Fiore di pesco

di lamialadradilibri
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Two ***
Capitolo 2: *** One ***
Capitolo 2: *** Three ***
Capitolo 3: *** Four ***
Capitolo 4: *** Five ***



Capitolo 1
*** Two ***


Two

"Le parole possono ferire."


 
Balzai giù dall’auto in fretta, cadendo in una buca poco profonda. Quasi mi slogai una caviglia ed imprecai, con il fiato corto. Cazzo. Ancora non riuscivo a capire perché avessi aiutato quella sconosciuta, al parco. Per di più era sicuramente una senzatetto, una barbona. Non l’avevo capito dagli abiti o dall’aspetto – nell’insieme era abbastanza accettabile: sembrava soltanto una ragazza un po’ trascurata –, ma dalla sua sistemazione: era evidente che stava preparando un riparo dove trascorrere molto tempo. Al parco in centro. Che follia! Non doveva essere del posto, ed era stata molto fortunata ad aver incontrato me e non qualche poliziotto col pallino di appioppar multe a tutti, oppure dal manganello facile. Era già successo di venire a sapere di senza tetto picchiati a sangue e poi seppelliti malamente nel cimitero della città, dove le loro tombe non venivano curate, ma guardate storto. Vita di stenti, morte di stenti.
E poi c’era Rose... Avevamo un appuntamento. Mentre prendevo tra le braccia il corpo della ragazza – il suo peso morto mi fece grugnire per la fatica –, lanciai un’occhiata al mio orologio da polso. Io e la mia ragazza ci saremmo dovuti incontrare venti minuti prima.
Mi ammazzerà, pensai stremato. Ma d'altronde non avrei sofferto poi così tanto: io non la amavo.
Rose era la tipica ragazza facile della città. E cioè portava con sé un turbine di popolarità ed amici e feste. Per questo c’ero stato assieme un po’, senz’alcun rimorso: per interessi, non certo per amore. Non mi sentivo male: non ero stato il primo a sfruttarla né sarei stato l’ultimo.
La senzatetto gemette tra le mie braccia e mi affrettai a portarla a casa di mia madre: era un medico in pensione da poco tempo, l’avrebbe saputa aiutare. Portarla all’ospedale avrebbe significato condannarla subito, invece, e non era ciò che volevo per lei. Era una cosa insensata, forse un po’ stupida ed andava contro il mio modo di fare, ma non ci badai: agii e basta.
«Buon dio!» strillò la donna che mi aveva messo al mondo, vedendo la ragazza che stringevo tra le braccia. S’avvicinò di corsa – nonostante l’età era molto arzilla –, ed afferrò il volto alla ragazza. Solo allora me ne resi conto: era poco più che una bambina. Poteva avere dai quindici ai diciassette anni, massimo. Mi si bloccò il respiro in gola, rimasi basito per nessuna ragione, in realtà.
«Portala dentro!»
 
«Dov’è che l’hai trovata, Ray?»
Scrollai le spalle, osservando la ragazzina stesa sul divano di mia madre. Mi fece tenerezza, con quei capelli un po’ scompigliati e quel viso dai tratti marcati. «Al parco in centro.»
«Buon dio!» ripeté un’altra volta mia madre. “Buon dio!” e “Aiuto!” erano le frasi che ripeteva più spesso in situazioni problematiche. E questa era più che problematica. «Avrà la tua età, Ray!» esclamò, iniziando a controllarle gli occhi. Io non mi intendevo per nulla di medicina, così la lasciai lavorare sola.
«Sì, o forse meno» ragionai, trasalendo. Ed ora? Cos’avremmo fatto con quella sconosciuta, poco più che una bambina? Avrei dovuto lasciarla là, al parco. Probabilmente non aveva nulla di grave, si sarebbe ripresa e poi qualcun altro l’avrebbe trovata. Pace.
Ma mentre pensavo quelle cose, sapevo che non avrei mai potuto farle. Non l’avrei mai abbandonata lì.
«Dovrò tenerla qui un po’.» affermò mia madre, un po’ preoccupata. La vidi trafficare con i polsi ed il collo della senzatetto, annuendo tra sé e sé. Era impegnata, stava dando il meglio di sé: avrebbe sicuramente aiutato una ragazzina così piccola e così indifesa.
«Ma non si può» obbiettai a malincuore, facendo scivolare il mio telefono fuori dalla tasca. Per fortuna era in modalità silenziosa, così non ero stato disturbato dalle tredici chiamate perse di Rose, né dai suoi venticinque messaggi. Assillante era dir poco. «E’ minorenne. Avrà una casa o... Qualcuno da cui andare...»
«Sì, come no. Sai bene anche tu che è sola! Guardala!» sbuffò mia madre, tirandosi con le mani ossute i capelli dietro le orecchie.
Non c’era bisogno di guardarla a lungo. Era una ragazzina sola, con vestiti più grandi del necessario, capelli stretti in una coda e un volto pallido e magro.
«Allora... Cosa le è successo?»
«Un calo di pressione. Per questo è svenuta.»
«D’accordo. Pensavo peggio... L’ho vista crollare a terra come niente. È stato terribile...»
Mia madre si avvicinò a me, alzandosi. Aveva un’aria materna che riconobbi all’istante, nonostante  non mi guardasse in quel modo da un bel po’. Di solito era più preoccupata a cercarmi buchi sulle braccia o tagli sui polsi.
«Immagino» commentò. «Dovrò tenerla qui, nutrirla e trovarle una casa.»
«Mamma...! Non si può!», gemetti, quasi costretto a pronunciare quelle parole. Mia madre aveva già vinto, perché non aveva mai avuto un vero avversario.
Lei indurì la mascella, non ammettendo più repliche. «Troveremo il modo.»
Annuii. Non c’era modo di fermarla, ormai: il suo istinto materno aveva avuto il sopravvento. Ed in più mi ritrovai io stesso a voler aiutare quella ragazzina, quindi... Perché no? Infondo, a parte rare eccezioni, i poliziotti della città erano piuttosto pigri, non passavano mai per i quartieri residenziali: non si sarebbero accorti della nuova arrivata. E al massimo avrei detto che era una mia lontana parente.
Quando Rose mi chiamò per l’ennesima volta, mi allontanai dalle due – mia madre stava già preparando qualcosa per la ragazzina, mentre lei dormiva come l’avevo lasciata io sul divano – e risposi al cellulare, seccato. «
«Ray!» squittì Rose. Aveva la tipica vocina stridula delle ragazze facili che mi irritò più che mai. Tentai di non insultarla, nemmeno mentalmente. «Amore! Dove sei?»
Amore? Probabilmente era già in compagnia di qualcun altro, mentre mi aspettava. Lei non conosceva l’ “amore’’, e neanch’io.
«A casa» dissi sincero. L’idea di perderla e, possibilmente, ferirla, era così allettante che non mi passò nemmeno per la mente d’essere gentile o cortese. Non la potevo più sopportare, avrei voluto sbatterle la testa al muro così forte da spezzarla!
«Ray?» gracchiò, scioccata. «Ray, ti sei scordato dell’appuntamento?» continuò, con voce sempre più forte che s’alzava di diverse ottave mentre parlava.
«No.» Sincero, più che mai.
Ci fu un attimo di silenzio. Me lo gustai, emozionato: la calma prima della tempesta! Poi quell’idiota di Rose si sarebbe messa ad urlare sempre più forte, strappandosi i capelli ed insultandomi, minacciando di tradirmi – come se non l’avesse già fatto. Ah, probabilmente avrebbe pianto.
«No» ripeté, con voce titubante. «Ray.»
«Dimmi.» La incitai, con la voce d’una persona assecondante.
«E’ finita.»
E riattaccò, convinta d’essere una gran diva sul Red Carpet, e che l’avrei cercata piangendo e supplicandola di tornare assieme. Povera idiota.

