Crazy In Paradise

di Angie Mars Halen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I.1) City Boy Blues ***
Capitolo 2: *** I.2) Looks That Kill ***
Capitolo 3: *** I.3) Bang Your Head ***
Capitolo 4: *** I.4) Save Our Souls ***
Capitolo 5: *** I.5) Young Lust ***
Capitolo 6: *** I.6) Reckless ***
Capitolo 7: *** I.7) Wild Child ***
Capitolo 8: *** I.8) A Day Late, a Dollar Short ***
Capitolo 9: *** I.9) Turbo Lover ***
Capitolo 10: *** I.10) Dream On ***
Capitolo 11: *** I.11) Born to Raise Hell ***
Capitolo 12: *** I.12) On With the Show ***
Capitolo 13: *** I.13) Nightrain ***
Capitolo 14: *** I.14) Dr. Feelgood ***
Capitolo 15: *** I.15) Too Late for Love ***
Capitolo 16: *** II.1) Falling in and out of Love ***
Capitolo 17: *** II.2) Gypsy Road ***
Capitolo 18: *** II.3) Cocaine ***
Capitolo 19: *** II.4) Communication Breakdown ***
Capitolo 20: *** II.5) Behind Blue Eyes ***
Capitolo 21: *** II.6) Boulevard of Broken Dreams ***
Capitolo 22: *** II.7) Something to Believe In ***
Capitolo 23: *** III.1) The More Things Change ***
Capitolo 24: *** III.2) Danger ***
Capitolo 25: *** III.3) Nothing Else Matters ***
Capitolo 26: *** III.4) Should I Stay or Should I Go ***
Capitolo 27: *** III.5) Can't Seem to Make You Mine ***
Capitolo 28: *** III.6) So Alone ***
Capitolo 29: *** III.7) Expresso Love ***
Capitolo 30: *** III.8) Live Wire ***
Capitolo 31: *** III.9) Heroin ***
Capitolo 32: *** III.10) Keep the Faith ***
Capitolo 33: *** III.11) Not Enough ***
Capitolo 34: *** III.12) Out in the Cold ***
Capitolo 35: *** III.13) Condition Critical ***
Capitolo 36: *** III.14) Alone Again ***
Capitolo 37: *** III.15) Til Death Do Us Part ***
Capitolo 38: *** Epilogo) Heaven ***



Capitolo 1
*** I.1) City Boy Blues ***


Disclaimer: I Mötley Crüe non mi appartengono e tutti gli altri personaggi sono di pura fantasia. Ovviamente nessuno mi paga per scrivere questa storia (sarebbe una cosa priva di senso).

N.D’.A.: Ciao a tutti!
Ebbene, Angie Mars è tornata con una nuova storia nata in seguito all’ispirazione da The Dirt e, verso la fine, anche dalla biografia di Nikki. Stavolta ho cercato di attenermi il più possibile ai fatti realmente accaduti, ai quali si intreccia la storia della protagonista e narratrice, Sharon. Con questo racconto non intendo criticare, ridicolizzare o sminuire i Mötley Crüe né gli altri personaggi celebri che faranno la loro comparsa durante il suo corso. Se ciò che ho scritto dovesse sembrarvi ridicolo o offensivo, vi prego di segnalarlo in modo che io possa rimediare al danno fatto o, nel peggiore dei casi, rimuovere la storia. Vi chiedo anche di segnalare eventuali errori grammaticali affinché io possa correggerli e rendere la lettura più piacevole.
Il racconto è diviso in tre parti e ricopre l’arco di tempo dal 1982 al 1988, per cui il ritmo sarà un po’ più veloce rispetto a quello della mia storia precedente.
Il titolo (precedentemente How Come It Never Rains? It Only Pours... dall’omonimo pezzo dei Dogs D’Amour - perdonate se nel corso delle note d’autore di questo o altri miei racconti comparirà ancora quello vecchio... evidentemente mi è sfuggito durante la correzione) è tratto dalla canzone The Idol dei W.A.S.P.. So che ci sono riferimenti allo stesso album anche nel racconto precedente, ma trovo che esso, e in particolare questa canzone, si avvicini molto alla situazione che Nikki Sixx ha vissuto negli anni '80. Ogni capitolo riporta il titolo di una canzone (nelle note d’autore sarà specificato il gruppo a cui appartiene) che può essere stato scelto o per il significato generale del brano, oppure perché anticipa ciò che accadrà in seguito.
Grazie per aver letto queste noiosissime righe, ma ho ritenuto opportuno riportarle prima dell’inizio della storia.
Buona lettura!

Angie Mars






♦♦♦♦♦





CRAZY IN PARADISE







PRIMA PARTE






1
CITY BOY BLUES





West Hollywood, CA, luglio 1982

Tante piccole zampe, tanti piccoli insetti rivoltanti si stavano arrampicando lungo le mie gambe. Correvano veloci, emettevano uno sfrigolio acuto e fastidioso, e mi trafiggevano la pelle con i loro pungiglioni. Si insinuavano sotto la maglietta di cotone leggero che indossavo da una settimana – o comunque da qualche giorno, non me lo ricordavo bene – e filavano sul ventre prima solleticandolo, poi pizzicandolo, poi divorandolo. Volevano mangiarmi. Lo sapevo perché non era la prima volta che quei bastardi tentavano di farlo. Erano assetati della mia pelle pallida e sottile, facile da trapassare con gli aculei, e adesso stavano per raggiungere anche il collo.

Mi svegliai di soprassalto, in preda al panico, e mi scoprii sofferente in un bagno di sudore, stesa su un letto disfatto in una piccola stanza maleodorante e così umida che sembrava di respirare della nebbia. Con le dita tremanti e il fiato corto sollevai la T-shirt bianca e larga per scoprirmi la pancia, rendendomi conto che non c’era alcun insetto. Lasciai ricadere la stoffa umida sulla pelle, godendo di quel contatto fresco, poi mi guardai intorno con diffidenza. La camera era decisamente più piccola di come la ricordassi e sul soffitto c’erano svariate chiazze di muffa in prossimità degli angoli. Sul comodino, stipate sopra un centrino macchiato, si trovavano alcune lattine di birra schiacciate, in mezzo alle quali svettava il collo stretto col tappo nero di una bottiglia di whisky ormai vuota. Spostai lo sguardo allucinato su una vecchia sedia sulla quale erano ammassati dei vestiti, a loro volta in parte nascosti una tenda che era stata brutalmente strappata dal bastone posto sopra la finestra. C’erano mozziconi di sigarette ovunque e bottiglie vuote in frantumi che brillavano sulla pedana blu notte, senza contare le innumerevoli cartacce e gli avanzi di cibo ormai avariati. I raggi del sole che entravano dalle fessure della veneziana incastrata illuminavano il pulviscolo atmosferico che aleggiava lentamente, si riflettevano sulla parete bianca che avevo dietro e facevano luce su un corpo disteso accanto a me. Mi stropicciai gli occhi quando lo notai e li riaprii: era ancora lì, sdraiato su un fianco e pallido come il lenzuolo sudicio nel quale era avvolto. Sembrava morto e, per quel che ne sapevo, forse lo era. Calciai via la coperta e mi avvicinai cautamente, continuando a controllarmi la maglia per il terrore che gli insetti stessero ancora camminando su di me. Quando fui abbastanza vicina gli toccai una spalla e ritrassi immediatamente la mano in attesa di una reazione, che però non arrivò. Cominciai a innervosirmi e lo urtai col palmo aperto sulla pelle liscia e appiccicosa. Il corpo, che fino a poco prima avevo creduto privo di vita, si mosse appena con un fruscio sommesso, poi una mano tremolante fece capolino da sotto il lenzuolo e si andò a posare sul viso per ripararlo dalla luce.

“Chi cazzo è?” biascicò con voce impastata mentre si girava lentamente a pancia in su. Non risposi e continuai a osservarlo in silenzio mentre la mano dalle dita sottili scivolava lungo la guancia e passava tra i capelli unti e biondi.

“Sei sveglio?” domandai inutilmente, atona.

“Sì,” rispose prima di fare un paio di colpi di tosse con i quali si liberò la gola, poi si strofinò gli occhi, ritrovandosi i polpastrelli impiastricciati di matita nera e mascara. “Che ore sono?”

Mi voltai verso l’orologio digitale sul comodino che segnava le undici del mattino e glielo comunicai, suscitando in lui una certa irritazione.

“Vaffanculo,” si lamentò, la voce soffocata dai palmi delle mani che teneva aperte sulla faccia per ripararsi.

“Dovevi essere da qualche parte?” gli domandai mentre cercavo di rimettermi in piedi e di muovermi per la stanza senza pestare frammenti di vetro.

“No, sono solo scazzato,” confessò, poi si tirò indietro la frangia, lasciando finalmente scoperti i grandi occhi castani e la fronte imperlata di sudore. “Ho la nausea.”

Mi sfregai i palmi umidi poi li passai sulla maglia larga che indossavo. “Vuoi che ti porti qualcosa?”

L’angolo destro della sua bocca fece un guizzo di disgusto. “Lascia perdere. Se vedo un altro granello di coca vomito seduta stante.”

“Intendevo qualcosa come acqua o limone, se ne hai,” specificai con tono sommesso.

Fece una risata nervosa e tornò a sdraiarsi. “In questa casa non c’è niente, nemmeno dell’acqua. Se ti fidi puoi bere quella del lavandino.”

“Come vuoi... io ho bisogno di una doccia.”

Lui agitò una mano in modo scoordinato per farmi cenno di smammare. “Questa potrebbe essere una buona idea. Se quando esci sto dormendo di nuovo, svegliami.”

Annuii in silenzio e, una volta recuperati alcuni vestiti da sopra la sedia, entrai nel piccolo bagno disordinato, chiusi la porta a chiave e mi appoggiai al lavandino. Lo specchio davanti a me, un pezzo di vetro graffiato e ricoperto da schizzi di ogni genere, rifletteva la personificazione della decadenza e della desolazione: una ragazza giovane, con gli occhi chiari e stanchi, i capelli arruffati, le labbra secche e anche un livido sulla gota che Dio solo sapeva come me lo fossi procurato.

Aprii il rubinetto dell’acqua fredda e me ne buttai qualche manciata sulla faccia per pulire i residui di trucco e sudore, ma soprattutto per svegliarmi del tutto. Solo ora, dopo che il fresco dell’acqua mi aveva ridonato quel po’ di lucidità necessaria per rendermi conto cosa fosse successo nelle ultime ventiquattro ore, mi ricordai il nome del tipo con il quale avevo appena parlato. Si chiamava Vince ed erano due giorni che non schiodavamo da quell’appartamento minuscolo in una traversa del Sunset Boulevard. Lo avevo incontrato qualche sera prima al Troubadour, subito dopo la fine del live della mia band, ed era stato lui a parlarmi per primo. Era sbucato all’improvviso mentre gironzolavo per il backstage nell’attesa che il resto del gruppo fosse pronto per andare a divertirsi da un’altra parte, mi aveva fatto i complimenti per come avevamo suonato, soffermandosi in modo particolare su un assolo di chitarra che avevo eseguito verso la fine, poi aveva cambiato bruscamente argomento, dicendo maliziosamente che aveva con sé della roba buona. All’inizio non ero sicura di aver capito bene, ma ogni dubbio fu spazzato via nel momento in cui estrasse una bustina piena zeppa di cocaina da sotto la giacca di pelle rossa. Ci guardammo in silenzio per qualche istante poi ci dirigemmo di corsa a casa sua, nella quale restammo per due giorni. In quelle quarantotto ore non oltrepassammo mai la soglia. Il massimo che riuscivamo a fare era, date le nostre condizioni, strisciare sul materasso come vermi e, una volta raggiunto il bordo, lasciarci cadere sulla moquette puzzolente che ricopriva il pavimento. Nei momenti in cui non eravamo fuori, però, riuscimmo anche a scambiarci qualche parola. Vince mi aveva parlato del suo gruppo, che conoscevo molto bene dal momento che in quel periodo stava riscuotendo un grande successo a West Hollywood, e io gli avevo raccontato del mio, una gang di quattro dei tanti angeli caduti che si erano recati a Los Angeles con la speranza di realizzare i propri sogni. Vince aveva abbozzato un sorriso astuto, divertito dal fatto che avessimo qualcosa in comune. Adesso, dopo una vacanza nel Paese delle Meraviglie per estraniarci del tutto dal mondo reale, che a volte faceva davvero schifo, eravamo ritornati con i piedi per terra. La prima cosa che ci dicemmo attraverso uno sguardo più che eloquente che ci scambiammo appena uscii dal bagno fu “ma tu chi cazzo sei? Perché sei con me?”.

Vince sbatté le palpebre, interrompendo il contatto visivo. “Adesso vai a casa?”

“Sì. Sono due giorni che mi aspettano per provare e domani sera suoniamo al Whisky.”

Un altro sorriso furbo. “Vuoi un passaggio?”

Storsi il naso: in quelle condizioni non poteva certo mettersi alla guida, anche se uno strappo a casa non mi sarebbe dispiaciuto.

Sollevò le mani in segno di resa. “Come vuoi... Shirley?”

Sharon,” lo corressi bruscamente.

“Giusto,” confermò prima di voltarmi le spalle e dirigersi verso la cucina. Sentii il rumore della veneziana che veniva sollevata e un fascio di luce dipinse una striscia più chiara sul pavimento di fronte alla porta, poi l’acqua del lavello cominciò a scrosciare. Per me era giunta l’ora di andarmene e accettai tale fatto con un sonoro sbuffo prima di girare tre volte la chiave nella serratura della porta scassata per uscire sul pianerottolo silenzioso della palazzina. La luce del sole mi colpì il viso, costringendomi a chiudere bruscamente gli occhi e, una volta che le mie pupille si furono abituate alla sua intensità, iniziai a camminare velocemente lungo la discesa di North Clark Street, la laterale del Sunset dove faceva angolo il Whisky a Go-Go, uno dei locali più famosi e frequentati di tutta la città.

Incrociai le braccia sul petto e, con i piedi e le caviglie distrutti a causa di quei dannati dieci centimetri di tacco, attraversai la strada e svoltai a sinistra. Il viale, specialmente il tratto dello Strip, a quell’ora del giorno era ridotto a una vera e propria discarica: c’erano fogli di giornale appallottolati che ruzzolavano sospinti dal lieve vento caldo della California, i frammenti e i cocci delle bottiglie rotte brillavano per terra come un’infinità di stelle nel cielo notturno, e miriadi di sigarette si erano accumulate negli angoli tra il marciapiede e la strada. Una volta calato il sole, le insegne al neon si accendevano, magenta, blu elettrico e verdi; la musica cominciava a diffondersi e i ragazzi, con le loro acconciature gonfie e foulard che penzolavano dai passanti dei pantaloni, iniziavano a invadere il viale. Ma adesso era giorno, le palme altissime erano immobili nell’aria calda e io, sotto la mia coltre di capelli e con addosso un gilet di jeans, mi sentivo scoppiare. Avevo la testa pesante, la nausea mi stava uccidendo, mi sentivo le gambe gonfie e tutto intorno a me girava lentamente e produceva suoni ovattati. Volevo vomitare ma non avrei potuto farlo dal momento che il mio stomaco era vuoto da due giorni e non vedeva alcol da otto ore.

All’improvviso, la palazzina in cui vivevo sembrò materializzarsi di fronte a me e, fatti quattro calcoli veloci, mi resi conto di essere arrivata al capolinea. Tirai un sospiro di sollievo mentre spingevo il portone di vetro e alluminio, salii le scale scalza perché farlo con i tacchi sarebbe stata un’impresa ardua oltre che rischiosa, e aprii la porta dell’interno 4, quello in cui vivevo da ormai un anno e mezzo. Le note di Money dei Pink Floyd giunsero chiare alle mie orecchie, ma solo dopo mi accorsi che qualcuno le stava seguendo con il basso. Mi affacciai alla porta della camera più piccola e vidi, seduto sulla sua branda rossa e con una gamba appoggiata sull’amplificatore, il mio amico Brett. Se ne stava lì stravaccato a suonare i suoi sordi accordi e muoveva a ritmo il capo, facendo ondeggiare i lunghi capelli castani e ondulati. Intanto fumava come una ciminiera e teneva il tempo con un piede scalzo, che batteva piano sulla moquette. Bussai contro lo stipite per fargli capire che ero tornata e lui sollevò immediatamente le dita dalle corde spesse del suo strumento, strabuzzando i grandi occhi azzurri.

“Bentornata a casa, Sharon Smith!” esclamò sarcastico, poi appoggiò il basso sul materasso e mi corse incontro per abbracciarmi. “Dove sei stata tutto questo tempo?”

Non risposi e continuai a tenere il viso premuto contro il suo petto: il suo odore mi faceva sentire a casa e al sicuro, come ormai succedeva da anni. Brett era sempre stato la mia roccia, un ragazzone non solo capace di difendermi quando io non ne ero in grado, ma anche di sostenermi quando ne avevo bisogno.

“Allora, rispondi?” mi esortò spazientito, allora mi staccai da lui e mi fissai le punte dei piedi.

“Ero a casa di un tipo,” dissi atona.

Brett cercò di andare più a fondo nella questione. “Un tipo chi? Questa città pullula di tipi.”

Mi appoggiai al muro con la schiena. “Il cantante di un gruppo che ha suonato qualche sera fa al Troubadour, lo stesso che dopo lo show ci ha provato con me senza riuscirci. La sera del nostro ultimo live è tornato all’attacco.”

“Mi chiedo come abbia fatto a convincerti,” mormorò Brett poi, senza aggiungere una parola, mi afferrò il polso e non riuscii a contrastare la sua forza mentre lo ruotava per guardarmi il braccio. “Questi cosa sono?”

La domanda gli uscì dalla gola con tono freddo e spaventato alla vista di un paio di forellini rossi sulla pelle.

“Lasciami stare, non ti riguarda.”

“Sharon, lo sai che fine farai se non smetti, vero?” mi chiese dopo avermi fermata contro la parete tenendomi per le spalle. “Te l’ha data quel biondo, lo sapevo. Ecco perché sei andata con lui.”

Lo allontanai con uno spintone. “Lasciami in pace. Sono affari miei. La via è mia e me la gestisco io, tu non sei mio padre e non devi comportarti come se lo fossi solo perché, visto che non mi ha mai considerata come avrebbe dovuto, ti senti in dovere di farlo. Sono finiti i tempi di New Orleans.”

Brett mi guardava scuotendo il capo e con le braccia incrociate come se avesse voluto rimproverarmi, ma io non gli diedi ascolto neanche quando mi pregò di rimanere con lui e corsi in camera mia, sbattendo la porta.

“Certo che voi due dovete sempre fare un fottuto casino del cazzo,” si lamentò una voce stanca nel buio della stanza. Accesi la luce e mi ricordai che condividevo quella camera con Rita Halford, la nostra batterista, il cui sacrosanto sonno era appena stato interrotto dai nostri sbraiti.

“Non ti ci mettere anche tu, per favore,” la zittii mentre mi tenevo la testa dolorante.

Rita sembrò non sentirmi nemmeno e si mise a sedere sul materasso, stropicciandosi gli occhi e passando una mano tra i folti ricci rossi. “Cosa ci hai fatto a casa dei Mötley Crüe per due giorni?”

“Secondo te?” le risposi sgarbatamente, poi arraffai un pacchetto di sigarette da sopra il comodino e ne accesi una con uno Zippo che lei aveva abilmente sgraffignato da un negozio sul Santa Monica.

Rita rivolse lo sguardo verso il cielo e si mordicchiò il labbro inferiore come se avesse voluto concentrarsi meglio. “Con chi dei quattro?”

Soffiai fuori una nuvola grigia. “Vince. Ma tanto lo sai già visto che hai sentito la conversazione di poco fa.”

La rossa inarcò le sopracciglia dello stesso color carota della chioma. “Quello con la voce da castrato?”

“Ho avuto modo di constatare di persona che non lo è,” ribattei, poi mi alzai dal pavimento, mi infilai un paio Converse in pessime condizioni e me ne andai in cucina a prepararmi un caffè, al quale aggiunsi parecchio zucchero con la speranza che mi desse un po’ più di energie. Mentre lo sorseggiavo, notai che il nostro cantante aveva lasciato un messaggio scritto su un pezzo di carta appiccicata al frigorifero con il quale mi chiedeva di raggiungerlo in un pub sul Santa Monica. Non avevo idea di cosa volesse fare, ma decisi di accontentarlo. Riposi la tazza sporca nel lavandino senza neanche riempirla d’acqua, mi diedi una sistemata ai capelli e al trucco per rendermi presentabile, poi tornai fuori senza dare ascolto alle mie povere gambe che invocavano pietà. Non salutai né Rita né Brett. Mi dileguai da casa in religioso silenzio e tornai a immergermi nella canicola e nello smog dei viali, trovando un po’ di refrigerio solo quando raggiunsi il locale.

L’orologio di metallo appeso sopra le mensole degli alcolici segnava l’una meno un quarto, del mio cantante non c’era traccia, e la voglia di rimettermi in cammino per tornare a casa ce l’avevo sotto i piedi.

“Tutto bene, cara?” mi domandò la barista, una ragazza più grande di me intenta ad asciugare dei boccali di birra con il marchio della Budweiser.

Abbozzai un sorriso mentre mi tenevo il mento con una mano. “Sto aspettando una persona, ma credo che sia già arrivata e anche andata.”

“Ah... be’, gradisci ordinare qualcosa?”

Frugai nelle tasche dei jeans e tastai solo stoffa e qualche briciola. “Non ho spicci.”

“Questi uomini!” sbottò la barista accanendosi sui boccali con lo strofinaccio umido. “Devono sempre comportarsi da stronzi.”

All’improvviso, mentre la ascoltavo inveire contro il mio cantante che secondo lei era il mio fidanzato che mi aveva dato buca, percepii una presenza oscura alle mie spalle e, prima ancora che potessi voltarmi per controllare se ci fosse veramente qualcuno o se si trattasse di un’allucinazione dovuta alla stanchezza e ai trip dei giorni precedenti, un braccio marmoreo mi passò di fianco e appoggiò qualche moneta sul bancone di granito.

“Due birre. Una per me e l’altra per la ragazza,” le ordinò una voce profonda.

Mi girai di scatto e lì, proprio sullo sgabello accanto a me, si era appena seduto un tipo con una folta massa di capelli corvini che mi guardava con aria spavalda da dietro la sua frangia spessa e sbilenca, increspando le labbra in un sorriso enigmatico e tamburellando sul granito le dita lunghe.




N.D’.A.: Ri-salve! =)
Come avete potuto constatare voi stessi, il tono è totalmente diverso da quello della mia prima storia. Sharon è un personaggio molto distante dalla protagonista precedente: è debole e spaventata, ma cambierà in fretta, spinta dalle necessità, dagli avvenimenti o di sua spontanea volontà.
Detto questo, spero che il primo capitolo sia stato di vostro gradimento e, se vi va, fatemi sapere che cosa ne pensate. Accetto anche le critiche, ovviamente.
Il secondo arriverà la prossima settimana.
Grazie a tutti coloro che sono arrivati fin qui! ;)
Sleaze kisses,

Angie


Titolo: City Boy Blues - Mötley Crüe


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Capitolo 2
*** I.2) Looks That Kill ***


2
LOOKS THAT KILL





Il ragazzo smise di tamburellare le dita e appoggiò la mano aperta sul bancone di granito, lasciandola immobile, poi ghignò. “Io e te ci conosciamo già, ma non ricordo dove ci siamo incontrati.”

Impugnai il manico del boccale che la barista mi aveva appena portato e bevvi un sorso di birra pensando che, siccome ero stata sua ospite per due giorni, per non avermi notata doveva essere stato parecchio fuori di testa per tutto il tempo. Se così fosse stato, non avrei potuto rinfacciarglielo: nemmeno io ricordavo di averlo visto in quelle quarantotto ore.

“Come ti chiami?” domandò. “Forse, se mi dici il tuo nome, potrebbe venirmi in mente dove ci siamo conosciuti.”

“Sharon,” risposi. “E se proprio vuoi saperlo, ci penso io a rinfrescarti la memoria. Ti ricordi il concerto al Troubadour di due sere fa?”

Si scostò i capelli dal viso e potei finalmente vedere i suoi occhi verdi spalancarsi per lo stupore. “Sei la chitarrista?”

“Bingo!” esclamai fingendomi divertita.

I suoi occhi freddi mi squadrarono dalla testa ai piedi. “Ora capisco perché il mio cantante voleva provarci con te a tutti i costi.”

“Per curiosità, amico, dove sei stato nelle ultime quarantotto ore?” gli chiesi sollevando appena un sopracciglio.

Lui fece una smorfia. “Che cazzo c’entra?”

“Sono stata a casa tua fino a stamattina. Lo sai questo, vero?” continuai con indifferenza.

“Sono due giorni che non metto piede in quell’appartamento,” rispose prontamente e con tono brusco.

Abbozzai un sorriso. “Allora sei giustificato. Comunque piacere, sono Sharon Smith.”

Il ragazzo annuì increspando appena l’angolo della bocca. “Nikki Sixx, ma credo tu lo sappia già.”

Non gli risposi e ripresi a sorseggiare la mia birra mentre lui, seduto sullo sgabello accanto a me, ingollava la sua senza staccarmi lo sguardo da addosso. Era davvero un tipo strano. Avevo sentito parlare molto di lui, ma sebbene avessi avuto modo di conoscere il cantante della sua band e persino di avere un diverbio con il suo batterista a causa di un furgone parcheggiato davanti al cancello di casa mia, non gli avevo mai parlato. A West Hollywood era più famoso per essere costantemente sotto acidi e per come riduceva ogni cosa gli capitasse davanti piuttosto che per le sue doti musicali – le quali, adesso che era ancora a inizio carriera, erano alquanto scarse. Tutti ne parlavano come se fosse stato una rockstar già bella e fatta, quando in realtà era sufficiente spostarsi di qualche decina di chilometri per vedere facce basite quando si domandava alla gente se conoscevano Nikki Sixx. Ad ogni modo, tutti sapevano che quel ragazzaccio dall’aspetto tosto e circondato da un’oscura aura di mistero era destinato a diventare qualcuno di importante, e proprio per questo motivo le ragazze accorrevano sbraitando come le galline quando si sparge la granaglia per l’aia, attratte dal contratto discografico che la sua band aveva ottenuto da poco più di un anno.

Lo guardai meglio e dovetti ammettere che, per quanto fossero fastidiose, quelle ragazze non avevano tutti i torti: non era per niente brutto e, sebbene avesse più eye-liner e mascara di una prostituta dell’Hollywood Boulevard, aveva un certo fascino provocante.

“Così tu sei una chitarrista,” esordì Nikki. “Io suono il basso. Direi che siamo più o meno simili.”

Scrollai le spalle. “Sì, più o meno.”

Si frugò nelle tasche e sogghignò quando rinvenne un accendino e una paglia che era stata girata senza filtro. “Vuoi? Questo tabacco è veramente buono.”

Ne accettai una e la accesi. “Il tuo gruppo mi piace. Ho assistito a parecchi dei vostri concerti e devo dire che siete dei grandi. Quando vedi il tuo chitarrista, digli che spacca.”

Nikki scoppiò in una risata fragorosa attirando l’attenzione degli altri quattro clienti presenti nel pub buio come una grotta. “Chissà mai quando lo rivedrò! Comunque lo farò non appena accadrà, te lo prometto.”

Gli sorrisi e proseguii con gli elogi. “Credo che dovreste suonare un po’ più spesso quella canzone che penso si chiami On With the Show, o qualcosa di simile.”

Non appena udì quelle parole, Nikki si rabbuiò e tornò a rifugiarsi dietro la frangia lunga e sbilenca, insaccando il capo nelle spalle. “Ti piace così tanto?”

“Potrei averla scritta io,” ammisi sottovoce, ma lui riuscì a sentirmi lo stesso.

“Però l’ho scritta io,” disse col mio stesso tono pacato.

“Scrivi tutti i testi?” domandai, e quando annuì presi a picchiettare l’indice sullo spigolo del bancone. “Anch’io nel mio gruppo sono quella che scrive i testi.”

“Ti piace scrivere?”

Mi stiracchiai, ancora intorpidita dal brusco risveglio avvenuto ormai qualche ora prima. “Ho molte cose da dire e la musica è il mezzo che utilizzo per comunicarle, anche perché se non lo facessi mi esploderebbe il cervello.”

“Ah, sì,” fece lui comprensivo. “Capisco perfettamente.”

“No, non puoi capire. Lascia perdere.”

Ci guardammo a vicenda per una buona decina di secondi, dopodiché spostammo lo sguardo sui nostri boccali di birra e, una volta constatato che erano vuoti e che nessuno di noi aveva abbastanza soldi per ordinarne ancora, ci alzammo dagli sgabelli e ci dirigemmo verso la porta di legno e vetro colorato che conduceva all’esterno.

Nikki si cacciò pesantemente le mani nelle tasche dei pantaloni di PVC che sfidavano coraggiosamente l’elevata temperatura esterna e arricciò il naso. “Perché prima hai detto che non potrei capirti?”

Mi posizionai in bilico sul bordo dipinto di rosso del marciapiede e mi portai le braccia dietro la schiena come una bambina che giocherella annoiata. “Perché è così e basta. Nessuno ci è mai riuscito e non vedo perché dovresti riuscirci tu che non mi conosci.”

Sfoderò un altro sorriso sghembo. “Potremmo conoscerci meglio, non credi?”

Mi lasciai sfuggire una risata sarcastica e fissai lo sguardo sulle chiome delle palme che costeggiavano la strada, annuendo ritmicamente. “Sai, Nikki, non credo di essere dell’umore giusto per imboscarmi con te nel bagno del pub.”

“Non intendevo quello,” ribatté in sua difesa. “Volevo solo chiederti se ti andava di suonare. Sono curioso di sentire le tue canzoni.”

Feci spallucce e fui costretta a rifiutare anche questo suo invito dal momento che dovevo trovare al più presto il mio cantante. Nikki mosse appena il capo facendo ballonzolare appena la chioma gonfia, poi tornò a fissarmi da dietro quella tenda corvina che era la sua frangia storta.

“Però se vuoi sentire qualcuno dei nostri pezzi c’è una sola cosa che puoi fare,” dissi, impegnata a tormentare un ramoscello per terra con la punta di una scarpa. “Vieni al Whisky domani sera. Ci sarà un nostro concerto, forse potrebbe piacerti.”

Nikki annuì di nuovo, stavolta con aria più abbattuta. “Mi sembra una buona idea.”

“Ci si becca al Whisky, allora,” conclusi prima di cominciare a incamminarmi. Nikki sollevò il pollice in segno di OK poi si voltò dall’altra parte, iniziando a camminare nella direzione opposta. Lo osservai mentre se ne andava ciondolando, le mani in tasca e il capo chino, calciando i sassolini e le lattine che incontrava, finché non girò l’angolo. A quel punto mi voltai e accelerai il passo, più determinata che mai a scovare quel demente del mio cantante. Mentre procedevo spedita verso casa, mi chiedevo se Nikki sarebbe davvero venuto al Whisky apposta per vederci. Pensai che, probabilmente, siccome non era riuscito a ottenere quello che aveva sperato nel momento in cui mi aveva vista da sola in quel pub piccolo e tetro, avrebbe eliminato tutti i ricordi di ogni singola parola che ci eravamo scambiati, e di conseguenza non gliene sarebbe più fregato niente del concerto di una delle tante band emergenti. Scrollai le spalle e sbuffai, poi presi la rincorsa e sferrai un calcio a una palla di fogli di giornale abbandonata in un angolo della strada: che si fotta, pensai, non è che solo perché fa parte di uno dei gruppi più conosciuti di Los Angeles può permettersi di ritenermi una come tanti altri. Io non ero uno dei tanti angeli caduti nell’immensa L.A., capolinea della strada del Sogno Americano, alla ricerca di fama, gloria e soldi, puntualmente destinati a ritrovarsi più poveri e sfigati di quando erano arrivati. Avrei spaccato il culo a tutti, io con la mia band.

Battei un pugno sulla lastra di vetro del portone principale del mio palazzo e mi fiondai su per le scale, poi aprii la porta dell’interno 4 con uno spintone dal momento che non era stata chiusa, ritrovandomi faccia a faccia con il mio cantante. Se ne stava in piedi davanti a me, con addosso solo un paio di jeans logori e un paio di texani che ormai avevano fatto il loro tempo, con tanto di bottiglia di birra in mano e i capelli dorati arruffati come il pelo di un gatto persiano reduce da una rissa sotto la grandine.

“Ti pare questa l’ora di tornare, Smith?” mi rimproverò con il suo consueto tono pacato.

“Sei tu che sei sparito dal pub, Steven.”

“Ti ho aspettata per un’ora e, siccome non arrivavi, me ne sono andato perché pensavo di trovarti a casa,” si giustificò prontamente, poi appoggiò la bottiglia ormai vuota sul tavolino da caffè del salotto, proprio accanto ai piedi di Rita, che si stava crogiolando nel tepore estivo, stravaccata sul divano, e mi puntò un dito contro. “Ho una notizia bomba per te. A dire il vero ne sono venuto a conoscenza ieri pomeriggio, ma tu non c’eri e ho potuto comunicarla solo agli altri.”

“Spara, bello, sono tutt’orecchi,” lo esortai. Se ci teneva così tanto a essere proprio lui a comunicarmi quella novità strepitosa, significava che non mi avrebbe delusa.

Steven mise un piede sull’amplificatore della mia chitarra e mi fissò dritto negli occhi. “Riguarda il concerto di domani sera al Whisky.”

“Muoviti, non ho tutta la giornata a disposizione.”

Gli occhi verdi di Steven brillarono come smeraldi. “All’ultimo momento hanno cambiato gli headliner della serata.”

Improvvisamente il grande e grosso Brett fece capolino da dietro la porta della cucina, con ancora il basso che gli penzolava dal collo e gli occhi che a momenti schizzavano fuori dalla testa per l’emozione. “Apriamo per i Mötley Crüe! E sai questo cosa significa per noi?”

Steven fece un salto e lanciò in aria i pugni serrati.

“Che il locale sarà pieno zeppo di gente perché domani tutti vorranno vedere loro, quindi avremo davanti un pubblico molto numeroso che assisterà anche al nostro live. E saranno tutti completamente fuori di testa!” si infilò le mani nei capelli e ne strinse alcune ciocche, rivolgendo il viso verso l’alto. “Così fuori di testa che sarà un fottuto concerto strepitoso!”

Ero rimasta senza parole: tutti sapevano che i concerti dei Mötley Crüe erano tra i più incasinati che West Hollywood avesse mai visto. C’era sempre una marea di gente, così tanta che spesso i locali ne lasciavano entrare più di quanto avrebbero dovuto. Il palco prendeva letteralmente fuoco – specialmente i pantaloni di pelle del bassista – e si scatenava un putiferio di braccia che si agitavano, teste capellute che venivano scosse con veemenza coordinate ai pugni, oggetti che volavano come meteore verso il palco e sopra la folla, ragazze che si strappavano i vestiti e ragazzi che cercavano di raggiungere la band sfidando gli uomini corpulenti della sicurezza.

“Allora, Sharon, cosa ne pensi?” mi domandò Rita col suo consueto sorriso largo.

Mi morsi il labbro inferiore nel vano tentativo di trattenere una risata, alla quale diedi subito libero sfogo. “Questa sì che è una notizia bomba!”

Steven si sfregò le mani e propose di iniziare le prove per essere al massimo della nostra forma la sera successiva. Mentre impostavo l’amplificatore, mi domandavo perché Nikki non sapesse che i nostri gruppi avrebbero suonato nello stesso luogo e nella stessa sera. Qualunque fosse la risposta, però, non importava: avrei avuto l’occasione di fargli vedere quanto spaccassimo.




N.D’.A.:Buongiorno!
Questo è solo l’inizio di un racconto piuttosto movimentato, e già dal prossimo capitolo ci sarà la possibilità di leggere di entrambe le band belle pronte a far danni oltre che a suonare.
Mi dispiace dirvi che per le prossime due settimane circa, per cause di forza maggiore che non starò qui ad elencare una ad una, avrò qualche problema a pubblicare, per cui ci sarà da aspettare un po’. Nel caso in cui foste curiosi di sapere come proseguirà il racconto, non temete: è già stato scritto tutto e non ho intenzione di lasciarlo ammuffire nei meandri del computer!
Spero che come inizio vi sia piaciuto. Forse è un po’ brutale, ma vedrete come nel giro di poco la situazione si capovolgerà. ;)
Fatemi sapere che cosa ne pensate. Per ora grazie a chi ha letto e alla prossima!
Glam kisses,

Angie


Titolo: Looks That Kill - Mötley Crüe


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Capitolo 3
*** I.3) Bang Your Head ***


3
BANG YOUR HEAD





Uno slide. Gli era bastato un fottuto slide per far perdere il senno a tutta quella massa di teste che emanavano vapori di lacca sciolti dal caldo delle luci. Come avesse fatto, non lo sapevo. Sapevo solo che Mick Mars poteva, mentre io no – o almeno non ancora.

A quella specie di vampiro con i capelli lunghi era stato sufficiente acchiappare l’asta del microfono e farla scorrere lungo la tastiera della sua Gibson nera con una fantasia a rombi bianchi per creare quello stramaledetto slide che io, comune mortale, infima creatura terrestre che non poteva vantare origini marziane come lui, facevo con un normalissimo e volgarissimo cilindro di metallo che mi infilavo su un dito. Che schifo, eh? Che roba da ragazzini sofisticati. E dire che c’era gente che preferiva farlo con il collo delle bottiglie. Ad ogni modo, che Mick Mars utilizzasse l’asta del microfono, il collo di una bottiglia di Budweiser o, se lo desiderava, anche i denti come faceva Jimi Hendrix, i suoi slide mandavano in visibilio la folla come se lì davanti a loro si fosse trovato il Creatore in persona, finalmente deciso a scendere sulla Terra per portarci tutti lassù con lui, sani e salvi e, soprattutto, senza patire più nulla.

Invece no. Quello era Mick Mars e, cazzo, spaccava per davvero e volevo essere come lui.

Avevo passato tutto il tempo a guardare il concerto dei Mötley Crüe sussultando ogni volta che il ritmo del basso aumentava e, adesso che era finalmente terminato, potevo andare a cercare quel chitarrista e fargli i miei più sinceri complimenti, dopodiché i nostri due gruppi si sarebbero riuniti per una serata da trascorrere a fare bagordi per Hollywood.

Mick abbandonò il palco con la sua Gibson stretta saldamente con la mano bianca, si guardò intorno con un piglio scontroso e, una volta che si fu accertato che tutto era come voleva che fosse, accelerò il passo e si mosse in direzione del camerino. Io, proprio come un cane che ha appena visto il suo padrone e non vede l’ora di corrergli incontro, mi parai davanti a lui, impedendogli il passaggio.

“Tu sei... oh, amico, cazzo!” esclamai con le mani nei capelli e gli occhi fuori dalle orbite. “Tu spacchi il culo a tutti. Ti ho visto fare della roba che–”

“Okay,” mi fermò, sollevando una mano. Il tono era pacato e i gesti lenti. “Grazie.”

Iniziai a sfregarmi i palmi sudati per l’emozione e per il caldo asfissiante di quel corridoio. “Senti un po’... se per te non è un problema, e se ne hai voglia, ovviamente, volevo chiederti di suonare con me, una volta.”

Mick tirò su col naso poi, dopo qualche attimo di silenzio che parve un’eternità, socchiuse appena le labbra, lasciandomi intendere che stesse per rispondere, invece le richiuse subito dopo. Lo guardai di sbieco e lui fece lo stesso, dopodiché prese rumorosamente fiato. “No.

Non ci mise molto a passarmi di fianco e a sparire dietro una porta, lasciandomi da sola in mezzo al corridoio come una cretina, con ancora gli occhi spalancati per lo stupore e la delusione. Una volta che riuscii a riprendermi, però, mi voltai verso la direzione nella quale si era allontanato e lo chiamai a gran voce, senza ottenere alcuna risposta. “Ehi, lo sai che sei proprio stronzo?”

Scossi il capo e mi diressi verso lo stanzino in cui le due band della serata si erano momentaneamente riunite prima di recarsi alla celeberrima Mötley House, una sorta di tempio consacrato alla dea Sregolatezza in cui vivevano i suoi tre sacerdoti preferiti e presso il quale si recavano i fedeli più devoti.

Spalancai la porta del camerino e mi ritrovai di fronte una Rita dall’aria piuttosto assonnata con una bottiglia di Smirnoff già a metà. Sullo sfondo, invece, regnava il casino più totale. Vidi Vince caracollare pericolosamente verso il divano, lasciarcisi cadere sopra a peso morto e, proprio nel momento in cui sembrava che avrebbe finalmente potuto rilassarsi, Tommy balzò fuori da sotto il tavolo, afferrò il sofà dal bordo inferiore con l’aiuto di Nikki e lo ribaltarono, facendo rotolare il cantante sul pavimento. Adesso il divano era in piedi contro la parete, appoggiato su un bracciolo, e con sotto Vince che rideva mentre mostrava il terzo dito ai compagni. Nikki rispose a tono poi si accorse della mia presenza sulla soglia della porta e sogghignò.

“Ora non manca più nessuno,” sentenziò Tommy dopo aver ingollato un copioso sorso di birra facendone cadere una buona parte sulla canottiera retata che indossava, poi lanciò la bottiglia sul pavimento, mandandola in frantumi. “Che la festa abbia inizio!”

Dopo quell’urlo primitivo Vince strillò e si rimise subito in piedi, seguito da Steven e Brett, i quali si sorreggevano a vicenda e barcollavano per la stanza brandendo i pugni. Rita mi passò davanti senza fiatare e, non appena feci per mettermi in cammino con l’allegra carovana, sentii un paio di braccia stringermi la vita e il peso di un mento sulla spalla.

“Hai una vaga idea di quello che ti aspetta?” domandò una voce profonda che attribuii immediatamente a Nikki.

Mi liberai dall’avido abbraccio con un movimento brusco. “Sono già stata a casa vostra, so benissimo cosa fate.”

Un sorriso sghembo si dipinse sul suo volto diafano. “Sì, ma non eri con me.”

Non mutai il mio sguardo tagliente nemmeno dopo quella sua affermazione che, associata a quel ghigno da furbo che aveva messo su, la diceva lunga sul suo conto.

“Non sono una delle solite puttane che incontri sullo Strip,” misi subito in chiaro fissandolo dritto negli occhi con le braccia incrociate sul petto.

Sollevò le sopracciglia e mi guardò di traverso. “A giudicare dal tempo che hai trascorso in compagnia di Vince, non si direbbe. Sai, quando ci racconta delle sue avventure non fa economia sui particolari.”

Lo fulminai con quella che probabilmente è stata l’occhiata più glaciale che abbia mai lanciato a qualcuno e lo mandai a farsi fottere, lui che non poteva capire il motivo per cui avevo accettato l’invito del suo cantante a passare un po’ di tempo chiusi nella stessa stanza. Gli era bastato mostrarmi una bustina di cocaina per convincermi a non andarmene.

Nikki mi prese per un polso e mi fece cenno di sbrigarmi prima che gli altri si allontanassero troppo, dopodiché corremmo sul viale, dove un paio di comitive si aggregarono a noi e ci seguirono fino all’appartamento, la cui porta principale era stata spalancata per permettere a quell’orda di barbari di entrare e uscire ininterrottamente. Gli schiamazzi delle persone che lo avevano invaso si sentivano fino dalla strada e non osavo immaginare che razza di vita conducessero i vicini. Ma poco importava. Avevo altro a cui pensare.

Oltrepassai la soglia con l’intenzione di sedermi vicino a Rita a bere qualcosa, ma uno strano senso di nervosismo iniziò a infastidirmi come una piccola fiamma che si accende all’altezza dello stomaco. Mi passai una mano sulla fronte e mi voltai, accorgendomi che Nikki era ancora dietro di me che si guardava intorno con le mani pesantemente cacciate nelle tasche. Improvvisamente sobbalzò e mi fece notare che il mio viso aveva un pessimo colorito, allora mi appoggiai con una spalla al muro per non scivolare per terra come un corpo che viene privato di tutte le ossa.

“Sto bene, non preoccuparti,” cercai di rassicurarlo mentre mi massaggiavo le tempie, ma un’orribile sensazione di nausea mi pervase e mi portai istintivamente le mani sullo stomaco.

“Stai così bene che stai per sboccarmi addosso,” constatò Nikki, poi si passò un mio braccio intorno al collo e si incamminò lentamente verso il corridoio. “Sarà meglio che ti sdrai da qualche parte prima che crolli.”

L’intensità della sua voce si moltiplicò in modo esponenziale nel mio cervello, accrescendo il senso di nausea e il dolore alla testa. “Non ho voglia di sdraiarmi, cazzo. Mollami.”

“E dove vuoi andare, che non ti reggi neanche in piedi?” controbatté con tono brusco.

Appoggiai il capo alla sua spalla e puntai i piedi come se stessi facendo i capricci. “Torna di là e lasciami qui nel corridoio.”

“Ti porto nella mia stanza. Almeno lì c’è un materasso.”

“Lasciami subito andare!” sbottai e, con un impeto che non mi sarei aspettata da me stessa in simili condizioni, lo allontanai con una spinta.

Nikki si fermò in mezzo al corridoio. Alle sue spalle la festa procedeva nel delirio più totale, e lui mi fissò da dietro la frangia spessa. “Sei pazza. Voi donne siete tutte pazze.”

“Vaffanculo,” scandii accompagnando la parola con un gestaccio.

“Io?” esclamò indicando la sua stessa persona. “Ma vacci tu.”

Detto questo, mi diede le spalle e tornò in salotto quasi di corsa, pronto a tuffarsi nella mischia per dimenticare quel breve diverbio. Io, invece, sapevo cosa avrei dovuto fare. Mi stropicciai gli occhi con la speranza di migliorare la mia visuale, ma ottenni come risultato solo le dita sporche di trucco. Mi accertai che i miei compagni non mi avessero vista e, quatta come una ladra, bussai alla porta della stanza di Vince.

“Chi è che rompe?” sbraitò lui dalla parte opposta.

Mi schiarii la voce ancora alterata dal malessere e feci un respiro profondo per avere nei polmoni aria a sufficienza da non dover interrompere la frase a metà. “Sono Sharon. Fammi entrare.”

“Sharon?” ripeté, poi la porta scassata si aprì di uno spiraglio e il suo viso abbronzato fece capolino. “Di cos’hai bisogno?”

Roteai gli occhi, piuttosto seccata. “Non fare finta di essere stupido.”

Vince si grattò la chioma decolorata, annuì debolmente e aprì del tutto per permettermi di entrare. Dall’altra parte della finestra c’erano due ragazze che cercavano di entrare scavalcando e, appena mi videro, mi ordinarono di sparire perché erano arrivate prima di me, ma Vince chiuse i vetri e abbassò le veneziane giallastre e ricoperte di chiazze senza dar loro nessuna spiegazione.

“Accomodati,” disse apatico indicando il materasso che apparteneva al batterista, poi spostò il suo e, prima di staccare un pezzo di battiscopa dal muro, mi puntò contro un dito con fare minatorio. “Tu non sai niente di questo nascondiglio, chiaro?”

Annuii automaticamente più per velocizzare le cose che per confermare che avrei tenuto la bocca chiusa, poi lo osservai mentre estraeva un sacchetto trasparente da una fessura nel muro. Tornò a riporre il battiscopa al suo posto, lo celò per bene col materasso, poi si sedette per terra a gambe incrociate. Sollevò lo sguardo avido mentre mi mostrava il contenuto della bustina, una finissima polverina bianca dall’aspetto innocente come quello dello zucchero a velo.

“È sempre un piacere condividere certe cose con te,” disse Vince con finta sincerità, poi un sorriso perverso si impossessò del suo volto incorniciato dai capelli biondi e spettinati. “Soprattutto quando ciò che ricevo in cambio è qualcosa di molto, molto gradito. Sempre ammesso che almeno stavolta non sarò così fuori di testa da non godermi appieno la mia ricompensa.”

“Sta’ zitto e preparami una dose,” gli ordinai, poi mi lasciai cadere sul materasso puzzolente di Tommy e mi portai un avambraccio sulla fronte per riparare gli occhi dalla luce dell’abat-jour.

Vince alzò lo sguardo dalla fiammella dell’accendino che riscaldava un pezzo di carta stagnola sulla quale aveva messo una quantità sufficiente di cocaina per entrambi. “Adesso rilassati e aspetta che la cena sia pronta.”

Lo osservai trafficare per qualche minuto, tutto preso da quel rito maledetto come se fosse stata una questione di vita o di morte – cosa che, effettivamente, era. Se ne stava seduto per terra, accovacciato su se stesso per vedere meglio nella penombra della stanza, e mi voltava le spalle come se non avesse voluto lasciarmi assistere alla preparazione delle nostre dosi. Poco dopo si voltò e sollevò la mano nella quale teneva stretta la siringa, con un ghigno che non prometteva nulla di buono.

“Questa è per te,” sussurrò biascicando, poi me ne mostrò un’altra. “E questa è per me. Buon viaggio, piccola.”

Nel giro di pochi minuti partimmo entrambi, una stesa sul materasso umidiccio del batterista e l’altro sdraiato a pancia in su sul pavimento mentre sudava come se stesse correndo nel deserto. Mi sembrò di partire a tutta velocità a bordo di una navicella, schizzare su nel cielo notturno, passare per la stratosfera e poi giungere nello spazio, dove regnava una calma surreale e in cui l’unico rumore che si sentiva era il roco gorgoglio delle stelle che bruciavano in lontananza.

Non mi ricordavo più niente. Per quel po’ che sapevo, avrei veramente potuto trovarmi a fluttuare nello spazio, sostenuta dal nulla e cullata dalle correnti siderali. Poi una mano tremante afferrò la mia e la strinse in una morsa terrorizzata.




N.D’.A.: Salve a tutti!
Mi scuso per il ritardo, ma ultimamente il tempo è scarso causa studio e impegni... ad ogni modo, se siete interessati, ecco qui il terzo capitolo!
Presto riprenderò a pubblicare con più costanza.
Per ora un grazie enorme ai miei lettori silenziosi! ❤️ Spero di sapere presto il vostro parere sul mio secondo racconto.
Glam kisses,

Angie


Titolo: Bang Your Head (Metal Health) - Quiet Riot


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Capitolo 4
*** I.4) Save Our Souls ***


4
SAVE OUR SOULS





Quando riaprii gli occhi mi ritrovai stesa sulla moquette della stanza e, se la mia memoria non mi ingannava, quando la sera precedente avevo perso i sensi ero su uno dei due materassi. Mi guardai intorno piuttosto smarrita, cercando di riconoscere delle sagome familiari nell’oscurità ma, non appena feci per cambiare il fianco su cui ero sdraiata, mi resi conto che non potevo muovermi perché qualcosa di pesante me lo impediva. Allungai una mano per tastare quella massa sconosciuta che mi pesava addosso e al tatto riconobbi che si trattava di una persona. Vince mi dormiva addosso come se fossi stata un cuscino, allora mi feci forza, puntai un gomito sul pavimento e, aiutandomi col braccio libero, lo scansai con poca grazia, facendolo lamentare. Riuscii poi ad alzarmi in piedi e mi accorsi con grande sollievo che non avevo avuto incubi spaventosi né avevo sentito più di tanto gli effetti collaterali della cocaina. Tuttavia qualcun altro sembrava non pensarla allo stesso modo.

“Sharon, potresti andare a dire a quei coglioni di là in salotto di smetterla di urlare?” biascicò Vince con la voce ancora impastata dal sonno e dalla batosta della sera precedente.

Alzai la veneziana e lasciai che la luce del sole invadesse la camera, poi mi inginocchiai sul pavimento accanto a lui. “Non c’è nessuno in salotto.”

Vince mi guardò incredulo poi si portò le mani sulle orecchie e, una volta che le ebbe spostate, passò in rassegna la stanza con lo sguardo. “Hai ragione, non sta parlando nessuno. Torniamo a dormire, ho sonno.”

Diedi un’occhiata all’orologio sul comodino di Tommy e, non appena gli annunciai che erano le undici e mezza, Vince saltò in piedi barcollando pericolosamente e si diresse verso la porta, correndo e inciampando come se portasse ancora gli stivali col tacco che aveva indossato durante il concerto della sera prima. Mentre arrancava sorreggendosi al muro annerito mi spiegò che avrebbe dovuto trovarsi nella sala prove con gli altri alle dieci e mezza e che si sarebbero arrabbiati a morte con lui per il ritardo stratosferico. Dopo aver recuperato le mie scarpe da sotto l’armadio, cominciai a seguirlo per tutta la casa, ponendogli domande su dove si trovasse la sala prove. Solo dopo svariati giri a vuoto del salotto, qualche imprecazione perché nel frigo non c’era più nulla fatta eccezione per un hamburger ammuffito, e altri cinque minuti di delirio generale, scoprii che si trovavano da qualche parte a Hollywood e che, se fosse partito subito e avesse camminato velocemente, Vince avrebbe potuto raggiungerli entro mezzogiorno.

“Vuoi accompagnarmi?” mi domandò prima che finissi di scendere le scale del ballatoio che conduceva al loro appartamento.

Annuii sebbene non fossi convinta della mia scelta. “Se proprio ci tieni...”

Vince scrollò le spalle e si infilò una giacca di jeans. “Non è che ci tenga particolarmente, però sarebbe utile sentire i tuoi commenti. Del resto hai un gruppo anche tu, e siete anche bravi. Poi Steven mi ha detto che–”

Lasciò improvvisamente la frase a metà e lo vidi accasciarsi sul marciapiede, preso da un improvviso attacco di vomito dal quale sembrò riprendersi subito.

“Cazzo, lo sapevo che non avrei dovuto bere dell’altro alcol dopo tutta quella roba che mi sono calato ieri sera,” borbottò.

Lo aiutai a rialzarsi tirandolo per un braccio, dopodiché ci rimettemmo lentamente in cammino, io rassegnata a dovergli fare da sostegno e lui rassegnato al fatto che gli altri si sarebbero inviperiti non appena avesse messo piede all’interno dello studio ridotto in quello stato.

Procedemmo senza parlare per tre quarti d’ora, col sole del mezzogiorno che ci picchiava dritto sulla testa, le gambe a pezzi, e costretti a fermarci ogni cento metri perché Vince doveva sboccare in un cespuglio o, nel peggiore dei casi, nel bel mezzo della folla che camminava frenetica per il viale, attirando gli sguardi inorriditi della gente. Era così distrutto che non ero nemmeno sicura che alle prove sarebbe riuscito a cantare, ma era determinato ad andarci e anche a prendersi i rimproveri da parte dei suoi tre compagni i quali, purtroppo, non erano dalla parte del torto.

Girammo in una traversa sulla sinistra e percorremmo la salita a passo lento finché non ci trovammo davanti a una palazzina grigia e decadente sulla cui porta campeggiava un’insegna di plastica bianca che riportava in rosso il nome degli studi di registrazione. Vince aprì la porta cigolante spingendola con la spalla ed entrammo in una piccola hall col pavimento di linoleum, le sedie di plastica tutte rovinate e un ficus moribondo relegato nell’angolo più buio e umido della stanza.

“Quella laggiù è la nostra sala,” mi informò Vince puntando il dito contro una porticina. Su di essa campeggiava un foglio di carta bruciacchiata con scritto con l’indelebile rosso Mötley Crüe – stare alla larga poi, subito sotto, aggiunto con una biro blu, Chi entra è morto e un paio di teschi e cazzetti stilizzati. Man mano che ci avvicinavamo, i versi primitivi dei suoi compagni diventavano sempre più forti. Nel momento in cui Vince oltrepassò la soglia, gli altri smisero di sbraitare e lo squadrarono dalla testa ai piedi, soffermandosi sulla canottiera strappata che gli era scivolata giù da una spalla mentre correvamo.

“Allora non eri morto!” esclamò Tommy con fare sarcastico, poi l’espressione fintamente giuliva lasciò spazio a una più sadica e gli rifilò uno scappellotto. “Per colpa tua abbiamo perso un casino di tempo. Che ne dici di metterti subito al lavoro? Forse è la volta buona che riesci a provare quel nuovo pezzo che abbiamo scritto la scorsa settimana.”

Mentre il batterista era impegnato a fare la paternale a Vince, Nikki si limitò a fulminarlo con un’occhiataccia, poi si avvicinò a me e mi afferrò per un polso, contento come un moccioso che vuole mostrarti la sua ultima costruzione perché voleva presentarmi il famigerato Mick Mars, il quale, ora che si trovava appollaiato su uno sgabello con la testa insaccata nelle spalle, aveva tutta l’aria di un condor appostato sul ramo secco di un arbusto del deserto. Sollevò appena il capo, si scostò i ciuffi scuri dal viso pallido, tirò su col naso e strizzò gli occhi freddi. “Ancora tu? Perché sei qui? Chi ti ha fatta entrare?”

“Vince voleva che seguissi le vostre prove,” mi giustificai. “Dice che così potrò dare il mio parere.”

Mick fece una ghignata soffocata. “Come se del tuo parere ce ne fregasse qualcosa!”

Stavo per rispondergli a tono quando Nikki si intromise per riportare la pace tra noi. Mi tornò a prendere per il polso e, dopo aver sibilato qualcosa di incomprensibile a Mick ottenendo un dito medio in risposta, mi fece accomodare su una sedia posta nell’angolo della sala in modo che potessi assistere comodamente alle loro prove. Mi porse una lattina di 7 Up piena solo fino a metà e imbracciò il basso per dedicarsi completamente al gruppo.

Il volume era piuttosto alto, ma a me non importava dal momento che avevo un’indole fin troppo casinista, e mi godetti lo spettacolo mentre scartabellavo un plico di fogli che Nikki mi aveva messo in braccio poco prima. Si trattava di canzoni già complete e abbozzi di testi e musiche scritti sul retro di volantini pubblicitari, su pezzi di cartone strappati da uno scatolone, o addirittura tovaglioli di carta. Alcuni erano lunghi diverse righe, altri erano semplicemente dei pensieri composti da non più di un paio di frasi, scritti forse con l’intenzione di creare un pezzo, ma erano tutti ugualmente interessanti. Riposi tutte le scartoffie all’interno di una cartellina di cartoncino rosso macchiato di caffè e passai un’intera ora ad ascoltare i pezzi della band senza mai muovermi dalla sedia, dalla quale schiodai solo quando Mick ripose la chitarra sul cavalletto.

“Allora, Sharon, che te ne pare?” domandò poi, il tono sempre apatico e leggermente scorbutico come prima.

Incrociai le braccia e appoggiai una spalla al muro per assumere un atteggiamento più arrogante. “Se sono destinati a finire su un disco, prevedo un boom di crescita della vostra popolarità.”

“Questo è poco ma sicuro,” borbottò, poi mi guardò da dietro i capelli scarmigliati. “E poi, sì, sono destinati a finire sul secondo album del gruppo, quando ci arriveremo.”

“Non mi resta che augurarvi buona fortuna,” dissi con un sorriso sghembo prima di aprire la porta, ma non feci in tempo a uscire nel corridoio perché uno di loro richiamò la mia attenzione con un fischio acuto. Mi voltai di scatto e vidi Nikki immobile in mezzo alla stanza che mi fissava con le mani sui fianchi, mentre gli altri tre erano impegnati a raccattare i loro strumenti.

“Vai già via?” chiese. Quando gli risposi che era ora che tornassi a casa mi confessò che, visto che Mick non era intenzionato a farlo, lui era disposto a uno scambio culturale tra chitarristi.

“Mi risulta che tu suoni solo il basso,” risposi.

Nikki si gonfiò, tutto orgoglioso. “Me la cavo anche con la chitarra. Però se non vuoi non importa, non ne farò una tragedia.”

“Non ho detto che non voglio,” ribattei, poi gli feci cenno di seguirmi. “I ragazzi saranno contenti di averti in mezzo ai piedi per un po’.”

Nikki ripose il suo Firebird bianco nella custodia coperta di adesivi e mi camminò dietro finché non uscimmo dallo stabile, dopodiché mi affiancò e non spiccicò una sola parola fino a quando raggiungemmo la palazzina in cui abitavo. Spinsi il portone principale, il quale stridette a causa di uno sfregamento della base con il pavimento di marmo di scarsa qualità, e sbuffai quando mi accorsi che non avremmo potuto utilizzare l’ascensore perché era occupato.

“C’è sempre tutto questo silenzio, qui?” domandò Nikki mentre osservava le scale che salivano fino al terzo piano.

“Di solito si sente qualcuno dei nostri che suona. È strano che non ci siano strumenti che impazzano o voci che strillano,” spiegai, poi aprii la porta dell’interno 4, ritrovandomi di fronte l’appartamento completamente vuoto. Le luci erano tutte spente, il disordine era peggiorato dalla sera precedente e non sentivo nemmeno Steven che russava, episodio alquanto frequente causato dal fatto che nel sonno si girava sempre a pancia in su. Entrai nella piccola sala e li chiamai senza ottenere risposta, allora mi accertai che non ci fossero per davvero facendo un giro di ricognizione dell’intero appartamento. Come volevasi dimostrare, non c’era anima viva. Tornai indietro e alzai le spalle dispiaciuta rivolta verso Nikki, che se ne stava ancora fermo sulla soglia e con la custodia del basso stretta in una mano.

Nikki avanzò di qualche passo e scrutò ogni singolo particolare del salotto, soffermandosi di più sul basso nero che Brett aveva lasciato abbandonato sul divano. “A quanto pare non c’è nessuno.”

“Già,” confermai. “Però possiamo suonare lo stesso. Siediti dove ti pare, fa’ come se fossi a casa tua.”

Nikki annuì e prese posto sul tappeto, tra il divano e il tavolino da caffè, senza mai smettere di esaminare l’ambiente ombroso che lo circondava. Aprii la tapparella della portafinestra della sala che conduceva a un minuscolo balcone declassato a discarica, poi mi recai in cucina per prendere un paio di lattine di Coca-Cola dal frigorifero che, per mano di una volenterosa Rita, era miracolosamente pieno delle cibarie necessarie per non morire di fame. Quando tornai in sala porsi la lattina al mio ospite e mi sedetti vicino a lui con l’intenzione di fargli sentire qualcosa di interessante, ma Nikki mi precedette.

“Tu non sei di Los Angeles, vero?” chiese dopo aver ingollato un sorso di Coca. “Da come parli non sembra.”

“Tu lo sei?”

Mi rivolse un sorriso sghembo. “Non si risponde a una domanda con un’altra domanda.”

Appoggiai la schiena al divano e presi a giocherellare distrattamente con le mie stesse dita, leggermente innervosita per dover parlare della mia vita passata. “Ho vissuto a New Orleans fino a tre anni fa, prima di venire qui con Brett. Ho questo gruppo da solo sei mesi, prima ne ho cambiati parecchi.”

“Stai inseguendo il famigerato Sogno Americano anche tu?”

Alzai le spalle. “Non me ne frega dei soldi, a me basta suonare. Finché ho abitato a New Orleans non potevo farlo perché a casa mia era quasi proibito. Erano troppo bigotti per apprezzare i brividi del rock n’ roll, ma io lo sentivo bruciare nelle vene e ho lasciato la mia enorme famiglia per trasferirmi da un ranch in mezzo ai prati a una città caotica e pericolosa come questa. Tu, invece?”

Nikki si lasciò sfuggire una risata carica di nervosismo e appoggiò la lattina vuota sul tavolino, sopra una pila di riviste. “Io vengo da un po’ ovunque.”

Inarcai un sopracciglio senza aver capito il senso della sua risposta. “Intendi dire che hai origini molto particolari?”

Puntò i suoi freddi occhi verdi e spalancati dritti dentro i miei, serio in viso. “Mi sento di Los Angeles e basta.”

“Poi?”

“Poi non c’è altro da aggiungere,” rispose malamente prima di alzarsi in piedi, per poi riacquistare un tono leggermente più calmo. “Vuoi suonare sì o no? Se ti scoccia dimmelo e me ne vado subito a casa.”

Annuii. “Siamo qui per questo, no?”




N.D’.A.: Salve a tutti! =)
Purtroppo per me sono appena tornata dalla Città degli Angeli e, anche se vi sono stata per motivi di studio, ci tornerei all’istante anche perché là l’ispirazione viaggiava a manetta. Per fortuna di chi mi segue, invece, il racconto verrà aggiornato regolarmente ogni mercoledì. Inoltre la trama andrà leggermente addolcendosi, ma non in modo esagerato.
Per ora grazie a chi segue e agli utenti che hanno aggiunto la mia storia tra le seguite! Spero di ricevere qualche recensione, anche critica, per sapere il vostro parere.
Ci si rilegge mercoledì! :D
Glam kisses,

Angie


Titolo: Save Our Souls - Mötley Crüe


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Capitolo 5
*** I.5) Young Lust ***


5
YOUNG LUST





Nikki si sfilò la tracolla del basso e annuì soddisfatto del lavoro svolto sotto il mio sguardo trionfante, poi ripose il suo strumento nella custodia tappezzata di adesivi.

“Mi piace suonare con te,” ammise mentre armeggiava in fretta per chiuderla. “Non credevo che sarebbe stato così divertente. Evidentemente ti ho sottovalutata.”

Sogghignai con una certa fierezza e appoggiai la chitarra sul divano. “Sono contenta. Questo significa anche che dirai a Mars che ha fatto male a rifiutare il mio invito?”

Nikki si portò una mano sul fianco e un’espressione maliziosa si impossessò del suo viso sul quale faceva ombra la frangia corvina, mentre il suo tono di voce diventò leggermente più profondo. “Questo significa che tornerò. Mars può anche arrangiarsi. Non sa cosa si è perso.”

Il suo sguardo astuto cominciava a mettermi soggezione e cercai di cambiare argomento offrendomi di accompagnarlo alla porta con la speranza che se ne andasse il prima possibile, ma lui, che doveva aver percepito il mio imbarazzo di fronte al suo modo insistente di fissarmi, rallentò le cose e la prese con molta calma, così che quando io ero già sulla soglia lui doveva ancora attraversare il salotto.

“Quando vuoi che ci rivediamo?” mi chiese mentre aspettavo l’arrivo dell’ascensore, ancora sola in mezzo al pianerottolo e in attesa che mi raggiungesse.

“Sei davvero sicuro che lo voglia?” osai, cercando invano di mantenere un atteggiamento disinteressato.

Nikki si piegò sulle ginocchia per raggiungere la mia altezza. “Sì.“

Mi sentii avvampare come se fossi stata una dodicenne che si trova a faccia a faccia con il belloccio della scuola ed ero certa che lui avesse notato l’insolito rossore sulle mie guance. Non sapevo nemmeno cosa rispondere perché con quel “sì” sicuro di sé mi aveva decisamente spiazzata, ma per mia fortuna l’ascensore annunciò il suo arrivo con uno stridio inquietante dei freni. Le porte si aprirono ed entrammo nell’abitacolo quadrato, ritrovandoci fin troppo vicini e per giunta in un ambiente chiuso e poco illuminato dal momento che uno dei due neon era andato a farsi benedire da ormai un mese e nessuno degli altri condomini era intenzionato a sostituirlo.

“Scendi anche tu?” chiese Nikki, poi mosse un passo verso di me, l’unico che poteva dato lo scarso spazio a sua disposizione.

Deglutii a vuoto mentre mi concentravo sui riflessi che la luce al neon sopra le nostre teste donava alla sua pelle marmorea. “No, è stata la forza dell’abitudine.”

“Davvero?” domandò, sempre più vicino. Ora potevo vedere le sue iridi chiare brillare nell’ombra e mi maledissi mentalmente per quello che stavo per fare, ovvero uscire dall’ascensore e schizzare in casa, lasciando che se ne andasse. Questo era ciò che avevo in mente e che avrei vilmente messo in atto se le porte non si fossero chiuse all’improvviso, prima ancora che potessi passare in mezzo alle fotocellule. Mi girai verso Nikki con la tipica espressione di chi si rende conto di essere in trappola e lui la ricambiò con un sogghigno, quello del cacciatore che ha catturato la sua preda.

Mi voltai con le spalle verso le porte serrate, facendo aderire bene tutta la schiena alla superficie metallica, e lasciai uscire un filo di voce dalla mia gola. “Se tu premessi il tasto di questo piano, la cabina si riaprirebbe e io potrei tornare a casa.”

Nikki appoggiò una mano sulla porta, proprio all’altezza del mio orecchio, e puntò gli occhi dritti dentro i miei. “Ma io non voglio che tu esca.”

A quel punto mi riuscì difficile persino il semplice e naturale gesto di respirare. Le sue labbra si appoggiarono sulle mie dapprima con delicatezza, ma in un attimo quel bacio quasi innocente si fece sempre più intenso e veemente, quasi violento. Nikki mi teneva bloccata contro la parete della cabina con tutto il corpo mentre insinuava una mano sotto la mia maglietta. Non appena la superficie dei suoi polpastrelli entrò a contatto con la mia pelle, una scarica mi percorse l’intera spina dorsale con la stessa potenza di un fulmine, facendomi perdere la ragione. Ricambiai il bacio con la stessa insistenza e, già che c’ero, gli passai una mano aperta sulla schiena per poi infilarla sotto il bordo dei suoi jeans. Nikki ebbe un brivido e portò la mano libera sopra la mia con l’intenzione di spostarla da un’altra parte, ma io la sfilai prima che potesse aumentare la morsa. Gli circondai poi il collo con entrambe le braccia per arrivare a parlargli in un orecchio.

“Questo ascensore è troppo piccolo,” mormorai con il fiato corto. “La casa è libera. Torniamo dentro.”

Nikki mi rivolse un’occhiata lasciva e allo stesso tempo piuttosto contrariata perché avevo interrotto il nostro momento di divertimento, ma capii che non era affatto dispiaciuto quando premette il pulsante del piano in cui abitavo, facendo aprire le porte. Lo afferrai per un braccio e mi fiondai fuori dalla cabina come se stessi fuggendo da un incendio, infilai la chiave nella toppa della serratura cercando di non perdere troppo tempo e ci ritrovammo nuovamente nel mio appartamento buio e disordinato, due particolari dei quali non avevamo tempo di preoccuparci.

Riacquistai la mia lucidità qualche ora dopo e riaprii gli occhi a fatica, con un mal di testa lancinante causato da quella pista che avevamo condiviso sniffandola direttamente dal dorso della sua mano. A giudicare dagli spiragli di luce rossastra che dipingevano strisce orizzontali sulla parete di fronte al letto, doveva già essere tardo pomeriggio, se non addirittura sera, e non mi sembrava di sentire le voci dei miei coinquilini, i quali sarebbero dovuti essere a casa da un pezzo. Mi stropicciai svogliatamente gli occhi, scoprendo di avere anche male alla schiena, e quando mi voltai dall’altra parte provai una passeggera sensazione di malessere generale che sparì nel momento in cui mi accorsi che Nikki era ancora lì di fianco a me. Se ne stava beatamente disteso sul materasso, la testa e le braccia sprofondate nel cuscino, e un’espressione pacifica dominava il suo viso che, adesso che era struccato, aveva dei lineamenti dolci e un aspetto quasi infantile. Sembrava che lì stravaccato e col lenzuolo tirato fin sotto al collo si sentisse a suo agio, e mi dispiacque doverlo svegliare dal quel sonno che probabilmente era uno dei pochi tranquilli che potesse concedersi. Gli passai una mano sul volto prima che fosse del tutto cosciente, dopodiché lo mossi delicatamente, colpendogli una spalla. Nikki biascicò qualcosa di incomprensibile e si limitò a voltarsi dall’altra parte ma, quando si accorse di non essere nella sua stanza nel tugurio che condivideva con quegli altri due scoppiati dei suoi compagni di band, scattò nuovamente in posizione supina e si girò verso di me con gli occhi ancora socchiusi per ripararsi dalla luce.

“Perché sei ancora qui?” gli domandai assumendo un’aria falsamente seccata, stupita dal fatto che, al contrario di molti altri, non se l’era filata mentre dormivo subito dopo aver ottenuto ciò che voleva.

Nikki sbadigliò e si stiracchiò. “Avevo sonno e in questa casa c’è abbastanza tranquillità per potersi riposare in pace. Poi tu dormivi così bene che ho pensato che non sarebbe stato piacevole svegliarti con tutto il trambusto che faccio quando mi muovo.”

Mi lasciai sfuggire un sorriso sarcastico. “Come se il rumore che fai ti preoccupasse per davvero! Grazie lo stesso, ma adesso sarà meglio che tu vada perché i ragazzi potrebbero rientrare da un momento all’altro.”

