Megonia

di Carlos Olivera
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Epilogo ***
Capitolo 15: *** Extra ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


1

 

 

In tutta Celestis non c’era vascello più splendente del Megonia.

Ultimo ritrovato nel campo dell’ingegneria aerospaziale, era nato inizialmente come vascello militare, ma a seguito dell’approvazione delle nuove limitazioni sugli armamenti orbitali l’aeronautica amalteca aveva deciso di riconvertirlo ad uso civile, facendone la nave da crociera più lussuosa ed innovativa che si fosse mai vista.

Essendo nata come nave da guerra non raggiungeva le dimensioni delle altre sue sorelle battenti bandiera di Caldesia, di Eyban o di Alepto, ma ciò nonostante era considerata la più bella astronave che Celestis avesse mai prodotto.

Con cinque ponti passeggeri, tre ponti equipaggio e due ponti macchine, il Megonia aveva una capacità d’imbarco pari a cinquemila persone, ovvero circa la metà della maggior parte degli altri velieri, ma ciò nonostante restava la nave da crociera più ambita, soprattutto dalla nobiltà e da tutti coloro che in Generale potevano permettersi di tirare fuori i soldi necessari.

La sua forma lunga e affusolata, simile ad un veliero vero e proprio, la rendeva agile e veloce, oltre che esteticamente più bella della maggior parte delle altre navi civili, che in nome di una maggiore capacità d’imbarco finivano talvolta per apparire pesanti, quasi sciancate, con quei loro lucernari mastodontici e le ampie vetrate che somigliavano a gigantesche gobbe di cammello.

Il Megonia di vetrate panoramiche ne aveva solo una, una scintillante cupola non troppo alta che emergeva elegantemente dalla fusoliera color panna, proprio sopra il grande salone centrale su cui confluivano, attraverso varie balconate disposte ad altezze regolari, tutti i ponti passeggeri; vi si poteva arrivare con un ascensore apposito, che partendo dalla base della possente scalinata che collegava tra di loro i vari balconi permetteva di raggiungere quello più alto, da dove si aveva la miglior vista possibile, ma più in Generale lo spettacolo offerto dal cosmo era più o meno ammirabile da tutti i punti del salone, oltre che dalle numerose altre vetrate disposte un po’ dappertutto in tutti i punti della nave.

A poppa, enormi e suggestivi barbigli emergevano dalla chiglia, protendendosi ben oltre il bordo poppiero da cui sbucavano le turbine a propulsione; rassomigliavano alle ali di un angelo, ed in effetti a ciò in un certo senso servivano, fungendo all’occorrenza da sostegno alle vele solari che protendendosi da barbiglio a barbiglio potevano essere dispiegate in qualunque momento.

L’unico neo era costituito dalla torre di comando, in cima alla quale vi era il ponte ufficiali, che svettando proprio sopra la vetrata panoramica ne limitava un po’ la visuale, ma la sua stessa figura, così possente ed aggraziata, con quella cupola trasparente a svettare sulla sommità, in un certo senso costituiva un ulteriore elemento di fascino.

Il Comandante del Megonia, Gerome La Hire, era uno dei più capaci ufficiali che la marina amalteca avesse mai avuto, e lo provava il fatto che malgrado non avesse ancora compiuto cinquant’anni gli era stata messa in mano l’ammiraglia della flotta civile, un privilegio che fino ad anni recenti era stato riservato solo ad arzilli ufficiali alle soglie della pensione.

Conosceva la nave come le sue tasche, le voleva bene come ad una figlia, ed aveva il massimo rispetto e stima di tutti i suoi uomini, a cominciare dal Primo Ufficiale Alex Shawn.

Insieme avevano condotto il Megonia attraverso le più disparate rotte del sistema solare, ma quella salpata all’inizio dell’estate dell’Anno Solare 170 era una crociera molto speciale.

La destinazione, la luna minore Erithium, non era insolita; insolito era semmai lo spettacolo che i ricchissimi passeggeri imbarcati in quell’occasione erano sul punto di godere da una prospettiva di assoluto privilegio: la Nascita di Erithium.

Ogni cinquantanove anni, era stato stimato, a seguito di un particolare allineamento di Celestis e dei suoi due satelliti, i raggi del sole colpivano direttamente Erithium invece della sua sorella maggiore, illuminandolo in modo ancor più violento del solito e facendo così scintillare come non mai i suoi vasti giacimenti di krylium; ma il vero spettacolo era un altro, perché comportandosi come una lente Erithium proiettava un cono di luce verso Neos, la cui l’atmosfera contenente la polvere di krylium che la gemella disperdeva ininterrottamente attorno a sé provocava una vera e propria pioggia di luce: questa poi andava a ricadere proprio sul Mare di Venere, un immenso cratere naturale la cui forma richiamava, per l’appunto, una figura umana con le braccia protese verso l’alto, facendola risplendere di quella stessa luce azzurra che come una stampa di stagliava ben visibile sulla superficie bianco-grigiastra.

Uno spettacolo assolutamente impagabile, e che oltretutto, verificandosi sulla faccia nascosta di Neos, risultava invisibile dal pianeta, lasciando a chi non aveva migliaia di Kylis da investire in un biglietto evento per un viaggio unico al mondo la magra consolazione di poterlo seguire alla televisione grazie alle immagini dei satelliti.

Certo, navigare nello stretto cunicolo che separava le due lune, tra detriti e correnti gravitazionali anomale, non era impresa da tutti, ma nulla che l’esperto Comandante La Hire non sapesse gestire, e la sera prevista per il grande spettacolo tutto era assolutamente in ordine.

Il ristorante di prima classe sul ponte principale, addobbato per la festa, sembrava il salotto buono di un palazzo reale, tra gioielli, vestiti sfavillanti, cibi e bevande di lusso e tanti, tantissimi volti noti; della politica, dello spettacolo, dello sport. C’era perfino qualche rappresentante della MAB, la cui autorità a livello internazionale negli ultimi anni era in rapida e continua ascesa, tanto da aver trasformato Caldesia, la sua roccaforte, nel faro politico ed istituzionale dell’intero pianeta.

La contessa Johanna Sauchel, fresca moglie in seconde nozze di Balthus Weilmann, Conte di Bonnestal e Cavaliere dell’Ordine Coloniale di Amaltea, era impegnata come al solito a bisticciare con la figliastra Hilda, otto anni e un temperamento peperino ereditato dalla madre, la compianta contessa Weilmann; al tavolo da poker sulla balconata superiore Richard Song, giocatore professionista di Ebridan, stava spennando a dovere gli ingenui di turno, trovando in Philippe Reynar, vicesindaco di Kyrador, il primo vero avversario da qualche anno a quella parte; Georg Gullit, sommelier con trent’anni di esperienza, faceva la spola da un tavolo all’altro consigliando ad ogni nutrito gruppo di commensali il vino più adatto alle rispettive esigenze, perdendosi in lunghe conversazioni inerenti al suo fantastico lavoro; Raoul Montero, umile cameriere di seconda categoria, si godeva per quanto possibile quel piccolo momento tra i grandi del mondo, insperatamente guadagnato grazie a quella fastidiosa febbre parainfluenzale che già dal quarto giorno di viaggio aveva preso a fare vittime tra lo staff, personale di sala compreso.

«Signore e signori!» annunciò la specialissima animatrice della serata, la famosa attrice e cantante Ashley Tunderscott «Sincronizzate gli orologi! Mancano esattamente cinque minuti alla Nascita di Venere!».

Il pubblico intero si alzò dai propri tavoli pronto a brindare, e mentre al centro del salone il timer iniziava a scandire i secondi Ashley Tunderscott annunciò l’arrivo del Comandante La Hire in persona, che come in un gioco di prestigio comparve da un istante all’altro sul palco in un turbinio di suoni, luci e vapore, sotto applausi scroscianti.

«Buonasera, gentili ospiti» disse facendo loro un rispettoso inchino. «Vi ringrazio per essere intervenuti così numerosi, in quello che è un evento che ad oggi in pochissimi sono stati in grado di osservare in prima persona.» quindi, iniziò a raccontare. «Secondo la leggenda, Venere, la dèa della bellezza, nacque da una conchiglia, emergendo dalla spuma del mare.

La sua bellezza era tale che non appena posò gli occhi sul mondo, questo si riempì di luce e di colore, e tutte le forme di vita intonarono canti di gloria per la venuta della dèa.

I nostri antenati che vivevano sulla Terra coniarono questa leggenda per celebrare la grandezza e la bellezza del mare, ma anche in ossequio ai molti misteri ed al fascino che esso esercitava in quanto distesa sconfinata tutta da esplorare.

Oggi, molte cose sono cambiate, ma la leggenda è rimasta la stessa. L’infinità del mare è stata sostituita da quella del cosmo, la conchiglia è diventata grande come una luna; ma Venere, la Dèa della Bellezza che porta la luce e la gioia nel mondo, lei continua ancora a rinascere, oggi come allora.

E quindi, è giunta per noi l’ora di salutare la sua nuova rinascita, e di ringraziarla per le infinite meraviglie che riempiono il nostro mondo.

Salutiamo la Nascita di Venere!».

Ad un cenno del Comandante, le immense vetrate del ristorante vennero scoperte dall’abbassamento dei pannelli protettivi, giusto in tempo per assistere in diretta all’arrivo del primo raggio di sole, che rimbalzando su Erithium colorandolo di azzurro vivo puntò diritto verso Neos, prendendo a delineare in modo sempre più nitido la figura di Venere che, come nel mito, emergeva dalla sua conchiglia nel mezzo dell’oceano stellare, benedicendo tutto e tutti.

Gli applausi per il Capitano furono presto sostituiti da grida di esclamazione, e quasi tutti si affrettarono a raggiungere il miglior punto d’osservazione possibile accalcandosi davanti ai vetri.

Le altre navi, che non potevano vantare la stessa affidabilità del Megonia, erano costrette a rimanere più lontano, e così per quei pochi fortunati si trattò di un’esperienza quasi da favola, da raccontare negli anni a venire a nipoti e pronipoti.

Anche il Capitano, che come tutti assisteva alla Nascita di Venere per la prima volta in vita sua, cercava per quanto possibile di godersi quel momento, quando una chiamata inopportuna sul suo comunicatore disturbò la sua contemplazione proprio sul più bello.

«Cosa c’è, Shawn?» rispose

«Comandante, scusi se la disturbo» disse dalla plancia il Primo Ufficiale «C’è qualcosa che non và nella sala dei server di controllo. Non riusciamo a metterci in contatto con Oskar e Wilbur.»

«Staranno godendosi il momento come tutti gli altri. Non è il caso di preoccuparsi.»

«Lo pensavo anch’io, le comunicazioni si sono spente di colpo, e poco prima che succedesse Oskar ha detto che Wilbur si stava sentendo male».

Il Comandante rimuginò contrariato, masticando imprecazioni varie.

Quella dannata febbre che era spuntata proprio nel momento sbagliato, e se non fosse stato per le direttive provenienti dalla compagnia che avevano tassativamente proibito il ritorno in porto avrebbe immediatamente ordinato di virare la rotta alle prime avvisaglie di una probabile epidemia.

I medici di bordo avevano parlato di una banale influenza, neanche troppo aggressiva, ed era anche per questo che la compagnia non se l’era sentita di annullare quella che si proponeva di essere la crociera del secolo, pena la perdita di fiumi di soldi tra biglietti, cause legali varie e diritti televisivi per il documentario che si stava girando.

Se non altro isolare i contagiati, quasi tutti dell’equipaggio, nelle proprie cabine o nell’infermeria si era rivelato efficace, perché dopo di allora i nuovi casi erano sensibilmente calati, ma occorreva affrontare rapidamente ogni imprevisto, anche per evitare che i passeggeri scoprissero cosa stava accadendo.

«D’accordo, vado a controllare».

 

Dileguatosi rapidamente, senza dare nell’occhio, La Hire prese l’ascensore di servizio fino al Ponte H, e percorso un lungo corridoio raggiunse infine la porta che immetteva nella sala centrale di controllo.

Qualche anno prima un pazzo aveva cercato di prendere il comando di una nave da crociera per commettere un eclatante atto di protesta, e da allora le norme di sicurezza che regolavano l’accesso alle zone più sensibili e vitali, dal ponte di comando alla sala macchine, erano state severamente amplificate.

La sala centrale era il cuore della nave.

Da lì si poteva controllare qualsiasi cosa, dagli impianti di alimentazione ai sistemi di sicurezza ed emergenza, fin’anche alla distribuzione dell’ossigeno, anche se quest’ultima era comunque dotata di sistemi di emergenza che le permettevano di funzionare in modo autonomo in caso di necessità.

Così come per il ponte, la sala macchine e altre zone calde, l’accesso era regolato da un codice di sicurezza, noto solo al personale che lavorava in ogni singolo settore. Solo il Comandante aveva i codici di tutte le zone, quindi per La Hire non fu un problema ottenere l’accesso.

L’interno, dominato al centro dal nucleo di memoria, che come una gigantesca clessidra svettava verso l’alto tramutando la stanza in una sorta di grande anello, era stranamente scuro, e tutte le luci apparivano staccate, ma i monitor dei computer e gli altri sistemi sembravano tutti operativi.

Il silenzio era totale.

«Wylbur. Oscar.» disse il Comandante addentrandosi nell’oscurità «Tutto ok?».

Nessuno rispose.

«Mi hanno chiamato dal ponte. Hanno detto che vi siete spenti di colpo. È successo qualcosa?».

D’improvviso, qualcosa di unto e scivoloso fece slittare in avanti il piede di La Hire, anche se grazie ai suoi riflessi il Comandante riuscì a restare in piedi.

«Al diavolo!» brontolò contrariato «Che avete fatto, avete pisciato per terra?».

Più per caso che per vera volontà l’occhio del Comandante andò a trovare il responsabile di quel fuori programma, ma come il suo sguardo riuscì a fendere il buio al suo interno comparvero uno sgomento ed un terrore senza confini.

«Oh, mio Dio…».

 

Il dottor Mark Curtis aveva trattato altre volte casi di epidemie sviluppatesi a bordo di navi da crociera o vascelli mercantili, e la sua condotta era sempre stata esemplare.

Tutti coloro che avevano contratto quella strana febbre erano stati confinati nella zona di quarantena del Ponte C, nei pressi dell’infermeria della nave, da dove non era loro consentito uscire vista anche l’estrema facilità di contagio.

I malati accusavano febbre, un po’ di tosse e dei dolori addominali, ma niente di particolarmente serio, tanto che qualcuno era già stato dimesso non appena i sintomi più evidenti si erano affievoliti, e dopo l’iniziale superlavoro anche il vario personale infermieristico aveva iniziato a tranquillizzarsi.

La situazione si era a tal punto tranquillizzata che il dottore aveva anche trovato il tempo di seguire a sua volta la Nascita di Venere dalla vetrata dell’infermeria assieme ai suoi collaboratori.

«Toglie il fiato, davvero.» disse il dottore, che non si stancava mai di ammirare le meraviglie che il cosmo era in grado di offrire.

Ma d’improvviso, proprio nel bel mezzo dello spettacolo, il suo comunicatore e quelli di tutti i presenti presero a suonare come tanti allarmi.

«Presto, dottore!» urlò un infermiere entrando nell’infermeria quasi sfondando la porta «Ci sono problemi!».

Quello che Curtis trovò tornando nella zona di quarantena, però, andava oltre qualunque cosa si sarebbe mai potuto immaginare.

Da un momento all’altro, e per ragioni inspiegabili, quasi tutti i pazienti erano improvvisamente peggiorati. Una semplice febbre si era tramutata di colpo in una intensa vampata, i dolori addominali in spasmi lancinanti, e le urla di dolore erano tali da risultare assordanti.

Alcuni poi accusavano tremendi dolori alla testa, altri ancora arrivavano a tossire litri di sangue minacciando di soffocare.

«Soluzione Beta e venti unità di tirvazina, subito!» sbraitò il medico buttandosi sul paziente più vicino, un’addetta alle pulizie tra i primi a venire contagiata.

Ma fu tutto inutile.

Mark vide quella poveretta arrivare quasi a spezzarsi la schiena in preda a tremende convulsioni, vomitarsi addosso tutto il sangue che aveva in corpo, quindi, rivolti gli occhi all’indietro, spirare senza vita sul suo letto con un’espressione spaventosa, urlante, e a nulla valsero i tentativi di rianimarla col defibrillatore.

«Fanculo!» urlò Mark fracassando a terra una siringa di vetro.

Quasi contemporaneamente, le urla che riempivano la stanza echeggiando dai vari stanzini recintati da tendaggi si acquietarono o scomparvero del tutto, come se tutti quei poveri sventurati si fossero coordinati per arrivare nello stesso istante all’appuntamento con la morte, improvvisa ed implacabile.

Avvinto, come ogni altra volta che aveva visto un paziente morirgli davanti, il dottore fece per dirigersi dove vi era ancora bisogno di lui, quando d’un tratto, come per incanto, un tintinnio riecheggiò nello stanzino.

Voltosi verso i macchinari, però, Mark si accorse che di magico quel suono non aveva nulla; semmai, era altamente inquietante.

L’elettrocardiogramma era assolutamente piatto, come si conviene ad una persona defunta, ma di contro l’elettroencefalogramma, dopo aver taciuto per un po’, aveva preso a segnalare attività cerebrale in corso; era debole, ma c’era, e con il passare dei secondi, invece che acquietarsi, sembrò prendere vigore.

Com’era possibile?

«Ma che diavolo…»

 

Riavutosi dallo sgomento, ma con una strana paura nel cuore che montava sempre più, quasi a volerlo mettere in allarme, il Comandante La Hire seguì, dapprima con gli occhi e poi a piccoli passi, quella innaturale linea rosso opaco, che come una mano di pittura su un muro scolorito risaltava sul grigio del pavimento metallico, avventurandosi sempre più in profondità verso il centro della stanza.

Poi, indistinto, si udì un suono, come di qualcosa che si strappava, solo pochi passi più in là, oltre il cuore dell’impianto che copriva la vista; La Hire vi girò attorno, i nervi tesi e le tempie rigate dai sudori freddi, ma ciò che vide andava ben oltre la dimensione del tollerabile, scivolando in quella dell’incomprensibile, oltre che dell’orrore.

Oskar era a terra, morto, gli occhi fuori dalle orbite e la bocca innaturalmente aperta, aperto come un animale da macello, gli intestini scoperti e anneriti dal contatto con l’aria; e Wilkins, il suo amico Wilkins, era sopra di lui, le mani affondate nel braccio destro ridotto ad un moncherino e il viso, mostruoso, completamente nascosto dal suo sangue, impegnato a spolpare la parte di osso ancora attaccata al corpo come un leone farebbe con la propria preda.

La Hire era così atterrito e sconvolto che non gli riuscì di parlare, né di muoversi, almeno fino a quando Wilkins non sollevò gli occhi accorgendosi della sua presenza. Per fortuna, da esperto combattente ed eccellente soldato quale era, i suoi riflessi erano più che attenti, così quando Wilkins, con un’agilità ed una forza quasi innaturali, gli saltò addosso con espressione demoniaca, fu abbastanza rapido da riuscire ad afferrarlo, evitando di venire azzannato alla gola.

«Wilkins, che stai facendo?» urlò tentando di allontanarlo.

Ma il marinaio non rispose, limitandosi ad emettere sinistri gemiti e rantoli da animale, mentre imperterrito continuava a tentare di vincere la presa della sua vittima nel tentativo di morderla, tanto che alla fine La Hire non ebbe altra scelta: afferrata saldamente la testa di Wilkins vi esercitò tutta la pressione possibile, e finalmente quella specie di abominio, emesso un ultimo gemito, si accasciò a terra con il collo spezzato in più punti.

Il Comandante rimase a lungo immobile, atterrito dall’orrendo spettacolo che aveva davanti, ma poi, cercando di richiamare a sé tutto l’autocontrollo di cui disponeva, si avventò subito sui sistemi di controllo per dare l’allarme.

Anche la consolle era imbrattata di sangue, e alcune parti erano danneggiate; doveva esservi stata una lotta davvero feroce, che Oskar aveva perso solo dopo avervi profuso tutte le energie di cui disponeva.

«Ponte di comando, mi sentite?» disse aprendo il collegamento diretto col ponte dopo aver ripristinato del tutto le funzioni operative

«La ricevo, Comandante.» disse Shawn apparendo sul monitor «Cosa è accaduto?»

«Shawn, contatta subito il dottor Curtis. Massima priorità. È accaduto qualcosa a Wilkins. Temo che quella che abbiamo a bordo non sia affatto una semplice influenza. Dobbiamo…».

La Hire non ebbe il tempo di finire la frase.

Con gli intestini quasi completamente a penzoloni, un braccio ridotto ad un moncherino e varie altre ferite in tutto il corpo, Oskar si avventò sul suo Comandante proprio come aveva fatto Wilkins, gli occhi neri come la notte e la faccia ridotta ad una maschera demoniaca; questa volta La Hire, colto alla sprovvista, venne sopraffatto quasi subito, e come se una sfilza di paletti gli fossero stati violentemente piantati il corpo si vide portare via un’intera porzione di spalla all’altezza del collo, prendendo a spruzzare fiumi di sangue sotto lo sguardo, attonito ed impotente, del suo secondo.

Nel venire buttato in avanti il Comandante azionò inavvertitamente l’altoparlante, e così tutti, nei ponti passeggeri come nel resto della nave, poterono udire le sue urla spaventose, da far gelare il sangue, mentre Oskar gli strappava letteralmente la carne dal corpo un pezzo per volta.

Con la forza della disperazione La Hire si buttò all’indietro nel tentativo di allontanare Oskar, che nel mentre gli era di fatto salito in groppa in preda alla sua famelica furia, ma perso l’equilibrio rovinò senza scampo contro la sottile lastra di vetro protettivo che ricopriva il nucleo di energia, fracassandolo e finendo arrostito vivo assieme al suo aggressore per le scariche di energia che come una scossa elettrica folgorarono entrambi.

Il corto circuito si propagò in un lampo per tutta la nave, e da un istante all’altro nel salone delle feste tutti si ritrovarono al buio, con le sole luci di emergenza a fornire un po’ di chiarore.

A quel punto, il silenzio spaventoso generatosi al suono delle urla del Comandante attraverso i microfoni si tramutò in un coro di urla spaventate.

Gli inservienti e il personale di bordo tentarono di riportare la calma, e per un attimo sembrò che quella massa esagitata potesse in qualche modo venire controllata, ma la realtà era che la situazione era tutt’altro che semplice, soprattutto a causa dell’impossibilità di comunicare con il ponte di comando.

«Le linee sono isolate.» disse uno sollevando la cornetta, e visto che tra i membri dell’equipaggio presenti non ve n’era nessuno dotato di poteri magici non si poteva neanche ricorrere alla telepatia.

La situazione sembrava sul punto di calmarsi, quando da una porta chiusa, una delle molte che immettevano nel ristorante, prese a giungere un rumore strano, come di qualcuno che vi batteva per farsi aprire, attirando l’attenzione di quelli più vicini.

Questione di un istante, e i battenti furono praticamente divelti da cinque o sei creature abominevoli, quasi dei mostri, che senza indugio saltarono addosso agli ospiti più vicini, buttandoli a terra e prendendo a sventrarli con morsi ed unghiate, mentre quei poveri sventurati urlavano dal dolore implorando di essere salvati.

Da uno stato di calma apparente si passò al panico più totale, e tutti presero a correre in ogni direzione nel tentativo di salvarsi da quei mostri, che come uno sciame di mosche attirate da una carcassa stavano arrivando da ogni dove bloccando quasi tutte le possibili vie di fuga.

Nessuno o quasi si curava degli altri.

Quello che contava era solo salvarsi la vita.

La contessa Sauchel, nonostante tutto, tentò di tenere Hilda stretta a sé, ma la bambina approfittò di un momento di esitazione per divincolarsi e correre alla ricerca del padre, scomparendo a sua volta nella calca che nello stesso tempo trascinò letteralmente via Johanna verso una delle poche uscite sicure; Philippe Reynar riuscì a strappare una donna dalle grinfie di uno di quei mostri spaccandogli in testa una sedia, e aiutata la donna a rialzarsi la prese sottobraccio allontanandosi assieme a lei; Georg e Raoul si incontrarono nella ressa, con il primo che stortosi una caviglia e debilitato dall’età dovette appoggiarsi al secondo per riuscire a fuggire; Richard Song dovette trascinare via a forza una donna il cui marito era stato tra i primi a venire sbranato, riuscendo ad allontanarla dal cadavere giusto un attimo prima che questo si rianimasse cercando di assalirla.

Come nel salone, la stessa scena si ripeté praticamente in ogni angolo raggiungibile della nave.

I mostri seguitarono a crescere rapidamente di numero, e in poco tempo dilagarono in tutti i settori, dalle zone cabina al quartiere dei locali, dalle piscine al parco artificiale, facendo scempio di tutto ciò che avesse anche solo una parvenza di commestibile, inclusi gli esseri umani; di quella grandissima parte tra passeggeri ed equipaggio che non riuscì a mettersi in salvo alcuni, poco dopo la morte, si unirono agli assalitori, mentre altri, la maggioranza, finirono dilaniati prima ancora di potersi rialzare.

Nelle pubblicità e nei depliant delle agenzie di viaggio, il Megonia era decantato come un angolo di paradiso; ora, invece, era divenuto l’anticamera dell’inferno.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


2

 

 

Georg, nome in codice “Black Face”, diede fondo alla quinta tazza di caffè nel giro di una giornata, se di giornata si poteva parlare, sprofondando contrariato in una delle sedie dello stanzino attiguo all’area di addestramento.

A bordo della stazione spaziale l’orologio era l’unico strumento che permetteva di percepire lo scorrere del tempo, e tutto era sempre maledettamente uguale a sé stesso.

Da bravo amalteco, il Comandante Georg Klopfer amava le montagne, la vita all’aria aperta e la tranquillità della sua Otisa, una capitale per modo di dire che, come l’altro lato della medaglia di realtà quali Kyrador e Volgorad, all’evoluzione data da una spasmodica ricerca di nuove soluzioni sempre più avveniristiche ne aveva preferito una che coniugasse passato e futuro, lasciando alla pietra, al legno e al mattone il ruolo loro convenuto di strumenti con cui dare vita ad una superba città.

