Apocalisse Zombie: fuga e sopravvivenza

di lupacchiotta blu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Presa di coscienza ***
Capitolo 2: *** Il rifugio ***
Capitolo 3: *** Fuga ***
Capitolo 4: *** La calma prima della tempesta ***
Capitolo 5: *** E pensare che mi stava tornando l'appetito... ***
Capitolo 6: *** Una nuova compagna di disavventure ***
Capitolo 7: *** Attacco al bunker ***
Capitolo 8: *** Due pallini (quasi) nelle chiappe ***
Capitolo 9: *** Restare a piedi... ***
Capitolo 10: *** Se c'è qualcosa che piace a tutte le ragazze, quel qualcosa sono le scarpe ***
Capitolo 11: *** La speranza è l'ultima a morire ***
Capitolo 12: *** Francesca è brava a tagliare la stoffa, non i capelli ***
Capitolo 13: *** Quando tutto sembra andare per il meglio, la sfortuna è proprio dietro l'angolo ***
Capitolo 14: *** A volte chi ti frega è chi dovrebbe aiutarti ***
Capitolo 15: *** Non tutti i mali vengono per nuocere ***
Capitolo 16: *** Era nuova, vita nuova ***
Capitolo 17: *** I 'fantasmi' del passato ritornano ***
Capitolo 18: *** Quando si dice "far vedere i sorci verdi" ***
Capitolo 19: *** Forse è meglio non rimandare a domani quello che puoi fare oggi ***
Capitolo 20: *** Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino ***
Capitolo 21: *** Missione di spionaggio ***
Capitolo 22: *** Brutte sorprese ***
Capitolo 23: *** Quando si litiga tra fratelli... ***
Capitolo 24: *** ... si finisce comunque per far pace ***
Capitolo 25: *** Prigionieri al fresco ***
Capitolo 26: *** Epurazione ***



Capitolo 1
*** Presa di coscienza ***



Avviso: i primi 3/4 capitoli saranno incentrati sull'aspetto tecnico dei preparativi e della diffusione del morbo, più che sui maciullamenti di zombie e sull'avventura. Chi è più interessato a questi ultimi, può passare direttamente al quinto capitolo, dove la faccenda si fa più avventurosa.


2 gennaio 2014
 
“L’epidemia è in rapida espansione. Si sposta sempre più velocemente dall’Asia minore verso l’Asia orientale, scatenando il panico e causando un esodo di massa dei profughi. Per ora il pericolo per l’Europa pare limitato, tuttavia, l’immigrazione clandestina dei profughi dai paesi arabi e del nord Africa si sta intensificando sempre più, intralciando i controlli sanitari …”
 
Ancora con questa epidemia … ormai è da quattro giorni che questa storia è venuta alla luce e i dettagli che spuntano fuori ogni giorno sono sempre più inquietanti.
 All’inizio mi sembrava una balla, una specie di falso allarme o un ingigantimento del reale pericolo (come il virus H1N1, che confronto a un comune virus del raffreddore, aveva fatto molti meno morti, ma aveva causato un grande panico). Ma questa volta è diverso, ne sono sicura. Sta per accadere qualcosa di grosso.
 Si parla di persone contagiate attraverso i morsi di infetti.
Queste persone muoiono e poi tornano in vita con il solo scopo di mangiare i vivi e trasformarli in mostri come loro. Praticamente degli zombie.
 I telegiornali mostrano immagini di gente in stato di decomposizione (a volte con qualche arto o organo mancante) che attaccano civili, giornalisti e militari. Eh già, per arginare il problema sono stati chiamati i soldati.
Ogni nazione ha ritirato tutte le unità dall’estero e le ha disposte sulle zone di confine per fermare,controllare ed eventualmente eliminare ogni possibile pericolo da parte di infetti. Non parlano di come “eliminano” i contagiati non ancora deceduti e rianimati, ma anche il più stupido capisce al volo che vengono uccisi.
In Italia ci sono stati alcuni casi al sud, a Lampedusa per la precisione. Qui gli immigrati clandestini dell’Africa settentrionale sono un serio pericolo, perché molti nascondono i morsi e diventa difficile controllare il contagio, dato il numero sempre crescente di loro sulla piccola isola.
Io vivo in Lombardia e anche se qui non ci sono ancora stati casi di zombie, la gente mormora e la paura cresce di giorno in giorno. Sento di alcuni che fanno mettere le tapparelle di acciaio alle loro finestre e cominciano a creare scorte di viveri.
Io, da brava paranoica quale sono, ho tentato di convincere i miei genitori a fare altrettanto, ma loro non vogliono darmi retta. < Valentina, hai solo 16 anni, ti preoccupi troppo di queste cose! Vedrai che alla fine non ci accadrà nulla > dicono per liquidarmi. A loro voglio molto bene, ma sono testardi come dei muli. Ma io sono diversa, a me non piace farmi cogliere impreparata.
 
Leggendo giornali, forum su internet e seguendo alcuni programmi tv, ho capito che prima che la malattia oltrepassi il Po ci vorranno almeno 7 giorni, prima che arrivi fin qui 8 o al massimo 9. Le probabilità che gli infetti arrivino da nord, est e ovest sono molto limitate.
Visto che oggi è il 2 gennaio 2014, dovrò attuare il mio piano entro l’8 gennaio per essere un po’ in anticipo e non farmi cogliere impreparata.
Ho letto alcuni libri di zombie, di naufraghi su isole deserte, manuali di sopravvivenza, e altri che possono essere utili in caso di emergenza (sì, avevo già detto di essere paranoica anche se preferisco pensare di essere previdente e di avere una buona dose di buon senso).
Da quello che ho imparato da questi libri, so che mi servirà un rifugio sicuro, acqua, cibo, medicinali, armi, validi compagni di squadra e molta voglia di vivere. Devo procurarmi queste sei cose in sei giorni, a partire da subito.
 
< Mamma! Vado all’allenamento! > urlo sulla soglia della porta di casa.
< Ok, questa sera ti preparo il risotto con lo zafferano, quindi non mangiare porcherie quando esci dalla palestra! >.
< Affermativo, capo! > e corro via.
Io pratico kick boxing, è molto utile in caso di autodifesa e spero mi aiuti anche contro quei mostri.
Voglio allenarmi il più possibile per essere in forma per una possibile (e probabile) fuga.
 
 
 
3 gennaio 2014
 
“In Italia i casi di contagio sono circoscritti all’isola di Lampedusa. I confini con la Slovenia sono stati chiusi definitivamente, come tutti quelli dei paesi a rischio. Da oggi gli unici voli internazionali consentiti sono quelli con i paesi europei , tuttavia il governo sconsiglia di uscire dallo stato.”
 
Ecco, me lo sentivo. Era questione di ore prima che chiudessero i confini. Meglio così, il contagio sarà più lento e mi darà più tempo per prepararmi.
Ieri su internet ho comprato un po’ di oggetti utili con la carta prepagata di mio padre; ho usato la sua perché non è molto pratico di queste cose, e non mi scoprirà subito se gliela prosciugo completamente.
È meglio che i miei genitori non sappiano niente, così mi lasceranno fare tutto in santa pace. Spero solo che si decidano a seguirmi quando qui sembrerà l’inferno in terra.
 
Su un sito di articoli militari ho comprato un coltello a lama fissa (forse serviva qualche autorizzazione come il porto d’armi, ma hanno accettato il mio ordine senza fare storie), un kit di sopravvivenza minimalista, una gavetta militare, una coperta termica in alluminio e delle pastiglie per purificare l’acqua.
Visto che avevo ancora credito, ho preso anche un kit di pronto soccorso da campo (non so bene come si usa, ma il sangue non mi fa schifo e se ce ne sarà bisogno, vedrò di farcela), uno zaino capiente ma non troppo grande, una tasca cosciale o da attaccare alla cintura, e una maschera antigas (non si sa mai).
 Il sito on-line è di un negozio a 90 km da qui, perciò mi hanno assicurato che tra due giorni sarà tutto qui. Avrei voluto comprare altro, ma sarebbe servito più  tempo per la consegna, quindi lo comprerò oggi in città.
Ho avvertito mia madre dicendo che se consegneranno un pacco saranno dei libri e altre cazzate che ho preso io, così ritirerà per me e non farà la curiosona.
Dopo tutte queste spese mi restano all’incirca 1500€ in contanti che ho messo da parte in tutta la mia vita.
 
Vado in centro da sola, giro per un po’ di negozi e alla fine compro degli anfibi molto comodi, una tenda da campo leggerissima, un thermos e del paracord.
In farmacia ho preso del permanganato di potassio, integratori vitaminici e gel concentrato di aloe vera, che  è utilissima per infiammazioni, dolori muscolari, mal di stomaco e così via. E’ una pianta miracolosa. Io a casa ne ho alcune ma non posso certo scappare con vasi di aloe in mano.
Gli altri medicinali li ho già a casa.
Al supermercato compro del cibo in scatola, latte condensato, barrette ipercaloriche e una pochette per l’igiene personale che contiene piccole boccette di shampoo, deodorante ecc.
Torno a casa e comincio a raccattare cerotti, antidolorifici, ansiolitici, asciugamani, e vestiti termici.
E’ tardi. Faccio un po’ di flessioni e di addominali e mi preparo per dormire.
Mi corico e prima di addormentarmi, non posso fare a meno di pensare a quello che mi ha detto oggi papà: < Vale, non ci accadrà nulla. Noi ti vogliamo bene, quindi non lasceremmo mai che ti accada qualcosa di brutto >. Sono sempre stati protettivi e premurosi, anche perché sono figlia unica.
Lui parlava con sicurezza, ma io so che se quella piaga arrivasse fino a qui e non fossimo pronti, non potrebbe fare molto per difendermi.

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Capitolo 2
*** Il rifugio ***



4 gennaio 2014

“La malattia ha raggiunto la Cina e l’Indonesia. In Australia e Giappone pare non ci siano stati casi, ma i confini dei due stati sono chiusi da ieri notte. Negli U.S.A. si contano 650 persone malate all’interno delle strutture sanitarie competenti e vengono continuamente segnalati nuovi casi alle forze di polizia. Anche se i confini con il Messico sono chiusi, i profughi arrivano in massa e molti riescono a passare. Il Canada accoglie chi non è contagiato e la situazione è ancora sotto controllo. Il sud America, come l’Asia, sta per crollare e le isole caraibiche sono prese d’assalto da tutti quelli che sono dovuti fuggire. In Africa del sud la situazione non  è ancora critica perché il deserto rallenta sia i vivi che cercano la salvezza, sia i morti che tentano di attraversarlo. In Italia si contano 20 casi in Calabria e 8 in Sicilia. Adesso i malati saranno messi in quarantena. Si aspettano notizie dai centri di ricerca per una cura.”.
 
Una cura … bah … in tutti i libri che ho letto, si dice che la malattia è senza cura, ma chissà, tutto è possibile ed io spero che la trovino il prima possibile.
In televisione mandano una pubblicità dello stato in cui spiegano cosa fare se avvistiamo uno zombie. “Chiamare la polizia e attendere al riparo. Non avvicinarsi e non toccare gli infetti e quelli che sono già morti. Gli zombie sono attratti dal rumore, non provano dolore, e almeno per le prime ore dopo il decesso e la rianimazione possono vedere. Con il tempo questa abilità scompare”.
Non dicono che bisogna spaccar loro la testa per ammazzarli, perché qualcuno che vuole far l’eroe ci proverebbe e ci resterebbe secco subito.
 
Comunque, oggi devo pensare al rifugio.
Casa mia non può essere. Si affaccia su una strada molto trafficata. Non è in centro ma in periferia, quasi nei campi, ma passano migliaia di automobili qui. Poi, si trova sopra l’officina di famiglia, piena di allarmi rumorosi, macchinari pericolosi e oggetti che potrebbero cadere da un momento all’altro. Va bene per un giorno ma non di più.
Pensavo piuttosto a un bunker in campagna che appartiene ai miei genitori. Si tratta di un rifugio anti-aereo formata da una stanza di 16 metri quadrati (4x4), una specie di ripostiglio pieno  di legna, un bagnetto non funzionante e un’altra stanza 3x3. All’interno ci sono  un caminetto, una stufa, una cucina a gas, un frigorifero, una tavola di legno piena di tarli, delle sedie che cadono a pezzi solo a guardarle, un materasso pidocchioso, un miliardo di ragni, un dito di polvere sul pavimento e chincaglierie varie. Manca l’acqua corrente ma almeno c’è l’elettricità.
 
Prendo di nascosto le chiavi del bunker dalla scatola nascosta nel cassetto della dispensa antica.
< Mamma! Io vado a fare un giro, torno per cena >.
< Va bene, con chi vai? > chiede curiosa.
< Da sola, voglio solo uscire un po’ > rispondo. So già cosa dirà adesso.
< Dovresti uscire con qualche amica o compagna di classe! Sei una ragazza troppo solitaria, dovresti divertirti ogni tanto > dice un po’ mogia. Lei crede che io abbia pochi amiche, ma quelle due o tre che ho mi bastano. Preferisco l’amicizia del mio migliore amico Davide.
< Ma io esco con loro, solo che mi sembrano un po’ noiose a volte… > la verità è che alcune di loro sono stupide come oche.
< E’ vero, ma sei una ragazza così seria… ufff, vabbè, piuttosto che una figlia scellerata preferisco una figlia con i piedi per terra! > dice sorridendomi.
< A dopo, mamma! >
< A dopo! >.
Non le dico dove sto per andare, altrimenti farebbe così tante domande da diventare asfissiante. Per carità,le voglio un mondo di bene, ma quando è tropo, è troppo.
Vado al bunker  in mezzo ai campi con il mio cane. Lui si chiama Asso. Non so di che razza sia e non me n’è mai importato. Sembrerebbe uno strano incrocio tra cani lupo di diverse razze. E’ il cane migliore del mondo. È con me da quando è cucciolo (ha tre anni ora) ma è come se fosse con me da una vita. A volte mi pare quasi di poter comunicare con lui con il pensiero.
Mentre mi avvicino lui annusa ogni fiore, filo d’erba o sassolino si trovi lì vicino, scodinzolando allegro.
 
Il rifugio è stato costruito attorno al 1940 in mezzo a un campo che ora è tenuto “a erba”, cioè non si coltiva nulla ma si falcia l’erba per il bestiame.
È a quasi un kilometro dalla fattoria di Beppe il Panza, che alleva bovini. Prima di lui c’è un uomo con due cavalli e a 7 km dalla casetta ci sono due vecchietti che coltivano pesche e allevano galline. La città finisce a 10 km dal rifugio, separata dalla campagna dalla ferrovia. Un posticino bello isolato, quindi.
Questo bunker era stato costruito per la seconda guerra mondiale. Il precedente proprietario, negli anni ’80 ha deciso di trasformarlo in una specie di taverna privata dove faceva le sue festicciole (ecco spiegati il bagno e il caminetto).Doveva esserci anche un’uscita secondaria, ma è stata fatta chiudere.
La mia famiglia aveva comprato il campo e il rifugio nel 1995. Era messo maluccio da quello che mi hanno raccontato, perciò lo avevano ritinteggiato e sistemato un po’.
 
L’ho ripulito da cima a fondo dalla polvere e dai ragni. Ho sistemato la legna, provato il frigorifero (miracolosamente funzionante, visto che è lì dagli anni ’90) e cambiato le lampadine rotte.
Ho controllato la massiccia porta di acciaio, sistemato alcuni attrezzi agricoli e pulito la cucina a gas (la bombola non so proprio come portarla fin qui, ma non è poi così urgente, visto che ho il caminetto).
Il materasso è messo malissimo. È meglio metterlo fuori e fargli prendere un po’ di aria. Magari potrei lavare la fodera esterna.
La tavola e le sedie le ho distrutte e messe insieme all’altra legna. Nel pomeriggio ne porterò di nuove con il camion.
Ho chiesto a mio papà se può aiutarmi a portare i mobili fin lì con la scusa di “risistemare questo posto perché lasciato in uno stato simile, è uno spreco e una vergogna”. Ha funzionato. Conosco i miei polli.
 
Asso è stato tutto il tempo in giro per il boschetto vicino, e lungo le canalette. Penso che seguisse le tracce di qualche animale selvatico, sembra proprio un lupo che caccia.
Se ce ne sarà bisogno, mangerò selvaggina, tanto per me non è un problema, visto che mi piace molto. Non sono come le mie coetanee che mangiano solo pollo, bovino e maiale e inorridiscono anche al solo sentir parlare di carne di lepre o fagiano.
Mi siedo in mezzo all’erba alta, sopra una coperta. < Asso! vieni! > corre subito da me. Di sicuro lo porterò con me quando mi rifugerò qui.



Angolo dell'autrice: 
in questo periodo, le storie di zombie mi prendono un sacco: le adoro! quindi ho deciso di scrivere una mia storia su una possibile apocalisse zombie.
Questi primi capitoli sono un po' lenti, ma dai prossimi la narrazione diventerà via via più veloce.
Le recensioni sono ben accette, e per finire, spero vi piaccia!
Al prossimo capitolo,
lupacchiotta blu

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Capitolo 3
*** Fuga ***


Avviso ai lettori: il massacro degli zombie inizierà dal 5° capitolo; in questo e nel 4° ci saranno eventi sporadici.
Grazie dell'attenzione.

5 gennaio 2014

 
“I casi di infetti in Italia aumentano, ora nel Lazio si contano16 contagiati e due già morti e rianimati. Sono tenuti tutti in quarantena. I malati della Sicilia e della Calabria si sono trasformati tutti. I viaggi internazionali tra paesi europei sono stati bloccati a causa di contagi in Germania e Francia. Le tensioni tra india e Pakistan aumentano. Canada, Islanda, Groenlandia, Siberia, alcune isole polinesiane e Australia sembrano zone pulite. I servizi della protezione civile invitano i cittadini a tenere gli occhi aperti e segnalare ogni nuovo caso di infezione. Alle ore 21.00 di oggi, il presidente Napolitano farà un discorso in diretta tv e radio.”.
 
Ieri ho finito di sistemare il rifugio. L’ho attrezzato con tavolo e sedie nuove e una bombola di gas piena per ¾.
Ho messo dentro provviste per qualche giorno. Ho portato anche delle lattine di cibo per cani, qualche gioco, qualche libro e delle carte. Non vorrei annoiarmi e andare via di testa più di quello che sono già.
 
Non c’è un bagno funzionante, quindi ho costruito in segreto una latrina all’aperto, come quelle che si usarono in Italia fino agli anni ’50. Per il bagno c’è una vasca un po’ arrugginita, me la farò bastare.
Non è tutto finito,a dire il vero, ma il più è fatto.
 
Mia mamma mi ha avvertita che sono arrivati i miei “libri”.
Porto tutto in camera e comincio a fare lo zaino d’emergenza già ora, perché non so quando dovrò scappare.
Lo zaino è color sabbia. Lo avrei preferito nero o verde, ma questo era l’unico disponibile.
Lego sotto il sacco a pelo. Dentro metto provviste e medicinali. Fuori appendo la gavetta e la borraccia.
Nella tasca cosciale (anche questa color sabbia) metto il kit di sopravvivenza e del cordino sottile. Il coltello “stile Rambo” è nella fondina apposita attaccata alla tasca.
La maschera antigas, la tenda e il thermos per ora li lascio fuori.
 
Devo procurarmi un’arma a questo punto.
Le armi da fuoco le escluderei da subito: sono difficili da reperire in Italia e non ne ho mai usata una. Sono pesanti e le munizioni prima o poi finiscono e fino ad allora anche quelle pesano.
Vado nell’officina di mio padre. Ci sono un sacco di attrezzi qui, prima o poi qualcosa trovo. Cerco per un po’ e trovo un piede di porco, un’ascia e un machete.
 
Ore 21.00, discorso del presidente Napolitano.
“Cittadini. Sono qui stasera per informarvi di quanto è stato deciso dal parlamento e dal governo. Da ora tutti i viaggi nazionali saranno limitati. La malattia si sta espandendo anche qui. Ormai i casi in Italia arrivano a circa 1150. La popolazione dovrà stare in casa il più possibile e fare scorte di cibo per qualche giorno. Nel caso trovaste dei non morti, chiamate la polizia e nascondetevi. Anche se il malato dovesse essere un vostro parente, non dovrete avere pietà perché si trasformerà presto e vi attaccherà. Una volta rianimati, non ricordano nulla e hanno un’intelligenza limitata, perciò non provate a fermarli a parole. È stato deciso che nelle città più popolate l’esercito affiancherà la polizia … ”
 
Cazzo. La situazione si fa più seria.
< Mamma? Hai sentito cosa ha detto? Forse è meglio se ci prepariamo a un’emergenza bella grossa … >
< Valentina, per ora va tutto bene qui. Hai solo sedici anni, dovresti preoccuparti di altro accidenti! >
< Guarda che è una situazione seria! Non capisci? Mentre noi parliamo, gli zombie ci ammazzano! Non hai visto i telegiornali? Nel resto del mondo è già scoppiato il caos! >
< Giovanni! Dille qualcosa! È da due giorni che va avanti con le sue teorie catastrofiche!>
< Ma cosa vuoi che le dica, Emma! Secondo me dovremmo darle ascolto… e poi anche i notiziari consigliano di fare scorte e prepararsi al peggio!>.
 
E così, dopo altri venti minuti di litigata, mia mamma non si è ancora fatta convincere.
 
 
6 gennaio 2014
 
“Le uniche notizie dall’estero ci arrivano dalla Germania, dalla Polonia e dalla Francia. Qui l’epidemia si sta diffondendo molto velocemente e presto molti profughi tenteranno di entrare in Italia dal nord. Il sud è nel panico e chi può, si sposta verso le regioni settentrionali. Le autorità ricordano di fare scorte di viveri per alcuni giorni e di restare in casa il più possibile … “.
 
Vado in campagna con Asso e la mia mountain bike verde.
Dietro ho sistemato un vecchio portapacchi e davanti ho messo una luce elettrica a batteria. Ho montato il tutto “alla carlona” ma è meglio di niente.
Il bunker è proprio in mezzo al campo, si nota a malapena un tumulo di terra ricoperto d’erba. Il rifugio è proprio sotto a circa due metri di profondità.
< Asso! Entra! > il cane schizza dentro.
< Ti piace? > domando. Lui scodinzola allegro e abbaia. Almeno lui non farà  storie se gli dirò di scappare.
< Staremo qui per poco, si spera. Vorrei che tutto finisse prima di cominciare ma ormai non ci resta che prepararci per il peggio >. Abbaia ancora.
< Che ne dici se andiamo da Davide? > tutto contento esce dalla porta. Io ci metto un po’ a sistemare le ultime cose e quando esco, lui è fermo immobile ad aspettarmi.
Mi piace pensare che sarò io a salvarlo, portandolo con me, ma mi rendo conto che in realtà è lui quello che non mi abbandonerebbe mai.
 
 
7 gennaio 2014
 
“A causa degli spostamenti interni, l’infezione è arrivata fino al fiume Po. In giornata ci si aspetta che lo sorpassi. Ormai al sud la situazione è degenerata e i contagiati sono tantissimi. Ogni viaggio nazionale è sospeso. I cittadini devono sempre stare in allerta e comunicare tempestivamente i nuovi casi . non si è ancora trovata una cura, quindi le autorità consigliano di chiudere in una stanza i parenti contagiati e non farli uscire, per non ammalarsi a propria volta … ”.
 
Accidenti, oramai stanno per arrivare qua.
Ho visto dei soldati vicino al municipio. Secondo me stanno portando tutti i politici più importanti al sicuro da qualche parte. Quei bastardi si rintanano e intanto noi siamo qui nella merda.
Fanculo, tanto io me ne starò buona buona nel mio rifugio.
 
Ieri sono stata dal mio amico Davide, che per me è come un fratello maggiore.
Gli ho parlato del piano e lui ha detto che ci sta. Verrà nel bunker. Vorrebbe portare i suoi genitori, ma loro sono all’estero e ovviamente non possono tornare. Si vedeva che era preoccupato.
< Riesci ancora a contattarli? > gli chiesi.
< Sì. Hanno detto che le comunicazioni reggeranno ancora per un giorno al massimo. Là in Polonia regna il caos più totale. Mi hanno detto che loro staranno attenti e tenteranno di imbarcarsi con un loro amico. I mostri non possono nuotare, dicono. Mi hanno consigliato di cercarti e di formare una squadra, visto che ci conosciamo così bene, ahahah! > rideva, ma si capiva al volo che era tesissimo.
 < I miei vecchi non vogliono scappare per ora. Non ho parlato del piano con loro. Se ce ne sarà bisogno, mi aiuterai a convincerli? >
< Puoi contare su di me, sorellina >.
 
Facciamo mezzora di fila al distributore, riempiamo il serbatoio della macchina e ripartiamo.
Andiamo a casa sua e mettiamo in macchina vestiti e un po’ di cibo. In più carichiamo un materasso sul tetto della sua Fiat punto nera. In realtà è dei suoi genitori, ma lui ha 18 anni, quindi può guidarla. Per dirla tutta, ne dimostra qualcuno in più, perché è alto 1,85 m ed è un po’ muscoloso. Non ha un fisico da palestrato, ma i muscoli sono ben definiti grazie agli allenamenti di boxe.
 
Giocavamo sempre insieme ai guerrieri o agli esploratori, e adesso sta tornando utile.
 

8 gennaio 2014

“Alcuni zombie e molti infetti hanno superato illegalmente il Po. È questione di due giorni al massimo prima che tutta l’Italia finisca nel caos. Da nord i tzs tzs... fughi che riescono a passare le alpi sono pochissimi. Le comunicazioni al sud stanno cedendo e le forze di polizia non riescono più a fare null tzs tzs... dell’esercito. Le autorità ora sconsigliano di tzs tzs tzs..are le forze dell’ordine, ormai sono impotenti. Chi è ancora vivo e sano, dovrebbe scappare nelle zone rurali tzs tzs tzs…on uscire se non assolutamente necessario … ”
Non ci voleva, adesso le comunicazioni hanno delle interferenze. 
I miei genitori sono usciti questa mattina per andare in municipio.
Ho sentito dire che la benzina è tutta finita, e i supermercati sono vuoti.
Vado a casa di Davide. Ho lasciato un biglietto sul frigo: “Sono da Davide, tornerò prima di cena”.
Noi abitiamo a sei case di distanza, sullo stesso lato della via, e casa sua si affaccia proprio su un incrocio.
Mi vede e mi apre.< Ciao! > dico. < Ciao anche a te >. Ci sediamo in salotto e dalla finestra vediamo che le strade sono piene di macchine. Tutti cercano di arraffare gli avanzi.
Mi squilla il cellulare. < Pronto? >
< Valentina, sono la mamma! Siamo a casa io e papà. Torna per le 19.00, così la cena non si raffredda >
 < Ok, ciao >.
Decido di fare uno zaino anche a Davide prima di tornare a casa.
È simile al mio, solo che gli equipaggiamenti non sono militari, ma va bene lo stesso.
< Quando partiamo? > domanda.
< Domani mattina presto, voglio convincere i miei genitori a venire per l’ultima volta. Ci troviamo qui a casa tua alle 5.00 >.
< ok, ora vai a casa che è già buio. Stai attenta >.
< Stai tranquillo fratellone! Ciao! > dico < Ciao >.
 
Sulla strada del ritorno vedo che le macchine in giro sono poche ormai. Con il buio tutti hanno paura di uscire.
Fa freddo e il mio fiato si condensa in nuvolette bianche. Tempo da lupi, penso.
Solo la luce intermittente di alcuni lampioni illumina i miei passi, che sembrano rimbombare nel silenzio della via. Le luci di molte case sono spente, e le imposte ben chiuse.
Entro in casa, la porta non è chiusa bene. Strano.
< Mamma? Papà? > nessuno risponde e la casa è semi-buia. < Hey, c’è nessuno? Sono tornata! >.
In salotto sento un rumore. Entro convinta di vedere mia mamma.
< Come è andata in munici- CAZZO! >.
Davanti a me c’è uno zombie. Non è nessuno che conosco e non so come sia finito lì.
Si gira nella mia direzione e comincia a camminare lentamente, emettendo un gorgoglio dalla gola aperta da un morso.
Sono nel panico più totale, non so cosa fare. Pensavo che sarebbero arrivati domani o tra due giorni! Prendo una sedia e con questa  lo spingo all’indietro e lo blocco tra il divano e il muro. È più forte di un essere umano, ma penso che sia dovuto al fatto che non sente dolore. Se non gli fa male, può spingersi oltre i limiti dei vivi.
Vado in cucina e impugno un coltello. Tornata in salotto lo piazzo nella sua fronte con un colpo secco.
È una sensazione strana. Non credevo che un cranio rotto facesse quel rumore, e avrei preferito non scoprirlo mai.
Non mi sono sporcata,per fortuna: non so precisamente come si venga infettati, e non ci tengo a scoprirlo sulla mia pelle.
Cerco i miei genitori per tutta la casa, ma non ci sono. La tavola è apparecchiata.
Li chiamo con il cellulare, ma non sono raggiungibili.
Mi faccio prendere dal panico e chiamo Davide:< Davide! Dobbiamo partire ora! I miei non ci sono e non so dove siano! Avevo uno zombie in casa! >
< Come avevi uno zombie in casa? Stai bene adesso?! Non sei ferita, vero? >
< No, ma adesso vengo da te e partiamo! >
< Calmati, fai un bel respiro profondo. Prendi lo zaino e vieni qui in bici. Io preparo la macchina. Stai attenta per strada, che dalla finestra ho appena visto uno di quei mostri! >
< OK, arrivo subito! >.
Prendo la zaino e singhiozzando scendo in giardino, dove c’è Asso legato alla catena che mi viene subito vicino, tutto tremante.
< Asso, non devi abbaiare, capito? Silenzio, ok? Ora scappiamo da qui >.
Monto in sella ed esco in strada con il cane a fianco.
C’è uno zombie per strada ma la bici è silenziosa e non fa caso a noi. Il suo respiro è fastidiosissimo: regolare e meccanico, roco.
Il cane è spaventatissimo, si guarda intorno in continuazione e ha la coda tra le gambe.
Davide ci vede e apre il cancello. La macchina è pronta. Carichiamo zaini e bici in un attimo e partiamo.
< Hai idea di dove siano i tuoi genitori? > domanda.
< No. Avevano detto di essere a casa, ma forse uno zombie è entrato dalla porta di servizio dell’officina, salendo in casa. Quando se ne sono accorti, sono scappati. Sul cellulare ho tre chiamate perse di mia mamma, fatte quando ero sulla strada del ritorno. Era silenzioso e non l’ho sentito. Ho richiamato ma non è raggiungibile, e così anche papà >.
< Ora calmiamoci. Dobbiamo raggiungere il bunker in silenzio senza farci seguire dai quei cosi. Forse i tuoi sono alla stazione di polizia, ma ora è pericolosissimo raggiungerla, capisci? >.
< Vuoi  dire che non dobbiamo cercarli? > chiedo spaventata. Se morissero stanotte? In tal caso, io non avrei nemmeno risposto al telefono. Magari mi voleva avvertire del pericolo, era preoccupatissima, e ora lo sarà ancora di più! Forse è tornata indietro… e io non sono a casa…
< Voglio dire che loro sono tipi in gamba e se la caveranno. Noi dobbiamo scappare e restare nascosti. Sorellina, so che vorresti sapere dove sono e andare da loro, ma se lo fai, morirai di sicuro. Anch’io vorrei essere con i miei genitori, ma non posso >.
< Ho capito >. Ha perfettamente ragione: sulla strada, gli zombie stanno diventando sempre di più. Battono alle porte, rompono le finestre, si trascinano lentamente sulle loro gambe marce.
Al solo pensiero che i miei vecchi si riducano così, mi si stringe il cuore, e vorrei piangere, ma non posso. Anche Davide è nella mia stessa situazione, e non voglio rendergli le cose più difficili.
 
Ora è buio, ma anche se i fari sono spenti per attirare l’attenzione il meno possibile, riusciamo a vedere decentemente la strada. Il passaggio a livello è aperto, per fortuna.
< Davide, è meglio se abbassiamo le sbarre, così gli zombie faranno fatica a oltrepassarle >.
Quando scendiamo sento il cane guaire. Povera bestia, il giorno prima trotterella allegro per casa, e il giorno dopo deve scappare dai morti che camminano.
Ci mettiamo solo 20 minuti per arrivare al bunker. Apro la porta e Asso, ancora impaurito, si nasconde sotto il tavolo. Scarichiamo la macchina e la nascondiamo tra delle piante, così eventuali fuggitivi non potranno rubarla.
La bicicletta la porto dentro, non si sa mai.
A questo punto chiudiamo la massiccia porta, dividendo la nostra “bolla rosa” sicura e accogliente, dall’inferno che sta fuori.
 

9 gennaio 2014

Ieri siamo arrivati al bunker verso le 8.15 di sera. Ora sono le 7.00 del mattino.
Ci siamo svegliati quasi contemporaneamente noi due umani, il cane non sono sicura abbia dormito.
< Cosa facciamo adesso? > chiede Davide.
< Non lo so. Per ora potremmo mandare Asso qui fuori in perlustrazione. Se non ci sono pericoli usciremo a dare un’occhiata >.
< Mi sembra ragionevole. Intanto che lui va a fare un giretto, è meglio che noi mettiamo qualcosa sotto i denti >.
< Va bene, fratellone. Asso! Vai a fare un giretto, ma in silenzio, capito? > scodinzola, ma non sembra entusiasta; in fondo, chi lo sarebbe dopo ieri?
Gli apro la porta ed esce.
 
Sin da quando era cucciolo gli ho insegnato a fare delle cose a comando, come rotolare, inseguire, correre, stare a cuccia e così via, ma anche a non fare rumore e ad atterrare eventuali malviventi per la mia sicurezza. Sa anche nuotare, mordere e ringhiare a comando e fare i suoi bisogni in un unico posto.
< Valentina, tieni > Davide interrompe i miei pensieri.
< Grazie >. È del latte condensato in un  tubetto. Non lo mangio tutto, dato che ho lo stomaco in subbuglio.
 
< Vale, mi pare che il cane stia grattando alla porta per entrare >.
Apro e Asso mi fa le feste. Se è così allegro, significa che qui attorno è tutto pulito.
Gli metto un po’ di cibo nella ciotola e lui ci si avventa sopra.
< Che ne dici se usciamo anche noi? E poi a me scappa da andare al bagno … non mi va di andare là fuori da solo e farmi ammazzare mentre cago, capisci? >.
< Ahahahahahahahahaha! Un ragazzo grande come te che ha paura di fare la cacca! >.
< Non ho paura di fare la cacca, ho paura di fare la cacca con loro fuori >.
< Tranquillo, stavo solo scherzando. Andiamo >.
Uscendo prendo l’ascia. Asso non ha segnalato pericoli, ma la prudenza non è mai troppa.
Facciamo la guardia a turno e torniamo dentro.
 
< facciamo il punto della situazione>dice Davide .
Guardati dai vivi, non dai morti.
 < Dobbiamo stare attenti a non farci vedere da nessuno, o potrebbero rubarci il rifugio e tutto quello che c’è dentro >, dico.
Decidiamo di fare gli zaini per un viaggio di perlustrazione. Mettiamo dentro acqua, qualche scatoletta di tonno, medicazioni, binocolo e corda. In mano io ho il machete e lui il piede di porco.
Oggi fa freddo, quindi indosso delle calze pesanti sotto gli anfibi e una maglia termica sotto il maglione e la mia giacca a vento nera. Completo il tutto con sciarpa, berretto e guanti.
Anche Davide è ben coperto. Lui avrebbe voluto vestirsi più leggero, ma se si ammalasse ora, sarebbe un disastro.
Asso resta a fare la guardia. Noi partiamo.
La fattoria di Beppe il Panza sembrerebbe deserta se non fosse per i muggiti dei bovini. È questione di tempo prima che loro arrivino qui attratti dal rumore.
Vicino alla fattoria dei vecchietti vediamo due zombie che camminano lentamente e che si dirigono verso la loro casa.
< Davide! Hai visto? Sono già qui nonostante avessimo abbassato le sbarre! >.
< Vedo. Non credo che i due anziani usciranno di casa, e finché resteranno dentro, saranno al sicuro. Noi non li possiamo aiutare >. Lo dice con freddezza, ma so che gli fa male ammetterlo.
Mangiamo nascosti dietro i cespugli. Ormai sono le 15.00 ma io non ho molta fame. L’ansia è una brutta bestia.
< Devi mangiare, altrimenti diventerai debole > mi ripete il mio amico.
< Lo so, ma faccio fatica a mandare giù anche solo qualche boccone, ho un groppo allo stomaco. Forse con il passare del tempo mi abituerò e potrò mangiare tranquilla >.
< Speriamo, sorellina >. Mi sorride per darmi conforto, e un po’ ci riesce.
Non ci spingiamo oltre ma torniamo indietro.
Siamo intirizziti dal freddo e abbiamo paura ad avvicinarci. Domani potremmo andare in bicicletta per fare prima.
Tornati alla nostra nuova casa, Asso ci accoglie festoso. Gli do la pappa e lo accarezzo un po’.
Ormai comincia a imbrunire, perciò decidiamo di chiuderci dentro e fare qualche gioco da tavola.
Eh già, una bella idea, perché qui non c’è la televisione (ma ormai a chi servirebbe?) e non si sente la radio. Domani proverò a uscire e magari sentirò qualcosa.
 
Non sono neanche le nove di sera, ma la stanchezza si fa sentire, e crollo addormentata in un sonno senza sogni.

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Capitolo 4
*** La calma prima della tempesta ***


10 gennaio 2014

“Tzs tzs..tzs.. on so per quanto tzs … iusciremo a mantenere le comunicazioni radio, ormai tutto il tzs tzs tzs… nel caos…gli unici stati che sembr  tzs…tzs uri ...tzs tzs sono l’Australia, l’Islanda e l’isola della Groenlandia tzs tzs tzs… chius..tzs tzs tzs… fini…le autorità tzs tzs tzs… uro… tzs tzs… ondersi.. tzs tzs tzs”.
Questo è tutto quello che ho sentito dalla radio, prima che la trasmissione si interrompesse definitivamente.
Mi aspettavo che l’Australia fosse un posto sicuro: in mezzo al mare e controlli doganali severissimi.
Sono sicura che l’Islanda e la Groenlandia siano troppo fredde per gli zombie e quindi anche se degli infetti si trasformassero, congelerebbero, perché non generano calore proprio.
Un’altra cosa che ho scoperto dai servizi televisivi, è che non perdono sangue: con la morte diventa una specie di gel marrone.
Secondo me, riescono a vedere solo per poche ore dopo la rianimazione perché hanno pochi liquidi nel corpo, e gli occhi, avendo bisogno di essere idratati costantemente, finiscono per seccarsi troppo e non vedere più.
Loro non provano dolore e non hanno né ricordi né una coscienza. Sono macchine istintive che hanno il solo scopo di mangiare la carne dei vivi, anche se non ne traggono nessun nutrimento.
 
< Davide? Ti ricordi le mucche che continuavano a muggire? > chiedo.
< Sì, perché? >
< Beh, Beppe il Panza alleva mucche da latte. Se lui non esce a mungerle perché ha paura, le mammelle si gonfiano troppo e fanno male alle mucche. I vitelli non possono berlo perché sono tenuti in recinti separati. Secondo me dovremmo andare là con la macchina, mungere una mucca e portarci via il latte>.
< E’ pericoloso. Potrebbe seguirci e spararci con il suo fucile, e poi non sappiamo fino a dove sono arrivati gli zombie > dice Davide.
< Lo so che non è uno stinco di santo, e che potrebbe causarci molti guai, ma il latte fresco è più sano di quello condensato … >.
< Va bene, mangiamo un boccone e andiamo, ma se vediamo che la situazione si fa pericolosa, andiamo via subito, capito? >.
L’ho convinto. Prepariamo gli zaini come ieri, e sistemo la mia tasca cosciale con il kit di sopravvivenza e il coltello. Non so come potrebbe essermi utile contro gli zombie, ma da quando siamo qui non l’ho mai tolto.
< Asso lo lasciamo qui come ieri? > domanda lui.
< Sì, non vorrei che con tutti quei bovini che muggono si spaventasse troppo >.
 
