La Spettrosonda

di Afaneia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Seel. ***
Capitolo 3: *** Meowth. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Buonasera! Che cosa è mai questa, vi chiederete?

Penso che si possa definire una poképasta, o almeno questo è quello che desideravo creare quando l'ho scritta durante una lezione... che dire? È il mio primo tentativo di fare una cosa del genere, quindi non mi aspetto acclamazioni; se però lasciaste un commento, positivo o negativo che sia, ve ne sarei grata. Preannuncio che la pasta, se tale vogliamo definirla, è pressoché compiuta e che a questo faranno seguito altri due capitoli.

Bando agli indugi, vi lascio alla lettura: spero possa essere di vostro gradimento!

Afaneia

La Spettrosonda




Egli si svegliò d'improvviso, ma i suoi occhi si aprirono su un nero buio imperscrutabile, e quell'oscurità lo spaventò: emise un grido disumano, tanto terribile da sembrare proveniente da qualche luogo molto al di fuori del suo corpo. Si trovava in un luogo buio e silente e sentiva il suo corpo stendersi nudo e immobile su un piano rigido, strettamente avvinto come da cinghie... Dove si trovava? Non ricordava nulla. Provò a scuotersi, ad agitarsi, a ritrarre contro il busto le braccia e le gambe, ma invisibili legacci gli serravano polsi e caviglie e le sue dita annasparono e tentarono invano di far forza contro quei freni che lo avvincevano. Egli sentiva crescere in sé la disperazione, sentiva il proprio petto riempirsi d'angoscia mentre le sue membra si contraevano al freddo nel buio, e insieme provava tutto l'imbarazzo del suo corpo molle, delle sue intimità flosce e visibili a tutti al minimo filo di luce...

"Aiuto! C'è qualcuno qui? Venite ad aiutarmi!"

Ma le sue grida sembravano prolungarsi senza scopo nell'aria immobile, le sue parole si accavallavano con la loro stesssa eco, rimbombavano come su concave pareti; tornavano a invertirlo, quasi schernendolo per la sua solitudine, come a dirgli che l'eco stessa sarebbe stata l'unica risposta alla sua chiamata. "Aiuto!" tornò a ripetere disperatamente, cominciando a temere che forse realmente non vi sarebbe stata per lui altra risposta che le sue proprie parole.

E d'un tratto, senza preavviso, una luce abbagliante si rivelò nell'oscurità ed egli si ritrovò a chiudere gli occhi acciecato, cercando di aggrapparsi al buio che rimaneva nelle sue palpebre chiuse, e poi a sbatterle furiosamente nell'ansia di guardare. Scorse oscure figure muoversi ai margini del suo campo visivo, le vide agitarsi, scambiarsi e scomparire tra stridule risate sguaiate, agghiaccianti.

"Aiutatemi!" gridò disperatamente. "Aiutatemi, vi prego!"

D'un tratto una voce nitida si levò sopra le altre in risposta alla sua e tutte le altre fecero silenzio quando essa parlò.

La voce gli chiese: "Qual è il tuo nome?"

Egli sgranò gli occhi in quella luce, mentre le sagome ora mute, indistinte, avanzavano incombendo verso di lui da ogni parte.

Un nome? Ne aveva dunque egli uno?

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Capitolo 2
*** Seel. ***


L'unica cosa per cui Lavandonia era famosa nella regione di Kanto era il suo cimitero, e i suoi abitanti fingevano pubblicamente di andarne orgogliosi, sebbene, in realtà, essi facessero di tutto per ignorarlo.

La Torre si levava fieramente verso il cielo, si stagliava verso il sole e contro l'orizzonte, proiettava la sua lunga ombra su tutta la città, eppure i suoi abitanti non ne parlavano mai spontaneamente; e se qualche straniero sollevava l'argomento, o se era inevitabile, ne parlavano a voce alta, scherzosamente quasi, come di una sciocchezza, e brevemente. Se qualcuno poi chiedeva dei vari misteri della Torre, essi lo liquidavano ridendo apertamente, criticandolo per la sciocchezza della sua domanda, e negavano tutto: no, non c'erano morti viventi sulla Torre, rispondevano, né strane canzoni che, non suonate da nessuno, echeggiassero nelle vuote aule silenti. Solo Pokémon, affermavano con sicurezza. Pokémon morti? Ma certo, morti. Era un cimitero, no?

