sentiva trattato da stupido e disprezzava tanto loro quanto
se stesso, che evidentemente dava l’idea di essere qualcuno di cui ci si poteva
prendere gioco in quel modo.
Indurì lo sguardo: «Certo. Come no.» replicò senza neanche provare a nascondere
l’ironia nel tono di voce.
«Mh. Allora ti auguro di rimetterti in fretta.» disse soltanto lei, aprendo la
porta e uscendo, chiudendola poi una volta fuori dall’infermeria.
Haruki inarcò un sopracciglio, non sapendo chi si fosse fatto prendere in giro,
alla fine: lei o lui?
«Perché diamine stiamo tornando a scuola.» si lamentò di nuovo seguendo Shiki,
le mani in tasca.
Suo nonno era andato a prenderlo a ridosso della pausa pranzo, ringraziando
l’infermiera per essersi presa cura di lui e riportandolo a casa. Non gli aveva
chiesto niente, dopo l’iniziale “hai fatto a botte, Haruki?” al quale aveva
risposto la verità – “No”.
Suo nonno era così, credeva a quello che diceva, per una specie di tacito
accordo che era più che altro una promessa fatta quasi sette anni prima quando
era solo un bambino: Haruki aveva giurato di non mentirgli mai, e l’anziano
aveva detto che allora gli avrebbe sempre creduto. C’erano stati momenti in cui
Haruki non ci aveva nemmeno sperato, invece suo nonno era sempre stato dalla
sua parte, senza mettere in dubbio le sue parole. Credeva che fosse una cosa
eccezionale, perché lui non sapeva avere tanta fiducia nelle persone.
A parte nell’uomo, certo. Perché si sarebbe sentito orribile, a dubitare di
lui.
«Non avevi di meglio da fare comunque.» rispose annoiato Shiki, precedendolo di
qualche passo. Haruki avrebbe potuto lasciarlo andare da solo, visto che non
aveva motivo di tornare a scuola quando poteva evitarselo; tuttavia Shiki non
si spostava mai se non c’era una ragione, questo lo aveva imparato subito. Si
chiedeva cosa fosse stavolta.
Non che ci fossero molte possibilità, comunque: a meno che non trovasse il
corridoio del secondo piano particolarmente affascinante, doveva stare cercando
qualche youkai.
«Che palle.» commentò, pur continuando a seguirlo e alzando lo sguardo
perplesso quando vide che si era fermato davanti un’aula la cui targa recitava
“2-3”.
Non fece in tempo a chiedergli cosa facessero in una classe del secondo anno –
non che fosse importante, in realtà – che il demone aveva aperto la porta ed
era entrato; lo seguì, vedendo di sfuggita le sue labbra incurvarsi in un
sorrisetto divertito di chi ha trovato quello che si aspettava.
«Oh. Guarda chi c’è.» commentò e, guardando verso le finestre e i banchi vicino
ad esse, Haruki riconobbe la ragazza dell’infermeria.
Non sembrava sorpresa di vederli o forse lo mascherava bene, non ne aveva idea.
«Non mi aspettavo che qualcun altro fosse ancora a scuola a quest’ora.»
osservò, puntando lo sguardo su Haruki; lui si aspettava già qualche domanda
stupida sulla sua salute ma lei distolse lo sguardo, tornando a muoversi fra i
banchi come doveva aver fatto prima di essere interrotta dal loro ingresso.
«Allora è qui, quello che credi sia posseduto?» chiese Shiki, come se fosse
ovvio fin dall’inizio che era di quello che si stava parlando. La ragazza mosse
qualche passo ancora, sfiorando diversi banchi con la mano.
«Sì. E non credo sia posseduto.» disse, alzando lo sguardo su di lui, le sopracciglia
appena aggrottate che le conferivano un’aria preoccupata – e la prima vera
espressione che Haruki le avesse visto assumere, in effetti: «Sono sicura. E
credo di aver anche trovato lo youkai.
O almeno di aver capito quale sia. Sto cercando qualcosa che me lo confermi.»
spiegò brevemente.
«Parli come un’esorcista di professione. Chi cavolo sei, una bambina prodigio
di un tempio sperduto tra le montagne che è stata istruita per salvarci tutti
dagli spiriti cattivi?» sputò fuori, antipatico.
Shiki sbuffò, non stupendosi tanto di quanto Haruki fosse sgarbato quanto del
pessimo tempismo che sembrava avere in ogni occasione, nonché della sua
capacità di indispettire le persone dalle quali Shiki (o entrambi) volevano
informazioni. In compenso la ragazza non sembrava offesa, e se lo era sapeva
mascherarlo bene – tuttavia, si redarguì il demone, poteva non mostrarlo con le
espressioni ma non era altrettanto sicuro che potesse nasconderlo a lui in
altri modi. Ne sentiva il battito del cuore distintamente: era appena più
veloce, ma non troppo accelerato.
«Nessuna delle cose che hai elencato.» replicò lei, sorridendo a entrambi. Era
una gentilezza superficiale, una sorta di cortesia mista a una buona educazione
che una volta appresa diventa una cosa di cui è difficile liberarsi. Haruki la
trovava snervante.
«Non sono un’esorcista di professione, non vengo da un tempio sperduto tra le
montagne e non devo salvare nessuno, né sono istruita per farlo. Non mi
considero neanche una bambina prodigio. Ho solo fonti affidabili sugli youkai.» ammise. Haruki si chiese se
fosse capace di cogliere il sarcasmo nelle persone o meno, perché a lui
sembrava di no.
«E le tue fonti che direbbero?» domandò scettico. Andiamo, se avesse avuto
qualcuno che si intendeva di quelle cose non ci sarebbe stato alcun bisogno che
se ne occupasse lei. Beh, magari dentro la scuola sì, ma a conti fatti anche
loro due erano lì senza permesso, pur essendo studenti. Sarebbero comunque
finiti nei guai, se un custode li avesse trovati.
«Sai cos’è un Hinoenma?» ribatté lei,
poggiandosi leggermente contro il banco alle sue spalle. Haruki inarcò un
sopracciglio, passando dal guardare lei al guardare Shiki, che con un sorriso
enigmatico si era andato a sedere sul banco vicino. Ovviamente non sembrava
intenzionato a dare suggerimenti.
Demone di merda.
Il suo silenzio fatto di imprecazioni mentali contro Shiki doveva aver
suggerito che no, non ne aveva idea, perché lei continuò a parlare anche se gli
occhi sostavano sul banco di fronte, non su uno di loro.
«È uno spirito, un Succubo per essere precisi. Sembra che si nutra dell’energia
o del sangue umano, di prede maschili. Non è una figura rara, si incontra in
moltissime superstizioni occidentali. Non sono certa che dire che la sua
vittima “è posseduta” sia corretto, se per possessione si intende che l’umano
in questione viene costretto a compiere azioni di un certo tipo ai danni di
qualcun altro. La uso per praticità, comunque.»
Haruki notò che parlava con voce relativamente piatta, come quando si ripeteva
una lezione imparata a memoria, o qualcosa spiegata così spesso che ormai non
c’era più bisogno di prestare attenzione per non sbagliare. Questo non lo
aiutava a inquadrarla.
«Non è facile trovare le tracce dei Succubi o degli Incubi» prese parola Shiki,
le braccia incrociate dietro la testa a far da cuscino contro il muro alle sue
spalle: «a meno che tu non abbia un olfatto piuttosto sviluppato e senta
l’odore del sangue delle loro vittime.» aggiunse beffardo.
«Lo so.» ammise lei scostandosi dal banco e piegandosi sulle ginocchia,
guardando sotto quello che aveva avuto di fronte fino a quel momento e che
aveva fissato anche mentre parlava. Non le ci volle molto per ritirare la mano,
tenendo qualcosa fra le dita.
«…Il tuo indizio sarebbero dei cerotti.» commentò allucinato Haruki. Va bene
essere fuori di testa, si rendeva conto che lui non potesse dire molto visto
che appariva spesso come uno che parlava da solo, però insomma. Lei gli faceva
concorrenza.
«Ieri la scatola era piena.» spiegò avvicinandosi e porgendogliela, in un
tacito invito a guardare dentro. Per nulla convinto la prese e sbirciò, dal
momento che era aperta: c’erano appena un paio di cerotti.
«Sagara-kun ha iniziato a stare male qualche giorno fa.» riprese senza che lui
le facesse nessuna domanda «Ha avuto un mancamento durante Educazione Fisica e
lo hanno portato in infermeria. Il giorno dopo mi ha chiesto in prestito un
cerotto perché si era tagliato e gli si stava macchiando la divisa. Non ho
fatto domande, ma la macchia era vicina al colletto della camicia, e non è un
punto dove generalmente è facile tagliarsi. Da quel giorno la sua anemia è
peggiorata, e ha iniziato a usare diversi cerotti. Ho pensato che forse erano
aumentate le ferite, ma non ha tagli visibili nuovi. È anche vero» si corresse
immediatamente, forse preannunciando la replica che Haruki stava per rifilarle «che
la divisa scolastica copre un buon 80% del corpo. Per quanto ne so, potrebbe
avere tagli ovunque e in posti dove ci si può anche ferire. Ma le anemie non
vanno peggiorando e comunque non così tanto da un giorno all’altro.» disse
recuperando la confezione quasi vuota.
«Se ne soffrisse di suo fin da bambino, o da abbastanza tempo perché gli sia
stata diagnosticata, avrebbe sicuramente una terapia fatta di integratori o
qualcosa che comunque non lo faccia collassare nel mezzo del corridoio, oltre
che di una lezione. Durante Educazione Fisica l’affaticamento potrebbe aver
fatto il resto, ma in corridoio no. Ho pensato che potesse essere un sintomo di
qualcosa che non andava, anche se era molto azzardata come ipotesi.»
«Meno male che te ne accorgi da sola!» sbottò Haruki, allargando d’istinto le
braccia in un gesto incredulo. Andiamo, ma che senso aveva? – senza contare che
quella tizia sembrava una stalker, a sentirla parlare.
«Però» riprese «ho provato a parlargli ieri. Sagara-kun non era in sé, su
questo non ho dubbi. A quel punto, l’idea di un Succubo mi è sembrata la più
verosimile. Anche perché mi è apparso piuttosto astioso non contro di me nello
specifico, ma in generale.»
«Quindi contro una donna.» concluse Shiki per lei, guardandola mentre annuiva.
Haruki li fissò entrambi: «Mai pensato che magari non ti sopporta e basta?»
«Io e Sagara-kun non abbiamo quel tipo di rapporto. Ci siamo parlati molto poco
da quando siamo in classe insieme.» fece presente come se non ci fosse nemmeno
da prendere in considerazione che fosse una ripicca personale o qualcosa del
genere.
Haruki non fece commenti: non è che lui fosse la persona più indicata a parlare
di come dovessero essere i rapporti tra compagni. Almeno nel caso di quella
pazza si trattava di uno solo; lui a malapena sapeva chi c’era nella sua
classe, in pratica.
Sbuffò: «Va beh, come ti pare.»
«E quindi la prossima mossa, signorina?» chiese invece Shiki, tirandosi su e
scendendo dal banco. Lei si mosse, ma per raggiungere la porta, non lui.
«Se il conto dei giorni che ho fatto è giusto, ormai sarà quasi ora per il
Succubo di cambiare preda. Quindi devo solo trovare Sagara-kun.»
«Per esorcizzarlo?»
«Non proprio. Non sono un’esorcista, l’ho detto. Però c’è qualcosa che posso
fare per scacciare il Succubo per il momento. Non posso fare di più, perché non
ne ho le capacità.» ammise, sospirando impercettibilmente e facendo scorrere la
porta.
«Anche se questo Sagara non ti piace nemmeno?» chiese a bruciapelo Shiki –
Haruki lo guardò male, non per un picco di sensibilità nei confronti di lei,
quanto perché aveva la sensazione che si stesse immischiando in qualcosa con
cui non voleva avere a che fare, visto che non lo riguardava e non era una
richiesta di lavoro fatta a lui personalmente.
«Solo perché non ci parliamo non significa che io voglia vederlo morire.»
commentò semplicemente la ragazza, voltandosi a guardare il demone. Haruki fu
stupito non tanto dal fatto che ci conversasse come se nulla fosse – a quello
aveva rinunciato a trovare una spiegazione – quanto più dal fatto che avesse
pronunciato quelle parole come se fossero ovvie.
Come suo nonno aveva trovato scontato credere a tutto quello che diceva solo
perché Haruki aveva promesso di non mentire quando era bambino.
Non capiva: come si faceva a credere così tanto alle persone o ai propri
sentimenti?
«Ohi.» la richiamò «Com’è che ti chiami?»
Lei lo guardò, spiazzata perché evidentemente non si era aspettata quella
domanda; Haruki pensò che era ora mostrasse un cambio di espressione normale e
degno di essere definito a quel modo. Poi la vide incurvare le labbra in un
sorriso che aveva ancora la sfumatura della stessa cortesia di poco prima – ma
non c’era educazione, anche se non sapeva dire cosa fosse ad animarle
quell’incurvarsi di labbra che sembrava diverso.
«Hiiragi Chiaki. Credevo non ti interessasse, Kirihara-kun.»
Il locale dove si esibiva
con la sua band era sempre abbastanza frequentato, affollato quando la serata
era pubblicizzata; era un posto tranquillo, però, di quelli dove raramente si
rischiava di veder uscire persone ubriache che potessero causare problemi a
terzi.
A Hide piaceva, ed era per questo che lui e gli altri avevano scelto di restare
lì, piuttosto che tentare qualche esibizione altrove per essere più visibili
una sera o due, e poi finire chissà dove.
Non poté non stupirsi quando, poco distante, notò un giovane accovacciato e
dall’aria di non sentirsi troppo bene; aveva vestiti comuni, ma era abbastanza
sicuro che non fosse più grande di lui, anzi.
Si avvicinò con cautela, osservando diversi passanti – per esperienza sapeva
che qualcuno che veniva ignorato era, spesso, qualcosa che vedeva solo lui. Diversi passanti però stavano
lanciando occhiate al ragazzo per poi continuare per la propria strada, perciò
Hide si chinò leggermente verso di lui: «Ehi, è tutto a posto?» lo richiamò,
posandogli la mano sulla spalla, con gentilezza.
Il ragazzo inspirò rumorosamente, come se non riuscisse a respirare bene, e
puntò lo sguardo su di lui.
A Hide non capitava più di spaventarsi per gli youkai, anche perché per motivi che non comprendeva non lo
infastidivano granché, e di questo era grato. Capitavano volte, però, in cui ne
vedeva alcuni che gli mettevano davvero i brividi; lo sguardo di quel ragazzo,
che di umano non aveva nulla, era l’esempio lampante di quel qualcosa di
sovrannaturale che ancora riusciva a metterlo a disagio.
Poi lo vide: un volto di donna parzialmente trasfigurato da un’espressione che
era un misto di sadica gioia e l’istinto primordiale della caccia, tipico
soprattutto di quei predatori a cui il cibo è stato negato troppo a lungo. Non
ne aveva mai visto uno così, specialmente rimanere in parte attaccato ad un
corpo che sembrava sul punto di spezzarsi in due, piegandosi in modo
innaturale.
Inspirò. Abituato o meno agli youkai,
c’erano immagini a cui era certo non sarebbe mai riuscito a rimanere
impassibile.
«Sagara-kun?» sentì chiamare e alzò lo sguardo, ritrovando alla propria
sinistra e distanti pochi metri i due ragazzi incontrati la sera prima. Demone
compreso.
Lei sembrava più sconvolta che inquietata, e Hide non seppe dire quale delle
due reazioni fosse la più auspicabile. Aveva la sensazione che la più umana
fosse il disgusto, visto il modo innaturale in cui si trovava il corpo del
ragazzo che aveva vicino e come quello spirito vi fosse ancora avviluppato.
Lo youkai si voltò bruscamente,
puntando lo sguardo sui due più giovani; il cambio di espressione fu visibile,
ma lo spirito era già scattato in avanti e Hide non avrebbe saputo dire di
preciso quale sentimento stesso animando l’essere che aveva puntato i due
ragazzi.
Niente di positivo, però: solo le intenzioni negative avevano quell’odore
terribile.
«Shiki, che stai—» chiese Haruki, mentre il demone si sistemava davanti a lui.
«Evito che la mia preda diventi la preda di qualcun altro.» replicò quello con
tutta calma, quasi pregustando l’idea di cibarsi di quello spirito che
evidentemente non costituiva alcuna minaccia per lui: «Non posso garantire per
te, però.» aggiunse rivolto a Chiaki, che strinse tra le mani quello che aveva
tutta l’aria di essere un ofuda,
anche se Haruki non riuscì a distinguere cosa ci fosse scritto sopra.
«Fermo.» fu l’unica cosa che sentirono
pronunciare entrambi, prima di vedere quello stesso spirito bloccarsi lì a
nemmeno un metro da loro. Lo osservò basito, guardando Chiaki che sembrava
sorpresa quanto lui.
«Permetti?» pronunciò Hide, passando accanto allo spirito e alludendo al
sigillo tra le mani della ragazza; lei annuì, porgendoglielo incerta. Preso tra
le dita, lo fece aderire sulla fronte dello youkai.
Quello, con un verso strozzato, si fece sempre più inconsistente fino a
sparire.
Ofuda (o-fuda): talismani attribuiti ai templi shintoisti. Sono realizzati scrivendo
il nome di un kami (dio), di un tempio o di un rappresentante del kami su un
pezzo di carta, legno, stoffa o metallo. Generalmente utilizzati per
protezione, nei manga sono spesso visti come mezzo per combattere gli youkai.
In quel caso, il testo appartiene a un sutra o un mantra e possono essere
utilizzati per respingere demoni o sigillarli in luoghi chiusi. (wikipedia)
La citazione in apertura viene dalla canzone “Saigo no Kajitsu”, ending di Tokyo Revelations e cantata da
Sakamoto Maaya.
I’ve
been watching all the time.
Seems near, yet so far.
Always… unreachable.
Per diversi istanti si
guardarono senza dire nulla. Intorno a loro, la città si muoveva nel suo ritmo
frenetico giornaliero, tipico soprattutto degli orari in cui gli impiegati
cominciavano a rincasare in massa, magari fortunati abbastanza da non doversi
trattenere oltre l’orario di lavoro.
Tokyo era fatta di luci, la sera; insegne su insegne che indicavano la via
fungendo da punti di riferimento, e al tempo stesso sembravano attirare le
persone come falene. Si respirava un’aria piena, in quella città, un’aria fatta
di troppe persone e troppi respiri, tanto che se non si era abituati sembrava
sempre tuttotroppo. Hide era sempre riuscito ad adattarsi facilmente, a cucirsi
addosso le strade e a volte anche le persone; Tokyo era piena, quando guardavi
le insegne e sentivi passi delle persone picchiettare contro l’asfalto uno dopo
l’altro, tutti diretti da qualche parte, chissà dove; eppure quando poi lui
usciva dal locale, era silenziosa e fresca, rilassante.
Sola.
«Che cavolo hai fatto…?»
Hide non riuscì davvero a stupirsi del fatto che il ragazzino – Haruki – si
fosse espresso in quel modo. Era una reazione comprensibile.
«Ho dato una mano.» commentò semplicemente, un mezzo sorriso rivolto a
entrambi. Shiki, non più di fronte al ragazzo, lo squadrava da capo a piedi con
espressione indecifrabile; Hide la conosceva abbastanza da capire che in quel
momento il demone lo stava studiando, e questo implicava che non avesse ancora
deciso se considerarlo una minaccia o meno. In quei frangenti, era sempre
meglio non fare movimenti bruschi o che sembrassero un’intimidazione.
«Questo l’ho visto!» sbottò Haruki, incurante delle persone che si sarebbero
potute girare, attirate dal suo tono di voce abbastanza alto da far sembrare
che ci fosse un litigio in corso; parve rendersene conto anche lui, perché si
guardò intorno per qualche istante, prima di riprendere a parlare con voce più
bassa.
«Con quello spirito— tu gli hai impartito un ordine.» calcò la parola e non fu un caso. Lui non conosceva tutto
ciò che riguardava gli youkai, anche
perché era certo che fosse impossibile poterlo fare visto tutto il materiale
che esisteva, fatto di anni di leggende e superstizioni. Tuttavia, sapeva abbastanza
per capire che uno spirito anche debole non prendeva ordini da un umano se
questi non era il suo contraente.
Generalmente, il simbolo del contratto era da qualche parte, ma non era quello
che interessava ad Haruki; se quel tipo aveva controllo sullo spirito appena
svanito, allora perché questi si era scagliato contro di loro?
O doveva aver perso il controllo, o doveva essergli stato ordinato.
«Posso immaginare cosa tu stia pensando» ammise Hide «ma non è quello che
credi.» volle chiarire subito. Anche se si rese conto che suonava persino più
sospetto, in quel modo.
Haruki stava per dirgli che non era così fesso da credergli, quando Chiaki
mosse un passo in avanti, lo sguardo su Hide: «Quello era… il kotodama?» chiese, il tono abbastanza
basso. Haruki portò lo sguardo da lei a lui, sapendo a grandi linee di cosa si
trattasse… e che non gli sembrava ci fossero documenti che attestassero
l’esistenza di una tale dote, tra quelli che aveva in casa e ai quali aveva
dato un’occhiata.
Hide aveva assunto un’aria visibilmente stupita, ma non aveva smesso di
sorridere, anzi.