Lassù, invece, era tutto diverso.

La Stazione Spaziale Ares era ancora per buona parte in costruzione, con i soli distretti residenziali e qualche settore operativo già completati e attualmente in uso, ma nel giro di pochi anni la MAB contava di farne il proprio centro di addestramento personale per ufficiali e reparti d’elite.

Dopotutto, era per questo che Georg e la sua squadra erano stati convocati lassù.

Come reparto scelto sperimentale in servizio nella regione di Otisa avevano risolto diverse situazioni ingarbugliate, soprattutto inerenti ad occasionali incidenti EDA, e negli anni avevano viaggiato il mondo in lungo e in largo per addestrare altre unità e diffondere i loro metodi di intervento.

Ora gli era stato chiesto di portare questa loro esperienza di ingaggio e di intervento anche nello spazio aperto, dove erano stati inviati sia per addestrare un nutrito gruppo di reclute selezionate sia per sottoporsi essi stessi ad un nuovo programma di perfezionamento che sfruttava i limiti, ma anche le potenzialità, di un ambiente così proibitivo e particolare.

Certamente la sua era una squadra atipica, soprattutto per quanto riguardava la differenza d’età; Georg ormai viaggiava a passo spedito verso la cinquantina, mentre di contro dei suoi quattro inseparabili partner solo Vincent “Hawk EyeTrenton aveva già spento trenta candeline.

Jacob “Trigger” Keys si era fatto le ossa come tiratore scelto nella polizia; Helen “Sleeping Beauty” Castaldi, capelli insolitamente argentei e occhi verdi che tagliavano come lame, si era laureata a pieni voti all’accademia magica dell’agenzia; MayuTetsuMarufuji, un visetto rotondo da bambina dominato da lenti rotonde e folta ma corta chioma castano scura, veniva da una breve esperienza nel mondo delle esibizioni aeree, e nonostante i suoi ventisei anni portava una navetta da ricognizione orbitale con la semplicità di un’aeronave da turismo.

Ormai erano passati sei mesi dall’inizio del corso, e Goerg contava febbrilmente i giorni che mancavano al loro ritorno su Celestis, che come una sfera azzurra brulicante di vita si stagliava oltre la vetrata dello stanzino.

In quel momento stavano sorvolando l’isola di Zipangu, nell’estremo est, una delle ultime terre a venire colonizzata, ed il cui ingresso nelle Nuove Nazioni Unite risaliva ad appena un paio di decenni prima.

I conterranei di Mayu l’avevano voluta tutta per loro, perché dicevano di vedervi l’isola natale dei loro antenati sulla Terra, e tutti erano stati ben felici di lasciargliela; forse abbondava di giacimenti aurei, foreste vergini ricche di specie animali e paesaggi montani da mozzare il fiato, ma fra terremoti e continue eruzioni dei vulcani che la costellavano non poteva certo dirsi un’isola tutta quiete e serenità.

Intanto, lui e i suoi colleghi avevano iniziato a stendere le valutazioni per i vari membri del corso, ed in base al giudizio che avrebbero espresso per ciascuno di loro si sarebbero aperte le porte di un impiego in prima linea o di una bocciatura senza appello, perché per chi veniva escluso non c’erano seconde opportunità.

Un allievo in particolare aveva stimolato la curiosità e le aspirazioni del nerboruto e ciclopico Capitano amalteco; Klaus Krietzmann, da lui soprannominato Il Rosso per il colore acceso dei suoi capelli, aveva personalità, carattere e grande dedizione, oltre ad un’abilità sia come soldato che come stregone che non gli faceva difetto, ma a tutto questo faceva da contraltare un temperamento troppo scalmanato e focoso, che solo il rispetto della gerarchia riusciva in qualche modo a tenere a freno.

Lo aveva visto rischiare in prima persona per salvare un ostaggio, gettarsi a capofitto in una sparatoria per soccorrere i suoi compagni rimasti intrappolati, ma troppo spesso quella testa calda confondeva il coraggio con la sconsideratezza, mettendosi inutilmente in situazioni pericolose che nelle simulazioni potevano anche essere tollerate, ma che in battaglia rischiavano di rivelarsi molto pericolose.

«Giornata storta?» domandò Vincent entrando nella stanza con in mano una scodella piena di cereali.

«Se di giornata si può parlare. Se non avessi un orologio, probabilmente sarei uscito di testa tempo fa. E poi non sopporto questo postaccio angusto e stretto che puzza di metallo verniciato».

Il suo amico rise e si sedette, svuotando la scodella con poche cucchiaiate.

«Come fai a ingurgitare quella merda?»

«Ehi capo, non offendere i cereali Blueberry. I mirtilli fanno bene alla vista e affinano la mente.»

«Te li lascio volentieri.» e sbuffando il Capitano provò a bere il suo caffè, ma dovette farsi forza per non sputarlo disgustato. «Da quale pozzo di catrame tirano fuori questa schifezza? Se lo avessi saputo mi sarei portato dietro un po’ del nostro caffè amalteco

«Avanti, pensa che presto sarà finita. E poi, di cosa ti lamenti? Ci pagano profumatamente per fare da babysitter a queste matricole. Molto meglio così che schivare pallottole e scariche magiche sul campo di battaglia, no?»

«Dov’è finito il letale tiratore scelto che si lamenta per un centimetro di errore e mugugna se la missione finisce senza che abbia sparato?»

«Io sono come un senzatetto. Prendo quello che arriva, mi godo quello che ho, e spendo ogni singolo giorno succhiando dal capezzolo di questo mondo tutto il latte che posso.

Perché in fin dei conti, quelli come noi non sono mai sicuri di poter vedere il sorgere della prossima alba.»

«Nessuno può esserlo. Se così non fosse, vorrebbe dire che siamo tutti immortali».

Vincent replicò con un sorrisetto sarcastico, ma non per questo offensivo, e dopo pochi attimi il discorso venne interrotto dal trillare del comunicatore interno.

«Non si può neanche fare colazione in santa pace?» brontolò Georg vedendo apparire sullo schermo il volto tridimensionale del Sergente Castaldi.

«Desolata di fare la guastafeste, ma ci sono problemi in sala mensa, e temo avrò bisogno di una mano.»

«E chi devo ringraziare per questa seccatura?»

«Ti do tre possibilità, ma te ne basterà una».

Il Capitano si passò una mano sulla faccia contrariato.

«Krietzmann» sibilò, e assieme a Victor lasciò rapidamente la stanza.

 

Klaus con il suo atteggiamento un po’ sopra le righe e la tendenza a prendere fuoco per la cosa più piccola si era fatto parecchi nemici, e pur sapendo quello che poteva costargli si faceva trascinare in qualche scazzottata con una frequenza disarmante.

Quella mattina, memori della cattiva prestazione nell’ultima prova pratica, i membri di un altro team non avevano perso occasione per punzecchiarlo, e lui come al solito aveva risposto alle provocazioni con un vassoio del pranzo dritto sul naso.

Ne era nata così una rissa furibonda, con gli altri studenti che assistevano in disparte mentre Klaus si faceva riempire di botte, distribuendone però a sua volta.

Quando Georg, Vincent ed Helen arrivarono in mensa la situazione era degenerata già da diversi minuti.

Due di quelli che avevano cercato la rissa erano già nel mondo dei sogni, uno con la testa infilata in un forno a microonde aperto l’altro a terra con attorno i resti di una scodella di vetro che gli era stata spaccata sulla fronte; dei quattro superstiti, tre se la stavano vedendo con Klaus, mentre un quarto era tenuto a bada da Joe Debois, il fedele compagno di squadra del Rosso, atteggiamento gelido ma abilità da combattente quasi sovrumane; l’altra loro compagna, Amanda Gerth, assisteva impotente, lanciando di quando in quando inutili ed inascoltati richiami alla calma.

Vincent fece per intervenire subito, ma Georg inaspettatamente lo trattenne, almeno fino a quando Klaus, ormai esausto, non venne afferrato saldamente da uno dei suoi aggressori, mentre il terzo, il caposquadra Ulrich Drassimovic, un giovane Sottotenente eybaniano dal grande avvenire ma un po’ troppo incline alla superbia, lo tempestava ininterrottamente di pugni.

«Basta così!» si decise finalmente a comandare.

Tutti si misero sull’attenti, ma Klaus dovette essere aiutato da Amanda per rimettersi in piedi, anche se in presenza del Capitano il giovane si ostinò a rifiutare il supporto riuscendo, pur con molta fatica, a stare in piedi sulle sue gambe.

«La solita rissa di colazione, Krietzmann?».

Lui non rispose, sorreggendosi sull’attenti, ma quello che Georg leggeva ogni volta nei suoi occhi non gli piaceva per niente.

«Nel mio ufficio tra venti minuti. Prima però vai in infermeria a farti rimettere assieme.

Amanda, accompagnalo.»

«Sissignore.» rispose rispettosamente la ragazza.

Anche la squadra che aveva cercato la rissa, o almeno quelli di loro che assieme a Ulrich riuscivano ancora a contare fino a dieci, furono trascinati a rapporto, ma la lavata di capo che il Capitano intendeva riservare loro non era nemmeno paragonabile a quella che aveva in mente per Klaus.

 

Klaus si presentò in ufficio dopo qualche ora, trovando come al solito il suo superiore seduto alla scrivania, lo sguardo truce e l’espressione funerea, anche più del solito.

Aveva qualche livido in giro per il corpo, una fasciatura di poco conto all’avambraccio sinistro e ferita abbastanza seria sopra l’occhio destro mezzo tumefatto, che era stata chiusa con un paio di punti; la dottoressa Stern sapeva davvero fare miracoli con la sua magia rigenerativa e curativa, altrimenti per il turbolento Sergente il decorso, dopo tutte quelle botte, sarebbe stato decisamente più lungo.

Klaus fece il saluto, mettendosi sull’attenti.

«Sergente Klaus Krietzmann a rapporto, signore.»

«Cosa c’è che non funziona in quella tua testa bacata?» sbottò immediatamente Georg quasi capottando la scrivania nell’atto di alzarsi.

Con due passi fu appresso al suo allievo; Klaus non era certo un mingherlino, ma anche così sembravano Davide e Golia.

«Il tuo stato di servizio è a dir poco encomiabile. Hai partecipato a più operazioni ad alto rischio di ogni altro membro del tuo distretto, collezionando note di merito e riconoscimenti ufficiali.

Ciò nonostante, sei stato buttato fuori da quattro diversi corsi d’aggiornamento per la promozione ad Agente scelto, e ogni volta per lo stesso motivo. Scarsa disciplina, poco autocontrollo. E una preoccupante predisposizione ad alzare le mani. Ti avrebbero buttato fuori dall’Agenzia tempo fa se non fosse stato per le tue indubbie qualità, ma la fortuna è come il vento: non gira sempre nella stessa direzione.

Se solo ti dessi una regolata, se imparassi un accidente di disciplina, potresti arrivare ad ufficiale prima ancora dei trent’anni, battendo ogni record.

Giusto che non ho mai visto nessuno buttare via una promettente carriera come stai facendo tu».

Klaus ascoltava in silenzio, sempre sull’attenti, ma nei suoi occhi Georg poteva leggere varie diverse emozioni.

«Cerca di goderti quello che resta di questo corso, ragazzo» sussurrò tra i denti. «Non credo che ne vedrai altri».

Solo a quel punto Klaus ebbe una reazione, serrando i denti dietro le labbra appiccicate l’una all’altra e facendo roteare leggermente gli occhi come a voler evitare lo sguardo del suo superiore.

«Questo è tutto. Puoi andare, Sergente».

Fatto il saluto Klaus lasciò l’ufficio, apparentemente impassibile. Come fu lasciato solo, Georg si buttò nuovamente a sedere sulla poltrona, sospirando di delusione: dopotutto, si diceva, era anche colpa sua se quel ragazzo non era riuscito a sfruttare l’ultima opportunità che gli era stata data per mettersi in riga e raddrizzare la sua carriera.

Ma era destino che per quel giorno non gli fosse dato di potersi concedere un minuto di riposo per riordinare i pensieri.

«Capitano Klopfer.» disse un attendente apparendo in ologramma al centro della scrivania. «Il Direttore Shane vuole vederla.»

«Arrivo subito.» rispose il nerboruto istruttore.

 

Il Direttore Nathan Shane, Colonnello dell’aeronautica militare amalteca, era un uomo tutto d’un pezzo, di quelli che si erano fatti da soli ed amavano rammentarlo agli altri, anche solo ostentando la propria presenza.

Non era supponente né arrogante, cosa difficile a dirsi per qualcuno che partendo dal nulla era arrivato ad avere tutto o quasi, e proprio per questo i capoccia di Otisa lo avevano voluto come proprio alto rappresentante all’interno dell’Agenzia.

Forse la MAB aveva subodorato qualcosa, un’intrusione nelle alte schiere con il tentativo da parte di una realtà esterna di mettere il naso in questioni strettamente private; fatto sta che dopo pochi anni dal suo arrivo Nathan era stato sì promosso Direttore, ma subito dopo si era visto assegnare quell’incarico di Direttore del programma di addestramento avanzato ed era stato spedito in orbita a meno di due mesi dalla sua nomina.

Molti altri Direttori, soprattutto tra i suoi colleghi collaboratori, avrebbero pagato oro per un posto simile, che garantiva alti guadagni al prezzo di pochissimi rischi e rogne amministrative, ma per Nathan quello era come una sorta di limbo, una trappola in cui era stato rinchiuso perché non potesse nuocere.

Se non altro, aveva avuto la possibilità di scegliere personalmente i propri collaboratori, anche se non era sicuro che il Capitano Klopfer avesse gradito quella nuova sistemazione.

Ciò nonostante i due avevano profonda stima l’uno dell’altro, incentivata forse dal fatto di essere connazionali, e tenevano sempre in considerazione i rispettivi punti di vista, pur senza mai far venire meno la catena del comando.

Già il fatto di essere stato convocato in sala conferenze fu per Georg la conferma che doveva essere accaduto qualcosa, ma quando, una volta entrato, oltre al Direttore trovò ad attenderlo anche il Direttore Esecutivo Nolan, membro del Consiglio di Sicurezza dell’Agenzia, il ministro della marina mercantile amalteca Robson e il viceComandante dell’esercito di Amaltea Generale Loy, fu chiaro al Capitano che si trattava senza dubbio di una cosa seria.

Il Direttore Shane era in piedi, la sua adorata pipa chiusa in una mano ed il fare altero, quasi ascetico, da vero soldato; quanto agli ospiti, seduti attorno al tavolo ovale al centro della stanza abbastanza lontani l’uno dall’altro, Georg aveva già avuto modo di conoscerli in passato, ma dei tre l’unico che avesse mai incontrato in prima persona in più occasioni era il Direttore Quintus Nolan.

Facendo un paragone con il Direttore Shane, lui e Nolan erano come il diavolo e l’acqua santa; Nolan veniva da una famiglia prestigiosa, e la sua carriera gli era stata praticamente servita su di un piatto d’argento; aveva mancato per ben due volte la promozione a Direttore Generale, ma secondo i più il terzo tentativo sarebbe stato sicuramente quello buono. Non che questo lo si potesse considerare un bene; infatti, secondo Georg, la MAB aveva tutto da perdere nel mettersi nelle mani di un tipo simile.

«Benvenuto, Capitano.» disse Shane «Si accomodi.»

«Grazie, signore. Preferisco stare in piedi.»

«Sempre integerrimo e ligio al dovere, eh Klopfer?» domandò Nolan con una punta quasi di sarcasmo, cui il Capitano non parve fare attenzione

«Come preferisce. L’abbiamo convocata perché è sorto un problema inaspettato, e c’è bisogno di qualcuno che ci aiuti a fare chiarezza.»

«Sono a vostra disposizione, signori. Cosa posso fare per voi?».

I tre si consultarono con lo sguardo, e Robson in particolare sembrava quantomeno nervoso; fu lui a prendere la parola, quasi imbarazzato.

«Quattro giorni fa abbiamo perso i contatti col Megonia

«Perso i contatti?» domandò Georg un po’ incredulo. «Com’è possibile?»

«La nave si trovava nella zona d’ombra tra Neos ed Erithium per assistere alla Nascita di Venere. Avrebbero dovuto ripristinare i contatti due giorni fa, dopo essere usciti dal buco nero, ma da allora non siamo più riusciti a stabilire un collegamento.

Inoltre, il segnale lanciato dal tracciatore e intercettato dalle torri di controllo ha appurato che il Megonia si trova molto lontano dalla rotta prestabilita».

Al centro del tavolo comparve una proiezione tridimensionale delle due lune, con una linea verde tratteggiata a segnare la rotta del Megonia e un puntino giallo lampeggiante che invece ne indicava l’attuale posizione, al termine di una seconda linea sempre gialla.

«Le trasmissioni sono ancora parzialmente disturbate a causa della tempesta di radiazioni prodotta dalla Nascita di Venere,» spiegò Loy «ma l’ultimo segnale ricevuto indicava il Megonia in questo settore, ancora al limitare della zona oscura.»

«Per quale motivo dovrebbero trovarsi in un posto simile?» si chiese Georg «Quel settore brulica di detriti spaziali, e oltretutto sono pericolosamente vicini a Neos. Di questo passo rischiano di venire catturati dalla luna e schiantarcisi

«La rotta che si ritiene possa avere seguito è molto irregolare e discontinua.» disse Shane «È altamente probabile che in questo momento la nave stia andando alla deriva».

Non era la prima volta che capitava una cosa del genere, soprattutto in quella porzione di spazio.

Celestis ed il suo popolo erano lontani ancora anni luce dallo sviluppare una tecnologia che permettesse di ridurre significativamente la durata dei viaggi spaziali, e per quanto riguardava i tempi di percorrenza della rotta con la Terra i cento e passa anni della prima spedizione erano ancora immutati; tuttavia, grazie alla tecnologia del warp, che consentiva di percorrere notevoli distanze siderali in tempi relativamente ristretti azzerando la teoria della relatività e la curvatura dello spazio-tempo, era stato possibile se non altro esplorare vaste zone del Sistema Noesis, costruendo varie piattaforme e stazioni orbitali e anche qualche installazione terrestre per studi scientifici, seppur interamente gestita dai computer.

Non tutte queste realtà extraplanetarie però erano note alle forze di sicurezza, e con l’aumentare delle spedizioni, sia turistiche che commerciali, era ricomparso anche il fenomeno della pirateria, con bande di saccheggiatori che assaltavano occasionalmente vascelli civili e mercantili, arraffando tutto il possibile per poi dileguarsi e nascondersi in qualche stazione illegale, magari riadattata e rimessa a nuovo tra quelle non più operative.

«Pensate ad un abbordaggio?»

«È una delle ipotesi.» rispose il ministro Robson «Ma anche così c’è qualcosa che non torna.»

«Cosa vuole dire?»

«Come ha fatto candidamente notare anche lei,» disse Nolan col medesimo tono di poco prima «Quella zona è particolarmente pericolosa, quindi nessuna delle altre navi in transito nella zona è stata in grado di avvicinarsi a sufficienza da scorgere il Megonia.

Tuttavia, alcune di loro sono riuscire a scattare delle foto sufficientemente accurate, e analizzandole i tecnici dell’Agenzia hanno riscontrato che le scialuppe di salvataggio sembrano essere ancora tutte al loro posto.»

«Volete dire che i passeggeri potrebbero essere ancora a bordo?»

«È possibile, anche se non ci spieghiamo il perché.» disse Robson

«Ed è qui che entra in gioco lei, Capitano.» intervenne il Generale Loy «Sulla superficie si sta già preparando una spedizione di salvataggio, ma prima gli alti comandi dell’Agenzia e il governo di Amaltea vorrebbero capire bene cosa è realmente successo. A quanto ne so, della sua squadra fa parte anche un eccellente pilota. Vorremmo che lei e i suoi uomini raggiungeste il Megonia per accertarvi della situazione.»

«Con il dovuto rispetto signore, non sarebbe più semplice accelerare i tempi e inviare subito i soccorsi? Quella gente potrebbe avere bisogno di aiuto.»

«Lei deve capire, Capitano,» disse Robson, «Questa operazione costerà milioni e milioni di kylis. Le circostanze ci suggeriscono che potrebbe essere effettivamente successo qualcosa di serio, e dobbiamo considerare anche la peggiore delle ipotesi.

In base agli accordi gli armatori e le compagnie assicurative dovranno coprire le spese di soccorso, ma prima di poterlo fare vogliono avere un quadro chiaro della situazione. Spendere soldi non piace a nessuno, soprattutto se si parla di cifre a otto zeri».

Il Capitano aggrottò le sopracciglia e serrò i pugni; alla fine di tutto, si tornava sempre lì. Al denaro.

Il Megonia poteva sempre essere recuperato in un secondo momento, o nella peggiore delle ipotesi se ne poteva anche costruire un altro, a condizione ovviamente che non vi fossero dei naufraghi da salvare.

Ma lui e i suoi uomini erano solo soldati, e in quanto tali dovevano obbedire agli ordini.

«Ai vostri ordini, signori.» disse facendo il saluto «Farò mobilitare subito la mia squadra.»

«Avrà tutte le informazioni e l’equipaggiamento che le occorrono, Capitano.» disse il Direttore Shane «Troverà ogni cosa ad attenderla a bordo della navetta.»

«Sissignore. Grazie, signore.»

«Può essere soddisfatto, Capitano» intervenne ancora Nolan. «Avrà la possibilità di testare i suoi programmi di allenamento.»

«Signore!?» replicò Georg come confuso.

«Il Consiglio di Sicurezza caldeggiava da tempo la possibilità di mettere alla prova i suoi ragazzi, e questa occasione è capitata a fagiolo.

Quale modo migliore per farlo se non con una prova sul campo?».

Georg non aveva mai fatto venire meno il significato della catena del comando, ma in quell’occasione non se la sentì di stare zitto.

«Signore, questi ragazzi non hanno ancora completato l’addestramento. Non sono pronti per una prova di questo tipo, senza contare che molti di loro non hanno mai neppure partecipato ad una vera operazione.»

«Vale lo stesso discorso del ministro Robson, Capitano Klopfer» replicò Nolan col tono di chi non ammetteva repliche. «Questo programma sta costando una somma notevole all’Agenzia, e nel caso non l’avesse capito non siamo una società di volontariato.

Il Consiglio le ordina di portare con sé quattro dei suoi allievi. Potrà scegliere quelli che preferisce. Mi auguro sia consapevole che dall’esito della missione e dal rapporto che ne verrà fuori dipenderà il futuro del suo progetto.

E con questo, ho finito.

Buona giornata, Capitano».

Detto questo, e lanciato al Capitano un sorrisetto da far prudere le mani, Nolan scomparve come l’ologramma che era, seguito poco dopo anche dal ministro Robson e dal Generale Loy.

«So quello che stai pensando» mormorò il Direttore Shane. «Lo sto pensando anch’io.

Nolan è un maledetto arrivista, ma è anche il nostro capo, senza contare che, per quanto mi scocci ammetterlo, ha ragione. I nostri ragazzi sono qui per diventare dei soldati, non per mettersi in mostra davanti alle telecamere come quel bastardo arrogante.»

«Per quale motivo fanno intervenire noi?» replicò Georg tenendo lo sguardo basso. «Il Megonia è una nave di Amaltea. Perché non se la risolvono da soli?»

«Noi siamo la MAB, Capitano» rispose il Direttore quasi con astio. «Il nostro compito è garantire la pace e la sicurezza di tutti gli abitanti di questo mondo, e di proteggerli da ogni possibile minaccia.

Lo ricorda il motto della nostra agenzia, vero?».

Georg temporeggiò, poi con un filo di voce pronunciò le nove parole che capeggiavano in calce ad ogni stemma dell’Agenzia.

«Per la pace. Per il mondo. Per l’umanità.»

«Si prepari, Capitano. La missione parte alle dodici e zero zero

«Sissignore».

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


3

 

 

Georg si collegò un’ultima volta con la stazione spaziale per ricevere le ultime istruzioni dal Direttore Shane, che comparve nel monitor della navetta serio e impassibile come il Capitano non ricordava di averlo mai visto.

«Stando alle nostre ultime previsioni, seguitando per questa rotta il Megonia sarà catturato dall’orbita di Neos nel giro di ventiquattro ore, ma se il sistema di emergenza è ancora operativo entreranno in azione i razzi stabilizzatori che eviteranno una collisione.

Attualmente la nave si trova ancora nella zona oscura, quindi è probabile che perderemo il contatto. Stiamo cercando di creare un ponte radio usando alcuni satelliti meteorologici, ma dovremo aspettare che la zona si ripulisca delle particelle magiche presenti nella zona per riuscire a stabilire un collegamento.»

«Abbiamo una benché minima idea di cosa potremmo incontrare a bordo, signore?»

«Nessuna, Capitano. La zona oscura ci impedisce anche di accedere in remoto ai sistemi di sorveglianza e alla scatola nera.

Di fatto siamo completamente ciechi riguardo a quello che sta accadendo a bordo. È per questo che la stiamo mandando lì.

Appena possibile ci rimetteremo in contatto. Fino a quel momento, siamo nelle vostre mani.

Buona fortuna, Capitano»-.

In quel momento la trasmissione si interruppe di colpo, lasciando dietro di sé solo un fastidioso effetto nebbia.

«Siamo entrati nella zona oscura.» disse Mayu dalla cabina di pilotaggio.

Ora, erano soli.

Goerg tornò verso la zona di carico, dove il resto della squadra sedeva in silenzio sulle panche laterali, ognuno preso nei propri pensieri.

Per Vincent, Jaboc ed Helen era solo l’ennesimo lavoro, un’inezia se paragonata ad altri incarichi che avevano dovuto affrontare nel corso degli ultimi anni; Vincent e Jacob, da bravi tiratori scelti quali erano, se ne restavano ognuno per conto proprio, con il primo che pareva addirittura essersi appisolato su quello scomodo pezzo di metallo e il secondo che seguitava a giocherellare con la sua catenina d’oro cui era appeso il bossolo di un proiettile, un cimelio di cui nessuno, neanche i suoi compagni, conosceva il significato; quanto ad Helen, come molti altri maghi aveva l’abitudine di tenere da sé il proprio equipaggiamento, e l’ultima cosa che faceva ogni volta subito prima che la missione avesse inizio era ricontrollare le pietre magiche del suo armamentario, infilandole nel borsello alla cintura dopo averle eventualmente ricaricate.