Tuttavia, calata la sera, tutti si chiudevano in casa, mettevano a letto i figli, facevano rientrare i Pokémon, serravano bene le porte. Perché lo fate?, chiedeva qualcuno. Ma per i ladri, ovviamente; e poi, fa freddo qui, ai piedi dei monti, vicino al mare. Non sente che vento freddo? Vada dentro anche lei. Ma essi, nel profondo della loro intimità, sapevano bene perché lo facevano: c'era davvero una presenza nella Torre. E no, non era uno strano, aggressivo zombie, e non c'era nessuna musica capace di far impazzire chi la udisse. No, era ben altra la presenza che abitava la Torre: era la risata che pareva echeggiare tra le alte volte buie, quando calava il silenzio dopo un funerale; erano gli occhi che parevano brillare, talora, nell'ombra nera... sì. Essi sapevano che c'era qualcuno, eppure mai lo avrebbero ammesso... neppure davanti a se stessi.

Ammettere che quella presenza potesse esistere, di più, soltanto soffermarsi a pensarvi avrebbe significato renderla reale, concreta, innegabile; non avrebbero più potuto fingere che non esistesse, avrebbero dovuto affrontarla, accettarla. I loro figli non avrebbero più accettato di vivere lì le loro esistenze, sarebbero andati via, scappati; nessun turista sarebbe mai più venuto a onorare le tombe. Quale vantaggio poteva dunque derivarne? Finché la ignoravano, la presenza li lasciava in pace. Non avevano mai avuto problemi, dopotutto, e quella Torre vegliava su Lavandonia da prima che i loro nonni, i loro bisnonni vedessero la luce: perché disturbarla? Era quello il tacito accordo su cui riposava la placida Lavandonia: essi avevano paura, ma non potevano ammetterlo senza ammettere che la presenza esisteva.

Nessuno poteva andare da solo sulla Torre. Il motivo dichiarato per questa regola era quello di evitare atti di vandalismo nei confronti delle lapidi più antiche e preziose, alcune delle quali erano lì da più di un secolo. Anche i funerali erano eventi pubblici, cui partecipava tutto il paese: si svolgevano di giorno, con le grandi finestre spalancate per inondare le aule di luce, ed erano accompagnati da alti, sonori canti liturgici. Al termine, tutti andavano via in massa, parlando tra loro ad alta voce delle virtù del defunto, facendo di tutto per ignorare l'inquietante sensazione di essere osservati. Le grandi porte venivano poi chiuse dall'esterno, e la Torre sprofondava di nuovo nel buio e nel silenzio.

Era questo dunque il grande potere della Torre su Lavandonia: la teneva avvinta, in modo tanto sottile da non essere neppure ammissibile, colla paura di una presenza che essi non volevano affatto accettare.


Egli viveva a Lavandonia da tutta la vita, e i suoi lunghi diciotto anni erano trascorsi all'ombra di quell'alta Torre imperiosa; tuttavia, chissà come, egli non ne aveva paura. Non aveva neppure dubbi: egli era certo, certo come lo era delle sue proprie mani, dell'esistenza di quella presenza, del suo innegabile, tacito potere su Lavandonia. Sì, egli sapeva, ma pareva essere l'unico: nessuno mai in tutta la città, a quanto ricordava, gli aveva mai parlato della presenza, né tantomeno aveva accettato di rispondere alle sue domande, ai suoi dubbi. I suoi genitori avevano ignorato le sue parole, o lo avevano messo a tacere con brevi cenni del capo, proibendogli tassativamente di parlarne con alcuno. Egli a malapena, molti anni prima, aveva trovato il coraggio per chiederlo alla maestra: ma quella gli aveva risposto che a scuola si parlava di fatti e non di leggende e lo aveva ammonito aggiungendo che avrebbe dovuto riferire la sua domanda ai suoi genitori. Per fortuna non lo aveva fatto, ma la minaccia era stata sufficiente a farlo desistere.

Qualcosa dunque lo aveva portato a maturare la convinzione che non esisteva che un modo, uno soltanto per conoscere quella terribile verità, se davvero lo voleva, e che non c'era nulla di più chiaro, di più lampante di quella decisione nella sua vita: solo la Torre conosceva la risposta. Ma come fare?