«Avete del tempo?»
Quando Haruki aveva accettato l’invito di quel ragazzo a seguirlo, dopo essersi
assicurati che Sagara stesse bene e averlo messo su
un taxi, non si era di certo aspettato di ritrovarsi in un ristorantino
discreto ed economico a farsi offrire una porzione di ramen.
Beh, non che lui rifiutasse del cibo, ma insomma: da due giorni a quella parte
gli sembrava di essere finito in un film di animazione di terza categoria che
avrebbe potuto avere come titolo un terribile “Haruki e la scoperta degli amichetti magici”; che cazzo, dopo
quindici anni di youkai e umani
scettici, si ritrovava circondato da gente a dir poco strana e con capacità
assurde o incomprensibili.
Che gli dessero tregua.
«Dunque» prese la parola l’altro «sono sorpreso che qualcuno della vostra età
conosca cose del genere. Anche se forse non siete poi molto più piccoli di me.»
«Oh sì eh, piacere di mio, hai proprio un gran bel nome.» ironizzò Haruki,
guardandolo sbieco; Shiki sicuramente lo avrebbe rimproverato dopo, visto che
al momento non era lì – rimproverato per modo di dire, visto che sapeva essere
più irritante dello stesso Haruki.
Hide invece sbuffò divertito: «Giusto, scusate. Mi chiamo Hideyuki.»
«Hideyuki come?»
«Hideyuki e basta.» ripeté quello, il sorriso ancora sulle labbra «Voglio dire,
ho un cognome, naturalmente. Ma per abitudine non lo comunico a chi è
immischiato con gli youkai. Questione
di abitudine e sicurezza personale. Naturalmente anche voi potete dirmi solo il
vostro nome.» assicurò.
Haruki lo guardò seccato, rivolgendo poi un’occhiata eloquente a Chiaki, dal
momento che le poche volte che lei gli aveva parlato lo aveva sempre chiamato
per cognome, com’era la norma in effetti.
«Haruki.» borbottò, affossando il naso nel menù.
«Io sono Chiaki.» si presentò la ragazza, che sembrava invece ben decisa
riguardo alla propria ordinazione, o semplicemente più interessata a quanto
stava accadendo che non al cibo: «Quanti anni hai, Hideyuki-san?»
«Venti. Voi dovreste essere ancora studenti, giusto?» chiese, ricevendo un
cenno affermativo con la testa da parte di lei.
«Io sono al secondo anno, Ki—Haruki-kun
al primo.»
«Dunque, Chiaki-san» le si rivolse direttamente «cosa sai di preciso del kotodama?» la incalzò, e per un attimo
Haruki fu contento che qualcuno finalmente facesse le domande giuste e senza
girarci troppo intorno. Guardò di sottecchi la ragazza, seduta al suo fianco:
sembrava cercasse le parole adatte, e lui ebbe la fastidiosa sensazione di dejà-vu
della sua spiegazione in aula neanche tre ore prima.
«Si pensa e si crede che il kotodama
sia una sorta di potere insito nelle parole e nei nomi. Si dice che il suono,
articolato in vere e proprie parole, possa influenzare non solo gli oggetti ma
anche il corpo, la mente e lo spirito.» pronunciò lei, mantenendo lo sguardo su
Hideyuki «Credevo però che si trattasse di parole proprie dei rituali, non
avendo mai incontrato nessuno con un potere simile, né documentazioni che
accennassero a qualcosa del genere.» ammise, una nota di quella che sembrava
curiosità.
Haruki non la capiva: certo, era una cosa che sembrava comoda visti anche i
risultati di poco prima, ma aveva imparato che niente di quello che aveva a che
fare con il mondo degli spiriti era senza rischi o senza un prezzo. E voleva
tenersene ben alla larga, per quanto possibile.
«Purtroppo credo di non poterti essere di grande aiuto.» replicò Hideyuki «Quello
che hai detto è corretto, e in effetti rispecchia esattamente quello che riesco
a fare. Solo che l’ho imparato da solo, diciamo con la pratica e per necessità.»
e chiaramente si riferiva all’averlo scoperto “sul campo” «Non ho mai
consultato qualcuno che se ne intendesse. Avrei dovuto spiegare cose
decisamente scomode, per farlo.» concluse, lasciando intendere quali fossero
queste “cose”.
Né Haruki né Chiaki avevano bisogno di chiedere: sapevano entrambi cosa
significasse non poter fare domande sulla propria condizione – entrambi
avrebbero preferito non saperlo, forse.
«Ma già che siamo in argomento» riprese Hideyuki, costretto a interrompersi
mentre il ramen
veniva portato al loro tavolo dalla cameriera «anche voi non mi siete sembrati
proprio sprovveduti. Anche se Haruki-kun attira di
più l’attenzione, senza dubbio.» scherzò su pacatamente.
Non era difficile cogliere l’accenno a Shiki, ma Haruki provò comunque una
sensazione strana: non si era mai trovato nella condizione di dover spiegare
perché un demone lo accompagnasse praticamente ovunque, per il semplice fatto
che nessuno era mai stato in grado di vederlo oltre lui, e non aveva quindi mai
fatto domande. Da qualche parte, dentro di sé, sentiva di essere contento come
se avesse finalmente ricevuto un riconoscimento che gli era stato a lungo
negato; mise subito a tacere quella sensazione, ricordandosi che non c’era
niente di bello in persone come lui che gli chiedessero di parlare di un demone
che potevano vedere in tre. Non avrebbe mai migliorato le cose, non avrebbe
cambiato la sua vita, e sarebbe stato solo qualcosa di passeggero.
Era un contentino, non un riconoscimento.
«È solo un demone rompicoglioni.» tagliò corto, appropriandosi delle proprie
bacchette e prendendo un primo boccone di cibo, rifiutandosi così di parlarne
oltre – non che servisse davvero: era abbastanza chiaro, dal momento che Shiki
non lo aveva ancora mangiato, che fosse suo alleato o almeno gli evitasse di
essere preda degli youkai.
Hideyuki abbozzò un sorriso a metà tra il divertito e il comprensivo, dando ad
Haruki la sensazione di chi aveva capito di non dover fare altre domande. Il
ragazzo spostò lo sguardo su Chiaki, infatti, in un tacito invito a parlare
della sua capacità, qualunque essa fosse.
Fu la prima volta che Haruki scorse in lei qualcosa che somigliava vagamente al
disagio.
«Per la verità non credo si possa definire davvero “capacità”.» esordì lei, le
bacchette nella mano destra e lo sguardo sulla ciotola ancora lì dove la
cameriera l’aveva lasciata: «Ho soltanto studiato delle documentazioni e degli
studi fatti sugli youkai e sui rimedi
usati in passato per allontanarli e renderli innocui.»
«…Che vuol dire che hai studiato?» chiese incredulo Haruki «Hai idea di quanti youkai esistano?! Vuoi farmi credere che
sei un’enciclopedia vivente?» pronunciò come se solo pensarlo fosse assurdo.
«Non a quei livelli. Mi sono concentrata più che altro sulle creature di
livello medio-basso, visto che da quando li vedo non
mi è mai capitato che ce ne fossero di particolarmente violenti. Forse il
demone che è con te è il più forte che mi sia capitato di vedere.» ammise,
prendendo finalmente un boccone di ramen a propria volta.
«Posso chiederti da quando vedi gli youkai,
Chiaki-san?» interruppe lo scambio Hideyuki, il sorriso leggero ancora sulle
labbra e la propria porzione nemmeno sfiorata, l’attenzione totalmente sui due
e nello specifico sulla ragazza.
«Tre anni e mezzo.»
«Strano.» commentò pensieroso «Credevo che questo tipo di capacità si
sviluppasse da bambini.» ammise, cercando conferma in Haruki con lo sguardo.
Lui non disse nulla, ma era d’accordo: per quanto lo riguardava vedeva da
quando era piccolo e, a giudicare dalle parole di Hideyuki, lo stesso valeva
per l’altro.
Si soffermò su Chiaki per qualche istante, tornando poi al proprio cibo.
Lei non commentò le parole di Hideyuki, limitandosi a mangiare e lasciando che
il silenzio animasse il loro tavolo al posto delle chiacchiere che c’erano agli
altri occupati qua e là nel locale. Non era pieno, ma aveva una bella
atmosfera.
«Avete tempo dopo mangiato? O avete il coprifuoco?» richiamò la loro attenzione
il più grande, che aveva iniziato a mangiare a sua volta durante quella pausa «C’è
uno youkai che ho individuato da
qualche tempo e che non ho ancora idea di cosa sia di preciso. Non ha dato
grossi problemi, per ora, ma pensavo che forse sapresti darmi la certezza se
sia o meno innocuo, Chiaki-san.» spiegò.
Haruki aveva notato che il tono di quel ragazzo sembrava costantemente cortese,
come se nulla riuscisse davvero a sorprenderlo o comunque mai abbastanza da
mandarlo nel panico più completo. Iniziava a chiedersi se ad essere strano
fosse lui, che aveva reazioni “nella norma” di fronte a cose che normali non lo
erano affatto, o se lo fossero quei due e lui ne avesse semplicemente viste
troppe poche per raggiungere quella specie di beatitudine perenne che avevano.
A dirla tutta, quel tipo gli puzzava e basta. Anche lei, ma lui di più.
«E che c’entro io, se deve dartela lei la conferma?» fece notare.
«Non suonerebbe sospetto se io invitassi una ragazza e per di più studentessa
in casa mia? Sospetto e sconveniente.» spiegò con naturalezza, spiazzando tanto
lei quanto lui; Haruki sentì il viso accalorarsi – cioè lo sapeva cosa facevano
un maschio e una femmina insieme da soli, in certe situazioni, però la faccia
di bronzo con cui quello lì lo accennava era allucinante!
«Perché invece se siamo due maschi non è anche peggio?!» sbottò, imbarazzato.
Hideyuki ridacchiò: «Ho pensato semplicemente che con un amico si sarebbe
sentita meno a disagio.»
«Noi non siamo amici.» tagliò corto «Stiamo nella stessa scuola e basta.»
«Oh. Questo è un problema, allora. Tu che ne dici, Chiaki-san?» si rivolse a
lei, che non si era ancora pronunciata sulla questione.
La osservarono mandare giù un boccone di ramen, prima di guardare
Hideyuki: «Lo youkai non è mai uscito
da casa tua, Hideyuki-san?»
«Non che io sappia. Ma sono fuori per buona parte della giornata, quindi non è
da escludere che lo faccia ma io non lo abbia mai visto. Lo trovo in casa
quando torno ed è ancora dentro quando vado via.»
«Che aspetto ha?»
«Se fossi stato in grado di descrivertelo non ci sarebbe stato bisogno di
chiederti di passare dall’appartamento. Ho visto sempre e solo un occhio.
Diciamo che mi spia o qualcosa del genere. Non mi ha mai fatto nulla, ma per
quel poco che ne so potrebbe stare aspettando e basta.»
«E non ti si è mai avvicinato?» chiese, perplessa.
Hideyuki tacque per qualche istante, facendo mente locale: «Mai mentre ero
sveglio, di questo sono sicuro.» rispose infine.
Haruki teneva lo sguardo su entrambi, il volto leggermente girato perché anche
Chiaki rientrasse nel suo campo visivo: non stava davvero pensando di andare
nella casa di uno sconosciuto e, per di più, dove sembrava esserci uno spirito
sconosciuto, vero? Non poteva essere così stupida. Che gentiluomo.
«Shiki vaffanculo.» sibilò a mezza bocca, attirando
gli sguardi curiosi degli altri due «Lasciate perdere, tornate a parlare per
fatti vostri.» borbottò, risparmiandosi la fantastica spiegazione “il demone mi
parla nella testa quando non mi delizia con la sua inopportuna presenza”, che
di sicuro lo avrebbe fatto sembrare del tutto normale, certo.
«Hideyuki-san, domani pomeriggio hai qualcosa da fare?» domandò quindi Chiaki,
tornando a rivolgersi al più grande, che scosse la testa: «Solo fino alle tre.»
«Andrebbe bene se passassi dopo la scuola? Non ho attività del club, quindi non
sarebbe troppo tardi.» aggiunse.
«Non ci sono problemi. Haruki-kun?»
«Se non avrò da fare. Ma ve lo dico subito, io non mi immischio nelle faccende
degli youkai se non è per lavorare.»
tagliò corto, dedicandosi al brodo del suo ramen.
Anche gli altri due ripresero a mangiare.
Sbuffò sonoramente, mantenendo lo sguardo davanti a sé, pur avendo Chiaki che
gli camminava di fianco. Sapeva bene di essere andato di propria spontanea
volontà, ma ancora non gli andava giù; si era dato come scusa il fatto che
incontrare qualcuno come lui era un’occasione troppo rara per non sfruttarla,
ma a dire il vero non ci credeva molto. Shiki non aveva commentato,
stranamente, e dormiva da quella mattina.
«Ci saresti davvero andata da sola?» chiese a bruciapelo, dopo interminabili
minuti di silenzio da quando avevano lasciato l’edificio scolastico.
«Sì.»
«Sei stupida?» sbottò lui, affossando di più le mani nelle tasche del
giacchetto sopra la divisa. Va bene essere strani, ma quello della ragazza si
chiamava “non avere senso pratico” o “non avere istinto di sopravvivenza” (o
entrambi).
«Se c’è uno youkai, voglio vedere di
cosa si tratta.» spiegò brevemente lei, senza guardarlo.
Haruki sbuffò di nuovo: «Che ci troverete di bello. Più mi stanno alla larga,
più ne sono contento.»
«Probabilmente è perché li hai sempre visti, Kirihara-kun.» rifletté ad alta
voce lei, sistemandosi la sciarpa attorno al collo. Haruki alzò un
sopracciglio.
«Che dovrebbe significare? E poi non usare il cognome e il nome a caso, o uno o
l’altro. Tanto sei pure più grande di me.» e lui non era esattamente attaccato
alle formalità, anche se si notava senza bisogno di specificarlo.
Chiaki si voltò nella sua direzione, quasi per accertarsi che nelle parole ci
fosse stato un reale permesso: «…Haruki-kun, allora.»
decretò, tornando a guardare la strada «Hideyuki-san lo ha detto, che di solito
si vede fin da bambini. Ma per me non è stato così. Forse pensi che gli youkai siano fastidiosi perché li vedi
da molti più anni di me.» chiarì meglio quanto detto poco prima, voltando un
angolo secondo le indicazioni che Hideyuki gli aveva lasciato la sera prima.
«No, penso che siano fastidiosi perché lo sono. Li odio.»
«Tranne Shiki-san?»
«Odio anche lui, ma devo portarmelo dietro comunque. E cos’è quel –san, non è
nemmeno umano e di certo se ne frega se anche non aggiungi uno stupido
onorifico al suo nome.» puntualizzò. A Chiaki sembrava irritato, anche se non
al punto da scoppiare; non ne comprendeva bene il motivo, a dire il vero, a
parte l’antipatia per gli spiriti.
«Sei tu che sei strana. Sembra quasi che tu gli youkai te li vada a cercare.» commentò, ricevendo in risposta il
silenzio. Non poteva sbilanciarsi visto che quella era sì e no la quinta volta
che parlavano, volendo essere buoni e includendo l’incontro con lo spirito lanterna
e la conversazione in corso, ma aveva l’impressione che a volte l’altra si
isolasse completamente alla ricerca di chissà quale verità della vita da
propinare come risposta.
«Siamo arrivati.» disse lei, fermandosi e controllando il foglietto tra le mani
«Dovrebbe essere il primo appartamento sulla destra una volta salite le scale.»
aggiunse, osservando il condominio davanti a loro. Era una di quelle
costruzioni vecchie, dove generalmente si affittavano camere agli studenti
universitari, l’affitto accessibile per una stanza spesso singola o poco più
grande. Haruki storse il naso, salendo le scale con lei, fino a ritrovarsi di
fronte alla porta; sbirciò il campanello, ma non c’erano targhette. Forse era
di quei condomini dove la disposizione delle stanze era da richiedere al
portiere o al proprietario.
Chiaki suonò il campanello, e dopo pochi istanti la porta si aprì rivelando
Hideyuki, che li accolse entrambi con un sorriso facendosi da parte perché
entrassero. I due si fecero avanti con un “permesso” appena accennato.
«Vi va del tè?» chiese, osservandoli mentre si toglievano le scarpe.
«No, grazie.»
«Anche io sto bene così.» disse Chiaki «Tutto bene, Hideyuki-san?»
«Sì, tutto bene. Stamattina ho avuto una sorpresa, ma niente di pericoloso,
credo.»assicurò, incuriosendo entrambi e invitandoli ad entrare del tutto
spostandosi nella stanza più ampia. Era pulita e ordinata, seppure un poco
spoglia; l’unica cosa che saltò all’occhio furono delle piccole impronte
grigiastre.
«Le ho trovate stamattina quando mi sono svegliato. Pensavo fosse uno youkai che tentava di avvicinarsi mentre
dormivo, ma sono per tutta la stanza e penso che se avesse cattive intenzioni
mi avrebbe, non so… già strangolato?» azzardò, con un mezzo sorriso.
Evidentemente non era affatto preoccupato – anche se avrebbe dovuto.
«Non ho notato altre particolarità, sinceramente, non più del solito.» riprese,
adocchiando l’armadio e facendo loro un lieve cenno con la testa in quella
direzione. Guardando, notarono che era accostato e non del tutto chiuso: Haruki
si avvicinò, ma non fece in tempo a poter sbirciare dentro che quello si chiuse
con un colpo secco.
Pure lo spirito timido, ci mancava.
«Che ne dici, Chiaki-san?»
«Mh… Hideyuki-san, questo è sempre stato un
condominio?» chiese, l’espressione pensosa; Haruki, osservandola, si immaginò –
in maniera forse infantile e un po’ grottesca, ma che rendeva l’idea – una
specie di grande archivio fatto di cassetti in cui il cervello di quella
ragazza andava ricercando il fascicolo giusto dello youkai in questione.
Si diede del demente, perché non credeva che in natura una cosa del genere
fosse davvero possibile.
«Non credo, voglio dire, è molto vecchio ma immagino sia stato costruito in
epoca relativamente moderna.» replicò lui, e sembrava che avesse difficoltà a
seguire il ragionamento di Chiaki, cosa che fece sentire Haruki meno stupido.
La maggior parte di quello che diceva la ragazza gli risultava incomprensibile.
«Perché, hai qualche idea?»
«Forse, solo che da quanto ne so si tratta di uno youkai che di solito occupa case molto grandi e anche datate,
immagino. Non combacia molto con la tua stanza, Hideyuki-san. A meno che non
fosse qui da prima che questo posto diventasse un condominio.» azzardò lei.
«Scusate» esordì con tono scocciato Haruki «e se invece che fare tutte queste
supposizioni aprissimo l’armadio e basta?» fece notare, come se fosse una cosa
ovvia che per motivi ignoti nessuno avesse preso in considerazione: «Tanto se
avesse voluto maledirti lo avrebbe già fatto.» aggiunse, rivolto a Hideyuki.
«Non è detto. Penso sia un po’ troppo rischioso visto che non sembra
intenzionato a uscire da lì.»
«Sarà, ma io non avverto una brutta sensazione, quindi è probabile che non
abbia cattive intenzioni. Non ai livelli di maledizioni e roba varia, almeno.» commentò.
Lui era un po’ scavezzacollo, era vero, ma non al punto da rischiare di farsi
ammazzare e chissà quanto avrebbero impiegato quei due con tutte le loro
considerazioni; non voleva passare lì il resto della giornata per una roba di
poco conto.
«Riesci persino a capire le loro intenzioni? Devi essere piuttosto sensibile, Haruki-kun.» commentò Hideyuki – Haruki non capì se lo
stesse prendendo per il culo o meno, ma decise che per una volta poteva mandar
giù un insulto senza per forza rendere partecipi i presenti.
«Hai presente che giro con un demone? Ho un concetto di “aura maligna” un
pelino più concreto delle vostre supposizioni.» ribatté, voltandosi verso l’armadio
e facendolo scorrere, senza alcun preavviso né altro.
Si ritrovò gambe all’aria, un’ombra che era schizzata fuori investendolo quasi
in pieno e che si nascondeva ora dietro Chiaki.
La ragazza rimase immobile, e per una manciata di secondi lo fu l’intera stanza
e ogni suo occupante; tranne l’ombra, che lei sentì tremare appena contro le
proprie gambe.
A giudicare dalle espressioni di Hideyuki e di Haruki, alle sue spalle sembrava
non esserci niente di spaventoso – almeno all’apparenza, che non sempre era
indicativa però.
Girò appena il collo, per poter sbirciare da sopra la propria spalla: la figura
dietro di lei aveva le fattezze di una bambina a cui non avrebbe dato più di
sei o sette anni. L’unica particolarità era il suo vestiario, non tanto perché
indossasse uno yukata
estivo – per quanto in pieno inverno fosse del tutto fuori stagione – quanto
perché era piuttosto consunto, da quel che vedeva.
Provò a muoversi di un paio di passi lateralmente, ma sentì la figura dietro di
lei attaccarsi al lembo della sua giacca e seguirla nello spostamento; tentò di
nuovo, e si verificò la stessa cosa.
«Che diamine…?» tentò Haruki, fissandola.
«Credo sia uno zashiki-warashi.»
decretò infine Chiaki, tenendo d’occhio ora l’uno, ora l’altra.
