la ragazza della caffetteria

di dree
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** la ragazza della caffetteria ***
Capitolo 2: *** ..to be continued ***
Capitolo 3: *** pt. 3 ***



Capitolo 1
*** la ragazza della caffetteria ***


1 Ottobre 1996

 

«Dove diavolo sono le chiavi..?»

Solita mattina frenetica passata fra una bestemmia e l'altra cercando di divincolarmi in quel casino di vita e, come al solito, ero tremendamente in ritardo a lavoro.

«Trovate!» esclamai estraendo le chiavi dalla borsa e spostandomi i capelli da davanti al viso.

Mi misi subito alla guida della mia Ford Anglia, ereditata da mio padre a 18 anni, e mi diressi verso il locale dove lavoravo. A quell'ora di mattina non c'era molto traffico, ma spesso, era abbastanza trovare un vecchietto con l'ape, per farmi arrivare ancora più in ritardo di quanto già non fossi.

Appena varcai la porta, la signora Smith mi guardò torva, ma con aria di comprensione e con gli occhi le sussurrai un “Scusa..” e mi fiondai verso lo spogliatoio. Mi infilai la camicetta e il grembiule e, visto tutto il trambusto mattutino che c'era, mi diressi alla cassa a servire caffè caldo e croissant.

Finsi sorrisi di convenzione per tutta la mattina, ringraziai cortesemente i clienti e ci mancò poco che versai una tazza di tè bollente addosso ad un'anziana cliente che, puntualmente, bofonchiò qualcosa di poco carino sotto i baffi e poi se ne andò urlandomi contro un “E stai più attenta!”, al quale diventai paonazza e, senza neanche scusarmi, mi diressi al tavolo della comanda a testa bassa.

Verso le undici, ebbi un po' di riposo. La caffetteria si era svuotata, erano rimasti solo qualche anziano signore e un paio di coppie di imprenditori indaffarati a chiudere delle pratiche, o qualcosa di simile.

Mi appoggiai al banco stremata massaggiandomi il collo, una sensazione di dolore mi scendeva giù per la schiena procurandomi piccoli brividi terribilmente fastidiosi.

Dal di dietro sentì una voce che cercava di attirare la mia attenzione.

«Scusami..»

Mi voltai e vidi un ragazzo alto dalla carnagione chiara, due occhi verde giada, un piercing al sopracciglio e un non-so-ché di terribilmente sexy. Sarà stato il suo modo di fare molto disinvolto o lo sguardo sicuro di sé.

«Dimmi pure!» esclamai con un sorriso a trecentosessanta gradi, il primo vero sorriso della giornata.

«Un caffè e una brioche, grazie» mi fissò negli occhi posandomi i soldi sul bancone e una strana sensazione si divampò in tutto il mio corpo.

Esitante presi una tazza, cercando di non farla cadere a terra frantumandola in mille pezzi, versai il caffè caldo già pronto e, dopo avergli dato il resto e lo scontrino, mi ricordai della brioche.

«Coma la vuoi la brioche?» chiesi cortesemente.

«Vuota, grazie» e gliela porsi avvolta in un tovagliolo di carta.

Il ragazzo, dopo avermi ringraziato, si sedette ad uno dei tavoli di fronte alla cassa e si immerse nella lettura del giornale. Rimasi a fissarlo per qualche istante, finché non mi sentii ridicola e tornai a lavorare.

Presi a spazzare, quella mattina pioveva quindi c'era moltissimo fango nel locale e dovetti passare pure lo straccio, cosa che definitivamente odiavo più di ogni altra cosa. Guardai fuori e la pioggia ancora batteva forte sui vetri della mia macchina, quasi sembrava stesse grandinando. Tornai a passare lo straccio assorta dai miei pensieri su come, quel pomeriggio, sarei riuscita ad andare sia in banca che all'audizione di danza della mia migliore amica. Se fossi mancata non me lo sarei mai perdonata.

Il suono del campanello della porta principale attirò la mia attenzione e sentii due persone entrare quasi di corsa nella caffetteria, molto probabilmente si volevano rifugiare dalla pioggia. Appoggiai il moccio e sfoggiando uno dei tanti sorrisi di cortesia mi girai rivolgendomi al nuovo cliente.