Senza che neppure se ne accorgesse, l'occasione gli capitò il giorno della morte di Seel. Seel era appartenuto a suo padre, ed era sopravvissuto per quasi cinque anni dopo la sua morte; ma era un Pokémon vecchio e stanco, sfiancato dalle lunghe battaglie del passato, distrutto da un dolore che, con le vecchie ferite, non aveva nulla a che fare, e aveva per di più quarantasette anni. Seel era malato ormai da mesi, e sua madre l'aveva curato, ma con gesti fiacchi e stanchi, con gli occhi tristi, e al suo sguardo vacuo Seel aveva risposto con quieta rassegnazione, come se nessuno dei due nutrisse ormai più nessuna speranza sulla sua guarigione, e sulla sua malattia avessero ormai raggiunto un tacito accordo. Egli aveva assistito alla sua malattia dall'uscio della porta, quasi senza avvicinarsi: voleva bene a Seel, ma anche lui, come sua madre, aveva capito che bisognava lasciarlo andare; che c'era qualcosa, molto più forte delle loro cure, che lo stava lentamente portando via da ciascuna delle loro vite e lo stava conducendo, inevitabilmente, da suo padre. Questo però la sua sorellina non l'aveva capito: si era aggrappata alla vita di Seel come a quella di suo padre stesso, come se il povero Pokémon fosse rimasto l'ultimo segno visibile del passaggio di quell'uomo sulla loro Terra. Andava e veniva dalla spiaggia, portando grandi secchi di acqua di mare, anche se sua madre aveva detto che bastava quella del rubinetto per riempire la grande vasca dove avevano messo Seel a bagnarsi; faceva questo nella speranza che il sale, il profumo del mare lo facessero guarire. Ma a dispetto degli sforzi della bambina, dell'acqua di mare, del suo profumo, lentamente Seel morì. E anche se trascorse molte ore a consolare il pianto interminabile della sorellina, egli sapeva di condividere con sua madre la stessa sensazione di sollievo a quella morte: entrambi sapevano che Seel aveva ormai smesso di soffrire e soprattutto, cosa ben più importante, più profonda e più difficile da spiegare, entrambi speravano che avesse ritrovato, in qualche regione molto lontana dello spazio, il suo allenatore.

Anche il funerale di Seel si svolse come al solito: nelle aule cupe e inondate di luce, con alti canti nasali che vibravano elevandosi su, su, verso le volte ricurve. Era stato altre volte, certo, nella Torre Pokémon, eppure quella volta egli si sentì molto profondamente distante da quegli uomini accanto a lui, distante come mai gli era capitato dal regno dei vivi. In qualche modo, egli si sentì vicino, vicinissimo a Seel, quasi nella stessa sua tomba inghirlandata di anemoni. Si guardava furiosamente attorno, e si trovava a pensare che molti di loro non erano venuti neppure al funerale di suo padre. Ma chi sono queste persone? Non dovrebbero essere al funerale di Seel! Seel era di mio padre! Non lo conoscevano neppure. Vengono solo per dimostrare a se stessi che la presenza non esiste! Che non c'è pericolo, qui, e che è pieno solo di tombe. Vengono solo perché hanno paura, e questo è il solo modo per esorcizzarla: far finta che questo non sia che un cimitero come tanti altri, e che nessuna presenza vi vegli mai..."

E poi, d'improvviso, quel fatto gli parve chiaro, evidente, terribile. Come aveva potuto non pensarvi prima? Stavano per lasciare Seel solo con quella terribile presenza! Povero, affettuoso Seel! Non era forse una crudeltà quella? Seel non avrebbe potuto difendersi! E poi, e poi... sì! S'egli solo avesse avuto il coraggio di restar lì, di nascondersi, di rimanere a far compagnia al povero vecchio amico di suo padre, egli finalmente avrebbe potuto...

Rimuginando su queste cose, gli fu naturale, mentre tutti al tramonto abbandonavano le lugubri stanze, lasciare di soppiatto il fianco di sua madre e la mano della sorellina; ritrarsi lentamente, nervosamente lungo i tetri corridoi; e poi, quando non riuscì a scorgere dei suoi concittadini che le spalle, allora correre su, per le stanze vuote, per le scale sporche...