Siamo in macchina, diretti verso Beppe il Panza.
Davide munge una mucca non troppo agitata mentre le altre ormai si accasciano a terra affamate, doloranti e disidratate. Nella stalla accanto, i vitelli sono mezzi morti.
< Fatto, adesso prendo un altro bidone vuoto e  andiamo via > dice lui.
< Non ti sembra strano che non abbia tentato nemmeno di fermarci? Insomma… sai quanto è avido Beppe… zombie o non zombie ci avrebbe urlato contro finché non ce ne fossimo andati >
< Lo so, è molto strano. Sono sicura che ci abbia visti: per andare in stalla, bisogna passare vicino alla sua casa. Secondo me si sta cagando addosso dalla paura e non uscirebbe per nulla al mondo > dico convinta.
< Non importa, andiamocene >.
< E se invece, andassimo a dare un’occhiata alla casa qui vicino? Ogni giorno che passa diventa sempre più rischioso, è meglio farlo subito >
< Mmm … va bene … >.
 
I cavalli, della villa hanno acqua e fieno. I loro box non sono distanti dalla casa del padrone, che li nutre ancora.
A 700m dalla casa osserviamo con il vecchio binocolo scassato di Davide.
Si vede abbastanza bene: ci sono una ventina di zombie che si avvicinano.
< Li hai visti, Davide? >
< Sì. È un bel problema. Domani saranno alla fattoria di Beppe e poi… >
Non continua, ma sappiamo entrambi che Beppe non è lontano dalla tana e i prossimi potremmo essere noi.
 
Spero che con tutto lo spazio che c’è, gli zombie non vengano a bussare proprio alla nostra porta.
 

11 gennaio 2014

Ieri siamo tornati presto, verso mezzogiorno.
Ci siamo fiondati nel rifugio con il latte fresco e lo abbiamo fatto bollire subito sulla cucina a gas. Non so quanto fosse, forse 3 litri, riempiva un vecchio pentolone quasi fino al bordo.
Ne abbiamo bevuto un po’ per pranzo, assieme a delle gallette secche pucciate dentro. Non era il massimo, ma il latte era dolce e nutriente; pure io l’ho mangiato di gusto.
< Ora dobbiamo riempire di acqua gli altri due bidoni e poi bollirla per sterilizzarla > dissi io.
< Potremmo prendere  l’acqua del pozzo del campo vicino, non credo che il contadino si lamenterà! Ahahah! >.
E così facemmo. Andammo tutti e tre al pozzo che alimentava le canalette e riempimmo i bidoni fino all’orlo.
< Secondo me potremmo usarla per fare il bagno: non è potabile, ma è limpida e pulita >.
< Mmm… ok sorellina. In effetti, avrei proprio bisogno di un bagno… >.
Tornammo alla tana e nascondemmo l’auto.
I contenitori li abbiamo messi in bagno e dato che ormai era tardi abbiamo bevuto altro latte. Dovevamo finirlo. Ci siamo accorti, infatti, che la corrente elettrica era saltata.
È stato brutto dormire per la prima volta al buio lì dentro: le altre notti la luce era sempre accesa.
 
Oggi vorrei fare due passi sul confine del campo, ma piove.
Vivendo sottoterra, potrebbe essere un problema, ma per noi non è così: la pioggia che scende dai gradini che portano all’entrata, finisce in una griglia. Non so dove vada, forse in un fondo perso o magari un tubo la porta da qualche altra parte, ma che io sappia non si è mai intasata in tutto questo tempo.
Mettiamo fuori il bidone del latte vuoto, per riempirlo d’acqua piovana.
 
Non mi sembra neanche vero di essermi barricata in questa “fortezza inaccessibile”, ma è così. Neanche nei film o nei libri ci sono sopravvissuti fortunati come noi.
Sopravvissuti… già… quanti saremo rimasti in città? E in Italia? E nel mondo? Sono un po’ sconfortata. I miei genitori scomparsi, quelli di Davide forse sono al sicuro in mezzo al mare, ma le probabilità sono basse.
< Davide? >
< Dimmi > smette di giocare con il cane e si gira verso di me.
< Cosa pensi sia successo alle nostre famiglie? > chiedo con un filo di voce.
< I miei genitori forse sono salvi, i tuoi sono persone in gamba, vedrai che se la saranno cavata e ora anche loro ti staranno pensando >.
Vede che non sono convinta.
< Sorellina, che siano vivi o morti, ora non ha importanza. Non devi pensare a loro, altrimenti diventerai pazza, capisci? Da ora in poi dovrai fare finta che loro non siano neanche mai esistiti. Lo so che è difficile, lo è anche per me, ma se vuoi sopravvivere abbastanza a lungo da vedere la fine di questo incubo, devi pensare che io e Asso siamo la tua unica famiglia >.
Vedo i suoi occhi inumidirsi. Pure lui soffre e vorrebbe anche solo una conferma sullo stato dei suoi genitori. Se avesse la certezza che sono morti si metterebbe l’anima in pace per sempre, e così anche io.
< Ho capito, fratellone. Da ora farò finta che Emma Bianchini e Giovanni Tosi non siano mai esistiti, ma tu devi promettermi una cosa >dico con aria solenne.
< Cosa? > chiede lui.
< Che se un giorno verremo a sapere che i miei o i tuoi genitori sono vivi e non troppo lontani, andremo a salvarli e ci ricongiungeremo con loro >.
Sa che sarò irremovibile su questo punto, quindi annuisce e mi abbraccia per qualche istante.
 
Se non fosse per il mio fratellone e Asso, la mia sanità mentale sarebbe già andata a farsi fottere.
 

12 gennaio 2014

Anche oggi piove. Visto che non c’è nulla da fare, io e Davide decidiamo di fare il bagno. È quasi una settimana che non ci laviamo, e con la scusa dell’igiene, potremo distendere un attimo i nervi.
In un lampo mi lavo i capelli ricci e castani, la faccia tutta impolverata e mi passo la spugna sul corpo.
Guardo il mio fisico asciutto e credo che dovrei mettere su peso, perché potremmo dover scappare ora e non mangiare per giorni. Mi risciacquo con una secchiata gelida e mi avvolgo un asciugamano attorno al corpo. Esco e Davide schizza dentro.
Useremo sempre la stessa acqua. Adesso quella che ho lasciato è un po’ sporca, e io mi sento leggermente in colpa a fargli fare un bagno in quelle condizioni.
Mi metto dei vestiti puliti, e asciugo i capelli il più possibile con l’asciugamano. Poi, mi siedo davanti alla fiamma scoppiettante del caminetto per scaldarmi.
 
Prima,quando sono uscita coperta solo dall’asciugamano, lui non mi ha guardata neanche di striscio.
Le altre ragazze si sarebbero vergognate a farsi vedere così da un ragazzo, e i coetanei di Davide avrebbero avuto… ben altre reazioni rispetto a lui.
Ma noi siamo come fratelli, non potremmo mai pensare cose del genere l’uno dell’altra. Tra noi tutto è innocente.
Prima, qualcuno ci prendeva amichevolmente in giro dicendo che sembravamo dei morosetti, ma non è mai stato così; adesso  questa fiducia, questo amore fraterno e questo rispetto reciproco stanno tornando utili.
 
Apro la porta per tirare dentro il bidone da 10 litri, che è pieno forse per ¼, e sento che il vento è molto forte. Non vorrei che muovendo le fronde degli alberi o qualcos’altro, attirasse gli zombie.
 
Mangiamo del tonno in scatola e scaldiamo dei fagioli cotti al vapore.
Non mi sono mai piaciuti molto i fagioli, ma in queste situazioni tutto è buono. L’ansia non è tanta come i primi giorni, perciò riesco a godermi il pasto.
Asso sembra non sentire l’ansia: ha sempre mangiato senza fare storie. Ma i cani sono diversi dalle persone, queste regole con loro non valgono.
Io vado a dormire presto, e Asso si accuccia tra i due materassi.
Fa un po’ più freddo qui, ma dentro il sacco a pelo si sta al caldo. Davide ha messo le lenzuola sul suo, ma io ho preferito appoggiarci sopra il sacco a pelo e dormire in quello.
 
Sento che il sonno sta arrivando. Spero di non fare incubi: ne sto già vivendo uno e mi basta.
 

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Capitolo 5
*** E pensare che mi stava tornando l'appetito... ***


3,2,1... si comincia ad ammazzare qualche zombie marciulento! ;)



13 gennaio 2014 mattino-primo pomeriggio

Stamattina ho un certo appetito, cosa strana in questi giorni.
Mangio un intero tubetto di latte condensato (e sarà anche uno degli ultimi, visto che stanno per finire), una scatoletta di simmental e delle gallette secche. Fanno schifo, sono troppo asciutte e ti impastano la bocca, ma per accompagnare la carne vanno bene.
Mangiando sempre poco, cominciavo a sentirmi stanca più in fretta, le gambe traballavano, i muscoli facevano male… è un bene che io abbia ricominciato.
Anche se le scorte finissero presto, non sarebbe un problema: io e Davide abbiamo deciso che quando gli zombie saranno troppi qui intorno, lasceremo il bunker. E temo che non manchi molto a quel momento, perciò, meglio mettere su qualche kilo  piuttosto che abbandonare dei viveri qui.
< Davide, oggi dobbiamo assolutamente andare a vedere fin dove sono arrivati i non morti >.
< Sì, ma è meglio che con noi venga anche il cane >.
Ho visto come era agitato la sera della nostra fuga, ma vedendo gli zombie sempre più spesso, forse si abituerà.
< Vale, come andiamo fin là? >
< Direi con la bicicletta. A piedi ci vuole troppo tempo, e la macchina è troppo rumorosa e consuma benzina. Tu pedali e io sto sul portapacchi dietro, come ai vecchi tempi, ahahaha! >
< Ahahah! Mi scroccavi sempre qualche passaggio così! >.
 
Siamo diretti alla fattoria di Beppe il Panza , e prima di arrivare il vento ci porta dei lamenti e un odore nauseabondo. Sono loro, e sono sicura che è stata la pioggia a farli puzzare di più.
Molliamo la bici dietro un cespuglio, imbracciamo le armi e ci avviciniamo furtivamente. Ho detto ad Asso di fare silenzio.
Uno zombie è nella corte e sbatte ripetutamente contro una lamiera. Tenta di acciuffarla, ma ogni volte che ci prova si ferisce. Secondo me è lì da un bel po’, perché una mano non ha più le dita.
< Cosa facciamo? Se non lo uccidiamo e si accorge di noi, ci attaccherà. È meglio farlo fuori ora con l’effetto sorpresa. Lo uccidi tu con l’ascia? >
< Sorellina, non mi piace l’idea di ammazzarlo… >
< Non è più una persona. Se non lo vuoi fare tu lo farò io >.
Così dicendo mi avvicino alle sue spalle con l’accetta nella mano destra e il piede di porco nell’altra, e gliela pianto nella testa. Ho colpito molto forte, e la lama è arrivata fino a metà del cranio, spaccandolo con un rumore simile a uova rotte. Non esce sangue, ma questo già me lo aspettavo.
La estraggo e la pulisco sui suoi vestiti.
< Ben fatto, ma non abbiamo finito. Ho visto qualcosa di strano dalla finestra, e la porta laterale è aperta >.
Ho un brutto presentimento.
 
Entrando ho notato che la porta è sporca di robaccia marrone.
La casa è tutta a soqquadro: tavoli e sedie per terra, vetro ovunque, sangue marrone sulle pareti.
In cucina c’è un altro di quei mostri. Appena sente i nostri movimenti, viene verso di noi. Questa volta è Davide a conciarlo per le feste: con un  colpo solo lo decapita ma la testa continua a mordere alla ceca e con un secondo colpo lo finisce.
< Hai visto? Anche se gli ho tagliato la testa, non  è morto! >
< Sì, a quanto pare l’unico modo per ucciderli è spaccare il cervello > dico io.
< Asso è un po’ spaventato… ma finora non ha abbaiato. Lo hai addestrato bene > dice sorridendo.
Questo complimento mi fa molto piacere, perché mi sono impegnata tantissimo per addestrare il mio cane.
< Grazie. Si vede che  è un po’ spaventato, ma meno di quando siamo fuggiti >.
Sta per dire qualcosa, quando un gorgoglio ormai familiare viene dal corridoio.
 
Vicino alla porta del bagno ce n’è un altro.
Lo colpisco alla fronte con il piede di porco egli fracasso anche la faccia. Si accascia in una pozza di sangue. Aspetta… sangue? Loro non hanno sangue!
Oh oh, qualcosa non va. Apro la porta del bagno.
No, questo è troppo. Davanti a me c’è Beppe il Panza, seduto sul water, con ancora il fucile in mano che ha usato per spararsi in bocca. Tutta la parete dietro è schizzata di sangue e cervello. Gli vomito davanti, e Davide mi segue a ruota.
< Davide, ti prego, usciamo da qui > sussurro.
< Sì, andiamo via >. È bianco come un fantasma.
Usciamo in corte a prendere un po’ d’aria.
Ho vomitato tutta la colazione. Credo che dopo questo, mi ci vorrà un bel po’ per farmi tornare l’appetito.
< Vale, stai meglio? > è preoccupato.
< Sì, abbastanza… tu? >. Tremo un po’.
< Idem. Senti… il fucile… dovremmo prenderlo. Le nostre armi vanno bene, ma facciamo fatica. Almeno per un po’ potremmo usare quello >
< Mmm… ok, io cerco delle cartucce in casa, tu torni in bagno a prenderlo>. Io non ci ritornerei per nulla al mondo.
 
Dopo aver cercato un po’ , trovo delle cartucce nello sgabuzzino. Sono due scatole da 25 cartucce.
Sono da caccia, quindi non c’è un proiettile, ma una nube di pallini di piombo. Se ha funzionato per Beppe, funzionerà anche con gli zombie.
Ci sono anche due cartucciere in cuoio. Le riempio tutte e due, ma avanzano ancora 10 colpi. Quelli li metto nella tasca piccola dello zaino.
Penso che Beppe il Panza andasse a caccia e collezionasse oggetti dell’arte venatoria: in salotto ci sono due teste di cinghiale e una volpe impagliata. Nello sgabuzzino ci sono abiti mimetici, vecchie trappole rotte, cappelli di paglia con piume di uccelli e dei coltelli.
Gli abiti sono troppo grandi, ma tra i coltelli ne trovo uno a serramanico, con apriscatole, due lame, una forchetta e un cacciavite. È come i coltelli svizzeri, ma le lame sono molto più spesse. Il manico in plastica nera ruvida. Dà l’idea di un oggetto indistruttibile, quindi lo metto nella tasca cosciale.
Uno dei coltelli a lama fissa lo porto a Davide così anche lui ha una lama in più, che è sempre utile.
< Hey, Vale! Guarda cosa ho trovato! > mi urla dal salotto < Ho trovato delle mappe. Ci saranno utili e occupano poco spazio… cosè tutta quella roba? >.
< Cartucce per il fucile e un coltello per te. Non capisco perché si sia ucciso… era pieno di munizioni e avrebbe potuto resistere un bel po’ >
< A volte la paura ti fa andare via di testa… e fai cose insensate… >. Il suo sguardo diventa triste. Fa tanto il ragazzo forte, ma anche lui è umano, e come tutti ha dei sentimenti.
< Secondo te come sono messi gli altri abitanti qui attorno? > domando, per cambiare discorso.
< C’è solo un modo per scoprirlo >. E il suo volto riacquista un po’ di vita.
 

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Capitolo 6
*** Una nuova compagna di disavventure ***


13 gennaio 2014 primo pomeriggio-sera

Le munizioni e il fucile pesano, ma Davide ci porta senza molta fatica alla villetta con i cavalli. O meglio, alla villetta, perché i cavalli non ci sono più e a quanto pare non ci sono nemmeno i padroni di casa.
< Non vedo nessuno. Andiamo a controllare o andiamo direttamente all’allevamento di polli? > chiedo sottovoce.
< Diamo un’occhiata, non si può mai sapere. Carica il fucile e poi entriamo >.
Non è difficile caricare un fucile da caccia, e spero che sia altrettanto facile sparare e far uscire il bossolo vuoto.
< Io tengo il fucile, ma tu stai pronto a usare l’ascia, perché non so come si usa >.
< Sorellina, vuoi che facciamo cambio? Io ho giocato a softair qualche volta… ovviamente non è la stessa cosa, ma meglio di niente >.
<  Ok, passami l’ascia. Ti copro le spalle >.
 
L’elegante cancello in ferro battuto è semi aperto. I box dei cavalli pure: uno sembra sia stato aperto a calci da una delle due bestie, l’altro no.
La porta d’ingresso è chiusa, ma non a chiave. Entriamo. Non ci sono segni di colluttazione, probabilmente il padrone è scappato con uno di due cavalli, lasciando l’altro qui. Il povero animale deve essersi fatto prendere dal panico ed è scappato.
Dentro non ci sono armi. Tutto il cibo a lunga conservazione è stato portato via.
< Qui non c’è niente, andiamo via > dico io.
Montiamo in sella e ci dirigiamo dai vecchietti con le galline.
Arrivati a 100 m dalla casa, noto che Asso rizza il pelo.
< Asso, non abbaiare, non fare rumore, capito? > scodinzola per farmi capire che ha ricevuto il messaggio.
Ci ho messo molto a insegnargli a scodinzolare brevemente per dire sì, ma adesso è bravissimo.
< Bravo, bravo > lo accarezzo < sei un cane bravissimo >.
 
Entriamo nel “pollaio”: qui le galline sono allevate in batteria, e sono anche in cinque o sei in gabbie piccolissime. Sono tutte morte, e la puzza tipica dei pollai si unisce al fetore delle loro carcasse.
A quanto pare agli zombie piace, perché molti resti smembrati sono sul pavimento, e tre di quei mostri sbattono addosso alle gabbie, causando un gran clangore metallico.
Non ci hanno ancora sentiti, ma decidiamo di ucciderli: con tutto il baccano che fanno potrebbero attirarne altri.
< Non possiamo usare il fucile. Il rumore si sentirebbe per kilometri e una marea di zombie verrebbe qui > dice il mio fratellone.
< Ok, usiamo le armi bianche >.
Mi avvicino alla sinistra del più vicino e gli do una botta in testa con il piede di porco. Questo affonda per qualche centimetro e poi lo tiro fuori.
Davide ne colpisce uno alla nuca e gli taglia via un pezzo di testa. Sembra che stia tagliando un’anguria.
Il terzo si accorge di noi, e si avvicina strascicando un piede. Lo faccio fuori con un colpo ben assestato.
< Fratellone, andiamo a cercare in casa, forse c’è qualcosa… >.
 
La porta è chiusa dall’interno. Anche quella sul retro, e le finestre del piano terra sbarrate.
< Vale, sono sicuro che dentro c’è qualcuno di vivo. Mi pare di aver sentito qualcuno sbattere contro un mobile >.
È vero, l’ho sentito pure io.
< Cosa facciamo? Ci uniamo a loro o andiamo via? Sono buoni o cattivi? Se li aiuteremo, ci si ritorceranno contro? >.
< Finché non ci parliamo non lo possiamo sapere. Parla tu. Sei una ragazza, quindi non dovrebbero percepirti come una minaccia o come qualcosa di pericoloso, anche se io so che potresti diventarlo >. Ride sotto i baffi, perché sa quanto posso diventare cattiva se istigata. Starà ridacchiando pensando a qualche episodio in cui ho rotto il naso o fatto un occhio nero a dei bulletti che mi importunavano. In pochi sanno che faccio kick boxing, quindi mi importunano e le prendono di santa ragione.
< Ciao, io mi chiamo Valentina. Non voglio farvi male, sono dalla vostra parte! >. Nessuna risposta. < State tranquilli, gli zombie qua fuori li ho già uccisi, non ce ne sono altri per ora >.
< Sei sicura? > chiede qualcun da dentro. È una donna.
< Sì, sicura al 100% >.
< Chi è il biondo? > domanda sospetta.
< E’ un mio amico. Si chiama Davide. Neanche lui vuole farti del male. Aprici, così potremo parlare con calma >. Parlo con tono pacato per non spaventarla, ma è chiaro che ancora non si fida, e direi che fa bene, constatando quello che succede da alcuni giorni.
Apre la porta con cautela, ci studia ancora un secondo e ci fa entrare.
È una donna sui quarant’ anni, capelli neri lunghi fino alle spalle. Non è molto alta, solo due o tre centimetri più di me, ed è abbastanza magra. Sono sicura che non abbia mangiato oggi, e neppure ieri.
Le porgo una scatoletta di tonno, e lei la spazzola via in un batter d’occhi.
< Come ti chiami? > chiede il mio fratellone.
< Francesca > sussurra lei.
< Parlaci un po’ di te, e noi faremo lo stesso > dico io.
< Mi chiamo Francesca Brentegani, ho 41 anni e lavoro come sarta… beh… lavoravo come sarta. Come molti, pensavo che questa malattia non sarebbe stata un pericolo, che la polizia avrebbe tenuto tutto sotto controllo, ma mi sbagliavo >. Si ferma un secondo e riparte < la sera dell’ 8 gennaio, uno di quei … cosi, è entrato in casa mia. Io sono scappata subito. La macchina mi ha lasciata a piedi qui vicino, ma per fortuna, questa è la casa dei miei genitori, e mi hanno accolta qui >.
Trema un po’. Mando Davide a fare un po’ di tè caldo e di portarlo a Francesca. L’acqua, come tutte le case qui attorno, viene dal suo pozzo privato, e il gas da una bombola, perché entrambi i servizi non sono portati dalle reti pubbliche.
< Loro erano molto preoccupati per me, e sono stati felici di vedermi viva. Purtroppo, la pioggia deve aver attirato i mostri fino a qui e ieri hanno cominciato a battere alla porta. Mio padre, armato di forcone, ha voluto a tutti i costi uscire a ucciderne due, ma dalla finestra ho visto che è stato morso. È tornato dentro subito. La ferita era già violacea. In neanche un’ora, è morto e resuscitato. Ha cominciato a fare quella specie di soffio, sapete? Quello che fanno tutti >. Annuisco, lo conosco bene anche io.
Prende un respiro profondo e ricomincia: < Non avevo il coraggio di ucciderlo, era comunque mio padre. Io e mia madre siamo riuscite a buttarlo fuori da casa spingendolo con una scopa e uno sgabello. Mia madre era distrutta, e non ha superato la notte. Tutto quel dolore è stato troppo per il suo cuore già malato. L’ho avvolta in un lenzuolo e l’ho portata fuori dalla porta sul retro > finisce singhiozzando, e comincia a piangere.
Non sono una ragazza molto sentimentale, ma anche se lei è ancora una sconosciuta, non riesco a non abbracciarla e consolarla: < Tranquilla, adesso va tutto bene. Qui da sola non ce la faresti… quindi… ti andrebbe di venire con noi? Abbiamo un rifugio che andrà bene per un po’… >
< Francesca > dice Davide < fidati di noi. Ti porteremo in un posto sicuro>. Le porge una tazza di tè caldo.
< Va bene, ma per fidarmi di voi, devo sapere chi siete > .
< Io sono Davide Longo, ho 18 anni e studiavo ingegneria >.
< Io mi chiamo Valentina Tosi e ho 16 anni e frequentavo il liceo scientifico. Noi siamo grandi amici, quasi fratelli e per questo siamo scappati insieme. Lui è il mio cane, si chiama Asso >.
Il cane va da lei e si fa accarezzare un po’. Lei sembra calmarsi pian piano, comincia a prendere confidenza con noi.
 
Sono le 17.00 e il sole comincia a tramontare.
Francesca in casa ha l’acqua corrente e le caldaie funzionanti, quindi decidiamo di farci tutti e tre un bagno. Non sappiamo tra quanto potremmo farne un altro, perciò ne approfittiamo.
Prima va Davide, poi io e infine Francesca. Le abbiamo detto di andare per ultima così potrà dilungarsi qualche minuto in più. Ne ha davvero bisogno. La corrente elettrica non c’è, e fa freddo. Accendiamo il camino per asciugare i capelli più velocemente. Mando fuori Asso a fare la guardia: se vedrà un pericolo, gratterà alla porta.
Mentre Francesca si lava, io e Davide raccogliamo ogni oggetto utile e facciamo uno zaino d’emergenza anche per lei. Riempiamo due thermos con del tè caldo e prendiamo tre bottiglie d’acqua.
 
Sono le 18.15 e fuori fa buio. Siamo tutti pronti: io e Davide sulla mia bici e Francesca sulla sua.
Le abbiamo detto di prendere tutti i vestiti che le servivano, ma lei, non vivendo lì, si è dovuta accontentare di quelli che aveva lasciato prima di andare a vivere da sola.
La strada è buia, e le torce sulle biciclette la illuminano appena. Fa freddissimo.
Se non fossimo in un casino del genere direi che è quasi bello starsene qui, sotto le stelle, che si vedono benissimo senza le luci della città.
Sento Davide sbuffare, è davvero molto stanco. Gli darei il cambio,ma sono mezza morta di sonno. Le gambe le sento a malapena, e gli occhi mi si chiudono da soli.
Arriviamo al bunker. Anche qui fa freddo. Accendiamo il fuoco. Non voglio dormire sola e al buio stanotte. Prendo il mio sacco a pelo e mi posiziono sulla brandina davanti al camino, ma non troppo vicino. Davide mette gli altri due materassi di fianco al mio e si sdraia. Francesca fa lo stesso e Asso si accoccola accanto a me.
 
 Solo Francesca e il cane hanno mangiato, noi due no,ma dopo quello che ci è successo oggi, non è neanche tanto strano avere un nodo allo stomaco.
 

Angolo dell'autrice:
Eccomi con un altro capitolo, piano piano la storia prende forma! 
Spero vi piaccia e vogliate recensirla!
Alla prossima,
Lupacchiotta blu

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Capitolo 7
*** Attacco al bunker ***


14 gennaio 2014 mattina- primo pomeriggio
 
Questa mattina ci svegliamo tardi, verso le 10.30.
La giornata di ieri è stata stancante: zombie, un cadavere, una nuova compagna di disavventure… è stata una giornata piena.
Francesca, vedendoci ancora esausti, ci prepara la colazione che consiste in marmellata di ciliegie e gallette secche. Di marmellata ce n’è un vasetto solo, adesso pieno solo per metà, ma quelle stramaledette gallette non si decidono a calare. Davide dice che fanno bene perché ricche di carboidrati, ma sono troppo insipide. Quasi quasi, quando il cibo per Asso sarà finito (e non manca molto), le rifilerò a lui.
Comunque, la marmellata  mi dà una botta di energia e il suo sapore dolce mi fa tornare il buonumore.
Dato che non abbiamo nulla da fare, decido di sganciare ora la bomba.
< Dobbiamo andarcene >.
Tutti si girano di scatto verso di me. Anche il cane sembra aver capito quel che ho detto.
< Non sto scherzando, dobbiamo andare via. Qui non è più sicuro. Ci sono molti zombie qui in giro, li abbiamo visti ieri andando in perlustrazione. Per il momento non hanno superato la fattoria di Beppe il Panza, ma quanto credete ci vorrà prima che vengano da noi a fare conoscenza? >.  Silenzio di tomba.
< l’acqua è già a metà, le provviste pure, l’elettricità non c’è, l’acqua corrente neppure. Non sto dicendo che dobbiamo andare via adesso, ma che dobbiamo prepararci a farlo nei prossimi giorni >.
< Mmm… il bunker è sicuro e caldo. Non mi va di lasciarlo per morire di freddo, e per andare dove poi?  > dice Davide.
< Io sono appena arrivata, e ritengo di non avere molta voce in capitolo… ma questo posto potrebbe reggere anche in caso di attacco diretto, anche se è vero che le provviste si stanno esaurendo > dice Francesca.
< Non possiamo stare qui per sempre, se ci barricassimo qui, diventeremmo cibo in scatola > sostengo io.
< Facciamo così > tenta di negoziare Davide < oggi prepareremo al meglio gli zaini d’emergenza e penseremo a una meta da raggiungere. Caricheremo la macchina con una buona dose di viveri, pronti alla partenza. Se domani quei mostri saranno qui, anche se fossero pochi, partiremo >.
A noi donne sta bene. Solo perché ieri ci è andata bene con qualche zombie, non significa che andrà per il meglio ogni volta.
Non siamo in un libro o in un film, dove i sopravvissuti fanno gli eroi e se la cavano sempre. Noi, meno ne incontriamo, meglio è.
 
Prepariamo gli zaini con due litri d’acqua ciascuno, cibo a lunga conservazione e tutti i medicinali (che non sono poi molti). Aggiungiamo anche tutte le pastiglie per potabilizzare l’acqua, corda, la tenda, coperte e vestiti di ricambio, torcia e batterie, più qualche altro oggetto utile. Io lego il sacco a pelo sotto al mio zaino, stasera dormirò sul materasso.
Francesca ha uno zainetto piccolo e vecchio e pochi vestiti, quindi le presto qualcuno dei miei. Abbiamo quasi la stessa taglia, ma lei è un po’ più prosperosa.
Per portare più roba possibile,lei ha creato due specie di tasconi da legare attorno al cane. Non gli impediscono i movimenti, e ho fatto in modo che se uno zombie le afferrasse, si stacchino facilmente.
Dentro metto altro cibo e acqua.
< Cos’è quella roba che hai attaccata alla gamba? > domanda Francesca.
< E’ la mia tasca cosciale, non la tolgo mai > rispondo.
< E cosa c’è dentro? >
A questa domanda non so rispondere bene, perché non ho mai aperto il kit di sopravvivenza prima d’ora.
< Non lo so bene. Adesso che ho un po’ di tempo guardo >. Ma perché non mi era mai venuto in mente prima?! Cosa aspettavo a farlo?!
Apro la scatola di latta grande come la mia mano e dentro trovo: del filo di ferro, una bussola minuscola, un coltellino che non taglia niente, pastiglie per potabilizzare l’acqua, fiammiferi strani, un altro fil di ferro (strano pure quello) e un… boh, non so cosa sia. È un cilindro di metallo grande quanto una sigaretta, legato tramite uno spago a una piccola lamina di acciaio. Ci sono anche ami, piombi e filo da pesca, con i quali non potresti catturare nemmeno un pesce rosso, da tanto che sono scadenti.
< Davide? Sai per caso cos’è tutta ‘sta roba? > chiedo un po’ confusa.
< Ma come, l’hai comprato e non sai nemmeno cos’è? Ahahahah! Sei la solita! > risponde ridendo di gusto.
< Dai, non prendermi in giro! Cosa sono? >
< Beh, questi sono fiammiferi antivento, questa una sega a filo e questo un acciarino > risponde deciso.
< Come fai a saperlo? > dice Francesca.
< Ho fatto lo scout e ne avevo uno simile. Posso assicurare, che metà di quella roba non vale niente e si spacca subito. Tieni l’acciarino, quello è utile e ti insegnerò ad usarlo >
< Ok… che delusione però… su internet lo spacciavano per “il kit che può salvarti la vita in qualunque occasione!” > dico sconsolata.
< Buahahahahaaha! Ti hanno fregata! È una di quelle cazzate che non serve a nulla! Ahahahah ! >
Nonostante le sue prese in giro, decido di tenere tutto. Nella tasca cosciale rimetto a posto la corda, il coltello multiuso, il coltellaccio è una piccola torcia.
< Francesca, bisogna trovarti un’arma > dice Davide.
< Beh… io non so se sia una buona idea… insomma… non sono una persona violenta > risponde lei titubante.
< Potresti essere in pericolo e doverti difendere da sola, perciò tieni il machete e l’accetta piccola, sono leggeri e maneggevoli > propongo io.
< Ok, ma spero di usarli il meno possibile >
< E’ quello che speriamo tutti > conclude Davide.
 
Francesca è un’ottima cuoca e per pranzo ci prepara della pasta al pomodoro buonissima. Non so come abbia fatto, visto che non abbiamo spezie o pomodori freschi ma solo dell’olio e del sugo industriale. Quella che abbiamo fatto fino ad ora io e il mio fratellone, faceva schifo.
 
Nel pomeriggio, Davide mi insegna a usare l’acciarino. È una vera genialata: sfregando la lamina di acciaio sul cilindro (che credo si in magnesio o qualcosa di simile), si creano delle scintille con cui accendere un fuoco.
Mi ci vuole qualche tentativo, ma alla fine riesco. Spero comunque che l’accendino di Francesca non si scarichi presto. Ci ha raccontato proprio questa mattina di essere una fumatrice, di avere l’accendino e due pacchetti di sigarette. Io non sono un’esperta, ma due pacchetti mi sembrano molti. Se è una fumatrice incallita, incontrerà qualche difficoltà quando le sue “cicche”, come le ha definite lei, finiranno.
 
Ora bisogna scegliere una destinazione, non possiamo certamente andare in giro a casaccio.
< Io propongo > comincia Davide < di addentrarci nella campagna fino al paesino qua vicino. Da lì parte una strada che porta ancora in campagna, ma prosegue parallela all’ autostrada. La seguiremo fino alla montagna dove, sono sicuro, troveremo piccoli paesi di sopravvissuti. Lì fa troppo freddo per gli zombie, quindi saranno al sicuro e potrebbero ospitare anche noi >.
< Non sono molto convinta > interviene Francesca < andare vicino a un paese significa zombie, le autostrade ne sono piene, e moltissimi profughi saranno già in montagna. Gli abitanti di quelle cittadine non sarebbero felici di vederne arrivare altri. E come ci manterremmo? Le scorte di cibo non durano per sempre, e non c’è una casa vuota pronta ad aspettarci >.
< Per quanto riguarda gli zombie che si trovano sulla stradina e che sono usciti dal paese, non dovrebbero essere molti, perché non è un percorso uniforme come l’autostrada: ci sono moltissime buche e pezzi non asfaltati. Hanno fatto fatica ad arrivare qui vicino, perciò sarà lo stesso su quella stradina >.
< E quando saremo sulla montagna? Potremmo arrivare ed essere costretti ad andarcene > chiede Francesca.
< Se restiamo qui, non ce la faremo comunque > risponde Davide < dobbiamo sperare che in pochi abbiano avuto l’idea di andare sulle montagne, e che gli abitanti siano ospitali. Potremmo offrire il nostro lavoro per fare barricate o cercare provviste in cambio di un posto per dormire >.
< Io non sono ancora convinta… è molto rischioso >
< Su quelle montagne ricoperte di boschi, ci sono molte grotte. Al massimo una di queste diventerà casa nostra. Mangeremo le provviste che ci saranno rimaste, pesci, selvaggina e tutto quello che troveremo > spiego io < al limite baratteremo qualcosa al paese. Nei boschi c’è molta legna per fare il fuoco e chiudere l’entrata della grotta. Staremo benino >. Spero di essere stata convincente.
< Io ci sto > dice Davide.
< Va bene, accetto anch- >
Tum tum- tudududum bam.
Qualcosa deve essere caduto dalle scale che portano all’entrata.
Scrat scrat-tum-bam scrat.
Ma che diavolo è? Francesca apre la porta e si ritrova davanti uno zombie.Quello tenta di afferrarle un polpaccio, ma lei gli dà una scarpata in faccia.
< Cazzo! > urla < mi sa che il piano di evacuazione va attuato ora! >.
Il cane abbaia e ringhia. < Asso, silenzio! Non devi fare rumore! > dico io. Smette ma rizza il pelo.
Lo zombie si trascina sulle braccia, emettendo il suo roco respiro.
< Fate largo, ci penso io! > ordina Davide. Quando lo zombie è a mezzo metro da lui, gli spacca la testa in due con l’ascia.
Io esco per controllare la situazione, ma quando arrivo all’ultimo gradino per uscire, un non morto senza un occhio tenta di acciuffarmi. In un secondo gli sono dietro e conficco il piede di porco nella sua testa. Nel campo ce ne sono altri quattro, e si avvicinano a me. Uno non ha un braccio e un altro ha le budella di fuori.
< Aiutatemi! > urlo, e gli altri escono a darmi rinforzi.
< Sorellina, usiamo il fucile, tanto dobbiamo scappare subito, non fa nulla se ci sentono >.
< Ok > rispondo.
Lui carica il fucile, ma quando prende la mira e sta per sparare, uno di quei merdosi striscianti lo afferra per la caviglia. Davide cade in avanti, perdendo il fucile. Quando sta per mordere, io gli fracasso la testa.
< Grazie! > mi dice ancora spaventato.
< Siamo una squadra: ci si protegge a vicenda > affermo io.
< Non per interrompere i discorsi profondi di voi guerrieri, ma quattro zombie ci vogliono mangiare… > e così dicendo, Francesca, imbraccia il fucile e ne ammazza uno. Centro perfetto.
Passa al successivo e al terzo, tutti con un colpo solo.
< Tiene solo tre cartucce? > chiede quando non riesce più a sparare.
< Sì > dico io.
< Per non sprecarle, l’ultimo è meglio se lo ammazzate voi >.
Così Davide, si avvicina lentamente nell’erba alta e pianta l’ascia nella testa dell’ultimo zombie.
Torniamo dentro, e la puzza di marcio si è già diffusa in tutto il bunker. Prendiamo gli zaini e gli ultimi viveri in fretta e furia. Li carichiamo in macchina insieme alle biciclette e tutti stipati come sardine, scappiamo da quella che per un po’ abbiamo chiamato casa.
 
 

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Capitolo 8
*** Due pallini (quasi) nelle chiappe ***


14 gennaio 2014 pomeriggio-sera

Siamo in macchina, strettissimi. Non ci sono zombie che ci inseguono, ma sono certa che appena ci avvicineremo al paese, ci sentiranno e vorranno seguirci.
La macchina ha ancora il serbatoio bello pieno, ma quello che mi preoccupa non è il carburante: spostarsi in un centro abitato pieno di zombie, macerie e quant’altro. Non vorrei doverla abbandonare troppo presto.
< Il paese è ancora bello lontano > dice Francesca < Mi sa che dovremo passare la notte qui in campagna >.
< Sì, ma dovrebbe essere abbastanza sicuro… sarebbe meglio non dormire in auto: se dovessero circondarci, non potremmo scappare > dico io.
< Donzelle? > ci richiama Davide < Guardate che cosa c’è lì davanti a noi. È nascosto dalla nebbia, ma dovreste riuscire a distinguerlo >.
A mano a mano che ci avviciniamo, una costruzione imponente si palesa davanti ai nostri occhi.
Doveva essere una grande villa, o una casa di campagna enorme, ma adesso ne restano solo le macerie.
Scendiamo dalla vettura e esploriamo il tutto: il pavimento non c’è, al suo posto terra e erba; le porte e le finestre inesistenti, cumuli di calcinacci alla base dei muri portanti, il tetto e i piani superiori completamente crollati. Praticamente restano solo quattro muri pericolanti.
< Non mi pere un buon posto per passare la notte, fratellone… come dire… è un po’… troppo rustico, ecco > tento di buttarla lì come se potessimo scegliere un altro luogo, ma non è così.
< Purtroppo non ci sono altre case qui attorno, sorellina >.
< In fondo, non è poi così male > dice Frà < e sarà solo per una notte >
< Va bene, mi avete convinta >.
 
