Sky's still blue di sof_chan (/viewuser.php?uid=56894)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Romanzo storico ***
Capitolo 2: *** Ricominciare a mio modo ***
Capitolo 3: *** Un filo tra gli sguardi ***
Capitolo 4: *** Le due facce della luna ***
Capitolo 5: *** Sto da sola, ma non sono sola ***
Capitolo 6: *** Direzione: passato! ***
Capitolo 7: *** Segui la corrente ***
Capitolo 8: *** La bambina che non aveva scelta ***
Capitolo 9: *** La farfalla che voleva imparare a volare ***
Capitolo 10: *** Non chiedermi (parte prima) ***
Capitolo 1 *** Romanzo storico ***
Romanzo
storico.
“Vorrei che scrivessero un libro
su noi,
sulla tua speranza biblica,
sulla mia pazienza anoressica.
Vissero a cavallo fra due secoli,
guardarono il mondo che se ne va.
Vissero a cavallo fra due secoli
guardando il mondo che se ne va.
Ma preferirono pensare che,
potesse durare per sempre...”
“C'era una volta, non tantissimi anni fa,
una bellissima bambina...
Aveva lunghi
capelli rossi, lisci come la seta e lievemente ondulati sulle punte,
come a richiamare le tenui onde del mare.
I suoi occhi
erano grandi, color della terra fertile.
Il suo sorriso
faceva invidia ad ogni singolo raggio del sole.
Viveva
spensierata in una bellissima casetta nel bosco, un posto segreto e
isolato, lontano dalla crudeltà dell'uomo.
Erano stati i
suoi amorevoli genitori a creare quel piccolo paradiso terrestre.
Una sorta di
ampolla di cristallo,di parvenza fragile e delicata, ma abbastanza
forte per proteggere il loro piccolo cucciolo da ogni male.
Farla crescere
felice.
Il suo cuore
non doveva essere contaminato.
Un giorno però
la piccola si addentrò nell'oscuro bosco.
Non voleva
disobbedire al suo caro papà, che ogni giorno le ripeteva di non andare
oltre la siepe al confine.
Ma il suo
sguardo, attento e minuzioso, fu catturato da una bellissima farfalla
bianca che volava senza sosta, con movimenti simili a dei bei ghirigori
invisibili, vicino alle loro rose.
I suoi piccoli
piedini si mossero senza controllo per seguire quel meraviglioso e
fatato volo e alla fine...
Si perdette!
Ma non aveva
paura.
D'altronde la
nostra protagonista non aveva mai avuto, per sua fortuna, la
possibilità di assaporare tale sentimento.
Camminando
camminando urtò contro qualcosa....
Era un piccolo
bambino, all'incirca della sua età.
Dormiva in una
posizione al quanto scomoda, spalla appoggiata ad un albero e braccia
intrecciate dietro la testa.
Nonostante
questo il suo sonno sembrava intenso.
“Ehi tu, bambino, svegliati!”
Ci vollero
molti richiami, qualche stretta di naso e colpetto sulla sua testa
verde ma, finalmente, il piccolo aprì gli occhi.
Era la prima
volta per entrambi...
Fare la
conoscenza di qualcuno, parlare per ore, sorridere senza motivo,
giocare e rincorrersi fino allo sfinimento.
Durante il
loro primo incontro fecero una promessa: Vedersi ogni giorno.
Promessa
ovviamente mantenuta.
Gli anni
passarono...
I bambini
erano ormai diventati due ragazzini.
E tra giochi,
corse tra campi di fiori, sorrisi sinceri e mani intrecciate
goffamente, i nostri protagonisti scoprirono un nuovo sentimento.
Un sentimento
forte e purissimo, tra i più belli esistenti.
Questi due
ragazzi scoprirono l'amore!
E lo
assaporarono per sempre, felici e contenti!”
Questa è la fiaba
che ogni sera racconto alla mia splendida Sachiko.
Ogni bambino,
ogni bambina ha il diritto ad una favola.
Ed io non manco
mai a questo momento...
Lo faccio per
lei, per la sua splendida infanzia da vivere profondamente.
Lo faccio anche
un po' per me, che di fiabe non ne ho mai ascoltate.
La mia storia è
diversa dalla classica storia delle principesse.
Nel mio mondo ci
sono mostri indistruttibili, persone importanti perse troppo presto,
mani viscide e violente che mi trafiggono, occultando con segni
indelebili questo mio involucro corporeo.
Non ho avuto
abbracci materni caldi e accoglienti...
Mi è mancato un
papà/eroe pronto a proteggermi da ogni male...
Ho camminato da
sola per troppo tempo, dentro questo mio tunnel arredato da me stessa.
Mi sono protetta,
certo l' ho fatto a mio modo...
Indossando la mia
maschera di durezza ad ogni nuovo colpo sulla schiena,
il mio sorriso
finto ad ogni graffio sui polsi,
soffocando ogni
lamento, fermando quelle lacrime ogni volta che il mio corpo veniva
marcato senza amore.
No, non fate
quelle facce tristi. Il mio racconto non è mica finito!
Sono state tante le volte in cui mi
sono chiesta perché Cenerentola abbia perso la scarpetta di cristallo
mentre sfuggiva dal castello, nonostante fosse esattamente della sua
misura.Secondo me, l'ha
fatto apposta per attirare l'attenzione del principe. O forse il mio,
all'epoca, era solo il sospetto ingegnoso di una donna che si è persa
in un monologo sterile e non riesce ad agguantare la felicità. (*)
Ma la felicità
arriva!
Zoro...
A quel tempo, il
mio mondo era davvero piccolo. Non ero ancora consapevole di quanto lo
fosse, ed ero decisa ad andare avanti con tutte le mie forze. Ho sempre
pensato che quella fosse la vera me.
"Io non
cambierò!"
Lo pensavo
davvero.
Che sarei potuta
cambiare per amore, era una cosa... Che non avevo mai neanche
immaginato.
Solo l'amore può
farci vedere le sfumature del paesaggio di fronte a noi..
Può farci sentire
il vento soffiare dolcemente.
Non avevo idea
che ogni cosa in questo mondo potesse cambiare.
La persona che me
l'ha fatto capire...
È stata Zoro.
Ma...
Lo Zoro che mi ha
insegnato tutto questo...
Non c'è più.
“...ma preferirono pensare che
potesse durare per sempre!”
NOTE
DELL'AUTRICE: Salve a tutti....Sono già tornata con una nuova storia.
Oddio! Non riesco più a fermarmi...
Ormai One piece
mi è entrato nel cervello e, appena mi capita di pensare a qualche
situazione, avvenimento o frase, ecco che il bisogno di scrivere prende
il sopravvento.
Tutto questo
grazie anche a voi, ai vostri stupendi commenti sulla mia ultima
fanfiction con stesso fandom ^^
Me ultra felice!
Questa volta
voglio provare a scrivere qualcosa con più capitoli (incrocio le dita)
Non me ne
vogliano le lettrici della mia storia su Vampire knight ancora non
conclusa ma...
Che ci posso fare
se lo Zo/NAmi si è impadronito della mia tastiera.
Credo di
aggiornare il primo vero capitolo stasera stessa, questa è una sorta di
prefazione.
Ringrazio di
cuore ancora tutte e spero di ricevere più feedback possibili, vanno
bene anche i negativi, tutto va bene per crescere ;)
Un mega saluto.
Ah! Dimenticavo.
Le frasi ad inizio e fine capitolo
(così come il titolo di questo) sono frasi della canzone “Romanzo
storico” di Erica Mou.
(*)la
frase della scarpetta di Cenerentola è una citazione del manga di Nana.
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Capitolo 2 *** Ricominciare a mio modo ***
Ricominciare a mio modo
“Ho cambiato città
e ho capito a metà
di esser solo tra la gente
che cammina con me
quando tu sei distante...”
Un lieve tepore mi accarezza la guancia esposta, cullando
ancora di più l'unico momento del mio sonno senza incubi...
Il venticello che muove maliziosamente la tenda color
mandarino si addentra, malandrino, tra le mie narici, facendomi
assaporare la brezza dei primi giorni autunnali.
Settembre era già inoltrato, e aveva portato con se
tantissime novità.
A cominciare dal mio trasferimento a Tokyo, città ancora del
tutto sconosciuta.
Erano stati il suono dei clacson, le corse frenetiche, il
cinguettio dei passeri allegro e spensierato che continuamente
tempestavano il mio timpano a farmi compagnia in quei primi giorni
solitari nel mio nuovo appartamento.
Ebbene si! Erano ormai tre giorni che me ne stavo ben bene
rintanata tra le mura domestiche
Ma la fortuna questa volta era dalla mia parte ed aveva un
nome: Take Away da Nippo,
appena a due passi dal portone di casa.
No, non sono affetta da sindrome Hikikomohori come potrebbe
sembrare.
Sono semplicemente un'amante della solitudine, e preferisco
mille volte i rumori, gli schiamazzi e le grida dei bambini ai dialoghi
poco fecondi...
Ma torniamo a noi.
Oggi sarebbe stato un giorno importante.
Avrei varcato i cancelli della mia nuova scuola,
fortunatamente per l'ultimo anno!
Eccolo il suono forte e deciso della mia sveglia: “Nothing
else Matter”dei Metallica.
Tengo a precisare che è solo grazie alla modalità
“Personalizza tono” se non si è ancora ritrovata all'altro mondo,
scaraventata per terra dal mio famoso gancio destro da prima mattina.
Bene, è ora.
Mi alzo a fatica dal letto, stiracchiandomi ben benino, e
corro verso il bagno.
Doccia lunga e fredda, l'ideale per eliminare i brutti
pensieri e rigenerarmi.
Mi dirigo verso l'armadio, cercando di scansare a fatica
scatole e scatoloni che ancora albergano nella mia stanza, ma lo trovo
completamente vuoto e impolverato.
“Mmm...direi che è arrivato il momento di dare una ripulita
qua!” penso agguantando
i primi vestiti ancora buttati alla meglio nella valigia.
Un paio di leggins neri e una larga maglia a maniche corte
dello stesso colore, eccezione fatta per la piccola stampa sulla
schiena: un grosso e, all'apparenza, gustoso mandarino.
Perfetto per non attirare alcun tipo di attenzione.
Chignon alto per fermare quella tempesta arancio che mi
ritrovo al posto dei capelli, un ultima occhiata allo specchio e le
classiche parole di auto-convincimento:
“ Yuppi-oh! Oggi sarà
una giornata fantastica!” grido
in maniera sarcastica, con un mezzo sorriso accennato,occhi perplessi e
pugno alto sulla testa.
Lo sguardo è catturato dalla sveglia che segna quasi le otto.
Maledizione, sono terribilmente in ritardo.
“Fanculo! Nemmeno il tempo del caffè. Odio già da adesso
tutto questo!”
Con mia grande sorpresa arrivo all'istituto Thousand Sunny
appena una manciata di minuti prima del suono perentorio della
campanella.
Momento perfetto per assaporare l'intenso sapore della mia
compagna preferita: una Lucky Strike.
E mentre rilasso i muscoli e mi preparo ad indossare la mia
solita maschera di freddezza e indolenza, nella mia testa, già
drasticamente provata dalla mancanza di caffeina, rimbombano brusii,
risate femminili isteriche, tipiche adolescenziali e nauseanti frasi
frivole provenienti da ormoni maschili ai primi subbugli.
“Oh ma guarda! I miei nuovi compagni! Ossia una massa di
carne stereotipata che cammina in branco, capitanata dall'unico
scimmione divenuto capo esclusivamente per grazia di quei quattro peli
pubici che, per magia, sono spuntati fuori dal nulla! Io ribadisco:
odio tutto questo!”
Mi incammino per i corridoi alla ricerca della mia nuova
prigione formato 4x4.
L'odore che si respira è quasi come quello dell'ospedale, un
profumo sterilizzato, neutro.
Credo di amarlo.
Ancora così perfettamente puro...
Incontaminato.
Così differente da me.
“Mmm, buono. Mi piace assai” mi ritrovo a pensare mentre
sorridendo urto alcune matricole.
Sono così allegre, appaiono piccole e indifese.
Aspetto grazioso, amicizie fedeli e magari chissà... Animate
da quella grande voglia di incontrare il “Principe azzurro”.
Ecco il mondo che scovo riflesso nei loro occhi candidi.
In fondo non sono mica così insensibile!
Semplicemente non immergo in sogni simili la mia anima.
Sta bene nel suo luogo chiuso e confortevole. Lontana da
inutili perdite di tempo.
L'ho imparato ormai, a mie spese: nulla è per sempre!
Eccomi di fronte alla porta scorrevole.
Un profondo respiro e via!
L'immagine che mi si presenta davanti è ovviamente quella
della tipica scenetta scolastica.
C'è la bellezza incompresa della classe, super truccatissima,
col suo vestiario strano e i capelli rosa shock, unico mezzo per
attirare l'attenzione, intenta a mettersi un rossetto troppo rosso per
i miei gusti.
Accanto a lei il Giulietto biondo, con due occhi a cuoricino
che schizzano dalle orbite ad ogni nuovo movimento ondulatorio del
rossetto.
Scovata quella che dovrebbe essere la secchiona, primo banco,
capelli neri, lunghi e lisci, e occhialetto tattico.
Eccolo poi avvistato lo stralunato, col suo sguardo sognante
e stupido, accompagnato dalle perenni dita nel naso, attente a scovare
chissà quali tesori nascosti.
Il burlone un po' scemo che, con una fionda improvvisata,
lancia delle palline di carta su quello che, facendo un rapido calcolo,
dovrebbe essere il cattivo e fuori dalle regole.
Ogni scuola che si rispetta ne ha almeno uno!
Il tipo in questione dorme profondamente, con quella sua
zazzera verde depositata con urgenza sul banco.
“Che palle!Tutto noiosamente ordinario” penso tra me e me prima che
l'insegnante mi richiami alle dovute presentazioni.
Eccomi! Pronta a recitare la mia commedia umana.
Presentarmi come una persona diversa da quella che sono non
sarebbe servito a niente.
“Salve a tutti, il mio nome è Nami Cocoyashi, vengo da un
paesino poco distante di nome Coconut Village.
Mio padre è morto sei anni fa per colpa di un infarto.
Mia madre è rinchiusa in un ospedale psichiatrico...
Depressione cronica post traumatica hanno detto,
probabilmente dovuta alla morte del marito.
Fortunatamente non ho fratelli e sorelle e l'unico parente
rimasto è uno zio non troppo gentile.
Per cui, da un po' di tempo, vivo da sola in questa città.
Questo è tutto quello che ho da dirvi, credo di aver
risposto ad ogni vostra curiosità e spero vivamente che i dialoghi tra
di noi si limitino al cordiale saluto.
Sapete, non ho una grande voglia di fare amicizia, e odio
le perdite di tempo.
Bene. La mia presentazione finisce qui.”
L'atmosfera dopo le mie parole cambia sottilmente.
Il professore mi guarda con uno sguardo misto tra lo stupito
e l'iracondo , la ragazza troppo truccata continua ad adoperare
specchietto e rossetto, la secchiona si cala impercettibilmente gli
occhiali sul naso, scrutandomi con fare caritatevole.
Il ragazzo stralunato mostra con orgoglio l'indice, unto di
una strana e verdognola sostanza
Il tipo biondo mi sovrasta di cuoricini immaginari, mentre il
cecchino nasone è intento a recuperare la pallottola caduta a terra.
All'improvviso però mi accorgo di un colore nuovo che mi
sovrasta.
Sono gli occhi neri e profondi di mister zazzera verde.
Per la prima volta in tutta la mia folle vita non riesco a
decifrare uno sguardo.
Mi sento terribilmente disorientata e impaurita....
Zoro mi ha sempre
presa alla sprovvista. Mi ha sempre attratta nel suo vortice infinito
come una calamita, lasciandomi spiazzata e con uno strano senso di
confusione nel cuore.
Io davanti a lui ero
inerme, non potevo far altro che lasciarmi andare alla corrente del suo
mare...
Non era stato un colpo
di fulmine o qualcosa del genere, ma in quel momento mi sembrò come se
il cuore mi si spezzasse.
Fu esattamente quella
sensazione di dolore.
“Ho cambiato città,
e ho sfiorato l'idea
di esser solo tra la gente
che cammina con me
quando tu sei distante...”