“Vuoi che vada via?” chiese con tono di sfida. “Ti vergogni così tanto di me da non volere che i tuoi amici ti vedano in mia compagnia?”

“Non intendevo questo,” ribattei temendo di averlo offeso.

“Scherzavo, non vuoi noie e basta. Anche perché immagino che Rita sia abbastanza indiscreta,” concluse, poi strisciò sul materasso finché non si trovò al mio fianco, contro il quale si abbandonò, come se lì accovacciato avesse potuto sentirsi al sicuro.

Mi stupii nel vedere quel ragazzo grande e grosso che godeva della fama del duro accucciarsi contro una persona mingherlina e apparentemente indifesa come me. Gli passai una mano tra i capelli resi stopposi dalla lacca mentre alzavo gli occhi al cielo. “Proprio non te ne vuoi andare, eh? E va bene. Puoi anche rimanere qui con me.”

Nikki allungò un braccio per arraffare il pacchetto delle sigarette e l’accendino da sopra il comodino. “Cosa c’è? Non dirmi che preferisci la solitudine! Credevo che fossi di un’opinione diversa visto che hai passato un intero week-end in villeggiatura segregata in casa mia insieme a Vince.”

Roteai gli occhi piuttosto innervosita e spostai le gambe da sotto le sue spalle, lasciando che scivolasse bruscamente. “Eravamo così fuori che non riuscivamo neanche a chiamarci per nome.”

Nikki inarcò un sopracciglio. “Vuoi dire che l’hai mandato in bianco?”

“No. Nella nostra parziale incoscienza siamo riusciti a trovare del tempo anche per quello.”

“Cosa gli hai portato, a Vinnie?” chiese dopo aver fatto un tiro portentoso.

“Io nulla, è lui che nasconde della roba niente male, ma non posso dirti dove. Ho promesso che terrò la bocca chiusa e, per tua sfortuna, sono una persona di parola.”

L’espressione divertita di Nikki lasciò immediatamente spazio a una più sospettosa. “Ci scommetto quello che vuoi che vi siete sparati coca in vena.”

Incrociai le gambe e feci una smorfia, infastidita dall’attrito della mia pelle contro le lenzuola ruvide. “Non l’avevo mai provata prima.”

Appena terminai la frase Nikki scattò a sedere, la sigaretta ridotta ormai solo al filtro stretta tra le stesse dita che aveva puntato contro di me con fare accusatorio. “Quella roba è una merda, Sharon. Non devi mai più prenderla, è chiaro? Mai più.”

Allontanai la sua mano con un’innocua sberla, facendo cadere sul materasso un po’ della cenere della paglia. “Che te ne frega? Amico, tu poco fa hai tagliato una pista di coca con una cazzo di tessera sconti del supermarket qui all’angolo e me ne hai offerta mezza. Credi che sia più salutare?”

“Almeno non ce la siamo sparata in vena come fa Neil,” continuò con nonchalance e facendomi fumare il cervello.

“La cosa non ti riguarda,” ringhiai, ora in ginocchio e a malapena coperta da un lembo del lenzuolo. “Non sarà il primo stronzo che incontro per strada a dirmi come devo o non devo comportarmi. La vita è mia e me la gestisco io, quindi vedi di non intrometterti.”

Nikki roteò gli occhi e recuperò i jeans da sopra una sedia con un gesto secco e nervoso. “Lo dicevo per te, ma a quanto pare hai la testa dura come un mattone. Non devi neanche più preoccuparti per me, tolgo subito il disturbo. Non ho più voglia di perdere tempo con una che non apprezza i consigli che le vengono dati.”

“Ma ti senti?” esclamai quasi urlando e passandomi una mano tra i capelli. “Parli come se tu fossi uno stinco di santo, lindo, pulito e immacolato!”

“Non ho detto che lo sono,” ribatté Nikki. “Sto solo cercando di dirti che quel coglione che ti offre la coca sciolta, ovvero il cantante della mia fottutissima band, è ridotto come uno straccio. Se vuoi finire come lui, fa’ pure.”

Afferrai un lembo del lenzuolo e lo tirai per la rabbia fino a rischiare di strapparlo. “Dio, non sopporto l’incoerenza!”

“Allora vaffanculo,” tuonò Nikki, poi aprì la porta della camera e si fermò sulla soglia prima di andarsene. “A proposito, aspetta che racconti ai ragazzi di te e vedrai che fila ci verrà davanti all’ingresso di casa tua.”

Afferrai una lattina semivuota e la scagliai contro la porta ormai chiusa, ritrovandomi poi da sola a osservare il liquido ambrato spargersi sul pavimento mentre i passi di Nikki si allontanavano decisi verso le scale, dove si estinsero. Buttai indietro la testa e la appoggiai contro il muro sporco dietro al letto, ancora intenzionata a inseguirlo e a colpirlo dritto su quella testa cotonata con un’altra lattina, possibilmente piena. Proprio mentre pensavo a una possibile vendetta, la porta della mia stanza si aprì cigolando e una nuvola di capelli arancioni fece capolino. Rita entrò in punta di piedi e sogghignò quando mi ritrovò accovacciata sul letto e con un’espressione da folle dipinta in faccia.

“Per le scale ho incrociato Nikki Sixx. Era incazzato nero. Per caso ne sai qualcosa?” domandò sottovoce, ma non ci voleva una laurea per capire che di fianco a lei, nascosti contro il muro, Brett e Steven stavano origliando la conversazione con la stessa curiosità di due accanite comari.

“Vattene fuori, Halford,” sibilai. “E non azzardatevi a rompermi le palle per le prossime tre ore.”




N.D’.A.: Ciao a tutti! =D
Innanzitutto vorrei ricordare che oggi è il compleanno di Slash, il chitarrista di uno dei miei gruppi preferiti. ♥
Passando al racconto... come al solito questi due sono riusciti a rovinare un momento di tranquillità... ma noi sappiamo che rientra nella loro natura. Niente paura, però, perché qualcuno muoverà un passo giusto nel prossimo capitolo.
Per ora un grazie enorme a chi legge, in particolare a Chara che mi ha lasciato delle splendide recensioni!
Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento. =)
Ci si rilegge mercoledì prossimo! ♥
Glam kisses,

Angie


Titolo: Young Lust - Pink Floyd


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Capitolo 6
*** I.6) Reckless ***


6
RECKLESS





Quella sera la combinammo davvero grossa, Vince e io. Negli ultimi tempi eravamo diventati culo e camicia per puro opportunismo dal momento che, quando uno andava in crisi perché non aveva niente da calarsi, l’altro arrivava in suo soccorso con una dose d’emergenza. Se poi nessuno dei due aveva droga da condividere, allora sì che erano guai seri perché bisognava armarsi di pazienza – e di grana – e avventurarsi nei vicoli meno raccomandabili della città per rimediarne un po’, a meno che Vince non riuscisse ad averne a sufficienza per entrambi da una delle innumerevoli ragazze che aveva abbindolato durante l’ultima settimana.

Quella volta, però, quello in crisi era Vince e io, che avevo abbastanza cocaina per entrambi, decisi di dividere il mio approvvigionamento con lui dato che era sempre stato disponibile con me. Si era presentato davanti alla porta di casa mia poco prima con una pessima cera e, siccome Steven e Rita erano usciti e Brett stava russando pesantemente nella sua camera, gli feci cenno di seguirmi e sgusciammo nella mia stanza, dove nessuno avrebbe osato mettere piede per evitare di scatenare la mia ira.

Ci riprendemmo dalla batosta parecchio tempo dopo, quando l’orologio sul comodino di Rita segnava le otto meno un quarto e fuori era già buio. Mi accorsi di essere seduta su una sedia, mentre Vince era sdraiato supino sul letto della mia batterista, beatamente addormentato come non lo avevo mai visto. Dovetti però ricredermi quando lo chiamai e aprì di poco gli occhi, per poi mostrarmi uno sguardo tutt’altro che rassicurante. Le iridi nocciola sembravano immerse in una pozza di sangue da tanto i capillari erano dilatati e le guance avevano assunto un colorito malsano e preoccupante.

“Devi andare al Troubadour, te lo ricordi?” gli chiesi lentamente e scandendo ogni parola. “Avete un concerto.”

Vince si grattò il naso con un dito tremante. “Come?”

Sbuffai e decisi di passare alle maniere forti: arraffai un bicchiere pieno di Pepsi ormai calda e sgassata e gliela rovesciai in faccia, ottenendo ciò che volevo. Vince aprì del tutto gli occhi, sembrando ora più vivo che morto.

“Che cazzo!” tuonò mentre si passava le mani sul volto per ripulirsi dal liquido zuccherino e appiccicoso, ora infervorato come non mai. “Adesso mi tocca anche farmi una doccia. Non posso salire sul palco conciato così.”

“Fa’ pure, la strada per il bagno la conosci già, ma non dimenticarti che il tempo stringe,” dissi atona dopo essermi spostata. Ero convinta che si fosse ripreso, ma quando, mezz’ora dopo, me lo ritrovai davanti con addosso una camicia sfilacciata appartenente Steven e gli stivali con i tacchi ai piedi, immobile al centro del corridoio e con le braccia penzoloni lungo il corpo, capii che buona parte del suo cervello galleggiava ancora nei residui dell’ultima dose.

“Portami al Troubadour,” mi ordinò.

Mi stropicciai gli occhi con la speranza di vederci meglio, ma come risultato ottenni solo il rimmel sbavato sul dorso delle mani.

“Dove hai messo la tua maglia? Quella camicia non ti appartiene,” gli feci notare.

Vince fece ondeggiare il capo da una parte all’altra, ancora palesemente frastornato. “Ci hai rovesciato sopra la Pepsi e adesso è sporca.”

“Ti prendo qualcosa da metterti dall’armadio di Steven che non sia la camicia rotta che usa per dormire,” dissi, ma Vince mi interruppe ancora prima che potessi varcare la soglia della mia stanza.

“Portami al Troubadour e farò in modo di rimediare a questo casino,” ripeté, e dal momento che non vedevo altre soluzioni, fui costretta a obbedire.

Svegliai Brett in malo modo e lo obbligai a mettersi alla guida del suo pick-up verde scuro e arrugginito, lo stesso con il quale eravamo arrivati dalla Louisiana qualche anno prima, e sfrecciammo verso il locale, servendoci di scorciatoie tra le laterali per evitare i viali principali, ora intasati dal traffico. Mentre il mio amico guidava all’impazzata – e senza alcun motivo dal momento che ormai il ritardo era da considerarsi più che grave – io ero stata relegata nei sedili posteriori con il solo compito di aiutare Vince a stare dritto per evitare che scivolasse. In tutto questo, tra una brusca sterzata di Brett e una notevole quantità di roba ancora presente nel suo organismo, Vince fu colto da un attacco di conati che sembrava non dovesse terminare mai. Vomitò per tutto il viaggio e continuò anche mentre scendevamo dal pick-up per entrare nel retro del locale. Corremmo tutti e tre lungo il corridoio sudicio nel quale rimbombava la musica della band che era appena salita sul palco, qualche ragazza ci riconobbe e ci salutò mostrandosi gioviale, poi, col fiato corto e le gambe ormai prive di sensibilità, ci ritrovammo sulla soglia di una saletta angusta e puzzolente dove il resto del gruppo aspettava l’arrivo del cantante. Il primo ad accorgersi della sua presenza fu Tommy, che arricciò il naso piuttosto contrariato e lanciò una bacchetta per colpire il suo Gemello Terribile. “Ehi, bello, guarda un po’ chi è arrivato.”

Nikki si voltò di scatto, ancora spaesato per essere stato colto di sorpresa da un oggetto volante, e la sua espressione stranita si tramutò in un’inquietante smorfia rabbiosa non appena i suoi occhi incrociarono quelli stralunati di Vince.

“Come cazzo ti sei conciato?” esordì, riferendosi alla lunga camicia sfilacciata a righe verticali grigie, gialle e verdi che portava sopra i suoi adorati pantaloni bianchi.

“È una storia lunga da spiegare,” risposi mentre Brett aiutava Vince a sedersi su una sedia scricchiolante di fianco a quella di Tommy, che soffocò una risata sarcastica contro il palmo della mano.

“Nessuno ha chiesto il tuo parere,” sibilò Nikki, poi tornò a volgere lo sguardo in direzione dell’ultimo arrivato. “Eri ancora con lei a bucarti, vero? Sei proprio un caso perso.”

“Fatti gli affari tuoi, Sixx,” ribattei a denti stretti e con i pugni serrati lungo i fianchi. Li sentivo pulsare e con essi anche la piccola cicatrice nell’incavo del gomito.

Nikki agitò le mani in modo confuso. “Se permetti, sono affari miei visto che avremmo dovuto essere sul palco da quarantacinque minuti. Quello che mi fa girare le palle ancora di più è che ci saliremo tra altri tre quarti d’ora perché adesso mi tocca andare a casa a prendere qualcosa da mettere addosso a questo idiota.”

Quando passò davanti a Vince prese la pelle della sua guancia tra il pollice e l’indice, come se avesse voluto fare un buffetto a un bambino capriccioso, poi gli rifilò una lieve sberla per rinsavirlo prima di sparire nel corridoio correndo.

“Mi dispiace, non volevo che il concerto fallisse,” mormorò il cantante, sfregandosi le mani sul viso per alleviare il fastidio e sfogare la tensione. “Diglielo, Sharon. Diglielo anche tu che non l’ho fatto apposta.”

Nessuno aggiunse altro. Lo ignorammo come se non avesse mai parlato e aspettammo il ritorno di Nikki in religioso silenzio, ascoltando i pezzi della band di apertura, che era stata costretta a suonare più a lungo in attesa che il gruppo successivo fosse al completo e pronto per prendere il suo posto.

Come accadeva ogni volta in cui quei quattro discutevano, dopo un concerto tornavano tutti amici per la pelle, o quasi. Quella sera, dopo un live che era andato piuttosto bene nonostante le condizioni di Vince, non c’era più alcun motivo per tenersi il broncio a vicenda, senza contare che fuori dal Troubadour, parcheggiato in una viuzza laterale sotto le lunghe foglie di un banano, il pick-up di Brett ci aspettava per portarci a spasso per i viali di Los Angeles. Uscimmo dal retro del locale con una sufficiente scorta di birra per affrontare il viaggio, Vince miracolosamente raggiante con una tipa aggrappata al braccio come una bertuccia, e percorremmo, urlando e ululando, la distanza che separava la nostra vecchia vasca da bagno su ruote dal Troubadour. Brett si mise alla guida e accanto a lui prese posto un trepidante Steven, mentre Vince e la tipa piantarono la tenda nei sedili posteriori. Per concludere in bellezza, Rita, Tommy, Nikki, Mick e io fummo abbastanza fortunati da occupare il posto d’onore riservato ai casinisti, quello dove si poteva schiamazzare senza temere di disturbare il guidatore e facendosi sentire da tutti: il cassone posteriore. Sistemammo il pacifico Mick con la schiena contro la parete del picl-up in compagnia dell’unica bottiglia di vodka che avevamo portato con noi e Tommy si sfregò le mani con fare soddisfatto e con chissà quali pensieri per la testa.

“Lo sapete che gli alieni ci osservano?” saltò su Mick non appena Brett mise in moto. Noi quattro voltammo il capo all’unisono e lo fissammo con gli occhi spalancati, incrociando il suo sguardo allucinato. Lui continuò a sostenere la sua tesi con voce alticcia. “Sono lassù e non possiamo vederli, però loro possono vedere noi.”

“‘Fanculo, bello,” lo zittì Tommy, accompagnando le parole con un gesto della mano. Rita scoppiò in una risata argentina e finì per sputare la birra fuori dal bordo del cassone.

Un attimo dopo il pick-up sbuffò e si spostò da sotto il banano per muoversi alla volta del Sunset Boulevard, ora invaso da una folla di festaioli pronti a prendere d’assalto i locali e a esaurire le scorte, mentre nel cielo terso le poche stelle visibili brillavano in lontananza sorvegliando su quell’enorme città caotica.

“Ehi!” esclamò Nikki levando un pugno in aria. La miriade di braccialetti metallici intorno al polso tintinnarono nello scatto. “Senti che aria fresca, T-Bone!”

Il batterista si spostò in fondo al cassone e appoggiò i gomiti e la schiena sul bordo come se fosse stato su una terrazza, beandosi dell’aria che gli sfiorava il viso e che faceva svolazzare i suoi lunghi capelli scuri. Noi intanto procedevamo a una velocità superiore a quella del limite stabilito, e io osservavo distrattamente le insegne al neon che guizzavano via dalla mia vista, dando l’illusione che lasciassero una scia colorata.

All’improvviso, come se niente fosse, Tommy balzò in piedi e diede un colpo sulla spalla del bassista col dorso della sua mano enorme. “Ehi, bello, ho una fottuta idea bellissima. Ci stai?”

Nikki annuì senza nemmeno domandare di cosa si trattasse e, con un ghigno astuto stampato in faccia, si sedette meglio come se avesse voluto prepararsi all’immane cazzata che il suo compagno di merende stava per mettere in scena.

“Gli alieni invaderanno il nostro pianeta,” biascicò Mick rischiando che la vodka gli andasse di traverso nel momento in cui il pick-up centrò un tombino.

“Tu taci, Marsi,” lo ammonì Tommy, poi si alzò sulle ginocchia, allungò una mano a Nikki in modo che la prendesse e lo aiutasse a tenere l’equilibrio, poi si portò l’altra sulla cintura dei pantaloncini bianchi.

“Qui si mette male,” sussurrò Rita con ironia mentre mi circondava le spalle con un braccio.

Tommy le fece l’occhiolino e urlò. “Ehi, Los Angeles! Guarda un po’ qui!”

E si calò i pantaloni per mostrare le chiappe al malcapitato automobilista che viaggiava dietro di noi.

“Oh, mio dio, non posso crederci!” Rita era esplosa e si teneva la pancia con le mani. La sua risata sovrastava persino il rumore del motore e gli schiamazzi dei gruppi di persone sul viale.

“Atterreranno e ci annienteranno,” asserì il cupo chitarrista, il quale non doveva neanche essersi reso conto di ciò che stava accadendo.

“Hollywood!” gridò di nuovo Tommy saggiando la consistenza delle sue stesse natiche con le mani ben aperte. “Guarda un po’ qui! Guarda!”

Nikki aveva iniziato a ridere così forte che cominciammo a temere che non avrebbe più smesso, ma nel piegarsi e nel battere il tacco di uno stivale sul pavimento di metallo aveva mollato la presa e Tommy era scivolato in avanti, con le chiappe all’aria e senza smettere di ridere.

“Uuh! Ci rapiranno!” berciò Mick prima di cadere di lato e accasciarsi contro di me.

Ormai il delirio aveva superato ogni limite e io sentivo l’eccitazione bruciarmi nelle vene insieme a un’eccessiva quantità di alcol. Intanto la mitica Hotter Than Hell dei Kiss rimbombava nel pick-up con i finestrini aperti del tutto, all’interno del quale Brett e Steven cantavano a squarciagola mentre Vince e la tipa sembravano piuttosto indaffarati. L’aria fresca della notte californiana ci colpiva in pieno viso come una confortevole carezza. All’orizzonte le cime arrotondate delle Hollywood Hills disegnavano una dolce silhouette bruna nel cielo notturno e la celebre scritta bianca nel Griffith Park spiccava nel buio. Stavamo andando lassù, e ne ero certa perché era là che Brett e io eravamo soliti recarci quando avevamo bisogno di trovare un po’ di pace. Sospirai per dare sfogo all’eccitazione poi mi voltai verso Rita, che stava ancora ridendo da abbracciata a Tommy. Mick si era profondamente addormentato e aveva lasciato un po’ di vodka nella bottiglia, allora gliela sfilai dalla mano e ne bevvi un sorso, godendo della sensazione di bruciore quando mi scese in gola.

“Non offri?” domandò una voce cupa. Mi voltai di scatto e mi accorsi che Nikki mi fissava con le braccia incrociate sul petto e lo sguardo accigliato. Gli occhi verdi mi scrutavano con insistenza da dietro i ciuffi corvini e mi mettevano una certa apprensione. Sembrava che volesse dirmi qualcosa.




N.D’.A.: Ciao a tutti! =)
Vedo che continuate a seguire e che non siete neanche in pochi! Grazie, belli! Grazie per le visite e le recensioni. :)
Spero che questo capitolo sia stato di vostro gradimento. Il prossimo arriverà mercoledì.
Glam kisses e alla prossima,

Angie


Titolo: Reckless - Judas Priest


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Capitolo 7
*** I.7) Wild Child ***


7
WILD CHILD





Porsi la bottiglia di vodka a Nikki e lo osservai strapparmela dalle mani con una certa foga per poi ingollare una buona parte del contenuto rimasto, rigorosamente senza parlare. Quando ebbe finito, si asciugò le labbra contro l’avambraccio avvolto in quello che prima di essere tagliuzzato ad arte doveva essere stato un gambaletto a rete. Nel frattempo Tommy stava ancora berciando frasi del tutto scoordinate al mondo intero, con Rita che rideva a poca distanza, tenendosi la pancia a causa del dolore agli addominali. Dentro al pick-up che stava arrancando su per la salita rischiando di saltare in aria sotto i nostri culi come uno di quei petardi che Brett faceva scoppiare dentro i cassonetti, era in corso un vero e proprio festino: il mio bassista guidava aggrappato al volante e sbraitando con Steven che fumava come una ciminiera, mentre per quanto riguarda la situazione sui sedili posteriori, è meglio stendere un velo pietoso. Intanto, però, quell’abitacolo era diventato saturo di fumo e i quattro passeggeri sembravano nuotare in una nuvola all’aroma di marijuana, mentre noi altri sul cassone stavamo respirando la polvere che le ruote sollevavano nel percorrere la strada stretta e costeggiata da bassi arbusti odorosi.

L’enorme scritta bianca era sempre più vicina e dopo dieci minuti – e diversi sobbalzi micidiali – riuscimmo a raggiungere uno spiazzo sterrato dove decidemmo di fermarci. Brett inchiodò facendo sussultare tutti e spense il motore, poi la portiera dalla sua parte si spalancò e si catapultò fuori trascinandosi dietro Steven, che in quel momento tutti avevamo associato a un distributore automatico d’erba per via della fragranza che emanava.

“Ehi, Stevie, perché non dai un po’ di Maria anche a me?” si lagnò Tommy, improvvisamente serio e capriccioso.

Il mio cantante sogghignò malefico e continuò a seguire Brett in direzione di una panchina di legno marcio posta poco più in là. “Che ne dici di venirtela a prendere, eh, Lee?”

Tommy non se lo fece ripetere due volte e saltò fuori dal cassone insieme a Rita, pronto per il suo trip di mezzanotte. A quell’allegra carovana si aggiunsero presto anche Vince e la tipa della quale ignoravo il nome, tutti pronti per il loro viaggio andata e ritorno per il Paese delle Meraviglie, dove la neve cadeva abbondante dal cielo, ricoprendo l’erba verde con un soffice velo bianco. Li osservai allontanarsi finché non scomparvero nel buio, riducendosi a vaghe ombre scure che si muovevano intorno al fusto di un gracile alberello, dopodiché mi resi conto che a bordo del nostro veicolo arrugginito eravamo rimasti solo io, Nikki e Mick, il quale si stava lentamente risvegliando dal suo breve pisolino ad alta gradazione alcolica.

“Lo sapete che in fin dei conti anche noi siamo alieni? Un abitante di un altro pianeta ci ritiene alieni esattamente come noi crediamo che l’alieno sia lui,” disse atono, poi strizzò gli occhi e si guardò intorno con lo stesso sguardo smarrito di un bambino che ha perso di vista la propria madre. “Dov’è la mia vodka?”

“La tua fottuta vodka ce la siamo fatta fuori noi,” gli rispose sgarbatamente Nikki.

“Che gli alieni ti rapiscano e ti portino lontano da questo mondo, Sixx!” tuonò prima di incrociare le braccia e mettere il broncio.

Il bassista storse il naso e si grattò la nuca con fare nervoso. “Potrebbe rivelarsi una buona idea.”

“Non dire cazzate,” lo ammonii con tono acido, ricevendo in cambio un’occhiata glaciale.

“Andiamocene da qui,” ordinò Nikki. Mi limitai ad annuire debolmente col capo sotto lo sguardo stralunato di Mick, che continuava a osservarci con la bocca storta in una smorfia tipica di chi è stanco e non ne può più. Scendemmo entrambi dal cassone e ci sedemmo sul cofano impolverato, fissando prima il vuoto oscuro subito sotto di noi poi la grande distesa di luci in movimento nella valle. Pensavo che quella fosse una situazione assurda perché nessuno di noi aveva mai avuto paura di dire la propria opinione neanche quando era in contrasto con quella degli altri, mentre in quel momento sembravamo due ragazzini che avevano paura anche solo di guardarsi in faccia. Arrivai alla conclusione che, se avessimo continuato in quel modo, imbambolati a fissare Los Angeles dall’alto come se fossimo stati le uniche anime vive in quello spiazzo vicino alla strada, non avremmo concluso un bel niente – sempre ammesso che ci fosse veramente qualcosa da concludere o un obiettivo da raggiungere – e che di conseguenza avrei fatto meglio a muovere il primo passo, ma evidentemente non ero stata la sola a pensarlo.

“Cos’era che mi dicevi a proposito della Louisiana?” cominciò Nikki mentre si accendeva una sigaretta, lo sguardo concentrato sulla fiammella dell’accendino appena mossa dalla brezza californiana.

“Che cazzo te ne frega?” ringhiai in risposta, improvvisamente irrigidita dalla rabbia.

Lui alzò le spalle e appoggiò la mano libera alla lamiera ancora calda del cofano. “Com’è New Orleans?”

A quelle parole sentii il cuore sciogliersi nel petto e mi lasciai sfuggire un sorriso intenerito come se un caldo abbraccio materno mi avesse appena colta di sorpresa.

“Bella,” mi limitai a rispondere, poi mi strinsi nelle braccia. “Me l’hai chiesto perché vorresti andarci?”

“Non sono un grande amante dei viaggi, forse perché da piccolo ho girato così tanto che adesso sento il bisogno di stare per un po’ nello stesso posto,” ammise. Un angolo della bocca schizzò infastidito.

“Beato te che hai avuto modo di vedere un po’ di America! Io ho sempre vissuto nella mia fattoria e ogni volta in cui volevo andare in città dovevo chiedere il permesso in carta bollata,” esclamai.

Nikki mi fulminò con un’occhiataccia. “Guarda che non è bello essere sempre in giro. Non riesci mai a capire quale sia il tuo posto, sempre ammesso che tu ce l’abbia.”

“Io non mi sono mai mossa da casa mia se non per venire a Los Angeles e non ho ancora capito quale sia il mio,” ribattei, poi sfilai il pacchetto delle sigarette dalla tasca del suo chiodo e ne estrassi una senza preoccuparmi di avvertirlo.

Nikki mi porse l’accendino, rassegnato. “Il problema è che a volte vorresti sentirti a casa. Ma quale cazzo è la tua casa?”

“Ti capisco, sai?” confessai increspando lievemente le labbra in un sorriso comprensivo. “Adesso che sono qui a L.A. mi sento persa. È come se corressi per cercare un rifugio, ma non riuscissi mai a trovarlo.”

“E ti viene la depressione del ragazzino di città,” concluse lui con lo sguardo rivolto verso la silenziosa distesa di luci. “City boy blues... ehi, sai che mi si è appena accesa la scintilla dell’ispirazione?”

“Fantastico,” approvai. “Nonostante tutto, questa città mi piace. Da quando abito qui scrivo molto di più. Credo che sia una buona fonte di ispirazione.”

“Più o meno,” mormorò lui. “I vostri pezzi mi piacciono. Suppongo tu scriva solo i testi, vero?”

“Do anche una mano a Brett con la musica,” specificai con un certo orgoglio.

Nikki mi rivolse un sorriso ed espirò lentamente il fumo della sigaretta, creando una nuvola pesante davanti al suo volto. “Chissà perché, ma me lo immaginavo.”

Mi lasciai sfuggire una risata nervosa. “Devi piantarla di prendermi in giro.”

“Non ti stavo prendendo in giro!” rispose prontamente in sua difesa.

“Cosa te lo ha fatto pensare?”

Nikki alzò nuovamente le spalle e appoggiò la suola di uno stivale sul parafango del pick-up. “Non lo so, l’ho sentito e basta. Puoi chiamarlo sesto senso, se vuoi, ma non ne sarei tanto sicuro.”

“Sensibilità ipersviluppata? Follia?” azzardai increspando un sopracciglio.

“Può essere,” asserì non del tutto sicuro. “Del resto, è quello che mi ripetono da una vita.”

“Non sei l’unico.”

Si voltò di scatto verso di me, gli occhi spalancati come per mettere in evidenza il loro splendido colore chiaro, le labbra piegate in un sorriso sghembo e malinconico. “Forse io e te abbiamo altre cose in comune oltre al semplice fatto di vivere nella stessa città.”

Le iridi lucide sembravano tremolare nel buio per il riflesso della luce del cielo notturno come due pietre preziose incastonate in un viso di porcellana bianca, ma io sapevo che in esse c’era ben poco di puro. Però erano così lucenti e ingannevoli che l’unica cosa che volevo era vederle da ancora più vicino.

“Non penso che abbiamo poi così tanto in comune,” mormorai in uno strano e piacevole stato di intorpidimento che mi aveva colta nel momento in cui avevo visto il viso di Nikki che cominciava ad avvicinarsi pericolosamente al mio.

“Non importa,” sussurrò in risposta mentre la sua mano si spostava dalla lamiera del pick-up alla mia spalla. “Non è necessario avere tutte le cose in comune per questo.”

Non feci nemmeno in tempo a elaborare il senso della frase che mi ritrovai stesa con la schiena sul cofano, la polvere che si appiccicava alla mia pelle sudaticcia e gli occhi di Nikki puntati dritti dentro i miei.

“Cosa stai facendo?” esclamai stupita, poi tentai inutilmente di scansarlo, ma ogni mio sforzo si rivelò inutile dal momento che Nikki era molto più grosso di me e gli fu sufficiente tenere il palmo aperto contro la mia spalla per impedirmi di muovermi. Subito dopo, però, quegli occhi che fino a un attimo prima avevano trasudato perversione si socchiusero e portò una mano sulla mia guancia. I suoi polpastrelli ruvidi sembravano lasciare una scia calda lungo i punti che sfioravano, mentre i suoi occhi erano sempre più vicini ai miei. Restai concentrata sulle stesse iridi che non avevo fatto altro che ammirare di nascosto per tutta la sera come se ne fossi stata stregata, poi percepii una lieve pressione sulle labbra che diventava man mano sempre più forte. Circondai il collo di Nikki con le braccia per tenerlo stretto a me. Continuava a baciarmi con foga, ma non in modo lascivo come era accaduto a casa mia qualche giorno prima, bensì come se per lui quel contatto fosse stato più importante dell’aria stessa. Sentii la sua mano insinuarsi sotto l’orlo della mia maglia, ma lo fermai prima che potesse spingersi oltre. Gli presi delicatamente il polso e cercai di allontanare la sua mano sebbene stesse ancora opponendo una debole resistenza con la speranza che cambiassi idea. Quando però si rese conto che la mia decisione era irremovibile, si sollevò appena e mi fissò con un’espressione affranta e allo stesso tempo stranita, gli occhi ancora socchiusi e le labbra inturgidite.

“Non adesso, Sixx,” mormorai, poi appoggiai una mano sulla sua spalla e lo allontanai quando bastava perché potessi sedermi.

“Perché no?” domandò con tono capriccioso, ma un attimo dopo riprese il suo consueto modo di fare spavaldo. “Che problema c’è? Non ci vede nessuno, cazzo. Gli altri sono tutti collassati sulla panchina e se entriamo nel pick-up non si accorgeranno nemmeno della nostra presenza.”

“C’è Mick che delira nel cassone,” precisai.

Nikki aggrottò la fronte e proprio durante quell’attimo di silenzio il chitarrista diede un nuovo segno di vita, sparando altre frasi sconnesse riguardo la sua folle teoria sull’identità extratterrestre dell’umanità.

“È così fuori che non sentirebbe neanche le cannonate,” sentenziò Nikki, poi si voltò verso di me. “Tu vuoi davvero piantarmi in questo modo?”

“Sì,” risposi senza troppi giri di parole. “Se vuoi divertirti torna giù a Hollywood e cercati qualcun’altra.”

Nikki si sedette sul cofano del pick-up e volse lo sguardo verso la valle. “Se mi fossi accontentato di una qualsiasi l’avrei fatto, ma tu hai qualcosa di diverso, Sherry.”

“Da quando ti prendi tutta questa confidenza?”

Nikki sogghignò e alzò le spalle. “Se voglio chiamarti così lo faccio e basta.”

“Oh, sì, mi sembra giusto...” bofonchiai sarcastica e con le braccia incrociate sul petto, poi saltai giù dal cofano, sollevando una nuvola di polvere nel momento in cui toccai terra con le suole delle scarpe, e gli feci cenno di seguirmi. “Andiamo dagli altri, sono certa che ci sia rimasto qualcosa anche per noi.”




N.D’.A.: Buongiorno! =)
Colgo l’occasione per ringraziare chi ha aggiunto Angie Mars tra gli autori preferiti, chi recensisce e chi continua a seguire in silenzio! ♥
Un abbraccio e... ci si rivede mercoledì prossimo!

Angie


Titolo: Wild Child - W.A.S.P.


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Capitolo 8
*** I.8) A Day Late, a Dollar Short ***


8
A DAY LATE, A DOLLAR SHORT





Il pick-up di Brett arrestò la sua lenta corsa lungo North Clark Street verso le dieci di mattina, dopo aver percorso la strada che da Mount Lee portava a West Hollywood a suon di stenti e fermandosi con uno sbuffo ogni dieci minuti perché qualcuno aveva bisogno di scendere per vomitare. Non era stato un viaggio piacevole né comodo, almeno per quanto riguarda quelli che erano stati relegati nel cassone. Vince non riusciva a tenersi dentro niente e per chi gli erano vicino, ovvero la tipa che aveva rimorchiato, Tommy e Mick, il tragitto si era rivelato un vero e proprio inferno. Forse avremmo dovuto prenderlo come un cattivo presagio visto quello che accadde quando ci fermammo davanti alla palazzina nella quale abitavano i Mötley Crüe.

Il primo a scendere da quel bordello ambulante su quattro ruote motrici fu, contro ogni aspettativa, Vince. Barcollò verso le scale esterne che conducevano alla porta del loro appartamento sorretto dalla sua volenterosa amica. Nel momento in cui iniziò a salire i gradini, una voce cupa e autoritaria che proveniva da dietro di noi attirò la nostra attenzione.

“Signor Sixx?” chiamò austera. “Polizia di Los Angeles.”

Nikki aggrottò la fronte e abbandonò i sedili posteriori con struggente lentezza. Due poliziotti, entrambi con le braccia incrociate e gli occhiali scuri calati sul naso, lo aspettavano impettiti sul marciapiede.

“Abbiamo la lettera di un avvocato che la obbliga a lasciare l’interno 2 al numero 1124 di North Clark Street che, da quanto ci risulta, è occupato da altre due persone e ha subìto ingenti danni a causa di frequenti feste notturne e incendi dolosi sempre, e aggiungerei anche fortunatamente, domati prima che potessero degenerare,” comunicò il poliziotto tutto d’un fiato.

Un attimo dopo Vince tornò indietro, sbraitando e agitando una mano in aria, sempre seguito dalla tipa. “Quella cazzo di porta non si apre e io voglio entrare ma non ci riesco.”

“Non ce n’è più bisogno,” lo informò Tommy con gli occhi ancora spalancati per la sorpresa. “Ci hanno sfrattati.”

A quel punto si scatenò il putiferio. I tre inquilini iniziarono a discutere con gli agenti, i quali continuavano a ripetere che avevano il solo compito di accertarsi che abbandonassero l’appartamento entro mezzogiorno e, dato che ci mancava poco più di un’ora, c’era abbastanza tempo per lamentarsi anche col proprietario del famigerato interno 2, ovvero un signore anziano che spesso era costretto a presentarsi alla porta e intimare agli affittuari di smetterla di dare fuoco ai pantaloni di PVC di Nikki perché usciva fumo dalle finestre e la puzza gli impestava la casa.

Dopo tre quarti d’ora di dispute, risse evitate per miracolo e minacce, uno dei due poliziotti estrasse la lettera dell’avvocato dalla busta, la quale conteneva anche la lista dei danni da risarcire al proprietario. Quei tre disgraziati furono così obbligati a raccattare le loro quattro cose e a stipare tutto dentro il furgone di Tommy, un barcone del ’73 che stava insieme grazie a diverse riparazioni effettuate dalle mani inesperte di qualche meccanico improvvisato disposto a prendere pochi spiccioli per piantare un chiodo da una parte, un pezzetto di lamiera da un’altra, o passare una mano di vernice di una tonalità leggermente diversa laddove un muretto assassino o uno sportello avevano lasciato la loro firma.

Abbandonato definitivamente l’appartamento che la loro sottospecie di manager aveva procurato loro dopo aver miracolosamente convinto il proprietario ad affittare quel buco a una band di scavezzacolli, si presentò un altro problema, seguito da una domanda che ultimamente sia loro che noi ci eravamo posti troppo spesso.

E adesso dove cazzo si va?

Vince si intrufolò nel furgone borbottando e recuperò la sacca che aveva riempito con i pochi vestiti che possedeva e una vecchia chitarra elettrica. Ne uscì barcollando e si allontanò con la bionda, la quale si era offerta di aggiungere un materasso a casa sua apposta per lui. Anche Tommy aveva una cara amica disposta a ospitarlo – forse era già la sua fidanzata, non lo sapevo con certezza. L’unica cosa che avevo capito era che quella tipa era completamente fuori di testa. Era una smilza di un metro e settantacinque con i capelli gonfi e biondo platino, gli occhi perennemente iniettati d’ira e un grosso problema: era fottutamente gelosa. Una volta Rita aveva fatto il grande errore di avvicinarsi a Tommy per salutarlo e si era ritrovata con quella tipa attaccata al collo come un gatto a cui hanno appena pestato la coda. Fortunatamente Rita era muscolosa e le fu sufficiente uno spintone per spedire l’altra abbastanza lontano per finire di salutare Tommy e filarsela prima di ritrovarsela nuovamente addosso. Quella donna era pazza, ma di lei sapevamo solo che l’avevano rinominata Bullwinkle.

Quanto all’ultimo rimasto, non poteva contare sulla gentilezza di nessuna ragazza conosciuta un mese prima né tantomeno su una vecchia fiamma. Mick si scomodò per parlare per la prima volta in tutta la mattina e sottolineò il fatto che lui non si sarebbe di certo mostrato disponibile a ospitarlo, allora Nikki sbuffò e si lasciò cadere sul ciglio del marciapiede, il basso e la chitarra impilati di fianco a lui e uno scatolone con dentro i suoi oggetti personali tra i piedi.

Io ero stata per tutto il tempo con i gomiti appoggiati sul bordo del finestrino aperto e solo ora mi degnai di schiodare per ritornare a sedere, anche se avrei tanto voluto scendere e fare qualcosa per Nikki. Sapevo che non avrebbe fatto fatica a trovare qualcuno che lo ospitasse dal momento che aveva alcuni amici disposti a farlo, ma il problema che mi assillava di più era un altro e di natura ben diversa. Adesso che Vince aveva cambiato casa e si era trasferito dalla tipa bionda, avrei ancora avuto qualcuno disposto a procurarmi la cocaina? Mi morsi un labbro e mi lasciai cadere pesantemente contro il sedile, più nervosa che mai.

“Riportiamo a casa Mars,” disse Steven dopo aver ripreso posto accanto al guidatore. “Poi, già che ci siamo, torniamoci anche noi. Ho bisogno di dormire.”

Mise in moto il pick-up e, dopo aver riaccompagnato Mick nel suo piccolo appartamento vicino al mare, ritornammo alla nostra amata tana. Rita filò nella nostra stanza come un automa, Steven collassò sul divano del salotto e io seguii Brett con una certa insistenza finché non si voltò insospettito dal fatto che gli stessi camminando dietro.

“E adesso che problema c’è?” domandò con insofferenza, la spalla appoggiata alla porta della sua stanza. “Se cerchi altra roba sappi che non ne ho. Forse posso darti del whisky, sempre ammesso che me ne sia rimasto un po’.”

“Volevo chiederti...” cominciai con la voce incrinata per la stanchezza e l’imbarazzo che provavo nel porgli quella domanda. “Non ti dispiace per gli altri? Non pensi che siano stati sfrattati troppo brutalmente?”

Brett arricciò il naso e si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. “No. Tanto hanno già trovato un posto in cui andare.”

“Non Nikki,” lo corressi prontamente.

“E allora?”

Iniziai a sfregarmi nervosamente le mani. “Potremmo ospitarlo noi. Il divano è libero e non ci dorme mai nessuno a parte Steven quando si addormenta dopo il lavoro.”

L’espressione assonnata del mio amico tramutò in una quasi inorridita. “Non se ne parla, Sharon. Io Nikki Sixx in casa non ce lo voglio, neanche se mi pagasse l’affitto tutti i mesi senza lasciare arretrati, cosa che non credo farà dal momento che non ha nemmeno i soldi per respirare.”

Mi irrigidii e strinsi i pugni lungo i fianchi, ancora stupita per il cinismo con cui Brett aveva parlato di Nikki. “Te l’ho solo chiesto, non ti ho detto che adesso vado a cercarlo e lo porto qui. Volevo sapere che cosa ne pensavi ma, come immaginavo, non vuoi.”

“Hai visto come hanno conciato la loro vecchia casa, vero? Vuoi che sfrattino anche noi?”

“Assolutamente no, però io lo avrei ospitato senza problemi.”

Brett mi guardò di traverso e incrociò le braccia come era solito fare quando, da ragazzini, combinavo un’idiozia e lui si sentiva in dovere di rimproverarmi. “Posso sapere cosa ci trovi di interessante in quel tipo? Per caso ti porta la roba anche lui?”

Rabbrividii improvvisamente e nascosi istintivamente le braccia dietro la schiena.

“Non mi porta niente,” confessai sottovoce, come se stessi ammettendo di aver commesso un errore irrimediabile.

Brett fece un lungo sbadiglio e scivolò un po’ con la spalla contro lo stipite. “Allora perché ti interessa così tanto? Lascialo perdere, che cazzo... è un buon compagno di baldoria, ha una band che spacca il culo a tutta Los Angeles, ma non ha niente di speciale.”

“Brett, hai presente quando inizi a parlare con qualcuno e, indipendentemente da chi sia, ti sembra di conoscerlo da anni?” gli domandai evitando inutili giri di parole. “È come se avessi ritrovato qualcuno che ho perso tanto tempo fa.”

Il mio amico scosse il capo fingendosi divertito e si passò una mano aperta sul viso. “Vaffanculo, Sherry.”

Lasciai cadere le bracca lungo i fianchi mentre sentivo gli angoli degli occhi che bruciavano. “Perché mi rispondi così?”

“Nikki è bravo a scrivere pezzi e sa come divertirsi, però non penso sia la persona di cui hai bisogno. Ti porterà solo dei guai.”

Abbassai lo sguardo e osservai di nascosto Brett mentre si lasciava cadere a peso morto sul letto, sfinito dalla sbronza infernale della sera precedente. Non aggiunsi altro in mia difesa né glielo lasciai intuire con una smorfia, e siccome ero troppo stanca anche per camminare verso la mia stanza, presi il posto di Steven, il quale aveva optato per il divano per lo stesso motivo per cui io stavo dormendo sul suo materasso nell’angolo della stanza.

Mi sdraiai supina e appoggiai le mani all’altezza dello stomaco, concentrata ad ascoltare il silenzio della casa interrotto da qualche lieve e familiare rumore: il respiro pesante di Brett poco più in là, il ticchettio dell’orologio della cucina, il rumore del rubinetto del lavandino che perdeva, gli inquilini del piano di sopra che parlavano, e il rumore delle automobili sul viale. Tirai il lenzuolo fin sotto al naso e mi appallottolai su un fianco, come facevo da bambina quando sentivo i miei genitori che discutevano nel salotto della nostra casa di campagna. Mia sorella dormiva a due metri da me e se mi azzardavo a chiederle di prendermi con lei perché volevo un abbraccio mi mandava via in modo sgarbato, lo stesso che aveva utilizzano il giorno in cui l’avevo salutata prima di partire per Los Angeles. Anche adesso volevo che qualcuno mi abbracciasse.

Sollevai la testa dal cuscino e riconobbi nella penombra la sagoma di Brett che dormicchiava portandosi di tanto in tanto una mano sulla fronte per scostare i capelli, allora mi alzai e, quatta come un ratto, raggiunsi il pavimento ai piedi del letto e mi inginocchiai sulle piastrelle fredde. Allungai un braccio e mossi appena una spalla del mio amico, che sbuffò senza aprire gli occhi e biascicò per domandarmi che cosa accidenti volessi.

“Brett?” lo chiamai sottovoce. “Mi prendi un po’ lì con te?”

“Torna a dormire, Sharon. Sei fatta,” farfugliò con il viso premuto contro il cuscino.

“Non è vero,” mi difesi con voce debole. “Prendimi vicino a te come facevamo da piccoli. Per favore.”

Mi scacciò muovendo appena una mano che ritirò subito dopo, quando si accorse che quel gesto richiedeva troppe energie. “Ho male dappertutto e mi viene da vomitare. Fammi il piacere di tornare sul materasso di Steve e metterti a dormire.”

Lo osservai mentre si girava dall’altra parte lamentandosi per i crampi allo stomaco e capii che non sarei riuscita a fargli cambiare idea, allora tornai a strisciare verso il materasso di Steven. Mi sdraiai sulla stoffa ruvida e mi strinsi nelle spalle come se avessi voluto procurarmi da sola l’abbraccio di cui avevo bisogno, ancora più infreddolita di prima. Avrei tanto voluto avere qualcuno di fianco che potesse stringermi a sé e non farmi più tremare, qualcuno come Brett, l’unico vero fratello che avessi mai avuto, o Nikki. No, Nikki forse era meglio di no. Forse lui non sapeva neanche cosa significasse essere abbracciato da qualcuno che ti vuole veramente bene. Mi domandai se fosse davvero così e finii per addormentarmi con questo dubbio che mi assillava con la stessa insistenza di una zanzara che ti ronza vicino all’orecchio durante le notti d’estate mentre cerchi di prendere sonno, girandoti e rigirandoti nell’afa e calciando via le lenzuola.

Mi svegliai quasi sei ore dopo, quando tutti stavano ancora dormendo beati come pupi. Siccome non volevo svegliarli e avevo bisogno di respirare dell’aria che non fosse quella maleodorante del nostro appartamento, decisi di uscire. Mi infilai un paio di scarpe ormai logore che mi ero portata dalla Louisiana e fregai qualche spicciolo dalla tasca del chiodo di Brett, probabilmente gli ultimi che gli erano rimasti, con l’intenzione di andare a prendere un caffè nel solito bar, sperando che almeno quello mi aiutasse a riprendere le forze di cui avevo bisogno per affrontare il resto della serata. Camminai spedita fino al locale godendo del tepore del sole ancora alto alle sette di sera, la mano premuta contro la tasca a tastare le monete e pregustando l’attimo in cui avrei bevuto il mio caffè saturo di zucchero e rinvigorente come non ne bevevo da tempo. Estrassi gli spiccioli nello stesso momento in cui varcai la soglia del pub e li appoggiai subito sul bancone di marmo, sotto gli occhi della cameriera che mi guardò domandandosi cosa mi fosse successo di così terribile per ridurmi in quello stato. “Un caffè corretto, grazie.”

“Con un goccio di Jack Daniel’s?” azzardò la ragazza. Evidentemente i miei gusti si potevano dedurre facilmente basandosi sul mio aspetto.

Scossi il capo e presi posto su uno degli sgabelli.

“Latte,” la corressi.

“Stai ancora smaltendo quello di ieri sera?” si intromise una voce alle mie spalle. Mi girai e mi ritrovai di fronte Nikki che mi fissava ghignando con un gomito appoggiato sul bancone.

“Sapevo che prima o poi saresti passata di qua per il tuo caffè da post-sbronza,” aggiunse mentre si osservava una mano con fare disinteressato, poi sollevò lo sguardo e mi mostrò le iridi brillanti. “Vince aveva proprio ragione riguardo questa tua abitudine.”




N.D’.A.: Buonasera! =)
Ne approfitto per ringraziare di cuore l’autrice che ha inserito tra i preferiti sia questa storia che l’autrice Angie Mars! Poi, ovviamente, grazie anche a chi continua a recensire! ♥
Se vi va, fatemi sapere che cosa ne pensate. ;)
Un bacio e a mercoledì prossimo!

Angie


Titolo: A Day Late, a Dollar Short - Hanoi Rocks


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Capitolo 9
*** I.9) Turbo Lover ***


9
TURBO LOVER





Osservai Nikki appoggiare la sua birra sul bancone di granito con lentezza, poi scosse il capo e rise. “Non guardarmi con quella faccia.”

“Non è un grande onore sapere di essere oggetto dei vostri discorsi,” risposi atona mentre attendevo il mio caffè. “Non oso immaginare che genere di aneddoti siano saltati fuori.”

“Quel citrullo di Vince non si ricorda più un cazzo, e non è da lui,” mi rassicurò Nikki, poi la sua espressione pacifica tramutò in una più inquietante. “Il che significa che la roba che gli porti è davvero buona. La prossima volta che organizzate una cenetta romantica a base di coca fatemi un fischio, sarò lieto di essere il vostro terzo incomodo.”

Presi un’arachide dal cestino sul bancone e gliela lanciai addosso con stizza. “Non credo che tornerò da lui. Ogni volta finisce per trasformarsi in un inferno.”

Nikki raccolse la nocciolina dalla piega della sua maglia nella quale si era fermata e la sgusciò per poi allungarmi uno dei due frutti. “La vostra love story è da considerarsi terminata, allora?”

La cameriera mi porse il mio caffè e ne bevvi un sorso abbondante, godendo della sensazione di tepore che procurava alla mia gola.

“Davvero pensi che ci sia stato qualcosa tra di noi?” domandai stupita.

“Assolutamente no,” rispose. “So bene che Vince non è il tipo da fidanzata. Siamo troppo giovani per tener dietro all’amore.”

Tornai a portarmi alle labbra il bordo della tazzina. “Condivido. A proposito, sei poi riuscito a trovare un posto in cui stare dopo che vi hanno sfrattati?”

Nikki annuì tutto soddisfatto e mi spiegò che da quel giorno avrebbe abitato da solo e in affitto, con il chiaro intento di non pagarlo mai a meno che la loro produzione discografica non avesse fruttato abbastanza da potergli permettere di spendere soldi per una casa. Aveva trovato un minuscolo bilocale al terzo piano di un residence piuttosto vecchio in una traversa del Sunset Boulevard, e aspettò che terminassi di sorseggiare con calma in mio caffè prima di chiedermi se fossi interessata a visitare la sua nuova tana. Non era certamente la mia massima aspirazione, ma decisi di accontentarlo perché mi ricordava i miei fratellini quando, dopo aver costruito una capanna traballante con bastoni, frasche e pietre, mi prendevano per mano e mi trascinavano fuori per farmela vedere. Attraversavamo il campo correndo, e io li seguivo con una benda sugli occhi perché non volevano che sbirciassi e che la scorgessi in lontananza. Loro cantavano, fischiavano e ballavano intorno a me mentre mi conducevano attraverso le alte spighe dorate, poi ci fermavamo all’improvviso e sentivo il rumore del torrente che scorreva lì vicino. Uno dei due scioglieva il nodo del fazzoletto e, quando la luce tornava a illuminarmi gli occhi, mi ritrovavo davanti a quella che loro definivano “castello” quando in realtà non era altro che un ammasso di fronde e canne tenute insieme con spago marcio e filo di ferro arrugginito che chissà dove avevano preso. Sorridevo e dicevo loro che era la più bella casa che avessi mai visto e che, se mai avessi deciso di non abitare più con la nostra famiglia, mi sarei trasferita in quella regale dimora così saremmo rimasti vicini. Alla fine mi ero trasferita a Los Angeles, qualche migliaio di chilometri più in là, in mezzo al traffico e alla gente, lontana da tutto e tutti.

La voce di Nikki mi riportò alla realtà distogliendomi bruscamente dai ricordi. “Allora, Sherry, vuoi seguirmi o preferisci restare qui?”

Mi passai una mano tra i capelli e annuii appena, poi uscimmo dal pub e percorremmo qualche centinaio di metri senza rivolgerci la parola finché non ci ritrovammo di fronte a un palazzo di quattro piani, bianco e con le imposte di alluminio che gli conferivano l’aspetto di una casa di cura per anziani piuttosto che quello di una normalissima palazzina. Nikki indicò un piccolo balcone al terzo piano, l’unico privo di vasi con piante sofferenti per il caldo e panni stesi, poi mi condusse verso la porta principale. Nelle scale si potevano sentire chiaramente le voci degli altri inquilini, tra le quali erano ben riconoscibili quelle di un uomo non più giovane in preda alle risate e quella di una donna che lanciava appellativi di ogni genere al marito.

“Hai sentito che bel concerto?” domandò Nikki sarcastico prima di aprire una porta di legno scuro dopo averla strattonata un paio di volte, poi mi fece cenno di passare. “Benvenuta nel mio nuovo covo.”

Mi ritrovai in una piccola sala con le pareti dipinte di un celeste molto tenue, con un divano lilla, un tavolo quadrato e un mobile con una televisione che doveva essere una di quelle ancora in bianco e nero. Il basso e l’amplificatore erano stati sistemati entrambi sul sofà, mentre una cassa con qualche bottiglia di birra era stata appoggiata davanti al frigorifero nell’attesa che finisse di raffreddarsi. La luce del sole entrava dalla portafinestra conferendo alle pareti e al pavimento una colorazione tendente all’arancione, e una tenda impolverata si muoveva lentamente sospinta da un alito di aria tiepida proveniente dalla finestra aperta.

“Non è poi così male,” dissi mentre osservavo la piccola cucina ancora immacolata.

Nikki fece spallucce e prese una sigaretta da un pacchetto appoggiato sul tavolo. “Tra qualche giorno diventerà una discarica come la Mötley House, fidati.”

Mi soffiò una nuvola di fumo sul viso per infastidirmi, ma io restai impassibile e continuai a fissarlo senza capire per quale ragione mi avesse chiesto di vedere la sua nuova casa se poi dopo si era messo a fumare in assoluto silenzio. La nuvola di nicotina si contorceva in strane e complesse figure che, viste controluce, assumevano una lieve sfumatura rossastra come il tramonto. Dietro di esse, Nikki guardava fuori pensieroso. A giudicare dal modo in cui inspirava ed espirava il fumo, doveva essere piuttosto nervoso.

“Il tuo nuovo appartamento è molto accogliente,” buttai lì senza distogliere lo sguardo da lui, “ma adesso è meglio che torni a casa dagli altri, anche perché Rita mi sta aspettando.”

Appena mi voltai, sentii una mano grande e calda appoggiarsi sulla mia spalla e avvolgerla tutta. “Aspetta un momento.”

Mi girai e nel momento in cui incrociai lo sguardo di Nikki non capii più nulla. I suoi occhi mi fissavano, brillanti e spalancati, implorandomi di non varcare la soglia di quella casa.

“Non andare via così,” sussurrò Nikki mentre la sua mano si spostava dalla mia spalla al collo.

“Non ho fretta,” mormorai con la voce incrinata dai brividi che i suoi polpastrelli duri mi procuravano. Nikki sogghignò sghembo e, con un gesto veloce e sicuro, mi tirò a sé, permettendomi di rivivere le stesse sensazioni che avevo provato la sera prima mentre chiacchieravamo seduti sul cofano del pick-up di Brett. Mi baciò di nuovo con lo stesso impeto, ma quella volta non si accontentò di così poco. Iniziò infatti a camminare lentamente verso una parte dell’appartamento che non avevo ancora avuto l’occasione di visitare, costringendomi a seguirlo a meno che non avessi voluto porre fine al nostro bacio.

“Stavolta non c’è nessuno,” sussurrò lascivo. “Non ci sono gli altri e non siamo sopra un pick-up all’aperto. Non puoi scappare.”

Risi a fior di labbra mentre varcavamo la soglia. “Chi ti ha detto che voglio scappare?”

Nikki mi adagiò sul letto e si posizionò sopra di me, stringendo i miei fianchi tra le sue gambe. Mi fissava con una certa avidità, senza parlare, e teneva lo sguardo fisso nel mio con insistenza.

“Sherry, finalmente...” sussurrò con voce grave, le labbra rosse e socchiuse per regolare meglio il respiro affannato. Portai le mani sul bordo della sua canottiera strappata e la sollevai, concedendomi il privilegio di ammirare il suo petto. Era così liscio che sembrava appartenere alla statua di marmo di una divinità antica.

Nikki mi regalò uno dei suoi sorrisi astuti e in un attimo riuscì a sfilarmi la camicia di jeans e il reggiseno, i quali furono lanciati con noncuranza ai piedi del letto come per sottolineare la loro inutilità in quel momento. Portò poi le punte delle dita sui miei fianchi, sfiorò la pelle e risalì fino ai seni per nasconderli sotto le sue mani; gemetti quando iniziò a massaggiarli con movimenti lenti ed estremamente piacevoli. Dopo un po’ sollevai una delle sue mani dal mio petto e, mentre con l’altra continuava ad accarezzarmi, la aprii per osservare attentamente il palmo e ogni singolo dito.

“Lo sai che hai delle mani grandissime?” gli domandai mentre ne ridisegnavo le linee con la punta dell’indice.

Nikki scosse il capo. “Saranno anche grandi, ma sono troppo callose.”

“Lo sono perché suoni,” obiettai severa prima di riprendere ad ammirarle.

“Ti piace come ti stanno toccando?” chiese con lascivia avvicinando le labbra al mio orecchio.

Annuii debolmente. “Sì, Nikki.”

“Non credere che sarò così gentile per tutta la sera,” mi avvertì sussurrando, poi liberò la mano sinistra dalla mia e la portò sul mio ventre, sul quale indugiò per qualche secondo prima di scendere più giù e insinuarsi sotto il bordo dei miei slip umidi. Iniziò a stimolarmi superficialmente per prolungare la mia dolce agonia mentre io, approfittando del fatto che fosse estremamente concentrato, feci scivolare le mani sotto i suoi pantaloni fino a toccargli il fondoschiena.

“Quanta fretta, Sharon,” mormorò divertito al mio orecchio, poi sollevò le mani dal mio corpo e si sbottonò la patta. “Vieni più vicino.”

“Ancora più di così?” domandai sorpresa da quella strana richiesta. Nikki si umettò le labbra.

“Sì, più vicino,” confermò, poi si sdraiò su un fianco e mi tirò verso di sé. Mi circondò le spalle con le braccia e scese lungo la mia schiena con una mano ben aperta, il mento appoggiato sul mio capo e le gambe intrecciate alle mie per impedirmi ogni movimento. Io avevo una guancia premuta contro il suo petto e potevo sentire il suo odore, che ora mi stava inebriando i sensi.

“Sherry?” mi chiamò, ma quando feci per parlare sibilò per invitarmi a fare silenzio, dopodiché iniziò a muoversi lentamente come se avesse voluto cullarmi mentre mi stringeva. A quel punto qualcosa in me si risvegliò: quello era proprio l’abbraccio che desideravo ricevere ogni volta in cui mi sentivo sola e volevo che qualcuno mi stringesse a sé per trasmettermi un po’ di calore.

“Vieni qui,” mi invitò mentre si spostava al centro del letto. “Adesso possiamo divertirci, ma non sarò gentile come ho fatto fino ad ora.”

Non appena ebbe terminato la frase, si sfilò i pantaloni e li lanciò sopra un cumulo di vestiti ammucchiati sul pavimento. Notai che sotto non portava la biancheria e questo piccolo particolare scatenò un sorriso malizioso.

“Ti piace guardarmi, eh?” mi istigò mentre le sue mani tornavano a scivolare sulla mia pelle.

“Anche a te,” ribattei prontamente.

Nikki decise di porre fine a quella breve conversazione con un bacio tutt’altro che casto e, mentre la sua lingua avida cercava la mia, lo sentii sospirare appena per lo sforzo di spostarsi tra le mie gambe. Un attimo dopo entrò in me con una spinta decisa che provocò un bollente brivido estatico in tutto il mio corpo, poi mi guardò soddisfatto mentre cominciava a muoversi. Portai istintivamente le mani tra i suoi capelli corvini e gli feci una carezza sul capo che lasciò trasparire più affetto del dovuto, tanto che la sua espressione maliziosa tramutò in una di vero stupore. Era ancora immobile per la sorpresa quando strappai un bacio dalle sue labbra passive, sorprendendolo di nuovo. Nikki passò la lingua laddove la mia bocca lo aveva sfiorato come se avesse voluto prendere ciò che le mie labbra avevano furtivamente lasciato alle sue, poi scosse la testa. “Il nome di Nikki Sixx fa gola anche a te?”

“Non me ne faccio niente di chi sei,” risposi con la voce leggermente alterata dopo che lui aveva ripreso a muoversi. “Io voglio solo te.”

Nikki scostò una ciocca di capelli dal mio viso e i suoi movimenti si fecero più intensi. Più il ritmo aumentava, più lui mi stringeva come se non avesse voluto perdersi un solo centimetro del mio corpo. Io ero come paralizzata: era riuscito a ipnotizzarmi e non avevo la forza per fare nulla a parte seguire il ritmo delle sue spinte come se stessi cavalcando un’onda impetuosa dell’oceano. Lasciai scivolare di lato il mio capo e mi imbattei nella nostra immagine riflessa sullo specchio dell’anta dell’armadio: il suo corpo era enorme rispetto al mio e mi aveva sovrastata del tutto, permettendomi di scorgere solo il mio braccio che passava sopra il suo fianco. Non riuscivo a distogliere lo sguardo dall’immagine di lui che si inarcava sopra di me per poi infliggermi quei colpi che alla vista sembravano mortali, ma che in realtà mi facevano sentire sempre più viva. I miei sensi erano totalmente inebriati, ma quando iniziai ad avvicinarmi all’apice essi ripresero a funzionare.

“Nikki...” lo chiamai. “Non posso aspettarti.”

Lui mi guardò di sbieco, tuttavia non rallentò e proseguì finché un gemito non uscì dalla mia gola sovrastando il rumore dei nostri respiri. Mi aggrappai a Nikki mentre godevo di quell’attimo di estremo piacere, poi feci pressione su una sua spalla e lo costrinsi a scivolare su un fianco. Un attimo dopo mi ritrovai sopra di lui e avevo la situazione in pugno. I suoi occhi verdi mi fissavano assenti e socchiusi, le labbra turgide erano appena contorte per lo sforzo, il suo braccio destro era scivolato giù dal materasso e ora il dorso della mano sfiorava il pavimento, arreso.

“Sharon, io ti voglio,” continuava a ripetere come nel bel mezzo di un delirio.

“Stanotte sono nelle tue mani,” sussurrai.

“Una notte non basta,” ribatté mentre mi accarezzava i fianchi con i polpastrelli ruvidi.

In un barlume di lucidità lo fissai senza essere sicura di aver capito bene. “Nikki, ma cosa stai–”

“Aspetta,” mi interruppe. “Ci sono quasi.”

Fece appena in tempo a terminare la frase; un attimo dopo venne lasciandosi sfuggire un lamento di piacere e mi strinse al suo petto quando ebbe terminato, ancora scosso dai brividi e con il fiato corto che continuava a colpire la base del mio collo.

“Perché hai detto quelle cose?” ripresi con ancora il volto a contatto con la sua pelle sudata. Nikki non mi rispose, ma si limitò a sciogliere l’abbraccio e a rotolare a pancia in su sul materasso, le braccia bianche scostate dal resto del corpo nel vano tentativo di trovare un po’ di refrigerio. Mi soffermai a osservare il profilo del suo viso e cominciai a sentire le palpebre pesanti. Si sarebbero chiuse nel giro di poco se lui non avesse iniziato a parlare.

“Non ti ho portata in casa mia solo perché avevo voglia di farmi un giro. Se fosse stato così sarei andato a cercare una di quelle tipe che ronzano nel nostro backstage, non te,” disse senza distogliere lo sguardo stremato dal soffitto.

Mi scostai i capelli dal viso e mi girai su un fianco senza nemmeno preoccuparmi di coprirmi. “Allora perché lo hai fatto?”

“Con te è diverso. Tu sei diversa,” spiegò. “Tu mi fai provare qualcosa che con una qualunque altra ragazza non proverei. Voglio dire... tu, Sharon, mi dai quel qualcosa in più che cerco e che non saprei nemmeno come definire.”

Gli accarezzai l’intero braccio abbandonato sul materasso senza sapere in che modo rispondergli. Se solo non si fosse addormentato subito, gli avrei chiesto di farlo un’altra volta perché avevo bisogno di sentire ancora quell’affetto che lui non aveva saputo definire.




N.D’.A.: Buongiorno! =)
Come sempre, grazie a tutti voi che leggete e a chi recensisce! ♥
Un glam kiss e a mercoledì prossimo,

Angie


Titolo: Turbo Lover - Judas Priest


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Capitolo 10
*** I.10) Dream On ***


10
DREAM ON





Era già mattina quando aprii gli occhi e, per una volta negli ultimi tre anni, non avevo né mal di testa né mi sentivo le ossa in frantumi. Avevo ancora sonno, questo era vero, però non era dovuto al fatto che avessi passato la notte a stonarmi in compagnia del primo che era riuscito a procurarmi un po’ di cocaina – anzi, non ne avevo proprio toccata, di cocaina. Avevo solo fumato uno spinello, ovviamente accompagnato da una birra fredda, ma ero riuscita a non spingermi oltre.

Mi sedetti e mi stiracchiai nella penombra della stanza, accorgendomi di essere l’unica anima viva nella camera. La luce che entrava dalle fessure della veneziana abbassata non era sufficiente per aiutarmi a distinguere i contorni dei vari oggetti sparsi sul pavimento, allora arraffai il primo cumulo di vestiti che trovai e riconobbi col tatto che si trattava delle mie mutande e di una T-shirt che non mi apparteneva. Me le infilai entrambe e mi incamminai scalza verso il salotto, dal quale proveniva un forte aroma di caffè proprio come accadeva nel nostro appartamento le mattine in cui Brett si svegliava per primo e lo preparava per tutti in modo che potessimo affrontare le prove con più energie. Mi strinsi nelle spalle mentre avanzavo sul pavimento freddo del piccolo disimpegno buio e mi trovai nel salotto, scoprendo che anch’esso era vuoto. Decisi allora di seguire la scia dell’odore di caffè e di recarmi in cucina, dove trovai la causa di quel buon profumo: Nikki se ne stava in piedi davanti ai fornelli, intento a spignattare come non pensavo fosse in grado di fare. Lo osservai incuriosita mentre arraffava una spatola appesa ad una barra metallica per rigirare quello che stava friggendo in una padella, ma all’improvviso una nuvola grigia si sollevò verso l’alto e lui lasciò cadere le braccia lungo i fianchi con fare sconsolato.

“Ma vaffanculo...” borbottò mentre spegneva il fornello, dopodiché sollevò la pentola e si voltò, incrociando il mio sguardo. “Oh, Sharon, finalmente sveglia!”

Lo salutai con un cenno della mano accompagnato da un lungo sbadiglio.

“Volevo preparare qualcosa da mangiare, ma credo che dovremo rinunciare alla mia colazione,” spiegò mentre mi mostrava la padella, al cui interno c’era uno strano composto giallastro con i bordi anneriti che avrebbe dovuto essere un’omelette, o qualcosa di simile.

“Non preoccuparti, anche a casa mia non riusciamo mai a cucinare niente,” lo rassicurai abbozzando un sorriso.

Nikki sospirò e riempì di caffè un paio di tazze di forma e colore diversi. “Sempre meglio che rischiare di dar fuoco alla casa mentre cerchi di preparare un piatto di pasta come ha fatto Tommy una volta.”

“Adesso che non abitate più insieme non ci sarà più il rischio che qualcosa si incendi,” scherzai mentre prendevo una delle due tazze calde.

Nikki alzò le spalle e mi fece cenno di seguirlo in salotto. “Abitare da solo ha i suoi vantaggi perché non c’è nessuno che mi scoccia mentre sto scrivendo una canzone, ma non è poi così bello tornare a casa e non trovare nessuno, indipendentemente dal fatto che questo qualcuno sia semplicemente seduto al tavolo a leggere il giornale o che si stia dondolando da appeso a un’anta della finestra, ululando come un dannato.”

Presi posto sul divano e mi lasciai sprofondare nei cuscini fin troppo molli sotto lo sguardo indagatore di Nikki, poi riposi la tazza sul pavimento e lo guardai di sbieco. Non feci in tempo a domandargli per quale motivo mi stesse fissando in quel modo perché mi precedette: in un attimo mi ritrovai con le labbra premute contro le sue, nel silenzio del salotto come sempre interrotto dal rumore delle automobili che entrava dalla finestra spalancata insieme a un venticello caldo. Gli circondai il collo con le braccia e il nostro bacio si fece sempre più veemente finché Nikki non lo interruppe improvvisamente.

“Ho trovato la soluzione al problema di prima,” saltò su.

“Non ti seguo,” dissi con ancora il fiato corto.

Si sedette e mi guardò dritta negli occhi mentre ero ancora distesa sul divano. “Perché non rimani qui con me?”

A quelle parole sentii un brivido percorrermi la schiena e risalire fino al collo. Ero così stupita da quella proposta assurda che non riuscii nemmeno a trovare la forza per mettermi a sedere di fianco a lui.

“Così io non sono da solo e tu non devi più condividere la stanza con Rita, che ti spedisce a dormire sul divano ogni volta che rimorchia qualcuno,” continuò Nikki come se non si fosse accorto della mia espressione sorpresa. “Io tengo compagnia a te, tu a me, poi suoniamo, facciamo festicciole. Insomma, sarà divertente.”

“Tu... tu sei matto,” balbettai con gli occhi ancora spalancati. “Io che abito con te? Non credo funzionerebbe.”

“Ehi!” mi interruppe sollevando le mani. “Non ho detto che devi essere la mia fottuta fidanzata! Ti ho solo proposto di trasferirti qui, sempre ammesso che tu voglia staccarti dalla sottana di Brett.”

“Per me è come un fratello. Non ti permetto di parlare di lui con quel tono insofferente,” misi subito in chiaro, alterata.

“Lo so, infatti il tono insofferente non era riferito a Brett, ma al fatto che tu gli sia perennemente attaccata al culo.”

Sentii gli occhi schizzarmi fuori dalle orbite per il nervoso. “Credo che sia normale che due persone che si conoscono da una vita passino molto tempo insieme, o no?”

Nikki sbuffò e si lasciò cadere con la schiena contro il divano, fissandosi le mani congiunte sul grembo. “Non lo so, non ho mai avuto vicino qualcuno che conosco da una vita. Ho T-Bone, che ho incontrato un paio di anni fa, però tutte le altre persone vanno e vengono di continuano. Arrivano, mi lavorano, ottengono ciò che vogliono e spariscono, mentre altre volte mi ritrovo a essere io quello che le lavora, ottiene ciò che vuole e sparisce.”

Sollevò poi il capo e puntò lo sguardo assente in un punto fisso del muro chiaro dall’altra parte della stanza.

“Non sono quel tipo di persona. Anzi, a volte penso che dovrei imparare a non legarmi troppo a tutti quelli che conosco,” ammisi con un filo di voce, torcendomi le dita.

Nikki si strofinò un occhio. “Non era questo che intendevo. La mia era solo una proposta. Sei libera di scegliere”

“Ovvio che sono libera di scegliere. Infatti scelgo di accettare.”

Le iridi verdi di Nikki si illuminarono all’improvviso assumendo più vitalità del solito e si chinò nuovamente su di me per abbracciarmi. Se quello che mi aveva detto la sera prima era vero e non era solo una conseguenza del fatto che fosse particolarmente preso dalle circostanze, allora avrei passato parecchio tempo in quella casa, altrimenti ero destinata a trascorrerci a malapena un mese, dopodiché avrei fatto le valigie e sarei tornata a invadere la stanza di Rita con la coda tra le zampe.

Ora non mi restava che annunciare agli altri che da quel giorno non avremmo più condiviso lo stesso tetto e, mentre camminavo verso casa a passo sostenuto, pensavo a un eventuale modo in cui comunicarlo a Brett, che non si sarebbe rassegnato facilmente. Del resto era comprensibile visto che erano tredici anni che era abituato ad avermi tra i piedi per buona parte della giornata.