Quanto agli allievi, anche loro sembravano stranamente calmi, forse perché quasi tutti avevano altro a cui pensare. Klaus e Ulrich non avevano fatto proprio i salti di gioia nel vedersi convocare entrambi, e trascorrevano il tempo a tirarsi delle occhiatacce oblique seduti l’uno di fronte all’altro.

Non era solo per dare una lezione a quella testa matta di Krietzmann che Georg aveva voluto selezionare proprio la sua squadra, oltre al suo peggior nemico, per quella missione; Amanda, che dei quattro sembrava l’unica davvero tesa e in ansia, se la cavava egregiamente con la magia curativa e gli incantesimi di supporto, Joe eccelleva negli scontri all’arma bianca e nel corpo a corpo, e Ulrich, che aveva studiato da tecnico operativo, aveva grande dimestichezza con l’informatica e l’elettronica. Tutti talenti che potevano tornare utili a bordo del Megonia, e a conti fatti loro erano gli unici cui il Capitano era disposto a concedere il benefico del dubbio, facendoli scendere in campo a così poca distanza dall’inizio dell’addestramento.

E poi c’era Klaus.

Klaus.

Georg voleva che vedesse; che vedesse con i suoi occhi cosa aveva buttato via con il suo atteggiamento. O forse, in cuor suo, voleva dargli una nuova, ennesima possibilità di dimostrare le sue capacità, come soldato e come capo.

«Molto bene, verginelle» disse richiamando l’attenzione delle reclute. «Questa è la vostra prima missione degna di questo nome.

So bene che per alcuni di voi non si tratta della prima esperienza sul campo, ma nonostante ciò vi invito a non dare nulla per scontato.

Ragion per cui, mente sgombra, culo stretto, e seguite le nostre disposizioni. In ogni caso, non credo sarà nulla di eccezionale.

Probabilmente hanno solo voluto vedere lo spettacolo troppo da vicino, e ci hanno rimesso i sistemi primari.»

«Ma allora, perché non hanno abbandonato la nave?» domandò Amanda

«Per fare lo slalom tra i detriti cosmici in un guscio d’uovo rischiando una collisione? Molto meglio restarsene al sicuro a bordo della nave. Tanto sapevano molto bene che, prima o poi, non vedendoli tornare qualcuno sarebbe andato ad aiutarli».

In realtà Georg era il primo a credere che una teoria tanto semplice potesse effettivamente essere vera, ma si augurava intimamente di essere comunque nel giusto, per il bene dei suoi ragazzi.

«Obiettivo in vista, Capitano.» disse di nuovo Mayu.

Georg raggiunse velocemente la cabina per vedere di persona, e qualche attimo dopo anche il resto della squadra poté scorgere dagli oblò la figura maestosa e misteriosa al tempo stesso del Megonia, che fluttuando alla deriva orbitava a poche migliaia di chilometri dalla superficie brulla di Neos, da solo, come uno dei tanti relitti che affollavano quel tratto di cosmo.

Sembrava davvero essere stata abbandonata, ed erano evidenti i segni degli urti avvenuti con tutta la spazzatura e i detriti che orbitavano tutto attorno al satellite principale di Celestis; nel complesso però lo scafo non appariva così compromesso, e probabilmente l’atmosfera interna era ancora intatta, una cosa che faceva ben sperare.

Tuttavia, le luci di posizione e quelle di segnalazione erano completamente spente, e come previsto anche l’illuminazione principale appariva disattivata, come se tutti i generatori e i sistemi di alimentazione della nave fossero stati interrotti.

Per un po’ mentre la navetta si avvicinava sempre più all’obiettivo, tutti rimasero in silenzio, domandandosi ognuno per conto proprio cosa mai potesse aver provocato un simile incidente.

«Puoi aprire un canale radio?» domandò Georg senza togliere gli occhi dal Megonia

«Credo di sì, solo un secondo.» rispose Mayu

«Non che mi aspetti qualcosa, ma tanto vale fare un tentativo».

Dal momento che le connessioni virtuali erano tutte disattivate l’unica soluzione era ricorrere ai sistemi analogici, anche se per poter stabilire un contatto fu necessario avvicinarsi ulteriormente al vascello, abbastanza perché il piccolo sistema radio della navetta fosse in grado di ricevere e trasmettere un segnale.

«Ponte radio operativo, Capitano. Può parlare.»

«Parla il Capitano Klopfer. Forze di sicurezza speciali della MAB. Mi ricevete, Megonia?».

L’altoparlante rimase muto, producendo solo un gracchiare confuso, e allora il Capitano provò una seconda volta.

«Siamo qui per accertare le vostre condizioni. Vi trovate in una zona ad alto rischio, e tutti i vostri sistemi principali sono spenti o danneggiati. Parlate, Megonia».

Ma di nuovo, non vi fu risposta.

«Sarebbe stato troppo bello» mugugnò Georg, che quindi lanciò un ultimo messaggio. «Megonia, se riuscite a sentirci, ora saliamo a bordo.

Mayu, dirigiti al ponte d’atterraggio.»

«Al volo, Capitano».

Come tutte le navi di grandi dimensioni anche il Megonia disponeva di un ponte d’attracco per vascelli medio-piccoli, che come una proboscide si allungava da una fiancata della fusoliera per consentire l’aggancio e allo stesso tempo preservare l’atmosfera.

Mayu condusse la navetta nel punto d’attracco, ma la attendeva una brutta sorpresa: un detrito, probabilmente un vecchio satellite, aveva centrato in pieno il ponte; le paratie di emergenza fortunatamente erano intatte e si erano immediatamente chiuse, ma di fatto quell’ingresso era praticamente inservibile.

«Accidenti.» sibilò la ragazza «Questa non ci voleva».

Neanche il tempo di brontolare per quello spiacevole imprevisto, che volgendo lo sguardo alle spalle Georg si ritrovò a tu per tu con il giovane Ulrich, terminale portatile alla mano e atteggiamento sicuro, ma comunque rispettoso.

«Possiamo accedere dal portellone della zona carico, signore.»

«E come?» chiese Mayu «Il loro sistema di energia e quello telematico sono entrambi disattivati. Anche intervenendo in remoto tramite hacking non c’è modo di poterlo aprire.»

«Possiamo intervenire manualmente attraverso i comandi di sicurezza per la manutenzione.»

«Manualmente!?» ripeté Georg «Vuoi dire andare fuori!?»

«Conosco questo genere di navi. Il sistema di apertura computerizzato probabilmente è fuori uso, ma il portello quasi sicuramente dispone anche di un’apertura automatica d’emergenza attivabile dall’esterno.»

«E se il meccanismo è protetto da un codice di sicurezza?»

«Lo posso bypassare. Ho già condotto simulazioni di questo tipo in passato.»

«Appunto, simulazioni.» lo interruppe il Capitano «Qui parliamo di un intervento vero, nello spazio aperto. Un minimo errore e farai la fine di un palloncino, senza contare che potresti finire catturato dall’atmosfera di Neos e andare giù come una meteora.»

«Posso farcela, signore. Mi circonderò con uno scudo protettivo. Le barriere non sono la mia specialità, ma me la cavo discretamente.

D’altronde, con il dovuto rispetto, non credo vi siano molte altre alternative.»

«Cos’è, stai cercando di fare l’eroe?» domandò provocatorio Klaus dal vano equipaggio

«Sta zitto, Krietzmann» lo ammonì il Capitano, che sbuffando si passò una mano sulla barba rada che ne circondava la bocca, per poi guardare nuovamente Ulrich. «Sei sicuro di poterci riuscire?»

«Sissignore.» rispose il giovane senza esitare.

Georg esitò, ma quasi subito si rese conto che effettivamente quella era l’unica soluzione attuabile; e visto che nessuno dei suoi compagni aveva mansioni da tecnico, l’unica era affidarsi a quel ragazzotto con manie di comando ma dalla volontà e dal talento riconosciuti.

Di certo, però, non gli avrebbe fatto correre un simile rischio da solo.

«Helen, và con lui.»

«Sissignore.» disse l’interessata alzandosi in piedi

«Grazie, signore. Non la deluderò.»

«Niente colpi di testa. Rimani appiccicato ad Helen, fa quello che devi fare, e raggiungici subito all’interno.»

«Agli ordini».

Mentre Mayu riposizionava la navetta il più vicino possibile alla zona desiderata del Megonia, i due interessati, indossati i caschi delle speciali tute da battaglia, si portarono quindi nella zona di sbarco sul fondo della navetta, con Ulrich che un attimo prima della chiusura del portello d’isolamento parve quasi sogghignare dietro il vetro opaco all’indirizzo di Klaus, il quale fu costretto ad ingoiare il boccone amaro sfogando la sua frustrazione con un violento pugno sulla parete.

«Mai fatto prove di volo nello spazio?» domandò Helen mentre dalla cabina veniva annunciato il countdown per l’apertura

«Centotre ore di simulazione, quindici di esperienza sul campo. Signore.» rispose Ulrich educatamente ma risoluto

«Niente male per un ragazzino».

Giusto il tempo per entrambi di circondarsi con uno scudo protettivo in grado di annullare ulteriormente gli effetti del vuoto cosmico, e i due agenti si ritrovarono fuori dalla navetta, a fluttuare nello spazio.

Normalmente per uno stregone era impossibile servirsi della magia nello spazio aperto, a meno di non ricorrere alle batterie energetiche come quelle installate nelle tute da combattimento, ma per un mago di buon livello era sufficiente trovarsi a poca distanza da un pianeta dotato di un Core attivo, come ad esempio Celestis, per sfruttarne l’energia senza per forza doversi trovare all’interno della sua atmosfera.

E Ulrich ed Helen, maghi di talento lo erano di sicuro; non per niente entrambi avevano i capelli argentati, un vero e proprio marchio che identificava gli stregoni virtualmente più potenti e capaci di tutti, in quanto dotati di un codice genetico molto più affine alla magia rispetto a quelli di chiunque altro, compresi i loro simili.

Entrambi non dovettero fare altro che immaginare di concentrare tutto il loro potere in un solo punto, e come se avessero avuto un jet pack invisibile montato sulla schiena i due presero a muoversi con sicurezza verso il loro obiettivo, raggiungendo in pochi minuti la superficie fredda e metallica del Megonia sotto gli sguardi attenti dei loro colleghi, che li osservavano dagli oblò della navette trattenendo il respiro.

Ulrich era così sicuro di essere sulla buona strada che non impiegò nulla a trovare prima l’esatta ubicazione del portello dell’hangar, e quindi il piccolo vano in cui erano celati i comandi per poterlo aprire. Come aveva previsto erano ancora operativi nonostante il blackout, e sempre come aveva previsto bypassare la password di sicurezza con il suo terminale fu un’azione sorprendentemente semplice.

Non lesinando una critica con il pensiero a chi aveva architettato una difesa tanto facile da scardinare il giovane decrittò il codice, e come per incanto il resto della squadra vide il portellone aprirsi lentamente dinnanzi alla loro navetta.

«Sarà pure uno sbruffone, ma sa quello che fa» non poté non ammettere Amanda.

Anche Georg restò positivamente colpito, e riavutosi dal momento di stupore ordinò a Mayu di puntare dritta verso l’obiettivo.

Una volta che la navetta, lentamente, fu entrata, Helen ed Ulrich non dovettero fare altro che entrare a loro volta e usare i comandi dall’altro lato per richiudere la porta sigillando nuovamente la stiva, che con l’entrata in funzione dei sistemi di decontaminazione e ripristino della gravità tornò ad essere perfettamente abitabile.

«Atmosfera stabile» disse Mayu subito dopo l’atterraggio. «Via libera, Capitano.»

«Molto bene, signorine. Tutti fuori. Mayu, tu resta qui ad aspettare. Ci terremo in contatto.»

«Agli ordini, signore. Mi ci voleva proprio un po’ di riposo».

Per un eccesso di prudenza Georg ordinò comunque a tutti di azionare il sistema di protezione montato dietro al collo, capace di costruire letteralmente il casco della tuta attorno alla testa dell’utente nell’arco di pochi secondi, quindi lui e gli altri, armi alla mano e ricetrasmittenti operative, uscirono all’esterno.

La stiva era davvero enorme, e a guardarla non risultava difficile immaginare per quale vero scopo fosse stata originariamente costruita; in una stanza di simili dimensioni avrebbero potuto trovare tranquillamente posto tre o anche quattro intercettatori da battaglia, inoltre come si era visto poteva essere facilmente isolata, e probabilmente era strutturata per poter mantenere gravità ed atmosfera anche con i portelloni aperti grazie ad un sistema di barriere magiche.

Ulrich ed Helen arrivarono pochi istanti dopo, e a Klaus toccò l’ingrato compito di passare ad Ulrich il suo fucile, ricevendo in cambio un: “Grazie” che sapeva terribilmente di beffa.

«Niente male davvero, ragazzo.» disse Georg lodando Ulrich. «Ora andiamo.»

«Sono d’accordo.» disse Vincent «Chiudiamo questa storie e torniamocene a casa».

Il team, serrati i ranghi, lasciò rapidamente l’hangar, dirigendosi a passo spedito verso le zone passeggeri.

All’interno il silenzio era spaventoso, ed il buio pressoché totale, fatte salve le varie luci di emergenza disseminate qua e là, che riuscivano solo a rendere l’atmosfera ancor più spettrale.

Tramite una scala di servizio, Georg e la sua squadra salirono fino ai livelli superiori, raggiungendo prima il Ponte F, quindi, attraverso una seconda rampa, il Ponte C, che a rigor di logica, tra i negozi, le zone divertimento e tutto il resto, doveva essere il più affollato della nave.

Ma in giro non c’era nessuno.

La tensione salì rapidamente, e dopo aver percorso parte della strada in modo sostanzialmente tranquillo, molti membri della squadra iniziarono a provare una certa ansia, le armi alzate e le dita sui grilletti.

Le torce montate sul fondo della canna fendevano l’oscurità, ma tutto ciò che illuminavano erano sfarzosi corridoi, eleganti negozi, pareti affrescate e decorate, pavimenti in marmo pregiato, senza alcuna traccia di una presenza umana.

In compenso c’era uno strano odore, piuttosto acre, come di qualcosa andato a male, che impestava varie zone di quelle che il team si trovò ad attraversare.

Odore di morte.

Quando arrivarono ai grandi portoni, stranamente chiusi, che immettevano nel ristorante panoramico, gli animi erano già abbastanza tesi, compresi quelli di alcuni dei membri più navigati ed esperti della squadra.

Vincent e Joe si appiattirono contro il muro, Georg e Jacob rimasero in copertura; anche Klaus cercò di alzare il proprio fucile, ma Georg lo fermò prima ancora che potesse pensare di farlo.

«Sta calmo, fiammetta. Lascia fare a noi.»

«Ma, signore…».

Ma protestare era del tutto inutile, e così, per l’ennesima volta in pochi minuti, Klaus dovette farsi da parte masticando imprecazioni.

«Forze speciali MAB, stiamo entrando!».

I quattro agenti si scambiarono un cenno, e al via libera del Capitano, Vincent e Joe aprirono violentemente la porta, entrando per primi seguiti quasi subito dal resto dei compagni.

Il ristorante era come tutte le altre zone viste fino a quel momento: vuoto.

Ma c’era anche dell’altro: lì dentro era il caos più completo; tavoli, sedie, perfino i lampadari. Sembrava che fosse passato un ciclone, tanto il locale appariva sottosopra, ma ciò nonostante il silenzio, anche lì, era pressoché totale. Nessuna traccia di forme di vita.

I membri della squadra si guardarono attorno e tra loro, attoniti, e per la prima volta dopo tanto tempo Georg sentì uno strano brivido freddo salirgli lungo la schiena.

«Che sta succedendo?» chiese Amanda con gli occhi sbarrati. «Dove sono spariti tutti?».

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


4

 

 

I membri della squadra si guardarono attorno, non riuscendo a capacitarsi di ciò che avevano dinnanzi agli occhi.

Il Megonia, la nave più esclusiva che si fosse mai vista, sembrava essersi trasformata in un vascello fantasma, svuotato di tutti quegli industriali, conti, magnanti e altri pezzi grossi che sborsando cifre improponibili per i comuni mortali si erano voluti regalare quel viaggio da sogno.

Nessuno, neppure Georg, sapeva cosa pensare, e la situazione divenne ancor più angosciante quando Vincent, avventuratosi nel cuore della stanza per cercare di capire meglio cosa avesse provocato quella baraonda, trovò in terra una macchia rossa dall’origine inequivocabile.

«Qui c’è del sangue» disse tastandolo.

Fu come il suono di un allarme, che, semmai ve ne fosse stato bisogno, fece salire ulteriormente la tensione.

Una dopo l’altra, a ben cercare, non fu difficile localizzare altre pozze più o meno grandi in vari punti della sala.

«Mio Dio, c’è sangue dappertutto» mormorò Ulrich.

Georg sentì nuovamente quel brivido.

A questo punto, la teoria dell’attacco pirata non appariva più così campata per aria; ma se questa era la verità, che ne era stato dei corpi?

Perché dei pirati, interessati solo a fare soldi e scappare a tutta velocità prima dell’arrivo di qualche pattuglia, avrebbero dovuto prendersi il disturbo di fare una strage tra i passeggeri, e fare oltretutto sparire i cadaveri?

La cosa si stava facendo paradossale, e tra i giovani il nervosismo era evidente.

«Ma si può sapere che diavolo è successo qui?» si domandò Klaus «Dove sono spariti tutti?»

«È una cosa senza senso.» disse Amanda «Niente corpi, solo sangue.»

«Datevi una calmata!» ordinò perentoriamente Georg. «È proprio per scoprire cosa è successo che ci hanno mandati qui, ricordate?

Se voi signorine vi lasciate impressionare da così poco non sopravvivrete cinque minuti. Quindi ora mente sgombra, culo stretto e sangue freddo, mi sono spiegato?»

«Sissignore.» risposero i cadetti, ma nessuno con vera convinzione

«Bene» replicò Georg fingendosi soddisfatto. «Come prima cosa, cerchiamo di capire se questa bagnarola può ancora funzionare. Dobbiamo tirarla fuori da questo cono oscuro, così potremo ripristinare il contatto con Celestis.

Drassimovic e Trenton, alla sala di controllo. Debois e Castaldi, ponte di comando. Keys e Gerth, salone principale e ponti passeggeri. Io e Krietzmann esploreremo i livelli inferiori e la stiva.

Tutto chiaro?»

«Sissignore!» dissero tutti in coro

«E allora forza, chiappe in spalla! E teniamoci in contatto radio!».

 

Quasi ogni punto della nave poteva essere raggiunto attraverso varie rampe di scale, alcune pubbliche altre riservate al personale, ma vi erano zone, soprattutto quelle di alta sicurezza, accessibili solo tramite ascensori a riconoscimento.

Tra queste zone vi era la sala di controllo, a cui si accedeva per mezzo di un ascensore che scendeva direttamente al Ponte H. Teoricamente questi ascensori “sensibili” dovevano poter funzionare anche in caso di guasto all’alimentazione principale, ma visto come erano ridotti i sistemi del Megonia, Ulrich e Vincent non nutrivano grandi speranze di trovarlo ancora attivo.

Ma la fortuna, una volta tanto, aveva voluto essere dalla loro, e raggiunte le porte sul Ponte B i due agenti si avvidero che l’ascensore, incredibilmente, funzionava ancora.

C’era solo un piccolo problema.

«Sarà anche in grado di muoversi, ma come lo usiamo?» mugugnò Vincent indicando il pannello di sicurezza. «Senza una di quelle carte di riconoscimento questo affare non si muove, e non so tu ma io non ne ho nessuna sottomano.»

«Non serve la carta.» rispose Ulrich collegando il suo terminale e prendendo subito a lavorare.

Nel giro di quindici secondi, il sistema fu bypassato, e le porte dell’ascensore si aprirono placidamente davanti a loro lasciando Vincent con gli occhi sul fondo del naso.

«Basta un buon computer.»

«Ora capisco perché il Capitano ti ha voluto per questa missione» sorrise Hawk Eye «Forza, dentro».

Con l’ascensore scesero fino al ponte desiderato, ma anche qui trovarono ad attenderli solo oscurità, silenzio e nessun’anima viva.

«Qui diventa sempre più inquietante.» osservò Vincent, che con il mirino ad infrarosso del suo fucile cercò di fendere l’oscurità meglio di quanto non facessero le torce.

Lungo il corridoio, come previsto, non vi era nessuno, ed in lontananza si poteva scorgere la porta della sala controllo.

«Via libera, procediamo».

A rigor di logica, anche quella porta avrebbe dovuto essere saldamente chiusa. Ma piuttosto del fatto di trovarla allentata quanto bastava da poterne aprire manualmente le ante a colpire i due agenti furono più che altro le condizioni in cui era ridotta: accatastati in un angolo vi erano una mazza, uno scalpello di fortuna e vari altri attrezzi da scasso, e le due ante della porta erano state visibilmente percosse con una certa violenza, tanto che la chiusura ermetica alla fine doveva aver ceduto sotto il peso di tutti quei colpi.

Inoltre, il lettore di tessere sembrava disattivato, il che probabilmente era ciò che aveva spinto chicchessia a tentare quella misura disperata.

Vincent buttò un occhio all’interno, e il vedere scintille che sprizzavano di quando in quando da una fonte non meglio identificata fu come la prova evidente che lì dentro doveva essere accaduto qualcosa di serio.

«Non promette nulla di buono. Prudenza».

Ulrich si appoggiò al muro, e ricevuto il via libera dal partner aprì fulmineo la porta permettendogli di entrare per poi varcare la soglia a sua volta; fecero irruzione fucili alla mano, già pronti a rispondere a qualunque minaccia, ma tutto ciò che trovarono fu il nucleo centrale con la parete protettiva divelta e apparentemente in pieno corto circuito, oltre ad una quantità abnorme di sangue che come un tappeto rosso ricopriva non solo il pavimento, ma anche e soprattutto la console di comando.

«E questo cos’è?» domandò Vincent, che pure era abituato a spettacoli di quel genere. «Il mattatoio della nave?».

Per nulla impressionato da quella scena cosi macabra Ulrich mosse una mano sopra le pozze di sangue, facendole scomparire nel nulla sia dal nucleo di memoria che dalla console.

«Allora non sei solo un nerd da computer, dopotutto.» rise Vincent, che poi rivolse la sua attenzione sul nucleo. «Sembra conciato piuttosto male. Ora mi spiego perché qui è andato tutto all’aria.

Pensi di poterlo aggiustare?»

«Non con i mezzi che abbiamo» rispose il giovane, già intento ad armeggiare con i computer. «Ma forse posso ripristinare alcune funzioni isolando le zone danneggiate del sistema operativo.»

«Ah, capisco» rispose Hawk Eye, che in realtà non ci aveva capito niente.

Come Ulrich provò ad avviare il computer, però, tutti gli schermi si illuminarono di rosso.

«Che succede?»

«Accidenti. Sembra che tutti i firewall siano attivi. Qualcuno deve aver provato a forzare l’accesso.»

«Probabilmente la stessa persona che ha fatto il diavolo a quattro per entrare qui dentro, dovunque sia finita.»

«Ci vorrà un po’ per riuscire a violarli tutti. Tu intanto mettiti comodo.»

«Certo, come no? Mi farò un pisolino. Tanto qui non sta succedendo niente di che, giusto?».

 

Di tutti i cadetti che aveva avuto occasione di conoscere e addestrare nelle tecniche di infiltrazione e contrasto silenzioso in cui era maestra, Joe Debois era certamente quello dal quale Helen era rimasta maggiormente colpita.

Le sue abilità erano molto al di sopra della media degli altri agenti operativi, avvicinandolo al livello dei professionisti navigati, al punto che Sleeping Beauty quasi non riusciva a spiegarsi perché qualcuno avesse voluto inserirlo in quel corso invece di promuoverlo direttamente Agente scelto, o addirittura caposquadra.

Poi, leggendo il suo stato di servizio e la relativa scheda, aveva cominciato a capire.

Quel ragazzo era speciale.

«Ho letto la tua scheda» disse d’un tratto così, per rompere il silenzio e allentare un po’ la tensione. «Tu sei un Ranger».

Se Celestis e le sue città, per non dire le sue intere nazioni, avevano potuto vedere la luce, lo dovevano in egual misura alla volontà ferrea dei suoi coloni e all’operato indispensabile dei Ranger.

Quando i primi terrestri avevano deciso di avventurarsi al di fuori dei primi insediamenti dando via all’opera di colonizzazione vera e propria, come subito dopo l’arrivo sul pianeta, avevano trovato ad attenderli territori inesplorati ed una natura alle volte ostile.

Tra i troll della montagna, i worrold delle foreste e gli anuk delle praterie, Celestis abbondava di specie più o meno pericolose, senza contare le conoscenze indispensabili per garantire la sopravvivenza di una comunità, conoscenze che i coloni alle volte non possedevano.

I Ranger erano nati come corpo volontario puramente civile, ma nel giro di pochi anni erano diventati prima una unità paramilitare vera e propria e poi, in seguito, un corpo scelto di molte nazioni che grazie a loro erano riuscite a sorgere, e a cui avevano affidato la custodia degli insediamenti più distanti ed inaccessibili nell’attesa di dare vita a più efficaci vie di comunicazione e collegamento.

Le loro competenze spaziavano dall’esplorazione alla caccia, fino alla cura del bestiame e alla salvaguardia di quella natura da cui, alle volte, erano chiamati a difendere gli esseri umani; inoltre impedivano fenomeni come il brigantaggio, le ruberie e le scorribande dei predoni, tutti problemi che stando ai libri di storia erano stati tutt’altro che sporadici nei primi cinquant’anni di colonizzazione.

E in quanto a retaggio famigliare, Joe aveva di che vantarsi per generazioni.

I suoi antenati avevano aperto la strada ai coloni che nell’anno 12 avevano fondato Eldkin, la terza città di Caldesia, inoltre avevano avuto un ruolo fondamentale nella salvaguardia delle molte realtà minori nate tutto attorno alla zona metropolitana, come Pondrith, Olster e Amadar.