Note dell'autrice: Salveeee! Eccomi
di ritorno come vi avevo promesso.
Mamma come sta scorrendo la mia mano
mentre scrivo questa storia. Molto felice io sisi ^^
Innanzitutto ringrazio chi ha
recensito la mia prefazione, chi lo ha semplicemente letto, e chi l'ha
segnato come seguito e/o preferito.
Mille volte grazie.
E pre-ringraziamenti a chi farà
tutto questo con il secondo capitolo.
Ora delucidazioni: Il testo in
neretto è una canzone di Daniele Grof intitolata “Ho cambiato città”
Mentre
la Sindrome Hikikomohori significa letteralmente
“stare in disparte, isolarsi”, dalle parole hiku “tirare” e komoru “ritirarsi è un termine
giapponese usato
per riferirsi a coloro che hanno scelto di ritirarsi dalla vita
sociale, spesso cercando livelli estremi di isolamento e confinamento.
Tali scelte sono causate da fattori personali e sociali di varia
natura. Tra questi, la particolarità del contesto familiare inGiappone,
caratterizzato dalla mancanza di una figura paterna e da un'eccessiva
protettività materna, la grande pressione della società giapponese
verso autorealizzazione e successo personale, cui l'individuo viene
sottoposto fin dall'adolescenza. Il termine hikikomori si riferisce sia al fenomeno sociale in
generale, sia a coloro che appartengono a questo gruppo sociale.
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Capitolo 3 *** Un filo tra gli sguardi ***
Un filo tra gli sguardi
"A mollo nella vasca da bagno del tempo
non uscirò, prima di avere i piedi a pieghe.
A mollo nella vasca da bagno del tempo
non uscirò, prima di avere le dita grinze.
Ma ho vissuto poco,
fin ora,
e dicono che il meglio verrà da ora in poi.
Ma ho già sbagliato tanto fin ora,
ed ho imparato tanto,
ma sbaglio ancora e poi..."
Cammino con passo spedito verso
casa, lasciandomi alle spalle la voce fin troppo squillante di Rufy, lo
stralunato fissato con le narici.
Possibile che ogni
stramaledettissimo giorno, a lezioni finite, inizi a sottolineare
saltellando come un poppante la sua disumana necessità di cibo?
Non bastano mica quelle
demenziali scenette pseudo comiche improvvisate con Usopp, il
fabbricatore di palline di carta più temuto della Thousand Sunny, che
attirano l'attenzione e la curiosità altrui e che, in tutta franchezza,
strappano un ghigno divertito anche a me.
No... Deve andare oltre, sempre!
“Dai Nami! Almeno per
stavolta, vieni a mangiare con noi!”
Cosa?! Cosa?!?! Cosa?!?!?!?
Stiamo forse scherzando?!
Punto primo: non ho fame.
Punto secondo: non vengo
assolutamente con voi.
Punto terzo, il più importante:
siamo semplicemente compagni di classe, l'ho anche sottolineato mi pare
no?!
Ovviamente questi pensieri me li
tengo per me. Quella piccola percentuale di sangue freddo che mi
ritrovo mi permette di inibire il passaggio tra mente e bocca tagliente.
Ecco perché sono costretta ad
aumentare l'andatura della mia classica camminata rilassante post
ambiente scolastico.
“Se non puoi sconfiggerli,
confondili” è il detto.
Bene, quale confusione migliore
se non quella di lasciare il nemico col dubbio sulla corretta
funzionalità del mio udito?
Giro l'ultimo angolo ed ecco
casa mia.
Mi guardo attorno, quasi con
fare da ladra, assicurandomi che quel pazzo schizzato, insieme a Sanji,
il maniaco biondo tutto “Nami di qua, Nami di là” non mi abbiano
perfino seguita.
Faccio scattare la porta e...
Ta dan! Assolutamente silenzio!
Mio dio, finalmente!
Oggi è stata più dura del solito.
E non parlo delle ore passate
tra lezioni e nuovi professori, all'apparenza troppo esigenti, tanto
meno della mole di lavoro che devo affrontare per rimettermi in
carreggiata.
L' aria che si respira là
dentro, quella mi crea profondi turbamenti.
Cavoli, non ci sono abituata.
Legami... Fiducia... Rispetto....
Mi viene voglia di gridare “Ci
sono io, eccomi! Anche a me vi prego. Me ne basta solo un pò... ” ma, nello stesso istante,
vengo poi travolta dai ricordi.
Un senso di malessere si irradia
nelle ossa, facendo tremare le mie gambe quasi fossero di gelatina. Mi
accascio a terra.
Cado...Ancora una volta.
Quali sentimenti deve provare
una bambina di 11anni, appena orfana di padre, abbandonata da una madre
egoisticamente persa nel suo dolore?
Che cos'è il rispetto per una
quattordicenne abituata ad essere toccata troppo spesso dalla mano
promiscua di chi invece avrebbe dovuto proteggerla?
E la fiducia? Non ha forse il
sapore del sangue fuoriuscito dalle labbra che mordi, con forza
prepotente, per soffocare le urla di disperazione?
Io bacio ancora le ferite.
Come fa una mamma che posa
delicatamente le labbra sui graffi di un piccolo ginocchio sbucciato.
Funziona sempre vero?
È farlo da soli che è difficile.
Per questo non posso permettermi
di più.
Devo bastarmi da sola.
Un discorso diverso da questo,
ben sceneggiato, adatto alle circostanze, non può risolvere tutto.
Posso cercare di andare avanti
diversamente, ma sarebbe come trovarmi in una fitta e invivibile
foresta.
Tutto il mio sforzo per spostare
i rami, trovare un varco, sarebbe futile.
I rami mi tornerebbero in faccia.
Legami... Fiducia... Rispetto....
Non conosco il significato di
tali parole.
A ciò che mi circonda io
rispondo con un sorriso segreto, un sorriso solo mio.
L'importante è mantenere il
confine.
Andare oltre è troppo rischioso.
* * *
Ultima lezione del venerdì.
Ancora qualche minuto e poi una quiete che durerà ben due giorni.
Se di quiete posso parlare,
visto ciò che mi spetta domani.
Ritornare nel mio paese e andare
a trovarla...
Riassaporare quel senso di
inadeguatezza mentre sono colpita dal suo sguardo smembrato dal calore.
Immersa nei pensieri riesco solo
a decifrare una parola, la più temibile, pronunciata dalla voce
baritonale del prof di storia: interrogazione!
Il dissenso che esplode nella
classe non intacca la decisione risoluta del nostro aguzzino.
“Bene, bene. Ci sarebbero
parecchi polli da spennare, come al solito. Ma sarò buono, visto ciò
che vi spetta dopo. Eheh!”
Mi guardo intorno, Usopp e Rufy,
compagni di banco, sono completamente sbiancati, Perona sbuffa
rumorosamente, facendo muovere la frangia rosa.
Robin in prima fila, alza la
schiena mettendosi in mostra, sperando sicuramente in un altro ottimo
voto da aggiungere alla sua collezione.
Sono tanti quelli che borbottano
“Fa che non sia io!” mentre
cercano di nascondere il volto dietro un libro girato al contrario.
Sanji cerca di richiamare
all'attenzione mister “belli capelli” che, con un braccio a sostenere
la zucca, sicuramente vuota, è completamente perso a fissare, come uno
stoccafisso, il cielo.
“Proviamo a vedere se il
signor Roronoa ci degna della sua presenza?”
Nessuna risposta.
Un colpo di tosse ed un
ulteriore richiamo: “Signor Roronoa?!”
Caput! Andato. Mayday, mayday,
qui c'è qualcuno che è morto e ancora non lo sa!
Uno scappellotto unito ad una
pallina formato large lo riportano tra noi comuni mortali.
“Ma insomma! Che modi!” si permette anche di dire con
volto rabbioso e incredulo.
Con somma sorpresa scopro che il
tipo non soffre solo di narcolessia: sa addirittura parlare!
“Zoro Roronoa, possibile che
debba sempre essere così distratto?! Si alzi in piedi e mi parli dello
Shinsengumi! Se la risposta sarà esauriente avrà la possibilità di
scegliere il compagno con cui lavorare per il compito che vi assegnerò,
da consegnare entro lunedì!”
“Ah, ah. Vediamo come te la
cavi” continuo io sottovoce.
Un ghigno, irresistibile
aggiungerei se solo non fossi troppo testarda e orgogliosa, e poi una
cascata di accurate, precise e ineguagliabili parole. Tutte sorrette
saldamente da una voce calma e rassicurante. Un timbro troppo uomo per
un ragazzino della mia età. A chiudere questo cerchio idilliaco la
presa inamovinile del suo sguardo, nero come la pece, sul professore
Hiromi, ormai battuto.
“Il corpo speciale della Shinsengumi nasce
poco dopo la forzata apertura agli scambi commerciali del Giappone
imposta dal commodoro americano Matthew Perry nel 1853. A seguito della
Convenzione di Kanagawa il paese si trovò diviso tra chi traeva
vantaggio dall'apertura degli scambi, sebbene questi finissero per
giovare solo alle potenze occidentali, e chi osteggiava la fine del
sakoku e combatteva la penetrazione del commercio
straniero. Nacquero così numerosi partiti politici e scuole di
pensiero, ognuna delle quali cercava di aiutare il paese ad uscire dal
caos che si era creato.Una delle scuole di pensiero più famose
fu quella di sonnō jōi esistente già prima dell'arrivo diMatthew Perry,
la quale metteva in dubbio i poteri dello Shogun per sostenere e
ripristinare quelli dell'Imperatore, il motto ed il nome stesso della
scuola recitava infatti "onore all'Imperatore, espellere i barbari". I
sostenitori più radicali del pensiero sonnō jōi iniziarono a commettere
omicidi e atti di violenza nell'area di Kyoto, l'allora capitale
imperiale. Lo shogunato Tokugawa quindi, costituì nel 1863 un gruppo
per contrastare e contenere i sostenitori radicali dell'imperatore, il
Roshigumi. Il gruppo, originariamente di 234 unità era costituito
principalmente da samurai senza padrone, i Rōnin che avevano inoltre
l'incarico di scortare e proteggere il 14º shogun, Tokugawa Iemochi, che si preparava
ad entrare a Kyoto. Di questi 234 Rōnin 30 furono selezionati per
diventare membri del "nuovo corpo scelto", chiamato appunto Shinsengumi.
I membri di questo
nuovo corpo furono inizialmente etichettati col nomignolo di Miburō
cioè "Rōnin di
Mibu", Mibu era il nome del sobborgo centrale di Kyoto in
cui la Shinsengumi prestava servizio.
I principali comandanti del corpo furono
Kamo Serigawa, Isami Kondo e Nishiki Niimi. Il corpo stesso era
composto
da tre squadre principali, di Serigawa, Kondo e Yoshio Tonouchi,
malgrado quest'ultimo fu
assassinato
poco dopo la sua fondazione assieme a Tsuguo Iesato. (*)
Le basta questo o vuole che continui?” Conclude con fare beffardo.
Un applauso fragoroso spezza
l'aria satura di ammirazione.
Rufy si gira verso il compagno
seduto dietro con un sorriso gigante:
“Grande Zoro, sei sempre
bravissimo, ma con la storia non hai rivali! Hai messo fuori
combattimento anche il nuovo prof!”
"Solo fortuna Rufy, quando si
tratta di Samurai lo sai che sono preparato."
Io resto letteralmente senza
parole. Il solo ascoltarlo e osservarlo mi ha completamente risucchiato
l'energia.
“Ehm”, ennesimo colpo di tosse,
sinonimo di disagio, “Va benissimo così, perfetto direi. Ora la prego di
scegliere...”
Posa con sicurezza gli occhi su
di me, sorriso a fior di labbra...
Zoro mi ha trovata,
nonostante non fossi una ragazza comune.
Mi ha scovata, raggiungendo
il nascondiglio che sapientemente avevo costruito.
Mi aveva scelto per quella
che ero.
Per questo oggi riesco a
convivere con la "me stessa" di allora...
Ero felice.
Non pensavo che quella
felicità potesse finire. Pensavo
sarebbe durata in eterno.
Non pensavo assolutamente che
potesse finire.
"...Scelgo la Cocoyashi!"
Voglio diventare vecchia
coi ricordi tutti intatti.
Senza i lobi a penzoloni
ad insegnarmi che non è poi
sempre bello
ostentare le ricchezze che hai
lascia mettere agli altri
gli orecchini pesanti.
Voglio
diventare vecchia
coi ricordi tutti intatti
E con le rughe tatuate
a ricordarmi quanto è stato bello
ridere con gli occhi e con le labbra. "
Note dell'autrice: rieccomi
di ritorno. Capitolo un pochino lungo, anzi no, troppo lungo, ma era
doveroso scrivere così tanto.
Spero non risulti noioso, tutto quello che scrivo è
fondamentale al senso della storia , anche le piccolezze più minuscole
:)
Torno a sottolineare quanto io debba ringraziare chi sta
seguendo questa fanfiction, chi l'ha messa tra le preferite o tra le
seguite.
Non mi aspettavo così tante belle parole da parte vostra!
Belle siete!
Ora le dovute precisazioni: "Shinsengumi" ovviamente tutto
questo non sarebbe stato possibile senza Wikipedia! (pensavate forse
che Zoro fosse così ricco di cultura?)
L'ho conosciuto tramite un bellissimi anime, che consiglio,
ossia Hakuoki
Shinsengumi Kitan.
Prima di vederlo assicuratevi montagne di fazzoletti eh!
Frase iniziale e finale "La vasca da bagno del tempo" sempre
di Erica Mou. Più ascolto i suoi album più sono fonte di ispirazione.
Chiudo qua queste note e vi abbraccio tutte!
Saluti da sof_chan |
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Capitolo 4 *** Le due facce della luna ***
Le
due facce della luna
-...Scelgo
la Cocoyashi!-
“Sono
seduto di fronte a te,
e
sogno le
cose che faccio
.
Non parlo...
Tu
non mi conosci affatto.
Per paura
di quel che potresti fare
non dico
niente,
ma
ti fisso,
e sogno di inciampare su di
te...”
-No!-
urlo a pieni polmoni sbattendo le mani sul tavolo.
Il
tonfo della sedia, che cade inesorabile dopo il mio sciocco scatto,
sembra quasi echeggiare nello strano silenzio che ora calca la scena.
Mille
occhi curiosi e perplessi mi scrutano senza decenza, ma non ho la
giusta dose di coraggio per affrontare quelli scuri del mio compagno.
No!
No! No!
Andrebbe
bene chiunque, ma non lui! Ribadisco
ad una me stessa troppo impegnata a cercare, in quel labirinto
mentale, la risposta alla mia negazione così insensata.
Ma,
giustamente, non c'è.
Nessuna
giustificazione plausibile.
Vinta
e mortificata mi ricompongo, mentre il prof, con destrezza, fa cadere
il sipario su questo imbarazzante capitolo, elencando le coppie
rimaste ed esortandoci a ritirare dalla scrivania gli argomenti per
il compito.
Me
ne sto vergognosa, a capo chino, con la coda tra le gambe, aspettando
che la folla si dilegui per avere la possibilità di ritirare il mio
argomento ma i miei cupi pensieri sono interrotti da un foglio che,
come per magia, è ora sospeso davanti ai miei occhi.
-Cocoyashi/Roronoa,
1600/1867: periodo Edo-
annuncia Zoro, grattandosi con la mano libera la sua strana zazzera
verde, - si
potrebbe fare per domani pomeriggio... Per le 16.00 fatti trovare in
biblioteca-
Il
mio viso continua a contemplare passivamente quel foglio bianco
dinanzi a me, e dico passivamente perchè sono talmente imbarazzata
da non riuscire a guardare verso di lui.
Non
so perchè mi fa questo effetto...
Grugnisco
e strappo, con un movimento da delicatezza tipica di un elefante, il
foglio dalle sue mani calde e abbronzate e lo butto sgraziatamente
nella borsa, pronta a dileguarmi.
-Ma
figurati! Non c'è bisogno che mi non-ringrazi, Nami!-
esclama, posando le mani in vita.
-Ehi
tu, alga verde! Non osare parlare così alla mia Namichan. Chiedile
subito scusa!-
Si
intromette il biondino che, tra le mani, stringe ancora le sue
classiche
bustine colorate piene di “squisiti dolcetti per le sue dee”.