Rimase a lungo a guardare la folla dalle finestre della sala. Sapeva che sua madre doveva già essersi accorta della sua mancanza e che probabilmente, inquieta, si guardava attorno attardandosi sulla strada di casa, domandando a qualcuno se l'aveva visto; che probabilmente tentava d'illudersi che fosse andato a passeggio sulla riva del mare, pensando a Seel... pensò che la sua sorellina doveva aver ripreso a piangere. Stava facendo la cosa giusta? Era giusto infliggere loro ancora un dolore, solo per temer compagnia al povero Seel nella sua prima notte in quel luogo? Dopotutto, pensò, il giorno dopo sarebbe tornato a casa, le avrebbe rassicurate, avrebbe giurato di essersi perso. Certo, sua madre non gli avrebbe creduto, lo avrebbe punito; ma in una settimana tutto sarebbe tornato a posto, come se nulla fosse successo. Seel, invece, avrebbe dovuto restar lì per sempre. E poi, e poi, quell'entità...

A quel pensiero tutta la sua convinzione svanì: il sole stava calando e grige ombre livide già si stendevano dalle alte finestre sul pavimento della sala... Balzò in piedi e volò giù lungo le scale e le aule silenti, echeggianti i suoi passi... mai, mai quella Torre gli era parsa tanto immensa e silenziosa! Ma quando raggiunse il pesante portone, esso era chiuso.

Era la regola della Torre: dal tramonto all'alba nessuno poteva per nessun motivo aprire i portali. Sapeva che sua madre sarebbe andata dal sindaco, avrebbe insistito, avrebbe chiamato... ma che tutti avrebbero fatto finta di non potere, di dover chiedere il permesso a qualcuno, di dover... avrebbero procrastinato fino all'alba e nel frattempo l'avrebbero rassicurata con mezze parole, dicendole che, dopotutto, non c'era alcun reale pericolo in quella Torre, che una notte fuori casa non aveva mai ucciso nessuno, e che, in fondo, i ragazzi devono imparare a comportarsi! Sì sentì d'un tratto molto più piccolo dei suoi diciotto anni, e in effetti, pensò amaramente, non si era comportato proprio da adulto, rimanendo a nascondersi là dentro. Gli parve di udire la nitida voce di sua madre chiamare aldilà del portone- ma era troppo tardi per raggiungerla. Se doveva passar la notte là dentro, pensò allontanandosi dal portone, bisognava che si trovasse un posto per dormire.


Ma posti per dormire non ce n'erano. Si ritrovò disteso contro la lapide di Seel, avvolto nel suo magro giubbotto di pelle nera, cogli occhi infissi e spalancati nel buio. La presenza! La presenza... oh, povero Seel, dover trascorrere qui tutte le tue notti a venire! Egli giaceva disteso contro la dura lapide, accarezzando talora con la mano la fredda pietra tombale.

Era salito lassù progettando di dormire, ma appena il sole era calato del tutto, e la stanza era sprofondata in un buio impenetrabile agli occhi, si era scoperto troppo spaventato per dormire troppo, sfortunatamente, anche per ridiscendere e tornare al portone: certo, anche lì sarebbe stato immerso nel buio, ma almeno non sarebbe stato circondato da tutte quelle tombe... gli dispiaceva per Seel, ma tutto il suo coraggio non gli era tornato, e anzi se possibile era ancor più diminuito, ed egli ora non desiderava altro che trovarsi nel suo letto, anche farsi punire da sua madre, se necessario, ma tornare a casa.

Non avrebbe saputo dire quanto tempo aveva trascorso dentro l'immensa aula vuota, prima di cominciare a udire i rumori.

Dapprima furono tanto lievi e lontani ch'egli credette di averli immaginati, o quanto meno riuscì a convincersene; ma la sua convinzione non durò a lungo. A poco a poco i suoni aumentarono d'intensità, si fecero vicini, vicini, vicini! E finalmente egli seppe di non essere solo.

Si rese conto d'improvviso che il suo corpo era rigido, contratto, paralizzato dal terrore e dal freddo contro la tomba. Balzò dolorosamente in piedi, sentendo quei suoni, quelle presenze molteplici intorno a lui; cercò di guardarsi intorno nel buio, ma non scorse altro che ciò che aveva a malapena intravisto fino ad allora, le scure sagome delle lapidi che lo circondavano. Ansimava pesantemente. Eppure egli era certo di non essere solo e che molte fossero le presenze in quel momento con lui!