 

Qualcuno cominciò a scrollarmi le spalle. «Sveglia!», continuava a ripetere una voce. Era la voce di un’anziana, mi faceva sentire al sicuro.
Mugugnai e quella ridacchiò. «Sei sana come un pesce, bambina mia» commentò, con il riso nella voce.
Bambina mia. Aprii gli occhi di scatto. Bambina mia!
Quindi lei era mia madre?
Cominciai a guardarmi attorno come una furia. Ero in una casa. Bella, arredata bene, con molti mobili in legno e centrini qua e là. C’era un odore strano, l’odore che c’è nella casa di ogni persona anziana e non se ne va mai via, neppure dopo che hai lasciato le finestre aperte per giorni. L’avevo già sentito, quand’ero stata affidata ad una donna sessantenne che mi odiava. Avevo sei anni, allora, e quell’odore mi aveva perseguitato ogni notte. Proprio come le sue mani, che mi picchiavano, e le mie urla.
Poi la vidi. Eccola là, una donna dai capelli bianchi e dagli occhi azzurri. Azzurri e profondi. Bocca rosea, un bel sorriso con qualche dente un po’ storto. Un peso piombò sul mio cuore, schiacciando ogni possibile speranza. Non poteva essere mia madre. I miei occhi erano neri come la pece ed avevo labbra sottili. Non era mia madre, e ne fui certa quando, con un sorriso un po’ più titubante, mi passò un bicchiere di latte. «Bevi», mi incitò, e la sua voce mi parve lontana.
«Non mi piace.» Sussurrai, mentre il panico prendeva il sopravvento. Se fosse stata mia madre, avrebbe saputo che io non potevo sopportare il latte, nè caldo nè freddo. Se avessi avuto una madre, lo avrebbe saputo.
Non sapevo dov’ero.
Ero in una casa sconosciuta.
Ero con una sconosciuta.
Il ragazzo del parco ... Lui dov’era? Volevo vedere i suoi occhi...
Dove mi avrebbero consegnata? A quale autorità?
Era già finita?
«Calmati...»
«No!» strillai, tentando di alzarmi dal divano dov’ero seduta. No! No! No! Non volevo che finisse così! Al parco stavo benissimo: c’era la quercia e c’era un cespuglio dove dormire e di notte avrei rubato! Sarei stata bene lì! Non qua, dov’ero! Dovunque fossi! Mi cedettero le gambe e mi ritrovai seduta sul divano. L’anziana non si mosse. Se ne stava seduta  a gambe incrociate sul pavimento, un po’ distante da me. aspettava.
«Dove mi porterete, eh?!»
«Da nessuna parte, cara.» cominciò, con voce tranquilla. «Mio figlio...»
«Non m’importa! Tu menti! Vuoi che non lo sappia?! Ne ho viste, di persone così! Mentite, mentite sempre!»
Continuai ad urlare così per un bel po’. La testa mi si fece sempre più leggera. L’anziana continuò ad attendere.
Quando non urlai più – non perché non volessi, ma non avevo più voce – la donna si alzò e s’avvicinò a me. La osservai, circospetta. «Mangia.» M’invitò allora, avvicinandomi dei biscotti. Il mio stomaco brontolò involontariamente e la donna sorrise. «Ti farà bene. Altrimenti sverrai ancora. Su, mangia.»
Guardai un’ultima volta il suo volto. Non aveva molte rughe. Ispirava fiducia. O forse fu semplicemente la fame, l’istinto animale, che batté il ragionamento.
Così mi buttai sui biscotti, lasciandomi finalmente curare da qualcuno. 

NdA. Grazie a tutti coloro che hanno recensito il primo capitolo . Per me è davvero importante sentire le vostre opinioni e, se per di più sono anche belle, ancora meglio ! grazie mille .
Questo capitolo è un po' più lungo, avete visto? Ed ora ecco un piccolo 'regalo'. La foto di Ray!

............Ray..............


Sono gradite altre recensioni , meme1

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Capitolo 2
*** One ***


Fiore di pesco
Pesco: il tuo fascino non ha eguali. 
Fiore di pesco: sono tuo prigioniero.



one

 

Iniziò tutto un mercoledì come gli altri.
Il sole batteva forte sull’asfalto, riscaldandolo fino a renderlo insopportabile al tatto ed addirittura alla vista; il cielo era d’un intenso celeste chiaro, senz’ombra di una nuvola. Il mio stomaco brontolava, come al solito: non c’era verso di placarlo, di giorno, perché non c’era verso di rubare cibo. Tentare di prendere qualche mela dagli alberi si sarebbe rivelato inutile, perché erano tutte ancora troppo piccole e dure.
Me ne stavo seduta sotto ad una quercia in un parco pubblico; là avevo trascorso le ultime settimane, era un bel posto tranquillo, e pensavo che c’avrei potuto passare anche l’intera vita. La mia idea, in effetti, era quella d’accamparmi proprio là, nel parco. Avevo già iniziato a costruire un riparo dove dormire quando le notti sarebbero diventate gelide e lunghe.
Ma quel mercoledì fu diverso: mentre mi perdevo a contare i minuti che mi separavano dalla notte, quand’avrei potuto rubare qualcosa dal piatto di qualcuno – molti minuti, in realtà, perché doveva essere circa l’una di pomeriggio –, ebbi un capogiro. All’inizio pensai fosse una cosa da nulla, aspettando che cessasse. Ma non cessò. Lentamente la mia vista si oscurò ed io iniziai a spaventarmi sul serio; ne avevo passate di brutte esperienze, ma mai così: mi sembrava d’annegare in un mare nero ed insuperabile, dove sarei morta. Urlai.
E se c’è una cosa che ho imparato trascorrendo una vita in solitudine, senza casa né famiglia, vagando a piedi di città in città, di parco in parco, con la paura d’essere scoperta da qualcuno, era che mai, mai e poi mai si doveva urlare. Tanto più se ci si trovava in un luogo pubblico.
Ma avevo paura. E la paura è incontrollabile, impedisce di ragionare. La paura annienta tutti. La paura non teme nessuno: la paura è il timore. Non avevo mai provato una cosa simile in vita mia; non riuscii a placare le mie grida.
E qualcuno mi sentì.
 