-Monociglio non ti mettere sempre al
centro delle attenzioni, sai che odio quando lo fai. È una questione di
coppia. Vedi di sloggiare da bravo cuochino!- continua Zoro
facendo sventolare la mano in direzione della porta, occhi furbetti e
un bel sorriso sbilenco.
-Coppia?
Coppia?! Ma quale coppia! È solo uno stupido compito. Oh mia dolce
Nami! Sono così in pena. Passare delle ore, sola, in compagnia di
questo bifolco! E tu, stupido marimo, prova solo ad approfittare di
lei e....-
Respira,
respira.
Nami
chiudi gli occhi, respira e rilassati...
Conta
fino a 10 e cerca di estraniarti da questa massa di cerebrolesi.
1,
2 , 3...
Su! su! Le tue orecchie non stanno
ascoltando queste frasi
assurde e stupide.
Continua
dai!
4,
5...
Quando
riaprirai gli occhi tutto questo sarà finito e tu tornerai
tranquilla e felice nella tua casetta.
Sempre
se non ammazzi qualcuno prima!
-Siete
i classici maschi! Solo perchè è nuova tutti a stargli dietro,
bleah! Cosa ci trovate poi in questa femmina misera e sciatta, sempre
in nero, con quei capelli sempre attaccati in una coda mal
riuscita, quel colorito smorto e quella faccia da cattiva e
perennemente incazzata!-
Un
prurito carico di irritazione fa muovere la mia mano, pronta a
tatuare una bella cinquina su quel visino così tinto e costruito.
Ma
c'è chi, inaspettatamente, mi anticipa.
-Perona,
stai esagerando...-
-Sto
esagerando Zoro? Io sto esagerando!? No, forse sei tu a non aver più
il cervello connesso ai restanti organi perchè, credimi, proprio non
capisco. Perchè in coppia con lei, così insignificante, e non con
me, la ragazza più desiderata della scuola?-
-Cosa?
Zoro e Nami sono una coppia? Hai sentito Usopp? Wow! Questa è una
splendida notizia! Grande Zoro, sono superfelice che tu ti sia
rimesso in gioco, qui bisogna festeggiare! Stasera tutti al pub del
centro a mangiare in gran quantità. Che bello! Ho già
l'acquolina...”
Continua
Nami.
6
e 7...
Non
puoi mica massacrare di pedate tutti i presenti vero?!
-Rufy,
da bravo, osserva con più attenzione ciò che accade intorno a te
- Si aggiunge a questa conversazione, che ormai di privato non ha più
nulla, la silenziosa Robin che, con compostezza, posa una mano sulla
spalla ossuta del bambinone -Zoro
e Nami non sono una coppia come hai inteso tu... Stiamo parlando delle
coppie per il compito. Loro lo faranno insieme mentre tu lo farai con
me, come indicato dal professore-
-Ma
non per questo tu stai con Robin, idiota!-
ecco l'ultima voce del coro più stonato al mondo: Usopp.
-Oh!
Che peccato. Ma noi ci andiamo lo stesso al Pub vero Zoro?-
-No
Rufy, io questa volta salto. Sai, domani è quel giorno...-
A
seguito di quelle parole improvvisamente cala il tanto desiderato
silenzio.
Ma
non mi sento sollevata, anzi...
È
come se un macigno si fosse schiantato sul mio stomaco, la sensazione
è questa.
Cosa
avrà voluto dire con “è
quel giorno...”?
Volti
cupi, sguardi complici di chissà quale peccato, si palesano di
fronte a me, che, per la prima volta, pongo attenzione ai dettagli
altrui.
-Oh,
mia dolce dea, tu verrai domani vero? Io sarò là ad attendere il
tuo lieto arrivo. Ma dimmi, mio zuccherino, ti va di assaggiare le
mie splendide delizie? Sono stato tutta la notte a preparate queste
bontà solo per vedere spuntare un dolce tuo sorriso al loro
assaggio...”
Basta.
Tutto ha un limite, ecco arrivato il mio!
Parole,
parole. Un minestrone di inutili frasi disconnesse.
-Piantatela-
La mia voce è flebile, quasi un richiamo nel vento.
-Cosa
Nami?-
-Ho
detto di piantarla! Io non vi sopporto più! Dovete smetterla,
smetterla di parlare al mio posto. Io non voglio essere vostra amica.
Io non posso esserlo. Mi dovete lasciare in pace.
E
poi, maledizione, il suono delle vostre voci è così fastidioso.
State
sempre a parlare, parlare, senza rendervi conto del bisogno di
silenzio che la gente intorno a voi richiede.
Frasi
inutili, giusto per far prendere aria alla bocca- Butto
fuori tutto ad un fiato, con la vena alla tempia che mi martella,
aumentando il mio nervoso. Ormai sono del tutto uscita allo scoperto,
è inutile tentennare. -Sanji,
io non pranzo mai fuori casa,e le cose dolci mi fanno letteralmente
schifo, quindi non assaggerò mai e poi mai le tue delizie, fattene
una ragione! E, per la cronaca, odio anche tutto quel tuo amoreggiare
platonico quindi...Stammi alla larga-
Ferire per essere libera, è questa la
soluzione.
-Perona!
Dovresti spendere metà del tempo che sprechi a truccarti,
volgarmente a mio gusto, in...
Bhè,
andrebbe benissimo qualsiasi cosa, anche semplicemente pensare ogni
tanto,visto che il tuo misero Q.I. non ti permette di auspicare a
qualcosa di più complicato-
Ok...questa
dovevo proprio dirla.
-Rufy,
Usopp, i vostri teatrini sui pirati mi hanno stancata. Siete
logorroici e privi di originalità. Tu babbeo, sei a Tokyo e i pirati
non esistono, in quale lingua vuoi che te lo dica? O preferisci
arrivare alla risposta a suon di schiaffi?
Mentre per quanto riguarda
te, nasone, si vede benissimo che dietro a questo super eroe che hai
creato per te si nasconde un fifone ambulante!-
Più
vado avanti più fa male, come se le mie parole ferissero, nello
stesso modo, anche me.
-Robin,
oh Robin! Tu...tu...che dirti? Perchè ti vuoi fare del male? Perchè
sei qua, in questa gabbia di matti? Possibile che anche tu sia così
stupida?!-
Amarezza
e delusione in ognuno di loro.
Fredda,
gelida, distaccata.
Così
devo essere.
Ma
non riesco a continuare ad attaccare, non riesco a rincarare le
offese per portarli ad odiarmi.
Ed
è così che il mio corpo, stanco, si arrende e fugge via.
L'ultima
cosa che vedo, prima di essere preda delle lacrime, è uno sguardo
inquisitorio ma malinconico
che
segue il mio passo.
-Ehi
Cocoyashi!-
Mi
fermo in mezzo al corridoio centrale, asciugo quelle singole e brevi
lacrime, riassumendo il mio classico portamento.
Zoro
non
si avvicina, ma non muta il suo sguardo.
Ne
sono fermamente convinta, non serve voltarsi per averne la conferma.
-Sei
uscita fuori finalmente! È davvero così che sei? Una luna nera,
fredda e impassibile, che non riflette nulla?-
Destabilizzante,
ecco l'effetto che mi fa.
Ovviamente
non emetto un singolo suono, con lui la bocca si secca e le parole
muoiono in
gola.
-Puoi
pensarla come vuoi, così come sei libera di comportarti come meglio
reputi ma non è giusto essere così crudi. Loro vogliono solo
conoscerti.
Datti
una possibilità. Restare a condannarsi non serve a nulla, credimi.
È
tempo perso che non ritornerà più!-
Ogni
parola era fuoco, mi bruciava, consumava...
Mi
sentivo completamente nuda ai suoi occhi
Possibile
che un estraneo potesse conoscermi a tal punto?!
Quella
presenza costante, che ormai da giorni assaporavo inconsciamente, era
il suo sguardo che cercava di catturare la mia sostanza.
Ogni
pausa tra le parole era pioggia, era l'acqua in mezzo al deserto.
Era
come avere, finalmente, e anche se per poco, un posto nel mondo!
-Quindi
ti chiedo: sei uscita fuori veramente? È questo che sei? Una persona
che non ha il coraggio di vivere? -
Avrei
voluto voltarmi ed urlare, gridare fino a spappolare i miei polmoni
“No! Io non voglio essere questa! Dammi la mano, fammi uscire da qui!
Sono così stanca del buio...”
Ma
non ne avevo il coraggio.
Mi
sentivo ancora così indegna.
-Un
certo Eraclito parecchio tempo fa disse “Nasciamo una sola volta,
due non è concesso; tu che non sei padrone del tuo domani, rinvii l'
occasione di oggi; così la vita se ne va nell'attesa, e ciascuno di
noi giunge alla morte senza pace.”
Non
sono uno psicologo, tanto meno un dispensatore di consigli. Tra
l'altro tutto ciò è molto ironico, io ho sempre odiato Eraclito! Era
così nauseantemente nel
giusto...
Ti
sto chiedendo semplicemente di non fare i miei stessi errori,
Mocciosa!-
-Buzzurro
dei miei stivali, ma tu non eri quello bravo solo a dormire, in
qualunque posto e in qualunque modo? Da quando soffri di parlantina
ossessivo/compulsiva?-
Mi
volto finalmente verso di lui, sorridendo.
-Domani
alle 16, biblioteca-
Studia ancora il mio volto, soddisfatto.
-Mmm...Forse
si, forse no. Sei così bravo, non hai mica bisogno di me!-
gli faccio la linguaccia, forse la prima della mia vita.
E
mi allontano dandogli le spalle.
-A
proposito alga ambulante, questo è per avermi chiamata mocciosa-
grido alzando soddisfatta un significativo dito medio nella sua
direzione.
Solo
un ghigno,il suo ghigno, arriva come attesa risposta.
Zoro
ha sempre fatto del suo meglio.
Ha dato tutto se stesso per arrivare
a me.
In
quel momento mentre avanzavo nel corridoio, allontanandomi da quella
precaria felicità che Zoro mi aveva, per un attimo, donato senza
chiedere nulla in
cambio, pensai:
Devo
impegnarmi di più, non importa quanto mi ci vorrà.
Perchè
la felicità non è una cosa che si conquista facilmente!
...potresti
essere crudele con me
mentre rischiamo di alterare
il modo in
cui ti vedo.
Ma ti vedo!”
Note
dell' autrice: Nonostante il lavoro, sfidando il sonno e i miei
gattini che non danno tregua ECCOMI QUA!
Prima
cosa, la più importante: vorrei ringraziare in particolar modo
Placebo_girl
per i suoi accurati consigli sugli orrori grammaticali che pubblico
:D
Poi
ancora miyuki90, Kiko90,
Nami Roronoa, Ice Star, michiru 93,
frequentatrici assidue dell'angolo recensioni.
E
un grosso Grazie a tutte tutte le altre.
Ok
adesso precisazioni: il solito e onnipresente testo iniziale e
finale. Questa volta vede protagonista Mika con I see You.
Spero
di non avervi annoiato/e.
A
risentirci presto, anzi no, prestissimo.
Baci,
sof_chan. |
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Capitolo 5 *** Sto da sola, ma non sono sola ***
Sto
da sola, ma non sono sola
“Beh, la vita
ha uno strano modo
di sorprenderti alle spalle,
quando pensi
che sia tutto apposto
e che tutto vada per il meglio”
Sono
svegliata di soprassalto da un colpo sordo proveniente dal balcone
della mia stanza.
Mi alzo a fatica, maledicendo mentalmente ogni
singolo nome presente sul calendario, afferro il mio bastone ai lati
del letto, oggetto che ho nominato mia personale guardia del corpo,
dirigendomi verso il presunto intruso.
Non
ho alcun timore, so badare a me stessa e piuttosto che starmene a
tremare avvolta tra le coperte, nell'attesa di un qualche epilogo,
preferisco affrontare il pericolo di petto e, se possibile, ad armi
pare!
Quatta,
quatta scivolo verso la maniglia, apro con velocità e fermezza la
porta di vetro scorrevole e mi catapulto sulla balconata impugnando
saldamente la mia micidiale arma e...
Un
piccolo e tenerissimo gattino, colto in flagrante a scavare nella
terra della piantina di mandarini, mi scruta con occhi curiosi e
timidi.
Mi avvicino piano, per non spaventarlo, con l'intenzione
di porre fine a quel supplizio ingiusto che la mia adorata pianta sta
patendo, lo prendo tra le mani rendendomi conto di quanto questa
palla di pelo sia minuscola.
-E
tu come hai fatto ad arrivare fin quassù?- chiedo aspettando
chissà quale risposta mentre lo alzo in aria con braccia ben tese,
mettendo la giusta distanza di sicurezza tra le sue zampe che si
dimenano e i miei occhi ancora provati dal sonno.
Non
sono molto pratica con gli animali.
In
realtà ho sempre desiderato possedere un cucciolo tutto mio, vederlo
crescere, giocare con me, farmi le coccole in maniera del tutto
sincera, senza presunzioni ne tornaconti. Un cucciolo che ti ama
incondizionatamente, solo perché tu ci sei, l'hai scelto, esisti
anche per lui!
Ma
non era giusto...
Ero
già talmente impegnata a proteggere me stessa, a sopravvivere in
quell'inferno che era diventata la mia nuova ex-casa, non potevo
rischiare di rendere succube del pericolo un altro innocente.
-Ok
fetente, ora ti metto giù e vado a cercarti qualcosina da mangiare,
ma non ti ci abituare troppo eh! Qua bisogna trovare un padroncino
giusto per te- affermo mentre lo poso per terra.
Salvo
da quell' equilibrio precario, inizia a girovagare tra le mie gambe,
emettendo quel curioso soffio tipico delle fusa. Ed io non posso fare
a meno che sorridere, totalmente annientate da questo batuffolino.
Sei
mio! Mi ritrovo inconsciamente a decidere.
Corro
dentro casa, l'orologio sul comodino indica che sono appena passate
le sei. Il buio attorno a me inizia a diradarsi lasciando il posto
alle prime luci dell'alba.
Riesco
a trovare nel mio frigorifero, completamente vuoto, solo un po' di
latte.
Lo divido in due parti: una tazza per me, da diluire col
caffè, ed una ciotolina per Sardina, il mio nuovo e unico amico.
Mi
siedo a gambe aperte sul freddo pavimento del mio balcone mandando
giù a fatica qualche sorso di latte sporco, lasciandomi accarezzare
dal vento fresco della mattina mentre, a mia volta, accarezzo
dolcemente il gattino affamato.
Mangiucchio
un po' di pane, vecchio di tre giorni, che ho messo a tostare.
È
come mangiare stucco.
Dal
pianerottolo di casa vedo gli oleandri nel giardino dei vicini
accanto. Da qualche parte qualcuno si sta già esercitando al
pianoforte, mi fa l'effetto di uno che ripercorre una scala mobile al
contrario.
Su un palo della luce due grosse colombe tubano senza
scopo, o forse no?!
Forse sono io che a loro sembro muovermi senza
scopo.
Mentre
mangio il secondo toast i colombi volano via, e ora vedo solo il palo
della luce e gli oleandri.
È sabato mattina.
Sul giornale che
ora stringo in mano c'è un articolo sulle orchidee, dice che ne
esistono centinaia di varietà, ognuna con la sua storia.
Le
orchidee hanno un aurea di fatalità, dice il giornalista.
-Bella
scoperta- puntualizzo a voce talmente alta da spaventare Sardina,
che, divincolandosi dalle carezze, ora mi guarda preoccupato. Mi alzo
in piedi poggiandomi al parapetto - in ogni cosa c'è fatalità! -
Decido
di uscire, andare a fare una breve corsa per i giardini di Tokyo e
pensare poi alla spesa. Appetito non ne ho mai avuto molto ma il
piccolo micino non sembra della stessa idea.
Indosso
un pantaloncino giallo non troppo corto, mi piace stare comoda e, di
certo, non voglio catturare attenzioni, e una felpa a maniche lunghe,
rigorosamente nera.
Le
mattine sono sempre più fredde. Le foglie smaglianti delle betulle
col trascorrere dei giorni si diradano, e fra i rami spogli degli
alberi soffia il tardo
vento autunnale.
Mentre corro mi fermo
in mezzo al prato per ascoltarne il suono.
Sembra ricordarmi che
non si può tornare indietro, che la brevissima estate è ormai un
lontano ricordo.