Negli anni, però, molte cose erano cambiate.

Con la fine del periodo coloniale i Ranger avevano visto ridursi notevolmente le proprie mansioni operative, e la pacificazione portata dall’istituzione di apposite forze di polizia aveva reso superfluo anche il loro ruolo di garanti della legge. E se in alcune parti del mondo, ad esempio ad Eyban, dove le notevoli dimensioni territoriali punteggiate da piccoli borghi molti distanti tra loro permettevano ai Ranger di risultare ancora la forza di ordine pubblico maggiormente diffusa, ciò non accadeva sicuramente nel caso di Caldesia, dove ormai quello dei Ranger era diventato un corpo assegnato quasi esclusivamente alla salvaguardia forestale, con incarichi che andavano dal contrasto al bracconaggio alla supervisione all’opera di inserimento delle specie animali terrestri nell’ecosistema di Celestis, a buon punto ma ancora non del tutto compiuta.

La regione di Eldkin era stata una delle ultime a revocare ai Ranger la qualifica di garanti dell’ordine pubblico, senza contare che la natura particolarmente impervia del territorio faceva dei Ranger di quella regione delle guide montane molto esperte, e forse era per questo che quel patrimonio di conoscenze e di abilità di sopravvivenza, nel caso di Joe, non erano andate perdute.

L’interessato non rispose, preservando quel suo apparire così cupo, e per certi versi minaccioso; un vero Ranger, insomma, come quelli di cui si leggeva nei racconti popolari e nelle favole per bambini.

Per arrivare al ponte di comando occorreva prendere l’ascensore di servizio che partiva dal Ponte A e saliva lungo la torre, accessibile dal salone principale, ma quanto raggiunsero il monumentale fiore all’occhiello del Megonia Helen e Joe trovarono ad attenderli una brutta sorpresa.

Forse a causa di uno dei tanti urti che la nave doveva aver subito coi detriti spaziali, parte della scala che collegava tra loro le varie balconate era crollata, e in particolar modo la porzione che andava dal Ponte C al Ponte A.

«Ecco, questa non ci voleva» disse contrariata Helen, rivolgendosi poi all’imperturbabile Joe. «Se non sbaglio tu non sei dotato di poteri magici, e le capacità della tua tuta non ti permettono certo di compiere salti di questo genere» quindi sospirò. «Poco male. Vorrà dire che ci inventeremo qualcosa.

Alla peggio, faremo il giro più largo».

Non ebbe neanche il tempo di girare nuovamente lo sguardo che Joe, presa una piccola rincorsa, iniziò a saltare da un detrito all’altro con l’agilità di una scimmia e la grazia di un felino, balzando sospeso nel vuoto senza la minima esitazione, e prima che Helen potesse dire o fare alcunché il suo compagno era già sulla balconata più alta che la guardava con fare quasi sornione.

«Ma sei proprio sicuro di non essere uno stregone?» domandò ironicamente lasciandosi trasportare da una corrente invisibile sempre più in alto, fino a raggiungerlo. «Forza, andiamo».

 

Klaus seguiva Georg, standogli qualche passo indietro, con il fare e l’entusiasmo di un alunno che segue il professore verso l’ufficio del preside, e anche se non poteva vederlo il Capitano sapeva quasi per certo quale dovesse essere la sua espressione.

«Perché mi ha voluto per questa missione?» domandò ad un certo punto il giovane sottufficiale. «Tanto ha già deciso di buttarmi fuori.»

«In verità non lo so neppure io» replicò Georg dopo un lungo silenzio, e seguitando a camminare verso il cuore della stiva. «Forse voglio illudermi che per te ci sia ancora speranza.»

«Drassimovic fa lo spaccone dalla mattina alla sera, e attacca briga quanto se non più di me, però è bastata un’azione da macho di quel damerino azzimato per guadagnarsi la sua stima.

Di me, invece, lei vede solo i difetti».

Ce ne voleva di coraggio per rivolgersi ad un ufficiale superiore in simili termini, soprattutto se si era la metà di lui sia in termini di gradi che di stazza fisica, ma l’avventatezza, e Georg lo sapeva bene, era una inseparabile compagna di Klaus Krietzmann.

Anche per questo Georg un po’ lo ammirava, ma certo non poteva passare sopra ad una cosa del genere, anche se detta in preda all’impeto.

«Allora non hai proprio capito» disse inchiodando e girandosi a guardarlo con occhi infuocati. «Non è una questione di una, due, o cento risse. Non me ne frega niente se Ulrich è un maledetto snob tronfio e pieno di sé. Ne incontrerai a pacchi ovunque andrai, e quasi tutti saranno in una posizione tale che tu non potrai fare altro che ingoiare e far finta di niente.

Credi non mi sia capitato di avere a che fare con gente simile? Se avessi dovuto riempire di botte tutti i maledetti figli di papà che mi è capitato di conoscere nella MAB sarei già finito davanti alla corte marziale.

Tu sei un soldato, e un caposquadra. Il tuo compito è essere sempre calmo, freddo, razionale. Tu non devi farti sopraffare dalle tue emozioni, né permettere di venire condizionato.

Ulrich sarà anche un maledetto snob, ma il suo compito ha dimostrato di saperlo fare fin troppo bene, e cosa più importante tiene ben separate le questioni personali da quelle professionali.

La tua squadra conta su di te, sei la loro guida. Credi sul serio che Gerth e Debois si sentirebbero del tutto al sicuro nel mettere la loro vita nelle tue mani?

Ma più di ogni altra cosa, in quanto soldato e Agente della MAB, il tuo compito è aiutare e assistere gli abitanti di questo pianeta, in qualunque circostanza.

Tra incidenti occasionali e quelli dovuti alla stupidità di qualcuno, non passa quasi giorno senza che vi siano delle persone in pericolo, e quasi sempre siamo noi a dover impedire che degli innocenti ci rimettano la vita».

Klaus rimase di sasso, la bocca semiaperta e gli occhi sbarrati; il Capitano gli si fece incontro, sovrastandolo con fare sempre più minaccioso ed autoritario.

«Ora, guardami negli occhi e dimmi sinceramente. Sei davvero convinto di poterti assumere tutte queste responsabilità? Sei sicuro di poterci riuscire?».

Questa volta, fu Klaus a rimanere in silenzio.

«E con questo, la discussione è chiusa» sentenziò Georg vedendo che l’interessato era rimasto chiaramente senza obiezioni. «Andiamo.»

«Sissignore» rispose il giovane con un tono che sapeva di sconfitta.

La marcia però durò poco, fermandosi per l’ennesima volta davanti ad una porta stagna sprangata.

«È già la terza che troviamo» si lamentò Georg portando la mano alla radio infilata nell’orecchio. «Drassimovic, mi ricevi?»

«Forte e chiaro, Capitano. Cosa posso fare per lei?»

«Stiamo incontrando un passaggio sprangato dietro l’altro, ma stavolta temo sia impossibile girarci attorno.

Puoi fare qualcosa?»

«Mi dia un attimo, controllo subito».

Nel mentre Ulrich aveva ormai violato quasi tutti i firewall a protezione della memoria centrale, e quando finalmente anche l’ultimo lucchetto saltò via non riuscì a trattenere un sorriso di soddisfazione.

«Sono entrato!» esclamò svegliando Vincent, che effettivamente si era appisolato sull’altra poltroncina abbracciato al suo fucile.

Purtroppo, anche così la situazione non si presentava idilliaca, e bastò un istante perché quel sorriso si tramutasse in una smorfia di disappunto.

«Maledizione, è come sospettavo.»

«Che altro c’è?»

«Il nucleo di memoria non è così danneggiato come potrebbe sembrare, ma il corto circuito ha fritto sia i generatori che i collegamenti con le batterie al combustibile.»

«Insomma, non c’è energia» concluse Georg, che ascoltava via radio.

«Appena quanto basta per tenere in piedi i sistemi fondamentali, ma il generatore di emergenza ha una capienza veramente minima.»

«Si può fare qualcosa?» chiese Vincent

«Poco o nulla. Bisognerebbe effettuare delle riparazioni, ma non abbiamo né le attrezzature né le conoscenze necessarie per farlo».

Poi però, come un fulmine a ciel sereno, il ragazzo ebbe l’illuminazione.

«A meno che…» e immediatamente riprese a lavorare.

Quando poi vide ricompare sul volto del partner quello stesso sorriso, Vincent si sentì rinascere a sua volta.

«Lo sapevo. Dopotutto, questa era pur sempre una nave da guerra.»

«Che hai trovato?»

«Stia a vedere, Capitano. La sorprenderò».

 

Mayu aveva la brutta abitudine di lasciarsi prendere dal proprio lavoro, immergendovisi ad un livello tale da perdere il contatto con la realtà.

Così, le capitava spesso di fare le ore piccole, salvo poi ritrovarsi con addosso una stanchezza cronica non appena la concentrazione veniva meno e subentravano le inevitabili necessità fisiologiche.

Quella notte la ragazza l’aveva spesa quasi per intero ad armeggiare con il motore della navetta, e la comparsa indesiderata di quella missione le aveva impedito di concedersi qualche ora di sonno.

Così, appena i suoi compagni se n’erano andati, si era lasciata immediatamente andare sullo schienale della sua poltrona in cabina di pilotaggio, forse non comodissima ma sicuramente soffice, senza contare che ormai ci aveva fatto l’abitudine a dormire là sopra.

Probabilmente avrebbe continuato a ronfare senza sosta per molte ore, se improvvisamente uno strano e per certi versi inquietante stridio non l’avesse fatta trasalire.

«Che è stato!?» domandò balzando in piedi.

Rimessi gli occhiali, senza i quali si vantava lei stessa di essere cieca come un pipistrello, quello che vide fu una specie di enorme tentacolo metallico scivolare lungo la fusoliera della navetta appena oltre il finestrino.

Non era da solo. Almeno una decina di altri suoi simili erano sbucati da un momento all’altro da delle botole nel pavimento dell’hangar, e come i tentacoli di una gigantesca piovra avevano iniziato ad avvilupparsi attorno alla navetta quasi a volerla stritolare. E da come lo scafo scricchiolava sotto la forza e la pressione, non era da escludersi che ciò potesse effettivamente accadere.

Mayu, pur con tutta la sua esperienza di meccanico, non aveva mai visto niente del genere, e il vedere tutte le apparecchiature lampeggiare come impazzite non la aiutava certo a calmarsi.

«Ma che diavolo sta succedendo!?».

Poi, una voce giunse gracchiante dalla radio di bordo.

«Signorina Mayu, mi sente?»

«Ulrich!?»

«Mi dica, per caso sta accadendo qualcosa attorno alla navetta?»

«Direi proprio di sì! Questa dannata nave la sta stritolando! Ancora poco e farà la fine di una vongola!».

Nella sala di controllo, invece che preoccuparsi, Ulrich sorrise compiaciuto.

«Non si preoccupi, è tutto a posto.»

«A posto!? Col cavolo che è a posto!»

«Stia calma, sono stato io.»

«Tu!? Si può sapere che significa?»

«Ancora qualche istante, e lo vedrà con i suoi occhi».

In uno dei tanti monitor della sala comparve una barra di caricamento, che come Ulrich digitò un nuovo comando prese rapidamente a riempirsi, mentre finalmente i tentacoli che avviluppavano la navetta smettevano di muoversi e prendevano a circondarsi di una strana luce azzurrata.

Passarono pochi secondi, e non solo nell’hangar o in sala di controllo, ma in tutta della nave Georg e il resto della squadra videro le luci accendersi come per incanto, le porte automatiche aprirsi, e persino i monitor di servizio tornare a funzionare.

Georg e Klaus, in particolare, videro spalancarsi dinnanzi a loro la porta stagna che li aveva bloccati, rivelando dietro di sé l’ultima rampa di scale che conduceva al livello più basso dei ponti stiva.

«Ma come accidenti hai fatto!?» disse attonito Victor

«Protocollo Vulcan. Le navi da guerra amalteche sono dotate di un meccanismo di alimentazione d’emergenza che permette loro, in caso di bisogno, di legarsi ad un’altra fonte di energia per compensare eventuali ammanchi.»

«Aspetta, fammi capire» disse Mayu visibilmente inalberata. «Tu stai parassitando la mia nave?!»

«Non sarà il modo più elegante per dirlo, però effettivamente è così.»

«Non me ne frega niente dell’eleganza! La mia nave non si tocca!»

«Dacci un taglio, Mayu» la interruppe via radio Georg. «Ben fatto, Drassimovic. Ci sarà di sicuro molto utile» e imbracciato il fucile riprese a camminare.

Mayu invece non era per nulla soddisfatta della piega che aveva preso la situazione, e appena chiusa la comunicazione radio si buttò imbronciata sul sedile, ma ormai il sonno le era passato.

Per cercare di calmarsi volle scendere a controllare di persona l’entità dei danni, ma questo non fece altro che aumentare il suo livello di stress.

«La mia povera carrozzeria!» esclamò notando qua e là segni di graffio provocati dalle lamelle dei cavi. «Quel damerino finirà sepolto di compiti supplementari per un mese, parola mia!».

La rabbia però non precludeva le sue abilità di Agente, infatti dopo poco ebbe la netta sensazione di non essere più sola all’interno di quell’hangar sconfinato; la prova gliela diede un rumore sordo, di qualcosa che cadeva, accompagnato da quelli che sembravano passi di corsa.

Si volse, fulminea. Tutto attorno, era solo calma e silenzio. Ma era certa di non essersi sbagliata.

«Chi c’è?» domandò avventurandosi, lentamente, in un intricato dedalo di cunicoli alti e stretti formato dalle centinaia di casse ammassate in un angolo della stanza. «C’è qualcuno?».

Nessuno rispose, ma quel rumore continuò a presentarsi a intervalli irregolari; era come se qualcuno si stesse divertendo a girarle velocemente attorno, cercando di rimanere in silenzio senza però riuscirci del tutto.

«Victor, se è uno dei tuoi scherzi, sappi che non è divertente!» urlò quasi a volersi auto convincere che fosse l’ennesima bravata dell’amico.

Ma Victor non era sicuramente lì, e poi neanche uno come lui si sarebbe messo a scherzare in una situazione simile; sempre più in ansia, Mayu mise mano alla pistola, e movendo un piede per volta prese a camminare all’indietro per cavarsi da quella situazione così rischiosa, dove il pericolo poteva sbucare fuori da ogni angolo.

Ad un rumore se ne aggiunse un altro, ed un altro; nessuna voce, solo un respiro affannoso, che di quando in quando si faceva sentire facendo gelare il sangue di Mayu, che pur essendo solo un semplice meccanico aveva già affrontato situazioni di quel genere in passato.

Poi, d’un tratto, il silenzio. Di nuovo; assoluto.

Mayu pensò per un solo istante che tutto fosse finito, ma prima ancora che un nuovo rumore, assai più vicino e minaccioso, giungesse alle sue orecchie, l’istinto le disse di girarsi, anche se quanto restava del suo raziocinio le diceva che forse era già troppo tardi.

Un urlo fortissimo, una specie di ruggito, squarciò il silenzio, e assieme ad esso se ne levò un altro, acuto e terrorizzato, cui fece seguito il fragore di due spari in successione.

Poi, più niente.

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


5

 

 

«Di preciso, quali sistemi hai ripristinato?» domandò Vincent mentre Ulrich non smetteva un attimo di armeggiare ai computer

«Non molti. Ho aperto le porte stagne, ripristinato l’illuminazione fondamentale, e stabilizzato l’atmosfera in tutti i settori della nave.

Immagino di poter fare anche altre cose, ma come mi aspettavo ogni singolo sistema è protetto da un alto numero di firewall. Stavolta, però, non sarà una cosa da poco».

Poi, cercando tra i sistemi più protetti, il giovane trovò qualcosa che riuscì a stupire persino lui.

«Incredibile. Avevano pensato proprio a tutto.»

«Di che parli?».

Senza prendersi la briga di rispondergli, Ulrich chiamò subito Georg via radio.

«Capitano, mi sente?»

«Forte e chiaro, Drassimovic. Parla pure.»

«Ho trovato delle informazioni classificate. Sembra che il Megonia avesse in dotazione dei satelliti d’emergenza per le comunicazioni. Devono averne lanciati alcuni senza successo nel tentativo di lanciare l’SOS, ma ne ho trovato uno ancora operativo.

Se riesco a lanciarlo oltre la zona oscura, potremmo essere in grado di comunicare direttamente con la superficie.»

«Questa è un’ottima notizia. Lo puoi fare davvero?»

«Appena riesco a violare le protezioni. Mi ci vorranno almeno un paio d’ore.»

«Te ne do una.»

«Ricevuto, signore» e Ulrich si rimise immediatamente al lavoro.

«Beh» intervenne Vincent sornione, «Visto che qui non sembro servire a molto, vorrà dire che mi sposterò altrove.

Forse in giro per questo rottame ci sono ancora dei superstiti, e un paio di occhi in più farebbero comodo.»

«Vai pure» rispose Ulrich senza staccare gli occhi dal monitor. «Ho riattivato l’ascensore. Se sali fino al Ponte D e prendi la scala di servizio numero quarantaquattro, dovresti imbatterti in Amanda e Jacob. Sto tracciando la loro posizione sulla mappa usando i segnali radio.»

«Come vuoi. Ma tu non muoverti, mi raccomando. Non vorrei che ti perdessi».

 

Con la ricomparsa della luce, anche se solo in alcune zone, Amanda e Jacob avevano potuto constatare in maniera molto più tangibile la portata del lusso e dello sfarzo dei Ponti Passeggeri che stavano esplorando.

Tutto lì trasudava di buon gusto, e tra statue, pavimenti in marmo, volte affrescate e in alcuni casi placcate in oro, lampadari in cristallo e finti candelabri, tappeti pregiati e quant’altro sembrava di trovarsi nei corridoi del palazzo reale di New Aalborg.

Persa in tutto quello splendore, Amanda stava perfino per dimenticare la paura e l’angoscia che aveva provato fino al momento in cui era stata costretta a camminare nel buio, con la sola luce delle torce e i visori notturni a rischiarare l’ambiente.

«Non distrarti» la ammonì Jacob notando come la sua sottoposta tendesse a guardarsi un po’ troppo attorno. «Non sappiamo cosa ci aspetti.»

«Le chiedo scusa» rispose lei imbarazzata.

Jacob quando voleva sapeva essere davvero spaventoso, con quel suo fare così composto e il perenne silenzio che lo avvolgeva, e Amanda a volte era quasi intimorita dalla sua figura; persino guardarlo negli occhi era impossibile, per colpa di quella frangia generosa che scendeva dalla fronte come le fronde di un albero, così la ragazza non riusciva mai a capire quale fosse la sua reale espressione, lasciata solo intendere dai movimenti della bocca.

Con l’attenzione, però, ritornò anche un po’ di tensione, e Amanda volle provare a calmarla parlando con il suo superiore.

«Mi scusi, posso farle una domanda?»

«Del tipo?».

Amanda parve venir colta da un momento all’altro da una vampata di imbarazzo.

«Ecco…» disse arrossendo, «Il suo pendente è… curioso».

Lui si fermò un momento, tanto che Amanda per poco non gli andò addosso, e fatta scivolare una mano all’interno della corazza esterna della tuta ne trasse fuori il famoso bossolo legato alla catenina.

«La mia trentunesima missione» disse come se si stesse rivolgendo al proprio io. «Quartiere industriale di Otisa. In un cantiere erano comparsi due EDA contemporaneamente.

Ero andato in esplorazione, e uno mi ha attaccato.

Ho sparato tutti i miei colpi, ma lui non moriva. Mi colpì con forza, gettandomi contro un muro. Mi ruppi un braccio e due costole. Stava per uccidermi. Sparai l’ultimo, e finalmente morì».

Detto questo, strinse forte il pugno attorno al bossolo, e anche se non poteva vederli Amanda intuì dovessero esservi delle lacrime a rigare i suoi occhi.

«Allora, è un portafortuna.» disse quasi a voler sdrammatizzare la situazione

«La fortuna non c’entra quando fai questo lavoro. È l’esperienza che conta. Mai usare l’ultimo proiettile del caricatore, a meno che non vi sia reale necessità. Se rimani senza colpi, sei morto».

Amanda restò un attimo basita, conscia dell’importanza di quella lezione, ma anche atterrita dalla severità e dal tono cupo del suo partner.

Stavano per rimettersi a camminare, quando Jacob, fermatosi di colpo un’altra volta, girò lo sguardo alle spalle di Amanda, spingendo anche la ragazza a voltarsi. Il corridoio da cui erano venuti era deserto così come lo avevano trovato, discretamente illuminato, e in lontananza di intravedevano le porte dietro cui vi erano le scale di servizio.

«Che succede?»

«Ho sentito qualcosa».

 

Helen e Joe stavano ancora attraversando l’area passeggeri in prossimità dell’ascensore che conduceva al ponte.

La situazione si era un po’ calmata, grazie anche al ritorno della luce, anche se Joe in particolare non faceva venire meno il proprio autocontrollo seguitando a mantenere un’attenzione elevatissima verso tutto ciò che lo circondava.

Di quando in quando si fermava e si guardava attorno, saggiando il pavimento freddo della nave o cercando qualche suono, o anche qualche odore; qualsiasi cosa i sensi affinati che solo un Ranger possedeva potessero aiutarlo a comprendere la situazione, o a percepire anzitempo potenziali minacce.

Negli ultimi minuti qualcosa sembrava aver destato il suo interesse, ma lui come al solito se ne restava in silenzio senza condividere i propri pensieri con Helen.

«Senza offesa» disse lei con una punta di sarcasmo spazientito quando il suo partner si fermò per l’ennesima volta, «Ma mi sembra di stare lavorando con un cane poliziotto».

Non che Sleeping Beauty disconoscesse o non apprezzasse le capacità dei Ranger, al contrario, ma l’atteggiamento così introverso e incomprensibile di Joe non rendeva facile riuscire a capire cosa passasse nella mente di quel ragazzo.

L’ultima tappa del tragitto prima di raggiungere l’ascensore di servizio era il centro commerciale, una vasta area circolare con una grande piazza centrale dal soffitto a volta dalla quale si dipanavano svariate attività ed esercizi, dai negozi d’alta moda a quelli di gadget e souvenir. Completavano tutto alcune panchine e una piccola isola verde nel mezzo, con al centro una bella fontana.

Vi albergava una luce strana, quasi da discoteca, dall’indubbio effetto scenico ed estetico ma che rendeva la zona parecchio buia, in cui i giochi di ombre e i faretti proiettati in ogni dove servivano solo a creare falsi allarmi.

Ulrich, che aveva collegato il segnale emesso dalle loro trasmittenti alle mappe virtuali della nave, li chiamò per trasmettergli ulteriori istruzioni.

«Ci siete quasi. Superate l’area commerciale, uscite dalla porta sull’altro lato, fate altri trenta metri e troverete l’ingresso all’ascensore di servizio.»

«Sentito? Muoviamoci».

Invece, fatti solo due passi, Joe si immobilizzò, guadagnandosi un’occhiata incredula di Helen.

«E adesso che ti prende?»

«Qui c’è qualcuno.» sussurrò il giovane girando gli occhi in ogni direzione.

Helen ebbe un attimo di smarrimento, recuperando però subito il raziocinio e drizzando a sua volta le antenne nella speranza di avvertire a sua volta i segni che avevano messo in allarme il suo partner.

«Che cos’è?»

«Piccolo. E veloce. Si muove su due gambe. E ci sta tenendo d’occhio».

La ragazza alzò il fucile, mentre Joe ripose il proprio preferendovi invece il suo machete, quindi i due agenti si divisero prendendo direzioni opposte, la camminata silenziosa e il ventre il più vicino possibile a terra.

Helen si avventurò nella boutique, traboccante in ogni dove di abiti d’alta classe, dai vestiti da sera agli eleganti smoking neri per uomini e ragazzi, dove l’articolo più economico non costava meno di alcune centinaia di kylis, e appiattitasi ancora più prese a girare per gli scaffali alla ricerca di una qualunque forma di vita.

Non servì molto perché anche lei si avvedesse del fatto che lì c’era sicuramente qualcuno, qualcuno la cui presenza venne confermata senza ombra di dubbio da Joe, che avventuratosi nel bar trovò il frigo saccheggiato e spazzatura sparsa un po’ ovunque, oltre ad uno stretto pertugio, una specie di nascondiglio improvvisato ricavato da uno stipetto a livello terra il cui contenuto era stato gettato in ogni direzione per fare quanto più posto possibile.

Chiunque fosse non sembrava interessato a passare inosservato, o quantomeno non era capace di farlo, movendosi di continuo e facendo, nonostante la moquette, quel tanto di rumore che bastava da annunciare la sua presenza.

«Forze speciali MAB!» disse Helen nel tentativo di far uscire la misteriosa ombra allo scoperto. «Vieni fuori! Non abbiamo cattive intenzioni!».

Ma il fuggitivo non rispose, e anzi ad un certo punto si azzittì di colpo, fermandosi apparentemente in un punto per non spostarsi più. O si era accorto di stare facendo troppo rumore, o forse era ormai troppo spaventato per fare o dire qualunque altra cosa, con due segugi che gli stavano alle costole.

Di sicuro, chiunque fosse, si trovava lì nella boutique, e tendendo bene l’orecchio Helen riuscì a sentire per un breve istante un respiro affannoso, chiaramente spaventato, ed un lamento come di pianto.

«È qui» sussurrò alla radio rivolta a Joe.

Seguendo quel richiamo, anche se ormai scomparso, la donna varcò prima l’angolo di uno scaffale, quindi si appiattì contro la porta di un camerino.

Ne era sicura; la sua preda era lì. Quasi poteva sentirne il battito.

Trasse un respiro, chiudendo un momento gli occhi, poi, calmate le palpitazioni, fece scivolare la mano verso la maniglia, che aprì di getto catapultandosi all’interno.

Non c’era nessuno.

In compenso, la grata a livello del pavimento, probabilmente un condotto dell’aria, era aperta, e dall’interno giungevano ben distinti rumori metallici che si facevano sempre più lontani.

«Merda! Sospetto in fuga!» strillò.