«Ehi!»
Un secondo dopo riuscii a guardare oltre al mio naso. E così lo vidi: un ragazzo alto e biondo mi stava osservando con un’aria perplessa e sorpresa, la bocca semiaperta e gli occhi azzurri sbarrati. Restò a pochi passi da me, senza più battere ciglio, ed io riuscii a pensare soltanto ad una cosa: quant’era bello. Aveva il portamento d’un dio greco, le spalle dritte e gambe lunghe e sottili, ed un’aria intelligente. Mi mancò il respiro.
Non ero pronta ad una cosa simile. A vedere una persona così. Il mondo era appena scomparso, per un po’, dalla mia vista, ed ora sembrava ritornare, personificato in quel ragazzo. Ma il mondo non era così: né bello, né perfetto.
Ed io lo sapevo.
«Ci sei?» continuò a chiedermi. Mi resi conto d’essermi imbambolata e, di scatto, m’irrigidii tutta. Riuscii a vedere quel ragazzo per ciò che era: un potenziale pericolo, non un dio!
«Sì». Cioè no. Non c’ero. Come diavolo avrei potuto? Non intrattenevo una conversazione con un essere umano da un bel po’, anche se spesso mi ritrovavo a sussurrare parole d’incoraggiamento agli alberi, sperando che mi rispondessero. Non succedeva mai, tuttavia il fruscio del vento riusciva a confortami.
Lui alzò un sopracciglio, sempre più confuso. Chissà che aspetto avevo? Certamente non quello d’una sedicenne ordinaria, con casa e famigliari. Avevo foglie tra i capelli? Occhiaie? Probabilmente puzzavo un po’, ma non troppo: qualche giorno prima mi ero sciacquata in ruscello che avevo trovato alcuni isolati al di là del parco.
«Urlavi» borbottò, analizzandomi con sguardo critico. Ero ancora  buttata a terra, con la schiena appoggiata all’albero. I pantaloncini che ero riuscita a rubare ad una ragazza che aveva appena fatto shopping erano leggermente macchiati e mi stavano un po’ grandi, così li avevo arrotolati su per le cosce, rendendoli simili a dei pantaloncini più corti. La maglia che portavo non l’avevo rubata né recentemente né troppo tempo prima, nel senso che avevo indossato cose più rovinate. Ma mi sentii stranamente a disagio, nonostante non fossi poi così impresentabile.
«Sono stata un po’ male» gli confidai, soltanto perché sentii il bisogno di giustificarmi. Che idiozia.
S’avvicinò d’un passo. «Vuoi aiuto?»
«No!» strillai, mentre il panico m'impediva di respirare normalmente. Cercai con gli occhi una via di fuga, ed eccola là: una viuzza un po' nascosta da un cespuglio di lavanda mezzo rinsecchito, che avevo scovato giorni prima. Non potevo permettere che il ragazzo mi aiutasse: avrebbe scoperto ciò che ero - un'orfana senza tetto e, per di più, minorenne -, per poi consegnarmi a qualche autorità. E non lo volevo!
Ma ormai era già troppo tardi. Non avrei dovuto rivelargli le mie debolezze, avrei dovuto fingere di star bene. E ci provai, tentando di mettermi in piedi – per scappare –, ma una fitta allo stomaco mi fece piegare in due. Il mondo sparì di nuovo, inghiottendo lo splendido ragazzo e la luce, ma  sentii ugualmente delle braccia stringermi, avvicinandomi ad un corpo che mi sembrò bollente. Il ragazzo mi disse qualcosa, ma non riuscii a capire una parola.
Ecco fatto.
Ero nella merda.

NdA: Sono gradite recensioni <3

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Capitolo 2
*** Three ***


Three.

Giuro di dire solo la verità
nient'altro che la verità
ma tengo le dita incrociate
 
«Ecco, brava. Ora mettiti giù.»
Guardai il piatto sulle mie ginocchia. C’erano ancora alcuni biscotti lì sopra, ma lo sguardo dell’anziana donna mi convinse a non mangiarne ancora. Avevo già mangiato un bel po’ e, visto che non ne ero assolutamente abituata, era meglio non eccedere. O così avevo letto su un giornale – rubato in un lungo giorno di pioggia.
Mi stesi sul divano. Per la prima volta nella vita, il mio stomaco era assolutamente pieno. Ci posai sopra una mano, sentendomi in pace con me stessa. «Grazie.» bisbigliai, sbadigliando. Una piccola parte di me continuava a implorarmi d’andarmene, di scappare, perché chissà dove mi trovavo, chissà con chi ero. Ma un’altra parte di me, forse meno ragionevole, chi lo sa, m’invitava a restare lì: il divano era morbido, c’era del cibo e nessuno mi stava trattando male. Si stava bene.
La donna si alzò in piedi con estrema agilità. Probabilmente era anche più agile di me. «Se sei stanca, dormi un altro po’.» mi consigliò con voce dolce, portando via con sé i biscotti. Non ne mangiò nemmeno uno. «Più tardi verrò io a chiamarti, così potrai lavarti. E parleremo un po’.» Stava già uscendo dal salottino – io mi stavo addormentando, rilassata -, quando si voltò tornando sui suoi passi. All’inizio pensai che avesse dimenticato qualcosa, poi però s’abbassò all’altezza del mio viso: «Mio figlio, Ray, ed io, ti aiuteremo. Nessuna autorità proverà a prenderti, lo giuro.»
E questa fu la sua prima promessa.
La guardai in quegli occhi blu, liquidi, limpidi. Sinceri. Non era come Beck, l’anziana che mi aveva accolto quand’ero più giovane. Lei non aveva mai detto così. Non mi aveva offerto biscotti, né mi aveva fatto dormire sul suo divano. «Grazie...» sussurrai, commuovendomi. Lei mi sfiorò una spalla con la sua mano delicata e mi lasciò sola.
 
Mi svegliò la voce di un ragazzo, questa volta. Quando aprii stancamente gli occhi – avrei dormito all’infinito, potendo farlo –, riconobbi il giovane che mi aveva portata via dal parco. Mi sembrò ancor più bello di prima, con quella maglia azzurra che gli metteva in risalto gli occhi ed i capelli spettinati, probabilmente ad arte.
«Ehi» mi salutò, restando in piedi davanti al divano. Io mi tirai su, stiracchiandomi. Chissà che aspetto avevo? «Come stai?»
Alzai lo sguardo di nuovo, leggermente spaesata. Un ragazzo non si era mai comportato così con me. Così gentile. «Meglio, grazie.» risposi, evitando accuratamente la frase “sto bene”. La verità era che io stavo male da quand’ero nata. Da quando mia madre mi aveva abbandonata, e così mio padre. In quel momento stavo certamente meglio del solito, ma ... Bene? No. Non sarei mai stata bene. «Siete molto gentili.»
Lui annuì, rimanendo là dov’era. Non lo invitai a avvicinarsi, perché non volevo che lo facesse. Stava bene  là dov’era, per me.
«Su, ti mostro dov’è il bagno, così ti sistemi un po’» mi spiegò, senza giudicarmi. «Vieni.»
«Grazie.»
«Riesci ad alzarti?» mi chiese, avvicinandosi d’un passo. Ci riuscivo? Sì, ci riuscivo. Mi alzai sulle mie gambe malferme e lui mi afferrò per un gomito, assicurandosi che non cadessi. Era vicino, ma non troppo; stava mantenendo una certa distanza e lo apprezzai. «Il bagno è al piano di sopra. C’è una rampa di scale.»
Annuii e cominciammo a camminare. Non mi sentivo male, soltanto un po’ debole. Probabilmente avrei potuto camminare da sola, ma mi piaceva la sensazione della sua mano calda sul mio braccio: mi faceva sentire sicura, protetta. Così non gli dissi niente.
«Mia madre è nella stanza accanto, ti sta preparando alcuni vestiti» m’informò il ragazzo – Ray – quando entrammo nel bagno. Mi sedetti sul bordo della vasca già piena d’acqua bollente e schiumosa. Mi girava un po’ la testa. «Se ti serve qualcosa, o se stai male, urla. Lei ti sentirà. E anch’io, ovviamente.»
Lo guardai per qualche secondo, indecisa su che cosa dirgli. Alla fine lui mi voltò le spalle e uscì dal bagno, senza lasciarmi tempo di parlare.
 