Anche
se, per me, le stagioni hanno sempre lo stesso identico profumo
nostalgico di sensazioni in realtà mai vissute o provate.
Mi
fermo circa un ora dopo, esausta e col fiato corto per la lunga
corsa. Per fortuna vedo vicino a me una fontana carica di acqua
fresca e limpida. Immergo completamente la testa sotto quel
rigenerante fruscio d'acqua che mi risveglia i sensi completamente.
È
il momento di pensare alla spesa quindi mi dirigo a passo svelto
verso il supermarket di fronte.
Ma
poco prima di entrare la mia attenzione è catturata da una figura a
me fin troppo famigliare: un ragazzo alto e ben messo con capelli dal
tono infallibile e classici stivali neri si dirige, mani in tasca e
capo chino, verso... Il cimitero?!
La
curiosità non è donna, la curiosità è Nami fatta a persona e
quindi mi decido a seguirlo come una ladra in perlustrazione ma mi
rendo conto troppo tardi che ho un piede dentro il supermercato ed
uno fuori e lo sguardo indispettito della commessa non mi lascia
alternative: dovrò fare prima la spesa. Rimandati gli inseguimenti,
per ora!
Cerco
di fare il prima possibile, gettando nel carrello giusto le cose
necessarie: scatolette e bocconcini per Sardina, birra a volontà per
me e schifezze varie.
Non
sono una salutista e l'alcool è il mio ottimo compagno serale, dopo
le estenuanti giornate passate tra quelle belve che mi ritrovo come
compagni, lo sapete bene ormai.
Esco
con fretta, inciampando sul marciapiede e beccandomi un'ulteriore
occhiataccia da quella vipera di commessa ma poco mi importa, non ho
il tempo di risponderle a tono, ho un' urgente questione da svelare,
più che risolvere.
Perlustro
con fare attento e minuzioso ogni singolo angolo di quel lugubre
posto. Credo sia inutile dire che non amo i cimiteri, d'altronde a
chi può piacere un luogo che sa di morte, disperazione. Un posto che
porta il nome di persone dimenticate dal tempo.
Un
profondo e intenso odore, buono e famigliare, mi conduce su un
sentiero poco battuto, ed ecco che di fronte a me si erige un grande
e secolare albero di mandarino.
Sono
completamente inebriata dall'agra e pungente, ma al tempo stesso
dolce, fragranza.
Unica
nota stonata?
Un
zazzera verde dormiente a pancia all'aria, braccia dietro la nuca a
mò di cuscino, e gambe allungate per terra.
Ecco!
Trovato il soggetto a cui, non solo piace, ma addirittura ci dorme
nel cimitero! Mi ritrovo a pensare disgustata.
-Buzzurro
ma sei veramente rincretinito!? Ma come è possibile che tu possa
dormire in un luogo angusto come questo? Curatela questa narcolessia
diamine!-
Urlo,
puntandoli il dito.
Nulla...non
si muove minimamente. Si limita ad alzare il volto e a guardarmi con
un solo occhio. Poi si rimette a dormire.
Decido
di andare via, mandando al diavolo la mia curiosità, ma la sua voce
impastata dal sonno mi fa fermare.
-E
tu invece? Hai finito di seguirmi?- mi guarda con fare spento e
assente, una tonalità del suo sguardo nuova per me.
Colpita
e affondata. Cavolo, come fa ad essere sempre così attento e,
maledizione, come può avermi vista se stava dormendo?
Mi
giro verso di lui, arrancando delle scuse, ma sono zittita dai suoi
occhi così...diversi.
Nel
profondo nero delle iridi riesco a percepire un velo, quasi triste e
freddo. Che cosa è venuto a fare qua in realtà?
Ma
non posso chiedere altro, non sono affari miei e non mi deve
assolutamente riguardare nulla di lui.
-Beh...sono...sono
qui per caso. Mi è venuta fame all'improvviso, visto che è da un
ora che corro, ed ho pensato a questi mandarini, tutto qua.-
Bugiarda, bugiarda, bugiarda.
Lui
mi scruta, alzando lievemente la testa ancora sorretta dalle sue
possenti e muscolose braccia, e ad ogni occhiata io mi sento morire,
è come se mi stesse svestendo, ma non con bramosia e carnalità,
assolutamente...
Sembra
più un cercare di arrivare a fondo di me stessa per capire chissà
quale mondo.
Ed
è strano il fatto che anche io, seguendolo silenziosamente, abbia
voluto avvicinarmi un pochino al suo, così misterioso e silenzioso.
Zoro
puoi gettare tutte le maschere altrui, tutte quelle che vuoi, ma la
tua quando cascherà? È palese sai, la tua espressione non è quello
di un ragazzino di 18 anni, io li riconosco subito i passati
tortuosi. Ma non ti chiedo di parlarmene, non voglio entrare troppo
nel tuo universo, rischierei di perdermi... E non avrei abbastanza
forza per riprendere me stessa.
-Anche
io ho seguito quest'odore, era così tranquillo... Non ho potuto far
altro che riposarmi sotto la sua ombra- mi dice dolcemente,
alzando gli occhi al cielo e sospirando di tanto in tanto, -andiamo
su!- si mette in piedi, spolverandosi le natiche dei jeans
cariche di polvere e terra.
-Andiamo
dove, di grazia?-
-Non
avevi fame?- grugnisce incamminandosi, mentre mi da già le
spalle, -andiamo a comprare un gelato, ovviamente paghi tu, io non
ho il becco di un quattrino!-
-Cosa?
Cosa!? Mi inviti per un gelato e devo anche pagarlo io? Sei solo una
testa d' alga priva di qualsiasi galanteria!- urlo con le braccia
conserte e il muso lungo e imbronciato.
Zoro
mi guarda perdendosi tra le risate -Oddio, oddio! Quanto sei buffa
mocciosa. Adesso manca che sbatti i piedi per terra piagnucolando che
non vuoi il gelato, proprio come farebbe una mocciosetta in tenera
età, ahaha!- a stento riesce a stare in piedi, una mano
sulla pancia a trattenere il dolore per quelle risa -chiedi a
Sanji la prossima volta, lui ti accontenterà di sicuro! -
-Ci
puoi contare buzzurro rincretinito e demente! Purtroppo la sfiga mi
ha fatto incontrare te oggi!- faccio la linguaccia,
rispondendogli serenamente.
-Allora
bambinetta, lo vuoi o no questo gelato?-
-Zoro,
la gelateria è dall'altra parte!- corro verso lui strattonandolo
per un braccio.
E
ci incamminiamo insieme, uno affianco all'altro.
-Gelato
alla menta e mandarino!- urliamo insieme al povero gelataio
esasperato dalle nostra grida.
Torniamo
a sederci su una panchina poco distante, non prima di aver litigato
per benino sulla scelta unanime del cono.
Assaporiamo
lentamente questi gusti così contrastanti, ma così divinamente
legati.
Ognuno
di noi perso nei rumori della città e smarrito, allo stesso tempo,
dentro se stesso.
Non
saprei dire per quanto tempo siamo rimasti così, vicini ma
totalmente distanti.
So
soltanto che è Zoro ad interrompere la quiete.
-Allora
per le quattro in biblioteca? Credo di riuscire a resistere altre ore
insieme ad un'avida strega come te-
-Tranquillo
troglodita, oggi non se ne fa nulla, fortunatamente direi, visto che
mi hai tolto tempo prezioso e soprattutto denaro! Nel pomeriggio devo
ritornare nel mio paese. Facciamo per domani?
Lo
ringrazio mentalmente per non aver chiesto nulla, nessuna
motivazione, nessun perché sul mio ritorno a Coconout Village. Si
limita ad ancorare i suoi occhi ai miei e ad ascoltare quelle
tentennanti frasi. Poi scrive qualcosa su un biglietto stropicciato.
-Tieni,
questo è il mio numero. Chiama appena sai che sei libera un paio
d'ore. Ci organizziamo al momento-
-Grazie-
rispondo con tutto il cuore. Ma non era un grazie rivolto al
biglietto. Era un grazie per tutto...
Non
ho specificato nulla a parole, ma so che Zoro ha capito, me ne da
conferma il bel sorriso che mi dona prima di andare via.
Zoro...
quella fu la prima volta che camminò al mio fianco. Le
nostre ombre erano allineate, l'una vicina all'altra. Sembrava
cercassero di avvicinarsi ancora, come a rivelarci... il
nostro futuro.
“E la vita ha
uno strano modo
di venire in tuo
aiuto,
quando pensi che
tutto ti stia andando storto
e che tutto ti
esplode in faccia.”
Note
dell'autrice: innanzitutto mi scuso per l'orribile ritardo. Sono
in piena col lavoro quindi non riuscirò sicuramente ad aggiornare
spessissimo.
Le
cose iniziano a girare piano piano, come vedete. Ed è chiaro ormai
che le ombre del passato non riguardano solo Nami, anche Zoro ha il
suo bel da farsi!
Continuo
instancabilmente a ringraziarvi a tutte/i, spero che continuate a
leggere questa storia nonostante le vacanze ormai inoltrate.
Un
forte abbraccio e opportune delucidazioni: la canzone è "Ironic"
di Alanis Morisette
|
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Capitolo 6 *** Direzione: passato! ***
A Placebogirl, e
ai suoi occhi di
riguardo per questa storia.
Direzione:
passato!
“...socchiudi
gli occhi e ascolta lentamente
il fiume che ti scorre dentro.
La vita a volte proprio non ci sente,
ma se ti senti addosso la paura di
sbagliare allora...
Ritornare
a Coconaut village.
Riassaporare
quell'aria satura di ricordi tristi.
Essere
costretta a violentare uno sguardo che riabbraccia freddamente luoghi
e volti famigliari ma vuoti.
Non
è passato molto tempo da quando sono andata via...
Sono
fuggita da quelle catene metaforiche che, pian piano, hanno consumato
le mie carni e deflorato la mia anima di ragazzina.
Ho
ripreso in mano la mia vita, se di vita possiamo parlare.
Ho
concettualizzato mentalmente il mio percorso di rinascita, una strada
solitaria che, senza preavviso o coscienza e responsabilità, adesso
assorbe il nettare dell'ambiente circostante, si plasma di
estraneità, del diverso.
E
non posso negare un sostanziale piacere.
La
mia nuova me china consapevolmente il capo a questa strana e bella
metamorfosi.
Ma
il passato c'è, è tangibile.
Ed
è oggi che devo sorbire l'amaro in bocca.
Devo
incontrarla.
È
un vero è proprio dovere, si!
È
sempre e comunque mia madre...
Una
madre che ha abbandonato.
Una
madre che, vinta dal dolore della perdita, si è arresa.
Ha
chiuso le orecchie, offuscato gli occhi.
Non
ha sentito le mie urla di dolore, non mi ha vista...
Si
è limita a scrutare superficialmente un volto pallido e spento.
Nient'altro.
Mando
giù a fatica il groppo alla gola, non merita questo mio senso di
sofferenza.
E
mentre sistemo frettolosamente la borsa del mio breve viaggio cade,
dalla felpa, un biglietto stropicciato.
Zoro...
Quello
stupido troglodita mi strappa un sorriso e per magia il magone va
via.
È
una strana sensazione.
Improvvisamente
mi sento forte e determinata, pronta a correre verso la vecchia me, a buttarmi di petto nella mia nuova direzione: il passato.
Infilo
la tracolla e saluto Sardina, raccomandandogli di non distruggere
completamente il mio piccolo tesoro, ovviamente parlo della mia
piantina color del tramonto.
Sono
pronta, non mi fai più paura.
Eccomi.
Scelgo
di corsa le scale del mio appartamento e mi dirigo verso la stazione
principale di Tokyo, sorridente e tenace più che mai.
Per
tutto il tragitto non faccio altro che stringere fortemente il
bigliettino.
Zoro,
è stato fin dal nostro primo incontro sai?!
La
tua anima ha toccato la mia, facendola sussultare a quel calore.
E
ancora oggi, nonostante tutto, io ti sento.
Sento
la tua forza incoraggiarmi,
la
tua presenza non mi fa perdere...
E
ogni volta che il buio mi sorprende la tua voce mi sussurra
debolmente:
“Va tutto
bene...puoi ancora farcela.”
“...adesso
raccogli ogni momento
riposati
un secondo e prenditi il tuo tempo
adesso
raccogli oi momento
respira
bene a fondo e poi non ci sei più.”
Note
dell autrice: mi scuso
per il capitolo troppo striminzito ma...
Mie
carissime lettrici, "Sky still blue"
si prende una piccola pausa estiva.
Tranquille, non mi manca
l'ispirazione, anzi, e non fermerò assolutamente questa storia che
mi ha preso così tanto.
Semplicemente il lavoro mi porta via
troppo tempo e mi dispiacerebbe scrivere qualcosa in fretta e furia e
senza la giusta attenzione e preparazione.
Unica cosa
importantissima: non dimenticatevi di me :)
Spero
di ritrovarvi tutte quante al mio ritorno e mi auguro che i primi
capitoli della mia storia possano piacere a nuove persone, così come
vi son piaciuti a tutte voi.
Ringrazio per il vostro
sostegno costante. Mi è servito tanto tanto per continuare a
scrivere con serenità.
In cuor mio sono certa che, in una delle
mie classiche notti insonni, aggiornerò nonostante
quest'avvertimento ma per correttezza puntualizzo un possibilissimo
ritardo.
Ma non me ne starò ferma. Il mio cervelletto bakato ha
in serbo tante piccole storie iscritte già a vari contest, i fandom
che ho scelto sono One Piece, Kodomo no Omocha (Rossana) e Vampire
knight (il mio primo amore per la scrittura) quindi, se vi va,
seguitemi in queste nuove avventure.
Vi auguro una piacevolissima
estate, dateci dentro e scrivete, scrivete, scrivete che mi piace
tanto leggervi.
Un abbraccio affettuosissimo e grazie di tutto, ve
lo dico col cuore.
Aspettatemi eh!
Buone
vacanze da sof_chan!
(il testo
iniziale e finale è di Daniele Grof, la canzone si intitola Adesso)
|
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Capitolo 7 *** Segui la corrente ***
Segui
la corrente
“Balla,
balla signorina nella notte.
Nella
carovana che è passata c'eran tante collanine rotte
dalle
botte della vita.
Scappa
via da questa gente consumata,
dalla
gabbia, dalla madre e la puttana.
C'è
una porta per tornare ancora indietro.”
Prendo
il rapido per Coconout Village che parte da Tokyo. Il tempo è bello
e relativamente sereno. Non c'è vento e il mare è quasi
completamente calmo. L'estate è ormai un lontano ricordo ma si sta
bene con la mia leggera giacca di cotone.
Il
paese sul mare, senza più bagnanti, è più vuoto di quanto potessi
immaginare.
Osservo
con perizia le mille immagini in movimento che colpiscono i miei
occhi.
Sono
come scatti, statici e fugaci.
Brevi
diapositive della stabilità del tempo e dello spazio.
Così
eternamente ferme nella loro direzione.
Ed
io, dov'è che sto andando?
Cammino
nell'ombra del passato, alla ricerca di una porta che mi riporta
indietro o mi abbandono al flusso di questa corrente sconosciuta,
calda e inaspettata, così maledettamente presente e viva, tangibile?
Il
sorriso puro di Rufy, la gentilezza di Sanji, lo sguardo materno di
Robin, il divertente Usop,
Zoro...
Quel
rozzo buzzurro antipatico capace di leggerti dentro.
Oh!
Diamine, perché penso a loro?
Perché
questo tepore, così lieve ma totalmente rassicurante, mi fa vibrare
il cuore?
Possibile
che in me ci sia qualcosa? Oppure è qualcosa che mi manca?
Non
lo so... Ma tanto, il risultato è lo stesso.
Nami
è Nami, tutto il resto non conta!
Fin'ora
ho perso così tante cose, cose importantissime...
Vivo
solo ed esclusivamente per me stessa, nulla può entrare nel mio
circolo.
La
differenza tra la ragazza di allora e quella di adesso è la
consapevolezza.
Io
e solo io, nient'altro. Non riuscirei a sopportare il dolore e lo
strazio di un'ulteriore perdita.
Ecco
dove sto andando, eccola la mia strada!
Mi
proteggo con la mia solitudine perché quando si è da soli non si
corre il pericolo di vedersi strappare le cose più care al mondo.