Joe accorse veloce come un fulmine, e assieme a Helena raggiunse il retrobottega dove sbucava il pertugio, ma intanto il misterioso fuggitivo doveva essersela già data a gambe, perché lì dentro non c’era nessuno.

Il che era ai limiti dell’assurdo, dal momento che esclusa la porta che collegava il negozio con lo stanzino retrostante non vi erano altri punti da cui il fuggitivo potesse essersi dileguato, almeno a prima vista.

«Ma come diavolo ha fatto?».

In un angolo, nei pressi del soffitto, vi era un’altra presa d’aria, ma illuminandola Joe notò che aveva ancora la grata ben inserita ed avvitata, quindi il loro bersaglio doveva trovarsi ancora lì dentro.

«Si può sapere che succede?» domandò Ulrich, che aveva sentito tutto

«Abbiamo un sospetto nel centro commerciale» rispose Helen. «Gli stavamo dietro, ma ora sembra sparito.»

«Amico o nemico?»

«Non lo sappiamo. Non siamo riusciti a vederlo.»

«Continuate a cercarlo. Potrebbe aiutarci a capire cos’è successo su questa nave».

Era una parola. Tra file di attaccapanni con abiti appesi, scatole e contenitori vari c’erano mille e più posti in cui il fuggitivo poteva essersi intrufolato, tenuto conto anche del fatto che doveva trattarsi di qualcuno molto basso.

Lo cercarono per qualche istante, ma poi Joe, che per tutto il tempo non aveva fatto venire meno la sua espressione preoccupata, si avvide prima ancora di Helen di un rumore di passi che giungeva da fuori.

Fu sufficiente per loro guardarsi negli occhi per capire cosa doveva essere successo; erano stati talmente impegnati a frugare nella stanza, da non guardare nemmeno all’interno della grata che collegava le due stanze.

«Maledetto! Prendiamolo!».

Di nuovo lo inseguirono, prima di nuovo nel negozio poi nell’atrio, ma stavolta la distanza da coprire era decisamente troppa, e quando seguendo il rumore riuscirono a recuperare terreno poterono solo vedere le porte dell’ascensore del centro che si chiudevano davanti a loro.

«Dannazione!» strillò Helen battendo i piedi a terra. «Ulrich, è scappato! Ascensore numero quindici del centro commerciale!»

«Ok, ce l’ho! Forse riesco a bloccarlo! Datemi un secondo per entrare nei sistemi di controllo!».

Per fortuna, Amanda e Jacob si trovavano proprio da quelle parti, solo qualche ponte più in basso. Ulrich li chiamò subito.

«Gerth, Keys! C’è un pacco per voi. Ascensore numero quindici, all’ingresso della sala cinema. Ve lo consegnerò già incartato.»

«Ricevuto, ci muoviamo» rispose Jacob.

 

Il cinema, che all’occorrenza poteva diventare anche un teatro o una sala conferenze, era talmente grande che tra la sala vera e propria e le varie attività connesse distribuite attorno all’atrio e alla relativa anticamera occupava da solo quasi un quinto del Ponte C.

L’ascensore 15 segnalato da Ulrich permetteva di spostarsi in un lampo dall’atrio degli acquisti a quello dell’intrattenimento che gli stava subito sotto, e si trovava proprio davanti alle porte che immettevano nella galleria.

Amanda e Jacob stavano cercando di scoprire l’origine del suono che aveva messo in allarme l’Agente Keys, identificato come qualcosa di simile ad un rantolo soffocato, ma alla chiamata di Ulrich raggiunsero velocemente l’area cinema.

«Siamo davanti all’ascensore» comunicò Jacob via radio.

«Giusto in tempo. Ho violato i comandi dell’ascensore. Pacchetto in arrivo tra tre, due, uno… adesso».

Le porte si aprirono, e i due agenti puntarono all’istante le armi innanzi a sé, solo per ritrovarsi a tu per tu con una bimba di forse otto anni che, appiattita contro la parete opposta, li osservava con i denti serrati e gli occhi spalancati per il terrore.

Jacob e Amanda rimasero di sasso.

«Ma… è una bambina…».

La piccola, talmente spaventata da non riuscire a parlare, si raggomitolò a terra con le mani sopra la testa, e a nulla valse l’estremo tentativo da parte dei due agenti di tranquillizzarla abbassando i fucili.

«Che sta succedendo?» domandò Ulrich via radio. «L’avete preso?»

«Falso allarme» lo tranquillizzò Jacob. «È solo una bambina.»

«Una bambina?».

Amanda si sfilò l’arma, mettendosi in ginocchio, e a piccoli passetti si avvicinò lentamente alla bambina, che la guardò con i suoi occhi terrorizzati.

«Come ti chiami?».

Lei non rispose, e anzi si appiattì leggermente di più contro la parete seguitando a tirare su con il naso.

«Io mi chiamo Amanda. E tu invece?»

«H… Hilda» fu, dopo molti secondi, la sua timida risposta. «Hilda Weilmann

«Che bel nome».

Amanda fece qualche altro passo avanti, e stavolta Hilda non si ritrasse.

«Hilda, non devi avere paura. Non siamo cattivi. Siamo qui per aiutarti» quindi allungò la mano verso di lei. «Vieni. Ti portiamo al sicuro».

Seguirono secondi interminabili, persi in un assoluto silenzio; poi, timidamente, Hilda si riscosse, e dopo aver fissato a lungo quella mano protesa, lentamente, la sfiorò, riuscendo a sentirne il calore nonostante il tessuto gommoso che la ricopriva. Un attimo dopo, era stretta addosso ad Amanda, che carezzandola dolcemente dietro ai capelli le sussurrava parole di conforto.

«Capitano, mi sente?» disse Jacob alla radio

«Forte e chiaro, che succede?»

«Abbiamo trovato una superstite. Zona intrattenimento del Ponte C.»

«Ottimo lavoro. Portatela alla navetta di salvataggio. Lì sarà al sicuro.»

«La luce è andata via» disse di colpo Hilda, con il volto ancora nascosto nel seno di Amanda. «Poi sono arrivate quelle… quelle cose.»

«Quali cose?» chiese Amanda

«Assalivano le persone. Le mangiavano. Io cercavo il mio papà, ma mi sono persa. Hanno cercato di mordermi, e sono scappata. Ho strisciato, e strisciato, e strisciato. E sono arrivata in quel negozio. Le porte non si aprivano, e neanche l’ascensore.

Ero da sola.

Mi sono nascosta. Avevo paura».

Dovette fermarsi, perché i singhiozzi erano tali che non le riusciva più neppure di parlare.

«Non parlare, ora va’ tutto bene» la tranquillizzò Amanda. «Ora ci siamo noi con te».

In realtà c’era ben poco da stare tranquilli, e ai due agenti non servì neanche guardarsi negl’occhi o aprire bocca per realizzare di aver avuto la stessa sensazione.

Amanda cercò di calmare ulteriormente Hilda, mentre Jacob non smetteva un momento di guardarsi attorno, e quando quel rumore che aveva sentito poco prima tornò a risuonare, quasi impercettibile, nelle sue orecchie, lo destò, facendogli drizzare tutti i peli del corpo.

«Amanda» sussurrò preoccupato.

Anche lei a quel punto lo sentì, per non parlare di Hilda, che strinse così forte il braccio della ragazza da dare l’idea di volerglielo strappare, chiudendo gli occhi più che poteva.

Il suono si fece sempre più vicino, e stavolta i due agenti non avevano dubbi sulla natura ostile di ciò che si stava avvicinando.

La loro attenzione si focalizzò sulla porta, chiusa, dietro al bancone del bar, probabilmente le cucine, che d’un tratto, lentamente, si aprirono, lasciando entrare nell’atrio un essere che al solo vederlo fece venire ad Amanda conati di vomito.

La pelle era chiara, quasi cadaverica, gli occhi, la bocca e le orecchie erano lordi di sangue nero e coagulato, e tutto il corpo presentava varie ferite, alcune veri e propri squarci, come se quella poveretta fosse stata assalita da un branco di cani randagi.

Una dipendente del cinema, senza dubbio, che movendo la testa ad intermittenza come una bambola rotta portò la sua attenzione dal pavimento ai due agenti, fissandoli con i suoi occhi vuoti, la bocca semiaperta e la lingua a penzoloni.

Amanda esitò, più preoccupata di accertarsi che Hilda fosse ancora vicina a sé che di neutralizzare la potenziale minaccia. Jacob, invece, non ebbe dubbi, e presa la mira fulminò la giovane dritta in mezzo al petto, un colpo degno del miglior tiratore. Quella specie di mostro rantolò, sospinto all’indietro dal rinculo del colpo subito, benché dalla ferita non uscirono che pochi schizzi di sangue, ma incredibilmente, dopo aver dato l’idea di stare per crollare, si ridestò, tornando salda sulle proprie gambe cadaveriche.

E allora, anche Jacob restò palesemente senza parole.

«Ma che diavolo…» e senza esitazioni sparò altri due colpi, che però sortirono il medesimo, scarso effetto.

A quel punto, bersagliata a più riprese, la creatura lanciò un urlo acuto a dir poco assordante, quasi un richiamo, e piegate le ginocchia si esibì in un salto quasi inumano con l’intento di piombare addosso alle sue prede. Jacob la intercettò a mezz’aria, ma stavolta le scaricò addosso una decina di proiettili in automatico, e allora quell’essere, emesso di nuovo il suo rantolo roco, parve finalmente morire, precipitando inerte sul pavimento.

L’Agente Keys attese qualche attimo, quindi, cautamente, si avvicinò, lasciando che i muscoli si distendessero e la concentrazione venisse meno solo quando, tirato un piccolo calcio alla testa della creatura, questa non mostrò alcuna reazione.

«Tranquilla, è finita» disse Amanda rassicurando Hilda, che per tutto il tempo non si era staccata un attimo a lei.

Ma in realtà, anche Amanda era spaventata. E non poco.

«Che storia è questa?» chiese quasi con rabbia. «Da quando in qua resistono alle pallottole?»

«Devo ancora incontrarne uno che si lascia uccidere con un solo colpo» replicò Jacob sostituendo il caricatore, «Anche se devo ammettere che era piuttosto coriaceo.

Sono sicuro di averlo colpito in pieno, e ciò nonostante non è morto.»

«Ti era mai capitata una cosa del genere?»

«Non che io ricordi».

Per sicurezza, Jacob scaricò sul mostro anche tre colpi di pistola, e a quel punto la creatura, come un legno consumato dalla fiamma, si tramutò in cenere, e con essa anche la divisa che indossava. Persino il sangue scomparve, e fu come se quella povera ragazza, chiunque fosse stata prima di diventare così, non fosse mai esistita.

I due agenti, di nuovi, rimasero senza parole.

«Ecco un’altra cosa che non vedi tutti i giorni» mormorò Jacob, che portatosi un dito all’orecchio azionò la radio. «Capitano, mi sente?»

«Che altro c’è, Trigger?»

«Capitano… temo che su questa nave sia in corso un nove-nove ».

Seguirono interminabili secondi di silenzio.

«Come hai detto, prego?».

 

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


6

 

 

Codice identificativo 9-9.

Un codice che gli agenti della MAB, e le squadre speciali di sicurezza in particolar modo, ben conoscevano.

«Ne sei proprio sicuro, Jaocob?» chiese ancora Georg

«Ne abbiamo appena abbattuto uno, Capitano. Classe Pedone. Nonostante ciò ci sono voluti parecchi colpi per riuscire ad abbatterlo».

A quel punto, non vi erano quasi più dubbi su cosa doveva essere accaduto a bordo di quella nave; l’ipotesi peggiore, quella che nessuno avrebbe voluto prendere in considerazione.

«Capitano» disse Jacob traendo un respiro. «Abbiamo un’emergenza EDA in atto».

EDA.

Ovvero, Extreme Dna Alteration. Il lato spiacevole della magia.

La magia era come un fiume, una turbinio di energia che scorreva ininterrottamente all’interno di tutti gli esseri viventi tramite il dna, ma che solo una percentuale ancora molto ristretta di persone, gli stregoni appunto, era in grado di maneggiare per influenzare e trasformare la materia.

Ma il dna, e l’M-Code in particolare che permetteva agli stregoni di esercitare la magia, era delicato, e quando qualcuno era talmente folle o imprudente da spingersi oltre i propri limiti, l’esito era un corto circuito nel fragile equilibrio di energie che regolavano il corpo umano, con il risultato, nel peggiore dei casi, di dare vita a creature mostruose e terribilmente aggressive.

Smarrita ogni traccia di raziocinio, questi mostri avevano l’unico scopo di assorbire quanta più energia possibile, al fine di preservare quel nucleo impazzito che come una batteria costituiva la fonte della loro vita, ma che i gravi danni provocati dalla mutazione portava ad esaurirsi rapidamente; e in quanto un possesso di un M-Code tra i più sviluppati del regno animale, gli esseri umani costituivano la preda favorita degli EDA, che come bestie feroci assalivano e sbranavano qualsiasi malcapitato capitasse loro a tiro, oltre a sfogare la propria furia distruttiva su qualunque cosa i loro sensi deviati indicassero come una potenziale minaccia.

Fino a pochi anni prima il problema relativo agli EDA aveva riguardato solo coloro in grado di maneggiare la stregoneria, ma con la diffusione di apparecchiature atte a permetterne un controllo rudimentale anche da parte degli esseri umani gli incidenti erano sensibilmente aumentati, e in fin dei conti era proprio per questo che era stato istituito quel corso speciale per la formazione di unità specializzate a contrastare la minaccia.

Gli EDA erano suddivisi in cinque classi, Pedone, Cavallo, Torre, Alfiere e Regina, cui venivano assegnati in base alla violenza della mutazione e alla loro pericolosità relativa. Il Pedone era la classe più bassa, e teoricamente quella meno pericolosa, ma il problema in quel caso non era tanto nella pericolosità del nemico, quanto nel numero.

E Jacob non mancò di parlarne al Capitano.

«La ragazzina ha parlato di un alto numero di assalitori. Siamo chiaramente di fronte ad un nove-nove-zero».

Georg si sentì gelare il sangue, e non per il freddo che attraversava i locali della stiva.

Nove-nove-zero. Il peggior codice identificativo che si potesse immaginare.

Nove-nove era già di per sé una brutta cosa, perché indicava una manifestazione multipla di più EDA contemporaneamente, fatto raro ma non impossibile, ma lo Zero significava chiaramente la natura indeterminata ed indeterminabile del numero esatto di potenziali nemici.

«Drassimovic, come va’ con quel satellite?» domandò allora Georg, che Klaus non ricordava di aver mai visto così preoccupato

«Ci sto ancora lavorando, Capitano. Ci sono un sacco di protezioni.»

«Muovi il culo. Chiama subito la stazione. Ci serve supporto immediato.»

«Mi rimetto subito al lavoro, signore.»

«Trigger, Gerth. Voi portate la ragazzina alla nave ed aspettate lì. Meno gente c’è in giro per questi maledetti corridoi e meglio mi sentirò.»

«Ricevuto, Capitano. Ci muoviamo subito».

Chiusa la conversazione, Jacob e Amanda si prepararono a muovere per fare ritorno all’hangar, ma come fecero per percorrere il tragitto inverso altri rumori presero a giungere, minacciosi e sempre più vicini, dalla porta chiusa da cui erano venuti, lasciando entrambi impietriti.

Di nuovo, Hilda si bloccò per la paura nascondendosi dietro ad Amanda, che cercava di farsi forza se non altro per non spaventare ulteriormente la bambina.

«Ulrich» sussurrò Jacob alla radio. «Ci sono altre vie per uscire da qui?»

«C’è una porta di servizio tra l’atrio e l’ingresso dal cinema, e un’altra che porta alla balconata e alla cabina di proiezione.»

«Qual è la più breve per arrivare alla nave?»

«La porta di servizio. Proseguite lungo il corridoio che troverete fino alla scala dell’equipaggio trentatre, scendete fino al ponte K, procedete dritti e ci siete.»

«Muoviamoci, Gerth».

Non riuscirono neanche a muovere un passo, che all’improvviso le porte vennero letteralmente sfondate, e un vero esercito di EDA simili a quella che avevano abbattuto fece irruzione nel salone strillando e lanciando assordanti stridii.

Indossavano abiti da sera, vestaglie da notte della migliore fattura, ma anche uniformi da mozzi, camerieri e inservienti.

«Fuoco!».

Amanda non aveva mai sparato, non contro bersagli mobili, e la sua mira era piuttosto imprecisa, e contro una simile ora di nemici non c’era molto che Jacob da solo potesse fare, pur con tutto il suo talento.

Purtroppo, quello del mostro-cameriera non si stava rivelando un caso isolato; quelle dannate bestie erano terribilmente coriacee, e neanche una scarica in pieno petto bastava a fermarli; inoltre, quei pochi che morivano, come la prima che i due agenti avevano abbattuto finivano in polvere subito dopo essere spirati, il che era quantomeno insolito.

Se c’era una cosa che gli EDA non facevano mai, questa era senza dubbio l’assomigliarsi tra loro, eccezion fatta ovviamente per il comportamento aggressivo e l’istinto di nutrirsi; gli EDA erano un po’ come gli umani, simili ed insieme diversi. Ognuno aveva un proprio aspetto e delle proprie capacità che seguitavano a rimanere anche dopo la trasformazione, ma non esisteva che manifestassero gli stessi poteri, non in numero così elevato e tutti insieme.

Poi,  per caso, accadde qualcosa; esaurito l’ennesimo caricatore, Jacob ne infilò un altro, e alzata velocemente l’arma centrò d’istinto il mostro più vicino proprio in mezzo alla fronte. Di solito fronte e testa non erano bersagli appetibili quando si aveva a che fare con un’EDA, ma quello invece rimase morto per terra subito dopo aver preso il colpo, incenerendosi.

«La testa…» mormorò, ed un secondo colpo piazzato allo stesso modo gli confermò di aver capito. «Amanda, tira alla testa!».

La ragazza puntò un nemico, cercando di controllare il tremore della mano, prese la mira, e sparò; non un colpo preciso come quello del suo superiore, ma l’anziana donna in abito nero che riuscì a trapassare poco sopra l’occhio seguì la stessa sorte di tutti gli altri.

Purtroppo, anche così, la situazione rimaneva drammatica.

Per tentare di arrestare l’avanzata dei nemici Amanda usò la sua magia per materializzare una serie di pareti invisibili alte e strette, che come enormi tessere del domino svettavano qua e là costringendo gli assalitori a lunghi giri che li rendevano dei facili bersagli; un mago di classe elevata avrebbe semplicemente eretto un unico, grande muro per creare una difesa assoluta, ma lei purtroppo non era ancora così brava da realizzare un simile incantesimo protettivo.

Il problema restava raggiungere le porte del cinema, da cui non uscivano nemici ma che si trovavano dalla parte opposta della sala, impresa tutt’altro che facile con tutti quegli EDA che non smettevano di arrivare.

Jacob esitò, mordendosi le labbra, ma Amanda era preda a tal punto dell’ansia e dell’istinto incontrollabile di continuare a sparare che non se ne accorse.

«Amanda, ora ascoltami!» le urlò con tono di ordine. «Al mio segnale, prendi la bambina e corri verso l’uscita! Io ti coprirò la fuga!»

«Che cosa!?»

«Non temere, non ti inseguiranno! Questi animali attaccano sempre per primo chi ritengono più pericoloso! Non sparare e ti lasceranno scappare!»

«E tu cosa farai?» domandò lei guardandolo atterrita

«Non temere, me la caverò! Sono uscito da situazioni peggiori di questa!»

«Non puoi chiedermi di abbandonarti!»

«Questa non è una richiesta, è un ordine di un tuo superiore!» le sbraitò contro Jacob quasi spaventandola. «Quindi piantala di fare l’eroina e ubbidisci! La salvezza dei civili viene prima di tutto!».

Amanda si bloccò, fulminata dall’ultima frase.

Era un concetto quello che fin dal giorno in cui aveva indossato la divisa per la prima volta le era stato ripetuto fino alla noia, ma di cui solo in quel momento iniziò a capire il vero significato.

Salvezza dei civili spesso, per non dire sempre, significava rischio personale.

Ma Jacob, si risolse a pensare la ragazza, aveva ragione.

Non le piaceva l’idea di abbandonarlo, ma d’altronde la vita di Hilda aveva la priorità, come quella di qualunque altro civile che avessero eventualmente incontrato da lì in avanti.

«D’accordo» disse risoluta, ricevendo in risposta un sorriso soddisfatto.

Gli EDA potevano pure essere poco più che animali, ma non erano immuni ad alcune delle debolezze tipiche degli esseri umani. Così, quando Jacob fece esplodere in mezzo a loro una granata stordente dopo averla fatta rotolare sul pavimento i mostri, storditi dal fumo, dal frastuono assordante e dalla forte luce, rimasero disorientati, raggomitolandosi a terra con le mani sulla testa.

«Vai!».

Amanda afferrò Hilda, e assieme a lei riuscì a passare in mezzo a quelle creature senza che queste quasi se ne accorgessero, e quando la situazione si fu acquietata nella stanza, come potenziale preda, gli EDA trovarono solo Jacob, che li fissava sornione con il mitra sollevato.

«Certo che è stata proprio una gran bella idea».

Le pareti magiche erano ancora attive, ma ora che la loro creatrice se n’era andata erano destinate a sparire in breve tempo.

In ogni caso, Jacob non aveva alcuna intenzione di fare il martire; fino a che fosse stato possibile, avrebbe fatto quanto era in suo potere per riportare a casa la pelle e garantirsi un altro giorno di vita.

Provò a raggiungere la sala cinema, ma trovatosi la strada bloccata dall’arrivo di un nuovo gruppo di nemici non ebbe altra scelta che rifugiarsi dietro al bancone del bar, da dove prese a scaricare sugli EDA tutto quello che aveva facendone strage.

Sfortunatamente, per quanti ne uccidesse, continuavano ad arrivarne, e ogni volta che ne abbatteva uno la reazione degli altri si faceva sempre più rabbiosa. Oltretutto vista la loro agilità colpirli era parecchio complicato, e con la testa come unico punto vulnerabile persino un tiratore esperto come “trigger” aveva le sue belle difficoltà ad andare a segno.

Come ultima linea di difesa, Jacob ripiegò verso la porta da cui era uscito il primo EDA, confidando nella strettoia così creatasi per impostare una resistenza che si faceva disperata; sperava che gli assalitori, notando la grande potenza di fuoco e pericolosità della loro preda, finissero per desistere, o che lì dentro vi fosse una grata, uno spiraglio, una buca per cani da cui sgattaiolare via, ma quando, infilata una mano nella borsa, si trovò ad inserire il suo ultimo caricatore per il fucile d’assalto, cominciò a temere che quella fosse davvero la fine.

Oltretutto, poco prima che riuscisse a rifugiarsi in quello stanzino, uno di quei mostri lo aveva morso ad un braccio, riuscendo ad azzannargli la pelle nonostante la tuta protettiva, una ferita non seria ma che rendeva le cose ancor più complicate.

«Di bene in meglio».

Di certo non sarebbe caduto senza combattere; nella peggiore delle ipotesi poteva fare ricorso al machete, oppure alla granata ad alta frammentazione, l’arma per i casi di emergenza assoluta, ma così potente che in un ambiente tanto ristretto e pieno di sostanze infiammabili probabilmente avrebbe polverizzato anche lui. Di certo, non si sarebbe lasciato mangiare.

Aveva infilato il caricatore, ed era pronto a sparare, quando l’EDA che era sul punto di irrompere nella cucina alla testa del gruppo cadde a terra centrato alle spalle in piena nuca. Altri lo seguirono, colpiti con letale precisione, e alzato lo sguardo oltre la porta Jacob poté scorgere, con sua grande gioia, una figura amica in piedi sulla balconata.

«Serve aiuto?» domandò Vincent ammiccandogli, per poi infilare nuovamente l’occhio nel mirino del suo fucile e riprendere a mietere avversari.

Sotto il fuoco incrociato dei due agenti gli EDA fecero la fine dei topi in trappola, e complice anche una granata piazzata nel punto giusto dopo pochi minuti non ne rimase nemmeno uno; Vincent a quel punto saltò giù dalla balconata, riunendosi all’amico nel centro dell’atrio.

«E con questa, direi che siamo pari. Ora la smetterai di rinfacciarmi quella volta nella vecchia fabbrica al porto, voglio sperare.»

«Può darsi» replicò Jacob ricordando l’incidente in questione. «Non dovevi essere con Drassimovic

«Il piccolo nerd se la caverà anche da solo. E poi, con l’ascensore bloccato e le porte sprangate, laggiù è più al sicuro che in una fortezza.»

«Guarda che ti ho sentito.» disse l’interessato via radio

«Com’è la situazione?»

«Da schifo. La nave è infestata di quei cosi. È solo per un mezzo miracolo che sono arrivato qui senza rimetterci la pelle.»

«Avresti anche renderci partecipi di questa tua scoperta.»

«Lo avrei fatto, ma il mio primo incontro con questi bastardi è stato piuttosto… ravvicinato.

Per fortuna ci ho rimesso solo la radio, invece dell’orecchio.»

«Ulrich, puoi fare qualcosa per noi?»

«Appena sarò riuscito a lanciare il satellite, proverò a ripristinare il sistema di videosorveglianza. In questo modo avremo un’idea chiara di quali siano i settori compromessi.»

«Una cosa è certa, di quei cosi ce ne sono in giro a centinaia.» disse Vincent «Comincio a pensare che su questa nave non ci sia più nessuno vivo.»

«Non direi» replicò Ulrich. «Ho appena ricevuto un segnale. Sembrava una richiesta di aiuto. Proviene dall’infermeria. Potrebbe esserci qualcuno ancora vivo laggiù».

I due agenti si guardarono tra di loro.

«L’infermeria, dici?» disse Jacob. «E dove si trova?»

«Ponte C, zona centrale.»

«Non sarà un viaggio da poco» commentò Vincent. «Sarà anche a questo livello, ma si tratta di attraversare quasi metà della nave.»

«Beh» replicò Jacob facendo scattare la rotaia del fucile. «È il nostro lavoro.»

«Ben detto» e i due si avviarono insieme.

 

Seguendo le indicazioni di Ulrich, e cercando di non guardarsi indietro, Amanda raggiunse la rampa di scale.