«Esci di lì! Subito! Ma sei cretina?»
Schizzai fuori dalla vasca da bagno bianca di Beck prima che potesse prendermi per i capelli. Senza niente addosso, riuscii ad uscire dal bagno, infradiciando tutti i pavimenti. L’anziana donna mi seguì, urlando più che mai. L’avevo combinata grossa, probabilmente, eppure a me sembrava di non aver fatto nulla di male.
«Piccola cretina... Cretina, vieni subito qui!» continuava a urlare, furibonda. Sembrava un vulcano pronto a esplodere. E per di più nemmeno sapevo che cosa volesse dire, “cretina’’.
«Tea! Giuro che se non ti fermi... Per te è... Finita!» sbraitò, col fiato corto. Era ancora in corridoio, io già in cucina. Afferrai uno straccio per coprirmi almeno un po’, un desiderio assurdo per un momento del genere. Assurdo, e inutile. Potevo coprirmi quanto volevo, ma non potevo nascondermi a lei. Quando Beck entrò, aveva con sé il mattarello con cui di solito cucinava o faceva la pasta. Io non l’avevo mai assaggiata. Non me l’aveva mai fatta assaggiare. «Vieni qui.» M’invitò, con voce accattivante. Un brivido mi percorse tutta. Il mio piccolo corpo tremò. Stava per succedere di nuovo.
 
«CALMA
Delle piccole mani mi tirarono fuori dall’acqua. Presi aria. Stavo urlando? Non me n’ero accorta. Mi ero addormentata nella vasca. Un altro incubo. Paura. Beck. Il mattarello. Degli occhi azzurri. Una bocca rosea. Nessun sorriso.
«Buon dio! Va tutto bene?»
Osservai con occhi sbarrati la madre di Ray, davanti a me. Era con metà corpo dentro alla vasca, e mi sosteneva fuori dall’acqua per le braccia. Doveva essere un bello sforzo, per lei: aveva un corpo così fino e magro, senza muscoli. Uguale al mio.
«Un... Un incubo» balbettai, portandomi le mani al viso. Pian piano il mio cuore cominciò a battere regolarmente. «Non sto male, lo giuro.» Non sto bene, lo giuro.
Lei esibì un piccolo sorriso. Grazie a dio non poteva entrare nella mia testa, non poteva sapere come stavo  davvero. «Ci credo, bambina. Sarà lo stress.»
In quel momento entrò Ray, calmo. Senza guardarmi – ero nuda –, passò alla madre un grande asciugamano ed uscì. Aveva un comportamento un po’ distaccato nei miei confronti, ma non riuscii a spiegarmi il perché. Che cosa gli avevo fatto?
«Su, alzati.» Mi ordinò la donna, uscendo dalla vasca. Quando fui in piedi l’acqua sgocciolò da tutte le parti, ma lei non si arrabbiò. Mi passò l’asciugamano, con uno sguardo dolce, mentre mi osservava senza giudicarmi il corpo. «Sei molto magra.» Constatò, fissandomi. Mi coprii tutta, sottraendomi al suo sguardo. «Per caso, hai voglia di vomitare? O magari l’hai già fatto?» chiese, guardandosi attorno. Andò verso il water e ci lanciò un’occhiata. Ma non avrebbe trovato nulla.
«No, no» risposi. «Anzi.»
«Mangiavi frequentemente, di solito? E cosa mangiavi?»
Arrossii, ma mi costrinsi a darle delle risposte. Voleva solo aiutarmi, mi dissi, guardando altrove. «Io rubavo. Ciò che capitava.»
Una dieta sana non era il mio problema principale.
La donna annuì un’altra volta. «Beh, ripeto: sei sana come un pesce, bambina mia! Vieni, ti aiuto ad asciugarti.»
 
Quando il rumore del phon m’impedì di sentire ciò che stava dicendo un uomo alla TV, riguardo ad un omicidio nei pressi di un negozio della città, mi alzai ed andai in camera mia. Quella ragazzina. I suoi occhi. Erano bellissimi! Non avevo mai, mai e poi mai visto occhi così profondi. Spettacolari. Ero felice d’averla aiutata. Sembrava così buona e così fragile. E volevo aiutarla ancora.
Quando l’avevo sentita urlare parole incomprensibili, mi ero subito messo a correre verso il bagno. Avevo avuto paura sul serio. Ma mia madre s’era messa in mezzo, entrando per prima. Aveva ragione, ovviamente: non potevo semplicemente entrare e vederla nuda, non me l’avrebbe mai perdonato. Così avevo atteso fuori dalla porta, con un asciugamano tra le mani. Fa’ che stia bene, mi dicevo. E alla fine stava bene, grazie a dio!
Il telefono squillò. Era sul mio letto, così mi avviai pigramente a prenderlo. Sul display c’era la foto di me e Rose, ed il numero che mi stava chiamando era «amore mio». Ovviamente Rose s’era salvata così nella mia rubrica; avrei dovuto cambiare subito quel nome.
Risposi dopo qualche squillo. «Pronto?»
Mi aspettavo di sentire Rose, magari in lacrime, rispondermi. Invece dall’altra parte della cornetta c’era un ragazzo. «Ray.»
«Ehi, Carlo!»
«No, niente “ehi, Carlo!”. Noi dobbiamo chiarire delle cose, idiota.»
Carlo era un mio grande amico. Nonché fratello di Rose. Già, mettermi con lei solo per avere più amici e popolarità era stata un po’ una pazzia, considerando l’amicizia che legava me e Carlo, ma alla fine mi ero convinto che non sarebbe accaduto niente. Come no.
«Chiarire cosa, esattamente?»
«Mia sorella, Ray.»
«E allora? Mi ha lasciato lei!» sbottai, sulla difensiva. Sì, mi aveva lasciato lei, ma anch’io da un bel po’ la stavo trattando molto male. «Non c’entro nulla.» mi discolpai, mentendo.
«Non l’hai nemmeno cercata, Ray. È stata... Cioè, sta malissimo, amico.»
«Senti, Carlo, non l’ho cercata perché...» è una troia. Non vale niente. Come diavolo fai a non rendertene conto? Non la sopporto più. Non l’ho mai sopportata. Sono come tutti i suoi ex, amico. «E’ da un po’ che non provo più nulla per lei.»
Silenzio. «Senti, Ray... Ti faccio una semplice domanda. Giuro che non m’incazzerò, qualsiasi cosa tu dica. Ma dì la verità, okay?»
«Devo anche prendere una Bibbia da tenere vicino al cuore, mentre rispondo? Giuro che dirò solo la verità, nient’altro che la verità» scherzai, ben sapendo cosa mi avrebbe chiesto. Per questo, mentre parlavo, incrociai le dita. Truffatore.
«Hai mai provato qualcosa per lei?»
«Ma certo, Carlo.» risposi subito, con un sorriso sornione che – grazie a dio – il mio amico non poteva vedere. Ho provato – e provo! – repulsione, irritazione, disgusto. Poco ma sicuro!
«Davvero?» esclamò, realmente sorpreso. «Va bene, d’accordo. Mia sorella è difficile da gestire, lo so...» commentò, quasi tra sé e sé. Eccome, se era difficile da gestire! La lasciavi sola un minuto e ti tradiva con altri tre ragazzi minimo! «Se t’interessa ancora, riprenditela.»
Oh, no. «Vedremo. Non credo, però. Voglio una pausa, in questo periodo sono un po’... incasinato». Eh già, la ragazzina del parco prima o poi si sarebbe rivelata un gran casino, lo sapevo già. E non m’importava.
«Bene. Ci vediamo... Lunedì?»
«Ma certo, e... Perché mi hai chiamato dal cellulare di Rose?»
Esitò, forse imbarazzato. «Beh... Volevo vedere se le avresti risposto, Ray.»
«E se non l’avessi fatto? Dì la verità, Carlo!»
«Sarei venuto a picchiarti» mi confidò. Oh, l’avrebbe fatto eccome! Carlo era un colosso di quasi due metri, mi avrebbe preso a pugni e mia madre avrebbe dovuto raccogliere i pezzi che restavano di me .
«A lunedì.» e riattaccai.
 