Ora,
nella quiete di questo timido sole, comprendo la nuova me stessa...
Una
volta giunta a destinazione e scesa dal treno sono completamente
invasa dall'odore del mare, carico di ricordi. Le persone per strada
sono tutte abbronzatissime.
Davanti
alla stazione prendo un taxi per l'istituto psichiatrico. Una volta
arrivata comunico all'ingresso il mio nome e quello di mia madre.
-Aveva
avvisato che oggi sarebbe venuta in visita?- Mi chiede con voce
dura l'infermiera di mezza età seduta alla scrivania
dell'accettazione. La donna, dal fisico minuto, porta gli occhiali
dalla montatura di metallo e i suoi capelli tagliati corti cominciano
a tingersi di grigio. All'anulare un po' tozzo porta un anello che
sembra comprato in coppia con gli occhiali. Sul petto ha una
targhetta con scritto il proprio nome: Sachira.
-No,
perché l'idea mi è venuta ieri, diciamo... Un po' all'improvviso, e
così, detto fatto, sono salita sul primo treno- dico con onestà.
L'infermiera
mi guarda con aria piuttosto sconcertata. Poi dice:
-Quando
si fa una visita, è necessario informarci in anticipo. Abbiamo una
programmazione, e anche i pazienti hanno le loro esigenze.
-Mi
dispiace. Non lo sapevo.
-Quando
è venuta qui l'ultima volta?
-Due,
tre mesi fa, più o meno.
-Più
o meno.- ripete l'infermiera Sachira controllando la lista dei
visitatori con in mano una penna biro. -Cioè vuol dire che è da
così tanto tempo che non vede sua madre?
-Esatto-
rispondo visibilmente irritata per questo suo modo invasivo.
-Secondo
le informazioni lei è l'unica figlia signorina Cocoyashi.
-È
così.
L'infermiera
posa la lista sulla scrivania e lancia una rapida occhiata al mio
viso, ma non aggiunge altro. I suoi occhi non esprimono biasimo,
stanno solo verificando qualcosa.
-Sua
madre adesso sta facendo terapia di gruppo. Finirà tra 15 minuti
circa. Dopo potrà incontrarla.
-Come
sono le sue condizioni?
-Dal
punto di vista fisico sta bene, non ha grossi problemi. È nell'altro
aspetto che ci sono alti e bassi. A breve potrà accettarsene anche
lei. Le modalità di interlocuzione sono lente e fredde, inoltre
continua a parlare della presenza di suo padre. Capita in queste
forme di depressione, il non accettare un evento traumatico...
Soprattutto quando si tratta di una morte improvvisa.
Ringrazio
e vado a sedermi nella sala d'attesa vicino all'ingresso, tiro fuori
dalla tasca il mio libro e incomincio a leggere, per ammazzare il
tempo.
Ogni
tanto un soffio di vento porta il profumo del mare, e produce tra i
pini un fruscio carico di freschezza.
Alzo
lo sguardo e noto che subito fuori dalla finestra ci sono cespugli di
fiori rossi che assomigliano ad azalee, al di là un vasto prato
tenuto con molta cura, con irrigatori a girandola che vengono
azionati mattina e sera e fanno un monotono rumore a scatti.
All'improvviso
sono rapita da un odore forte e dolce, nostalgico...
Mi
muovo di scatto verso la porta scorrevole che porta all'esterno e li
vedo: una decina di bellissimi alberi di mandarino dominano, sovrani,
i mille colori di quel magnifico giardino.
Mi
avvicino, stregata da quella visione così famigliare e triste, in un
certo senso.
Papà...
I
ricordi irrompono impavidi e senza controllo nella mia mente.
Mio
padre coltivava numerose piante di mandarino, si trattava di una
piccola ditta tramandata da generazioni.
Lavoravano
tutti incessantemente e con una profonda dedizione.
Amavano
incondizionatamente quelle piante.
No,
non si trattava di semplice lavoro, era vero e proprio sentimento.
E
fu proprio grazie ai mandarini che i miei si incontrarono.
Mia
mamma, furba e avara fanciulla, aveva l'abitudine di rubacchiare
qualche piccolo spicchio di sole dalla bancarella del mercato della
famiglia Cocoyashi.
I
suoi movimenti erano così delicati e seducenti da distrarre il mio
povero padre che, puntualmente, si arrendeva a quella bellissima
fanciulla sgarbata.
Un
bel giorno però fu proprio l'uomo a sorprendere la tenace ragazza;
una bancarella completamente vuota ed un unico mandarino
impacchettato con un delicatissimo nastro rosso, questa è stata la
dichiarazione di mio padre.
Gli
anni passarono e i raccolti andavano sempre meglio, l'amore che i
miei genitori mettevano nella coltivazione era quasi paragonabile
all'amore che provavano per me.
Ma
nonostante questo ero estremamente felice perché anche io ero
totalmente innamorata dei mandarini.
Mio
padre era un brav'uomo, solitario e di poche parole, ma con uno
sguardo capace di donarti tutta la tranquillità e la forza del
mondo. Mia mamma era una ragazzina formato adulto, dedita comunque al
suo ruolo di madre e comicamente buffa nei suoi modi di donare
affetto.
Ma
a me stava bene, avevo tutto ciò che potessi desiderare.
Poi
accade...
Una
grossa multinazionale, la Trafalgar Law, aveva puntato gli occhi sui
nostri terreni. Lo scopo era comprare quel pezzo di terra per
costruire una nuova azienda commerciale.
A
nulla valsero le resistenze di mio padre, dovettimo cedere tutto.
Mio
padre, un uomo così forte e robusto, si ammalò subito dopo.
I
soldi non ripagano i sogni, non portano il nome di sacrifici, pianti
e risate.
Ci
avevano privato di tutto.
Ci
hanno estirpato i sentimenti, annientato le speranze.
All'epoca
io non riuscivo a capire perché mio padre continuava a non ridere,
non ero capace di fermare le continue lacrime di mia madre.
L'unica
cosa che potevo fare era prendermi cura dell'unica piccola piantina
rimasta, cercando di riassaporare, tramite il suo mite e acerbo
profumo, il lontano ricordo dell'amore della mia famiglia.
Ogni
tanto ci riuscivo, coglievo lieve lo sguardo di mio padre
sommessamente più dolce, diverso...
Ed
ero felice, mi bastava sapere che lui c'era, esisteva ancora in
qualche piccola e remota parte del suo cuore.
E
quello microscopica particella a me sembrava risplendere come la più
bella stella, facendo battere anche il mio di cuore.
Mi
sentivo forte, imbattibile!
Quella
piccola pianta sembrava l'unico contatto che ci era rimasto e
capitava, anche se raramente, di annaffiarla o potarla insieme.
Fu
un infarto a portarlo via da me.
Il
suo cuore non ha retto a tutta quella sofferenza.
Accadde
all'improvviso, di notte. Il dolore lancinante al petto lo svegliò,
ma non chiese aiuto a nessuno, tanto meno a mia madre che,
addormentata, non si accorse di nulla.
Strascico
lentamente fino alla mia stanzetta, in preda agli spasmi silenziosi.
Mi
svegliò con un bacio e sorridendo sofferente mi disse:
-Prenditi
cura del nostro piccolo sogno...
Poi
si addormentò per sempre, cullato dalle mie piccole braccia.
Non
perdonerò mai chi mi ha portato via la persona più importante al
mondo.
Ma
c'è un'altra persona col cuore colmo di rancore: mia madre non mi ha
mai perdonato il fatto di essere stata l'ultima ed unica persona ad
aver visto l'esule e raro sorriso di mio padre.
L'infermiera
Sachira, con i suoi occhiali, mi riporta via dal mio passato
annunciando che la riabilitazione di gruppo è terminata.
Posso
incontrare mia madre.
-La
porto da lei- dice la donna.
Rientro
nella sala comune e, passando davanti ad un grande specchio, mi rendo
conto per la prima volta di avere un aspetto molto trascurato. Occhi
spenti e abbracciati da profonde occhiaie, capelli raccolti malamente
ed uno sguardo spaventato e spaventoso di rimando.
Mi
sento disorientata.
Qual'è
il comportamento giusto da tenere? Non lo so.
Mi
guardo intorno smarrita. Ma non vedo nulla che mi possa dare dei
parametri. Nulla che mi guidi.
Scivolo
nelle profonde sabbie mobili della perdita della coscienza...
Mi
strofino la faccia con le mani. Ma non è la mia faccia, non sono le
mie mani.
Il
cuore mi batte all'impazzata. Pompa il sangue nelle arterie a una
velocità folle. Il mio corpo è una figurina di gesso in cui
qualcuno sta soffiando una vita provvisoria, proprio come uno
stregone in procinto di un qualche rito. Ma quel simulacro non ha il
fuoco della vita. Imita soltanto movimenti muscolari. Perché sono
una figurina di gesso rafforzata, plasmata in fretta e furia per
venire usata in qualche sacrificio.
Sono
paralizzata dalla paura. Non riesco a capire perché ma sembra che
stia per finire definitivamente qualcosa. Come se una parte di me si
stesse per chiudere alle mie spalle.
“Un
certo Eraclito parecchio tempo fa disse: nasciamo una sola volta, due
non è concesso. Tu che non sei padrone del tuo domani, rinvii l'
occasione di oggi, così la vita se ne va nell'attesa, e ciascuno di
noi giunge alla morte senza pace”
Quella
voce nella mente mi riporta alla realtà.
-Tsè,
miserabile buzzurro, nemmeno ad un ora e mezzo di distanza mi lasci
in pace!
-Come
ha detto, mi scusi?- Rispose fervente l'infermiera, decisamente
stufa di aspettare una mia mossa.
-Ah,
eh...Ahahah! Mi scusi, parlavo da sola. Eccomi! Andiamo pure, la
seguo.
Iniziai
a muovermi, divertita da quell'immagine bizzarra di una testa d'alga
dispensatrice inaspettata di ottimi consigli.
Sai
Zoro, ho l'impressione di passare la vita ad aspettare il momento
opportuno per andarmene, scappare via e magari, chissà, riuscire
perfino a raggiungerti.
Ma
quella volta, in quel freddo e triste ospedale, persi l'occasione,
fortunatamente.
Sei
stato tu a guidarmi, e lo fai ancora oggi.
Mi
tendi costantemente la mano ed io vado avanti, un passo dopo l'altro.
Riesci
sempre a indirizzarmi, nonostante il tuo pessimo senso
dell'orientamento.
Ed
io, dimmi Zoro, riuscirò mai a ritrovare te?
“...Ed
è uscito un sole folle stamattina,
e
noi scappiamo via dalla rovina.
Forse
basta questa lacrima d'amore
per
riempire il gran deserto e farci il mare.
Balla,
balla amore mio per questa notte...
Vedra
che passerà, vedrai.”
Note dell'autrice: Si
riparte!
Ebbene si, sono ritornata.
Profondamente in ritardo, lo so, ma l'importante è esserci!
Un doveroso ringraziamento a tutte
le nuove lettrici e alle gentilissime ragazze che hanno lasciato delle
stupende recensioni in questa calda e
noiosa e
lunghissima estate lavorativa!
Un super mega ringraziamento alle
vecchie lettrici che continueranno a perder del tempo leggendo questo
mio lavoro!
Spero di non aver perso la mano in
questo tempo di fugace presenza nel sito.
E ora precisazioni: testo iniziale e
finale e del bravissimo Mannarino, che mi ha accompagnato in questi due
mesi di caldo afoso. Il titolo della canzone è
"Signorina".
Al prossimo, imminente,
aggiornamento!
Baci da Sof_chan |
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Capitolo 8 *** La bambina che non aveva scelta ***
La
bambina che non aveva scelta
“Sono
qui a reclamare la mia terra,
tu
non puoi tenermi lontano da lei per sempre.
Nei
miei sogni passeggio tra le colline
e mi
lascio trasportare dalla brezza delicata
verso
la pianura che ho visto tanto tempo fa.
E il
cielo azzurro è limpido,
ed io
nuoto tra i laghi.
Costruisco
una casa
che
tu non puoi portarmi via.”
Nell'istituto dove si trova mia madre ci sono in
tutto
tre padiglioni, adibiti ad accogliere i pazienti in base al livello
della malattia, questo è quello che l'infermiera mi spiega mentre ci
incamminiamo verso la stanza.
Mia madre è ricoverata in quello intermedio,
corrispondente al "grado medio".
Di norma ogni paziente, salvo rari casi,
inizialmente è
ospitato nel padiglione corrispondente al livello minore, quello meno
pericoloso, ed in base al decorso della malattia e del trattamento
avviene lo smistamento.
La situazione in cui versa mia madre è particolare.
Ci sono giornate in cui la depressione si manifesta
con
i normali segni e sintomi: apatia, alessitimia, inappetenza e
mutismo.
Questa condizione, già altamente pericolosa per se
stessi, è spesso aggravata da allucinazioni visive e uditive.
Lei percepisce materialmente la presenza di mio
padre, o
meglio, crede questo.
E fino a quando non accetterà la morte, la sua
morte,
non potrà guarire.
Mi chiedo se sarà mai possibile...
Cammino per i corridoi, la voce dell'infermiera
continua
a martellarmi la testa.
Ma i suoni arrivano ovattati, senza senso, l'unica
cosa
che percepisco è il sudore tra le mie mani.
Sono agitata.
Il pavimento in marmo, tirato a lucido, splende, e
le
pareti color crema hanno quasi la stessa sfumatura delle brioche che
prepara Sanji, e che io non ho mai assaggiato.
Ai lati dei muri si susseguono solide porte in
legno,
ognuna con la sua targa in metallo recante un numero. Continuo ad
avanzare, Sachiro è davanti a me e dalla sua nuca arriva un lieve
sentore di vaniglia, un odore che mi da l'illusione di trovarmi in
uno sterminato campo di fiori su una collina di primavera. Mi procura
una sensazione strana e contrastante, non riesco a capire se tutto
questo ha un effetto palliativo sul mio umore o se mi irrita ancora
di più A volte mi succede di provare stati d'animo del genere ma non
riesco a spiegarmi il perché.
Forse sono io la pazza bipolare e tra l'infinità di
questi corridoio c'è la mia stanza, il mio mondo segreto dove poter
assaporare quel che mi resta della vita: il nulla.
Nell'istituto, oltre alle terapie individuale e di
gruppo, si tengono vari corsi di riabilitazione: quello per la
ceramica, ginnastica, scrittura e giardinaggio. Sebbene si chiamino
così, miravano realmente alla guarigione? O hanno il semplice e
chiaro obiettivo di ritardare il progredire della malattia?
A me sembra sia un modo per aiutare i ricoverati a
passare il tempo, per non perdersi irrimediabilmente nel loro mondo
“sfasato”.
La stanza di mia madre ha un unico letto,
nessun'altra
paziente a farle compagnia.
Con immensa fatica e resistenza varco la porta.
La vedo: siede su una sedia vicino alla finestra
aperta,
e guarda fuori. Ha entrambe le mani posate sulle ginocchia. Su un
tavolo lì accanto c'è una piantina con dei fiori piccoli e fitti,
bianchi. Il pavimento è fatto di materiali morbidi, sembra quasi di
camminare su una distesa di soffici cuscini, in modo che i pazienti
non si facciano male in caso di caduta. Una scrivania e un armadietto
per riporre indumenti e oggetti personali. La tenda panna è
notevolmente ingiallita, sicuramente a causa dei raggi solari che
chissà per quanto tempo l'hanno colpita.
È come se fossi stata catapultata senza volere in
una
parte della spazio talmente statica da essere quasi inconsistente.
Mi è quasi difficile riconoscerla, mi sembra
cambiata,
come rimpicciolita. I capelli, più corti, sono di un rosso spento, e
i sottilissimi fili bianchi mi fanno pensare alla brina dell'alba su
un letto di foglie d'autunno. Le guance sono incavate, e forse per
questo gli occhi mi sembrano talmente grandi e senza luce. La fronte
è solcata da due piccolissime rughe che le danno un'aria stanca.
Solo il naso è quello di sempre, ovviamente.
Questo è ciò che resta di mia madre, penso senza
sentimento.
-Signora Cocoyashi, - dice Sachiro. La sua
voce è
forte e scandisce bene le parole. Forse è così che qua bisogna
rivolgersi ai pazienti. -Signora Cocoyashi! Mi ascolti! È venuta
a trovarla sua figlia.