«Buong..» le parole mi morirono in gola ancora prima che io potessi finire la frase. Mi ritrovai con una pistola puntata alla tempia la quale mi costrinse quasi automaticamente ad alzare le braccia in segno di resa. Un signore, occhi marroni, capelli castani e barba folta, mi fissava ad occhi stretti e digrignando i denti mentre io cercavo di mantenere la calma a respiri profondi.

«Vai alla cassa» mi sbraitò contro facendo un segno verso il bancone con l'arma.

Io a passo lento indietreggiai cercando a tentoni con la mano il bancone evitando di distogliere lo sguardo dal rapinatore. Mi voltai verso la cassa, il tutto con lentezza riluttante mentre ancora lui mi guardava torvo. Solo allora mi accorsi della seconda persona, la quale però, aveva il passamontagna. Dalla corporatura sembrava una donna, una ciocca di capelli biondi le spuntava dal passamontagna nero in quale accentuava il blu dei suoi occhi.

«Cosa stai aspettando?!» urlò il rapinatore facendomi trasalire.

Aprii la cassa e intanto cercai a tentoni il bottone d'allarme sotto il bancone quando lui mi si avventò addosso sbattendomi contro il bancone.

Ragazzina non ci provare” sussurrò digrignando i denti ad un millimetro dal mio viso.

Sentii la chiave della cassa urtarmi la colonna vertebrale e mi venne una fitta che quasi mi tolse il respiro. Il rapinatore mi teneva la pistola puntata alla tempia e una mano premuta sulla bocca.

Mi spostò con un movimento rapido, ma senza togliere la pistola, dal davanti alla cassa e ordinò alla ragazza che era con lui di prendere tutti i soldi da dentro essa. Lei si mosse con velocità professionale, si potrebbe dire, e infilò tutti i soldi dentro ad una borsa nera.

Al quale, mentre lui fissava la ragazza, io con un colpo deciso gli sferrai un colpo basso col ginocchio e subito mi abbassai aspettandomi che premesse il grilletto. Lui si piegò in due dal dolore e io cercai di strisciare a terra per raggiungere il bottone dell'allarme più vicino. Improvvisamente sentii una mano afferrarmi per la caviglia e tirarmi verso di lui. Mi parai le braccia di fronte alla faccia per schivare un colpo del rapinatore il quale mi prese per i capelli e mi fece alzare sui miei piedi.

Da dietro spuntò il ragazzo del piercing al sopracciglio il quale gli schivò un colpo alla testa con una sedia, ma questo non bastò a placare il rapinatore, anzi, alimentò solo la sua rabbia. Quest'ultimo si avventò contro il ragazzo il quale mi urlò di scappare.

Premetti il bottone dell'allarme ripetutamente, ma la polizia non sarebbe mai arrivata in tempo, così corsi nell'ufficio della signora Smith e presi la pistola che teneva nascosta dietro ai libri nel mobile. Caricai la pistola con le munizioni e tornai nel locale. I pochi clienti rimasti osservavano i due lottare con gli occhi sgranati. Cercai di prendere la mira per sparare ma avevo paura di prendere il ragazzo, così sparai un colpo a vuoto verso l'alto e il proiettile di infranse nel soffitto. Sentii come una scarica di adrenalina in tutto il corpo.

«Spero non me lo detragga dallo stipendio» pensai tra me e me, visto il danno.

I due smisero di lottare e si girarono verso di me sorpresi dal gesto.

«Lascialo o giuro che sparo» dissi con voce tremante mentre reggevo l'arma con due mani verso il rapinatore in quale teneva, per il collo, il ragazzo contro la vetrina.

Lui mi fisso dritta negli occhi, aveva uno sguardo viscido, di chi ha il demonio dentro. I capelli erano bagnati e goccioline gli scendevano sulle tempie. Provavo pietà per lui, ma allo stesso tempo desideravo che marcisse all'inferno per quello che stava facendo.