«Meglio, no?»
Annuii, stringendomi nei miei vestiti nuovi. Un paio di pantaloni di tuta troppo lunghi e larghi, ma comodi e confortevoli; una T-shirt dei METALLICA – non sapevo chi fossero, ma era bella; dei calzini a righe che mi calzavano a pennello.
«Chiamo Ray, ora. Tu stai buona qui.»
E chi si muove più?, pensai, guardando l’anziana uscire dalla camera dove mi trovavo, proprio quella vicino al bagno. Mi sistemai un po’ meglio sul letto, reprimendo l’istinto di schiacciare un ulteriore pisolino. Ora avrei dovuto parlare con la madre di Ray – ah, sarebbe stato comodo chiederle il nome, tra l’altro – e con lui stesso. Mi sentivo un po’ irrequieta. Non avrei mai potuto dir loro la verità. Perlomeno, non tutta la verità.
Quando Ray entrò per primo nella stanza, trasalii. Non mi ero resa conto d’essermi stesa e mi stavo già appisolando. Mi tirai su a sedere, imbarazzata, ma lui non commentò e si sedette alla scrivania, poco distante da me. Qualche secondo dopo entrò sua madre e si sistemò poco lontana da me, sul letto.
«Direi che è ora di fare le presentazioni, bambina.»
 
Direi che è ora di fare le presentazioni, bambina.
Annuii con forza. «Mi chiamo Tea. Il cognome non ce l’ho.»
Bugia: un cognome ce l’avevo. Ed era un cognome fin troppo importante per i miei gusti, che creava un peso troppo grande per me.
«Mi chiamo Ines.» Replicò l’anziana, allungando una mano verso di me. «E mi prenderò cura di te, almeno finché non sarai capace di farlo sola.»
«Io sono Ray» s’intromise il ragazzo, con voce seria. Mi osservò un lungo istante – i suoi occhi erano interrogativi, perplessi –, poi domandò: «La tua età?»
«La mia... Età?»
«Sì, Tea. Quanti anni hai?»
Mi piace come pronunci il mio nome... «Sedici...» balbettai, arrossendo. Sperai che nessuno dei due, né Ines né Ray, se ne accorgesse. «Ne compirò diciassette a luglio.»
«Luglio!» esclamò Ines, sorridente. «Che bel mese per nascere! E così, hai visto sedici estati, eh?»
Annuii un’altra volta. Ma non potevo non  notarli: i loro sguardi. Così scioccati. Così sorpresi. Sedici anni. Sì, ero piccola. E sì, ne avevo vissute tante. Scrollai le spalle, intimidita.
«Sono minorenne... Mi porterete da qualche autorità?»
«No!» esclamarono all’unisono.
«Sei stata fortunata che io t’abbia trovato e non un’autorità.» Chiarì Ray, passandosi una mano sul mento. «Qui... Sono tutti piuttosto severi.»
«Ma ti aiuteremo lo stesso, Tea. Ora, andiamo a fare la cena! Ray, tu hai allenamento?»
Il ragazzo annuì, guardando il suo orologio. «Sarà meglio che vada.» Commentò. «Ci vediamo.»
Sul volto di Ines apparve un sorriso fiero. «Fa nuoto. È bravissimo.» Mi spiegò. Poi, notando che lo seguivo con lo sguardo, imbambolata, aggiunse: «Lo vedrai domani, probabilmente. Vive da solo, sai.»
«Ah...» sussurrai. La delusione m’impedì anche d’imbarazzarmi, ma mi sentivo bene. Mi sentivo sicura, quasi a casa. Seguii Ines in cucina, dove preparammo cibo squisito. Lei mi raccontò della sua vita, di cos’aveva fatto da giovane e di suo marito, che non c’era ormai più. Non mi fece mai pesare il fatto che non accennai neppure una volta alle mie, di esperienze; l’unica cosa che le dissi fu che sapevo suonare il piano – Beck ne aveva uno e, quando non era a casa, io suonavo. All’inizio andavo proprio male, ma con il tempo affinai la mia tecnica. Ines fu molto entusiasta: anche lei aveva un pianoforte e così, dopo cena, suonai per lei.
Quella notte dormii benissimo, sentendomi al sicuro tra le lenzuola di un letto, finalmente.


NdA Sono gradite recensioni ** Grazie a chi segue la mia storia c:

 

 

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Capitolo 3
*** Four ***


Four
 
"Sei nata sola.
Vivrai sola.
Morirai sola."
 
La sveglia suonò alle sette in punto. Ines me l’aveva detto, con un sorriso divertito, che lei era molto mattiniera, e perciò lo sarei diventata anch’io. La verità era che non avevo mai badato agli orari, a parte per differenziare il giorno – stai ferma, non farti vedere – dalla notte – corri: devi rubare e mangiare. Quindi mi alzai senz’alcun problema, per nulla assonnata. Il giorno prima avevo dormito così tanto che bastava per tre giorni interi!
Poco più tardi Ines entrò nella mia stanza, sorridendo: «Oh, già sveglia? Uff, avevo portato le pentole da sbattere vicino alla tua testa!» si lamentò, quasi, suscitando le mie risate. Posò le due pentole sul comò vicino al mio letto e s’avvicinò a me con due lunghe falcate. Mi ispezionò gli occhi. «Hai fame? Giù ci sono caffè e brioche. Quante ne vuoi!» specificò, con un sorrisone.
Io annuii con forza. Stavo morendo di fame! «Sì, eccome. Credo che prima andrò al bagno, Ines.» Le dissi, con un tono un po’ troppo formale che la fece sogghignare. Ma non potevo farci nulla: non ero ancora abituata all’idea di avere amici e un letto dove dormire.
 