Neanche 10 minuti dopo il nostro arrivo, il cane fiuta qualcosa e ringhia. Ho paura che siano loro… e infatti spuntano due zombie dalla strada da cui siamo venuti. Che ci abbiano sentiti? Siamo stati silenziosissimi! Forse non li abbiamo visti perché è salita un po’ la nebbia…
< Che si fa? Se uso il fucile, altri potrebbero sentirci e venire qui > chiede sottovoce Francesca.
< Adesso io e Davide ci avviciniamo e li facciamo fuori, tu tieniti pronta a entrare in azione in caso di necessità >.
Io mi avvicino a quella che sembrerebbe una donna e con un colpo tento di spaccarle la testa, ma la manco e le stacco la mascella. La lingua inzuppata di sangue marrone e gelatinoso penzola, dondolando a ogni suo passo. Indietreggio e questa volta non la manco.
Davide si affianca al secondo, e con un colpo netto gli taglia via la testa, per poi spaccarla in due.
Sembra finita, ma dalla foschia, a 500 m  da noi, ne esce un altro, e un altro ancora e altri continuano ad arrivare.
< Ma quanti cazzo sono!? Devono aver seguito la macchina e noi non ce ne siamo accorti! > dice Davide.
< Io ne ho contati 10 per ora. Sono troppi, e non possiamo usare il fucile. Dobbiamo ripararci in alto, magari sui muri della costruzione e attendere che se ne vadano o ucciderli quando si avvicinano >.
Corriamo da Francesca e Asso, spiego il mio piano.
Gli zombie avanzano a velocità costante, emettendo gorgoglii e il loro tipico respiro.
Salendo sulle macerie alla base dei muri, raggiungiamo quello che resta delle finestre. Qui, attaccato al muro c’è una striscia di pavimento larga 40 cm, che sembra reggerci. La parte più difficile è tranquillizzare Asso e farlo saltare fino a qui.
Abbiamo portato del cibo preso dalla macchina, per non consumare quello nei nostri zaini.
 
Quei mostri sono sotto do noi adesso. Brancolano nel buio, perché facciamo silenzio.
Uno sbatte contro le macerie, e tutti gli altri si muovono verso di lui. Sono troppo scoordinati e non riescono ad arrampicarsi, scivolano subito.
Quello che una volta doveva essere un uomo di colore,crede che i calcinacci siano vivi,e li afferra ferendosi le mani e conficcandoseli nelle palme.
< Cosa facciamo ora? > domanda Francesca in un sussurro.
< Se aspettiamo, resteremo qui in eterno. Dobbiamo ucciderli in fretta e silenziosamente per quanto possibile > dice Davide.
Io accarezzo Asso, che sta smettendo di tremare < Io e Davide abbiamo armi più lunghe, quindi cominciamo noi. Tu tieniti pronta come prima >.
Mi sdraio su quello che resta del pavimento del primo piano e allungo il piede di porco. È proprio all’altezza delle loro teste.
Uno si avvicina e gli conficco la parte dritta al centro del cranio. Quando lo estraggo fa una specie di risucchio che mi fa accapponare la pelle.
Allo stesso modo ne uccido altri due. Davide, con il mio stesso sistema, ne fa fuori uno. L’ascia è più pesante e difficile da maneggiare.
Guardandolo, mi distraggo un attimo, e una donna molto vecchia afferra la mia arma, tirandomi giù.
Rotoliamo e cadiamo sull’erba. Lei tenta di mordermi la gola, ma io la tengo lontana con le braccia.
Dove è il piede di porco? Dove cazzo è? Giro la testa in tutte le direzioni ma non lo vedo. Gli altri mostri si avvicinano a noi in cerchio. Parte uno sparo.
< Centro perfetto! Altro che sarta, dovevo fare il cecchino per l’esercito! Ahahahahah! > trilla allegra Francesca.
< Sorellina, resisti! > urla Davide. Con un calcio mi libera della vecchietta, e sento distintamente le costole di lei spezzarsi.
 < Tieni > mi porge l’accetta e il machete < Francesca dice che ora servono di più a te >.
Uno zombie molto corpulento si avvicina a Davide che con un colpo d’ascia lo manda all’altro mondo.
Un altro sparo e uno di quei cosi cade a terra dietro di me.
Asso salta giù e si mette di fianco a me.
< Asso, atterralo! >. Lui con un salto ne fa cadere uno, che io finisco con il machete.
L’ho addestrato proprio bene.
I quattro zombie rimanenti gorgogliano anche più di prima, se possibile. Uno non ha un piede e si trascina per terra, uno non ha entrambe le braccia e gli altri due invece sono abbastanza “in forma”, almeno per quanto può esserlo un morto vivente.
Con uno sparo solo Francesca ne fa fuori due. Deve essere perché le cartucce creano una nube di pallini di piombo.
In un attimo finiamo i due restanti.
< Stai bene? Ti hanno morsa? > chiede ansioso il mio fratellone.
< Sì, sto bene > rispondo. Ho il fiatone e tremo un po’. Ho paura che non ci farò mai l’ abitudine.
Raccolgo il piede di porco che era incastrato in un cumulo di calcinacci e saliamo tutti “al piano superiore”.
< Sei ferita > afferma Francesca, indicandomi la gamba sinistra.
Ci sono due fori nei pantaloni, con attorno macchie di sangue.
< Mi dispiace > continua < sono due pallini di piombo. Io ho sparato ai bersagli lontani da te, ma i pallini si disperdono in una nube, e due ti hanno colpita >.
< Dobbiamo estrarli! > urla Davide < Francesca, tu puoi farlo? Io credo di non esserne capace purtroppo… questi sono lavori di precisione >.
Quando eravamo bambini, e anche dopo, a dire il vero, ero sempre io a fare la parte della crocerossina quando lui si faceva male o faceva a botte. Quando invece mi ferivo io, raramente chiedevo il suo aiuto, preferivi fare da sola.
< Posso provare. Valentina, abbassati i pantaloni quanto basta >.
In una situazione normale mi sarei sentita  in imbarazzo, ma adesso no.
Prende il kit medico dal mio zaino, disinfettante per le ferite e un ago. Con quello tira fuori i due pallini, che non erano penetrati a fondo, solo 3-4 mm. Per fortuna ero abbastanza lontana e indossavo dei jeans resistenti.
< Ti fa male? > chiede premurosa.
< No, con tutta questa adrenalina non sentirei nemmeno una mazzata in testa >. È vero, ho avuto così paura che non mi sono neanche accorta di quando i pallini si sono conficcati nella mia coscia sinistra, vicino al sedere.
Mi disinfetta un’ultima volta e applica due garze per tenere le ferite pulite. Ormai sanguinano poco.
Mi medica anche i graffi sul viso.
 
Mangiamo della simmental accucciati su quella sottile striscia di pavimento pericolante. Con tutti quei cadaveri puzzolenti lì sotto ne riesco a mangiare pochissima. Nemmeno Asso ha appetito.
Francesca fuma la sua prima sigaretta da quando l’ho conosciuta.
 
Per dormire abbiamo creato una specie di cupola con le coperte e gli zaini. Io nel sacco a pelo ho freddo, Davide dice di stare abbastanza bene avvolto nella sua coperta in pile, ma Francesca trema. Le dico di dormire nel mio sacco a pelo, io userò la sua coperta. Oggi mi ha salvato il culo, e io voglio ricambiare il favore, per quanto possibile.

Angolo dell'autrice:
Alleluja! Finalmente ho scritto anche questo capitolo. Da qui in poi, gli scontri con gli zombie non mancheranno!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e che vogliate scrivere qualche recensione, bella o brutta che sia:)
Alla prossima:)
Lupacchiotta blu

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Capitolo 9
*** Restare a piedi... ***


15 gennaio 2014  mattina-pomeriggio


Il sole deve ancora sorgere, e l’orologio segna le 5.20 .
Abbiamo fatto i turni di guardia ieri notte: Francesca per prima, poi Davide e infine io.  Dovrò stare di guardia fino alle 6.00 e alle 6.30 partiremo.
Ho fatto un sonno agitato e non continuo. Non mi sento per nulla riposata. Le ferite sulla coscia mi danno un po’  fastidio, ho piedi congelati e non mi sento più le dita delle mani. Il freddo è così pungente che sembra possa congelare anche lo scorrere del tempo. Ora tutto è così calmo, immobile… anche il mio fiato che si condensa ci mette molto a dissolversi. La cosa positiva è che anche la puzza di carne in putrefazione non si sente più.
 
< Davide! Francesca! È ora di alzarsi! Sbrigatevi! Siete proprio dei pigroni, dovreste prendere esempio da Asso: lui è in piedi da almeno mezzora! >.
< Shi, arivo subito…  shono ancora stanco… >.
< Soldato Francesca a rapporto > dice lei imitando il saluto militare. Deve essere ancora gasata per ieri, buon per lei che è di buon umore.
Mangiamo del tonno che non è congelato solo perché è sott’olio, i fagioli sono un blocco di ghiaccio.
< Andiamo in macchina, dai. Davide, te la senti di guidare? > chiede Francesca < se vuoi posso farlo io e tu potresti riposarti ancora un po’ >.
< Sì, è meglio… > risponde lui.
Carichiamo la macchina e ci avviamo lungo la strada sterrata, proprio come ieri.
Io mi addormento senza nemmeno accorgermene e quando mi sveglio ci siamo fermati accanto a un boschetto. Non è naturale, è una coltivazione di pioppi destinati al taglio.
Ci siamo fermati perché accanto scorre un canale con dell’acqua molto limpida. Ci laviamo un po’, giusto la faccia impolverata, i denti e le mani sporche.
Francesca mi disinfetta ancora i fori lasciati dai pallini, che ora sono rossi e appena un po’ gonfi.
Non facciamo nemmeno in tempo a tirare un attimo il respiro, che vediamo uno zombie addentrarsi nel boschetto, diretto verso di noi.
< Non è possibile, ogni volta che ci fermiamo ci attaccano! Ma da dove saltano fuori tutti questi zombie? Siamo in campagna, dovrebbero essercene pochi! > dice Francesca spaventata.
< Ragazze, andiamo via >.
 
La nebbia oggi non c’è, e riesco a distinguere chiaramente gli zombie che escono dai campi e che ci seguono. Finora ne ho visti 6, e uno è a 100 m da noi. Gli altri ormai li abbiamo seminati.
< Ecco, siamo quasi arrivati al paese. Riuscite a vedere il campanile della chiesa? > domanda Francesca < tra meno di 10 minuti saremo lì. Prima però dobbiamo pensare a come arrivare alla stradina parallela all’autostrada >.
< Per raggiungerla dobbiamo per forza passare per la periferia , non si può arrivarci dalla campagna. Ci sarà pieno di  zombie, saranno centinaia… >.
< Sorellina, non scoraggiarti. Ce la faremo, basterà stare attenti e fare gioco di squadra >.
 
Siamo entrati nella piccola cittadina, e almeno 20 zombie ci vengono incontro. Prima Davide ci ha spiegato il suo piano per raggiungere l’altra strada.
Attireremo molti zombie con la macchina, poi scapperemo con le biciclette. È rischioso, e non potremo portare tutte le provviste, ma non abbiamo altra scelta: si vede già che le strade sono impraticabili, ostruite da macerie e vetture abbandonate.
Giriamo qualche via a vuoto, tanto per attirare la maggior parte degli zombie dalla parte opposta in cui vogliamo andare.
Per terra ce ne sono molti di morti, e la puzza è terribile… sono sicura che non ci sono solo cadaveri di zombie in giro.
< Pronte per il piano? >
< Prontissime >.
Davide mette un peso sull’acceleratore e scendiamo tutti. La macchina va avanti pianissimo, solo ai 2 km/h, quindi facciamo in tempo a scaricare le due biciclette dal tetto e due scatole di cibo e acqua dal bagagliaio.
Lui accende lo stereo e alza il volume al massimo.
Dalle strade vicine si alza un lamento collettivo.
< Asso, abbaia! > e lui obbedisce. Adesso che abbiamo fatto un bel baccano, sono almeno 150 i non morti che seguono la macchina.
Tutti e quattro ci rifugiamo su una scala antincendio, per far passare gli zombie e scappare quando la strada sarà pulita.
< Addio macchina, compagna di tante avventure! > recita platealmente il mio fratellone, mentre noi altre due ridiamo < non ti dimenticherò mai! >. Ogni tanto anche lui fa lo scemo, e mi tira su di morale.
 
Ora che sono passati alcuni minuti, gli zombie che affluiscono sulla via principale attraverso quelle secondarie sono pochi. Decidiamo di scendere e pedalare fino alle ultime case del paese, e poi di immetterci nella strada parallela all’autostrada.
Quando ne parlavamo prima sembrava più facile, adesso invece sembra quasi impossibile. Ma noi non siamo gente che si arrende, altrimenti  ci saremmo già gettati nella folla di cadaveri viventi per farla finita in fretta.
< Ce la faremo con solo due biciclette? > chiede Francesca.
< No > risponde Davide  .
< Cosa cosa cosa?! Io dovrei usare quel catorcio rosa? Ti ricordo che la bici verde è mia e quella nera di Francesca , quindi se qualcuno dovrà montare in sella a quello schifo, quel qualcuno sei tu. > rispondo infastidita.
Ci avviciniamo a quella “cosa” che loro due insistono a chiamare bicicletta. La strada è quasi deserta, ma Davide uccide due zombie.
< Forza, Sali sul tuo nuovissimo mezzo di trasporto, sorellina! > dice lui sorridendo. Se crede di cavarsela così facilmente si sbaglia. Questa me la lego al dito.
Salgo sulla “Barbie” e cominciamo a pedalare verso i confini del paese.
Si sentono ancora i lamenti degli zombie che si avventano sulla carcassa della macchina, e la puzza per le strade è insopportabile. Penso che non mi ci abituerò mai.
 
Mangio pochissimo da giorni, e adesso che ho fatto appena tre kilometri mi sento già stanca. Come se non bastasse il vento freddo tira contro di noi, e le bende sulla coscia si muovono e danno fastidio.
Asso è nervoso, più di una volta si è fermato puntando qualcosa che noi abbiamo immediatamente eliminato.
< Vedo la fine del paese. Se continuiamo così saremo alla stradina in mezzora > dice Francesca.
 
Siamo sulla strada, finalmente. Finora non abbiamo incontrato altri umani, non so se è un bene o un male, ma qui potremmo trovarne alcuni, forse.
Il percorso, come immaginavamo, non è messo molto bene: ci sono delle buche così profonde che contengono ancora un po’ d’acqua dei giorni scorsi. Le erbacce crescono da tutte le crepe dell’asfalto, e la segnaletica sul manto stradale non esiste più da tempo, ma ormai, a chi potrebbe servire?
Non vedo tracce di zombie, e Asso è calmo. È un cane resistente, sono sicura che reggerà la marcia per giorni, ma noi non andiamo troppo veloce per non sfiancarlo.
Ognuno di noi, oltre allo zaino, ha anche le provviste da portare: in tutto sei bottiglie di acqua e due scatole da scarpe con il cibo. Per fortuna ne abbiamo anche negli zaini e nelle borse di Asso, altrimenti non basterebbero fino alle montagne.
 
< Ormai è mezzogiorno… io ho un po’ fame > dice Francesca.
< Io neanche un po’ > ribatto.
< Vale, devi magiare. Sei già stanca, e abbiamo ancora tantissima strada da fare. Se non mangi, crollerai > dice il mio Fratellone.
< Se mangerò vomiterò anche l’anima >
< Ci devi almeno provare. Mangerai poco, e piano piano aumenterai le dosi, perché di questo passo di te non rimarrà che la pelle > conclude Francesca.
Capisco di non potermi opporre. Anche il cane mi guarda come per dire “Mangia!”.
Ci fermiamo accanto a dei cespugli, e mi obbligano a mandare giù mezza scatoletta di tonno. Sento già lo stomaco contorcersi, e il cibo freddo non aiuta.
Prendo una pastiglia di ansiolitico, magari funziona.
Gli altri mangiano con foga quello che hanno davanti, e a me scende un po’ la nausea. Mi convinco a finire anche l’altra metà della scatoletta.
Quella roba funziona, ma non posso andare avanti così per sempre: prima o poi le pasticche finiranno.
< Vedo che le medicine aiutano, c’è qualcos’altro che posso fare per renderti il pasto meno difficile? > domanda apprensiva Francesca.
< Grazie, sei molto gentile a preoccuparti per me> .
< E’ normale che mi preoccupi, siamo una squadra > dice sorridendomi  < Ma cosa vorresti adesso? >.
< Un tè caldo. Ci dovrebbero essere delle bustine, mi pare. Fanne per tutti, non solo per me >.
< Certo. Uso la tua gavetta per far bollire l’acqua, ok? >.
< Ok >.
Francesca è un’ottima compagna di squadra, è sempre così premurosa e materna… mi ricorda la mamma, ma adesso non devo pensarci, altrimenti diventerò pazza. Devo preservare la mia sanità mentale, o quello che resta, perché ora come ora è tutto quello che ho.
Lei scalda più o meno tre bicchieri d’acqua nella gavetta, sopra un fuoco di fortuna. A un certo punto ne svuota 1/4, perché il calore non è abbastanza intenso. Abbiamo fatto il falò con delle sterpaglie e dei rametti secchi, è un miracolo che si sia acceso.
Mette dentro una bustina di tè alla vaniglia, il mio preferito. Ho fatto bene a portarlo, mi tirerà su di morale.
< Ecco, tieni > mi dice porgendomi una tazza di alluminio in dotazione con la gavetta < non è molto caldo, ma è meglio di niente. Scappando dal bunker ho portato via anche quello che restava dello zucchero. Sarà all’incirca una tazza, ne vuoi un po’? >.
< Sì, grazie >.
< C’è del tè anche per me? > domanda Davide allungando uno dei pentolini della sua gavetta.
< Mi sembra di essere un alpino che serve bevande calde alle sagre paesane! Ahahahah! > esclama lei ridendo < certo che c’è! Ce ne per tutti! >
È una donna allegra, piena di vita. Non era così i primi giorni, ma adesso ci sta mostrando la vera sé stessa. Forse è presto per dirlo, ma comincio ad affezionarmi a lei.



Angolo dell'autrice: 
Buon giorno! Finalmente sono tornata! Mi dispiace molto di non aver aggiornato la storia per così tanto tempo, ma la scuola non mi ha dato tregua. Da ora in poi dovrei riuscire a pubblicare una volta a settimana, impegni permettendo:)
Come ogni volta, spero vi sia piaciuto il nuovo capitolo!
Alla prossima
Lupacchiotta blu

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Capitolo 10
*** Se c'è qualcosa che piace a tutte le ragazze, quel qualcosa sono le scarpe ***


15 gennaio 2014 tardo pomeriggio-notte
 

Continuiamo a pedalare, mentre il cielo si fa via via più buio. Siamo a metà gennaio, quindi le giornate durano ancora poco.
Credo che la ruota anteriore sia bucata. Lo sapevo che era una fregatura… sono sicura che è il rosa a portare sfortuna.
< Ragazzi > dico a un tratto < ora il sole sta tramontando, e tra mezzora sarà completamente buio. Io direi di accamparci il prima possibile >.
< Sì, hai ragione, ma dove? > chiede Davide < per ora zombie non ce ne sono, ma l’autostrada è a mezzo kilometro da qui. Non ci vorrà molto prima che si addentrino nella campagna e arrivino fin qui >.
< Già, ma non possiamo continuare anche di notte. Dobbiamo riposare per forza. Anche Asso è stanco morto > dice Francesca.
Decidiamo di accamparci vicino a degli alberi, così se i non morti dovessero arrivare, potremmo arrampicarci.
Il fuoco crepitante ha fatto un po’ fatica ad accendersi perché la legna è ancora bagnata. Ci siamo messi attorno, tutti avvolti dalle coperte, imbacuccati nelle nostre giacche pesanti che non togliamo da più di un giorno.
L’acqua bolle e Francesca fa del tè. Scaldiamo il tonno in scatola sopra il fuoco, ancora dentro la lattina. Non si è congelato, ma con questo freddo, del cibo caldo vale come l’oro.
Il cane mangia come se fosse il suo ultimo pasto, mentre io devo prendere altri ansiolitici per buttare giù qualche boccone. Perché sono così ansiosa? Cosa c’è che non va nella mia testa? Non potrei essere un pozzo senza fondo come Asso?
 
Andiamo a dormire. Io mi raggomitolo nel sacco a pelo, con la faccia rivolta al fuoco e all’autostrada, e con la schiena che da alla campagna. Appena smettiamo di parlare il vento ci porta il respiro roco degli zombie… è terribile… è lento e incessante, sembra che ci avvolga come una nuvola di fumo;  più tempo passa e meno lo sopporto. Anche Asso non riesce a dormire per questo, e ogni tanto emette un guaito.
Vorrei fare due chiacchiere con Francesca, che è di guardia, ma non voglio disturbare Davide.
 
È il mio turno di guardia. Mi siedo ma non tolgo il sacco a pelo. L’orologio segna le 1.30 del mattino. Il fuoco si sta spegnendo, allora aggiungo qualche pezzo di legno. È così piccolo che illumina e scalda poco, ma lo teniamo soprattutto per sostegno morale.
Ora il lamento collettivo degli zombie mi sembra ancora più forte, sarà perché sono più sveglia di prima, ma ho un certo sospetto…
Prendo una piccola torcia elettrica dalla tasca cosciale, e mi incammino verso l’autostrada. La pila fa una luce fioca, illumina a malapena dove sto per mettere i piedi, ma ormai sono sicura che i miei sospetti siano fondati, perché sento la puzza.
A 100 metri da me, almeno una trentina di zombie brancolano nel buio, illuminati dalla luce lunare. Non sanno che siamo qui. Devo avvertire gli altri!
Corro all’accampamento, sveglio tutti e ci prepariamo in un secondo. Francesca e Davide sono stanchissimi, hanno gli occhi impastati di sonno. Tutti i nostri movimenti hanno attirato la massa di non morti.
< Francesca! Il fucile! > urla Davide.
Cinque o sei colpi si susseguono, abbattendo i bersagli più vicini, ma siamo ancora in pericolo, perché al buio non vediamo niente. Altri due spari.
Mi accorgo che uno di loro sta strisciando per terra, vicinissimo a Davide, e con il piede di porco gli maciullo la testa.
< Sono troppi! Non possiamo arrampicarci sugli alberi, altrimenti ci circonderanno! Dobbiamo scappare! > urlo io.
Inforchiamo le biciclette e partiamo come razzi, o quasi. Gli zaini pesano tantissimo, e ci rallentano molto.
Asso salta sul petto di uno zombie che ci sbarra la strada, atterrandolo e stando attento a non farsi prendere.
< Non ci si può fermare un attimo che quelli ti sono già alle costole! > urla Francesca arrabbiata < di questo passo non troveremo mai un posto sicuro dove dormire, e comincio a non essere più sicura che la montagna li fermi >.
< La montagna è un ostacolo troppo grande per loro > dico io < almeno in inverno è un posto sicuro. Dobbiamo raggiungerla in fretta >.
< Ragazze, avete visto? > domanda Davide, interrompendo i nostri discorsi.
< Cosa? Con questo buio non si vede nulla fratellone >.
< Mi pare di aver visto un fiocco di neve >.
Merda.
 
Purtroppo il fratellone aveva visto bene. Al solitario fiocco di neve se ne erano aggiunti altri, prima radi e piccoli, come se avessero avuto vergogna a farsi vedere da noi. Con il passare dei minuti pare abbiano preso coraggio, perché ora sono tantissimi e grandi quanto una falange delle mie dita. Coprono tutto silenziosamente, con calma, come se avessero tutto il tempo del mondo per avvolgere il paesaggio… in effetti, nessuno verrà a spalare via la neve quest’inverno.
Mi è sempre piaciuta la neve. Sin da bambina adoravo fare le battaglie con le palle di neve, soprattutto con Davide.
Ero sempre felice di vedere il giardino tutto bianco appena mi svegliavo, ma oggi no. Preferirei che smettesse subito e non ricominciasse più.
Questo freddo rallenterà gli zombie ma anche noi. Fa troppo freddo. Pedalare diventa sempre più difficile e stancante, il peso degli zaini ci pesa tutto sulle spalle e l’aria gelida di insinua dentro le maglie, facendoci rabbrividire.
Mi aggiusto meglio la sciarpa e mi accorgo di avere le dita ghiacciate nonostante i guanti e le labbra screpolate. Un pensiero mi assale.
< Dove dormiremo stanotte? >.
< Non lo so > risponde Francesca < ma dobbiamo trovare un posto sicuro il prima possibile. Potremmo provare con gli autogrill sull’autostrada anche se è pericoloso. Oppure ci fermiamo alla prima casa che troviamo per strada, sperando che chi c’è dentro ci faccia entrare o che perlomeno non ci sia nessuno >.
< Mi pare una buona idea > dice Davide < ma se facciamo così fatica ora, non oso pensare a quando saremo in montagna… >.
 
Vediamo un autogrill subito prima che il cielo diventi completamente buio. In pochi minuti siamo vicino al parcheggio sul retro, dove sei zombie camminano tranquilli.
Tentiamo di avvicinarci senza fare rumore ma invano: la neve scricchiola sotto le nostre scarpe e i non morti si girano subito verso di noi.
Li uccidiamo abbastanza facilmente perché il freddo li ha semi-congelati rendendoli più lenti del solito.
Dentro le macchine nel parcheggio e sulla strada, gli zombie si dimenano ma non possono uscire perché hanno ancora le cinture allacciate e sono troppo stupidi per liberarsi.
< Ragazze, adesso entriamo, ma sono sicuro che dentro sarà pieno di questi mostri. Se sono troppi, mi sa che dovremo andarcene, perché non possiamo ucciderli tutti > dice Davide.
< Io ho ancora delle cartucce, ma non vorrei che il rumore facesse avvicinare quelli che vagano liberi per l’autostrada: mi pare che qui vicino non ce ne siano, ma non si sa mai > afferma Francesca.
< Prima di entrare, è meglio se guardiamo dentro da quella finestrella > dico io < se sono pochi entriamo, se sono tanti si vedrà >.
Francesca è la più leggera tra noi, quindi Davide la issa in spalla e la alza abbastanza per farle guardare attraverso la finestra.
< Cosa vedi? > chiedo io.
< C’è buio dentro, ma vedo chiaramente qualcuno muoversi. Sono sicuramente zombie, perché barcollano e sbattono addosso ai muri. Ne vedo almeno 10, mi sa che sono troppi per noi >.
Sì, sono decisamente troppi. Con cautela cammino assieme ad Asso fino al parcheggio anteriore e mi avvicino all’ ingresso. Le porte a vetri sono infrante e sporche di gelatina marrone. Dentro vedo i non morti camminare e alcuni strisciare. Hanno fatto cadere tutti gli scaffali e la merce esposta, che ora ricopre tutto il pavimento.
Faccio il giro di tutto lo stabile fino a quando ritrovo la mia squadra.
< Ho una notizia buona e una cattiva > comincio a spiegare < quella cattiva è che l’autogrill e già occupato da una massa di zombie appena tornati dalla settimana bianca. Quella buona è che possiamo rubare un’auto e continuare con quella >.
< Rubare una macchina? Ma se sono quasi tutte occupate da zombie! > protesta Davide.
< Fidati di me: ce ne sono alcune vuote con le chiavi ancora dentro, credo, e se non ce ne fossero potremmo tirare fuori il proprietario e prendergli il mezzo. Funzionerà, ne sono certa > affermo con decisione.
Davide non ribatte, tanto sa già che quando ho un’idea bisogna seguirla.
Tutte le macchine aperte hanno le chiavi dentro, ma la batteria scarica: lasciando le portiere aperte, le luci restano accese. Mentre Asso fa la guardia, noi curiosiamo nei bagagliai, magari c’è qualcosa di utile. Tengo la torcia tra i denti, e apro le valige alla velocità della luce. Molte persone tornavano dalla montagna, e nei bagagli ci sono vestiti caldi, che ci farebbero comodo, soprattutto a Francesca. Lei trova uno zaino più capiente e lo riempie di abiti e del contenuto dell’altro zaino. In una piccola monovolume trova addirittura una giacca a vento azzurra a strisce lilla, di dubbio gusto.
< Quella non la rifili a me come hai fatto con la bicicletta > dico seria.
< Ahahah! Tranquilla, con quel catorcio a due ruote hai già sofferto abbastanza! Ahahah! > trilla lei allegra < piuttosto, penso che ci toccherà rubare un’auto “infestata” >.
< Purtroppo mi sa di sì. Io direi di prendere quella > dico indicando una Land Rover grigia tutta infangata.
< Buona idea > fa Davide < ma come ci sbarazziamo della sua inquilina? >.
Dentro c’è una donna che sembra abbastanza tranquilla, non si dimena come gli altri e non è nemmeno decomposta come loro, forse, perché si è rifugiata in macchina appena contagiata, non uscendone più.
< Ragazze, è sola in macchina e non ha la cintura di sicurezza. Voi aprite la portiera, io la tiro fuori e la ammazzo, ok? >
< Ricevuto > rispondiamo in coro.
Francesca apre l’auto, Davide la getta sull’asfalto innevato ma quando sta per spaccarle la testa, lei si gira e tenta di mordergli il polpaccio, così lui per non farsi mordere scivola e cade. Lei sta per attaccare di nuovo, ma io la mando all’altro mondo con un colpo solo, appena in tempo.
< Grazie, mi hai salvato le chiappe >.
< Tu avresti fatto lo stesso per me > rispondo sincera.
 
La macchina dentro è abbastanza pulita, tranne qualche macchia di sangue zombi. Per sicurezza, togliamo i copri sedili in stoffa blu, lasciando scoperti gli interni neri. Disinfettiamo il cruscotto, il volante e il parabrezza con delle salviettine profumate e dell’Amuchina per le mani. Adesso che è linda e pulita,profuma anche di limone. Piace anche al cane, quindi la ritengo sicura. Prima che la disinfettassimo, lui non voleva entrarci.
 Carichiamo gli zaini e le provviste che erano sulle biciclette, le quali dovranno essere abbandonate, perché non c’è il porta-biciclette come sulla macchina di Davide.
Facciamo anche il pieno al distributore e riempiamo due taniche trovate accanto alle pompe, pagando con i soldi che aveva la donna nelle tasche.
< Degli zombie sono usciti dall’autogrill! > urla Francesca < Dobbiamo scappare! Metti in moto! >.
< Forza! Parti, dai! Fino a un secondo fa ti accendevi! Cazzo, parti! > impreca Davide.
Con un rombo l’auto si mette in moto, e partiamo alla velocità della luce. Tiriamo sotto due zombie nel parcheggio, e ne investiamo un altro in autostrada. Le macchine ferme ci ostacolano, come tutti i non morti che abbiamo attirato in quella mezzora che abbiamo sostato all’autogrill.
< Cazzo, siamo nei casini! Come usciamo da qui?! > urla Francesca.
< Merda, finiremo per ammazzarci da soli! > dice Davide.
< Guarda! Lì il guard-rail è ceduto! Passa da lì e torna alla stradina da dove siamo venuti! >
< Ma sei pazza?! Finiremo nel campo, e con 5 cm di neve non è una buona idea! Sbanderemo di certo, cazzo! >.
< Davide, ho scelto questa macchina perché ha le ruote da neve ed è una 4x4, possiamo farcela! Esci da lì! >
Con un’accelerata il fratellone investe due mostri semi-congelati, esce dall’autostrada e con un salto di due metri e mezzo e  finiamo in un campo. Asso ha paura e guaisce, noi tre urliamo come degli indemoniati, finché non capiamo di essere tutti interi.
Procediamo tremanti e pallidi come fantasmi fino alla stradina, seguiti da qualche zombie che però non riesce a camminare sul suolo disconnesso del campo.
Una volta sulla strada, ci calmiamo un poco. Proviamo ad ascoltare la radio, ma non si sente nulla, allora io metto su un cd di Elvis Presley, e le note di Jailhouse rock invadono l’abitacolo. La proprietaria aveva gusto.
Ci mettiamo a cantare tutti insieme, e siamo quasi felici, allegri. Non sembra nemmeno che ci sia l’apocalisse, piuttosto pare che stiamo andando in gita.
Io sono sui sedili posteriori assieme al cane, e mi metto a curiosare nella valigia e nei borsoni che erano nel bagagliaio. Di tutta quella roba tengo qualche vestito caldo della mia taglia, l’mp3 e le cuffie, qualche medicinale per l’influenza e tutto il resto, valigia compresa, lo butto fuori dalla macchina. Erano oggetti inutili, ci avrebbero appesantiti e basta.
< Sei sicura di aver tenuto tutto quello che poteva servirci, sorellina? >
< Sicurissima. Tu sei riuscito a trovare vestiti prima? >
< Certo, c’era pieno di maglioni nelle altre macchine, avevo solo l’imbarazzo della scelta! Ahahahah! > dice rimettendo in moto.
Negli altri borsoni ci sono scarponi e un casco da sci, li getto entrambi dal finestrino.
Quasi mi sfugge un’ultima sacca: contiene un paio di scarponcini da trekking marroni, impermeabili, morbidi e caldi. Fortuna vuole che siano della mia taglia.
< Francesca? Ti piacciono le mie nuove scarpe d’alta moda? Ahahaha! >
< Sicuro! Ahaha! Ti saranno costate un occhio della testa! >
< D’ora in poi userò questi > dico < visto che tu hai delle scarpe normali, vorrei darti i miei anfibi. Terranno più caldo, anche se non tantissimo, e sono più comodi >
< Sei sicura? > chiede
< Certo! Tanto a me non servono più! Almeno se camminerai nella neve non ti bagnerai i piedi >.
Francesca accetta e si sbarazza delle vecchie calzature bagnate e rovinate.
 
Abbiamo spento lo stereo per risparmiare elettricità, e con tutto questo silenzio mi viene sonno. Così mi sdraio e mia addormento guardando le mie scarpe (quasi) nuove.



Angolo dell'autrice:
Ragazzuole e ragazzuoli, eccomi qui con un altro capitolo!
Che dire: Valentina combatte ancora contro le sua ansie, tutti e quattro quasi si ammazzano, fanno un po' di sciacallaggio... è un bel minestrone, insomma! XD
Anche questa volta spero vi sia piaciuto, e come sempre aspetto qualche recensione, bella o brutta che sia:)
Al prossimo capitolo!
 

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Capitolo 11
*** La speranza è l'ultima a morire ***


Avviso:
Questo capitolo contiene una buona dose di improperi, a differenza degli altri che avevano solo qualche parolaccia sporadica. Chiedo scusa a chi non gradisce le espressionni scurrili, ma cercate di capire questa povera ragazza: c'è chi dopo aver sbattuto il mignolo contro lo spigolo del comodino tira giù tutti i santi del paradiso, lei sta vivendo la fine del mondo e non ha ancora detto nulla. Prima o poi tocca anche a lei sfogarsi ;)


16 gennaio 2014 mattina


< Hey… piccolina… è ora di alzarsi… > dice una voce dolce e materna.
Apro un occhio, mettendo a fuoco il volto di Francesca che mi sorride.
< Ciao, che ore sono? > domando alzandomi a sedere di scatto < Dove siamo finiti? E Davide dov’è? >.
< Calmati, non ti preoccupare, lui è sceso dalla macchina per andare al bagno. Tranquilla, siamo al sicuro: ci troviamo in mezzo alla campagna, lontani qualche kilometro dalla strada. Davide ha guidato tutta la notte e ha deciso di fermarsi qui perché non ci sono zombie. Abbiamo dormito in auto e non ti abbiamo svegliata perché ci sembravi davvero esausta > conclude sorridendomi.
Scendiamo dalla vettura, e scopro che ha preparato il tè per colazione, su un piccolo falò in mezzo alla neve. Ne bevo una tazza fumante, e il sapore dolce e vanigliato mi calma e tranquillizza.
Intanto, il mio fratellone torna dalla boscaglia seguito da Asso, che trotterella allegro.
Finiamo la magra colazione, laviamo gavetta e tazze con della neve e risaliamo in macchina.
< Quanto manca, secondo voi? > chiedo io.
< Bella domanda. Siamo già a ¾ del tragitto e in condizioni normali saremmo già arrivati da un bel pezzo, ma ora come ora, direi che in un giorno saremo alle pendici della montagna > risponde Davide < se tutto va bene, si intende >.
Partiamo e procediamo lentamente nei campi innevati. Mi hanno detto che ha continuato a nevicare quasi fino al mattino, e adesso il terreno è ricoperto di quasi 8 cm di neve soffice.
La macchina all’inizio ha fatto un po’ fatica ad accendersi, perché il motore era freddo, ma adesso va benissimo.
Il viaggio è monotono, senza colpi di scena, e lo passandolo ascoltando musica sull’ mp3, capisco che l’auto di sicuro non era della ragazza che c’era dentro: la musica dei cd e quella dell’mp3 sono di due generi completamente diversi; l’una è rock’n’roll, l’altra Lady Gaga e Rihanna.
Ci scommetterei 20€ che l’auto se l’è fatta prestare dal moroso o dal papà. Già… papà… chissà dov’è ora, chissà se è ancora vivo… e mamma? Che se la sia cavata? Staranno pensando a me come io penso a loro?
No, no e ancora no! Non devo pensare a queste cose! Devo essere positiva! Certo che stanno bene, sono i miei genitori, giusto? Figurati se mi lasciano orfana nel bel mezzo della fine del mondo!
Francesca interrompe i miei pensieri:
< Guardate! Un elicottero! >
< Come un elicottero?! Non è possibile! > urla Davide.
< Facciamoci vedere, presto! > sbraito io.
Il mio fratellone inchioda di colpo, e la macchina slitta per un metro prima di bloccarsi. Scendiamo e tentiamo di attirare l’attenzione con ampie bracciate , salti, urli e clacson, ma l’elicottero non ci vede e se ne va come nulla fosse.
< Cazzo! Non è possibile! Vaghiamo nel nulla per giorni, quasi ci ammazziamo, facciamo fuori orde di zombie, e porca puttana, uno stramaledetto elicottero pilotato da ciechi non ci vede! > urlo incazzatissima.
< Oh oh, quando la mia sorellina fa così, non prevedo nulla di buono… > sussurra Davide a Francesca.
< Ma che fortuna del cazzo! Con tutto il culo che abbiamo, scommetto che uno tsunami di merdosi non morti ci inseguirà fino alla montagna, dove una mandria di montanari armati di clave di legno e fucili dell’800 ci dirà di andarcene a fanculo, perché sono già in troppi! > continuo sbraitando. Anche il cane sembra spaventato, e si nasconde sotto la macchina guaendo.
Impreco per altri 5 minuti buoni prima di calmarmi. A volte mi succede di esplodere, per questo ho iniziato a praticare kick boxing, per sfogarmi e tenere la rabbia sotto controllo, ma in queste situazioni come si fa a non arrabbiarsi?
< Va meglio adesso? > chiede Francesca, premurosa come sempre.
< Sì, un po’… scusa, non volevo rendervi partecipi di questo spettacolo pietoso, ma non sono riusci- > mi interrompe lei < ti capisco, sei sotto stress in questi giorni, è comprensibile che tu sia sbottata, ed è meglio così: se non esplodi, rischi di implodere, e allora diventi depressa e triste… fino a quando perdi la voglia di vivere. Da alcuni giorni mangi pochissimo perché l’ansia ti chiude lo stomaco, dormi male e ti agiti nel sonno, questi sono sintomi di un crollo mentale. Promettimi che da ora in poi, quando sentirai che non ce la fai più, ne parlerai con me o con Davide, ok? So che per te sarà difficile, come dire… non sei la tipica ragazza piagnucolona, tendi a tenerti tutto dentro per non pesare sugli altri, ma questo è sbagliato. Qualche volta, parlane con noi, ti sapremo aiutare, anche i più forti a volte hanno bisogno di aiuto, sai? > conclude sorridendomi.
Dopo queste parole di conforto, non riesco a trattenere le lacrime, e la abbraccio. Lei mi coccola dondolandomi tra le sue braccia, come faceva la mamma quando ero piccola. Si aggiunge anche Davide, che ci cinge tutte e due. Pure Asso pare in vena di consolarmi, avvicinandosi scodinzolando.
Forse i miei genitori sono morti, forse anche quelli di Davide, e se disgraziatamente fosse davvero così, penso che la mia nuova famiglia sarebbero lui, Francesca e Asso, perché se ci sono per me in momenti come questo, sono sicura che ci saranno per sempre.
 