Lasciò la presa e il ragazzo cadde a terra. Prese la pistola e me la puntò contro e, con gli occhi socchiusi, premette il grilletto. Sentii il vuoto nello stomaco e le lacrime scendermi sulle guance. Strinsi forte gli occhi e caddi a terra. Sentii una donna urlare, fu un attimo, prima di accorgermi che nessun proiettile uscii dalla canna dell'arma del rapinatore.

Quest'ultimo guardò la pistola sorpreso, sgranò gli occhi e poi fissò me. Mi alzai di scatto e, tremante schiacciai a mia volta il grilletto e lo colpii al petto. Cadde a terra e si accasciò gemendo dal dolore. La complice con passamontagna gli andò incontro e, mi sorpresi, quando se lo tolse e vidi che era una ragazza quasi della mia stessa età, con un viso dolcissimo e gli occhi pieni di lacrime. Mi domandai come, una creatura così, potesse provare pietà per quel uomo.

La ragazza era piegata su di lui, gli teneva il viso tra le mani, dolcemente sussurrando «Va tutto bene, va tutto bene» al suo orecchio. Guardò la ferita sanguinante, poi spostò lo sguardo su di me e mi urlò «Chiama aiuto, ti prego!» al che sentii le sirene della polizia in lontananza.

Quasi mi sentii svenire, paralizzata. L'arma della signora Smith mi cadde dalle mani con un tonfo potente. Non mi sentivo più le gambe e avevo una sensazione di nausea e amaro in bocca. Iniziai a respirare a fatica, reggendomi con la mano il petto. Il ragazzo, il quale aveva assistito a tutta la scena incredulo di quello che vedeva, accorse in mio aiuto.

«Stai bene?» mi chiese allarmato appoggiandomi un braccio intorno alle spalle.

Il mio sguardo correva da lui, alla vittima di quello che poteva essere un omicidio, commesso da me, tra l'altro.

Tre pattuglie e un'ambulanza arrivarono difronte al locale e tre poliziotti entrarono di corsa armati, mentre altri tre puntavano la caffetteria dall'esterno. Mi sentii in uno di quei film polizieschi, tranne che per il fatto che qua non c'era copione e io ero la protagonista della vicenda e anche l'assassino.

Due degli agenti andarono verso la ragazza e l'uomo che aveva perso i sensi, ammanettarono la prima e chiamarono con la radio gli agenti fuori rimasti chiedendo soccorso medico. Entrarono di corsa con una barella e posizionarono il corpo del uomo su di essa.

Un altro agente, intanto, venne verso di me e, vedendomi paonazza mentre guardavo la scena chiamò un'altro agente medico in mio soccorso. Sentivo delle voci, le sentivo come lontane da me. «Ragazzina, stai bene?» continuavano a farmi domande, ma non riuscivo a parlare, finché non svenni.

 

Mi risvegliai in una stanza d'ospedale, intorpidita, con dei tubi attaccati e un forte mal di testa. Un'infermiera mi raggiunse appena vide che mi fui svegliata e, sorridente, mi chiese come stavo.

«D-dove sono? Cos'è successo?» iniziai a domandare agitata.

«Cerca di stare tranquilla e riposarti, non è successo niente» mi tranquillizzò lei armeggiando con la flebo.

«Che ore sono?» chiesi cercando di non agitarmi troppo per non aggravare il mal di testa.

«Le quattro e tre quarti» indicò l'orologio, ero stata in ospedale per più o meno quattro ore e.. Mi stavo perdendo l'audizione di Diana!

L'infermiera poi uscì e rimasi di nuovo da sola con i miei pensieri.

Mi guardai intorno, le mura della stanza erano bianche candide, c'era una pianta da appartamento, un televisore e una grande finestra che illuminava l'intera stanza. Poi lo notai, il ragazzo della caffetteria, era sull'uscio della porta con un mazzo di fiori in mano. Quando si accorse che lo stavo guardando venne verso di me.

«Pensavamo non ti saresti più svegliata» ironizzò lui.

«Per vostra sfortuna, sono ancora viva» risposi io sarcastica sorridendo.