Quando arrivai a casa, mi aspettavo di trovare la solita atmosfera sonnolenta tipica delle dieci del mattino, con tanto di Steven in mutande che ronfava sul divano col suo cappello da cow-boy calato sugli occhi, ma mi sbagliavo. La porta era spalancata come quando c’era una festa in corso e le note di Roadhouse Blues dei Doors riecheggiavano per tutto l’appartamento. Le tende svolazzavano appena mosse dal vento secco e tiepido, la voce potente di Steven risuonava giuliva per il salotto e tutte le finestre erano state lasciate aperte per permettere alla luce di invadere l’intera casa. Chiamai ad alta voce i miei compagni e la prima a sbucare dal corridoio fu Rita, ancora più allegra e iperattiva del solito.

“Che bello riaverti tra noi, Sharon!” esclamò, poi aggiunse con un’espressione astuta stampata sul suo volto coperto da un’adorabile spolverata di lentiggini. “Ci stavamo giusto domandando che fine avessi fatto.”

“Al pub ho incontrato Nikki e ha insistito per farmi vedere la sua nuova casa,” raccontai mentre mi guardavo intorno, ancora stupita da tutta quella strana vitalità.

Rita agitò un dito come per dirmi “ecco, lo sapevo”.

“Secondo me non hai visto solo la casa, ma sorvoliamo su questi dettagli perché dopo avrai tutto il tempo che vorrai per raccontarmeli senza tralasciare nulla. Prima però dobbiamo darti una notizia sensazionale,” mi fece cenno di aspettare e si affacciò nuovamente alla porta del corridoio. “Brett, bastardo, vieni un po’ a dire a Sharon Smith che cos’è successo ieri sera!”

Un attimo dopo la sagoma imponente del mio amico guizzò fuori dalla sua camera seguita da quella più minuta di Steven, attraversò il disimpegno veloce come un fulmine e si fermò a pochi centimetri da me, muovendo l’aria. Brett mi fissava con gli occhi fuori dalle orbite, grondante di sudore come se avesse appena corso sotto il sole e con un sorriso che partiva da un orecchio e arrivava fino all’altro.

“Ieri sera, poco dopo che tu sei uscita, ci ha contattati un certo John Gates,” cominciò sfregandosi le mani. “Sai chi è?”

Inarcai un sopracciglio, confusa. “Non mi dice niente.”

Brett sogghignò seguito a ruota dagli altri due. “E il nome ‘Platinum Records’ ti dice qualcosa?”

Non appena udii quelle due parole mi sembrò che il pavimento sublimasse da sotto i miei piedi. “Non è quella casa discografica che c’è sul Santa Monica Boulevard?”

“Proprio così!” confermò Brett, e il mio cuore perse un battito. “E il carissimo John Gates vorrebbe metterci sotto contratto. Domani sera abbiamo un appuntamento nel suo ufficio nella sede principale.”

Rita fece capolino da dietro sua spalla di Brett. “Quell’uomo ci sta perseguitando da settimane e non ce ne siamo mai accorti. Sono settimane ce questo tizio pensa di offrirci un contratto, e noi nemmeno lo immaginavamo.”

Non le permisi di aggiungere altro perché mi avventai contro di lei per abbracciarla, le lacrime agli occhi per l’emozione e un’incredibile voglia di elargire abbracci a tutti. Quella era decisamente la mia giornata fortunata: avevo trovato una persona che si era affezionata a me e anche un contratto per la mia band. Mi sentivo stranamente a posto con me stessa e col mondo intero.

“Nikki!” esclamai ad alta voce mentre liberavo Steven dalla mia stretta. “Deve saperlo subito!”

Quel Nikki?” domandò il mio cantante, confuso e con un’espressione epica stampata sul volto.

Tornai ad arraffare il mio gilet di jeans da sopra il divano e sfrecciai verso la porta senza dargli una risposta, ma soprattutto senza rendermi conto che qualcun altro aveva deciso di seguirmi mentre mi catapultavo giù per le scale. Me ne accorsi solo nel momento in cui una mano mi afferrò per un braccio, quando avevo già oltrepassato il cancelletto.

“Dove corri? Resta qui, dobbiamo festeggiare!” mi pregò Brett.

“Devo assolutamente dire a Nikki che stiamo per ottenere un contratto. Torno subito,” risposi tutto d’un fiato, poi mi accorsi che Brett era sempre più perplesso e pensai che sarebbe stato meglio se gli avessi fornito qualche spiegazione, possibilmente seguendo l’ordine cronologico degli avvenimenti. Brett mi ascoltava attentamente, le braccia penzoloni e gli occhi fissi nei miei come se fosse stato pronto a zittirmi piazzandomi una mano sulla bocca nel momento in cui non avrebbe più potuto sopportare le mie parole. Capii che si stava innervosendo perché aveva iniziato a guardarmi di sbieco e a mordicchiarsi l’interno di una guancia.

“C’è qualcosa che non va?” gli chiesi timidamente quando ebbi terminato il mio discorso.

Brett sollevò le sopracciglia e sospirò. “Ti stai cacciando in un brutto guaio.”

Mi portai le mani sulla pancia e scoppiai in una risata nervosa. “Non dire stronzate!”

“Hai idea della persona con cui stai per–” si interruppe e calciò via una lattina vuota abbandonata sul marciapiede, spedendola in mezzo alla strada. “Hai presente il carattere di Nikki Sixx. Lo sai come tratta la gente, no? Lo farà anche con te e sono pronto a mettere la mano sul fuoco che tra una settimana sarai di nuovo qui.”

“Perché mi dici queste cose?” domandai con tono infantile come una bambina che si sente presa in giro da un adulto.

“Perché ti voglio bene, Sherry,” rispose Brett. “Non potrei tollerare di vederti tornare a casa col morale a pezzi per colpa di un cretino come lui.”

“Vaffanculo!” sbottai. “Non potresti pensare positivo per una cazzo di volta nella tua vita? Pensa a me che sarò felice, non a me che tornerò indietro col cuore a pezzi tra le mani, anche perché io non sono la sua fidanzata o qualche altra roba del genere.”

Brett si passò una mano aperta sul volto con la vana speranza di tranquillizzarsi, ottenendo però l’effetto contrario. “Ah, non lo sei? Allora ti dico io chi sei. Sei la prima scema che passa e che gliela serve su un piatto d’argento tutte le volte che vuole. Sei peggio di una groupie. Lo sai che fine fanno quelle, le vedi tutti i giorni entrare e uscire da casa nostra: le teniamo con noi finché non ci stanchiamo, poi le mandiamo via e ne facciamo entrare qualcun’altra. Solo che a loro va bene così, mentre tu stai cercando dell’altro.”

“Non sto cercando proprio niente!” ribattei con le gote che bollivano per la rabbia. “Ho solo trovato una persona che mi vuole bene.”

Brett sbuffò sonoramente. “Non sei la sua fidanzata, ma gli vuoi bene e vorresti stare con lui... santo cielo, Sharon, ma ti senti quando parli? Ti stai contraddicendo.”

“Piantala, Brett!” esclamai. “Ultimamente non ne azzecchi proprio una con me, eh? Si può sapere cosa ti prende? Neanche mia madre si preoccupava così per me, e ancora di meno faceva mio padre.”

Gli voltai le spalle mentre mi chiamava pregandomi di restare a casa a festeggiare, ma io non avevo la mia minima intenzione di farlo. Quella avrebbe dovuto essere una bellissima giornata e Brett era riuscito a rovinarla. Era sempre stato un ottimo amico: aveva sempre saputo darmi consigli validi e mi aveva aiutata nel momento del bisogno come anch’io avevo fatto con lui, ma certe volte diventava troppo apprensivo. Gli volevo un bene dell’anima, però era bene che ragionassi con la mia testa anziché con la sua, e quella mattina ero arrivata alla conclusione che avesse torto. Sapevo che Nikki e io eravamo legati da qualcosa e, nel bene o nel male, lo saremo stati molto a lungo anche se Brett temeva che potessi non essere felice come lui desiderava che fossi.

Con questi pensieri per la testa, svoltai l’angolo e mi ritrovai sul Sunset Boulevard, determinata più che mai a correre da Nikki per portargli la buona notizia.




N.D’.A.: Salve! =)
Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento.
Fino ad ora nessuno ha mai detto niente, ma se doveste trovare qualche errore nella forma o di distrazione, fatemelo notare in modo che possa correggerlo visto che non è difficile che ce ne siano nonostante rilegga il capitolo centomila volte prima ci caricarlo!
Grazie a tutti! ♥
Glam kisses e a mercoledì prossimo!

Angie


Titolo: Dream On - Aerosmith


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Capitolo 11
*** I.11) Born to Raise Hell ***


11
BORN TO RAISE HELL





Il signor John Gates si rivelò una persona più alla mano di quanto credessimo. Nikki mi aveva messa in guardia verso i discografici perché, data la sua ultima – e per ora unica – esperienza, riteneva che fossero tutti degli approfittatori col solo scopo di spremere la band come un limone per ottenere quanto più denaro possibile. Al contrario di ciò che Nikki ci aveva detto, il signor Gates era un tipo strambo ma appassionato di musica e, soprattutto, credeva in noi come nessun altro aveva fatto.

Ci ricevette nel suo studio nella sede della Platinum Records sul Santa Monica Boulevard, ci fece accomodare su quattro sedie di plexiglass trasparente all’ultimo grido, ci offrì un caffè e cominciò a elencarci le idee che avrebbe avuto per noi se avessimo accettato il suo contratto. Noi, tutti con la bava alla bocca come cani randagi seduti davanti a un chiosco di hot-dogs, dopo un’ora intera di spiegazioni, patteggiamenti di vario genere e condizioni, afferrammo la penna stilografica di Gates con sopra il logo della Platinum Records, ovvero un vinile argentato con le lettere “PR” incise al centro, e firmammo quello che era il nostro primo contratto discografico. E nuovo contratto discografico uguale festa. Ma non una di quelle al Whisky a Go-Go: un vero e proprio party all’insegna del divertimento eccessivo a casa di Tommy, che aveva messo il suo appartamento al piano terra a disposizione nostra band, della sua, e della marea di invitati, alla quale si aggiungevano altrettanti imbucati. C’era così tanta confusione che la baraonda si sentiva fino in strada.

Tommy, ora in piedi sul tavolo con addosso solo le mutande e un paio di Converse di colore diverso, era impegnato a tenere banco mentre agitava una bottiglia di birra in compagnia di Rita. Brett aveva iniziato a girare in tondo per il salotto, saltando e ballando in modo tutt’altro che coordinato, mentre Steven e Vince avevano preso di mira un crocchio di ragazze. Ma quella sera avevamo anche un ospite d’onore che, avvolto nella sua consueta aura cupa e misteriosa, aveva preso posto sulla poltrona, le braccia ordinatamente appoggiate sui braccioli come quelle di un re sul trono, e guardava tutti con gli occhi assottigliati come se fosse stato lì per tenere sotto controllo la situazione. Peccato però che il vecchio Mick Mars non si sentisse affatto a suo agio in mezzo a quel casino e, sebbene il nostro non potesse assolutamente essere definito un rapporto d’amicizia, mi guardava con occhi supplichevoli, come se avesse voluto implorarmi di sollevarlo di peso e portarlo il più lontano possibile da quella casa. Poveretto, lui voleva solo tornare in mezzo alla pace del suo appartamento vicino al mare, in compagnia della sua amata chitarra. Non ne poteva più di tutte quelle persone che si dimenavano come baccanti invasate, senza contare che la birra che gli avevano offerto faceva davvero schifo – e lo pensavo anch’io. La sua espressività raggiunse il culmine nel momento in cui un tipo sotto gli effetti di chissà quale sostanza si arrampicò sull’anta di una finestra per assumere una posizione alquanto strana e pericolosa in modo da poter battere le piante dei piedi contro il muro, urlando a squarciagola.

Intanto, sopra il tavolo della sala che fino a poco prima aveva ospitato un vaso con dei fiori, io e Nikki osservavamo Tommy che saltava come un grillo ubriaco. Agitava le braccia scheletriche in aria, teneva gli occhi spalancati e girava su se stesso. “Ehi, belli, sentite un po’ questa! Mi dovete ascoltare, ho una cosa importantissima da dire! State zitti tutti!”

Una buona parte degli animi festaioli radunati nell’appartamento non si degnò nemmeno di sollevare il naso dal proprio bicchiere, mentre alcuni si ammutolirono e lo fissarono con sguardo seccato in attesa che annunciasse la notizia che, a quanto pareva, doveva essere qualcosa di veramente sensazionale. Tommy sollevò la bottiglia di birra come se fosse stata un trofeo, buttò un’occhiata a me e al suo Gemello Terribile, ghignò e, un attimo prima che iniziasse a parlare, la porta principale si scardinò e cadde verso l’interno dell’appartamento mancando per un pelo il pacifico Mick, il quale si limitò a fissare il pezzo di legno scuro che giaceva sul pavimento con un cipiglio severo. Evidentemente non si era accorto che fermi sulla soglia, con le mani appoggiate sulle rivoltelle appese alla cintura, c’erano degli sbirri.

“Polizia di Los Angeles,” esordì uno degli agenti. “Portate tutti le mani in alto e si faccia avanti il proprietario di questo appartamento.”

Un silenzio surreale aveva momentaneamente invaso l’aria e tutti abbandonammo le nostre occupazioni e restammo immobili per una frazione di secondo nell’aria calda, stantia e invasa di fumo, marijuana e lacca per capelli. Tommy continuava a fissare i poliziotti con la bocca semiaperta e i grandi occhi scuri fuori dalla testa, Brett lasciò cadere per terra la sua bottiglia, e Nikki mi afferrò prontamente per un braccio.

“Via da qui!” sbraitò qualcuno, e dopo quell’orripilante urlo ebbe inizio una fuga di massa durante la quale a nessuno importava più del proprio amico, della propria fidanzata o della propria pista ben disposta per essere sniffata. La gente iniziò a scappare passando attraverso le finestre, alcuni si tuffarono letteralmente fuori come se oltre il davanzale ci fosse stata una distesa d’acqua abbastanza profonda, e i più flippati si arenarono contro la siepe che circondava il cortile della palazzina perché non erano in grado di scavalcarla.

Un braccio mi circondò la vita in una stretta ben salda: era Nikki, pronto a scappare da quell’inferno per portare in salvo le nostre pellacce e per evitare che facessimo la fine di Mick, che aveva avuto la terribile sfortuna di trovarsi vicino alla porta e di essere ammanettato per primo – proprio lui che, se solo avesse potuto e non lo avessimo obbligato, non sarebbe neanche venuto alla nostra festa.

“Dove avete parcheggiato?” mi chiese Nikki mentre correvamo verso la finestra.

“In fondo alla via, ma le chiavi ce le ha Brett,” risposi da aggrappata alla sua spalla. Era grande e grosso rispetto a me e mi portava in giro come se fossi stata una bambina capricciosa che si rifiuta di camminare, costringendomi ad avvinghiarmi a lui per non inciampare.

“‘Fanculo!” tuonò, poi girò sui tacchi, si diresse verso Brett e lo acciuffò per un braccio per condurlo verso l’esterno. Nel frattempo ci raggiunsero anche Vince e Tommy, il cantante sorretto da un batterista piuttosto seccato di dover compiere quell’immane sforzo proprio per lui.

Scavalcammo la finestra e attraversammo il cortile invaso da decine di fuggiaschi in preda al panico più totale, sotto la luna alta nel cielo notturno che vegliava sulla Città degli Angeli, forse ridendo di quella scena assurda che si stava ripetendo in chissà quante altre parti dell’immensa e selvaggia L.A..

“Ehi!” berciò Tommy preoccupato fermando la carovana. “Questo coglione sta per vomitare. Cosa facciamo?”

“Corri, stupido, corri!” lo esortò Nikki. “Lo vedi o no che qui marca male?”

Oltrepassammo il cancello aperto e ci trovammo finalmente in strada, rischiando di essere travolti da qualche guidatore in fuga con il fuoco sotto le chiappe per la paura. Adesso non ci restava che raggiungere il pick-up di Brett, salire a bordo e scappare, ma nessuno a parte me sembrava essersi ricordato che Steven e Rita non erano con noi. Presi a guardarmi intorno con apprensione, sperando di scorgerli tra le persone che scappavano dalle finestre come topi dal fuoco, ma non vidi altro che volti sconosciuti contorti in espressioni di puro terrore. Feci un respiro profondo e pregai che si salvassero, poi riprendemmo tutti a correre verso il pick-up. Per qualche miracolo Steven e Rita si trovavano già sul cassone del catorcio di Brett e potei finalmente tirare un sospiro di sollievo.

Rita saltò al posto di guida, Tommy occupò quello accanto al suo e Nikki e io fummo relegati nei sedili posteriori insieme a Vince, il cui viso aveva assunto un colorito tutt’altro che rassicurante. La nostra batterista pigiò l’acceleratore e sfrecciammo via sgommando. Quando passammo davanti alla palazzina in cui viveva Tommy, ci accorgemmo che i poliziotti stavano uscendo e che avevano ammanettato il malcapitato Mick e altre tre persone.

“Bastardi!” urlò Nikki a squarciagola alla vista del loro chitarrista che veniva strattonato da una parte all’altra da una coppia di agenti che sembravano divertirsi a trattarlo in quel modo.

Vince si passò entrambe le mani sul volto e si tirò indietro la frangia, scoprendo la fronte imperlata di sudore e lo sguardo allucinato. “Potresti evitare di urlare? Non mi sento molto bene.”

“Porca miseria, Neil,” esclamò Rita battendo un pugno sul volante. “Metti quella cazzo di testa fuori dal finestrino e non ti azzardare a impiastricciare i sedili col tuo vomito.”

“Sto male per davvero, possiamo fermarci?” biascicò, poi si accasciò addosso a me come se lo avessero appena privato del sostegno delle sue stesse ossa. Fui costretta ad afferrarlo saldamente per il gilet di jeans e ad aiutarlo ad appoggiarsi al finestrino prima che facesse un vero e proprio disastro.

Intanto, accanto a me, Nikki borbottava parole incomprensibili con le braccia incrociate sul petto e i denti stretti, fissando il retro del sedile di fronte. Incuriosita dal fatto che si fosse incupito all’improvviso, diedi un paio di leggere pacche di incoraggiamento a Vince prima di abbandonarlo a se stesso e vi voltai verso Nikki.

“Stai bene o hai bevuto troppo anche tu?” domandai sarcastica.

Nikki strinse i pugni per poi riaprirli e battere i palmi sulle ginocchia. “Hai visto come trattavano Mick?”

Gli passai un braccio intorno alle spalle e sospirai. “Gli sbirri fanno così con tutti.”

“Lo so, è capitato anche a me, però–” si bloccò all’improvviso, lo sguardo assottigliato fisso nel vuoto e le mani tremanti aperte sulle ginocchia.

“Però?” lo incalzai. Intanto Vince continuava a dare libero sfogo a qualche birra di troppo e Rita si lamentava per il traffico intenso.

Nikki si morse un labbro e scosse convulsamente il capo. “Dio, è da quando vivevo a Seattle che li vedo fare gli stronzi con chi è più debole.”

“Seattle?” ripetei confusa. “Tu abitavi a Seattle? Anche Rita, lo sai?”

“Non voglio parlarne,” il suo tono freddo e diretto mi zittirono all’istante.

“Qualcosa non va?” azzardai, incurante del fatto che mi avesse appena chiesto indirettamente di smetterla di fargli delle domande.

Nikki fece cenno di no col capo e si passò le dita tra i capelli, poi mi rivolse uno sguardo stanco e speranzoso. “Vieni da me, adesso, vero?”

Annuii. “Per forza, io con te ci abito. Però prima ti avevo chiesto un’altra cosa.”

Nikki agitò le mani in modo confuso, come se avesse voluto scacciare del fumo da davanti ai suoi occhi. “Va tutto bene, grazie.”

“Qualcosa mi dice che non devo fidarmi,” ribattei.

“Come ti pare,” sibilò Nikki. “Basta che non mi lasci da solo in quel cazzo di appartamento.”

E tornò a fissare un punto a caso davanti a sé.

Nel frattempo Vince aveva smesso di vomitare, anche perché ormai non gli era rimasto più nulla nello stomaco, e si era accasciato contro il sedile, totalmente privo di forze. Lo tornai ad afferrare per il gilet per aiutarlo a sedersi in una posizione più comoda poi, una volta terminata anche quella missione, appoggiai il capo alla spalla di Nikki e presi a osservare il paesaggio urbano che scorreva fuori dal finestrino mentre ci muovevamo per uno dei viali di Hollywood.

La serata non si era conclusa nel migliore dei modi, però quel giorno non lo avrei dimenticato tanto facilmente. Era solo l’inizio di un’intensa carriera e di una storia tanto lunga quanto travagliata.




N.D’.A.: Salve!
Come suppongo abbiate ben intuito leggendo l’ultima frase, tra Nikki e Sharon non sarà tutto rose e fiori.
Colgo l’occasione per ringraziare chi ha aggiunto la storia tra le seguite e chi recensisce. ♥
Se avete qualcosa da dire, correggere o commentare, fate pure. :)
Ci si rilegge mercoledì prossimo!
Kisses,

Angie


Titolo: Born to Raise Hell - Motörhead



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Capitolo 12
*** I.12) On With the Show ***


12
ON WITH THE SHOW





Di nuovo quei fottuti insetti, di nuovo quella sgradevole sensazione di fastidio e squallore, di nuovo quelle dannate zampette che si arrampicavano lungo la mia pancia, pizzicandomi e mordendomi.

Mi rigirai nel letto e nella dormiveglia mi resi conto che mi stavo lamentando ad alta voce, ma essendo ancora in parte addormentata, ero certa che gli insetti velenosi ci fossero per davvero. Cambiai posizione svariate volte imprecando contro quelle orripilanti bestiole assassine, convinta che presto sarebbero riuscite a iniettarmi il loro veleno. Mi maledissi mentalmente per aver preso una pasticca di troppo, anche se lo avevo fatto per una buona causa: mi sembrava che le mie ossa si stessero frantumando a causa dell’astinenza ed ero convinta che se non avessi assunto una dose sarei morta. Ora però gli effetti collaterali avevano cominciato a farsi sentire e le zampe degli insetti sembravano affondare nella mia pelle come tanti piccoli spilli. Poi, come se non bastasse, un paio di braccia mi strinsero la vita e mi sentii oppressa da qualcosa di caldo.

“Calmati, Sharon, va tutto bene,” mi rassicurò una voce profonda e familiare.

“Brett?” chiamai mentre mi coprivo il volto e buona parte del capo con le mani e le braccia.

“No,” mi contraddisse la voce paziente. “Sono Nikki.”

Il suo nome risuonò dolce tra le pareti della piccola stanza e solo allora mi decisi a rilassare i muscoli di tutto il corpo e a scoprirmi il viso per permettere alla luce dell’alba di accarezzarmi la pelle.

“Ti ricordi dove ti trovi? Non sei più a casa con Brett,” mi domandò mentre mi sfiorava una guancia con la punta delle dita.

Annuii impercettibilmente. “Non ci sono insetti, vero? Erano solo una brutta allucinazione.”

“Non c’è nessuno oltre a noi, neanche un moscerino.”

Mi girai a pancia in su con un movimento brusco, ritrovandomi a fissare il soffitto bianco al centro del quale pendeva un lampadario dalla forma sferica. “Dio, che paura. E adesso ho anche male dappertutto.”

Nikki mi posò una mano sulla testa e mi invitò ad appoggiarla contro la sua spalla. “È colpa di quella roba di ieri sera. Forse non avresti dovuto prenderne così tanta.”

Forse avrei fatto decisamente meglio a non prenderne più, ma il solo pensiero mi faceva andare in paranoia. Senza contare che smettere non sarebbe stato per niente facile. Non avevo abbastanza soldi per permettermi di pagare un esperto che mi aiutasse nella riabilitazione ma, soprattutto, non avevo abbastanza forza di volontà per abbandonare quello schifo. Sospirai innervosita contro il petto di Nikki, il quale accarezzò i miei capelli arruffati e madidi di sudore.

“Torniamo a dormire,” disse a bassa voce. “È ancora presto per alzarsi.”

Mi accucciai contro di lui con l’intenzione di riprendere sonno, ma il semplice fatto di trovarmi proprio là, in quella stanza piccola e bianca, la nostra, mi aveva fatto passare del tutto la voglia di riposarmi. Non capivo che senso avesse dormire quando avrei potuto restare sveglia a contemplare quel tizio che era appena entrato a far parte della mia vita per portarmi un po’ di quell’affetto che per anni non avevo ricevuto. Era già passato un mese dal giorno in cui mi ero trasferita in quell’appartamento fin troppo stretto per due persone, eppure ero ancora elettrizzata come la mattina in cui Nikki mi aveva chiesto di lasciare la casa che avevo condiviso per mesi con i miei amici per stare da lui in modo che potessimo tenerci compagnia. Ora potevo finalmente affermare che la sua idea si fosse rivelata sensata e, soprattutto, efficace.

Sorrisi e osservai Nikki, che aveva già ripreso a dormire placidamente come uno di quei mocciosi che, dopo aver saltato per il salotto per un’ora gridando e cantando, si accascia sul divano e si addormenta, costringendo i grandi a prenderlo in braccio per portarlo a letto. Scostai i ciuffi corvini dal suo viso, per una volta privo di residui di trucco, poi mi sforzai di riaddormentarmi.

Ci svegliammo qualche ora dopo, quando la luce che entrava dalle veneziane diventò troppo potente per permetterci di dormire ancora. Nikki si alzò per primo e in tutta fretta dal momento che era già in ritardo per l’appuntamento per la registrazione del loro secondo album che, stando a ciò che i ragazzi mi avevano detto e a quanto io stessa avevo avuto l’onore di sentire, era destinato a vendere un elevato numero di copie in più rispetto al disco precedente.

Mentre scendevo le scale, stavo ancora pensando a Mick che, borbottando come una caffettiera in ebollizione per l’irritazione, una sera si era deciso a farmi sentire qualche riff che aveva intenzione di utilizzare per uno dei loro nuovi pezzi. Ero sovrappensiero e un po’ stanca, dunque non mi accorsi subito della presenza di un postino in difficoltà fermo davanti al cancello. Quello, un ragazzo magro come un chiodo, più o meno mio coetaneo e con i capelli rossi a spazzola, scorreva con apprensione i nomi sulle cassette alla ricerca di quello giusto, stringendo tra le mani una lettera dall’aspetto comune. Osservai divertita i suoi occhietti chiari e spalancati che si assottigliavano ogni volta in cui doveva leggere l’etichetta riportante il nome di uno dei condomini e abbozzai un sorriso.

“Scu–scusa, posso chiedere un’informazione?” saltò poi su, l’indice magro puntato verso l’alto per farsi notare.

Distolsi lo sguardo dalle lastre di pietra che componevano il viottolo dissestato del cortile e gli diedi il permesso di parlare con un cenno del mento. Il ragazzo si grattò la nuca con fare impacciato e si portò la busta davanti agli occhi per leggere il nome del destinatario. “Volevo sapere se il signor Franklin Carlton Serafino Feranna abita qui. Devo consegnargli una lettera, ma il suo nome non corrisponde a questo indirizzo.”

Feci mente locale e cercai di ricordarmi i nomi di tutte le persone che vivevano nel mio stesso blocco di appartamenti, poi scossi il capo. “Mi dispiace, ma non l’ho mai sentito.”

Il postino sbuffò, visibilmente agitato. “Ho già controllato l’intera via sperando che avessero sbagliato il numero civico, ma non c’è traccia di questo signor Feranna.”

In quello stesso momento, ovvero poco prima che consigliassi al ragazo di utilizzare una di quelle tecniche di auto-rilassamento per evitare di andare in iperventilazione a causa di una lettera che non sapeva a chi consegnare, Nikki uscì dal portone principale e si avvicinò al postino, anche lui incuriosito dal suo comportamento. Cominciai a incamminarmi lentamente, certa che Nikki mi stesse seguendo, ma quando mi girai per controllare quanto rimasto indietro non lo vidi più. In compenso il postino si stava dirigendo verso il suo scooter col motore palesemente truccato, ora rilassato più che mai.

“Se stai cercando il tipo di prima, è tornato in casa,” gridò mentre mi passava vicino, poi accelerò, sfrecciò via scoppiettando e sparì in fondo alla via, all’ombra delle chiome degli alberi che costeggiavano la strada.

Aggrottai la fronte e mi appoggiai al muretto del cortile in attesa che Nikki tornasse, godendo di una lieve brezza che si era appena levata ma che era destinata a durare solo qualche secondo. Volsi poi lo sguardo verso la finestra del nostro appartamento e, visto che Nikki ci stava mettendo troppo e io stavo rischiando di mettere le radici su quel dannato muricciolo scalcinato, mi diressi a grandi passi verso le scale. La porta era aperta e per questo mi aspettavo di trovare Nikki intento a rovistare dappertutto alla ricerca di qualcosa che doveva portare con sé ma che aveva dimenticato, invece lo sorpresi accasciato su una sedia, un gomito appoggiato sul tavolo e un braccio che penzolava lungo il fianco. Davanti a lui c’era una lettera scritta a mano con una grafia sottile e, poco più in là, strappata a metà, c’era una busta. Ne presi una delle due parti e lessi il nome del destinatario. Il cuore mi saltò in gola e strabuzzai gli occhi senza aver capito nulla di ciò che stava accadendo.

“Franklin Carlton Serafino Feranna,” ripetei ad alta voce, poi guardai Nikki. “Perché stai leggendo la sua lettera?”

Nikki sollevò il capo e mi mostrò un’espressione spaventosa e sconvolta. Gli occhi chiari erano spalancati come se si fosse appena ritrovato davanti ad una scena atroce di uno di quei film d’azione che trasmettono a notte fonda, le labbra socchiuse come se avesse voluto parlare ma non ne avesse avuto le forze.

“Nikki?” lo chiamai piano. “Cosa sta succedendo?”

Sollevò una mano tremante e la portò vicino ai bordi del foglio per prenderlo tra la punta delle dita come se fosse stato infetto e lo spostò appena verso di me. “Franklin Feranna sono io.”

Tu?“ ripetei, accompagnando la voce con una smorfia di meraviglia. “Per caso mi stai prendendo in giro?”

Scosse il capo. “Ero io. Poi un paio di anni fa ho cambiato nome. Volevo chiudere con il mio passato e ricominciare una vita qui a Los Angeles sperando che fosse migliore di quella che avevo vissuto fino ad allora.”

“Chi è che può mandarti una lettera utilizzando ancora il tuo vecchio nome?”

Si lasciò sfuggire un sorriso sghembo e afferrò il foglio con più violenza.

“Mia madre che, dopo un anno e mezzo che non si fa viva, mi chiede se sto bene e mi ricorda che una delle mie sorelle vive con lei e se la passa divinamente, mentre l’altra non vuole nemmeno vedermi. Per concludere, dice che i nonni sono un po’ preoccupati per me,” accartocciò la carta stringendola finché le nocche non diventarono bianche. “Se fosse veramente così, non avrei mai lasciato casa mia.”

Per un attimo smisi di respirare, colpita da quelle parole che, sebbene le avesse pronunciate con un tono quasi spavaldo, dovevano essergli costate parecchio care. Mi sedetti sull’altra sedia facendo attenzione a non far stridere i piedini sul pavimento e, nel momento in cui feci strisciare una mano sulla superficie fredda del tavolo per raggiungere la sua, mi resi conto che, in fin dei conti, io di lui non sapevo nulla. Non ci eravamo mai raccontati neanche un particolare della nostra vita precedente. Sapevamo a malapena da dove arrivavamo anche se lui preferiva definirsi un vagabondo che non aveva mai avuto una casa fissa. Mi fermai con la punta delle dita a pochi centimetri dalle sue, incerta se toccarlo o ritrarre la mano, dubbio che in realtà preludeva ad un altro più profondo: scappare da una persona che non conoscevo o fidarmi e cercare di saperne di più? Nikki mi sorprese quando appoggiò il palmo della sua mano sinistra sul dorso della mia, come se mi avesse letto nel pensiero e avesse voluto invitarmi a scegliere la seconda alternativa.

“Mia madre non è mai stata molto presente nella mia vita. Anzi, non c’è stata quasi mai,” cominciò mentre passava lentamente la mano sulla mia. “Con mio padre ci ho parlato due o tre volte, l’ultima delle quali era per telefono e si è conclusa con la frase ‘io non ho un figlio’. Mi hanno cresciuto i miei nonni, che per mantenere tutti e tre mi portavano avanti e indietro tra il Texas, l’Idaho e qualche altra città per poter lavorare. Ho una sorella più piccola che vive con mia madre, mentre io non ci ho mai vissuto. E ne ho anche un’altra, ma non l’ho mai conosciuta perché non vuole vedermi, o almeno questo è ciò che mia madre vuole farmi credere. Non so se fidarmi o no, sai?” fece una pausa durante la quale afferrò la lettera accartocciata e la scagliò contro il muro, producendo un suono flebile nel momento in cui la carta urtò l’intonaco. “Sono partito per Los Angeles perché volevo crearmi una vita nuova e ricominciare da zero, spaccare il mondo con la mia musica e far vedere a tutti che non sono uno sfigato come Frankie Feranna. Ci stavo riuscendo... ci sto riuscendo. Poi è arrivata quella lettera del cazzo.”

Si fermò all’improvviso e si morse il labbro inferiore, come se avesse voluto frenare delle parole poco opportune che stavano per uscirgli dalla bocca.

Girai la mano in modo che la sua scivolasse sotto la mia e vi aggiunsi anche l’altra per poterla stringere tutta. “Anch’io non ho mai ricevuto tante attenzioni. Eravamo in tanti fratelli, quando non studiavamo lavoravamo per portare a casa qualche spicciolo in più, e questo non mi faceva stare bene, soprattutto perché sembrava che a nessuno importasse di quanto mi sforzassi per intascare qualche dollaro ogni volta.”

Nikki scosse il capo e sentii la sua mano chiudersi in un pugno tremante sotto i miei palmi. “Però tu avevi una famiglia, una casa fissa e tanti fratelli. Non hai passato la tua infanzia a rotolare da una parte all’altra come una cazzo di pietra senza mai vedere tua madre e tua sorella.”

“Mi sono sentita rinnegare quando ho riempito la valigia e sono uscita,” raccontai mantenendo un tono di voce molto pacato. “Forse avevano ragione a darmi dell’ingrata, del resto li ho lasciati. Ma questo significava comunque che avevano una bocca in meno da sfamare.”

Il suo pugno sobbalzò sotto le mie mani e sollevò la testa con uno scatto. “Erano arrabbiati perché in fin dei conti tenevano a te. Quando ho deciso di lasciare Seattle mia madre mi ha anche pagato il biglietto del Greyhound senza osare obiettare.”

“Può essere,” mormorai con la voce incrinata dalla commozione. “Del resto, ogni genitore ama i propri figli, però io ero ritenuta la pecora nera di casa e quella fattoria in mezzo al nulla non era certamente il mio posto. La vita qui a L.A. è difficile, però mi sento libera. Forse, se non avessi avuto Brett con me, non ce l’avrei mai fatta a sopravvivere perché mi ha sempre sostenuta nel momento del bisogno.”

Nikki increspò le labbra in un sorriso amaro che si addolcì man mano che le nostre dita si intrecciavano, infondendo in me quel calore di cui avevo sempre sentito un forte bisogno, come una terra che non vede mai l’estate. Sembrava volesse ricordarmi che anche lui era pronto a starmi vicino se ne avessi avuto bisogno, ed io gli giurai lo stesso attraverso un abbraccio. Non ci servirono parole per prometterci che ci saremmo aiutati a vicenda, ma il particolare fondamentale che non avevamo ancora capito era che, prima di affrontare il futuro, avremmo fatto meglio a fare pace con il nostro passato.




N.D’.A.: Buongiorno! =)
Innanzitutto, mi scuso per il lieve ritardo nella pubblicazione di questo capitolo, ma ieri non ho proprio avuto modo di accedere.
Poi, come sempre, grazie a chi segue! ♥
Ci si rilegge mercoledì prossimo!
Glam kisses,

Angie Mars


Titolo: On With the Show - Mötley Crüe


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Capitolo 13
*** I.13) Nightrain ***


13
NIGHTRAIN





West Hollywood, CA, giugno 1983

Ormai John Gates ne aveva piene le tasche. Non avrebbe potuto sopportare un’altra volta la voce impastata dal whisky di Brett che gli diceva che, per cause poco credibili, avremmo dovuto annullare un impegno. Non avrebbe nemmeno sopportato di vedere Steven che, nonostante nemmeno lui fosse un santo, le provava tutte per aiutare i suoi compagni di band ad abbandonare i vizi più pericolosi che li distraevano dalla musica e che li stavano lentamente distruggendo.

John Gates aveva ragione ed era anche stato abbastanza chiaro con tutti e quattro. “O vi date una calmata e fate in modo che quando vi trovate nello studio siate consapevoli che state registrando, oppure potete cominciare a cercare qualcun altro” aveva gridato in un impeto di rabbia. Noi ci eravamo guardati con gli occhi in ammollo nei capillari gonfi e avevamo sogghignato. “Sì, capo” aveva risposto Brett, seduto sul pavimento con tanto di bottiglia di Night Train, un intruglio letale venduto a quattro soldi sugli scaffali di tutti i discount che spuntavano come funghi lungo il Sunset Boulevard. Quanto a noi altri, scoppiammo a ridere divertiti dal suo tono sbronzo, certi che una bottiglia di più o una bottiglia in meno non avrebbe cambiato radicalmente le nostre vite.

Gates sapeva che non avremmo mai abbandonato i nostri brutti vizi, a meno che qualcuno di noi non si fosse fatto così tanto male da convincere gli altri a rimboccarsi le maniche e a chiudersi in un centro di riabilitazione. Peccato che ora fossimo in pieno clima festaiolo e che nessuno avesse intenzione di rinunciare a qualsiasi fonte di divertimento, nemmeno le più rischiose. Avevamo quasi finito di lavorare al nostro primo album, eravamo carichi come molle perché tutti i nostri concerti registravano il sold-out, e i nostri quattro fedeli compagni di party potevano permettersi di portarci tanta di quella roba da bere da far strisciare per l’ebbrezza un intero esercito. E noi, poveri artisti flippati persi nella Capitale degli Angeli Sperduti, come avremmo potuto rinunciare a offerte del genere? Era un biglietto gratuito per l’iperspazio, diceva sempre Brett, le cui condizioni erano le più critiche – ma nessuno dava importanza a questo particolare: finché potevamo fargli riacquistare il senno sollevandolo di peso e sistemandolo sotto il getto dell’acqua fredda, allora si poteva fare – e a nessuno di noi né dei nostri soci di bisboccia era mai sovvenuto che in alcuni casi l’acqua gelida sul cranio non ha alcun effetto. Tutto questo perché ora che avevamo abbandonato quasi del tutto la cocaina dopo una lotta lunga diversi mesi, avevamo ripiegato sull’alcol – e se non è coca, allora non uccide.

Davvero impressionante come questa città ci abbia totalmente cambiati, pensai mentre agitavo svogliatamente una bottiglia di birra per controllare quanta ce ne fosse rimasta. Ieri ero una ragazzina di campagna che suonava la chitarra acustica in mezzo alle coltivazioni di granoturco, oggi sto lavorando a un album heavy metal.

Una mano piccola e lasciva si appoggiò sulla mia spalla per stringerla in una morsa tutt’altro che piacevole e il fiato caldo di qualcuno lambì la pelle del mio orecchio. “Allora, Sharon, sei sicura di non volerne neanche una?”

Non mi voltai per evitare di incrociare lo sguardo di Vince, che se ne stava in piedi dietro di me con una busta piena di pasticche saldamente stretta nella mano che non era impegnata a tenermi la spalla. “Sicura al cento percento, Vinnie. Ho smesso con quella roba.”

Vince mi liberò immediatamente dalla stretta e sgusciò a sedere sull’altra sedia del tavolo della nostra sala prove con la stessa agilità di un armadillo, dopodiché appoggiò il mento su una mano. “Stento a crederci.”

“Allora non crederci,” ribattei prima di sorseggiare la mia birra. “Non voglio più avere niente a che fare con quello schifo. Mi ha già creato abbastanza problemi.”

Vince stese l’intero braccio sul tavolo e allungò bene la mano con la vana speranza di riuscire a sfiorare il mio gomito, agitando le dita come se fossero state piccoli tentacoli privi di ossa, e mi fissava con gli occhi annebbiati. “E con me vuoi averci ancora a che fare?”

Roteai gli occhi e mi alzai per allontanarmi. “Puoi scordartelo. Se hai bisogno di un po’ di compagnia, va’ a rimorchiare qualcuna sullo Strip, ma non ti azzardare neanche a pensare che io potrei eventualmente essere disponibile.”

“Sharon, Sharon...” mi chiamò con tono melodrammatico e con una mano aperta sulla fronte per sorreggersi la testa. “Un tempo non mi avresti respinto così.”

“Vaffanculo, Neil,” sbottai attirando l’attenzione di Rita, che era impegnata nella manutenzione improvvisata del tacco di uno stivale.

Vince lasciò cadere un pugno sul tavolo e le bottiglie vuote che ci avevamo abbandonato sopra tintinnarono come tanti piccoli cristalli, poi un sorriso sadico si dipinse sul suo volto seminascosto dal ciuffo biondo platino. “Allora stasera Sixx ti lascia a casa da sola, non è così?”

Lo fissai con gli occhi spalancati, indecisa se saltargli al collo o lasciarlo sbollire e aspettare che la sua crisi terminasse. Divertito dalla mia espressione di sgomento, Vince continuò a parlare e sembrava che si divertisse a ricordarmi che quella sera Nikki e Tommy avrebbero preso parte a un festino fuori dagli schemi che si sarebbe trasformato in un rito all’insegna della droga senza nemmeno chiedermi di accompagnarlo. In un certo senso era comprensibile che lo avesse fatto perché non ci eravamo mai definiti “fidanzati” nonostante abitassimo sotto lo stesso tetto, ma anche se lo fossimo stati, non mi avrebbe comunque invitata perché nessuno porterebbe la propria ragazza a una festa simile. Poi a lui delle ragazze non importava neanche più niente. Adesso che aveva trovato una nuova distrazione sotto forma di polvere bianca, sembrava avere occhi – e naso – quasi esclusivamente per quella, fatta eccezione per me, la musica e qualche amico stretto come T-Bone.

“Visto che stasera Sixx non c’è, potresti anche fare uno strappo alla regola,” riprese Vince mentre strisciava la fronte sul tavolo.

All’improvviso vidi una rivista volare a mezz’aria attraverso la stanza e colpire la sua capoccia vaporosa, poi la voce di Brett tuonò come quella di una divinità scesa in Terra per punire un empio. “Hai rotto i coglioni! Se ti azzardi a infastidirla un’altra volta giuro che ti scaravento fuori dalla finestra, sono stato chiaro?”

“Lascialo perdere, bello,” si intromise Steven. “Non vedi che è fuori?”

Brett tirò su col naso con fare scocciato. “Se penso che dobbiamo tirarcelo dietro per tutta la sera mi viene voglia di scaraventare me stesso fuori dalla finestra.”

Ci guardammo tutti e quattro, sospirando e sconsolati, poi spostammo lo sguardo su Vince, che era fermo nella stessa posizione di poco prima e ridacchiava, probabilmente perché se n’era appena raccontata una da solo. Nessuno di noi aveva voglia di trascinarlo come un sacco di cemento per lo Strip innanzitutto perché sarebbe stato solo un intralcio, poi perché, onestamente, non avevamo per niente voglia di andarci a mischiare alla folla depravata che impazzava per il Sunset Boulevard.

La serata finì per sfociare in una malinconica adunata nell’appartamento di Mick Mars, un bilocale dalla cui terrazza si aveva un’ampia visuale dell’oceano sul quale si rifletteva la luna piena. Si estendeva di fronte ai miei occhi come un’immensa distesa di velluto nero costellato da un’infinità di diamanti lucenti. Osservavo il mare dalla finestra del salotto in totale solitudine, con Rita a due metri di distanza che chiacchierava sommessamente con Steven fumando una sigaretta, e Vince che si era stravaccato sul pavimento alla ricerca di un po’ di refrigerio in quella tiepida notte d’estate. Sul terrazzo, invece, Mick e Brett sorseggiavano birra ghiacciata con i piedi appoggiati sul bordo della ringhiera bianca, illuminati dalla luce arancione di una lampadina presa d’assalto da falene e zanzare. Non stavano parlando, si limitavano a bere mentre fissavano l’oceano. Una lievissima corrente d’aria fresca e carica di umidità soffiava pigra dalla costa, portando con sé l’aroma dell’acqua salata mischiato in un’unione psichedelica a quello degli oleandri sul lungomare.

Sospirai annoiata e buttai l’occhio in direzione del grande orologio appeso sopra la televisione: erano le due di notte ed eravamo chiusi nell’appartamento di Mick da mezzanotte e mezza. Nessuno si era sballato, fatta eccezione per Vince, che era ancora sdraiato per terra sofferente nei suoi vestiti madidi di sudore e stava ancora smaltendo l’effetto di qualche roba strana. Brett si era limitato a un po’ di erba che Mick gli aveva offerto segretamente, certo del fatto che nessuno lo avesse notato mentre gli preparava la canna e gliela porgeva da stretta tra le sue dita diafane e affusolate.

Era piena notte, eravamo sobri, non avevamo più nulla da raccontarci e in quel bilocale dove non si poteva neanche accendere lo stereo per evitare di innervosire i vicini si stava morendo di noia. Volevo tornare a casa, strimpellare un po’ la chitarra, abbracciare Nikki e mettermi a dormire. A proposito, chissà cosa stava facendo adesso? Aveva detto che sarebbe tornato verso le due, che tradotto dalla sua lingua significava le tre e mezza: ci mancava più di un’ora al suo ritorno e io non avevo idea di come avrei potuto passarla.

Trascorsi trenta minuti a gironzolare per la casa con la vana speranza di seminare Vince che, dopo ore di agonia, si era miracolosamente rimesso in piedi e aveva cominciato a seguirmi con la stessa insistenza di un cane randagio che vuole un pezzo di carne. Brett era impegnato a guardare il panorama costiero in compagnia di Mick e della loro birra, e non sembrava nemmeno essersi accorto che il biondo aveva ripreso a perseguitarmi, allora fui costretta a passare alle maniere forti. Schioccai le dita per chiamare Rita e fu sufficiente uno sguardo per intenderci: la mia batterista si rimboccò le maniche della camicia di lamé, acchiappò Vince per un braccio, lo trascinò attraverso l’appartamento e lo costrinse a sdraiarsi sul letto di Mick, con i piedi al posto della testa e viceversa. Là, dopo aver biascicato qualche insulto incomprensibile, si addormentò e non lo sentimmo più per un po’. Adesso che anche questo problema era risolto, non ci restava che tornare ognuno a casa propria.

Mick ci accompagnò alla porta barcollando, ringhiò qualcosa riguardo il fatto che il suo cantante si fosse addormentato in casa sua e che avrebbe dovuto tenerlo con sé fino al giorno successivo, e infine ci salutò mentre attraversavamo il vialetto per raggiungere il pick-up.

Una volta a casa, mi sedetti sul divano in attesa di vedere Nikki tornare e presi ad ascoltare il silenzio surreale che dominava l’appartamento. Erano già le quattro e di lui non c’era traccia, e visto che ero consapevole del fatto che spesso e volentieri ci promettevamo che saremmo tornati entro una certa ora ma finivamo per rientrare con intere ore di ritardo, decisi che sarei andata a dormire.

La mattina seguente lo squillo del campanello mi svegliò bruscamente facendomi quasi cadere giù dal letto. La radiosveglia segnava mezzogiorno in punto e io ero ancora completamente sola in casa, il che mi fece supporre che ad aver suonato fosse stato proprio Nikki che aveva perso le chiavi. Dopotutto, non sarebbe stata la prima volta che uno di noi le perdeva o le dimenticava a casa. Infilai la prima T-shirt che mi capitò sotto mano, ovvero una maglietta sbrindellata con la stampa sbiadita del logo degli Sweet, e con quella mi presentai alla porta, ritrovandomi davanti Tommy. Mi fissava con gli occhi mezzi chiusi e il trucco sbavato sulle guance, la canottiera infilata al contrario e gli stivali coperti di polvere, poi sollevò appena una mano e, dopo un lungo sbadiglio, mi raccontò che era appena tornato dalla festa insieme a un amico che lo stava aspettando in macchina davanti all’ingresso principale.

“Ciao,” biascicò mentre varcava la soglia. “Volevo sapere se quel demente di Sixx è tornato. Ha dimenticato di prendere la giacca di pelle e gliel’ho riportata.”

Lo trapassai con un’occhiata indagatrice non appena ebbe terminato la frase. “Credevo che foste in macchina insieme.”

Tommy annuì e si grattò la chioma folta e arruffata. “Infatti siamo andati insieme, ma a un certo punto è sparito dalla festa e non si sa dove sia andato. Credevo si fosse andato ad imbucare con qualcuna... questa passamela, bella, del resto, che io sappia, non siete esattamente fidanzati e siete entrambi di larghe vedute. Dicevo... ah, sì! Credevo si fosse imboscato con una tipa, ma quando il party è finito non l’ho trovato da nessuna parte e anche la sua auto era sparita dal parcheggio. Sono venuto fin qui perché pensavo fosse tornato da te, ma a quanto pare non è nemmeno a casa.”

“Tommy,” lo chiamai. Il mio tono suonò così severo che smise immediatamente di gesticolare e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi.

“Sì?”

Un brivido di terrore mi percorse l’intera spina dorsale. “Quanta droga girava in quel posto?”

Lui deglutì a vuoto e prese a torcersi le dita lunghe e sottili. “Tanta, Sharon. Davvero tanta.”

Mi portai una mano sulla fronte e la lasciai scivolare su tutta la faccia; le gambe non mi reggevano più. “E Nikki è anche tornato indietro in macchina. Cazzo...”

Se Tommy non mi avesse presa per tempo, sarei sicuramente caduta per terra per la paura e la debolezza. “Non allarmiamoci, okay? Vedrai che lo ritroveremo. Sono sicuro che quel coglione si è appisolato da qualche parte e che adesso è fermo in una piazzola, come ha già fatto altre volte.”

Mi appoggiai alla sua spalla e iniziai a tremare: sapevo cosa significasse essere estremamente su di giri per una pista di troppo, e sapevo anche quanto fosse difficile smettere con quella merda. Non volevo che Nikki continuasse e il fatto che non fosse tornato aveva inevitabilmente dato origine ai viaggi mentali più drammatici ma anche più probabili.

“Perché non è ancora rientrato?” domandai impaziente.

Tommy scosse il capo e si appoggiò al divano, anche lui troppo stanco per reggersi in piedi. “Non lo so, ma sono convinto tornerà presto.”




N.D’.A.: Buonasera! =)
Ebbene sì, la situazione sta peggiorando molto più velocemente di prima e l’idillio tossico (che poi tanto idilliaco non è) di Nikki e Sharon potrebbe subirne le conseguenze. Questo capitolo era un po’ più corto rispetto agli altri, ma si tratta solo di una fase di passaggio molto importante per lo svolgimento della storia. Spero che la piega che questo racconto sta prendendo vi piaccia.
Un piccolo avviso riguardo la pubblicazione dei capitoli: siccome la scuola è cominciata anche per me e ci sarà da sgobbare anche quest’anno, non escludo di ritrovarmi costretta a non accedere per diverso tempo, sebbene di solito mi lanci in pubblicazioni-lampo dal momento che i capitoli sono già tutti pronti. Al massimo potrete leggere il capitolo nel finesettimana anziché di mercoledì, ma farò comunque in modo di avvisare o postare qualche giorno prima nel caso in cui prevedessi intasamenti. Ovviamente l’intenzione di pubblicare la storia fino all’ultimo capitolo c’è.
Ciò detto, ringrazio tantissimo coloro che leggono! ♥ Se però qualcuno volesse lasciarmi una recensione per farmi sapere che cosa ne pensa, mi farebbe molto piacere. =)
Ci si rilegge mercoledì prossimo!
Sleaze kisses,

Angie


Titolo: Nightrain - Guns N’ Roses


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Capitolo 14
*** I.14) Dr. Feelgood ***


14
DR. FEELGOOD





Erano le due e mezza del pomeriggio e il termometro segnava trentuno gradi precisi. Fortunatamente il clima non era umido, per cui non mi fu difficile addormentarmi sdraiata sul divano quando tornai dopo aver vagato senza sosta per tutta Hollywood alla ricerca di Nikki senza ottenere alcun risultato. Ero andata a casa di tutte le persone che conosceva sperando che si trovasse con loro, ma il suo avvistamento più recente risaliva alla festa della sera precedente.

Mi svegliai con un terribile mal di schiena perché avevo sonnecchiato in una posizione scomoda e decisi che avrei chiamato la polizia, sperando che almeno loro per una volta potessero aiutarmi, anche se probabilmente avrebbero scritto i dati di Nikki e mi avrebbero risposto con un “le faremo sapere” prima di aggiungere la sua cartella a una montagna di denunce di persone scomparse. Nel momento stesso in cui sollevai la cornetta, qualcuno bussò violentemente alla porta e mi catapultai da una parte all’altra del salotto come un fulmine. Afferrai la maniglia per aprire, convinta di ritrovarmi di fronte Brett perché gli avevo chiesto di passare per tenermi un po’ compagnia dal momento che ero preoccupata, invece non fu così. Nikki se ne stava in piedi di fronte a me con una spalla fasciata e in condizioni pietose: aveva delle terribili occhiaie violacee messe in risalto dal trucco ormai del tutto sbavato, indossava un camice bianco da ospedale e su una mano aveva un batuffolo di cotone fermato da un pezzo di scotch medico al quale si era appiccicato di tutto.

“Mi fai entrare?” mi chiese con la voce rotta. Feci per abbracciarlo, sollevata perché era tornato, ma lui mi respinse con un gesto pacato ed entrò per prendere posto sul divano.

“Che cazzo ti è successo?” domandai con lo sguardo fisso sulla sua spalla bendata.

Un angolo della sua bocca guizzò nervosamente. “Ho avuto un incidente. Auto fracassata e spalla lussata.”

Trasalii e impallidii. “Si può sapere come diavolo hai fatto?”

Si passò un palmo sul volto e si strappò la medicazione di cotone sul dorso della mano. “La festa di ieri è stata un delirio. A un certo punto ero talmente stufo di tutto e tutti che l’unica cosa che volevo era tornare da te, allora sono scappato in macchina, ma ero così su di giri che sono andato fuori strada e ho centrato un palo del telefono. È caduto sul tettuccio e l’ha sfondato. La spalla mi faceva male e avevo la nausea, così mi sono messo a fare l’autostop finché qualcuno non mi ha raccolto e mi ha portato in ospedale, dove mi hanno fatto questa schifosissima fasciatura.”

Lo avevo ascoltato per tutto il tempo scuotendo il capo, rabbrividendo al solo pensiero di che cosa sarebbe potuto accadere se anziché la spalla avesse battuto la testa.

“Sei un coglione del cazzo,” lo apostrofai, poi scattai in piedi e gli lanciai contro un foglio di giornale appallottolato. “Avresti potuto essere meno fortunato. Non potevi aspettare la mattina o chiedere un passaggio?”

Nikki scosse il capo mordendosi un labbro. “Ero fatto, completamente fuori, e volevo solo tornare a casa.”

Un rivolo di sangue aveva iniziato a sgorgare dal forellino che l’ago della flebo gli aveva lasciato sul dorso della mano, cadendo in piccole stille scarlatte che macchiavano la sottile stoffa bianca del camice. Mi sedetti di fianco a lui e mi portai la sua mano sulle ginocchia per tamponare la ferita con un pezzo di cotone riciclato da quello che aveva tolto poco prima.

“Cosa ti hanno detto riguardo quella spalla?” chiesi senza nemmeno guardarlo.

Nikki sbuffò e appoggiò la testa al divano, visibilmente infastidito.

“Devo tenerla ferma per un mese, il che significa che non posso neanche suonare. Il problema è che fa un male atroce che posso alleviare solo con dell’antidolorifico che mi hanno dato in ospedale,” rispose seccato. Una volta che ebbi terminato la medicazione, cercò di alzarsi senza perdere l’equilibrio. Lo seguii fino in camera e lo aiutai a liberarsi dal camice dell’ospedale sciogliendo i nodi dei nastri che tenevano uniti i due lembi dietro la schiena, scoprendo così diversi ematomi all’altezza delle clavicole. Sembrava che avesse fatto a pugni con qualcuno, ma smentì questa ipotesi e mi confessò che anche quelli erano una conseguenza dell’urto subìto durante lo schianto. Dopo che lo ebbi fulminato con l’ennesima occhiataccia della giornata, si coricò sul materasso appoggiandosi sul braccio sano e si tirò il lenzuolo fino alla vita, mostrandomi la schiena. Avrei voluto dirgli qualcosa che lo rincuorasse, ma non c’erano giustificazioni per quello che aveva fatto, così decisi di farlo senza servirmi delle parole: mi stesi dietro di lui, appoggiai la fronte tra le sue scapole facendo molta attenzione a non urtare la parte infortunata e gli circondai un fianco con il braccio.

“Mi sono preoccupata molto quando non ti vedevo tornare,” ammisi sottovoce.

Nikki sospirò e mi prese la mano. “Lo so. Del resto, se fossi stato al tuo posto e non ti avessi vista tornare dopo tanto tempo, mi sarei preoccupato anch’io.”

“Non riesco a pensare a come sarebbe potuta andare se le dinamiche dell’incidente fossero state appena un po’ diverse.”

“Per fortuna non è stato grave,” si giustificò. “Adesso sono qui con te.”

Esercitai una lieve e nervosa pressione sul suo ventre. “Promettimi che non farai mai più una cazzata del genere. Se io sto riuscendo a smetterla con quella merda, tu potrai quantomeno evitare di cacciarti in guai simili.”

Nikki annuì muovendo il capo sul cuscino bianco. “Te lo giuro, Sherry, davvero, poi vorrei... ahi!

Interruppe la frase a metà, colto da un improvviso dolore alla spalla che lo fece contorcere come un lombrico.

Sciolsi immediatamente l’abbraccio in modo che potesse muoversi più liberamente e cominciai ad arricciarmi una ciocca di capelli per sfogare la tensione. “Non avevi detto che all’ospedale ti avevano dato degli antidolorifici?”

“Sì, sono nella tasca del camice,” disse puntando un dito contro l’indumento bianco abbandonato sul comodino, poi tornò a portarsi la mano sulla spalla, “Hanno detto che devo prendere venti gocce diluite in mezzo bicchiere d’acqua, ma tu aggiungine una decina.”

Afferrai il camice il cui materiale sembrava una via di mezzo tra la stoffa e la carta e ne estrassi una boccetta marrone con un’etichetta arancione e nera con le scritte bianche. “Se hanno detto solo venti ci sarà un motivo.”

Nikki roteò gli occhi mentre continuava a tenersi la parte dolorante. “Quale effetto vuoi che abbiano venti gocce di antidolorifico se in ospedale hanno dovuto farmi un’endovena di morfina?”

Dal momento che avevo a cuore la pace comune, feci cadere trenta gocce in mezzo bicchiere d’acqua che lui scolò con la stessa foga con cui si ingolla un cicchetto di tequila, poi tornò ad appoggiare la testa sul cuscino e attese che la medicina svolgesse la sua funzione. Trascorse più di un’ora a contorcersi scaricando tutto il peso sulla spalla sana, quella sulla quale si era disteso, ma l’antidolorifico sembrava non aver alcun effetto. Fu inutile assumerne altre quindici gocce e alle sei di sera Nikki era ancora steso sul letto a lamentarsi come un ferito in battaglia. Il massimo che potessi fare era stare seduta vicino a lui a sperare che quel maledetto medicinale compisse il suo lavoro e a cercare di convincerlo che chiamare un’ambulanza sarebbe stata la scelta migliore.

Ero stanca di vederlo piegarsi su se stesso per il dolore, contorto sull’unico spicchio del materasso illuminato dalla luce del sole che entrava dalla finestra aumentando la sensazione di calore, e chiaramente lui non ne poteva più, tanto che a un certo punto riuscì ad alzarsi autonomamente e a infilarsi un paio di pantaloni di pelle e una canottiera sbrindellata per uscire.

“Dove credi di andare messo così?” gli domandai con tono severo, ormai troppo esasperata per tentare di fermarlo fisicamente sebbene non sarebbe nemmeno stato difficile dato il suo stato.

“Vado a cercare una cazzo di farmacia che mi venda qualcosa di più forte,” biascicò in risposta mentre si avviava verso la porta sostenendosi il gomito del braccio infortunato.

“Ti ci porto io. Credo che sia meglio se non cammini.”

Nikki si voltò di scatto e mi fulminò con un’occhiataccia, poi sbuffò e mi accarezzò i capelli per tranquillizzarmi. “Non preoccuparti, Sherry, davvero. Ci riesco da solo. Farò presto, vedrai.”

Non feci in tempo a ribattere che si era già chiuso la porta alle spalle e potevo sentire il rumore delle sue scarpe mentre scendeva le scale.

Lo aspettai per due ore, e metà di questo tempo lo trascorsi in compagnia di Brett, che si era finalmente deciso a raggiungermi. Eravamo seduti sul divano a guardare distrattamente un telefilm quando Nikki tornò. Aprì piano la porta ed entrò di soppiatto. La smorfia di dolore che aveva stravolto il suo viso prima che uscisse era scomparsa, non si lamentava più per il male e i suoi occhi erano socchiusi in un’espressione di totale beatitudine, accompagnata da un sorriso appena accennato. Brett e io ci guardammo cercando una risposta a tutto ciò l’uno nello sguardo dell’altra, poi interruppi il contatto visivo alzandomi e mi avvicinai a Nikki.

“Hai risolto?” gli chiesi mentre studiavo attentamente la sua insolita espressione.

“Sì, certo. Ho trovato una farmacia aperta qui vicino e mi hanno dato un antidolorifico più potente.”

Osservai lo sguardo assente con occhio critico. “Ce ne hai messo di tempo! Di che roba si tratta?”

Nikki sorrise e alzò la spalla sana. “Non me lo ricordo, però funziona, ed è questo l’importante, giusto?”

Continuai a osservarlo mentre attraversava il salotto senza nemmeno salutare Brett come se non si fosse accorto della sua silenziosa presenza, per poi filare dritto in camera come un’ombra oscura che si aggira per una terra ghiacciata. Se pensava di avermi fregata, si sbagliava di grosso. Conoscevo quel tipo di sguardo e sapevo che in farmacia non ci era nemmeno entrato. Aveva preferito risolvere la questione servendosi di una sostanza dal potere estremamente rilassante che io non avevo mai provato e che mai avrei conosciuto perché temevo di diventarne schiava giurandole fedeltà fino alla morte. Appoggiai le spalle al muro e puntai gli occhi addosso a Brett, il quale si sfregò nervosamente i palmi come per dirmi “Hai visto? Ci sta cascando anche lui”, poi mi accasciai su una sedia.

“L’ha fatto solo perché il dolore lo stava uccidendo,” tentai di giustificarlo mentre stappavo una bottiglia di Jack quasi finita, ma ero consapevole che mi stavo prendendo in giro da sola.

Brett scosse il capo. “Lo sai come funziona quella merda. La prima volta pensi di aver trovato il paradiso, poi dalla seconda ti porta dritto all’inferno.”

Mi versai un cicchetto mentre criticavo le insane abitudini della persona che amavo e mi lasciai sfuggire una risata sprezzante. “Se ne sto venendo fuori io, sono certa che ci riuscirà anche lui.”

Brett prese un altro shottino dallo scolapiatti e lo appoggiò vicino al mio affinché lo riempissi. “Non contarci troppo, Sharon, anche se provi qualcosa per lui.”

“Se stai insinuando che mi sia innamorata, ti stai sbagliando.”

Brett annuì con estrema convinzione. “Sì che lo sei, solo che non vuoi ammetterlo perché è ti fa paura, ma non c’è niente di male.”

Battei un palmo sul tavolo facendo cadere il cicchetto che ci avevo appoggiato sopra e mi passai le mani tra i capelli senza sapere cosa dire non a Brett, ma a me stessa.




N.D’.A.: Salve! =)
Questa è una pubblicazione lampo, per cui non mi dilungo più di tanto.
Ad ogni modo, ringrazio sempre coloro che leggono, seguono in silenzio e anche quelli che mi ringraziano privatamente! ♥
Mi farebbe piacere sapere la vostra opinione. :)
Ci si rilegge mercoledì prossimo!
Glam kisses,

Angie


Titolo: Dr. Feelgood - Mötley Crüe


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Capitolo 15
*** I.15) Too Late for Love ***


15
TOO LATE FOR LOVE





West Hollywood, CA, dicembre 1983

I Kiss stavano impazzando nelle casse dello stereo del mio vicino mentre io, stretta in un leggero golfino di cotone blu scuro, mi godevo l’aria fresca della sera sul piccolo balcone, da dove la musica si poteva sentire meglio dal momento che quelli dell’appartamento accanto erano nel bel mezzo di un festino-devasto e avevano aperto tutte le finestre. Sebbene fosse dicembre, le temperature non erano ancora scese sotto i quindici gradi, il che rappresentava un enorme vantaggio per un’amante dell’aria aperta come me, anche se il motivo per cui quella notte avevo deciso di passare del tempo appollaiata sulla ringhiera non era certo quello. Stavo sfidando il sonno e mi tenevo sveglia fumando le ultime sigarette che mi restavano in attesa del ritorno di Nikki. Qualche mese prima era uscito il secondo album dei Mötley Crüe e stava riscuotendo un ottimo successo, così erano partiti per un tour per promuoverlo. Erano settimane che non vedevo Nikki, che mi telefonava spesso anche se il più delle volte non rispondevo perché non c’ero. Spesso non dormivo neanche nel nostro appartamento e tornavo dagli altri perché non sopportavo di passare il tempo a fissare il soffitto o a suonare la chitarra che Nikki non aveva portato in tour con sé.

Quella era la notte del suo ritorno e lo stavo aspettando cercando di non addormentarmi con la testa appoggiata alla ringhiera arrugginita. L’aria fresca si insinuava tra i miei capelli, appesantendoli, e scuoteva le foglie delle alte palme che costeggiavano la strada. Dai viali proveniva il rumore monotono del traffico, interrotto di tanto in tanto da quello di una sirena o una brusca frenata. Feci un tiro portentoso ed espirai lentamente il fumo tentando invano di formare dei vaghi cerchi come sapevano fare Rita e Steven, ma abbandonai presto la missione per osservare due ragazzi ubriachi che passavano davanti alla nostra palazzina barcollando e cantando da abbracciati, rivedendo in loro me e Nikki quando ritornavamo a casa dopo aver girato per lo Strip per buona parte della notte.

Quando meno me l’aspettavo, udii in lontananza il rombo sordo del motore di un grosso mezzo. Mi sporsi dalla ringhiera e in fondo alla via, sobbalzando e scricchiolando, fece capolino il pullman marrone che per mesi aveva scorrazzato i Crüe per buona parte del Paese. Si fermò davanti a casa, emettendo uno sbuffo che sembrò essere un sospiro di sollievo, e mi permise così di sentire i bassi di una canzone che i passeggeri stavano ascoltando. La portiera si aprì tremolando e subito le note di Walk This Way degli Aerosmith uscirono come uno sciame d’api tenuto represso in una scatola, attirando anche l’attenzione di qualcuno dei festaioli nell’appartamento accanto. Intravidi una palla nera accovacciata su un paio di sedili e capii che si trattava di Mick solo quando allargò le braccia per stiracchiarsi. Riconobbi anche Tommy, il quale aveva schiacciato la faccia contro il finestrino per deformarla in smorfie spassose e allo stesso tempo inquietanti per poi ghignare quando si rese conto di aver insudiciato il vetro già sporco col trucco colato e la saliva. Aveva anche chiamato Vince per mostrargli il suo capolavoro d’arte contemporanea, riscuotendo un notevole successo.

Mentre il cantante e il batterista ridevano come pazzi col dito puntato verso il vetro imbrattato, dalla porta aperta uscì una sagoma scura e vacillante che si trascinava dietro una valigia malconcia e la custodia di un basso, seguita da un paio di lattine vuote che volarono nel cortile dall’interno del mezzo come se esso stesso le avesse sputate, ormai stanco di sopportare quei quattro depravati e le loro abitudini. La sua mano ondeggiò lentamente in aria in segno di saluto prima che il pullman ripartisse, sempre con Tommy che faceva lo stupido col viso incollato al finestrino mostrandogli il dito medio. Non appena il bus ebbe girato l’angolo, spensi la sigaretta nel portacenere e mi fiondai in salotto. La porta si aprì lentamente e Nikki sembrò materializzarsi di fronte a me come in un sogno. Se ne stava fermo sulla soglia, le valigie ai suoi piedi e le braccia penzoloni lungo il corpo. Aveva delle occhiaie profonde ed era pallido, ma un sorriso radioso gli illuminò il volto nel momento in cui capì che avevo fatto una corsa per raggiungerlo prima che potesse entrare. Avrei voluto abbracciarlo ma c’era qualcosa che mi frenava, come se avessi sentito il bisogno di chiedergli il permesso di stringerlo.

“Non mi saluti?” domandò, e io la presi come una risposta positiva alla domanda che gli avevo posto mentalmente. Mi avvicinai con lo stesso passo incerto di una persona che vuole conoscere un estraneo poi, quando sfiorai la pelle del suo avambraccio con la punta delle dita, sentii gli angoli degli occhi bruciare. Gli circondai la vita con le braccia e lo strinsi forte a me, felice di riaverlo finalmente vicino anche se sapevo che sarebbe stato per poco.

“Mi sei mancato,” sussurrai da stretta nel suo abbraccio e con la guancia premuta contro il suo petto.

“Anche tu,” confessò Nikki, poi aggiunse sottovoce. “Non sai quanto.”

Lo lasciai andare per permettergli di entrare e, mentre trascinava dentro le valigie, osservava attentamente ogni particolare del salotto, stupito dal fatto che i dischi fossero tutti in ordine sullo scaffale, che non ci fosse spazzatura accumulata negli angoli e nemmeno vestiti sporchi abbandonati nei posti più improbabili. Accennò un sorriso furbesco che si interruppe quando notò un paio di valigie chiuse sdraiate ai piedi del divano.

“Quelle cosa rappresentano, un nuovo pezzo d’arredamento?” mi chiese con tono sarcastico.

Chiusi gli occhi e feci un respiro profondo: era giunto il momento di ricordarglielo e di conseguenza anche quello di porre fine a quel breve ma prezioso rapporto che si era creato tra noi.

“Dopodomani partiamo per il nostro tour,” gli comunicai tutto d’un fiato e con la voce alterata dal magone.

Nikki mi guardò stranito. “Oh, è vero. Ma dovete per forza partire così presto? Il vostro disco è uscito appena tre settimane fa.”

Mi morsi un labbro. “Appunto. Il nostro manager ha trovato un gruppo che ha bisogno di una band che li supporti durante il loro tour e noi abbiamo accettato.”

“Non riesco ancora a crederci. Sono appena tornato e tu parti?” domandò retorico e con le mani sui fianchi. “È assurdo.”

“Quando mi hai detto che saresti partito per il vostro primo tour ho pensato la stessa cosa,” dissi con lo sguardo fisso sulle mattonelle. “Ma è il nostro lavoro, Sixx, e lo amiamo.”

Nikki si grattò la chioma impiastricciata di lacca e gel per prendersi un po’ di tempo prima di ribattere, finendo poi per rispondere con un cenno d’assenso del capo.

“Staremo lontani da Los Angeles per poco più di un paio di mesi,” specificai, e Nikki si lasciò sfuggire una risata nervosa.

“Quando tornerai io sarò già ripartito e stavolta durerà molto di più.”

Un inquietante silenzio calò tra noi, interrotto solo dalle voci alticce dei vicini che ormai cominciavano ad averne abbastanza della loro festicciola.

“Be’, allora non mi racconti com’è andato questo tour?” chiesi mentre prendevo il mio chiodo da sopra il divano. Nikki sospirò, si appoggiò alla parete con una spalla e rispose con un breve e conciso “molto bene” che mi fece arricciare il naso.

“Ho sonno,” saltò su dopo un lungo sbadiglio. “Vado a dormire. Vieni anche tu?”