Finalmente mia madre guarda verso di me. Sono
totalmente
invasa da uno sguardo inespressivo come un nido di rondini vuoto,
rimasto sotto una grondaia.
-Alle diciannove verrà servita la cena, -
dice
l'infermiera. -Fino a quell'ora faccia pure come creda, cerchi
solo di non agitarla, la prego.
Sento la porta chiudersi alle mie spalle ma non mi
muovo, resto ferma, in piedi lontana dalla finestra che lei continua
a guardare, donandomi ancora una volta solo la visuale delle sue
spalle e di lei così lontana.
-Stai bene?- chiedo con voce bassa
-Non c'è male, grazie, - risponde in modo
formale.
Non so come continuare. Gioco con la zip della mia
giacca di cotone volgendo ogni tanto lo sguardo agli alberi che si
vedono dalla finestra, una vera e propria barriera antivento.
Forse è per questo, per questa mancanza d'aria, che
mi
sento quasi soffocare.
Continua a guardare fuori quasi staticamente, in
realtà
sembra immersa nelle sue riflessioni, poi si volta, finalmente,
osservandomi a lungo. I suoi occhi hanno una trasparenza innaturale,
non mi sono mai accorta di questa sua peculiarità. È una sensazione
strana, sembra quasi di guardare attraverso l'aria.
- Eppure a volte mi chiedo se non sia necessario
provare. Cioè... - dette queste parole si morde il labbro, senza
staccare gli occhi da me. Poi distoglie lo sguardo. - Non lo so.
Be', fa lo stesso.
Il suo è uno strano modo di aprire un “non
discorso”
ma per la prima volta dopo tanto tempo mi sento un po' simile a lei.
Mi succede la stessa cosa: quando cerco di esprimere un pensiero le
parole giuste spariscono sempre in fondo alle tenebre, dove io non
posso raggiungerle.
-Così sei tornata!? È da tanto... Anche tuo
padre
ha chiesto di te, sai! Dice che dovresti venire più spesso a
trovarci. Ma a me non fa differenza. Ricevo spesso visite.
Io resto immobile, pronta ad essere travolta dalle
onde
della tempesta delle sue parole, e intanto il significato della mia
esistenza si allontana sempre più dalle mie dita.
-Oh! Guarda Nami, ha iniziato a piovere! Eppure
prima
c'era un sole bellissimo.
Già..
Piove Nami.
Piove sempre sul bagnato.
È inevitabile!
-E quando piove io sento subito freddo, un
freddo
pungente. Mi succede anche d'estate sai?! Ho talmente freddo che devo
correre a letto, sotto le coperte. In quelle occasioni è come non
provare nulla. Il mio calore va via, lentamente, insieme ai
sentimenti, in un posto lontano. A volte dimentico persino di averlo
avuto. Eppure ogni tanto riesco ancora a piangere, perché mi sento
veramente sola. Perché quando piove mi trovo nel posto più freddo e
desolato al mondo.-
Si mamma, hai ragione.
Siamo nel posto più freddo e desolato, e siamo
sole!
Come abbiamo fatto a ridurci così?
Le sue parole mi sciolgono, mi rendono inerme a
questo
gelo scottante.
Ma, ovviamente, non riesco a dirle tutto questo.
- Quando piango tuo padre mi dà un bacio sulla
guancia. Allora le mie lacrime gelano. Lui prende in mano quelle
lacrime e le strofina tra le mani, facendole diventare acqua salata.
Poi dice “Lo sai che ti amo, vero?” Non è una bugia, lo so bene.
Lui mi ama immensamente! Ma un vento forte prende le sue parole e le
spinge via, nel passato. E io piango, lacrime di ghiaccio, in questa
stanza fredda quando piove. Ogni volta, prima di andare via, chiede
di te... È sempre così! L'ultima pensiero è sempre per te,
maledizione!
Rimango imbambolata, frastornata come se avessi
ricevuto
un colpo. Un freddo senso di impotenza continua a pervadermi, mi
sembrava di essere un pesce buttato nel congelatore e lasciato lì,
avvolto nella pellicola. La sorpresa di ritrovarmi avvolta nelle sue
tenebre mi toglie per qualche secondo le forze.
-Ho saputo che sei andata via, che vivi a Tokyo
adesso. Sei la solita egoista insensibile. Dopo tutto quello che ha
fatto e che continua a fare il caro Arlong, tuo zio. Ti ha dato un
tetto, si è preso cura di te per così tanto tempo e tu? Come lo
ripaghi? Andando via!
Santo uomo, nonostante tutto continua a chiedere
di
te, anche lui! Sei proprio una bambina cattiva.
No, ti prego...
Non quella parola.
Cattiva.
Cattiva.
“Sei proprio una bambina cattiva”
Il passato esplode, le immagini vivide e dolorose
si
ripresentano, come diapositive di un film d'orrore davanti ai miei
occhi.
Ricordo, purtroppo!
La prima volta che Arlong mi ha dato uno schiaffo,
perché la bambina cattiva non voleva giocare ai suoi strani giochi.
La stretta ai capelli, le forbici che tagliano
ciocche
arancioni come punizione. La bambina cattiva non voleva donare il suo
primo bacio allo zio.
Le botte e i calci allo stomaco che la bambina
cattiva
ha subito quando, in quella triste e sola sera, la ribellione era
d'intralcio su quel letto co-protagonista indiscusso della prima
volta in cui sono stata violentata.
Complice di quelle mani viscide, di quella lingua
tagliente e disgustosa sul mio corpo acerbo.
Complice dei lividi, dei graffi delle bruciature.
Di quella frase che accompagna le mie notti fatta
di
incubi.
“Sei proprio una bambina cattiva, una bambina
cattiva che sa troppo... Devi diventare gentile e obbediente, mia
piccola bambina cattiva, altrimenti la tua mamma ne soffrirà!”
Letto alleato del nemico, di quella notte triste e
solitaria in cui la bambina cattiva è morta, lasciando il posto solo
a Nami.
Eccoti di nuovo, bambina cattiva...
“Sai Zoro, i passati come il nostro annientano
in
maniera equanime ogni persona.
Come fa il cocchiere che frusta il suo cavallo
fino a
farlo crepare sulla strada.
Il passato distrugge in un modo terribilmente
pacato,
silenzioso.
Sono poche le persone che se ne accorgono.
Nella scatola di vetro che mi ero creata, i
pensieri,
gli errori e i sentimenti dimenticati affollavano questo spazio
ristretto, e il tempo li spremeva come un'arancia.
Quando però ti guardavo ero perdutamente
attirata
dalla completezza dentro te.
Ti ammiravo egoisticamente, proprio come una
bambina
cattiva che tutto vuole.
Non potevo di certo sapere che anche la tua era
una
scatola di vetro,
terribilmente forte
esteriormente ma completamente
distrutta all'interno.
Perdonami Zoro”
“Non
dimenticare quello che hai sentito oggi,
potresti
poi scoprire che non sei così coraggioso.
Sei
veramente abbastanza forte da sopportare questo peso da solo
quando
c'è altra gente che possiede le tue cose?”
Note dell'autrice: Inizio
specificando, come sempre, la canzone utilizzata per questo capitolo.
Si tratta di “My land” dei Sonata artica.
Altra precisazione:
nel capitolo precedente, quando ho parlato della grande compagnia
aziendale che ha comprato l'agrumeto di Nami ho utilizzato il nome
“Trafalgar”. Ecco, non so per quale assurda motivazione inconscia
l'ho fatto, in realtà si tratta di Mihawk, e questo è molto
importante ai fini di quest'opera, perdonate la mia sbadataggine.
Ora le cose
importanti.
Ringrazio
Placebogirl,
piacevolmente sempre presente tra le recensioni.
Un ringraziamento a
chi continua a leggere, nonostante le visite e i commenti
drasticamente calati. Un forte abbraccio quindi alle seguaci assidue,
spero di risentirvi in qualche modo.
Io vado avanti, con
tutta la tranquillità del mondo, perché mi piace ciò che sta
uscendo da questa storia. Le dita percorrono instancabilmente la
tastiera, la felicità è palpabile ad ogni chiusura capitolo.
E pensare che avevo
creato una scaletta, che questo capitolo in realtà doveva essere il
quarto... Insomma tutto mi sfugge felicemente di mano, le parole
aumentano e i sentimenti traboccano.
Ho iniziato una nuova
storia Zoro-Nami, per chi fosse interessato.
Il titolo è “Cento
poesie per cento poeti” con riferimento al libro da poco comprato
che racchiude le cento poesie utilizzate nel gioco del Karuta.
Passo e chiudo, a
risentirci mie care.
Baci da sof_chan
|
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Capitolo 9 *** La farfalla che voleva imparare a volare ***
La
farfalla che voleva imparare a volare
“Sei
proprio una bambina cattiva, una bambina cattiva che sa troppo...
Devi diventare gentile e obbediente, mia piccola bambina cattiva,
altrimenti la tua mamma ne soffrirà!”
Eccoti
di nuovo, bambina cattiva...
“Quando
era solo una ragazzina
si
aspettava di poter avere il mondo.
Ma
era diventato fuori dalla sua portata,
così
scappava via durante il sonno.
Quando
era solo una ragazzina
si
aspettava di poter avere il mondo.
Ma
era diventato fuori dalla sua portata
e
prendeva proiettili coi denti.
E
sognava il paradiso
ogni
volta che chiudeva gli occhi...”
Le parole riecheggiano, s'impregnano dell'aria
circostante privandomi del mio stesso respiro mentre dentro la mia
testa, nella parte più soffice dove risiede la memoria, vi è un
coltello, profondamente infilzato che scava, scava con frettolosa
ferocia. Non fa male e non mi pesa. L'unica cosa che crea un dolore
lancinante è la consapevolezza di non poterlo togliere, perché
nessuno verrà da me ad estrarlo...
Rimango sola, in questa stanza della fine del
mondo, a
protendere la mano senza trovare nulla.
Mia mamma è qua, mi guarda con fare perentorio,
come a
pretendere eventuali scuse.
Non si muove, percepisco semplicemente il petto che
si
alza e abbassa ad ogni flebile respiro.
La stanza è pervasa dalla pesantezza dell'autunno
ed
ogni oggetto è saldamente inchiodato al pavimento o alla scrivania.
In piedi nell'ombra sento diverse parti del mio
corpo
perdere il loro giusto peso, espandersi e restringersi a loro
capriccio.
Volgo lo sguardo allo specchio verso sinistra, come
per
scappare in qualche modo da quel vortice infinito che mi sta
trasportando via, lontano da quel filo sottile che ancora mi tiene
legata alla realtà che con fatica mi sono ricostruita.
La persona riflessa non sono io. Nell'aspetto è
identica a me, su questo non ho dubbi.
Eppure non sono io, assolutamente. È quasi una
sensazione istintuale. Anzi no, sono io, è vero, ma sono una Nami
diversa, quella che ho dimenticato.
Non riesco a spiegarmi ciò che provo, però
comprendo
una cosa guardando gli occhi di quell'immagine.
Lo sguardo speranzoso di una bambina, la bambina
che
ero.
Quella bambina con sembianze d'adulta mi guarda con
tristezza e amore, un amore grande come come il sole che sorge,
portando luce alle tenebre.
Un amore che prega per la
salvezza di qualcuno.
Soltanto questo avverto.
Io e la bambina troppo cresciuta ci osserviamo l'un
l'altra.
Sono paralizzata, come se
m'avessero legato mani e piedi.
Alla fine la sua mano si muove. Le dita della sua mano destra si
avvicinano lentamente al mento, poi poco per volta salgono a
percorrere la guancia, accarezzandola. Mi accorgo che faccio la
stessa cosa io, mi accarezzo. Come se fossi io l'immagine di quella
lì nello specchio, e che lei cercasse di darmi conforto, di starmi
accanto.
Allora raccolgo le forze che mi restano e mi
schiaffeggio e d'impulso sferro un pugno allo specchio, ferendomi.
Sento il rumore del vetro che va in frantumi e l'immagine di me
stessa parcellizzata.
Comprendo...
Anniento ciò che sono diventata per riprendere me
stessa, raccolgo nella mia mente tutti quei pezzetti per ricostruire
la vecchia Nami.
Mi dico “Non voglio perderla!”, ma non
capisco se questo pensiero si genera nella mia coscienza attuale o se
invece si tratta di uno di quei brevi frammenti di vecchi ricordi
tornati in superficie.
Sono tante le cose che ho perso, e sono troppo
stanca.
Colta da questo nuovo sentimento di rivincita
percepisco
il graduale allontanarsi della mia disfatta. Provo un vago senso di
dissociazione, ma il mio corpo fa di tutto per riprendere in mano
questa mia coscienza d'azione.
Ed io decido di seguirlo.
Inizio a sfilarmi con calma la giacca di cotone che
porto addosso, incurante dell'agitazione di mia madre che mi guarda
con paura.
Continua a chiedermi cosa io abbia intenzione di
fare, e
il perché di tanta violenza.
Tsè, violenza! Come se un pugno allo specchio possa
minimamente essere paragonato a tutti quelli che ho subito io.
Lascio scivolare a terra anche la maglia, che cade
silenziosamente e assorbe le goccioline di sangue sparse sul
pavimento.
Sono pronta!
Pronta a servire a questo mondo crudele e ingiusto
la
sofferenza che mi porto dentro.
Pronta ad affrontare la verità, a sconfiggere il
segreto del mio passato
Voglio riappropriarmi della mia giustizia, della
mia
vita, della mia anima.
Tutta la paura, l'incertezza va via così, svanisce,
senza complicazioni e sofferenza. Come se qualcuno fosse
passato zitto zitto sul retro e avesse spento l'interruttore.
Mi volto verso mia madre, sono fiera del modo in
cui per la
prima volta riesco a portare le ferite.
Sono tutte qui, una per una, a solcare la mia
carne, a
bruciare ogni volta che i miei occhi si posano su di loro.
Graffi, morsi, bruciature.
Sono semplicemente segni, immagini radicate sulla
mia
schiena, sul seno, dappertutto...
Testimonianze solide dei fardelli che porto con me.
Eccomi mamma! Prova a baciare adesso queste ferite!
-Ma, Nami...Cosa?
Cosa ti sei fatta?!- mi guarda
sbalordita e sorpresa, dal basso della sua sedia.
-Mi amava come una figlia, ti amava come moglie,
come
compagna. Maledizione, io non posso continuare a prendermi la colpa
di questo amore!Non posso portare i macigni delle perdite altrui.
Voleva proteggerci e l'ha fatto fino alla fine... Quel sorriso,
quell'ultimo tirato sorriso era per noi, per noi tre insieme! Manca
tanto, tantissimo anche a me ma non posso smettere di vivere. Io
continuo ad andare avanti, a svegliarmi nonostante gli incubi, a
camminare a testa alta nonostante tutto, continuo a respirare anche
per lui! Lui... Lui che, a differenza tua, non avrebbe permesso a
nessuno di farmi tutto questo...- Mi accascio a terra,
completamente senza forze, e per la prima volta in tutta la mia vita
scoppio in un lungo e silenzioso pianto senza fine. Mi sento triste,
insopportabilmente triste.
E anche cattiva, proprio come quella bambina.
Mi attanaglia un'angoscia senza sfogo per averle
gettato
addosso tutto, pari a quella che provo quando lei mi guarda con i
suoi occhi vuoti.
Occhi che guardano una
sconosciuta.
Non riuscivo ad ignorarla quest'angoscia, né a
sopprimerla perché non
aveva forma o peso, ma non volevo nemmeno continuare a tenermela
addosso.
Abbasso lo sguardo, guardando le mie mani sporche
che
cercano, a fatica, di non farmi crollare faccia al pavimento.
Intorno a noi silenzio.
Poi, all'improvviso, il passo lento di mia madre
spezza
l'aria.
Si avvicina piano piano e posa gentilmente sulle
mie
spalle rovinate la sua vestaglia.
Mi ricorda delle lenzuola candide appena ritirate
dalla
tintoria. Le lenzuola mi fanno venire in mente Sardina che ci dorme
sopra, tutto contento.
E quest'immagine del mio gatto addormentato su
queste
lenzuola serve a calmare il mio spirito.
Si accascia anche lei a terra, chiudendo gli occhi.