«Questi sono per te» mi allungò il mazzo di fiori e io mi sollevai per mettermi seduta e presi i fiori.

Erano rose rosse e girasoli, una scelta tanto azzardata quando magnifica. Il giallo e il rosso, colori forti e pieni di passione. Le annusai, le rose avevano un profumo buonissimo, sembravano come appena raccolte in una mattinata fresca di primavera dopo una lunga notte di pioggia.

«Sono bellissimi, grazie» sorrisi appoggiando i fiori al comodino.

«Figurati..»

«Cos'è successo?» non ricordavo molto di ciò che era successo, sopratutto non ricordavo come ero finita in ospedale.

«Niente» esitò per un attimo «Dopo che è arrivata la polizia sei svenuta» la polizia, pensai.

Le immagini iniziarono a riaffiorare, a piccoli tratti. Ricordavo la rapina e la pistola puntata alla mia tempia, ricordavo di essere andata a prendere l'arma della signora Smith e.. Di aver sparato ad un uomo.

Sentivo lacrime calde scendere sulle mie guance, gli occhi appannati. Mi sentivo sporca, come se avessi commesso un reato.

Il ragazzo si imbarazzò per un attimo, abbasso lo sguardo, seduto sulla sedia e si guardò le mani.

«Andrà tutto bene, non ti devi preoccupare»

In quell'istante entrò un'agente della polizia, accompagnato da quello che dedussi fosse un'avvocato o un assistente, chiedendo permesso.

«Signorina, se non le dispiace vorremmo farle alcune domande» annuì e mi asciugai le lacrime.

I due agenti iniziarono a farmi domande su ciò che fosse successo quella mattina, dicevano che più mi fossi ricordata e più sarei stata d'aiuto. Mi chiesero se conoscevo i rapinatori, se li avevo mai visti prima di allora. Mi ricordai di come gli occhi di quel uomo mi guardavano, sottili, e gelidi. Ricordai anche le urla e i pianti della ragazza bionda, quella dolce creatura che piangeva sul corpo di quel uomo viscido.

«Lui.. come sta?» chiesi io curiosa.

L'agente esitò e guardò l'assistente «Il signor Walter, il rapinatore, è morto».

Persi un battito o forse due, la testa iniziò a girarmi e la gola mi si seccò.

«Forse ora è meglio se la lasciamo riposare, torneremo domani dopo aver parlato con giudice, per fissare un'udienza»

 

2 Ottobre 1996

 

L'indomani fui rilasciata dall'ospedale e dovetti andare alla centrale di polizia della contea. Dopo aver firmato varie dichiarazioni e aver parlato con gli investigatori, andai dal giudice che mi fissò un'udienza il giorno stesso. Mi fornirono un avvocato, una ragazza neolaureata di quasi ventotto anni, con due occhi marroni cerbiatto. Era esile, aveva una voce dolce e i capelli castani le incorniciavano il viso pieno di lentiggini.

Quel pomeriggio fu molto frenetico, l'avvocato mi rassicurò dicendo che era stata legittima difesa e che avevamo un testimone a nostro favore.

All'udienza mancavano due ore e mezza, così passai in caffetteria a prendere le mie cose e, tra le altre cose, trovai trentasei chiamate perse di Diana, dieci di mia madre e tre messaggi della prima. Richiamai subito Diana, mia madre avrebbe potuto aspettare.

Due squilli.. Tre squilli.. Cinque squilli.. Nove squilli.. Segreteria telefonica.

«Tesoro, mi dispiace di non esserci stata all'audizione, ma..» esitai «Ho avuto un contrattempo. Com'è andata l'audizione? Richiamami appena puoi» riattaccai il telefono e mi rannicchiai sul sedile della macchina.

Fuori ancora pioveva, non aveva smesso un secondo, la mia macchina puzzava di chiuso e il riscaldamento era guasto, perciò faceva freddo, un freddo che ti trapassava le ossa, ma io il freddo ce lo avevo dentro.

Mi guardai nello specchietto retrovisore, avevo le occhiaie e gli occhi rossi, segni neri di rimanenze del trucco e i miei capelli erano un disastro.