Scuotere il capo non mi era mai sembrato un gesto così amaro. “Devo raggiungere gli altri per risolvere alcune questioni prima di partire e non passerò più da casa.”

“Come vuoi,” rispose con un filo di voce prima di raggiungermi e darmi l’ultimo abbraccio. “Vai e fa’ vedere quanto vali.”

Non avevo mai vissuto un addio più freddo di quello, nemmeno quando avevo lasciato la mia famiglia per partire per Los Angeles. Almeno quella volta avevo visto i miei fratelli piangere e li avevo sentiti chiamare il mio nome con la speranza che mi voltassi e tornassi da loro. Quella sera, invece, ci eravamo scambiati qualche parola distaccata e un paio di gelidi abbracci che non somigliavano neanche vagamente a quelli che ci eravamo dati prima che lui partisse. Erano stati un semplice contatto tra corpi infreddoliti che non aveva lasciato spazio ai sentimenti, come se avessero fatto cozzare tra loro due pietre del deserto.

“Nikki?” lo chiamai. “Penso che tutto questo te lo meriti.”

La sua stretta sembrò riscaldarsi appena per poi tornare a congelarsi. “Anche tu lo meriti, Sherry.”

“Ti voglio bene.”

Non rispose.

Non rispose, non sobbalzò né sospirò. Continuò a tenermi stretta e a respirare regolarmente come se non avessi mai parlato. Gli avevo appena detto che gli volevo bene, la stessa frase che io avevo bisogno di sentire, e non aveva reagito. Avrei dato l’anima per sentirmi dire le stesse parole e il fatto che Nikki non avesse risposto mi fece innervosire, così decisi di porre fine a quella sceneggiata che credevo priva di sentimenti. Mi liberai dal suo abbraccio, raccolsi le mie valigie da sopra il tappeto, lo salutai con un cenno della mano senza incrociare il suo sguardo e varcai la soglia.

Mi ritrovai in mezzo alla strada ormai deserta in compagnia del solo fruscio delle foglie agitate dal vento che sembrava portare sempre più amarezza con ogni sua timida folata. Mi strinsi nel chiodo e ripresi a camminare lungo il marciapiede dissestato, ma tornai a fermarmi prima di svoltare l’angolo col Sunset per dare un ultimo sguardo alla nostra casa. A metà della via svettava la nostra palazzina, la cui unica finestra con la luce ancora accesa era proprio quella dell’appartamento in cui avevo vissuto fino a pochi attimi prima e le cui mura avevano assistito ad alcuni dei miei momenti più belli. Ne avrebbero conservato i ricordi e quando sarei rientrata dal tour e non avrei trovato Nikki, quelle pareti bianche e coperte di graffi e scalfitture mi avrebbero solo potuto permettere di rivederli ma non di riviverli. Anzi, ero convinta che non li avrei mai più vissuti perché facevano parte di un capitolo della mia vita da considerarsi ormai concluso. Non avremmo mai più suonato insieme, non avremmo mai più composto un pezzo a quattro mani, non saremmo più stati i primi a sapere della nuova idea dell’altro, non ci saremmo mai più abbracciati. Nonostante questo, sentivo di avere ancora bisogno di Nikki e sapevo che lui aveva bisogno di me – tutti hanno bisogno di qualcuno.

Con la punta dell’indice raccolsi una lacrima solitaria che scendeva sulla mia guancia e mi voltai in direzione del Sunset, le cui luci intermittenti mi ricordarono che avevo una vita da vivere e tante indimenticabili esperienze da fare su un palco che non avevo mai avuto l’onore di solcare. Mi feci coraggio e girai l’angolo, lasciandomi alle spalle la nostra casa e con essa un pezzo di me.



FINE PRIMA PARTE





N.D’.A.:Buonasera a tutti! =)
Dunque sì, siamo giunti alla fine della prima parte del racconto, con Nikki e Sharon che sembrano essersi detti addio per sempre – sempre ammesso che sia veramente così.
Il primo capitolo della seconda parte sarà caricato mercoledì prossimo.
Spero che questi primi quindici capitoli siano stati di vostro gradimento e, se volete esprimere la vostra opinione, mi fa più che piacere!
Per ora un grazie enorme a coloro che continuano a leggere! ♥
Lots of kisses,

Angie


Titolo: Too Late for Love - Def Leppard


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Capitolo 16
*** II.1) Falling in and out of Love ***


SECONDA PARTE






1
FALLING IN AND OUT OF LOVE





Long Beach, CA, luglio 1985

C’era puzza, caldo e confusione, e avevamo tutti sonno a causa del viaggio in autobus. Chi ce l’avesse fatto fare di stiparci in otto in una sola stanza, Dio solo lo sa, fatto stava che la temperatura e gli effluvi che sprigionavano i nostri corpi non erano sicuramente un toccasana.

Brett si era attaccato alla bottiglia in compagnia di Mick Mars, il suo nuovo e silenzioso socio di sbronze, Steven era stravaccato su una poltrona con le gambe sullo schienale e la testa che toccava quasi per terra e, per concludere in bellezza, Rita e i Terror Twins avevano iniziato a tenere banco. Parlavano a vanvera e in fretta, Tommy si lasciava sfuggire una smorfia dietro l’altra e tutto questo era estremamente divertente – a patto che tu fossi sballato, altrimenti era un indecente quadretto di decadenza appeso storto a una parete scalcinata.

Ah, giusto: cosa ci facevamo noi quattro con i Mötley Crüe?

Date la colpa a John Gates: era stato lui a decidere che avremmo fatto loro da spalla. Il giorno in cui ce l’aveva comunicato, qualche mese dopo l’uscita del nostro secondo album, i miei compagni si erano messi a urlare e a strattonarsi dalla gioia, mentre io ero rimasta impassibile, indecisa se unirmi ai festeggiamenti o meno. Gates, che era perfettamente al corrente di quanto era accaduto un paio di anni prima, mi aveva gentilmente pregato di comportarmi in modo professionale perché quella non era da considerarsi una vacanza, ma un viaggio di lavoro. Io, che avevo in circolazione una quantità eccessiva di Smirnoff, lo avevo mandato a quel paese. La cara, vecchia Smirnoff... il nostro rapporto si era intensificato nell’ultimo periodo, ma mai quanto era accaduto a Brett, le cui condizioni erano decisamente degenerate e nessuno a parte me sembrava essersene reso conto. Dal momento che eravamo spesso su di giri, credevamo che il nostro bassista che delirava in preda alla sbronza fosse la cosa più spassosa sulla faccia della Terra, ma ora aveva raggiunto un punto tale per cui si sedeva da qualche parte con la sua bottiglia e ci dava giù finché qualcuno non lo fermava per portarlo a dormire. Non rideva più, non sparava più idiozie, non improvvisava più balletti. Era diventato una mummia, e Mick Mars era il suo compagno di giochi perfetto.

“Ci scommetti che stasera li raschiamo da terra come due di gomme da masticare?” mi fece Nikki dopo avermi preso la sigaretta dalle dita e aver fatto un tiro.

Mi limitai a fare spallucce anche se vedere il mio migliore amico cadere sempre più in basso mi faceva stringere il cuore. “Probabile.”

Nikki mi diede una lieve gomitata sperando di disincantarmi. “E tu, invece, come pensi che ti ridurrai ad andare a mezzanotte?”

Mi scansai infastidita dal contatto fisico che si era creato tra di noi per una frazione di secondo. “Non lo so.”

“Ehi!” esclamò ad alta voce prima di restituirmi la paglia ormai ridotta al solo filtro. “Cos’hai oggi? Non ricordavo che fossi così scontrosa.”

Mi voltai di scatto verso di lui e puntai i miei occhi dritti nei suoi, incurante di Tommy che si era messo a cantare a squarciagola. Nemmeno io ricordavo come fosse parlare con Nikki. Erano passati due anni dall’ultima volta in cui ci eravamo scambiati l’ultimo saluto e da quel giorno non l’avevo mai più visto se non da lontano e di sfuggita. Da quando ero partita per il nostro primo tour, non ero più tornata nell’appartamento in cui avevamo vissuto e lui non era mai venuto a cercarmi per chiedermi spiegazioni, entrambe cose che una qualunque altra persona avrebbe fatto. Avevamo preso a vivere come se non ci fossimo mai incontrati e ognuno era andato per la sua strada, pronto a spaccare il mondo con la propria band. Nonostante questo, a volte, soprattutto quando era notte e mi ritrovavo a fissare il soffitto da sola come mi capitava quando Nikki era in tour e abitavo ancora nel nostro appartamento, mi era capitato di pensare a quel breve ma forte legame che c’era stato tra di noi. Mi domandavo se anche Nikki se ne ricordasse e finivo col rispondermi che aveva cose migliori a cui pensare.

Adesso che ce l’avevo di nuovo di fianco, strizzato in una ridicola tuta bianca a pois neri e con un foulard rosa elettrico tra i capelli e due spesse righe nere disegnate sugli zigomi, mi sembrava di essere seduta in una sala d’aspetto accanto a un completo sconosciuto. Ci lanciavamo occhiate indagatrici a vicenda, ci scrutavamo l’un l’altra per controllare se possedessimo ancora quelle determinate caratteristiche che un tempo ci attraevano, poi distoglievamo lo sguardo e lo posavamo su Tommy, che aveva ora afferrato un flacone di lacca e lo stava usando come microfono per cantare – o meglio, per profanare – Halloweed Be Thy Name degli Iron Maiden, utilizzandolo di tanto in tanto come bacchetta per la batteria. Continuò a strillare finché qualcuno non bussò, costringendo Rita a scomodarsi per rispondere a quel disgraziato che aveva osato interrompere il nostro piccolo party. La porta si aprì e tutti si zittirono di fronte allo strano essere che fece lentamente il suo ingresso. Vince avanzò di qualche passo e ci guardò uno per uno con gli occhi lucidi come se avesse voluto incenerirci con lo sguardo. Era pallido e silenzioso, del tutto differente da come lo ricordavo. Un tempo era sempre il primo a proporre di fare casino e devastare un’intera stanza, mentre adesso se ne stava fermo a qualche passo dalla soglia sfregandosi nervosamente le mani e umettandosi continuamente le labbra screpolate come se avesse voluto trovare il coraggio necessario per parlare.

“Cosa sei venuto a fare?” domandò Tommy, ancora in piedi sul materasso e con il flacone di lacca in mano. “Torna di là con le tue tipe, non venire qui a interrompere la nostra fottuta festa.”

Una scarpa da ginnastica Chuck Taylor colpì una gamba del batterista e la voce pacata di Mick Mars esordì per la prima volta in tutta la serata. “Piantala.”

Un ordine. Una sola ma ben chiara parola alla quale però nessuno diede ascolto. Anzi, la scarpa tornò indietro e stavolta centrò il ginocchio di Brett, che si trovava seduto sulla moquette vicino a Mick. Non si lamentò e si limitò a ciondolare appena, poi ritrovò l’equilibrio e ingollò un sorso di vodka.

“Tornando a te,” riprese Nikki al posto di Tommy e rivolto verso il suo cantante. “Perché sei qui? Credevamo non volessi stare con noi.”

“Infatti non lo voglio,” ribatté schietto Vince. “Volevo solo sapere se avete da accendere. Una delle tipe mi ha perso lo Zippo e l’altro che ho portato con me è scarico.”

“Qualcuno ha un fottuto accendino per lui?” ripeté Tommy ad alta voce come se nessuno avesse sentito, dopodiché Rita si frugò in tasca e ne riesumò uno da prestargli. Vince lo afferrò al volo e si volatilizzò, lasciando quel deserto silenzioso che era diventata la stanza del batterista dopo il suo ingresso.

“Io me ne vado. Mi sono rotto di stare qui,” saltò su Nikki, poi mi picchiettò la spalla con la punta dell’indice. “Vuoi venire con me?”

Mi alzai dal pavimento come se una divinità invisibile mi avesse sollevata prendendomi delicatamente per le mani e, senza neanche rendermene conto, lo seguii prima fuori dalla porta poi fino in fondo al corridoio, dove non si sentivano più le voci degli altri che cantavano per inaugurare l’inizio del tour insieme.

“Perché te ne sei andata di casa?” saltò su Nikki con lo stesso tono tranquillo di chi chiede se hai una mentina da offrirgli.

Appoggiai una spalla al muro e mi sforzai di non rispondere male. “Non credi che sia un po’ tardi per chiedermelo?”

“Forse,” rispose Nikki mal celando la sua insicurezza. “Però voglio saperlo lo stesso.”

“Potrei farti la stessa domanda,” ribattei mantenendo basso il tono della voce. “Ma se proprio vuoi saperlo, l’ho fatto perché per me non aveva più senso starci. Tu credi che abbia senso aspettare qualcuno che non tornerà mai?”

Nikki si passò una mano sulla fronte per scostare i ciuffi corvini che si erano appiccicati alla pelle imbrattata di cerone a cause del sudore. “Adesso siamo di nuovo insieme e, se vogliamo, tutto può tornare come prima.”

Mi strinsi nelle spalle. “Perché, prima cos’eravamo?”

“Amici?” tirò a indovinare.

“Non credo che due amici si riservino così tante attenzioni,” lo corressi guadagnandomi un’occhiataccia. “Però io ti volevo bene e mi piaceva averti intorno. Ti ricordi di quando scrivevamo insieme?”

Un flebile sorriso illuminò il volto pallido di Nikki. “Posso vantarmi del fatto di essere stato il primo a leggere in anteprima quasi tutte le tracce del vostro nuovo album.”

“Mi è mancato averti tra i piedi,” ammisi avvicinandomi a lui. “Ma io non penso di essere mancata a te, con tutte quelle ragazze che girano nel vostro backstage.”

“Quelle non hanno nulla a che vedere con te,” ribatté prontamente. “Con loro non posso nemmeno parlare. Se faccio tanto di spiccicare una parola, mi dicono di tacere. Dopotutto, non sono venute da me per fare le chiacchiere.”

Lasciai cadere le braccia lungo i fianchi. “Vieni con me giù al bar?”

“Il Jack che hanno portato nella stanza di T-Bone non ti è bastato?” domandò divertito.

“Sì, infatti comincio ad avere sonno, però non credo che un bicchierino in compagnia come ai vecchi tempi ci farà male.”

Nikki sogghignò. “Come ai vecchi tempi, eh? D’accordo, però ti avverto che meno gironzoliamo per l’albergo, meglio è. Sai, c’è il rischio di incontrare qualche giornalista, fan o, peggio ancora, di incappare in Doc McGhee. In camera ho una bottiglia ancora intatta. Potremmo condividerla.”

Annuii anche se in realtà sapevo che se avessimo varcato la soglia di quella stanza non avremmo certo passato il tempo a bere in due da una sola bottiglia. Tuttavia, gli feci cenno di andare e mi convinsi della cosa più sbagliata: pensai che quella fosse la volta buona in cui il destino – nel quale, tra l’altro, non avevo mai creduto più di tanto – avesse deciso di permetterci di riprendere quel nostro strano rapporto da dove lo avevamo interrotto il giorno in cui io, temendo di affezionarmi troppo a qualcuno che non fosse Brett, avevo deciso di non farmi più viva.

Nikki mi guidava per il corridoio tenendo la sua mano aperta sulla mia schiena, e camminammo in silenzio assoluto finché non raggiungemmo la porta della sua stanza.

“Sei di nuovo qui,” disse non appena la ebbe richiusa. “Come prima.”

“Già, e mi dispiace per come sono andate le cose. Non avrei dovuto scappare via così.”

“Nemmeno io avrei dovuto,” confessò Nikki, poi sollevò il capo e mi guardò negli occhi. “Però quella è acqua passata, okay? Adesso sei di nuovo qui con me e–”

Lasciò la frase a metà per abbracciarmi. Lui, grande e grosso com’era, che abbracciava me. Lo specchio posto sull’anta dell’armadio ci rifletteva e la scena mi fece sorridere perché si era chinato sulle ginocchia e sembrava volesse nascondermi. Un attimo dopo ero stesa accanto a lui, stretta tra le sue braccia come se ci fossimo completamente dimenticati di quello che era accaduto in passato. Mi sentivo di nuovo in pace. Tutto era tornato al suo posto e non mi passò nemmeno per l’anticamera del cervello di domandarmi per quanto ci sarebbe stato perché non me ne importava, almeno per ora.




N.D’.A.: Salve! =)
Con questo capitolo si apre la seconda parte del racconto che spero sia stato di vostro gradimento fino ad ora.
Come avete avuto modo di leggere, Nikki e Sharon sono di nuovo insieme, ma gli intralci non tarderanno ad arrivare, specialmente in questa seconda serie di capitoli che segnerà una svolta.
Spero di sapere presto le vostre opinioni! :)
Kisses,

Angie


Titolo: Falling in and out of Love - Lita Ford


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Capitolo 17
*** II.2) Gypsy Road ***


2
GYPSY ROAD





Non ricordavo di una sola volta in cui Nikki fosse stato ancora accanto a me al momento del mio risveglio. Era solito alzarsi per primo e andare a schiacciare un ultimo pisolino sul divano dopo aver fumato sul balcone, oppure si metteva a leggere o a scribacchiare qualcosa seduto sul pavimento del salotto.

Quando quella mattina riaprii gli occhi, dal momento che la stanza era una sola e non era nemmeno particolarmente spaziosa come quelle che un indomani avremmo potuto permetterci, trovai Nikki seduto sulla moquette intento ad annotare qualcosa sulla pagina ingiallita di un taccuino. Se ne stava tutto raggomitolato, i capelli facevano ombra sul suo volto e batteva un piede a tempo mentre seguiva le parole che aveva scritto, lasciandomi intuire che stesse abbozzando una canzone.

“Sei già all’opera?” domandai prima di lasciarmi andare a un lungo sbadiglio.

Nikki sollevò di scatto il capo, colto all’improvviso dalla mia voce. “Non si usa più dire buongiorno?”

“Non pensavo fosse così facile spaventarti,” ribattei dopo essermi tirata la coperta fin sopra la testa per ripararmi.

“Ti piace rompere, eh?” si difese arricciando il naso, poi cambiò completamente espressione e voltò il taccuino verso di me. “Da’ un’occhiata a questo e dimmi cosa ne pensi.”

Lessi velocemente il testo e annuii in segno di approvazione. “Credi che ci sia rimasto un po’ di tempo per trovare una musica adeguata oppure dobbiamo già andare a fare il sound check?”

“Credo di sì. Se vai a prendere anche la tua chitarra acustica potremo lavorare meglio.”

Scivolai fuori dal letto e recuperai il vestito blu scuro che avevo indossato la sera precedente dopo il concerto, poi corsi fuori dalla stanza senza scarpe e con i capelli ancora scompigliati. La mia camera era dall’altra parte dell’hotel e fui costretta a camminare in punta di piedi per non attirare l’attenzione di nessuno, schivando così anche eventuali domande riguardo il mio stato che lasciava poco spazio all’immaginazione.

Una volta recuperata la chitarra, tornai ad avventurarmi per i corridoi, ma stavolta non potei non notare l’enorme ombra scura di Brett, che era già sveglio e stava gironzolando per l’albergo insieme a Mick, con cui ormai faceva coppia fissa. Chiaramente nemmeno lui non poté non accorgersi di me, e il sorrisetto marpione che si dipinse sulla sua faccia mi fece innervosire.

“Ci stavamo giusto domandando dove fossi finita,” disse divertito dando di gomito a Mick, il quale reagì solo con un sogghigno che scomparve immediatamente dal suo volto bianco e ombroso.

“Buongiorno anche a te, Brett,” cantilenai sarcastica.

“Non vuoi dirci dove sei stata? Oppure vuoi che tiriamo a indovinare?”

Mick borbottò qualcosa, probabilmente irritato dal fatto che Brett stesse parlando al plurale come se fossero stati i Terror Twins che tentano di intromettersi nelle questioni personali della gente.

Lo salutai mentre camminavo all’indietro con la chitarra sottobraccio. “Magari ne parliamo in un altro momento, okay?”

“Perché non adesso?” domandò Brett con tono falsamente capriccioso.

“Perché devo andare a scrivere una canzone con il suo amico,” risposi indicando Mick con un cenno del capo. Il diretto interessato annuì come se avessi avuto bisogno del suo permesso.

“E dài, lasciala andare,” mi difese Mick prima di voltarsi e cominciare a scendere le scale in direzione del bar. Brett mi fece l’occhiolino per farmi capire che si era solo divertito a scherzare e a prendermi in giro, dopodiché seguì Mick che, se solo fosse stato per lui, ne avrebbe fatto volentieri a meno di trascinarsi dietro quel pivello capellone che gli si era accollato come una cozza.

Una volta che le loro voci svanirono in fondo alle scale, ripresi a correre silenziosamente verso la mia meta e trovai la porta ancora aperta. Mi intrufolai dentro e mi sedetti accanto a Nikki, sempre sulla moquette di un elegante bordeaux che faceva da sfondo al motivo color ocra che riprendeva il logo dell’albergo. Nikki spostò il taccuino al centro in modo che anch’io potessi leggere.

Eravamo seduti sull’unica porzione di pavimento illuminata dalla luce del sole che entrava dalla finestra spalancata come se la temperatura esterna non stesse sfiorando i trentacinque gradi, e più suonavamo, più ci esaltavamo, più avevamo caldo, senza contare i continui sbalzi d’umore che altro non erano che la conseguenza di qualche goccetto di troppo. C’erano momenti in cui trovavamo quello che pensavamo fosse il riff perfetto e lo scrivevamo, e altri in cui ci davamo degli incapaci a vicenda perché avevamo idee divergenti su certe questioni. In quegli attimi volavano insulti, minacciavamo di abbandonare la missione, accartocciavamo fogli e li lasciavamo cadere ai nostri piedi, poi uno dei due veniva colto dall’ispirazione, l’altro si rasserenava, raccoglieva il foglio, lo distendeva per bene e ricominciavamo da capo.

“Adesso sì che va bene. Questo riff mi piace, spacca,” esclamò Nikki tutto soddisfatto.

Un paio di ore dopo eravamo stesi sul pavimento, io con la chitarra in grembo e lui con le piante dei piedi scalzi addossate alla parete in modo da appoggiare il taccuino alle ginocchia e scrivere a raffica. Eravamo sofferenti nell’afa di quel primo pomeriggio d’estate, immersi in una pozza di sudore perché a comporre e a suonare si fa una fatica tremenda, e leggermente brilli a causa delle svariate lattine di birra ghiacciata che avevamo consumato per trovare un minimo di refrigerio.

Nikki si stiracchiò e lasciò cadere per terra il quadernetto e la penna col cappuccio mordicchiato. “Cosa darei per avere sotto il culo un bel pavimento di marmo!”

Mi strofinai gli occhi e mi liberai dal peso della chitarra. “Certo che dormire sulla moquette d’estate è una vera tortura.”

“E puzza più del divanetto della Mötley House. Ehi, te la ricordi, la Mötley House?”

Annuii mentre fissavo le chiazze d’umidità negli angoli del soffitto. “Certo che sì, come potrei dimenticarla? Dopo tutte le volte in cui tu e Tommy avete rischiato di dare fuoco a tutto con le prove della vostra scenografia, mi stupisco che sia ancora lì.”

“Un giorno ne faranno un monumento,” asserì Nikki con estrema convinzione, poi allungò un braccio per prendere un pacchetto di sigarette.

Io invece scoppiai a ridere fino a dovermi tenere la pancia. “Non dire cazzate. Il massimo che possano fare a quella topaia è demolirla per costruirci un palazzo nuovo.”

“Oh, no che non lo faranno!” esclamò dopo un tiro portentoso, poi mi passò la paglia. “Un giorno diventeremo così famosi che diventerà oggetto di culto.”

“Cosa c’era dentro quelle birre che hai fatto fuori?” domandai divertita. Nikki rise sonoramente per tutta la risposta e alzò le mani in segno di discolpa, tenendoci a precisare che aveva con sé una scorta di cocaina sufficiente per un paio di giorni, notizia di fronte alla quale storsi il naso. “Sei ancora attaccato a quella merda?”

Nikki roteò gli occhi. “Senti chi parla!”

Gli rifilai un pugno sulla spalla che, seppure ci avessi messo tutta me stessa per infastidirlo, risultò innocuo e persino impercettibile. “Guarda che ho smesso.”

“All’inizio dicono tutti così,” bofonchiò Nikki distogliendo lo sguardo. “Voglio vedere come farai quando comincerai a stare a rota. Ci scommetto quello che vuoi che ti vedrò strisciare qua davanti per elemosinarne un po’. E allora io...”

Fece una pausa a effetto durante la quale lo guardai di sbieco, gli occhi spalancati e un dito alzato, poi mi passò una mano tra i capelli, stringendoli appena tra le dita.

“...io non ti negherò il mio aiuto,” terminò

“Mi hai rotto, Sixx,” ribattei mentre mi alzavo in piedi senza nemmeno avere un valido motivo.

“Dove vai?” mi chiamò Nikki. “Sarà meglio che approfitti dei momenti di riposo finché non ci tocca correre da un palco all’altro. Questa è solo la prima data.”

Avevo un’idea fin troppo chiara di cosa significasse essere in tour e vivere a ore impossibili per essere sempre puntuale a ogni show, ragione per cui decisi di seguire il suo consiglio e mi tornai a sedere per terra appoggiando la testa sul suo ventre. Ero così stanca che avrei potuto chiudere gli occhi e addormentarmi cullata dal caldo di quella giornata estiva e dalle dita di Nikki che mi accarezzavano i capelli. Non era da interpretarsi come un gesto d’affetto. Era piuttosto un’azione che gli veniva spontaneo fare quando ne aveva la possibilità e che mi aiutava a rilassarmi.

Fu proprio in quel momento che il loro manager decise di venire a disturbarci per ricordarci che era ora di schiodare per raggiungere il luogo del concerto per il sound check. Fummo costretti ad abbandonare il nostro meritato riposo e mi feci una doccia in fretta e furia per rendermi quantomeno presentabile, poi uscii con l’intenzione di raggiungere gli altri. Lo avrei anche fatto volentieri se Tommy Lee non si fosse piazzato in mezzo al corridoio, seduto per terra e con una gamba stesa per impedirmi di passare. Mi fissava col suo consueto sguardo da adolescente troppo cresciuto e muoveva lentamente l’indice.

“Allora è vero che sei stata chiusa qua dentro per tutto il tempo!” esclamò senza smettere di ammonirmi col dito. “Ora mi spiego anche perché Nikki non rispondeva al telefono.”

Lo guardai stranita e mi domandai perché non avessi sentito il telefono squillare. Evidentemente Nikki lo aveva staccato per evitare che qualcuno lo infastidisse.

“Oggi ce l’avete con noi?” domandai mentre cercavo inutilmente di superare l’ostacolo presentato da una gamba del batterista.

“Assolutamente no. Se fosse per me ci sarebbe una certa libertà per tutti, compresa quella di girare per il corridoio in mutande, e aggiungo ‘con ancora le mutande’, senza scandalizzare le cameriere,” rispose Tommy, concentrato a spostarsi per bloccare il passaggio.

“Posso passare o devo pagare il pedaggio?” domandai divertita dalle facce assurde che si lasciava sfuggire per infastidirmi. “Vuoi uno zuccherino? Un ceffone? Se fossi in te sceglierei il primo, però devi essere svelto perché se mi innervosisco opto per la seconda possibilità, togliendoti il diritto di decidere.”

Tommy assunse un’espressione seria e si fermò, ponendo fine a quel continuo spostarsi che mi stava facendo incrociare gli occhi. “Sharon, mia cara amica e compagna di viaggio, hai una paglia?”

“Tutto qui?” domandai mentre gli porgevo il mio pacchetto.

Tommy estrasse una sigaretta e la accese prima di fare un largo sorriso sornione. “Sì, adesso sei libera. Ci vediamo all’arena.”

Gli diedi una pacca in segno di saluto e mi fermai per osservarlo mentre si avvicinava alla stanza di Nikki. Camminava con i gomiti puntati verso l’esterno e i piedi un po’ troppo distanziati, entrambe caratteristiche che insieme al suo fisico allampanato lo rendevano comico, poi si fermò davanti alla porta e prese a bussare finché non si aprì appena. Si vide un braccio uscire fuori, afferrarlo per i capelli e trascinarlo dentro, il tutto accompagnato da sghignazzi e dai consueti versi animaleschi che facevano quando erano insieme. Un po’ come me e Brett, che mi stava sicuramente aspettando davanti alla porta della mia stanza prima di partire.




N.D’.A.: Ciao a tutti!
Spero che la seconda parte sia di vostro gradimento.
Per ora grazie a coloro che hanno deciso di iniziare a seguire questo racconto e anche a quelli che mi hanno aggiunta tra i preferiti! ♥
Il prossimo capitolo arriverà mercoledì prossimo.
Se volete farmi sapere che cosa ne pensate, prego!
Kisses,

Angie


Titolo: Gypsy Road - Cinderella


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Capitolo 18
*** II.3) Cocaine ***


3
COCAINE





Era il quarto concerto del tour, l’ennesimo della mia carriera, e io ero ancora ridotta a torcermi le mani da seduta su una sedia con la chitarra in grembo. Gli schiamazzi del pubblico trepidante si sentivano fin dentro il backstage, una specie di polveroso luna-park al coperto. Lì ci si poteva trovare tutto ciò di cui si aveva bisogno: strumenti musicali, amici, cibo, groupie, groupie con una bustina di coca, solo la bustina di coca, tanto Jack da farci il bagno, spogliarelliste che qualcuno aveva portato dal club più vicino... insomma, qualsiasi cosa volessi, era sufficiente urlarla e quella arrivava: anche meglio del servizio in camera. L’unica pecca era che tutti erano estremamente agitati e prillavano da una parte all’altra come trottole in piena corsa, peggiorando la mia ansia. Gli addetti alla sicurezza portavano in giro i loro corpi massicci passando in rassegna con lo sguardo ogni angolo del backstage e ogni singola persona, le groupie guizzavano da una parte all’altra non appena udivano la voce di uno dei ragazzi, Rita girava agitando le bacchette per suonare una batteria immaginaria e ogni tanto sbucava Tommy, giulivo e sornione come sempre, che ci chiedeva se tutto stesse procedendo bene. Quando però da una delle porte sbucò John Gates, capimmo che era giunta l’ora di andare in scena. Brett inforcò il basso e si diresse per primo verso le scalette che conducevano al palco, con noi dietro che lo seguivamo a passo spedito e con l’adrenalina che iniziava a scorrerci nelle vene per poi esplodere quando ci trovammo di fronte a una distesa di teste, braccia e striscioni che invocavano i Mötley Crüe. Sentii una scossa lungo la schiena e attraversai di corsa il palco, il cui pavimento era una distesa di rombi bianchi e neri. Raggiunsi Steven vicino al bordo, gli diedi una pacca di incoraggiamento e alzai al massimo il volume della mia Kramer rossa. Il pubblico impazzì quando il rumore della distorsione emesso dagli amplificatori invase l’intera arena, e tutte le braccia si levarono al cielo non appena Steven si lanciò in un acuto per dare inizio a quell’enorme festa. Ma quarantacinque minuti sono pochi e passano in fretta, e giunse per noi il momento di cedere il posto ai padroni di casa, i quali fremevano dietro le quinte nell’attesa di salire sul palco.

Feci un ultimo inchino rivolta verso il pubblico con le luci colorate che si riflettevano sulla mia pelle poi, con la chitarra sottobraccio e una gran voglia di festeggiare con gli altri la buona riuscita del live, mi diressi verso le scale. Il primo che incrociai fu Nikki, il quale mi scompigliò i capelli per complimentarsi. Subito dietro di lui c’era T-Bone, che rivolgeva sorrisi o linguacce a tutti quelli che incontrava. Infine, Mick procedeva a passo svelto in bilico sulle sue zeppe e con una Gibson X-plorer gialla e nera che gli penzolava dal collo. Come previsto dal copione, Vince fu l’ultimo a entrare in scena e, non appena mise piede sul palco, sfoggiò il migliore dei suoi sorrisi beffardi e sembrò esplodere come una bomba. La prima cosa che mi domandai fu se fosse sotto l’effetto di qualche sostanza. Capii che mi stavo sbagliando quando il concerto terminò e lo osservai tornare nel backstage: non saltava più, camminava piano con lo sguardo fisso a terra e aveva smesso di sorridere. Sembrava un attore che si era tolto una maschera ingombrante dopo la fine dello spettacolo e che non vedeva l’ora di andare a dormire. Lo guardai mentre passava in mezzo ai suoi compagni: gli altri volevano correre a fare baldoria da qualche parte e cercarono di convincerlo, ma Vince fece loro capire che non ne aveva voglia con un vago cenno della mano, allora cominciarono a seguirlo mentre lui andava verso le docce, sempre più assillanti e picchiettandogli l’indice sulla spalla per infastidirlo. Alla fine Vince si girò di scatto, li mandò a farsi forrere e chiuse loro la porta in faccia. I due Terror Twins si guardarono allibiti, spostarono lo sguardo sulla porta serrata e scoppiarono in una risata argentina. Tommy sferrò una manata contro il legno e acchiappò Nikki per un polso per trascinarlo nella nostra direzione, dove avrebbe sicuramente trovato qualcuno disposto ad appoggiarli nelle loro scorribande. Li seguimmo urlando fino all’autobus e ci facemmo riportare in albergo. Dal momento che la stanza di Tommy era troppo piccola per tutti e nessuno aveva intenzione di fare la fine delle sardine come le altre volte, il batterista costrinse il pacifico Mick ad aprire la porta che fungeva da passaggio tra le loro due camere comunicanti in modo da creare un’unica grande stanza in grado di ospitare due band, qualche groupie e un paio di roadie.

In poco tempo non restò più nulla della semplice camera d’albergo che avevamo trovato quando eravamo arrivati: le due sedie erano ribaltate per terra, le tende erano state annodate e strappate, volavano oggetti, cibo e schizzi di birra. Per concludere in bellezza, le tre tipe che Vince si era trascinato dietro gridavano come oche strozzate per farsi notare. Mick, in un attimo di sconforto, aveva acchiappato una bottiglia ed era scappato a chiudersi in bagno, dove però non riuscì a trovare la tanto agognata pace perché Brett lo aveva seguito a ruota. Pensai che se al posto del mio amico ci fossi stata io, Mick mi avrebbe cacciata fuori a calci.

Nel bel mezzo della baldoria, dopo che Nikki, armato di lacca e accendino, ebbe involontariamente appiccato fuoco al paralume di una lampada da comodino rendendola molto più luminosa di prima, qualcuno bussò alla porta e il silenzio calò nella stanza.

“Servizio in camera,” annunciò una voce femminile dal tono estremamente cordiale.

Io e Rita ci scambiammo un’occhiata interrogativa e ci domandammo perché avessero ordinato altra roba da bere quando ne avevamo la camera piena, poi il nostro sguardo si spostò su Tommy che, incurante del fatto di essere in mutande – dati gli ultimi avvenimenti, oserei dire per fortuna – e con le maniche del costume di Nikki legate intorno al capo, saltò con agilità il corpo di Steven che si era appisolato sul pavimento e corse ad aprire, trepidante come un moccioso di sei anni che aspetta l’arrivo degli amichetti per giocare.

La signora del servizio in camera, alquanto turbata da tale visione, serrò gli occhi e protese in avanti un vassoio coperto. “Ecco a lei. Lo prenda in fretta, per favore.”

Tommy ghignò soddisfatto.

“Certo che lo prendo, signora! Si figuri se rimando indietro questo ben di Dio!” afferrò il vassoio, le chiuse la porta in faccia e si voltò verso di noi facendo oscillare il costume nero a pois bianchi che gli penzolava da dietro il capo. “Ehi, belli, guardate un po’ qui!”

Saltellò verso il letto e urtò accidentalmente Steven, che si svegliò di soprassalto e recuperò gli occhiali da sole che nello scatto gli erano scivolati dal capo ed erano finiti per terra.

“Oggi ho voglia di essere gentile con tutti,” iniziò Tommy dopo aver appoggiato il vassoio al centro del letto e averci fatto radunare tutti ai suoi piedi, poi appoggiò una mano sul coperchio a semisfera argentata con un pomello di ceramica bianca. “Avvicinatevi, amici, avvicinatevi! Mica mordo.”

Nikki uscì dal bagno sbadigliando e si ringalluzzì non appena notò il vassoio. “È già arrivata?”

Tommy annuì lascivo mentre tamburellava lentamente le lunghe dita sul coperchio del vassoio. “Ce n’è per tutti. Gradisci un assaggino?”

Nikki sollevò ripetutamente le sopracciglia. “Oh, sì, T-Bone!”

Tommy si spostò e batté la mano aperta sul materasso. “Allora siediti qui, vieni a farmi compagnia.”

Una nuvola di fumo grigio si levò da dietro la poltrona ricordando a tutti la presenza di Vince all’interno della stanza.

“Divertitevi pure alla faccia mia, stronzi!” ringhiò, poi tornò a fumare la sua paglia con più nervosismo di prima e il fumo prese a salire più velocemente.

Tommy afferrò Nikki per il foulard che aveva legato al collo e lo tirò a sé, indicando il vassoio con l’indice ben teso.

“E dai, T-Bone, scoperchialo!” lo incitò l’altro con la bava alla bocca. Steven aggrottò la fronte alta e si sporse in avanti per vedere meglio. Il batterista circondò il pomello del coperchio con tutti e cinque i polpastrelli, ci rivolse un sorriso astuto e iniziò un lentissimo e straziante countdown durante il quale si sentì solo il suono del respiro ansioso di Rita e il rumore di una bottiglia di vetro che rotolava sulle piastrelle del bagno.

“Tre...” annunciò Tommy con gli occhi spalancati, “due...” la porta del bagno si aprì e Brett fece la sua gloriosa e barcollante comparsa, “uno e mezzo...” Rita prese prima a stringere i pugni poi a passarsi le mani tra i ricci rossi, “uno...” l’attesa ci stava letteralmente divorando e Lee sembrava divertirsi, infatti tacque un po’ più a lungo del solito prima di sbraitare di nuovo, “zero! Dateci dentro, bestiacce!”

Sollevò il coperchio con un gesto secco e sotto di esso, perfetta come se fosse stata di origine divina, una montagna di cocaina svettava verso l’alto come a invocare i nostri nasi. Gli occhi di Nikki brillarono di luce propria e Steven e Brett sorrisero come due ragazzini che hanno appena ritrovato un giocattolo smarrito. Nel momento in cui Rita arrotolò una banconota per prendere d’assalto la sua parte, io indietreggiai strisciando sul pavimento, consapevole di non poter usufruire di un solo granello di quella roba dato che avevo impiegato mesi, sudore e forza di volontà per smettere. Mi rannicchiai contro la parete e li osservai mentre disponevano le loro piste sullo specchio che avevano staccato dal muro e appoggiato sul tavolino, dritte e perfette, pronte per essere consumate con un solo e portentoso tiro.

“Tu non ne vuoi?” mi chiese Vince atono, la schiena contro la poltrona e le ginocchia addossate al muro.

Scossi il capo. “Non mi faccio più di quella roba.”

“Allora non ti conviene riprovare,” mi avvisò. “Dopo ti sentiresti troppo male.”

Una lattina atterrò vicino ai miei piedi e la testa di Nikki era l’unica sollevata dal tavolo.

“Ehi, Sherry, vieni anche tu!” biascicò col naso che gli colava come se avesse avuto un terribile raffreddore e gli occhi lucidi come specchi.

“Magari un’altra volta, okay?” risposi con voce debole.

Lui roteò le iridi verdi e brillanti. “Vieni a provare, ti assicuro che è veramente buona. Ti fidi di me?”

“Neanche morto,” borbottò Vince per me, guadagnandosi un insulto pesante da parte del bassista.

“Tu sta’ zitto. Non è che se non puoi farti tu allora tutti devono restare sobri,” lo rimproverò. “E tu, Sharon, se vuoi puoi venire a condividere questo con noi.”

Senza curarmi più delle occhiate minatorie del biondo, mi alzai dal pavimento e presi la banconota arrotolata dalle dita di Nikki. Mi chinai sulla riga che aveva preparato apposta per me ma mi fu sufficiente inalarne una piccolissima parte per cominciare ad avvertire giramenti di testa e un forte bruciore al naso. Fissai Nikki con gli occhi spalancati dalla paura e lui si limitò a sorridermi prima di lasciarsi cadere sulla schiena e scoppiare a ridere, le braccia aperte sul materasso e i tendini del collo tesi al massimo nello sforzo della risata. Anche Rita e Steven erano fuori gioco, persino Brett lo era, e nessuno poteva aiutarmi ora che mi mancava l’aria. La sensazione di soffocamento fu subito sopraffatta da quella di nausea: scattai in piedi con una mano sulla bocca e corsi in direzione del bagno. Spalancai la porta con un calcio ma non feci in tempo a raggiungere il lavandino o la vasca, così vomitai proprio davanti a Mick, che se ne stava ancora seduto per terra in compagnia della sua bottiglia. Ero caduta sulle ginocchia e sui palmi con un tonfo sordo, e lui era immobile davanti a me che mi fissava scuotendo lentamente il capo in segno di disapprovazione.

“Oh, Mick, scusa,” mormorai. “Non volevo disturbarti.”

Prima che potesse rispondermi, un paio di mani mi afferrarono per le spalle e qualcuno mi aiutò a spostarmi fino al bordo della vasca, al quale mi aggrappai come se fossi stata un naufrago al quale avevano appena gettato un salvagente. Continuai a rimettere senza sosta mentre le mani sconosciute mi tenevano indietro i capelli e mi aiutavano a non scivolare.

“Che cazzo, Sharon, te l’avevo detto,” mi ammonì Vince.

Mi voltai di scatto verso di lui con la testa che girava all’impazzata. “Cosa devo fare?”

“Dormire, ma prima finisci di sboccare,” mi disse, poi fece un cenno a una ragazza, l’unica ancora in grado di connettere. “Ehi, tu! Vieni qui a darmi una mano con lei.”

“Non voglio nessuno intorno!” esclamai spaventando così tanto la tipa che guizzò via contro la volontà di Vince. Volevo Brett ma, proprio come Nikki, era impegnato a godere degli effetti della cocaina e l’unico in grado di aiutarmi era solo il cantante, il quale fu costretto ad aspettare che terminassi di vomitare prima di passarmi un braccio intorno alla vita per aiutarmi a non cadere.

“Forza, andiamo a dormire,” sussurrò Vince mentre attraversavamo la stanza. Era un campo di battaglia: persone sdraiate dove capitava, oggetti fuori posto e un terribile odore di chiuso, sudore e sporco.

“Non voglio dormire,” obiettai tra i denti mentre premevo il capo contro la sua spalla per la paura.

“Non lo so nemmeno io che cazzo è meglio fare, però devi smaltire la dose,” spiegò mentre mi trascinava per il corridoio contro la mia volontà.

“Lasciami andare, non voglio venire con te. Non voglio neanche sapere dove si trova la tua stanza.”

“Piantala e cammina. Non posso trascinarti come se un asino intestardito,” ribatté Vince, e continuò a ripetermi di sbrigarmi finché non raggiungemmo la porta. Si frugò in una tasca dei pantaloni bianchi finché non trovò la chiave, aprì e, una volta dentro, la chiuse con un calcio.

“Non ti voglio vedere,” mi lamentai. “Stammi lontano.”

“Non ti faccio niente, te lo giuro,” sbottò prima di aiutarmi a stendermi. “Io da te non voglio proprio nulla. Adesso però non pensarci e cerca di calmarti.”

Fece per alzarsi ma lo afferrai per una mano e glielo impedii. “No, aspetta. Non lasciarmi qui, ho paura.”

Vince tornò a sedersi con fare scocciato e sbuffando, ma non ritrasse la mano nel momento in cui iniziai a stringerla più forte. Comicniai a piangere perché avrei voluto avere vicino qualcuno che mi voleva bene e che non restasse con me solo per pietà o, visto che quello non era certo il caso di Neil, per guadagnarsi una scopata. Vince però non si mosse mai, nemmeno quando aumentai la morsa e cominciai a chiamare il nome di Nikki con la vana speranza che si materializzasse nella stanza e mi sostenesse in quel terribile momento che stavo vivendo. Poi, all’improvviso, i contorni dei mobili diventarono più sfuocati, la luce più fioca e le voci più lontane, poi non vidi né sentii più niente, neanche la mia stessa mano che stringeva quella immobile di Vince.




N.D’.A.: Salve! =)
A quanto pare, la situazione non è delle migliori... ma io ve l’avevo detto che tutto sarebbe lentamente precipitato.
Mercoledì prossimo arriverà il seguito.
Come sempre, grazie a chi legge! ♥
Se vi va, fatemi sapere qualcosa!
Glam Kisses,

Angie


Titolo: Cocaine - Eric Clapton


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Capitolo 19
*** II.4) Communication Breakdown ***


4
COMMUNICATION BREAKDOWN





Un urlo di divertimento mi svegliò e io saltai a sedere, ma fui costretta a sdraiarmi di nuovo a causa di un forte giramento di testa. Mi lasciai cadere sul materasso e mi premetti i palmi sugli occhi per stropicciarli, sollevandoli solo quando fui certa di aver riacquistato una buona parte delle mie capacità visive.

La stanza era immersa nella semioscurità e c’era un forte odore di chiuso e vomito, intravedevo le sagome di alcuni vestiti buttati alla rinfusa sopra le sedie e, soprattutto, mi resi conto di non essere da sola. Trasalii quando mi accorsi della presenza di qualcuno che sonnecchiava dandomi le spalle, poi abbassai lo sguardo su di me e mi accorsi di avere la maglia e i capelli completamente fradici. Erano entrambi appiccicati alla mia pelle e l’acqua aveva inzuppato anche le lenzuola e il cuscino, i quali sprigionavano un olezzo ripugnante. Con la testa che mi girava vorticosamente e lo stomaco che sembrava stringersi sempre di più fino a bruciarsi, allungai una mano verso il comodino e accesi la luce, che mi permise di scorgere una testa bionda seppellita tra i cuscini. Per un attimo mi convinsi di essere tornata nel 1982 e di essere chiusa nella stanza di Vince e Tommy nell’appartamento in cui vivevano insieme a tutto il loro ciarpame. Mi domandai anche se per caso quella sera avrei dovuto suonare al Whisky con la mia band e, se così fosse stato, se sarei riuscita a reggermi in piedi sul palco dopo tutto quello che avevo passato nelle ultime ore.

Fortunatamente non ci impiegai più di qualche secondo prima di tornare in me e rendermi conto che era il 1985, che mi trovavo in tour e che sarei dovuta essere ovunque meno che nella stanza di Vince Neil.

Puntai un gomito sul materasso e mi alzai a sedere, felice di poter staccare la testa da quel cuscino puzzolente, poi presi a scuotere Vince per una spalla finché non iniziò a mugugnare contrariato, senza però aprire gli occhi né dare segno di volermi rispondere.

“Per la miseria, di’ qualcosa!” sbottai prima di rifilargli una sberla sul bicipite.

Vince si girò lentamente a pancia in su stiracchiandosi come un gatto che ha passato la giornata a crogiolarsi sotto il sole e sbuffò sonoramente. “Che hai da urlare?”

Mi passai una mano tra i capelli e li scostai dalla fronte. “Dimmi cos’è successo e perché sono qui.”

“Sta’ tranquilla, è normale che non ti ricordi niente,” proseguì con una calma insopportabile.

“So solo di aver sniffato dopo una vita che non lo facevo e di aver vomitato, poi la mia memoria si ferma a quando sono entrata qui.”

Vince sbadigliò. “Comincia a metterti l’animo in pace perché non ho approfittato di te in quelle condizioni. Un anno fa avrei potuto farlo, oggi no. Anzi, forse l’ho anche già fatto, io, qualcosa di simile... Gesù Cristo, spero di sbagliarmi.”

“Non me ne frega di quello che facevi un anno fa. Voglio sapere perché mi trovo in camera tua,” lo interruppi bruscamente.

Vince si alzò in piedi vacillando e si appoggiò al muro col lato destro del corpo. “A un certo punto sei svenuta e ho dovuto trascinarti sotto l’acqua fredda, dove finalmente ti sei ripresa e mi hai pregato di rimetterti a dormire. Ho solo obbedito alle tue richieste.”

Sollevai lo sguardo verso di lui e lo trovai fermo contro la parete, le braccia incrociate sul petto con fare accusatorio e gli occhi puntati contro di me.

“Mi sento in mezzo ai piedi,” mormorai imbarazzata.

Vince alzò le spalle e si lasciò sfuggire una risata sarcastica. “Dopo i danni che abbiamo combinato nell’Ottantadue, credo di averci fatto l’abitudine a tenerti la fronte.”

Feci una sborfia, disgustata dalla depravazione di quel periodo della mia vita, e recuperai le scarpe da sotto il comodino. “Stavolta non ho intenzione di rimanere con te e credo tu sia della stessa opinione, giusto?”

Vince annuì. “Giusto.”

“Bene,” approvai, poi lo raggiunsi con un paio di falcate e puntai l’indice contro il suo petto. “Io qui dentro non ci sono mai entrata, è chiaro?”

Vince scostò la mia mano con un gesto secco. “Non c’è bisogno di agitarsi così. Se avessimo scopato allora ti capirei, ma ho fatto solo la parte della crocerossina, cosa che non credo che il tuo adorato Nikki avrebbe fatto visto che è lui il primo ad averne bisogno.”

Lo trafissi con un’occhiataccia prima di dargli una pacca per ringraziarlo per avermi aiutata, poi abbandonai la stanza. Avrei preferito che nessuno venisse a conoscenza di quello che avevo combinato, ma quando misi piede nel corridoio e mi trovai di fronte la figura mingherlina e ombrosa di Mick, capii che non sarebbe stato così. Il cuore mi saltò in gola nel momento in cui mi fece un cenno di saluto fissandomi con quei suoi occhietti chiari da sotto la frangia lunga e scarmigliata.

“Brett ti sta cercando da mezz’ora,” mi informò fermando la mano a mezz’aria, poi piegò l’indice in direzione della porta alle mie spalle. “E Nikki era preoccupato. A quanto pare aveva i suoi motivi per esserlo.”

Mi sentii mancare l’aria e mi sembrò che il pavimento di marmo fosse sparito da sotto i miei piedi. “Oh, no, non è come pensi! Io–”

“Non preoccuparti,” mi rassicurò Mick come se avesse dovuto dire qualcosa di veramente rincuorante, poi si lasciò sfuggire la sua consueta ghignata soffocata. “Quando sei con noi certe cose non si possono evitare.”

“Guarda che io–”

Mick spostò il palmo della mano in avanti con un gesto quasi meccanico. “No, non devi giustificarti. Almeno voi due avete trovato un modo per passare il tempo, mentre io... io... be’, io ho dato fondo alla scorta di birra insieme a Brett. Simpatico il tuo amico, sai? A volte però parla troppo, credo che dovrebbe imparare a tacere un po’.”

“Adesso dov’è?”

Mick indicò un punto in fondo al corridoio. “Da qualche parte a cercarti perché tra due ore dobbiamo essere sull’autobus.”

Lo ringraziai e mi incamminai verso il punto che mi aveva indicato ma, anziché Brett, trovai Nikki, che stava gironzolando tranquillamente con una paglia tra le dita e con lo sguardo perso nel vuoto. Non era esattamente così che mi aspettavo di trovarlo dopo che Mick mi aveva detto che lo aveva visto molto in pensiero, tuttavia cercai di non farci caso dato il suo stato emotivo reso estremamente volubile a causa dell’uso di sostanze.

“Bentornata, Sharon!” esclamò prima di espirare una grossa nuvola di fumo. “Credevamo fossi scomparsa nel nulla.”

Inarcai le sopracciglia. “Almeno non sembri preoccupato.”

Nikki fece spallucce poi mi porse la sigaretta affinché facessi un tiro. “Come dovrei sembrare, disperato?”

“Certo che no,” risposi istintivamente mentre osservavo i suoi occhi verdi, ora privi di tutte le sfaccettature più scure e luminose che molte volte mi ero ritrovata ad ammirare. Nikki continuava a fissarmi inebetito senza smettere di chiedermi perché dopo la festicciola nella stanza di Tommy non fossi andata nella sua.

“Volevi che non ti trovassi?” domandò poi con una spontaneità spaventosa.

“No,” ribattei. “Perché avrei dovuto?”

Nikki si aggiustò distrattamente la giacca nera con le spalle imbottite. “Così, tanto per farlo.”

Si passò poi il dorso di una mano sotto il naso e iniziò a sfregare la pelle con foga, permettendomi di intuire il motivo per cui mi sembrasse così fuori di sé – senza contare che, probabilmente, non solo aveva sniffato, ma aveva anche preso qualcos’altro dall’effetto terribilmente calmante che lo aveva portato a vagare lentamente per i corridoi volgendo lo sguardo spento e arrossato dovunque gli capitasse. Se fosse stato sobrio, o almeno non così fatto, mi avrebbe fatto il terzo grado per sapere dove fossi stata per poi infuriarsi nel caso avesse scoperto la verità. Invece continuava a guardarmi con un’espressione allucinata che mi ricordava quella che un tempo avevo anch’io.

Dopo alcuni minuti che parvero infiniti, allungò una mano tremante e passò tra i miei capelli le dita dalle unghie ricoperte di smalto nero sbeccato. “Tra un po’ si parte. Vieni vicino a me in aereo, così ti faccio leggere una cosa che ho scritto stanotte?”

Annuii e, poiché glielo avevo promesso, durante il volo occupai il posto accanto a lui. Appoggiò le ginocchia contro il sedile davanti, si lasciò scivolare un po’ e si rannicchiò, poi si frugò in una tasca dei jeans e ne estrasse un foglietto spiegazzato. Lo stirò e me lo porse affinché lo leggessi, poi approfittò del fatto che fossi estremamente concentrata per prendere qualcosa da una tasca del chiodo. Mi accorsi che si trattava di una bustina di coca solo quando sollevai lo sguardo per comunicargli le mie osservazioni su ciò che aveva scritto.

“Come vedi, mi piace portarmi il divertimento anche ad alta quota,” sentenziò mentre ne stendeva una strisciolina sul dorso della mano. Sentii le dita fremere e stringersi sulla carta del foglio fino a strapparlo. Nikki mi fulminò con lo sguardo temendo che lo strappo avesse attraversato anche la parte su cui aveva scritto, poi la cocaina iniziò a fare effetto e sbatté il capo contro il poggiatesta lasciandosi sfuggire un lungo sospiro seguito da una risata – il tutto mentre io non riuscivo a distogliere lo sguardo dal suo viso pallido che si rilassava per poi tendersi, scosso dall’estasi.

“Ne vuoi un po’?” domandò, allungandomi il sacchetto con ancora abbastanza roba per due persone.

“No,” risposi dura. “Lo sai che non ne prendo più, perché continui a offrirmene?”

Nikki roteò gli occhi. “Ieri sera l’hai presa.”

“Infatti sono stata male,” ribattei. “Smettila di offrirmene. Ho smesso e non ho intenzione di ricominciare.”

“Non sai cosa ti perdi,” cantilenò.

“Io?” sbottai prima di alzarmi. “Sei tu quello che non sa cosa si sta perdendo. Anzi, sai una cosa, Sixx? Vaffanculo. Resta qui da solo, io me ne vado.”

“Vaffanculo tu,” rispose con sforzata calma prima di alzarsi a sua volta e raggiungere Tommy sul suo sedile.

Mi andai a sedere accanto a Brett, che per ora era ancora abbastanza sobrio per ascoltarmi un po’. Ovviamente aveva assistito alla breve sceneggiata e aveva compreso la situazione alla perfezione sebbene anche lui ogni tanto si concedesse il lusso di una sniffata. Aspettò con mirabile pazienza che mi sedessi, che sferrassi un pugno al sedile e che tenessi il broncio per qualche secondo prima di appoggiare la sua mano grande sulla mia spalla, ma stavolta non mi sottrassi come ero solita fare.

“Vorrei che tutto tornasse come una volta,” confessai con lo sguardo chino.

Brett scosse il capo. “Lo sai che non è possibile tornare indietro nel tempo.”

“Mi mancano quei giorni in cui vivevamo insieme, scrivevamo e ridevamo... è vero che qualche volta discutevamo e che non eravamo sempre felici, però facevamo sempre pace. Stavamo così bene insieme.”

“Credo che potresti esserlo ancora. Felice, dico.”

Tamburellai le dita sul bracciolo metallico del sedile. “Lo sento distante da me. Penso che sia la roba, sai? L’altro giorno non era su di giri come oggi e stare con lui è stato bello. Abbiamo passato un pomeriggio come facevamo a Los Angeles. Ti giuro che mi sembrava di essere tornata indietro di tre anni.”

“Lo sai com’è fatto. Gli piace fare quello che gli pare, mentre tu hai capito che non è sempre il caso. E forse dovrei capirlo anch’io,” agitò la bottiglia che aveva in mano e la passò a Steven, il quale era stravaccato sui sedili davanti ai nostri. “Ti prometto che mi darò una regolata anche perché, cazzo, non ne posso più. Vedrai che lo farà anche Nikki.”

Gli sorrisi e appoggiai la testa alla sua spalla, ringraziando il cielo per avermi dato un amico così. Sapevamo entrambi che mentre lui sarebbe anche potuto riuscire a smettere con gli stravizi, Nikki ci avrebbe impiegato molto più tempo, forse troppo, ma nonostante questo Brett aveva cercato di consolarmi e non l’aveva fatto per farmi tacere, ma per vedermi sorridere.




N.D’.A.: Buonasera!
Mi scuso per il ritardo nella pubblicazione di questo capitolo, ma tra impegni improrogabili, studio e linea capricciosa, riesco a postare solo adesso e per giunta di fretta... per gli stessi motivi, non sono certa di riuscire a caricare regolarmente i capitoli ogni mercoledì o almeno una volta alla settimana, tuttavia cercherò di non far passare più di quindici giorni tra una pubblicazione e l’altra.
Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento!
Se volete farmi sapere qualcosa, ne sarò grata!
Per ora grazie a chi legge e recensisce, e anche a chi continua ad aggiungere tra le seguite la mia storia precedente sui Mötley Crüe! ♥
Kisses,

Angie


Titolo: Communication Breakdown - Led Zeppelin


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Capitolo 20
*** II.5) Behind Blue Eyes ***


5
BEHIND BLUE EYES





Una canna passò dalle dita lunghe e sottili di Tommy a quelle di Nikki, liberando una lieve scia di fumo che sfiorò le narici di Vince, il quale arricciò il naso, evidentemente infastidito. Nikki sogghignò e, dopo aver fatto un tiro bello portentoso, esalò il fumo cercando di formare i famigerati cerchiolini senza però riuscirci, poi passò la canna al suo compare affinché ripetesse la stessa operazione, il tutto sempre sotto lo sguardo di un seccato Vince. Gli occhi socchiusi e arrossati del cantante seguivano ogni movimento dello spinello con brama, prima lentamente poi sempre più velocemente man mano i viaggi che quel cannone compiva all’altezza del suo naso diventavano sempre più frequenti. Le pupille scure schizzavano da una parte all’altra, la fronte si imperlava di sudore e i Terror Twins fumavano con voracità: increspavano le labbra ancora sporche di rossetto e soffiavano fuori il fumo, che si arricciava nell’aria creando soffici motivi orientaleggianti, poi le rilasciavano e sorridevano deliziati, tendendo le gote. Le loro mani si avvicinavano con movenze teatrali ed eleganti, gli occhi di Vince erano sempre più lucidi e le sue dita si stringevano intorno ai braccioli della poltrona di finta pelle verde fino a dare l’illusione di aver trapassato il tessuto. Tratteneva il fiato poi lo rilasciava e il suo respiro affannato giungeva alle orecchie deigli altri. All’improvviso Nikki si alzò in piedi e si avviò verso l’ascensore ondeggiando sulle zeppe. “Ehi, T-Bone, vado a prenderne dell’altra.”

Tommy sollevò il pollice in segno di OK. “Ottima idea, bello.”

A quel punto Vince saltò in piedi spingendo involontariamente la poltrona, i cui piedini stridettero a causa dell’attrito col pavimento di marmo della saletta dell’albergo, e scaraventò per terra una lattina di Coca-Cola che aveva in mano da almeno un’ora. “La sapete una cosa, stronzi? Io me ne vado. Mi sono rotto di stare qui con voi.”

Tommy ebbe lo sfacciato coraggio di accennare un labbrino infantile. “Su, Vinnie, non dire così! Stavamo solo scherzando!”

“Fottiti!” sbraitò Vince prima di sbattere la porta e incamminarsi per il corridoio appoggiando rumorosamente il tacco delle scarpe.

Rita sollevò lo sguardo dalla rivista che stava leggendo distrattamente da stravaccata contro Steven. “Be’? Cosa gli è preso adesso?”

Tommy sgranò gli occhi per poi abbassarli e continuare a tacere, rigirandosi tra l’indice e il pollice quel che era rimasto del suo spinello. Poco dopo alzò il capo e tirò su col naso. “Qualcuno sa dove si è cacciato Sixx? Sharon, potresti andare cercarlo? Non vorrei che si stesse consumando la mia erba tutto da solo e senza offrire.”

Infastidita dal tono di voce che aveva utilizzato per impartirmi quell’ordine, lo colpii su un piede col tacco della scarpa poi uscii cercando di impiegarci più tempo del previsto, del tutto incurante delle lamentele di Tommy e delle risate di Brett e Rita. Non appena fui fuori, scorsi Nikki che tornava vittorioso dalla sua missione.

“Te ne vai già?” domandò mentre passava una mano sulla tasca nella quale aveva nascosto il bottino.

Alzai le spalle. “Ho solo voglia di fare quattro passi. A proposito, dentro si stanno domandando dove tu sia finito.”

“Allora sarà meglio che vada,” disse, poi si chinò alla mia altezza e appoggiò la fronte alla mia tempia. “Dopo ricordati di passare a trovarmi.”

Mi scostai istintivamente come se stessi avendo a che fare con il primo maniaco incontrato per strada. “Non credo di volerlo. Ora scusami, ma devo andare.”

“Mi lasci da solo?” domandò. “Non lasciarmi da solo anche stanotte, Sherry. Cosa ti ho fatto? Non ti va più bene?”

Lo ignorai e presi a camminare per il corridoio finché non mi resi conto di trovarmi proprio davanti alla porta di Vince. Siccome non mi sembrava di sentire nessun vociare sospetto provenire dall’interno della stanza, decisi che bussare non sarebbe stato poi così fastidioso per lui, anche se quando aprì dovetti ricredermi. Me lo ritrovai davanti con gli occhi ancora iniettati d’ira, pronto a saltarmi al collo.

“Perché sei qui?” domandò acido e sul punto di chiudermi la porta in faccia nel caso in cui non avesse gradito la mia risposta.

“Ero di passaggio,” ciò che dissi risultò poco credibile anche se non si trattava altro che della verità. “Volevo sapere se andava tutto bene.”

Vince fece una risata sarcastica, acuta e potente, da appoggiato allo stipite. “Tu cosa dici? C’è qualcosa nella mia vita che è mai andato per il verso giusto?”

Feci spallucce. “Be’, qualcosa sì. Hai un gruppo forte e–”

Mise avanti una mano per interrompermi. “Non tirare fuori la stronzata dei soldi perché giuro che potrei spedirti dall’altra parte dell’albergo con un manrovescio anche se sei una ragazza. Poi dimmi se quello ti sembra un gruppo.”

Mi morsi un labbro per soffocare la risposta negativa che stava per uscirmi dalla bocca.

Vince si fece da parte. “Vieni dentro, non stare lì in mezzo al corridoio. Ci sono tante orecchie tese anche se non le vediamo. Che vadano a ‘fanculo!”

Varcai la soglia e mi ritrovai all’interno di una stanza messa completamente a soqquadro, particolare al quale ormai non facevo più tanto caso.

“Non credo che i ragazzi ce l’abbiano con te,” buttai lì finendo per pentirmene subito dopo.

Vince sgomberò il tavolo da alcuni vestiti appallottolati e ci si sedette sopra. “Sono talmente fuori che non vedono l’ora di trovare qualcuno di un po’ più debole con cui prendersela.”

“Ultimamente li trovo molto concentrati su quella merda, specialmente Nikki,” confessai.

Vince si accese una sigaretta e cominciò a fumare nervosamente.

“Non ho idea di quello che si cala e, sinceramente, non me ne frega neanche, però è certo che quando lui e Tommy sono fatti diventano ancora più insopportabili. Dico, li hai visti prima con quella canna? È come legare un cane randagio e affamato e mostrargli una bistecca. Inizia a tirare per raggiungerla, ma il collare lo si stringe intorno al collo e sente male. Uggiola, piange, si dispera... però non mangia e il dolore della corda si aggiunge a quello della fame,” scaricò la cenere della paglia in un vasetto di ceramica bianca poi sferrò un pugno sul tavolo, facendo traballare il posacenere. “Anziché aiutarmi mi stanno spingendo sempre più verso il limite. Anzi, cosa dico? Io il limite l’ho già superato da un pezzo.”

Mi guardò di nascosto e si portò le mani tra i capelli biondi.

“Oh, cazzo... perché ne sto parlando con te?”

“Non importa, va’ avanti,” lo esortai mentre mi sedevo su un angolo del materasso, stanca di dover stare in piedi. “A volte avere qualcuno con cui parlare può essere utile.”

“E tu che ne sai? Non stai passando la vita isolata da tutto e tutti a struggerti su un brutto ricordo che a volte non ti sembra realmente accaduto e per un attimo ti convinci che è stato solo un incubo.”

“Non avrò fatto qualcosa di simile, però so quanto possa essere utile avere qualcuno di cui fidarsi. Io ho Brett.”

“E io nessuno, com’è giusto che sia,” terminò Vince per me, poi continuò. “Ma se devi stare qui a fare il prete nel confessionale, allora puoi anche andartene. Non ho bisogno di essere compatito.”

Feci aderire la punta di una scarpa sulla moquette per schiacciare un grumo di polvere. “Non sono abbastanza in forma per sostenere moralmente qualcun altro. Del resto anch’io ho appena smesso con certa roba e ho continuamente a che fare con persone che ne fanno un uso spropositato. In compenso bevo, ma vorrei smettere.”

“Sai,” riprese Vince, ora intento a torcersi le dita mentre si aggirava inquieto per la stanza, “non è facile passare per il cattivo di turno. Non lo è nemmeno vedere il proprio nome su tutti i giornali e trovarsi tante dita puntate contro con altrettante lingue pronte a sputare sentenze.”

“Immagino,” risposi, e lui annuì muovendo il capo.

“So di aver commesso l’errore più grave della mia vita e che hanno ragione, però quando è troppo, è troppo,” disse tra i denti dopo aver preso posto a mezzo metro da me. “L’ho capito, cazzo, non sono stupido! Ho capito che non avrei dovuto bere e che non avrei–”

Si portò una mano sulla bocca come se avesse voluto zittirsi da solo e si immobilizzò, lo sguardo fisso su un punto a caso della parete di fronte a lui e sempre più lucido. Sembrava che si fosse pietrificato e che non si sarebbe mai più mosso.

Appoggiai timorosamente una mano sulla sua spalla, fermandomi non appena percepii il più lieve dei contatti. “Tutto bene?”

“È un ricordo che mi porterò dietro finché campo. Sarà come avere un demonietto sulla spalla pronto a rinfacciarmi ciò che ho fatto ogni giorno,” scandì atono, i pugni tremavano serrati sulle ginocchia, simmetrici. Esercitai una pressione appena più forte sulla sua spalla e lui si voltò lentamente, mostrandomi gli occhi ancora spalancati. “Vorrei che le dinamiche dell’incidente fossero state diverse, così forse quello a rimetterci sarei stato io, ma ormai quel che è stato, è stato. Il passato non si può cambiare, solo accettare, ma mi rifiuto di farlo perché non posso accettare di aver commesso uno sbaglio del genere.”

Ritrassi la mano e la lasciai ricadere lungo il fianco senza sapere cosa dire. Non c’era nulla che potessi fare per alleggerire quel peso che Vince si stava portando sulla coscienza. Forse un po’ di contatto fisico avrebbe potuto alleviarlo momentaneamente, ma non potevo sopportare la sensazione di quel corpo gelato che tremava tra le mie braccia.

“Vedrai che tutto si sistemerà, e troverai un modo per superare anche questa,” sussurrai al suo orecchio.

“Lo spero. Non posso continuare così,” mormorò Vince.

“Un giorno ce la faremo tutti,” dissi, e subito mi ricordai che, giusto per rimanere in tema, avrei fatto meglio a costringere Brett a schiodare dalla stanza di Tommy e a mettersi a dormire dal momento che nel giro di cinque ore saremmo partiti alla volta della tappa successiva. Mi alzai dal letto e, cercando di fare poca confusione con le scarpe, mi avvicinai alla porta.

“Aspetta, Sharon,” mi fermò la voce di Vince. “Grazie per avermi ascoltato. Credo che Nikki abbia tutte le buone ragioni per essere geloso di te.”

“Geloso? Chi, Nikki?” ripetei inarcando le sopracciglia.

“Sì. Parla sempre di te. Se non lo conoscessi direi che...”

“Che...?” lo incalzai.

Vince agitò scompostamente la mano. “Niente, lascia perdere e vai. Ti starà aspettando.”

“Non stasera, e se mi sta aspettando lo sta facendo inutilmente,” risposi, poi lasciai la stanza e, non appena girai l’angolo col capo chino e le braccia incrociate, mi imbattei proprio in Nikki, ora fermo al centro del corridoio che mi fissava da dietro la frangia gonfia e sbilenca.

“Cosa ci facevi in camera con Vince?” sibilò attirando persino l’attenzione del serafico Mick, che si era affacciato dalla porta della sua stanza.

Trattenni il respiro per un attimo poi risposi tutto d’un fiato. “Gli ho chiesto come stava.”

“Questa è buona. Complimenti, Smith, questa era davvero una buona scusa,” bofonchiò Nikki grattandosi il mento con fare falsamente pensieroso.

“Non hai il diritto di dirmi quello che devo fare. Buonanotte, Sixx,” mormorai prima di passare oltre.




N.D’.A.: Buonasera!
Finalmente ce l’ho fatta!! E, teoricamente, mercoledì prossimo dovrei riuscire a postare il prossimo capitolo. Spero che questo sia stato di vostro gradimento!
Grazie a chi continua a inserire la storia tra le seguite e a chi legge! ♥
See ya,

Angie


Titolo: Behind Blue Eyes - The Who


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Capitolo 21
*** II.6) Boulevard of Broken Dreams ***


6
BOULEVARD OF BROKEN DREAMS





Ero certa di sapere quasi tutto di Nikki e, di conseguenza, ero convinta che saremmo potuti tornare amici come una volta. Preferivo pensare che le cose che erano accadute durante il tour fossero sciocchezze sulle quali sorvolare, ma una sera il castello che mi ero costruita mi crollò addosso schiacciandomi col peso dei suoi mattoni forgiati nell’illusione. Accadde nell’unico momento della giornata in cui potevamo permetterci di rilassarci, ovvero dopo un concerto, mentre ognuno correva alla ricerca di ciò di cui aveva bisogno per sopravvivere. Io, al contrario del solito, ero chiusa in camera, dove potevo osservare la città che brulicava oltre il vetro spesso della finestra mentre sorseggiavo una birra fredda. A volte la pace era interrotta da qualcuno che bussava o che mi faceva squillare il telefono per infastidirmi, ma fu sufficiente staccare la spina e fingere di non sentire per godermi quell’attimo di meritata tranquillità. Pioveva a dirotto e il caldo faceva evaporare velocemente l’acqua che si accumulava sull’asfalto, producendo un’insopportabile umidità che sembrava trapassare la pelle e inzuppare le ossa. Probabilmente il fatto di non poter lasciare l’albergo a causa dell’acquazzone estivo che era in corso aveva fatto innervosire i ragazzi, che avevano iniziato a fare danni nel corridoio facendo scattare gli allarmi antincendio e appiccando fuoco alle porte con la lacca per i capelli e l’accendino. Sentii le urla tuonanti di Doc McGee e John Gates rimbombare nelle scale, subito seguite da un ululato di Tommy e dalla risata argentina di Rita. Mi stupii di non aver udito anche la voce di Nikki, e questo mi portò a sospettare che anche lui si fosse segregato in camera alla ricerca di un po’ di pace dopo settimane di baldoria ininterrotta. Provai a telefonargli ma non rispose, allora mi alzai lentamente dal letto, infilai le prime scarpe che trovai e uscii dalla mia stanza.

“Ehi, Tommy!” urlai a squarciagola per farmi sentire dal batterista. “Dov’è Sixx?”