Per fortuna siamo abbastanza lontani dalle strade, così gli zombie non hanno potuto ascoltare il mio arsenale di improperi.
Continuiamo sempre sulle stradine sterrate ricoperte di neve e ghiaccio, finché non queste non ci riportano alla mitica strada asfaltata.
Il ghiaccio ha tappato le buche e si procede meglio adesso di quanto non si facesse prima.
Non vediamo zombie, per ora. Il freddo intenso della notte deve aver congelato anche gli ultimi intrepidi non morti, che si muovevano già a fatica.
< Cosa ne pensate dell’elicottero? > chiede Francesca.
< Beh > risponde Davide < adesso sappiamo che ci sono altri sopravvissuti abbastanza organizzati da poter fare ricognizioni in elicottero. Se ne sono andati verso la montagna, probabilmente hanno reso sicura una piccola pista per elicotteri. Non sono sicuro che sia proprio in montagna, ma almeno lì vicino >.
A questo punto e meglio se esterno quello che sto pensando da una mezzora buona.
< Secondo me ci hanno visti e ignorati apposta >. L’aria nella macchina diventa tesa.
< Sono sicurissima che ci abbiano visti: come si fa a non vedere una macchina scura e tre disperati che si sbracciano nel bel mezzo della neve bianca? Eravamo come una macchia d’inchiostro su un foglio intonso.
Non so perché non si siano fermati o perché non ci abbiano neanche fatto dei segnali, ma ci hanno visti >.
Asso giocherella tranquillamente con uno straccio annodato, mentre gli altri due stanno zitti. Francesca ha le mascelle serrate, e Davide stringe così forte il volante da avere le nocche bianche.
Non so se sono più arrabbiati perché hanno capito che quei sopravvissuti non ci vogliono, o perché ho detto ad alta voce quello che pensano anche loro.
< Comunque > continuo < o andiamo verso di loro, oppure non andiamo da nessuna parte, tanto vale provare. Magari ci accetteranno comunque. Magari si sono accorti di noi e ci stanno mandando soccorsi >.
Sì, come no. Soccorsi.
< Hai ragione > dice Francesca < proviamo comunque, potrebbe andare bene >.
Come si dice? La speranza è l’ultima a morire.



Angolo dell'autrice: 
Ciao:) so bene di essere in ritardo, ma avevo già avvertito che la scuola purtroppo non mi dà tregua.
Ho avuto pochissimo tempo per scrivere (e di vede), ma ho voluto comunque aggiornare con questo capitolo, anche se corto.
Spero sia di vostro gradimento :) 

Lupacchiotta blu

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Capitolo 12
*** Francesca è brava a tagliare la stoffa, non i capelli ***


16 gennaio 2014 mezzogiorno, pomeriggio e sera
 

Stiamo ancora viaggiando in macchina. Andiamo piano per colpa della neve, direi attorno ai 20 km/h, ma il fatto che non ci siano zombie compensa la lentezza.
Ci fermiamo vicino a una macchia di alberi che costeggiano la stradina. Asso scende e si sgranchisce le gambe, ormai stava dando segni di nervosismo.
Noi tiriamo fuori dalla macchina solo il minimo indispensabile per cucinare. Francesca scalda in una gavetta due barattoli di zuppa di verdure, con pomodoro, carote, patate e piselli. Nei giorni precedenti si era congelata ed eravamo stati costretti a mangiare solo tonno sott’olio.
Mentre si scalda il suo profumo delizioso si alza dalla gavetta, facendomi venire l’acquolina in bocca. Da quanto tempo è che mangio solo il minimo indispensabile per sopravvivere? Da quanto tempo non mangio per il piacere di mangiare, ma solo per l’energia che il cibo mi può dare? Lo scopo principale sarebbe proprio quest’ultimo, ma nella civiltà dello spreco e dei consumi, non ci pensava più nessuno, nemmeno io.
Francesca ci dà le nostre razioni, e ci accompagniamo anche qualche galletta secca. La zuppa è calda e saporita, e mi accorgo di mangiarla di gusto, senza nausea o mal di stomaco. Deve essere stato lo sfogo di prima… mi sa che gli altri avevano ragione…
< È buono? Vi piace? > chiede Francesca.
< Buonissimo! Sarà che non mangiamo qualcosa di decente da giorni, ma questa è la zuppa più buona che io abbia mai mangiato! > urla Davide.
< Ahahah! Esagerato! E tu Valentina? >.
< Buona, ce n’è ancora un po’? >.
< Certo! Ne vuoi anche tu Davide? > chiede lei premurosa.
< Sì, grazie >.
Ci dividiamo gli ultimi cucchiai, raccogliendo anche l’ultima goccia. Siamo stati costretti a bere la zuppa come da un bicchiere, perché abbiamo un cucchiaio solo, e quello è servito per mescolare e preparare il tutto. Accidenti, ho pensato a tutto tranne a portare dei cucchiai.
Asso ha mangiato una lattina di cibo per cani accanto a noi, e adesso sta cercando di rilassarsi, ma non ci riesce… chissà perché.
< Vado a risciacquare le stoviglie in quella canaletta. Lo strato di ghiaccio è sottile, sotto c’è l’acqua > dico.
La canaletta è a pochi metri da noi, spacco la sottile lastra di ghiaccio che la ricopre e comincio a lavare le gavette, quando del ghiaccio sotto il mio piede destro cede, facendomi perdere l’equilibrio.
< Che succede? > domanda Davide.
< Niente, del ghiaccio si è spaccato sotto i miei piedi e- SANTA PATATA! > urlo scattando subito in piedi.
Non era ghiaccio, era uno zombie congelato!
< C’è uno di quei cosi qui sott- > cado come prima < SONO DUE! >.
Accorrono tutti da me con le armi in mano, e Asso ringhia. Forse è per questo che non riusciva a calmarsi.
< Tranquilli, sono congelati, non possono muoversi > dico appena capisco la situazione < buono Asso, buono. Va tutto bene >. Lo accarezzo un po’ per tranquillizzarlo. Sento che è dimagrito un po’, ma non troppo. Abbiamo dovuto razionare il cibo anche a lui.
La situazione che si presenta ora è questa: un torace marrone-grigio sfondato, con le costole rotte e appuntite, e un altro zombie con un braccio e il collo ridotti allo stesso modo.
Laviamo tutto in fretta e furia, raccogliamo le nostre cose e ripartiamo alla svelta. Che siano “vivi” o “morti”, fanno schifo comunque.
 
La catena montuosa ci era apparsa già da tempo, e la nostra montagna “bersaglio” si vedeva bene già da ieri. Adesso che ci stiamo avvicinando, la sua immagine è sempre più definita, siamo quasi alle sue pendici. Davide dice che probabilmente non la raggiungeremo entro oggi, ma domani saremo sicuramente là.
Io non sono molto preoccupata: la temperatura non sembra voler aumentare e le nostre scorte di viveri basteranno ancora per un po’.
Dopo l’azione e la paura di questi giorni è strano non avere niente da fare. Non che mi dispiaccia, ovviamente, ma così ho troppo tempo per pensare: famiglia, amici, casa, vita… non vorrei ritrovarmi ansiosa come prima. Devo assolutamente trovarmi qualcosa da fare, così comincio a sistemare meglio il contenuto del mio zaino, che è messo un po’ alla rinfusa.
< Guardate! Una casa! > urla Davide. Sul lato sinistro della strada c’è una villetta a due piani, con un giardino davanti. Da lontano sembra piccolina.
< Ci fermiamo? > domanda Francesca < Ormai sono quasi le sei di sera  e il cielo ha già cominciato a imbrunire >.
< L’ultima volta che abbiamo provato a trovare rifugio in un edificio, stavamo per morire. Comunque ci è andata bene, abbiamo trovato l’auto e degli oggetti utili. Direi che possiamo provare anche qui > dico io.
< Potremmo passare la notte in macchina… saremmo pronti a partire molto più velocemente così… > spiega Davide. A quanto pare non è ansioso di ritrovarsi ancora davanti a un’orda di zombie.
< In macchina, anche con il riscaldamento acceso, fa troppo freddo e in più sprecheremmo energia per niente. Almeno diamo un’occhiata: se ci dovessero essere degli zombie, saranno certamente congelati. E per quanto riguarda la fuga, parcheggeremo l’automobile proprio davanti all’entrata, così dovremo fare solo pochi passi >. E con questo convinco tutti.
 
Adesso che ci siamo davanti, mi rendo conto che è davvero una casetta piccolina, ma per noi va più che bene. Si trova vicino a una stradina asfaltata alla bell’e meglio che porta fino a un piccolo paese dove delle volte andavo con Davide a fare un giretto. È, o meglio, era, un minuscolo agglomerato di case nella campagna lombarda. Un paese molto pittoresco, con un torrente che lo divideva a metà. Nella bella stagione attirava chi era in cerca di pace per un giorno o due, e ci si poteva arrivare o uscirne anche attraverso questa stradina.
La porta principale della casa è chiusa, ma le finestre non sono tutte sbarrate, la maggior parte sono come dovrebbero essere in una normale giornata di gennaio: finestre chiuse, tapparelle su per far entrare più luce e tende scostate.
Una si è rotta, e i vetri sono sparsi sul davanzale. Non so se ce ne sono anche fuori, perché la neve ha coperto tutto.
Ognuno di noi controlla l’interno da una finestra diversa, e Asso fa squadra con me.
Dentro è buio, mi pare non ci sia nessuno.
Siamo armati fino ai denti, come sempre. Io ho il piede di porco, Davide l’ascia e Francesca il fucile. Con il piede di porco forzo la vecchia porta, e la vernice verde si scrosta nei punti in cui faccio leva, tanto è vecchia.
La serratura si stacca in blocco dal legno con uno schiocco, lasciando un foro rettangolare.
< O sei forte come Hulk, oppure questa porta è davvero vecchia. Avrebbero potuto anche non chiuderla a chiave > sussurra Francesca.
< Ahaha! E chi ti dice che avrebbero fatto meglio? Magari sono davvero forte come Hulk! > rispondo ridendo sommessamente.
Davide entra. < C’è nessuno? Siamo pacifici, non siamo pericolosi! >. Non ottiene risposta, ma non c’è da sorprendersi: armati così e con lo sguardo da assassini che abbiamo, questa frase non sembra appropriata…
Dopo di lui entriamo tutti, e Asso fiuta qualcosa che non sembra piacergli. Io e gli altri non sentiamo nulla: il freddo che c’è dentro spegne gli odori, anche se non è rigido come all’esterno.
< Asso, segui l’odore > dico io <  bravo, segui >. Ci porta in una stanza buia e senza finestre, così accendiamo le torce. C’è un congelatore bianco addosso al muro. Senza neanche pensarci, lo apro, e me ne pento subito. Un odore di marcio mi sale nelle narici, facendomi quasi vomitare. Lo chiudo sbattendo il coperchio e dico: < Dentro c’è del cibo avariato. Quando è saltata la corrente si è sciolto lentamente e anche se adesso fa freddo, non è comunque abbastanza, e tutta la carne sta marcendo >.
Che schifo. Tutte le bistecche e le verdure sono immerse in una poltiglia acquosa a base di ghiaccio sciolto e sangue, emanando quell’odore tipico di rancido e marcio che solo la carne assume con la decomposizione. In effetti è simile a quello degli zombie, anche se più pungente.
Devo essere proprio sfortunata: ogni volta che mi torna l’appetito, o trovo un morto o qualcosa di schifoso.
< Adesso dobbiamo controllare il piano superio- > qualcosa mi interrompe. Sentiamo qualcosa sbattere. Zombie? Con questo freddo? Meglio controllare.
Ci rechiamo tutti e tre verso la fonte del rumore, ma ci rendiamo conto che è solo la porta sul retro che non è chiusa bene. I proprietari della casa forse sono fuggiti e probabilmente lo hanno fatto da lì, non preoccupandosi di chiuderla, quindi ci penso io.
Andiamo in salotto, e constatiamo che il  pianterreno è così formato: una cucina adiacente al salotto, un bagno e lo sgabuzzino del congelatore fetente. Saliamo le scale in fila indiana per esplorare il piano superiore. Scricchiolano a ogni nostro passo, facendo crescere l’adrenalina.
I muri del primo piano sono giallini, e le mattonelle andavano di moda forse tre decenni fa. Ci sono due camere da letto ancora disordinate e un altro bagno. Anche al piano di sotto era tutto soqquadro: gli abitanti devono essere scappati in fretta e furia, proprio come noi.
< Qui non c’è nessuno, è un posto sicuro. Dormiremo qui > dico con decisione.
Sbarriamo le finestre e le porte, accendiamo la stufa a legna e Francesca usa il ripiano superiore per cucinare della pasta trovata in fondo alla dispensa.Il riscaldamento non sarà un problema: in un angolo c’è una piccola pila di legna che basterebbe per due giorni.
Mangiamo la pastasciutta con della salsa di pomodoro e dei crackers, che a differenza delle gallette sanno di qualcosa.
Con il freddo non ci avevo fatto caso, ma adesso che l’aria si sta scaldando, mi accorgo che non siamo molto profumati…
< Puzziamo > dico schiettamente.
< Già > fa Davide.
< Vero > asserisce Francesca < dovremmo lavarci adesso che siamo al chiuso. Sarà difficile e scomodo, ma possiamo farcela >.
< Cosa hai in mente? > chiede il mio fratellone.
< Pensavo di scaldare dell’acqua sulla stufa e poi di lavarci a pezzi. Nei bagni ci sono sole le docce e manca l’acqua corrente, sarà parecchio scomodo… >.
Intervengo io < sciogliamo della neve in un pentolone e poi versiamo l’acqua calda in un lavandino. Ci laveremo per bene i capelli e poi il corpo con delle spugnature. È sempre meglio di niente >.
L’idea sembra convincere tutti. Per fortuna ci sono ancora parecchi prodotti per l’igiene nei bagni.
Andiamo prima io e Francesca. Ci aiutiamo a vicenda con i capelli che sono davvero molto sporchi. Non si notava sotto il berretto, ma sono tutti appiccicati alla testa, e così anche quelli di lei.
< Ho un’idea… non piacerà a nessuna delle due > dice lei a un tratto < Credo che dovremmo tagliarci i capelli >.
Resto di sasso. Io amo i miei capelli, non voglio tagliarli! Sono così ricci e morbidi… per non parlare del colore… mi avevano sempre fatto un sacco di complimenti. Francesca capisce il mio dispiacere, e mi spiega che sarebbe più comodo per i lavaggi futuri, sarebbe più igienico e accorciandoli, gli zombie non potrebbero afferrarli e catturarmi.
Mi lascio convincere e con una forbice comincia a tagliare qualche ciocca. I ciuffi bagnati cadono per terra, e la mia chioma, che prima raggiungeva le spalle, si accorcia pian piano. Magari, essendo una sarta, è abituata a tagliare e non sarò così brutta...
Ora li taglio io a lei, che li vuole un po’ più corti dei miei.
Li risciacquiamo e puliamo il pavimento. Usciamo a turno per farci le spugnature, concedendo l’una  all’altra un po’ di privacy. Una volta lavate, entra Davide con un’altra pentola di acqua calda, chiudendosi dentro per pochi minuti.
Davanti al fuoco, i nostri capelli si asciugano, e possiamo finalmente vedere se abbiamo o no talento come parrucchiere. No. Non ce l’abbiamo. I miei ricci castani arrivano fino alla base del collo, qua e là ci sono molti ciuffi ribelli.
Lei non è messa tanto meglio, il fatto che sia liscia aiuta, ma ha le punte tutte storte.
Appena Davide ci vede, fa una faccia come per dire “qui manca qualcosa”.
Meno di tre settimane fa non avrei avuto il coraggio neanche di andare a scuola, ma adesso che vado in giro a sterminare zombie non mi importa più di tanto. Ora è tutto diverso… io, il mio mondo, i miei pensieri.
Mi sento più forte, voglio essere più forte.

Com’è che si dice? Quando una donna desidera davvero cambiare, parte dai capelli.

 
 
 

Angolo dell'autrice:
Dopo il capitolo dell'altra volta, ho pensato di scriverne uno più tranquillo, giusto per far scendere la tensione prima del prossimo:)
Spero vi sia piaciuto:)

Lupacchiotta blu

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Capitolo 13
*** Quando tutto sembra andare per il meglio, la sfortuna è proprio dietro l'angolo ***


17 gennaio 2014
 
Mi sveglio per colpa di un fascio di luce che mi colpisce sugli occhi. Mi siedo e metto a fuoco quello che mi circonda.
Ah già, adesso siamo in una casa, quasi non mi ricordavo.
 Ancora mezza addormentata guardo gli ultimi tizzoni tiepidi nella stufa: l’aria si è ormai raffreddata, ma nel sacco a pelo si sta bene. Io ho dormito sul divano-letto con Francesca, Davide sulla poltrona e Asso sul tappeto tra noi. Adesso è sveglio, e mi si avvicina scodinzolando.
< Buon giorno Asso > dico sussurrando . Ma che domande, certo che ha dormito bene, mi basta vedere quanto è allegro.
< Che ne dici se mangiamo qualcosa mentre gli altri riposano ancora? >. I suoi occhi si illuminano come se capisse ciò che dico.
Sguscio fuori dal sacco a pelo senza far rumore e mi dirigo in cucina. Il mio orologio da polso segna le 7.53 del mattino. Abbiamo dormito parecchio e bene, evento raro.
Quasi tutti i pensili e i cassetti sono vuoti, ma trovo mezzo vasetto di miele e dei grissini. Al cane do’ due panini trovati in un cesto di vimini con scritto “pane secco”.
Li spezzo e li mischio con dell’acqua in una scodella che metto a terra. Lui ci si avventa sopra, mangiando con foga.
Io mi siedo sul tavolo con le gambe a penzoloni, intingendo i grissini nel miele prima di mangiarli. Non sono mai andata matta per il miele, ma è così dolce e saporito che un boccone tira l’altro. Faccio fatica a non farmi prendere dall’ingordigia e decido di tenere il resto per Davide e Francesca.
Asso ha già finito e mi fissa con occhi languidi.
< No, il miele è per gli umani > dico decisa.
Occhi dolci.
< Ho detto di no >. Cavolo, so come andrà a finire.
Occhi dolci e piccoli guaiti.
< Vabbè, ma solo perché questa colazione mi ha reso più dolce, sennò non lo farei >. La sua espressione cambia e si rizza a sedere, mentre mangia due grissini e miele dalle mie mani.
Metto il barattolo al sicuro dove lui non può raggiungerlo e torno in salotto a svegliare gli altri.
< Hey, belli addormentati…  è ora di alzarsi. Dai che sono già le 8! >. Da dove mi viene questo tono gentile e premuroso? Mai più colazioni del genere.
< No, non voio andare a scuo… la >.
< Davide, non andrai a scuola. Oggi dobbiamo andare in montagna! Per salvare le nostre chiappettine dagli zombie affamati >.
Spalanca gli occhi e salta in piedi: .
Quanto ha ragione. Se ne usciremo vivi, saremo noi la storia: racconteremo ai nostri figli e nipoti le nostre sventure e le nostre disgrazie, con tanto di “ai miei tempi” “non ci sono più i giovani di una volta” e “state attenti, la storia si ripete”.
< Ahwn! > sbadiglia sonoramente Francesca < ho dormito come un sasso! E ho una fame! >.
< Sulla mensola verde in cucina c’è del miele e dei grissini. Non sono più tanto croccanti, ma sono buoni. Io e il cane abbiamo già mangiato; voi fate con calma, io intanto ispeziono ancora la casa >.
< Grazie, sei stata molto gentile a pensare a noi! > e così dicendo, Francesca mi schiocca un bacio sulla guancia.
Questa mattina non solo io sono di buon umore. Sarà stata la dormita al calduccio o la zuppa calda di ieri o il bagno, fatto sta’ che siamo contenti.
Piego i vestiti che avevamo lavato e steso ad asciugare, mettendo via i miei. Erano proprio sporchi, ma c’era da aspettarselo, visto che li abbiamo tenuti per giorni.
Anche le giacche a vento erano infangate, ma la terra è venuta via facilmente con una spugnetta bagnata. Almeno i precedenti proprietari hanno lasciato il sapone e le spugne!
Adesso porto jeans scuri, maglia nera e felpa pesante bianca e rossa. Così in casa si sta bene, ma fuori indosserò anche la maglia termica.
Comunque, in bagno mi specchio e constato che il mio taglio non è così brutto come poteva apparire ieri sera. Con qualche colpo di forbice elimino le ciocche irregolari e scalo un po’ i capelli. Ma sì dai, nessuno è perfetto.
Silenziosa come un ninja, passo al setaccio la camera da letto più grande. Nell’armadio sono rimasti solo uno smoking, dei cappelli di paglia e una bustina di lavanda.
Nel comò ci sono delle lenzuola e delle coperte che puzzano un po’ di naftalina. Nei comodino solo qualche inutile cianfrusaglia. Troppo in ordine:  secondo me usavano l’altra camera da letto per dormire, quindi ci entro e mi guardo in giro.
Una coperta a fiori rosa è sul pavimento, l’armadio contiene solo vestiti estivi o eleganti tutti spiegazzati.
Il letto è sfatto e vicino al letto ci sono schegge di vetro di un paio d’occhiali.
A giudicare dagli abiti, direi che la casa era abitata da una coppia di sessantenni.
Rovisto per un po’ e trovo una fiaschetta di liquore nel comodino del marito e due pacchetti di sigarette in quello della moglie.
Il  bagno al piano superiore doveva essere usato quasi solo dall’uomo, e lì trovo quello che stavo realmente cercando.
Per casa ci sono poche foto, ma da quelle si capisce che il padrone aveva una specie di ossessione… un uomo non particolarmente curato e ordinato, se non in una cosa,  che a quanto pare, era il suo orgoglio.
Corro giù dagli altri tutta emozionata, come se fossi ancora una bambina, e dico: < Gente, ho portato qualcosa per voi! >. Mi guardano stupiti.
< Cosa, sorellina? >.
< Il tuo te lo do dopo, adesso tocca a Frà > tiro fuori le sigarette < Ecco qui! So che hai finito il tuo pacchetto da un po’, con queste tiri avanti ancora qualche settimana >.
Mi salta al collo e mi riempie di baci < Oddio, grazie! Avevo bisogno di fumarne una! Prima o poi smetterò con questa merda, ma di sicuro non oggi! Grazie grazie grazie grazie! >.
Mentre Francesca fa ancora i salti di gioia, io lego un fazzoletto agli occhi di Davide e lo porto al piano superiore.
Quando vede il set di rasoi e schiume da far invidia a un barbiere di professione, quasi si mette a piangere.
< Grazie mille, era da settimane che volevo farmi la barba. Avevo portato un solo rasoio che si è rotto… Grazie ancora, sorellina! >.
Mi abbraccia stretto ma io mi divincolo: < Guarda che l’ho fatto più per me: ogni volta che mi abbracci o mi baci le guance mi scartavetri la faccia! Ahaha! >
< Ahahahaha! Mica lo faccio apposta! > e si protende verso di me, grattandomi la guancia destra < vedi? È che stai simpatica alla mia barba! Ahah! >.
Io corro fuori dal bagno per salvaguardare la salute del mio viso e gli urlo di radersi in fretta e bene, perché non voglio che i montanari ci prendano per dei disperati, anche se lo siamo.
Lo sento borbottare qualcosa come “potrei tenermi i baffi” oppure “senza peli in faccia sembrerei un bambino”. Quando esce ha il pizzetto. Secondo me è ancora troppo corto, ma lo consolo dicendogli che crescerà. Un po’ come i miei capelli. Anche loro ricresceranno, spero.
 
Sono le 8.30 e stiamo partendo. Abbiamo preso un piumone e dei cucchiai, che ci mancavano. Davide ha preso pure tutti e tre i rasoi a lama libera, perché secondo lui un vero uomo non si fa la barba con quelli usa e getta. Contento lui contenti tutti.
Oggi fa già più caldo, la neve si sta sciogliendo. Abbiamo parlato di questo e ci sembra che faccia ancora troppo freddo per gli zombie, e anche se si scongelassero parzialmente, sarebbero troppo lenti per noi.
Mancano pochi kilometri alla montagna, tempo un’ora e saremo arrivati.
 
Sono le 9.45 e siamo arrivati proprio sotto la montagna.  Abbiamo attraversato un piccolo paesino pieno di statue ghiacciate, che non erano altro che zombie congelati, con le loro facce violacee, gli arti innaturalmente storti, gli occhi bianchi.
Ora abbiamo davanti una scena un po’ strana, che però riaccende in noi la speranza: due tir bloccano la strada che percorre il fianco della montagna, e 100 m prima c’è una catasta di resti zombie congelati.
Qualcuno li ha uccisi e spostati, chiudendo poi l’accesso al monte.
< Non vedo  nessuno, ma è impossibile che non ci stiano tenendo d’occhio. Questa è l’unica via d’entrata, perché gli altri lati della montagna sono troppo scoscesi per chiunque, vivo o morto > dico io < Francesca, tieniti pronta con il fucile, ma spara solo se estremamente necessario: sono comunque umani >.
< Cosa vuoi fare, sorellina?! Potrebbero sparati! >.
< Davide, sono una ragazza, non dovrebbero percepirmi come una minaccia >.
Scendo dalla macchina e mi guardo attorno. Prima ho sbagliato a dire che non c’è nessuno. Ho visto qualcosa muoversi dietro a uno dei tir e dietro degli alberi.
< C’è nessuno? Non voglio farvi male! Io e i miei amici veniamo in pace! >. Silenzio assoluto.
< So che ci siete, vi ho visti, siete almeno in quattro. Vorrei parlare con voi! >. Il vento mi porta dei borbottii confusi e poi una voce profonda si rivolge a me:
< Cosa volete? >
< Vogliamo aiuto! Siamo in viaggio da giorni e siamo stanchi! Abbiamo paura e vorremmo unirci a voi per sopravvivere! >.
< Fai uscire anche gli altri! voglio vedervi tutti! >. Sembra diffidente e spaventato.
Gli altri vengono fuori e si avvicinano a me.
< Siete armati! Posate a terra il fucile, subito! >. Dagli alberi arriva il caratteristico rumore dei fucili carichi e pronti a sparare.
Escono quattro uomini da lì e due dai tir. Francesca posa il fucile con riluttanza e un signore dalla faccia rugosa lo prende.
< Voglio vedere se avete altre armi con voi! Devo perquisirvi! > e manda uno dei suoi alla macchina. Questo svuota malamente gli zaini, stropicciando tutto. < Ci sono dei coltelli, un’ascia e un piede di porco! >.
< Prendete tutto! > ordina ai suoi uomini.
< Cosa? > sbotto io < Quella roba è nostra! Non potete togliercela! >.
< Zitta, ragazzina! >.
< No, zitto tu! Lascia tutto in macchina e lasciaci andare, abbiamo capito di non essere i benvenuti qui >.
< Ha ragione! Non puoi portarci via tutto! Come faremo poi? > urla Davide.
A questo punto l’uomo è rosso dalla rabbia.
< Questo adesso è nostro! > e mi tira uno schiaffo. Io lo schivo e gli do’ un pugno allo stomaco, facendolo inginocchiare a terra.
< Puttana, questa me la paghi! Prendeteli! >
Corriamo verso la piramide di resti congelati mentre loro ci inseguono. Uno afferra Francesca per la collottola, ma io lo stacco con un calcio al torace e un pugno in faccia. Lui si rotola a terra tenendo si il naso con entrambe le mani.
Davide è alle prese con il più corpulento, ma lo stende con pochi colpi ben assestati. Alla fine aver fatto boxe e kick boxing  ha portato i suoi frutti.
Un altro tenta di colpirmi in viso con un pugno che devio facilmente, rispondendo poi con una gomitata, una torsione del braccio e un calcio.
< Francesca, stai bene? >. Non risponde. < Francesca, ho chies- > la frase mi muore in bocca. Mi volto a guardarla e lei è stesa prona nella neve e accanto a lei, Davide è sdraiato su un fianco.
Prima ancora di potermi chiedere perché siano svenuti, vedo tutto a macchie, i rumori si distorcono e mi arrivano attutiti, la testa gira e mi manca l’equilibrio.
Cado nella neve senza nemmeno sentire il tonfo e senza percepire la freddezza del suolo bianco.
 
Guardati dai vivi, non dai morti…
 
E tutto diventa nero.





Angolo dell'autrice:
Mi dispiace davvero moltissimo di aver pubblicato con un ritardo del genere, ma tra i vari impegni non ho trovato un attimo per scrivere :'(
Passando al racconto, direi che finalmente sono arrivati a questa benedetta (o maledetta?) montagna! 
Cosa accadrà ora? Vi lascio sulle spine!
Alla prossima

Lupacchiotta blu

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Capitolo 14
*** A volte chi ti frega è chi dovrebbe aiutarti ***


18 gennaio 2014, mattina
 
La testa pulsa, sembra che qualcuno colpisca un chiodo conficcato nell’orbita destra, il dolore si propaga come una crepa e si allarga a ogni nuovo colpo.
Fa male, ma dove è la testa? Qui è tutto nero… vorrei parlare o almeno aprire gli occhi, ma non trovo nemmeno quelli.
Sono morta?
No, non posso essere morta.
E allora, dove sono? Forse non appartengo davvero più al mondo dei vivi, forse questo è l’aldilà… no, non può essere!
Ho faticato e sofferto così tanto per nulla? Che amarezza poi, uccisa da chi avrebbe dovuto salvarmi!
No, voglio essere viva, devo essere viva! E poi… non dovrei sentire dolore se fossi caduta nell’oblio della morte, giusto?
Ecco, ho trovato le dita...e il naso… e i piedi… e gli occhi.
Li spalanco, cercando avidamente la luce del giorno ma me ne pento immediatamente, è così forte da ferirmi gli occhi; sospiro sonoramente riempiendo i polmoni di aria nuova, come se fossi stata in apnea per ore.
< Hey, ti sei svegliata vedo >. Una figura ancora indistinta è alla mia destra, ma si alza e si sposta dove non posso vederla.
Cerco di alzarmi a sedere, ma le braccia sono deboli e resto sdraiata su un fianco.
< Non sforzarti, sei ancora deboluccia. Non ti preoccupare, l’effetto del narcotico dovrebbe svanire tra pochi minuti e dopo ti sentirai meglio >.
È la voce di un uomo. È ferma, profonda, ma non cattiva. Rassicurante piuttosto.
< Chi… scei…? C…osa Dove sciono… >. Questo è il meglio che riesco a dire; ho trovato la bocca e il resto del corpo, ma non riesco ancora a usarli.
< Shhh, stai calma, adesso ti preparo qualcosa da mangiare e poi ti racconto tutto, ok? >
< Mmm >acconsento.
Mentre lui si muove per la stanza al di fuori del mio campo visivo, mi abituo alla luce e scopro di essere su un divano, in un salotto ben arredato. Il padrone di casa deve essere abbastanza ricco.
Davanti a me c’è un tavolino basso e ai suoi lati due poltrone. Oltre il tavolino c’è anche un caminetto con poche braci.
La luce viene da una porta-finestra che ai suoi lati ha legate due tende rosse.
Sento l’uomo muoversi nella cucina dietro di me: scodelle, posate e altri rumori indistinguibili.
Riesco a sedermi, ma delle fitte di dolore mi pervadono tutto il corpo. Sento di avere qualcosa sotto i vestiti che non sono gli stessi che indossavo l’ultima volta.
Come mai sto così male? E i miei vestiti? Cosa cazzo c’è sotto?E gli altri dove sono?
Sollevo il lembo del maglione e scopro delle fasciature. Oh merda. Qualcuno mi deve delle risposte.
< Ce la fai ad alzarti o vuoi una mano? >.
< Sì, faccio da sola >.
Barcollo fino a un tavolo di legno coperto da una tovaglia bianca. L’uomo mi fa accomodare e mi serve la colazione: latte caldo e biscotti al cioccolato.
Lui è alto qualche centimetro più di Davide, ha le spalle più larghe ed è più vecchio, sarà sui 45 anni. Hai i capelli, gli occhi e la barba neri, indossa jeans, camicia a quadri e scarponi. Il perfetto ritratto del boscaiolo in poche parole, ma nei suoi gesti più eleganti e raffinati c’è quel qualcosa che mi dice che è più di un semplice taglialegna.
Anche se sono incuriosita da questo nuovo personaggio, tutti i miei buoni propositi di chiedere chiarimenti vanno a quel paese, e mi ingozzo avidamente. Dimentico tutto e mi concentro solo sul cibo. Quando ho finito, il mal di testa comincia a passarmi e mi sento meglio.
< Se vuoi parliamo un po’, ti va? Penso che tu voglia delle risposte >.
< Sì, voglio sapere dove sono io, dove si trovano gli altri due e il cane, perché sono qui, che giorno è oggi, cosa è successo e chi sei tu >.
Mi fa accomodare su una poltrona e si siede di fronte a me.
< Cominciamo da me. Mi chiamo Giuseppe Pacini e ho 48 anni. Faccio il taglialegna e il cacciatore >.
Mi porge la mano destra. All’inizio non so cosa farci, chi se lo ricorda come ci si presenta? Comunque “riprendo la memoria” e gliela stringo, anche se più che una mano, sembra una tenaglia.
< Non fai solo quello. Non ti potresti permettere una casa del genere con quel lavoro. So che è tua perché ti muovi come se sapessi dove è ogni cosa >. La voce che mi esce è fredda e dura, quasi meccanica, ma voglio sapere la verità ad ogni costo.
< Sei sveglia per esserti appena ripresa, considerando anche la dose di sonnifero che ti hanno dato…
Ad ogni modo: sì, o meglio, no. Faccio solo quel lavoro, ma la mia famiglia è ricchissima e io ho ricevuto tutta l’eredità dei miei genitori, quindi posso fare quello che mi piace senza preoccuparmi dei soldi. Per tutta la mia gioventù ho frequentato le scuole e gli ambienti migliori, ma non ho saputo resistere al richiamo della foresta. Non sono fatto per quei posti da figli di papà >.
Ecco spiegato il mix tra buone maniere e rudezza da taglialegna.
< Oggi è il 18 gennaio. I tuoi amici sono nella casa qui accanto, il tuo cane è al piano di sotto. Siete vivi per miracolo >.
Sono rimasta incosciente “solo” per un giorno, se non ho perso il conto durante la fuga.
< Lo so, abbiamo vagato per le campagne per giorni, in condizioni terri- >.
< Non intendo questo > mi interrompe < Non metto in dubbio che siate arrivati alla montagna per miracolo, ma sto dicendo che non siete morti ammazzati per un soffio >.
< Spiegati meglio >qui la storia mi puzza anche più di prima.
< Ricordi gli uomini che erano vicino ai tir? >.
< Sì, ci volevano rubare tutto, ci siamo ribellati e loro ci hanno attaccato. Le ultime cose che ricordo sono la rissa e io che cado nella neve > confermo io.
< Bene. Loro erano di turno a guardia della strada, comandati da Alcide, quello pelato >.
< Non so se fosse pelato, aveva un cappello marrone che lo copriva fino alle orecchie. Ho notato che aveva una cicatrice sul mento >.
< È lui. Comunque, Alcide e la sua ‘banda’ avevano già dato problemi a due altri profughi arrivati insieme. Volevano tutta la loro roba per tenersela . Li hanno minacciati di morte se avessero detto qualcosa a qualcuno, e dopo averli derubati li hanno scortati fino in paese, ma questo noi non lo sapevamo fino a ieri sera.
Devi sapere, che circa 130 persone sono venute qui negli ultimi 7 giorni, ma quasi tutti loro erano violenti. Quando arrivavano a piccoli gruppi, li allontanavamo con delle minacce e nulla di più, ma cinque giorni fa, ne è giunto uno di 15 persone e… beh… erano troppi da allontanare pacificamente… >. Sembra in difficoltà, ma io ho già capito, così lo anticipo:
< E li avete dovuti attaccare >.
< Sì. Dieci si sono arresi dopo i primi spari, ma gli altri non hanno voluto saperne e… abbiamo dovuto uccideli >.
< Erano così pericolosi? Non potevate fare altrimenti? Erano violenti a causa della paura! > comincio a incazzarmi. So cosa vuol dire essere terrorizzati, ho provato quest’emozione anche troppe volte nell’ultimo periodo. Non capisci più niente e diventi cattivo anche se non lo sei.
< Purtroppo era l’unica cosa da fare: cercavamo di trattare, ma volevano cibo e armi ad ogni costo, hanno ferito tre paesani con le loro pistole… non ascoltavano! Abbiamo dovuto fermarli, per il bene di tutti >.
Si vede che è dispiaciuto di ciò che è accaduto, non posso arrabbiarmi con lui, né fargliene una colpa.
< Capisco. Sembra che abbiate fatto la cosa giusta. Dimmi, cosa c’entra quello che mia hai raccontato con Alcide e il resto? >.
< L’idea di uccidere altre persone non è piaciuta a nessuno, e sappiamo anche noi cosa vuol dire avere paura, così abbiamo deciso di armare le guardie con fucili e sonnifero. Questi li abbiamo presi dalla guardia forestale. I guardaboschi  hanno modificato le dosi di sonnifero nei dardi e ce li hanno dati per sedare i profughi ribelli, così da non doverli uccidere.
Ha funzionato con degli uomini armati, che dopo essere stati tenuti prigionieri in una stalla per un giorno, si sono calmati fino a non essere più una minaccia >.
< Bella idea. Anche a noi hanno sparato dei dardi soporiferi? >.
< Sì > risponde Giuseppe < Ma anche dei colpi di pistola >.
< Cosa? Ma non avevi detto che erano equipaggiati con fucili e narcotici? > chiedo preoccupata. Che abbiano colpito anche me? Sono piena di fasciature…
< Per sicurezza le guardie hanno anche una pistola. Mentre fuggivate, uno ha sparato al tuo amico Davide prima con la pistola e un altro con il narcotico, Francesca è stata solo sedata, e tu… > dice indicandomi < tu sei stata sedata e  colpita da un proiettile >.
< È per questo che sono tutta bendata? >.
Annuisce.
< Come mai non sento troppo male? Se è come dici dovrei soffrire come un cane! E dove mi hanno colpita? >.
< Forse non senti molto dolore perché sei ancora parzialmente sotto l’effetto dei sonniferi. La pallottola di piccolo calibro, per un errore di Alcide, ti ha preso il fianco destro di striscio, proprio vicino alle ultime costole. Dovresti sentire il rigonfiamento delle medicazioni proprio in quel punto >.
< Un errore di Alcide?! Cosa vuol dire?! >urlo spaventata.
< Sono sicuro che se fosse stato per lui, ti avrebbe piazzato una pallottola in testa, ma l’arrivo di altri paesani lo ha distratto facendogli perdere la mira. Sono arrivati giusto in tempo per fermare tutte le guardie ribelli e per portare voi dal dottore >. Fa una pausa per versare del tè caldo in due tazze precedentemente preparate sul tavolino basso. Non mi ero neanche accorta che avesse messo a bollire l’acqua.
< Il medico che vi ha curati si chiama Marco, abita nella casa qui accanto, la stessa dove sono i tuoi amici. Loro sono già svegli e se vuoi potrai andare a trovarli >  mi dice sorridendo < ma fai attenzione, sei ancora debole >.
< Ci andrò tra poco, ma prima dimmi: perché sono arrivati dei paesani e che fine ha fatto Alcide? >. La curiosità mi sta uccidendo, devo sapere tutto.
< Gli altri uomini erano stati attirati dalle urla. Per fortuna erano in superiorità numerica e avevano qualche fucile, sennò sarebbe stata una carneficina. Una volta messi al sicuro voi, hanno portato i ribelli prigionieri in una vecchia stalla che usiamo come prigione >.
Beve alcuni sorsi, lo imito. È buono questo tè, ha un retrogusto di frutti di bosco. Massaggiandosi il mento irsuto  riprende il discorso:
< Dopo aver sentito dell’accaduto, i due profughi di cui ti ho già parlato si sono fatti coraggio e hanno detto che erano stati vittime di Alcide, che li aveva derubati >.
< Perché si è preso le loro cose? Cosa se ne faceva? >.
< Le stoccava in casa propria, dove ne abbiamo trovato la maggior parte, e le barattava a quelli delle montagne vicine con alcool e sigarette. Loro non pensavano fosse merce rubata, e accettavano volentieri gli scambi >.
Che verme schifoso. Come si fa a pensare al bere e al fumo in momenti del genere?! E derubare gli altri sfortunati sopravvissuti! Che gran sacco di merda!
 