Misi in moto e imboccai la tangenziale verso il mio appartamento per farmi una doccia e cambiarmi. Trovai un paio di lettere sul o zerbino davanti all'entrata, alcune bollette e della pubblicità. Quando entrai in casa accesi la luce, la lampadina della sala era fulminata, la luce dalle finestre filtrava poco, il celo scuro e il pavimento bagnato: avevo dimenticato la finestra aperta. Poggiai la borsa sul divano, le chiavi sul tavolo e andai in camera. Accesi lo stereo, le note rock dei Pretty Reckless iniziarono a rilassarmi la mente. Aprii l'acqua corrente e aspettai qualche minuto. L'orologio sulla parete del corridoio segnava le 3:40, un'ora e poco più all'udienza, pensai. Entrai sotto la doccia, il getto dell'acqua bollente scorreva sulla mia schiena, piccoli brividi di piacere mi percorsero dalla punta dei piedi fino alla testa, penso di essere rimasta così per un tempo lunghissimo.

Quando uscii presi i vestiti: una camicia bianca, un paio di pantaloni e un tailleur, i vestiti più sobri che avevo. Volevo dare una buona impressione. Poi uscii di casa.

In aula c'erano poche persone, il giudice, la giuria, l'avvocato e il testimone che, per la cronaca, era il ragazzo della caffetteria.

Sembrava molto stanco quel giorno, aveva due solchi profondi sotto gli occhi, i capelli spettinati e un graffio sulla guancia, probabilmente rimastogli dalla lotta col rapinatore.

Prima di sedermi al mio posto gli sorrisi timida e lui ricambiò il saluto con un cenno della mano.

Il giudice era una donna di colore, con due occhi grandi e scuri, un sorriso splendido e dei denti bianchissimi. Portava i capelli legati in un concio alto legato con una spilla blu e argento.

Fui interrogata su ciò che era accaduto, il mio avvocato tenne testa alla causa, poi dopo una decina di minuti circa arrivò il turno del testimone. Il giuramento e poi domande su domande.

«Signor Bakler, dove si trovava quella mattina?»

«Ero alla caffetteria "Sweet mornings" per un caffè e una brioche»

«Lei e la signorina Burton, vi conoscevate già prima di quella mattina?»

«Mai vista prima di ieri» ammise lui rivolgendomi uno sguardo.

«Quindi lei, in questa dichiarazione» ed indicò la cartella di dichiarazioni del caso «afferma che quella della signorina Burton verso il signor Walter sia stata legittima difesa, dico bene?»

«Esatto» la tranquillità con cui si atteggiava, con cui parlava, era ammirevole, dato che io ero un fascio di nervi ed agitazione.

«Io ho finito» affermò l'avvocato rivolto al giudice.

Il giudice appuntò su un quaderno tutto ciò che veniva detto durante l'udienza, la giuria che avrebbe emanato il verdetto sembrava essersi messo d'accordo e, dopo qualche minuto di pausa in cui mi diedero dell'acqua per calmarmi, fu decretato il verdetto.

«Alla luce dei fatti accaduti, in accordo con il giudice e la giuria, l'imputata viene dichiarata innocente. Il caso è chiuso» e terminò con un colpo di martelletto sul bancone.

 

Scusate i vari errori di battitura.

Dree original

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Capitolo 2
*** ..to be continued ***


Dopo più di un anno (forse due) ho deciso di pubblicare un piccolo conitnuo, con la speranza di suscitare curiosità nel lettore ed incoraggarmi a scrivere ancora. So che non è tanto, ma a breve vorrei pubblicarne un altro pezzo che ho già in parte pronto. Scusate l'attesa, spero l'attesa (per alcuni) ne sia valsa la pena. Qualsiasi critica, fincè costruttiva, è ben accetta. 
PS: mi scuso anticipatamente per vari errori di battitura. 

 


Fu un attimo, mi venne persino difficile pensare che l'udienza fosse già finita. Mi guardai intorno e tutti si stavano mobilitando verso l'uscita, tranne me. Rimanevo lì seduta a fissare il vuoto. 