Hilda camminava accanto a lei, tenendole forte la mano, anche se la paura di poco prima sembrava essere passata, messa a tacere dall’apparente coraggio e forza di volontà della sua salvatrice.

«Non temere» continuava a dirle Amanda. «Ci sono io qui con te. Ti porterò in salvo».

Purtroppo, scese fino al primo ponte stiva, dovettero bloccarsi, perché da più in basso, anche senza tendere l’orecchio, presero a giungere rumori inquietanti.

Amanda mise per scrupolo una mano sulla bocca di Hilda e gettò silenziosamente uno sguardo nella tromba, scorgendo nitidamente alcune ombre che si movevano nei livelli inferiori.

Probabilmente non le avevano viste né sentite, ma scendere ancora di più era troppo rischioso.

«E adesso cosa facciamo?» domandò Hilda, tesa ma non per questo spaventata.

Per trovare una risposta, Amanda si collegò con Ulrich.

«Ulrich, siamo all’ingresso del Ponte G» sussurrò. «La scala è compromessa. Ci serve un’altra strada.»

«Da dove vi trovate ora, potete uscire sul ponte e usare un’altra scala di servizio. Purtroppo, gli ascensori di quella zona sono tutti fuori uso».

Amanda provò a spingere la pesante porta blindata che immetteva al corridoio del ponte, ma questa non si mosse.

«È chiusa dall’altro lato.»

«Puoi sempre far scattare la serratura con la magia.»

«Sbloccare la serratura!? Ma non l’ho mai fatto.»

«C’è sempre una prima volta. Del resto, non hai altra scelta».

Hilda, nel mentre, si guardava attorno, e quando si avvide della presenza di una grata proprio accanto alla porta le sue labbra si piegarono in un sorriso divertito.

«Lasciate fare a me» disse, e prima che Amanda potesse fermarla la bambina si era già infilata nel condotto.

«Hilda, torna subito qui. È pericoloso.»

«Non ti preoccupare, so badare a me stessa» rispose lei con ritrovato coraggio.

Strisciando nello stretto pertugio la ragazzina riuscì a scavalcare l’ostacolo, ed accertatasi, sbirciando oltre la rete, che nel corridoio oltre la porta non vi fosse alcuna minaccia, sbucò all’esterno, scrollandosi la polvere dai vestiti.

«Amanda. Sono dall’altra parte. Adesso ti apro.»

«Sbrigati. Potrebbe essere pericoloso».

Hilda era sul punto di aprire, quando un rumore proveniente dal buio del corridoio attirò la sua attenzione, come se qualcosa, o qualcuno, venisse trascinato rumorosamente sul pavimento metallico, molto diverso da quello elegante e soffice dei ponti superiori.

«Hilda, che succede?» disse Amanda vedendo che la bambina esitava ad aprire.

L’attenzione della piccola, infatti, era stata catturata tutta da quello strano rumore, al punto che, dando un calcio a tutto il resto, iniziò a farsi strada nella semi-oscurità per capire da dove provenisse.

Non aveva paura; anche se si fosse trattato di uno di quei mostri, dal modo in cui si trascinava doveva essere ridotto in uno stato pietoso, e all’occorrenza sarebbe sempre potuta scappare.

Ad un certo punto, una figura iniziò a stagliarsi in lontananza, riversa al suolo sulla pancia, apparentemente morta.

Sembrava umana, perché non emetteva gli stessi gemiti di quelle creature, ma a giudicare dal suo essere immobile, chiunque fosse, doveva essere già morto, o comunque molto malridotto.

Hilda continuò ad avvicinarsi, pronta a scattare all’indietro al minimo segno di vita, ma quando riconobbe in quella figura senza vita apparente una rada capigliatura castana, un naso un po’ pronunciato, e soprattutto un anello d’argento con un rubino all’anulare, nei suoi occhi, al posto della curiosità, apparve nuovamente la paura.

«Papà!» esclamò.

Istintivamente corse verso di lui, inginocchiandosi nel tentativo di aiutarlo, ma appena lo toccò lo sentì freddo, e duro come la pietra; le gambe, poi, erano ridotte in uno stato pietoso, completamente disarticolate: doveva essersele rotte cadendo da qualche scala. Inoltre, i vestiti erano insanguinati in più punti.

Hilda lo scosse, violentemente, ma lui non si mosse, e allora gli occhi della piccola si riempirono di lacrime.

«Papà…».

Poi però, come per incanto, ebbe la sensazione che le palpebre si fossero mosse, e il suo cuore per un attimo tornò a sperare. Una speranza che si infranse come un cristallo quando il conte Balthus Weilmann, spalancati i suoi occhi bianchissimi e lanciando un gemito agghiacciante, allungò violentemente un braccio verso Hilda, che terrorizzata d’istinto si buttò all’indietro riuscendo a non farsi afferrare.

Nel mentre, Amanda era ancora dietro la porta, sempre più preoccupata, ma quando all’improvviso dalla parte opposta giunse un grido di terrore il cuore quasi le si fermò in petto.

«Hilda! Hilda!».

I mostri, di sotto, la sentirono, e come lupi attratti dal sangue presero a salire rapidamente le scale, dritti verso la preda.

La ragazza guardò la serratura, che sembrava quasi volerla sfidare, quindi vi appoggiò lentamente sopra una mano, che appena entrata a contatto con il freddo metallo si circondò di luce.

«Resisti, piccola! Sto arrivando!».

Hilda si fece indietro, sconvolta nel vedere il proprio genitore che, non potendo alzarsi per le gambe rotte, le si faceva incontro strisciando a terra come moribondo.

«Papà!» piangeva. «Sono io! Sono Hilda!».

Il suo gattonare stentato si concluse inevitabilmente contro la parete, contro la quale rimase bloccata, immobile per il terrore, i denti serrati e gli occhi spalancati in direzione di quella cosa che continuava ad avvicinarsi.

L’EDA, forse odorando la paura della sua preda, usò le poche forze residue per compiere un piccolo balzo, riuscendo ad afferrare una gamba della bambina, che prese a tirare verso di sé.

«Papà, smettila!» urlò Hilda afferrandosi ad un tubo e tirando calci nel tentativo di liberarsi. «Ti prego! Non farlo!».

Ogni urlo che giungeva dall’altra parte era per Amanda come un colpo al cuore, così come il rumore sempre più vicino degli EDA lungo la scala, ma fece l’impossibile perché quella situazione non pregiudicasse il suo lavoro.

Come i tentacoli di una piovra, filamenti di luce si incunearono in tutti gli angoli della serratura, afferrarono il meccanismo, e, dopo qualche tentativo, riuscirono a farlo saltare.

Amanda si gettò oltre la porta, ricordandosi istintivamente di chiuderla giusto in tempo per non venire travolta dai mostri, e accortasi di quello che stava succedendo corse senza esitazioni incontro ad Hilda con la pistola già in mano.

«Lasciala!» urlò allontanando l’aggressore con un calcio che lo scaraventò lontano.

Quello, già provato, accusò pesantemente il colpo; ma ci voleva ben altro per ucciderlo, e senza esitazioni Amanda puntò l’arma contro di lui, venendo però incredibilmente bloccata proprio da Hilda.

«Non farlo!» pianse la bambina afferrandole il braccio «Quello è il mio papà!».

Sconvolta, Amanda esitò per un istante, ma quando il mostro, ripresosi, tentò di aggredire tutte e due, la ragazza sparò un po’ per istinto e un po’ per volontà propria, realizzando uno dei suoi centri migliori che non lasciò scampo all’EDA.

«Papà!».

Amanda bloccò Hilda, nel timore che quella cosa maledetta non fosse realmente morta, ma anche dopo che l’EDA come gli altri si fu incenerito la bambina seguitò a piangere e dimenarsi, urlando alla ragazza di avere ucciso il suo papà.

«Hilda ascoltami. Ascoltami!».

Lei, scossa, la guardò con gli occhi lucidi e l’espressione stupita.

«Hilda. Quello non era più il tuo papà. Il tuo papà è morto, e al suo posto è nato quel mostro».

Dentro di sé la bambina lo sapeva, perché altrimenti l’istinto non le avrebbe permesso di sopravvivere; ma d’altro canto, accettarlo non era facile. Prima aveva visto morire la sua mamma, e ora anche il suo papà.

Era sola.

E allora, non riuscì a non lasciarsi sopraffare dal pianto, abbandonandosi di nuovo sul seno di Amanda, la prima cosa calda ed amorevole che le riusciva di sentire da quattro giorni a quella parte.

«Mi dispiace, piccola. Ma ti prometto che quando tutto questo sarà finito, costruiremo insieme una tomba per il tuo papà».

Poi, Amanda si avvide che l’anello, a differenza dei vestiti, era sopravvissuto, forse perché l’argento era notoriamente un materiale molto sensibile alla magia, ed immune a molti dei suoi effetti più nocivi. Lo raccolse, infilandovi dentro un pezzetto del filo universale che aveva con sé, e sotto lo sguardo incredulo di Hilda glielo mise al collo.

«E comunque, in qualche modo, il tuo papà, quello vero, sarà sempre con te.»

«Tu… lo credi davvero?» disse Hilda sorpresa e smettendo di piangere.

«Ne sono sicura. Ora forza. Presto sarà tutto finito».

Presesi per mano, ripresero a correre.

 

Se avesse saputo che la cosa avrebbe assunto dei contorni così drammatici, Georg ci avrebbe pensato due volte prima di portare i ragazzi della scuola a bordo di quella nave maledetta.

Contrastare gli EDA e affrontare situazioni pericolose era ciò per cui li stava addestrando, ma quello era un caso di alta emergenza, oltre che anomalo, per il quale persino lui non era certo di essere pronto.

Klaus dal canto suo cercava di mostrarsi forte e risoluto, ma si vedeva che anche lui era nervoso.

«Nervi saldi, ragazzo» gli disse vedendolo guardarsi attorno con l’arma sempre pronta a sparare. «Quei cosi saranno anche tanti, ma sono anche stupidi. Li sentiremo arrivare.»

«Non riesco a capire. Perché non li abbiamo visti arrivando? Abbiamo attraversato mezza nave senza incontrarli.»

«Perché probabilmente erano stati isolati con la chiusura delle porte di sicurezza. Aprendole, senza volerlo li abbiamo liberati.»

«Mi dispiace, signore.» disse Ulrich via radio «È colpa mia.»

«Niente affatto. Ho dato io l’autorizzazione.»

«Un momento» intervenne Klaus. «Se davvero qualcuno ha cercato di isolarli…»

«Esatto. È probabile che a bordo di sia qualcun altro oltre a quella ragazzina».

Il cammino dei due agenti proseguì fino ad una biforcazione a T, con il loro corridoio che proseguiva verso il fondo della nave ed un altro che invece, stando ai cartelli, conduceva alle cambuse e alle zone di stoccaggio delle merci.

Georg e Klaus fecero per tirare dritto, se non che nell’istante in cui ebbero il corridoio diretto alle cambuse alla propria sinistra dal buio il Capitano vide sbucare, dritta sull’orecchio di Klaus, la luce rossa di un mirino al laser.

«Attento!».

Si buttarono entrambi a terra, giusto in tempo per evitare una fucilata e le raffiche di almeno due armi automatiche, schiacciandosi contro le pareti.

«Cessate il fuoco! Siamo amici!».

Seguirono attimi di interminabile silenzio, poi una voce giunse dal buio.

«Siete della MAB, vero?».

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


7

 

 

Dall’ombra, camminando lentamente e a sguardo basso, arrivarono tre uomini, di cui due in abiti civili ed uno con una uniforme da inserviente, forse un cameriere.

Erano tutti e tre armati, ma tenevano le loro armi come veri e propri dilettanti; solo l’inserviente, giovane e dai capelli scuri, sembrava avere una qualche familiarità con il volture che aveva tra le mani.

Georg e Klaus gli si fecero incontro.

«Capitano Klopfer, forze speciali d’intervento.»

«Raoul Montero» disse l’inserviente. «Aiuto cameriere. Lieta di vederla, Capitano. Siete una gioia per gli occhi.»

«Sei un soldato?»

«Quasi, signore. Tre anni nella Guardia Nazionale di Ebridan.»

«Spari un po’ troppo alla leggera per essere uno che dovrebbe avere dimestichezza con le armi» protestò Klaus. «Ecco cosa succede a mettere un fucile nelle mani di un soldato a chiamata.»

«Mi dispiace. Credevamo che foste alcuni di quei maledetti mostri. Da queste parti ne sono arrivati di continuo per giorni.»

«Per quale motivo?»

«Ci sono dei sopravvissuti qui vicino, nelle cambuse. Quei bastardi probabilmente ne sentono l’odore. Poi le porte si sono bloccate, la corrente è andata via del tutto, e non sono più arrivati.»

«È colpa nostra» rispose Georg quasi mortificato. «Riattivando la corrente abbiamo anche aperto le porte.»

«Non si preoccupi. Anzi, ci avete fatto un grosso favore. Quaggiù forse eravamo al sicuro, ma eravamo anche prigionieri. Almeno ora possiamo muoverci di nuovo.»

«Che cosa ci fate qui?»

«Quando è tornata la luce, abbiamo pensato che poteva essere qualcuno venuto da fuori per cercarci, e che era meglio farci trovare. Noi tre eravamo gli unici ad avere dimestichezza con le armi, e io conosco la nave, così ci siamo offerti di venirvi incontro».

I due interessati a quel punto si presentarono.

«Philippe Reynar. Cacciatore a tempo perso. Per servirvi.»

«Lou Wong, signore. Sono vice-Comandante dei vigili del fuoco a Holsted.»

«Io a te ti conosco.» disse Klaus all’indirizzo di Philippe

«Me lo dicono in tanti.» sorrise l’interessato

«Quanti superstiti ci sono in quelle cambuse?» interruppe Georg

«In tutto, quattrocentotrentanove» rispose Raoul «Duecentoquattro uomini, centosettantanove donne e cinquantasei tra bambini e ragazzi.

Tutti quelli che siamo riusciti a mettere insieme e a portare qui prima che le porte si bloccassero.»

«Ci sono feriti?»

«Contusioni, distorsioni e altre cose del genere. Quelli che erano stati assaliti da quelle creature non ci siamo fidati a portarli con noi. La maggior parte di coloro che vengono morsi alla fine muore, e chi muore poi spesso ritorna come uno di loro.»

«Avete corso un bel rischio avventurandovi qua fuori. Per fortuna questa zona non è stata ancora raggiunta dagli EDA. E con un po’ di fortuna, non lo sarà mai».

Georg si mise allora in contatto con Ulrich.

«Drassimovic, puoi isolare la zona delle cambuse?»

«Non completamente, ma posso creare una serie di strozzature e di occlusioni bloccando alcune porte.»

«Bene, fallo.»

«Seguiteci» disse Raoul «Vi portiamo al rifugio».

 

I tre superstiti condussero allora Georg e Klaus attraverso il corridoio, volutamente ricoperto di casse, fusti e ogni altro genere di ostacolo per rendere la vita difficile a qualunque assalitore, al termine del quale vi era un ampio portone.

«Solo un istante» disse Raoul rimuovendo uno ad uno dei chiavistelli artigianali che impedivano l’attivazione del congegno di apertura automatica. «Prima che la corrente andasse via del tutto bloccando le porte, abbiamo pensato di rinforzarla. Non è il massimo della praticità, ma dovrebbe funzionare».

In effetti servì la forza di tutti e tre per riuscire a togliere quei cardini così pesanti, e appena la porta, liberata dai fermi, si aprì con uno scatto, tanto che Raoul dovette afferrarla per evitare che il contraccolpo fosse tale da far saltare il meccanismo, lo sguardo dei due soldati si aprì su di una sala molto ampia, con un’alta volta, una forma quasi perfettamente circolare e un diametro di almeno una quindicina di metri.

Sicuramente un crocevia, a giudicare dalle molte altre porte poste ad uguale distanza l’una dall’altra, tutte sprangate; le uniche aperte erano quelle che conducevano alla cambusa vera e ai servizi igienici, che a giudicare dall’odore dovevano aver lavorato a pieno regime negli ultimi giorni. A questo si aggiungeva anche l’olezzo di fumo, di cui la stanza era peraltro satura, prodotto dai bivacchi e dalle torce di fortuna per riscaldare e fare un po’ di luce.

Qua e là si innalzavano mucchi casse contenenti generi alimentari di vario genere, soprattutto scatolette, ed era stato organizzato in un angolo un centro di distribuzione; inoltre, più di uno era armato, anche se si trattava perlopiù di armi di piccolo calibro non particolarmente pericolose.

Nel vedere arrivare Georg e Klaus, col gagliardetto della MAB  ben visibile sulle tute, gli occhi di molti superstiti si accesero di meraviglia.

«Beh…» disse Raoul quasi sconsolato. «Benvenuti».

La gente si alzò, formando un semicerchio attorno ai due agenti.

«Sono il Capitano Georg Klopfer. Forze speciali di intervento. Siamo qui per aiutarvi».

Un uomo sulla quarantina, pizzetto e baffi ben curati, si fece avanti con fare piuttosto arrogante.

«Finalmente, era ora. Aspettavate un invito in carta bollata?»

«Lei non cominci come al solito, signor Song.» lo ammonì Raoul

«Richard Song!?» disse Klaus stupito. «Il giocatore professionista?»

«In carne ed ossa, ragazzino.»

«Ho seguito la sua partita contro Draxler Yale su internet. Una finale fenomenale.»

«Sì, sì, commovente. Gli autografi a dopo. Ora per favore vi dispiacerebbe farci uscire da questa nave maledetta?».

Georg però parlò come se non lo avesse sentito, e la cosa non fece visibilmente piacere al diretto interessato.

«Ci sono ufficiali tra di voi?»

«No, signore» rispose sempre Raoul. «Di ufficiali c’era solo il Comandante in Seconda Shawn. Si è avventurato nel cuore della nave tempo fa per cercare altri superstiti e provare a rimettere in moto la nave, ma non è più tornato.»

«Abbiamo bisogno di sapere con esattezza cos’è successo. Qualcuno sa come abbiano fatto quegli EDA ad arrivare a bordo del Megonia?»

«Tutto quello che sappiamo è che sono comparsi all’improvviso in vari punti della nave. Centinaia, forse anche di più. È successo proprio durante la Nascita di Venere. Io e alcuni altri ci siamo fatti strada fino a qui, e lungo il tragitto abbiamo raccolto quanti più sopravvissuti possibili. Poi, dopo qualche ora, le porte stagne d’emergenza si sono chiuse e siamo rimasti intrappolati.»

«Avete idea del perché si siano chiuse?»

«Probabilmente è stato fatto da qualcuno. A quanto ne so, le porte possono essere chiuse solo dal ponte di comando o dal nucleo di memoria.»

«Le armi come ve le siete procurate?»

«C’è un piccolo arsenale nei ponti inferiori. Una contromisura per difendersi dai pirati. La sicurezza ha tentato di contrastare gli EDA appena sono comparsi, ma sono stati travolti. Abbiamo trovato queste armi in giro per la nave.»

«Pensate sia possibile raggiungere l’armeria?»

«Ne dubito. Chi veniva da laggiù ha detto che quei ponti erano infestati.»

«Capisco».

Georg si guardò attorno, raccogliendo gli sguardi supplichevoli, confusi o spaventati dei sopravvissuti, quindi, chiamato a sé tutto il carisma di cui disponeva, parlò ad alta voce.

«Allora, signori. Statemi a sentire.

È evidente che la situazione a bordo del Megonia è assai più grave di quanto noi stessi avessimo preventivato.

Ci aspettavamo che aveste bisogno del nostro intervento, ma è chiaro che questa nave deve essere assolutamente evacuata il prima possibile».

In molti sorrisero, pensando già all’imminente fine di quell’incubo, ma le successive parole tramutarono i sorrisi in moti di sgomento.

«Tuttavia, non sarà per niente facile. Noi siamo solo in otto, ed è altamente probabile che il numero degli ostili superi abbondantemente il migliaio di unità. Inoltre, questo è un tipo di emergenza EDA assolutamente fuori dal comune, come non ne sono mai state affrontate.

Ragion per cui, prima di fare qualunque cosa, sarà necessario mettersi in contatto con la superficie, e ricevere da loro le dovute disposizioni, oltre ai rinforzi necessari per contenere la minaccia costituita dagli EDA e garantirci una evacuazione sicura.»

«Come sarebbe a dire!?» esclamò Ashley Tunderscott. «State dicendo che non ci porterete in salvo?»

«Purtroppo, al momento io e la mia squadra non abbiamo i mezzi per poter garantire la vostra incolumità.

Quelle creature sono estremamente pericolose, e il loro alto numero costituisce una ulteriore minaccia.»

«Tutte balle!» sbottò Song. «Le scialuppe di salvataggio sono solo due ponti più in alto. Non ci vorrebbe niente per raggiungerle.»

«Forse lei si dimentica che qui dentro siamo più di quattrocento» rispose gentilmente ma fermo il signor Gullit. «Crede sul serio che riusciremmo ad arrivare tutti quanti sani e salvi alle scialuppe? Gli EDA sono attratti dal calore e dall’odore del sangue. Ci sarebbero addosso prima ancora di poter superare un ponte, figuriamoci due.»

«Stiamo cercando di metterci in contatto con la superficie» disse ancora Georg per tranquillizzare la gente. «Quando ci saremo riusciti, comunicheremo la situazione e richiederemo rinforzi.

Si tratta di pazientare solo qualche altra ora. Qui dentro è sicuro, e ci sono provviste a sufficienza. Ora barricheremo di nuovo la porta, quindi ci chiuderemo dentro ed aspetteremo gli aiuti».

La maggior parte dei presenti rispose con pessimismo ed evidente delusione alle rassicurazioni del Capitano, e ognuno tornò a pensare ai fatti propri mentre l’aria si caricava di un’atmosfera poco piacevole, faticosamente contenuta da chi cercava di vedere positivo e contagiare gli altri con il proprio ottimismo.

«Ulrich, a che punto sei con quel collegamento?»

«Ci sono quasi, Capitano. Ancora un lucchetto, e potrò lanciare il satellite.»

«D’accordo. A tutta la squadra, cambio di programma. Portate tutti i superstiti che trovate nella zona cambuse nel Ponte K».

Tutti risposero affermativamente, tranne Mayu che rimase in silenzio.

«Marufuji, mi ricevi? Marufuji, rispondimi.»

«Che succede, Capitano?»

«Mayu non mi risponde. Spero non le sia accaduto nulla».

Klaus allora prese da parte il Capitano, guardandolo quasi con severità.

«Non gli ha detto della questione relativa all’attrazione gravitazionale di Neos.»

«Hai intenzione di far scoppiare una rivolta? I nervi sono già tesi. Più a lungo riusciamo a tenere calma questa massa di civili terrorizzati, meglio sarà. Un uomo sopraffatto dalla paura è capace di tutto, dovresti saperlo.»

«Il fatto è che il tempo non è dalla nostra. Anche ammesso che mandino una spedizione di soccorso…»

«Non fasciarti la testa prima di essertela rotta, ragazzo. Chi comanda non deve mai lasciarsi andare al pessimismo.

Se il Comandante esita, lo faranno anche i suoi uomini.

Ricorda. Il Comandante deve sapere sempre cosa fare».

In quella il Capitano si avvide della presenza di una donna accanto a lui, piuttosto giovane ed attraente, ma segnata come gli altri da giorni di orrore e privazioni.

«Vi prego, dovete aiutarmi» disse con le mani giunte e lo sguardo supplichevole. «Ho perso mia figlia e mio marito durante la fuga.

Mio marito porta un anello con un rubino, mia figlia invece ha i capelli biondi e indossa un vestito verde.

Dovete trovarli, vi supplico. Loro sono tutta la mia vita».

Klaus e Georg si guardarono tra di loro, annuendo.

«Sua figlia per caso si chiama Hilda?» domandò Klaus.

Alla donna si illuminarono gli occhi.

«L’avete trovata?»

«Può stare tranquilla, è sana e salva» la rassicurò il Capitano. «È con uno dei nostri agenti.»

«Sia ringraziato il cielo».

 

Era stata una gran bella fatica, ma finalmente Ulrich era riuscito a violare il sistema di controllo dei satelliti “tascabili”, o almeno dell’ultimo ancora operativo.

«Niente di che» mentì a sé stesso. «Ma il difficile arriva adesso».

La mappa stellare comparve sul monitor principale, e sulla fusoliera del Megonia, all’altezza della base della torre di comando, si aprì una piccola botola, dalla quale, con una vampata di fuoco e di plasma, schizzò fuori una sfera metallica poco più grande di un’autovettura.

I piccoli razzi direzionali montati nel guscio che proteggeva il satellite ne permettevano un rudimentale controllo, ma non era per niente facile riuscire a farlo muovere in mezzo ad una tale quantità di detriti spaziali, tanto che persino Ulrich dopo poco prese a sudare.

«Così» continuava a ripetere, la lingua tra i denti e le tempie rigate dal sudore, maneggiando il joystick di controllo. «Piano. Piano. Sei bravissima, bella» e intanto teneva d’occhio le scansioni del radiofaro che mostravano la potenza del segnale, ancora assente.

Un piccolo asteroide per poco non polverizzò la sfera, che Ulrich riuscì fortunatamente a far virare all’ultimo secondo, un altro detrito colpì la superficie senza però incrinarla, ma a parte questi piccoli inconvenienti il volo proseguì senza problemi.

La sfera volò dritta dinnanzi a sé, allontanandosi sempre di più dal Megonia, e in pochi minuti uscì dalla zona oscura; ma del segnale, neanche l’ombra.

Poi, da un momento all’altro, l’indicatore si accese come una città al tramonto.

«Beccato!».

La sfera, giunta a centoventimila chilometri dal Megona, si fermò, aprendosi come un fiore e rivelando il cuore pulsante del satellite, di cui la protezione esterna altro non era che l’antenna vera e propria, che si completò congiungendo ad ombrello i cinque petali.

Ulrich aprì la comunicazione, impostando la traiettoria del segnale verso la stazione orbitale.

«Qui Ulrich Drassimovic. Otto-uno-quattro-cinque-due. Ares, mi ricevete?».

Nessuno rispose. Ma il giovane non si diede per vinto.