Quei suoni che gli erano parsi finora indistinti erano ora vicinissimi a lui, addosso a lui, e distingueva come stridule risate acute, che si accavallavano col suo respiro affannoso e pesante, irregolare... E poi, come se l'avesse sempre saputo e solo in quel momento lo ricordasse, egli capì che venivano a prendere l'anima di Seel, forse per renderla simile a loro... Si lanciò davanti alla lunga lastra tombale che giaceva al suolo e fece la sola cosa che gli parve sensata, possibile: agitò le braccia sopra il capo, gridando: "Via, via! Andate via! Io, io lo so che esistete! Non ho paura di voi! Lasciatelo in pace!".

Calò subito un silenzio terribile, più grave ancora di quello che aveva preceduto l'arrivo delle presenze, ed egli capì che solo in quel momento, quando aveva parlato, le presenze si erano accorte di lui e che ora lo stavano scrutando, studiando: egli doveva essere il primo essere umano a introdursi in quel luogo dopo il calar del sole dalla fondazione della Torre...

Quello che accadde in seguito fu troppo rapido perché egli realmente potesse comprenderlo, ma un grande gelo improvviso afferrò le sue membra e sui suoi occhi cadde un velo più impenetrabile del buio e la sua mente abbandonò il suo corpo inerme.


Un nome? Ne aveva dunque egli uno? Ma per quanto tentasse di ricordare, per quanto frugasse nei recessi della sua mente, egli non vedeva altro che un vuoto incolmabile, un'oscurità insondabile. Nel suo passato non sembrava esserci stato altro che quel buio, per tutta la sua vita, e la prima sensazione di cui avesse ricordo era quella del suo corpo nudo, freddo, su quella superficie, e di quelle ombre che lo scrutavano.

"Non lo so" gemette, scuotendo forsennatamente il capo e strattonando con ogni muscolo del proprio corpo: perché era lì legato? Se mai ne aveva saputo il motivo, non lo ricordava. "Non ce l'ho, un nome! Ora vi prego, aiutatemi. Voglio andare a casa!"

"Dov'è la tua casa?" chiese nervosamente la voce. Sembrava una domanda importante. E di nuovo quella domanda cadde nel vuoto della sua mente: all'improvviso si accorse che non c'era nessuna casa nella sua memoria.

Come da una profonda, irreparabile distanza egli udì la propria voce spezzata dire lentamente: "Non lo so più." Avrebbe voluto non averlo mai detto. Eppure era certo che una casa ci fosse stata, un tempo, tanto spontaneamente, naturalmente aveva asserito di volerci tornare.

Alle sue parole rispose come un grido di giubilo: le ombre che percepiva ai margini del suo campo visivo gioivano, esultavano forse perché egli non ricordava? Ma quando la stessa voce parlò, tutte le altre fecero silenzio.

"Hai solo immaginato di esser legato. Hai solo immaginato le nostre voci. Ora alzati e vattene."

Ma che sciocchezze andava dicendo? Certo che era legato. O forse no? Egli mosse timidamente gli arti, sentendosi profondamente stupido, e meravigliato si accorse che era vero: poteva allungare e ritrarre le braccia, sollevare le gambe. Ma com'era possibile?

Dopo lunghi momenti di esitazione, si sollevò in piedi sulle gambe nude e tremanti. In quel momento, finalmente in piedi, egli ebbe modo di vedere chiaramente per un attimo, in quella bianca luce cui i suoi occhi si erano a poco a poco abituati, le ombre di quelle presenze, prima che si ritraessero fuggendo furiosamente dalla stanza ... le ombre, le ombre, come neri fantasmi ghignanti, che si ritraevano lungo le pareti... ombre? Ma dov'erano i corpi che si era aspettato di vedere?

D'improvviso egli comprese ed emise un terribile grido, prima di sprofondare nuovamente nel buio.

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Capitolo 3
*** Meowth. ***


Buongiorno a tutti!

Come vedete, ho deciso di postare molto presto il capitolo conclusivo; questo perché ho altri progetti dei quali devo occuparmi, in primis la conclusione di Paternità, e perché comunque, essendo la storia conclusa, non aveva senso tirarla per le lunghe. Desidero molto ringraziarvi anche solo per averla aperta; in particolar modo, i miei più sentiti ringraziamenti vanno a Andy Black e a cristal_93 per le loro cortesissime recensioni.