Nella mezzora che segue, Giuseppe mi spiega che mi sono stati cambiati i vestiti perché gli altri erano rotti, che i miei oggetti sono tutti al piano di sotto, e che il cane sta bene. Lui era stato stordito con una bastonata e si era svegliato qualche ora prima di me.
Scendo al piano di sotto e Asso mi corre in contro. Non è mai stato così felice di vedermi! Scodinzola e mi lecca le mani, saltella e abbaia contento.
Con un po’ di fatica metto la giacca a vento (ricucita sul fianco destro), gli scarponi e la sciarpa. Lascio Asso con Giuseppe, voglio andare dal medico e dagli altri da sola.
 
La casa del dottore è proprio qui attaccata, e la raggiungo senza scivolare sul ghiaccio. Non mi sembra neanche vero di camminare tranquillamente per strada, senza dovermi preoccupare degli zombie. Fa uno strano effetto.
Busso alla porta in legno massiccio.
< Avanti, è aperto! >.
 
 
Angolo dell'autrice:
Bene! La nostra Valentina e i suoi compagni sono arrivati alla montagna,  sani e salvi per miracolo. Direi che da questo capitolo comincia la loro vera battaglia: prima fuggivano, adesso passano al controattacco contro gli zombie per la sopravvivenza loro e di quello che resta dell'umanità!

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Capitolo 15
*** Non tutti i mali vengono per nuocere ***


18 gennaio 2014, tardo mattino


< Avanti! > urla una voce dall’interno della casa < è aperto! >.
Spingo la pesante porta in scuro legno massiccio ed entro. Mi trovo subito nel salotto open-space con la cucina: gli arredamenti non sono lussuosi come quelli di Giuseppe, ma sono comunque moderni e funzionali.
Un uomo sulla trentina mi viene subito incontro:
< Ciao Valentina! Come va? >.
Se conosce il mio nome probabilmente è proprio lui il medico. Ha i capelli rossicci e la pelle rosea, tipica di chi ha la chioma del suo stesso colore.
< Insomma, mi fa un po’ male il fianco. Dove sono gli altri? Stanno bene? >.
< Tranquilla, sono in una camera al piano di sopra. Si sono già svegliati e adesso stanno riposando. Io sono Marco, il dottore di questo paese >.
Mi tende una mano che stringo con decisone: la sua è una morsa d’acciaio, come quella di Giuseppe, non voglio essere da meno.
Mi indica un corridoio che porta sul retro:
< Ti va se ti controllo la ferita e le medicazioni? >.
< Va bene… >.
Mi guida sul retro della casa, dove ci sono delle stanze per le visite mediche e che sono state riempite di medicinali, bende, attrezzi chirurgici ecc…
< Hai trasformato il tuo studio per le visite in una specie di ospedale? >.
< Sì. Su questa montagna c’è solo questo paese, e qui c’è solo un ambulatorio vicino alla strada per entrare. Non era fornito come un ospedale, ovviamente, quindi abbiamo fatto degli scambi con le città sulle altre montagne che ne hanno uno. Un po’ di roba è qui, ma la maggior parte è all’ambulatorio >.
< Come mai > chiedo curiosa < C’è solo questa cittadina? Di solito su un monte ce ne sono diverse >.
< Questa montagna non è una meta turistica, non abbiamo piste da sci. C’era un altro villaggio più su, ma negli ultimi 10 anni si è spopolato fino a restare deserto >.
Mi spiega che ci sono due strade per salire: quella dove siamo passati noi, e un’altra più avanti che  comincia come un tunnel. Questa è stata chiusa con un pullman messo per il lungo davanti alla galleria, che ora gli artigiani stavano tentando di chiudere con una specie di cancello.
L’entrata principale, invece, era chiusa da due tir disposti allo stesso modo del pullman ed era provvista (per ora) di uno sbarramento di tronchi a metà strada. Il sindaco della città sta ripartendo il lavoro da fare tra tutti coloro che possono dare una mano, e in cima alla lista delle cosa da fare, ci sono almeno altri due sbarramenti.
Non c’è bisogno di pensare alle pareti della montagna, perché sono molto scoscese per i primi 200 m, quasi perpendicolari al terreno. Praticamente impercorribili, sono come un muro naturale.
Mentre parliamo mi fa sedere su un lettino e togliere la maglia. Non pensavo di avere tante bende. Mi fasciano tutto il busto.
Lui le toglie con delicatezza, fino ad arrivare alla garza sulla ferita che è macchiata di sangue.
< Senti male? >.
< Un po’. Prima era più un fastidio, adesso è proprio dolore, ma poco >.
< Come è stato il risveglio? Forse le dosi di sonnifero erano un po’ alte, hai avuto problemi? >.
< Un po’ di mal di testa. Ho dormito per un giorno intero, vero? >.
< Sì. Dormivi come un ghiro >.
Esamina per bene la ferita e i punti, mi cambia la garza e mi rimette le stesse bende di prima che non erano sporche.
Noto che ho il reggiseno, ma non è quello dell’ultima volta. Divento rossa dalla vergogna e lui se ne accorge.
< Non sono stato io a farti le spugnature e a rivestirti, è stata mia moglie. Ha pensato che ti saresti potuta vergognare e ha preferito farlo lei. Ha fatto bene? >.
< Beh… > che imbarazzo < Sì. So che sei il dottore, ma per quanto riguarda certe cose c’è sempre un po’ di imbarazzo, giusto? >
< Ahahah! Stai tranquilla, succede a tutti! > se la ride di gusto < Comunque, la ferita perde poco sangue e i punti sono a posto. Ti ho cambiato la garza, ma ho rimesso le altre fasciature perché non possiamo permetterci sprechi, capisci? E non posso neanche darti altri antidolorifici per lo stesso motivo >.
È un po’ triste, non gli piace questa situazione. Vorrebbe lavorare al meglio delle sue capacità, ma in queste condizioni è difficile.
< Capisco perfettamente. I medicinali saranno più utili agli altri feriti, io sopporterò un po’ di dolore >.
Tanto neanche quando Francesca mi ha impallinato le chiappe ho usato medicine.
 
Torniamo in salotto, dove i miei compagni mi stanno aspettando.
Senza neanche pensarci, mi getto al collo di Davide e poi a quello di Francesca.
< Come state? State bene, vero? >.
< Sorellina! Non sai quanta paura ho avuto! Ci siamo svegliati qui e mancavi solo tu! Ho avuto paura che fossi morta! > e mi abbraccia ancora più calorosamente.
< Aio! Mi fai un po’ male >.
< Sei ferita? > chiede preoccupatissimo.
< Solo sul fianco, niente di grave > lo tranquillizzo < E tu, Francesca? Stai bene? >.
Il suo abbraccio è più delicato, come quello di una madre.
< Sì, io sono stata la più fortunata, mi hanno solo addormentata. Sono così felice di rivederti… > una lacrima le scende sulla guancia < Io e Davide eravamo terrorizzati quando non ti abbiamo vista qui con noi… >.
 
Dopo aver passato qualche minuto a consolarci tra di noi, il dottore ci da le ultime indicazioni per tenere pulite le ferite:
< Davide, il tuo braccio non è messo tanto male, non sforzarlo per qualche giorno. La stessa cosa vale anche per te, Valentina: fai attenzione a quando ti pieghi. Per te, Francesca, va tutto bene: riposa per oggi e domani sarai in forma perfetta.
Giuseppe mi ha informato che è disposto a ospitarvi nella sua casa per un po’. Gli ho già dato le medicazioni necessarie, così potrete cambiarvi le bende da soli. Se avete problemi tornate pure. Statemi bene >.
È mezzogiorno e usciamo dalla sua casa ringraziandolo infinitamente per l’aiuto. Lo ha fatto senza ricevere nulla in cambio, senza volere nulla in cambio.
Prima dell’apocalisse, sembrava impossibile ricevere del bene gratuitamente .
 
Forse è vero che non tutti i mali vengono per nuocere.


Angolo dell'autrice:
E' vero che c'è sempre chi se ne approfitta, ma per fortuna c'è anche chi aiuta gli altri solo per il piacere di far del bene. Questa è un'apocalisse immaginaria, ma cosa succederebbe se una catastrofe mondiale riducesse l'umanità nella medesima condizione? Se anche nella società attuale ci sono così poche persone di buon cuore, cosa ci fa pensare che ne esisterebbero ancora durante la catastrofe? Ognuno di noi sacrificherebbe il prossimo per salvare sè stesso, oppure sarebbe disposto a regalare il proprio lavoro per il bene di tutti?
Sono domande a cui è difficile rispondere, sarebbe possibile solo se la fine del mondo arrivasse davvero... ma siamo sicuri di voler conoscere la risposta?
I prossimi capitoli, ambientati nell'immaginaria società in cui si trova a vivere Valentina, vi faranno capire come la penso io.
 

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Capitolo 16
*** Era nuova, vita nuova ***


18 gennaio 2014, da mezzogiorno a sera


Dopo essere usciti dalla casa del dottore, andiamo immediatamente da Giuseppe.
Appena entriamo, veniamo come ipnotizzati da un profumino delizioso. Dall’entrata passiamo alla cucina, dove lui ci dà le spalle.
< Entrate pure, sto facendo delle bistecche > dice.
Abbassa il fuoco, si pulisce le mani in uno straccio e si volta. Davide e Francesca si presentano e lui li accoglie calorosamente, come ha fatto con me.
< Vi avevo già visti ieri, ma avevate perso conoscenza >.
< La ringrazio per essersi perso cura della mia sorellina e per essersi offerto di ospitarci >.
< La tua sorellina? >. Giuseppe è un po’ sorpreso.
< Sì > intervengo < ci chiamiamo fratello e sorella anche se non lo siamo, ma siamo cresciuti insieme ed è come se lo fossimo >.
< Ah, capisco… e anche tu sei loro “sorella”? > chiede rivolgendosi a Francesca < la minore, se dovessi tirare a indovinare >. Sorride a trentadue denti, stringendole ancora la mano, ma con più delicatezza.
Francesca arrossisce leggermente, ma non sembra dispiacerle quest’attenzione nei suoi confronti.
Ok. Non sono un’esperta in rimorchi, ma questo è proprio un rimorchio di merda. Come si fa a provarci con una con questa battuta datata e scontata? Mi sa che io o Davide dovremo impartirgli qualche lezione che gli insegnanti privati non gli hanno dato: corso avanzato di “cuccaggio”.
Ad ogni modo, dopo questa breve conversazione, ci invita a sederci a tavola. Serve una bistecca a testa e mette in tavola una mezza bottiglia di vino rosso.
< Spero vi piacciano, non ho messo molte spezie perché per un bel po’ sarà impossibile reperirle >.
< Fono buoniffime > farfuglio ingozzandomi < Ma… fome fai a trofare la carne? >. Caspita, mi sento un animale a digiuno da settimane. Alzo la testa dal piatto e con sollievo mi accorgo che anche Davide e Francesca lasciano perdere ogni finezza nel mangiare.
< La carne non è rara come potreste pensare. Su questa montagna ci sono degli allevamenti, e molti allevatori hanno deciso di decimare il bestiame per poter risparmiare sul foraggio messo da parte: non sempre basta per tutto l’inverno, solitamente possono rifornirsi in pianura, ma adesso no. La carne viene poi barattata con altri beni, e conservata all’esterno, in casse sotto cumuli di neve e ghiaccio >.
Funziona benissimo come metodo: le bistecche non sono dure e la carne non è rancida. È come tenerle in un congelatore.
Ci dice anche che le scorte di viveri private stanno finendo per tutti, anche per lui, e quando accadrà dovremo recarci tutti alla mensa comune. Tutti i cereali coltivati dai contadini a valle sono stati donati al paese in cambio di mansioni semplici, poco impegnative e altri piccoli privilegi. Praticamente hanno donato tutto in cambio di niente.
< Senti > comincia Davide < hai una radio? Funziona? >.
So dove vuole arrivare. La nostra ha cominciato presto a non prendere più nulla, dubito che qui cambi qualcosa.
< Ho una radio d’epoca in salotto. Vorresti usarla per comunicare con qualcuno, giusto? I tuoi genitori, magari. Forse funziona ancora, ma non c’è elettricità per farla andare. Ho fatto i salti mortali solo per trovare del gas per la cucina > dice indicando i vecchi fornelli. < Perché credete che siano lì? In mezzo a questa cucina sono un pugno nell’occhio, ma ho dovuto cambiarli per forza: quelli elettrici non vanno più. Ho dovuto rubarli da uno dei pochissimi alloggi in affitto per i vacanzieri! Per portarli qui ho dovuto chiedere in prestito il cavallo a Mosè, e poi ho dovuto fare una faticaccia indescrivibile per trovare un po’ di gas! >.
< Quindi non c’è speranza di poter usare una radio? >. Davide sembra abbattuto.
< Non ho detto questo. Alcune persone hanno i pannelli solari: magari anche loro ne hanno una e te la lasceranno usare >.
 
 
Neanche mezzora più tardi, io Francesca e il mio fratellone siamo in strada. Asso si prenderà un giorno di ferie, se lo merita.
Giuseppe ha detto che dobbiamo registrarci al comune, dove ci verranno assegnati dei compiti da svolgere.
Nell’atrio del municipio non c’è nessuno, a parte una donna molto anziana.
< Siete i nuovi arrivati, vero? Dovete registrarvi. Seguitemi >.
Ci porta nella stanza attigua, si siede su una poltroncina dalle imbottiture rovinate e apre un libro sulla scrivania. Un semplice quaderno a righe, come quelli di scuola.
< Dovete darmi tutti i dati che vi chiederò, così sarà più facile darvi un lavoro da fare e trovare eventuali parenti che si sono rifugiati qui >.
È proprio quello che spero: ogni giorno non ho fatto altro che sperare di riabbracciare i miei genitori, adesso le mie speranze potrebbero avverarsi!
< Cominciamo da te, biondino. Dimmi tutti i tuoi dati anagrafici >.
< Davide Longo, nato il 13/08/1996 a Milano. Studiavo ingegneria >.
< I nomi dei tuoi genitori? Hai fratelli?  > chiede la vecchietta.
< Non credo sia importante, visto che erano in Polonia, comunque Paola Negrini e Pasquale Longo. Sono figlio unico >.
< Bene. Tu, ragazzina? >.
Sembra non importarle molto delle nostre situazioni, ma con tutti quelli che sono arrivati fin qui, non deve farle più caldo né freddo.
< Valentina Tosi, nata il 06/06/1997 a Saronno. Liceo scientifico. I miei genitori si chiamano Emma Rimini e Giovanni Tosi >.
< anche tu non hai fratelli o sorelle? >.
Scuoto il capo in segno di dissenso.
< Bene. Tu? >.
< Francesca Brentegani, nata a Settimo Milanese il 10/02/1973. Faccio la sarta >.
< Figli, marito o genitori? >.
Francesca deglutisce.
< Nessuno >.
Quando si è unita a noi, non le abbiamo mai chiesto se fosse sposata o se avesse figli. È un argomento delicato… ora non saprei come chiederglielo.
La vecchia chiede qualcosa sulla nostra salute e forma fisica, la città da dove veniamo tutti e tre(non quelle di nascita) e su eventuali abilità manuali, dicendo che la sera  ci saremmo dovuti presentare di nuovo.
Ho provato a sbirciare sul quaderno, ma i nomi dei miei genitori non li ho visti. La donna ha detto che per questa sera saprò se sono qui. Non sto più nella pelle, devo svagarmi per non pensarci, perciò decidiamo di visitare il paese.
 
Le vie sono strette e le porte delle case si aprono direttamente su di esse. La neve è ghiacciata nei punti in ombra, e scricchiola sotto i nostri scarponi. Le case sembrano deserte, sono tutti fuori a fare qualcosa: barricate, raccolta del legno, cura degli animali, baratto con le altre montagne…
Che ci siano bambini o giovani? Si sa che negli ultimi anni le zone rurali e montane si stanno spopolando a ritmi vertiginosi, e io fin ora non ho visto bambini giocare o schiamazzare. È triste vedere un paese che muore. Forse l’apocalisse segnerà l’inizio della rinascita di questa piccola cittadina, che dall’ 11 gennaio 2014 si è ribattezzata “Oasi”, sulla montagna dal nuovo nome di “Buona Speranza”.
A quanto pare, i montanari ci credono in questa specie di risorgimento, in questa garanzia di sopravvivenza della loro cultura, e fanno bene: ora più che mai è importantissimo avere un obbiettivo, un qualcosa che ti dia la voglia di lottare. Per me è la mia nuova famiglia, per loro la comunità.
 
Camminando facciamo il tour completo, scoprendo l’ubicazione dell’ambulatorio, della scuola elementare,  della falegnameria, dell’officina del fabbro/meccanico e della chiesetta.
Da quello che ci ha raccontato Giuseppe, sappiamo che Oasi ha 437 abitanti (noi compresi),si trova a 1500m sul livello del mare ed è circondata da foreste di pini e abeti. Accanto alla città passa anche un piccolo fiume che in superficie ghiaccia, ma che sotto continua a scorrere.
I pascoli sono distanti solo 2km e si estendono tutt’attorno al paese. L’allevamento è l’attività più praticata perché la fascia di bassa montagna risulta poco fertile, e in pochi hanno deciso di coltivarla.
Giuseppe ha accennato anche a una città-fantasma: si trova a 1800m, a soli 150m dalla vetta. Si è spopolata anni fa ed era solo un minuscolo insediamento.
 Tutto sommato un bel posto: è sicuro, non ci mancherà il cibo e non saremo più soli.
 
Alle 17.30 comincia a tramontare il sole, perciò andiamo in comune. Non voglio aspettare ancora, perché la mia ferita al fianco fa male, e a Davide da fastidio quella sul braccio.
< Siamo tornati > dice Francesca.
< Bene. Il sindaco vi ha assegnato dei lavori e io ho controllato sul registro se ci sono vostri parenti. C’è un nome che corrisponde e due che potrebbero interessarvi >.
Il mio cuore perde un battito: i miei genitori sono gli unici che potevano rifugiarsi qui, ma… come mai solo un nome?
< Chi sono queste persone? Possiamo vederle subito? > chiedo io.
< Calma: adesso vi dico tutto >.
Si siede, apre il registro e sfoglia le pagine con lentezza snervante. Secondo me lo fa apposta. Ha la faccia da vecchia malefica, non le manca neanche il porro sul naso.
< Ah sì, ecco qua. Emma Rimini >.
Mamma.
< Ne è sicura? > mi protendo sul tavolo, quasi mi ci sdraio sopra: non ci posso credere! È mia mamma! L’ho trovata!
< Certo! È o non è il mio lavoro, questo? La donna ha dichiarato di avere una figlia col tuo nome e della tua età, e tu sei l’unica sul registro con queste qualità > dice con voce gracchiante.
< Sì, finalmente! > urlo e salto di gioia. Davide mi abbraccia e sorride, ma so che gli fa male: i suoi genitori chissà se sono ancora vivi…
All’improvviso mi rendo conto che non ha nominato mio papà e smetto di esultare.
< Non c’è nessun Giovanni Tosi ? >. La mia voce è appena un sussurro.
< No. Nessuno >.
Come no?! Non può non esserci! Deve essere qui anche lui! Magari… magari la vecchia si è sbagliata a scrivere il suo nome, forse ha saltato una pagina del registro e non l’ha trovato per quello. Sto per chiedere, ma la donnaccia sa cosa mi passa per la testa e scuote il capo.
Cazzo. Merda. Cosa faccio? Perché papà non c’è? Mi sento come una bambina che si perde nella folla e non riesce più a trovare il genitore. Non so neanche cosa dire: almeno mia madre è salva, Davide non sa nulla dei suoi genitori… non credo di avere il diritto di lamentarmi, ma… fa male… No, devo mantenere la calma, devo essere forte.
< Ah, capisco. Dove è mia madre? Lo sa? >. Seeee ciao! È già tanto se riesco a trattenere le lacrime, è inutile che tenti di negare l’evidenza.
< E’ stata assegnata alla ristorazione degli uomini che costruiscono le barriere. Adesso starà cominciando a preparare la cena. I pasti vengono preparati nella scuola elementare e serviti nella palestra >.
Significa che posso andare subito da lei! Lei di sicuro sa cosa è successo a papà!
< Grazie >. Non riesco quasi a parlare per la tensione.
 
La vecchia ci comunica gli altri due nomi, ma non conosciamo queste due persone. Ci dà anche i nostri incarichi, scritti in bella grafia su un foglio a righe:
 
Davide Longo: costruzione barriere, guardia del perimetro  e spacca-pietre all’occorrenza.
 
Valentina Tosi: pasti dei lavoratori e infermiera all’occorrenza.
 
Francesca Brentegani: guardia del perimetro, baratto con le altre montagne  e sarta all’occorrenza.
 
Cosa cosa cosa?! Io dovrei fare la cuoca?! Io che so a malapena cucinare?! Perché non posso avere un altro mestiere? Io non sono proprio una brava “donna di casa”, e nemmeno voglio esserla.
< Qui ci deve essere un errore > dico alla vecchia < io non posso fare questo lavoro! >.
< Non c’è nessun errore, bella mia! Il sindaco ha deciso così, quindi ti adegui! >.
< Voglio parlarci! >.
< No! È una persona impegnatissima, ora non ha tempo! >.
Brutta vecchia merdosa, quanto potrà mai essere occupato il sindaco di un paese così piccolo? Sto per risponderle in malo modo, quando Davide e Francesca mi fermano.
< Lascia stare, ci parlerai un’altra volta >.
< Parli tu Francesca, che hai dei lavori fighissimi, mentre io faccio la locandiera! >.
< Sorellina, non c’è nulla di male nel rifocillare gli uomini! E poi sei ancora messa male, non puoi fare altri lavori per adesso  >.
< Lo so Davide, ma io voglio combattere, io voglio difendere le barriere! >.
E ci allontaniamo dal municipio litigando. Cos’è, sono la più piccola e allora devo starmene sempre al villaggio? Fanculo, io posso dare di più!
 
Non facciamo neanche 200 metri che ci ritroviamo in un cortile davanti alla mensa comune dei carpentieri, che non è altro che la palestra della scuola elementare.
< … E poi spiegami, sono o non sono io che ho steso quel ribelle con un pugno allo stomaco? Qui sono spreca- >.
E non riesco a continuare. Lo scorrere del tempo si blocca nell’istante in cui la vedo davanti a me. Mescola della brodaglia densa in un enorme pentolone. Che sia davvero lei? Sì, ne sono sicura.
Mi sarei aspettata di tutto, me la immaginavo cambiata, certo, ma giuro che avrei pensato a tutto tranne che a questo.




Angolo dell'autrice:
Rispondendo a una recensione, avevo promesso che in questo capitolo ci sarebbe stata un po' di azione, ma una volta finito di scriverlo ho notato che era lunghissimo, quindi ho preferito dividerlo in due: la prima parte è questa, la seconda la pubblicherò domani o al massimo dopodomani.
Spero sia piaciuto comunque:)

Lupacchiotta blu

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Capitolo 17
*** I 'fantasmi' del passato ritornano ***


18 gennaio 2014 da mezzogiorno a sera

 
Porca troia… chi se lo aspettava?
Insomma… io… ecco… ci sono rimasta di merda.
Anche se mi sembra passata un’eternità, sono scappata dalla mia città 10 giorni fa. Sono fuggita nella notte facendo lo slalom tra i morti viventi, mi sono rintanata nel bunker come se fossi stata una talpa, ho ammazzato decine di zombie, mi sono presa due pallini nelle chiappe, ho dormito al freddo, ho mangiato poco e male, ho trovato un contadino con il cervello spalmato sul muro, sono quasi morta in autostrada e mi stavano per fare secca proprio qui. E tutto questo nella vaga speranza di poter riabbracciare i miei genitori. Ne ho passate di tutti i colori, mi pare.
Ma allora, perché lei sembra abbia superato anche di peggio? Come mai la vedo così abbattuta ed emaciata? I capelli biondi hanno perso lucentezza, il viso è pallido e bloccato in una smorfia di fatica e rassegnata desolazione, come se avesse accettato di vivere il resto dei suoi giorni così.
Ha delle rughe profonde sulla fronte e piccole zampe di gallina attorno agli occhi, che una volta erano così vitali e mi tiravano sempre su di morale quando ne avevo bisogno. Sarebbe bastato uno sguardo carico d’amore per consolarmi anche dopo la più brutta delle giornate.
Adesso, invece, sembra invecchiata di dieci anni in dieci giorni, e quegli occhi, che una volta erano di un bellissimo grigio con sfumature azzurre, ora assomigliano di più a due biglie bianche sporche di fuliggine. Sono così opachi… e lei è così magra… ma sono davvero sicura che sia mia madre?
Ho quasi paura di parlarle, di andare ad abbracciarla, non vorrei che non fosse più lei. Sento che sto per piangere, non ce la faccio più.
Davide mi cinge le spalle con il braccio sano.
< So a cosa stai pensando. Stai tranquilla, è tua mamma, giusto? Sarà felicissima di vederti, felice come non è mai stata > la voce gli trema, si sta commuovendo < Vai da lei, tu che ne hai la possibilità >.
< Fratellone > e lo abbraccio completamente. Come posso lamentarmi io se lui non sa nemmeno dove siano i suoi?
< Noi aspetteremo qui vicino > dice Francesca < così avrai un po’ di privacy. Buona fortuna > e mi bacia sulla fronte. Poi, rivolgendosi a Davide < Dai, andiamo >. E si allontanano, girano l’angolo dietro la scuola e scompaiono dalla mia vista.
È mia mamma, perché sono così tesa? Neanche dovessi andare incontro alla morte.
La guardo un’altra volta. Ciocche di capelli escono dalla coda e cadono scomposte sul viso, dandole fastidio.
Esco dalla siepe dietro la quale ero nascosta e mi avvicino. La neve sul prato attutisce i miei passi, ma quando sono a metà strada mi sente arrivare e si volta distrattamente.
Incredulità. Speranza. Sbigottimento. Felicità. Gioia. Ecco le emozioni che le passano sul viso prima che molli il mestolo per terra e corra da me.
Adesso non ho più ripensamenti neanche io, perché le mie gambe si muovono da sole, senza che io decida niente.
< Mamma! >.
< Valentina! >.
E ci abbracciamo come non abbiamo mai fatto.
Finalmente l’ho trovata, finalmente è di nuovo con me.
 
Mia mamma è stata così felice di rivedermi. Ha detto che si è tolta un enorme peso dallo stomaco.
Adesso stiamo facendo da mangiare insieme, perché io sono stata assegnata “all’onorevole legione dei cuochi e dei vivandieri”.
< Ora abbiamo poco tempo per parlare, Valentina, ma dopo che gli uomini avranno mangiato, potremo mangiare noi e raccontarci tutto quello che abbiamo passato >.
Così la lascio e vado ad apparecchiare le tavole come mi ha detto un donnone di nome Greta, che dovrebbe essere una specie di caposquadra per gli addetti al rancio.
Non so come riesco ad allontanarmi da lei, adesso vorrei solo passare ore e ore a parlarle; purtroppo per me, il bene personale di ognuno va sacrificato per la collettività.
 
Valentina passa la settimana a lavorare con la madre, che ‘abita’ in una delle aule. La ragazza resta a casa di Giuseppe con Davide, Francesca e il cane.
La ferita ormai è guarita quasi completamente, così come quella del suo fratellone.
Gli orari di lavoro sono piuttosto rigidi: sveglia all’alba per la colazione, pranzo da portare a piedi fino ai cantieri (dove lavora anche Davide), cena alle 19.00. adesso che tutti hanno quasi finito le scorte private di cibo, la gente da sfamare è anche di più.
Fortunatamente, tutto il grano prodotto nei campi a valle, è stato ‘gentilmente offerto’ dai contadini, in cambio dei lavori più facili e altri favori.
Valentina ha provata più di una volta a parlare con il sindaco per farsi cambiare il suo di lavoro, ma lui ha sempre rifiutato con scuse quali ‘sei troppo piccola’, ‘non sei abbastanza forte’, ‘non saresti capace di…’ e così via.
Non era troppo piccola, non era debole, era capace di fare qualunque cosa le avessero insegnato, e soprattutto, non era da lei arrendersi: se lo avesse fatto, sarebbe morta parecchio tempo prima.
Nonostante ciò, le speranze di mostrare il suo valore diminuivano di giorno in giorno, e forse avrebbe smesso per un po’ di litigare con il sindaco, se non che…
 
 
25 gennaio 2014 mezzogiorno
 
Cazzo, che palle! “Valentina fai questo” “Valentina fai quello” “sbrigati qua” “sbrigati là”… và a cagare Greta. Io qui non ci voglio stare. Se non fosse per la mamma… non so che putiferio farei su.
Se facessi qualche sciocchezza adesso che si sta riprendendo da quello che è successo, non so come reagirebbe… a maggior ragione adesso che non c’è più papà. Se fosse ancora con noi penserebbe lui a mamma.
Ma adesso basta pensare a queste cose, sennò mi deprimo. Devo portare il pranzo alla squadra di carpentieri n.7, che oggi finisce di costruire la barricata a valle, quella da dove sono entrata io.
Nella squadra n.7 ci sono Giuseppe e Davide, e per questo motivo io non potrei andarci: Greta pensa che le ragazzine di città siano delle chiacchierone perditempo, e crede che io mi fermerei a parlare con loro invece che lavorare.
Indipendentemente da quello che pensa lei, io ci vado sempre lo stesso: scambio il mio carretto con quello dell’addetta alla loro squadra e mi incammino.
Per me è facile convincere le altre ragazze a fare lo scambio, perché le mie ‘gesta’ hanno fatto velocemente il giro del paese: prima dell’apocalisse ero quella che litigava e picchiava chi la infastidiva, e adesso pure. Poco pazienti si nasce e poco pazienti si resta.
Addirittura, da quando sono stati liberati, i soldati ribelli che mi hanno quasi fatta fuori mi stanno alla larga quando porto il rancio, e preferiscono farselo passare dagli altri.
Allo stesso modo, le ragazze che per paura non litigano con quel puttanone di Greta, si fanno difendere da me, perché grazie al costante giramento di coglioni le sbatto in faccia di quelle rispostacce che se le sentisse mia mamma finirebbe gambe all’aria. Così, in cambio delle mie ‘prodezze’ , delle quali a volte mi vergogno un po’, accettano di scambiare i carretti.
Questi carretti sono come quelli che si usavano una volta in campagna e che in montagna erano ancora abbastanza comuni: due ruote, cassone e sponde in legno. Niente seggiolino o roba simile per chi guida. Si deve stare seduti sulla sponda anteriore, oppure si va a piedi.
Di solito faccio metà strada in un modo e metà nell’altro, sennò non sento più le chiappe quando arrivo a destinazione. In più, per quanto le strade vengano tenute pulite dal ghiaccio e il mulo sia docile, resta comunque un mezzo poco stabile in salita e in discesa. Praticamente sempre.
 
Al carretto attacco Jo, il mio mulo preferito. È il mio preferito più che altro perché non lo vuole mai nessuno: è vecchio, stanco e deve fermarsi spesso, per questo è sempre l’ultimo che resta in stalla. È comunque un bravo mulo: non raglia mai, non è testardo come tutti gli altri rappresentanti della sua specie e non continua a darmi ordini come quell’asina di Greta.
< Forza Jo, partiamo. Dai che ce la facciamo anche oggi >. Glielo dico ogni giorno nella speranza che non mi lasci a metà strada obbligandomi a tornare a piedi, anche se credo che non aspetti altro che la morte, vecchio com’è.
Comincia a camminare lentamente, trascinandosi dietro il carico di pane e riso per i carpentieri. Uscendo dal paese vedo due falegnami che mi salutano con una mano e ricambio il gesto.
 Anche se a volte mi faccio vedere violenta, la maggior parte del tempo tento sempre di essere gentile e simpatica con gli altri e a quanto pare funziona, perché comincio a prendere confidenza con qualcuno. Non tanto quanto mia mamma, Francesca e Davide, ma io sono sempre stata una ragazza non troppo socievole e le poche simpatie che mi sto facendo mi bastano.
La maggior parte dei montanari sa che mi do da fare. Tranne Greta, lei no.
Come se mi avesse letto nel pensiero, Jo sbuffa sonoramente.
< Già, mi hai tolto le parole di bocca. Che palle >.
Scendiamo lentamente a valle da un’ora, e siamo a buon punto: di solito ci vuole un’ora e mezza all’andata e un po’ di più al ritorno.
Jo è già stanco e si ferma in quella che una volta era una minuscola piazzola di sosta per le macchine.
< Come?! Di nuovo?! Dai Jo… non voglio arrivare in ritardo >. Vedendo che non si muove di un centimetro, gliela do’ vinta.
Scendo e mi sgranchisco le gambe mentre lui poltrisce qualche minuto. Secondo me lo fa apposta: sa che lo faccio riposare abbastanza volentieri e se ne approfitta. Come quei vecchietti che fanno finta di essere tutti malconci per farsi portare la spesa su per le scale, quando invece sono più arzilli di molti ventenni.
Sto passeggiando distrattamente quando Jo alza la testa di scatto e raglia. Neanche due secondi dopo sento degli spari da fondovalle, proprio nella direzione del cantiere.
Oh oh. No, non adesso…
Pensavo di essere al sicuro qui, ma se stanno sparando può esserci solo un motivo!
Jo è agitato, alza e abbassa la testa più volte, gratta per terra con gli zoccoli. Cosa posso fare? Sono troppo lontana dal paese!
Devo andare a vedere cosa succede!
Sgancio il mulo dal carretto, salgo in groppa e partiamo. Scendiamo abbastanza velocemente, al trotto più che al galoppo, ma non manca molto. Senza il carico Jo si stanca di meno.
Il mulo a volte sta per scivolare sull’asfalto bagnato, ma non cede e continua ad avanzare.
Vedo le barricate e gli uomini che urlano e corrono ovunque. Non capisco molto bene cosa succede, sono ancora troppo lontana, ma il rumore arriva fin qui.
Svolto per l’ultima curva e adesso che manca solo l’ultima parte della discesa vedo tutto chiaramente: le barriere di legno hanno ceduto in due punti e gli zombie ormai completamente scongelati stanno entrando.
I carpentieri e le guardie sono saliti tutti su delle torrette create proprio per questi casi, ma anche queste sono traballanti e prossime a cadere.
Il mulo sbuffa e una bava bianca gli ricopre la bocca. È troppo stanco, non ce la fa più.
< Dai Jo, ci siamo quasi! Ce la possiamo fare! >.
Con la tenacia tipica di questi animali, mi porta fino a uno spuntone di roccia sporgente. Scendo e mi ci arrampico.
Camminando lungo questa sporgenza, si può raggiungere una di queste torrette. È pericoloso, ma ho un piano.
Tutti gli uomini stanno sparando sugli zombie, ma i fucili non sono abbastanza e l’orda di non morti avanza ininterrotta.
Tra i tiratori c’è Francesca.
< Valentina! Cosa ci fai lì?! Perché sei venuta?! > urla nella speranza di farsi sentire nel frastuono.
< Lanciami una corda e fammi salire sulla torretta! >.
Sembra capire e mi lancia una fune resistente. Gli zombie marciano sotto di me e protendono le mani verso la parete rocciosa. Quanto puzzano…
Afferro la corda e puntellandomi sulla parete di roccia e su quella legnosa della torre salgo fino in cima.
< Che cazzo ci fai qui?! > urla uno che non conosco.
< Ho sentito gli spari e ho pensato al peggio. Avevo ragione a quanto pare! >.
< Cosa pensi di fare adesso, eh?! > sbraita un altro tutto incazzato < Vuoi farti ammazzare anche tu?! Dovevi scappare e avvertire gli altri! >.
Gli spari si susseguono e squarciano l’aria, ma gli zombie che cadono per non rialzarsi mai più sono pochi.
< Ho un paino! > urlo < dovete fare quello che vi dico! >.
< Figurati, tu che fai la cuoca! È vero che sei sopravvissuta per molti giorni là fuori, ma non sei in grado di combattere! >.
Questa frase mi fa incacchiare, è la goccia che fa traboccare il vaso.
< Vaffanculo sacco di merda! Io sono sopravvissuta grazie alle mie capacità combattive e strategiche! Se io e i miei compagni non avessimo fatto sempre la scelta giusta, adesso saremmo morti! Vedi di ficcarti in quella grossa testa di cazzo che so maciullare zombie anche meglio di te! > e gli tiro un pugno dritto dritto in faccia, facendolo cadere sul pavimento. Sta per rialzarsi ma mi metto a cavalcioni su di lui e lo picchio ripetutamente, fino a quando Francesca non mi trascina via di peso assieme ad altre due guardie.
< Stronza! Adesso me la paghi! > urla scagliandosi contro di me.
Mi abbasso per schivare un pugno e gliene mollo uno allo stomaco, facendolo piegare in due sul pavimento.
< Valentina! Cosa cazzo fai! > urla Francesca .
< Mi prende che tutti mi trattate come un’incapace quando so di valere molto di più di tante altre guardie! Ho detto che ho un piano per chiudere le falle, quindi chiudete il becco e ascoltatemi! > ringhio furiosa.
I cinque rifugiati si zittiscono un attimo, compreso quello che ho menato. Non fa molta differenza perché qualche metro più in basso il lamento degli zombie diventa via via più assordante.
< Uno dei due buchi è qui sotto. Possiamo tapparlo facendo crollare la torre! >.
< Che cazzo hai detto? > domanda un uomo dalla barba bianca < Sarà che sono vecchio e sto diventando sordo, ma credo di aver capito che vuoi far cadere la torretta! >.
< Vaffanculo! > urla Simone < Sei una pazza, vuoi farci morire! >.
< Ne vuoi ancora?! Non aspetto altro che spaccarti quella brutta faccia da culo che ti ritrovi! Se chiudiamo la falla più grande, sarà tutto più sicuro! Dobbiamo solo spostarci su questa sporgenza rocciosa! > sbraito indicando il punto dal quale sono venuta.
< Ah si? E come facciamo con la seconda?! Ci hai pensato almeno, piccolo genietto?! >. Chiede con tono da saputello.
Questo qui pensa di potermi sfottere quanto vuole, ma si sbaglia di grosso.
Stringo i pugni e digrigno i denti:
< Certo che ci ho pensato! Non ho mica la merda al posto del cervello, io! Quello che usa la testa come letamaio sei tu! > giurerei di avere gli occhi iniettati di sangue e la giugulare che pulsa sul collo. Nonostante sia inverno ho caldo e comincio a sudare sotto il giaccone.
Francesca fa pure un passo indietro. Tutti gli altri si fermano come impietriti.
< Adesso vedi di ascoltarmi e di fare quello che ti dico, sennò te ne do così tante che quando torni a casa neanche tua moglie ti riconoscerà, capito ‘piccolo genietto’?! >.
Gli zombie continuano a entrare e il buco rischia di allargarsi ancora, così non perdo altro tempo e spiego il mio piano.
< Scendiamo e ci portiamo dietro tutto! Appoggiandoci alla parete, spingiamo giù la torre che bloccherà il passaggio. Una volta che sarà crollata, uno o due di noi andranno a prendere uno dei tir che è fuori dalla recinzione, sempre camminando sulla sporgenza. Guiderà il tir fino a chiudere anche l’altro punto in cui ha ceduto la barriera e poi uscirà e si farà issare sull’altra torretta! Avete delle armi bianche? >.
Il rumore è forte, ma capiscono quello che ho detto e tutti annuiscono con la testa.
< Bene! Una volta bloccate le entrate, uccideremo dall’alto i più vicini fino a farli fuori tutti, ok?! >.
< Sì! > urlano in generale.
 
Questa montagna adesso è la mia casa. Non è meravigliosa, non è tutto rose e fiori, ma è la mia casa.
Gli zombie si sono presi la mia vita, la mia famiglia, il mio passato.
Non riusciranno a rubare anche il mio futuro. Non finché avrò la forza di combatterli.