La mattinata passò in fretta e, a pranzo, arrivò anche Ray. Lo avevo atteso così tanto, quel giorno. Ogni volta che qualcuno aveva bussato alla porta, avevo subito sperato che fosse lui – non era mai stato così, ed avevo soltanto sentito Ines salutare qualche vecchia amica o il postino.
Quel giorno indossava una camicia bianca che gli faceva un fisico ancor più perfetto, e dei jeans attillati. La cosa che attirò maggiormente la sua attenzione fu il suo volto: un livido di notevoli dimensioni e di colore scuro campeggiava proprio sotto il suo occhio destro, sullo zigomo. Mi voltai subito ad osservare la reazione di Ines, curiosa: come avrebbe reagito una madre, in una situazione simile? Urlando? Cacciandolo via? Non lo sapevo, non potevo saperlo. Così restai lì silenziosa.
«Oh, Ray? Ma cos’è successo? Di nuovo...» borbottò l’anziana, avvicinandosi al figlio. Era molto più calma di quanto mi aspettassi. «Chi è stato?»
Ray sbuffò. Sembrava agitato. «Ma’ ... le solite cose! Ho rotto con Rose e Carlo è venuto a farmi capire ciò che pensava a riguardo! Niente di che...» Buttò là. Avevo l’impressione che mentisse. Tutto di lui lo dimostrava: il suo continuo spostare lo sguardo qua e là, quell’aria irritata e allo stesso tempo sgomentata, il mordersi le labbra in modo  quasi doloroso – non fissarle, Tea. Non. Fissarle.
Mi concentrai su Ines. Era tutto così nuovo, per me. «Ah, sì? Non è magari che hai ripreso a...» sussurrò, con voce titubante. Sembrava volergli dire “Ti prego, Ray, dimmi di no”. Di cosa stavano parlando?
«No, mamma! Ho smesso da tempo, lo sai. Cosa si mangia?!» sbottò velocissimo, sedendosi a tavola. «Ciao, Tea.» Aggiunse infine.
Arrossii. «Ciao». Il mio salutò sembrò fuori luogo. D’un tratto mi sentii la terza incomodo, a disagio, ma Ines non sembrò farci caso né nessuno me lo fece pesare, anzi.
Ines si infilò tra noi due a tavola. Il pranzo fu silenzioso e imbarazzante.
 
Quando tutti finimmo di riempirci la pancia con tutte quelle prelibatezze che avevamo cucinato, Ines s’alzò e, con un sorrisone, esclamò: «Bene, Ray! Oggi porterai un po’ in giro Tea. Tea, che te ne pare? Così conoscerai un po’ meglio la città, eh?». Sorrideva così tanto. Un sorriso così falso. Il mio cuore gelò: era tutta colpa di Ray! Di quello  zigomo nero!
«Oh... Sì, ma certo» balbettai. In realtà no... Non m’importava per niente. Sarei voluta restare là, con Ines.
Lei annuì, sollevata. «Obiezioni, Ray?» Ray. Sussurrò il nome del figlio come un’accusa. Come un “Ti conosco troppo bene, Ray”. O così mi sembrò.
Il ragazzo si alzò, con un sorriso di circostanza. «Ovvio che no. Tea, pronta?»
Balzai in piedi. «Sì, sì.»
Salutammo Ines un’altra volta, poi Ray mi aprì galantemente la porta d’ingresso – non potei fare a meno di fissare il suo livido –, ed uscimmo.
 
Camminavamo fianco a fianco, silenziosi. La città mi sembrava diversa, anche se in parte l’avevo già visitata mentre cercavo cibo. Alla mia destra c’era un negozio d’alimentari: là avevo preso – preso? Suvvia, avevo rubato! – del pane e succhi di frutta in gran quantità. La proprietaria mi aveva vista ed inseguita, minacciandomi. Non riuscì a prendermi: dopo solo pochi metri crollò a terra, a causa dei chili in più. Avanti, a sinistra, c’era un negozio di frutta Bio. Ne avevo rubata un po’, un giorno, scoprendo anche che non era proprio frutta Bio. Era soltanto frutta andata un po’ a male. Allora nessuno mi aveva scoperta, per fortuna.
Mi voltai verso Ray: «Io... Ehm, qui mi conoscono già in molti...» sussurrai, arrossendo vergognosamente.
Lui non ci badò. «Non ti faranno nulla, cuginetta.» Disse, serio. «Qui conoscono in molti anche me.» Ammiccò, mostrandomi i suoi muscoli allenati. Mi trattenni dal fargli notare in che stato si trovava il suo zigomo, preferendo sorridergli dolcemente.
«Non sono abituata ad essere aiutata...» bisbigliai, guardando dritta all’interno del negozio d’alimentari. Proprio in quel momento uscì la proprietaria ed incrociò il mio sguardo. Per un secondo sembrò non riconoscermi, poi s’allarmò e mi additò con fare cattivo.
«TU!».
Ecco, fatto. Avevo già rovinato ogni cosa.
D’impulso, strinsi la grande mano di Ray. Era calda, accogliente, sicura. Lui mi avvicinò a sé, senza capire. Quando gli indicai con un gesto discreto la signora che si stava avvicinando a noi a passo di carica, capì e mi strinse ancor più al suo corpo. Quant’era caldo.
«Ehilà, signora Rossi!»
Eccola là. La “signora Rossi”. Io l’avevo sempre chiamata “la cicciona’’, da dopo il nostro incontro-scontro. Aveva lunghi capelli biondi ed unti, un naso all’insù troppo grande per il suo viso e due occhi piccoli, simili a quelli d’un topo. Mi osservò attentamente, come per rivalutare la situazione.
«Ray, che ci fai con questa?» sbottò, puntando le mani sui grossi fianchi. Chissà quanto mangiava, ogni giorno? Magari anche più di dieci volte, mentre io avevo sempre mangiato una, due volte al massimo. Era un’ipocrita ed un’egoista. Al posto suo, io avrei aiutato una ragazza senza casa né qualcuno da cui andare.
«Signora Rossi... Perché si comporta così? Non crede d’essere un po’ troppo maleducata? E poi, esco con chi mi pare...» la zittì Ray, con voce sicura. La sua mano sul mio fianco bruciava. O ero io ad andare a fuoco?
«Ray! Questa bambinetta è una sporca ladra! Giusto l’altro giorno, mi ha derubata...» Cominciò, perdendo sempre più la sua carica sotto lo sguardo gelido di Ray. «...Consegnamela! La denuncerò.» Per un secondo – uno solo! – mi aspettai che mi abbandonasse alla signora Rossi. Che pensasse “Questa qui dà troppi guai”. Infondo, sarebbe stato molto più semplice mollarmi lì, come una scatola inutile, che portarmi con sé.
Ray irrigidì tutti i muscoli, pensieroso. Il mio cuore cominciò a martellare forte nel petto. «Signora Rossi, ma è sempre stata così maleducata? Santo cielo, dirò a mia madre di non passare nemmeno più da lei, visto che si comporta così sgarbatamente con mia cugina. Sta pure raccontando sciocchezze sul suo conto! Sa in che guai potrebbe cacciarsi, eh?»
La signora Rossi sbiancò. Ray era stato bravissimo a rigirare il coltello dalla parte del manico verso di lui. «Tua... è tua cugina, Ray? Oh, santo cielo! Potrai mai perdonarmi?» Lo supplicò, con occhi tristi. Poi si rivolse a me, ancora titubante. «E tu, piccola...»
«Mi chiamo Tea...» bisbigliai, sentendomi un po’ in ansia. Le stavamo dando colpe che non erano sue, ma d'altronde... Era necessario.
«Oh, dolce Tea! Puoi scusarmi? Dico sul serio, mi dispiace. È che quella ragazzina era così simile a te... Ad ogni modo, me ne ricorderò... E vi tratterò meglio al negozio, lo giuro, ma venite ancora da me...» Stava quasi frignando. Ne andava del suo lavoro.
Ray le diede una pacca sulla spalla, senza mollarmi mai. «Oh, se è così... Certamente, signora Rossi! È stato un errore, no?»
«Sì!» squittì lei. Non riuscii a guardarla. Non avevo mai dovuto mentire, ed ora..., beh, faceva male. «Lo è stato, sì. Mi scuso ancora... Tea...»
Scrollai il capo, guardandomi i piedi. «Sul serio, non c’è problema.»
Poco più tardi la signora Rossi rientrò nel suo negozio, piangendo amaramente. Il suo personale la guardò stranito, ma la giornata proseguì. Io mi sentivo male, tremendamente male.
Ray se ne rese conto dopo poco. «Non starci male. È stato necessario.»
Guardai il suo volto. Il suo zigomo tumefatto. E le parole mi uscirono sole di bocca: «Tu menti così spesso, Ray? È così facile per te... Ti riesce sempre così bene? Proprio come prima, con Ines... Fai sempre così?»
Il ragazzo s’arrestò. Sfilò via la sua mano dal mio fianco, con un’espressione cupa. Provai subito una sensazione di gelo e mi insultai mentalmente da sola: Idiota! Sciocca! Ficcanaso!
«Bene... Se è così che mi ringrazi per averti aiutata, sarà meglio che torni a casa, sporca ladra.» Pronunciò, con voce monotono. Guardava davanti a sé, mostrandomi il suo profilo perfetto.
Boccheggiai più volte. Non riuscivo a respirare, ero terrorizzata. Ma l’orgoglio m’impedì di scusarmi. Provai con un altro approccio, abbassando la cresta.
«Non ti stavo accusando...»
«Ah, no?!» sbottò irritato e deluso, interrompendomi. Improvvisamente si voltò verso di me e mi scontrai con le sue iridi sempre più azzurre e sempre più scure. Sarei potuta affogarci, lì dentro. Volevo farlo, in quel momento.
«Ray... Dico sul serio! È tutto così nuovo per me... Non so quando tacere o no...» Scusa. Riuscii solo a pensare quell’ultima parolina. Sarebbe stato così facile pronunciarla, ma non ci riuscii.
«Lo vedo! È palese, Tea! D’ora in poi sarà meglio se taci, intesi? Ci sono cose che ti riguardano, ed altre no. Sì, ti stiamo aiutando, ma non per questo sei al centro dell'attenzione! Non penso a te giorno e notte, né mai lo farò!» ringhiò, con voce roca.
«Ray...» SCUSA!
«No, niente ‘Ray’. Va’ a casa, Tea.» Mi liquidò, cominciando a camminare. Pensai di seguirlo, ma non sarebbe stata una buona idea; avrei rischiato di peggiorare tutto, mandare in frantumi quel poco che s'era salvato.
Mi lasciò lì.
Sola.
Senza nessuno con cui sfogarmi, piangere, ridere, 
vivere.
Come sempre.