Tommy esibì uno dei suoi soliti sorrisi a cento denti. “In camera a dormire. Ma lo sai cosa penso io, eh, Sharon? Penso che quel furbone abbia così tanta neve da aprire un impianto sciistico e farci su un fottio di soldi. E sai qual è il problema? Che non ci ha chiesto una sola volta se vogliamo fare un giro!”

Roteai gli occhi. “Fantastico... spero che non sia impegnato con gli sci, perché sto per andare a trovarlo.”

“Non vuoi fare un giro sulle piste anche tu?” saltò su Tommy mimando con le braccia i movimenti di uno sciatore, poi si ammutolì quando si ricordò che la storia tra me e la cocaina era da considerarsi conclusa. Lo salutai con un cenno della mano senza aggiungere nulla e mi incamminai verso la stanza di Nikki. Mi aprì non appena bussai e, a giudicare dal modo in cui mi guardò, doveva esserci qualcosa che non stava andando per il verso giusto. Mi fissava con gli occhi mezzi chiusi e un’espressione smarrita ma rilassata, come se avesse saputo di essersi perso da qualche parte ma si fosse rassegnato ad accettare il fatto che non sarebbe mai più tornato a casa.

“Immaginavo che fossi qui da solo,” dissi per interrompere il silenzio. “Come va?”

Alzò le spalle e si spostò, restando attaccato alla porta anche mentre la apriva. “Come vuoi che vada? Dài, entra.”

Se solo avessi immaginato di trovare tre piste ancora pronte per essere consumate, artisticamente disposte su un pezzo di vetro e con tanto di banconota arrotolata vicino come se si fosse trattato di un piatto di porcellana con un bicchiere di cristallo e le posate d’argento, sarei rimasta fuori.

“Non preoccuparti per quella roba,” biasciò Nikki. “È tutta per me visto che tu non la vuoi. Anche se so che questo non lo rifiuterai.”

E tirò fuori dal frigorifero una bottiglia di champagne. Se l’era fatta portare apposta per me, prevedendo che sarei passata a trovarlo. La stappò con le mani tremanti per qualche granello di troppo e riempì un paio di calici, poi si sedette su un cuscino sul pavimento e me ne porse uno.

“In onore di cosa stiamo brindando?” domandai.

Nikki avvicinò il calice al mio. “In onore di niente. Avevo voglia di champagne e l’ho ordinato.”

Osservai la sua mano tremolante stringere con poca forza il collo del calice e avvicinarsi sempre di più, finché un armonioso tintinnio cristallino non risuonò tra le pareti della stanza. Dopo il primo sorso decidemmo di abbandonare i due bicchieri e di bere direttamente dalla bottiglia per evitare giri inutili, anche se ce ne stancammo prima del previsto.

“Sai prima cos’abbiamo fatto, Tommy e io?” saltò su Nikki dopo aver ingerito l’ultimo sorso di champagne della serata.

“Spara, però non urlare,” risposi con la testa che cominciava a dolere.

“Non sto urlando,”

“Allora vedi di non cominciare,” borbottai, poi gli picchiettai una spalla con la mano per incitarlo a proseguire. “Avanti, parla, non tenermi sulle spine.”

Nikki si alzò in piedi caracollando e appoggiò una mano al comodino per tenersi in equilibrio, già divertito al solo pensiero della reazione che avrei avuto quando mi avrebbe raccontato la loro bricconata. Stava per cominciare a parlare quando il mio sguardo si soffermò sul braccio teso che faceva da puntello al suo corpo stanco. Sulla pelle in tensione dell’incavo del gomito, circondato da un piccolo alone rosato, scorsi un forellino rosso di sangue coagulato identico a quelli che fino a qualche anno prima avevo visto su me stessa.

“Quello cos’è?” domandai retorica con lo stesso tono autoritario che Brett era solito utilizzare con me.

Nikki tirò su col naso e aggrottò la fronte. “Cosa?”

Puntai un dito contro il suo braccio. “Quel buco. Quando te lo sei fatto?”

Nikki si coprì istintivamente il gomito con una mano e indietreggiò di un paio di passi. “Non mi dire che sei contraria a questa roba, Sherry.”

“Qualche anno fa avrei detto lo stesso di te,” ribattei mentre mi alzavo in piedi e lo raggiungevo, poi afferrai la sua mano e la spostai da sopra la parte incriminata. “Cazzo, Sixx!”

Nikki si liberò dalla mia presa quasi con rabbia. “Sono affari miei, okay? Poi non è un’abitudine. Ne avevo un po’ e l’ho usata, tutto qui.”

“Allora mi spieghi anche il significato delle altre tre cicatrici che hai lì vicino?” sbottai. “Non sono stupida e so come funziona quella roba quindi, per favore, fidati di me e smettila prima che sia troppo tardi. Io... io non voglio più averci nulla a che fare.”

“Infatti non sei tu che devi averci a che fare, ma io,” controbatté prontamente.

“Non posso sopportare di vedere qualcuno stare male per quello schifo,” gridai tutto d’un fiato.

Nikki roteò gli occhi e rise. “Quando imparerai a farti gli affari tuoi?”

“Non è che non mi sto facendo i fatti miei, ti sto solo dando un consiglio.”

Nikki si accese l’ennesima sigaretta della serata e lanciò l’accendino sul tavolo prima di puntarmi contro le due dita tra le quali teneva ferma la paglia. “Non devi provare a comandarmi, è chiaro? Nessuno deve farlo, nemmeno tu.”

“Lo dico per te, non per–” fui subito interrotta da una sua occhiata glaciale. Aveva spalancato gli occhi e mi stava fissando con un’espressione folle stampata in faccia, che presto si tramutò in quella divertita di una persona che ha appena sentito una barzelletta.

“Non dire stronzate,” disse. “E adesso vedi di deciderti: o stai qui a patto che non ti senta lagnare neanche una volta, oppure vai fuori e ti cerchi qualcun altro con cui divertirti.”

Mi ammutolii all’istante e restai a fissare il suo dito puntato in direzione della porta mentre sentivo un peso formarsi sullo stomaco. Non ci volle molto prima che prendessi una decisione e non mi servirono altre occhiatacce da parte sua. Sapevo che far ragionare qualcuno nelle sue condizioni era pressoché impossibile perché io stessa ci ero passata, ma non avevo la minima intenzione di provarci perché avevo bisogno di ancora un po’ di tempo per riprendermi. Lasciai cadere le braccia lungo il corpo e scossi il capo. “D’accordo, allora me ne vado.”

Quando mi girai per dirigermi verso la porta sentii una lattina cadere per terra, subito seguita dalla voce di Nikki. “Divertiti.”

Mi portai le mani sulle orecchie e abbandonai la stanza cercando di ignorarlo mentre continuava a parlare da solo, probabilmente in preda agli effetti della roba che si era calato prima che andassi a trovarlo. Uscii senza chiudere la porta e non spostai i palmi dalla testa finché non ebbi girato l’angolo, dove le frasi sconclusionate di Nikki giungevano a malapena. Appoggiai la schiena contro il muro color pesca e mi passai una mano sul viso. Sferrai poi un innocuo pugno contro la parete per sfogare la rabbia, ma ottenni solo un forte dolore che si irradiò dal lato della mano fino alla spalla con la stessa velocità della scarica elettrica di un fulmine.

“Vaffanculo!” esclamai mentre mi tenevo il gomito. Subito dopo la porta della stanza di fronte alla quale mi trovavo si aprì e un raggio di luce più chiara disegnò una striscia luminosa sulla moquette rosso carminio del corridoio.

“Che cazzo stai facendo?” domandò Vince con lo sguardo corrucciato e in piedi sulla soglia.

Sobbalzai e nascosi istintivamente la mano dietro la schiena. “Niente, sono solo arrabbiata.”

Vince incrociò le braccia sul petto e mise su un fastidioso atteggiamento altezzoso. “Questo mi fa pensare che tu e Sixx abbiate avuto da dire.”

Arricciai il naso. “Già. Non posso sopportare di vederlo mentre si deteriora con quella merda, così ho deciso che non andrò più da lui, anche se in realtà è stato Nikki a darmi l’ultimatum: o rimani e taci, oppure sparisci.”

“E tu hai deciso di sparire,” concluse Vince, atono.

Annuii e mi fissai le punte delle scarpe, la cui pelle nera era rovinata. “Non posso farcela, almeno non in questo momento.”

Vince sospirò e staccò la spalla dallo stipite. “Non sai quanto ti capisco... ma lasciamo perdere, non mi va di parlarne per l’ennesima volta. Piuttosto, vuoi entrare? È sempre meglio che rimanere da sola in un corridoio, non credi?”

Alzai le spalle. “Perché no? Tanto, ormai, io e te siamo quasi amici.”

“È un termine esagerato, ma ti permetto lo stesso di usarlo,” bofonchiò prima di chiudere la porta.

Non avevo idea di quello che avremmo potuto fare oltre a bere Coca-Cola ghiacciata e raccontarci qualche aneddoto vagamente comico delle nostre vite – cosa che, se solo avessi potuto scegliere, avrei evitato essendo fin troppo noiosa. Come avevo previsto, Vince aveva intenzione di tempestarmi di domante su quello che era appena accaduto con Nikki, ma non fece in tempo a concludere la prima frase perché qualcuno iniziò a bussare alla porta con una certa fretta. Sbuffò mentre lasciava cadere sul pavimento la lattina che aveva appena finito.

“Chi è che rompe? Non avete visto il cartellino rosso sulla maniglia che dice ‘si prega di non disturbare’?” poi si rivolse verso di me, ghignando. “Anche se ho apportato una piccola modifica e ho corretto la frase con ‘non rompere le palle’.”

Un altro colpo, stavolta più forte. “Sono Mick, idiota. Aprimi!”

Vince e io ci scambiammo un’occhiata carica di sgomento e lui si alzò dalla poltrona per correre alla porta. Se Mick Mars aveva schiodato dalla sua stanza ed era venuto a bussare proprio al biondo, allora doveva essere successo qualcosa di veramente grosso.

Vince aprì con un colpo secco e gli si parò davanti in tutta la sua arroganza. “Bello, che ti prende? Perché non te ne vai a dormire visto che fra due ore dobbiamo ripartire?”

Mick però non era tranquillo e flemmatico come al solito, ma sembrava irrequieto e, a giudicare dal modo in cui si passava le mani tra i capelli e dalla velocità a cui respirava, lo era fin troppo, e non a causa di qualche bicchierino di troppo.

“Meno male che almeno tu mi hai risposto,” disse col fiato corto e qualche gocciolina di sudore che gli scendeva lungo la fronte. “Non riesco a trovare nessuno, devi aiutarmi.”

Comparsi da dietro la spalla di Vince e mi alzai sulle punte per vedere oltre. “Perché sei così agitato?”

Mick sobbalzò quando mi vide e mi afferrò subito per un braccio, gli occhi glaciali spalancati e il viso ancora più pallido di quanto ricordassi. “Dovete venire subito con me. Brett ha bevuto troppo, si è sentito male e non riesce a riprendersi.”




N.D’.A.: Salve a tutti!
Come avete avuto modo di leggere, la situazione diventa sempre più critica – ma, dico io, prima o poi dovrà anche stabilizzarsi, no?
La seconda parte è quasi finita, e porterà via con sé un tassello importante di tutto l’intricato puzzle che compone questa storia.
Spero di pubblicare presto, sempre con la promessa di non far passare più di quindici giorni tra un capitolo e l’altro.
Se volete farmi sapere la vostra opinione, la ascolterò più che volentieri!
Grazie a chi legge! ♥
See ya,

Angie


Titolo: Boulevard of Broken Dreams - Hanoi Rocks


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Capitolo 22
*** II.7) Something to Believe In ***


7
SOMETHING TO BELIEVE IN





“Cosa vuol dire che non riesce a riprendersi?” sbottò Vince, sempre più confuso e incazzato perché in quel momento non desiderava altro che dormire e riposarsi il cervello.

Mick gli ordinò di seguirlo mentre mi trascinava per il corridoio, inciampando nei tacchi degli stivali. Varcò la soglia della sua stanza veloce come un fulmine e mi afferrò per le spalle per costringermi a voltarmi verso l’angolo nella quale si stava svolgendo lo spettacolo più brutto a cui avessi mai assistito fino a quel giorno: Tommy stava aiutando Brett a non cadere per terra mentre il mio amico, in preda al panico e con le lacrime pesanti che gli solcavano le guance, continuava a vomitare sulla moquette della stanza. Una morsa al cuore provocò un atroce pizzicore agli angoli dei miei occhi e mi fiondai accanto a lui. Tommy lo sollevò con tutte le forze che aveva e cercò di condurlo verso il bagno, biascicando di tanto in tanto qualche parola per informarmi riguardo ciò che stava accadendo, ma io ero troppo sconvolta per cercare di decifrare le sillabe impastate che uscivano dalla sua bocca.

“Ha fatto fuori non so quanta vodka, e ha buttato giù anche una pasticca, o forse più di una,” mi spiegò Mick dopo aver ingollato un sorso di birra. “Poi all’improvviso ha cominciato a fare così.”

“E nessuno ha chiamato un medico?” domandai con il fiato sospeso.

Mick indicò con un cenno del mento il telefono buttato sotto la scrivania. “Quell’affare è rotto.”

“Allora usane un altro!” gridai facendolo sobbalzare appena, dopodiché tornò impassibile come prima e si sedette sul bordo del letto mentre tutt’intorno a lui si stava scatenando l’inferno.

Ordinai a Vince di correre a chiamare aiuto e di farlo in fretta, poi mi recai nel bagno dove, stretto tra le braccia ossute di Tommy e con la testa rivolta dentro la vasca, Brett continuava a vomitare, tentando invano di parlare tra un conato e l’altro.

“Aiutami a metterlo sotto l’acqua,” biascicò Tommy mentre tentava di spostare quel corpo massiccio all’interno della vasca da bagno. Senza farmelo ripetere un’altra volta, afferrai la doccia e puntai il getto sopra la testa di Brett, lasciando che l’acqua fredda colasse tra i suoi capelli mossi portando via i residui di trucco dal viso. Gli occhi erano socchiusi e quel po’ che si poteva vedere era il bianco della cornea, le mani grandi si aggrappavano a tutto quello che trovavano, e la voce usciva roca e a tratti dalle sue labbra.

“Ce la farà,” mi rassicurò Tommy, ora bagnato dalla testa ai piedi perché l’unica soluzione per non far scivolare Brett era stata sedersi con lui dentro la vasca. “Se la sono cavata in tanti e se la caverà anche lui.”

Brett sputò un grumo di saliva e tossì, agitandosi tra le braccia dell’altro.

“Sherry, dove... dove sei?” chiamò tendendo la mano aperta davanti a sé.

Gli accarezzai il capo bagnato e appoggiai la fronte alla sua tempia. “Sono qui. Sta’ tranquillo, Brett, si sistemerà tutto, vedrai. Ti voglio bene, lo sai, vero?”

“Sherry, ma... ma il concerto è... è già cominciato?” lasciò la frase a metà, ma quelle poche parole furono sufficienti per farmi capire che non era più in grado di comprendere niente di ciò che gli si diceva.

La porta alle mie spalle si spalancò e fece irruzione John Gates seguito da Doc, Steven, Rita e Vince. Tutti e cinque si ritrovarono davanti la nostra scena perfettamente racchiusa nel rettangolo della porta del bagno come se fosse stata una fotografia scattata nel momento sbagliato e impallidirono. Prima ancora che uno di loro si riprendesse e si fiondasse verso di noi, la porta principale si spalancò di nuovo ed entrarono tre paramedici con una barella sottobraccio. Passarono davanti agli altri e, mentre uno mi invitava a farmi da parte senza troppi convenevoli, altri due sollevarono Brett dalle braccia di Tommy come se fosse stato un bambino addormentato per coricarlo sulla barella.

“Cos’ha assunto?” domandò con tono professionale il più anziano dei tre, un uomo sulla cinquantina.

Mick si avvicinò a passo lento e cominciò a torcersi le dita. “Una pasticca, ma non so cosa fosse. Però ha bevuto tanto.”

“Dobbiamo portarlo in ospedale prima che degeneri,” sentenziò il paramedico. Gli altri due annuirono, sollevarono la barella dal pavimento di marmo del bagno e si diressero spediti verso la porta. Noi ci recammo immediatamente verso il garage, dove era parcheggiato l’autobus che quella sera ci aveva portati in albergo dal concerto, e costringemmo l’autista a darci un passaggio fino all’ospedale della città. Tommy non si era preoccupato di asciugarsi ed era ancora grondante, Rita aveva ancora le scarpe in mano, e nessuno si era preoccupato di avvertire Nikki. Ci trovavamo tutti sull’autobus tranne lui, che probabilmente doveva essere steso da qualche parte in camera sua, troppo fatto per rendersi conto del trambusto che si era creato nel corridoio e delle sirene delle ambulanze.

“Brett ce la farà. È sempre stato un tipo tosto,” affermò Rita mentre si mordicchiava i polpastrelli per la tensione.

Steven le diede manforte. “Sì, sì. Lui è quello più forte di tutti, se la caverà benissimo.”

Mentre loro due continuavano a ripetersi frasi simili fino allo stremo, io tenevo lo sguardo fisso fuori dal finestrino e osservavo distrattamente il panorama urbano. Ogni cosa mi ricordava Brett: le insegne dei locali, i ragazzi seduti sul bordo del marciapiede a bere la birra nella calura incuranti della pioggia, il cielo scuro sopra le nostre teste, silenzioso come quando, durante le notti d’estate, io e lui ci coricavamo sulle balle di fieno nel campo dietro casa mia per guardare le stelle, che però quella sera erano offuscate dalle luci della città e dalle nuvole. Quando poi siamo cresciuti e ci siamo trasferiti a Los Angeles, ci arrampicavamo su per Mulholland Drive col suo pick-up scassato, rischiando ogni volta di rimanere a piedi prima di raggiungere il solito spiazzo dove il profumo della vegetazione era più intenso e il vento più fresco.

Il flusso dei miei pensieri si arrestò nel momento in cui il pullman sobbalzò prima di fermarsi nel parcheggio dell’ospedale. Scesi le scale con un solo balzo, sorpassando tutti gli altri e facendomi largo a gomitate, varcai la soglia del pronto soccorso e fui costretta ad attendere una decina di minuti prima che la centralinista mi comunicasse il piano e il reparto in cui avrei potuto trovare Brett. Ripresi a correre finché il capolinea non mi si materializzò davanti agli occhi sotto la forma di una porta rossa che recava la scritta “rianimazione”. Una mano afferrò la mia spalla e riconobbi il tocco poco delicato di Rita, che mi fissava con i suoi grandissimi occhi verdi e luccicanti nascosti sotto la sua coltre di ricci rossi.

“Forza, Sharon, vieni a sederti,” mi suggerì con un tono materno che non le avevo mai sentito, se non in rare occasioni.

Scossi il capo e appoggiai il palmo della mia mano sul dorso della sua. “Preferisco stare in piedi.”

Rita annuì e non osò insistere ulteriormente, poi si accasciò su una delle sedie metalliche addossate alla parete scrostata del corridoio.

L’attesa diventava sempre più estenuante. Lo scalpiccio delle calzature degli infermieri che guizzavano da una stanza all’altra era diventato fastidioso, la lancetta dei secondi dell’orologio appeso alla parete procedeva con lo stesso movimento ossessivo, Tommy tamburellava impazientemente le dita sul legno del bracciolo della sua sedia, e io non riuscivo a smettere di camminare. L’odore asettico del corridoio era diventato stomachevole, l’aria non circolava e la stanchezza cominciava a farsi sentire.

“Quanto cazzo ci mettono?” domandò Steven mentre si stiracchiava nervosamente. Stavo per chiedergli di accompagnarmi fuori a fumare una sigaretta quando l’enorme porta rossa si aprì e uscì un medico con un lungo camice verde che si sollevò gli occhiali sulla testa canuta prima di parlare.

“Il vostro amico è stato sottoposto ad una lavanda gastrica ed è stato possibile rimuovere dal suo stomaco le sostanze che aveva ingerito,” ci comunicò. “Tuttavia, non possiamo ancora considerarlo fuori pericolo. Se lo desiderate, è possibile fargli visita uno alla volta, ma sappiate che non è ancora in grado di interagire.”

Gli fu sufficiente una nostra occhiata per capire che la prima che voleva incontrarlo ero io. Mi fece cenno di seguirlo e mi porse un camice sterile prima di aprire la porta della stanza in cui Brett era ricoverato. L’odore della strumentazione sterile mi colpì dritto in faccia e una luce debole illuminava delicatamente il corpo del mio amico, disteso sul letto, coperto da un lenzuolo celeste e collegato a svariati apparecchi rumoreggianti che tenevano sotto rigido controllo i suoi parametri vitali. Il suo cuore pulsava lento mentre il contenuto di una flebo scendeva rapido contro le pareti di plastica del tubicino trasparente, e il suo respiro era flebile mentre fuori aveva ripreso a piovere a dirotto. Feci per appoggiare la mano su quella di Brett, ma fui costretta a ritrarla perché sul dorso era stato appuntato l’ago della flebo, così trascinai uno sgabello fino al letto e mi sedetti. “Devi essere forte, adesso, okay? Più di quando abbiamo lasciato tutto per scappare.”

La sua mano era ancora immobile e delicatamente appoggiata sul lenzuolo rigido. Più la guardavo, più speravo che desse un segno di vita, anche piccolo.

“Brett,” lo chiamai, consapevole che tanto non mi avrebbe risposto. “Non voglio perderti.”

Dalla vetrata ricevetti l’ordine di lasciare il posto a Steven e mi alzai a malincuore dallo sgabello, con ancora la sensazione di freddo sulle dita dopo avergli accarezzato una guancia. Nel corridoio gli altri mi aspettavano, ancora seduti sulle sedie di metallo, tutti con lo sguardo fisso sul pavimento. Il tempo sembrava non scorrere mai, ma se pensavo ai momenti che Brett e io avevamo trascorso insieme prima da bambini e poi da ragazzi, sembrava accelerare per poi prendere il volo – e il ticchettio della lancetta dell’orologio nel corridoio era sempre uguale e la velocità alla quale mi torcevo le dita era la stessa.

Quando Rita fece per alzarsi e chiedere di poter entrare al posto di Steve, il nostro cantante uscì accompagnato da un infermiere e ci comunicò che la situazione si era aggravata all’improvviso. Col cuore in gola e il fiato corto, mi fiondai verso la porta e cercai di attirare l’attenzione dei medici per chiedere loro cosa stesse succedendo, ma l’unica risposta che ottenni fu un gentile invito a sedermi e ad attendere. Cercai di sbirciare dal vetro nonostante avessero abbassato la veneziana bianca, e mi accorsi che tre persone stavano spostando il letto per portarlo in un altro reparto.

“Dove stanno andando?” domandai a Steven con le mani ancora appoggiate al vetro.

Lui scosse il capo e sospirò, nascondendo gli occhi lucidi sotto il ciuffo. “Non lo so, Sherry, ma devi avere fiducia in loro.”

Rita restava seduta e non parlava, ma gli altri sfogavano il nervosismo battendo il tallone sul pavimento di linoleum consumato o mordendosi la pelle intorno alle unghie.

“Non ci resta che aspettare,” disse Gates cercando di dimostrarsi pronto ad affrontare la situazione. “I medici sono loro e sanno cosa fare, poi l’ospedale di questa città è rinomato in tutto il Paese per l’efficienza del personale che vi lavora.”

Annuii e presi posto accanto alla mia batterista, rassegnata a dover attendere a lungo. Poi, però, quando meno ce lo aspettavamo e nel profondo di noi stessi eravamo convinti che quell’inferno sarebbe finito presto, la porta rossa della sala di rianimazione si aprì e il primario avanzò passandosi le mani sul camice immacolato. Attirò la nostra attenzione con un gesto pacato e pronunciò l’ultima frase che avrei voluto sentire.

“Il vostro amico Brett ha avuto un arresto cardiaco e non siamo riusciti rianimarlo,” disse con la voce grave e professionale di chi ha imparato a comunicare notizie spiacevoli, poi fece un lieve cenno del capo. “Vi porgo le mie più sentite condoglianze.”

Il mondo crollò. Un vortice nero mi risucchiò. L’urlo straziato di Rita riecheggiò in tutto il corridoio. Il volto di Steven sparì tra le sue mani.

Era tutto finito. Eravamo giunti al capolinea, non c’era più nulla che si potesse fare. Io ero giunta al capolinea.

Le mie ginocchia cedettero ma fui abbastanza forte da riuscire a oppormi e mi trascinai fino in fondo al corridoio, aprii la porta d’emergenza e continuai a correre finché la balaustra di metallo della scala antincendio non mi bloccò urtandomi all’altezza dello stomaco. Pioveva a dirotto e l’acqua dal sapore dolciastro colava sul mio viso trascinando con sé le lacrime salmastre e lenendo la sensazione di bruciore sulle guance, e l’umidità mi stringeva in un abbraccio bagnato e sgradevole, insinuandosi fino alle mie ossa.

Non avrei mai più rivisto Brett.

Come avrei fatto senza di lui? Cosa ne sarebbe stato di me?

“Perché lo hai fatto?” domandai, e lo avrei ripetuto altre cento volte se la voce non mi fosse morta in gola. Sferrai un pugno alla ringhiera facendola vibrare tutta e producendo un rombo ostile, poi mi tornai a portare le mani sul viso e mi lasciai scivolare contro di essa finché non mi ritrovai seduta per terra, in mezzo all’acqua sporca e alla nebbia umida che si sollevava dal terreno.

A un certo punto sentii un braccio bagnato cingermi le spalle e mi ritrovai con la testa posata contro il petto di qualcuno. Mi accorsi di chi si trattava solo quando mi divincolai e mi ritrovai di fronte Vince.

“Voglio tornare a casa,” dissi mentre cercavo di passare, ma lui non si spostava e continuava a restare immobile sulle scale, fissandomi con uno sguardo distrutto che difficilmente avrei dimenticato. “Per favore.”

Lo stavo implorando e non riuscì più a opporsi alle mie parole. Si scostò e riuscii a varcare la soglia per rientrare in corridoio, lasciandolo da solo in balìa dell’acqua.



FINE SECONDA PARTE





N.D’.A.: Salve!
Questo capitolo mi spezza il cuore ogni volta che lo leggo... sigh!
Comunque il terribile evento a cui accenna l’introduzione della storia è proprio la morte di Brett, un dolore che Sharon si porterà dietro in eterno e con le sue conseguenze.
Ebbene, è finita anche la seconda parte! A gennaio riprenderò a pubblicare la terza, il cui primo capitolo vede l’ingresso di nuovi personaggi, tra cui uno che sono sicura che la maggior parte dei fan dei Mötley Crüe che seguono questo racconto apprezzerà!
Grazie a chi legge e anche a chi continua ad apprezzare le mie storie! ♥
Se volete, fatemi sapere che cosa ne pensate di queste prime due parti. Sono curiosissima!
Un abbraccio e passate Buone Feste,

Angie


Titolo: Something to Believe In - Poison



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Capitolo 23
*** III.1) The More Things Change ***


TERZA PARTE






1
THE MORE THINGS CHANGE





Pasadena, CA, dicembre 1986

“Davvero ti piace il nostro disco?” domandò quello strano tipo increspando le labbra e stravaccato su una sedia con le ruote, il cui schienale si stava piegando sotto il suo peso.

Annuii mentre rigiravo la custodia del vinile tra le mani. “Certo. Lo sai che vi seguo dal vostro primo live.”

Il gigante appoggiò i mocassini logori sul tavolo della sala di registrazione e sogghignò da sotto la sua massa di ricci scuri. “Dico che dovremmo trovarci a suonare un po’ più spesso. Insomma, Sharon, direi che abbiamo parecchi punti in comune. Adesso, bella, non fraintendermi, lo so che sono bello, però io ti porto sul palmo della mano e–”

“Sì, Slash, lo so. Anch’io ti stimo tanto, se è per questo,” dissi, accennando un vago sorriso.

“Ehi!” esclamò ghignando dopo aver espirato il fumo di una paglia che aveva preso direttamente dal mio pacchetto senza neanche chiedere il permesso. “Sorridi, bella! Ieri sera avete fatto un concerto da urlo e noi abbiamo anche aperto per voi. Cazzo, ma perché sei così malinconica?”

Alzai le spalle mentre Slash trangugiava il contenuto di una bottiglia di Jack Daniel’s, anche quello gentilmente offerto dalla sottoscritta dal momento che se non avessi sborsato lo avrebbe tranquillamente prelevato di nascosto dalla mensola di un 7-Eleven senza passare dalla cassa. “Forse dovresti andarci un po’ più piano con quella roba, non credi?”

“Oooh...” mugugnò Slash facendo un giro di trecentosessanta gradi sulla sedia. “Andiamo, cosa vuoi che sia un sorsetto di Jack?”

Incrociai le braccia sul petto e in quel preciso istante Nightrain terminò. “Anch’io una volta dicevo così.”

“Oooh... andiamo!” ripeté. “Piuttosto, ne vuoi un po’?”

Scossi la mano e Slash mi guardo con un’espressione di delusione più che eloquente. Era più di un anno che ero sobria e non avevo intenzione di tornare a cadere in quel dannato tunnel oscuro.

Dopo che Brett ci aveva lasciati, il nostro manager, terrorizzato dall’accaduto e temendo che a qualcun altro potesse toccare la stessa sorte, ci aveva fatti chiudere in una clinica dalla quale eravamo usciti puliti come non mai. Questo non era certamente servito a farmi stare meglio dopo la perdita del mio amico dal momento che mi avevano tolto la mia unica valvola di sfogo ma, dopo alcuni mesi, eravamo stati in grado di raccogliere quel che restava di noi e di rimetterci in carreggiata, pronti a far valere il nostro nome, perché se Brett fosse stato con noi avrebbe voluto vederci rialzare e correre più veloci di prima. Ora, poi, riuscivamo a concentrarci meglio sulla musica e i nostri pezzi, grazie anche al fatto che fossimo maturati dal punto di vista musicale e avevano guadagnato un sound e una qualità decisamente migliori. Avevamo reclutato un nuovo bassista che solo dopo parecchie settimane avevamo scoperto essere un amico di Slash – il che spiega cosa ci facesse nella sala in cui eravamo soliti registrare e provare.

Nonostante le vendite dei nostri dischi fossero notevolmente aumentate e sempre più gente si accalcasse sotto il nostro palco, sentivo che a me mancava ancora quel qualcosa in più che mi avrebbe fatta stare meglio. Amavo la musica e continuavo a scrivere, ma mi ero resa conto che c’era qualcosa che nemmeno l’arte era in grado di darmi – e per un qualsiasi artista questa è un’amara realtà che è costretto ad accettare.

Sospirai e mi alzai dalla sedia, nel mio caso una priva di ruote pericolose per i mocciosi iperattivi e per gli individui scatenati come il signor Hudson. “Lo sai che non bevo. Perché continui a offrirmene?”

“Perché sono un ragazzo educato, gentile e cortese che quando è in presenza di una signora si comporta da brava person–oh, cazzo d’un cazzo!”

La sua frase era stata drasticamente interrotta da una tremenda culata sul pavimento dopo che il nostro Lord, istruito a Oxford esattamente quanto io avevo passato la mia giovinezza come educanda presso un collegio cattolico, aveva tentato uno strano numero pericoloso che aveva portato la sedia a slittare e a ribaltarsi, spedendolo dritto con le chiappe per terra.

“Ohi, ohi...” biascicò mentre si massaggiava l’osso sacro. “Qualcosa mi dice che è meglio che ne torni dagli altri, sempre ammesso che quel cazzo di magazzino in cui proviamo sia ancora in piedi.”

Gli tesi una mano per aiutarlo ad alzarsi e Slash l’afferrò senza levarsi dalla faccia quel fastidioso ghigno da marpione, poi si spolverò i pantaloni di pelle e lo accompagnai fino all’uscita dal momento che anch’io dovevo andare via. Strappò una foglia a una palma che cresceva tra le altre piante vicino al muricciolo di cinta, salì sulla sua auto e sgommò via, agitando fuori dal finestrino la mano grande e nerboruta nella quale teneva stretta la frasca verdeggiante come se fosse stata una bandiera. Aspettai che svoltasse l’angolo poi saltai in sella alla mia motocicletta, pronta a sfrecciare verso Hollywood. Non c’era un motivo preciso per cui avessi deciso di recarmi da quelle parti dato che ora vivessi a Pasadena, però ben presto scoprii di aver avuto un’idea quasi buona. Nonostante fosse dicembre, le temperature non erano affatto basse e l’aria non era fastidiosa durante il viaggio, e avrei anche proseguito fino a Beverly Hills seguendo il Sunset Boulevard se non avessi rischiato di restare senza benzina. L’unica soluzione fu fermarsi in una stazione di servizio e aspettare che il benzinaio terminasse il suo lavoro. Sapevo che ci avrebbe impiegato poco tempo e non mi scomodai nemmeno per togliermi il casco nell’attesa, restando così nascosta da eventuali occhi indiscreti, cosa che però non accadde con la mia motocicletta, che attirò fin troppi sguardi, compresi quelli di una squadriglia di motociclisti ammassati vicino ai loro chopper dalle forme più stravaganti.

“Ehi, amico, bella quella Harley!” esclamò una voce alle mie spalle, facendomi voltare di scatto.

A pochi metri di distanza, un tipo vestito di nero e col volto nascosto da un cappello da cow-boy che si era separato dal gruppo di motociclisti si stava avvicinando a grandi passi, facendo svolazzare dietro di sé il lungo impermeabile di pelle.

“Davvero una bella bestia,” riprese, e avrebbe proseguito all’infinito se non mi avesse vista in faccia e si fosse ammutolito per lo stupore non appena sollevai la visiera del casco.

Di fronte a me, in mezzo a tutta la gente che si era radunata nel parcheggio del benzinaio in attesa del proprio turno, Nikki Sixx mi fissava con gli occhi fuori dalle orbite.

“Non ci posso credere...” mi lasciai sfuggire mentre mi sistemavo i capelli dopo aver tolto il casco. “Cosa ci fai qui in mezzo alla gente come se nessuno ti conoscesse?”

Lui alzò le spalle e cacciò pesantemente le mani nelle tasche. “Sto facendo il pieno. Pensi che sia rischioso per gente come noi?”

Storsi il naso. “Assolutamente no. Anzi, io avrei finito e sarebbe ora che andassi.”

Nikki attese che pagassi il benzinaio poi appoggiò una mano aperta sulla sella della mia motocicletta per impedirmi di sedermi. “Sembra passata un’eternità dall’ultima volta che ci siamo visti.”

“Il tempo scorre in fretta, Sixx,” dissi atona mentre tornavo a infilarmi il casco, suscitando in lui una risata.

“Un anno e mezzo non è poi così tanto, anche se in effetti sono cambiate parecchie cose. Non ci siamo nemmeno più incontrati fino a oggi.”

“Forse perché non abito più ad Hollywood e non frequento più di tanto la scena a causa della fama che la band sta cominciando ad avere,” azzardai.

“Nemmeno io vivo più qui. Ho preso una casa a Van Nuys, nella valle. Tu, invece, dove ti sei intanata?”

“A Pasadena,” risposi mentre tamburellavo impazientemente le dita sulla carrozzeria della motocicletta e qualcuno in fila iniziava a suonare il clacson e a imprecare. “A quanto pare tutti e due abbiamo cercato un po’ di pace.”

Nikki inarcò un sopracciglio. “Periodo turbolento?”

“Buio, più che altro.”

“Ti capisco,” mormorò, poi tornò a sollevare lo sguardo e si lasciò sfuggire un sogghigno. “Hai da fare?”

Feci spallucce. “Per oggi ho già dato. Ho passato il pomeriggio a suonare con il chitarrista dei Guns N’ Roses. È completamente fuori. Credo che dovresti conoscerlo.”

“Lo conosco bene, Slash,” ribatté divertito. “Stavo dicendo... se non hai niente da fare potremmo andare a bere una birra da qualche parte, così facciamo due chiacchiere.”

Lo guardai di sbieco ma lui riuscì comunque a cogliere la risposta positiva che avevo vanamente tentato di celare con un’occhiataccia. Senza proferire una sola parola, tornò dalla squadriglia di motociclisti, appoggiò il cappello da cow-boy sul capo di uno di loro e prese il suo casco da sopra il tavolo prima di allontanarsi salutandoli con un cenno accompagnato da una risata sguaiata e qualche ululato. Saltò in sella alla sua motocicletta e, quando lo raggiunsi sul ciglio della strada, gli feci cenno di seguirmi. Mi immisi sul Sunset Boulevard e lui mi venne dietro rombando senza mai riuscire ad affiancarmi a causa del traffico eccessivo che a quell’ora stava intasando il viale, illuminato dalle mille insegne colpite dai raggi del sole al tramonto che si riflettevano sull’asfalto e sui finestrini delle auto. Decisi di schivare i tratti di strada più imbottigliati percorrendo qualche scorciatoia meno frequentata costeggiata da edifici bianchi e bassi, costringendo Nikki a sterzare continuamente.

Dopo cinque minuti di viaggio, riuscì finalmente ad affiancarmi e attirò la mia attenzione con un fischio. “Quanto ci manca?”

“Solo venti minuti! Seguimi sulla freeway,” esclamai urlando in modo che la mia voce sovrastasse il rumore dei motori.

Proseguimmo finché non raggiungemmo l’uscita per Pasadena per poi continuare fino alla via nella quale abitavo. Parcheggiammo nel cortile del mio appartamento al pianterreno e ci stiracchiammo per scacciare la sensazione di intorpidimento alle gambe e al busto. Nikki appoggiò il casco sulla sella della motocicletta e si guardò intorno incuriosito, soffermandosi sull’alta palma che cresceva nell’aiuola accanto alla recinzione. “Sembra un posticino tranquillo.”

“E lo è,” esclamai. “Qui non c’è tutto il viavai che c’è a Hollywood e questo piccolo giardino invaso da piante di ogni genere è il mio paradiso dell’ispirazione. Se adesso vuoi seguirmi, ti offro qualcosa da bere e ti faccio vedere il mio piccolo covo.”

Nikki annuì, si cacciò le mani nelle tasche della lunga giacca di pelle e mi venne dietro mentre entravo. Non appena aprii la porta, si fiondò in casa come un ragazzino curioso e si fermò nel bel mezzo del salotto per osservare ogni minimo particolare di quella stanza grande a sufficienza per ospitare un divano, una televisione che non accendevo quasi mai e un tavolo con il ripiano in vetro. Si soffermò in modo particolare sulla mia collezione di dischi e libri per poi passare ai quadri sulle pareti, i quali erano in buona parte opera di Rita, che nell’ultimo periodo si era ricordata di saper disegnare così bene da voler addirittura collaborare con i grafici per la copertina del nostro futuro album. Fece scorrere la mano grande sulla pelle rossa del divano prima di prendere posto su di esso e accendersi una sigaretta. “Mi sembra di capire che ti piacciono la luce e i colori vivi.”

“Proprio così,” confermai mentre uscivo dalla cucina con un paio di bottiglie di Coca-Cola, poi gliene porsi una e presi posto accanto a lui. “Tu invece mi sai di uno che ha decorato la casa solo con pezzi d’arredamento bianchi.”

Sixx arricciò il naso e ingoiò nervosamente un sorso di Coca. “Sì, più o meno...”

“Un giorno mi farai vedere la tua nuova tana?”

“Non è mai in ordine, non è il caso,” disse atono e tutto d’un fiato, poi si affrettò a cambiare argomento, “Tu, piuttosto, cosa mi racconti di nuovo? L’ultima volta che ci siamo visti–”

“Non è stato un bel momento,” lo interruppi con la voce incrinata dal nervosismo che i ricordi mi procuravano. “Dopo che ho perso Brett, mi è crollato il mondo addosso. Mi si è come aperta un’immensa finestra sulla realtà perché non potevo più filtrarla attraverso i suoi occhi e ho dovuto imparare a cavarmela da sola. Come un bambino che viene abbandonato all’improvviso.”

“Oh, sì, certo...” mormorò, fissandosi le dita, poi sollevò il capo e mi fissò con i suoi grandi occhi verdi. “Non deve essere stato un momento facile.”

Scossi la testa e cominciai a torcermi le mani. “Per niente. All’inizio ho creduto che non sarei mai riuscita ad andare avanti e sono convinta che sarei caduta in un qualche incubo infinito se Gates non mi avesse sbattuta in una clinica insieme agli altri.”

Vidi Nikki sobbalzare sul posto e piantare saldamente i piedi sul tappeto. “Mi stai dicendo che hai smesso anche con il bere?”

“Sì. Pensa che adesso solo un goccio mi fa venire la nausea. Ecco perché ti ho offerto una Coca anziché qualcosa più sul tuo genere.”

“Wow...” bisbigliò con gli occhi spalancati per lo stupore. “E con la band, invece?”

“Oh, con loro va tutto alla perfezione. Abbiamo trovato un nuovo bassista ed è eccezionale, poi stiamo per registrare un nuovo album.”

“Anche noi ne stiamo registrando uno,” raccontò con poca enfasi – anzi, non sembrava nemmeno felice del fatto che presto sarebbe uscito il quarto disco della loro carriera e più bofonchiava cose incomprensibili, più mi convincevo che fosse proprio così.

“Qualcosa non va con i ragazzi?” domandai incuriosita e dal suo atteggiamento nervoso.

Nikki fece spallucce e si passò una mano sul volto mentre appoggiava sul tavolino basso la bottiglia di Coca-Cola ancora piena fino a metà. “No, va tutto benissimo, anzi, forse un giorno ti porterò anche qualche demo.”

Mi avvicinai per poterlo guardare meglio in faccia, notando solo ora un accenno di occhiaie violacee tipiche di chi ha dormito poco e male. “Non vedo l’ora di sentire qualcosa. Se ti presto la chitarra mi anticipi qualche riff?”

Nikki si portò le mani sulle tempie come se la mia voce fosse stata perforante e fastidiosa, chiuse gli occhi poi li riaprì all’improvviso e si alzò di scatto dal divano. “Se avessi tempo lo farei, ma adesso è meglio che vada. Mi aspettano tre quarti d’ora di viaggio per tornare a casa ed è già tardi.”

“Dove hai detto che abiti, ora?” gli chiesi per temporeggiare.

Spense la sigaretta nel posacenere e abbozzò un sorriso. “Mi sono trasferito a Sherman Oaks, sul Valley Vista Boulevard, per lo stesso motivo per cui tu ora abiti a Pasadena.”

A quelle parole mi si illuminarono gli occhi. “Mi piace girare in motocicletta da quelle parti perché c’è una splendida vegetazione rigogliosa. Se mi lasci il tuo indirizzo la prossima volta che passerò ti verrò a trovare.”

Annuì e scrisse frettolosamente il numero civico e la via sul retro di un volantino che aveva trovato accanto al telefono poi si fermò davanti alla porta come se avesse avuto un ripensamento. Ci fissammo a vicenda per qualche secondo poi mi fece cenno di aspettare che formulasse la frase prima di dire qualsiasi cosa. “Domani sera è Capodanno. Tu hai in programma qualcosa?”

Alzai le spalle con indifferenza e appoggiai il fianco allo schienale del divano. “Mi piacerebbe, ma tutti i ragazzi sono impegnati con le loro anime gemelle e ognuno va da qualche parte a festeggiare.”

“E ti lasciano da sola?” domandò quasi sconcertato e scuotendo il capo. “Ti capisco perché vale anche per me e... ehi, ho un’idea! Potremmo organizzare qualcosa tra di noi. Conosco un posto a Van Nuys dove potremmo cenare, poi potremmo andare da qualche parte.”

“Insomma, qualcosa di estremamente nella norma. Non è proprio il tuo genere, Sixx. Mi stupisci!” esclamai divertita, strappandogli un altro flebile sorriso. “Però l'idea mi piace.”

Nikki annuì velocemente e tornò ad arraffare il volantino di poco prima per appuntarci sopra l’indirizzo di un locale e anche il suo numero di telefono, dopodiché mi salutò in fretta e sparì in giardino senza nemmeno aspettare che lo accompagnassi. Mi affacciai alla finestra e lo osservai sgommare via a bordo del suo bolide rombando lungo tutta la via finché non svoltò l’angolo. Quando non sentii più il rumore del motore appoggiai i gomiti sul davanzale e sorrisi tra me, felice di averlo ritrovato dopo tanto tempo.




N.D’.A.: Buonasera!
Siccome so già che fino a sabato sarà praticamente impossibile che riesca a pubblicare, ho pensato di caricare oggi il capitolo e di approfittarne per farvi gli auguri di Buon Anno e anche di Buona Epifania!
In più, anno nuovo, parte nuova! Eheh... nonché ultima parte... ma gli affezionati possono stare tranquilli: non sarà corta come la seconda.
Come avete avuto modo di leggere, le cose sono cambiate parecchio da quando Sharon ha perso il suo caro amico Brett, il cui posto nella band è stato preso da un nuovo personaggio che presto conoscerete. E, sempre a proposito di nuovi personaggi, ladies and gentlemen, a voi Slash! Quando quest’estate ho scritto il racconto, non avevo previsto di inserire anche lui, ma a quanto pare il poster alla mia sinistra con uno Slashone gigante ha il potere di cambiare il mio pensiero e ha fatto in modo che il chitarrista dei Guns N’ Roses si infiltrasse. Sebbene rientra tra i personaggi secondari, spero abbiate gradito la scelta – in caso contrario, prendetevela con il signor Saul Hudson, che è perennemente sotto i miei occhi e nei miei pensieri.
Detto ciò, grazie a coloro che seguono e lasciano recensioni! ♥
Se volete esprimere la vostra opinione, positiva o negativa, o farmi notare qualcosa, prego, fate pure.
Alla prossima!

Angie Mars


Titolo: The More Things Change - Bon Jovi


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Capitolo 24
*** III.2) Danger ***


2
DANGER





Dovevo sbrigarmi a trovare qualcosa da indossare o sarei arrivata così in ritardo che avrei battuto persino il primato di Slash, che quando dovevamo incontrarci per suonare si presentava sempre un’ora dopo l’orario stabilito. Sicuramente nemmeno Nikki era un tipo puntuale, ma almeno io ci tenevo a esserlo. Il solo pensiero di arrivare troppo tardi, però, mi faceva innervosire, rallentandomi così ancora di più.

Il problema di quella sera era che non sapevo cosa indossare per una normalissima cena di Capodanno che non prevedeva fuochi d’artificio né una location sfarzosa, ma neanche montagne di droga o invitati depravati. Era passata un’infinità di tempo da quando avevo preso parte all’ultima festa tra persone normali e si era trattato di un compleanno durante il quarto anno di scuola superiore – per la cronaca, me n’ero andata prima del previsto perché era la festa più pallosa alla quale avessi mai partecipato –, così ora mi ritrovavo davanti al mio armadio alla ricerca di qualcosa che non fosse né troppo elegante né che mi conferisse l’aspetto di una rocker casinista del Sunset Strip.

Dopo una serie di disperate ricerche e una sequela interminabile di ingiurie, rinvenni un semplice vestito nero che scendeva morbido fino alle caviglie. Il colore non era certamente quello più adatto all’occasione, però non possedevo altro e non mi ero nemmeno preoccupata di andare a comprare qualcosa di più indicato.

Finii di truccarmi con cura e lasciai cadere i capelli sulle spalle, poi corsi in macchina e mi diressi fino alla Ventura Freeway. Quando raggiunsi Van Nuys, cercai di decifrare le vaghe indicazioni che Nikki aveva scribacchiato sul foglietto, finendo per girare in tondo per ben tre volte prima di riuscire a trovare la strada giusta.

Il locale era una piccola casa cubica e bianca con gli infissi di legno scuro che sorgeva in mezzo a una piccola giungla di palme, siepi e oleandri, in una stradina sterrata dimenticata persino da Dio e illuminata solo da un grosso lampione rotondo e dall’insegna al neon color magenta. Posteggiai e prima di scendere mi accertai che il trucco fosse ancora intatto, poi mi diressi verso il ristorante, al cui interno c’era una sommessa confusione generata dalle persone che occupavano i pochi tavoli disponibili, tutti apparecchiati in modo rustico come se fosse stata una vera osteria messicana. I camerieri passavano con vassoi fumanti e la scia che stuzzicò il mio naso mi convinse a sbrigarmi anziché continuare a rimirare il piccolo salone da pranzo dal soffitto attraversato da grosse travi di legno. Quando però domandai alla donna alla cassa dove si trovasse il tavolo che Nikki aveva prenotato a suo nome, lei inarcò le sopracciglia con fare imbarazzato e allo stesso tempo dispiaciuto prima di indicare una piccola porta di legno grezzo in fondo al salone. “Il signore aveva prenotato l’intera sala che si trova oltre quella porticina laggiù, ma ha telefonato mezz’ora fa per disdire.”

Trattenni il respiro per lo stupore, spiazzata. “Ne è sicura? Non è che forse si confonde con qualcun’altro?”

La donna sollevò le mani in segno di discolpa. “Mi dispiace, signorina, ma questo è ciò che il signor Sixx mi ha detto al telefono un’ora fa.”

“Ma mi ha fatta venire fino a qui da Pasadena, non credo che sia–” mi ammutolii all’istante e mi mordicchiai il labbro inferiore, sentendo il sapore dolciastro del rossetto, poi scossi il capo. “Non si preoccupi, non importa. Spero che questo non vi abbai creato troppi problemi.”

Me ne andai senza nemmeno rispondere quando la donna mi chiese se desideravo un drink o qualcosa di caldo offerto dalla casa per rimediare al misfatto di cui non era nemmeno colpevole, e mi sedetti al posto di guida della mia auto per uscire da quel parcheggio polveroso. Guidai automaticamente per qualche chilometro senza smettere di domandarmi per quale motivo Nikki mi avesse dato buca senza nemmeno avvertirmi, poi mi ricordai che se avesse voluto chiamarmi non avrebbe potuto farlo perché non gli avevo lasciato il mio numero come lui aveva fatto con me. Mi cadde l’occhio sul foglietto sul quale aveva scritto le istruzioni per raggiungere il ristorante e riconobbi anche il suo numero di telefono e l’indirizzo. In quel momento stavo viaggiando lungo il Van Nuys Boulevard e se avessi proseguito fino alla fine avrei raggiunto il Valley Vista Boulevard, dove lui abitava. Normalmente mi sarei fermata vicino a una cabina telefonica per effettuare una chiamata, ma quella sera sentivo che c’era in corso qualcosa di strano e mi recai istintivamente fino a casa di Nikki senza nemmeno pensare che avrei potuto disturbarlo.

Percorsi il tratto di strada rimanente a tutta velocità e inchiodai all’incrocio con il Valley Vista Boulevard, poi svoltai e i freni fischiarono quando rallentai improvvisamente per controllare i numeri civici delle abitazioni. Fui costretta a parcheggiare e a scendere perché la vegetazione sul ciglio della strada era talmente fitta che copriva le targhette, a malapena illuminate da deboli luci da giardino, e dovetti camminare per alcuni minuti finché non mi ritrovai di fronte a un imponente cancello in ferro battuto nero le cui sbarre terminavano con delle punte simili a quelle di lance aguzze. C’era troppo buio per poter vedere il giardino e riconoscere capire dove finiva una pianta e ne cominciava un’altra, e persino le luci all’interno dell’abitazione erano spente. Per un attimo credetti di aver letto male il numero civico sulla targhetta metallica, invece coincideva veramente con quello che Nikki aveva scritto – inoltre, il cancelletto era stato dimenticato aperto. Nell’indecisione aggrottai la fronte, poi mi feci coraggio ed entrai. Attraversai il giardino buio e incolto passando sopra l’erba troppo lunga, poi mi fermai davanti al portone principale, anche quello aperto come se qualcuno fosse entrato di fretta per prendere qualcosa che aveva dimenticato prima di tornare a scappare fuori. Lo spinsi e mi ritrovai all’interno di un salone tetro e maleodorante: la luce che entrava a malapena dagli scuri socchiusi illuminava d’argento il contorno dei mobili e il parquet, a sua volta coperto da polvere e sostanze appiccicose.

“Nikki? Sono Sharon,” chiamai. La mia voce alterata dalla paura riecheggiò in tutta la casa come se mi fossi trovata in un castello freddo ed enorme del nord Europa.

Il rumore di qualcosa che cadeva per terra e rotolava sul pavimento attirò la mia attenzione e volsi lo sguardo verso le scale con la vana speranza di scorgere l’ombra di Nikki, ma non vidi niente. Avanzai di qualche passo appoggiando timorosamente la suola delle scarpe sul pavimento di legno scuro come se avessi rischiato di centrare un buco e caderci dentro, senza però prestare attenzione a quello che c’era sopra di me. Due occhi rossi mi fissavano nel buio, brillando nelle loro diaboliche sfaccettature color rubino, e dei denti grigi e aguzzi si protendevano da un muso contorto in un’espressione terrificante pronti a sbranarmi. Per un attimo mi convinsi che si trattasse di un animale vivo, ma in un barlume di lucidità in tutta quella follia che mi circondava mi resi conto che mi trovavo di fronte a un gargoyle di pietra che sembrava essere stato rubato direttamente da una cattedrale gotica.

“Va’ a farti fottere, bestia del cazzo,” sibilai dopo aver ficcato un volantino arrotolato tra le sue fauci di pietra, conferendogli un aspetto quasi comico, poi iniziai a salire lentamente i gradini delle scale finché non raggiunsi il piano superiore, anch’esso invaso da vestiti, scatole e vasi rovesciati come se fosse stato il capanno degli attrezzi della mia vecchia casa in Louisiana.

“Nikki, sei in casa?” chiamai ancora, e subito dopo un sommesso brusio lamentoso giunse alle mie orecchie.

“Non entrare... aspetta, non entrare...” continuava a ripetere come un disco inceppato, ma ormai avevo aperto una delle cinque porte del piano e mi ero addentrata in quella che, a giudicare da quel po’ che si riusciva a distinguere nell’oscurità, doveva essere una camera da letto.

“C’è qualcuno?” domandai un attimo prima che qualcosa atterrasse vicino ai miei piedi.

“Ti avevo chiesto di non entrare,” biascicò una voce che conoscevo bene. “Perché non mi hai dato retta?”

“Allora ci sei!” esclamai sollevata. “Aspetta, forse se accendo la luce riesco a capire dove accidenti ti sei nascosto.”

“No!” tuonò Nikki facendomi ritrarre la mano dall’interruttore, poi assunse un tono più calmo. “Non farlo, ti prego. Non voglio che tu mi veda.”

Quella sua ultima richiesta, sebbene non ce ne fosse bisogno, fu la conferma del fatto che in quella casa stava succedendo qualcosa di molto strano. Sapevo che Nikki non era un tipo particolarmente ordinato, quindi la confusione che regnava in tutta l’abitazione non mi aveva sorpresa, ma l’arredamento tetro e lo strano odore stavano cominciando a spaventarmi, specialmente ora che Nikki aveva detto di non voler essere guardato. Non mi lasciai corrompere dal suo tono supplichevole e feci strisciare la mano sulla parete finché non incontrai l’interruttore. Un fascio di luce mi colpì dritta in faccia costringendomi a coprirmi gli occhi poi, una volta che la mia vista si fu abituata, spostai la mano, pentendomene subito. Di fronte a me c’era un’enorme stanza con un letto sporco e disfatto, svariati vestiti lanciati ovunque meno che nell’armadio, bottiglie vuote e in frantumi accatastate sul comodino, e nel camino spento erano stati ammucchiati diversi libri in pessime condizioni. Sembrava la stanza di Vince quando restavo a casa loro per farmi in sua compagnia, solo più grande e con un arredamento da centinaia di dollari.

“Per favore, Sharon, vai via!” riprese la voce di Nikki, proveniente da una porticina di legno scuro e scheggiato.

Mi avvicinai di soppiatto a quello che probabilmente era uno sgabuzzino e ciò che trovai al suo interno mi strinse il cuore in una morsa soffocante: là per terra, ridotto nelle stesse condizioni di un animale abbandonato a se stesso in una gabbia del circo, c’era Nikki. Se ne stava con la schiena premuta contro il muro, con addosso un paio di pantaloni di pelle sgualcita e un cardigan bordeaux che doveva aver riesumato da uno dei suoi costumi del periodo di Theatre of Pain. I capelli stopposi facevano ombra sul viso pallido e solcato dalle righe nere del trucco colato e tremava dal freddo.

“Che diamine stai facendo?” domandai d’istinto, poi Nikki affondò la faccia contro le ginocchia. Solo allora mi accorsi che di fianco a lui, nascosti nell’angolino del ripostiglio, c’erano alcuni cucchiai incrostati di una sospetta sostanza marrone e, poco più in là, il resto del suo armamentario. Mi veniva da vomitare ed ero così convinta che lo avrei fatto che mi fiondai fuori dalla stanza con una mano sulla bocca, finendo poi per fermarmi sulle scale. Ringraziai di avere lo stomaco vuoto da ore poi scesi le scale, cercando di non inciampare nei tacchi. Smisi di correre solo quando mi trovai con le spalle premute contro il ruvido muro esterno.

Non avrei potuto sopportare di vederlo conciato in quel modo. Dopo tutta la fatica che avevo fatto per uscire dalle mie dipendenze, non credevo che sarei stata in grado di assistere a una scena simile senza sentirmi male. Per me era già fastidioso parlare con Slash e sentire odore di Jack ogni volta che apriva la bocca, però Nikki non era un mio amico qualunque. Anzi, prima che le nostre strade prendessero direzioni diverse, era stato qualcosa di più per me e non potevo continuare a negarlo.

Strinsi i denti e i pugni: se adesso era lassù da solo a piangersi addosso era perché aveva bisogno di qualcuno e in quel momento io ero l’unica persona presente nel raggio di dieci miglia che fosse ancora disposta a rivolgergli la parola. Non mi restava che farmi forza e provare a tornare in quella camera degli orrori. Salii nuovamente le scale, stavolta illuminate dalla luce rimasta accesa nella camera, e mi fermai sulla soglia del ripostiglio. Per la prima volta Nikki mi sembrò piccolo e indifeso, proprio lui che per molto tempo era stato il mio punto d’appoggio.

“Non guardarmi,” mi pregò senza mostrarmi il viso. “Sono ridotto da schifo.”

Non gli diedi ascolto e, malgrado la sua pelle bianca emanasse un odore a dir poco nauseante, trattenni il respiro e lo afferrai per un lembo del cardigan. Non mi ricordavo gli andasse così largo. L’ultima volta che glielo avevo visto indosso era talmente aderente da sembrare piccolo.

“Puzzi,” gli dissi con pochi giri di parole. “Devi alzarti da qui e farti un bagno.”

Lui mi guardò con occhi stralunati e scoppiò in una risata disperata. “Che senso ha? Tanto tra poco tornerò a puzzare come adesso perché l’astinenza e la roba mi fanno sudare.”

“Nikki,” lo chiamai mentre cercavo di trascinarlo fuori a dispetto della notevole differenza di altezza tra noi, “voglio che tu vada a farti una fottuta doccia. Non puoi continuare a stare in queste condizioni.”

“Quali condizioni?” biascicò stanco. “Quelle del tossico? Be’, almeno stavolta non mi sono ridotto a stravaccarmi su un materasso in compagnia della prima disgraziata che ha bisogno della mia cocaina. Come facevate tu e Vince. Cazzo, ti ricordi che bei tempi?”

Lasciai andare malamente il suo braccio e la mano urtò il pavimento, provocando in lui un’espressione di dolore. “Vaffanculo! Mi viene voglia di lasciarti qui a vomitare fino a domattina.”

Nikki si prese la mano e cercò di massaggiarla per alleviare la sensazione di dolore. “Allora fallo! Nessuno ti obbliga a restare e io non ho bisogno di assistenza. Non sono mica un vecchio decrepito!”

“Così dopo passi il Capodanno da solo a bucarti? No, grazie, non era questo quello che avevamo in programma,” ribattei prima di riprendere a trascinarlo fuori dallo sgabuzzino.

Cercai di ignorare il più possibile le sue lamentele rendendomi conto che doveva essere veramente conciato male per non riuscire nemmeno a divincolarsi. Normalmente avrebbe potuto sollevarmi con un solo braccio, mentre ora ero io quella che lo trascinava per casa con la speranza di convincerlo a restituirsi un aspetto quantomeno degno di un essere umano.

“Senti, Sixx, visto che ho più forza io di te, ti lascio la possibilità di scegliere: o ti alzi e vai in bagno da solo, oppure ti trascino per la casa e ti metto sotto la doccia di persona.”

Nikki si passò una mano sul volto e iniziò a tremare. “Non trattarmi così. Lo so che ti ho delusa, però non mi trattare così. Porca miseria, non me lo merito. Ci vado da solo a farmi quella cazzo di doccia.”

“E va bene, perdonami,” dissi sollevando le mani in segno di resa. “È solo che trovarti in questo modo è stata una pessima sorpresa alla quale non ero preparata.”

Nikki si lasciò sfuggire un sorriso sghembo e alzò le spalle mentre si dirigeva verso la porta del bagno.

“Mi aspetti qui? Farò presto,” domandò con lo stesso tono che usavano i miei fratellini, e io rispondevo sempre con un cenno del capo e mi sedevo per terra in attesa che fossero pronti.




N.D’.A.: Ciao a tutti!
Finalmente siamo arrivati nella Casa degli Orrori a Van Nuys, eh?
Francamente, un po’ mi dispiace per Sharon... si era quasi convinta che tutto sarebbe ricominciato nel migliore dei modi.
Grazie a chi legge e segue la storia! ♥
Ci si rilegge presto!

Angie


Titolo: Danger - Mötley Crüe


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Capitolo 25
*** III.3) Nothing Else Matters ***


3
NOTHING ELSE MATTERS





Quando Nikki uscì dal bagno stava ancora tremando come una foglia, ma stavolta la causa era il freddo che aveva provato nel momento in cui l’acqua gli era scivolata addosso dopo chissà quanto tempo. Si sedette vicino a me senza guardarmi in faccia e si strinse ancora di più nell’accappatoio, poi roteò gli occhi e si sfregò le mani.

“Mi dispiace averti rovinato il Capodanno. Non avrei dovuto chiederti di passarlo con me visto che so che non sono in grado di uscire da questa casa,” mormorò mentre si puliva gli occhi dai residui di trucco con un angolo della manica.

“E a me dispiace averti trovato in queste condizioni. Cazzo, Sixx, ma cosa ti sta succedendo?”

Scosse il capo e indicò la sua stessa persona.

“Sono messo così dall’inizio dell’anno. Ti ricordi quella volta in cui sono tornato a casa dopo l’incidente?” annuii e lui si umettò le labbra. “Sapevo già che l’antidolorifico non avrebbe avuto nessun effetto e mi sono buttato su quella merda di eroina. Ma un bacio è stato sufficiente per sancire un oscuro patto d’amore da cui non so se riuscirò mai a tirarmi indietro.”

Abbassai lo sguardo sulle mani, che ora stavo torcendo nervosamente. “L’avevo capito e l’ho sempre saputo, e ho sempre sperato riuscissi a smettere, ma allora c’ero dentro anch’io e non ci ho mai dato peso.”

“Durante il tour che le nostre band hanno fatto insieme la situazione ha iniziato a peggiorare lentamente. Una volta mi hai anche trovato con le mani nel sacco,” continuò con tono piatto. “Ma quando avete interrotto il tour, tutto ha iniziato a sfuggire dal mio controllo, e così sono arrivato fino a questo punto.”

Presi la sua mano grande e rovinata dalle cicatrici che gli aghi avevano lasciato sulla pelle sottile e la strinsi tra le mie, così piccole e curate rispetto alla sua. “Sai che ho passato qualcosa di simile e sai anche che c’è un solo modo per uscirne.”

Nikki aggrottò la fronte con atteggiamento diffidente. “Ovvero?”

“Va’ da qualcuno che possa aiutarti,” scandii con tono pacato. “Però devi essere tu a volerne uscire, altrimenti non servirà a niente.”

Nikki portò la mano libera sopra le mie e scosse il capo, sconsolato, dicendo che ormai per lui non c’era più nulla da fare e che era spacciato. Mi pregò di tornare a casa e di lasciarlo da solo perché riteneva che non avesse più senso restargli vicino, ma io, sebbene sapessi quanto la strada per la sobrietà fosse lunga e difficile, non avrei mai accettato di starmene lì seduta a guardarlo mentre si scavava la fossa da solo.

“Dov’è finito il Nikki di una volta che voleva spaccare il culo a mezzo mondo?” domandai con gli occhi in fiamme per lo sforzo di trattenere le lacrime. “Fino a qualche anno fa ti saresti fatto in cento parti per riuscire nei tuoi intenti, invece adesso ti stai lasciando abbattere. Sei ancora in tempo per rialzarti e prendere le armi per combattere.”

Nikki si lasciò cadere a pancia in su sul materasso e prese a fissare il soffitto dal quale pendeva un’enorme lampadario. “Per combattere cosa, una battaglia già persa contro un cazzo di mare in tempesta? Sharon, adesso Nikki non c’è più. Ora ci sono solo Frankie e Sikki, ma Nikki non esiste più.”

“Chi hai detto, scusa?” domandai, ma lui non si degnò nemmeno di guardarmi e si girò su un fianco dandomi le spalle. Si accovacciò su se stesso e premette il viso contro un cuscino prima di sbuffare sonoramente. Tornai a ripetere la domanda, ma l’unica cosa che capii tra le tante parole biascicate e soffocate dalla stoffa lercia del guanciale fu che me ne avrebbe parlato in un altro momento. Continuò a blaterare per un paio di minuti, poi si zittì all’improvviso e lo scoprii profondamente addormentato, con ancora i capelli bagnati incollati alla pelle del collo e delle spalle.

Decisi di approfittare di quell’attimo di quiete per scoprire qualcosa di più, anche se ormai era tutto perfettamente chiaro. Mentre spulciavo tra il ciarpame ammassato ai piedi del letto, rinvenni un quadernetto dalla copertina rigida e rovinata da disegnini di ogni genere che non potevano avere altro autore al di fuori di Tommy Lee – e la firma dell’artista lo confermò. Feci scivolare l’elastico che lo teneva chiuso e lo aprii a una pagina a caso. A giudicare dalle date scribacchiate, a volte in alto a destra e altre al centro, doveva trattarsi di un diario, e mi ero appena imbattuta nelle righe scritte pochi giorni prima. Mi sedetti sul bordo del materasso cercando di non fare movimenti bruschi che avrebbero potuto svegliare Nikki, e cercai di decifrare la sua grafia frettolosa e confusa.


25 dicembre 1986

Van Nuys, 7:30 P.M.

Buon Natale.

Be’, è questo quello che la gente si dice a Natale, giusto? Solo che di solito hanno qualcuno a cui dirlo. Sono circondati dai loro amici e dalla loro famiglia. Non sono stati accovacciati nudi sotto un albero di Natale con un ago nel braccio come un matto in una villa a Van Nuys.

Non sono fuori di testa e non stanno scrivendo in un diario, e non stanno guardando il loro–


Chiusi il diario con un colpo senza però accorgermi che il rumore secco delle pagine che si erano scontrate aveva attirato l’attenzione di Nikki, che si girò lentamente sulla schiena e si stropicciò gli occhi, probabilmente convinto di aver dormito per più di un’ora quando invece si era appisolato per soli cinque minuti. Si alzò lentamente a sedere e sistemò l’accappatoio che gli stava scivolando giù dalla spalla con uno sbadiglio. Per mia fortuna riuscii a riporre il diario dove l’avevo preso prima che aprisse gli occhi e si accorgesse che avevo appena letto qualche riga.

“Che ore sono?” chiese mentre girovagava per la stanza alla ricerca di qualcosa di pulito da indossare. Quando gli riferii che erano le undici e mezza, alzò le spalle e disse che ci mancava ancora molto tempo prima dello scoccare dell’anno nuovo, poi si infilò la prima tuta stropicciata che trovò e che faceva a cazzotti col suo consueto aspetto da rocker trasandato.

“Vieni, andiamo in sala, così ti offro qualcosa,” disse mentre si dirigeva scalzo verso il piano sottostante, con me dietro che lo seguivo in silenzio assoluto, ancora colpita dalle condizioni pietose della sua abitazione.

Quando raggiungemmo la sala, Nikki passò una mano sui cuscini del divano di pelle per buttare per terra le briciole che vi si erano accumulate sopra poi sparì in cucina con quattro bottiglie vuote tra le braccia. Quando tornò mi mostrò le mani vuote con un’espressione fortemente scocciata per dirmi che non aveva nulla da offrirmi.

“Non importa, non dobbiamo per forza festeggiare con una bottiglia di champagne e chili di cibo,” lo rassicurai con la speranza di aver sdrammatizzato, ma lui alzò le spalle e prese posto accanto a me.

“Vuoi una paglia?” mi domandò mentre se ne accendeva una.

Annuii e Nikki mi porse quella che aveva tra le dita prima di prenderne un’altra, poi feci un tiro portentoso. “Che fine hanno fatto i ragazzi?”

Espirò una spessa nuvola di fumo e la osservò finché non si dissolse del tutto nell’aria con estrema lentezza. “Mick è sparito dalla circolazione non appena è finito il tour, Vince sarà sicuramente in mezzo a qualche festino di Capodanno a sniffare come un segugio e a scoparsi mezzo mondo, e Tommy è a casa con la sua adorata mogliettina, come del resto fa da mesi. I tuoi, invece?”

“Credo che stiano facendo più o meno la stessa cosa. Mi mancano molto, sai? Da quando Brett se n’è andato, i legami tra noi hanno rischiato di deteriorarsi del tutto. Io mi sono chiusa in me stessa e mi sono allontanata dagli altri, ma grazie al fatto che nel giro di alcuni mesi ci siamo ripuliti, ho ripreso a scrivere e a passare il tempo con Rita e Steven. Poi è arrivato Jamie,” mi lasciai sfuggire una risata divertita quando mi ricordai di come si era presentato alle audizioni, ovvero conciato come un ragazzino glam che ha sbagliato indirizzo. “È un tipo assurdo, un giorno te lo farò conoscere. Quando l’abbiamo preso con noi è stato un po’ come se fosse arrivato un cucciolo nuovo in famiglia: tutti gli si radunavano intorno per sentirlo suonare, e vederlo ridere mentre muoveva le dita sulle corde del basso era una bellezza. Ma adesso la novità è passata e ognuno ha i propri problemi a cui pensare.”

Nikki sospirò e appoggiò un piede sul tavolino da caffè. “Però se siete tutti insieme nella stessa stanza non iniziate a urlarvi contro. Noi invece sembriamo non sopportarci più come una coppia di quarantenni che si sono sposati alla fine del liceo. Vince ha sempre da ridire su tutto, Mick non parla proprio, e Tommy sbuffa di continuo. Non è più come prima, non siamo più i fratelli di un tempo. Se prima avevo solo loro, adesso non ho più nessuno.”

Non appena ebbe terminato la frase, la sua testa scivolò contro la mia spalla, inumidendomi la pelle con i capelli ancora umidi. Cercai di circondargli le spalle con le braccia e per un attimo mi sembrò di aver abbracciato il tronco di una quercia secolare, poi appoggiai il mento sul suo capo. “Adesso hai me, però devi promettermi che sarai forte e che farai il possibile per uscire da questo inferno.”

“Non ne vale la pena, credimi.”

“Non vale la pena di commiserarsi, invece,” ribattei. “Non ci sono stata quando avevi iniziato perché ero più fatta di te e l’anno scorso ti ho lasciato in balìa di te stesso perché ero appena uscita da una situazione insostenibile, ma stavolta non ho intenzione di stare qui a guardarti mentre ti distruggi.”

“Non hai motivo di farlo,” continuò Nikki imperterrito con la stessa voce atona di poco prima.

A quel punto, stanca di sentirlo parlare in quel modo, lo presi per entrambe le spalle e lo costrinsi a guardarmi in faccia. “Quando ero io quella che aveva bisogno, là nel nostro appartamentino a Hollywood, tu non mi hai lasciata da sola. Adesso è il mio turno.”

Stavolta Nikki non osò controbattere e mi circondò la vita con le braccia per stringermi in un debole abbraccio, la testa nascosta contro la mia spalla. Restammo fermi in quella posizione per qualche interminabile minuto, poi un fischio acuto seguito da un’esplosione ruppe il silenzio della casa e dell’intero quartiere riportandoci con la mente al presente.

“I fuochi d’artificio!” esclamai. “Hai sentito? È mezzanotte!”

Nikki staccò la fronte dalla mia spalla e si prese qualche secondo per connettere. “Siamo già nell’anno nuovo?”