«Non sono gli spiriti bambini?» chiese Haruki, perplesso. Lei annuì: «Non
esattamente, ma li chiamano spesso così. Sono youkai che hanno l’aspetto di bambini e un comportamento molto
simile. Fanno dispetti semplici, che di solito non causano danni seri alle
persone né le feriscono. Però si trovano in grandi case e soprattutto ben
mantenute, quindi non capisco perché sia qui, a dire il vero.» ammise,
osservando ora Hideyuki.
«Forse ha perso qualcosa?»
«Non credo.» disse lei, scuotendo appena la testa: «Gli zashiki-warashi sono creature che portano fortuna alla casa che
abitano e sfortuna quando l’abbandonano, per dirla in termini molto semplici. Ma
non si legano a degli oggetti, semplicemente se ne vanno se trascurati o se
troppo curati.» spiegò con la solita calma.
Hideyuki annuì un paio di volte, provando ad avvicinarsi: si piegò sulle
ginocchia, in modo da essere ad un’altezza simile a quella dello youkai, ma non appena provò ad allungare
una mano in sua direzione, quello si ritrasse, stringendo ancora di più la
giacca di Chiaki.
«Forse non gli piaccio perché non sono il padrone di casa?» azzardò, con un
mezzo sorriso.
«Non lo so.» ammise Chiaki «Tecnicamente non sei il padrone del condominio,
Hideyuki-san, ma se non si sposta mai dalla tua stanza allora si può
considerare che il padrone sia tu. In ogni caso c’è un’altra cosa che non
capisco.» proseguì, per poi tacere e allungare lentamente una mano; forse si
aspettava anche lei che lo youkai si
ritraesse, perché quando invece riuscì a sfiorare la testa, Haruki la vide
aggrottare la fronte confusa.
«Cosa?» la incalzò quindi, senza staccare gli occhi dallo spiritello – poteva
sembrare innocuo quanto voleva, ma aveva imparato che era sempre meglio non
fidarsi che farlo e rischiare un arto nel migliore dei casi.
«Per quanto ne so, gli zashiki-warashi
risultano visibili solo agli abitanti della casa che occupano e, raramente, ai
bambini piccoli. Quindi non ho idea del perché noi riusciamo a vederlo, adesso.»
Quel giorno, incapaci di trovare una spiegazione o una soluzione, sia Chiaki
che Haruki erano rientrati lasciando lo youkai
lì con Hideyuki; appurato che non sembrasse avere cattive intenzioni – specie
considerando che era passato dal nascondersi dietro la ragazza al tornare
chiuso nell’armadio –, i due si erano congedati. Chiaki aveva assicurato che
avrebbe dato un’occhiata ad alcuni documenti che erano in casa e così aveva fatto,
ma non aveva trovato indicazioni che spiegassero per quale motivo tutti e tre
vedessero quello spirito.
Forse, si era detta, era dovuto semplicemente al fatto che tutti e tre vedevano
gli youkai in generale; eppure era
ben consapevole che la sua vista e quella di Haruki fossero diverse, non solo
perché una si era sviluppata nell’infanzia e l’altra no.
«Hiiragi-san?» fu distratta, sentendo una mano posarsi gentilmente sulla sua
spalla. Alzò lo sguardo, ritrovandosi a guardare negli occhi Endou, una delle
sue compagne; intravide dietro di lei, vicine alla porta dell’aula, Takahashi – della loro classe – e una ragazza della sezione
accanto con cui entrambe parlavano spesso.
Tornò con l’attenzione su Endou: «Scusami, mi ero distratta.» disse, un sorriso
leggero verso di lei che scosse la testa allontanando la mano.
«Non preoccuparti. Vieni a pranzare in cortile con noi, Hiiragi-san?» chiese,
il tono entusiasta. Endou era una ragazza minuta, ma un concentrato di energie,
la classica ragazza che sembrava sempre un po’ bambina e che riusciva a
strapparti un sorriso in ogni occasione. Era spontanea e Chiaki non ricordava
una sola volta in cui non le si fosse rivolta in quel modo, l’aria allegra e il
fare semplice.
«Ti ringrazio dell’invito, ma non posso.» replicò «Devo passare a consegnare un
libro che ho preso in prestito e prenderne un altro, non vorrei impiegarci
troppo e rovinarvi la pausa.» aggiunse, stringendosi appena nelle spalle e
abbozzando un sorriso dispiaciuto.
«Oh, non preoccuparti! Se vuoi raggiungerci, però, siamo giù.» aggiunse,
raggiungendo le due sulla soglia e avviandosi.
Attese qualche momento, per poi recuperare un libro e il bentou dalla cartella, abbandonando la classe a propria volta.
«Devo riconsegnare un
libro, eh?» le fece eco Shiki, cogliendola evidentemente di sorpresa – era
assorta nei propri pensieri ma, soprattutto, non si era aspettata nessun altro
lì sulla terrazza. Nessuno che la approcciasse in quel modo, almeno.
Alzò lo sguardo, individuando il demone senza troppe difficoltà. La osservava divertito,
quasi curioso: a Chiaki ricordò il fare di un felino che dopo aver intrappolato
la preda non faceva che giocarci finché quella non smetteva di cercare invano
una via di fuga.
«Pensavo che tu fossi sempre insieme ad Haruki-kun.»
osservò, mettendo da parte il libro che aveva sì portato con sé, ma unicamente
per leggerlo.
«Io invece pensavo che tutti gli umani cercassero la compagnia degli altri
umani. A parte Haruki, ma lui è un caso speciale.» commentò distrattamente,
senza interrompere il contatto visivo: «Sai cosa penso? Che forse a te gli umani
non piacciono poi tanto.»
Chiaki tacque. Era vero che aveva detto, nell’infermeria e in aula, che solo
perché non era amica di qualcuno vittima di uno youkai non significava che potesse far finta di nulla; e aveva
anche rivolto una domanda specifica a Shiki, ossia se sarebbe rimasto a
guardare di fronte a uno spirito in difficoltà solo perché non gli andava
particolarmente a genio.
Era convinta, però, che il demone non si riferisse unicamente a quello: parlava
con la sicurezza di chi aveva osservato a lungo un comportamento per poterlo
decifrare.
Si sentì fastidiosamente a disagio.
«Non direi che non mi piacciono.» affermò, inspirando lentamente.
«Però li eviti.» disse lui con sorriso beffardo, facendosi più vicino tanto che
il suo viso era ben poco distante da quello di lei; Chiaki deglutì, non
potendoselo evitare. Non era tanto la vicinanza a darle fastidio, quanto la
sensazione di venire schiacciata e che era certa fosse dovuta alla natura di
Shiki.
«Non è crudele, da parte tua? Hai dovuto anche mentire.»
«Non è più crudele quello che stai facendo tu, Shiki-san?»
ribatté, non esattamente a tono, ma assottigliando lo sguardo. Non capiva dove
volesse andare a parare, né cosa interessasse a lui dei suoi scarsi rapporti
sociali con le compagne di classe.
«Oh? Ma allora te la prendi per qualcosa, ogni tanto. Qualcosa che non abbia a
che fare con gli youkai.» osservò,
fingendo che fosse casuale: «Persino Haruki è confuso da quello che fai. Anche
se ovviamente non lo dice, perché in fin dei conti non è poi così importante
come ti comporti, dal momento che non siete amici né niente di simile. Ma io
sono più curioso di lui, e soprattutto più interessato a saziare la mia
curiosità. D’altra parte, le persone che vedono
di solito sono allontanate dagli altri ma non sono le prime ad allontanare.»
mormorò, sibillino.
Chiaki si chiese se era questo che si provava di fronte alle tentazioni dei
demoni: la sensazione di qualcosa che ti si insinuava dentro anche se non
volevi, consumandoti e piegando la tua volontà come se tu non stessi nemmeno opponendo
resistenza.
«È vero che non sono a mio agio con le persone.» iniziò, mantenendo lei stessa
il contatto visivo «E che, forse, sono più a mio agio con gli spiriti. Non
importa se tu o Haruki-kun non ne capite il motivo,
visto che non penso di dover dare spiegazioni a nessuno dei due. E ti sarei
davvero grata, Shiki-san, se tu ora ti allontanassi.»
concluse. Era sicura di non aver mascherato del tutto il proprio disagio dato
dalla sua presenza, ma non voleva nemmeno parlare di una cosa tanto personale
con qualcuno che nemmeno conosceva: non erano affari che riguardavano né il
demone, né Haruki, né Hideyuki. Si erano conosciuti per puro e caso e, per
quanto ne sapeva, avrebbe potuto smettere di incrociarli in qualsiasi momento.
Non doveva spiegazioni.
Assolutamente no.
«Non sei affatto divertente.» si lamentò il demone, rimanendo esattamente
dov’era – per dispetto, suppose «Non trovi che sia particolarmente stupido per
un’umana immischiarsi nelle faccende degli spiriti solo perché non sa
rapportarsi con quelli della sua specie? Magari è proprio perché hai a che fare
con creature simili che ti succede questo, ci hai mai pensato?» rincarò la
dose.
Non guadagnava nulla da quella conversazione, se non un proprio personale
divertimento e allontanarla da Haruki; era conscio di un proprio desiderio di
monopolizzazione del ragazzo e non si sentiva di certo turbato dalla cosa: era
un demone e Haruki era la sua preda. Non era contemplato che qualcuno – fosse
Chiaki, quell’Hideyuki o chiunque altro – influenzasse quell’anima che a Shiki
tanto piaceva.
«…Mi stai dicendo che anche se li vedo, non ho il diritto di mettermi in mezzo?
O che solo chi è maledetto come Haruki-kun può farlo?»
chiese lei a bruciapelo, il tono così basso che forse Shiki non avrebbe sentito
nemmeno a quella distanza, se solo fosse stato umano.
Sorrise, ferino: dunque sapeva perfino della maledizione.
Si accostò ancora di più, deviando dal viso della ragazza e spostandosi vicino
al suo orecchio.
«Tu sai e vedi davvero un po’ troppe cose, per i miei gusti.»
Note 1. Ramen: tipico piatto giapponese (di origini cinesi) a base
di tagliatelle di tipo cinese di frumento, servite in brodo di carne o di
pesce, spesso insaporito con altri ingredienti.
2. Yukata:
un indumento estivo tradizionale giapponese, generalmente indossato durante gli
eventi estivi. È un tipo di kimono molto informale, indossato anche negli
alberghi dopo il bagno.
La frase in apertura è
della canzone “Ebb and Flow” (Ray), seconda opening dell’anime
Nagi no Asukara.
The longer I stand here, the louder the
silence.
I know you’re gone,
but sometimes I swear that I hear your voice when the wind blows.
Shiki continuava a
fissarla. Nel suo sguardo c’erano molte cose che a Chiaki sembrava di conoscere
bene – il divertimento di fronte a una situazione inaspettata ma curiosa, il
leggero fastidio di chi era geloso anche dei propri pensieri, l’indecisione di
quando si hanno due possibilità ugualmente stimolanti ma non si riesce a
decidere tra esse –, eppure al tempo stesso le sembrava di vedere un viso
impossibile da decifrare.
Immobile e ancora nella stessa posizione, pensò che forse era in quelle piccole
sfumature che persino un demone dall’aspetto tanto simile a un umano si
rivelava per ciò che era. Era come se le emozioni di Shiki fossero
incontenibili e sfuggissero al controllo altrui, investendo chi lo circondava
come un’onda anomala che non può essere fermata né trattenuta.
Si chiedeva cosa passasse nella mente di un demone in momenti come quello: forse
stava decidendo se valesse la pena – o se fosse necessario – ucciderla,
liberandosi di qualcuno di scomodo. Ma, sebbene non riuscisse a pensare con
lucidità in quella situazione, era abbastanza sicura di non avere una tale
importanza da risultare “scomoda” a un essere che avrebbe impiegato meno di una
manciata di secondi a liberarsi di lei.
Lo vide sbuffare e ritrarsi, l’aria seccata ma non intenzionato a farle del
male.
Almeno per il momento.
«Se non fosse un’immensa seccatura toglierti di mezzo non staremmo nemmeno qui
a parlarne.» chiarì, guardandola. Chiaki non si era nemmeno accorta di essere
tanto nel panico finché, con Shiki lontano, non aveva ripreso a respirare –
rendendosi conto di aver trattenuto il respiro fino a quel momento.
«Generalmente gli umani mi piacciono abbastanza, ma su di te non saprei
pronunciarmi.» continuò, come se non fosse realmente necessaria la partecipazione
di lei in quel discorso: «Come sai che Haruki è maledetto?»
«L’ho sentito.» ammise Chiaki dopo qualche istante; Shiki doveva essersi
aspettato qualcosa di diverso, che lo avesse letto da qualche parte, scoperto,
intuito magari.
«Quando ci siamo incontrati la prima volta, tu e Haruki-kun stavate seguendo un
chochinobake, ricordi?»
Shiki annuì, sistemandosi a gambe incrociate di fronte a lei.
«Quella è una strada che faccio abbastanza spesso. Quando sono passata di nuovo
lì, c’erano alcuni youkai che ne
parlavano e dicevano che “quella notte il ragazzino maledetto aveva preso la
lanterna”. Ho pensato che non dovessero esserci molti altri ragazzini del
genere a parte lui. Anche se non so di che maledizione parlassero: ho
immaginato si riferissero a te.»
«Grazie tante, ti sembro una maledizione?»
«Non lo sei?»
Non era la prima volta che Shiki lo notava, ma la ragazza aveva il vizio di
ribattere alle domande ponendone lei stessa. Era anche interessante, in un
certo senso, ma ciò che gli sfuggiva era perché solo in quei momenti l’umana
sembrasse non avere timore. O non essere proprio toccata da sentimenti quali la paura – poi però, come poco prima,
la sentiva quasi le scorresse nelle vene insieme al sangue.
A prescindere da quello, comunque, non aveva intenzione di fare il bravo e
risponderle.
«Questo è un segreto mio e di Haruki.» pronunciò, un sorriso quasi ammiccante e
il tono di chi sta insinuando qualcosa senza nemmeno accertarsi di non essere
scoperto mentre lo fa.
«Tu piuttosto? Non dovresti preoccuparti di recitare meglio la tua parte?»
domandò, mentre Chiaki iniziava a raccogliere le sue cose. Non gli sembrava che
avesse finito il suo pranzo, né di leggere il libro che aveva con sé; era
facile intuire che il suo fosse un tacito modo di allontanarsi da lui e dal
loro discorso.
«Comunque non mi interessa cosa fai con gli altri umani. Ma non metterti in
mezzo. Forse quelli della mia specie ti trovano curiosa, ma se provi a cercare
un modo per togliere ad Haruki quella che pensi sia una maledizione… allora non
esiterò a farti passare la voglia.» minacciò, il sorriso che gli incurvava le
labbra che non si estendeva anche gli occhi, creando così un’espressione che la
bloccò lì sul posto.
Inspirò. In fondo, Shiki aveva ragione: non erano affari suoi.
Dire di non essere rimasta
sorpresa quando, alla fine delle lezioni, aveva intravisto per puro caso Haruki
che si affacciava dalla porta avrebbe significato mentire. Dopo la
conversazione con Shiki era più che convinta che il demone avrebbe intimato al
ragazzo di starle lontano; forse era lì per dirle che sapeva cosa si erano
detti? O per rincarare la dose in merito a non impicciarsi dei fatti suoi?
«Hiiragi-san!» verso il suo banco si stava dirigendo Endou, un ampio sorriso
sulle labbra; le si avvicinò tanto da poter abbassare la voce ed essere
comunque ben udibile: «Quello alla porta non è Kirishima-kun?» domandò
incuriosita, ma Chiaki notò che almeno a giudicare dal tono non sembrava
esserci nessuna insinuazione di fondo. Somigliava più che altro a un’amica che
ti chiede con fare complice cosa c’è tra te e un compagno con cui ti vede
parlare spesso.
«Sì. Perché?»
«Credo ti stesse aspettando, ha chiesto di te!» replicò lei divertita, senza
nasconderlo minimamente.
Chiaki poteva immaginare che idea si sarebbero fatti di lì a poco i compagni
che avessero fatto caso al ragazzo, ma non lo riteneva troppo grave: non aveva
nessuno che le piacesse al punto da temere i malintesi.
«Ti ringrazio per avermi avvis—»
«Ohi, Chiaki, muoviti.» sbottò Haruki dalla soglia, impaziente. Probabilmente
si era reso conto di essere al centro dell’attenzione, che stesse in silenzio o
meno.
Sospirò piano, mettendo nella cartella gli ultimi quaderni e raggiungendolo,
con un semplice cenno della mano a Endou; una volta uscita, quasi poté
immaginare il brusio in classe.
«Ti serve qualcosa?» domandò, osservando Haruki che camminava con una mano in
tasca e l’altra a reggere la cartella, poggiata sulla spalla. Chiaki non era
ancora riuscita a capire quanto l’altro facesse volutamente lo sbruffone e
quanto, invece, lo fosse sul serio.
«Non dobbiamo andare da Hideyuki?» le fece eco l’altro, perplesso.
«…Giusto. Lo zashiki-warashi.»
rifletté lei. Non le capitava spesso di distrarsi da un caso che aveva a che
fare con gli youkai, ma aveva dato
così per scontato che Shiki avesse parlato con Haruki e che quest’ultimo fosse
venuto per chiarire ulteriormente la situazione, che l’accordo a trovarsi nel
pomeriggio da Hideyuki le era del tutto passato di mente.
Aveva trovato poco e nulla, per essere sincera: quasi solo conferme di quanto
aveva già detto agli altri due, e nessuna novità su insospettabili intenti
omicidi di uno spirito tutto sommato innocuo. Non aveva potuto fare ricerche
sul perché sia lei che Haruki, pur non essendo padroni di casa
nell’appartamento di Hideyuki, vedessero comunque lo spirito. Aveva tentato di
dare per scontato che la vista di Haruki, in quanto autentica, fosse la ragione principale per quel che lo riguardava;
ma lei? Lei non vedeva per dote naturale. Forse le due cose non erano affatto
collegate.
Magari, anche se non era attestato, lo zashiki-warashi
poteva decidere autonomamente a chi mostrarsi e solo i bambini a volte ci
riuscivano anche se non erano scelti.
«Lo stai facendo di nuovo.» sbottò Haruki, alzando un poco il tono e dando un
colpetto agli armadietti all’ingresso dove non si era nemmeno accorta di essere
arrivata. Sbatté un paio di volte gli occhi e lo guardò, confusa: «Fare cosa?»
«Chiuderti in quel silenzio inquietante in cui non so mai se stai pensando che
hai scordato un quaderno a scuola o ai mille modi di uccidere e torturare youkai, che spero non siano comunque
applicabili alle persone, visto che ultimamente sto sempre con te.» commentò.
Fu più forte di lei, e non tentò nemmeno di nasconderlo – non che servisse:
portò una mano a coprire la bocca, uno sbuffo divertito che si trasformò quasi
subito in un ridacchiare leggero.
Nemmeno Haruki se l’era aspettato, a giudicare dalla faccia che fece quando se
ne accorse.
«Non ho mai detto che conosco “mille modi di uccidere e torturare youkai”.» fece presente, cambiandosi le
scarpe e mettendo a posto quelle che aveva indossato fin lì.
Haruki approfittò di dover fare lo stesso per darle le spalle: «Che ne so, dici
che studi un sacco di roba del genere.»
«Ho studiato solamente i tipi di spiriti che potevo trovare anche qui e i
metodi base per difendermi o impedirgli di fare del male alle persone. Ma non
ho capacità per esorcismi o simili, quindi non ho studiato troppo in là i
rituali. Non sarei comunque in grado di applicarli, forse.»
«Quel forse è inquietante.»
«Credevo volessi dirmi di starti lontana o qualcosa del genere.» disse, anche
se non sapeva bene perché. Non aveva particolare interesse a interagire con
Haruki, per quanto le sue capacità le sembrassero quasi un segno del dover
avere a che fare con lui. Ma la vista
sarebbe potuta essere un dono di chiunque e sarebbe stato lo stesso, tanto che tra
lui e Hideyuki non trovava differenze in quel senso.
Non era questione né di preferirne la compagnia, né di non voler essere odiata.
Aveva solo la sensazione che Haruki, nei limiti del possibile, fosse sempre
immancabilmente sincero. Si sentiva in colpa, a mentire a una persona così.
«Perché mai?»
«Perché ho parlato con Shiki-san, e immaginavo te lo
avesse riferito.» spiegò lei, iniziando a muoversi verso l’uscita.
«Lo ha fatto.» chiarì lui quando l’affiancò, senza fermarsi ma proseguendo per
uscire e incamminarsi verso casa di Hideyuki: «Più o meno. Potrebbe non avermi
detto tutto. Non farti l’idea di due persone molto amiche che si dicono ogni
cosa perché non è affatto così. Specialmente se non rivelarmi i dettagli è una
cosa che finisce col divertirlo.» si fece seccato, su quell’ultima parte, ma
non sembrava arrabbiato.
«Quindi ti ha detto che so che sei maledetto?»
«Sì, ma che non hai idea di quale sia la maledizione. Ma non è questo granché:
è ovvio che se vedo cose del genere o che se mi porto dietro un demone, tanto
normale non posso essere. Non che tu sia messa meglio di me comunque,
maledizione o non.»