Angolo dell'autrice:
Eccomi qua! puntuale come la morte come (quasi) sempre. 
Come avevo promesso, nella storia torna l'avventura! I brutti musi smarci sono tornati a farsi vedere, per la felicità vostra e per la disperazione dei superstiti!
Spero che questo capitolo ripaghi l'attesa:)
Lupacchiotta blu

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Capitolo 18
*** Quando si dice "far vedere i sorci verdi" ***


25 gennaio 2014- Ora: boh, nessuno fa caso all’ora in questi casi. Diciamo più o meno a mezzogiorno

 
Siamo scesi e ora siamo tutti in piedi sullo stretto passaggio sulla roccia.
Gli zombie si dimenano sotto di noi, cercano di afferrarci con le loro mani, ma noi siamo troppo in alto per loro.
Sono ancora più brutti di come li ricordassi: occhi vitrei, pelle in decomposizione viscida e puzzolente, arti mancanti o a penzoloni, interiora sparpagliate, sangue marrone rappreso sui vestiti sgualciti.
Deve essere stato lo scongelamento a renderli ancora più puzzolenti, infatti, il loro nuovo odore mi ricorda quello della carne marcia e fetente nel congelatore spento di una decina di giorni fa.
Le guardie sull’altra torretta ci guardano, tra loro vedo Davide e Giuseppe. Chissà cosa staranno pensando, probabilmente che siamo dei pazzi.
< Ascoltatemi! > urlo per sovrastare il chiasso che viene da sotto di noi < dobbiamo decidere chi va al tir! Io non posso perché non so guidarlo! >.
< Vado io! > dice un ragazzo sui vent’anni.
< Ok! Come ti chiami?! >.
< Andrea! >.
< Bene Andrea, dopo che avremo buttato giù la torre, dovrai essere velocissimo, perché il baccano sarà così forte da attirare ancora più zombie dalle vicinanze, capito?! >.
< Conta su di me! >.
 
Sistemiamo tutte le armi a qualche metro da noi e appoggiamo le schiene alla parete. Con le mani ci teniamo saldamente alle protuberanze e con entrambe le gambe spingiamo il lato più vicino della torretta.
Questa ha uno scheletro interno di ferro e legno, e una copertura di assi di legno.
Spingiamo con tutte le nostre forze fino a diventare rossi in faccia dallo sforzo, e finalmente sentiamo che la base sta cedendo.
Piano piano allunghiamo le gambe, diventa sempre più facile, sta cadendo da sola! Il legno si spacca in più punti alla base,si disintegra in schegge e pulviscolo, il ferro non regge il peso e si spezza sonoramente.
La torre crolla a terra chiudendo la falla più grande, schiacciando decine di zombie e bloccandone fuori a centinaia e nonostante la caduta rovinosa, è ancora abbastanza solida da tenere a bada i merdosi per un bel po’.
< Ce l’abbiamo fatta! > urliamo felici.
< Andrea, adesso tocca a te! Francesca ti coprirà le spalle sparando agli zombie che ti attaccheranno! >.
Il ragazzo si sposta agile fino alla barricata che è due o tre metri sotto di lui, la supera e si ritrova proprio sopra il tettuccio di uno dei due tir.
Salta e atterra con un tonfo su di esso. Riesco a vedere che fa “OK” con la mano.
Quattro zombie lo hanno sentito e si stanno avvicinando al camion, ma lui è veloce: scende dal tettuccio ed entra al posto di guida, mette in moto e dopo qualche tentativo il motore parte.
La scena a cui assistiamo è degna di un film horror-splatter: il tir investe e maciulla decine e decine di non morti, facendoli a pezzi o scaraventandoli a qualche metro. Quando vengono colpiti, i loro corpi si smembrano, il loro sangue gelatinoso e marrone ricopre il muso del camion che si avvicina al secondo foro, spostando l’orda di non morti come un caterpillar sposta la terra in un cantiere edile.
La barricata adesso è a posto.
Le guardie esultano di gioia e i carpentieri sulla torre opposta pure.
Sono tutti felici, mi danno pacche sulle spalle, mi dicono che sono brava, che sono sprecata in paese.
Finalmente l’hanno capito, adesso sanno cosa posso fare! Vorrei anche io unirmi alla festa, ma purtroppo devo rovinare l’atmosfera a tutti:
< Prima di mettere la parola fine all’episodio, dobbiamo far fuori gli zombie che sono entrati! Per nostra fortuna non possono arrivare in città, perché dopo un centinaio di metri la salita è troppo ripida, ma sono comunque un pericolo! Dobbiamo farli fuori definitivamente! >.
Si alza un coro di approvazioni:
< Ben detto! >.
< Sì, facciamo vedere a quei mostri chi siamo! >.
< Adesso spacchiamo i culi! >.
Ma guarda un po’ te… un minuto prima erano dei coniglietti impauriti e adesso sembrano leoni famelici.
 
Andrea esce faticosamente dal finestrino, sale sul tettuccio e si fa lanciare una fune dagli altri. Viene issato e da lontano vedo che gesticola e spiega tutto alle altre guardie.
Adesso arriva la parte più difficile del piano: far fuori i cinquecento zombie che sono entrati.
Sono così tanti che si sono spinti fino al primo pezzo della salita, ma non riescono ad avanzare perché la strada è troppo pendente.
Questo significa che loro non possono arrivare al paese e noi neppure.
Dobbiamo per forza farli fuori.
Abbiamo ancora ottanta proiettili e una cinquantina di cartucce, più picconi, zappe e martelli. Gli altri non sparano da un po’, penso abbiano finito quasi tutto. Speriamo di resistere abbastanza a lungo perché i concittadini si allarmino non vedendomi tornare. Potrebbero mandare qualcuno a controllare e poi altri rinforzi.
Mi ricordo come ho fatto a uccidere alcuni zombie la prima notte di fuga dal bunker. Con le braccia a penzoloni e il piede di porco arrivavo giusto giusto alle loro teste, riuscendo a spaccarle.
Adesso la faccenda è un po’ diversa, a dire il vero: a separarci dai cadaveri ambulanti ci sono circa un paio di metri, a volte di più a volte di meno, ma siamo comunque troppo in alto.
< Valentina, ho un’idea! > urla Francesca < Potremmo prendere una macchina e salire in fretta fino in paese! >.
Non è una brutta idea. Visto che la benzina non cresce sugli alberi come le mele, o nel sottobosco come i funghi, e non si deposita nemmeno su mobili come la polvere, le macchine sono state parcheggiare quasi tutte qui vicino e non le usa mai nessuno.  C’è solo un piccolo particolare: sono precedute da un muro di zombie.
< Dovremmo riuscire a farci strada tra i non morti, è pericolosissimo! >.
È anche vero che il mio mulo mi ha lasciata qui e poi se l’è data a gambe, perciò il mezzo più vicino è proprio un’auto.
< Senti > dice Francesca < facciamo così: andiamo in tre, io tu e un altro. Procediamo su questa parete più che possiamo, poi ci apriamo un varco fino alle macchine, che essendo in salita, non sono ancora state raggiunte dagli zombie >.
Mi guarda speranzosa: se abbiamo attuato un piano pazzo come il mio, raggiungere le automobili sarà una passeggiata.
< Ok, ci sto! > rispondo. Poi, rivolgendomi agli altri:
< Chi viene con noi?! Ci basta un volontario! >.
< Sticazzi > grugnisce Simone. Ci faccio caso a malapena.
< Vengo io! >. Il vecchio si offre volontario. Dice di chiamarsi Mosè, e anche se ha barba e capelli bianchi, non ha nemmeno cinquant’anni, si è solo “imbiancato” precocemente.
 
 
< E adesso che si fa? > chiede il vecchio.
Siamo arrivati al punto più vicino al parcheggio, ora dobbiamo scendere in mezzo ai non morti e farci strada per circa 100 m.
Il terreno è già leggermente in pendenza e gli zombie qui sono di meno, ma sul nostro percorso ideale ne posso contare almeno una cinquantina.
< Passiamo al piano B > avverto io.
< Quale piano B? Ne esiste uno? >. Francesca è spaesata.
< Sì, l’ho pensato ora. Tu sei una brava tiratrice, giusto? Sei stata messa qui apposta. Non puoi essere tu a guidare la macchina, tu devi coprire le spalle a me a e lui > dico indicando il vecchio < ci saranno molti zombie che si avvicineranno e tu dovrai farli fuori con il fucile, perché da soli non possiamo riuscirci noi due, visto che abbiamo solo questi catorci >.
Già, abbiamo dei veri e propri oggetti sconquassati per armi: io ho un’ascia lunga come il mio braccio, così arrugginita che non so dove finisce il manico e dove inizia la lama, mentre babbo natale è equipaggiato solo di una pistola a cinque colpi e un piccone.
Altro che terminator, in questo stato cappuccetto rosso farebbe più paura di noi. Cappuccetto rosso farebbe paura a noi.
< Capisco. Io ho trenta proiettili e dieci cartucce. Farò il possibile, ma state sempre attenti > dice preoccupata.
< Tranquilla, ci penso io alla piccola >.
< Grazie Mosè >. Pare sollevata.
< Hey! Non sono piccola! > mi lamento scherzosamente.
< Ahahah! Pulce! >. Il vecchio se la ride di gusto < Certo che sei piccola! Mi arrivi appena alle spalle! >.
E per la prima volta noto la sua stazza. Il gigante buono.
 
Per scendere dobbiamo almeno attirare lontano qualche zombie, quindi Mosè lancia dei pezzi di pietra irregolari addosso a un cumulo di lamiere e materiali da costruzione. Il frastuono supera il lamento collettivo dei non morti, che si lanciano all’assalto.
Sembrano tante formiche che si avventano su un povero e malcapitato insetto.
Silenziosamente scendiamo, ma quando sono a un metro da terra il mio piede destro perde l’appoggio e cado per terra.
Sento il panico salire: mi rialzo in fretta, ho paura che loro si accaniscano su di me, ma mi rendo conto che sono troppo occupati con travi di legno e ferro vecchio.
< Forza, andiamo > sussurra l’uomo < prendiamo quella fiesta nera, le chiavi sono dentro >.
Camminiamo velocemente nella speranza di non essere visti né sentiti, ma a metà strada un paio di zombie si accorgono dello scricchiolio dei nostri scarponi sull’asfalto sporco di ghiaia e sabbia.
Si girano e sembra quasi che ci fissino con i loro occhi bianchi e vuoti. Gorgogliano, e schizzi di liquido brunastro escono dalle loro gole.
Uno non ha più il naso e metà della pelle del viso, mentre l’altro è completamente senza scalpo e il braccio sinistro è attaccato al resto del corpo solo tramite una striscia di pelle.
Sento due spari vicinissimi, l’uno all’altro e i due cadono a terra. Francesca ci fa il segno “Ok” con il pollice.
Purtroppo, l’attenzione che prima ci mostravano solo i due gentiluomini, adesso vogliono riservarcela anche altri quindici zombie.
Si frappongono nuovamente tra noi e il parcheggio e ci si lanciano addosso, marci come non mai: pelle a brandelli, arti mozzati, mascelle cadenti, sangue gelatinoso… non esattamente dei fusti, insomma.
< Ok, la furtività è andata a quel paese, dobbiamo combatterli, prima che anche quelli più a valle ci circondino! >.
< Ricevuto capa! >.
Gli spari di Francesca colpiscono con precisione i bersagli, ma non quelli troppo vicini a noi: rischierebbe di ferirci.
Davanti ho una donna piuttosto vecchia che apre e chiude le mascelle sbattendo i denti: la lingua mozzata pende a un angolo della bocca, è davvero disgustosa e la decapito subito.
Sfondo il petto a un altro e fracasso il cranio a quello dietro di lui. Il vecchio pensa a quelli che colpisco ma non uccido.
Con un calcio stacco la testa a quello che doveva essere un cinese e con un salto atterro un dodicenne, spezzandogli la schiena in più punti con un sonoro “Crac!”.
< Sono tantissimi, stai attenta! >.
< Tranquillo, so tenerli a bada! >.
Sì, so tenerli a bada… peccato che siano troppi, e che quelli più a valle stiano salendo lentamente. Se ci circondassero sarebbe la fine… quanto vorrei che Davide fosse a combattere qui con me!
Uccido zombie su zombie, ma per ognuno di loro che cade un altro prende il suo posto.
Sia io che il gigante buono sentiamo la fatica, ma non possiamo mollare, sono in troppi a contare su di noi!
Ci facciamo strada per alcuni metri verso le macchine, ma siamo troppo lenti e altri non morti si avvicinano.
Ormai sono quasi irriconoscibili, si capisce a malapena il sesso, l’età e l’origine di provenienza,sono un’onda assassina che vuole solo mangiarti. È strano come in queste condizioni si possa comunque riconoscere qualcuno. Qualcuno che non vorresti fosse lì.
 
-Qualche giorno prima…
< Mamma, vorrei sapere una cosa… >. Sono titubante, vorrei sapere già tutto e non doverle chiedere nulla.
< Dimmi >. Lo sospetta già. È mia madre, non posso tenerle nascosto nulla…
< Come è morto papà? >. Boom! Ecco che ho sganciato la bomba.
< Valentina… >.
< Devi dirmelo, ho il diritto di saperlo >. Tento di fare la dura, ma mi sa che non funziona tanto bene.
< Beh… hai ragione, è giusto che tu lo sappia >.
Fa una pausa, si siede sul materasso improvvisato nella sua aula-casa e comincia a raccontare.
< Vuoi sapere tutto dall’inizio? >.
Annuisco con la testa.
< Bene >. Sospira: sa che se voglio qualcosa sono più testarda di un mulo e più rompicoglioni di un vecchio in pensione.
< Pochi minuti dopo che hai chiamato, quella sera, ho apparecchiato. Mentre sistemavo i piatti, tuo papà è uscito a buttare la spazzatura e poi entrato in casa molto spaventato: stava indietreggiando davanti a qualcosa, o meglio, qualcuno. Era uno zombie. Lo ha colpito alla gola, ma lui non ha sentito dolore, continuava ad avanzare… ho avuto una paura terribile… >. Fa un’altra pausa.
Mi alzo dalla sedia e mi siedo accanto a lei.
< Vai avanti, mamma >.
< Tuo papà lo ha atterrato in salotto. Abbiamo afferrato le giacche al volo, siamo usciti di casa e dei militari ci hanno presi di peso e caricati su dei camion. Avevo il cellulare, ho provato a chiamarti ma non rispondevi… >. Le si inumidiscono gli occhi al solo pensiero, la voce si fa sottile.
< Così.. > tira su con il naso < ho riprovato altre volte, quando i militari ci hanno ordinato assoluto silenzio. Sì, come no… avresti dovuto sentire le altre donne come piangevano: molte di loro non avevano i figli con loro… >. Singhiozza ma trattiene le lacrime. Le cingo le spalle con un braccio e la stringo forte.
< I soldati erano stati mandati da non so chi per raccattare tutte le persone che trovavano, ma non volevano sentir ragioni riguardo a figli dispersi o mancanti. Dovevamo fuggire in fretta e furia, dove non so.
I militari sono morti tutti nel giro di poche ore per proteggerci, allora io e tuo padre siamo fuggiti: per qualche giorno abbiamo dormito nella case vuote, divorati dalla paura, dall’ansia e dalla tua mancanza… poi ci siamo uniti ad altri fuggitivi. Sapevo che eri con Davide, ne ero certa. Non mollavo la speranza di poterti rivedere. Io e tuo padre sapevamo che ti saresti rifugiata nel bunker e poi saresti scappata sulle montagne: ci sembrava strano che volessi risistemarlo proprio allora >. Sorride debolmente e mi dà un buffetto sulla guancia.
< Come facevi a sapere che eventualmente sarei andata sui monti? >.
< Sono o non sono tua madre? Conosco le fissazioni “strategiche” di mia figlia. Paranoica come sei, tendi sempre a predisporre tutto nei minimi particolari in caso di pericolo. La montagna è sicura, quindi saresti certamente venuta qui. Ovviamente, non sapevo esattamente dove, averti trovata qui è stata una fortuna >.
Sorrido: la mamma conosce i suoi polli, e io pure: si dilunga cercando di cambiare discorso.
< Vai avanti > la esorto. Sospira debolmente.
< Due giorni prima di arrivare qui, tuo padre… > la voce si fa più bassa < è morto per salvarmi da un incidente: stavano cadendo delle macerie e lui mi ha spinta via appena in tempo… >. Scoppia a piangere. Adesso mi sento in colpa per aver chiesto. Non volevo farla star male.
< Quindi papà non è morto per gli zombie? > sussurro.
< No >.
E non chiedo altro.
 
Cosa ci fa lui qui?! La mamma aveva detto… perché mi ha mentito?
Alto, cammina curvo e con le braccia tese. Il mento è incrostato di sangue rappreso, i vestiti sgualciti, gli occhi vitrei. La pelle è strappata in più punti, la pancia è solcata da una ferita profonda e le costole sporgono in più punti, zoppica con una gamba.
È sicuramente lui. Davanti a me, dietro una quindicina di zombie, c’è mio padre.
 
 
Mi accorgo di essere rimasta imbambolata quando un urlo del vecchio mi desta:
< Valentina! Che succede?! >.
Gli zombie si avvicinano.
Non riesco a rispondere, non riesco a dire niente. Il gatto mi ha mangiato la lingua.
Allora, i non morti… lo hanno ucciso… sono stati loro…
La testa mi gira un po’, mi si fa un groppo alla gola.
Sento caldo, sto sudando sotto la giacca a vento. La rabbia che provavo prima verso Simone è nulla a confronto. L’astio cresce dentro di me, non ce la faccio più.
Quanto li odio! Quanto vorrei che non esistessero!
Digrigno i denti e colpisco con ferocia il primo zombie che mi si parano davanti. Le sue ossa si spezzano come gusci d’uovo.
< Bastardi! Dovete morire! >. Quasi non mi accorgo di gridare, fino a un attimo fa avrei giurato di non aver voce.
< Vi odio! Vi detesto! >. Affondo l’ascia in un cranio e arrivo quasi fino alla gola, sento le braccia assorbire l’impatto fortissimo.
Ne decapito uno, infierisco violentemente sul corpo di uno zombie strisciante. Meno fendenti a destra e a manca, guidata dall’odio più ceco.
< Assassini! Dovete morire tutti quanti! >. Non è la mia voce, è il ringhio di una bestia feroce e omicida.
Vedo rosso, ormai non uccido più per salvarmi la pelle, uccido per il piacere di farlo, per vendetta.
< Ahhh! Muori! Muori! Muori! >.
Ogni colpo è seguito da un altro, anche se non necessario. Spacco le loro teste con tutta la violenza possibile. Vorrei che potessero provare dolore, voglio vederli soffrire!
Uno zombie si tira avanti sulle braccia, io gli salto sulla schiena e pesto la sua testa fino a quando non è completamente in frantumi.
Altri zombie avanzano, quindi scendo dal malcapitato e indietreggio di qualche passo sui miei scarponi sporchi di sangue marrone e gelatinoso.
Stringo i denti e urlo di rabbia a ogni nuovo attacco. Sento il desiderio di morderli, di strappare le loro membra come un lupo affamato, vorrei sentirli soffrire e piangere di dolore!
Forse l’uomo accanto a me sta urlando qualcosa, ma non riesco a capire, sento solo il rumore delle ossa rotte e il mio cuore che batte all’impazzata. Gli zombie si avvicinano ai lati, ma ne ho anche per loro, mi sento carica di un’energia inesauribile.
Stringo con forza il manico dell’ascia e mi lancio all’attacco.
< Ne ho anche per voi, brutti stronzi! > sbraito quasi con la schiuma alla bocca.
< Sacchi di merda, vi uccido tutti! Ahh! >.
Mi fa male la testa, ma il dolore diminuisce quando sento il mio sangue colarmi dal naso. Non ero mai stata così arrabbiata, e a  forza di inveire improperi su di loro mi brucia la gola. Mi sfioro la fronte e il collo, accorgendomi di avere le vene gonfie.
Attorno a me ci sono un sacco di cadaveri smembrati, li supero, spacco altre teste con furore, urlo per sfogarmi, mi avvento sui loro corpi già esanimi. Come se questi assassini avessero un’anima.
Sto sudando, ho troppo caldo, non so quanti ne ho uccisi, ma vorrei distruggerne ancora!
Per colpa dei violenti impatti il manico dell’ascia si è un po’ incrinato e rischia di spezzarsi completamente, ma questo non mi ferma.
Questi schifosi assassini! Desidero solo distruggerli, ridurli in polvere! Non deve restare nulla di loro! Devono sparire dalla faccia della terra!
< Ahhhh! Crepa bastardo! Vi odio! >.
Non riesco neanche più a ragionare, ho solo un obbiettivo, ma… arriva il momento tanto temuto. Adesso è davanti a me, non ci sono altri zombie tra noi.
Sento che la collera lascia il posto alla disperazione.
Cosa faccio adesso?
Papà… perché è arrivata questa piaga? Perché proprio ora? Avrei voluto avere più tempo per noi… dobbiamo ancora fare un sacco di cose insieme…
 
 
< Papi, pecchè nonno è qui in opedale? >.
< Il nonno non sta troppo bene, piccola mia > dice papà facendomi sedere sulle sue ginocchia.
< Io non ciono piccola! Ho già tanti anni cogì! > dico fiera mostrando quattro dita.
< Già, già… ormai sei una bambina grande… >. Papà parla ma non mi guarda. Fissa solo una porta bianca.
< Tesoro > dice la mamma < Che ne dici se andiamo al bar cinque minuti? >.
< Ma io voio restare con il papi… >.
< Tranquilla, piccolina > dice lui < io aspetto qui buono buono >. Sorride debolmente.
La mamma mi porta a bere qualcosa e quando torniamo papà è tristissimo.
< Papi… cogia è succeccio? >. Prendo la sua mano abbronzata, grande e forte con la mia, candida,piccola, addirittura minuscola confronto alla sua. La stringe piano e mi dà un bacetto sulla fronte. Ha gli occhi lucidi.
La mamma lo stringe forte, lei piange. Io ci capisco poco, ma forse…
< Papi, il nonno dove è? >.
Deglutisce e si asciuga gli occhi. Inspira e sorride:
< Il nonno è andato in cielo, adesso sta bene >.
< Pecchè pangi? >. Forse il nonno sta bene, ma il papà no.
< Non è nulla, va tutto bene >.
 
Solo una decina di anni dopo venni a sapere che mio padre decise per l’eutanasia del nonno. Il suo male era incurabile, e il nonno aveva chiesto di “staccare la spina” se la situazione fosse peggiorata. Quando papà mi raccontò la storia, aggiunse scherzosamente di fare la stessa cosa se gli fosse capitata una cosa simile. Probabilmente non pensava che non sarebbe mai successo, ma si sbagliava.
Ora si avvicina con passo strascicante, muove le braccia alla ceca, respira faticosamente.
C’è solo una cosa da fare, ma ho paura...
No, non posso risparmiarlo solo perché è stato mio padre: adesso è un pericolo, deve essere eliminato, anche se io non voglio. Se potesse me lo chiederebbe lui stesso.
< Papà… ti voglio bene. Spero che proteggerai la mamma e me da lassù, se non ci sei già >.
Alzo l’ascia, prendo il respiro e con un colpo ben assestato, pongo fine all’esistenza di mio padre come lui mise fine a quella del suo.
 


Angolo dell'autrice:
Mi sa che sono stata un pò cattiva, ma questi ragazzi cominciavano a poltrire un pò troppo in montagna. 
Per Valentina quest'esperienza è devastante, ma è cruciale per la continuazione della storia: il suo odio per gli zombie crescerà in modo tale che... beh, lo scoprirete leggendo questa storia fino all'ultimo capitolo!

Lupacchiotta blu

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Capitolo 19
*** Forse è meglio non rimandare a domani quello che puoi fare oggi ***


25 gennaio 2014 primo pomeriggio

 
L’ho ucciso… ho ammazzato mio papà.
Il suo cadavere è immobile davanti a me; non è tanto diverso da quello degli altri zombie: la testa aperta in due, il cervello per terra, il corpo martoriato.
No, non l’ho ucciso io, lo hanno fatto fuori loro. Io l’ho solo liberato dalle sofferenze.
Il mondo attorno a me ricomincia ad esistere: sento i rumori, le urla, vedo i non morti, le guardie immobili  sulla torretta, come pietrificate, Mosè che…
< Valentina! > è preoccupato, ha gli occhi spalancati, mi prende le spalle e mi scuote con forza.
< Hey! Valentina! >.
< C-cosa c’è? > la mia voce è roca, appena un sussurro, la gola brucia.
< Come cosa c’è?! >.
Lo fisso immobile, non capisco.
< Lasciami > sussurro.  Mi molla immediatamente.
< Ne parliamo dopo, adesso dobbiamo scappare alle macchine >.
Mi tira per un braccio per i primi metri, poi mi divincolo dalla sua presa e corro da sola. Ci sono pochissimi zombie qui, il terreno è troppo pendente per loro. Francesca li uccide e noi arriviamo finalmente alla fiesta nera.
Come aveva detto il vecchio, le chiavi erano dentro. Fa fatica ad avviarsi, ma al terzo tentativo finalmente parte.
Era da un po’ che non salivo su una macchina: l’ultima volta è stato proprio qua, e non è un bel ricordo.
L’uomo stringe con forza il volante e schiaccia l’acceleratore. Non è tanto sicuro andare così veloci in montagna, si potrebbero fare degli incidenti, ma io non capisco più niente. Dovrei aver paura, ma non sono minimamente preoccupata.
Mi tocco distrattamente il viso, e quando guardo la mia mano, la ritrovo sporca di sangue, così come la mia giacca a vento.
Mosè dice delle cose, ma non capisco cosa. Pare agitato, urla, ma io non comprendo.
Tiro giù l’aletta parasole che è munita di specchietto e mi vedo riflessa: il naso cola ancora, ho la fronte imperlata di sudore e delle lacrime hanno lasciato una scia pulita sul mio viso sporco di polvere. Ho gli occhi stralunati e, a parte un leggero rossore sulle guance, sono bianca come un fantasma.
Voglio prendere il mio fazzoletto di stoffa dalla tasca cosciale, che non ho mai tolto nemmeno quando sono arrivata qui. Faccio un po’ fatica perché mi trema la mano, ma dopo un paio di tentativi apro la zip e tiro fuori quel piccolo rettangolo di stoffa candida che mi ha regalato la mamma qualche giorno fa.
Mi tampono il naso e l’emorragia si arresta, pulisco sommariamente la giacca e caccio il fazzoletto nella tasca della giacca.
Ma… siamo già arrivati? Quanto tempo sarà passato? Credevo ci volesse di più, anche a questa velocità e in macchina.
Mosè salta giù dall’auto e corre ad avvertire chissà chi, mentre io scendo lentamente.
Le persone si agitano, corrono da tutte le parti, gli uomini sfrecciano ai carretti e ai muli, armati fino ai denti.
C’è pure il dottore. Mosè ci sta parlando e ogni tanto mi indica, gesticola molto, è molto pallido e forse ci assomiglia di più lui a uno spettro. Beh, non c’è molto da fare, devo tornare giù, devo aiutare gli altri. Mi incammino verso un carretto quando il medico mi afferra un braccio e mi fa voltare.
Dice delle cose, mi punta una luce negli occhi, non so bene cosa stia facendo.
Ma cosa fa? Perché non mi lascia? Non sa quello che è successo?
< Marco, devo andare ad aiutare gli altri! > dico io.
< No, adesso devi restare qui. Stanno già andando tutti a dare una mano, tu hai già fatto molto >.
< No, devo andare… Francesca, Davide, Giuseppe… loro… sono là… >.  
Lui parla ancora, ma io non capisco niente… adesso i suoni mi sembrano così distanti… così fiochi… gli uomini corrono ovunque, ma anche i loro passi sono attutiti. È tutto a rallentatore.
Io vorrei seguirli, ma anche se cammino non mi sposto. Guardo in basso e mi accorgo che Marco mi ha alzata di peso, non mi lascia andare. Muove la bocca ma non sento niente, tutto è così lento.
Mi mette per terra e mi guida dalla parte opposta in cui vorrei andare, faccio un po’ di resistenza, mi volto spesso, ma lui mi porta lontano.
Non facciamo che qualche metro, quando io perdo i sensi.
 
 
 
27 gennaio 2014, mattina

 
Che bello, qui si sta così bene…
Il mio corpo ben disteso è adagiato su qualcosa di soffice e avvolto da una nube morbida e calda, mi pare di dormire su una nuvola. Mi sento leggera, come se stessi galleggiando sull’acqua.
Le gambe sono stanche  come se fossi stata in piedi un giorno intero e mi fossi appena concessa un attimo di riposo, è una sensazione così rilassante, vorrei quasi che non finisse mai. Prendo lentamente coscienza anche del resto del mio corpo e apro gli occhi.
Metto a fuoco un soffitto bianco e un lampadario elegante, sono nella mia stanza nella casa di Giuseppe. La camera è illuminata solo da un fascio di luce che entra dagli scuri socchiusi.
Mi accorgo quasi con dispiacere che la nuvola soffice non è altro che il materasso e la nube le coperte di piumino d’oca.
Sono da sola.
Con estrema lentezza mi alzo e infilo le pantofole che Giuseppe mi ha gentilmente prestato. Cavolo, mi sento un po’ debole: le gambe sono malferme e mi fanno male le braccia.
Appoggiandomi ai mobili e ai muri, esco, supero il corridoio e scendo in cucina. Non faccio neanche in tempo ad arrivare a metà delle scale che Davide mi corre incontro e avverte della mia presenza anche gli altri abitanti della casa, che prima erano seduti attorno al tavolo in religioso silenzio.
< Valentina! Cosa fai?! Avresti dovuto chiamare, sarei venuto a prenderti io! >.
Lo fisso con gli occhi ancora impastati dal sonno e non posso fare a meno di chiedermi perché sia così apprensivo. Mi aiuta a scendere e mi fa sedere sul divano davanti al caminetto acceso, coprendomi poi con una coperta pesante. Tutti gli altri si sono già alzati e si mettono attorno a me.
< Valentina! > urla mia mamma abbracciandomi < Ero così preoccupata! Pensavo… pensavo… > e scoppia a piangere.
< Mamma, va tutto bene >. La voce mi graffia la gola, non sembra neanche la mia.
Singhiozza e dice:
< Come va tutto bene?! Ma lo sai che potevi morire?! >. E piange ancora di più.
Le sue lacrime sono seguita da quelle più discrete di Francesca che si siede alla mia destra e mi abbraccia delicatamente.
< Eravamo parecchio in pensiero per te, non sai che colpo ci hai fatto prendere > dice facendo uno sforzo immane per mantenere la voce salda.
Davide e Giuseppe sono in piedi davanti a me, e anche se non vogliono darlo a vedere perché sono uomini, si stanno commuovendo.
Sto per chiedere cosa sia mai successo, quando qualcuno gratta alla porta e in fine riesce ad entrare: è Asso; si fionda da me, scodinzola allegro e abbaia un poco, mi lecca la mano e si siede felice e contento sopra i miei piedi.
< Cosa è successo? > domando finalmente. Ho solo dei ricordi vaghi, non sono sicura di quello che mi passa per la testa. Si guardano negli occhi e Giuseppe prende la parola:
< Non ricordi proprio nulla? >.
< Diciamo che ho dei ricordi un po’  strani. Raccontami tutto dall’inizio >. Devo assolutamente sapere.
< Beh, dopo che sono stati tappati i buchi, tu, Francesca e Mosè vi siete allontanati, e tu e lui siete scesi dalla parete rocciosa. Avete percorso pochi metri quando avete dovuto cominciare a combattere contro gli zombie. Non sappiamo cosa è successo, ma a un certo punto tu… >. Non sa come andare avanti, ma comincio a ricordare tutto per filo e per segno.
< … tu sei diventata una furia > dice < Ne hai uccisi una trentina, tutti da sola. Non facevi nemmeno attenzione a non esporti troppo, ma in quelle condizione, nessuno zombie ti sarebbe scappato >.
La mamma mi stringe la mano e Davide prende la parola:
< Non ti avevo mai vista così arrabbiata, io e tutti gli altri presenti ci siamo rimasti di sasso. A un certo punto, ti sei bloccata, hai ucciso il tuo ultimo zombie e poi Mosè ti ha presa e portata fino alla macchina >.
< Siete arrivati qui in neanche quaranta minuti > dice la mamma, che ora si è calmata un po’ < eri tutta sudata, sporca di sangue e barcollavi. Non eri in stato di shock, ma c’eri vicina >.
< Sì, fin qui ci sono. Cosa è successo dopo? >.
< Ho visto il dottore che ti sorreggeva > continua lei < così ti abbiamo portata fino a casa sua, dove ti ha medicata. Sapessi quanto siamo stati in pensiero questi giorni… > e ricomincia a piangere.
Mi spiegano anche che sono stata portata qui subito dopo le cure del medico. La rabbia ha provocato l’emorragia al naso, che ha contribuito ad annebbiarmi la mente e a rendermi debole già pochi minuti dopo.
La ferita sul fianco aveva delle croste che si sono staccate e hanno sanguinato un poco per colpa dei movimenti bruschi, i muscoli fanno male per le botte date e ho dormito per un giorno intero.
Sono stata dispensata da ogni lavoro per due giorni, e, cosa più importante, non farò più la cuoca.
< Dopo che tutti gli zombie sono stati uccisi e la barriera completamente riparata > spiega Francesca < noi guardie e tutti gli altri presenti siamo andati a casa del sindaco. Volevamo chiedergli di cambiarti mestiere, ma lui non voleva farci entrare, allora noi gli abbiamo sfondato la porta! >. Adesso lei, Davide e Giuseppe sghignazzano. Chiaramente mi sono persa qualcosa di epico.
< Era l’una di notte, e lui era spaventatissimo, in pigiama e… senza parrucchino! Buahahaha! >.
Scoppiano tutti a ridere, me compresa.
< Così > riprende lei, ancora scossa dalle risate < si è messo a urlare che dovevamo andare via! Ahaha! Vedessi come si vergognava! Ahahahaha! >. Chiaramente non ce la fa ad andare avanti, allora continua Davide che è rosso in faccia:
< Si è chiuso in camera da letto, così gli abbiamo devastato la casa! Ahahaha! continuava a gridare dalla sua stanza, ma noi non lo stavamo a sentire! Ahahah! >. Si asciuga le lacrime, prende un respiro profondo e riattacca:
< Gli abbiamo detto che tutti ti volevamo come guardia, ma lui ribatteva con frasi del tipo “niente da fare” “qui comando io” e “le donne devono stare in cucina” e Francesca- > viene interrotto da lei stessa che dice:
< Aspetta, aspetta! Ahahah! Questo pezzo voglio raccontarlo io! Quando ho sentito questa frase ho sparato alla maniglia della porta della camera, sono entrata e ho sparato a tutti i mobili, gli arredi e quant’altro ci fosse, gli ho lasciato la stanza come un colabrodo! Ahahaha! >.
< Oddio, non ce la faccio più! Ahahaha!  > urlo in preda alle risate < e poi cosa è successo? >.
< Mosè gli ha tirato via i pantaloni, lasciandolo in mutande, lo ha legato e lo stava per portare in strada, quando il sindaco si è arreso! Ahaha! >.
Che peccato, mi sarebbe piaciuto che quella faccia di merda fosse umiliata davanti a tutti.
< Ahaha! > anche Giuseppe se la ride di gusto < dovevi vedere quanto era spaventato! Ahahaha! ha accettato di farti entrare nel corpo di guardia e di farti fare anche qualche scambio commerciale sulle altre montagne in cambio del nostro silenzio sul suo parrucchino! >.
Mi sento felice, finalmente ho ottenuto quello che volevo.
 
Dopo la colazione mi sento già molto meglio, salgo a vestirmi e noto delle bende nuove e cerotti.
Faccio in fretta, devo assolutamente parlare con mamma. So che adesso che sono sveglia lei si è tranquillizzata, ma io devo sapere perché mi ha mentito su papà.
Scendo di nuovo, Asso mi attende sulle scale. Lo accarezzo sulla tesa e dico:
< Dopo giochiamo un po’, va bene? Adesso ho da fare >. Guaisce, sembra un po’ deluso: è da quando siamo qui che gli dedico poco tempo. In salotto c’è solo Francesca.
< Dov’ è mia mamma? >.
< È andata dal dottore, ha detto che torna subito >.
< Ok, grazie >.
Forse è andata da Marco a prendere qualcosa per me, la aspetterò qui.
Francesca è seduta sul divano e legge un libro, una copia della Divina Commedia. Non mi sarei mai aspettata che le piacesse la letteratura. Mi siedo accanto a lei e Asso, che mi ha seguita, appoggia la testa sulle mie gambe ed elemosina qualche carezza.
< Non pensavo ti piacesse Dante > dico per attaccare bottone.
< Mi piace tantissimo, ci ho fatto anche la tesi di laurea >.
Ci resto di sasso.
< Sul serio? Sei laureata? In cosa? Non pensavo… >.
< Ahahah! Beh, essendo solo una sarta, nessuno pensa che abbia anche un’istruzione > mi risponde sorridendo. Deve aver notato la mia faccia imbarazzata, non volevo certo offenderla in alcun modo.
< Dai, non crucciarti: lo pensano tutti quando mi conoscono poco. “Fai la sarta quindi sei poco intelligente”. Lo capisco benissimo, anche io quando vedo un operaio o un contadino penso che abbia solo la licenza di terza media. Come vedi, neanche io sono immune agli stereotipi >.
Mi scompiglia i capelli corti e ricci con fare affettuoso, non se l’è presa.
< Comunque, sono laureata in letteratura italiana >.
E chi l’avrebbe mai detto?
 
Io e Francesca disquisiamo per un buon quarto d’ora su libri e autori, risvegliando in me quel desiderio di lettura che non provo ormai da settimane, quando la mamma entra in cucina.
< Sono tornata! Valentina, ti ho portato una pomata che mi ha dato il dottore per i dolori muscolari. Dovrei dirti di usarla con parsimonia, ma sono sicura che tu lo sappia già, previdente come sei >.
< Mamma, che ne dici se facciamo due passi? >.
La domanda le pare sospetta. Dimenticavo che è mia madre.
< Sai, anche se siamo qui da giorni, non abbiamo mai avuto tanto tempo per parlare e passare un po’ di tempo insieme >.
< Va bene > acconsente lei < tanto mi hanno dato la giornata libera per prendermi cura di te >.
 
Io e la mamma passeggiamo per le strette viuzze di Oasi, chiacchierando tranquillamente del più e del meno. Anzi, forse è più corretto dire che lei parla pacatamente mentre io mi scervello su come introdurre l’argomento papà.
Per mia fortuna, non devo aspettare molto che lei stessa comincia a parlarne:
< Valentina, credo di sapere perché tu sia voluta uscire con me >.
< Ah sì? In realtà io non volevo parlare di nulla in particol- >.
< Ti ho mentito su papà > dice tutto d’un fiato interrompendomi.
Bene, non devo più chiederle niente. Male, se ha detto una bugia c’è qualcosa sotto.
< Perché? Come mai non mi hai detto la verità? > domando delusa.
Il suo sguardo si fa triste, si sente in colpa. Mi prende la mano e si siede sui gradini di una casa disabitata, facendomi accomodare accanto a lei.
< Hai visto tuo padre tra quegli zombie, vero? >.
< Come fai a saperlo?! Davide era l’unico a conoscerlo e non era abbastanza vicino per vederlo! >.
< Sei mia figlia, ti conosco bene, so che non ti saresti mai arrabbiata così tanto per una sciocchezza. Dovevi per forza aver visto qualcosa che ti ha fatta andar via di testa, così chiedendo in giro e andando direttamente sul campo > sospira sonoramente < Ho capito tutto >.
Che abbia visto anche il cadavere? Sto per chiederlo quando continua la sua storia:
< Ho fatto fatica a riconoscerlo, ma portava gli stessi vestiti dell’ultima volta. > la voce le trema, sta per piangere < Devi sapere che mentre stavamo attraversando il paese ai piedi della montagna, tuo padre ha combattuto contro quei mostri per difendermi, ma è stato morso. Nonostante le medicazioni, dopo nemmeno venti minuti si è trasformato in uno di loro, ma… >. Si blocca di colpo e non dà segni di voler proseguire.
< Ma cosa? Mamma, devo sapere! >.
Si asciuga gli occhi umidi con la manica della giacca e dice:
< Prima di trasformarsi, lui… lui… lui mi chiese di ucciderlo > e scoppia a piangere. La abbraccio per darle conforto, mi sembra che ci siamo scambiate i ruoli: io la mamma, lei la figlia.
< Io non ce l’ho fatta! Come potevo ucciderlo? Io.. io… non potevo farlo. Così sono scappata, lasciandolo dov’era. Chissà cosa penserai di me adesso! Per colpa della mia vigliaccheria, sei stata costretta a fare quel che avrei dovuto concludere io! >.
Piange ancora, singhiozza e si copre le mani con il viso, come se si vergognasse a farsi vedere in faccia da me.
< Mamma, non devi sentirti così in colpa! Hai fatto quello che avrebbe fatto chiunque! > dico per confortarla < Come potevi sapere che me lo sarei trovato davanti? Non potevi neanche immaginarlo >.
Le spiego che non sono arrabbiata, che anche io avrei preferito raccontare una bugia, che non è colpevole di nulla.
Si calma un poco, pare convinta, ma so che questo peso la perseguiterà per il resto dei suoi giorni.