Vi lascio alla lettura; spero che questo ultimo capitoletto possa chiarire ogni cosa. In ogni caso, in fondo al testo metterò una piccola noticina per eliminare ogni dubbio. Detto questo, buona lettura a tutti!

Afaneia





Lo trovarono seduto vicino alla tomba di Seel, cogli occhi vacui e assorti, completamente nudo, con la pelle irrigidita, illividita dal freddo. Ma quando lo scossero, lo agitarono, lo chiamarono, egli neppure mosse gli occhi, eppure non era cieco, né sordo: semplicemente, sembrava instupidito.

Sua madre urlò, pianse di gioia al vederlo, ma egli neppure volse lo sguardo su di lei. La donna non si perse d'animo: lo portò a casa, avvolto in una coperta, lo lavò con vigore, lo fece sedere in giardino; rimase seduta al suo fianco, tenendogli la mano, parlandogli con voce chiara e calma, invogliando la sua sorellina a fare lo stesso; a sera lo portò in camera sua, lo mise a letto, appoggiò sulle coperte vari pupazzi e vecchi giocattoli, sperando che la loro memoria lo stimolasse. Lo stesso, instancabilmente, continuò a fare ogni singolo giorno per settimane, muovendolo, lavandolo, vestendolo come fosse paralizzato, parlandogli, leggendogli storie come se ancora fosse un bambino piccolo. Sua sorella sedeva ai suoi piedi, giocando con lui per quanto la sua immobilità lo permetteva: gli appoggiava dei bambolotti sulle ginocchia, fingendo che fosse lui a dar loro la voce, e talora si arrabbiava perché non proprio non riusciva a convincerlo a partecipare; ma egli a malapena muoveva gli occhi a seguire i suoi giochi.

Sua madre giunse a spingersi lungo il percorso 8 per catturargli un Pokémon, sperando che una creatura capace di dedicargli affetto e attenzioni potesse riscuoterlo. Tornò a casa un giorno con un Meowth dall'aspetto fragile e malaticcio, e lo portò in camera sua dicendo con voce alta e chiara: "Ti ho portato un Pokémon molto debole. Ho pensato che potresti prendertene cura tu."

Ma per vari giorni egli continuò a rimanere immobile e apatico, scrutando con occhi spenti la creatura che si aggirava, per la camera o il giardino, o dormiva in fondo al suo letto o persino sulle sue ginocchia. Sua madre lo stimolava, lo invogliava, gli ripeteva di occuparsi lui stesso del Meowth, ma a nulla serviva: la sua mente sembrava irrimediabilmente compromessa.

In qualche modo fu proprio quel Meowth a salvarlo. Il Pokémon gli si avvicinava ogni giorno di più, cominciava a giocare con le sue dita, a inseguire i suoi piedi sotto le coperte; quando sua madre lo conduceva in giardino, il Meowth lo seguiva, dormiva sulle sue ginocchia, leccava la sua mano. Un giorno, finalmente, dopo aver vagato a lungo per il giardino, tornò da lui trotterellando e gli depose qualcosa di caldo in grembo. Egli chinò un momento lo sguardo, come obbedendo a un istintivo impulso, e d'un tratto lo colse un senso profondo di orrore e disgusto: forse pensando di portargli un regalo gradito, Meowth gli aveva deposto in grembo un topolino morto! Reagendo d'istinto, egli cacciò un grido disgustato e balzando in piedi gettò sul prato il topolino e gridò a Meowth: "Non farlo mai più!". Poi, come se quel suo slancio vitale avesse esaurito tutta la sua forza, egli ricadde pesantemente sulla sedia e rimase immobile e pensieroso.

Sua madre aveva udito il suo grido ed era accorsa, e ora ristava immobile sulla soglia di casa, a guardarlo con occhi pieni di lacrime. Era la prima volta ch'egli si riscuoteva da quella sua terribile paralisi.

"Oh, Sakaki!" esclamò con voce spezzata. Alla sua voce egli si riscosse e alzò su di lei gli scuri occhi cupi. Poi, dopo un momento, domandò: "Chi è Sakaki?"