Ehilà! Come al solito, grazie per tutte le vostre recensioni! Più siete e meglio è, ho bisogno di leggere i vostri pareri!
A proposito, volevo chiedervi un favore: se vi va, potreste indicarmi alcune storie davvero Belle (con la "b'' maiuscola!) che posso trovare qui su efp? Possono essere ff o anche originali ( preferisco le ultime), ma devono essere Belle Belle Belle. Grazie a chi lo farà! Potete mandarmi un messaggio privato, dirmele per recensione o contattarmi su instagram!
A tal proposito vi ricordo le mie pagine:
Tylergagaperry, dove posto perlopiù citazioni ed è quella più affine al mio profilo efp;
Lamialadradilibri, un'altra mia pagina sulla letteratura. 
Se vi va' seguitemi! :) 

A presto, meme1 (ps: il mio nickname dovrebbe venir aggiornato al più presto con ilrespirodeilibri )
 

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Capitolo 4
*** Five ***


Five

Lavanda.
Diffidenza.


Osservai la figura di Ray scomparire tra la folla, impassibile.
Non riuscivo a capacitarmene. L’avevo fatto scappare. Non ero cambiata per niente, dunque.
Stavo ancora osservando la sua lunga schiena, quando una mano si posò pesantemente sulla mia spalla. Era una mano grande, tozza ed umida.
Mi voltai di scatto, con gli occhi sbarrati. «Cos...»
Davanti a me, la signora Rossi sorrideva in modo arcigno. «Ciao, Tea».
Mi rilassai un poco, ma il mio sesto senso mi consigliò di restare comunque all’erta. Mi aveva riconosciuta, lo sapevo. Ed aveva riconosciuto anche la bugia di Ray, sebbene fosse stata magistrale e davvero convincente.
«Signora Rossi». La mia voce tradì l’ansia crescente nel mio corpo. Per quanto mi stessi sforzando di rimanere serena, non ci riuscivo.
«Devo darti una cosa. Su, seguimi» m’invitò, con un sorriso enigmatico. Si voltò, andando verso il suo negozio. I suoi fianchi si muovevano in modo bizzarro, scoordinato.
Avrei dovuto seguirla? L’avrei di certo insospettita ancor di più, scappando, ma non riuscivo a smuovermi dal posto. Mi sentivo sola, così insicura e vulnerabile.
Alla fine, riuscii a riprendermi e la seguii. Probabilmente s’era bevuta la bugia e voleva soltanto darmi un regalo, o chissà cos’altro, per farsi perdonare e non perdere clienti.
La trovai alla cassa, che salutava un cliente. Conoscevo a memoria quel negozio – a destra c’era uno scaffale di dolci che avevo tanto desiderato rubare e, infondo, si trovava una porta per accedere ai magazzini.
«Ce ne hai messo di tempo!» mi apostrofò, con un sorriso. Aveva ancora gli occhi un po’ gonfi e rossi. Aveva pianto.
Mi rilassai. Sì, si era bevuta la bugia di Ray. Cugini, certo. Sì.
«Scusi, signora. È passato un mio amico e l’ho salutato». Mentii!
Mentire è così facile. Inizi e non smetti più. Mentire è come una droga, è come il vino più buono del mondo: non puoi più farne a meno!
E così feci anch’io. Mentii. Un macigno sul cuore.
La signora Rossi annuì, venendomi accanto. L’ultima cliente uscì dal negozio. «Sai, Tea, non si direbbe ma io sono un’amante dei fiori. È proprio così» cominciò, parlando quasi tra sé e sé. «So tutti i loro significati! È o non è affascinante?».
Annuii, sinceramente coinvolta: «Oh, lo è eccome!» esclamai, mentre il mio volto s’illuminava d’interesse puro. «Anche io ne so qualcosa, lo sa?»
Lo sapevo perché ad una signora, una volta, era caduto a terra un piccolo fascicolo. Era un donna sui trent’anni, bella, che stringeva a sé un bambino. Io mi ero avvicinata, guardinga. Avevo raccolto il libretto, osservando tutt’attorno a me. Non c’erano testimoni e, così, me la squagliai via. Quel libro s’intitolava “I fiori ed i loro significati”. L’avevo letto e riletto fino allo sfinimento, imparando  molte nozioni su ogni tipo di pianta. Adoravo il linguaggio dei fiori.
«Davvero? Bene! Oggi ti darò un fiore, Tea. Tu però guardalo a casa».
Scossi il capo su e giù. Sì, certo. Quella storia mi intrigava. La signora Rossi sparì nei magazzini e, pochi minuti dopo – minuti nei quali osservai i dolci vicino alla cassa, esitante. Rubare o non rubare? In realtà non avevo fame. Né  bisogno. Non rubai – tornò con qualcosa stretto tra le mani.
Mi passò delicatamente un tovagliolo arrotolato, osservandolo con amore. «Ecco, tieni. Ora va’ a casa, Tea!».
Era innegabile che la signora Rossi fosse un po’ fuori dal comune. Ma d'altronde nemmeno io ero l’esempio maggiore di normalità, così non feci commenti ed uscii dal negozio, svelta.
 