Chiaki non era sicura che fosse un’offesa, anche se di sicuro non era nemmeno
un complimento. Si limitò a tacere, continuando a camminare.
«Non mi chiedi niente?»
«No. Shiki-san dice che è un segreto tra te e lui.»
«E ti fidi?»
«Non è per fiducia. Penso solo che ci siano cose che non vuoi dire, e in fondo
io non ho davvero bisogno né il diritto di saperle. Va bene, visto che ci
conosciamo appena.» spiegò, senza approfondire troppo la cosa.
Avrebbe voluto dire che capiva, perché anche se la portata dei loro segreti era
diversa, lei – come tutti – aveva cose di cui non voleva parlare né con le persone
care, né con le altre. Seppure lei e Haruki fossero stati amici di vecchia data,
pensava, non sarebbe stata comunque in grado di dirgli nulla.
Haruki inspirò lentamente, cercando di calmare la fastidiosa sensazione di un
mal di testa feroce insieme alla nausea di chi soffriva di mal d’auto e aveva
appena fatto dieci minuti ininterrotti di curve.
Impiegò diversi secondi per riuscire a fare mente locale, uscire da quello
stordimento in cui nemmeno capiva bene dove fosse, e rimettere insieme gli
ultimi avvenimenti. Lui e Chiaki erano arrivati fino a casa di Hideyuki, di
questo era sicuro: lui li aveva fatti accomodare, aveva offerto loro il tè e
Haruki aveva passato cinque minuti buoni in silenzio mentre Chiaki e l’altro si
scambiavano opinioni in base a quello che la ragazza aveva letto su alcuni
documenti. Non che ci fossero stati sviluppi inattesi.
Non ricordava bene secondo quale logica si fosse arrivati a tentare un secondo
contatto con lo youkai nell’armadio,
ma alla fine era sembrata l’unica cosa da fare e fino ad un certo punto Haruki
era anche abbastanza sicuro che non ci fossero stati intoppi.
Ma poi…?
«Haruki, stai bene?» sentì chiedere alla propria sinistra e alzò lo sguardo,
ancora un po’ intontito, trovando Hideyuki al proprio fianco. Annuì più per
riflesso che altro: «Perché sembra come se un camion mi avesse investito?»
borbottò, mettendosi a sedere più composto – riuscì finalmente a distinguere
l’ambiente dell’appartamento di Hideyuki e a inquadrare, davanti a sé, Chiaki.
Era seduta e sveglia, ma non aveva l’aria di chi stava bene.
«Non ci pensare.» lo anticipò Hideyuki «La tua sensazione di essere finito
sotto un camion è il risultato di un tentativo di avvicinarti a Chiaki.»
«…Eh?» ribatté, sicuro di non avere un’espressione molto intelligente al
momento, mentre qualcosa tornava in modo piuttosto frammentario a farsi strada
nei suoi ricordi.
Armadio, spirito, e poi… poi cosa?
«C’è un secondo youkai. Temo abbia
posseduto Chiaki.» parlava lentamente, il tono grave ma calmo; Haruki sgranò
gli occhi, non capendo come potesse essere tanto tranquillo. Fece per mettersi
in piedi, ma una mano di Hideyuki poggiata sulla sua spalla lo trattenne.
«Che diamine stai facendo?!»
«Non ho idea di quale youkai sia, non
so come tirarlo fuori da lì e anche se usassi il kotodama rischierei di farle del male senza volere. A me sembra più
sensato cercare di capire che cosa stia succedendo. A meno che tu non riconosca
uno spirito a vista.» insinuò, in un’ironia piccata e leggera, diversa da
quella strafottente di Shiki o da quella seccata dello stesso Haruki.
Digrignò i denti: non ne sapeva un accidente di possessioni, e l’unica che
sarebbe servita con tutte le sue stupide nozioni era la posseduta.
«Porca merda.»
«Avverto il bisogno di liberarla solo per dirle “te lo avevo detto di stare
lontana dagli youkai”.» proruppe la
voce di Shiki, che l’istante dopo era materializzato al fianco di Haruki.
Sembrava annoiato per qualcosa che aveva previsto, e seccato perché consapevole
che avrebbe perso tempo prezioso.
«Sai di quale spirito si tratta?» lo interrogò Hideyuki, portando lo sguardo su
di lui. Era la prima volta, o almeno Haruki non ne ricordava altre al momento,
in cui quel ragazzo si rivolgeva direttamente a Shiki; al di là della sorpresa
– che ultimamente era sempre minore – nel vedere un essere umano parlare con lui,
ad Haruki ricordò vagamente la calma con cui la stessa Chiaki parlava con
Shiki. Lei aveva un modo più “impersonale” di rivolgersi al demone, come se
parlare con lui o con un umano non facesse alcuna differenza. Hideyuki invece
era come qualcuno che non può e non vuole avvicinarsi al fuoco perché sa che
brucia, ma che non è spaventato dalla fiamma o dal dolore che essa potrebbe
provocargli. Era qualcosa di più, a cui non riusciva a dare un nome preciso.
Shiki incrociò le braccia, sedendosi a terra come se fossero tutti lì per una
partita a carte: «Hai idea di quanti youkai
effettuino una possessione appropriandosi del corpo e della mente degli umani?
Fammi pensare… tutti? O quasi. Cosa vuoi che ne sappia.» ribatté acido, quasi.
Hideyuki aggrottò appena le sopracciglia, ma non disse nulla.
«Questo non significa che non sappia come liberarla.» proseguì il demone «Ma vi
avviso che non sarà divertente. Per voi.»
«Puoi farla breve, Shiki? Hai già rotto il cazzo.»
Non era la prima volta che Haruki gli rispondeva a tono, e Hideyuki aveva
sempre pensato che – sebbene in un modo che non avrebbe mai compreso – quello
fosse il loro modo di comunicare, per quanto strano e particolare. Per questo
si stupì quando, contrariamente a tutte le altre volte, Shiki si mosse così veloce
da non essere nemmeno visto: in un istante era davanti ad Haruki, una mano al
suo collo e l’espressione ferina mentre lo fissava.
Hideyuki lo vide leccarsi le labbra, e stava per aprire bocca – non era sicuro
che il kotodama funzionasse sui
demoni di alto livello, ma non poteva restare a guardare – quando Shiki, contro
ogni previsione, si limitò a parlare; Haruki lo fissava come se nulla fosse, e
Hideyuki non capì come si potesse in quella situazione.
«Chiariamo una cosa: io non ho obblighi verso nessuno, tanto più se si tratta
di salvare gli esseri umani. Non faccio la carità, e il mio unico interesse è che
tu rimanga in vita ancora per un po’.
Non scordarti che se non sei ancora morto è perché ci sono io.» sibilò. Nessuno
si mosse, finché un mugolio non attirò la loro attenzione: Chiaki si era mossa
di pochissimo, e la testa ora ciondolava verso il petto.
Di nuovo silenzio.
Shiki sbuffò, tornando nella posizione iniziale: «L’unico modo è risvegliarle
la coscienza e staccare a forza la sanguisuga che ci si è attaccata.» spiegò in
breve. Hideyuki e Haruki si guardarono, incerti.
«Non ho idea se quello schifo debba essere cacciato fisicamente o no.
Proietterò entrambi nella sua coscienza, ma non potrò fare niente se non
comunicare con Haruki e vedere quello che vede lui. C’è anche il rischio che
facciate danni, e quando sarà finita – se la ragazzina sarà di nuovo cosciente
– non sarà stato piacevole per nessuno.» concluse sbrigativo, guardandoli.
Sbuffò, leggendo la risposta nel cambio di posizione di entrambi.
E dire che lui odiava mescolarsi alla
coscienza umana.
«Non mi piace per niente,
questa cosa.» borbottò muovendosi con circospezione, Hideyuki un passo dietro
di lui.
«Sei sorprendentemente gentile, Haruki.» osservò con un sorriso leggero,
facendo la stessa attenzione ad ogni movimento. Nessuno di loro aveva mai
pensato che la coscienza fosse così: Hideyuki se l’era sempre immaginata come
un lungo corridoio scuro, con tante finestre quanti erano i ricordi che
fungevano almeno da perno, o al massimo quelli più vividi per la memoria umana.
Magari ce n’era davvero una così, ma non era il caso di Chiaki: niente
corridoio con le finestre, niente sala con i quadri, niente stanza piena di
porte.
Era solo tutto bianco. Per quanto ne sapevano poteva essere anche una camera di
qualche tipo, ma l’assenza di qualsiasi altro colore non gli permetteva di
capire se ci fossero dei muri o un soffitto, né da dove fossero entrati data
l’assenza di una porta – né da dove sarebbero usciti, tra l’altro.
L’unico concetto materiale era quello di un pavimento, dato che camminavano su
una superficie e di fronte a loro c’erano gli oggetti più disparati a terra: un
peluche in fondo a sinistra, un vaso di fiori non troppo distante, dei libri
sulla destra, una cravatta quasi al centro (sempre che un centro ci fosse), un
quadro a terra, quelli che sembravano fogli sparpagliati e così via.
«Gentile un corno.»
«Nemmeno a me piace l’idea di ficcanasare troppo in cose private. Ma non
abbiamo scelta, immagino.» osservò, raggiunto poco dopo da un’eco distante che
riconobbero entrambi come la voce di Shiki. Gli oggetti sono la base della coscienza.
Di solito rappresentano qualcosa che l’ha influenzata tanto da renderla com’è
ora. Per comodità diciamo che è per colpa di questi pezzi di coscienza che voi
umani siete come siete.
«Non avrei saputo dirlo meglio…» ironizzò Haruki a mezza bocca: «E adesso?» Adesso cercate. Chiunque la stia
possedendo, è da qualche parte. Di solito una volta che si possiede un
frammento di coscienza è perché è il più adatto ad essere posseduto: non sempre
è per debolezza, può essere anche il contrario. «In pratica, cerchiamo alla cieca.» decretò Hideyuki, iniziando ad
avanzare. Non aveva la minima idea di che ordine seguire, se dall’oggetto più
vicino al più distante, o se dovesse cercare in base ai gusti di Chiaki; ma
anche se fosse stato quello il caso, non sapevano affatto quali fossero.
La consapevolezza di non conoscersi affatto lo fece sentire ancora più
colpevole all’idea di indagare così nell’anima di qualcun altro.
Non che avessero scelta.
Raggiunsero entrambi il vaso di fiori, sollevandolo da terra.
Chissà perché anche i
bambini erano in grado di riconoscere le stanze d’ospedale: anche se ci
andavano per la prima volta, anche se erano troppo piccoli per cogliere appieno
cosa fosse un ospedale e cosa succedesse al suo interno, loro comunque lo
riconoscevano. Capivano, intimamente, che era un posto dal quale non sempre
uscivano tutti felici.
Chiaki era una bambina sveglia, lo era sempre stata: c’era chi diceva che
avesse preso tutto dal papà, Hiiragi Koichi, che se era un docente
universitario doveva pure esserci un motivo. Altri sostenevano che fosse tutta
la mamma, che fino a prima del matrimonio era stata una pianista piuttosto
famosa e ora insegnava ai piccoli che volevano coltivare il dono per la musica.
Sua figlia, stranamente, non aveva mai imparato; tuttavia era una bambina
brillante, senza per forza essere la migliore del suo anno a scuola. Aveva più
che altro la vivacità mentale di chi ricerca la conoscenza continuamente senza
che questa debba essere fissata da un voto scolastico.
Quando la zia – la sorella di suo padre – le aveva detto che sarebbero andate a
trovare la mamma insieme, Chiaki aveva capito non tanto che non l’avrebbe più
vista, ma che la donna non sarebbe tornata indietro con loro.
Ai suoi occhi, sua madre era pallida e un poco sciupata, ma non sembrava stare
male tanto da non poter più scendere dal letto. Promise, come farebbe qualunque
bambino, che si sarebbe presa cura di lei: non era brava a cucinare, ma poteva
imparare. O poteva cucinare la zia, e lei avrebbe fatto tutto il resto – anche se
cosa ci fosse nel “tutto” non lo sapeva.
La zia Hiroko le spiegò che la mamma non stava male
fisicamente: «Sta male qui.» e le sfiorò la tempia con le dita, perché non
avrebbe pronunciato la parola “pazzia” per tre lunghi anni ancora.
Chiaki non saltò una visita, né dopo mesi, né dopo più di un anno
probabilmente.
Vedendola bambina, che raccontava a sua madre cosa aveva fatto a scuola,
Hideyuki vide che sul comodino un vaso di fiori freschi colorava una stanza
altrimenti troppo bianca e impersonale.
Una volta Chiaki aveva
fatto un tema, a scuola: “il lavoro del
mio papà”.
Aveva raccontato che suo padre era un insegnante che però faceva lezione con i “bambini
grandi”, che leggeva un sacco di libri difficili e che poi le raccontava cosa
aveva studiato durante il giorno. Gli parlava di figure che lei non riusciva
sempre a immaginare, ma che somigliavano un po’ ai mostri delle favole, solo
che non tutti erano brutti e cattivi.
Li chiamava “youkai”,
e sosteneva che da qualche parte sicuramente esistevano. A lei il lavoro di suo
padre piaceva molto, e ogni giorno non vedeva l’ora che tornasse a casa per
raccontarle qualcosa di nuovo – anche se ogni tanto la mamma si arrabbiava
perché diceva che alcuni mostri erano troppo spaventosi e che Koichi non
avrebbe dovuto dirle quelle cose, che poi lei non avrebbe dormito.
Ma Chiaki e suo padre avevano un’arma segreta – questo nel tema non lo scrisse –
una formula magica che pronunciata prima di dormire avrebbe tenuto gli spiriti
lontani.
Ogni tanto, quando Hiiragi Koichi faceva tardi nel suo piccolo studio, Chiaki
sgattaiolava fuori dalla sua stanza, pronta a usare il bagno come scusa visto
che si trovava poco distante; lo vedeva chino su tanti fogli con simboli
complicati o la carta giallognola, e pensava che suo padre un giorno avrebbe
scoperto il mondo degli spiriti e che insieme sarebbero andati a fare amicizia
con quelli buoni.
Nella sua mente di bambina non c’era né il concetto di derisione di chi
ridicolizza a priori i sogni altrui, né di pericolo di fronte all’ignoto.
Non seppe mai che quelle ricerche erano qualcosa da temere in più di un modo,
finché alla morte di suo padre sua madre non la sgridò, impedendole di cercare
o leggere “quelle stupide ricerche che me lo hanno portato via”.
Avrebbe capito solo qualche anno dopo che forse erano state davvero quelle, a
fare del male al padre di cui avrebbe conservato solo una vecchia cravatta,
regalata chissà quando.
Dopo che sua madre era
stata ricoverata, la zia Hiroko l’aveva accolta in
casa come se fosse figlia sua, esattamente come i suoi due cugini – che figli
lo erano davvero.
Anche se all’inizio aveva cercato di seguire le regole che sua madre aveva
imposto alla morte di suo padre, alla fine Chiaki aveva curiosato tra i vecchi
documenti di Koichi: ricerche che erano lontane dalle favole a cui era stata
abituata, parlavano di creature a volte mostruose e crudeli, altre piccole e
innocue. C’erano centinaia di fogli e decine di libri che non parlavano di
altro che cultura, folclore, di spiriti che nessuno vedeva; e poi la ricerca di
suo padre, quella scritta di suo pugno nemmeno fosse un diario: percezioni di presenze, di esseri non visti e non
sentiti, ma che Koichi aveva sempre saputo essere lì.
Ci aveva messo tempo, a ritrovare un ordine in tutti quei documenti, specie
perché le prime volte aveva paura di essere sorpresa da Hiroko
e rimproverata, o che buttasse via tutte quelle cose che le ricordavano suo
padre. Ma con il tempo ci era riuscita, e aveva passato ore a leggere, dalle
cose che sembravano più semplici a quelle più difficili, e alla fine era stato
come ritrovarsi ad essere l’assistente e l’erede di quel padre che non c’era
più.
Gli youkai
la spaventavano all’idea che potessero aver fatto del male al padre, ma avevano
un fascino che non c’entrava con la mitologia, il folclore o tutto il resto;
capiva che non erano immortali, ma erano molto più difficili da uccidere degli
uomini, avevano molto più tempo e la maggior parte di loro si consumava dopo
secoli di vita o veniva sigillato.
Quella morte che le aveva portato via entrambi i genitori – perché sua madre,
lì dov’era senza più percezione di cosa la circondasse, non era più del tutto
se stessa –, dava in qualche modo significato alla sua esistenza. Sentiva,
però, un’inquietudine terribile: c’erano youkai, nella sua stanza? In
casa? A scuola?
Quando camminava per le strade la seguivano perché aveva un odore simile a
Koichi? Oppure la ignoravano?
Suo padre aveva creduto nella loro esistenza senza vacillare un solo attimo,
affidandosi a niente più di una percezione. Lei non sentiva nulla, o a volte
sentiva troppo, e non capiva se fosse perché si autosuggestionava o meno.
«Koichi amava queste cose. Anche se è probabile che tutti lo credessero pazzo.»
le aveva detto Hiroko quando aveva scoperto che si
perdeva per ore a leggere quei documenti «Quando ha cominciato si era appena
iscritto all’università. Avrei voluto dimostrare che non mentiva e che non era
pazzo, ma ormai nessuno crede a quello che non vede.»
Chiaki poteva, questo si era detta.
Con un libro tra le mani, e un rituale di marchiatura per permettersi di vedere, avrebbe potuto scoprire se suo
padre mentiva oppure no.
Aveva quattordici anni, quando iniziò a vedere gli youkai: erano lì, non toccati dal
tempo umano, forti di un’esistenza quasi eterna. Osservandoli con quanta più
discrezione le riusciva, si abituava alla loro presenza, e sentiva sempre
maggiore disagio verso gli esseri umani.
«Sarà quello?» sussurrò Hideyuki, indicando davanti a sé; ad Haruki sembrò di
riemergere da un sonno durato anni. Seguendo quell’indicazione, capì a cosa si
riferiva l’altro e desiderò di non averlo visto affatto: era come una grande
sanguisuga, in questo Shiki non aveva sbagliato ad apostrofare quello spirito.
Le fattezze erano diverse, sì, ma il modo in cui era avviluppato alla Chiaki di
quel frammento di coscienza faceva venire la nausea.
Si mosse senza pensare, e con il senno di poi l’avrebbe sicuramente etichettato
come qualcosa di molto stupido, ma avere Hideyuki che si muoveva al suo fianco
quasi nello stesso istante lo illuse che forse era meno idiota di quanto
sembrasse.
Loro tre non avevano nulla da spartire, eppure l’aria in quel posto era così
irrespirabile – o almeno aveva quella percezione – che non riusciva a concepire
qualcuno che potesse stare bene lì, o al quale avrebbe augurato di restarci.
Allungò la mano, e rimpianse di averlo fatto: un urlo anche troppo acuto per
essere umano era iniziato nello stesso attimo in cui sia lui che Hideyuki si
erano protesi verso quella Chiaki che era, indubbiamente, più piccola di quella
reale. Lei si era ritratta urlando come se l’avessero torturata con quell’unico
gesto.
Hideyuki fece un passo indietro, tenendosi la testa fra le mani, senza riuscire
a vedere come se la stesse cavando Haruki.
Nella sua testa, risuonava solo quell’urlo insopportabile e un senso di terrore
al solo essere sfiorati e che gli fece girare la testa.
Chiaki e tutto il resto sparirono.
«Ohi! Ohi, Hide!
Svegliati, cazzo!»
Aprire gli occhi fu la cosa più difficile degli ultimi mesi, se non anni.
Sentiva il corpo pesante, e impiegò diversi istanti per mettere a fuoco Haruki
che lo scuoteva. La seconda cosa che realizzò fu che c’erano dei colpi di
tosse: gli ricordarono vagamente quando era andato in piscina con il gruppo con
cui suonava, e quell’idiota di Mitsu aveva bevuto
acqua e tossito per i cinque minuti successivi.
Si tirò su, cercando una sorta di equilibrio anche senza un muro a cui
poggiarsi. Lentamente i dettagli si fecero più nitidi: la sua stanza, Haruki,
Shiki e Chiaki.
«Chiaki…?» anche articolare una frase era complicato
al momento, ma almeno era sicuro che la sua mente stesse riacquistando
lucidità. L’altro ragazzo si fece di lato, voltando la testa verso Chiaki:
tossiva e aveva il respiro velocizzato, ma sembrava essersi ripresa e
soprattutto essere cosciente.
Shiki le stava accanto, ma più che altro la teneva d’occhio.
«Ne hai di risorse, eh. Oggetti di protezione per casi disperati come questo, e
marchi chissà dove.» esordì quando i colpi di tosse sembrarono farsi più radi e
lei parve riuscire a respirare in maniera decente.
Hideyuki, la mano di Haruki sulla spalla, lo sentì stringere la presa fino a
fargli male; avrebbe voluto farglielo notare, ma sapeva – lo intuiva, più che
altro – che si stava trattenendo.
Riportò lo sguardo su Chiaki che Haruki aveva già esaurito il briciolo di
pazienza rimasta.
«Ne sarà valsa la pena, immagino.» mormorò, la voce che gli tremava, finché non
le puntò lo sguardo addosso: era arrabbiato, ma Hideyuki pensò che sembrava più
che altro incredulo, deluso, e soprattutto sopraffatto da una tristezza così
grande da schiacciarlo.