La sua domanda cadde come un fulmine tra loro: una luce terribile, una luce di angoscia e comprensione, si accese negli occhi di sua madre. La donna lo fissò come fissando uno sconosciuto, aprì la bocca, poi la richiuse. Infine, avanzò lentamente e andò a inginocchiarsi accanto a lui, prendendo la sua mano. Il suo petto si muoveva affannosamente, ed ella a fatica riuscì a parlargli.

"Sei tu Sakaki" mormorò infine. E, con sforzo ancora maggiore, soggiunse: "Vuoi forse dirmi che non te lo ricordi?"

Egli tacque lungamente. Poi, scuotendo il capo, rispose: "No. Tu sei mia madre?"

Ma la donna emise solo un singhiozzo disperato, angustiato, e lentamente reclinò il capo sulle sue ginocchia. Gli occorsero lunghi secondi per comprendere che, facendole quella domanda, le aveva dato un grande dolore.

"Mi dispiace" disse, e realmente provò una fitta di rimorso guardandola piangere. Incerto, confuso sul da farsi, appoggiò una mano sui suoi capelli; balbettò: "Sento, percepisco che sei mia madre, che questa è la mia casa, quella è mia sorella, ma... non ci riesco. Mi dispiace tanto" soggiunse, e gli dispiaceva ancor più per il fatto stesso che percepiva il suo pianto come se fosse quello di un'estranea, non di sua madre. "Non ricordo nulla, non... tutto è nuovo per me. Vorrei ricordarmi di voi, di me" disse con voce tremante, e l'avrebbe voluto davvero, vedendo tutto l'amore che quella donna, quella bambina provavano per lui. Ma poi non seppe più cosa dire, e tacque.

Finalmente la donna si riprese un poco, si asciugò gli occhi, rimase in silenzio. Fissando i suoi cupi occhi muti egli, Sakaki, se questo era il suo nome, trovò il coraggio di chiedere: "Mio padre... non c'è?"

Temette per un attimo che la donna avrebbe ripreso a piangere e si pentì subito di averle posto quella domanda, ma ella rimase ostinatamente, rigidamente immobile e disse lentamente: "Tuo padre è morto da più di quattro anni."

Sakaki non seppe bene come accogliere questa notizia e rimase immobile, pensieroso. Non ricordava nulla di suo padre, per lui avrebbe potuto non essere esistito mai: ma proprio questo gli causò un grande dolore.

Sua madre si alzò finalmente dal suo fianco, traendo un sospiro profondo e dolcemente appoggiò una fresca mano sul suo volto; egli percepì un caro tocco materno e affettuoso, e provò un terribile senso di colpa all'idea di essersi scordato di lei.

Quando parlò, la sua voce sembrava profondamente spezzata, eppure carica di speranza e di quiete. "Va tutto bene" disse dolcemente. "Non importa. Chiameremo il medico. Faremo qualunque cosa per te, Sakaki, mio caro tesoro... ma per favore, nel frattempo" soggiunse, e la tonalità della sua voce gli fece intuire che questa postilla era molto importante "ti prego, non farlo ancora capire a tua sorella."


Quella sera, Sakaki tornò da solo in camera sua, senza l'aiuto di nessuno, e da solo si cambiò, ma non si mise subito a letto. Sentiva sua sorella, nell'altra stanza, insistere con sua madre perché la lasciasse andare in camera sua; ma la donna, irremovibilmente, la tratteneva ripetendole: "Tuo fratello è stanco. Lascialo stare. Ci sarà tempo domani per giocare."