Tornare a casa di Ines fu più facile del previsto. Conoscevo già quella parte di città, ed in pochi minuti mi ritrovai davanti al cancello di quella che avrei iniziato, prima o poi, a vedere come casa mia. Tenevo stretto il fiore arrotolato nella carta e non vedevo l’ora di conoscerne il significato, così suonai il campanello velocemente. Qualche minuto dopo una figura esile mi aprì.
«Tea! Ciao! Com’è andata? E tu, Ra... Oh... E Ray? Ti ha lasciata sola?!».
Avanzai fino a lei a passo di carica. Scossi il capo. «Oh, no! Sono stata un po’... indiscreta, con lui, così ho deciso di tornarmene a casa. È stato un po’ imbarazzante.»
Quella non era una bugia, neanche un po’. Mi sentii subito più tranquilla.
Ines si scostò per farmi entrare. Infilai piano il fiore in tasca, desiderando di avere ancora il manuale sul significato dei fiori. Purtroppo però l’avevo perso da tempo, ormai, nei miei continui spostamenti.
«Oh, buon dio. Cosa gli hai detto, bambina mia?»
Oh. Ora avrei dovuto mentire. Non potevo dirle la verità, avrei rovinato la vita a Ray. Guardai il pavimento, sconcertata. «È stata colpa mia ... Gli ho chiesto perché ha rotto con la sua ragazza, Rina...» borbottai, andando a ripescare tra i ricordi della mattina.
«Ah, Rose»  mi corresse Ines. Mi portò in cucina, dove aveva fatto il tè. «Ti perdonerà, sai. Ma è stato sciocco allontanarsi da lui, Tea! Potevi perderti, sai».
Sorrisi malinconicamente. Sì, come no. Perdermi. Avevo vagato così tanto per la città, prima di trovare il parco, che non mi sarei mai potuta perdere.
 
«Ray! Vuoi giocare un po’, eh?»
Guardai stizzito Mike. Lui ricambiò il mio sguardo, senza capire.
Davanti a me c’erano tre ragazzi: uno era Mike, gli altri non li conoscevo. Stavano giocando a poker, puntando tutto ciò che avevano. Sospirai, sedendomi vicino al mio amico. «No, Mike. È meglio di no».
Scoppiò a ridere. Il suo alito d’alcol e sigarette mi stordì. «Ah! È per ‘sta notte, eh? Dài, non prendertela. È solo che il boss era un po’ infastidito dalle tue troppe vittorie».
«Lo so, Mike».   
«E poi quell’occhio nero ti dà un’aria da bello e dannato...» Rise ancora, sguaiatamente. «Sul serio, ti dona!».
Sorrisi. O meglio, ci provai. «A me dona tutto».
Mike riprese a giocare ed io mi alzai, andando verso il bar. «Una birra.»
La cameriera, una bionda tutte curve e molto sorridente, mi passò un bel bicchiere pieno. «Oh, oggi non c’è Rose?» cinguettò, sbattendo le ciglia. Io mi sedetti sullo sgabello davanti a lei, annoiato.
«Eh, no».
Ridacchiò. «Ah! È perché avete rotto, è così?»
«Eh sì. Come sei perspicace!»
Scambiò la mia affermazione acida per un complimento, e scoppiò a ridere sempre più forte. «Dài, Ray! Così mi fai morire!».
Che pena. Che degrado.
Bevvi un generoso sorso della mia birra, avvicinandole i soldi. «Rose non si farà vedere per un bel po’, secondo te?»
Sbarrò gli occhi azzurri. «Eh no! Non senza di te!» commentò, divertita.
Rose mi aveva fatto conoscere quel locale clandestino, “Dream”. Lei era sempre voluta andarci, ma era troppo piccola, così io l’avevo accompagnata. Una volta, poi due, tre, quattro. Ed erano iniziati i casini.
Cercai di non pensarci, sorridendo languido a quell’insulsa cameriera. «Ottimo. Così starò un po’ in pace».
Lei scoppiò in un altro scroscio di risa. Io continuai a bere la mia birra, poi un’altra ed una ancora.
 
Il pomeriggio passò lentamente. Ines non mi mollò per un minuto, così il fiore rimase tutto il tempo nella tasca anteriore dei miei jeans.
Mi raccontò che, mentre io e Ray eravamo fuori, era venuta una sua vecchia amica che abitava in Asia. Le aveva portato molti souvenir e l’aveva invitata ad andare da lei per un po’.
Ines, con un’espressione sincera, mi domandò: «Vorresti accompagnarmi? L’invito è per il mese prossimo o giù di lì».
Il cuore mi balzò nel petto. Emozionata, sussurrai: «Oh, Ines! Sarebbe stupendo! Ma non ho documenti, né altro...»
Lei mi fece l’occhiolino, alzandosi «Sistemeremo anche quello. Ora su, aiutami a sistemare la cucina!»
Ray non cenò con noi, ma non riuscii a sentirne la mancanza, troppo emozionata per la prospettiva del viaggio.
Andare in Asia! Viaggiare, scappare lontano! Stupendo!
Rimasi sveglia con Ines fino alle dieci e mezza – guardammo un programma in TV molto avvincente, o così sembrò a me: non avevo mai guardato cose simili in vita mia.
Quando finalmente fui sola, infilai una mano in tasca. Il mio cuore tamburellò forte nel petto.
«Su, dai!» m’incitai, curiosa e spaventata al tempo stesso.
Tirai fuori l’incarto del fiore. Con mani tremanti, lo liberai dalla carta che lo avvolgeva.
Per un secondo rimasi immobile, boccheggiando in cerca d’aria.
Poi il fiore mi cadde a terra.
LAVANDA.
La signora Rossi mi aveva regalato della Lavanda.

Buongiorno donzelle, come state? Io sarei dovuta uscire un po', ma diluvia a intervalli regolari, quindi eccomi qui a scrivere <3 (contente?!).

Questo è un capitolo assai interessante, ci sono molte novità.
a) Ray è un bad boy !
b) Si parte per l'Asia?
c) Lavanda.

Come avrete già letto dal titolo, lavanda = diffidenza. Ma non solo. In realtà ogni fiore ha più significati, sta a noi scegliere quello più affine alla situazione.

Qualche capitolo fa qualcuno di voi mi aveva chiesto se mi ero ispirata a "Il linguaggio segreto dei fiori" per questa storia. Ebbene sì, ma solo in parte: infatti sarà totalmente differente dal libro, sappiatelo.

Ps. il mio nickname dovrebbe venir cambiato in "lamialadradilibri", ma non so bene quando ... Vabbé. A me basta non chiamarmi più meme1 :c *che nickname di merdaa*

Sono ASSOLUTAMENTE gradite recensioni, commenti, pareri (anche negativi, sia chiaro!)

Spero di leggerne un bel po'

meme1 (ancora per poco, si spera muahahaha)

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