Quando ti svegli la mattina, non pensi che dovrai affrontare una rapina e una sparatoria nello stesso giorno, eppure io le avevo vissute entrambi e, anche se era tutto finito, mi ci sarebbe voluto parecchio tempo prima di dimenticare tutto. 

 

Mi voltai e vidi il ragazzo incamminarsi verso l'uscita, così mi alzai e lo raggiunsi. 

«Grazie..» le parole mi uscirono di bocca quasi fossero un sussurro «Come posso sdebitarmi?»

Doveva provare pietà per me, o un sentimento simile, per compiere un gesto così quando per lui io non ero altro che una sconosciuta, la ragazza della caffetteria

«Non c’è nulla di cui tu ti debba sdebitare, avevi bisogno di aiuto e io potevo dartelo, niente di più niente di meno.» al quale si girò e se ne andò senza proferire altra parola, lasciandomi lì impietrita da quelle parole.

 

Dopo aver ringraziato l'avvocato, presi la macchina e mi diressi verso casa di mia madre, alla quale mi ero scordata di richiamare. 

«Santo cielo Beatrice, si può sapere perché non hai risposto alle mie chiamate?»

«Mamma, ho appena varcato la soglia di casa, mi lasci respirare anche solo per un secondo?» risposi quasi lagnandomi mentre chiudevo la porta. 

«Mi farai morire di crepacuore un giorno di questi!» disse abbracciandomi mentre mi accarezzava con fare affettuoso la schiena, poi mi guardò strabuzzando gli occhi «Hai dormito? E al labbro che ti è successo?» poi cambiò il tono di voce e l'espressione, la quale si tramutò in un misto di preoccupazione e severità «Beatrice, in quali casini ti sei cacciata, signorina?»

«Mamma, non è successo nulla» affermai più per tranquillizzare me che lei «C'è solo stata una rapina alla caffetteria..»

Mia madre si inorridì a quelle parole e quasi si mise le mani nei capelli quando le raccontai tutto ciò che era accaduto la mattina precedente e il giorno stesso. 

«Oh cielo, ma adesso stai bene, vero?» chiese porgendomi una tazza di tè di tiglio e menta. 

Ogni volta che tornavo a casa mi sentivo una bambina, mia madre era talmente premurosa da farmi tornare col pensiero a quando avevo appena otto anni, quando era tutto così semplice e non c'erano preoccupazioni. L'odore del tè invadeva casa ogni sera ed ogni mattina da quando la mia memoria poteva ricordare. Eppure sentivo un vuoto, come se qualcosa o qualcuno mancasse nella mia vita.. mio padre. 


«Sì mamma, va tutto bene, non ti preoccupare.» finii di bere il tè, chiacchierai ancora per un'oretta con mia madre del più e del meno, mi ci volle parecchio per convincerla del fatto che io stessi bene e, anche quando salii in macchina per andare da Diana, lei non ne fu ancora del tutto convinta. 



I sensi di colpa per non aver assistito all'audizione della mia migliore amica mi bruciavano dentro, ma dovevo accettare che la situazione in cui ero accidentalmente andata a finire, non mi avrebbero permesso comunque di andarci.

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Capitolo 3
*** pt. 3 ***


Bussai due volte alla porta del suo appartamento e aspettai impazientemente che mi aprisse. Sentii dei passi e Luca, il suo ragazzo,  mi aprii appoggiandosi all'uscio della porta. 

«Spostati deficiente, dov'è Diana?» gli sbraitai contro entrando come una furia nell'appartamento. I rapporti fra me e Luca non erano esattamente dei migliori, come si poteva notare. Ammetto di essere un po’ dura nei confronti di chiunque si avvicini alla mia migliore amica, ma questa volta era diverso, Luca non aveva la reputazione del bravo ragazzo. 

«Oh, chiedo venia! E' nella sua stanza, si sta cambiando.» 

Mi fiondai nella stanza da letto di Diana e appena la vidi la abbracciai più stretta che potevo. 