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Capitolo 20
*** Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino ***


10 marzo 2014 da mezzogiorno a notte fonda


È da quasi due mesi che faccio la guardia e devo dire che mi piace.
A volte viaggio due o tre giorni per le montagne vicine, oppure vado a caccia nei boschi, ma per la maggior parte del tempo il mio lavoro è vigilare le barriere.
Ma… da qualche giorno si sta parlando di mandare i soldati in città a recuperare beni utili, perché qui le scorte stanno calando. Dove vanno a finire non lo so, visto che siamo in pochi, fatto sta’ che abbiamo bisogno di un sacco di roba.
Il mio turno ricomincia tra mezzora, quindi faccio un giretto con Davide.
< Non ti pare che la situazione sia strana? > mi domanda.
< Sì, se ti riferisci alle scorte. Ricordo che gli allevatori e i contadini hanno donato quasi tutto, come fa il cibo a essere già a metà? Le porzioni sono piccole, i pasti solo tre e i depositi sono sempre sorvegliatissimi. Sento puzza di bruciato >.
< È proprio quello che intendevo, è troppo strano. Adesso torniamo a fare la guardia, stasera ne parliamo con Francesca e Giuseppe >.
< Ok, a dopo >.
 
Cammino verso casa, ho appena finito di cenare e, novità delle novità, la porzione era più piccola del solito. A questo punto, se fossi a casa mia, andrei di nascosto a frugare nella dispensa, peccato che ora sia infestata dagli zombie.
Anche le mensole e gli scaffali di Giuseppe sono vuoti, e ci restano sì e no quattro bistecche congelate sotto un cumulo di neve, un pugno di zucchero una scatoletta di piselli.
Prima di mangiare sono andata a trovare la mamma che cucinava la cena, e ha confermato che le scorte sono calate troppo in fretta anche per lei.
< Da almeno due settimane, ogni giorno entro nei depositi con due donne a prendere quello che ci serve, ma la mattina successiva sembra che manchi più di quanto abbiamo preso, e quando ne parliamo alle guardie dicono che è impossibile che qualcuno entri e porti via la roba >.
Ecco cosa mi ha detto, e se lo ha notato lei che ci va tutti i giorni, deve essere vero.
Prima di entrare in casa sbatto i piedi per pulire gli scarponi dalla neve, poi varco la soglia. Neanche il tempo di poggiare un piede all’interno che Asso mi accoglie festoso e scodinzolante.
< Ben tornata! > mi saluta Giuseppe < Com’è andata oggi? Ho sentito dire che le barricate hanno bisogno di qualche rinforzo >.
< Sì, ma reggono ancora bene. Oggi abbiamo costruito 4 m di muro in legno e quando sarà finito, potremo riempire lo spazio tra le due barriere con calcinacci e sassi >.
< Sembra un progetto bello grosso > dice sorpreso < Ci vorrà parecchio tempo >.
< Già, il capocantiere dice almeno due settimane, ma è sicuro che il primo muro resisterà senz’altro >.
Stanca morta, mi lascio cadere sulla poltrona di fronte a Giuseppe. Asso si siede per terra alla mia sinistra e gli accarezzo la testa.
< Gli altri due dove sono? > domanda il boscaiolo.
< Francesca e Davide si sono trattenuti ancora qualche minuto in mensa. Io sono tornata perché ho davvero bisogno di riposare un po’ >.
Sbadiglio e guardo l’orologio da polso: segna le 19:30. Ho sonno, e per tenermi sveglia decido di chiacchierare con Giuseppe:
< Come te la sei cavata oggi a caccia? >.
< Bene dai… ma sono più portato come taglialegna >.
< Perché? Cos’è successo? > domando un po’ preoccupata.
< Mah, niente di particolare, diciamo che ho mancato il bersaglio almeno tre volte. Per fortuna c’era Mosè che ha sparato alla cerva e l’ha uccisa con un colpo solo >.
< Immagino sia quella che abbiamo mangiato questa sera. Non era male, anche se per farla assaggiare a tutti, le dosi erano molto piccole >.
Da una settimana delle persone vengono mandate a caccia nei boschi molto più spesso di prima, ma se continua così, presto non ci sarà più selvaggina.
Giuseppe sta per aggiungere qualcosa ma viene interrotto dai borbottii dei due che entrano: Davide e Francesca.
< Ma sì ti dico, l’ho visto coi miei occhi! > dice lei.
< Sei sicura? > chiede l’altro.
Entrano in salotto e li salutiamo.
< Di cosa state parlando? > domanda Giuseppe.
< Ho visto una cosa molto strana. > dice la donna < Anche se era quasi completamente buio, sono certa di aver visto benissimo >.
Sono curiosissima, quindi la invito a sedersi e a raccontarci tutto. Si accomoda sul divano e incomincia:
< Come sapete, stanno riformando le squadre e i turni di guardia per fare coppie di cacciatori. Ebbene, io sono finita a sorvegliare le mura di notte. Quando un altro gruppo è venuto a darci il cambio e noi siamo tornati in città, mi sono separata dagli altri per andare all’ambulatorio. Lì c’è la Maria, sapete quella con i capelli neri che faceva la maestra? >.
Annuiamo tutti. Loro due sono diventate amiche da quando siamo giunti su questa montagna, si sono state subito simpatiche.
< Come mai è all’ambulatorio? > chiedo io.
< Perché due giorni fa è scivolata sul ghiaccio e si è rotta una gamba e slogata un braccio. Comunque, come stavo dicendo, sono andata a trovarla perché non ho avuto tempo tutto il giorno, e sapevo di trovarla sveglia a causa della sua insonnia. Quando sono uscita, neanche un quarto d’ora  dopo, mi sono incamminata completamente sola verso casa, passando per la strada principale su cui si affacciano anche i depositi di cibo.
Li stavo per raggiungere, quando ho sentito un tonfo sordo. Rasentando i muri delle case, mi sono avvicinata e ho scorto tre uomini che trasportavano dei sacchi, uno dei quali era caduto, facendo agitare non poco i misteriosi personaggi. Avrei voluto spiare ancora, ma uno stava venendo verso di me e sono scappata. Questo è tutto >.
Cazzolina, tutto combacia.
< Stavano rubando il cibo! > esclamo < Avete sentito anche voi che le scorte calano, adesso sappiamo che qualcuno lo trafuga di notte! >.
< Porca zozza, bisogna fare qualcosa! Dobbiamo dirlo al sindaco! >.
< Aspettate > dice Davide < non siamo sicuri al cento per cento. Prima di dirlo a qualcuno, dobbiamo essere certi di quello che ha visto Francesca >.
Non ha tutti i torti, ma quello che lei ha raccontato mi basta. Comunque…
< Allora stanotte andremo a vedere cosa succede > dico.
< Cosa?! Potrebbero vederci! > sostiene Francesca.
< Non c’è pericolo. Andremo là mezzora prima di quando ci sei andata tu, e ci nasconderemo nella casa accanto, che è disabitata come quasi tutte quelle intorno. Dobbiamo vedere cosa succede >.
Tutti sono d’accordo.
 
Alle 11:30 usciamo di casa di soppiatto, portandoci dietro anche Asso. Se non faceva rumore con gli zombie non ne farà nemmeno stanotte.
Camminiamo nel buio e la neve scricchiola sotto le nostre scarpe; piccoli aliti di vento si insinuano nei nostri cappucci facendoci rabbrividire.
Stiamo per svoltare un angolo quando la lice di una lanterna illumina un strada a destra. Siamo un po’ presi dal panico, ma ci nascondiamo dietro dei bidoni e l’uomo si allontana senza accorgersi di noi.
Sospiriamo di sollievo: per fortuna.
Procediamo il più silenziosamente possibile fino a una casa dalle finestre sbarrate e l’intonaco esterno che si stacca.
< Bene > sussurra Francesca < era proprio qui. Vedete quello? È il deposito. Forza, entriamo >.
La porta è chiusa, ma è così vecchia e marcia che non fa resistenza sotto la spallata di Davide, aprendosi al primo colpo.
Entriamo nella stanza completamente buia.
L’aria è viziata e polverosa, sa di muffa e umido. Accendiamo le torce.
Il pavimento in legno perde schegge, le sedie stanno in piedi per miracolo, i mobili sono tutti impolverati e tarlati, i muri hanno macchie di muffa e la carta da parati pende i più punti. La casa degli orrori, insomma.
Andiamo al primo piano, dove le stanze sono messe nello stesso stato, e ci fermiamo in quella che dà sul deposito. Spegniamo le torce e alla tremolante luce di qualche fiammifero, stacchiamo le assi che chiudono la finestra con l’aiuto del mio coltellaccio. Tanto da qui le guardie non possono vederci perché siamo alla loro destra, e loro fanno caso solo a quello che hanno davanti e ad altezza uomo.
La luce lunare entra nella stanza e illumina la corte di qualche metro quadrato davanti ai magazzini.
< OK > dice Francesca a bassa voce < aspettiamo mezzora e vediamo che cosa succede >.
Ci sediamo sul pavimento freddo mentre uno di noi, a turno, tiene d’occhio lo spiazzo in cemento dove vigilano le guardie.
Non c’è niente da fare: niente torce e chiacchiere per non farci scoprire, nessun passatempo.
Come se non bastasse, fa un freddo boia: la luce che entra dalla finestrella illumina il nostro fiato che si condensa, e il mio culo si sta congelando.
Abbiamo sopportato di peggio, cosa saranno mai trenta minuti, un’ora o due passate qui? Niente. Ricordo che il primo giorno di fuga dal bunker, abbiamo dormito all’aperto su una specie di cornicione, e gli zombie trotterellavano allegri nella campagna circostante. A confronto, stare qui è come rilassarsi in un centro benessere.
Non succede nulla fino a mezzanotte, quando Giuseppe ci fa segno di guardare: tre uomini si avvicinano dalla strada che passa davanti alla piazzola.
Si guardano attorno con circospezione, poi vanno a parlare con le guardie che aprono la porta. Entrano e pochi minuti dopo escono con un sacco pieno di cereali, degli insaccati e qualche scatola di lattine.
Borbottano qualcosa alle guardie e danno loro delle bottiglie e dei pacchetti.
Ok, sarà che sono paranoica io, ma a me sembrano alcolici e sigarette. Ci guardiamo esterrefatti: lo pensiamo tutti e quattro.
Quando se ne vanno, re-inchiodiamo la finestra e accendiamo le torce.
< Ok, adesso ti credo completamente > bisbiglia Davide < Dobbiamo fare qualcosa >.
< Secondo me dobbiamo seguirli e vedere dove portano tutta la roba: è impossibile che la tengano per loro, non riuscirebbero a mangiarla tutta > dico io < Qui la faccenda mi puzza. Non so perché, ma il mio istinto mi dice di non parlarne con il sindaco, ma solo con pochi amici fidati >.
< Non ti pare di esagerare? > domanda Francesca < Va bene che non andate per nulla d’accordo, ma sospettare di lui mi sembra ecc- >.
< No, fidatevi di me. Seguiamoli >.
 
Siamo usciti e passati sul retro del magazzino, così da non essere visti dalle “guardie”. Passiamo per i vicoletti che attraversano la strada principale e notiamo che si dirigono spediti verso valle.
Appena fuori dalla città due muli li aspettano: li caricano e con loro scendono alla sola luce di due lanterne.
Non ho paura di perderli, Asso ha un ottimo naso, li ritroverebbe anche in capo al mondo.
Camminiamo a distanza per almeno mezzora, seguendo le due lucine. Fa freddissimo anche se abbiamo giacche pesanti e siamo stretti nei mantelli, siamo lenti perché vediamo a malapena dove mettiamo i piedi, ma siamo determinati, scopriremo la verità.
Con nostro stupore, le lucine si fermano di colpo, e dalla macchia boschiva, escono i fasci luminosi di tre torce elettriche.
Ci avviciniamo finché possiamo, e ben nascosti dietro una curva e uno spuntone di roccia, possiamo osservare la scena qualche metro più giù di noi.
Le loro parole ci arrivano sottoforma di indistinti mormorii, c’è un passaggio di merce, e le tre luci “nuove” danno alcool e sigarette a quelle “vecchie”. Le persone con le torce hanno delle armi e sembra abbiano meno freddo dei montanari.
Anche se sono illuminate solo dalla luna, riesco a distinguere distintamente le uniformi militari.
 


Angolo dell'autrice:
Primo: buona Pasqua! :D :D :D. Vi auguro di non dover razionare le provviste come sulla montagna di Nuova Speranza, ma di ingozzarvi come solo alle feste si può fare!
Secondo: Ma tu guarda un pò chi c'è qua... i militari! chissà cosa staranno combinando, eh eh eh :) Lo scoprirete nei prossimi capitoli!
Ancora buona Pasqua e felici uova di cioccolata, che sono buone da piccoli e anche da grandi ;)  

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Capitolo 21
*** Missione di spionaggio ***


10 marzo 2014  notte fonda


Mannaggia. Militari.
No, devo vederci male per forza. Guardo gli altri: mi accorgo che fissano la scena imbambolati e hanno la bocca aperta dallo stupore. Ok, ci ho visto bene.
Cosa ci fanno qui?
Parlottano ancora un po’ tra loro e se ne tornano nel fitto bosco da cui sono venuti.
I tre montanari, invece, stappano una bottiglia e si mettono a berla sulla strada del ritorno. Per non farci vedere, ci spostiamo di qualche metro dietro a uno spuntone di roccia, aspettando che si allontanino un bel po’.
Quando siamo sicuri di non poter essere sentiti, cominciamo a discuterne.
< Ditemi che non li avete visti, vi prego, ditemi che i militari me li sono immaginati! > Dice Francesca.
< No, li ho visti bene anche io > afferma Giuseppe.
< E pure io > fa Davide.
< Idem > concludo.
< Sentite > ricomincia Francesca < Secondo voi cosa ci fanno qui? Intendo, come mai nessuno ne è a conoscenza? Perché vogliono il nostro cibo? >.
All’improvviso mi si accende una lampadina:
< Vi ricordate l’elicottero che abbiamo visto venendo verso la montagna? Era dei soldati! Sono sicura che hanno una base ben nascosta sulla montagna e hanno finito il cibo, per questo corrompono alcuni montanari per avere il nostro! >.
Giuseppe ci pensa su ed è d’accordo con me:
< Adesso che ci penso, credo che la situazione sia più grave di quanto pensi: ricordi che il sindaco ha proibito la caccia su questo lato della montagna con scuse assurde? >.
< Sì, certo >.
< Ecco, io penso che lui sappia dei militari e credo che li stia aiutando a nascondersi. Lui permette loro di prendere del cibo in cambio di stronzate per i ‘trafficanti’ e qualcosa di importante per lui. Sapete tutti quanto è avido >.
< Ma cosa vuole per sé? > chiede Davide < E’ già il sindaco di Oasi, il che lo rende una specie di re della montagna. E perché non vuole che i cittadini sappiano delle forze armate? >.
< Non lo so > replica Giuseppe < ma la faccenda non mi piace nemmeno un po’. Non parliamone con nessuno tranne che con Mosè, di lui ci si può fidare >.
Mi viene un’idea:
< Sentite, io e Mosè domani dobbiamo andare a caccia. Gli racconto tutto e lo convinco a venire in questa zona, così magari scopriamo dove si nascondono di preciso i militari >.
< Mmm… è pericoloso, ma non c’è tempo da perdere ed è l’unico piano che abbiamo per adesso. Portati anche Asso, ti servirà per la caccia e come guardia del corpo se le cose dovessero andare male >.
< Bene. È deciso >.
Torniamo a casa salendo con fatica e rischiando di scivolare più volte sulla neve ghiacciata. Abbiamo i piedi congelati e tremiamo dal freddo.
Non posso fare a meno di essere incazzata nera: noi moriamo di fame e quel sacco di merda del sindaco vende il nostro cibo!
Brutto stronzo, aspetta che scopro cosa stai combinando e per te è la fine.
 
11 marzo 2014 dal mattino a pranzo


Mi sveglio alle 6:00, ancora stanca dalla notte precedente ma con una gran voglia di ficcanasare ovunque.
Francesca non è nel letto accanto al mio, deve essersi già alzata.
Mi vesto pesante per l’uscita e metto anche la tasca cosciale che non mi è mai servita a molto, ma che non lascio mai perché sono paranoica.
Vado in bagno, dove per miracolo dell’ingegneria l’acqua gelida esce dal rubinetto e mi lavo la faccia e i denti.
Scendo le scale e con sorpresa vedo che Mosè è già ad aspettarmi. Con lui ci sono già tutti e sanno parlando di ieri sera  presumo.
< Buon giorno scricciolina! > Dice Francesca < Stavo giusto  per venire a svegliarti >.
< ‘Giorno > rispondo ancora un po’ assonnata. Vorrei fare colazione, ma in casa non abbiamo nulla e in mensa ti danno solo pane secco e aria fritta.
< Pronta a partire? > chiede Mosè < Giuseppe mi ha già detto tutto >.
< Prontissima. Cosa dobbiamo portare? >.
< Asso, due fucili e munizioni che ho già, corde e giubbotti pesanti > risponde lui.
< Il cane c’è, le corde pure e il giubbino anche. Possiamo partire >.
 
Abbiamo camminato verso l’alto fino a quando nessuno avrebbe più potuto vederci, affondando nella neve fino a metà polpaccio.
< Adesso possiamo aggirare la città e andare verso valle > dice Mosè < tanto nessuno può più vederci >.
< Ok. Il luogo dove li abbiamo visti era vicino alle sesta curva per scendere, dove la macchia boschiva è più fitta, ma credo che la loro base sia più lontana >.
< Sì, sarà ben nascosta, ma io vivo qui da sempre e conosco questa montagna come le mie tasche: non possono nascondersi per sempre >.
Giriamo intorno al paese e scendiamo accanto alla strada, nascondendoci però tra le piante per non essere visti.
Per fortuna i miei scarponi sono impermeabili, sennò avrei tutti i piedi bagnati.
Ad Asso il freddo e la neve non danno fastidio, ma lui è un cane lupo, è normale che si trovi bene anche qui.
Raggiungiamo il punto d’incontro tra militari e schifosi traditori infami.
< Ecco, è proprio qui che li abbiamo visti ieri notte >.
< Bene, proseguiamo dentro il bosco e cerchiamo di seguire le loro tracce. Credi che Asso possa fiutare qualcosa? >.
< Se avessimo qualcosa che appartiene ai soldati potremmo. Per ora dobbiamo seguire le impronte nella neve > dico io.
< Fa niente, si vedono abbastanza bene. Il fucile è carico? Sai come usarlo? >.
< Sì, è carico e Giuseppe mi ha insegnato a sparare. Sono pronta >.
< Ok, andiamo >.
 
Camminiamo silenziosamente tra gli alberi, cercando di non far scricchiolare la neve sotto i nostri piedi.
Siamo all’erta, ma per almeno mezzora non percepiamo nulla. Mosè mi dice sottovoce:
< Secondo me si sono stabiliti nella zona delle grotte, non possono essere che lì. Ti va se andiamo a vedere? Potrebbe essere pericoloso >.
Pericoloso per loro, non per me: sono così arrabbiata che se mi capitano sotto mano, li riduco in poltiglia.
< Andiamo >.
Scendiamo di una cinquantina di metri, dove la neve è leggermente più bassa, finché vediamo da lontano una sporgenza molto grande, nella quale sono scavate delle grotte naturali di forma irregolare.
Prima di avvicinarci, controlliamo con il binocolo e restiamo esterrefatti: ci sono una ventina di uomini armati. Sono tutti accampati alla bell’ e meglio tra le grotte: tavoli di fortuna, tettoie improvvisate, oggetti sparsi ovunque, qualche civile.
Non si accorgono di noi, siamo troppo lontani.
Asso diventa irrequieto.
< Stai calmo, buono… > sussurro accarezzandolo. Lui si calma, senza più il pericolo di farci scoprire.
Guardando meglio, mi accorgo che uno dei civili è un noto politico lombardi, di nome Lucio Barbi, un gran bastardo. Si sarà nascosto qui perché si caga sotto all’idea di farsi vedere dai montanari. Con la sua politica di merda, si è fatto odiare da parecchia gente, e adesso scommetto che teme i vivi più dei morti.
< Abbiamo visto abbastanza, è meglio se andiamo > propone Mosè.
< Sì, non rischiamo oltre. Andiamo dagli altri e raccontiamo tutto >.
 
Risaliamo sopra la città, cacciando per qualche ora prendendo solo un cervo non molto grande. Lo trasportiamo a spalle fino in paese. Cavolo, quanto pesa!
Lo portiamo alle cucine dove mia mamma lo scuoia e lo cucina. Per quanto possa sembrare pesante, non sarà mai abbastanza per tutti.
In mensa ci sediamo con Davide, Francesca e Giuseppe. Raccontiamo quello che abbiamo visto e non possiamo nascondere di essere preoccupati: sono meglio armati di noi, se volessero combattere ci darebbero del filo da torcere.
< Mannaggia, è un bel problema > dice Davide < non avete visto niente che possa farvi capire perché sono lì? >.
< Secondo noi, stanno proteggendo quel sacco di merda di cane di Lucio Barbi > spiega Mosè < e secondo me, sta prendendo per il culo il sindaco. Magari gli sta proponendo di dividere con lui il potere sulla montagna >.
Penso che dividere non sia la parola giusta.
< Ascoltate > dico a bassa voce < Questa è solo un’idea, ma voglio comunque parlarvene. Sapete che il sindaco vuole mandare molte guardie in pianura per recuperare beni utili, giusto? >.
Tutti annuiscono.
< Beh, io credo che lo abbia suggerito Lucio. Con gli uomini armati fuori dai piedi, per i suoi venti o trenta soldati sarà un gioco da ragazzi impadronirsi di Oasi, e di conseguenza, della montagna intera >.
Mi guardano impauriti, sanno che potrei aver ragione: in pianura non potremmo resistere per molto agli attacchi zombie, moriremmo in molti e i militari prenderebbero il controllo del monte con la forza.
< Dobbiamo fare qualcosa > dice Francesca < Non possiamo lasciare che si impadroniscano del paese >.
< E se chiedessimo aiuto alle montagne vicine? I soldati possono essere un problema pure per loro > propone Giuseppe.
< Sì > rispondo io < ma prima dobbiamo scoprire con certezza perché siano qui >.
Interviene Davide:
< E se ci fossero altri militari anche sugli altri monti? Sarebbe meglio scoprire anche questo, ma non sappiamo di chi possiamo fidarci nelle altre città >.
< Io credo che dobbiamo sbarazzarcene da soli. Se aspettiamo gli altri, non si fa nulla > dico risoluta < avrei già un piano, ma non piacerà a nessuno >.
 




Angolo dell'autrice:
Bene, bene, bene... tra poco Valentina resterà immischiata in un'altra avventura, e dopo qualche tempo di tranquillità senza zombie, si troverà a faccia a faccia con loro!

Lupacchiotta blu

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Capitolo 22
*** Brutte sorprese ***


11 marzo 2014, da mezzogiorno a tardo pomeriggio
 

< Hai un piano? > domanda Davide.
< Sì, ma come ho appena detto, è un piano di merda >.
< Beh, intanto diccelo > mi esorta Francesca.
< No, aspetta > mi blocca Giuseppe < Qui potrebbe sentirci qualcuno. Ne parliamo a casa >.
Annuiamo tutti, è l’idea migliore.
Mangiamo in silenzio la nostra zuppa di fagioli formato baby. La spazzoliamo in un attimo, non lasciamo nemmeno una goccia di minestra da tanto che siamo affamati. Oggi manca pure il pane, praticamente siamo a digiuno!
Quanto mi fa rabbia… scommetto che quella merda di cane del sindaco starà mangiando a sazietà a casa sua! Quel porco schifoso!
Stringo con forza il cucchiaio nella mano destra, e mi ritrovo a vagare con lo sguardo nei piatti degli altri commensali. Quanto vorrei un altro boccone!
Mamma si è addirittura offerta di rubare qualcosa da mangiare per me ma se lo facesse, mi sentirei in colpa.
 
Arriviamo a casa con le pance che brontolano. Siamo di cattivo umore.
Sbattiamo gli scarponi e ci liberiamo delle giacche a vento, accomodandoci in salotto.
< Che fameeeeeeee! > si lamenta Davide.
< Se attueremo il piano, potrai mangiare così tanto da scoppiare > dico io < Siete pronti a sentire cosa penso? >.
Annuiscono e mi invitano a parlare.
< Beh, è chiaro che i militari hanno finito il loro cibo e lo rubano a noi. Questo significa che anche se combattessimo, non potremmo riaverlo indietro >.
< Questo non significa che dobbiamo sopportare i loro furti! > esclama Francesca.
< Infatti > proseguo < Se restassero sulla montagna continuerebbero a rubare, e se si unissero a noi, il cibo non basterebbe comunque. L’unica soluzione è cacciarli >.
< Ma come facciamo? Noi siamo in tanti, ma loro sono addestrati per uccidere e sono meglio armati > dice Davide < E poi, in molti non ci crederanno e rimarranno fedeli al sindaco, che sicuramente c’entra qualcosa con questa storia >.
< Il piano è questo: dobbiamo fare in modo che tutti capiscano che il sindaco, il “signor” Walter Capello, è alleato del nemico. Una volta che tutti lo sapranno, attaccheremo i militari e vinceremo. Comprendete anche voi, che un piano del genere non è attuabile, vero? >.
< Purtroppo hai ragione > commenta Giuseppe sospirando < la gente non ci crederà e noi potremmo fare una brutta fine >.
< Esattamente. Quindi, il vero piano è il piano beta: noi e pochi amici fidati tendiamo una trappola ai militari >.
Mi guardano ammutoliti. Anche il cane mi fissa come per dire : “Ma ti sei rincoglionita? La fame ti fa dei brutti effetti…”.
< Non sto scherzando >.
Silenzio più di prima.
< Allora?! Volete dirmi qualcosa o preferite restare a fissarmi così per giorni, eh?! >.
Finalmente ritornano operativi. Giuseppe dice:
< Valentina, come facciamo in pochi a batterli? Non funzionerà >.
< Certo che non funzionerà se la pensi così! Devi pensare positivo! >.
Francesca gli posa delicatamente una mano sulla spalla e una su un ginocchio, sussurrandogli:
< Falla parlare, cosa ti costa? Guarda che siamo sopravvissuti per giorni perché siamo gente in gamba, non solo per puro caso >.
Lui sospira e mi fa proseguire.
< Secondo me, almeno una decina di concittadini crederà alle nostre parole, e se non sarà così, li porteremo fino al campo base dei soldati. Una volta formato il nostro gruppo di resistenza, dovremo andare a casa del sindaco a ficcanasare: potremmo trovare prove che lo incriminino. A questo punto, useremo i corrieri del cibo trafugato e li costringeremo a fare da esca: diranno che il sindaco vuole cedere la città o cagate simili.
Loro verranno e noi, appostati in zone strategiche, apriremo il fuoco su di loro, proprio mentre attraversano il corso principale della città.
Non sto dicendo di ucciderli, ma di ferirli per bloccarli, tutto qui >.
< Il piano non è male > ammette Davide < Ma è troppo pericoloso >.
< Chi non risica non rosica > dice Giuseppe < Parlerò con Mosè, vediamo cosa ne dice lui >.
 
Dopo esser tornato dalla casa dell’amico, Giuseppe mi sembra turbato. Si siede accanto a Francesca, con la quale, io e il mio fratellone,  crediamo abbia una storia.
Gli lancio un’occhiata che dice tutto: “Visto Davide? L’avevo detto che tra loro c’è del tenero. Sgancia il cash, hai perso la scommessa. È così evidente che l’ha capito pure il cane”.
Lui alza gli occhi al cielo, è l’ennesima scommessa che perde. In verità, per sua fortuna, non mettiamo in gioco nulla, sennò sarebbe già al verde. Ma tanto non importa, perché qui i soldi non valgono più niente.
< Ho una cosa da dirvi > fa Giuseppe < Non so neanche io di cosa si tratta, ma Mosè dice che dobbiamo vederlo con i nostri occhi. Ci aspetta nella radura qui vicino, andiamo subito >.
 
È da un’ora che camminiamo in silenzio verso il campo base dei militari. Cosa ci sarà di così importante da vedere?
I piedi affondano fino alle caviglie, ma almeno non tira vento e il cielo è limpido.
Asso procede davanti a noi, girandosi ogni tanto per assicurarsi che siamo ancora dietro di lui.
Mosè è bianco come un fantasma, l’avevo visto così solo durante l’attacco zombie in cui papà… no, nn ci devo pensare, non adesso.
Faccio un respiro profondo e continuo a camminare.
Arriviamo alla solita postazione di osservazione e Mosè controlla qualcosa con il binocolo, poi ce lo passa.
< Guardate > sussurra < Date un’occhiata dietro quella tenda e quelle assi e ditemi che cosa vedete >.
Uno a uno sbirciamo attraverso le lenti del binocolo, io sono l’ultima che guarda.
No. Cazzo no.
< Ditemi che ho le allucinazioni per la fame, vi prego, ditemi che non ci vedo bene >.
Mi viene da vomitare quel poco che ho mangiato, non ci credo. Com’è possibile?
Dentro una gabbia, nascosti da alcune fronde, ci sono quattro zombie.


Angolo dell'autrice:
Capitolo un po' cortino, lo so, ma ho un sacco da fare a scuola e non ho avuto molto tempo per scrivere. Piuttosto che ritardare l'aggiornamento ho preferito postare comunque un capitolo, seppur breve.
Spero vi sia piaciuto comunque:)

Lupacchiotta blu

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Capitolo 23
*** Quando si litiga tra fratelli... ***


11 marzo 2014, tardo pomeriggio-sera
 

Cazzo, sento che mi viene l’ansia, faccio fatica a respirare. Quei cosi si muovono all’interno della gabbia, sbattendo contro le sbarre e mordendo alla cieca.
Sono marci ma non tantissimo, segno che sono stati protetti durante le piogge e le gelate: i militari devono essere qui da un bel po’, forse da prima di noi!
< Andiamo via, dobbiamo parlare di questa faccenda > sussurro. Non ce la faccio più, ho già la nausea.
Camminiamo in silenzio religioso attraverso il bosco, ma la mia faccia deve dire tutto, tanto è vero che Francesca mi tiene per mano per tutto il tragitto.
Sono sicura di essere bianca come un lenzuolo, ho la bocca asciutta e non riesco a smettere di torturarmi le pellicine della mano libera.
Com’è possibile che abbiano portato degli zombie qui?! Questa dovrebbe essere una zona sicura! Lo sanno che rischiano di infettare tutta la montagna?
Per tutto il viaggio di ritorno non faccio altro che pensare a quanto vorrei che non fossero mai arrivati qui, non avrebbero creato tutti questi problemi.
Quando entriamo in casa, mi butto sul divano senza dire una parola, fissando il vuoto.
Mi viene quasi da piangere.
Gli altri discutono, ma le loro voci mi sembrano solo borbottii indefiniti. Una mano mi scuote.
< Hey, sorellina, cos’hai? >.
< Come sarebbe a dire cos’ho?! Cosa ti pare che abbia, eh? Sono così felice di aver visto quei cadaveri ambulanti che la gioia mi ha sfinito! > urlo ironicamente.
< Hey, non rispondermi cosi! >.
< Rispondo così alle domande stupide! Prova a farmene una intelligente, magari mi degno di usare un po’ di gentilezza! >.
< Finiscila di urlarmi contro, Ti ho solo chiesto cos’hai! > sbraita Davide più forte.
< Ho che ne mi sono rotta i coglioni di morti che camminano e sindaci puttanieri che fanno i delinquenti, ecco cos’ho! Contento?! >.
< Contento un cazzo! Sei troppo nervosa, ti arrabbi per niente! >.
< Dai, calmatevi > si intromette Francesca < Non litigate >. Noi la ignoriamo completamente, siamo troppo concentrati a battibeccare.
< Non sono nervosa, semplicemente non ne posso più di questa situazione, possibile che tu non capisca?! >.
< Ma cosa credi, che a me piaccia sapere che ci sono quattro zombie nel bosco? Neanche per me è facile sopportarlo! > dice sbattendo i pugni sui braccioli della poltrona.
Mi alzo di scatto dal divano e mi piazzo davanti a lui, Giuseppe mi blocca tenendomi per le spalle:
< A quanto pare non ti dà così fastidio, visto che non riesci a capire quanto io odi questa situazione di merda! Non te ne importa niente! >.
< Allora, visto che non mi importa, sai che ti dico? Vaffanculo, bastarda! >.
< E sai io cosa ti rispondo? Vai a cagare, stronzo! > urlo chiudendo la conversazione.
Mi libero dalla presa di Giuseppe, prendo la giacca ed esco di casa sbattendo la porta. Sento che stanno urlando qualcosa dalla porta di casa, ma col cazzo che mi fermo!
Procedo a grandi passi, con le mani in tasca e la testa infossata nelle spalle. Calcio i grumi di neve che mi si parano davanti e pesto con decisine le pozzanghere ghiacciate fino a romperlo.
“Cos’hai?”. Ma che domande sono?! Li ha visti pure lui gli zombie, dovrebbe capire anche senza chiedere!
Stringo i pugni dalla rabbia, vorrei tirargli un bel cazzotto dritto dritto sul muso.
Come se non bastasse, ho una fame che non ci vedo: non so cosa darei per un pezzo di pane.
Immersa nei miei pensieri, non mi accorgo nemmeno di essere arrivata a scuola, dove mia mamma occupa una stanza.
Entro e salgo al primo piano, la prima aula è dove vive lei. La porta è aperta, quindi busso appena per annunciarmi:
< Mamma >.
< Valentina! > mi corre incontro felice < Mi fa piacere che tu sia venuta a trovarmi! >.
Mi fa qualche domanda, mi offre del tè caldo, l’unica cosa che non venga rubata da quei bastardi, e mi fa sedere su una sedia di scuola.
Lei è felice di vedermi, con la scusa del lavoro ormai la vedo poco, ma capisce al volo che sono di cattivo umore. Si siede sul pagliericcio che usa come letto e mi invita ad accomodarmi accanto a lei.
< Dimmi tutto > mi propone. Vorrei dirle che non c’è niente, che non si deve preoccupare ma sarebbe una bugia.
< Ho litigato con Davide >.
Alza entrambe le sopracciglia in un’espressione di stupore: le volte in cui io e lui abbiamo litigato si contano sulle dita di una mano.
Le spiego che tutto è iniziato per una mia rispostaccia ma che lui non avrebbe dovuto chiedermelo, avrebbe dovuto saperlo.
La mamma sospira e scuote la testa poi, sorridendo, mi dice:
< Vale, lo sai che agli uomini bisogna dire tutto >.
< Mamma, Davide non è - > mi fermo immediatamente: stavo per dire papà. No, meglio lasciar stare, ha già abbastanza problemi di suo.
< Davide non è come tutti gli altri, è un po’ più sveglio > dico a mia madre < per questo è diventato mio amico >.
< Lo so, lo so. La mia era solo una battuta > risponde accarezzandomi i capelli < Lui era solo preoccupato per te, sei come una sorellina da proteggere >.
Adesso comincio a sentirmi un po’ in colpa.
“Bel colpo venire dalla mamma Valentina, bel colpo! Adesso hai pure i rimorsi!” Penso innervosita.
< E poi > riprende lei < Sai benissimo di arrabbiarti troppe per nulla certe volte >.
< Hey, non mettertici anche tu >.
< Sto solo dicendo che a volte ti fai prendere dalle emozioni, tutto qui >.
Purtroppo ha ragione: quando stavamo scappando, mangiavo poco per via dell’ansia, quando ho visto papà tra gli zombie sono andata via di testa e adesso ho litigato con Davide.
< Ascolta > mi dice < Adesso stai un po’ qui, così ti calmi completamente, e poi vai a casa e fate pace, va bene? >.
< Sì ma… se lui non volesse? >.
Scoppia in una fragorosa risata:
< Ma figurati! Adesso Francesca e Giuseppe ne staranno parlando con lui, spiegandogli che siete tutti nervosi in questo periodo >.
Già, sapessi perché. Se anche tu sapessi della merda che c’è sotto il furto di cibo, diventeresti più irascibile di una cinquantenne in menopausa.
< È solo che i digiuni e i pasti inadeguati fanno incattivire chiunque, voi non siete gli unici > conclude.
Chiacchieriamo ancora un po’ e mi convince a darle una mano a preparare i tavoli per la cena, apparecchiando con tovaglie e stoviglie.
Le tovaglie sono solo vecchi teli trovati nella cantina della scuola e le posate e i piatti sono tutti diversi tra loro: un po’ erano della mensa e la maggior parte sono stati donati dai cittadini.
Mi sembra quasi di essere tornata ai primi giorni: fianco dolorante, diffidenza verso tutti, lavoro come cameriera. Bleah.
La mamma sta cucinando quello che è andata a prendere questa mattina: riso e verdure in scatola. Vado a vedere a che punto è. La trovo che mescola energicamente il risotto in una pentola enorme, assieme ad alte quattro o cinque cuoche che fanno la stessa cosa.
Con una scusa, mi segue in un’altra stanza, dove mi dà di nascosto una lattina di pomodori sott’olio.
< Mamma, non posso accettarlo. Tutti hanno bisogno di mangiare e io- >.
< Portalo a casa e basta. Non ti permetto di fare la fame, capito? >.
< Io… >.
< Obbedisci a tua madre e basta > mi dice con tono falsamente autoritario.
Le sorrido e la ringrazio. Sta male nel vedermi così abbattuta e vuole tirarmi su di morale.
< Adesso vai a casa e fai pace con Davide. Buon fortuna > dice facendomi l’occhiolino.
 
Per strada fa già buio e inciampo un paio di volte in pezzi di ghiaccio nascosti dalla neve. Per fortuna sono uscita con la giacca perché fa un freddo cane.
Sono vicina ormai, non me ne ero neanche accorta. Cosa dirò adesso? E se non volesse fare pace?
Queste domande mi perseguitano da qualche ora e se continuo a pensarci va a finire che non combino nulla.
Faccio un respiro profondo, apro la porta e saluto:
< Hey! Sono tornata! >.