Gli pareva di essersi risvegliato quel giorno da un sonno incredibilmente lungo, e ora non aveva voglia di andare a dormire. Cominciò ad aggirarsi per la camera, senza scopo, e si soffermò davanti all'ampio cassettone nell'angolo della stanza, dove lo attiravano alcune foto incorniciate, vagamente impolverate, sorridenti. Sì: lui, sua madre, sua sorella... era quello suo padre? Rimase a lungo a fissare quella foto, il suo volto spigoloso e virile, i suoi neri occhi sorridenti; nella foto, suo padre era alle sue spalle, entrambi chini su una torta di compleanno con dieci candeline. Assomigliava molto a suo padre, pensò: quanto avrebbe voluto ricordarsi di lui! Era stato un uomo affettuoso, severo, irascibile, pigro, sportivo, silenzioso? Sentì una fitta di rimpianto a quel pensiero, il pensiero non solo d'aver perduto suo padre, ma soprattutto di averlo dimenticato. Anche la sua sorellina era orfana come lo era lui; ma a lui, quelle identità che vedeva vagamente riemergere dalla nebbia della sua memoria, avevano strappato i soli ricordi che mai avrebbe potuto avere di suo padre... e non solo. Era dunque quello che doveva scontare per qualche peccato che aveva commesso? Perdere tutto, il suo passato, la sua stessa identità... non avrebbe mai ritrovato suo padre, pensò dolorosamente, strappandosi bruscamente da quella foto; si sentiva gli occhi bruciare. Ah, ma egli sapeva a chi doveva tutto ciò! Egli ricordava, come primissima memoria nella sua mente, ciò che quelle presenze gli avevano fatto...

Udì un ticchettio sonoro proveniente dalla finestra: quando si voltò, scorse il suo Meowth che graffiava il vetro per farsi aprire. Povera creatura! pensò lanciandosi ad aprire la finestra per farlo entrare: doveva essere scappato quando lui gli aveva urlato quel pomeriggio in giardino, ed egli insensibilmente se n'era scordato...

"Vieni dentro, caro" mormorò. "Ti ringrazio per l'aiuto che mi hai dato oggi. Perdonami: non avrei dovuto urlarti contro. Oggi mi hai aiutato a riprendermi, e io mi prenderò cura di te, d'ora in poi..." Accarezzò il suo morbido capo peloso, e la creatura fece le fusa e cominciò a pulirsi il pelo.

Sakaki riprese le sue riflessioni: era ancora davanti alla finestra aperta e la brezza accarezzava il suo volto già di giovane uomo. Sì: egli sapeva chi gli aveva tolto la memoria, chi lo aveva privato l'unico ricordo che mai avrebbe potuto avere di suo padre... chi, per finire, gli aveva rubato il suo nome, la sua identità, sottraendolo a se stesso! Erano state quelle presenze che lui aveva percepito nello svegliarsi al buio in quella stanza, quegli spettri che aveva visto chiaramente ridere di lui! Sì, egli sapeva che essi avevano tentato d'ingannarlo per mantenere il segreto sulla loro identità, sul potere con cui tenevano avvinta la città... Essi avevano voluto fargli credere di essere sue allucinazioni, ma avevano fallito: egli ricordava quel loro aspetto di spettri; sapeva che avevano un potere tanto grande da fargli scordare persino il suo nome...

Le sue dita strinsero spasmodicamente il davanzale della finestra, le nocche illividirono: ebbene! poiché essi per impedirgli di scoprire la loro identità gli avevano sottratto il suo nome, egli per vendetta avrebbe scoperto il loro! A qualunque costo egli avrebbe dato loro un corpo fisico, un corpo su cui potersi vendicare, poiché da spettri era per lui impossibile agire su di loro: ma come miserabili, impotenti Pokémon mortali li avrebbe catturati, avvinti come essi avevano avvinto lui! Avrebbe svelato, mostrato a tutti le presenze di quella Torre, che volevano restar nascoste!

Avrebbe avuto bisogno di qualche cosa, certo, di un qualche strumento, probabilmente di molto aiuto, ma non avrebbe desistito, a costo di impiegare anni. La sua mente lavorava già meccanicamente, incessantemente su quel progetto, che di tutta la sua vita era la sola cosa che gli fosse rimasta. Accarezzò pensierosamente il capo di Meowth, sentendosi il petto pieno di eccitazione e ambizione, del desiderio grande della sua vendetta, continuando a meditare: si sentiva preso da un'emozione folle, avida, ambiziosa. Gli sarebbe occorso uno strumento capace di mostrargli il vero volto di quelle creature, la loro vera identità... un oggetto che lo aiutasse a sondare quei corpi ectoplasmatici, impalpabili, quegli spettri...

Sì...! egli aveva bisogno di una Spettrosonda!


Nota dell'autrice: come forse alcuni di voi già sanno, Sakaki è il nome giapponese di Giovanni. Ho scelto di utilizzare il nome giapponese per differenziare questa versione di Giovanni da quella che compare nella mia Saga della Prescelta Creatura, in quanto questa storia non fa riferimento a quella serie.


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