 

I suoi capelli profumavano di lamponi e aveva ancora indosso l'accappatoio e le scarpe bagnate mentre con una mano reggeva il fon e con l'altra lo spinotto. 

 

«Quante volte ti ho ripetuto di non usare il fon quando hai ancora le ciabatte bagnate?» le dissi con un sorriso mentre le lacrime iniziavano a scorrermi sulle guance «Mi dispiace così tanto di non essere potuta venire all'audizione ma...» esitai per una attimo guardandola negli occhi «c'è stata una sparatoria alla caffetteria... non sai quanto mi dispiace Diana» quasi la supplicai. 

Lei impallidì all'istante e sentii il sangue ghiacciarmi nelle vene mentre le immagini scorrevano velocemente davanti ai miei occhi e rivivevo quegli istanti. 

Lei si limitò ad abbracciarmi ancora più forte e sentii anche le sue di lacrime sferzargli il viso. 

Dopodiché le raccontai ogni minima cosa, anche i più piccoli particolari: le raccontai di come quel ragazzo mi avesse salvato la vita, di come poi aveva testimoniato al processo, le raccontai del uomo e della ragazza, le raccontai dell'ospedale. 

«Diana» scoppiai di nuovo in lacrime «ho ucciso un uomo»

Mi accarezzò il viso tranquillizzandomi «Hai ucciso un criminale, non un uomo, hai ucciso un mostro» annuii incapace di aprire bocca «Ma ora basta pensarci» disse asciugandomi le lacrime. 

 

Sforzai un sorriso «L'audizione. Raccontami dell'audizione».

Parlammo per tutto il pomeriggio, come facevamo da piccole, quando non avevamo preoccupazioni. Mi raccontò dell’audizione e di quanto suo nonno era stato fiero della sua esibizione e di quanto gli insegnanti dell’Accademia si fossero complimentati con lei e si vedeva che era felice, lo si poteva leggere nei suoi occhi i quali brillavano a dire quelle parole.

«Mi dispiace non esserci stata, davvero, mi farò perdonare te lo prometto» dissi io poi «Stasera ti porto fuori a cena, andiamo in quel locale che ti piace tanto, quello con le candeline e i camerieri carini e non accetto un no come risposta. Alle 8 ti passo a prendere!» 

Uscii di casa dandole un bacio prima che  lei mi potesse rispondere, ma non avrebbe mai rifiutato. 

 

Le strade della città quel giorno erano quasi desolate, tutti troppo impegnati in una vita triste e frenetica. C’era silenzio, si sentiva solo il rumore delle macchine sfrecciare sull’asfalto bagnato. I parchi erano vuoti, malgrado il maltempo fosse già passato. Forse nessuno si fidava a lasciare i figli al parco a giocare dopo ciò che era successo. E’ sempre così nelle città piccole, la gente è diffidente, anche se non si vuole mai mostrare tale, e le notizie girano in men che non si dica. 

 

Ricordo di un episodio quando ero piccola e trovarono un ragazzo annegato nell’unico lago della città. Lo trovarono che ormai era troppo tardi, tutto gonfio e blu, lo tirarono fuori davanti a tutti i presenti e i genitori di affrettarono a coprire gli occhi ai figli e portarli più lontano possibile. Per quelli che non c’erano poi fu facile venirlo a sapere. In un paio di ore tutti sapevano tutto e iniziarono a domandarsi se fosse stato un suicidio, ma perlopiù si ipotizzò fosse un incidente. Ero piccola allora, ma se ci ripenso quello fu tutto tranne che un incidente e Marco era tutto tranne che un ragazzino felice. Qui persino i genitori divorziati vengono additati e ai tempi, i suoi genitori, furono i primi della cittadina a separarsi e lui ne risentì molto. Certo, deve essere doloroso per una madre perdere un marito e un figlio nell’arco di poco. Si dice che avesse anche un fratello, ma nessuno l’ha mai visto e nessuno ha mai osato parlarne. 

 

A volte la vita è strana. Ti da’ tutto, la felicità, e ti toglie tutto ancor prima di poterla assaporare. 

 

 

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