«Qui Ulrich Drassimovic. Otto-uno-quattro-cinque-due. Squadra Speciale d’Intervento. Ares, mi ricevete?».

 

Il Direttore Shane stava pranzando da solo nel suo studio, un pasto veloce prima di rimettersi al lavoro, quando giunse la notizia che qualcuno si stava mettendo in contatto con la stazione da coordinate riconducibili alla posizione attuale del Megonia.

Mollata l’insalata, corse in sala comunicazioni.

«Avete intercettato la comunicazione?»

«Ci stiamo provando» disse uno degli operatori. «Il segnale è molto disturbato per colpa delle radiazioni».

Dopo poco, sul proiettore virtuale al centro della stanza, cominciò ad intravedersi qualcosa, e a sentire delle parole gracchianti e distorte.

«Qui … Drassimovic. Otto … cinque-due. Squadra …. vento. Ares, mi ricevete?»

«Ecco, ci siamo! Provo a pulirla!».

Un'altra correzione dell’antenna, e finalmente il volto del soldato scelto Drassimovic comparve all’interno del monitor, e la sua voce risuonò molto più nitida.

«Qui Ulrich Drassimovic. Otto-uno-quattro-cinque-due. Squadra Speciale d’Intervento. Ares, mi ricevete?»

«Vi riceviamo, otto-uno-quattro-cinque-due» disse il Direttore. «Faccia rapporto, signor Drassimovic. Come procede la missione?»

«Molto male, signore. Abbiamo un nove-nove-zero in pieno svolgimento a bordo del Megonia».

Gli occhi del Direttore si spalancarono, i suoi arti tremarono, e le sue mani si strinsero con forza attorno all’asta metallica del parapetto.

«Ne siete sicuri?»

«Abbiamo già preso contatto con alcuni ostili, signore. Riteniamo ve ne possano essere diverse centinaia.»

«Oh, mio Dio.»

«Il Capitano Klopfer e il resto della squadra hanno trovato dei superstiti, ma al momento ci è impossibile riuscire ad organizzare in sicurezza la loro estrazione.

Il rapporto numerico è soverchiante, e la nostra capacità di combattimento limitata.

Necessitiamo urgentemente di rinforzi».

In quella, così come era arrivata, l’immagine incominciò a scomparire.

«Che diavolo succede?» sbraitò il Direttore

«Le radiazioni stanno aumentando di nuovo!» rispose l’operatore. «Stiamo perdendo il segnale!»

«Direttore… bisogno… aiuto… resistere…»

«Cercate di tenere duro. Mi metto subito in contatto con la superficie. Invieremo i soccorsi».

In pochi secondi il segnale sparì del tutto, ma per allora Shane si era già avventato sul più vicino telefono.

«Sono il Direttore Shane. Chiamatemi subito il Direttore Generale e il capo dell’Unità di Crisi. Massima priorità».

Dal canto suo Ulrich, rimasto di nuovo solo, tentò più volte di ristabilire la connessione, seguitando anche a parlare nella speranza che almeno la sua voce riuscisse a passare.

«Direttore, la prego di inviare subito dei rinforzi. Abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile. Non so per quanto riusciremo a resistere.

Direttore, mi sente? Stazione Ares, riuscite a ricevermi?» ma fu tutto inutile.

Il livello di radiazioni aveva raggiunto ormai livelli proibitivi, e oltretutto il segnale emesso dal Megonia arrivava già molto debole al satellite a causa delle interferenze prodotte dalla Zona Oscura.

Il giovane non era del tutto sicuro che avessero recepito il messaggio, quindi bisognava ad ogni costo trovare il modo di ristabilire la comunicazione.

Di sicuro, sperare di ricontattare la Ares era impossibile, tanto più che entro poco tempo la stazione sarebbe scomparsa oltre la linea dell’orizzonte, diventando irraggiungibile.

Ulrich ci pensò a lungo, indeciso sul da farsi, fino a che non arrivò alla conclusione che c’era un solo modo per sperare di rimettersi in contatto con l’esterno.

Ma tutto ciò che era riuscito a fare fino a quel momento era niente in confronto a quello che lo aspettava, poiché, non avendo i codici di accesso, si trattava di violare il sistema di sicurezza informatico più impenetrabile di tutta Celestis.

Una bella prova, persino per lui.

«L’avevo detto che sarebbe stata una lunga giornata» disse mettendosi al lavoro.

 

Quel giorno, l’intero Stato Maggiore della MAB, con alla testa il Direttore Generale Dylan Geithner, aveva in programma una visita all’Aurora, la nuova nave ammiraglia dell’aeronautica dell’agenzia, un piccolo gioiello di tecnologia e innovazione scientifica equipaggiata con le più moderne tecnologie, sia civili che militari.

La sua costruzione aveva richiesto tre anni di lavoro, e ora che anche gli ultimi test erano stati completati molto presto avrebbe iniziato la sua missione di pattugliamento e contrasto alla pirateria lungo i confini del sistema solare.

Quella visita serviva proprio a consegnare solennemente alla nave la bandiera di rappresentanza, e per il tardo pomeriggio era già previsto un volo inaugurale alla presenza dello Stato Maggiore.

Tutto attorno, la città di Kyrador continuava imperterrita nel suo processo di crescita, diventando ogni giorno sempre più splendente e maestosa: la MAB aveva deciso ormai da quasi un secolo di farne la propria città, visti anche gli ottimi rapporti che legavano l’Agenzia alla Repubblica di Caldesia, e nello spazio di pochi decenni quella piccola baia nel sud di Erthea si era trasformata nel centro del mondo.

Nel centro, scintillanti grattacieli spuntavano come funghi, alcuni già ultimati ed altri in costruzione, come la impotente e maestosa Union Tower, il futuro quartier Generale della MAB, tanto voluta dal Direttore Geithner e il cui completamento era ormai prossimo.

La visita alla nave era in pieno svolgimento quando arrivò dalla Stazione Ares la notizia che il Direttore Shane voleva parlare urgentemente con il Direttore Geithner, e questi, d’accordo con i suoi colleghi, decise di far svolgere l’incontro proprio nella sala conferenze dell’Aurora.

Tutti si aspettavano la comunicazione dell’avvenuto raggiungimento del Megonia e della messa in salvo dei passeggeri, così le notizie che lo Stato Maggiore ricevette dal Direttore Shane quando fu aperta la comunicazione lasciarono tutti quanti impietriti.

Quintus Nolan in particolare appariva piuttosto sconvolto, mentre il Direttore Shane enunciava a lui e al resto dei presenti quella che ad ogni parola sembrava tramutarsi sempre di più in una situazione da incubo.

«E questo è tutto quello che sappiamo?» domandò Geithner, a sua volta preoccupato

«Purtroppo la comunicazione si è interrotta a causa delle interferenze, signor Direttore. Comunque ritengo che la stima del Soldato Drassimovic sia attendibile.»

«Come diavolo è potuto succedere?» mormorò uno. «Migliaia di EDA tutti in una volta.»

«E abbiamo mandato laggiù dei ragazzi.» disse sospirando il Direttore Generale

«Non deve sentirsi in colpa, signore. È stata una decisione presa nell’ambito di questo consiglio. Lei non ha nulla da rimproverarsi.»

«Inoltre» puntualizzò Nolan, «Si tratta senza ombra di dubbio di una situazione al limite, oltre che assolutamente imprevedibile. Nessuno di noi poteva immaginare neanche lontanamente cosa sarebbe successo.»

«Ma sono io che ho autorizzato la missione. È mia la responsabilità di quello che potrebbe accadere a quegli allievi.

Li abbiamo mandati nello spazio perché siano la forza di sicurezza del domani, non per farli sbranare da un’ora di EDA su una nave infestata» quindi, il Direttore trasse un lungo respiro. «Dobbiamo aiutarli. Organizziamo subito una spedizione di soccorso».

I membri del consiglio si guardarono tra di loro, perplessi e incupiti, quando all’improvviso il suono di un allarme fece saltare tutti sulle sedie.

«E ora che succede?»

Il Direttore Nolan contattò il ponte di comando per avere spiegazioni.

«Signore» disse facendosi bianco. «Qualcuno sta cercando di entrare nei nostri sistemi informatici!»

«Che cosa!?» sbraitò un collega «Ci mancava anche questa! Bloccatelo!».

L’assalto però fu troppo rapido, e in pochi attimi una parte considerevole di firewall venne aggirata o sommariamente abbattuta dal misterioso hacker; chiunque fosse, doveva essere davvero in gamba.

Ad una potenziale tragedia già in atto rischiava di aggiungersene un’altra, ma ringraziando al cielo, così come era cominciato, l’attacco cessò prima di andare a colpire sistemi molto delicati e pericolosi, e dopo poco dal centro di coordinamento orbitale giunse la notizia che chi aveva violato i sistemi informatici stava usando il controllo così acquisito per riposizionare tutti i satelliti dell’Agenzia orbitanti attorno al pianeta.

Un pensiero illuminò la mente di Shane, e la comparsa sul monitor di una figura famigliare accanto alla sua confermò i suoi sospetti.

«Chiedo scusa per il metodo poco ortodosso» si affrettò a dire Ulrich. «Non avevo molto tempo per fare le cose con delicatezza.»

«Violare i sistemi informatici MAB và ben oltre la definizione di metodo poco ortodosso, chiunque tu sia.» lo ammonì Nolan

«È il soldato scelto Ulrich Drassimovic» lo presentò, quasi con baldanza, il Direttore Shane. «In collegamento diretto dal Megonia».

Seguì un moto di stupore, accompagnato da cenni di soddisfazione; se un ragazzo così giovane era stato in grado di hackerare il più protetto sistema informatico di Celestis, allora dopotutto i fiumi di soldi spesi nel Progetto Ares non erano stati sprecati.

«Faccia rapporto, Agente Drassimovic.» ordinò il Direttore Generale

«Sissignore. Al momento tutti i membri della squadra sono vivi, e abbiamo localizzato circa quattrocento superstiti. Si trovano nei livelli inferiori, assieme a due dei miei compagni tra i quali il Capitano Klopfer.»

«Potete organizzare un’estrazione.»

«Negativo, signore. Il numero di ostili è troppo alto per le nostre forze. Sarebbe molto difficile scortare tutti alle scialuppe, e anche se riuscissimo a farcela ciò passerebbe senza dubbio per un considerevole numero di vittime.

Per questo motivo, necessitiamo di rinforzi immediati, e in grande numero».

Di nuovo, il pessimismo riempì la stanza.

«Il fatto è, soldato Drassimovic» disse Nolan «Che al momento non abbiamo navi operative. Anche se ne mettessimo una in stato di massima allerta, ci vorrebbero ore per radunare gli uomini e farla decollare.»

«Con il dovuto rispetto, signore, il tempo è un lusso che non abbiamo. Attualmente il Megonia è fortemente debilitato, e più della metà dei sistemi operativi sono offline o fuori uso. Di questo passo, stando alle previsioni, ci restano poco meno di dodici ore prima che l’attrazione di Neos faccia precipitare la nave, senza contare i molti detriti spaziali che gravitano qui intorno, e che potrebbero colpirci in qualunque momento.»

«Usiamo l’Aurora».

Gli sguardi di tutti puntarono il Direttore Generale, che ricambiò ostentando un’espressione austera ed irremovibile.

Nolan si sentì gelare il sangue.

«Signore, l’Aurora non è ancora del tutto operativa. E poi, è la nostra nave ammiraglia. Non credo che sia il caso di…»

«Non abbiamo costruito questa nave per farla sfilare in parata, Direttore Nolan.»

«Ma non abbiamo personale, Signore.» cercò di protestare un altro

«Saremo noi il personale. Tutti qui hanno già avuto esperienze in vari settori dell’aeronautica e della navigazione spaziale. Sfruttando le competenze di ciascuno di noi, ne salta fuori personale più che sufficiente per pilotare qualunque nave spaziale, inclusa questa.

A questo punto, servono solamente i soldati necessari ad eliminare gli EDA e riprendere il controllo del Megonia.

Direttore Shane?»

«Signore?»

«Noi metteremo insieme tutti gli uomini possibili, ma ci serviranno anche alcuni dei suoi cadetti. Faccia in modo di scegliere i migliori, possibilmente che abbiano già esperienza in questo genere di operazioni.»

«Sissignore.»

«Aspetti Direttore, c’è un altro problema.» intervenne ancora un altro membro

«E quale sarebbe?»

«Il fatto è che le piastre protettive dell’Aurora non sono ancora state completamente testate. Possono resistere indubbiamente ad un eventuale scontro con i pirati, ma i test per verificarne la resistenza agli urti con corpi celesti pericolosi devono ancora essere ultimati.

Come ha detto l’Agente Drassimovic, si tratta di una zona molto pericolosa, e se un detrito spaziale ci colpisse rischieremmo di trovarci in pericolo tanto quanto il Megonia».

Il Direttore spalancò un momento la bocca, per poi volgere lo sguardo crucciato sul tavolo di legno immergendosi in un meditativo silenzio.

Anche se voleva a tutti i costi salvare quei poveri sventurati, non poteva rischiare di trasformare una missione di soccorso in una seconda emergenza: anche quelli, dopotutto, erano i compiti difficili e ingloriosi di un Comandante.

«Mi dispiace chiederle un impegno così gravoso, Agente Drassimovic, ma avremo bisogno ancora del vostro aiuto per potervi salvare.»

«Parlate pure, Signore.»

«Abbiamo bisogno che conduciate il Megonia fuori dalla Zona Oscura e dal campo di detriti. Lì dove vi trovate sarebbe troppo pericoloso e difficile riuscire a raggiungervi.»

«Faremo il possibile, signore. Cercheremo di far ripartire la nave».

In quella, la trasmissione si indebolì un’altra volta.

«Il segnale… svanendo. Cercherò… ristabilire… possibile.»

«Un’ultima cosa, Agente» intervenne Nolan prima che la trasmissione sparisse del tutto. «A bordo della nave si trovano alcune delle personalità politiche e militari più importanti del globo. Semmai dovessero verificarsi dei fatti imprevisti, non c’è bisogno che le ricordi che l’estrazione di questi individui ha la priorità su ogni altra cosa, inclusa la sorte degli altri passeggeri.

Mi sono spiegato?»

«Sissignore».

A tempo di record, nel giro di pochi minuti, l’Aurora accese i motori, e quando tutti i soldati disponibili in città furono caricati a bordo il Direttore Generale, seduto per l’occasione alla poltrona del Comandante, diede ordine di mollare gli ormeggi.

L’Aurora era stata pensata come una nave da guerra; ora invece, come la sua illustre antenata omonima, aveva come sua prima missione il restituire ad una nuova vita innumerevoli persone.

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


8

 

 

«Rimettere in moto la nave!?» ripeté Georg sentendo le disposizioni ricevute da terra

«È l’unico modo per avere aiuti in tempi rapidi, signore» rispose Ulrich. «Il tempo purtroppo non è dalla nostra parte. È solo una questione di tempo prima che Neos ci attragga a sé, e in queste condizioni il Megonia non può sostenere un atterraggio di emergenza.»

«E come diavolo facciamo a rimetterla in moto?» chiese Klaus spazientito. «Giriamo la chiave o la prendiamo a calci?»

«Teoricamente, sarebbe possibile rimettere in funzione la nave semplicemente riavviando i sistemi dal ponte di comando, ma al momento ci sono diverse anomalie ad alcuni sistemi vitali che renderebbero inutile il riavvio.

È necessario correggere tutte queste anomalie se vogliamo far ripartire il Megonia

«Specifica anomalie.» disse Georg

«Una su tutte, la sala macchine. I motori sono andati in arresto d’emergenza a causa degli urti subiti dallo scafo. Sto provando a riavviarli da qui.»

«D’accordo, tienici aggiornati».

Ulrich fece per rimettersi al lavoro, ma quasi subito la sua attenzione fu attirata da un file comparso apparentemente senza motivo nel mainframe che regolava e smistava le trasmissioni della nave, forse di qualcuno che aveva cercato di comunicare con l’esterno.

Era un file video, piuttosto recente, e visto che l’istinto gli suggeriva trattarsi di qualcosa di importante, messo da parte per un momento il lavoro lo aprì per verificarne il contenuto.

Sul monitor apparve un giovane uomo, lo sguardo sconvolto e i capelli spettinati, il volto segnato di sporco e sudore; un ufficiale, a giudicare dai gradi che svettavano dalla sua uniforme nonostante lo sporco ed il sangue.

Prima di partire Ulrich aveva visionato i profili degli ufficiali in servizio sul Megonia, quindi non ebbe difficoltà a riconoscere in quell’uomo sudicio e sconvolto il Comandante in seconda Alex Shawn; e qualunque cosa gli fosse successa, sembrava più morto che vivo.

«Non riesco a mettermi in contatto in alcun modo con il ponte di comando» disse cercando di mantenere la calma. «Temo siano morti tutti.

Io sono venuto quaggiù per tentare di riavviare i sistemi, ma il nucleo centrale è troppo danneggiato, e anche se lo riparassi non ha abbastanza energie per riuscire a lavorare.

Gli EDA sono comparsi all’improvviso, e in poco tempo hanno infestato l’intera nave. Ora però sono riuscito a chiudere le porte stagne di emergenza; questo dovrebbe tenerli bloccati. So che in questo modo probabilmente condannerò a morte altre persone, ma è l’unico modo per far sì che i superstiti nelle cambuse restino al sicuro.

Abbiamo tentato in tutti i modi di lanciare un segnale di sos, ma la Zona Oscura blocca tutte le trasmissioni. Non so se questo messaggio riuscirà a raggiungere qualcuno, ma abbiamo urgentemente bisogno di aiuto».

L’immagine scomparve, ma ricomparve dopo pochi attimi, forse perché il sistema aveva salvato tanti diversi file in un unico filmato per risparmiare spazio; ora, però, il ViceComandante Shawn appariva se possibile ancora più provato e sofferente di prima, per non parlare del sangue che aveva addosso.

«Ho provato a tornare sul ponte di comando per vedere se riuscivo a fare qualcosa da lì, ma è stato tutto inutile. Appena sono uscito dall’ascensore, sei di quei mostri mi hanno subito attaccato. Per fortuna ho trovato una pistola e sono riuscito a difendermi, ma uno di quei bastardi mi ha morso, e ora sono di nuovo bloccato qui» quindi si fermò, passandosi una mano sui capelli sudati. «Non so più cosa fare. La nostra sola speranza è che qualcuno venga a prenderci.

Possibile che non si siano ancora accorti che siamo spariti? Sono passati già due giorni, dannazione!».

Ulrich chinò il capo, sconfortato e deluso.

«Mi dispiace, amico. Non abbiamo fatto a tempo» quindi, spento il file ormai concluso, si rimise al lavoro.

 

Arrivare alle cambuse rischiava di essere molto più difficile e pericoloso che fare ritorno alla nave da sbarco, ma se come Georg aveva detto via radio Mayu aveva smesso di rispondere, e vi era quindi il rischio concreto che le fosse accaduto qualcosa, per Amanda ed Hilda la sola cosa da fare era imbarcarsi in quella pericolosa traversata.

Attraversare mezzo vascello con ogni singolo ponte infestato da quelle bestie, un’arma con pochi colpi nel caricatore e una bambina appresso era fuori discussione. D’altra parte, però, non si poteva neanche restare fermi ad aspettare aiuto, senza contare che, in quanto Agente, Amanda aveva il dovere di portare Hilda in salvo, in qualunque modo.

Per un po’ Amanda cercò di trovare una strada attraverso i corridoi, confidando nel suo sesto senso e usando degli espedienti per attirare altrove l’attenzione degli EDA che ormai avevano preso il completo controllo della nave, come globi di luce o suoni provocati deliberatamente, ma ogni passo era un rischio, e quegli esseri, malgrado la poca intelligenza, avevano al contrario dei sensi molto sviluppati, in particolare l’udito.

Sfortunatamente, tutti gli ascensori che le due incontrarono lungo la strada erano fuori servizio, e in quella zona non c’erano rampe di scale per poter scendere.

Amanda ben presto si sentì a corto di opzioni, ma cercava di mantenere l’autocontrollo per non spaventare ulteriormente Hilda.

Poi, però, le venne l’idea giusta, quando conversando con la bambina nel tentativo di tenerla calma questa rivelò come avesse fatto a raggiungere il centro commerciale sopravvivendo per quattro giorni.

«Ma certo, i condotti dell’aria» disse spalancando gli occhi.

In fin dei conti le condutture arrivavano dappertutto, ed era improbabile che qualche EDA avesse dimostrato abbastanza ingegno da avere l’idea di entrarci a sua volta; quindi, si trattava di una strada efficace e potenzialmente molto sicura.

«Ulrich, puoi passarmi la mappa delle condutture dell’aria?» chiese via radio.

«Al volo».

La mappa arrivò fulminea sul computer da polso della ragazza, e come previsto grazie ai condotti era possibile raggiungere il Ponte K e le cambuse senza mai doverne uscire.

Localizzata la grata più vicina, in uno stanzino nei pressi della zona ristoranti, Amanda la sollevò, infilandocisi dentro per prima per accertare che non vi fossero pericoli.

«Tutto tranquillo» mormorò tra sé, e sportasi aiutò anche Hilda a salire. «Ora mi raccomando, spostati in silenzio. Qui siamo al sicuro, ma se ci sentono potrebbero cercare di seguirci.»

«Và bene».

Per interminabili minuti procedettero così, strisciando nel buio; Amanda non si fidava ad accendere la luce, nel timore che quei mostri potessero scorgerla attraverso qualche feritoia o piastra a rete, ed accendeva il computer solo di tanto in tanto per accertarsi di essere sulla giusta strada.

Ogni tanto incontrarono dei salti, o delle zone in pendenza, a riprova del fatto che stavano scendendo sempre di più verso i ponti inferiori, verso una sicurezza che diventava sempre più vicina.

«Siamo quasi arrivati» sussurrò finalmente Amanda dopo lungo tempo. «Ancora poche decine di metri e arriveremo proprio sopra le cambuse.

Tutto bene, Hilda

«Sto bene.» rispose lei, apparentemente già riavutasi da quanto accadutole poco prima.

Di tanto in tanto, da sotto di loro, giungevano lamenti e versi inquietanti, a volte in numero considerevole, e allora Amanda e Hilda si fermavano in attesa che cessassero, oppure strisciavano ancor più lentamente per fare meno rumore.

Amanda procedeva alcuni passi avanti a Hilda, saggiando bene ogni singola piastra sopra cui transitavano, e un paio di volte fu necessario trovare altre strade per aggirare punti troppo scoperti o dal basamento non del tutto solido.

Una lastra cedette all’improvviso, proprio mentre Hilda ci stava passando sopra, ma per chissà quale miracolo la bambina riuscì ad aggrapparsi al bordo, strillando nello stesso tempo con tutta la sua voce.

Sotto di lei, attratti dalle urla, comparvero come formiche su di una carcassa un nugolo inestricabile di mani sollevate, bocche spalancate, e volti che facevano rassomigliare quella zona di caldaie e regolatori termici la bocca dell’inferno.

«Hilda!».

Amanda tentò di girarsi, ma quel pertugio era cosi stretto che a malapena riusciva a passarci, ma quando vide che Hilda era sul punto di perdere la presa non ci pensò due volte e si girò violentemente, afferrandola per un polso un istante prima che cadesse in quella fossa di mostri.

«Tranquilla, ti ho preso!»

Una tremenda fitta di dolore le arrivò dalla spalla destra, e non le fu necessario guardarla per capire di essersela lussata, ma stringendo i denti riuscì a tirare su la bambina, riportandola al sicuro.

«Stai bene?»

«Credo di sì.» rispose lei con il fiato corto per lo spavento, prima di girarsi nuovamente e riprendere il percorso, stavolta tenendo Hilda molto più vicina a sé.

La grata, anche se aperta, era troppo in alto perché gli EDA potessero raggiungerla, pur con tutta la loro agilità, ma comunque non era il caso di indugiare lì più del necessario.

«Forza, andiamocene» disse Amanda cercando di ignorare le fitte di dolore. «Ormai ci siamo quasi».

E detto questo ripresero a procedere, mentre sotto di loro quei mostri osservavano, irritati ed incuriositi, quella fessura nel soffitto da cui il loro pranzo era appena scappato.

 

Oltrepassata la zona intrattenimento, Joe ed Helen avevano ormai raggiunto la torre di controllo in cima alla quale si trovava il ponte, e almeno per quanto li riguardava fino a quel momento non avevano ancora incontrato nessun EDA, ma neppure dei superstiti da salvare.

Mancava da percorrere solo l’ultimo corridoio, poi avrebbero trovato l’ascensore che li avrebbe condotti direttamente alla meta.

Ma l’imprevisto era in agguato.

«Desolato di interrompere ancora la vostra missione, ma ho localizzato uno dei problemi accennati poc’anzi» disse d’un tratto Ulrich. «A quanto pare c’è un portello aperto nel condotto di manutenzione numero Cinque, non lontano da dove vi trovate voi.

Deve essere questo che ha fatto scattare i blocchi di sicurezza. Se non lo chiudiamo stabilizzando di nuovo l’atmosfera sarà impossibile far ripartire i motori.»

«Che storia è questa?» protestò Helen. «Ormai siamo praticamente al ponte.»

«Lo so, ma siete anche quelli più vicini. Gli altri ci impiegherebbero troppo, e a questo punto ogni secondo è prezioso.»

«Debois, occupatene tu» ordinò il Capitano. «Tu Helen continua per il ponte.»

«Sissignore.»

«Joe, aspetta» tentò di dire la ragazza, ma nel tempo che impiegò a pronunciare quelle parole Joe era già dalla parte opposta del corridoio, diretto verso la sua nuova destinazione con Ulrich ad impartirgli le direttive per arrivarci. «Capitano, è sicuro che sia una buona idea lasciarlo andare da solo?»

«Se si fosse trattato di chiunque altro, ti avrei detto di no. Ma quel ragazzo prima di essere una recluta è un ranger.

Se non sa cavarsela lui in questa situazione, non so chi potrebbe farlo.

Prosegui nella tua missione, Agente.»

«Agli ordini».

Helen riprese dunque a camminare, e fatti pochi metri la sua marcia si fermò dinnanzi all’ennesima porta bloccata, il cui congegno di apertura però era fortunatamente ancora funzionante.