«Marchiarsi con un rituale per vedere gli youkai e farsi quasi ammazzare.
Spero ti divertirai la prossima volta, e quella dopo ancora.» aggiunse, il tono
che si era andato alzando così come lui, che era in piedi.
Hideyuki non riuscì a vederne l’espressione, ma le spalle che tremavano gli
bastarono.
«Io e te non ci siamo mai incontrati.» sibilò.
Anche dopo che la porta dell’appartamento ebbe sbattuto, dividendo loro due da
Haruki e Shiki, Chiaki non alzò mai lo sguardo.
Nemmeno quando se ne andò a sua volta, da sola.
Stavolta niente note da
Chiakipedia *muore*
Unica cosa, i credits per la citazione in apertura,
della canzone “Words”
(SkylarGrey).
Was
what you tried to protect with your hands,
someone you loved?
Staring at your hands awash in red,
you finally recognize your sins.
Erano passati giorni da quando Hideyuki aveva visto
Chiaki e Haruki l’ultima volta.
Per la precisione, la ragazza si era presentata al suo appartamento il giorno
dopo l’incidente, tornando da scuola a giudicare dall’orario. L’aveva fatta
accomodare, ma dopo quasi mezz’ora di completo silenzio – ad eccezione di
piccole cose come “vuoi un tè?” e “sì, grazie” –, aveva iniziato a temere che
non sarebbero andati da nessuna parte o che lei non sapesse da dove cominciare.
In realtà non riusciva ad intuire se ad averla spinta lì fosse il volersi
scusare o l’arrabbiatura per ciò che lui e Haruki avevano fatto; potevano giustificarlo
sostenendo di volerla aiutare, ma questo non cambiava che avessero visto e
sentito cose che Chiaki avrebbe di certo voluto tenere per sé, specie con due
sconosciuti.
Il vedere gli youkai, chi per un
motivo e chi per un altro, gli aveva fatto dimenticare quell’aspetto: si
conoscevano a malapena.
Invece Chiaki non si era presentata in casa sua né per scusarsi, né per
aggredirlo.
«Non ti darà più problemi.» aveva interrotto così il silenzio, lo sguardo sulla
tazza di tè davanti a sé.
«Cosa?»
«Lo zashiki-warashi. Fin dall’inizio
era qui solo per proteggere te che vivi nell’appartamento, Hideyuki-san.
Mi dispiace di non essermi accorta dell’altro spirito.» aveva spiegato
brevemente. Lui l’aveva osservata tacendo per qualche istante, scuotendo la
testa: «Nessuno di noi se ne era accorto. Hai fatto anche più di quanto ti
avessi chiesto.» l’aveva rassicurata, almeno su quell’aspetto. Aveva avuto la
sensazione che Chiaki fosse davvero fragile in quel momento, più di quanto gli
fosse sembrato dai precedenti incontri. Lui non era certo molto più grande di
lei o di Haruki, eppure si considerava fortunato: aveva sempre vissuto
abbastanza bene la sua capacità, senza che questa lasciasse mai in lui ferite
troppo profonde. Forse perché aveva appreso abbastanza presto il kotodama ed era riuscito a farne un uso
tale che fingere di non vedere era diventato molto semplice. Oppure doveva
essere stato fortunato e niente di più.
Vedere frammenti dell’animo di Chiaki aveva lasciato in lui un segno più
profondo di quanto avesse creduto quando si era ripreso: non si era trattato
solo di sentirsi addosso la tristezza di un’altra persona, ma di un insieme di
cose – probabilmente era aver visto Chiaki bambina, o poco più, avere a che
fare con qualcosa di tanto grande.
«Mi dispiace.» aveva esordito quindi «Anche se fatto con le migliori
intenzioni, non deve essere stato piacevole sapere cosa abbiamo visto io e
Haruki.»
Lei era rimasta in silenzio, senza mai alzare lo sguardo. Era come se non
sapesse cosa dire, se fosse combattuta tra troppe cose. Poi, continuando a
guardare il tè nella sua tazza, aveva scosso impercettibilmente la testa: «Non
sono arrabbiata.» aveva detto «Non per quello.»
Lo aveva colto alla sprovvista, doveva ammetterlo; sebbene avesse messo in
conto la sua rabbia come se fosse una cosa scontata, sentirle pronunciare
quelle parole era stato strano, dal momento che Chiaki non aveva mai mostrato
una vasta gamma di espressioni o di sentimenti, in sua presenza. Non le faceva
il torto di crederla insensibile – dubitava che qualcuno che poteva vedere potesse esserlo – ma fino a quel
momento era sembrata più che altro una fantasia, qualcosa che poteva esistere
ma senza alcun riscontro nella realtà.
L’aveva vista alzarsi, lasciandola tazza di tè per metà piena.
«Allora per cosa sei arrabbiata?» l’aveva accompagnata alla porta, osservandola
varcare la soglia senza sapere se fosse il caso di fare altre domande nel caso
lei non avesse risposto. Inaspettatamente, Chiaki gli aveva risparmiato la
scelta sbagliata.
«Io non so cosa tu o Haruki-kun abbiate fatto fino a pochi giorni fa. Per la
verità non so molto della vostra vita nemmeno adesso.» aveva detto, come se ci
avesse ripensato all’ultimo momento: «Ma non ho mai giudicato nemmeno le cose
che mi sembravano più insensate di voi. Mi fa arrabbiare che invece vi sia
bastato vedere cose che non avreste mai dovuto nemmeno sapere, per sentirvi in
diritto di pensare quello che volevate.» aveva replicato quasi bruscamente,
congedandosi con un breve cenno della testa.
A Hideyuki era sembrata più sola e fragile che mai.
Ma la stranezza di quella giornata non era stata tanto la visita di Chiaki,
quanto quella che le era seguita; appena la ragazza non era rientrata più nel
suo campo visivo, a palesarsi era stato Shiki.
«Non sta bene origliare.» gli aveva detto, senza un reale rimprovero nel tono,
conscio che sarebbe stato comunque inutile rivolgergliene uno. Il demone non
aveva ribattuto subito, guardando nella direzione in cui si era allontanata la
ragazza.
«Haruki-kun non è con te?»
«Ti sorprenderà sapere che non gli sto sempre appiccicato come può sembrare.»
aveva detto ironico, portando l’attenzione su di lui. In silenzio era scivolato
nella sua abitazione, e Hideyuki lo aveva seguito richiudendosi la porta alle
spalle. Rispetto a quando aveva accolto Chiaki, tuttavia, non lo aveva invitato
ad accomodarsi, rimanendo fermo dov’era; Shiki doveva aver colto il senso della
sua immobilità perché aveva sorriso divertito.
«Non mi piace proprio, il tuo odore.»
«Credo che sia inevitabile, come il fatto che a me non piaci tu. Né quello che
fai ad Haruki-kun, anche se immagino che una cosa come quella sia una scelta.»
aveva detto, parlando chiaramente e senza sorrisi o cortesie di circostanza. Il
volto di Shiki si era fatto più cupo, il ghigno ferino sulle belle labbra.
«Non che siano affari tuoi.»
«In effetti no. Se non avessi visto il marchio per puro caso, magari non mi
sarebbe mai venuto in mente. Anche se devi ammettere che un demone che gira con
un ragazzino non è proprio una cosa che si vede tutti i giorni, nemmeno quando
hai la cosiddetta vista.» era stato
il suo commento, muovendo qualche passo verso l’interno: «A cosa devo la
visita?»
«Ho seguito l’odore della ragazzina, per la verità.» aveva ammesso con una
scrollata di spalle; Hideyuki si era chiesto perché Shiki volesse avere ancora
a che fare con Chiaki, quando le parole di Haruki avevano lasciato chiaramente
intendere che non ne aveva alcuna intenzione, soprattutto nell’immediato
futuro. Si era ritrovato a sorridere, senza nemmeno accorgersene, finché Shiki
non aveva inarcato un sopracciglio perplesso.
«Forse lei ti piace tanto perché è l’unica a cui puoi piacere tu.» aveva
osservato, con fare innocente.
«A me non piace.» aveva tagliato corto «E a lei non piaccio io. È solo attaccata
agli spiriti, anche troppo.»
L’attimo dopo Hideyuki era solo nella stanza.
Haruki non si sentiva in
colpa. Non gli interessava nemmeno sapere cosa ne pensasse Hideyuki, o la
stessa Chiaki, né che lo considerassero crudele per quanto aveva detto dopo ciò
che aveva visto.
Era proprio per quello che era convinto di essere dalla parte della ragione:
quale persona cercava il dolore di propria spontanea volontà? Avrebbe potuto
capire se le ricerche del padre di Chiaki fossero state di importanza vitale e
lei fosse stata l’unica a poterle portare avanti, o ancora avrebbe potuto fare
uno sforzo se marchiarsi in modo da poter vedere
avesse significato salvare molte persone o il padre stesso. Ma così non era,
Chiaki aveva scelto di fare quel che aveva fatto solo per sentirsi vicina al
padre, e per quanto Haruki si sentisse vicino alla propria famiglia, sapendo
bene quale peso fosse vedere gli youkai non lo avrebbe mai cercato per se stesso.
Aveva passato la vita a chiedersi come liberarsi di quella capacità maledetta,
e ora incontrava qualcuno che non era schiavo della cosa che lui più odiava, ma
si era condannato da solo.
Era sicuro della propria decisione di tenersi alla larga da Chiaki e da
Hideyuki: dopotutto non aveva mai pensato che sarebbero potuti essere gli amici
che lo avrebbero compreso nel profondo. Erano troppo umani, e quando si
trattava di youkai,
per assurdo lo erano troppo e troppo poco al tempo stesso. Haruki aveva passato
anni a trovare il giusto distacco, a cercare dentro di sé solo i sentimenti che
gli avrebbero permesso in qualche modo di combatterli senza avere alcuna pena
per loro, e adesso che finalmente credeva di riuscirci…
quei due arrivavano, improvvisandosi amici suoi e degli spiriti.
«Ohi, Kirihara.» alzò lo sguardo con qualche secondo di ritardo, come quando
non si era abituati a un appellativo, inquadrando uno dei suoi compagni che si
avvicinava al suo banco. Haruki non aveva un buon rapporto con la classe, o per
meglio dire, non aveva un rapporto: qualche chiacchiera in più con i maschi,
forse, ma perché le ragazze erano più guardinghe nei confronti di quello che
era considerato uno studente problematico.
Il compagno si fermò a un paio di passi da lui, accennando con la testa alla
porta della classe: «Ti cercano.» comunicò semplicemente, andando ad unirsi di
nuovo ai suoi amici poco più in là.
Haruki portò lo sguardo verso l’entrata della classe, convinto di trovarvi
Chiaki: dubitava che ci fosse qualcun altro nella scuola che potesse avere
interesse a parlare con lui tanto da scomodarsi; se era per le risse, lo
aspettavano direttamente fuori.
Invece fu smentito quando riconobbe vagamente la compagna di classe di Chiaki,
di cui non ricordava affatto il nome, ma che era sicuro fosse quella a cui
aveva chiesto di chiamare l’altra ragazza da parte sua. Si alzò perplesso,
raggiungendola.
«Ciao.» pronunciò lei, un sorriso disteso sulle labbra, anche se sembrava meno
a proprio agio di quanto non fosse stata in classe; non ci diede troppo peso,
essendo abituato a quel tipo di reazione: «Tu sei…?»
«Endou. Sono in classe con Hiiragi.»
«Sei quella a cui ho chiesto di chiamarmi Chiaki l’altra volta, sì.» convenne,
giusto per accorciare i tempi, dal momento che dubitava l’altra fosse lì solo
per comunicargli come si chiamava. La vide indugiare qualche attimo, dopo il
quale raddrizzò la schiena. Sembrava quasi che si fosse convinta che quel che
aveva da dire fosse più importante di qualsiasi forma di timidezza o di timore.
«Ho visto che tu e Hiiragi-kun non state più insieme.
Quando arrivate o quando andate via da scuola.»
«Non è che siamo andati via insieme così tante volte.» commentò lui seccato.
Cos’era, bastava andarla a prendere in classe una volta o essere visto con lei
perché la gente si facesse idee contorte e sbagliate?
«Nessuno è mai andato via con Hiiragi-kun a parte te,
Kirihara-kun.» lo corresse lei, con un sorriso mite: «Di solito non sono
impicciona. Sono brava a capire quando le persone non vogliono che gli si
facciano delle domande.» riprese prima ancora che lui potesse ribattere «Penso di
aver capito da tempo che tu non sei cattivo, in fondo, come Hiiragi-kun
non è soltanto “più matura della sua età” come dicono i professori per spiegare
che lega poco con la nostra classe.» affermò, schietta nel parlare, senza
nascondere la verità.
Ma Haruki si chiedeva ancora cosa volesse da lui.
«Scusami quindi se vengo a chiederti questo. Non voglio sapere cos’è successo
tra voi due, solo se sai come sta di recente.» chiarì «Forse lei non mi
considera un’amica, e non posso definirci così nemmeno io, ma è una brava
persona. Ho la sensazione che non leghi con noi per paura di…
non lo so. È un po’ forte come espressione, ma direi “essere deleteria”.»
soppesò, arricciando un poco il naso. Haruki fece per interromperla, ma lei piantò
lo sguardo nel suo, mettendolo a tacere come poche persone riuscivano a fare: «Spero
che sia tutto a posto. Che lo sia abbastanza da non dovermi preoccupare sul
serio. Se la vedi, dille che la sto cercando, mh?» aggiunse,
aspettando qualcosa, forse un cenno positivo.
Haruki non gliene diede uno, ma ad un certo punto lei sembrò comunque
soddisfatta e si voltò per andarsene così com’era venuta.
Allora Haruki lo vide, avendo il campo visivo libero: uno youkai debole, che aveva
incrociato qualche volta per i corridoi, fingendo di non vederlo. Era una massa
abbastanza informe, in parte trasparente, come se stesse svanendo nel preciso
istante in cui la si guardava. La cosa più definita di quell’essere era una
maschera, con due fessure piccolissime al posto degli occhi, e decorata con
motivi apparentemente astratti. Non era grandissimo, e rimaneva fermo in un
luogo, anche quando gli passavano davanti delle persone.
Ma ora si stava muovendo, e fu questo che fece uscire Haruki dall’aula.
Non aveva nemmeno badato ai
corridoi in cui girava, lo sguardo attento e fermo sullo spirito che stava
seguendo. Non dava troppo nell’occhio, essendo ancora nel pieno della pausa,
studente in mezzo ad altri coetanei che si alternavano in un via vai generale.
Nemmeno lo spirito lo aveva notato, e per una volta l’assenza di Shiki era un
bene: probabilmente lui sarebbe stato percepito, e come minaccia.
Haruki non era mai stato il tipo da fare pulizia a scuola per un qualche senso
del dovere nato dal semplice vedere gli spiriti; tuttavia, con il tempo si era
preso almeno la briga di assicurarsi che non facessero danni ai quali –
irrimediabilmente – si sarebbe ritrovato in mezzo pur non volendolo. In quei
casi li seguiva senza dare segnali sul vederli o meno, fino a che non passavano
oltre un muro verso l’esterno o si rifugiavano negli sgabuzzini. A quel punto,
tornava sui suoi passi e li abbandonava a se stessi così come aveva iniziato a
seguirli; non badava mai troppo a dove andava, se era l’edificio scolastico:
non c’erano luoghi in particolare dove la sua presenza avrebbe potuto dare
nell’occhio o dove rimanere intrappolati sarebbe stato pericoloso.
Per questo non faceva troppo caso al corridoio in cui camminava, né alla
presenza di sempre meno studenti, fino a che non si ritrovò ad essere l’unico a
far risuonare i propri passi insieme a una senpai che andava nella direzione
opposta alla sua e che incrociò quasi a metà.
Troppo concentrato sullo youkai,
impiegò diversi istanti per registrare il suono proveniente dall’aula di
musica: quella stanza era sfruttata, lontano dalle lezioni, o dal club omonimo
o dagli studenti che approfittavano delle pause per esercitarsi; si trovava in
un’ala meno trafficata dei corridoi che ospitavano le aule normali, per cui era
il luogo ideale, privo di visitatori e – quindi – di seccatori.
Se Haruki si fermò fu perché anche lo youkai fece lo stesso: galleggiava a mezz’aria, sulla
soglia, come se stesse ascoltando. Con discrezione, il ragazzo si accostò alla
parete. Forse non era saggio avvicinarsi tanto a uno spirito, per quanto
innocuo fosse, ma l’alternativa sarebbe stata piazzarsi davanti all’aula e
magari attirare l’attenzione di chi era dentro, agitando lo spirito. Aveva
imparato che non era mai una buona cosa.
Tutte quelle elucubrazioni per cui Shiki lo avrebbe preso in giro, tuttavia, furono
rese vane dallo stesso youkai
che oltrepassò la soglia entrando nell’aula. Haruki attese qualche istante,
prima di sbirciare dentro: il suono del pianoforte che proveniva dalla stanza
era fluido, una melodia non troppo lenta, ma che non avrebbe definito
esattamente allegra. Sembrava il ripetersi della stessa parte, come se chi
stava suonando avesse dimenticato il resto della canzone ad eccezione di quel
passaggio; poi cambiava, un movimento simile ma con note diverse. Haruki non
aveva mai capito nulla di musica, ma se avesse dovuto provare a descrivere
quella melodia, avrebbe detto che sembrava un addio, un ultimo saluto ad
accompagnare chi partiva per non tornare più.
E quando, finalmente, sbirciò all’interno dell’aula se ne pentì: a suonare era
Chiaki, gli occhi attenti sui tasti – e in quel momento Haruki notò l’assenza
di uno spartito e che lo spirito l’aveva ormai raggiunta, affiancandola e
continuando a guardarla, galleggiando quasi pigramente.
Strinse i pugni, deciso ad andarsene: Chiaki sapeva benissimo cavarsela da
sola, quello che le accadeva non era affar suo, e quanto allo spirito non
avrebbe comunque creato problemi.
«Dovresti andare.» la sentì pronunciare, e si sporse definitivamente per
ribattere che non era lì per scusarsi come poteva sembrare, ma per seguire
quello stupido youkai…
a cui lei era rivolta. E lo capì quando seppe di essere rientrato nel suo campo
visivo e la notò irrigidirsi, assumendo l’espressione di chi ha visto l’ultima
persona che si aspettava di incontrare.
Fu felice almeno dell’assenza di Shiki: quel malinteso idiota sarebbe stato la
sua rovina, altrimenti.
A volersi aspettare una reazione, pensava che Chiaki gli avrebbe intimato di
andarsene; lei, invece, tornò con lo sguardo sullo youkai e Haruki seppe di essere
appena stato ignorato. O almeno la sensazione avuta era esattamente quella.
La osservò mentre allungava una mano, sfiorando con la punta delle dita quello
spirito che, l’istante dopo, si dissolse nel nulla. Non era la prima volta che
Haruki li vedeva sparire: non aveva mai saputo se “morire” fosse un termine
esatto, quindi aveva sempre sostenuto che si dileguassero e basta, finendo
chissà dove. Lo aveva visto succedere con quegli youkai fuori dalla sua portata e
di cui era capitato si occupasse Shiki; non era accaduto spesso, ma non era mai
stato uno spettacolo piacevole. Haruki non amava gli spiriti, quindi non si
sentiva emotivamente legato al concetto di morte o sparizione che fosse, ma gli
aveva sempre lasciato addosso una pesantezza che né il riposo né altro riusciva
a mandare via per diversi giorni.
Si ridestò notando che Chiaki tremava. Abbassando lo sguardo, la vide stringere
i pugni così forte che le nocche erano sbiancate.
Farsi coinvolgere era esattamente ciò che non avrebbe dovuto fare. Eppure,
prima di riuscire a comprenderne il motivo, le fu davanti e entrambe le sue
mani presero la sinistra di lei, facendo una pressione leggera in un tacito
intimarle di smettere di conficcarsi le unghie nei palmi della mani. Lentamente
lei rilassò la stretta, inspirando lentamente e buttando fuori l’aria in
silenzio; i segni c’erano, ma le unghie non avevano scavato tanto a fondo da
ferire la carne. In compenso, ora la mano tremava leggermente e Haruki, nel
tenerla nelle proprie senza sapere cosa fare, rimpianse di aver agito
d’istinto.
Non era stato per Chiaki. Era stato perché lei gli aveva ricordato quando da
piccolo, impaurito dagli spiriti che vedeva, stringeva le mani nello stesso
modo nella speranza che il dolore lo svegliasse da quello che credeva fosse un
incubo. In quelle occasioni suo nonno si avvicinava e gli teneva pazientemente
le mani, rilassando la sua stretta fino a scioglierla, posandogli carezze
rassicuranti sia sul palmo che sul dorso, fino a calmarlo.
Haruki, però, non stava facendo lo stesso. Era fermo senza sapere quanto
pericoloso fosse, rivolgerle quel trattamento che era per le persone che
sapevano prendersi cura degli altri e lenire il loro dolore, una cosa che lui
non aveva mai imparato, riuscendo a malapena a convivere con la propria di
sofferenza, e facendolo come un animale ferito che per istinto si rivolta verso
chiunque.
Era fermo, piegato sulle ginocchia senza aver avvicinato una sedia per sedersi
– non sapendo nemmeno lui se volesse trattenersi o meno –, con quella mano tra
le sue che fissava, come se la risposta dovesse arrivare da lì.