“Sì,” risposi mentre sentivo il sorriso crescere sul mio volto. “Buon anno, Nikki!”

Lui mi sfiorò il collo con i polpastrelli ruvidi in un timido gesto d’affetto per poi scendere fino alla spalla. “Anche a te, Sharon. E speriamo che il 1987 sia migliore degli altri e che porti qualcosa di buono.”

Proposi di andare in giardino per assistere allo spettacolo pirotecnico, ma Nikki suggerì di restare sul piano delle camere, dove aveva una piccola finestra dalla quale si poteva godere della distesa delle ville di Sherman Oaks poi, man mano si scendeva verso valle, degli edifici bassi e grigi di Van Nuys. Appoggiammo i gomiti sul bordo del lucernario, spalla contro spalla a causa del poco spazio disponibile e del forte bisogno di farci caldo a vicenda, e ci concentrammo sui fuochi che schizzavano in aria come saette per poi esplodere in mille soli variopinti.

“Sono felice di averti ritrovata,” ammise Nikki da stretto nella sua felpa grigia. “Mi è capitato spesso di pensare a te e di chiedermi come te la stessi cavando.”

“Anche a me. È passato un sacco di tempo dall’ultima volta in cui ci siamo visti.”

“Già,” mormorò, poi tirò su col naso. “Se ci siamo allontanati è tutta colpa della droga. Non le basta rovinarti, deve rovinare anche i tuoi rapporti con le persone perché tutti cominciano a guardarti con occhi diversi e a provare ribrezzo nei tuoi confronti.”

“Io non me ne sono andata perché mi facevi schifo. Ero solo debole e non sarei mai stata in grado di sostenerti come potrei fare adesso, però ti ho sempre voluto bene.”

Le sue braccia tornarono a circondarmi le spalle e la stoffa ruvida della felpa mi solleticò la pelle. “Se mai avrai bisogno di me, Sharon, sai dove trovarmi.”

Annuii e pensai che avrei sempre avuto bisogno di lui, ma ritenni opportuno tacere per evitare fraintendimenti che avrebbero potuto rovinare il rapporto che speravamo si ricreasse tra di noi.

Mentre i fuochi impazzavano nel cielo notturno di Van Nuys e Nikki mi teneva stretta a sé come se avesse temuto che svanissi nell’aria da un momento all’altro come un bel sogno, giurai a me stessa che stavolta non avrei permesso a niente e a nessuno di separarci di nuovo, nemmeno alla droga, che aveva segnato e rovinato l’esistenza di entrambi.




N.D’.A.: Buonasera!
Sia benedetta la fine del quadrimestre, che non solo significa più tempo per rileggere, correggere e pubblicare un capitolo, ma è anche un ottimo momento per dormire!
Il capitolo a distanza di una settimana, comunque, ve lo devo... e spero che sia stato di vostro gradimento, così come spero che questa terza parte vi stia piacendo.
Se volete farmi sapere qualcosa sulla storia, accetto volentieri qualunque tipo di recensione! =)
Grazie a chi legge e a chi continua a seguirmi anche da Facebook come autrice EFP! ♥
Prima di concludere, ci tengo a precisare, per pura burocrazia, che la parte in corsivo non è frutto della mia immaginazione ma è la mia traduzione di alcune righe tratte dall’autobiografia di Nikki Sixx, The Heroin Diaries.
Alla prossima!

Angie


Titolo: Nothing Else Matters - Metallica


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Capitolo 26
*** III.4) Should I Stay or Should I Go ***


4
SHOULD I STAY OR SHOULD I GO





Rigirai il cucchiaio nella cioccolata, constatando soddisfatta che era densa e profumata come piaceva a me, poi sollevai lo sguardo verso Rita e il vago sorriso che mi era spuntato sul viso si tramutò in un’espressione di rassegnazione. Lei batté le palpebre come per chiedermi una spiegazione dal momento che l’avevo costretta a seguirmi in quel piccolo bar prima di tornare a casa dopo le registrazioni. Eravamo sedute nell’angolino più defilato e silenzioso, davanti a una bevanda sobria come la cioccolata calda, l’unica che due come noi potevano permettersi ora che avevano detto addio all’alcol. Ci trovavamo proprio sotto alla cassa dello stereo, dalla quale provenivano le rilassanti note rilassanti di una canzone blues.

Lasciai cadere il cucchiaino nella tazza provocando un tintinnio acuto quando il metallo urtò il bordo di ceramica, e appoggiai i gomiti sulla tavola. “Se ti dico una cosa, mi prometti di tenere la bocca chiusa con tutti quelli che conosci, Steven, Jamie e John Gates compresi?”

Rita annuì facendo ballonzolare la chioma folta e rossiccia, e si portò la tazzina alle labbra per sorseggiare la sua cioccolata, poi si leccò i baffi. “Certo, di me puoi fidarti. Te lo giuro con la mano sul cuore, se vuoi.”

Sorrisi di fronte alla sua perenne positività. “La settimana scorsa ho incontrato Nikki.”

Le sue labbra costantemente increspate in un ghigno astuto si tesero immediatamente in un’espressione dura. “Davvero? E dove?”

“In una stazione di servizio a Hollywood,” risposi con calma. “All’inizio non mi ha neanche riconosciuta perché avevo il casco e si è avvicinato solo per farmi i complimenti per la motocicletta, poi ha scoperto che ero io e si è paralizzato.”

“Non mi stupisco. Del resto, dopo che ci siamo ritirati dal tour, nessuno di noi ha mai più incontrato uno di loro, senza contare che tra voi–” si fermò all’improvviso, intimorita dall’occhiata glaciale che le avevo appena lanciato, e tentò di rimediare al danno fatto il più velocemente possibile. “Voglio dire, voi eravate particolarmente amici. Cioè, avete condiviso tante cose... ma proprio tante cose. È normale che ci sia rimasto di sasso quando ti ha vista.”

“Questo è vero,” approvai impassibile. “Infatti dopo gli ho detto di seguirmi e l’ho portato fino a Pasadena per mostrargli la mia nuova casa.”

Rita fece combaciare i polpastrelli di una mano con quelli dell’altra e si finse concentrata. “Dopo cos’è successo? Avete scopato di nuovo?”

“No,” la smontai. “Ho fatto appena in tempo a offrirgli una Coca-Cola prima che sparisse. In compenso, però, mi ha invitata a cena per Capodanno, ed è qui che cominciano i guai.”

Guai?” ripeté Rita. “Ti ha fatta arrabbiare, per caso? Dopo tutto quello che hai passato, non mi sembra il caso.”

Le feci cenno di calmarsi e tacere, mostrandole il palmo aperto della mano. “Mi ha dato buca. Quando sono arrivata al ristorante in cui aveva prenotato un’intera sala solo per noi, una cameriera mi ha riferito che Nikki aveva appena telefonato per disdire. Mi sono insospettita e sono andata a cercarlo a casa sua.”

Rita si portò le mani nei ricci. “Oh, merda! E perché sei andata fino là? Non avresti fatto prima a fargli una sfuriata al telefono?”

“Non mi ha dato buca perché aveva trovato una festa migliore a cui imbucarsi e ora non gli servivo più,” sussurrai ancora intimorita dai ricordi di quella sera. “Quando sono arrivata a casa sua ho trovato il cancello e la porta aperti, così sono entrata senza suonare. Appena ho varcato la soglia mi sono accorta che tutte le luci erano spente, poi c’era un odore orribile e dal piano superiore provenivano dei rumori strani come se ci fosse stato qualcuno che tentava di nascondersi. Avrebbe potuto esserci un ladro, però sentivo che stava succedendo qualcosa di veramente strano, allora me ne sono fregata e sono salita al piano di sopra.”

Rita si passò una mano aperta sul viso. “Tu queste cose non devi farle, Smith.”
“Aspetta, Halford, fammi finire!” sbottai, poi mi ricomposi e la invitai ad ascoltarmi attentamente. “Sono entrata nella sua stanza e l’ho trovato rintanato nella cabina armadio in condizioni tremende. Era raggomitolato su se stesso come se stesse disperatamente cercando di difendersi da un cane rabbioso, e di fianco a lui c’era tutto l’armamentario per farsi in vena, come quando, nell’Ottantadue, andavo a casa sua a bucarmi con Vince e... oh, ti ricordi quando tornavo quante prediche mi faceva Brett?”

La mano di Rita si appoggiò sul mio avambraccio con insolita delicatezza e mi accarezzò per consolarmi. “Brett lo faceva perché ti voleva bene.”

“Io mi sono comportata allo stesso modo con Nikki,” raccontai con la voce incrinata. “L’ho trovato in uno stato sconvolgente e il giorno prima, quando l’ho incontrato a Hollywood, non avrei mai detto che fosse giunto a un simile livello di dipendenza.”

Rita mi guardò comprensiva, gli occhi verdi carichi di rancore per i ricordi. “Ti va di raccontarmi cos’è successo dopo?”

“All’inizio volevo uscire, poi sono tornata dentro e sono rimasta fino a dopo mezzanotte,” proseguii, poi assestai un pugno sul tavolo di granito reso appiccicoso dalle gocce di caffè cadute dalle tazzine di clienti frettolosi. “Voglio fare qualcosa per aiutarlo.”

Rita sollevò le sopracciglia con fare scettico. “Be’, sai che non è facile far ragionare una persona come lui, poi devi anche aggiungerci il fatto che è completamente e costantemente sballato.”

Mi passai le mani tra i capelli senza sapere come comportarmi. “Hai ragione, ma troverò un modo. Credo che sia sufficiente stargli vicino. Ha molto bisogno di qualcuno.”

“Non sarà un’impresa facile, Sharon,” mi mise in guardia Rita mentre ripuliva con cura la tazzina da ogni singolo residuo di cioccolata.

Annuii debolmente. “Non mi sono mai piegata di fronte a nessuna situazione e ho cercato di affrontare la scomparsa di Brett, quindi devo riuscire a fare anche questo.”

“Se dovessi avere bisogno di aiuto, sappi che puoi contare sulla vecchia Rita Halford,” mi suggerì mentre si alzava dalla sedia di paglia. “Adesso però andiamo via da questo posto. Mi sono rotta le palle di stare qui a guardare la gente che entra, ordina un caffè e se ne va.”

Le diedi ragione e, dopo aver pagato con calma dal momento che per quella sera nessuna di noi due aveva impegni per cui sbrigarsi, Rita mi propose di andare a casa sua perché voleva mostrarmi la sua ultima opera d’arte. Accettai molto volentieri e la seguii lungo il viale trafficato finché non raggiungemmo il parcheggio sorvegliato degli studi di registrazione. Salii poi a bordo della sua auto e sfrecciammo fino alla palazzina di lusso in cui si era trasferita, ma quando giunse il momento di entrare nel garage, fu costretta a fermarsi perché qualcuno aveva parcheggiato la sua Harley Davidson davanti al cancello. Rita si catapultò giù dalla macchina e camminò spedita fino alla motocicletta, davanti alla quale si fermò con i pugni serrati sui fianchi e i piedi ben piantati per terra.

“Ehi!” urlò. “Di chi è questa fottuta Harley? Devo entrare in cortile e mi sta bloccando il passaggio!”

Scoppiai a ridere di fronte alla sua celebre raffinatezza e, proprio mentre gesticolava rivolta verso di me bofonchiando frasi incomprensibili, una figura alta e snella, oscillante e dall’aspetto comico, fece la sua comparsa da dietro una siepe. Mi accorsi che si trattava di Tommy Lee solo quando uscì dal vicolo in cui si era intanato e la luce del sole lo colpì in pieno viso.

“Si può sapere che cazzo hai da urlare, Halford?” sbraitò fingendosi innervosito. Non appena Rita si voltò, pronta a difendersi a dovere se mai ce ne fosse stato bisogno, la sua faccia tonda si illuminò con un radioso sorrisone.

“Vedo che non hai perso l’abitudine di parcheggiare sui passi carrai,” lo stuzzicò, ancora memore della loro epica litigata dopo che lui aveva parcheggiato il suo vecchio furgone puzzolente in divieto di sosta proprio davanti all’entrata di casa nostra.

Tommy sogghignò e le assestò un’amichevole pacca sulla spalla come se fosse stata una sorella che non vedeva da anni. “Cavolo, bella, si è trattato solo di un minuto... il tempo di scendere, pisciare e ripartire.”

“Non potevamo rincontrarci in una situazione migliore,” esclamò mentre mi faceva cenno di uscire dall’automobile. “Hai anche avuto fortuna: c’è Sharon qui con me.”

Lo salutai consapevole del fatto che probabilmente Nikki gli aveva raccontato del nostro incontro a Hollywood e, come volevasi dimostrare, Tommy mi diede di gomito e si abbassò alla mia altezza per parlarmi in un orecchio. “Ho saputo da Sixx che a Capodanno eri a casa sua.”

“Sì, e spero ti abbia raccontato anche che non era quello il piano,” mormorai con la speranza che, cogliendo la mia preoccupazione, Tommy mi informasse di più riguardo gli ultimi avvenimenti.

Il batterista si guardò intorno con sospetto, temendo che qualcuno potesse riconoscerci, poi mi batté una mano sulla spalla. “Da quando siamo tornati dal tour, la situazione è precipitata e io, sinceramente, per quanto bene voglia a quel coglione, non so più cosa fare. Ho provato a convincerlo a smetterla di spararsi quella merda, ma non mi ascolta. Dice che ormai non c’è più nulla che si possa fare per aiutarlo e continua ad aggrapparsi a questa scusa per non reagire.”

Abbassai lo sguardo sulle punte lucide dei miei camperos. “Mi ha fatto lo stesso discorso la settimana scorsa.”

I grandi occhi scuri di Tommy si spalancarono, colmi di speranza. “Però forse possiamo ancora fare qualcosa per convincerlo. Tu invece hai preso qualche decisione?”

Lo guardai di sbieco e senza aver capito. “In che senso?”

Tommy sbuffò seccato perché gli toccava sforzarsi per spiegarmi il significato di ciò che aveva appena detto. “Hai deciso di chiudere il capitolo Sixx oppure hai intenzione di riattaccarti alla sua sottana per la terza volta?”

“Non sono mai stata attaccata alla sottana di nessuno,” sibilai irritata dal suo tono arrogante, ma Tommy non sembrò scuotersi minimamente.

Sistemò gli occhiali da sole sul naso con la punta dell’indice avvolta in un guanto di pelle. “Hai ragione. Vi siete aggrappati l’uno alla sottana dell’altro, ma se non opponete resistenza entrambi, si finisce per affondare, e lo sai.”

“Non affonderà nessuno, fidati,” ribattei con convinzione. “Andrò da lui anche stasera.”

Tommy si grattò la nuca e sospirò. “Non so cosa ti spinga a farlo, però sto dalla tua parte. Chiamami se hai bisogno.”

Sobbalzai e trattenni istintivamente il respiro per qualche secondo. Non mi ero mai posta quella domanda e, anche se lo avessi fatto, non avrei saputo dire con esattezza cosa mi esortava a sostenerlo nonostante tutto. Oppure, ipotesi più plausibile della precedente, c’era qualcosa che mi rifiutavo di ammettere persino a me stessa.




N.D’.A.:Salve!
Capatina veloce per pubblicare!
Spero che il capitolo vi sia piaciuto. È anche ricomparso T-Bone. E spero di leggere presto qualche opinione di voi lettori silenziosi.
Come sempre, ringrazio tutti coloro che leggono – vi vedo e non siete pochi! ♥
Ci si rivede tra dieci/quindici giorni!
Un abbraccio mega,

Angie


Titolo: Should I Stay or Should I Go - The Clash


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Capitolo 27
*** III.5) Can't Seem to Make You Mine ***


5
CAN’T SEEM TO MAKE YOU MINE





Ero ancora ferma nell’ingresso della mia casa discografica quando entrò un’ospite tanto attesa quanto poco gradita. La sua voce si cominciò a sentire da in fondo al corridoio, dove c’era l’ingresso riservato al personale, e il ticchettio dei tacchi a spillo di scintillante vernice bianca riecheggiava in tutto il corridoio, ammutolendo il personale dell’azienda.

Una ragazza dal fisico slanciato e una vaporosa massa di capelli corvini si stava avvicinando con passo deciso e rumoroso, strizzata in un tailleur rosa confetto e con le spalline eccessivamente imbottite. In una mano teneva una pochette dello stesso materiale delle scarpe che oscillava a ogni passo, mentre l’altro arto era occupato da un uomo che la teneva a braccetto. il tipo mi sembrava piuttosto imbarazzato e camminava svelto e con la testa insaccata nel collo, probabilmente sperando che quella sfilata finisse il prima possibile.

“Be’, la troveremo, no?” esclamò la donna strattonando il tipo. “Tanto non deve essere andata tanto lontano, questi studi sono così piccoli.”

“Signorina 6, le assicuro che troveremo la sua amica,” cinguettò il suo accompagnatore cercando di dimostrarsi gentile, ma si zittì non appena lei lo trascinò al bancone di marmo del centralino, dove si fermò per chiedere informazioni riguardo la corista di una band che stava registrando nello studio accanto al nostro. La centralinista le rispose cortesemente che al momento era ancora impegnata e lei si limitò ad assumere un’aria altezzosa e ad accomodarsi proprio sulla poltroncina accanto a quella su cui ero seduta da un quarto d’ora, in attesa che Steven mi raggiungesse. Sapevo che non l’aveva fatto perché c’era solo quella, ma perché ci conoscevamo. Mi era capitato di vederla a un paio di feste a casa di qualche personaggio importante della zona durante le quali aveva fatto infuriare Jamie, che per farlo arrabbiare bisognava fargli qualcosa di veramente spiacevole.

“Tu sei Sharon Smith, giusto?” domandò dopo essersi seduta e aver accavallato le gambe.

Annuii e cercai di mantenere un certo distacco. “Sì, Vanity, sono proprio io.”

Lei sorrise soddisfatta e si cacciò una sigaretta col filtro alla menta tra le labbra lucide come specchi. “Sono curiosa di sentire il vostro nuovo disco. A proposito, come va con le registrazioni, cara?”

Arricciai il naso di fronte all’appellativo che mi aveva appioppato. “Bene, grazie. Tra poche settimane avremo finito il lavoro.”

“Sono felice per te, sai? Te lo meriti,” esclamò dopo aver soffiato fuori una densa nuvola bianca, poi mi mostrò una mano muovendo le lunghe dita quasi scheletriche per far risaltare un anello con tanto di brillante. “Anche a me le cose stanno andando parecchio bene.”

Strabuzzai gli occhi di fronte a quello splendido gioiello e mi lasciai sfuggire un “oh!” di stupore, poi ritornai in me e mi alzai dalla poltroncina di pelle nera. “Be’, allora auguri. Adesso dovrei–”

“Aspetta, non ho ancora finito,” esclamò, poi si ravvivò la chioma e sfoggiò un enorme sorriso. “Sto per sposarmi, lo sai?”

“Questa è una bellissima notizia,” risposi, continuando a fingermi stupita ed estremamente felice per lei, ma Vanity non dava segno di volermi lasciare andare.

Batté ripetutamente le palpebre sfarfallando le lunghe ciglia nere, e domandò con aria maliziosa. “Non mi chiedi qual è il nome del fortunato?”

Feci roteare gli occhi, piuttosto seccata. “Qual è il nome del fortunato?”

Vanity ebbe una specie di fremito e arrivò perfino a battere le mani per l’emozione. “Sto per sposarmi con Nikki Sixx!”

Improvvisamente il vociare della gente nell’ingresso diventò un brusio in lontananza e avvampai come se una folata di bollente aria del deserto mi avesse appena colpita in piena faccia. Iniziai a boccheggiare e ad aggiustarmi i capelli dietro l’orecchio per il nervosismo, ancora convinta di non aver capito bene.

Quando le chiesi di ripetere, Vanity annuì tutta soddisfatta. “Proprio così, cara. Nikki Sixx! So che un tempo vi conoscevate, ma mi risulta che non vi vediate da anni, giusto?”

“Oh, sono passati secoli dall’ultima volta,” mentii mentre mi sembrava che una potente forza esterna mi tirasse verso il pavimento. Stavo per svenire e sarei certamente crollata se non avessi avuto un buon autocontrollo. Mi domandai come fosse possibile che non ne sapessi niente per due motivi: il primo era che nell’ultimo periodo avevo visto Nikki parecchie volte e non mi aveva mai accennato nulla riguardo il suo imminente matrimonio; il secondo era che non mi risultava di averne sentito parlare in giro. Probabilmente era una news che doveva ancora passare sui giornali di gossip, ma se stavano per sposarsi significava che per un certo periodo si erano incontrati, e di conseguenza qualche paparazzo doveva averli sicuramente beccati e immortalati. E allora perché io non avevo mai visto una loro foto?

Trovai la risposta a quella domanda quando voltai il capo e mi imbattei in un giornale dalla copertina patinata che riportava i loro nomi in fucsia stampati sotto una loro fotografia scattata di notte. Semplicemente non avevo mai letto un giornale di pettegolezzi e quindi non avevo avuto modo di imbattermi in un articolo come quello.

Il cuore mi saltò in gola senza tralasciare neanche uno dei tanti pezzettini in cui si era frantumato. Mi immaginai Nikki che le prendeva la mano avvolta nel pizzo bianco e, con le dita tremanti, le infilava la fede, lo sguardo assente puntato negli occhi allucinati di Vanity. Sapevo che non era una che faceva economia sulle droghe e che nutriva un particolare amore verso quelle più pesanti e dannose, e questo doveva essere proprio uno dei motivi per cui se la faceva con Nikki. Erano messi una peggio dell’altro e, se avessero continuato a frequentarsi, si sarebbero distrutti a vicenda. Non mi interessava minimamente di Vanity. Per quanto mi riguardava, poteva fare quello che le pareva, ma se potevo fare ancora qualcosa per tirare fuori Nikki da quella situazione, lo avrei fatto all’istante.

Avevo promesso a Steven che lo avrei aspettato, ma me ne fregai e guizzai fino al parcheggio, inforcai la mia Harley Davidson e rombai fuori dal cortile con le mani ben salde sul manubrio e un senso di rabbia che mi cresceva dentro. Mi fiondai diretta sul Ventura Boulevard e guidai fino a Van Nuys in uno spiacevole stato di trance che mi diede l’impressione che il viaggio fosse durato solo cinque minuti anziché tre quarti d’ora. Mi risvegliai solo quando sotto le suole dei camperos sentii la ghiaia del vialetto della villa in cui abitava Nikki, lasciandomi intuire che se lo fosse dimenticato aperto. Dovetti però ricredermi quando incrociai un ragazzo alto e dall’aspetto emaciato che usciva dalla porta principale. Gli feci un cenno di saluto per non apparire scontrosa, ma lui tirò dritto con le mani pesantemente cacciate nella giacca di pelle sgualcita e con la testa insaccata nelle spalle scheletriche. Lo mandai a quel paese, ottenendo un dito medio come risposta, e avrei risposto a tono se non avessi avuto una questione più importante da risolvere, così proseguii fino al portone e mi attaccai al campanello finché non mi ritrovai davanti Nikki.

“Cos’hai da suonare così?” domandò stizzito.

“Fammi entrare,” scandii lentamente e lui non poté fare altro che spostarsi appena per permettermi di varcare la soglia di quella specie di inferno, dopodiché puntai gli occhi strabuzzati dritti nei suoi. “Perché non mi hai detto che stavi per sposarti?”

L’espressione infastidita di Nikki tramutò immediatamente in una di puro sgomento. “E questa da dove l’hai tirata fuori?”

“Non prendermi per il culo!” esclamai con tutta la voce che avevo in gola in un momento di rabbia. “Sono settimane che ci vediamo e parliamo. Perché ho scoperto che stai per sposarti solo oggi e dalla tua futura moglie?”

“Ma io–” fece con un filo di voce in sua discolpa, poi lo interruppi.
Feci un paio di respiri profondi per riacquistare un minimo di calma e per smetterla di agire d’impulso. “Non mi interessa del perché stai per sposarti quella donna, però almeno posso sapere per quale motivo non me l’hai mai detto?”

Nikki si appoggiò al muro con la schiena e mi puntò addosso lo sguardo esterrefatto. “Credevo di essere io quello che si calava troppa roba, invece mi sa tanto che stavolta ci sei andata giù pesante. Io non sto assolutamente per sposare nessuno, e non lo farei neanche se mi pagassero in oro puro.”

A quel punto non potei fare altro che spalancare gli occhi e domandarmi se per caso mi stesse prendendo in giro, poi mi indicai l’anulare di una mano. “Ma io... io ho visto il suo anello. Lei mi ha fatto vedere l’anello che tu–”

“Io non regalo anelli,” mi interruppe. “Se proprio dovessi sposarmi e dovessi chiedere la mano a qualcuna, non lo farei certo regalandole un fottuto anello come fanno tutti. Adesso però smettiamola di urlare, ché ho già abbastanza mal di testa, e dimmi chi è questa stronza che ti ha detto che sto per sposarla.”

Stavo per sputare il rospo e raccontargli ciò che era accaduto nella hall della casa discografica quando il campanello suonò ripetutamente, seguito da una voce stridula fin troppo familiare.

“Nikki, tesoro, sono Vanity!” cinguettò prima di lasciarsi sfuggire un risolino inquietante. “Perché non mi apri? Poco fa mi hai chiamata per dirmi che il tuo spacciatore doveva portarti una scorta di roba solo per noi!”

I nostri sguardi colmi di risentimento si incrociarono per un istante che parve un’eternità. Serrai le labbra come se avessi voluto frenare le parole che stavo per pronunciare, e riuscii anche a trattenermi. “Questo non ti dice niente?”

Nikki deglutì a vuoto e diventò ancora più pallido di quanto già non fosse. “Vanity ti ha detto che sto per sposarla?

“Proprio così. Mi ha anche fatto vedere l’anello di fidanzamento,” affermai a bassa voce per non farmi sentire da lei, che adesso aveva preso a bussare.

“Ti giuro che non le ho regalato niente,” cercò di rassicurarmi Nikki con la voce affannata dal timore che potessi voltarmi e andarmene. “Vanity racconta un sacco di balle. Qualche settimana fa mi ha fatto trovare un mazzo di fiori con una dedica di Prince in cui le chiedeva di lasciarmi perdere e tornare con lui, poi ho scoperto che il biglietto lo aveva scritto lei. Ti avrà sicuramente mostrato un gioiello che possedeva già, spacciandolo per un regalo ricevuto da parte mia.”

“State davvero per sposarvi?” chiesi.

“Ma figurati! L’ho conosciuta per caso e siamo diventati compagni di buco, ma niente di più, questo posso garantirtelo.”

I colpi assestati al portone cessarono di colpo e potei finalmente riprendere a parlare con il mio consueto tono di voce. “Vi danneggerete a vicenda. Non fate altro che sballarvi, finirete per toccare il fondo una volta per tutte. Proprio come facevamo Vince e io.”

Nikki si passò le dita tra i capelli con fare ansioso. “Lo so, ma non riesco a liberarmi di lei. Io vorrei smettere con la droga e anche con Vanity, però dimmi come accidenti faccio a resistere se continua a presentarsi a casa mia con una busta piena di cristalli? Non ci riesco, cazzo, non ce la faccio.”

Mi avvicinai timidamente a lui e gli accarezzai il braccio gelido. “Devi farcela. Non puoi continuare così.”

Nikki si sottrasse bruscamente a quel lieve contatto e si scostò dal muro. “Non posso, Sherry. Se ci riuscissi lo farei, ma per me non ci sono più speranze. Se davvero non riesci più a guardarmi stare male, allora lasciami perdere.”

Sgranai gli occhi: lasciarlo perdere? Non se ne parlava. Avevo visto il mio migliore amico morire per colpa dei suoi brutti vizi e io stessa avevo passato un inferno per smettere: come avrei potuto fare finta di nulla e abbandonare una delle poche persone che mi aveva apprezzata per quella che ero veramente senza mai avere niente in contrario?

“Questo lo dici ora perché sei stanco, ma sai che puoi ancora fare qualcosa,” dissi mentre recuperavo la mia borsa dal divano sul quale l’avevo lanciata subito dopo essere entrata in casa come una furia. “Adesso vattene a dormire e scordati che ti lasci qui da solo perché ho capito benissimo che quel tipo che ho incrociato mentre uscivo era il tuo spacciatore. Io da qui non me ne vado perché so che non appena avrò svoltato l’angolo, ti starai preparando una dose. E adesso aprimi il cancello, così posso parcheggiare la motocicletta in giardino.”

“Non voglio che tu stia qui,” ribatté Nikki con tono autoritario e con le braccia incrociate sul petto.

“E io ci resto lo stesso,” mi impuntai, dopodiché mi avviai verso il portone per uscire. Non appena varcai la soglia, però, mi ritrovai faccia a faccia con Vanity, la quale mi fissava con gli occhi iniettati d’ira e i pugni serrati sui fianchi.

Mi spintonò all’altezza di una spalla come per evidenziare il fatto che fosse più alta di me come sono soliti fare i bambini delle scuole elementari e soffiò come un toro imbestialito. “Cosa ci fai tu qui? Questa è la casa del mio fidanzato e non è permesso a nessuna di entrarci, fatta eccezione per la sottoscritta.”

Sostenni il suo sguardo adirato senza paura, ma prima che potessi anche solo formulare una frase, Nikki accorse in mia difesa. “Tu non sei la fidanzata di nessuno né tantomeno sto per sposarti.”

Gli occhi rabbiosi di Vanity si rilassarono e si inumidirono tutto d’un tratto mentre si portava i palmi aperti sullo sterno, all’altezza del cuore. “Ma tesoro mio, un mese fa mi hai detto che ci saremmo sposati.”

“Temo te lo sia immaginato,” ringhiò Nikki a denti serrati. “Adesso torna a casa tua.”

A quelle parole Vanity prese a pestare i piedi, facendo un gran fracasso sul gradino di cotto con i tacchi.

“Ma io sono la tua fidanzata, la tua futura sposa! Come puoi mandarmi via così? Scommetto che è colpa di questa lurida sgualdrina se hai cambiato idea,” sentenziò puntandomi addosso un dito sottile.

“Pensaci due volte prima di chiamare Sharon in questo modo,” gridò Nikki con entrambe le mani appoggiate sulle mie spalle. “Adesso, se non ti dispiace, vattene.”

“No!” berciò Vanity dopo aver girato in tondo un paio di volte e aver sbattuto la pochette di vernice bianca per terra. “Io non me ne vado, è chiaro? Se c’è qualcuno che deve sparire è questa puttana, e deve essere così veloce che quando avrò finito di parlare sarà già filata via a bordo di quella cazzo di motocicletta parcheggiata qui davanti!”

Nikki mi spostò per passare e afferrò Vanity per i polsi sperando che si calmasse, ma si ritrovò costretto a doverla trascinare verso il cancelletto sebbene lei avesse piantato i piedi e stesse rischiando di scivolare sulla ghiaia del vialetto. Quando però la situazione cominciò a degenerare ulteriormente e un vicino si affacciò per domandare che cosa stesse succedendo e se per caso fosse necessario chiamare la polizia, Nikki fu costretto a sollevarla di peso e a riportarla in casa. Si fermò sulla soglia, tenendola ben salda tra le braccia per evitare che allungasse una mano per rifilarmi uno schiaffo, e mi fece cenno col capo di andare via.

“Torna a casa,” disse col fiato corto per lo sforzo. “Devo fare in modo che la pianti di fare tutto questo casino o i vicini chiameranno la polizia per davvero. Se mi trovano tutta quella roba in casa sono fottuto.”

Mi saltò il cuore in gola ma capii che, anche se fosse riuscito a trascinarla oltre il cancello e a chiuderla fuori, Vanity avrebbe continuato a urlare fino a scatenare il finimondo. Non mi restava che salire sulla mia Harley e guidare verso casa per poi tornare in un altro momento, sperando di trovare una situazione migliore. Ma sapevo bene che quei due conoscevano un unico modo per riappacificarsi, e ancora una volta mi trovai disarmata di fronte a quella terribile situazione.




N.D’.A.: Buonasera!
Lo so che non vedevate l’ora che sbucasse anche Vanity 6... scherzi a parte, lei era nella stessa situazione di Nikki, e di conseguenza penso che non ci sia un peggiore tra i due. Erano entrambi tossicodipendenti, e per fortuna hanno trovato il modo per uscirne e per dimostrare che valgono molto di più di quello che la gente pensava allora, anche se a Vanity non è andata bene come a Nikki. Tuttavia, nel mio racconto non le ho dedicato più di tanto spazio A) perché non fa parte dei Mötley Crüe, B) perché lo spazio mi serve per Sharon. Quindi state tranquilli: non romperà più di tanto.
Con ciò, ringrazio chi legge e segue la mia storia. ♥
Se qualcuno volesse esprimere la sua opinione, io lo ascolto più che volentieri!
Ci si rivede presto!
Glam kisses,

Angie


Titolo: Can’t Seem to Make You Mine - Johnny Thunders


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Capitolo 28
*** III.6) So Alone ***


6
SO ALONE





Una volta che mi fui chiusa alle spalle la porta di casa, mi lasciai scivolare contro il legno bianco finché non mi ritrovai seduta sul pavimento, ancora con il cuore che mi batteva a duemila battiti al secondo al solo pensiero di ciò che era appena successo. Con intorno una persona come Vanity, Nikki non avrebbe mai avuto la forza di abbandonare i suoi vizi dannosi, anzi, non avrebbe fatto altro che peggiorare.

Appoggiai la testa alla porta e sbuffai sonoramente mentre osservavo la sala vuota, soffermandomi sul tavolino da caffè sommerso da fogli e riviste di musica. Somigliava a quello di Nikki, con la sola differenza che non c’erano residui di piste di cocaina appena tagliate. Proprio in quel momento lo squillo del telefono in stile anni Cinquanta sul tavolino accanto all’ingresso riempì ogni angolo della casa, facendomi sobbalzare. Saltai in piedi e mi fiondai fino a esso aggrappandomi ai bordi di marmo, afferrai il ricevitore con entrambe le mani e lo avvicinai all’orecchio.

“Pronto?” risposi col fiato corto per lo scatto.

“Ehi, Sharon, sono Nikki,” fece una voce roca e stanca dall’altra parte della cornetta.

“Nikki?” ripetei stupita e subito dopo un forte senso di impazienza di sapere il motivo della sua chiamata mi pervase, facendomi sudare in modo anormale.

Lo sentii tossire e lamentarsi prima di biascicare una frase che mi raggelò il sangue nelle vene. “Ho mandato via Vanity e le ho detto di non tornare mai più, poi però ho sniffato un po’ di neve. Sai, ero troppo incazzato... e... non mi ricordo più che cos’ho fatto negli ultimi cinque minuti. Comunque, posso chiederti una cosa?”

“Sì, dimmi,” le mie dita tremavano sulla plastica verde petrolio dell’apparecchio.

Fece una piccola pausa poi farfugliò. “Puoi venire qui?”

“Sono le nove e mezza, cazzo. Mi ci vuole più di un’ora per arrivare fino a lì,” risposi, ma con questo non intendevo assolutamente dire che non lo avrei raggiunto. Era stata una semplice lamentela che avevo fatto ad alta voce, pentendomene subito dopo, quando Nikki mi riattaccò in faccia dopo aver chiesto scusa per avermi disturbata.

Presa dalla rabbia e allo stesso tempo dalla preoccupazione, provai a richiamarlo per spiegargli che non aveva capito assolutamente niente, ma ogni tentativo risultò inutile, costringendomi a riagganciare e ad arraffare nuovamente le chiavi della motocicletta. Quello strano senso che avevo provato anche la sera di Capodanno mi aveva nuovamente sorpresa, e mi stava portando ancora verso la sua villa. Non mi importava se avrei dovuto guidare per quasi tre quarti d’ora, lo avrei fatto lo stesso. Ripercorsi la stessa freeway di pochi minuti prima e mi ritrovai davanti al cancello della villa, stavolta chiuso, sempre avvolto nell’oscurità. Fui costretta a suonare senza ottenere risposta finché, stanca di sentire il rumore lontano del campanello, decisi di scavalcare il muro di cinta. Mi arrampicai su un bidone dell’immondizia cercando di non scivolare per colpa della suola liscia degli stivali, salii sopra il muro ricoperto di ramoscelli spezzati e mi lasciai cadere sul prato, ringraziando mentalmente lo spesso strato di erba e foglie mai rimossi che aveva attutito il colpo. Mi massaggiai la schiena mentre correvo intorno alla casa alla ricerca di una finestra erroneamente lasciata aperta finché non mi imbattei in quella della cucina, che Nikki era solito non chiudere mai per colpa del cattivo odore che il cibo avariato sprigionava. Ci impiegai un attimo a scavalcare il davanzale e a correre fino al piano superiore, dove ero certa di trovarlo rintanato nella cabina armadio con la sola compagnia del suo armamentario. Infatti, proprio come avevo previsto, era rannicchiato sul pavimento col viso nascosto tra le mani tremanti e rovinate dai buchi che aveva preso a farsi su di esse in assenza di altre parti sane.

“Vattene!” mi ordinò quando aprii la porticina cigolante. “So che sei un’allucinazione perché non puoi essere qui per davvero. Saresti una stupida a farlo perché non me lo merito, per cui ora sparisci e lasciami stare!”

Mi avvicinai di un passo, qualcosa scricchiolò sotto la suola dei miei stivali e un brivido mi percorse la schiena quando intravidi lo scintillio di un ago.

“Non sono un’allucinazione, sono qui per davvero,” sussurrai per non spaventarlo ulteriormente.

“Non è vero,” brontolò Nikki, ma ormai aveva già capito che Sharon Smith era davanti a lui in carne e ossa, poi scostò le mani dal volto e i suoi occhi umidi brillarono nel buio dello stanzino. “Sikki è cattivo, devi stare lontana da lui. Ti porterà con sé nel suo inferno e Frankie si arrabbierà con lui perché sa che lo fa solo perché è un bastardo.”

Spalancai gli occhi di fronte a quella frase senza senso. “Che cazzo stai dicendo?”

Nikki strisciò sul pavimento imbrattato di vomito finché non si ritrovò ai miei piedi, portò le mani sulle punte dei miei stivali e appoggiò la fronte all’altezza delle mie ginocchia. “Lo sai che Frankie ti vuole bene per davvero? Lui te ne ha sempre voluto, ha sempre desiderato il meglio per te, ma ora che è lontano vorrebbe riaverti accanto.”

Cercai di chinarmi per quanto mi fosse permesso dal suo corpo imponente che mi impediva di muovermi liberamente e scostai alcune ciocche di capelli dal volto pallido. Solo in quel momento, quando incrociai il suo sguardo immerso nel terrore, ricollegai il nome “Frankie” a quello che lui stesso aveva rinnegato prima ancora che ci conoscessimo. Frankie era Franklin Feranna, il ragazzino solo e abbandonato da tutti che aveva lasciato la casa dei suoi nonni per cercare di fare fortuna in una città grande e pericolosa come Los Angeles. Aveva cambiato nome con la speranza di chiudere con il suo passato, ma pensando in quel modo aveva commesso un errore: Frankie era ancora parte di lui e lo sarebbe stato in eterno, motivo per cui, nel bene o nel male, avrebbe dovuto imparare ad accettarlo.

“Ma certo,” dissi mentre lui aveva cominciato a tremare. “So bene che Frankie tiene a me, e anch’io tengo a lui. Frankie lo sa?”

Nikki annuì facendo scivolare la fronte contro le mie ginocchia. “Sì, ed è per questo che vuole che tu stia alla larga da Sikki.”

“Chi sarebbe questo Sikki?” indagai con la fronte aggrottata.

Tirò su col naso. “Un tipaccio malato che vorrebbe portarti giù nel suo abisso senza fondo. Tu però non seguirlo, okay? Fallo per Frankie.”

Strinsi forte gli occhi per reprimere le lacrime che avevano iniziato a bruciare agli angoli e appoggiai le mani sulle sue braccia per invitarlo ad alzarsi, ma Nikki sembrò non recepire neanche il mio messaggio e continuò a stare rannicchiato su quella pozza di dolore vomitato sulle mattonelle dello sgabuzzino.

“Non vuoi venire di là?” insistei con calma mentre aumentavo la pressione sulle sue braccia. “Questo non è un posto comodo per dormire.”

“Non voglio dormire,” si lagnò, ma in compenso stava cercando di rialzarsi reggendosi sulle proprie gambe. Sembrava che avesse piantato una spalla nel muro per non cadere e stava rovinando tutto l’intonaco con la fibbia della cintura mentre si trascinava verso la camera. Presi la sua mano quando si ritrovò sulla soglia del ripostiglio e non la lasciai finché non riuscì a sedersi sul bordo del letto, ancora con la testa che gli girava e un forte senso di nausea come se si fosse trovato su una nave in un mare in piena tempesta.

“Con calma, non c’è nessuna fretta,” gli suggerii quando cominciò a lamentarsi della forte emicrania che lo aveva appena colto.

Si portò i palmi sulle tempie come se così avesse potuto fermare il dolore e premette forte. “Ho bisogno di una cazzo di dose.”

“L’hai già presa e non mi sembra che sia stata poi così utile,” gli ricordai.

“Vaffanculo,” ringhiò dopo il tentativo fallito di alzarsi per andare a prendere la sua roba. “Se Sikki non la trova si incazza.”

“Ma Frankie si incazzerà se la trova,” ribattei guadagnandomi una strana occhiata da parte sua. “Tu chi sei dei due?”

Nikki mi rise in faccia come se gli avessi appena raccontato una barzelletta e scosse il capo. “Dipende. Adesso sono Sikki perché ho bisogno di farmi in vena per non andare completamente fuori, ma sono anche Frankie perché tu sei qui con me. Adesso Sikki è arrabbiato nero e Frankie è il moccioso più felice sulla faccia di questo mondo di merda.”

Lo osservai con lo stomaco stretto in una morsa mentre si lasciava cadere a peso morto sul materasso lurido. “È felice perché io sono qui?”

Annuì debolmente con lo sguardo assonnato e puntato verso il soffitto. “Quando tu sei andata via Frankie voleva piangere, ma non ha potuto perché c’era Vanity, che nemmeno lo conosce. Credeva che l’avessi abbandonato, capisci? E voleva solo piangere.”

“Io non l’ho abbandonato,” tentai di giustificarmi mentre mi rannicchiavo vicino a lui come un gatto che si raggomitola su un panno sporco.

Nikki scosse il capo.

“Frankie ha avuto paura che non saresti più tornata,” biascicò, poi si stropicciò gli occhi con forza eccessiva e sbottò. “Io ho temuto che non ti avrei più vista. Non dovresti nemmeno essere qui con me. Saresti potuta correre via, inorridita dalle mie condizioni, invece sei tornata. Hai percorso non so quante miglia a quest’ora per tornare da una persona che non merita niente di più di uno sputo in faccia,” afferrò entrambe le mie mani e le strinse tra le sue, grandi e deboli. “Dimmi perché lo hai fatto. Vuoi i miei soldi? Vuoi vedere la tua faccia sulla copertina di una rivista insieme alla mia come succede con Vanity? Deve per forza esserci qualcosa a cui miri, altrimenti non saresti qui.”

Le mie labbra tremarono nell’indecisione perché temevano di pronunciare quelle parole che in tutta la nostra vita ci eravamo detti così poche volte che sembravano essere diventate un tabù. “Perché ti voglio bene.”

Gli occhi verdi di Nikki sembrarono brillare più per la felicità che per l’umido delle lacrime. Si sedette e mi guardò allibito, intimorito da tre parole estremamente potenti. “Nessuno me ne ha mai voluto, perché dovresti volermene proprio tu?”

“Credo che qualcosa ci leghi,” spiegai imbarazzata mentre mi torcevo le dita. “Non sto insinuando che è il destino che ci vuole insieme perché queste sono tutte cazzate, però sento che sono le nostre menti a essere connesse tra loro e a riavvicinarci ogni volta. Deve essere un riflesso del nostro subconscio o un’idiozia simile. Non so cosa sia, però qualcosa c’è.”

Nikki aggrottò la fronte e cercò di trovare un senso al mio ultimo ragionamento, dopodiché mi sfiorò un braccio col gomito per attirare la mia attenzione. “Adesso cosa pensi di fare?”

“E cosa dovrei fare?” ribattei alzando le spalle. “A casa non ho nessuno che mi aspetta e tu sei solo in questa villa del cazzo. Tanto vale che rimanga qui a farti compagnia e ad accertarmi che non combini sciocchezze.”

Nikki si morse un labbro poi piantò le mani nel materasso per farsi forza e alzarsi in piedi. Fece poi un paio di giri su se stesso come se avesse avuto bisogno di orientarsi nella stanza, avanzò fino all’armadio barcollando, lo aprì e si aggrappò a un’anta per evitare di scivolare per terra mentre frugava in uno dei cassetti. Tirò fuori alcuni indumenti che lanciò con noncuranza sul pavimento finché non si imbatté in una T-shirt nera con una stampa di Johnny Thunders e me la porse con l’invito di usarla come pigiama dal momento che non avrei potuto dormire col chiodo e i jeans. Obbedii e mi consigliò di utilizzare i servizi della stanza degli ospiti in quanto le loro condizioni erano decisamente migliori rispetto a quelle del bagno di camera sua. Siccome si poteva dire lo stesso anche della sua stanza, tremendamente impregnata di odore di chiuso e vomito, mi ritrovai costretta a insistere affinché dormisse in quella degli ospiti.

“Il letto è piccolo,” si lagnò mentre si sedeva sul suo materasso puzzolente, ma riuscii ad afferrarlo per un braccio prima che si sedesse e perdesse ogni singola forza per spostarsi.

“Chi se ne frega?” risposi mentre lo tiravo come se avessi avuto a che fare con un mulo che si rifiuta di camminare. “Se ci stringiamo un po’ ci stiamo tutti e due. Io qui non ci passo un minuto di più.”

“È pieno di polvere e acari perché non lo ha mai utilizzato nessuno.”

“Non voglio nemmeno sapere cosa c’è in questo, invece,” sbottai, e questa frase segnò la mia vittoria: ero riuscita a farlo schiodare e a portarlo nella stanza dall’altra parte della casa che, proprio come aveva detto Nikki, era ancora nuova. Non persi tempo a soffermarmi sui particolari dell’arredamento, e mi limitai a spostare la coperta e a infilarmi sotto. Rabbrividii al contatto con le lenzuola rigide e congelate ma cercai di non dimostrarlo, anche se Nikki dovette averlo capito perché bofonchiò qualcosa riguardo il fatto che aveva lasciato spento il riscaldamento nella stanza degli ospiti.

“Smettila di lamentarti e mettiti a dormire,” gli ordinai mentre mi rigiravo alla ricerca di una posizione comoda.

Lo sentii smanettare intorno alle manopole del termosifone alle mie spalle e aspettai che riuscisse ad aprire la valvola dell’acqua calda, poi mi resi conto che l’unico modo per dormire era accovacciarsi come animali che cercano di scaldarsi l’un l’altro. Spensi l’abat-jour e abbassai le palpebre mentre le lenzuola cominciavano a intiepidirsi a contatto con i nostri corpi, poi un pensiero mi trapassò la mente come un fulmine a ciel sereno.

“Merda,” esclamai ad alta voce. “Ho lasciato la motocicletta in strada.”

Nikki mi passò un braccio intorno alla vita. “L’ho spostata in giardino mentre eri in bagno. Adesso puoi anche dormire serena e smetterla di urlare visto che ho mal di testa.”

“L’hai fatto per davvero?” domandai scettica.

Nikki non rispose, ma in compenso sbuffò e appoggiò la fronte alla mia spalla prima di cadere in un sonno profondo e finalmente non tormentato.




N.D’.A.: Salve a tutti!
Seguendo la mia teoria, secondo la quale è bene far passare cinque/dieci minuti tra una materia e l’altra, ne approfitto per aggiornare, dopodiché torno ad immergermi nello studio matto e disperatissimo che mi tormenterà senza tregua fino a luglio (c’è un motivo se passo poco da queste parti).
Come sempre, grazie a chi legge in silenzio e grazie anche a chi continua ad aggiungere questo racconto tra i preferiti! ♥
Spero che il capitolo vi sia piaciuto. Voglio dire... davvero credevate che Sharon non sarebbe tornata a Van Nuys da Pasadena?
Alla prossima!

Angie


Titolo: So Alone - Johnny Thunders


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Capitolo 29
*** III.7) Expresso Love ***


7
EXPRESSO LOVE





Qualcosa mi pesava addosso e mi impediva di muovermi per raggiungere l’interruttore dell’abat-jour, l’aria era pesante e c’era il forte odore di polvere tipico delle soffitte. Passai una mano su quella strana massa che faceva pressione sul mio fianco convinta di non trovare nulla perché non sarebbe stata la prima volta in cui mi svegliavo con la sensazione di avere un peso addosso, invece sfiorai un braccio, più precisamente quello di Nikki. Mi stupii perché mi era capitato raramente di trovarlo ancora vicino a me al risveglio: solitamente si svegliava per colpa di un brutto sogno o per via del sonno troppo leggero e andava a dormire sul divano, oppure si metteva a scrivere, colto dall’ispirazione. Invece quella mattina era ancora lì, sacrificato in un angolo del letto troppo piccolo e abbracciato a me.

Il suo volto pallido era dominato da un’espressione serena, le braccia strette intorno alla mia vita e il respiro regolare di chi sta dormendo beatamente da ore senza essersi mai svegliato. Scostai alcuni ciuffi ribelli dalla sua fronte e cercai di liberarmi dal suo abbraccio senza interrompere il suo sonno, poi accesi la lampadina per avere una visuale migliore e scivolai silenziosamente fuori da sotto la coperta provocando solo un lieve lamento contrariato in Nikki, che in mia assenza preferì avvinghiarsi a un cuscino.

Varcai la soglia della camera degli ospiti in punta di piedi e attraversai il pianerottolo per raggiungere le scale. Scesi ogni gradino cercando di non farmi sentire, aiutata dal fatto di essere scalza, poi entrai in cucina e iniziai a frugare in tutti i mobili alla ricerca di qualcosa da mangiare per colazione, sperando di trovarlo per non dover andare a comprare qualcosa al supermercato. Oltre a una montagna di stoviglie accumulate nel lavandino come rifiuti in una discarica, un’intera colonia di formiche che aveva preso d’assalto un mezzo panino in un angolo del pavimento e una padella incrostata di uovo e pancetta abbandonata sul fornello, rinvenni una stecca di biscotti ancora intatta in un angolo della dispensa e anche alcune bustine di tè nero. Dovetti rovistare ancora un po’ prima di trovare anche un paio di tazze pulite, poi fu la volta del pentolino per bollire l’acqua dato che il bollitore era incrostato di calcare. Presi posto su una sedia mentre osservavo la fiammella blu ardere a contatto col metallo del pentolino che traballava sempre di più man mano il momento dell’ebollizione si avvicinava, ipnotizzata dal suo silenzioso movimento frenetico che sembrava quello di un piccolo spirito gentile. Infondeva in me un dolce senso di pace e solo il rumore di alcuni passi al piano superiore, subito seguito dallo scroscio dell’acqua, riuscì a distrarmi: Nikki doveva essersi svegliato e aver deciso di farsi una doccia per iniziare la giornata.

Riempii le tazze d’acqua e immersi una bustina in ognuna di esse, poi aprii la stecca dei biscotti e portai il tutto sul tavolo del salotto dopo averlo sgomberato da una caterva di riviste, fogli, penne e lattine vuote. Cercai anche di rendere quell’angolo della casa un po’ più adatto alla presenza umana, ma dovetti fermarmi quando sentii Nikki scendere le scale con passo più energico rispetto al giorno precedente. Apparve sui gradini con un accappatoio nero che teneva chiuso sul davanti con una mano e scese lentamente, alternando uno sbadiglio a qualche parola biascicata.

“Ben svegliato,” lo accolsi con un sorriso, poi indicai la tavola apparecchiata. “Purtroppo ho trovato solo questo. Spero che sia abbastanza.”

Nikki si grattò la nuca e mi salutò con un cenno della mano libera, lasciando andare i lembi dell’accappatoio e lasciando intravedere un fisico decisamente più denutrito di come lo ricordavo. “Tanto non mangio. Non ho molta fame. La roba me l’ha fatta passare da un pezzo.”

“Non vuoi nemmeno un biscotto?” provai a convincerlo mentre ne inzuppavo uno nel mio tè. “Bisogna che mandi giù qualcosa prima che ti veda cadere per terra.”

Fece spallucce e si sedette di fronte a me. “Non ne ho voglia. Forse più tardi mi verrà fame e mangerò qualcosa. Di solito devo far passare un po’ di tempo dopo mio risveglio.”

Mi pulii le mani della briciole profumate di cioccolato e portai le tazze in cucina per ammassarle sopra le altre stoviglie abbandonate nel lavabo, poi tornai in salotto con l’intenzione di chiedere a Nikki se aveva voglia di andare a fare un giro, ma me ne dimenticai perché solo in quel momento notai la presenza di un pianoforte a muro. Era di legno nero ed era stato relegato in un angolo del salotto, accanto a una libreria dai cui scaffali spuntavano le teste di pietra grigia di alcuni gargoyle dagli occhi rosso rubino.

“Sai suonarlo?” gli chiesi stupefatta. Nikki rispose con un indefinito movimento del capo.

“Diciamo che ci sto provando,” ammise senza perdere la sua espressione spavalda. “Se vuoi puoi suonare qualcosa. Fino a ora non ha mai morso nessuno.”

“Vuoi che ti insegni qualcosa? Dovrei ricordarmi ancora come si fa anche se sono anni che non metto le mani su un pianoforte,” proposi mentre mi avvicinavo.

“Potrebbe essere un’idea,” approvò Nikki, scettico, poi si alzò e mi precedette nel prendere posto sul panchetto dello stesso materiale dello strumento. Appoggiò le lunghe dita sui tasti e aspettò che gli dicessi come posizionarle prima di tentare di suonare un accordo.

“Mi metto qui vicino così puoi seguire meglio,” dissi mentre mi sedevo accanto a lui, poi formai il primo accordo che mi venne in mente e lo suonai. La nota riecheggiò perfetta e solitaria in tutta la villa e sembrò correre su per le scale, insinuarsi in ogni stanza e ritornare ad avvolgerci.

Sollevai le dita per permettere a Nikki di compiere lo stesso gesto e, siccome si era già dimenticato quali tasti avrebbe dovuto toccare, presi la sua mano per correggerne la postura sulla tastiera.

“Non essere così rigido e rilassa le mani, poi suona tutti i tasti contemporaneamente,” gli suggerii. Ogni mio polpastrello sfiorava il rispettivo dorso delle sue dita, e il lieve contatto aveva iniziato a incidere notevolmente sulla frequenza del mio battito cardiaco.

Nikki mi lanciò un’occhiata di sfida e obbedì, finendo col produrre un accordo perfetto che riuscì a strappargli un sorriso con la bellezza della sua armonia.

“Proprio così,” sussurrai per non disturbare quel suono piacevole. “Adesso prova anche questo.”

Portai nuovamente una mano sulla tastiera, ma quando feci per esercitare pressione lui mi costrinse a fermarmi posizionando le sue dita sopra le mie proprio come avevo fatto poco prima. I suoi polpastrelli resi ruvidi dalle corde del basso si mossero appena sulla mia pelle, scivolarono fino al dorso e si insinuarono negli spazi tra le dita, racchiudendo la mia mano nella sua. Voltai lentamente il capo ancora sorpresa da quel contatto inaspettato e incrociai il suo sguardo freddo.

“Nikki, cosa–” mi zittì con un gesto impercettibile prima di liberare la mia mano per portare l’altra sulla mia spalla. Mi tirò piano a sé e, quando ebbi appoggiato il capo sul suo petto, mi accarezzò i capelli, beandosi del contatto con la mia chioma vaporosa.

Non proferimmo parola per diversi minuti e ci limitammo a restare immobili in quella posizione, seduti davanti ad un pianoforte nero, ginocchio contro ginocchio. Sentivo il suo cuore battere sotto lo sterno e le sue dita massaggiavano i miei capelli con dedizione. Mi ricordava quando abitavamo insieme nel nostro appartamento fatiscente a West Hollywood e non sapevamo cosa fare. Nei pomeriggi d’estate finivamo sempre per sdraiarci sul letto col ventilatore puntato addosso per alleviare l’afa e lui si divertiva a infastidirmi, arricciandomi alcune ciocche di capelli e toccandoli in quel modo. Ricordavo la luce quasi abbagliante del sole alto nel cielo del primo pomeriggio che entrava dalla finestra e noi, che non avevamo voglia di faticare per abbassare le veneziane, ci giravamo a pancia in giù e premevamo il viso sul cuscino, condannandoci a restare fermi in quella posizione a bollire in una pozza di sudore – eppure eravamo contenti lo stesso. Adesso invece faceva freddo, stavamo congelando nel salotto della sua villa e non eravamo per niente felici. Senz’altro ci faceva piacere essere l’uno di fianco all’altra, ma non potevamo dire di essere felici. Non si sentiva il rumore delle automobili ferme sul viale né gli schiamazzi dei ragazzini che giocavano a tirarsi i gavettoni nel cortile della palazzina, ma solo il silenzio del giardino fitto e incolto che circondava la casa.

Tutti quei ricordi mi stavano incasinando il cervello e mi avevano stretto il cuore in una morsa atroce perché erano solo delle vaghe ombre di un passato che non sarebbe mai più ritornato ma che, se proprio lo avessi desiderato, avrei potuto rivivere compiendo un gesto che mi sarebbe sicuramente costato caro.

Me ne fregai. Mi sollevai appena dallo sgabello del pianoforte, mi sottrassi alla mano di Nikki e mi sporsi verso di lui per prendere ciò di cui avevo bisogno. Un bacio. Solo uno. Non qualcosa di romantico, ma di affamato e disperato che non aspettava altro che essere saziato – e Nikki sembrava aver colto la richiesta. Le mie labbra morbide fremettero al contatto con le sue, aride e pallide, la mia lingua ne ridisegnava il contorno screpolato, famelica. Non respiravo più, avevo posto tutta la mia concentrazione su quel gesto vitale che riportò alla memoria di entrambi quegli attimi che avevamo trascorso chiusi nell’ascensore della mia palazzina a West Hollywood prima di intrufolaci in casa.

Quando mi staccai da lui, costretta a farlo dopo che avevo iniziato ad aver bisogno di riprendere a respirare, Nikki mi fermò prima che potessi alzarmi per sfuggire dalla sua vista, imbarazzata per aver compiuto quell’azione impulsiva. Credevo di averlo infastidito sebbene non fosse la prima volta, ma questa mia paura fu smentita da lui stesso quando mi pregò di non andarmene. Mi circondò la vita con le braccia e mi tirò a sé, costringendomi a sedermi sulle sue ginocchia, con la schiena contro la tastiera del pianoforte. Sentii le sue mani scivolare sotto il tessuto leggero della T-shirt che mi aveva prestato, correre lungo la schiena e stringermi, allora anch’io decisi che era giunto il momento di spingersi oltre dopo tanto tempo. Cercai di sfilargli l’accappatoio, ma mi riuscì impossibile perché Nikki non voleva proprio saperne di staccare le mani dalla mia pelle per collaborare, così mi ritrovai costretta ad abbassarlo fino a metà braccia, lasciando scoperte le spalle, alle quali mi aggrappai come se fossero state un solido scoglio in un mare in tempesta. Lo lasciai andare solo per potermi sfilare la maglietta, che venne abbandonata sul pavimento, e chiusi il coperchio sopra la tastiera per poterci appoggiare i gomiti, una mossa con la quale intendevo far capire a Nikki che adesso poteva finalmente avermi. Lui, però, anziché reagire come avrebbe fatto in una qualsiasi altra circostanza, ovvero accettando il mio invito, rimase imbambolato a guardarmi quasi con rancore, come se si fosse ritrovato davanti a qualcosa che non avrebbe mai potuto ottenere.

“Nikki?” lo chiamai mentre stringevo le gambe intorno al suo busto per il timore che potesse sfuggirmi un’altra volta.

Lui scosse il capo e mi porse la T-shirt che aveva raccolto da terra.

“Scusa, Sharon, ma non posso farlo,” mormorò prima di liberarsi di me con un gesto fin troppo gentile per uno come lui.

Adesso quella perplessa ero io, che me ne stavo seduta sul panchetto del pianoforte con la maglietta stretta sul petto per coprirmi, imbarazzata e intenta a guardarlo mentre si allontanava a passo spedito aggiustandosi l’accappatoio sulle spalle. Mi infilai la T-shirt in fretta e scattai in piedi per attraversare quel salotto messo a soqquadro e raggiungerlo in cucina, dove si era seduto su una sedia e teneva le braccia incrociate e lo sguardo fisso sul piede che batteva sul pavimento.

“Va tutto bene?” domandai. “Non volevo fare niente di male, anche perché credevo che anche tu volessi–”

“Non hai assolutamente fatto nulla di male, Sherry,” mi rassicurò. “Sono io che non posso farlo. Pensaci: come può una persona come me approfittare di una ragazza come te? Se tu fossi stata una di quelle tipe che fino a un paio di mesi fa Tommy mi portava a casa per fare baldoria allora mi sarei lasciato andare, ma sei tu, e se anche solo penso a quello che stava per succedere mi sembra di averti fatto un torto.”

Gli circondai le spalle da dietro e appoggiai una guancia contro la sua. “Tu non hai niente di sporco o cattivo.”

Fece una risata sarcastica. “Dici? Un tossico che vive nella sua casa sommerso dal suo armamentario non è una brutta visione?”

“Più che brutta è triste,” dissi mentre cercavo di trasmettergli tutto il mio calore con un semplice abbraccio.

“E fa anche schifo,” continuò come se non avessi parlato, poi allungò un braccio per prendere un lembo della mia maglietta e tirarmi di nuovo in braccio a lui. “Nonostante tutto, tu sei qui. Ancora non riesco a trovare una spiegazione, o meglio, non riesco a distinguere la risposta esatta tra queste: sei pazza o hai qualche obiettivo nascosto?”

“Nessuna delle due,” obiettai. “Però posso dirti che il motivo è lo stesso per cui tu non mi hai cacciata da casa tua come avresti fatto con qualunque altra persona.”

Nikki sollevò il capo e i suoi occhi chiari sembrarono riacquistare luminosità. “Non puoi saperlo.”

“Siamo stati fin troppo bravi e idioti a tacere,” iniziai senza sostenere il suo sguardo ansioso di sapere se condividevamo veramente la stessa opinione. “Non so cosa ci abbia portato a farlo, forse il timore di rovinare una bella amicizia, ma sappiamo entrambi che la nostra non è un’amicizia normale.”

“No, infatti,” asserì Nikki, ora con lo sguardo chino sulle piastrelle di cotto del pavimento.

“Due amici normali non si comportano come noi,” continuai. “E a me è sempre dispiaciuto doverti definire un amico, ma l’ho fatto perché mi sembrava che così avrei potuto tenere a freno l’amore che provo per te e di cui ho sempre avuto paura. Purtroppo è servito ad accrescerlo e basta perché più una cosa è irraggiungibile, più ci attira.”

Smise di respirare per la sorpresa e tornò a fissarmi, stavolta aveva gli occhi sgranati e le labbra socchiuse come se avesse voluto dire qualcosa e non ci stesse riuscendo, finché non proferì una sola ma efficace parola con il fiato corto. “L’... amore?”

Annuii. “Non ci ho mai creduto perché mi è sempre sembrato assurdo, e forse lo è. Eppure nessuno sembra riuscire a farne a meno.”

“Tutti ne abbiamo bisogno, indipendentemente dalla sua natura,” mormorò. “Io non ne ho mai sperimentato tanto, anzi, forse so giusto cos’è quello di un amico perché, grazie a Dio, sempre ammesso che esista, un giorno quello stronzo di T-Bone è entrato a far parte della mia vita.”

“Sai, si può avere paura delle novità, ma se non si affrontano alla fine si rimane sempre chiusi nel proprio mondo e si vive sotto una campana di vetro. Io ci sto vivendo troppo, e anche tu.”

Nikki aggrottò le sopracciglia. “E con questo?”

“Prova,” dissi tutto d’un fiato. “Da’ una svolta alla tua vita e provaci.”

“Eh?” fece, sempre più stranito.

“Cazzo, Sixx,” sbuffai, consapevole del fatto che avesse capito tutto alla perfezione e che stesse solo temporeggiando, poi presi il suo viso pallido tra le mani in modo che mi guardasse in faccia. “Adesso che ci siamo finalmente ritrovati dopo tanto tempo, prometti che non ce ne andremo più. Resta con me.”

Non gli lasciai nemmeno il tempo di realizzare e gli diedi un altro bacio, stavolta più vero e appassionato del precedente, e non fui l’unica a percepirlo.

A Nikki sfuggì un sorriso autentico, uno di quelli capaci di illuminare la cucina cupa e disordinata. “Potrei provarci. Tu intanto fa’ una cosa: prendi le chiavi di questo postaccio, sono sopra la mensola accanto alla porta. Così potrai venire a trovarmi ogni volta che vuoi.”

E anche per accertarmi che stesse bene, aggiunsi mentalmente.





N.D’.A.: Salve!
Questo è il mio capitolo preferito in assoluto. Ricordo di aver impiegato parecchio tempo per completarlo e, ogni volta che lo rileggo, mi sciolgo, di conseguenza ci sono particolarmente legata. Spero che sia piaciuto anche a voi!
Dunque, siccome non potrò pubblicare dal PC per un po’ di tempo, mi tocca farlo dal tablet. L’applicazione che utilizzo per scrivere non ha il correttore, di conseguenza potrebbe capitare che troviate errori di battitura o che il testo non sia impaginato bene, dato che non è poi così comodo scrivere da qui. Farò del mio meglio affinché non capiti, ma se dovesse esserci qualcosa che non va, sentitevi liberi di segnalarlo.
Detto ciò, ringrazio chi mi segue e chi lascia recensioni! ❤️
Aspetto il vostro parere. E, come al solito, ci si rilegge presto!
Glam kisses,

Angie


Titolo: Expresso Love - Dire Straits


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Capitolo 30
*** III.8) Live Wire ***


8
LIVE WIRE





Slash mi aveva invitata a un live del suo gruppo in uno dei più celebri locali di Hollywood e io ero stata ben felice di accettare. Slash aveva implorato il proprietario di riservare per me e la mia band un’area del soppalco per gli ospiti speciali perché sapeva che avremmo rischiato di essere sommersi dai fan. Il padrone del locale, seppur con qualche sbuffo, aveva acconsentito a patto che accettassimo di condividere quella parte esclusiva con i Mötley Crüe, anche loro invitati al concerto dei Guns N’ Roses. Quella felice avrei dovuto essere io, invece Steven fu il primo a saltare in aria, tutto contento perché erano mesi che non ci incontravamo tutti insieme e sperava di convincerli a suonare con noi. A quanto pareva, aveva dimenticato le condizioni di ognuno di loro.

Fummo i primi ad arrivare e occupammo uno dei due tavoli che erano stati messi a nostra disposizione e Jamie, estatico come non lo avevo ancora visto, si affacciò alla balconata spalancando i grandi occhi. “Oh, cazzo, belli! Fino a un anno fa ero tra i comuni mortali laggiù e adesso sono qui col mio gruppo. Però devo ammettere che pagherei oro per poter tornare giù a pogare con la gente esaltata. Qui non c’è tutto quel gusto.”

“Almeno tu potevi permetterti di farlo,” ribattei divertita. “Io ho sempre rischiato di essere schiacciata come se stessi attraversando una mandria di bufali in fuga.”

Jamie ghignò e traballò fino alla sua sedia, sulla quale si accasciò in attesa dell’arrivo di una cameriera alla quale comandare un paio di birre alla spina tutte per sé.

Proprio quando arrivarono i due boccali pieni e con una schiuma perfetta, fecero il loro glorioso ingresso anche i Santi di Los Angeles. Ci accorgemmo del loro arrivo perché qualcuno, presumibilmente Tommy Lee, lanciò un ululato in mezzo alle scale, subito seguito da una risata argentina.

Steven spalancò gli occhi e diede di gomito a Jamie. “Preparati, ragazzo. Stasera si fa casino. Con quei quattro nei paraggi, non c’è rischio di annoiarsi. Vedrai quante ragazze gironzoleranno in questa stanza!”

Rita incrociò le braccia sul petto e bofonchiò. “Peccato che di tipi interessanti non se ne vedano quasi mai, eh, Sharon?”

“Cerchi dei tipi interessanti, bambola?” squillò una voce fin troppo familiare e fastidiosa facendoci voltare tutti verso la porta.

Là sulla soglia, con un ghigno da marpione stampato sul viso abbronzato, Vince Neil ci guardava come se non fossero veramente passati mesi dall’ultima volta in cui ci eravamo rivolti la parola.

“Di sicuro non parlavo di te,” lo zittì immediatamente Rita, che non era mai stata particolarmente attratta da lui – cosa che, tra l’altro, a Vince stesso non era mai andata a genio.

Vince si dimostrò superiore come era solito fare e, con la sua inconfondibile camminata da diva viziata, avanzò verso di noi sostenendo una paglia tra l’indice e il medio con uno stile invidiabile.

“Vi trovo bene, ragazzi, davvero molto bene,” sentenziò, poi fece un tiro portentoso dalla sigaretta e spostò lo sguardo furbo su Jamie. “Tu sei il nuovo acquisto, vero? Sai, un po’ di tempo fa ho visto un vostro concerto e devo dire che ci sai fare, amico. Piacere di conoscerti.”

Jamie fece per stringergli la mano avvolta in un guanto di pelle nera, ma Vince la ritrasse immediatamente, dopodiché prese posto all’altro tavolo e piazzò un piede sulla sedia.

Un altro verso squarciò l’aria e una lattina vagante attraversò la stanza volando. Non c’era segno più evidente: i Terror Twins stavano arrivando. La porta si spalancò e Tommy entrò a grandi passi, ognuno dei quali doveva essere due dei miei, fece un largo sorriso a tutti, ci salutò con un cenno della mano come un moccioso del parco che vuole chiederti di giocare con lui, infine si voltò per controllare che anche il suo compagno di giochi lo stesse per raggiungere. Come previsto, Nikki fece il suo ingresso col suo consueto portamento strafottente e mi salutò con un velocissimo cenno delle sopracciglia, in buona parte nascoste dalla frangia gonfia. Eravamo d’accordo che non avremmo lasciato trasparire nessun sentimento di troppo per non turbare i nostri compagni di band, tutti allergici ad argomenti di questo genere. Soprattutto, volevamo evitare che notizie condite con la fantasia dei giornalisti iniziassero a circolare subito.

Poco dopo ci raggiunse il pezzo mancante del quartetto terribile: il silenzioso e misterioso Mick Mars – o un suo sosia, perché quello non poteva essere veramente lui. Sebbene non lo vedessi da molto tempo, non lo ricordavo così gonfio e imbronciato. Ma io, che sapevo bene che quel gonfiore era dovuto al consumo eccessivo di alcol, cercai di non mostrarmi troppo sorpresa per evitare di metterlo in imbarazzo dal momento che sembrava sentirsi già abbastanza fuori posto per il semplice fatto di condividere la stessa stanza con i suoi tre colleghi e noi quattro.

Osservai i Terror Twins lasciarsi cadere sulle sedie e sbattere i piedi sul tavolo, facendolo sobbalzare sotto il gomito di Vince, che si lamentò gracchiando contro il loro essere invadenti. Mick gli diede ragione con un flebile filo di voce, ma l’enorme mano di Tommy lo mise a tacere scompigliando la criniera corvina e arruffata che si ritrovava.

“Ehi!” chiamò T-Bone ad alta voce e battendo un pugno sul tavolo di metallo. “C’è una cameriera che mi porti da bere? Che non salti fuori che quassù nessuno ci considera perché siamo isolati dal resto del mondo!”

Con la stessa prontezza e devozione di un cagnolino che obbedisce al padrone, una ragazza in minigonna e con la chioma decolorata si fiondò all’interno della stanza con un vassoio. Si fermò accanto a lui traballando sui tacchi a spillo e lasciandosi sfuggire continui sospiri, ripose un paio di bottiglie di Jack Daniel’s e un paio di birre sul tavolo, poi sfarfallò le lunghe ciglia nere e palesemente finte, proprio come i capelli troppo chiari.

“Se avete bisogno, sono a vostra completa disposizione!” cinguettò rimarcando sull’ambiguità voluta della sua frase, ma prima che potesse andarsene si ritrovò stretta tra le grinfie di Vince.