Ho
come l'impressione che il suo corpo si stia come smembrando, riesco
solo a sentire l'affanno del suo respiro.
La guardo meravigliata e perdo un battito nel
vedere
delle gocce d'acqua salata solcarle il viso, scendendo giù, sul
pavimento, fino a mischiarsi a tutte le lacrime che anch'io sto
versando.
Nessuna parola, solo il calore dei nostri
singhiozzi ed
una porta che inaspettatamente si apre.
-Cara, eccomi anche oggi! Scusa il ritardo ma il
lavoro mi ha portato via molto tempo questo pomeriggio. Oh! La nostra
bellissima Nami, ma che piacevole sorpresa...-
Ogni singola fibra del mio corpo si gela a quella
voce.
Arlong.
Ricaccio indietro le lacrime, pronta a mostrarmi
forte e
sicura di fronte alla sua fattezza di mostro.
Ma c'è chi mi anticipa.
Mia madre si rimette in piedi, il suo è uno sguardo
su
di me attento e minuzioso.
-Ti prego, vai via per oggi-
Incasso il colpo, del resto cos'altro potevo
aspettarmi?!
Così, aggrappata saldamente
alla vestaglia per non
scoprire un singolo centimetro della mia pelle, riprendo i miei
indumenti e mi dirigo verso la porta del bagno.
-Si... Sono stata anche troppo tem...-
-Non tu Nami!- mi prende la mano, il suo è
un
sorriso triste, amaro, -Arlong, ti prego. Ho bisogno di stare da
sola con mia figlia-
Arlong mi guarda, percepisco un sospetto e
un'animosità
che mi fanno tremare, -Va benissimo, mie care. Spero che non sia
successo nulla di grave. Sapete che, in quanto vostro tutore e
amministratore dei beni lasciati dal mio defunto cognato, sono ben
disposto a fare qualunque cosa per voi!- Il dente aguzzo spicca
ad ogni sua parola, proprio quel canino che molte, troppe volte, ha
conficcato nella mia carne.
Mi lancia un ultimo truce sguardo di sfida e poi va
via,
finalmente.
-Da quanto?-
Mi chiede mia madre seduta vicina a me,
mentre mi fascia la mano tagliata. Continua a tenere lo sguardo chino
muovendosi lentamente, come a voler fermare il tempo pur di non
guardare i miei occhi che raccontano questa triste storia.
-Da sempre... Da
quando sono rimasta sola con lui-
Spendo poche e sommarie parole, i contorni, le frasi lunghe non
servirebbero a nulla.
-Perché non me l'hai mai detto? Nami perché? Tuo
padre chissà come si è preoccupato...-
-Io non volevo dare spiegazioni, non volevo
correre
via e chiedere aiuto. Volevo semplicemente essere capita senza dover
spiegare tutto per filo e per segno. Soprattutto da te- Mentre
parliamo mi sembra di togliermi un fardello dalle spalle. Un peso che
non mi rendevo conto di portare fino a quando non me lo sono
scrollato di dosso. - Va tutto bene,
mamma. È finita! Tante cose di
cui non riuscivo assolutamente a convincermi, di colpo hanno trovato
una soluzione- Le prendo le mani, ancora intente nella
medicazione, per
farmi guardare. Le dono un sorriso, un sorriso sincero.
E lei piange, non di rabbia o tristezza, no...
Piange con labbra distese e calme, ha un volto
nuovo, un
volto simile al mio ed io sento di esser pronta a riavvicinarmi a
questa donna che adesso mi pare così piccola e indifesa.
Vorrei quasi proteggerla.
Mi sento serena, come se una visuale fino ad ora
offuscata all'improvviso si liberasse, o meglio, sono io che
finalmente sono libera. Accettando il mio passato, ciò che è
successo, e perdonando gli errori degli altri sento di poter
realmente andare avanti.
-Scusami... In quel momento, non potevo pensare
a
quello che provavano le persone intorno a me. Avevo ben altro di cui
pensare-. Al ricordo le trema un po' la voce raddoppiando le
mille lacrime che già scendevano dal suo volto stanco. -In un
tempo brevissimo, la mia vita ha subito un cambiamento drammatico.
Stavo precipitando e sono riuscita a restare aggrappata alla vita per
un pelo, tutto questo a tuo scapito. Non sapevo come fare, avevo una
paura tremenda. Era come se stessi per essere espulsa dal mondo. E ho
sbagliato, mi sono chiusa in me stessa. Invece avrei dovuto ancorarmi
a te, tenerti stretta e farmi abbracciare dalla mia Nami-
Si nasconde il viso tra le mani cominciando a
tremare e a
singhiozzare convulsamente.
-Mi dispiace-
mi dice.
-Non fa niente,
- rispondo, -non c'è motivo di
piangere, è stata anche colpa mia.-
Nel silenzio la stringo forte tra le braccia e
rimaniamo
in questa “nuova e riscoperta” posizione per chissà quanto
tempo.
Ritrovare il calore di una madre credo sia
un'enorme
successo. In confronto a prima sento di poter vivere in maniera più
naturale... È una verità finalmente esplosa dentro me anche se, per
molto tempo, in fondo al cuore ho sempre sperato di poter stare con
lei e stringerla tra le braccia.
Parlammo un po' di tutto, della mia nuova vita,
della
sua molto più statica nell'istituto. Le raccontai di Sardina e del
suo amore per la nostra piantina di mandarini, l'unica
superstite simbolo della nostra famiglia.
Spesso accade che, tra una parola e l'altra, lei
proietti nel discorso anche mio padre.
È divertente questa sua stramba visione, e anche
molto
piacevole, sento anch'io la presenza, non materiale ovviamente, di
mio padre in questa stanza.
E mi si scalda il cuore.
Ormai è quai sera ed io devo ritornare a Tokyo. Ci
salutiamo con imbarazzo, le modalità di relazione tra di noi sono
decisamente
ancora da riconsolidare. Prima di aprire la porta per andare via la
sua voce mi ferma.
-Cosa dobbiamo fare adesso?- è visibilmente
turbata e preoccupata.
-Tranquilla, andrà tutto bene! Aspetteremo in
silenzio, almeno fino a quando non sarò maggiorenne. Poi potremmo
riprendere in mano la nostra vita- un sentimento di speranza
pervade le mie parole.
-Tornerai vero? Anche tuo padre vuole rivederti!-
-Certo! Tornerò
da voi molto presto, mamma!-
-Fai attenzione, ti prego- È così strano e
surreale vederla preoccupata per me.
Le faccio un sorriso, salutandola con la mano
-Come
sempre!-
Mi dirigo verso l'uscita, fuori continua a piovere
ma io
non sento nulla. Sono totalmente elettrizzata e appagata da questa
giornata.
Talmente felice e sovrappensiero da non accorgermi
di
lui.
Arlong è ancora fuori, presumo ad aspettarmi.
Mi piomba addosso afferrandomi con forza i polsi e
mi
sbatte violentemente sul muro adiacente all'uscita dell'istituto.
Le sue spalle larghe mi immobilizzano, schiacciando
ancora più il mio volto sulla parete fredda.
Divincolarsi è impossibile, lo so bene questo. Non
apro
bocca ne tanto meno cerco di liberarmi dalla presa.
Aspetto in silenzio, trattenendo a stenti il dolore
ai
miei polsi e il disgusto della sue erezione tra le mie natiche.
Si avvicina con la bocca al mio orecchio destro, il
fetore del suo alito di sigaro e vino mi crea un conato di vomito.
È tutto così maledettamente già visto.
-Nami, Nami... La mia piccola bambina ha parlato
troppo, non è vero? Al momento ti trovi in una posizione molto più
pericolosa di quanto tu stessa t'immagini, mia cara. Ascoltami bene,
fai un altro passo falso e giuro che sarà la tua fine. È come
trovarti in equilibro su un piede sul parapetto di un ponte. Devi
pensare bene da che parte cadere. Una volta ferita, i rimpianti non
ti serviranno a niente!-
Non dico una sola parola, fronteggiarlo è solo una
perdita di tempo. Rimango tranquilla e pacata e sento che questo mio
comportamento imprevisto lo agita ancora di più, tant'è che aumenta
la presa.
La voce vicina di un gruppetto di persone lo
costringe
ad allontanarsi da me, mimando una pacifica conversazione.
Le sue palpebre scure come metallo echeggiano
nell'oscurità, il bianco dell'occhio è sgradevolmente vistoso e
viscido.
Resto muta, gli occhi puntati sui suoi sono
l'evidente
segno della mia battaglia contro di lui.
-Tokyo, via Konatsu numero 29. Probabilmente
verrò a
farti visita mia piccola farfalla. Sai...Devo assicurarmi che tu
faccia la brava! Non vorrei mai e poi mai strapparti a morsi quelle
belle ali che ti sono spuntate-
E va via così... Lasciandomi nel terrore più grande.
Sapeva tutto! Controllava ancora ogni mio movimento.
Non so da chi l'avesse saputo, ma era al corrente
di
tutto quel che avevo fatto, per filo e per segno.
Corro via, le lacrime scivolano veloci sul mio
volto,
perdendosi tra le gocce di pioggia che lavano, invano, la mia
disperazione.
Fuori ormai è calata la sera e le strade sono piene
di
gente che esce dal lavoro.
Faccio per guardare l'orologio. Non l'avevo messo.
Ma
desidero davvero sapere che ore sono?
Alzo lo sguardo al cielo. La luna è un freddo
ammasso
di rocce dalla scorza erosa dalla violenza degli anni. Le ombre sulla
sua superficie sembrano un focolaio canceroso che allungano tentacoli
malefici in fono al mio animo, tentacoli che spargono il seme
dell'odio. La sua luce distorce i suoni, disorienta le persone.
Sospiro e metto le mani in tasca. Frugando senza
motivo
ritrovo tra le dita il foglietto di Zoro.
Non so per quale ragione lo apro, osservandone
minuziosamente la grafia.
-Pronto?- La sua voce è assonnata e rauca.
Possibile che quell'ammasso d'inutilità verde sia sempre a dormire?
-Sai,
pensavo...Quel gelato...Era proprio buono! Nella
vita ci sono momenti in cui si ha davvero bisogno di mangiare
qualcosa di buono. E in quei momenti, a seconda che uno entri in una
gelateria famosa o semplicemente si fermi davanti ad un piccolissimo
chioschietto, l'esistenza può subire un corso del tutto differente. È
come
cadere da questa o da quella parte del muro-
-Nami? È successo
qualcosa?- Quel velo improvviso
d'agitazione mi fa sorridere.
-No, non è successo nulla.- non aggiungo
altro,
creando una lunga pausa nella conversazione.
-Era buono.
Dico... Era buono quel gelato. È piaciuto
anche a me-
Ha compreso! Non so come ma sento che è così.
-E ci credo! L'ho pagato io!-
-Mocciosa vorrei ricordarti che quella affamata
eri
tu, non io-
-Stupido buzzurro!-
-Domani la biblioteca è chiusa. Ci vediamo alle
sedici, l'indirizzo te lo mando tramite messaggio. Se hai problemi a
venire a casa mia trova tu un'altra soluzione, strega!
-Buonanotte troglodita. Ci vediamo, ahimè,
domani.
-Ciao Nami.
Sai
Zoro, al mondo non c'è quasi nulla che non si possa buttare via,
volendo.
Anzi,
forse si può dire che non c'è assolutamente nulla.
E
una volta presa la decisione, viene voglia di gettare via proprio
tutto.
Come
i giocatori che avendo perso la maggior parte del denaro di cui
disponevano,
finiscono
col mettere sul piatto anche ciò che gli resta.
Ma
tra tutti gli errori, le scelte sbagliate e le strade perse
c'è
una cosa che non butterò mai via.
Il
tuo fogliettino talmente logorato e consumato da essere quasi
illeggibile.
Lo
guardo spesso quando mi sento persa,
e
ogni volta sento la mia voce che mi dice
che
forse è stato un bene buttarmi dal tuo lato del muro.
“La
vita va avanti,
diventa
sempre più pesante.
La
ruota spezza la farfalla,
ogni
lacrima una cascata.
Nella
notte, la tempestosa notte
lei
chiuse gli occhi.
Nelle
notte, la tempestosa notte
lei
volò via.
E
sognava il paradiso,
lei
sognava il paradiso...
E
così distesa sotto quei cieli tempestosi
disse
-Oh, so che per sorgere,
il
sole deve prima tramontare-
Questo
potrebbe essere il paradiso!”
Note dell'autrice:
scusate il ritardo ma ho appena ricominciato l'università, e tra
traslochi, lezioni non ho tutto il tempo necessario per scrivere e
aggiornare.
Capitolo
lungo e faticoso questo, spero sia venuto fuori un buon lavoro.
La
canzone utilizzata questa volta è “Paradise” dei Coldplay.
Vi
saluto abbracciandovi tutte e gridando un forte “in bocca al lupo”
a chi, come me, ricomincia la vita universitaria.
Baci
da sof_chan.
|
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Capitolo 10 *** Non chiedermi (parte prima) ***
Non chiedermi (parte prima)
“…Hai perso per strada il rossore e il sorriso
di chi fa finta di niente.
Chissà se qualcuno ha raccolto quell’attimo
in cui le è impazzito il cuore.
Ci vuole fortuna, magia, un prestigiatore”
“Forse... E’stato solo un sogno”
Rimango qua, stesa sul letto grande e gelido, con lo sguardo rivolto alla pioggia. Mi sembra di essere ritornata la ragazzina di dodici anni che nelle giornate piovose restava ferma a guardare, fissa e immobile –senza pensare a nulla- l’acqua che copiosa scendeva.
Quando guardo la pioggia, senza pensare a nulla, ho come l’impressione che il mio corpo si sciolga e che il mondo reale si allontani da me.
La pioggia ha un particolare potere sulle persone, quasi ipnotico.
Il rumore del ghiaccio nel bicchiere, così flebile ma saldamente ancorato allo scorrere del tempo, mi ridesta da questo stato ipnotico. Mi accorgo solo ora di Sardina, steso beatamente tra le mie gambe e le lenzuola. Il suo calore è così rassicurante, vivo!
Mi alzo piano, per non disturbare il suo sonno, mi avvio verso la cucina a riempire un altro bicchiere. Siamo io, l’alcool e quest’appartamento circondato dalla pioggia fitta e battente a riportare tutto alla realtà.
Mia madre e i nostri percorsi che finalmente, forse, viaggiano alla stessa velocità.
Sorrido felice, poi il nulla.
Tutto annientato da Arlong, dal suo tocco nauseabondo che porta via ogni cosa, in quel tunnel senza fondo che ormai accompagna ogni mio singolo battito di ali.
La mia presunta volontà perde forza e scivola lentamente fuori dal confine del mondo reale, al quale con fatica e stordimento sta cercando di ancorarsi, come le gocce di pioggia attaccate al vetro di questa finestra che vomita addosso il mio riflesso.
Nella notti in cui piove mi sento anche soffocare; la realtà che inseguo si deforma e il tempo assume una dimensione assurda.
Stremata da questa giornata, mi metto sotto le coperte ma rimango a fissare il paesaggio fuori dalla finestra. Ho come la sensazione di essere stata abbandonata in una terra arida e senza tracce di vita. Le mani del mio aguzzino di nuovo su di me, il suo fiato sul collo insieme alla sua bramosia e violenza. Sento di crollare in uno stadio di sonno-veglia dove i confini del reale sono divorati da incubi di bambina. Queste visioni assorbono tutti i colori del mondo. Gli oggetti e il paesaggio attorno a me appaiono piatti, vuoti, sbiaditi, come se siano stati messi qua provvisoriamente. Tutto è polveroso.
E mentre cado nella notte riesco a vedere il profilo sicuro di mio padre.
Si sa, tutti vivono e poi muoiono, ma non è questo l’importante.
Alla fine ciò che resta è il deserto!
La pioggia continua a battere col suo modo di fare sicuro e spavaldo, mi sveglia dal mio luogo al confine del mondo. La prima cosa che percepisco è un gran dolore alla testa. Poso gli occhi sul comodino notando la bottiglia di rum ormai vuota, riuscendo finalmente a dare un perché a questo mio stato pietoso. Sardina è ai piedi del letto e reclama, impaziente, la sua colazione, o forse pranzo?
Che diavolo di ora è? Non lo so e non m’interessa!