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Capitolo 24
*** ... si finisce comunque per far pace ***


11 marzo 2014, sera
 

Nessuno risponde al mio saluto. Per forza, saranno un po’ incazzati.
La casa è al buio e solo dal salotto proviene la luce del camino.
< Hey, sono venuta a chie- >.
Ma che diavolo… in salotto non c’è nessuno!
Il fuoco è basso, quasi spento e l’atmosfera è un po’ tetra. Chiamo ancora qualche volta ma nessuno risponde. Salgo al primo piano ma anche le camere sono vuote, non c’è nemmeno il cane.
Potrebbero essere andati da Mosè o da qualche altra parte, ma lasciare il fuoco acceso… no, è pericoloso e non l’avrebbero mai fatto.
Cominciano a venirmi dei dubbi, ho un bruttissimo presentimento.
 Corro a casa di Mosè ma anche quella è deserta, tuttavia un particolare attrae la mia attenzione. Dalla finestra che si affaccia sulla strada, posso vedere che, nel salotto buio, è tutto a soqquadro: tavolo rovesciato, mensole staccate e televisore rotto.
L’adrenalina è a mille, ho le mani sudate e il cuore batte come un matto.
Un pensiero spiacevole si fa strada nella mia testa ed esplode prima che io possa fermarlo, prima che mi terrorizzi: sono stati presi dai militari.
Per accertarmene corro sul retro della casa di Mosè e vedo che la porta di servizio è sfondata. La neve è tutta calpestata e qua e là ci sono delle macchie di sangue.
Cazzo, cazzo, cazzo! Come faccio ora?! Non posso chiedere agli altri che sono stati avvertiti da Mosè, rischierebbero anche loro.
E sono stai rapiti senza che io potessi scusarmi! Non sanno nemmeno che mi dispiace! E se li uccideranno? Non potrò mai fare pace con Davide!
Sto per piangere, sento che le lacrime stanno per uscire, ma presto la rabbia e l’odio prendono il posto della disperazione.
Stringo i pugni e corro verso casa, rischiando anche di scivolare su una lastra di ghiaccio.
Quando sono dentro so già cosa fare, non devo nemmeno pensarci: se casa mia è ancora ben ordinata, significa che tutti sono stati portati via in fretta o che sono stati attirati fuori con l’inganno, e che forse stanno bene.
Sicuramente Mosè è ferito, ma qui non ci sono tracce di colluttazione e ho qualche speranza che stiano bene. Se voglio che continuino a stare bene, però, devo riportarli a casa.
Corro in camera e prendo il mio fidato piede di porco: se funziona con gli zombie, andrà benone anche per i militari.
Porto con me anche la pistola di Giuseppe e due caricatori di riserva,mi copro per bene ed esco sul retro. Come pensavo, ci sono delle tracce che portano verso il bosco.
 
Il buio del bosco sembra ancora più oscuro di quello in città, e in fondo è così: la luce lunare quasi non passa tra le fitte fronde degli alberi spogli, dei pini e degli abeti, costringendomi a camminare alla debole luce di una torcia elettrica.
Fa un freddo cane e le dita, nonostante i guanti, si stanno congelando.
Le tracce sono ben evidenti: alcune impronte di piedi ben definite e delle scie di neve smossa, segno che i miei compagni hanno fatto resistenza.
Purtroppo, mi accorgo che ad un certo punto si allargano sulla neve delle macchie che sembrano proprio sangue. Mi avvicino sempre di più alla base dei soldati e mi accingo ad abbassare ulteriormente la luminosità della torcia.
Quei maledetti bastardi, mi rapiscono la squadra e mi fanno anche avanzare al buio! Se li tro-
<  Smettila, stupido cane! > sento in lontananza. Deve essere Asso!
Ringhia e abbaia, ma dopo qualche attimo lo sento guaire. Cosa stanno facendo al mio cane?
< Ben ti sta, bestiaccia! Provaci ancora e ti faccio saltare le cervella! > urla un uomo.
Quel figlio di puttana! Se ha picchiato Asso o i miei compagni gli taglio le mani! Vorrei correre da loro ma devo resistere. Digrigno i denti e mi impongo di non intervenire subito.
< E voi state fermi! Provate a fare un altro passo falso e vi ammazzo di botte > sbraita un altro. Ormai sono vicina al campo base e riesco a vedere le sagome dei suoi occupanti grazie alle luci da campo.
Mi nascondo dietro a un cespuglio e vedo che gli zombie sono nella loro gabbia, tenuti d’occhio da due militari. La gabbia è semicoperta da dei teli e vicino è stato acceso un fuoco per non farli congelare.
Mi guardo intorno e finalmente scorgo i miei compagni: sono seduti a terra e hanno le mani legate dietro la schiena. Ognuno di loro è poi legato a un palo orizzontale tramite delle catene o delle corde.
Tremano parecchio e da qui posso vedere che Giuseppe ha una rozza fasciatura sul polpaccio destro.
Quei maledetti lo hanno ferito! E adesso cosa faranno?! Li uccideranno o li useranno per qualcosa?
Francesca trema più di tutti e si trova tra Giuseppe e Davide.
L’ultimo della fila è Mosè, che ha delle bende sulla faccia e sulle braccia. Devono averlo pestato per bene. Accanto a lui, sdraiato nella neve, c’è Asso. Non riesco a vedere come è messo e questo mi angoscia ancora di più.
Per non correre da loro devo mordermi le mani. Non ce la faccio a vederli in quelle condizioni, devo fare qualcosa! Devo liberarli!
I miei compagni sono proprio con le spalle al bosco e dietro di loro non c’è niente. La maggior parte delle guardie starà dormendo, ma due tengono d’occhio loro e due gli zombie.
Non so come fare ad avvicinarmi senza che mi vedano.
Se arrivo da dietro Davide e gli altri, le guardie mi vedranno, quindi devo attaccarle alle spalle. Per non farmi sentire da quelle che sorvegliano gli zombie dovrò agire in fretta.
Aggiro l’accampamento, ritrovandomi dietro i soldati.  Se passo da qui, quelli che tengono d’occhio gli zombie non mi vedranno.
Esco lentamente dal bosco, avvicinandomi allo spiazzo occupato da tende, casse e mucchi di roba.
Cammino con una lentezza estenuante, non posso farmi sentire. I miei piedi non sprofondano più nella neve soffice, ma scricchiolano impercettibilmente su quella compatta dell’accampamento.
Faccio una pausa dietro due enormi cassoni sovrapposti: le guardie parlano tra loro e insultano i miei compagni.
< Poveri imbecilli, pensavate che non vi avessimo scoperti, eh? Stupidi! Le vostre tracce le abbiamo notate subito! > li schernisce un uomo piuttosto alto. Dal tono della voce sembra abbia bevuto un po’.
L’altro lo segue a ruota e impreca in continuazione.
Questi porci schifosi…
Ecco, Davide mi ha vista! Sembra preoccupato, si è irrigidito subito. Si accorgono di me anche gli altri, tranne i militari che continuano coi loro discorsi.
Sembrano terrorizzati, soprattutto Francesca. Cosa avranno fatto mentre io non c’ero? Che li abbiano picchiati molto? Da qui non riesco a vedere.
Approfittando della disattenzione delle guardie, procedo quatta quatta, finché non  sono proprio a qualche passo da loro. Stringo il piede di porco e, mentre uno dei due si gira verso di me, glielo do in testa.
Cade a terra svenuto; quello alto sta per dare l’allarme ma io lo colpisco allo stomaco con un calcio, costringendolo a inginocchiarsi a terra. Con un pezzo di stoffa gli tappo la bocca e lo imbavaglio per bene, riempiendolo di pugni in faccia. Poi, gli punto la pistola alla testa, sussurrandogli:
< Solo una parola e sei morto, intesi? >.
Con gli occhi sbarrati dal terrore e il naso sanguinante, annuisce e cessa ogni resistenza. Gli lego le braccia e le gambe come se fosse un salame. Gli allenamenti di kick-boxing sono stati decisamente utili.
I miei compagni sono silenziosi, ma i loro occhi mostrano paura e fretta di scappare.
Con il coltellaccio che porto sempre nella tasca cosciale taglio le corde, poi sciolgo i nodi delle catene di Mosè.
Asso alza il muso dalla neve, mostrando il naso sporco di sangue. Ha dei tagli sul fianco destro e barcolla un po’,ma si regge in piedi.
Tutti gli altri sono messi più o meno come lui: visi ricoperti di lividi, labbra spaccate e piccole ferite qua e là.
< Adesso dobbiamo scappare > dico sottovoce < potrebbero accorgersi di noi in qualunque momento >.
< E gli zombie? > domanda Mosè, debole a causa del freddo e dell’emorragia < li dobbiamo uccidere >.
< No, è pericoloso > rispondo < Dobbiamo andare via >.
< No e ancora no. Dobbiamo farli fuori adesso. Se scappiamo senza agire, loro avranno il tempo di preparare il contrattacco >.
< Valentina, forse Mosè ha ragione > fa Giuseppe < dobbiamo farlo ora >.
< Cosa? Ma siete tutti pazzi? >. Non so se riuscirò a non urlare ancora a lungo, mi fanno diventare matta.
< Vale, adesso che siamo tutti insieme sarà meno pericoloso > dice Francesca.
< Voi siete pazzi, vi hanno dato troppe botte in testa >.
< No > mi rassicura lei < fidati, siamo relativamente al sicuro >.
La fisso esterrefatta. Al sicuro?! Ma è scema?!
Poi guardo gli altri e mi accorgo che sembrano tutti troppo tranquilli.
< C’è qualcosa che non so? >.
< Sì > risponde Giuseppe < Devi sapere che oggi, dopo che te ne sei andata, abbiamo messo del sonnifero in polvere dentro alcuni sacchi di cibo. Li abbiamo sistemati subito dentro il magazzino, cosicché fossero i primi a essere visti e ad essere rubati >.
Si interrompe e Francesca continua il racconto:
< Avrebbero dovuto portarli via domani sera,ma per qualche ragione sono venuti prima. Volevamo avvertirti al tuo ritorno, ma ci hanno rapiti prima. Hanno trovato la chiave della porta di servizio, sono entrati e puntandoci le armi addosso ci hanno minacciati >.
< Non potevamo fare resistenza > comincia Davide < Erano in troppi per noi. Fortunatamente, anche se hanno rintracciato Mosè, non sanno che anche tu hai visto il campo base, così hanno portato via solo noi. Questa sera hanno mangiato e si sono ritirati quasi tutti pensando di avere solo un po’ di sonno, ma è già da un pezzo che dormono >.
< Volevate farli addormentare per colpirli nel sonno con l’aiuto di altri paesani, giusto? >.
Annuiscono tutti.
Chiedo come mai le guardie sono sveglie e mi dicono che loro avevano già mangiato prima o che non hanno mangiato le stesse cose.
< Allora possiamo far fuori gli zombie? > chiedo più rilassata.
< Sì > risponde Giuseppe.
Gli ridò la sua pistola, gli altri prendono dei bastoni e andiamo nel bosco. Camminiamo fino ad essere alle spalle delle guardie e poi le attacchiamo. Una finisce a terra svenuta dopo una mazzata di Davide e l’altra la colpisco io.
Gli zombie, marci come non ne avevo mai visti prima, camminano per la piccola gabbia. Schioccano le mascelle e muovono le braccia che perdono brandelli di carne.
Gli occhi non ci sono quasi più, in più punti si vedono i crani bianchi e hanno i ventri gonfi.
Puzzano come dei… degli… sì, come degli zombie.
< Pronti? > chiede Mosè con una strana luce negli occhi.
< Pronti > affermiamo in coro.
Prendiamo la mira e dalle sbarre uccidiamo i non morti con delle stoccate dritte in testa. I loro corpi si afflosciano a terra perdendo liquidi brunastri dalle teste.
 
12 marzo 2014, mezzanotte
 

Controllo l’orologio: la mezzanotte è passata da qualche minuto.
< Ascoltate > dico a tutti < e se rapissimo Lucio Barbi? >.
< Beh, adesso dormono tutti > dice Francesca < non dovrebbe essere difficile portare via il capo >.
< Però lui è nelle tende. Se uno di loro si svegliasse saremmo fregati > dice Davide.
< Ce la possiamo fare > afferma Mosè < Siamo stanche e feriti, ma possiamo riuscirci >.
Ci dividiamo e guardiamo in ogni tenda . Infiliamo solo la testa, facendo molta attenzione a non farci sentire e finalmente, Francesca ci avverte che l’ha trovato.
Lo stronzo dorme profondamente, ha pure la bava alla bocca.
In tenda con lui ci sono quattro uomini addormentati come lui, quindi non facciamo fatica a portarlo fuori. Il suo sonno è così pesante che non si sveglia e dobbiamo allontanarci portandolo a peso morto.
< Hey, Davide > gli dico < non è giusto che porti in spalle quel coglione. Fallo portare a lui >.
Così dicendo, indico la guardia che ho imbavagliato e legato. Lo prendo per il bavero della giacca e lo fisso con uno sguardo carico di rabbia:
< Vero che non ti dispiace portarlo in spalla fino in città? In caso contrario sarò costretta a mandarti a nanna come il tuo amico >.
 
 
Camminiamo nel buio del bosco, barcollanti e stanchi.
Ci portiamo dietro il militare e Lucio. Talvolta, il soldato oppone resistenza, così ogni tanto gli mollo un pugno e riesco a farlo camminare.
Non ha neanche idea di quanto vorrei spaccargli quel brutto muso che si ritrova, lui e quel sacco di merda di Lucio.
Ogni colpo per me è uno sfogo che vorrei prolungare, si meritano di peggio per quello che hanno fatto. Dovrebbero essere massacrati dai paesani, dovrebbero patire le pene dell’inferno per averci derubati e ridotti alla fame.
Per la testa mi passano i pensieri peggiori, non riesco a farne a meno, ma ad un tratto Davide mi dice:
< Non volevo farti arrabbiare. Grazie per essere venuta a salvarci, se non lo avessi fatto saremmo ancora là e non potremmo scappare in alcun modo >.
La rabbia scema fino a scomparire, lasciando posto al pentimento.
< Fratellone, scusa se mi sono incazzata. Non è stata colpa tua. E comunque, tu avresti fatto lo stesso per me, ne sono certa >.
Il militare si ferma ancora. Non so perchè, ma non lo odio più come prima.
 


Angolo dell'autrice della ritardataria:
Eccomi con un altro capitolo! 
Il ritardo è notevole, ma da giugno gli aggiornamenti dovrebbero essere puntuali se il lavoro mi lascierà tempo e se il caldo non mi ucciderà.
E' leggermente più lungo dei precedenti, e spero vi sia piaciuto:)
Alla prossima!

Lupacchiotta blu

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Capitolo 25
*** Prigionieri al fresco ***


12 marzo 2014, notte fonda
 

Arriviamo a casa nostra ed entriamo. Il militare e Lucio li leghiamo in salotto, così possiamo tenerli d’occhio, ma noi ci spostiamo in cucina dove non possono sentire i nostri discorsi.
< Che si fa? > chiede Mosè.
< Adesso procediamo con l’altra parte del piano: catturiamo il sindaco e poi portiamo tutti e tre in piazza. Dovranno confessare davanti a tutti > risponde Giuseppe.
< Andiamo adesso dal sindaco? > chiedo io < Di sicuro non si aspetta una nostra visita, sarà facile imprigionarlo >.
< Sì, ma qualcuno deve restare a controllare i prigionieri >.
< Buona idea, Francesca > si esprime Davide < io vorrei andare a catturare il sindaco >.
Giuseppe ci divide in due gruppi: io, Francesca e Mosè faremo da guardie; lui e Davide andranno a casa del primo cittadino.
Prima che partano, Francesca benda le sue ferite come meglio può. La ferita sul polpaccio non è tanto profonda, ma ha perso parecchio sangue.
Dalla premura che Francesca ha nei confronti di Giuseppe, è chiaro a tutti che tra loro c’è del tenero. Questo mi è ancora più chiaro quando i nostri due compagni escono di casa e lei si fa subito più triste.
Mosè è quello messo peggio di tutti: è ricoperto di graffi in faccia, il naso è rotto e ha una ferita molto profonda sul braccio.
< Come mai sei messo così male? > gli domando < i miei compagni non sono stati picchiati quanto te >.
Mentre cerco altre bende e disinfettanti, mi racconta la sua storia:
< Hanno bussato alla porta sul retro. Io mi sono insospettito: perché qualcuno avrebbe dovuto voler entrare da lì? Perché non dal davanti? Armato di un bastone, sono andato ad aprire. Sono entrati come delle furie e mi hanno inseguito per tutta la casa. Quando mi hanno preso, mi hanno ridotto così più per ripicca che per vera necessità, perché mi avevano già legato come un salame >.
Tossicchiò. Aveva un maglione pesante, ma non la giacca: quelle ore al freddo lo avevano indebolito ancor di più, tanto che per un buon tratto di strada si era fatto aiutare da Davide.
< Ti fa tanto male? >.
< Un po’, ma ho passato di peggio! > rispose.
Sì, come no. Era pallido come un lenzuolo e tossiva, ma si sa come sono gli uomini, vogliono sempre fare i “machi”.
Prima disinfetto e incerotto i graffi sul viso e il naso rotto, poi mi concentro sul braccio. È messo maluccio.
I bordi sono irregolari, in alcuni punti è più profonda; il sangue rappreso la ricopre e la rende ancor più brutta.
La lavo per bene con acqua calda e disinfetto, ma per le mie capacità è troppo grave.
< Appena questa faccenda è finita, ti portiamo dal dottore. Intanto andrà bene così >.
< Grazie > risponde tossicchiando.
Vorrei dargli del tè caldo, ma non ne abbiamo più. Penso che potrei offrirgli qualcosina da sgranocchiare, ma non abbiamo più nemmeno quello.
Tutta colpa di quei bastardi.
Mi giro verso il salotto: uno ancora dorme, l’altro è vigile e attento, ma dopo tutte le botte che ha preso non tenterà di fuggire.
Anche Francesca li sta osservando, appoggiata allo stipite della porta. Ha la fronte corrugata, le braccia conserte e i denti stretti.
Non ci vuole un genio a capire cosa pensa, anche lei è incazzata nera, soprattutto per come hanno trattato Giuseppe, suppongo.
Vorrei chiederle dei particolari sul rapimento, ma prima che apra bocca, Asso mi si avvicina mogio mogio.
Cazzo, preoccupata com’ero per gli altri mi sono quasi dimenticata di lui!
< Asso, vieni >.
Lui mi annusa la mano e io non gli nego qualche carezza. Povera bestia, l’hanno trattato come un sacco da boxe.
A vederlo così, mi monta una rabbia tale che potrei abbattere un toro. Non so se sto facendo bene, ma uso gli stessi medicamenti anche per lui. Spero vadano bene sia per gli uomini che per i cani.
Per fortuna, come tutti i cani-lupo, è forte e resistente. È messo male ma ce la farà.
Mi accorgo però che è dimagrito un sacco e posso sentirgli le costole sotto il pelo.
Questa fame è tutta colpa di quei sacchi di merda!
Animata da un’intensa rabbia mi avvicino con passo svelto al militare, fissandolo con due occhi di fuoco.
Gli tolgo il bavaglio con poca delicatezza e gli chiedo:
< Come ti chiami?!Come mai siete sulla montagna?! Che cosa siete venuti a fare?! >.
Il soldato sussulta e deglutisce.
< Allora, sei sordo?! >.
L’uomo, ricordatosi delle botte già prese, preferisce parlare:
< Pietro. Abbiamo solo fatto da scorta a Lucio, noi militari non c’entriamo niente! >.
< Bugiardo! > esclama Francesca avvicinandosi < Siete o non siete stai voi a rubare il cibo?! Siete o non siete stati voi a rapirci e picchiarci?! Eh?! >.
Non l’ho mai vista così arrabbiata, quasi quasi mi fa paura.
< Noi non- >.
< Bugiardo! > urla lei, prendendolo per il bavero della giacca < Siete complici di quella merda, dovete pagare tutti quanti! >.
Sì, fa decisamente paura vedere una donnina così minuta scuotere così forte un uomo.
Gli tira un pugno e lo imbavaglia di nuovo.
Torniamo in cucina da Mosè, discutendo a bassa voce di quale potrebbe essere stato il loro piano.
Stiamo parlando da qualche minuto, quando Mosè comincia a tremare.
< Hey, stai bene? > chiede ansiosa Francesca.
< S-sì, ho s-solo u-u-un po’ di f-fred-do. N-non è che po-po-potreste accendere il ca-camino? >.
Mentre la mia compagna lo sposta su una poltrona in salotto, io accendo il caminetto con un po’ di legna che trovo accanto al camino. È l’ultima legna asciutta che ci resta, speriamo basti per la notte.
In pochi minuti una fiamma guizzante si alza dai ciocchi di legna, riscaldando l’ambiente. Copriamo il nostro amico con delle coperte pesanti e spostiamo i prigionieri in cucina, legandoli ancora più saldamente al bancone in legno e granito.
Il soldato oppone un po’ di resistenza ma gli piazzo un pugno allo stomaco e si zittisce.
< La merda non può restare al caldo, sennò puzza di più >. E così chiudo la porta della cucina, lasciandoli al freddo e al buio.
 
Mi viene un dubbio, così tocco la fronte di Mosè. Dire che è calda è un eufemismo: è veramente bollente.
< Francesca, è peggiorato. Adesso ha la febbre >.
< Sono preoccupata, forse dovremmo chiamare il dottore >.
< A quest’ora della notte? Sono si e no le due. E poi chi resta qui con i due prigionieri? V sono legati, ma non si sa mai… >.
< Ma lui sta molto male >.
Sospiro, Francesca ha ragione. Pensavo che avremmo potuto aspettare l’arrivo del mattino, invece dobbiamo agire adesso. In più, Mosè non è più tanto giovane, potrebbero venir fuori delle complicanze.
< Pensi di potercela fare per qualche minuto? Tempo di andare a chiamarlo e tornare, farò presto >.
< Sei sicura di voler andare tu? >.
< Sì, tu resta con lui >.
Esco e vado a casa di Marco, il medico. Mi rendo conto solo ora di aver lasciato a Francesca il compito più duro.
Busso con forza, Marco mi apre e lo convinco a seguirmi fino a casa.
Una volta tornati, sono felice di constatare che va tutto bene: nessuno è scappato e Mosè è ancora cosciente.
Il medico lo visita, dà i punti al suo braccio e risistema tutte le fasciature che ho messo io.
< Non te la sei cavata male con le medicazioni > mi dice < le avevi fatte abbastanza bene >.
< Con tutte le volte che mi sono medicata da sola, qualcosa avrò pur imparato! > dico sorridendo.
< Ahah! Sì, hai fatto pratica. Comunque, tornando a te > dice rivolgendosi a Mosè < ti ho dato qualcosa per la febbre, dovrebbe calare un po’. Attento a non sforzare con il braccio destro, sennò i punti potrebbero rompersi >.
< Ok > lo rassicura flebilmente Mosè.
< Per curiosità, com’è che ti sei ridotto così? Perché Valentina non mi ha spiegato tanto bene… >.
I due compagni della ragazza la guardarono: era il caso di rivelare tutto a Marco? Tanto lo avrebbero detto comunque il giorno stesso.
No, meglio di no. Non si sa mai.
< Ecco > inizio a raccontare < Mosè era uscito perché aveva sentito un rumore strano. È scivolato e nella caduta si è tirato addosso un mucchio di robaccia che aveva impostato al muro di casa >.
< Già, coff coff! È andata così >.
< Poi è venuto da noi, per non disturbarti, sai com’è fatto. Purtroppo è messo così male che abbiamo dovuto chiamarti lo stesso >.
Il dottore annuisce e sembra soddisfatto delle nostre risposte.
< Io sono qui apposta per curare i malati. Chiamatemi ogni volta che ce n’è bisogno >.
< Certamente, lo faremo > dice Francesca < Ora però è meglio se torni a dormire, ti vedo molto stanco. Ci scusiamo ancora per il disturbo >.
Così lo accompagna alla porta e lo saluta.
< Credo che abbiamo fatto bene a non dirgli dei prigionieri. Non si sa mai che i piani vadano storti >.
< Già >.
Ci sediamo sul divano per fare compagnia a Mosè, ma lei continua a girarsi verso la cucina.
< Che ne dici se svegliamo Lucio? > chiede con una strana luce che le brilla negli occhi.
So cosa le frulla in testa, anche io sono curiosa di avere delle risposte.
< Sì, ma non essere troppo delicata >.


Angolo dell'autrice:
Eccomi perfettamente in orario!
Qualcosa si sta per muovere in questa faccenda, ma visto che sono cattiva, dovrete aspettare il prossimo capitolo per scoprirlo! XD

Lupacchiotta blu

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Capitolo 26
*** Epurazione ***


12 marzo, tra le 3:00 e le 4:00
 

Io e Francesca entriamo in cucina. Il militare è sveglio e trema un po’, Lucio dorme ancora.
Ormai l’effetto del narcotico dovrebbe essere svanito, non sarà difficile svegliarlo.
Francesca prende un secchio di acqua gelida e glielo versa in testa, facendolo destare.
< Parla, verme! Perché sei venuto sulla montagna?! Cosa volevi fare con gli zombie?! >.
L’uomo è stordito e non riesce nemmeno a guardarla dritto in faccia.
Prende un paio di sberle in pieno viso e finalmente diventa completamente cosciente.
< Allora?! Cosa volevi fare?! > urla Francesca furente.
< Dove sono? Come mai sono qui?! Rispondete! >.
Quel coglione crede di essere ancora il capo. Dopo che ci ha fatto quasi morire di fame vuole anche che rispondiamo a tutte le sue domande?! Adesso sono io a non vederci più dalla rabbia.
Gli mollo un pugno sullo stomaco e lo faccio tossicchiare.
< Sei solo un prigioniero adesso! Vedi di rispondere alle nostre domande o farai una brutta fine! > sbraito incazzata nera.
< Ahahahah! Figurati, stronza! > risponde con voce roca < Non saprete mai niente! >.
Non ci vedo più dalla rabbia: lo prendo a calci e pugni anche se è legato e non può difendersi. Lo colpisco più volte fino a fargli sanguinare il naso e a farlo piegare in due dal dolore.
< Ti ho detto di rispondere! >.
Il soldato mugugna qualcosa ma ha la bocca imbavagliata, non può interferire.
Lucio mi guarda sgranando gli occhi: forse non si aspettava una ragazza tanto violenta.
< Cosa cazzo volevi fare con gli zombie?! > gli ringhio addosso.
< Chi lo sa, forse una bella grigliata con gli amici… > dice senza la spavalderia di prima.
Io e Francesca capiamo che sta per cedere, basta insistere ancora un po’, ma la porta che si apre ci ferma prima che possiamo continuare.
< Gente, lo abbiamo catturato! > urla Davide trascinando il sindaco per terra. È legato come un salame e si dimena come un pesce appena preso all’amo.
< Non è stato facile > spiega Giuseppe < ma ce l’abbiamo fatta. Questo stronzo ci aspettava! >.
< Come v-vi aspet-t-tava? > chiede Mosè tremando.
< Ma cosa ti è successo? >.
< N-niente, Giuseppe, ho s-solo u p-po’ di f-febbr-re >.
< Mi ero preoccupato a vederti così tremante e pallido. Ma è normale, tu sei stato trattato mille volte peggio di noi >.
Davide guarda curioso i due accanto a me e alza un sopracciglio interrogativamente.
< Niente, ci pareva solo che stesse dormendo troppo, così lo abbiamo svegliato > dico io.
< Già, poi abbiamo tentato di fare amicizia, ma lui non risponde a nessuna domanda > butta lì Francesca.
Il mio fratellone fissa me, poi lei e infine i due disgraziati che ha lasciato sotto la nostra amorevole custodia.
Sospira e alza gli occhi al cielo: sapeva che ci avremmo provato.
< lo sai che sono curiosa! > mi discolpo.
Scoppia a ridere.
< Sentite > cambia discorso Francesca  <  perché non ci spiegate com’è andata? Avete detto che il sindaco vi stava aspettando, ma com’è possibile? >.
< Sedetevi > ci suggerisce Giuseppe < potrebbe essere un racconto lungo >.
Prendiamo posto sul divano e chiudiamo i tre prigionieri in cucina.
< Allora > comincia a raccontare < Siamo andati là e stranamente la porta era chiusa male. Quando siamo entrati, questo brutto codardo lardoso ci ha sparato addosso! >.
< Come vi ha sparato?! >.
< Sì, ci voleva ammazzare! Per fortuna ha preso il muro e non le nostre teste! > esclama Davide.
< Già > riprende Giuseppe < Comunque, torniamo alla storia. Abbiamo fatto fatica a prenderlo, sgusciava via come un’anguilla. Mai visto nessuno di così cacasotto. Quando lo abbiamo preso e legato, ha vuotato il sacco in un attimo. Ora conosciamo tutto il piano >.
< Ma come faceva a sapere che sareste andati da lui? > chiede Francesca curiosissima.
< Non è che lo sapesse per certo. Era stato avvertito dai militari che avevamo scoperto l’accampamento. Poi, qualcuno di loro che si è svegliato prima del dovuto, gli ha detto dei narcotici e del rapimento di Lucio, così lui si è preparato a una possibile visita >.
< E il piano? Qual’era? > domando io.
Questo è il momento della verità, adesso scopriremo perché siamo stati costretti a patire la fame, perché degli zombie erano sulla montagna, perché i miei compagni sono stati picchiati.
L’ansia mi sta uccidendo, devo sapere il perché!
Stringo il bracciolo del divano fino a conficcarci dentro le unghie, ho paura di quello che potrei sentire.
Giuseppe prende un respiro profondo e dice:
< Il piano in realtà non esiste >.
Lo guardiamo esterrefatti: cosa vuol dire che non esiste?!
< Spiegati > gli chiede Francesca.
< Non è come ci aspettavamo, loro non volevano dominare la montagna, niente complotti, niente di tutto questo >.
Non so più cosa pensare, la sorpresa mi ha lasciata di sasso, letteralmente.
< Vedete… l’Italia avrebbe potuto evitare che il contagio avvenisse così in fretta, ma Lucio Barbi ha fatto delle pressioni per tenere aperti i confini un giorno di più e il disastro è stato inevitabile. In cambio di ciò ha ricevuto delle tangenti belle grosse da un mafioso che deportava i malati clandestinamente >.
Divento sempre più pallida, me lo sento. Mi si sta facendo un nodo allo stomaco, mi sembra quasi che mi giri la testa.
< Quando ha capito di aver fatto un casino devastante, si è rifugiato con dei militari sulla montagna, portando degli oggetti che reputava utili allo scambio in un mondo ai limiti della sussistenza: alcool e tabacco. Una volta qui, è riuscito a contattare il sindaco e lo ha convinto a cedergli del cibo in cambio di non liberare i suoi zombie e la promessa di poter scappare presto su un’isola risparmiata dalla pestilenza. Inutile dire che quel coglione ci ha creduto e quel che è successo dopo lo sappiamo tutti. In poche parole, voleva vivere a scrocco il più a lungo possibile >.
Quindi, la colpa di tutte le mie sventure è colpa di Lucio? La fuga, la disperazione, il freddo, le urla, il sangue, la morte, la mia vita, la mia casa, mamma, papà… papà, ti ho perso per colpa sua? Ti ho dovuto ammazzare per la seconda volta per colpa sua?
Mi premo le mani sulla faccia, poi solo sulla bocca. Stringo i denti, respiro affannosamente, voglio urlare, quel bastardo ha ucciso mio papà!
< Quel sacco di merda deve pagarla cara! > sbotto alzandomi in piedi.
Sbatto la porta della cucina fino a romperne il vetro, afferro Lucio e lo riempio di botte.
< Devi morire, bastardo! È solo colpa tua! >.
Lui mi schernisce:
< Tanto è troppo tardi, ahahah! Anche se mi uccidi non cambierà nulla! >.
La sua felicità nel vedermi incazzata mi fa arrabbiare ancora di più. Le vene sul collo mi pulsano.
Lo riempio di calci finché il suo viso non diventa una maschera di sangue.
< Muori, muori! È colpa tua! Stronzo! >.
Davide mi strattona via da lui, mi urla di calmarmi, che adesso avrà quello che si merita, ma io non riesco a fare a meno di dimenarmi e cercare di agguantarlo ancora.
Dopo qualche minuto passato a lottare, la rabbia sbollisce un po’ e Giuseppe e Davide mi mollano.
Ha ragione lui… anche se muore nulla sarà più come prima…
Calde lacrime mi solcano il viso; sanno di rabbia, di odio, di tristezza e disperazione.
Mi accorgo che non sono l’unica a piangere: Francesca è messa come me, Giuseppe e Davide  piangono per non impazzire e non finire quello che io ho cominciato.
Possibile che un uomo solo abbia distrutto così tante vite?
Lo lasciamo in cucina ancora sanguinante. Gli altri due hanno guardato spaventati e il sindaco ha quasi vomitato dalla paura.
Giuseppe cerca di calmarsi abbastanza per parlare, poi dice:
< Ora è troppo presto, ma tra un paio d’ore riuniremo tutti e presenteremo i prigionieri. Una squadra di guardie ha già imprigionato tutti gli altri militari che stavano ancora dormendo, li ho mandati appena sono partito con Davide >.
Francesca lo prende per mano e cerca di calmarlo a parole, ma per lui è difficile trattenersi.
Facciamo ei turni di guardia mentre andiamo a dormire per un paio d’ore.
 
 
 Ore 6:30

 
Siamo tutti svegli, pronti alla marcia.
Io ho dormito pochissimo, proprio come tutti gli altri.
Carichiamo gli uomini su un vecchio carretto di Mosè e trainato dal suo cavallo.
Ci avviamo verso la piazza a passo lento. Non ho mai sentito le gambe così pesanti. Anche Asso è stanco, anzi, esausto. Chissà se ha capito qualcosa di quello che è successo negli ultimi mesi; magari non ha capito nulla. Se è così, vorrei tanto essere un cane adesso.
Arrivati alla piazza illuminata da una marea di fiaccole, vediamo che gli altri militari, circa una ventina, sono tutti incatenati e imbavagliati in file ordinate, tenuti d’occhio da almeno quaranta uomini armati.
Questi volontari, però non hanno fucili con i narcotici, gli stessi che hanno usato contro i miei compagni il primo giorno qui, hanno solo armi con proiettili al piombo.
Un sacco di gente ignara si sta riversando attorni a noi, nelle strade, sui balconi. Un sacco di facce curiose scruta la scena dalla finestra.
Un uomo su un balcone prende parola e spiega chi sono i prigionieri e cos’hanno fatto. Questo basta a far infiammare gi animi.
Le grida si alzano in un attimo, sono assordanti. Sento solo parolacce, bestemmie, pianti… vorrei unirmi a loro, ma devo stare calma.
Qualcuno cerca di superare la barriera creata dalle guardie per picchiare i militari: alcuni vengono fermati, altri mettono a segno un paio di calci.
Quest’uomo, che dovrebbe essere il vice-sindaco, parla da un po’ e finalmente giunge al verdetto: sono tutti condannati a lasciare la montagna per sempre. Non importa dove vadano, basta che non vi mettano più piede.
I cittadini sembrano scontenti, ma non hanno capito che questa è la punizione peggiore di tutte: se le altre città li accoglieranno, verranno usati come schiavi, probabilmente; se neanche loro li vorranno, saranno costretti a morire in pianura tra gli zombie.
Vengono caricati sui carri che portano il cibo alle guardie delle barricate, ma dopo neanche un centinaio di metri, vengono travolti dalla folla urlante.
Io e i miei compagni restiamo in disparte, è troppo pericoloso avvicinarsi.
Sento degli spari, i prigionieri che urlano, vedo cittadini accecati dalla rabbia alzare i bastoni su di loro. Le guardie che prima li tenevano lontani, adesso li aiutano nella loro missione assassina.
La rabbia è come una nuvola densa e asfissiante che ti entra nei polmoni, ti soffoca e ti contagia.
Il vice-sindaco prova a calmare gli animi ma è impotente; Giuseppe ci porta tutti dentro la casa da cui sta parlando perché la folla ci stava travolgendo e rischiavamo di farci del male.
Non resisto alla tentazione e vado sul balcone, ricevendo un’occhiata stupita e triste dall’uomo.
Contempliamo assieme il macabro spettacolo che si consuma poco lontano da noi: il sangue ha già sporcato la strada, molti corpi esanimi vengono brutalizzati e la folla urlante agisce come un solo uomo.
Tempo mezz’ora e le urla di rabbia si tramutano in grida di dolore e pianti di tristezza. Piangono tutti, dal più duro al più sensibile, nessuno escluso.
Piango io, piange il vece-sindaco, piangono i miei amici, piange anche mia madre che vedo affacciata a una finestra.
Adesso che li hanno ammazzati tutti non hanno più niente su cui possano scaricare il proprio dolore.
Ora capisco perché prima mi hanno fermata: avevano ragione, non è cambiato nulla. Papà non è tornato indietro, io non sono a casa mia a mangiare una pizza con tutta la famiglia, la radio non è ritornata a trasmettere canzoni d’amore, Asso non scodinzola allegro per il giardino, mamma non si complimenta per i miei voti a scuola… non è cambiato niente.
Cosa faranno adesso i paesani? Chi mi dice che non si uccideranno stanotte nelle loro case per i sensi di colpa? Chi mi assicura che non li troveremo a penzolare dalle travi del soffitto?
No, loro sono stai spinti dalla disperazione, dallo smarrimento; si sono sentiti mancare la terra sotto i piedi e hanno agito senza pensare, ma non hanno colpa di nulla. Non devono lasciarsi morire.
Ho la bocca asciutta ma sento di dover dire qualcosa. Afferro il megafono usato prima dl vice-sindaco e parlo:
< Abitanti della città di Oasi, ascoltatemi! >.
La mia voce esce tremante e rotta dall’ emozione ma vado avanti.
< So cosa provate adesso: avete paura che non ci sia un domani, avete paura di non poter resistere, credete che sia finita, ma io vi dico che non è così >.
In molti smettono di struggersi e alzano lo sguardo verso di me, ho la loro attenzione.
< E’ vero, viviamo  in un mondo crudele, ostile, assassino, intriso di tradimento. Dobbiamo soffrire la fame e il freddo, il dolore e lo sconforto, ma possiamo farcela!
Se resteremo uniti e se ci aiuteremo riusciremo a sopravvivere! Non dobbiamo farci prendere dai pensieri negativi, dobbiamo essere fiduciosi nelle nostre capacità!
Io non sono nata qui, ma da quello che ho visto, so che voi montanari siete tutto tranne che arrendevoli! Siete forti, determinati, coriacei, resistenti!
Quindi alzatevi!  Non lasciatevi portare in basso dalla tristezza, combattete! >.
A decine si asciugano le lacrime e si ricompongono, tantissimi si alzano in piedi e mi guardano.
< Chi siete voi?! Ditemelo, chi siete?! > urlo rossa in viso.
Le loro grida mi portano all’orecchio diverse risposte ma nessuna è la risposta che cerco.
< No! Voi non siete questo! Ora non siete italiani, non siete cittadini! Adesso siete tutti guerrieri di Oasi! e ditemi: cosa fanno i guerrieri?! >.
Tutti urlano come un solo uomo:
< Combattono! >.
Qualche timido raggio di sole si insinua tra le vie buie, ma non riesce ancora a illuminare bene.
Hanno ripreso coraggio e fiducia, hanno una forza che potrebbe muovere le montagne, prosciugare i mari, sciogliere i ghiacci e congelare i deserti, basta solo che se ne rendano conto.
< E allora fatelo! Combattete ogni giorno da oggi e per sempre! Giuratelo! >.
< Si! Giuro! > urlano tutti insieme. Sbattono i piedi, applaudono, gridano.
< Con il sorgere di questo giorno, dichiaro conclusa la nostra epoca oscura! Da oggi si comincia a lottare! >.
E finalmente il sole illumina la piazza: non porta solo luce, porta anche speranza.
Da adesso non si sopravvive, da adesso si ricomincia a vivere.


FINE

Angolo dell'autrice:
E anche questa storia è finita.
Valentina e i suoi compagni inizieranno un'era nuova, per davvero stavolta. Iniziano una nuova vita.
Spero che il mio racconto vi sia piaciuto e non vi abbia annoiato:)
Colgo l'occasione per ringraziare tutti quelli che hanno inserito la storia tra le seguite e le preferite, chi ha recensito, ma anche chi l'ha solo letta in silenzio. Grazie a tutti! :D

Lupacchiotta blu

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