“La baldoria sta per cominciare,” mormorò Steven a Jamie, sul cui volto ancora troppo infantile spuntò un sorrisone che la diceva lunga sul suo conto e sui suoi programmi per la serata.

Come volevasi dimostrare, un attimo dopo fecero il loro ingresso altre ragzze pronte a ronzare intorno al tavolo degli altri, e cosa pensate che abbiano fatto Steve e Jamie? Con gli occhi fuori dalla testa e la lingua che strisciava sul pavimento sudicio dello stanzino, trascinarono le loro sedie vicino all’altro tavolo e decisero di prendere parte a quella specie di festino dal quale, ovviamente, Rita e io eravamo state escluse.

“Almeno noi sapremo cosa dire a Slash quando ci chiederà cosa pensiamo del concerto,” si lamentò la batterista, sempre più stizzita.
Io non dissi nulla e mi limitai a seguire il live, cercando di non fare troppo caso a quello che stava accadendo al tavolo di fianco al nostro. La situazione sarebbe stata decisamente più insopportabile se avesse coinvolto anche Nikki, che aveva ceduto la sua sedia a Tommy in modo che potesse spaparanzarsi liberamente e si era spostato vicino a me. Restò zitto e immobile per una decina di minuti, dopodiché schizzò in piedi e iniziò a lamentarsi per il caldo, la confusione della folla e il volume a suo parere troppo basso. Si preoccupò di riporre la sedia sotto il tavolo prima di varcare la soglia e sparire di corsa con la scusa di andare fuori a prendere una boccata d’aria. Io non avevo alcun dubbio riguardo ciò che andato a fare, e Rita mi dimostrò tutto il suo dispiacere con un’occhiata più che eloquente.

“Non so come fare con lui. La situazione sta diventando ingestibile,” confessai all’unica che sapeva tutta la vicenda per filo e per segno.

Rita sospirò e si ravvivò i capelli. “Spero proprio che tu riesca a convincerlo a smetterla, anche se sappiamo entrambe quanto sia difficile.”

Annuii col capo chino poi, approfittando del fatto che tutti fossero ubriachi o estremamente concentrati sulle tipe, abbandonai la stanza per andare a cercare Nikki. Mi lasciai alle spalle quella specie di bordello organizzato su due piedi in un angolo del soppalco di un locale di Hollywood e sopra a una folla tumultuosa di ragazzi stregati dalla musica dei Guns N’ Roses, pensai alla povera Rita che era rimasta da sola con quei pervertiti all’opera, e mi inoltrai nel corridoio stretto e illuminato da flebili luci gialle che si riflettevano sul tappeto di finto velluto rosso. Entrai direttamente nel bagno degli uomini convinta di trovarlo lì, ma ottenni solo una pessima figura: bussai contro la porta della toilette con un certo impeto e, quando il tipo che si era chiuso dentro mise fuori la testa per vedere chi fosse quel pazzo che a momenti spaccava tutto, tirò su col naso e mi squadrò dalla testa ai piedi.

“Ehi, bellezza, hai sbagliato cesso oppure cerchi un po’ di compagnia?” domandò con la voce alterata da qualche drink di troppo. Gli chiusi la porta in faccia con tutta la forza che avevo e lo rispedii all’interno della toilette.

“Ma vattene a ‘fanculo, idiota,” biascicai in risposta.

Tornai fuori e percorsi il corridoio fino all’angolo pensando che forse avrei trovato Nikki in fondo alla scala d’emergenza, nascosto nell’oscurità del vicolo in compagnia di tutto il suo armamentario letale, ma non trovai che quattro tizi che litigavano. Presa dallo sconforto, decisi di tornare a controllare dentro. Chiusi la porta nera che portava alle scale di metallo e, prima ancora che mi girassi, sentii un paio di braccia cingermi la vita in un abbraccio quasi affettuoso. Stavo per tirare un sospiro di sollievo, felice di averlo ritrovato, ma quando la stretta diventò più famelica e mi accorsi che le mani che adesso erano appoggiate sulla mia pancia erano decisamente più piccole e sottili e avvolte in un paio di guanti di pelle nera, quasi rabbrividii.

“Allora, Sharon, volevi scappare da noi?” domandò quella voce che conoscevo fin troppo bene.

“Lasciami andare, Vince,” ordinai con fermezza. “Sei ubriaco fradicio. Torna dagli altri.”

“Non se ne parla. Io da quelli non ci torno neanche se mi pagano,” ribatté. “Steven e Jamie sono così presi dalle ragazze che ormai non si ricordano più dove sono, Tommy ha fatto fuori tutta la coca che si era portato dietro e Mick si è addormentato sul tavolo di Rita. Avresti dovuto esserci: ha appoggiato la testa, l’ha insultata senza alcun motivo, poi è crollato.”

“Bene,” tagliai corto. “Ma questo non mi sembra un buon motivo per starmi così attaccato. Mollami subito, Neil, prima che mi liberi da sola.”

La nuvola pestilenziale del suo fiato puzzolente di Jack avvolse il mio volto. “Il live è quasi finito. Tu cosa fai dopo?”

“Vado a casa,” buttai lì, anche se in realtà avevo in programma di andare a Van Nuys da Nikki, ma non potevo certo dirglielo dal momento che l’unico che sapeva cosa stava accadendo era Tommy.

Le braccia di Vince si strinsero ancora di più intorno alla mia vita. “Se vuoi ti do un passaggio. Ovviamente ti porto dove voglio io e, fidati, posso anche portarti sulle stelle a velocità supersonica.”

“Lasciami andare,” ringhiai, stavolta più cattiva, ma Vince non sembrava aver intenzione di smetterla.

“Su, su, su fino alle stelle! Così in alto che non vorrai più tornare giù,” biascicò lascivo. Nel frattempo la sua manina viscida aveva iniziato a tormentare un lembo della mia maglietta.

“Non mi interessano le tue stronzate,” esclamai ad alta voce sperando che qualcuno mi sentisse. “Adesso fammi andare via.”

Per il solo gusto di agire nella maniera esattamente opposta a ciò che gli avevo ordinato, Vince smise di indugiare sull’orlo della mia T-shirt e infilò quella dannata mano sotto la stoffa nera e lucida. “Tu non sai quante volte ho pensato a te.”

“Io invece a te non ci penso proprio mai,” ribattei mentre cercavo di allargare le braccia per liberarmi da quella morsa opprimente e fetida di whisky.

“Certo che no,” mi diede ragione Vince, e un attimo dopo cercò di trascinarmi via quasi sollevandomi di peso. “Adesso però vieni con me. So che in fondo lo vuoi e, soprattutto.”

Cercai di rifilargli un calcio nella tibia con la speranza che il dolore lo distraesse, ma non ci riuscii, e siccome mi era impedito ogni movimento, compreso quello di tirargli un colpo nelle palle con la punta dello stivale, iniziai a gridare, ma lui fu abbastanza veloce da zittirmi: appoggiò le labbra sulle mie spingendosi ben oltre a un semplice contatto. Vince voltò l’angolo traballando e fu proprio in quel momento un paio di mani forti e pallide mi acchiapparono per le braccia e iniziarono a tirarmi. Sollevai lo sguardo e riconobbi il viso Nikki, sorprendentemente ancora sobrio, contorto in un’espressione furiosa.

“Fottuto idiota, lasciala andare!” gli urlò in faccia obbligandolo a lasciarmi andare per lo spavento, poi si rivolse verso di me e mi fissò con lo sguardo colmo di astio. “Non so cosa pensare di te, Sharon. Credevo fossimo–” si zittì all’improvviso e si morse il labbro inferiore scuotendo il capo in maniera convulsa. “Lascia perdere, non importa.”

Detto questo, girò sui tacchi e si allontanò a passo sostenuto.

Vince aveva assistito alla scena e sembrava aver riacquistato una buona parte della lucidità in un nanosecondo. “Ma... tu e lui... ma veramente?”

“Taci, Neil,” sibilai spintonandolo, e ci mancò poco che perdesse l’equilibrio e cadesse col culo sul pavimento. “Se anche lo avessi saputo ci avresti provato lo stesso. Renditi utile e fa’ una cosa: va’ da Rita e dille che sto tornando a casa.”

Non persi tempo ad ascoltare le lamentele che seguirono la mia richiesta e corsi verso l’uscita per inseguire Nikki. Quando lo vidi stava per salire in macchina e fui abbastanza veloce da raggiungerlo e impedirgli di mettersi alla guida in quello stato pietoso. Stava per entrare in astinenza e non era il caso che guidasse una Corvette sparata ai centocinquata per la freeway, così mi sedetti al posto di guida e lo costrinsi a lasciarmi tenere il volante così che potessi portarlo a casa e spiegargli con più calma che era tutto un malinteso.

“Perché proprio con Vince, cazzo?” si lamentò mentre sfrecciavo per la strada. “Forse io non sono quello che cerchi e bastava che me lo dicessi, però perché proprio lui?”

Mi voltai verso di lui senza dire nulla, concentrandomi solo su quel viso imbrattato di fondotinta per ridonargli un colorito normale, ora contorto dai primi sintomi dell’astinenza.





N.D’.A.: Buonasera!
Questo era solo un capitolo di passaggio in cui non accade nulla di particolare, ma spero che vi sia piaciuto lo stesso! Chiedo solo scusa per quel Vince impiccione, ma ci stava bene e ho deciso di lasciarlo agire. L’importante è che sia arrivato Nikki, o no?
Bene... come sempre, ringrazio chi legge e chi mi segue! ❤️
Ci si rilegge presto!
Kisses,

Angie


Titolo: Live Wire - Mötley Crüe


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Capitolo 31
*** III.9) Heroin ***


9
HEROIN





La Corvette nera sfrecciava lungo la 101, il rumore continuo degli pneumatici ricordava il suono di un fiume in piena, e Nikki emetteva una specie di lamento straziante simile a un pianto sommesso. Aveva appoggiato la testa al sedile e si era coperto il viso con le mani quando eravamo partiti da Hollywood, e adesso era ancora immobile nella stessa posizione. Non parlava né si muoveva, ma si limitava a farfugliare parole incomprensibili contro i palmi sudati. Per evitare ulteriori noie mentre guidavo, non gli posi domande finché non entrammo nel cortile della sua casa e mi ritrovai costretta a doverlo trascinare giù dalla vettura.

“Scendi,” ordinai dopo aver spalancato la portiera. Nikki mi guardò di sbieco e scese dall’automobile traballando, ma si fermò non appena riuscì a raggiungere il muro esterno della casa.

“Mi viene da vomitare. Non avresti dovuto guidare così in fretta,” disse con la voce impastata.

“Vieni, hai bisogno di riposarti,” gli ordinai mentre cercavo di convincerlo a entrare in casa e, anche se non sembrava della mia stessa opinione, mi seguì dopo aver lanciato qualche altra imprecazione. Varcammo la soglia abbracciati perché ce la stavo mettendo tutta per sostenerlo sebbene fosse due volte più grande di me, barcollammo fino alle scale e salimmo lentamente ogni gradino fino a raggiungere la sua stanza, dove speravo si addormentasse e si tranquillizzasse.

“Giuro che se mi accorgo che quella puttana di Vince ti ronza ancora intorno come ha fatto stasera al locale, gliele suono,” brontolò mentre rovistava in un cassetto alla ricerca di qualcosa da indossare per andare a dormire.

“Avrei voluto suonargliele io. Però sono convinta che se avesse saputo di noi, non ci avrebbe provato. Ora che lo sa, sicuramente terrà le mani a posto,” cercai di giustificarlo per la pace comune, ma in realtà volevo solo tornare a Hollywood, acciuffarlo per il colletto aperto della camicia di lamé e dargliene così tante che non si sarebbe più azzardato ad avvicinarsi.

Nikki chiuse il cassetto con un colpo del tacco dello stivale e si cacciò una T-shirt blu scuro su una spalla. “Senti, ma tu ci vuoi veramente stare con me?”

“Ma che cazzo di domande fai?” ripetei stupita e offesa allo stesso tempo. “Spero non pensi veramente che mi abbia fatto piacere avere Vince attaccato in quel modo!”

“Forse non Vince, ma qualcun altro sì,” proseguì imperterrito mentre si cambiava.

Battei un pugno sul materasso per dare sfogo alla rabbia che provavo tutte le volte in cui lo sentivo ragionare in quel modo assurdo e perfido. “Se ho deciso di stare con te non è perché mi fa comodo, ma perché ti voglio bene. Se non fosse così mi limiterei a passare a trovarti quando ho tempo, e sai benissimo che ultimamente ne ho davvero poco.”

Nikki si lasciò sfuggire una risata sarcastica e mi passò una mano tra i capelli.

“Sai, Sherry, una parte di me non ti sopporta perché mi impedisci di continuare con la droga, ma l’altra ti ama così tanto che vorrebbe chiederti di andartene per evitare di vederti sprofondare con me. Quelli come me non portano mai niente di buono,” la mano si spostò lungo la tempia fin sotto al mento, obbligandomi a volgere lo sguardo verso di lui. “Però ho bisogno sia dell’eroina che di te, e non sono sicuro che riuscirò a scegliere solo una delle due. Adesso scusami, ma sarà meglio che vada a farmi una doccia.”

Lasciò andare delicatamente il mio viso e mi posò un bacio sulla fronte prima di sparire dietro la porta del bagno. Sentii il rumore della chiave che girava due volte nella toppa poi, invece dello scroscio dell’acqua che riempiva la vasca, udii quello di qualcuno che rovistava nei mobili facendo cadere per terra oggetti di ogni tipo che rimbalzavano e rotolavano sulle piastrelle.

Mi alzai dal letto e bussai con forza. “Cosa stai facendo lì dentro?”

“Niente,” rispose Nikki con il fiatone, come se avesse corso sotto il sole cocente.

“Puoi aprire la porta?” lo invitai mantenendo i nervi saldi, ma quando mi ricordai che le porte delle stanze si potevano aprire con la stessa chiave, sfilai quella della porta della camera ed entrai. Proprio come sospettavo, lo trovai intento a frugare dentro tutti i mobili alla ricerca di una dose. Ai suoi piedi c’erano un’infinità di scatole di medicinali e confezioni di cosmetici rotte o rovinate in seguito alla caduta dai ripiani più alti, ma della sua amata eroina, grazie al cielo, non c’era traccia.

Nikki si voltò di scatto e mi fissò con gli occhi spalancati, lucidi e terrorizzati. “Se non trovo una dose vado in astinenza. Mi serve, ma non ricordo dove l’ho nascosta.”

Si diresse verso l’uscita con un solo lungo passo, ma gli impedii di passare. “Stasera fai senza.”

“Ho già passato più tempo del solito senza farmi, non puoi pretendere che non tocchi neanche un granello di coca. Fammi passare, per favore,” provò a smuovermi con le buone, ma quando si rese conto che se solo avessi potuto lo avrei segregato in un bunker da cui lo avrei lasciato uscire solo una volta che si fosse ripulito, mi sollevò di peso facendo ben poca fatica. Ignorò la mia voce che gli ordinava di restare e scese le scale di corsa, con me dietro che continuavo a chiamarlo. Correvo anch’io, rischiando di scivolare su una delle tante cose che costellavano il pavimento e di finire contro uno di quei dannati gargoyle che spuntavano da ogni cantone, ma appena riuscii a raggiungerlo, lo afferrai per un braccio.

“Ascoltami, cerca di ragionare,” iniziai, pur sapendo che in quelle condizioni non ci avrebbe nemmeno provato. “Trova un altro modo, possibilmente che non ti danneggi, e calmati, ma non prendere niente.”

Le sue dita tremanti tornarono a sfiorare la pelle della mia guancia sinistra. “Lo sai che non posso farne a meno. Ti prometto che da domani comincerò a comportarmi bene, ma oggi proprio non è il momento adatto.”

Gli angoli dei miei occhi cominciarono a bruciare tremendamente. “Non è vero, e lo sai. Ogni giorno mi ripeterai questa frase e non smetterai mai, ma non puoi continuare così per sempre.”

“Mi serve, Sharon. Se non la prendo sto male e se la prendo sto male lo stesso. Lei è la mia cura e il mio veleno allo stesso tempo,” mormorò Nikki con la fronte appoggiata contro la mia. “Vorrei chiederti di scappare da qui perché non voglio che tu cada con me in questo vortice senza fine, però non ne ho il coraggio. Se tu te ne andassi so che vorrei riaverti qui. Vedi, Sherry? Vedi che la mia vita è costellata da dubbi che non so risolvere?”

Gli circondai il collo con le braccia come se così avessi potuto tenerlo per sempre con me. “Non andare.”

Un sorriso malinconico si dipinse sul suo viso pallido.

Devo andare,” quasi ringhiò quelle due parole per la rabbia, poi premette appena di più la fronte contro la mia. “Ti amo, non scordartelo.”

Sparì al piano superiore lasciandomi con le spalle contro il muro freddo della sala, da sola con la polvere e gli sguardi di pietra delle statue gotiche, terribilmente scossa da quelle due parole che non ci eravamo mai detti in tutta la nostra vita.

Mi amava.

Gli occhi bruciavano sempre di più e all’improvviso i contorni dei mobili diventarono più indefiniti e la luce più tenue, poi le lacrime cominciarono a solcare copiose le mie guance, provocandomi dei fremiti quando scivolavano lungo le parti che Nikki aveva sfiorato. Mi stropicciai gli occhi con i palmi sbavando il trucco, poi mi lasciai cadere sul pavimento, pervasa da un forte senso di impotenza. Lo amavo anch’io e mi sembrava che, se non avessi trovato una soluzione a quel maledetto problema, non lo avrei mai amato abbastanza, ma ero consapevole che stavo già facendo più di quello che avrei dovuto.

Stavo per alzarmi per andare da Nikki anche a costo di lottare contro di lui quando qualcuno riuscì ad aprire il portone principale. Rischiai un colpo al cuore perché per un attimo pensai che fossero dei ladri, ma quando riconobbi una sagoma alta e magra capii che mi stavo sbagliando. Sentii Tommy lamentarsi per il cattivo odore che ristagnava nel salotto come se fosse stato un lazzaretto, poi sobbalzò non appena si accorse della presenza di una ragazza singhiozzante accovacciata in un angolo.

“Come hai fatto a entrare?” gli domandai, e solo allora mi riconobbe.

“Sharon!” esclamò Tommy, sollevato dopo un lungo sospiro liberatorio. “Credevo fossi Vanity. Comunque ho le chiavi, Sixx me ne ha lasciato una copia perché dice che possono sempre essere utili, tranne quando entrerò e lo troverò steso per terra. A volte sa essere proprio un fottuto stronzo, vero?”

Annuii debolmente e Tommy si avvicinò a me dopo aver chiuso la porta sbattendola.

“Ehi, bella, perché stai piangendo?”

Si abbassò alla mia altezza e ne approfittai per gettargli le braccia al collo per sentire un contatto rassicurante. “Prima al locale ha sgamato Vince che mi metteva le mani addosso. Ti giuro che ho cercato di difendermi, ma quando Nikki ci ha visti si è fatto mille viaggi mentali ed era così sconvolto che ho dovuto guidare la sua auto per riportarlo fin qui. Adesso è di sopra che cerca disperatamente la sua roba perché sta per andare in crisi di astinenza. Dio solo sa quanto vorrei che non la trovasse mai.”

“Noi possiamo solo cercare di tenerlo lontano da quella merda,” mi ricordò Tommy mentre cercava di trasmettermi sicurezza col suo grande abbraccio, poi mi lasciò andare e indicò il piano superiore con un’occhiata. “Vado a vedere cosa sta facendo. Tu resta qui. Meno gente gli gira intorno, meglio è, perché lo metteremmo in imbarazzo e quando è in imbarazzo non collabora. Sai com’è, vuole apparire sempre forte e invulnerabile, poi alla fine dobbiamo fare la lotta con lui per strappargli dalle mani la prossima dose.”

“Non se ne parla,” obiettai con fermezza mentre lo seguivo per le scale. “Vengo con te.”

Tommy annuì rassegnato e prese a salire gli scalini due a due, si fermò un attimo nel pianerottolo per ascoltare i rumori, poi si fiondò nella camera, dove trovammo Nikki seduto sul letto, lo sguardo fisso davanti a sé e le mani in grembo. Sembrava estremamente tranquillo e appena si accorse di noi ci salutò come se niente fosse.

“Sei riuscito a trattenerti?” domandò Tommy con gli occhi fuori dalle orbite per lo stupore.

“Oh, no, amico,” negò subito Nikki scuotendo il capo. “Sto solo aspettando che il vecchio Jason me ne porti un po’.”

Tommy e io facemmo appena in tempo a scambiarci un’occhiata allibita quando il campanello suonò con una sequenza di squilli che ricordava vagamente un noto motivetto popolare, come se fosse stata un segno di riconoscimento. Nikki balzò in piedi e corse fuori dalla camera subito seguito da Tommy che, proprio come me, aveva capito che quello che aveva suonato era il tanto atteso spacciatore. Mi affacciai alle scale per osservare la scena e vidi Tommy afferrare un lembo della camicia di Nikki un attimo prima che potesse sfiorare la cornetta del citofono, tirarlo a sé e circondargli il busto da dietro.

“Oggi niente Jason, Sixx, mi dispiace,” ringhiò Tommy mentre cercava di trascinarlo al centro del salotto.

“Non dirmi quello che devo fare perché non accetto ordini da nessuno, specialmente da te, che non sei di certo un santo,” si ribellò Nikki tra uno strattone e l’altro, ma era troppo indebolito per riuscire a divincolarsi dalla presa salda dell’amico, il quale si voltò verso di me e mi ordinò di uscire e mandare via quell’individuo.

Senza pensarci due volte, sgattaiolai fuori dalla porta sul retro e corsi fino al grande cancello nero, dietro al quale, col viso emaciato incastrato tra due sbarre, mi aspettava il più fedele dei pusher di Los Angeles. Le luci del giardino erano staccate, ma la luna piena mi permise lo stesso di distinguere i tratti somatici del giovane: sarebbe stato un bel ragazzo se solo non fosse stato così pallido e rovinato dalla roba.

“Sono Jason. Dov’è Nikki?” domandò mentre spostava il capo per cercare di scorgere meglio la mia figura nell’oscurità.

“Non gli serve la tua roba. Vattene,” esclamai senza avvicinarmi troppo.

Il ragazzo diede un debole pugno contro una sbarra facendo vibrare l’intera struttura metallica del cancello. “Tu chi sei? Voglio i miei soldi, cazzo, me ne deve una bella cifra.”

“Farai senza. Sali sulla tua fottuta macchina e torna a casa. E cercati anche un altro cliente perché qui non sei più il benvenuto.”

“Aspetta e spera,” biascicò prima di girare sui tacchi e salire goffamente a bordo di un’automobile scassata. Aveva ragione. Dovevo aspettare che succedesse qualcosa per cui Nikki si decidesse di smetterla e dovevo sperare che andasse tutto per il verso giusto. Lo sapevo bene, io, e sapevo anche che una delle ragioni che può spingere una persona a ripulirsi sono gli incidenti di percorso causati da una dose di troppo. Nel mio caso si era trattato della perdita del mio migliore amico, un vuoto che non ero ancora riuscita a colmare, mentre per Nikki ci sarebbe voluto qualcosa di ancora più insopportabile dal momento che aveva visto diverse persone rischiare la morte per overdose e sembrava non esserne mai rimasto particolarmente scosso.

Aspettai che l’automobile scoppiettante di Jason girasse l’angolo e rientrai, ritrovandomi da sola al centro del salotto. Chiamai i ragazzi ad alta voce e sentii Tommy che mi invitava a raggiungerli al piano superiore perché era giunto il momento di andare a dormire. Mi aspettavo di trovarli ancora intenti a discutere e a inveire l’uno contro l’altro, invece erano entrambi stravaccati sul letto, Nikki che si lamentava sottovoce per il dolore che aveva iniziato a sentire a tutto il corpo e Tommy con le braccia incrociate dietro la testa come se si fosse trovato su un prato verde in piena primavera.

“Come vedi, l’ora della nanna è arrivata,” annunciò Tommy dopo un lungo sbadiglio. “Io non ho intenzione di schiodare da qui perché ormai mi sono sdraiato, ma credo che potremmo stringerci un po’ e starci tutti e tre.”

“Non preoccuparti,” risposi mentre mi stropicciavo gli occhi, incurante del trucco che mi imbrattava i polpastrelli. “Vado a dormire nella stanza degli ospiti.”

“Scherzi? Vieni qui con noi, lo spazio non manca. Tanto può, vero, Nikki?” l’altro biascicò qualcosa di incomprensibile prima di coprirsi il viso col cuscino, e Tommy sollevò il pollice in segno di okay con un sorriso. “Hai sentito? Ha detto che puoi. E Sixx sta in mezzo!”

Costretta ad arrendermi, lasciai i camperos in un angolo della stanza e mi sistemai di fianco a Nikki, che si ritrovò stretto tra me e il suo amico come se fosse stato una sardina in una scatoletta di alluminio.

Tommy si girò su un fianco e si agitò per qualche secondo prima di trovare la posizione adatta per dormire, fece un lungo sospiro liberatorio poi spense la luce. “Fate pure quello che volete, voi due, io tanto dormirò lo stesso. Vi ricordo che ho condiviso la stanza con Vince per un anno e ho fatto il callo a certe situazioni.”

“Per stavolta non corri nessun rischio,” ribatté Nikki. “Voglio dormire e basta.”

Mi diede le spalle come per porre un muro tra di noi, ma io lo abbracciai, compiacendomi del fatto che non avesse opposto resistenza.

Per stavolta eravamo riusciti a tenerlo lontano dalle droghe, ma non saremmo sempre stati presenti durante i suoi momenti di crisi. Il solo pensiero di arrivare troppo tardi mi faceva rabbrividire, ma una parte di me, quella che non voleva accettarlo, era convinta che non sarebbe mai accaduto nulla di traumatico e che avremmo trovato un altro modo per convincerlo. Doveva per forza andare secondo i nostri piani, altrimenti sarebbe stata la fine.





N.D’.A.: Buonasera!
Tommy è ricomparso, avete visto? Mica poteva lasciare il suo compare da solo...
Almeno stavolta sono riusciti a tirare Sixx fuori dai guai, ma non sarà sempre così facile.
Prima di andare, vorrei ringraziare chi legge e, soprattutto, chi lascia recensioni! ❤️
Ci si rilegge presto!
A lot of glam kisses,

Angie


Titolo: Heroin - The Velvet Underground


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Capitolo 32
*** III.10) Keep the Faith ***


10
KEEP THE FAITH





Dormii abbastanza serenamente per un paio d’ore, ma verso le quattro e mezza fui brutalmente svegliata da un rumore strano. Inizialmente pensai che fosse un animale che era entrato in casa passando attraverso la finestra della cucina che era stata dimenticata aperta, ma dopo un breve e attento ascolto associai quella specie di rantolio al russare di Tommy. Vaffanculo, pensai, sembrava un maiale col raffreddore. Provai a girarlo ma ogni tentativo fu inutile: era troppo pesante e più lo toccavo, più russava. Ero rassegnata a passare la notte insonne, ma per fortuna riuscii a prendere sonno un’ora dopo, quando il batterista pose fine a quel concerto straziante in seguito a un involontario movimento nel sonno che lo aveva portato a cambiare posizione. Forse fu proprio questo il motivo per cui lui, l’unico che aveva dormito bene e che si era riposato meglio, si svegliò per primo facendo un gran fracasso. Ovviamente l’unica a risentirne fui io dal momento che Nikki non lo si svegliava neanche con le cannonate, ed essendo passata l’alba da un paio d’ore, rinunciai al tentativo di rimettermi a dormire e mi alzai. Mi stiracchiai per bene, partendo dai polsi e scendendo fino alle caviglie, poi uscii dalla camera e mi recai al piano di sotto, prestando attenzione a non fare passi troppo pesanti e a non scendere le scale con la stessa grazia di una mandria di bufali come aveva fatto Tommy.

Il casinista in questione lo trovai seduto sul divano, intento ad attirare l’attenzione di un grosso gatto tigrato che si muoveva lentamente sul tavolino da caffè senza degnarlo di un minimo di considerazione, agitando nervosamente la coda.

“Da dove viene quello?” domandai indicando il gatto, che ficcava il muso dentro tutti i vasi che incontrava lungo il suo lento cammino, probabilmente alla ricerca di qualcosa da mangiare.

Tommy mi salutò con un cenno della mano. “Lui è un ospite fisso in casa Sixx. Non l’hai mai visto?”

Entrai in cucina alla ricerca di qualcosa di commestibile con cui fare colazione. “No. E dire che sono spesso qui.”

“Sai come sono i gatti... opportunisti da fare schifo. Forse ha trovato qualcun altro disposto a mettergli una ciotola piena sotto il naso,” rispose divertito, poi tese una mano verso l’animale. “Se mi considerasse mi farebbe un piacere.”

L’unico alimento che trovai fu un pacchetto di pop-corn e lo portai in salotto insieme a una bottiglia di succo di mela, poi liberai il tavolino dalla spazzatura che si era accumulata nell’ultima settimana e strappai la carta della confezione prima di offrirne a Tommy. Il batterista ci cacciò una mano dentro per prenderne una grande quantità che divorò in pochi secondi, e il gatto balzò silenziosamente ai suoi piedi per annusare i pop-corn che gli erano caduti, constatando con grande dispiacere che non erano abbastanza saporiti.

“Tommy?” chiamai dopo che il gattone si fu acciambellato sopra i miei piedi.

Il batterista si voltò con ancora la bocca piena di pop-corn, che mandò giù aiutandosi con un’ondata di succo di mela. “Sì, dimmi.”

Iniziai a torcermi le dita con nervosismo. “Voglio che smetta.”

“Chi, Nikki?” domandò retorico, poi scosse il capo con fare sconsolato. “Noi abbiamo già fatto il possibile. Solo lui può riuscirci, e lo sai.”

“Non lo lasceremo solo, vero?” chiesi con gli occhi colmi di speranza. Tommy mi mostrò un grande sorriso comprensivo e, proprio mentre stava per abbracciarmi, dei passi lenti e il rumore di un paio di suole che strisciavano sul pavimento attirarono la nostra attenzione.

“Tieni quelle manacce lontano da lei, T-Bone. Ne abbiamo già abbastanza di Vince,” lo minacciò scherzosamente Nikki mentre scendeva le scale.

“Va bene, sposto le mani da lei, però le metto qui,” rispose Tommy appoggiandole entrambe sulle spalle dell’amico, dopodiché gli prese il viso e lo costrinse a guardarlo in faccia. “Bello, non è stato divertente fare la lotta con te, sai?”

Nikki tirò su col naso e lo fissò con estrema sufficienza. “Allora la prossima volta lasciami fare quello che mi pare, così tu non ti ritroverai dei lividi in più e io mi sentirò meglio.”

“Come al solito, non hai capito un cazzo. Sei peggio di Mick quando beve troppo e va in blackout totale,” lo zittì Tommy col suo consueto tono spensierato che stavolta aveva il compito di celare il rancore che provava nei suoi confronti. “Tu devi mettere a posto la tua testa dura come un mattone, hai capito? E per farlo devi mollare quella merda che ti fai portare da quel tipo che ieri sera abbiamo mandato via quasi a calci.”

Nikki si sottrasse dalla sua presa e barcollò fino al divano invaso dai pop-corn che Tommy aveva divorato in tempo record, vi si lasciò cadere sopra e con la punta di un piede sfiorò il mantello tigrato del gatto, il quale balzò in piedi e gli saltò in grembo. Restò a contemplare il felino mentre girava su se stesso, impastando con le zampe prima di accovacciarsi e girarsi a pancia all’aria per implorare qualche carezza. Nikki avvicinò la mano al pelo bianco e morbido del ventre del gatto e iniziò a grattare, incurante di noi due che gli tenevamo gli occhi puntati addosso in attesa che dicesse qualcosa.

“Dovresti portarlo a casa da tua moglie,” saltò poi su rivolto verso Tommy e ancora impegnato a coccolare il gatto. “Sono convinto che se lo vedesse salterebbe in aria perché non vuole sacchi di pulci e pelo in giro.”

“Quantomeno questo porcile è un posto più adatto a lui. Può arrampicarsi dove preferisce e anche se dovesse rovinarti le tende, a te non interesserebbe,” ribatté stizzito Tommy, poi avanzò di qualche passo verso l’altro e incrociò le braccia per assumere una parvenza più minacciosa. “A proposito di mia moglie, adesso è giunta l’ora che torni a casa. Tu vedi di fare il bravo perché sai che ho una copia delle chiavi e posso entrare quando mi pare.”

“Va bene, come vuoi,” acconsentì Nikki per essere sbrigativo, poi fece scendere il gatto da sopra le sue ginocchia.

“Io vado, amico. Ci si vede giù a Hollywood per le prove. Mi raccomando, domani alle due, non dimenticartene,” esclamò Tommy dalla soglia prima di chiudersi la porta alle spalle e sparire correndo attraverso il giardino.

Ascoltai attentamente il rumore dei suoi camperos sul sentiero e aspettai di sentire il rombo del motore della sua auto affievolirsi prima di voltarmi verso Nikki, il quale era ancora seduto sul divano e si fissava le mani che fremevano nervosamente. Mi accomodai di fianco a lui e appoggiai la testa contro la sua spalla, ottenendo uno sbuffo in cambio del mio gesto d’affetto. Detestavo quando la gente non gradiva i miei modi per dimostrare che volevo loro bene perché mi ricordava tremendamente l’atteggiamento che i miei famigliari avevano assunto nei miei confronti prima che me ne andassi. Ma Nikki sembrava aver capito che avevo bisogno che mi confermasse che ciò che stavo facendo non gli aveva arrecato disturbo, quindi mi circondò le spalle con un braccio e prese a giocherellare con i miei capelli.

“Hai sentito cos’ha detto Tommy?” domandai. “Ha ragione, o no?”

Nikki sbuffò e strinse la mia ciocca di capelli tra le dita. “Lo sai che per me non ci sono più speranze, Sherry.”

“Oh, no, per favore, non ripetere la solita solfa!” esclamai irritata. “So benissimo come ti senti.”

“E sai anche che nel giro di poche ore andrò in crisi d’astinenza perché tu e l’altro idiota non mi avete lasciato comprare la roba,” mi interruppe. Io, sconvolta dalle sue parole che, tuttavia, non mi avevano affatto sorpresa, mi alzai e mi piazzai davanti a lui con un dito puntato contro il suo petto.

“Tanto per cominciare, quello che tu hai definito ‘l’altro idiota’ è il tuo migliore amico che, proprio come me, ne ha piene le scatole e vorrebbe vederti stare bene,” sibilai. Sentivo i battiti del cuore pulsare nello sterno e persino nella gola da tanta era la tensione. “Poi ricordati che l’abbiamo fatto per il tuo bene.”

Nikki si portò l’indice sul mento, sorpreso e non convinto di aver capito. “Vorreste vedermi stare bene?”

Lasciai cadere le braccia lungo i fianchi. “Sì, perché se stai bene tu, allora stiamo bene anche noi.”

“Con questo intendi dire che non siete felici?”

“Intendo dire che potremmo stare meglio se ti vedessimo stare bene,” risposi prima di tornare a prendere posto sul divano di pelle nera. “Tra noi non sei l’unico ad avere bisogno di qualcuno.”

Nikki roteò gli occhi, piuttosto seccato.

“Se hai bisogno di qualcuno per quale motivo sei venuta da me? Non posso darti ciò che vuoi, se solo potessi io–” strinse i pugni più che poté per reprimere la rabbia. “Sharon, non è colpa mia, ma della roba.”

Presi una sua mano e sciolsi il pugno per distendere il palmo e le dita ben aperte sopra la mia, cercando di non soffermarmi troppo sulle vene rovinate del dorso. “Quello schifo distrugge tutto, da te stesso ai rapporti con le altre persone e alle altre persone stesse.”

Nikki annuì e chiuse la mano intorno alla mia. Le ferite sulla superficie della pelle si tesero e assunsero un colorito più accentuato. “Non ti assicuro nulla, però posso provarci. Forse, come dici tu, è la volta buona che riesco a smettere.”

“Non devi farlo per me,” gli feci notare. “Fallo per te e pensa che dopo potrai svegliarti la mattina senza sentire il bisogno di calarti una dose.”

“Ci proverò, Sherry, te lo prometto,” sussurrò prima di appoggiare la testa contro la mia.

Pregavo che mantenesse la parola e che lo facesse perché non potevo perderlo un’altra volta né potevo permettermi di sopportare ancora la morte di qualcuno a cui tenevo. Il vuoto che Brett aveva lasciato non si era mai colmato e non sarebbe mai successo, ed era una delle ragioni per cui speravo che il legame che c’era tra me e Nikki avrebbe potuto compensare la situazione. Sapevo che sarebbe stata dura, ma avevo deciso che non lo avrei lasciato da solo proprio adesso. Non mi restava che sopportare ogni volta in cui sarebbe tornato a casa con in testa solo l’idea di farsi, strappargli di mano il telefono, buttare la droga ogni volta che ne trovavo un po’ nascosta anche dietro al battiscopa, come faceva Vince nella casa in North Clark Street, chiamare i rinforzi (ovvero Tommy) ogni volta ce ne fosse bisogno. E mi toccò anche restarmene con le mani in mano quando, due settimane prima che partissi per il tour dopo l’uscita dell’album della mia band, Nikki iniziò una struggente cura che, sebbene lui la definisse “una dipendenza in più che si aggiunge alle altre”, avrebbe potuto portare i risultati sperati.





N.D’.A.: Buonasera!
Eccomi – e scusate il ritardo.
Questo è solo un capitolo di passaggio, per cui spero che vi sia piaciuto lo stesso. Pain pianino, stiamo volgendo verso la fine.
Prima di scappare e promettere che ci rileggeremo tra quindici giorni, voglio ringraziare i lettori che mi hanno lasciato delle recensioni, anche a capitoli piuttosto vecchi! ❤️
Poi, ovviamente, grazie anche a chi ha aggiunto questo racconto tra le storie seguite e i preferiti, e a chi legge in silenzio! ❤️
A lot of glam kisses,

Angie


Titolo: Keep the Faith - Bon Jovi


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Capitolo 33
*** III.11) Not Enough ***


11
NOT ENOUGH





North Hollywood, CA, maggio 1987

Steven rimirava da già diversi minuti la sua casa nuova e perfettamente addobbata per la festa che si sarebbe tenuta quella sera stessa. Se ne stava in piedi al centro del salotto, le braccia incrociate sul petto e fasciate nelle maniche della giacca di scamosciato color nocciola. Sembrava quasi un moccioso che aspetta gli amici per il suo party di compleanno. L’unica cosa che non avevo capito era perché avesse messo a disposizione la sua casa fresca di ristrutturazione per la festa in onore del nostro album, che era uscito tre giorni prima e sarebbe stato seguito da un tour che ci avrebbe fatto girare il mondo in compagnia di diversi gruppi-spalla, tra i quali anche i Guns N’ Roses. Ovviamente erano stati invitati tutti e cinque al party in cui solo io e Rita saremmo rimaste sobrie a fare da sorelle maggiori ai disgraziati che non avevano nessuno che tenesse loro la fronte mentre vomitavano.

Come previsto, i Guns fecero il loro ingresso trionfante e li osservai attentamente mentre si aggiravano per il salotto: Axl si andò a sedere vicino a un crocchio di belle ragazze in abiti da sera, tutte figlie di alcuni membri del personale della casa discografica, mentre Slash afferrò una bottiglia di birra e iniziò a bere a collo, facendone cadere una buona parte sopra la T-shirt degli Aerosmith che indossava e attirando gli sguardi curiosi di quelle diciottenni buone solo a fare la predica alle coetanee visibilmente dissolute per poi razzolare peggio di loro. Per concludere, rigorosamente ultimi in quanto erano le star della serata, i Mötley Crüe cominciarono a farsi sentire con grida e ululati fin da quando il loro autista li scaricò davanti al cancello. Essendo gli ospiti più attesi da tutti, fatta eccezione per Axl Rose, che lì seduto sul divano con le gambe accavallate e un bicchiere tenuto con strafottenza tra le dita decorate con svariati anelli metallici raffiguranti teschi, sembrava su un pianeta a parte, gli invitati si zittirono in attesa che i Santi di Los Angeles varcassero la soglia.

La porta bianca si aprì di colpo, la maniglia sbatté violentemente contro il muro, rovinandone l’intonaco bianco, e quattro sagome scure si ammassarono sulla soglia. Un paio di ragazze che stavano ronzando intorno a Slash lo abbandonarono per saltare al collo di Tommy, che rivolse un sorriso sornione al chitarrista, ricevendo in risposta un gesto più che eloquente che, riassunto in poche parole, doveva significare qualcosa del tipo “io, tu, loro, dopo, piano di sopra”.

Subito dopo il batterista, fece il suo vittorioso ingresso Vince che, sculettando e con un atteggiamento da sbruffone come se fosse stato Apollo in Terra, prese un bicchiere di champagne dal buffet e fece un giro intorno a me squadrandomi dalla testa ai piedi. Mi sembrò quasi che quello sguardo lussurioso mi graffiasse la pelle da tanto era insistente e lascivo, ma sapevo che presto lo avrebbe posato addosso a qualcun’altra, evitandosi così inutili occhiate glaciali da parte mia.

Per concludere la sfilata, dopo Vince che girava per il salotto facendo svolazzare dietro di sé la lunga giacca di pelle nera neanche fosse stato un mantello da re, Mick entrò a passo svelto come se avesse voluto evitare di essere visto. Controllò che nessuno lo stesse osservando, mi raggiunse a velocità fulminea e mi informò sottovoce che Nikki mi stava aspettando fuori. A quelle parole sentii un enorme sorriso crescermi volto. Non ci vedevamo da una settimana a causa del lavoro che ci aveva costretti a stare separati per un po’, e fu proprio per questo motivo che spensi velocemente la sigaretta dentro un posacenere di marmo rosa e guizzai fuori. Le voci sguaiate degli invitati si attenuarono non appena raggiunsi il giardino e accostai la portafinestra, passando così dalla realtà incasinata del salotto a quella magica e silenziosa del cortile che, sebbene fosse ancora da sistemare dal momento che Steven si era trasferito da poco tempo, sembrava comunque un piccolo angolo di paradiso.

“Sherry?” mi chiamò una voce che riconobbi all’istante. Nikki mi stava aspettando appoggiato al tronco di un albero con una sigaretta tra le dita e un sorriso sforzato che illuminava appena il suo viso, proprio come il sottile spicchio di luna argentea nel cielo nero. Mi avvicinai per osservarlo meglio e notai che era di nuovo stanco e con lo sguardo spento come all’inizio dell’anno, ma non era più emaciato e aveva l’aspetto di una persona che si era svegliata troppo presto e non vedeva l’ora di andare a dormire.

“Perché non vieni dentro?” gli domandai incuriosita dal fatto che avesse mandato Mick a chiamarmi anziché farlo di persona.

Nikki alzò le spalle e si lasciò sfuggire uno sbadiglio. “Non è che ultimamente me la passi così bene. Sono sempre stanco e devastato da quel cazzo di metadone che sono costretto a prendere ogni mattina facendo la fila con i tossici di strada che, a pensarci bene, non sono poi così lontani da me. Una volta ero come loro. Se non fossi chi sono, starei conducendo la loro stessa identica vita in qualche vicolo squallido di West Hollywood anziché in una villa a Van Nuys, ma è meglio non parlarne.”

“Concordo,” approvai sottovoce. “Però devo ammettere che ti trovo meglio.”

“Ho solo bisogno di dormire,” biascicò Nikki dopo essersi passato una mano sul volto. “Sono passato per salutarti dato che è una settimana che non ti sento. Ero sicuro al che ti avrei trovata, ma non ho intenzione di restare. Per me questo tipo di feste sono letali. Mi basta vedere un solo naso colante per iniziare a fremere dalla voglia di una pista, per cui credo che sia meglio che torni a casa e mi metta a dormire.”

“Come preferisci,” mormorai mentre iniziavamo a incamminarci verso il cancello, oltre il quale l’autista della band lo attendeva appoggiato contro il cofano della vettura, poi mi avvicinai in modo da appoggiare la spalla contro il suo braccio per instaurare un lieve contatto fisico.

“Se vuoi, quando la festa sarà finita e nessuno tranne te e Rita si ricorderà più che questa è Los Angeles e che ci troviamo sul pianeta Terra, puoi passare a trovarmi,” mi invitò Nikki prima di salire a bordo dell’auto. “Tanto anche se mi sento stanco dormirò all’incirca quattro ore, quindi mi troverai ancora sveglio.”

“D’accordo,” risposi sollevando il pollice. Nikki ricambiò con lo stesso gesto sporgendo il braccio dal finestrino, poi partì sgommando e sparì in fondo alla via costeggiata da eleganti lampioni neri. Non mi restava che tornare dentro a fare compagnia a Rita, mentre Jamie teneva banco insieme a Slash da sopra un tavolo e Steve allargava la sua cerchia di conoscenze, attaccando discorso con tutte le ragazze carine che gli passavano di fianco. E, per la cronaca, mentre lui aveva bisogno di fare il gallo, Axl Rose, ora timidamente seduto sul bordo del camino, faceva più furore di lui senza muovere un solo dito.

“Ecco, vedi?” esclamò Rita puntando l’indice contro Axl. “Lui è un buon cantante ed è anche un bel ragazzo. Pensa un po’ che fortuna! Non ce n’è tanti in giro.”

“A me non sembra poi così contento di stare qui. Mi sembra più un tipo da locale del Sunset Strip piuttosto che da festino privato in una villa di North Hollywood,” ribattei guadagnandomi un’occhiata allibita da parte della mia batterista. “Non tutti sono come Vince. A proposito, dove si sarà cacciato? Non mi sembra di vederlo.”

Rita roteò gli occhi. “Si sarà andato a imboscare con una, due, tre, forse quattro tipe. Senti la sua mancanza?”

“No,” dissi tutto d’un fiato. “Mi sembrava strano che fosse già sparito, tutto qui. E io credo che farò lo stesso perché sono sfinita e mi sto rompendo le palle.”

“Intendi dire che prenderai uno, due, tre, forse quattro tipi e andrai a imboscarti da qualche parte insieme a loro?” saltò su Rita con estrema convinzione di ciò che aveva appena sparato senza però aver ragionato prima di farlo.

“No, Halford,” la ammonii bruscamente. “Voglio solo andare a riposarmi perché tutta questa confusione mi dà fastidio. Spero di non imbattermi in Vince e le sue amichette. Spero che almeno si siano nascosti bene.”

Rita mi seguì con lo sguardo mentre mi alzavo dal divano e sistemavo il vestito rosso che avevo comprato proprio in occasione della festa per l’uscita del nostro album, mi salutò con la mano e abbozzò un sorriso. “Torna presto. Da sola mi annoio.”

Salii le scale quasi correndo, incurante dei tacchi che avrebbero potuto causarmi una distorsione a entrambe le caviglie da tanto erano scomodi, li maledissi e finii per sfilarli e portarli in mano. Percorsi scalza il resto del corridoio finché non mi trovai nella stanza buia di Steven, all’interno della quale erano stati stipati alcuni pezzi di arredamento del salotto in modo che ci fosse più spazio per gli invitati. Mi sedetti sul letto e guardai fuori dalla finestra, oltre il cui vetro si estendeva il resto della città brulicante di vita: l’oscurità delle colline del canyon si scontrava con la giungla di luci brillanti della periferia, e in lontananza si intravedevano gli altissimi edifici di Downtown. Infine, più in là, solo l’oceano che avrei presto attraversato per portare il nostro disco in giro per il mondo. Chiusi gli occhi e immaginai come sarebbe stato se avessi portato Nikki con me, ma sapevo che quella era una pretesa esagerata, e per ironia della sorte, mentre io sarei stata impegnata in un tour in Asia, lui e la sua band si sarebbero spostati per gli Stati Uniti nella direzione opposta.

I miei pensieri furono bruscamente interrotti dal rumore della porta del bagno che si apriva lentamente e dalla quale uscì una sagoma barcollante. Strizzai gli occhi per cercare di distinguere qualche particolare in più per poterla attribuire a qualcuno, ma solo quando la luce della luna illuminò una chioma biondo platino potei giungere a una conclusione.

“Ehi, sei Catherine? Sei ancora qui ad aspettarmi, baby?” domandò Vince dando il meglio della sua voce pappona.

“Sono Sharon,” risposi quasi con cattiveria.

“Woah! Non ti avevo riconosciuta. Sai com’è, è buio,” poi, proprio come temevo, si sedette accanto a me, si stiracchiò e fissò un punto a caso fuori dalla finestra. “Vista da qui Los Angeles è bella, vero?”

Alzai le spalle. “L.A. è e resterà sempre una giungla.”

“Però per noi è il paradiso,” obiettò levando un dito in aria. “‘Take me down to the Paradise City, where the grass is green and the girls are pretty.’

“Dipende da come la vivi. Se sei un moccioso in cerca di fortuna sei convinto di essere nella giungla, se invece sei una rockstar credi che sia il paradiso.”

“Giusto! Ben detto, Sharon, ben detto,” approvò con un impeto eccessivo che non prometteva nulla di buono. Ricevetti la conferma alla mia ipotesi quando mi impedì di alzarmi fermandomi per un polso e i suoi occhi lucidi erano nuovamente puntati addosso a me come due fari sull’attore durante un soliloquio sul palco.

“Posso tornare dagli altri o hai bisogno di qualcuno che ti tenga la fronte mentre vomiti?” gli chiesi mentre cercavo di liberarmi da quella fastidiosa mano piccola e viscida.

“Non sono ancora così fuori da vomitare. Sono solo un po’ brillo,” confessò Vince mostrando il più scintillante e marpione dei sorrisi, “Volevo fare due chiacchiere con te perché mi hai sempre ispirato simpatia, oltre che infinita fiducia.”

“Sei proprio un leccaculo,” borbottai in risposta. “Resto solo perché non ho intenzione di tornare in mezzo al casino, che sia chiaro. E se ti azzardi a toccarmi, ti prendo a sberle.”

“Hai proprio ragione, qui da soli si sta così bene,” quegli occhi allucinati scivolarono sulla scollatura del mio vestito. “C’era una cosa che volevo dire... ah, sì! L’hai visto, Nikki?”

Lo fulminai con lo sguardo. “Sì, e devo dire che ha fatto miglioramenti notevili rispetto alla scorsa settimana. Perché me lo chiedi?”

Vince si spostò goffamente sul materasso per avvicinarsi ancora di più e io cercai di mantenere la mia solita impassibilità. “Sai, Sherry, qualcosa mi dice che quel coglione ci tornerà a cadere dentro con tutti e due i piedi e anche con le mani.”

Ero tentata di rifilargli un pugno dritto su quella fila di confetti bianchi qual era il suo raggiante sorriso, ma la mia parte razionale riuscì a prevalere sui miei istinti ferini e mi limitai a mandarlo a farsi fottere. “Forse dovresti darti una regolata anche tu. Puzzi come una distilleria.”

“Sixx ci ricadrà,” continuò Vince imperterrito. Un fruscio mi lasciò intendere che la sua mano stesse scivolando sulla stoffa della coperta per avvicinarsi sempre di più. “Perché continui a stargli dietro? Là fuori ci sono un sacco di tipi più interessanti con cui divertirsi.”

“Non sono affari tuoi,” ribattei e, appena terminai la frase, la sua mano aveva già raggiunto la mia e stava risalendo lungo l’avambraccio.

“Lo so che in fin dei conti non è questo ciò che vuoi,” mormorò con le labbra che rischiavano di sfiorare il mio orecchio.

“Ricordati che non siamo tutti come te.”

“Appunto. Se voglio qualcosa la prendo e basta, non sto a indugiare per una vita,” e pensò bene di accompagnare la sua massima con una dimostrazione pratica. Non ebbi nemmeno il tempo di dire qualcosa in mia difesa o anche solo di realizzare cosa stava per fare perché all’improvviso mi ritrovai stesa sul letto sotto il suo peso. Vince ghignava soddisfatto, pregustando quello che sperava di ottenere, lo sguardo incollato sulla scollatura del mio vestito e chissà quali idee per la testa. Lo spacco dell’abito non stava sicuramente aiutando la situazione e tentai di muovermi bruscamente per divincolarmi.

“Ti avevo avvertito di non farlo,” sibilai. L’espressione compiaciuta di Vince tramutò in una di puro sgomento. “Lasciami subito andare. Con te preferisco limitarmi a una chiacchierata.”

“Cristo,” biascicò. “Veramente vuoi fare uno strappo alla regola? È assurdo.”

“È assurdo il contrario,” risposi con lo sguardo fisso nel suo. “Tutti abbiamo bisogno di qualcuno, l’ho detto anche a Nikki poco tempo fa. Anche tu ne hai bisogno.”

“Stronzate,” disse Vince accompagnano le parole con una risata nervosa.

“No. Puoi avere tutte le ragazze che vuoi, ma solo una, forse due, sapranno trovare il tuo lato positivo. Io non ci riesco proprio, ma questo non vuol dire che non credo che tu ce l’abbia.”

Mi liberai di lui spingendolo via con un colpo del ginocchio e tornai ad alzarmi in piedi, incurante dei suoi occhi che mi fissavano allibiti, poi aggiustai il vestito e mi ravvivai i capelli.

“Con questo vorresti dire che hai trovato qualcosa di positivo in Sixx?” domandò Vince dopo qualche attimo di silenzio.

Annuii convinta. “C’è davvero tanto, bisogna solo andarlo a scovare, anche se può sembrare difficile.”

“Bah, sarà...” bofonchiò sempre più scettico e con le braccia incrociate sul petto.

Raccolsi un calzino da sopra il comodino di Steven e glielo lanciai addosso per attirare la sua attenzione. “Vedi di tenere questa conversazione tra noi.”

“Puoi contarci!” esclamò Vince quasi inorridito. “Non c’è dubbio che vada in giro a dire queste stronzate.”

Lo salutai con un cenno della mano e mi chiusi la porta alle spalle senza nemmeno preoccuparmi di quel disgraziato che avevo lasciato a stomaco vuoto e che in fondo se lo meritava, scesi le scale quasi correndo, attraversai il salotto incurante di Steven e Tommy che giravano abbracciati e ubriachi tentando di impedirmi di passare, e mi fiondai in strada, dove avevo parcheggiato la mia automobile, con dietro Rita che mi pregava di riportarla a casa. Le diedi un passaggio fino al suo appartamento poi imboccai la 101 in direzione di Van Nuys.

Adesso tutto sembrava essersi sistemato: Nikki aveva riordinato la casa e, anche se lo aveva fatto un tanto al braccio, l’aveva resa più abitabile, senza contare che, anziché rintanato nel suo sgabuzzino, lo trovai tranquillamente seduto sul letto immerso nella lettura di un libro che non avevo mai visto in casa sua. Evidentemente era uscito ed era entrato in un negozio per acquistarlo, un semplice gesto che fino a poco tempo prima avrebbe temuto di fare.

Bussai contro la parete e lui sollevò lo sguardo dalle pagine con uno scatto, poi un sorriso illuminò il suo volto e ripose il libro sul comodino. “Sei già tornata? Credevo che la festa durasse un po’ di più.”

“Infatti i ragazzi stanno ancora facendo baldoria e sono solo all’inizio,” confessai, leggermente seccata dalla situazione.

“Immagino,” rispose Nikki. “Ma che restino pure a casa di Steven fino a domattina, noi qui abbiamo di meglio da fare.”

Lo guardai di sbieco. “Di meglio da fare? Elabora, se non ti dispiace.”

Sistemò una mia ciocca di capelli dietro l’orecchio e confermò.

“Ti ricordi quando ti ho parlato di Sikki, quella volta che ero fatto? Sikki se ne sta andando, ma sta tornando Frankie, e tu sai che lui ti vuole. Non stava aspettando altro che quel disperato se ne andasse per riprendersi ciò che gli appartiene,” mi circondò la vita con entrambe le braccia per stringermi a sé. “Da Capodanno non ti ho toccata una sola volta, ma adesso che sto meglio vorrei tanto riaverti.”

Appoggiai il capo alla sua spalla e lasciai che si riprendesse ciò di cui aveva bisogno, restituendomi ciò di cui io stessa sentivo la necessità e provando che questa volta Vince si era sbagliato di grosso.





N.D’.A.: Hola! =)
Un bel party mondano a North Hollywood era quello che (non) ci voleva, a seconda dei punti di vista. E con tanto di Guns N’ Roses. Spero che la loro comparsa sia stata gradita!
Un po’ meno gradito è stato il tentativo di Vince, ma Sharon è troppo legata a Nikki per cedere. Ma alla fine i due protagonisti ce l’hanno fatta e, visto che mi piace davvero tanto, dedico sia a loro che a voi la canzone che ha dato il titolo al capitolo visto che love is never enough.
Il prossimo capitolo arriverà tra due mercoledì quando – argh! – sarà già giugno.
Grazie a chi recensisce e a chi legge! ❤️
Un bacio enorme a tutti e alla prossima,

Angie


Titolo: Not Enough - Van Halen


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Capitolo 34
*** III.12) Out in the Cold ***


12
OUT IN THE COLD





Rigirai tra le mani quel foglio mentre l’aereo decollava da LAX in quella tiepida giornata di fine primavera. In alto alla pagina, scritto con un pennarello blu, si trovava il titolo di una canzone, Rodeo, e sotto, disposto in una colonna sbilenca, il testo scritto da una mano frettolosa. Era una sorta di promemoria che mi aveva consegnato Nikki il giorno della partenza, con la richiesta di tornare a trovarlo non appena fossimo rientrati entrambi a Los Angeles per Natale, sei mesi dopo. Mi raccontò che l’aveva scritta durante il tour di Theatre of Pain, dopo che la mia band aveva dovuto ritirarsi, e dovetti constatare che aveva ragione: la nostra carriera, quella che avevamo bramato per tutta la vita, non ci permetteva mai un solo giorno di tregua, e il ritmo estenuante delle giornate che si confondevano con la notte e i continui spostamenti non ci consentivano di trovare un minimo di stabilità. Avevamo una casa a L.A., ma quella non era la nostra città, ed eravamo entrambi originari di altri Stati che, per una ragione o per l’altra, non ritenevamo più casa nostra. Eravamo giunti a un punto tale per cui ci sentivamo più a casa a bordo dei nostri jet privati piuttosto che nelle nostre abitazioni. Non conoscevamo altro che la strada e il palco, i nostri unici amici erano i compagni di band e gli unici amanti i nostri strumenti, mentre le stanze d’albergo sembravano tutte uguali e puntualmente l’altra metà del letto era vuota e fredda. Chi avrebbe potuto scaldarla? Un tempo riempivo quel vuoto con le droghe e l’alcol, mentre adesso mi toccava stare seduta con le mani in grembo a immaginare una sagoma accovacciata su un fianco che respirava lentamente nel sonno.

Nel frattempo, i ragazzi dei Guns N’ Roses sbraitavano nel corridoio e Steven Adler cacciava delle risate argentine che mi ricordavano tanto quelle di Tommy durante il tour con la sua band. E se fuori c’era Tommy che rideva come un matto, allora la sagoma nera che dormiva di fianco a me era Nikki.

“No,” mi dicevo poi. Non era così e lo sapevo. Prendevo l’agenda che tenevo sopra il comodino come se fossi stata una donna d’affari e contavo quante settimane mancavano al 20 dicembre, il giorno in cui avremmo interrotto il tour per le feste. Ma se da una parte la nostalgia, un sentimento che non avrei mai creduto di provare così intensamente, mi stava corrodendo dall’interno, dall’altra i concerti erano una vera e propria soddisfazione: arene piene, sold-out continui, applausi, gente che pogava, volume al massimo e ottime performance.

John Gates era felice come un bambino e non faceva altro che ripeterci che tutto questo era merito del fatto che fossimo puliti e che ora potevamo concentrarci meglio sul nostro lavoro. Quando partiva con questi discorsi che, a dire la verità, avremmo preferito non sentire, mi domandavo a che punto fosse Nikki con il percorso di riabilitazione. Il fuso orario non ci permetteva di tenerci in contatto, e le poche volte in cui sarebbe stato possibile non potevamo parlare perché uno dei due era puntualmente troppo impegnato. Non potevamo mandarci una lettera perché ci spostavamo continuamente, ma io ne scrivevo lo stesso e le inviavo all’indirizzo della sua abitazione a Van Nuys, sperando che qualcuno andasse a svuotargli la cassetta e che lo informasse che gli avevo scritto.

Mi resi conto che quei sei mesi on the road erano volati solo quando arrivò dicembre, proprio come accadeva ai tempi del liceo, che finché mi toccava stare incollata al banco ad ascoltare le lezioni ero convinta che non avrei mai schiodato da lì, poi arrivava maggio e pensavo che, in fin dei conti, il tempo era passato proprio in fretta. Il problema era che non potevamo riposarci nemmeno adesso perché tutte le band della scena rock (e non solo) della città ci invitavano a passare la serata con loro in ristoranti di lusso perché in quel periodo dell’anno tutti erano rientrati ed era possibile incontrare persone che non si vedevano da mesi.

Fummo costretti a prendere parte a una cena in un ristorante francese sul Santa Monica Boulevard e solo quando giungemmo sul posto scoprimmo che, oltre ad altre due band, sarebbero stati presenti anche i Mötley Crüe. Mi trovavo nell’atrio quando arrivarono e non fu per niente divertente ritrovarsi faccia a faccia con un Mick Mars imbestialito perché lo avevano obbligato a uscire di casa contro la sua volontà. In compenso, per rallegrare il mio animo dopo quella struggente visione, Tommy fece irruzione ridendo, smettendo solo quando si accorse di me. Spalancò i grandi occhi scuri, esibì un sorriso raggiante, mi stampò un bacio sulla fronte poi mi trascinò al tavolo con la pretesa di stare seduto tra me e Rita – il motivo non si sapeva, semplicemente quella mattina si era svegliato con quell’idea e doveva per forza ottenere ciò che voleva, costringendo Steven a spostarsi accanto a un Vince piuttosto esagitato a causa del continuo andirivieni di ragazze in minigonna. Però la sedia accanto alla mia era ancora vuota, e il fatto che fosse l’unica a non essere stata occupata da nessuno mi costrinse a porgermi una domanda più che lecita che rivolsi a Tommy, che si stava già accanendo sul suo piatto di escargot.

“Per caso qui dovrebbe esserci Nikki?” chiesi cercando di dimostrarmi il meno preoccupata possibile.

Tommy annuì mentre masticava. “In teoria sì, ma stasera ha deciso di restare a casa. Ho provato a convincerlo, gli ho anche ricordato che ci saresti stata tu, ma quel coglione si è rifiutato di venire, cosa che però non ha fatto Mars. Dico, ma ti pare che quel pover’uomo debba scomodarsi per venire con noi mentre Sixx–”

“Quindi sapeva che ci saremmo stati anche noi?” ripetei allibita, interrompendolo. Tommy annuì vigorosamente mentre studiava con occhio critico un guscio vuoto. “Allora perché è rimasto a casa? Dobbiamo ancora vederci da quando siamo rientrati.”

Tommy mi fece cenno di avvicinarmi di più per potermi parlare in un orecchio e, non appena fui abbastanza vicina, il suo consueto tono scherzoso assunse un’inflessione più malinconica. “Se posso darti un consiglio da amico, ti direi di andare a Van Nuys da lui perché io non so più come affrontare questa situazione.”

Aumentai la morsa sull’impugnatura della forchetta. “Cosa vuol dire?”

“Non sta bene,” confessò Tommy. Ora dal suo sguardo trapelava il dolore che solo un vero amico può provare. “La terapia al metadone non ha funzionato. Appena siamo partiti ci è ricaduto dentro e sembra aver toccato il fondo. Io... io non riesco più a guardarlo in faccia senza sentire una morsa allo stomaco. Forse se tu andassi a trovarlo, potresti fargli capire che c’è ancora qualcuno per cui valga la pena vivere.”

“Non deve farlo per me, per te o per qualcuno in particolare,” dissi mentre riponevo le posate sulla tavola. “Deve farlo per se stesso, altrimenti non funzionerà mai. Proverò a fare qualcosa, ma non ti aspettare un miracolo perché non sono il suo angelo custode né tantomeno una santa.”

“Ci mancherebbe!” mormorò Tommy. “Se vuoi, dopo passo a trovarvi.”

Abbozzai un sorriso prima di prendere la giacca dallo schienale della sedia. “Sì, grazie. Mi faresti un piacere.”

Tommy sollevò il pollice in segno di okay e riprese a mangiare con la sua consueta voracità fingendo che non fosse successo nulla poi, senza dare spiegazioni a nessuno, sgusciai fuori e guidai fino a Van Nuys. Posteggiai di fronte al cancello come ero solita fare e, mentre scendevo dall’auto, notai una sagoma che si muoveva nel giardino. Non ci misi molto a capire che si trattava proprio di Nikki. Stava vagando a passo spedito e con le braccia incrociate sul petto per riscaldarsi dal momento che indossava solo una maglia di rete, calciava via tutti i sassi che incontrava e si spostava svelto nell’ombra di quella specie di giardino segreto.

“Nikki, sei tu?” domandai per attirare la sua attenzione.

La sagoma si voltò all’improvviso e mi corse incontro rischiando di inciampare nei lacci sciolti di uno stivale. Si avvicinò barcollando pericolosamente e, non appena appoggiò le mani sulle sbarre del cancello, la luce del lampione sulla strada lo colpì in pieno viso, mostrando qualcosa di diverso da ciò che mi aspettavo. Ero convinta che lo avrei trovato con la faccia impiastricciata di trucco sbavato e resa appiccicosa dalle lacrime, invece sorrideva.

“Sei tornata!” esclamò felicissimo mentre armeggiava con la serratura del cancello. “Lo sapevo che saresti passata, lo sapevo!”

Avrei preferito entrare con le mie gambe, invece mi sollevò di peso e mi portò all’interno del giardino come se fossi stata un pacco postale, poi mi tornò a rimettere con i piedi per terra con estrema delicatezza e mi fissò, sempre sorridendo a trentadue denti.

“Come stai?” domandai non del tutto convinta della genuinità della sua espressione felice.

“Benissimo!” esclamò indicando la sua stessa persona con un impeto eccessivo.

Mi avvicinai per controllare che il diametro delle pupille non fosse alterato o che non gli colasse il naso, e notai che non mostrava nessuno dei segni più evidenti che si possono notare in una persona che ha appena sniffato cocaina.

“Fantastico,” approvai quasi apatica. “Ti trovo bene.”

Il sorriso che fino a un attimo prima aveva illuminato il suo volto sparì improvvisamente per lasciare spazio a un’espressione di profonda delusione. “Io invece no. Cioè, non tu. Tu sei bellissima, come sempre. Sono io che non vedo bene me stesso.”

Aggrottai la fronte. “Non ti capisco.”

Nikki roteò gli occhi e mi afferrò per un polso per trascinarmi in casa, dove la luce mi permise di notare alcuni particolari che avrei preferito lasciare nascosti nell’ombra. Dalla rete larga della maglia che indossava si poteva vedere facilmente il fisico decisamente più deperito rispetto a quando lo avevo lasciato sei mesi prima, mentre la pelle di tutto il corpo aveva assunto un colorito giallastro e malaticcio. Gli passai una mano tra i capelli arruffati, che risultarono troppo sfibrati e stopposi al tatto, mentre la pelle del viso sembrava qualcosa di molliccio.

“Hai mangiato ultimamente?” gli domandai con gli occhi immobili sul costato.

Nikki si limitò ad alzare le spalle. “Mi fa passare la fame.”

“Cosa?” chiesi, e per tutta risposta mi tese una mano affinché la guardassi da vicino. Appoggiai il suo palmo sopra i miei e passai ogni mio dito sul suo corrispondente, constatando che della sua mano non era rimasto quasi niente a parte le unghie laccate di nero: le dita erano molto più magre di prima e il dorso era costellato da piccole croste più o meno recenti.

“Vedi?” mormorò Nikki dopo aver chiuso la mano sulla mia. “Ci sono ricaduto dentro.”

“Pensavo che le cure–”

“Le fottute cure non sono servite a niente,” mi interruppe bruscamente rilasciando la mia mano. “Ho smesso di prendere quelle cazzo di pastiglie non appena abbiamo iniziato il tour, il cui personale comprendeva anche qualche spacciatore. Però sai una cosa, Sherry? È dalle tre di ieri notte che non tocco neanche un granello. E sai perché?” appoggiò la testa contro la mia tempia mentre mi teneva ferma per le spalle. “Perché sapevo che saresti tornata e volevo che mi trovassi come mi avevi lasciato. Invece no, ho fallito.”

“Lo hai fatto per me?” domandai mentre tastavo la scarsa consistenza di una sua ciocca di capelli, rovinati dai trattamenti, dalla malnutrizione e dalle sostanze che si calava.

“Sì, perché sapevo che ti avrei deluso,” biascicò.

Mi liberai delicatamente dal suo debole abbraccio e gli presi il mento per rivolgere il suo sguardo verso di me. “Non è così che la devi prendere. Lo vuoi capire oppure no?”

Nikki si accigliò e indietreggiò di un passo come se avesse voluto mettersi sulla difensiva. “Ah, no? E come dovrei comportarmi? Illuminami, per favore.”

“Non pensare a me né a nessun altro,” scandii a pochi centimetri dal suo viso. “Pensa solo a te stesso e a come starai bene quando avrai smesso.”

“Io non starò mai bene,” mormorò abbozzando un sorriso malinconico. “Forse non saprò neanche cosa accadrà dopo perché avrò fatto in tempo ad andarmene e–”

La sua frase fu interrotta da un sonoro ceffone che gli assestai sulla guancia con tutta la forza che avevo. Adesso se ne stava immobile di fronte a me, con entrambe le mani incollate alla pelle del viso e gli occhi spalancati per la sorpresa, mentre i miei bruciavano sempre di più per il dolore.

“Parli come parlava Brett quando gli dicevo che doveva smettere di bere,” farfugliai, poi mi avvicinai ancora di più e puntai un dito dritto contro il suo petto. “Hai visto che fine ha fatto? A volte la tentazione è più forte del solito ed ecco come si finisce. Vuoi fare come lui anche tu? Vuoi perdere tutto quello che hai? Vuoi lasciarmi sola?”

I suoi freddi occhi verdi mi fissavano strabuzzati da dietro i ciuffi corvini della frangia. Le labbra screpolate tremavano nell’indecisione e continuarono finché non trovò abbastanza coraggio e forze per parlare. “Non succederà, te lo prometto.”

Sospirai mentre osservavo le sue mani magre e il volto sciupato. “Non credo di potercela fare. Scusa, Nikki. Ti ho solo fatto perdere del tempo inutile, ma non posso più sopportare questa situazione.”

Appena ebbi terminato di proferire quelle parole, lui avanzò lentamente verso di me e mi puntò addosso il suo sguardo gelido e tagliente.

“E va bene,” disse piano. “Se vuoi veramente andartene e lasciarmi, allora non sono io quello che ha deluso qualcuno, ma tu. Sai, è proprio in queste occasioni che si riconosce l’autenticità di un sentimento.”

“Non dire stronzate,” sbottai. “Dopo anni che ci rincorriamo a vicenda, mi vieni a dire che non credi che ci sia nessun sentimento? Quella roba ti ha veramente fottuto il cervello.”

“Sai qual è il tuo problema, Sharon?” domandò spingendomi sempre di più verso la porta principale. “Hai capito che qui non c’è più niente da guadagnare e hai deciso di andartene. Fallo pure, esci da questa casa e lasciami, hai tutta la mia approvazione.”

Portai avanti le mani come se avessi voluto essere pronta a prenderlo non appena si fosse avvicinato di più. “Non hai capito. Io non–”

“Esci da qui e non tornare più. Tanto voi donne siete tutte uguali. Vi interessano solo i soldi e la bella vita,” sibilò mentre apriva la porta, poi mi costrinse a voltarmi e mi spinse oltre la soglia, chiudendo con tutti i lucchetti e le serrature che aveva fatto aggiungere per paura che i nani messicani e le spie segrete entrassero mentre dormiva. Fu inutile attaccarmi al campanello, bussare e chiamarlo sperando che aprisse e che mi desse la possibilità di spiegare cosa intendevo dire. Aveva anche spento le luci del salotto e, per quel che ne sapevo, si era certamente andato a rintanare nel suo sgabuzzino.