La sentì contrarsi impercettibilmente e fu tentato di alzare lo sguardo, ma le
parole di Chiaki glielo inchiodarono lì dov’era, un po’ a terra e un po’ su
quella mano: «Mio padre è scomparso così.»
Haruki non avrebbe saputo dire perché lei gli stesse confidando una cosa
simile, dopo quello che lui aveva detto e che lei non aveva che pensato, senza ribattere nulla. La presa del ragazzo
si fece più debole, forse con l’intento di lasciarla andare, e lei non si
oppose, facendo cadere mollemente le mani in grembo.
«Non è sparito nel nulla, non lo hanno rapito gli spiriti.» chiarì, come se
Haruki avesse chiesto spiegazioni che invece non era nemmeno sicuro di voler
sentire. Ma Chiaki, incurante delle sue volontà o come se lui non fosse nemmeno
lì, continuò a pronunciare quel flusso di coscienza: «Ne aveva percepiti tanti,
andare via. E lo aveva raccontato solo a mia zia. Le aveva chiesto di aiutarlo
a pensare a un modo per accompagnarli, visto che non potevano esserci lapidi o
niente del genere. E allora mia zia scrisse una canzone.» proseguiva guardando
le proprie mani, i capelli lunghi che ne nascondevano in parte il volto,
impedendo ad Haruki – se anche avesse alzato lo sguardo – di scorgerne l’espressione.
«Pensava che se anche gli youkai non esistevano, avrebbe potuto distrarre mio padre.
Che se quelle erano solo fantasie per non sentirsi solo, una canzone lo avrebbe
fatto sentire amato, visto che lei l’aveva scritta per lui. Ma mio padre continuava
a suonarla anche dopo essersi sposato, e dopo che io ero nata, e… non era solo. Voleva solo dire addio. E quando lo
sentivo suonare, mi diceva che stava salutando un vecchio amico: che gli
spiriti secondo lui diventavano luce, perché quando qualcuno di loro spariva e
lui sentiva l’assenza, poi gli sembrava sempre di vedere un bagliore nella
stanza.» continuò a raccontare.
Haruki avrebbe voluto farla smettere, dirle che non le interessava e che non
glielo aveva chiesto, ma quando apriva bocca per farlo gli tornavano in mente
le scene viste nella sua coscienza, quell’urlo di quando lui e Hideyuki avevano
provato a raggiungerla. E allora si sentiva un macigno pesare sul cuore e nello
stomaco, e ogni parola rimaneva lì in gola.
«Mio padre non li vedeva e non li sentiva parlare. Avvertiva solo delle
presenze, avrebbe potuto ignorarle ma non lo fece mai. Anche se nessuno ci
credeva. Anche se tutti pensavano fossero solo fantasie.» Haruki sentì che la
voce le tremava e sgranò un poco gli occhi, deglutendo – codardo, non alzava
ancora lo sguardo. Ma quando lo fece, fu in tempo per vederla fare lo stesso e
sentirsi spingere senza troppa forza, ma con convinzione. Finì sedere a terra,
non un grande danno visto che era comunque in una posizione per cui si era trovato
vicino al pavimento. Ma l’impatto era più che altro emotivo: di Chiaki non
aveva mai visto grossi cambi di espressione, e anche quando le aveva rivolto
parole dure e cariche di rabbia a casa di Hideyuki, lei non aveva detto nulla.
Ora, invece, aveva gli occhi lucidi – quelli di quando non piangere richiedere
uno sforzo enorme, destinato comunque a fallire.
«Mio padre non era un bugiardo!» esclamò «Io ora li vedo, e so che mio padre
non ha mai mentito. Lui sapeva che c’erano, e cercava di dirgli addio. E anche
se fosse stato uno youkai
a portarmelo via, gli esseri umani lo hanno abbandonato molto, molto prima che
morisse!» continuò, alzandosi in piedi: «Tu non hai il diritto di biasimarmi per quello che ho fatto. Non ce l’hai, né lo
ha quel demone che ti porti dietro, né Hideyuki-san.
E io non penso di aver fatto nulla di male. Non mi scuserò con te. Mai.»
pronunciò, andandosene via senza nemmeno aspettare una risposta.
Ma Haruki, che guardava dov’era stata seduta fino a poco prima, non avrebbe
avuto comunque niente da dire.
Anche le sue mani tremavano.
«La vuoi smettere di seguirmi?!» sbottò Haruki, seccato, le mani in tasca e
Shiki che sembrava entrato in sciopero. Era sparito dopo avergli sussurrato
all’orecchio che c’era un ospite indesiderato, facendogli anche alzare la
guardia convinto che si trattasse di uno youkai, e invece non aveva visto
altri che Hideyuki e Shiki non si era più manifestato.
«Hai detto che stai andando ad occuparti di un lavoro, giusto? C’è una cosa che
vorrei chiederti, però.» ammise Hideyuki con tono affabile e pacato,
affiancandolo come se Haruki non l’avesse invitato per l’ennesima volta a
lasciarlo in pace. Il più giovane alzò gli occhi al cielo e sospirò seccato,
senza nemmeno impegnarsi a nasconderlo: «Non puoi chiedere e poi andartene?»
«Si tratta di una questione lunga, temo.»
«Allora non sono sicuro di volerla sentire. O puoi dirmela dopo.» tagliò corto,
senza far desistere l’altro, visto che non si fermò né diede segno di voler
rallentare in alcun modo.
«Se non ti dispiace, vengo con te.» disse Hideyuki, con quel mezzo sorriso
sulle labbra che caratterizzava la sua cosiddetta espressione cordiale, che
ebbe il potere di irritare Haruki in mezzo secondo. “Se non ti dispiace”,
diceva. Come se non fosse palese che non lo voleva in mezzo alle scatole.
Affrettò il passo, con cipiglio contrariato: «Odio avere gente fra i piedi
quando lavoro.»
«Il che è curioso, potrei anche darti una mano.» rimbeccò il più grande, come
se fosse ovvio che non aveva altra intenzione che quella di aiutare.
«Non ti ho chiesto una mano.»
«Per come la vedo io, non mi chiederesti aiuto nemmeno se uno youkaiti stesse uccidendo lentamente, Haruki.
Questo non vuol dire che potrei girarmi dall’altra parte e fingere di non
vedere.» fece presente Hideyuki con calma invidiabile, continuando ad
affiancarlo, velocizzando l’andatura di pari passo con l’altro.
«Sta’ a sentire.» sbottò fermandosi senza preavviso, fortunatamente senza
finire addosso a nessuno visto che non si trovavano in una strada trafficata «Lo
so dove vuoi andare a parare. Se ti dispiace per Chiaki, vai a dirlo a Chiaki.
Io ho chiuso, non ho intenzione di sentirmi in colpa per nessuno, e—»
«Ti senti già in colpa.» lo redarguì, il tono e lo sguardo più severi, anche se
non particolarmente duri: «E ti senti anche in dovere di essere arrabbiato.
Diciamo anche che lo capisco, in parte, dal momento che anche io ho una vista naturale, se così vogliamo
chiamarla. Ma rispondi a questo: credi che Chiaki, per com’è, potrebbe odiare
gli spiriti come li odi tu?» lo interrogò, guardandolo dritto negli occhi.
Haruki non capiva nemmeno dove volesse andare a parare, ma anche senza
conoscere la ragazza da più di qualche giorno, quella era una cosa così ovvia
dal primo istante in cui avevano interagito da non dover essere nemmeno
ponderata più di qualche istante.
«Figurati.» sputò fuori seccato «Quella quasi li preferisce alle persone.»
commentò pungente.
«E tu potresti farti piacere gli youkai come fa lei?»
«Mai.»
«Esatto. Perché da te, non so come e non voglio saperlo, si sono fatti odiare.
Da lei no. Non puoi pretendere che li odi perché tu lo fai, lei non può sperare
che li apprezzi solo perché così li percepisce. Hai le tue esperienze, lei le
sue, e se sei convinto che non conti nulla allora sei davvero un ragazzino che
ha bisogno più della balia, che di un demone che lo segua.» commentò aspro
Hideyuki, sorprendendolo anche, perché non aveva mai usato niente più di un tono
vagamente severo nei loro confronti o in loro presenza.
«Sai che il fare da saputello mi sta veramente sul cazzo? Come se—» ma il
termine di paragone, qualunque esso fosse, si perse con l’apparizione di Shiki
e il suo ringhiare con gli occhi fissi davanti a sé.
In un primo momento, quando entrambi i ragazzi portarono lo sguardo in quella
stessa direzione e videro l’unica figura presente, sarebbe stata una scena
quasi ilare se vista da esterni: Shiki ringhiava contro Chiaki. Ma la comicità
durò ben poco: la ragazza stava correndo nella loro direzione, e lo faceva
perché era inseguita da qualcosa.
Bastò uno sguardo a entrambi per riconoscerlo: era lo youkai che avevano visto nella
coscienza di lei, quella cosa grande e informe che si era avviluppata ad un
frammento di anima della ragazza, stordendoli per il solo aver tentato di
tirarlo via e lontano dalla vittima. Sembrava più grande, però, e questo non
parve un buon segno a nessuno dei due.
«Ma quel coso non muore mai?!» sbottò Haruki indietreggiando di mezzo passo e
addossandosi al muretto alle proprie spalle. Non sapeva se dovesse consolarli,
il fatto che al momento non passasse nessuno che avrebbe potuto prenderli per
tre pazzi; considerando che la cosa si doveva al loro essere in una zona
residenziale in un orario dove le casalinghe erano già rientrate e gli
impiegati erano ancora a casa, forse non era poi così positivo. Ci mancava solo
che inglobasse qualche casa.
«Se non lo uccidi direi di no!» rimbrottò Shiki sarcastico – ed in effetti si
erano preoccupati tanto delle condizioni psico-fisiche di Chiaki, nonché delle
loro, che né lui né Hideyuki avevano mai mosso un dito contro quello spirito se
non per allontanarlo dalla ragazza.
Haruki si diede dell’idiota. In tanti anni a contatto con gli youkai si era
fatto sfuggire la cosa più importante: se hai fatto infuriare uno spirito,
assicurati o che sia sparito per sempre o che sia stato sigillato. Non aveva
fatto nessuna delle due cose ed ecco il risultato.
Hideyuki allungò una mano, riuscendo ad afferrare al volo Chiaki per un braccio
e tirandola verso di sé; lo spirito sembrò avere riflessi troppo lenti,
ritrovandosi ad avanzare ancora per qualche metro per poi fermarsi confuso,
come se non avesse la minima idea di dove fosse improvvisamente sparita la sua
preda.
In quel breve lasso di tempo, i tre si guardarono.
«Grazie.» pronunciò Chiaki, liberandosi con un gesto lento della presa di
Hideyuki: «Posso farcela da sola.» aggiunse.
«Lo escludo.» replicò subito Hideyuki «Se c’è qualcuno che rischia più degli
altri, sei tu che sei già stata posseduta, Chiaki.» chiarì, sentendo Haruki
sbuffare.
«Stare con voi è veramente una rottura di palle. È per questo che non mi piace
la gente che si immischia negli affari degli spiriti: poi succede questo.» sbottò, voltandosi nella
direzione dello youkai,
Shiki al suo fianco che non aveva mai perso di vista quella creatura che evidentemente
gli causava un certo disgusto vista l’espressione che aveva.
«Pensavo che non volessi più avere a che fare con me.» commentò lei, gli occhi
sul più giovane e lo sguardo indecifrabile; Hideyuki l’affiancò e guardò a sua
volta Haruki: «Vedremo di non starti tra i piedi.» disse «Dopotutto hai detto
che non ti serve aiuto, giusto?» lo riprese, riferendosi a quanto si erano
detti mentre arrivavano lì.
Haruki gli rivolse un’occhiataccia, ma Shiki ne richiamò l’attenzione visto che
lo youkai
si stava lanciando contro di loro.
Hideyuki probabilmente non si aspettava di scatenare una cosa simile,
rifiutandogli l’aiuto. O forse accadde perché a dispetto di quanto sembrasse
innocuo, lo spirito era innegabilmente maligno e per questo tutto tranne che
docile. La cosa si era resa evidente quasi subito, specialmente quando Haruki
era rimasto ferito, sebbene di striscio, imprecando a mezza bocca. Ciò che
ancora di più aveva lasciato basito Hideyuki – e, supponeva, anche Chiaki – era
stato il fatto che Shiki fosse rimasto… fermo.
Entrambi si erano erroneamente fatti l’idea che il demone fosse una sorta di
guardia del corpo, ma a giudicare da come era rimasto e rimaneva ancora fermo,
senza intervenire nonostante le evidenti difficoltà di Haruki, dovevano aver
male interpretato il loro rapporto.
Ma non avevano ancora capito davvero.
E questo fu invece chiaro quando Haruki finì per cozzare contro il muro, il
respiro mozzato e del sangue che colava sia dalla tempia – doveva essersi
ferito di striscio battendo la testa – che dal braccio precedentemente colpito.
Hideyuki aveva lasciato Chiaki e si stava per muovere in avanti, quando Haruki
gli sbraitò contro di rimanersene al suo posto.
«Non ho bisogno del tuo aiuto!» gridò infatti, allungando il braccio verso
Shiki dopo aver tirato su la manica con l’altra mano; teneva gli occhi sullo youkai e Shiki
guardava invece il ragazzo con una luce negli occhi che a Chiaki mise i
brividi.
Capì poi perché. Lo comprese quando Haruki pronunciò qualcosa che lei non
riuscì a comprendere e il marchio che aveva intravisto sul suo braccio la prima
volta sembrò muoversi per qualche strano e inquietante gioco di luci. E quando
Shiki incurvò le labbra in un sorriso ferino, posizionandosi alle spalle di
Haruki, lei non riuscì a visualizzare subito cosa stesse per succedere; non
finché il demone non affondò le fauci nella carne alla base del collo del
ragazzo e non sentì quest’ultimo emettere un grugnito dolorante.
Allora e solo allora, tutto acquisì un significato: il marchio, la presenza di
Shiki, l’avversione di Haruki per gli spiriti. Era schiavo di un contratto
fatto per salvarsi, fatto per tenere lontane creature che non avrebbe mai
saputo come combattere – che, senza Shiki, lo avrebbero consumato in ogni modo
in cui era possibile consumare l’anima di un essere umano e il suo corpo.
Era il primo a ripudiare quella scelta, ma sapeva di averla compiuta
autonomamente; lasciava che un demone si cibasse di lui, gli aveva promesso la
sua anima quando sarebbe morto, e questo solo per una vista che non aveva mai desiderato avere.
Sentì le gambe cederle e si ritrovò a scivolare fino a ritrovarsi in ginocchio
sull’asfalto, le mani che erano andate a coprire istintivamente le labbra e
nascondere la prima, vera espressione che – Haruki lo pensò notandola per puro
caso – si addiceva a tutto quello che loro tre potevano vedere: terrore.
«Finalmente.» mormorò, guardandola lì a terra, a niente più di una manciata di
passi da lei. Quando Chiaki ne vide il sorriso rassegnato e lo sguardo vuoto,
non seppe dire se fosse per quello che leggeva sul suo volto o per la
consapevolezza che alle proprie spalle Shiki si cibava di uno spirito con una
brutalità difficile da immaginare senza averla mai vissuta davvero.
Seppe solo che un conato la costrinse a voltarsi da un lato, riempiendole la
bocca di un sapore orribile.
«Finalmente hai paura.»
Le mie indegne tempistiche
non sono più un mistero per nessuno, ahimé.
Purtroppo rimarranno tali – troppo lavoro e una laurea che si avvicina, ma
confidate che questa storia vedrà la parola fine.
La citazione in apertura è della canzone “The
EverlastingGuilty Crown”
degli Egoist (seconda opening dell’anime Guilty Crown).
Ci tengo a dire che Haruki è davvero una persona orribile. *ride*
Painting
a Tomorrow different from the past,
painting hope for just the two of us,
that’s the start line.
I never say goodbye… that’s how it always is.
Hide si accigliò a quelle
parole da parte di Haruki, ma non disse nulla. Si preoccupò piuttosto di
avvicinarsi a Chiaki e chinarsi su di lei, passandole una mano sulla schiena
lentamente: «Chiaki» mormorò «ce la fai ad alzarti?» la incalzò, non reputando
saggio rimanere lì in quel momento. Non aveva la minima idea di come
combattesse Shiki quando si cibava di Haruki, e non aveva intenzione di
scoprirlo finendo accidentalmente nel mezzo del combattimento – aveva però
l’assoluta certezza che se lui o Chiaki si fossero trovati tra Shiki e lo youkai, il demone non si sarebbe fatto
il minimo scrupolo ad attaccare ugualmente. D’altra parte era la sua stessa
natura a renderglielo possibile, facile e non aveva con loro alcun contratto,
il che significava avere ai suoi occhi la stessa importanza di un granello di
polvere.
Sentì Chiaki tremare leggermente sotto la sua mano, mentre tossiva un paio di
volte, l’odore acre e nauseante di ciò che aveva rimesso che gli fece storcere
istintivamente il naso; la vide comunque annuire piano un paio di volte e
strinse la presa su di lei per aiutarla a tirarsi su.
Aveva dato in parte le spalle tanto al demone quanto all’altro ragazzo, perciò
non aveva idea di cosa stessero facendo. Quando si voltò insieme a Chiaki,
tuttavia, ebbe modo di vederlo: Haruki aveva tra le mani una lama che ricordava
più una sciabola che non una tradizionale katana,
dalla lama rossa e l’elsa nera. Shiki sembrava sparito, ma la sensazione che
aveva Hide era di una presenza concentrata e non era difficile ricondurla
all’arma che Haruki stava brandendo in quel momento mentre si scagliava contro
lo youkai. Hide lo osservò slanciarsi
in avanti verso lo spirito e si preoccupò a stare pronto a tirare verso di sé
Chiaki se ce ne fosse stato bisogno; la occhieggiò, quando Haruki colpì lo
bersaglio scagliandolo qualche metro più in là e allontanandosi da loro. La
ragazza aveva ancora il viso pallido, anche se il tremore leggero che Hide
aveva avvertito poco prima sembrava scomparso.
«Chiaki» la richiamò con delicatezza «dobbiamo spostarci da qui.»
La vide sbattere un paio di volte le palpebre e poi scuotere leggermente la
testa: «Haruki non…» iniziò, deglutendo e seguendo
con lo sguardo il ragazzo più giovane. Non sembrava cavarsela male, ma lei
aveva addosso una brutta sensazione che non riusciva a ignorare – non capiva
però se fosse per lo youkai che
Haruki stava affrontando o se fosse per Shiki e l’immagine di lui che si cibava
del ragazzo.
Hide la osservò, incurvando le labbra in un sorriso lieve: «Rimango io con
Haruki.» assicurò «Ma dovresti allontanarti, per—»
«Hideyuki-san!» esclamò Chiaki tirandogli una manica e indicando poco più in
là: non solo Haruki stava impiegando più tempo del previsto a vedersela con
quello spirito – per quanto gli sembrasse in vantaggio e con la situazione
sotto controllo –, ma la zona si stava riempiendo di spiriti. E se anche a
occhio Chiaki ne riconosceva diversi minori e innocui, non era certa che lo
fossero tutti o che lo sarebbero rimasti una volta nella sfera d’influenza di
uno così incattivito come quello con cui se la stava vedendo l’altro ragazzo.
«Questo è un problema.» mormorò Hide, accigliandosi e cercando di analizzare la
situazione: quante possibilità c’erano che nessuno di quegli youkai si rivoltasse contro di loro? E
se fosse successo, quanto sarebbero stati in grado di resistere? Non aveva idea
di come funzionasse il contratto di Haruki e Shiki o quanto potesse durare
senza effetti collaterali; Chiaki era scossa ed era poco probabile che avesse
con sé l’occorrente per una varietà di spiriti come quella che si stava
avvicinando. Quanto a lui non era sicuro che, se fossero aumentati o se
avessero perso il controllo, sarebbe stato in grado di tenerli a bada.
«Chiaki, quanti ne riconosci?» domandò, senza distogliere lo sguardo dal punto
in cui se ne stavano ammassando di più. La ragazza inspirò, soffermandosi di
volta in volta sugli spiriti che vedeva: «Tutti.» decretò infine e Hide non
poté non guardarla almeno per un attimo e lasciarsi sfuggire un sospiro tra le
labbra. Si chiese fin dove arrivasse la conoscenza di Chiaki, fino a che punto
avesse memorizzato gli appunti di suo padre.
«Ce ne sono di livello alto?»
«Nessuno superiore a Shiki-san.» confermò lei «Anche
se ho una brutta sensazione da prima. Non so a causa di chi o cosa, però.»
ammise, stringendosi appena nelle spalle. Hide annuì, cercando con lo sguardo Haruki
proprio quando l’altro cozzava contro il muro che delimitava la strada sul lato
sinistro. Lo sentì tossire e poi imprecare a mezza bocca; si assicurò di avere
la presa salda sul polso di Chiaki e la tirò con sé verso Haruki che si stava
rialzando.
«Non mi serve il tuo aiuto.» gli ringhiò contro, il marchio sul braccio che
teneva la sciabola fattosi brillante in maniera inquietante. A una seconda
occhiata più attenta, Hide notò che il punto dove era stato morso stava
iniziando a sanguinare in maniera preoccupante.