Lo accarezzo e mi alzo malvolentieri reggendomi a fatica; a passi lenti mi dirigo verso il frigo rovistando tra gli avanzi.
Prosciutto cotto di appena due giorni fa: ecco il tuo pasto Sardina! Te lo dico sorridendo e promettendoti sottovoce che da domani sarei stata più brava nel prendermi cura di te e, chissà, magari avrei anche iniziato a prendermi cura di me stessa, a volermi più bene.
Temporeggio versando del succo d’arancia in una tazza, speranzosa che il cervello incominci a elaborare quel qualcosa momentaneamente sfuggente. E’ domenica, esattamente le quattro e mezzo del pomeriggio. Ieri sono stata a Coconout a far visita a mia madre, sono rientrata a casa dopo aver incontrato quello schifoso di Arlong, ho mandato giù una quantità non identificata d’alcool e poi. Poi...
MERDA!
La lucina del cellulare è già là, lampeggiante, a ricordarmi dell’assurda dimenticanza avuta.
Un solo messaggio sullo schermo: “Mocciosa! Muovi quel culo altrimenti giuro che questa volta TI AFFETTO!”
Corro a perdifiato sotto la pioggia, ringraziando tutti i Kami per l’ombrello "preso in prestito" dall’atrio del mio condominio. I mezzi di trasporto sono in sciopero ma fortunatamente ho un buon senso dell’orientamento e riesco a districarmi bene in queste strade che ancora non conosco benissimo. Arrivo finalmente vicino alla casa di Zoro; è un palazzo molto alto e all’apparenza abbastanza nuovo. I muri grigi sembrano così silenziosi, le finestre di ogni appartamento sono distribuite a distanza millesimale l’una dall’altra, evidenziando con letale enfasi un ordine sovrastante del “tutto circostante”. L’ascensore che adesso prendo è, invece, vecchio e logoro, in contrasto con tutto ciò che ho visto finora. Quasi mi rassicura. E’ come un’ombra buona e intoccata dallo scorrere inattaccabile del mondo. E'come se volesse dirmi: eccomi, sono qui! Nulla è riuscito a distruggere o a plasmare ciò che è stato.
Sorrido a questo pensiero mentre mi dirigo a testa china verso la casa del mio probabile aguzzino. Suono una sola volta e aspetto. Sento dei passi strisciare verso me, la porta aprirsi con mano ferma e due occhi neri e profondi mi guardano con fare annoiato.
-Oh! Ma che onore mocciosa! Ed io che pensavo che tu, oltre ad avere un pessimo carattere, avessi anche la mania di non adempiere ai tuoi compiti!-
E’ alto Zoro, alto e possente. Me ne accorgo solo ora che è a due passi da me, mentre veste quel suo ghigno strafottente e austero. Ha indosso solo una canotta bianca, che evidenzia in maniera precipitosa e degnamente dei muscoli saettanti, e un paio di pantaloni da tuta neri. Alto, possente, belle gambe e… Puzza! Accipicchia se puzza.
-Cribbio buzzurro!- rispondo ai suoi toni evidenziando il suo stato pietoso con una mano ancorata al mio delicato naso, -Noto con sommo dispiacere che oltre a non avere un buon modo di salutare gli ospiti hai anche delle gravi mancanze in fatto di pulizie personali!-
-Mi stavo allenando strega!L’appuntamento per il compito era più di un'ora fa! -
-Vatti subito a fare un bagno, testa d’alga! Altrimenti il mio fondoschiena sarà l’ultima cosa positiva che ricorderai prima di quel bel due sul tuo compito!- puntai il mio indice sul suo torace sudato, pentendomene all’istante.
-Tsè- il suo solito ghigno. Ho imparato a riconoscerlo ormai, è un po’ un misto tra “maledetta!” e “maledizione, hai vinto tu!”, fatto sta che si discosta ed io decido di entrare, sicura del fatto che lui abbia accettato il mio consiglio. La sala in cui mi trovo e piccola ma avvolgente, un camino caldo e protettivo emana dei perfetti giochi di luce e ombra sulle pareti panna e spoglie. Vi è solo un divano di fronte ad esso, la sua linea è semplice e maschile, color nero. Poi c’è un tavolo di ferro vicino alla finestra; carte e libri messi alla rinfusa, segno che il buzzurro ha studiato mentre mi aspettava. Il tutto è tenebroso ma rassicurante, proprio come lo è Zoro.
Senza dirci una parola mi muovo verso le sedie per incominciare questa stupida e noiosa ricerca del cavolo; il mio compagno rientra nella sala con in mano degli indumenti puliti e si dirige verso quello che presumo sia il bagno. E mentre avanza nello stretto corridoio ben visibile dalla mia posizione, si ferma vicino a una stanza socchiusa. Guarda la porta con aria sconfitta. Accarezza dolcemente la maniglia e sospira.
L’aria è triste e rarefatta, per un attimo è come se Zoro fosse scalfito e abbattuto da una qualche entità invisibile, e tutto è così tangibile e palpabile da far male al cuore. Mi fisso a guardarlo, come un ebete. Tratteggio il suo profilo che per la prima volta mi appare così infantile e insicuro, lo abbraccio inconsapevolmente con lo sguardo.
Vuoto.
Un’ultima carezza e la sua mano si muove verso la serratura che viene chiusa con uno scatto.
Questo strano spaccato di attimi è ormai fuori dalla nostra dimensione, al di là di quella serratura.
La concentrazione è ormai andata a farsi friggere. Riesco solo a percepire, oltre al rumore della doccia, questa mia insopportabile voglia di capire, di andare oltre il consentito.
Perché Zoro aveva quello sguardo? Dove è andato a finire quel ragazzo sicuro e forte che ho sempre, e per la maggior parte delle volte malvolentieri, visto?
Solo uno balzo, secco e deciso, e anniento subito la barriera tra me e questa curiosità imprevista.
Buio e aria consumata, come se l’usura del tempo avesse prosciugato ogni singolo centimetro di vita e quotidianità. Non c’è nulla, se non il pavimento, una finestra chiusa e degli scaffali difficili da fronteggiare vista l’oscurità che regna qua dentro. E questa stanza stranamente spoglia ricorda proprio l’angolo di un vecchio mondo dimenticato dal presente.
-Come un guscio vuoto- questa è la prima impressione che mi comunica. Mi fa pensare a una stanza dopo che tutti se ne sono andati. Qualcosa di essenziale è come se fosse scomparso da lei in modo definitivo. Ciò che è rimasto, quel che esiste in queste mura ferme e silenziose, non è la presenza, ma l’assenza. Non il calore della vita, ma l’immobilità dei ricordi.
Avanzo piano, mi sento sporca e così dannatamente ingiusta nel percorrere questa purezza altrui, come se stessi facendo la cosa più spregevole al mondo, ma tre ombre dai contorni annebbiati mi attirano in un vortice senza possibilità di ritorno. Tre katane disposte in ordine su uno scaffale imprigionano immotivatamente lo sguardo. La prima partendo dal basso è nera, nera come i suoi occhi, poi una rossa e infine, sopra di tutte ve n’è una bianca, di un bianco immacolato, puro e penetrante come l’aria che respiro qua dentro. Non riesco a non guardarla, né a fermare la mia mano tremante che avanza verso di lei.
Un tocco leggero il mio, delicato come lo sfiorire di un fiore di ciliegio.
Tristezza e dolore.
Una sensazione così subdola e irreale che mi viene da pensare che, in realtà, non sia una katana ciò che tocco, ma un fragile spirito racchiuso in una bottiglia di vetro. Mi chiedo cosa nasconda questa stanza, quale sia il suo vero significato. Ma allo stesso tempo ho paura, terrore di addentrarmi troppo in una marea di emozioni e sensazioni che non riuscirei a sopportare.
Ho il mio mondo, i miei grattacapi. Mi basta questo!
Ma gli occhi bassi e pieni di Zoro mi fan tremare i pensieri.
Fingere di essere felici quando si è tristi non è poi un grande sforzo. E’ un modo di intendere la vita, non sempre facile da accettare, questo lo sai buzzurro?
Forse è questo pensiero a farmi andare oltre, a rendermi testarda di fronte a quella scatola ben nascosta nell’ultimo scaffale. Prendo una sedia dalla sala col camino, non prima d’aver controllato il persistente rumore dell’acqua della doccia, e mi dirigo verso quell’armadio. Senza far rumore mi arrampico per arrivare più in alto possibile ma, ahimè, un tono di voce baritonale mi piomba addosso come uno schiaffo a mano aperta.
-Allontanati subito da lì!- mi grida Zoro mentre avanza arrabbiato verso di me. Il suo sguardo è truce e pericoloso, questa volta sono andata troppo oltre.
Grida, grida talmente forte che la mia coscienza si sgretola sotto la materialità del mio corpo; mi sta facendo paura, una paura che troppe volte mi ha surclassato e sconfitta.
Si avvicina e parla, parla e grida, muove le mani, mi punta l’indice addosso col suo sguardo da vittima e carnefice.
Ed io non capisco più nulla. Scendo dalla sedia e indietreggio, facendomi scudo con le braccia. Non sento alcun suono.
Mi accascio all’angolo del muro rannicchiandomi su me stessa.
Ripenso agli occhi di Arlong, al dolore delle sue percosse immotivate sul mio corpo di bambina. E lo so bene, non serve a niente proteggersi ma il mio è un gesto automatico.
-Ti prego non toccarmi! Ti scongiuro, è l’unica cosa che riesco a gridare tra i singhiozzi. Trattengo le lacrime, proprio come sono stata abituata a fare per tutti questi anni.
Non succede nulla.
Nessun rumore, alcun colpo. Tutto tace, incastrandosi come un puzzle perfetto con l’anima di questa maledetta stanza.
Alzo il volto per incontrare quello di Zoro, e quello che percepisco mi disorienta e annienta completamente; i suoi occhi sono uguali ai miei, spaesati e spaventati. Non erano quei quotidiani pozzi profondi d’acqua sorgiva, all’ombra di una tranquilla roccia che nessun soffio di vento poteva raggiungere, no… Niente si muoveva dall’interno e i suoi colori erano immersi in un silenzio totale.
–Va via, ti prego! Vai subito fuori di qui- è una preghiera quasi sussurrata la sua. Ed io non posso far altro che maledire me stessa, per la mia cattiveria, la mia sconsideratezza.
Poggio le braccia a terra per aiutarmi ad alzarmi, per correre via da questa brutta situazione, ma queste cedono. I lividi e le ferite della sera precedente fanno ancora un male atroce. E come una lama in pieno petto, ecco la mano forte e callosa di Zoro verso di me a offrirmi aiuto. Ed io mi maledico ancora una volta per aver frettolosamente pensato che un ragazzo come lui potesse farmi del male.
Stupida, schifosa, testarda e cattiva strega! Ecco cosa sono.
Mi vergogno terribilmente e delicatamente declino quella sua gentilezza riuscendo a mettermi in piedi nonostante le macchie viola che nascondo sotto i polsini della felpa.
Esco dalla stanza. A fare da sottofondo ci sono i passi trascinati e pesanti del padrone di questa casa.
-Non ci sono scuse per quello che ho fatto. Mi spiace terribilmente Zoro - Continuo a rivolgergli le spalle, non riuscirei a sopportare quel suo sguardo, - Ora… E’ meglio che vada. Scusami anche per il compito. Domani prenderò io ogni responsabilità-
Ed è così che corro verso la porta, fuggendo via da tutto. D’altronde è la cosa che mi riesce meglio.
Ma una forza improvvisa mi ferma, circondandomi in quello che mi sembra un abbraccio.
E’ caldo e avvolgente, ha un profumo dolce e nostalgico.
Fa star bene.
Il misterioso spadaccino mi volta verso di lui e mi guarda fisso e immobile. In lui alcuna emozione, come un contenitore svuotato del suo prezioso contenuto. Le sue braccia si muovono delicatamente sulle mie alzandole e spostando con fare sicuro e gentile i polsini che coprono la mia condanna.
Se n’è accorto Zoro, scruta ogni cosa lui! Al suo occhio attento non sarebbe mai sfuggito nulla.
“Guarda che ho capito, sai. Nessun altro se n’è accorto, ma io si!” ecco quello che la sua mano ferma e protettiva mi comunica.
Io non riesco a dare voce al turbinio di emozioni che m’invade: paura, gioia, dolore, salvezza? Non lo so.
La cosa certa è che le lacrime che a stento riesco a trattenere sono l'unica forza che mi è rimasta; quell'urlo silenzioso che implora“non chiedere, non chiedermi nulla Zoro!”
E quel contatto telepatico che ci unisce, volente o dolente, ancora una volta vince su tutto. Lo vedo chiudere gli occhi e ghignare nervosamente. Poi mi lascia le braccia portando le sue sui fianchi in segno di resa, ma le mani si stringono in un pugno nervoso.
Capisco che mi sta lasciando andare. Ed io vado via, lontano da questa presenza troppo vicina, pericolosa e necessaria allo stesso tempo.
La pioggia cade più forte di prima. Cerco disperatamente l’ombrello che ho lasciato all’ingresso, ma non lo trovo. “Chi la fa l’aspetti” si dice, vero?!
Mi arresto vicino alla fermata del bus ricordando qualche istante dopo lo sciopero.
MERDA!
Voglio tornare a casa! Poco m’importa il come.
I miei vestiti sono già inzuppati, i miei capelli sono un disastro. Mi accascio su me stessa e riprendo a respirare. La pioggia bagna senza far rumore i gruppi di palazzi, immersi in un silenzio di tomba. Alle sei del pomeriggio la città appare squallida e sporca. Ci sono dappertutto segni di degrado e di rovina, nei quali mi sembra di riconoscere me stessa, e quella impressa sui muri sembra proprio la mia ombra.
All’improvviso non sono le gocce d’acqua ciò che sento sulla mia testa, ma qualcosa di morbido e profumato. Un giubbotto nero in pelle, già visto, è appoggiato sulle mie spalle e mi copre completamente. Non riesco a trattenere un breve, misero sorriso mentre alzo lo sguardo e rivedo tesa verso me una mano calda e callosa.
-Mocciosa, dai alzati! Rientriamo a casa. Se continui a stare qua fuori come una gallina spelacchiata ti verrà un accidenti. E poi toccherà a noi sopportare le tue lamentele isteriche-
Mi convince così, con queste parole e col suo sguardo rivolto, un po’ per imbarazzo un po’ per orgoglio, da tutt’altra parte. Stavolta accetto questa gentilezza e preoccupazione sincera. Stringo forte la sua mano nella mia, che mi appare piccola e bianca al confronto.
Corriamo verso casa.
-Certo che tu un ombrello lo potevi portare!-
-Ti ho prestato il mio prezioso giubbotto, strega!-
-Squattrinato!-
-Mocciosa!-
-Buzzurro!-
“Nella vita ci sono cose che possono essere cambiate
e altre che sono irreversibili.
Lo scorrere del tempo è un processo irreversibile e quando si
arriva ad un determinato punto non si torna più indietro.
Come se alcune cose finiscono per assumere una forma definita,
come cemento che si solidifica.
Lo pensavi anche tu, vero Zoro?
Ma di una cosa sono convinta: quella tua mano forte e sicura
che per la seconda volta mi ha sostenuta... Trattenuta.
E’ stata proprio quella
che ha reso reversibile la nostra vita.
Lei ci ha permesso
di tornare indietro sulla strada persa, di invertire la rotta
per percorrerne una nuova,
insieme”
“…Il Dio delle piccole cose aspetta la fine del cammino,
con un sacco sgualcito dal tempo ed un piccolo inchino.
Chissà se ci ridà indietro le cose che abbiamo in sospeso,
io credo sia questo l’inferno e il paradiso"
Note dell’autrice: Ehm… Bene! Da dove posso iniziare? Sicuramente dal ringraziare chi ha letto in tutto questo tempo d’assenza (quasi un anno) questa storia. A chi l’ha messa tra le preferite e tra le seguite, nonostante la lunga pausa. A chi ha sperato in un proseguo. Bene, eccomi qua! Ribadisco che ci tengo tantissimo a questa fan fiction, ed è per questo che scrivo quando sento pienamente di averne il possesso.
Un saluto particolare va a Place, con la speranza che bazzichi ancora da queste parti e che non resti delusa da questo nuovo capitolo (sono un pochino fuori fase/forma)
Vi bacio tutte. |
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