N.D’.A.: Ciao a tutti!
Sharon non ne può decisamente più di questa situazione e, soprattutto, non vuole rivivere un’esperienza che ha già passato. Chissà se e come cambierà idea?
Detto questo, il prossimo capitolo cercherò di caricarlo stando in tempi decenti. Forse riuscirò a postarlo la prossima settimana, sempre ammesso che me ne ricordi – ultimamente tendo a dimenticarmi le cose. Nel caso dovessi ritardare parecchio, abbiate pazienza. Come ho già avuto modo di precisare, la storia è già completa e ho intenzione di condividerla con voi fino all’ultimo capitolo che, tra l’altro, non è neanche poi così distante.
Bene! Spero che questo capitolo sia stato di vostro gradimento!
Grazie a chi legge! ❤️
Un abbraccio gigante e tanti auguri a chi, come me, sta grondando sui libri in vista della maturità! ✌️

Angie


Titolo: Out in the Cold - Judas Priest


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Capitolo 35
*** III.13) Condition Critical ***


13
CONDITION CRITICAL





L’orologio segnava le otto di mattina e io ero già sveglia da un pezzo perché non avevo voglia di dormire. Avevo preparato un té con la speranza che mi aiutasse a rilassarmi, ma non aveva avuto l’effetto desiderato, così avevo provato a stendermi sul divano sperando di prendere sonno sebbene l’immagine del volto infervorato di Nikki continuasse a tormentarmi. Non avevo idea di cosa gli fosse preso, però era ovvio che si fosse comportato così a causa di quella dannata roba. Anche se era pulito da diverse ore – sempre ammesso che non avesse mentito – il suo fisico, e soprattutto il suo umore, risentivano comunque delle conseguenze di ciò che stava passando.

Mi passai una mano sul volto quando mi ricordai che per stabilizzare il mio corpo e la mia mente dopo aver smesso con la droga ci avevo impiegato un’eternità. Chissà Nikki quanto tempo ci avrebbe messo? Chissà se lo avrebbe fatto per davvero? Forse non lo avrei nemmeno mai saputo perché, stando a quanto mi aveva detto poco prima, non voleva più vedermi.

Stavo finalmente per chiudere gli occhi, stremata da questi pensieri, quando il suono del campanello mi fece schizzare in piedi dal momento che si trovava proprio di fianco al divano. Lanciai qualche insulto sottovoce, convinta che fosse Rita che passava a trovarmi dopo la cena a Hollywood, invece intravidi un’auto nera parcheggiata davanti al cancello. Non avevo ancora risposto perché volevo prima accertarmi che non si trattasse di qualche scocciatore e cercai di intravedere qualche sagoma, riconoscendone una piuttosto alta e caratterizzata da una chioma gonfia che non lasciava dubbi: Nikki era lì, ma stavolta la sua presenza non era poi così gradita. Continuai a osservarlo finché non ebbe la grande idea di attaccarsi al campanello in attesa che la mia pazienza terminasse e che aprissi solo per fare irruzione in casa mia, un dito puntato contro di me come se avesse voluto attaccarmi. Lo fissavo pronta a difendermi da qualunque cosa mi avrebbe detto, invece si fermò di colpo al centro della sala, lasciò cadere il braccio lungo il fianco e chinò il capo di lato come se si fosse accorto solo ora di essere entrato in casa di qualcun altro.

“Cosa vuoi ancora da me?” domandai fallendo nel tentativo di mantenere la calma. Lui si grattò la testa con aria stanca e prese posto sul divano.

“Non sono venuto fin qui perché avevo voglia di fare un giro in macchina. A dirle il vero, non sono neanche convinto di sentirmi bene. Mi sembra di avere l’influenza,” sfilò un fazzoletto dalla scatola celeste sopra il tavolino da caffè e si soffiò il naso, poi lo accartocciò e se lo cacciò in tasca. “Mi dispiace per prima, sono stato davvero un idiota. Non avrei voluto dirti quelle cose. Però tu cerca di metterti nei miei panni e di ricordarti come ci si sente quando è troppo tempo che non ti fai una dose. Forse puoi capirmi, almeno tu.”

“Purtroppo sì, me lo ricordo,” confermai incrociando le braccia. Nikki annuì e riprese a soffiarsi il naso con foga come se si fosse preso un tremendo raffreddore, cosa assai probabile dal momento che quella sera lo avevo trovato mentre girovagava per il suo cortile praticamente con solo i pantaloni.

“Quando ti ho sentita dire che non avresti più potuto sopportare questa situazione mi è sembrato di fare un salto indietro nel tempo. Mi sono visto da bambino, fermo sulla soglia della roulotte dei miei nonni, mentre guardavo mia madre e mia sorella allontanarsi. Poi ho rivissuto la sera in cui mio padre mi ha rinnegato al telefono. La sai la storia, no?” aspettò che annuissi poi si passò una mano sulla fronte, come se avesse voluto detergersi dal sudore. “Ho avuto paura che fosse giunto il momento decisivo in cui mi avresti lasciato per sempre e non saresti mai più tornata.”

Sciolsi le braccia dalla posizione difensiva e le lasciai cadere lungo il corpo senza sapere in che modo rispondergli. Se era arrivato al punto di farmi una confessione simile, proprio lui che non sopportava di apparire vulnerabile, allora significava che la situazione aveva veramente raggiunto un punto critico. Mi avvicinai e gli scostai i capelli dalla fronte, e proprio in quel momento mi resi conto che, a dispetto delle temperature esterne, aveva sudato per davvero. Ma non una piccola goccia dovuta alla tensione: stava grondando come se fossimo stati in piena estate e avesse corso da Van Nuys a Pasadena all’una del pomeriggio.

“Sei sicuro di star bene?” domandai insospettita da tutto quel sudore.

Nikki scosse il capo. “Penso di avere il raffreddore.”

Inarcai le sopracciglia. “Sudi così anche quando hai la febbre?”

“Non mi sembra, ma non ricordo bene,” si lamentò mentre si soffiava il naso. “L’unica cosa che so è che nel giro di un minuto finirò la scatola dei fazzoletti.”

Tornò ad allungare una mano verso il tavolino e mentre afferrava un lembo del fazzoletto mi accorsi che le sue dita tremavano.

“Forse dovresti riposarti un po’,” azzardai. Nikki mi guardò di sbieco e ritrasse il braccio.

“Non ho sonno, ho solo voglia di liberarmi il naso da tutto questo intasamento e di stare meglio. Posso scroccarti un’aspirina?”

Annuii e corsi in bagno alla ricerca della confezione.

Fece sciogliere la pastiglia solubile in un bicchier d’acqua e ingoiò l’intruglio tutto d’un fiato. Lo osservai con attenzione mentre degustava la medicina dal sapore che, stando a quello che era scritto sulla confezione, doveva essere qualcosa che ricordava vagamente un mix di agrumi, dopodiché posò il bicchiere sul tavolino con estrema lentezza e appoggiò il capo allo schienale del sofà.

“Perché sei venuto fin qui se non stai neanche in piedi?” domandai mentre passavo entrambe le braccia intorno al suo per tirarlo su.

Nikki aprì appena gli occhi e si umettò le labbra. “Mi sembrava corretto darti una spiegazione.”

Mi lasciai sfuggire una risata sarcastica. “Da quando tu parli di correttezza e da quando ritieni giusto fornire spiegazioni alla gente?”

Alzò le spalle e appoggiò gli stivali di pitone sul tavolino da caffè per mettersi comodo dal momento che il divano era troppo corto per lui. “Rovino sempre tutto, almeno stavolta volevo provare a salvare qualcosa.”

E di nuovo giù a soffiarsi il naso. Quando sollevò il capo, aveva gli occhi che lacrimavano per il fastidio e lo sforzo.

“Perché non torni a casa a riposarti?” gli proposi, ma si rifiutò perché diceva che le mura di casa sua erano come contaminate dai brutti ricordi e impressioni: sembrava che li rigettassero fuori quando la sua mente partiva per la tangente dopo una sniffata di troppo, allora sospirai e mi convinsi a porgli la più scontata delle domande. “Vuoi andare di là a dormire?”

Nikki si passò una mano sul volto per la noia e annuì. “Sarebbe un’ottima idea. Non credo che nessuno sarebbe disposto a ospitarmi, nemmeno Slash che, per la cronaca, l’altra notte è venuto a una festa a casa mia, ha dormito nella stanza degli ospiti e ha fatto un disastro sul materasso perché aveva bevuto troppo.”

“Spero non ti venga in mente di fare lo stesso sul mio,” lo misi in guardia mentre lo accompagnavo nella mia stanza, ancora messa a soqquadro dopo che avevo passato la notte a girarmi e rigirarmi con la vana speranza di addormentarmi, salvo poi spostarmi in salotto.

“Non preoccuparti,” mormorò Nikki prima di lasciarsi cadere a peso morto sul letto, poi si portò le mani dietro il capo e liberò un lungo sospiro.

Mi sedetti su un angolo, fortemente tentata a rimettermi a dormire. “Come ti senti?”

Nikki arricciò il naso arrossato. “Un po’ meglio. Di sicuro l’aspirina sta cominciando a fare effetto e i sintomi si stanno alleviando, ma il fatto di essere in astinenza da più di un giorno non mi sta aiutando. Ho male dappertutto e mi sento come se mi stessi sbriciolando.”

“Lo so,” biascicai. “Dovevo vedere Rita, ma credo che resterò qui a tenerti compagnia.”

Nikki si coprì gli occhi con un avambraccio. “Se vuoi puoi andare, tanto ci sono abituato ad andare a rota quando sono a casa da solo.”

“Sei ironico?” chiesi piuttosto seccata.

“Sono serio,” ribatté con estrema convinzione. “Non sarà l’esperienza più spassosa del mondo, però che ci sia qualcuno o meno cambia poco. Mi sembra di essere schiacciato da un tir, anche se so che, una volta raggiunto l’apice, poi tutto smette. Vai pure da Rita, me la caverò da solo.”

“Non penso che sia una buona idea,” obiettai, ma Nikki sollevò una mano per farmi cenno di tacere.

“Cosa dovresti fare con lei?” domandò incuriosito.

Iniziai a torcermi le mani come se fossi stata sottoposta a un processo. “Visto che domani sera è la Vigilia di Natale, dovremmo andare a comprare il regalo per Steven. Rita ha avuto un’idea quasi irrealizzabile e qualcosa mi dice che dovremo girare tutta la città per accontentarla.”

“Bene,” esclamò Nikki puntando un dito fuori dalla porta. “Va’ a fare i tuoi giri, trova il regalo per Steve, salutami Rita e divertiti. Fa’ finta che io stia benissimo.”

Se proprio insisteva perché me ne andassi, allora lo avrei fatto, anche se non ne capivo il motivo. Si era precipitato a casa mia per chiedermi se la sera prima lo avessi lasciato, terrorizzato dalla paura di rivivere ciò che aveva passato a causa dell’abbandono di sua madre e sua sorella, e adesso pretendeva che andassi via dalla mia stessa casa e che lo lasciassi riposare da solo mentre i sintomi di una crisi di astinenza – e non di un’influenza, come lui sperava – diventavano man mano meno sopportabili. Non ne capivo il senso. Forse non c’era nemmeno e tutto ciò era una conseguenza dei suoi repentini cambiamenti d’umore causati dalle sostanze, ma dal momento che era stato proprio lui a chiedermelo, decisi che sarei uscita, promettendomi di rientrare il prima possibile.

Quando la mattina seguente uscii, Nikki si era appisolato occupando il letto in diagonale e sembrava essere ancora profondamente addormentato. Non distolsi lo sguardo da casa mia finché il cancello automatico non tornò a chiudersi, impedendomi di vederne i muri bianchi e facendomi intuire che era giunta l’ora di mettersi in marcia verso Hollywood, dove Rita mi aspettava con impazienza, pronta a lanciarsi alla ricerca di una splendida chitarra per la quale Steven aveva perso la testa pochi mesi prima. Non era mai riuscito a trovarla da nessuna parte, e ovviamente Rita si era messa in testa che noi due ci saremmo riuscite nel giro di tre ore. Mi obbligò a girare in lungo e in largo tutta Downtown, a setacciare i negozi di strumenti musicali di Hollywood e Pasadena, spingendoci fino a Ventura. Era l’una, ci avevamo impiegato molto più tempo e benzina del previsto, eravamo esauste e avevamo tra le mani la più bella Jackson che avessi mai visto e provato, che però non era la chitarra dei sogni proibiti di Steve. Pazienza, aveva farfugliato Rita, tanto anche quello era un ottimo strumento e gli sarebbe certamente piaciuto.

Ora, però, bisognava che cercassi un pensierino anche per Nikki. Ero consapevole del fatto che lui, proprio come me, sapeva cogliere il gesto celato dietro ogni regalo, indipendentemente dal fatto che fosse grande o piccolo, economico o costoso, gradito o sgradito, tuttavia non avevo idea di cosa prendere. Mentre tornavamo al parcheggio con la chitarra per Steven sottobraccio, mi fermai davanti a ogni singola vetrina, da quella della gioielleria a quella di un comunissimo negozio di abbigliamento, senza mai trovare qualcosa che facesse al caso mio. Sapevo solo che, qualunque cosa fosse, mi avrebbe colpita subito e non avrei indugiato neanche un secondo, ma mi sarei fiondata all’interno del negozio. Setacciai con lo sguardo ogni angolo di vetrina, finché un paio di occhi color nocciola non mi trattennero più del previsto. Davanti a me e dietro a uno spesso vetro, seduto in una cesta di vimini insieme ai suoi fratellini, un cucciolo di labrador mi fissava con gli enormi occhi scuri come il suo manto, nero come l’ebano, scodinzolando e mostrando la lingua rosa.

Rita aggrottò la fronte e puntò un dito contro di lui. “Non vorrai mica portargli quello?”

La afferrai per un polso e la trascinai oltre la porta, dove un tremendo odore di mangimi ci colpì in piena faccia. “Perché non dovrei? Gli terrebbe compagnia e, adesso che ci penso, sono mesi che gli sento dire che vorrebbe un animale. Aveva un gatto che gli girava per casa ma è sparito, e tempo fa è stato anche tentato a comprarsi un cane, ma non l’ha più fatto.”

“Non so neanche se sarebbe capace di badare a un cane,” mormorò Rita sperando di convincermi a cambiare idea, ma alla fine firmai i documenti per l’adozione di quel cucciolo e comprai anche un sacco di crocchette da cinque chili.

“Dove lo mette quando va in tour, eh?” saltò su la mia batterista, gesticolando vistosamente con la mano non impegnata a reggere la Jackson. “Passa più tempo in giro che a casa, ed è come avere un figlio. Anzi, peggio, perché un cane non ti ascolta nemmeno!”

Nemmeno io avrei ascoltato la signorina Halford. Mi limitai a sorriderle mentre salivamo sull’auto e, dopo averla riaccompagnata a casa, mi diressi verso Pasadena con il regalo a quattro zampe che uggiolava nel baule sebbene avessi tolto il coperchio per permettergli di vedere un po’ di luce. L’unica pecca era che, poiché Nikki si trovava a casa mia, avrei dovuto consegnarglielo subito perché stavolta non si trattava di un pacco che avrei potuto tenere nascosto in garage senza temere che lo trovasse, quindi presi in braccio il cucciolo e varcai la soglia di casa, sperando che almeno adesso la piantasse di guaire per non rovinarmi la sorpresa. Mi affacciai alla porta della mia stanza e notai che Nikki era seduto alla scrivania intento a scribacchiare qualcosa su un foglio stropicciato, con i capelli che gli coprivano il viso e un aspetto totalmente differente da quello di uno che ha appena passato le ore peggiori dell’ultimo periodo.

“Mi sembra che vada meglio,” mormorai col viso tra la porta e lo stipite.

Nikki sogghignò e si stiracchiò. “Sai una cosa? Non si trattava di nessuna crisi, era solo un po’ di indisposizione. Ma adesso sto meglio, ed è questo l’importante, no? Tu, piuttosto, hai trovato il regalo per Steven?”

Sogghignai e mi lasciai sfuggire una smorfia nel tentativo di impedire al cane di guizzare via dalle mie braccia. “Sì, ma non era quello che cercavamo.In compenso ne ho trovato uno per te.”

Il suo volto pallido e magro si illuminò come quello di un bambino. “Davvero?”

“Però devo dartelo adesso perché non sta nella scatola,” feci appena in tempo a dirlo che il cane riuscì a liberarsi e, dopo essere scivolato da un’altezza di mezzo metro dal momento che mi aveva costretta a stare chinata, corse verso Nikki con i tipici movimenti impacciati dei cuccioli, facendogli strabuzzare gli occhi. Arrestò la sua folle corsa solo quando, dopo essere inciampato nella moquette che gli impediva di camminare bene, finì tra le mani di Nikki, già pronto ad acchiapparlo. Lo sollevò da terra e se lo portò in grembo, beandosi delle leccate appiccicose che gli spalmava sul viso e sulle mani come se avesse voluto ricambiare il caloroso saluto.

“Questo è il regalo più bello che abbia mai ricevuto!” esclamò mentre il cucciolo continuava a dimostrargli tutto il suo affetto. “Ho sempre voluto un cane, sai? Ne avevo uno anche quando ero piccolo e abitavo con mia nonna.”

Mi sedetti sul letto, divertita dalla scena che si stava svolgendo sotto i miei occhi e pensai che, se solo mi fossi ricordata dove avevo intanato la Polaroid, avrei potuto immortalare quel momento tra cane e padrone. “Appena l’ho visto ho pensato che ti sarebbe piaciuto.”

Gli occhi di Nikki mi fissarono con fierezza.

“Sapevo che non ti saresti sbagliata, ormai mi conosci bene,” si spostò accanto a me e lasciò che il cucciolo scorrazzasse liberamente per la stanza. “Io però non ti ho portato niente, e mi dispiace.”

“Non importa,” lo rassicurai accompagnando le parole con un sorriso. “Però se vuoi puoi rimanere qui, tanto stasera non ho niente da fare.”

Nikki scosse il capo dispiaciuto e iniziò a sfregarsi nervosamente le mani, le cui cicatrici sembravano essere un po’ migliorate.

“A dire il vero dovrei andare da Tommy perché–” si fermò come se avesse avuto bisogno di pensare poi sembrò risvegliarsi all’improvviso “–perché dobbiamo sistemare alcune cose prima di partire per il tour in Europa il prossimo anno.”

Sollevai un sopracciglio con fare scettico. “Come preferisci.”

“Ma prima vorrei ringraziarti a dovere per il mio regalo di Natale,” precisò mentre la sua mano scivolava lungo il mio braccio fino alla spalla. “Tommy può sopportare mezz’ora di ritardo. O anche di più, se necessario.”

“Questo mi sembra più che ovvio,” approvai con la voce impastata dai brividi causati dal contatto tra le sue labbra e la mia pelle. Nikki non aggiunse altro e proseguì fino a quando non mi stesi, trascinandolo giù con me.

La mezz’ora di ritardo che Tommy avrebbe dovuto sopportare fece presto a diventare un paio d’ore, ma nessuno di noi due sembrò accorgersene. Avrei anche osato dire che a Nikki non importasse più che il suo amico avrebbe dovuto aspettarlo così a lungo. Lo osservavo distrattamente mentre gironzolava per la stanza alla ricerca dei suoi stivali e non mi preoccupai neanche di alzarmi. Preferii crogiolarmi nel tepore del piumone fino al momento in cui si avvicinò per salutarmi prima di recarsi a casa di Tommy.

Mi sentivo euforica senza nemmeno saperne il vero motivo, proprio come succede alle ragazzine delle medie quando vedono passare il tipetto su cui hanno posato gli occhi, ma quando entrai in bagno per farmi una doccia capii che tutta la mia felicità era infondata. Il mio cuore saltò un battito quando sollevai il coperchio della pattumiera e trovai una siringa chiusa nella sua confezione dopo essere stata utilizzata e della carta stagnola appallottolata abbandonate al suo interno. Ora, con la gola chiusa per il dispiacere, mi rendevo conto del motivo per cui Nikki sembrava essersi ripreso così in fretta.

Mi lasciai scivolare contro il muro con la schiena ancora umida: si era fatto portare la roba a casa mia e aveva approfittato della mia assenza per prepararsi una dose. Avrebbe potuto nascondere tutto in una tasca e farlo sparire, invece non si era nemmeno preoccupato di farlo. Ed era nella mia casa, e sapeva quello che avevo passato anni prima.





N.D’.A.: Salve!
Finalmente, nonostante le condizioni critiche del mio cervello, riesco ad aggiornare!
Nikki ne ha combinata un’altra delle sue, ma stavolta Sharon non se l’aspettava proprio.
Spero che abbiate gradito l’idea del cucciolo! A me piaceva molto, poi sappiamo tutti che al tempo Nikki aveva un cucciolo di nome Whisky, e siamo anche al corrente del suo sconfinato amore per i cani – chiunque lo segua sui social network, sa che a momenti posta più foto del suo cane che di se stesso. Quindi niente, ho semplicemente pensato che un cucciolo avrebbe potuto fargli molto piacere.
Poi, woah, siamo quasi alla fine della storia! Tra un rallentamento e l’altro, è ormai un anno che ci sono dietro.
Il prossimo capitolo arriverà tra quindici giorni.
Un abbraccio e alla prossima,

Angie


Titolo: Condition Critical - Quiet Riot


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Capitolo 36
*** III.14) Alone Again ***


14
ALONE AGAIN





Rita fece un respiro profondo e riprese a incartare la chitarra elettrica che avremmo regalato a Steven con fare nervoso, ma finì per abbandonare l’impresa e batté un pugno sul tavolo del suo salotto. “Senti, ci sta che abbia bisogno della sua merda, ci sta che a casa sua se ne faccia portare a vagonate, ma non tollero il fatto che abbia lasciato quella roba in bella vista in casa tua.”

Scaricai la sigaretta nel posacenere ricavato da un piccolo sottovaso di terracotta pieno di sabbia e continuai a fumare sempre più irrequieta. “Se credi che lo perdonerò ti sbagli di grosso. Glielo dirò non appena stasera sarà tornato a casa dopo essere stato da Tommy.”

Una terza voce si aggiunse alla conversazione direttamente dal divano.

“Da Tommy?” ripeté Jamie dopo essersi seduto, stropicciandosi gli occhi, ancora intorpidito dal breve sonnellino che aveva schiacciato mentre Rita e io incartavamo la Jackson. “A me risulta che sarà da tutt’altra parte.”

Gli puntai addosso un’occhiata inquisitoria fino a farlo sentire sotto pressione. “Prego, James, elabora.”

Il bassista si stiracchiò e fece un lungo sbadiglio. “Steven Adler mi ha invitato a una festicciola al Cathouse e so che ci saranno alcuni dei Guns, qualche tipo dei Ratt e, per concludere, Nikki.”

“Tu cosa ci vai a fare a un festino in quel posto?” squittì Rita con gli occhi assottigliati e con tono minatorio.

Jamie alzò le spalle e iniziò a prepararsi una paglia. “Avanti, Halford, dovresti saperlo che non sono il tipo che si diverte con la roba pesante. Ci vado perché me l’ha chiesto un amico, poi quel posto è pieno di ragazze meravigliose.”

Rita roteò gli occhi. “Oh, allora è tutto giustificato!”

“A proposito,” riprese Jamie sfoggiando il miglior sguardo da ruffiano, “una di voi sarebbe così gentile da darmi un passaggio? La mia fidanzata ha preso la mia auto ed è sparita con le sue amiche, e per mia fortuna non la vedo da stamattina. Credo sia andata da qualche parte vicino al mare.”

“Ti ci porto io, sta’ tranquillo,” bofonchiò Rita mentre si accaniva sui nastri con le forbici per arricciarli nel miglior modo possibile. “Stasera devo fare da taxi anche a Sharon, quindi sono già in servizio.”

“Ti dispiace se partiamo subito? La festa è già iniziata da almeno un’ora,” esclamò Jamie mentre si ravvivava i capelli davanti allo specchio.

Dal momento che quella era la sera prima della Vigilia, Hollywood era piena di gente alla ricerca di qualche regalo dell’ultimo minuto e le automobili avevano intasato il Sunset Boulevard. Noi eravamo fermi in colonna, stipati in macchina e con i finestrini appannati. Jamie continuava a lamentarsi perché sarebbe arrivato al Cathouse nel momento in cui tutti sarebbero stati fuori di testa, e io ero irrequieta perché non avevo voglia di continuare a stare relegata nei sedili posteriori a farmi il bagno nell’umidità mentre le insegne al neon di locali e negozi balenavano incessantemente intorno a me.

Ci volle una mezz’ora buona prima che riuscissimo a raggiungere il locale, davanti al quale notammo un’ambulanza ferma con i lampeggianti accesi e il portellone posteriore spalancato. Una folla di persone si era accalcata intorno a essa, alcuni avevano sfoderato le macchine fotografiche lasciando intuire che fossero giornalisti alla ricerca di uno scoop interessante, e un paio di poliziotti gesticolavano nervosamente mentre parlavano col proprietario.

Jamie aprì lo sportello e rise in modo sarcastico. “Credo che qualcuno si sia di nuovo spaccato la bottiglia sulla testa.”

Scese poi dall’auto e trotterellò in direzione dell’ingresso, pronto a raggiungere gli altri. Lo guardammo sospettose mentre camminava verso la folla facendo roteare il cappello nero da cow-boy sulla punta dell’indice, poi all’improvviso si fermò elasciò cadere il cappello sull’asfalto e le braccia lungo il corpo. Rita e io non facemmo nemmeno in tempo a commentare che ce lo trovammo davanti con gli occhi sconvolti e la bocca spalancata nel tentativo di parlare.

“Cosa succede?” domandai, ma Jamie non mi rispose. Aprì la portiera, mi afferrò per un polso e mi trascinò fuori.

“Devi venire con me,” disse tutto d’un fiato e senza distogliere lo sguardo terrorizzato dai miei occhi, poi le sue mani tremanti risalirono fino alle mie spalle. “Ho visto Nikki su una barella.”

A quelle parole sobbalzai e mi sollevai sulle punte dei piedi sperando di scorgere qualche particolare che mi confermasse ciò che aveva appena detto ma, dal momento che la gente era troppo accalcata e io non ero abbastanza alta, corsi vicino all’ambulanza e cercai di farmi spazio tra la folla assestando gomitate aiutata da Jamie. Non appena riuscii a superare anche l’ultima fila di persone, mi ritrovai di fronte due paramedici in divisa bianca che sorreggevano una portantina sulla quale era disteso un ragazzo interamente coperto da un lenzuolo. Mi domandai come avesse fatto Jamie a riconoscere Nikki se quella persona era nascosta da un telo e pensai che si fosse sbagliato. Invece una mano tremante fece lentamente capolino da sotto il lenzuolo e si avvicinò al viso per scostare il tessuto rigido, lasciando intravedere la manica di un giubbotto di pelle che conoscevo bene. Sentii il cuore iniziare a battere sempre più veloce contro il mio sterno, fino a diventare insopportabile quando la mano completò l’opera e scoprì il volto bluastro di Nikki.

“Nikki!” chiamai urlando e attirando l’attenzione di tutti meno che del diretto interessato, poi mi divincolai dalla presa di Jamie e scattai ai piedi della barella.

“È vivo!” esclamò un paramedico a bordo dell’ambulanza. “Perché lo avete coperto se è vivo?”

Gli altri due impugnarono la portantina con più sicurezza e accelerarono il passo rispondendo con indifferenza. “Sembrava morto.”

“Vaffaculo!” gridai, ma mi ignorarono entrambi e si limitarono a invitarmi ad allontanarmi mandandomi ulteriormente nel panico. “Che cazzo sta succedendo? Qualcuno vuole dirmelo? Conosco questo ragazzo, ho il diritto di sapere.”

Una mano possente mi afferrò per un braccio e mi ritrovai faccia a faccia con un poliziotto dall’aspetto tutt’altro che rassicurante. “Se è per questo, signorina, qui tutte le ragazze dicono di conoscerlo e pregano per salire sull’ambulanza.”

“Sono la sua fidanzata!” esclamai senza neanche rendermene conto e senza sapere se avessi detto la verità o no.

L’agente continuò a ignorarmi e a tenermi stretta, mentre il suo collega si era avvicinato a grandi passi alla barella, rallentando le operazioni di soccorso, e aveva iniziato a scuotere Nikki per una spalla. “Dove l’hai presa la roba, tossico del cazzo? Rispondi, non fare finta di non sentire!”

E quei paramedici incompetenti si erano fermati e avevano appoggiato la barella sull’asfalto per riposarsi durante l’interrogatorio.

“Rispondimi o ti arresto seduta stante!” tuonò lo sbirro.

Gli occhi stanchi di Nikki si aprirono appena e le labbra si socchiusero quanto bastava per sibilare l’unica frase che quell’uomo si meritava di sentire. “Va’ a farti fottere.”

“Sei in arresto per possesso di droga e oltraggio a pubblico ufficiale,” sentenziò il poliziotto che mi teneva stretta come se fossi stata una belva rabbiosa.

Approfittai di quel breve attimo di distrazione per divincolarmi e corsi di nuovo accanto alla portantina, che ora aveva ripreso a muoversi verso l’ambulanza con estrema lentezza. Mi aggrappai ai bordi di metallo freddo con entrambe le mani e osservai il volto di Nikki. Era impiastricciato di trucco nero colato via a causa delle lacrime, le labbra erano secche e socchiuse, e le palpebre abbassate.

“Nikki, mi senti?” lo chiamai mentre gli scostavo dalla faccia alcune ciocche incrostate di lacca e sudore. “Per favore, rispondimi.”

Gli occhi si aprirono lentamente e la sua mano vagò a fatica fino al ventre, dove si fermò priva di forza, poi mi rivolse uno sguardo assente e spaventato. “Torna a casa.”

“Concordo,” approvò un paramedico con tono arrogante. “Sarebbe bene che lei se ne andasse e ci lasciasse finire il nostro lavoro, signorina.”

“Lo conosco veramente. Mi faccia salire sull’ambulanza, la prego,” implorai, ma l’uomo caricò la barella e mi chiuse le porte in faccia prima di sgommare via a sirene spiegate. Restai immobile per qualche secondo senza considerare le domande che mi ponevano i giornalisti che mi avevano riconosciuta, ma ben presto mi disincantai e costrinsi Rita ad andare fino all’ospedale. Davanti alle porte del pronto soccorso c’erano altri giornalisti con macchine fotografiche sguainate, taccuini e penne, tutti intenti a tempestare di domande un agitato Doc McGhee in attesa che arrivasse l’ambulanza a servire il loro scoop come se una pietanza su un piatto d’argento.

Mi fu impedito di seguire la barella e potei entrare nel reparto di rianimazione solo grazie all’intervento del manager e di Tommy, che si trovavano sul luogo da pochi minuti, dopo che qualcuno presente al Cathouse li aveva avvertiti. Mi parve di perdere coscienza per alcuni minuti che non saprei quantificare e mi risvegliai da quella specie di catalessi ritrovandomi seduta su una sedia di plastica della sala d’aspetto, le spalle contro il muro e il ticchettio di un orologio in lontananza proprio come quando, due anni prima, avevano ricoverato Brett d’urgenza. Davanti a me, entrambi seduti con le gambe incrociate e lo sguardo fisso per terra, Rita e Jamie attendevano in silenzio. In fondo al corridoio, Tommy e Doc parlottavano uno con la voce rotta dal terrore e l’altro così piano che potevo vedere solo le labbra grassocce che si muovevano, e accanto a me, immobile come una statua, Vince tamburellava le dita sul bracciolo della sua poltroncina.

“Ce la farà,” continuava a mormorare mentre si tormentava gli occhi col dorso delle mani. “Ha superato tante brutte esperienze e supererà anche questa.”
“Anche Brett ne aveva superate tante,” mormorai.

Vince si voltò verso di me con gli occhi spalancati senza sapere cosa rispondere, poi tornò a fissarsi le mani. Io invece non riuscivo a distogliere lo sguardo dalla porta rossa che mi ricordava terribilmente quella dietro la quale si era trovato Brett, col terrore che qualcuno potesse uscire e porgermi le sue più sentite condoglianze dopo che una persona a cui tenevo più della vita stessa se n’era andata. Per me sarebbe stato inconcepibile sia perdere Nikki che rivivere un’esperienza che avevo già vissuto ma mai superato, ma quando la pesante porta rossa si aprì e un’infermiera ci comunicò che l’overdose aveva avuto la meglio su di lui, per un attimo mi convinsi di essere in un incubo. Tutto intorno a me sembrava irreale, i corpi troppo sfuocati e le luci troppo potenti, ma quelli erano solo i sintomi di un leve mancamento e fu sufficiente che l’infermiera mi aiutasse a sdraiarmi per tornare a vedere ogni contorno nella sua forma originale prima che fosse nuovamente reso sfuocato dalle lacrime. Sentivo Tommy che piangeva in fondo al corridoio, Doc che spiegava a Mick quello che era successo dato che era arrivato solo ora, e intravedevo gli altri seduti con il volto celato dalle mani aperte e i gomiti sulle ginocchia. Non capivo più nulla. Mi sentivo come se fossi stata su di giri, specialmente quando mi alzai di scatto, afferrai Vince per una manica del chiodo e gli ordinai di portarmi a casa. Lui era talmente scosso dalle circostanze che estrasse le chiavi dalla tasca e si diresse verso l’auto come un automa, acconsentendo così a darmi un passaggio fino a Pasadena senza rivolgermi una sola parola. Si decise a parlare solo quando ci fermammo davanti al cancello.

“Hai bisogno di qualcosa?” domandò atono.

Aprii la portiera e scesi. “Non mi serve l’aiuto di nessuno, ce la faccio benissimo anche da sola, come ho sempre fatto.”

Vince sospirò e puntò lo sguardo in fondo alla strada. “Quando parli così mi ricordi Nikki. Dio, perché lo ha fatto?”

Restai immobile a fissarlo mentre lui fissava a sua volta un punto a caso davanti a sé, perso.

“Avanti, scendi ed entra in casa,” mormorai. “Almeno avremo entrambi una spalla su cui piangere.”

Vince annuì e mi seguì in religioso silenzio, disincantandosi solo quando il cucciolo di labrador iniziò a uggiolare da dietro la porta del garage, dove lo avevo sistemato provvisoriamente. Non appena la aprii uscì e iniziò a mordicchiare la punta dei miei stivali, allora lo presi in braccio, passai una mano nel suo pelo morbido e mi appoggiai con la schiena contro al muro.

Era il regalo di Natale di Nikki. Lo aveva desiderato per così tanto tempo e, adesso che ce l’aveva, non avrebbe potuto goderselo.

Il cucciolo continuava a leccarmi il viso. Era ancora troppo giovane per percepire gli stati d’animo di un essere umano come facevano i miei cani in Louisiana, che ogni volta che piangevo si accovacciavano di fianco a me e non schiodavano finché non mi ero calmata.

Lasciai andare il cagnolino e lo osservai correre impacciato fino ai piedi di Vince, che sembrava non essersi nemmeno accorto della sua presenza, poi mi staccai dal muro e salii le scale per andare nella mia stanza, dimenticandomi di un particolare fin troppo rilevante. Mi fu sufficiente varcare la soglia per rivedere Nikki seduto alla scrivania mentre scriveva e rivivere il momento in cui gli avevo consegnato il suo regalo di Natale. Presi posto sul letto, sfinita dal dolore, e solo quando appoggiai la testa sul cuscino mi resi conto che era ancora impregnato del suo odore, così come ogni altra cosa in quella stanza. Del resto era stato lì fino a poche ore prima, ed era stato mio. Come avrei potuto immaginare che nel giro di neanche un giorno lo avrei perso in quel modo così assurdo?

Non volevo piangere perché in quel momento ero convinta che le lacrime avrebbero coperto il suo odore sulla federa, ma ogni sforzo si rivelò inutile.

“Lo sapevo che era vero,” sussurrò Vince con lo sguardo sempre più assente.

Asciugai gli occhi con un lembo del lenzuolo. “Cosa?”

“Di voi due,” rispose a bassa voce. “Non siete mai stati sempre e solo grandi amici.”

“Non è durata molto,” lo interruppi.

Adesso che anche quello era venuto a meno, proprio come era successo con Brett, volevo solo scappare. In una frazione di secondo un milione di idee passarono attraverso la mia mente: avrei potuto ributtarmi sull’alcol o sulla cocaina, avrei potuto fare le valigie e sparire per sempre. Oppure avrei potuto affrontare la situazione, una soluzione più difficile ma meno dannosa. Sarebbe stata ottima se solo avessi avuto le forze per sopportare e combattere ancora.

“Ho bisogno di lui,” ripresi dopo un attimo di silenzio. “Ce l’ho sempre avuto, proprio come lui aveva bisogno di me. Ci sostenevamo a vicenda e lo abbiamo fatto anche nei momenti più duri. Ma adesso che non c’è più, dimmi dove posso andare, da chi posso andare?”

Vince si sedette sul pavimento accanto al letto e appoggiò un gomito sul materasso. “L’avevo capito. Adesso però è giunta l’ora di cavarsela da soli per davvero. Sei stata forte fino ad ora, per quanto hai potuto, quindi è normale che il peso della situazione ti abbatta, ma non devi mollare. So che vi eravate d’aiuto a vicenda e ho anche invidiato il vostro rapporto. Pagherei oro per avere una persona come uno di voi al mio fianco, ma non ce l’ho e vado avanti da solo e alla mia maniera.”

Mi asciugai una lacrima con la punta dell’indice. “Tutti possono avercela.”

“Non io. Dovresti conoscermi,” ribatté Vince, poi mi accarezzò un braccio con un gesto fraterno. “Se potessi aiutarti lo farei, ma non ne sono in grado. Tu invece sei meglio di me. Tieni duro, Sharon, e vedrai che presto avrai ciò che meriti. Anche Nikki avrebbe potuto averlo perché, in fin dei conti, anche se era uno stronzo, qualche pregio ce l’aveva. Invece quella merda se l’è portato via.”

“L’ha portato via a voi, a noi, a me,” precisai mentre con una mano stringevo un lembo della coperta mai sistemata.

“Avrò tanti ricordi di lui,” ammise Vince senza guardarmi. “Del resto siamo stati come fratelli per molto tempo. Ultimamente le cose non andavano come avremmo voluto, ma sono sicuro che, forse, avremmo potuto sistemarle e farle tornare come all’inizio. Invece adesso non si può più.”

Restai immobile e apparentemente impassibile quando appoggiò la testa contro il bordo del materasso e nascose gli occhi contro l’avambraccio. Avrei voluto fare qualcosa perché la mia natura me lo imponeva, ma non ne avevo le forze. Ero così distrutta che non riuscii nemmeno a raggiungere il telefono quando poco dopo iniziò a suonare, costringendo colui che mi aveva chiamata a digitare il numero per la seconda volta in modo da lasciarmi abbastanza tempo per rimettermi in piedi e sollevare la cornetta, riconoscendo una voce che non sentivo da parecchio tempo.





N.D’.A.: Ciao!
Alla fine è successo quello che ormai ci aspettavamo e che non ci era nuovo.
Su questo capitolo non aggiungo nulla. Del resto, la storia la sappiamo tutti. Però chissà chi è che ha chiamato Sharon alla fine del capitolo? La vostra curiosità sarà presto soddisfatta dal momento che, essendo finalmente libera da ogni impegno scolastico, farò in modo di pubblicare il prossimo capitolo abbastanza presto.
La storia sta volgendo verso la fine, ma questo non significa che non ci saranno più imprevisti.
Grazie a chi segue! ❤️
Alla prossima,

Angie


Titolo: Alone Again - Dokken


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Capitolo 37
*** III.15) Til Death Do Us Part ***


16
TIL DEATH DO US PART





“Ehm... Sharon Smith?” biascicò una voce stanca e sconvolta dall’altra parte della cornetta, lasciandomi perplessa. “Sono Mick. Mick Mars. Scusa se ti disturbo, non avrei dovuto telefonarti io, ma Rita e Jamie sono andati via dall’ospedale subito dopo di te, Tommy è qui che bestemmia con Doc, e io sembro l’unico in grado di articolare una frase di senso compiuto.”

Mi passai una mano sul volto e sbuffai sonoramente, zittendolo. “Senti, Mick, non è che ce l’ho con te, ma non penso che questo sia il momento adatto per delirare al telefono. Capisco che non sia una situazione facile, ma–”

“No, aspetta, fammi finire,” mi interruppe con tono brusco e autoritario, poi assunse quello più quieto di poco prima. “Ti ho chiamata perché volevo dirti che Nikki è scappato.”

Aggrottai la fronte senza essere certa di aver capito bene ciò che mi era appena stato detto e rivolsi uno sguardo confuso a Vince, il quale aggrottò a sua volta la fronte. “Fatti accompagnare a casa, d’accordo? Hai bisogno di dormire.”

“È scappato per davvero!” ripeté Mick con estrema convinzione. “Poco dopo che tu e Vince ve ne siete andati, si è risvegliato. Non chiedermene il motivo perché i medici hanno provato a spiegarmelo, ma non sono riuscito a capire. Tommy, Doc e io eravamo agli studi impegnati a cancellare date e appuntamenti per alcune interviste quando abbiamo ricevuto una chiamata dall’ospedale in cui ci hanno detto che si è strappato i tubi da addosso, ha mandato tutti a farsi fottere ed è uscito. Poi nessuno l’ha più visto.”

“Oh, merda...” riuscii a borbottare, poi riattaccai in faccia a Mick e mi voltai di scatto verso Vince per ripetergli le stesse parole che mi erano appena state comunicate. Una vaga idea di dove potesse trovarsi in quel momento ce l’avevamo entrambi, e quando Vince digitò il numero della casa a Van Nuys capimmo che avevamo fatto centro: il messaggio della segreteria telefonica era stato cambiato di recente e recava una frase tutt’altro che piacevole – “Ciao, sono Nikki e non ci sono perché sono morto”.

Vince e io ci guardammo a vicenda come se avessimo potuto trovare una spiegazione a tutto ciò negli occhi dell’altro. Fui la prima a interrompere il contatto visivo e, dopo avergli chiesto se aveva voglia di venire con me fino a Van Nuys e aver ricevuto una risposta negativa, indossai velocemente il chiodo, balzai a bordo della mia auto e mi diressi verso la San Fernando Valley, dove arrivai verso le cinque della mattina. Posteggiai raso al muro per poterlo scavalcare salendo sul tettuccio della macchina, passai attraverso la finestra della cucina, che riuscii ad aprire grazie a un buco nel vetro, e salii direttamente al piano di sopra. La porta dello sgabuzzino era aperta e mi permise di vedere che al suo interno non c’era nessuno. In compenso, quella del bagno era chiusa. La spalancai con un colpo sicuro e carico di rabbia e mi ritrovai davanti uno scenario disgustoso: Nikki era sdraiato a pancia in su sul pavimento, sopra un ammasso di tappeti e asciugamani impregnati di acqua e vomito, con ancora un ago infilato nel braccio e l’altra mano sporca di sangue, probabilmente nel tentativo di tamponare quello che era uscito dal forellino sulla pelle. Vedevo che respirava, il che significava che era ancora in vita, ma questo non servì a impietosirmi, anzi, mi fece arrabbiare ancora di più. Varcai la soglia con un solo passo, mi chinai di fianco a lui e iniziai a scuoterlo per una spalla.

“Svegliati, cazzo! Apri quegli occhi!” gridai.

Nikki sobbalzò e si sedette lentamente, stupendosi della chiazza rossa sulla mano destra.

“Che schifo...” biascicò, ancora stordito dalla batosta e dal sonno.

“Proprio così: che schifo!” ripetei a pochi centimetri dal suo viso. “Lo sai cos’hai fatto? Hai una vaga idea di quello che è successo?”

Nikki tirò su col naso e si stropicciò gli occhi sbavando il trucco nero già in pessime condizioni. “Oh, sì, certo. Sono morto, sono ritornato in vita, ho mandato a fare in culo due infermiere e mi sono fatto portare a casa da due tipe piagnucolanti. Poi ho trovato la mia roba.”

Lo afferrai per entrambe le spalle: la sua testa si muoveva come se fosse stata priva del sostegno della colonna vertebrale e i suoi occhi mi osservavano confusi. “Tu eri morto. Morto, cazzo!”

“Peccato che adesso sia di nuovo vivo,” farfugliò abbozzando una smorfia che avrebbe voluto essere un sorriso sarcastico. “A quanto pare, dall’altra parte non mi vogliono, né di sopra né al piano interrato.”

“Smettila,” lo pregai mentre tentavo di trascinarlo fuori dal bagno, ma fui costretta ad abbandonare l’impresa perché non ne avevo la forza. “Quando mi hanno detto che eri morto avrei voluto sparire dalla faccia della Terra. Mi avevano detto che non ti avrei più visto, che non avrei più potuto parlarti, e invece adesso ti trovo qui, vivo e vegeto, grazie a Dio, e cosa cazzo devo sentire? Che preferiresti essere morto?”

Nikki tornò a tirare su con il naso, che doveva essere ancora irritato da tutta la cocaina che aveva sniffato prima che arrivassi.

“Maledizione, saresti potuto–” lasciai la frase a metà come se, pronunciandola, ciò che stavo per dire avrebbe potuto avverarsi.

“Per favore, non dire così,” mormorò Nikki col capo appoggiato contro il bordo della vasca da bagno. “Se me ne fossi andato avrei posto fine a questo calvario.”

“Però sarebbe ricominciato il mio,” tali parole lo zittirono e sembrò riacquistare una piccola parte della lucidità che aveva perso. “Io ho ancora bisogno di te proprio come tu ne hai di me. Se io riuscivo a trovare le parole giuste per confortarti, tu riuscivi a trasmettermi l’affetto di cui avevo bisogno e che voglio sentire ancora,” mi chinai di fianco a lui e lo abbracciai. Ebbi come l’impressione di aver circondato con le braccia il fusto di un albero centenario. “Ti sei arrabbiato con me quando hai creduto che non volessi più stare con te, ma alla fine sei stato tu ad abbandonarmi. Per un attimo mi sono sentita persa. Non sapevo più cosa fare, dove andare, con chi parlare... non avevo più te e non avevo più nessuno.”

Nikki sollevò a fatica un braccio e posò la mano sopra la mia testa nel tentativo di accarezzarmi i capelli. “Non ti ho mai abbandonata e non voglio farlo.”

“Ci sei quasi riuscito,” ribattei premendo il volto contro la sua spalla.

“Adesso sono qui, sono vivo e in fondo so che voglio continuare a vivere. Per te che mi vuoi bene, per Tommy che mi sopporta da anni, per la band e anche per me, che mi sto perdendo tante cose belle,” ammise con i pugni serrati e gli occhi fissi sul pavimento. “Avevo delle persone che mi amavano e ho dubitato di loro, avevo un gruppo che un tempo credeva in me e spero che continui a farlo. Ne ho piene le tasche di svegliami la mattina pensando solo a come fare per procurarmi un’altra dose, e non voglio più addormentarmi con il dubbio se mi sveglierò o no. Voglio vivere in modo normale e godere delle cose positive della mia vita anche se posso contarle sulle dita di una mano. Dovete aiutarmi, Sharon. Sono stanco di sopportare una situazione che non mi piace, sono stanco di questo non-vivere, e sono stanco di essere stanco.”

“È questo ciò che voglio sentirti dire, Nikki,” mormorai commossa dallo sforzo enorme che aveva appena compiuto. Aveva finalmente capito che l’unico modo per uscire da quella situazione opprimente con la quale conviveva da ormai troppo tempo era volerlo per davvero e farlo per se stessi, non per fare un piacere a qualcun altro con la convinzione che, tanto, ogni soluzione non sarebbe stata utile.

Nikki mi chiese di aiutarlo ad alzarsi dal pavimento e, una volta che fu in piedi, si trascinò fino alla finestra per aprire gli scuri e far entrare la luce. Si coprì il volto con le mani per ripararsi dai raggi dell’alba e, una volta che si fu abituato alla loro intensità, osservò la sua stessa pelle brillare sotto la luce come non vedeva da mesi. Un sorriso si fece largo sul suo viso e mi chiese di fare il giro della casa per spalancare tutti gli scuri e tutte le finestre perché quella villa aveva bisogno che il sole e l’aria fresca risanassero le sue pareti seccando l’umidità ed eliminando l’odore pestilenziale che stagnava in ogni stanza.

Aveva finalmente deciso di porre fine a quella storia e aveva iniziato con quel semplice gesto che racchiudeva un significato ben più profondo di quanto sembrasse. Fu proprio in quell’occasione che si rese conto di non aver mai amato così tanto la luce che fino a poco tempo prima aveva voluto domare con pesanti tende di velluto. La casa non sembrava neanche più la stessa ora che i raggi del sole avevano rischiarato le pareti: i gargoyle sembravano più piccoli e quasi buffi, il legno dei mobili più brillante, e anche la vita sembrava aver preso un sapore meno aspro.

“Chiama Doc,” esclamò Nikki dopo avermi piazzato la cornetta telefono sotto al naso. “Chiamalo e digli che sto bene e che voglio che mi porti via da qui.”

Non esitai e composi immediatamente il numero dell’ufficio del suo manager, dove ero certa che l’avrei trovato dal momento che, come mi aveva detto Mick poco prima, era impegnato a fare le telefonate necessarie per annullare in tour in Europa. Inutile dire che inizialmente Doc non volle credermi, ma quando si convinse che le mie parole non erano la conseguenza dello shock come aveva pensato all’inizio, inforcò l’auto e guidò fino a Van Nuys portando con sé anche il resto della band per una riunione improvvisata. Mi spostai al piano superiore in attesa che finissero quello che più che una chiacchierata sembrava un litigio, e tornai salone solo quando sentii la porta principale chiudersi con un colpo.

“Doc ha detto che ci prende uno a uno e ci chiude in un centro di disintossicazione,” sintetizzò Nikki con nonchalance. “Se devo essere sincero, non vedo l’ora. So che sto andando incontro a mesi di tortura fisica e psicologica, ma almeno stavolta servirà a qualcosa, sia a me che agli altri. Dopodomani mi trasferirò con loro in un postaccio tipo prigione non molto lontano da qui. Verrai a trovarmi qualche volta?”

Gli feci cenno di seguirmi mentre mi dirigevo verso il patio sul retro e mi sedetti su una sedia di paglia. “Dopodomani ripartirà il mio tour. Saremo in viaggio per altri tre mesi, poi torneremo e potremo vederci tutte le volte che vorremo.”

Nikki avvicinò la sedia alla mia facendo strisciare i piedini sulle mattonelle di cotto, lo sguardo abbassato.

“Odio quando dici che devi partire,” confessò. “Però so che ti divertirai, e mi fa piacere sapere che tu stia bene. Parti e non preoccuparti per me, me la caverò benissimo.”

Il contatto del suo palmo freddo e umido con la mia mano mi fece rabbrividire.

“Hai freddo? Vuoi tornare dentro?” domandò Nikki.

“Sono solo stanca,” biascicai, poi appoggiai il capo alla sua spalla mentre osservavo il giardino incolto, domandandomi se lo avrebbe mai fatto sistemare.

“Non appena ne avrò la possibilità, comprerò una casa nuova, più luminosa e con un giardino ancora più grande, così il cane avrà più spazio per correre,” esordì come se mi avesse letto nel pensiero, poi mi picchiettò un dito sulla spalla per attirare la mia attenzione. “A proposito, come sta quella bestiola? Che ne sarà di lui ora che io vado in riabilitazione e tu riparti?”

“Sta’ tranquillo, troverò un bravo dogsitter,” risposi con gli occhi già chiusi per godere del lieve tepore dei raggi del sole.

“Quando potrò tornare a casa lo porterò con me,” disse Nikki con estrema convinzione, poi si lasciò sfuggire un lungo sbadiglio. “Mi sento a pezzi. Credo che andrò a riposarmi.”

“Non vedo cos’altro potresti fare dopo una nottata del genere,” mormorai mentre mi stringevo al suo braccio come se avessi voluto constatare che fosse veramente con me. “Tu non sai che cazzo di paura mi hai fatto prendere. Ho rischiato di perdere una delle persone a cui tengo di più.”

“Anch’io,” rispose Nikki prima di alzarsi senza lasciarmi andare. “Ho rischiato di perdere quel po’ che avevo senza nemmeno darmi la possibilità di trovare di più.”

“Vedrai che presto avrai ciò che meriti,” dissi mentre fissavo distrattamente il giardino malconcio davanti a me. “Tutti sbagliamo, però poi possiamo rimediare. Non sarà facile, ti avverto fin da subito, ma questo non significa che sia impossibile. Ce la farai anche senza di me.”

Nikki sbuffò sonoramente e appoggiò il capo al muro dietro di lui. “Ti prometto che quando sarò finalmente uscito da questa situazione di merda, troverò il modo per ringraziarti.”

“Ringraziarmi per cosa?”

“Per non avermi mai lasciato solo.”

“Non ce n’è bisogno,” obiettai prontamente. “Mi basta che tu sia di nuovo qui, non chiedo nient’altro.”

“Peccato che dopodomani tu debba già partire,” ribatté sarcastico.

Gli circondai le spalle con un braccio e lo strinsi forte a me.

“Tornerò presto,” sussurrai anche se ero consapevole che non avrei fatto in tempo a scendere dall’aereo che John Gates avrebbe già pianificato i prossimi due anni della band.

“Avvertimi quando stai per partire, così saprò quando devo passare da casa tua.”

Sorrisi mentre gli accarezzavo i capelli, certa del fatto che quella fosse una delle ultime volte in cui ci saremmo visti, ignorando completamente il fatto che il destino non riserva solo brutte esperienze, ma anche cambiamenti inaspettati.





N.D’.A.: Buongiorno!
Stavolta pubblico dopo una settimana. Mi sembra il minimo che possa fare!
Il mistero della chiamata è stato risolto e, se ai nostri occhi non risulta nulla di particolare, ha in realtà cambiato la giornata di parecchie persone, Sharon inclusa. Ad ogni modo, l’importante è che Nikki sia riuscito a capire dove ha sbagliato e, soprattutto, in che modo affrontare la situazione, cosa che nella vita reale è però avvenuta un po’ più tardi, ma va be’!
Questo, comunque, era l’ultimo capitolo della terza parte, nonché il penultimo dell’intero racconto. La prossima volta arriverà la parte conclusiva.
Spero che la storia sia stata di vostro gradimento e spero che il finale lo sia altrettanto!
Come al solito, un mega grazie a chi segue! ❤️
Alla prossima,

Angie


Titolo: Til Death Do Us Part - Mötley Crüe


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Capitolo 38
*** Epilogo) Heaven ***


Epilogo
HEAVEN





Hollywood, CA, agosto 1988

Agguantai l’avambraccio destro di Nikki e lo strattonai nonostante le mie condizioni fossero delle peggiori.

“Esci subito da qui! Sei un sadico approfittatore, ed è tutta colpa tua!” gridai con tutto il fiato che avevo in gola.

Nikki si limitò a scuotere il capo e cercò di passarmi una mano tra i capelli, ma io lo scacciai e scoppiai di nuovo a piangere, ora implorandolo di restare.

“Sherry, tesoro, se evitassi di strapparmi un arto te ne sarei grato,” squittì infastidito dalla mia mano che lo stava stritolando da ormai tre lunghissime ore.

Roteai gli occhi e scostai la frangia sudata dalla fronte. “Tu non saprai mai cos’è il vero dolore, io sì! Quindi taci e lasciami in pace!”

Nikki sospirò rassegnato e rivolse un’occhiata disperata a un’infermiera, la quale gli porse l’ennesimo bicchier d’acqua della giornata e tentò di rincuorarlo. “Non si preoccupi. Dopo sette ore di travaglio chiunque inizierebbe a delirare. Cerchi di portare pazienza.”

“È tutta la notte che porto pazienza,” ribatté Nikki. “Non avete niente che possa aiutarla? Che ne so, del paracetamolo, o qualcos’altro. Me lo dica lei, siete voi i medici, non io.”

“Qui niente di nuovo,” saltò su l’ostetrica dopo essere riemersa da dietro il lenzuolo celeste teso tra le mie ginocchia, poi si rivolse a una collega. “Va’ a chiamare l’anestesista. Lei non ce la fa più e se entro un quarto d’ora non avrò visto dei miglioramenti, interverremo.”

Non appena la mia mente accecata dal dolore riuscì a elaborare il significato di quella frase, tornai ad afferrare la mano di Nikki e, se solo le mie gambe non fossero state immobilizzate, avrei preso a scalciare. Nel delirio non mi interessava affatto che qualcuno mi aprisse, ma avevo il terrore che potessero commettere un errore e fare del male al mio bambino. Poi volevo essere io a mettere al mondo mio figlio. Nessun altro doveva azzardarsi a farlo per me.

Vidi l’infermiera appoggiare una mano sulla spalla di Nikki, ora coperta dal tessuto sterile del camice verde che aveva dovuto indossare. “Dobbiamo spostare Sharon in sala operatoria. Venga, la accompagno fuori.”

Aumentai la morsa e l’espressione adirata lasciò posto ad una di terrore. “No, Nikki, non te ne andare. Non lasciarmi da sola con queste persone!”

L’infermiera cercò di sciogliere il groviglio di dita che tenevano Nikki ancorato alla mia barella e lo condusse fuori. Voltai il capo in direzione dell’uscita e vidi che stava per andarsene e abbandonarmi alla mia sorte per essere rimpiazzato dalla figura distinta del chirurgo, ora impegnato a controllare la mia cartella clinica.

Lo sforzo di voltarmi risultò presto eccessivo: la vista iniziò ad annebbiarsi e la schiena sembrò frantumarsi in mille pezzi, senza contare che avevo perso la sensibilità delle gambe da qualche minuto.

“Nikki!” chiamai, e avrei ripetuto il suo nome all’infinito se una fitta non mi avesse trapassato il corpo, togliendomi il respiro.

L’ostetrica biascicò qualcosa a unavcollega, ma io non sentivo più nulla fatta eccezione per i miei stessi lamenti.

E fu proprio allora che mi accorsi che Nikki era tornato a sedersi accanto a me e che le sue mani erano chiuse intorno alla mia. Gli occhi brillanti non guardavano più il mio viso madido di sudore, ma erano fissi sul telo azzurro, colmi di speranza.

“Ancora uno sforzo, Sharon,” mi incitò l’infermiera e stavo anche per ribattere quando mi zittì. “Risparmia il fiato, cara, e continua così. Stai andando benissimo.”

Strinsi i denti. Serrai le mani.

“Nikki!” un urlo acuto dal profondo della gola.

“Ci sono, Sherry, sono qui,” una voce tremante e allo stesso tempo impaziente.

Lo vedete?

“Lo vedo.”

“Nikki!”

Dove sei, Nikki? Non sento più nulla.

Un lampo mi attraversò gli occhi.

“Brett!”

Brett che, quando da piccola cadevo e mi facevo male, era costretto a prendermi in spalla e a sopportare i miei strilli di dolore fino a casa sua, dove sua madre mi medicava i gomiti, le mani o le ginocchia. Ma quel “Brett” non era stato solo un riflesso involontario o un ricordo che era sfuggito da un qualche angolo remoto del mio cervello ed era passato tra le mie labbra. Brett era mio figlio, e lo chiamavo nell’impazienza di abbracciarlo.

L’infermiera che mi stava assistendo mi tamponò la fronte con un fazzoletto senza smettere di incoraggiarmi, mentre altre teste erano scomparse sotto il lenzuolo azzurro.

Ormai non avevo più energie. A volte mi fermavo e aspettavo di radunare le poche forze rimaste prima di tornare a spingere e urlare. Le luci potenti della stanza sembravano lumini, il lenzuolo e la mano di Nikki, su cui mi stavo sfogando, avevano una consistenza molle e inusuale, e le voci risuonavano confuse e lontane. Poi, all’improvviso, mentre ero immersa in quelle sensazioni spiacevoli e spaventose, tutto cessò come se qualcuno avesse premuto l’interruttore e un pianto sconvolto sovrastò le voci dei medici. I miei riflessi ripresero a essere pronti e immediati, e capii subito che si trattava del mio bambino.

Finalmente lo vidi: era là, controluce, tutto sporco eppure così perfetto.

Sentii le mani di Nikki appoggiarsi sulle mie spalle e mi accorsi che aveva gli occhi spalancati e puntati verso suo figlio che parlavano per lui e sembravano dire “davvero sono riuscito a fare questo?”.

“Oh, mio Dio...” mormorò, poi mi osservò con gli occhi lucidi mentre mi appoggiavano quella piccola creatura sul petto. Non appena la sua pelle vellutata e bollente sfiorò la mia, una lacrima mi rigò il viso e percepii una strana forza ultrapotente che ci avrebbe legati per l’eternità.

“Senti, Nikki,” dissi mentre gli prendevo una mano per poi adagiarla lentamente sulla schiena umida del piccolo Brett. “Senti com’è morbido. E guarda che bello!”

Lui nascose il volto contro la mia spalla per celare le lacrime che gli scorrevano lungo le guance. Non fece però in tempo a risollevarsi perché l’infermiera prese delicatamente il piccolo Brett per poterlo ripulire, dopodiché mi spostarono nella stanza singola che avevo dovuto affittare per evitare che i giornalisti infastidissero me, Nikki e i nostri conoscenti anche in quell’occasione così privata.

Attesi un infinito quarto d’ora prima che l’infermiera facesse la sua comparsa spingendo la piccola culla di plexiglass decorata con nastri di stoffa colorata. Proprio in quel momento mi domandai se sarei riuscita ad accudire quei due chili scarsi di essere umano come una vera madre e ne ebbi la conferma quando il corpicino tiepido di Brett si rilassò non appena lo presi in braccio. Nikki si sedette sul materasso, la sua spalla contro la mia, e prese ad accarezzare con un dito il dorso della manina rosea e ancora chiusa a pugno.

“Vuoi provare a prenderlo un po’ tu?” gli chiesi.

“Non credo di esserne capace.”

“Io ho avuto tanti fratelli e cugini piccoli e non ho mai saputo tenerli,” dissi, poi indicai Brett con lo sguardo. “E adesso guarda un po’ che magia.”

Nikki mi rivolse un sorriso sghembo e attese che gli passassi il bambino, che era così piccolo che poteva tenerlo stretto a sé con una sola mano.

“Non riesco ancora a crederci,” mormorò mentre studiava Brett con estrema attenzione e meraviglia. “Un anno fa ero raggomitolato nel mio sgabuzzino a scrivere sul mio diario che non avrei mai avuto una famiglia, e adesso ce l’ho. Sai, quando venivi a trovarmi alla clinica le infermiere mi chiedevano sempre di te. Volevano sapere se stavi bene e quando sarebbe nato. Quando me ne sono andato e le ho salutate per l’ultima volta, mi hanno detto di farti gli auguri.”

Appoggiai il capo alla sua spalla. “L’ho sempre pensato anch’io, ma Brett diceva che mi sbagliavo e che sarei stata la migliore delle madri e lui il migliore degli zii.”

Calò il silenzio: avrei voluto che fosse lì a coccolare il suo nipotino insieme a noi, così avremo condiviso anche quel momento, come avevamo sempre fatto.

“Se lo scorso Natale non mi avessero tirato fuori dai guai per miracolo, non avrei mai potuto vivere un’esperienza così bella,” disse Nikki senza mai staccare gli occhi da Brett.

“Se non ci fossero riusciti tu mi avresti lasciata da sola con lui,” lo corressi.

“E Brett non mi avrebbe mai conosciuto. Non è piacevole crescere senza un padre, e lo deve essere ancora meno quando ti rendi conto che è andato in overdose poche ore dopo che tua madre ti ha concepito,” sibilò irritato per poi calmarsi non appena Brett fece un lieve movimento tra le sue braccia. “Ma adesso sono qui e voglio godermi la vita, e farò in modo che a questo ragazzino non manchi mai nulla.”

Lo adagiò nella culla con una delicatezza che non si addiceva affatto a un rocker pieno di tatuaggi e, proprio quando ebbe finito di rimboccargli le coperte, qualcuno bussò. Una testa riccioluta fece capolino dalla porta socchiusa e Tommy sogghignò. “Si può?”

“Vieni pure, bro, però cerca di fare poco casino,” lo ammonì Nikki.

A quel punto Tommy entrò seguito dal resto della band e con un enorme mazzo di fiori.

“Questi sono per Sharon!” esclamò giulivo come un bimbo, poi ne estrasse una splendida rosa gialla e la porse al bassista. “E questo è il mio contributo per Sixx. Adesso posso vedere il pargolo?”

Gli indicai la culla mentre informavo gli altri riguardo il mio ottimo stato di salute e continuai a osservarlo con la coda dell’occhio: si era incantato a guardare Brett ed era immobile con la bocca spalancata e gli occhi fuori dalle orbite, leggermente chino sulle ginocchia per via della sua notevole altezza.

“Ehi, Mick, Vinnie!” esclamò moderando il tono della voce. “Venite qui a vedere questo cosino!”

Mick si sporse sulla culla e aggrottò la fronte. “Ma è biondo. Com’è possibile?”

“Quella peluria biondo platino cadrà tra qualche mese per dare spazio a una criniera degna di un Sixx e di uno Smith,” ribatté Nikki. “E non farà altro che diventare sempre più bello.”

“Senti come parla!” lo derise una quarta voce, che riconobbi come quella di Rita. Infatti, come avevamo previsto, la mia band era passata a farmi visita e la gang di quelli che avevano preso a definirsi “zii” poteva ora essere considerata al completo.

La mia stanza era invasa da persone che parlavano sottovoce: Mick continuava a borbottare riguardo i pochi capelli biondi di mio figlio perché non gli piacevano, Nikki gli ricordava che anche lui da bambino li aveva dello stesso colore, e Rita e Tommy erano seduti di fianco alla culla, intenti a rimirare il piccolo Brett mentre dormiva beato.

Dopo mezz’ora di chiacchiere e complimenti, Steven e Jamie ci salutarono perché avevano un impegno e promisero che sarebbero tornati nel pomeriggio, poi fu la volta di Rita, che non riusciva a sopportare l’idea che non avrebbe visto Brett fino a quella sera, sostenendo che avrebbe certamente riscontrato dei cambiamenti nel giro di quelle poche ore che avrebbe trascorso lontano da lui.

“Tommy?” chiamò poi Nikki, costringendolo a sollevare lo sguardo compiaciuto dal pupo addormentato. “Vado al bar a mangiare qualcosa. Non c’è after senza scorpacciata fuori orario. Vieni con me?”

“Sì, sì, certo. Ho fame anch’io, anche se non ho partorito tutta notte,” rispose l’altro, poi sparirono nel corridoio seguiti da Mick.

Vince era rimasto nella mia stanza, seduto su una poltroncina e in silenzio, impegnato a guardarsi le dita mentre le torceva distrattamente.

“Vince?” lo chiamai sorprendendolo all’improvviso. “Perché non vieni a sederti qui vicino a noi?”

Lui abbozzò un sorriso e prese posto sulla sedia accanto al letto mentre sollevavo Brett dalla culla per tenerlo in braccio.

“Non avrei mai pensato che un giorno sarei venuto a trovarti in ospedale perché tuo figlio è nato,” disse Vince, gli occhi fermi su Brett che muoveva lentamente le manine.

Mi voltai verso di lui con sguardo interrogatorio. “Cosa vuol dire?”

“Che nell’Ottantadue ero convinto che un giorno mi sarei svegliato e ti avrei trovata sdraiata di fianco a me priva di sensi,” spiegò con un tono freddo che si riscaldò non appena il dorso del suo indice sfiorò una gambetta nuda di Brett. “Invece adesso stai bene e guarda che bel marmocchio hai messo al mondo! Quando ci siamo parlati per la prima volta al Troubadour ho pensato che fossi solo una ragazzina stupida a cui avrei potuto scroccare tutta la coca che volevo, poi ho imparato a conoscerti e ho capito che meritavi molto di più. Meritavi quello che hai ottenuto oggi. E anche Nikki lo merita.”

“Siamo davvero molto contenti,” risposi. “Ci sembra di aver ripreso quello che la vita ci doveva.”

Vince sorrise. “Per quanto normalmente mi seccherebbe dire una cosa simile nei confronti di Nikki, stavolta sono felice di ammettere che hai ragione tu: siete riusciti nel vostro intento.”

Percepii una lieve vena di tristezza ben camuffata nel suo tono di voce pacato e nello sguardo come se si fosse sentito sconfitto, allora mi venne spontaneo invitarlo a provare a tenere Brett al posto mio. Sapevo che lo avrebbe fatto sorridere, e infatti lo fece non appena il bambino tentò di stiracchiarsi tra le sue braccia.

“Non sono abituato a queste cose, anche se dovrei esserlo,” disse. “E forse non sono neanche portato per i mocciosi, ma i miei figli sembrano pensare il contrario.”

“Credi che Nikki e io la pensassimo diversamente?” domandai divertita dall’espressione intenerita che rapiva i volti di tutti quelli che venivano in contatto con Brett.

Vince fece spallucce. “Assolutamente no. Però sento che, in un modo o nell’altro, tra un impegno e un tour, riuscirete a crescere questo ragazzino.”

Me lo restituì e tornai ad adagiarlo all’altezza del mio petto perché mi ricordavo che, quando abitavo a New Orleans ed ero una bambina, mia madre diceva sempre che i neonati si tranquillizzano se sentono il battito cardiaco della loro mamma. Non sapevo se fosse vero o scientificamente provato, però sembrava funzionare alla perfezione sia su di lui che su di me. Mi sentivo la persona più felice dell’universo.

Vince mi posò un lieve bacio sul capo prima di lasciare la stanza per raggiungere sua moglie a un appuntamento, ma nel giro di un minuto Nikki fece la sua comparsa.

“Gli altri sono rimasti giù perché i fan li hanno assaliti,” spiegò divertito mentre si sedeva sul materasso del mio letto. “Io però sono riuscito a scappare. Che non provino a rubarmi il tempo che voglio trascorrere con voi!” esclamò con estrema determinazione, poi approfittò dell’inusuale larghezza del mio letto di ospedale per appoggiarsi al materasso reclinato che mi permetteva di stare quasi seduta e mi passò un braccio intorno alle spalle. “Vince se n’è andato subito dopo di noi?”

“No, è rimasto qui a farci un po’ di compagnia,” risposi. “Ha provato a tenere Brett in braccio. Si è intenerito.”

Nikki sogghignò in quel modo furbesco che non avrebbe mai perso. “Allora mi sono perso un momento epico!”

“Decisamente,” approvai. “Però ha detto di essere contento che abbiamo superato tutti i nostri casini e che ora abbiamo una famiglia.”

“Oh, certo, lo sono anch’io!” esclamò Nikki. “Abbiamo dimostrato a tutti quelli che credevano che fossimo dei ribelli buoni a nulla che un giorno si sarebbero ammazzati a suon di droga che le persone possono cambiare. E noi ne siamo la prova.”

Ma adesso avevamo la vita tra le braccia ed era una sensazione così bella che non temevamo più niente e nessuno, neanche il nostro futuro.



FINE






N.D’.A.: Cari lettori,
siamo finalmente giunti alla conclusione di quests avventura!
Sebbene questa storia non abbia riscontrato lo stesso numero di visite e recensioni del mio racconto precedente – in parte complice il tempo che ho fatto trascorrere tra una pubblicazione e l’altra, di questo ne sono convinta –, ho comunque notato con piacere che le visualizzazioni non sono affatto basse! Vorrei quindi ringraziare tutti coloro che hanno seguito o stanno ancora seguendo le vicende di Sharon e Nikki, chi ha preferito e chi ha lasciato recensioni, in particolare Chara, che mi ha lasciato splendide e graditissime righe, e rose_. ❤️ Grazie davvero!
Sempre a proposito di recensioni... se avete qualche consiglio da darmi riguardo la scrittura, io lo accetto sempre volentieri!
Bene. Mi ero affezionata a questi personaggi e so già che mi mancheranno parecchio e... niente. Dedico a tutti il piccolo Brett, sperando che la scelta di far tornare in scena – in un certo senso – l’amico di Sherry e di aver optato per un finale positivo sia stata di vostro gradimento!
Detto questo, nel caso qualcuno si stesse domandando che fine farò, anticipo di avere in programma di tornare sul lido Mötley Crüe. Nonostante tutto, ho trovato un po’ di tempo per scrivere un racconto dato che, in un modo o nell’altro, avevo bisogno di togliermi dalla testa il peso dei miei casini quotidiani per qualche minuto. La storia non è ancora stata terminata ma, visto che ne sta venendo fuori qualcosa che penso sia carino e che sono già a buon punto, mi piacerebbe condividerla qua sopra. Se qualcuno fosse interessato, tenga quindi d’occhio questa sezione nelle prossime settimane! ;)
Un ultimo grazie mega galattico a tutti e buon concerto a chi andrà a vedere i Mötley! ❤️
Un abbraccio e a presto,

Angie


Titolo: Heaven - Warrant


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