«Sei ferito.» ribatté come per farglielo notare, sottintendendo che l’aiuto gli
serviva ancora: «Non serve essere testardi—»
«Sono sempre ferito!» sbottò Haruki,
in ginocchio, il respiro affannato: «Combatto sempre da solo, e sanguino ogni volta perché è così che funziona,
il sangue in cambio del potere di liberarmi di questo schifo! Quindi
risparmiami la buona azione quotidiana, va bene?»
Hide lo guardò, e Chiaki fu sorpresa dall’occhiata gelida che gli lanciò; lui
non replicò tuttavia, rivolgendosi a lei: «Hai con te qualcosa per rallentarli?»
«Sì, ho dei talismani generici.» pronunciò pronta «Ma se dovessero aumentare
potrebbero non fermarli tutti e non a lungo. Non ci possono proteggere
completamente, quindi se dovessero attaccare dall’alto non potrei fermarli.»
spiegò con parole più semplici possibile.
«Basterà.» decretò Hide «Hai il tempo dei talismani di Chiaki per abbattere
quello youkai.» comunicò all’altro
mentre la protezione della ragazza fermava gli spiriti che stavano avanzando
verso di loro. Vide alcune delle creature confuse, e diede le spalle a Chiaki: «Se
vedi la barriera cedere, avvisami.» disse, Haruki che ringhiando si scagliava
in avanti contro lo youkai, la
sciabola che andò a conficcarsi nel corpo informe di
fronte a lui. Un rantolo inumano lasciò quella che doveva essere la bocca della
creatura, la voce di Shiki che riecheggiò dalla spada: non stare troppo a contatto con lui!
Haruki arretrò di scatto, tirando via la lama, e l’essere prese ad agitarsi
ancora di più, i lamenti capaci di far gelare il sangue a riempire l’aria; a
Hide sembrava quasi di veder deambulare un ubriaco, non fosse stato per la
forma tutt’altro che umana. Un brusio agitato gli arrivò alle orecchie –
voltandosi per un attimo in direzione degli altri un brusio agitato gli arrivò
alle orecchie e vide gli altri youkai
lasciati oltre la barriera di Chiaki diminuire, alcuni forse troppo deboli
persino per vedere oltre il muro invisibile creato dai talismani e altri magari
intimiditi da quel suono sgradevole.
«Hideyuki-san.» chiamò la ragazza e Hide annuì, muovendosi per porsi tra lei e
i pochi spiriti rimasti. I talismani persero di efficacia, scivolando a terra
fluttuando piano; dopo un primo momento di sorpresa, le creature presero ad
avanzare e Hideyuki sospirò piano, ritrovando la calma completa che lo aveva
sempre caratterizzato anche camminando tra quelle figure che non avrebbe dovuto
essere in grado di vedere. Gli occhi fermi su di loro, pronunciò poche parole
con tono pacato, quasi sommesso.
Chiaki si sorprese nel vederli eseguire, come guardie di fronte al proprio
sovrano e sebbene non fosse la prima volta che lo vedeva utilizzare il kotodama e
sapesse perfettamente di cosa si trattasse, non riuscì a rimanere impassibile.
Era un potere incredibile che, per quanto studiasse, non riusciva a comprendere
fino in fondo come funzionasse o come potesse esistere qualcosa di così
sovrannaturale tra le mani di una creatura semplice, effimera e debole come un
essere umano.
Un rantolio alle sue spalle la fece voltare, inquadrando Haruki con un
ginocchio a terra e la sua schiena alzarsi e abbassarsi anche troppo velocemente:
«Al diavolo, ma quando muore?!» lo sentì dire, la mano che teneva la sciabola
che tremava visibilmente. Fu del tutto istintivo per lei muoversi e mettersi
tra lui e quello youkai, un fuda di fronte a sé che aderì al corpo
dello spirito: un ululato fu l’ultimo suono emesso dalla creatura, prima di un
tonfo a terra e un corpo esanime che andò scomparendo
lentamente fino a lasciare solo il fuda
a terra, annerito come se fosse stato bruciato.
«Hideyuki-san!» esclamò voltandosi e vedendo l’altro rimanere immobile per
qualche attimo a guardare di fronte a sé – nessuno spirito era rimasto e Chiaki
tirò un sospiro di sollievo; il ragazzo si voltò in loro direzione in tempo per
notare Haruki che faceva lo stesso e li guardava come se lo avessero appena
minacciato: «Non c’era bisogno che vi metteste in mezzo.» sibilò, la spada che
si stava ritirando, passandogli su per il braccio. Era un processo singolare da
osservare, come se la lama si fosse sciolta e risalisse strisciando lungo la
pelle fino alla ferita lasciata dai denti di Shiki. Il demone riapparve alle
spalle di Haruki – se avesse mutato forma divenendo la spada stessa o se fosse
stato solo il suo potere a stare nell’arma questo Hide non avrebbe saputo dirlo
– e occhieggiò il segno dei denti visibile sul collo del giovane; sorrise, e si
chinò in avanti passando la lingua sulla pelle offesa.
Haruki si ritrasse immediatamente: «Lasciami perdere!» lo sentì sbottare «Perché
in questo gruppo nessuno sa farsi i fatti propri.» aggiunse in un borbottio
seccato. Chiaki non si sarebbe mai aspettata di vedere Hideyuki marciare verso
Haruki e dargli un pugno senza alcun preavviso. Era chiaro che nemmeno il più
giovane se l’era aspettato, visto che finì a terra dopo aver perso il precario
equilibrio che aveva mantenuto nel ritrarsi di scatto da Shiki; Chiaki lo vide
sgranare gli occhi sorpreso per poi assumere un’espressione arrabbiata: «Che
cavolo ti salta in mente?!» esplose, una mano portata alla guancia colpita.
Hideyuki si avvicinò ancora, coprendo i pochi passi di distanza che c’erano fra
loro, e lo guardò dall’alto senza porsi come suo pari; nei giorni dal loro
primo incontro, con l’altro non si era mai comportato come se fosse superiore a
uno dei due, e forse anche quello confuse Haruki: «Non conosco le tue ragioni.»
pronunciò Hide guardandolo, gli occhi pieni di una serietà distante, fredda «E
non ti chiederò di spiegarmele. Non mi interessano, e
non mi interessa neanche sapere perché non ti piacciamo o perché vuoi
combattere da solo. Forse sei solo orgoglioso» proseguì «ma da quando vedo, non ho mai avuto problemi con gli
spiriti. Non sono mai stato nemmeno ferito. Non ho intenzione di farmi uccidere
o perseguitare solo perché tu sei ossessionato all’idea di combattere da solo o
di non volere l’aiuto degli altri.» lo sgridò, severo.
«Non so se a ucciderti sarà il tuo contratto con un demone o uno youkai, ma ti proibisco di mettermi in
mezzo. La prossima volta se non vuoi aiuto fai da esca, attira gli spiriti da
un’altra parte e combatti le tue battaglie come preferisci.» aggiunse,
voltandosi con tutta l’intenzione di andare via, soffermandosi solo quando fu
accanto a Chiaki e guardandola per qualche momento, in una tacita domanda. Lei
annuì incerta, ma Hide si voltò comunque verso Haruki: «Impara a ringraziare,
anche quando l’aiuto che ti viene dato non era richiesto.» disse, muovendosi
nella direzione opposta a quella in cui si trovava il più giovane.
Con un ultimo sguardo incerto verso Haruki, ancora a terra, Chiaki fece lo
stesso.
Nell’aprire la porta dell’appartamento due giorni dopo, Hide non si sorprese
troppo di ritrovarsi davanti Chiaki; l’unica differenza rispetto alle visite da
quando avevano visto l’ultima volta Haruki era l’abbigliamento della ragazza.
Era andata a trovarlo sempre dopo l’orario scolastico, per cui l’aveva sempre
vista in divisa scolastica; aveva creduto che di sabato non sarebbe passata, e
invece eccola lì in borghese con una borsa abbastanza capiente che – provò a
indovinare – doveva contenere dei documenti o un libro che di sicuro Hide
avrebbe faticato a comprendere e che di certo per lei doveva essere stato una
lettura quasi “leggera”. Incurvò le labbra in un sorriso, facendo spazio per
lasciarla entrare. Era diventato un fare curiosamente abituale, a modo suo; di
sicuro continuando così Chiaki sarebbe entrata nel suo appartamento più di
qualsiasi altra ragazza – non che Hide ne frequentasse molte, men che meno in quel senso – e dei membri della sua band.
«Ti ho già detto che non sei tenuta a passare tutti i giorni, vero?» chiese,
una sfumatura divertita nel tono di voce, vedendola rimanere in attesa
all’ingresso. Nonostante le avesse detto spesso che poteva accomodarsi una
volta entrata, Chiaki non lo faceva mai se non era preceduta da lui verso una
qualsiasi area del piccolo appartamento. Lei lo guardò, senza un’espressione
particolare in viso, per poi pronunciare un: «Ti ho disturbato?»
Hide sospirò, scuotendo la testa e spostandosi per primo verso la stanza più
grande dove l’aveva accolta anche la prima volta: «Non è affatto un disturbo,
figurati. Anche se non vorrei che ti creasse problemi venire qui di continuo.»
ammise, facendole cenno di accomodarsi. La osservò sedersi, recuperando un
secondo cuscinetto per poi sistemarsi dal lato del tavolinetto basso alla
sinistra della ragazza.
«Come va il marchio, Hideyuki-san?» chiese lei senza girarci intorno. Erano due
giorni che Chiaki andava lì per controllare il marchio apparso dopo quella
specie di scontro avuto con gli youkai,
rifiutandosi categoricamente di sottovalutare la cosa. Sebbene Hide le avesse
assicurato di non essere particolarmente preoccupato dalla cosa, lei aveva
insistito. La osservò mentre estraeva dalla borsa un piccolo plico di fogli,
dai quali notò delle linguette colorate che uscivano fuori in un paio di punti;
doveva aver cercato informazioni e appuntato le pagine.
«Come ieri. Non ci sono stati cambiamenti, non è successo niente e nessuno
spirito mi ha fatto visita nel cuore della notte.» la rassicurò, occhieggiando
i fogli poggiati ora sul tavolino e ritrovandosi poi con gli occhi di Chiaki
puntati addosso. Sospirò lentamente, portando una mano al bordo della propria
maglia e tirandolo su da un lato, estraendo il braccio dalla manica perché lei
potesse osservare la spalla – e il marchio apparso di recente. Chiaki si mosse
per sistemarsi più vicina e sfogliò poi il plico in corrispondenza della
linguetta azzurra; alternò lo sguardo dalla spalla alla figura stampata su carta
un paio di volte e poi riprese a girare le pagine per aprire il punto
contrassegnato dal segno verde.
«Sei strana, Chiaki.» pronunciò Hide a un certo punto, senza cambiare
posizione. Lei non portò lo sguardo su di lui, ma diede voce a un piccolo «Mh?» per dar segno di stare ascoltando: «Vieni qui da me da
sola, a parte la volta in cui sei passata con Haruki, e negli ultimi giorni sei
sempre qui e sembra che non ti importi troppo di stare entrando
nell’appartamento di un ragazzo o delle cose che potrebbero dire se ti vedesse
qualcuno che ti conosce. Credo di aver capito che non ti interessa troppo»
ammise «perché altrimenti non mi avresti chiesto di togliere la maglia come se
niente fosse, l’altro giorno. Anche se è per il marchio, ovviamente.» concluse senza
malizia, anche se già il discorso in sé probabilmente ne aveva fin troppa.
«Mi sento un po’ a disagio.» la sentì ammettere, e non se l’era aspettato «Ma
non perché sei… in ogni caso non ti ho chiesto di
spogliarti. Solo di scoprire il marchio.» borbottò piano nel primo, vero
accenno di imbarazzo che Hideyuki le avesse mai scorto in viso. Ridacchiò,
senza neanche provare a nasconderlo: «Scusa, Chiaki, non volevo metterti in
imbarazzo.» la prese bonariamente in giro, allungando una mano per sfiorarle il
capo gentilmente. La sentì irrigidirsi, inizialmente, ma rilassarsi piano con
un sospiro che lei doveva essere certa di stare nascondendo al meglio.
«Eccolo.» la sentì dire «Non ne ero sicura a casa, ma ora che ho davanti
entrambi i marchi sono identici.» pronunciò e Hide suppose di poter infilare di
nuovo la manica della maglietta; si accostò un poco per poter guardare anche
lui gli appunti della ragazza: «Buone notizie?» la incalzò, ritrovandosi in
risposta un annuire leggero ma deciso.
«Si tratta di un marchio di “tracciamento”. Non è proprio come quelli di
localizzazione, quelli che alcuni youkai
utilizzano per segnare le proprie vittime e essere sempre in grado di
ritrovarle. È qualcosa a metà tra una localizzazione e un marchio di
protezione. Da quanto leggo non ha grossi effetti se non segnalare agli altri
spiriti che sei… sotto l’occhio di qualcuno. Una
specie di atto di proprietà, forse.» concluse, spostando lo sguardo dalle
pagine a lui «Scusami se non posso essere più precisa. Sono vecchi appunti e
sono incompleti, quindi non posso sbilanciarmi più di così.»
«Non preoccuparti, hai già fatto più di quanto avrei potuto fare da solo. Sei
davvero una specie di enciclopedia vivente, eh?» disse, alzandosi per dirigersi
in cucina senza dire altro e riapparendo poco dopo con due lattine che andò a posare sul tavolino. Una delle due era tè verde,
l’altra latte alla fragola: «Preferenze?» la interrogò, vedendola optare per la
prima. Ridacchiò nuovamente, aprendo la restante.
Tacquero entrambi, bevendo in silenzio per diversi minuti. A Hide non pesava
granché, abituato ad adattarsi al modo di fare altrui non perché timoroso di
risultare sgradito ma perché – così dicevano le persone che lo conoscevano,
almeno – portato per natura a mettere gli altri a proprio agio.
«A essere sincero» riprese guardando la lattina poggiata sulla superficie in
legno «all’inizio mi ha stupito che tu sia rimasta in compagnia mia e di
Haruki. Specie quando ho capito che sei a disagio con le persone.» disse, forse
suonando indelicato, ma preferendo essere diretto. Chiaki non sembrava stupita
di essere stata smascherata, né colpita dalle parole di Hideyuki.
«Posso chiederti come mai?» aggiunse, e per qualche strano motivo vide la
ragazza posare gli occhi su di lui, un velo di sorpresa nel suo sguardo.
Sembrava intenta a studiarlo, a carpire un significato più profondo di quello
semplice e immediato che le parole di Hide implicavano; probabilmente non
riuscì a trovarlo da sola, perché aggrottò appena le sopracciglia dando voce a
un dubbioso: «Perché vuoi saperlo?»
Non è che Hideyuki non capisse il motivo di quella sorta di ritrosia: avevano
saputo troppo gli uni degli altri in troppo poco tempo e quasi sempre senza
avere il reale intento di rivelarsi, di mostrare segreti che in nessun’altra occasione
avrebbero mai rivelato. Eppure in nessuna occasione qualcuno di loro aveva
fatto domande agli altri, dando la possibilità di tenere qualcosa per sé; forse
era quello a scombussolare Chiaki, a far sembrare così strano il suo
interessamento: non la metteva alle strette ma le lasciava decidere se
confidare qualcosa e quando fermarsi.
«Io e Haruki abbiamo visto qualcosa di te che non volevi mostrarci. Ti ho già
detto che non posso fare nulla per farmi perdonare per quello, non importa
quanto io pensi che non ci fosse scelta o tu sia convinta che avresti preferito
altre alternative a quello che è successo.» iniziò quello che aveva l’aria di
essere un discorso lungo, voltandosi con tutto il corpo verso di lei e non solo
con la testa per guardarla: «Però ormai è accaduto, e conosco qualcosa di te. E
ammetto che una domanda mi ronza in testa da quando ho visto la tua coscienza.»
aggiunse, concedendosi qualche istante per studiare la sua espressione, per
cogliere eventuali segni da parte di lei di non volere che continuasse. Non ve
ne furono: «Tu non odi le persone.» pronunciò, e non era una domanda «Sei
arrivata persino a importi un marchio che ti permettesse di vedere e non c’è niente di divertente in
questo. Lo hai fatto per dimostrare che tuo padre non mentiva, che c’era
davvero qualcosa anche se lui non riusciva a vederla concretamente e gli altri
ne dubitavano. Certo, non mi permetto di mettere chiunque sullo stesso piano di
tuo padre» chiarì prima di essere frainteso: «Ma fai attenzione a non causare
problemi alla zia che ti ha presa con te. Ti sei presa cura di me aiutandomi
con lo spirito che era qui in casa, e ora con il marchio. Non hai esitato a
spalleggiare Haruki, anche se lui non ha capito che era ciò che stavamo
facendo.» si corresse con un mezzo sorriso che Chiaki non riuscì a decifrare.
Hideyuki prese un sorso della sua bevanda, forse per dare l’idea di non stare
accusando nessuno o di non voler chiedere qualcosa a bruciapelo; non fu
comunque in grado di trovare un modo pacato di esporre la sua domanda.
«Una persona che odia gli altri non penserebbe nemmeno, di aiutarli. Quindi mi
chiedo, c’è un motivo per cui cerchi di stare lontana dagli esseri umani?»
concluse, osservandola. Chiaki non sembrava stupita dalla domanda di per sé, ma
confusa sì: per lei sembrava essere più difficile capire perché Hide si
interessasse tanto a una questione che a conti fatti non lo riguardava,
piuttosto che comprendere la domanda o cosa avesse scatenato in lui pensieri
tali da fargli avanzare ipotesi tanto precise. Per questo impiegò diverso tempo
a rispondere, al punto che Hideyuki pensò di aver fatto una domanda così
indiscreta da non meritare nessun tipo di replica, fosse stata anche solo
dirgli che non erano affari suoi.
Stava per alzarsi con la scusa di buttare la propria lattina ormai vuota,
quando la voce di Chiaki lo fermò lì dov’era, in procinto di mettersi in piedi:
«Io non odio le persone.» fu la prima cosa che disse, confermando ciò che lo
stesso Hideyuki aveva detto in effetti. Lui tornò seduto, la lattina
abbandonata sul tavolo e il busto di nuovo completamente girato verso di lei,
addosso la sensazione di stare ascoltando qualcosa di importante che forse
poche altre persone avevano avuto modo di udire.
«Non hai torto quando dici che mi sento a disagio con loro, ma…
anche io sono un essere umano.» replicò, alzando finalmente lo sguardo su di
lui e puntandolo in quello altrui. Non era la prima volta che notava quanto
particolari fossero gli occhi di Hideyuki, almeno per essere un giapponese:
erano chiari, di un grigio che non somigliava né al cielo carico di pioggia, né
a quello quasi sporco che preannunciava la neve in inverno. Dal momento che non
sapeva niente di lui, aveva solo potuto supporre che quel colore potesse essere
dovuto a qualche parentela occidentale nella famiglia del più grande; neanche a
dirlo, non aveva fatto domande.
«Gli youkai» riprese poi, stupendo
sia Hide che se stessa «sono spiriti, per la maggior parte. Alcuni dicono si
tratti di mostri, altri di demoni… anche se la
definizione precisa esiste, al di là delle credenze popolari, io non ho mai
fatto troppa attenzione a come gli altri li chiamassero. Perché l’unico tratto
che mi interessava davvero di loro, non cambiava a seconda che fossero l’una o
l’altra cosa.» ammise, abbassando gli occhi sulla lattina mezza piena, ancora
tra le sue mani. Hideyuki avrebbe voluto chiederle di essere più chiara, ma non
lo fece, abbastanza sicuro che la spiegazione sarebbe arrivata.
«Sono comunque immortali. O almeno, hanno una vita così lunga che a noi non
basterebbero generazioni per vederli scomparire.» sembrò concludere così, come
se tutto il resto fosse ovvio, scontato al punto da non aver bisogno di
aggiunte di alcun tipo. Hide sbatté per un paio di volte le palpebre, e per
assurdo sentì di capire – se non avesse visto la coscienza di Chiaki
probabilmente non avrebbe mai compreso, ma era quello il punto: l’aveva vista.
Aveva visto una bambina prendere atto del fatto che suo padre non sarebbe più
tornato, che per sua madre lei non era una ragione sufficiente per non
lasciarsi sconfiggere dal dolore. L’aveva vista venire accudita da una zia che
per quanto amorevole non avrebbe mai potuto sostituire dei genitori. Aveva
visto un’adolescente poco più piccola di lui entrare in un mondo da cui tutti
quelli che c’erano dentro volevano scappare, farlo nonostante le creature
spaventose che a volte lo abitavano; imporsi un marchio che le avrebbe impedito
di fuggire anche se lo avesse voluto, e nonostante tutto rimanere. Dimostrare. Ed era rimasta sola, circondata da creature
troppo diverse da lei per poter sostituire una famiglia perduta e al tempo
stesso unica testimonianza che quella famiglia c’era stata davvero, che era
crollata su se stessa, ma non per delle fantasie.
«Gli esseri umani sono fragili.» la sentì mormorare «Non riesco a… stargli vicino come prima. Ho paura che scompaiano tutti
prima di me.»
Hideyuki avrebbe voluto dirle che non era così, che le persone prima o poi se
ne andavano ed era vero, ma non lo facevano con la frequenza che sembrava
spaventarla tanto da indurla a mantenere un distacco – involontario, iniziava a
sospettarlo – come quello di Chiaki. Avrebbe voluto rassicurarla, perché nel
tempo aveva potuto vantare la capacità di inquadrare gli altri facilmente, e
qualcosa gli diceva che senza quella paura Chiaki sarebbe stata il tipo di
ragazza capace di piacere a tutti o di prendersi cura del prossimo senza
difficoltà. La vedeva fragile, più che mai in quel momento, e sentiva quasi il
bisogno di fare qualcosa perché lei capisse di non aver alcun bisogno di
chiudersi fuori dalla sfera dei rapporti umani.
Eppure, cosa mai avrebbe potuto dirle? Il suo passato non era di certo una
smentita, anzi; poteva condividerlo, sì, ma con il rischio di ottenere
l’effetto contrario.
«C’è una parte del mio passato, i primi… dodici anni
della mia vita, che non ricordo per nulla.» esordì così, un mezzo sorriso sulle
labbra e gli occhi chiari su Chiaki. Se l’era aspettato, di vederla ricambiare
lo sguardo, ma per qualche momento tacque lo stesso. Non si trattava di essere
presi alla sprovvista, quanto dello stupirsi di come una persona che tanto
faticava a instaurare rapporti con gli altri riuscisse poi ad affrontare una
confessione intima con una tale sincerità; chiunque altro si sarebbe sentito a
disagio al suo posto – lo stesso Hideyuki, se lei avesse raccontato il suo
passato anziché ritrovarsi costretta a condividerlo nel modo peggiore, non
avrebbe saputo di preciso come comportarsi – e invece lei lo guardava, quasi a
suggerirgli di avere la sua completa attenzione.
Hide sospirò impercettibilmente: «Il primo ricordo che ho è in ospedale, seduto
in un letto e con il medico che mi faceva delle domande. Non avevo idea di dove
mi trovassi, né di chi fossi. Ero illeso, ma mi avevano trovato privo di
conoscenza.» iniziò a spiegare, il tono di chi conosce già il finale della
storia e non riesce ad appassionarsi al racconto «Anche se dagli accertamenti uscì fuori che non avevo subito danni di alcun tipo al
cervello, l’amnesia non è mai passata e io non ho mai ricordato cosa ci fosse
prima dell’ospedale. Ho passato un periodo senza famiglia, perché nessuno è mai
venuto a prendermi né all’ospedale, né dopo. Era come se non esistesse nessuno
per me: genitori, fratelli, lontani parenti. Niente. Il nulla completo e
creature sovrannaturali che vedevo soltanto io.» ammise, con un mezzo sorriso,
più amaro che non divertito. Chiaki non diceva nulla, né dava cenno di pensare
qualcosa di preciso: lo guardava e basta, senza interromperlo.
«Il nome “Hideyuki” mi è stato dato dall’infermiera che si è presa cura di me
fino a quando non sono stato dimesso. Non mi importava troppo del modo in cui
venivo chiamato… alla fine suonava tutto estraneo,
quindi uno valeva l’altro. Il cognome l’ho preso ovviamente dalla famiglia
adottiva.» chiarì, benché fosse sicuro che non servisse davvero «Ho capito
presto che quello che vedevo non era niente di normale, né qualcosa che
chiunque era in grado di notare. Anzi. All’inizio ero convinto che fosse non
proprio all’ordine del giorno, ma abbastanza frequente. Poi andando a scuola ho
capito che non era affatto così. In quel momento ho pensato per la prima volta
di essere davvero solo: io e gli esseri con cui non dovevo parlare per non
sembrare pazzo.» confidò, senza mutare espressione. Osservandolo, Chiaki non
credeva che la cosa fosse dovuta a un disinteresse nei confronti delle proprie
vicissitudini, ma all’aver preso coscienza di qualcosa e averlo fatto troppo
presto. Hideyuki aveva dodici anni quando capì di essere diverso, la stessa età
in cui lei si avvicinava alle ricerche di suo padre, ancora perfettamente parte
di ciò che l’altro faceva rientrare nella parola “normalità” e ne era uscita
forzatamente. Si chiese se anche Hideyuki, come Haruki, la biasimasse per aver
gettato al vento una fortuna che a loro non era mai appartenuta.
«Li ignoravo, nella maggior parte delle occasioni, specialmente quando ero in
compagnia di qualcuno. Ma c’erano volte in cui mi sentivo completamente fuori
dal gruppo, e non perché in classe mi escludessero o qualcosa del genere. Anche
se non so come spiegartelo, immagino che la conosca anche tu, quella sensazione
di essere dove non dovresti, vero?» chiese, ma si limitò ad accarezzare la
figura di lei con lo sguardo, senza aspettarsi davvero una risposta: «Così in
quelle occasioni andavo dove nessuno poteva vedermi – prima non abitavamo qui,
non è qui che ho frequentato la scuola. Era più in campagna, non è difficile
trovare un posto per stare soli – e qualche volta vedevo gli youkai… se mi
sembravano abbastanza innocui, parlavo con loro. Le prime volte mi sedevo
vicino agli spiriti fingendo che fosse casuale, come se non riuscissi a
vederli, perché era quello che facevano le altre persone.» si fermò, in cerca
delle parole adatte per proseguire. Non doveva fare grossi sforzi di memoria
per organizzare quel che voleva raccontarle e soprattutto dove aveva intenzione
di andare a parare, né provava difficoltà nel condividere il suo passato con
lei. In un certo senso, però, aveva la sensazione di dover scegliere le parole
con cura.
«Sai meglio di me che non ci sono solo youkai
benevoli. Non ti saprei dire se mi avessero adocchiato perché fiutavano il
potere di cui nemmeno io ero ancora cosciente, o se fossi per loro solo un
umano come gli altri. D’altra parte, a differenza tua Chiaki, io non avevo mai
studiato niente su di loro né avevo mai pensato di farlo visto che cercavo di
tenermene alla larga il più possibile. Così alla fine tentarono di aggredirmi,
perché è nella natura di alcuni di loro.» sembrò quasi volerli giustificare,
con uno sbuffo divertito «E in quell’occasione ho scoperto che potevo
controllarli. Certo, all’inizio non funzionava sempre e non riuscivo ad
allontanarli tutti, ma con il tempo ce l’ho fatta e intanto ho continuato a
tenermene alla larga se non era strettamente necessario interagire con loro.
Questa forse è l’unica cosa che tu non puoi capire.» ammise, guardandola
direttamente negli occhi.
«Hideyuki-san, credo che vi siate fatti un’idea sbagliata.» disse, e Hideyuki
capì che in quel plurale era incluso anche Haruki: «Non vado alla ricerca di youkai con cui stringere amicizia per
sopperire a una mancanza d’affetto o di presenze nella mia via vita. Non mi
sono imposta di vedere al solo scopo
di farmi degli amici tra le creature sovrannaturali. Li vedo, e se posso dare
una mano lo faccio, ma nulla di più. Solo perché sono più incline alla loro
compagnia che a quella delle persone non significa che imponga la mia presenza
o che la loro sia un bisogno viscerale nella mia vita.» volle chiarire,
rimanendo confusa dallo scuotere la testa di Hideyuki.
«Non era questo che intendevo.» riprese lui «Ma al tempo stesso è proprio
questo che ti rende diversa da me e Haruki. Tu vuoi aiutarli. Per noi gli spiriti sono sempre stati soltanto il monito
di una diversità che crediamo ci abbia rovinati.» spiegò più chiaramente
possibile.
«…rovinati?» chiese la ragazza con cautela, un
accenno di confusione ancora perfettamente visibile nel suo sguardo.
«Chiaki» pronunciò il suo nome con la stessa pacatezza che le aveva rivolto dal
primo saluto, e lei vide che il sorriso era ancora lì, invariato; le parlava
con gentilezza, quasi temesse di non poterle dedicare altro che quella «tu hai
avuto una famiglia. Tuo padre era solo, a causa delle percezioni che aveva, ed
erano molto più vaghe del vedere gli spiriti. Cosa credi farebbero i genitori
di un figlio che ripete in continuazione di parlare con creature invisibili,
perché è troppo piccolo per sapere di doverlo tenere per sé?» la incalzò: «Haruki
ti ha mai parlato della sua famiglia? Ha mai nominato i genitori?»
Chiaki tacque, e non perché non avesse compreso cosa intendesse Hideyuki; al
contrario, la consapevolezza che lui voleva farle acquisire serpeggiava nella
sua testa come un sussurro tra le mura di una casa dove si vuole mantenere a
tutti i costi un segreto che, però, non si è in grado di tacere oltre. Scosse
la testa, piano, e Hideyuki seppe che aveva capito.
«Ma non ti sto raccontando questo per rafforzare la tua idea sulle persone che
se ne vanno.» riprese: «Al contrario. Perché prima di trasferirmi qui a Tokyo,
ho scoperto che a volte le persone rimangono.» assicurò «Certo, con il tempo si
può morire. E gli incidenti capitano, e ciò che è accaduto a tuo padre e tua
madre è terribile. Il modo in cui siamo rimasti soli è diverso, ma tua zia ti
vuole bene. I miei genitori adottivi sono rimasti anche quando li hanno
chiamati dalla mia scuola, dicendo che sostenevo di vedere cose che non
esistevano: avrebbero potuto allontanarmi anche loro, e lasciarmi solo, ma non
lo hanno fatto. E forse c’è qualcuno così anche per Haruki.» concluse, o almeno
Chiaki ebbe quell’impressione. Attese, prima di dire qualsiasi cosa: capiva ciò
che Hideyuki aveva voluto farle sapere condividendo il suo passato con lei –
forse, in un certo qual modo, era anche il suo modo per farsi perdonare di aver
ficcanasato in quello della ragazza stessa –, ma non era sicura di poter avere
da un momento all’altro la stessa fiducia che sembrava animare Hideyuki.
«Chiaki» la chiamò di nuovo e, alzando gli occhi su di lui, fu sorpresa di
sentire una mano sfiorarle la guancia in una carezza incerta ma gentile; il
sorriso che Hideyuki le stava rivolgendo la fece sentire più in imbarazzo che a
disagio «le persone potrebbero sparire prima di te, io questo non lo posso
cambiare e non posso dire che non accadrà mai più, perché non ci credo nemmeno
io.» ammise sincero: «Ma a volte rimangono. A volte per le persone scelgono di
restare con noi. A questo puoi credere.»
Per un’intera settimana Chiaki aveva mantenuto invariata la sua routine: dopo la
scuola andava a casa di Hideyuki per controllare che il marchio non fosse
mutato o avesse causato qualche effetto collaterale, dopodiché se ne andava
così com’era venuta. Dopo la volta in cui si era fermata a parlare con lui, non
si era più trattenuta così a lungo; non c’era un motivo preciso, anzi:
semplicemente la rarità era stata quell’occasione specifica e lei era tornata
alla propria “normalità” – non che avesse motivo di trattenersi in casa
dell’altro, comunque. Voltando l’angolo, l’appartamento di Hideyuki ora nel suo
campo visivo, non si era aspettata di ritrovarsi davanti Haruki; il ragazzo
stava poggiato contro il muretto e la fissò non appena lei si fermò d’istinto
nel vederlo: le mani in tasca e l’aria seccata, lo vide scostarsi dal proprio appoggio
e fissarla per qualche attimo, incerto su cosa dire forse.
Fu la voce di Shiki a rompere il silenzio: «Hai intenzione di stare fermo
ancora per molto a fare il timido?»
«Non cominciare.» tagliò corto il ragazzo, senza guardarlo e voltandosi verso
l’appartamento di Hideyuki, facendole un cenno con la testa «Andiamo, non ho
intenzione di tenere questo coso con me ancora per molto.» borbottò e solo in
quel momento Chiaki notò che l’altro non si era chinato a prendere una borsa
come aveva pensato nel vederlo scostarsi dal muretto, ma un trasportino per
animali. Al suo interno riuscì a intravedere un felino, ma ciò che attirò la
sua attenzione fu un sigillo applicato su parte della rete.
Aggrottò le sopracciglia, riconoscendolo: «Quello…»
«Dubito che scappi via, ma nel caso non ho voglia di corrergli dietro. Ci ho
già messo un sacco a trovarlo.» spiegò alla meno peggio. Chiaki decise di
seguirlo, visto che sarebbe stato assurdo non farlo dovendo andare nella stessa
direzione; lo aveva visto per pochi attimi, ma suppose di poter limitare la
natura dello youkai all’interno del
trasportino a due, tre possibilità al massimo. Non chiese di quale si
trattasse, tuttavia, preferendo dare priorità ad altro: «Perché lo stai
portando con te?»
«Perché sta morendo.» replicò senza troppi giri di parole. Lei non disse nulla,
lasciando che il silenzio si formasse di nuovo fra loro – differentemente da
quando era con Hideyuki, con Haruki non riusciva mai a scambiare più di qualche
frase e le uniche volte in cui era successo si trattava sempre di situazioni
che avrebbe voluto evitare se avesse potuto. Quale fosse il nesso per cui
Haruki trovava sensato portare con sé uno youkai
destinato a sparire di lì a poco, non lo comprendeva. Era certa che se avesse
chiesto maggiori spiegazioni, difficilmente le sarebbero state date.
Shiki, al fianco di Haruki, le rivolse un’occhiata sorridendo beffardo,
scostandosi dal ragazzo e rallentando il suo levitare – a ben pensarci, non lo
aveva mai visto camminare – fino ad
affiancarla; Chiaki abbassò lo sguardo.
«Ti ha fatto così tanta paura, vedere la natura del mio contratto con Haruki?»
le sussurrò vicino, troppo per non rabbrividire. Le aveva fatto paura? Sì.
Perché per la prima volta aveva avuto conferma che Shiki non era la guardia del
corpo di Haruki come poteva sembrare a un primo sguardo. Il demone era come un
avvoltoio pronto a cibarsi di una carcassa: stava solo aspettando il momento
giusto, quello in cui sarebbe stato possibile gustarla indisturbato. E vedere
Haruki che, di sicuro cosciente della cosa, si affidava comunque a un potere
con prezzo così alto da pagare le aveva fatto paura: come si arrivasse a tanto,
cosa spingesse un ragazzo così giovane a offrirsi volontariamente in ogni modo
possibile come Haruki faceva con Shiki, era qualcosa che lei non riusciva a
comprendere o immaginare. Era per questo che l’altro si era così arrabbiato di
fronte alla rinuncia che lei aveva fatto marchiandosi?
«Oppure ti ha—»
«Shiki.» sentì pronunciare al ragazzo, ritrovandolo fermo a pochi passi da lei,
lo sguardo eloquente: c’era un tacito ordine nel suo tono di voce, e sebbene
Chiaki non avesse mai visto l’altro imporre qualcosa seriamente al demone – né
quest’ultimo lasciarglielo fare – lo sentì far schioccare la lingua contro il
palato con stizza, prima di tornare al fianco dell’altro senza più degnarla di
uno sguardo.
Sospirò, continuando a seguirli, fino a varcare l’ormai famigliare soglia del
condominio, salendo le scale e raggiungendo l’appartamento di Hideyuki; fu
Haruki a bussare un paio di volte e Chiaki riconobbe sul viso di Hideyuki la
stessa sorpresa che aveva provato lei di fronte al ragazzo. Forse anche lui era
conscio di quanto inaspettata dovesse essere la sua visita, perché s’imbronciò
un poco, borbottando un: «Ti ho portato una cosa, possiamo entrare?»
Hideyuki annuì, scostandosi di lato per fargli spazio; richiuse la porta quando
furono tutti e tre nell’ingresso, muovendosi per primo verso la stanza dove li
aveva già ospitati altre volte. Si sedette dopo aver disposto dei cuscini anche
per loro, e attese. Haruki parve intenzionato a non tirarla troppo per le
lunghe: posizionò il trasportino tra sé e l’altro, rimuovendo il sigillo e
aprendo in modo che il felino al suo interno potesse uscire. Chiaki lo trovò
strano, perché nessuno abituato ad avere a che fare con gli youkai ne avrebbe mai liberato uno
dentro casa, nemmeno il più innocuo e soprattutto non Haruki. Ma lui sembrava
perfettamente conscio di cosa stesse facendo: lo vide allungare entrambe le
mani e tirare fuori lui stesso lo spirito che, docile, quasi non si mosse. Lo
pose tra sé e Hideyuki e lo guardò, inizialmente senza parlare.
«Voleva incontrarti.» se ne uscì guadagnandosi
un’occhiata stupita dal padrone di casa e una piuttosto confusa da Chiaki.
Parve non badarci, o forse finse di non accorgersene: «Ti sei ritrovato un
marchio dopo lo scontro dell’altro giorno, no?» domandò con fare retorico e
abbastanza frettoloso «Beh, pare che sia opera sua. Ma non riesce più a
muoversi bene, quindi l’ho portato io.» dichiarò incrociando le braccia al
petto, neanche li stesse sfidando a lamentarsi. A uno sguardo più attento
Chiaki notò che le code del felino erano due; non disse nulla però, visto che
Hideyuki sembrava più interessato a capire le dinamiche di ciò che stava
accadendo che di quale creatura si trattasse, sempre che non l’avesse
riconosciuta da solo – le nekomata erano uno degli spiriti più comunemente conosciuti
in fondo, non sarebbe stato strano.
Hideyuki aggrottò le sopracciglia, in procinto di dire qualcosa, quasi
sicuramente di chiedere a Haruki che intenzioni avesse visto che l’ultima volta
in cui c’era stato uno youkai in casa
sua non era andata proprio benissimo; tuttavia qualcosa lo fermò, fu chiaro nel
modo in cui spalancò leggermente gli occhi quasi avesse finalmente trovato il
collegamento che gli serviva per chiarire l’intera faccenda. Toccò a lui
allungare una mano verso lo youkai e
quello non si mosse, limitandosi ad aprire pigramente un occhio e lasciarsi
toccare, somigliando molto più a un gatto che a uno spirito. Un miagolio
soddisfatto fu la risposta a quel gesto, e vedendo il sorriso gentile sulle
labbra di Hideyuki Chiaki non riuscì a trattenersi dal chiedere se conoscesse o
meno quello spirito. La risposta a lei sembrava evidente, ma non poteva esserne
certa al cento per cento.
Hideyuki annuì, senza spostare lo sguardo dalla creatura: «Ricordi quando
l’altro giorno ti ho detto che chiamarono i miei genitori adottivi a scuola?»
la incalzò, senza attendere una risposta né pensare al fatto che per Haruki
quel discorso con ogni probabilità non aveva senso «Avevo soccorso un gatto.
Avevo abbassato la guardia perché pensavo che un animale non potesse essere uno
youkai, così lo avvicinai senza
pensarci. Quasi subito però capii di aver sbagliato, perché alcuni compagni
continuavano a chiedermi se mi fosse caduto qualcosa per terra. Capii che non
lo vedevano, ma sembrava stare così male che continuai a occuparmene lo stesso
e alla fine dissi che c’era un gatto. Sapevo che mi avrebbero dato del
bugiardo, ma mi sarei sentito peggio facendo finta di non averlo visto e
andando via. Non pensavo mi avrebbe mai ritrovato o che lo avrei rivisto.»
ammise, guardando con dolcezza lo spirito, quasi rivedesse dopo tanti anni un
amico di vecchia data.
La nekomata,
presa una seconda carezza, si alzò lentamente per muoversi piano verso
Hideyuki, fino a salirgli sulle gambe incrociate. Chiaki la vide picchiettare
con il muso contro il braccio marchiato del ragazzo e lui tirò su la manica, notando
che gli strani simboli a cui si era ormai abituato stavano svanendo lentamente.
Lo youkai, soddisfatto, si
acciambellò lì dov’era.
«Mh?» fece dubbioso Hideyuki, ma fu Haruki a
rispondere: «Credo che stia per scomparire.» pronunciò, guardando dritto negli
occhi il più grande «Voleva vederti ancora. Forse voleva ringraziarti o solo
toglierti quel segno. Non lo so, ma si muoveva già poco quando l’ho trovato, quindi…» lasciò cadere la frase accolto unicamente dal
silenzio. Hideyuki spostò lo sguardo sullo spirito, notando che stava
effettivamente sparendo proprio come ciò che era stato fino a poco prima sul
suo braccio. Chiaki lo vide deglutire a vuoto, senza fare nulla se non posare
di nuovo la mano sulla testa della creatura: «Grazie di essere tornato.»
mormorò piano.
Il felino miagolò debolmente, ma non sembrava soffrire e nessuno di loro fece o
disse altro, limitandosi a guardare una vita che si affievoliva, lenta. Chiaki
ne aveva visti altri di youkai vicini
alla fine della loro esistenza, ma non per questo trovava la cosa più facile.
Tuttavia, guardando quello e Hideyuki, capì che forse era davvero così:
qualcuno se ne andava per sempre, qualcuno decideva di rimanere e altri ancora
tornavano per poter dire addio alle persone importanti.
E così ci siamo tolti anche il secondo passato, che poi
era anche il più felice (…).
Unica nota per questo capitolo: la nekomataè unoyoukai, una creatura
soprannaturale della mitologia giapponese evolutasi da un
gatto e caratterizzata
dalla presenza di una coda biforcuta o addirittura di una seconda coda e dalla
capacità di camminare sulle zampe posteriori. (wikipedia)
Ci sarebbe molto altro da dire, ma per quel che è funzionale al capitolo,
questo è sufficiente.
La citazione in apertura viene da Daisy
(Stereo Dive Foundation), la ending
di Kyoukai no Kanata.