«Sei arrivata» le disse Ulrich. «Oltre quella porta c’è il basamento della torre. Prendi l’ascensore dall’altra parte della sala, procedi fino al penultimo piano e ci sei».

La ragazza, però, esitava, fissando la porta con sguardo pensieroso. Alla fine, quasi con esitazione, fece scivolare la mano sul meccanismo di riconoscimento, e dal momento che Ulrich aveva già inserito le impronte di ogni membro della squadra nell’archivio di sicurezza le porte si aprirono davanti a lei, rivelando dietro di esse un androne all’apparenza molto grande, ma completamente avvolto da un’oscurità che la luce del corridoio riusciva a malapena a fendere.

Di nuovo, Helen esitò ad entrare, crucciandosi sempre di più, mentre nel buio figure minacciose si lasciavano sfuggire inquietanti lamenti e respiri sommessi, come quelli di un predatore pronto a colpire.

Forse era la paura della luce, fenomeno non nuovo che ad Helen era già capitato di vedere, forse una via di mezzo tra l’istinto e quanto restava della loro intelligenza, che piuttosto di scagliarsi tutti insieme sulla preda esponendosi ad inutili rischi suggeriva loro di aspettare piuttosto che fosse lei a venirgli incontro condannandosi da sola.

Serafica, quasi seccata, Helen sollevò la mano sinistra, sopra la quale si materializzò un globo di luce iridescente dalla consistenza simile a quella di una palla di vetro, con una specie di nucleo azzurro che pulsava nel centro circondato da pulviscolo rosso.

«Andate all’inferno» disse lasciandola cadere.

La sfera rotolò lentamente verso l’interno, illuminando una selva di piedi ed un pavimento chiazzato di sangue, fermandosi dopo aver fatto qualche metro; passò un secondo, e una vera esplosione di luce inondò l’intera stanza con la potenza e i violenti bagliori di una tempesta di fulmini, disperdendo inoltre nell’aria una pioggia di pulviscolo che al contatto con qualunque cosa, materiale ed immateriale, bruciava come il fuoco.

Gli EDA, più di una decina, ringhiarono furiosamente, accecati dalla luce e bruciati da quella dannata polvere, e quando alcuni di loro riuscirono faticosamente a riaprire gli occhi Helen era già in mezzo a loro, la pistola in una mano e l’altra avvolta da una nube color cremisi. I primi due furono abbattuti prima ancora di potersene rendere conto, mentre gli altri si scagliarono all’assalto attaccando da tutte le direzioni, ma Helen prima staccò di netto la testa al più vicino assestandogli un pugno con la mano libera quindi, agile come una libellula, si librò nell’aria sfuggendo all’accerchiamento.

Mentre era ancora in aria sparò alcuni colpi, uccidendone altri tre con tiri alla testa di una precisione quasi chirurgica, quindi tornata coi piedi per terra usò la propria agilità per scivolare nuovamente in mezzo agli EDA ancora confusi, sgambettandone uno con una scivolata sul pavimento liscio e spezzando il collo ad un altro subito dopo essersi rialzata con un colpo di tallone dritto alla base del collo.

Helen danzava come una ballerina, maneggiando le armi e la magia senza mai far venire meno una certa quale eleganza; non un movimento fuori posto, non un affondo che non fosse perfetto: per questo la chiamavano Sleeping Beauty.

Alla fine ne rimase solo uno, l’unico superstite, che dopo aver tentato di assalire la ragazza alle spalle prima ricevette un pugno che gli trapassò il torace da parte a parte, quindi subito dopo, mentre nonostante la ferita tentava furiosamente di assalire la sua preda, si ritrovò la canna della pistola infilata nella bocca aperta, prendendosi l’ultimo proiettile nel caricatore che gli fece scoppiare la nuca come un’anguria.

Quell’ultimo assalitore finì incenerito prima ancora che Helen avesse modo di ritirare il braccio, e a quel punto nella stanza tornò a regnare la calma.

«Devo ricordarmi di non contraddirla mai, signora» scherzò Ulrich dopo aver assistito all’intero scontro grazie al sistema di videosorveglianza che era riuscito finalmente a ripristinare all’ennesimo tentativo. «Quando sarà tutto finito, spero vorrà insegnarmi qualcosa.»

«Forse» rispose lei sorniona salendo sull’ascensore.

 

In quanto Agente operativo, Georg era stato addestrato, e aveva a sua volta addestrato, anche alla custodia dei civili eventualmente coinvolti in operazioni speciali, ma quella era una situazione talmente al limite che era davvero difficile riuscire a mantenere la calma.

Gli animi erano tesi, si vedeva ad occhio nudo, con lo stato di semi-prigionia che accresceva il senso di impotenza, e forse solo la presenza della figura carismatica della MAB, che il Capitano ben incarnava, costituiva la sicura posta su di una valvola che altrimenti rischiava di saltare.

In compenso, per tanta gente terrorizzata, vi era anche chi malgrado tutto cercava di mantenere l’autocontrollo e di aiutare gli altri.

Ashley Thunderscott, prima che una presentatrice televisiva e una cantante di fama mondiale, era stata una studentessa di medicina, e aveva speso gli ultimi giorni ad assistere ininterrottamente chiunque ne avesse avuto bisogno arrangiandosi con quel poco che era riuscita a trovare.

L’anziano signor Gullit, ad esempio, si era procurato una brutta distorsione alla caviglia, tanto da non potersi neppure reggere in piedi, e di quando in quando la ragazza andava a cambiargli la fasciatura usando ora un pezzo della stoffa che copriva qualche cassa ora un brandello del proprio costosissimo vestito.

Tra i due si era instaurato un bel rapporto, e anche quando Ashley non era impegnata a curare il suo attempato compagno di sventura capitava spesso che parlassero insieme, così, per far passare le ore nella speranza che quell’incubo surreale finisse presto.

«Lei mi sembra un po’ troppo anziano per fare il cameriere su una nave da crociera.»

«E lei troppo giovane per fare la cantante in giro per il mondo».

L’interessata rise divertita.

«Ho lasciato casa quando avevo diciassette anni. I miei genitori non volevano che diventassi una cantante, ma d’altra parte era sempre stato il mio sogno.

Così mi sono trasferita a Kyrador, mi sono rimboccata le maniche lavorando dalla mattina ed esibendomi in locali di quinta categoria fino a notte fonda, e finalmente un giorno un produttore ha voluto darmi un’occasione.

Da allora, è stato tutto più facile.»

«E non le manca la sua famiglia?»

«Qualche volta. Ogni tanto mi rifaccio viva, ma mio padre ormai non vuol più saperne nulla di me. Pensi, non è venuto neppure al concerto speciale che ho tenuto al mio paese, e mi hanno detto che non guarda nessuno dei programmi che presento o in cui sono ospite.

E lei invece? Con il lavoro che fa, immagino la vedrà poco la sua famiglia».

Anche l’anziano sorrise, ma il suo era un sorriso di rammarico.

«Io non ce l’ho più una famiglia».

Ashley lo guardò atterrita, mordendosi nel contempo la lingua.

«Mio figlio è morto quando aveva undici anni. Cancro al cervello. Allora non c’erano tutte le tecnologie magico-scientifiche che ci sono oggi. Mia moglie non si è più ripresa. Quanto a me, ho chiuso la mia enoteca e ho iniziato a viaggiare. Mi teneva occupato, e mi aiutava a non pensare.

Un giorno, ho scoperto che mia moglie si era trovata un altro. Ci siamo lasciati, e lei è tornata a Dunglefort. Lei si è risposata, e io ho ripreso a viaggiare. Prima una nave, poi un’altra, poi un’altra ancora.

E alla fine, sono arrivato qui.

Al Megonia

«Mi dispiace… io non volevo, davvero…»

«Non si preoccupi. Gli sbagli che ho fatto sono stati solo miei. Quando tutto questo sarà finito, le suggerirei di provare a ricucire il rapporto con suo padre. I legami famigliari, dopotutto, sono come il vino; se gli lasci il tempo di maturare, possono diventare sopraffini.

D’altronde, la vita scorre troppo rapidamente per perdersi in inutili attriti, perché poi quando si è vecchi si ha un sacco di tempo per rimpiangere ciò che si sarebbe potuto fare, e non si è fatto».

La ragazza tergiversò, fissando il pavimento su cui erano seduti, poi nei suoi occhi parve accendersi un filo di luce.

Stava quasi per ringraziare quel gentile signore che con delle semplici parole era stato in grado di farla sentire un po’ meglio, quando un rumore strano e metallico, che sembrava provenire direttamente da dentro la parete alle sue spalle, le fece rizzare i capelli per la paura.

«Aiuto!».

Come una mandria di pecore spaventate dalla vista dai lupi tutti fecero il vuoto attorno a quel punto, e solo la presenza autoritaria del Capitano riuscì a mantenere la calma.

«Non vi agitate!» ordinò Georg, quindi sia lui che Klaus raggiunsero di corsa la grata di metallo contro la quale Ashley si era inconsapevolmente seduta, da cui seguitavano a giungere quei rumori misteriosi.

«Non sparate, siamo amici!» si udì poi provenire dal buio del condotto.

I due agenti sgranarono gli occhi, fissandosi allibiti.

«Amanda!?» disse Klaus.

Qualche attimo dopo, il volto amichevole di Amanda faceva capolino dal buco.

«Chiedo scusa per l’attesa, Capitano. Ho preferito prendere una strada alternativa.»

«Pienamente scusata, Agente Gerth.» sorrise il Capitano.

Subito dopo di lei, dal condotto uscì anche la piccola Hilda, e come la vide Johanna le corse incontro abbracciandola più forte che poteva.

«Hilda! Grazie a Dio sei salva!».

La bambina però non ricambiò in alcun modo la stretta, seguitando a rimanere immobile, senza espressione, come una bambola.

«Il papà non c’è più.» furono le sue uniche parole.

Atterrita, la donna guardò Amanda, che abbassò lo sguardo facendo un cenno con il capo.

«Mi spiace. Non ho potuto fare niente».

Ma il dolore di Johanna, pur incommensurabile, era in parte mitigato dal sollievo per aver ritrovato quella figliastra con cui, fino a quattro giorni prima, non aveva mai fatto altro che litigare, ma che ora invece stringeva come fosse stato il suo più grande tesoro.

«Vieni, tesoro. Hai fame? Vediamo cosa c’è da mangiare».

Johanna portò Hilda in un altro punto della stanza, ma la bambina nonostante tutte le attenzioni e l’affetto ricevuto continuò a mantenere un atteggiamento scostante, lo stesso che aveva caratterizzato da sempre il suo rapporto con la matrigna.

Nel mentre Amanda, seduta in terra con l’espressione sofferente, faceva rapporto al Capitano, mentre Klaus le rimetteva a posto la spalla provocandole ulteriore dolore.

«Qual è la situazione nel resto della nave?» chiese Georg

«Ci sono EDA dappertutto. Soprattutto nei ponti superiori.»

«Superstiti?»

«Nessuno a parte Hilda. E neanche dei corpi. Ma ogni volta che qualcuno di loro muore, si incenerisce nel giro di pochi secondi. Forse succede la stessa cosa anche alle loro vittime, per questo non abbiamo trovato corpi».

Poco dopo Hilda si avvicinò nuovamente a loro.

«Mi dispiace. È stata colpa mia».

Amanda le sorrise gentilmente.

«Tranquilla, non è successo niente.»

«Ti fa molto male?» chiese preoccupata.

«Un pochino, ma ho applicato un incantesimo lenitivo. Presto non sentirò più nulla».

Hilda posò quindi la sua attenzione sull’omone nero che aveva accanto, tanto alto da sembrare un gigante.

«Hilda, lui è il mio superiore. Il Capitano Klopfer

«Piacere, signorina».

Vedere un sorriso su di un volto simile era la cosa più buffa che Hilda potesse immaginarsi, tanto che non riuscì a non farsi scappare una risatina. Persino da inginocchiato riusciva ad essere più alto di lei.

«Mi dispiace per il tuo papà. Ma ti prometto che ti porteremo al sicuro, qualunque cosa accada.

Vero, Agente Gerth

«Sicuramente.»

«Lo farete davvero?»

«Parola di soldato.» sorrise ancora lui.

Di fronte ad un così impacciato ma rassicurante tentativo di apparire bonario e affettuoso Hilda sentì rinascere la speranza, proprio come era accaduto quando aveva toccato la mano di Amanda, tanto che, nonostante tutto, la piccola riuscì a ritrovare dopo molto tempo la forza di sorridere.

All’improvviso, un rumore metallico attraversò tutta la nave, ed un violento rollio minacciò di mandare tutti gambe all’aria. Il tutto, per fortuna, durò solo pochi istante, almeno nella sua fase più violenta, ma era come se una mano ciclopica si stesse divertendo a sballottare la nave da una parta all’altra come un giocattolo, fomentando ulteriormente il panico.

«E adesso che altro c’è?» esclamò Georg.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


9

 

 

Gli scossoni si fecero sempre meno violenti, ma continuarono in ogni caso, e ad ogni nuovo tremolio la paura appariva sempre di più negli occhi dei civili.

«Drassimovic, rapporto!» strillò il Capitano alla radio. «Ti spiace dirmi che succede?»

«Quello che temevo, signore. La nave si è avvicinata troppo a Neos, e ora la luna ci sta tirando dentro.»

«Come sarebbe a dire?» chiese Klaus, che poteva sentire a sua volta. «Non ci avevano detto che ci sarebbe voluto più tempo?»

«È colpa di quel portello aperto. Scombussola i parametri relativi al mantenimento dell’atmosfera interna della nave, e così gli stabilizzatori funzionano male».

Georg digrignò i denti per la rabbia, quindi contattò via radio Joe.

«Debois, mi senti? Abbiamo bisogno del tuo aiuto, e subito.»

«Ci sono quasi, Capitano.»

«Nel frattempo, signore, ho localizzato un altro problema. I motori sono andati in arresto d’emergenza sempre a causa di quel condotto.

Possiamo far ripartire la nave da qui o dal ponte di comando in qualunque momento, ma è necessario riavviare le turbine perché la nave possa ripartire.»

«E come facciamo a riavviarle?»

«Il computer che controlla il riavvio si trova nella stanza di controllo della sala motori. È su quel ponte, ma dall’altra parte della nave».

Un barlume di esitazione offuscò per un momento il volto del Capitano, che si guardò attorno rivolgendo lo sguardo ora alla folla ora verso i suoi due allievi.

«Sei in grado di guidarmi fino a lì?»

«Qui sta il problema, signore. Le mappe della sala motori e dei settori limitrofi sono inaccessibili con questo livello di autorizzazione, suppongo per questioni di sicurezza. Inoltre le analisi termiche e barometriche sono tutte fuori norma, e quasi nessuna delle telecamere di sicurezza di quella zona sembra funzionare. Devono esserci stati degli incidenti anche piuttosto seri.

Mi dispiace, Capitano. Non ho alcuna maniera di poterla guidare».

Georg si accigliò, cercando di pensare a un’altra possibile soluzione, ma a parte l’unica che la sua mente aveva partorito fin dal primo momento non gli fu possibile teorizzarne altre.

Cercando di ostentare autocontrollo, si avvicinò nuovamente ai superstiti.

«Come vi ho già detto prima, non ho alcuna intenzione di mentirvi. Questi scossoni che sentite sono dovuti all’attrazione che Neos ha iniziato ad esercitare sulla nave».

Minacciò di scoppiare nuovamente il panico, ma al Capitano bastò un cenno della mano per riportare subito la calma.

«Non avete di che preoccuparvi. Un nostro compagno si sta già occupando della questione, e presto questo imprevisto sarà risolto senza incidenti.

Altri sono i nostri problemi.

Siamo riusciti a metterci in contatto con la superficie, e da Kyrador è già partita una spedizione di soccorso che sarà qui nel giro di poche ore».

Ma così come aveva intercettato e bloccato la paura, Georg fece lo stesso anche con la gioia.

«Tuttavia, perché l’operazione possa avere successo, è necessario riavviare la nave e condurla fuori dalla zona oscura, e per farlo è necessario riavviare i motori andati in arresto di emergenza.

Per questo motivo, ho bisogno di qualcuno che mi faccia da guida fino alla sala motori, da dove potremo rimuovere l’arresto e far ripartire le turbine» quindi esitò un momento, riprendendo a parlare dopo qualche secondo. «In altre circostanze non mi sognerei mai di chiedere una cosa del genere a dei civili, ma girare a vuoto per tutta la stiva con la speranza di trovare la porta giusta ci farebbe solo perdere tempo, e più il tempo passa più diminuiscono le possibilità che possiate uscire tutti sani e salvi da qui.

Sarebbe preferibile qualcuno che abbia lavorato nella sala motori, ma chiunque conosca bene questa nave e se la senta di accompagnarmi sarà di grande aiuto a tutti.

Ho finito».

I superstiti si guardarono tra di loro, mormorando a bassa voce sotto lo sguardo attento ed enigmatico del Capitano.

«È inutile, non lo faranno» mormorò Klaus esternando quello che in realtà pensavano tutti. «Hanno troppa paura.»

«Come ho detto, è l’unica alternativa che abbiamo. Nella peggiore delle ipotesi, andremo noi da soli».

Il signor Gullit ruppe il silenzio.

«Se non vi crea problemi farvi accompagnare da uno sciancato,» disse mettendosi faticosamente in piedi, sorretto da un rudimentale bastone «Posso guidarvi io. In tutto il Megonia non c’è membro dell’equipaggio più vecchio di me, e ho passato più tempo a bordo di questa nave che a casa mia.»

«Aspetti, signor Gullit» disse Ashley. «Lei è ferito. Non potrebbe mai farcela.»

«Apprezzo la sua determinazione, ma non è il caso che lei rischi in questo modo» rispose educatamente il Capitano. «È probabile che là fuori ci sarà da correre, forse anche da sparare, e la sua vita potrebbe essere in pericolo.»

«Vengo io!» esclamò di colpo Raoul facendo un passo avanti. «Sono un cameriere, ma conosco queste stive come pochi altri».

Tutti lo guardarono, alcuni più sorpresi di altri, ma in Generale non si denotò troppo stupore negli sguardi degli altri superstiti; Raoul doveva essersi calato molto bene nei panni del leader per meritare tanta fiducia.

«Un’arma in più può sempre servire» disse Reynar. «Inoltre, prima che sindaco e cacciatore sono un ingegnere, e ho lavorato spesso alla progettazione di sistemi di alimentazione per astronavi. Se arriviamo alla sala controllo, posso riavviare tutti i sistemi ad occhi chiusi.»

«Potrebbe essere molto rischioso» li ammonì il Capitano. «Siete sicuri di voler davvero venire?»

«L’ha detto lei» rispose Raoul. «Prima sistemiamo questa storia, prima ce ne torniamo tutti a casa».

Dopo un nuovo, lungo silenzio interlocutorio, Georg si avvicinò ai due uomini, poggiando ad entrambi una mano sulla spalla.

«D’accordo, preparatevi. Prendete un’arma a testa, e tutte le munizioni che riuscite a portare, ma cercate di tenervi leggeri. È probabile che dovremo strisciare o arrampicarci, per non parlare delle fughe.»

«Sissignore».

Mentre Georg ricontrollava per l’ultima volta il proprio fucile e Raoul si faceva aiutare da Reynar ad aprire la porta, Klaus si appressò nuovamente al suo superiore assieme ad Amanda.

«Capitano, non sarebbe meglio che venissimo noi con Lei?»

«Niente affatto. Voi resterete qui a sorvegliare questi civili. Non possiamo lasciarli senza protezione.»

«Ma potrebbe accaderle qualcosa. Avrà bisogno di aiuto» tentò di protestare Amanda

«Anche queste persone» replicò perentorio il Capitano. «Il nostro compito, il vostro compito, è assicurarvi che escano da qui sane e salve.

Questa storia diventa più drammatica ogni giorno che passa, e non posso perdere tempo a tenervi d’occhio».

I due giovani abbassarono lo sguardo come mortificati, e il Capitano quasi subito si rese conto di avere forse ecceduto un po’ troppo.

«Comunque vada, voglio che sappiate che se vi ho scelti per questa missione era perché vi ritenevo pronti per essere considerati dei veri agenti operativi» quindi guardò Klaus. «Anche tu, nonostante tutto».

Gli occhi mesti di Klaus e Amanda si accesero allora di una luce di orgoglio.

«Vi affido questi civili. Io tornerò il prima possibile.»

«Sissignore» risposero i due, in coro e risollevati.

A quel punto, aperta la porta, il Capitano se ne andò assieme a Raoul e Reynar.

 

Joe riuscì a percorrere le poche decine di metri che lo separavano dal suo obiettivo senza farsi praticamente notare dai molti EDA che, nonostante tutto, gli capitò di incontrare scendendo verso i ponti inferiori.

La sua agilità era pari se non superiore a quella di un felino, tanto che fu in grado di passare sotto il naso di un gran numero di mostri senza che questi si accorgessero minimamente della sua presenza, così non ebbe necessità di sparare neppure un colpo.

Su suggerimento di Amanda, che aveva comunicato via radio come avesse fatto ad attraversare indenne metà della nave, percorse l’ultima parte del tragitto scivolando silenzioso nei condotti di areazione, dai quali uscì appena giunto di fronte ad una porta stagna molto più spessa e massiccia di tutte le altre, su cui era ben visibile il cartello che segnalava il pericolo di assenza d’atmosfera.

«La gravità è mantenuta da una barriera» disse Ulrich via radio aprendogli la porta, oltre la quale vi era una piccola stanza di contenimento. «Ma all’interno non c’è atmosfera.

Inoltre il rivestimento della stanza impedisce le comunicazioni radio. Però ho ripristinato gli altoparlanti e i sistemi di videosorveglianza, così potrò guidarti.»

«Ho capito».

Debois materializzò il casco della propria tuta, quindi, tratto un breve respiro, aprì la seconda porta.

L’interno del condotto sembrava quello di un enorme silos, un gigantesco cilindro che scendeva verso il basso intervallato da passerelle corrispondenti ognuna ad un diverso ingresso sui vari ponti che venivano attraversati, collegate l’una all’altra per mezzo di scale ed acensori.

Tramite quel genere di condotti, disposti ad intervalli regolari da poppa a prua, era possibile regolare e stabilizzare l’atmosfera interna; somigliavano a degli enormi sfiatatoi da cui veniva espulsa continuamente l’aria viziata perché fosse sostituita con quella nuova prodotta dai sistemi vitali, inoltre assicuravano la stabilità della struttura garantendo un punto di contatto e di interscambio tra l’atmosfera interna ed il vuoto cosmico.

Sul fondo, la paratia di controllo, aperta sotto la pancia della nave; la barriera magica di emergenza era attiva, ma sotto di essa si poteva scorgere nitidamente la superficie cerulea di Neos, così distante ma, all’occhio, talmente vicina da sembrare a portata di mano.

La situazione appariva calma, e non vi era traccia alcuna di potenziali nemici, eppure Joe non si sentiva al sicuro.

«Il pannello che controlla la porta si trova al livello più basso» disse Ulrich attraverso gli altoparlanti. «Prendi la scala più vicina, scendi fino infondo, gira attorno alla passerella e ci sei.»

Il ragazzo fece come gli era stato detto, avviandosi verso le scale, ma quella sensazione non voleva saperne di lasciarlo in pace.

Ulrich da parte sua aveva notato, grazie alle telecamere, l’atteggiamento sospettoso e guardingo del suo compagno, ma non vi faceva troppo caso, reputando che fosse una cosa normale fare attenzione ad eventuali minacce nonostante all’apparenza non ve ne fossero.

Se non che, all’improvviso, gli parve di notare qualcosa. Un’ombra, o forse solo un riflesso, quasi un’onda fosse passata per un attimo accanto all’obiettivo increspando l’aria circostante.

Dapprincipio pensò di aver visto male, ma poi il fenomeno si ripeté su di un’altra telecamera, e stavolta il fenomeno, qualunque cosa fosse, si verificò abbastanza lentamente da poterlo scorgere con sicurezza.

«Joe, aspetta» si affrettò a dire. «Temo che ci sia qualcuno lì con te».

Era la conferma ai suoi sospetti, e immobilizzatosi a circa metà della discesa Jose fece per mettere mano al fucile, ma Ulrich immediatamente lo fermò.

«Non farlo! La camera è satura di idrogeno! Un colpo e salterà tutto in aria!».

Non era un problema, e per non correre il rischio di agire d’istinto Joe si disfò direttamente dell’arma scaricandola e lasciandola cadere a terra per poi estrarre il machete, la sola e vera arma di un ranger.

Il giovane parve farsi una statua, chiuse gli occhi e stette in attesa, riuscendo nonostante il casco e la tuta che lo isolavano dal mondo esterno a percepire le più piccole vibrazioni nella temperatura, nella pressione e nei movimenti dell’aria.

Chiunque fosse lì dentro intento ad osservarlo doveva essere furbo, molto più furbo dei soliti EDA, movendosi in silenzio e badando bene di non farsi vedere.

Tuttavia, Joe non immaginava neanche lontanamente cosa fosse sul punto di piombargli addosso.

Come un falco che dall’alto di una roccia piomba su di un ignaro pesce, una creatura che non assomigliava a nulla che Joe o Ulrich avessero mai visto saettò sul giovane ranger, il quale tuttavia forte dei propri riflessi rotolò di lato evitando il colpo per un soffio.

Quando poté vedere negli occhi il suo avversario, poi, persino Joe rimase per un attimo interdetto.

Era enorme: almeno due metri e mezzo d’altezza. Il corpo bianco, muscoloso, con alcune venature blu, e una pelle che appariva liscia e soffice come la gomma ma resistente come la pietra; braccia sottili e sproporzionate, tanto che le mani a quattro dita toccavano terra, con una specie di lame ossee affilate come rasoi che dal polso arrivavano fino all’avambraccio; di contro le gambe erano molto grosse, le cosce in particolar modo, e terminavano in un piede da rettile con tre dita, due anteriori e una posteriore, armate ciascuna di un lungo artiglio ricurvo; aveva anche una coda, lunga e carnosa, come lungo era il suo collo, simile a quello di una giraffa, tutto lamellato come una colonna vertebrale, e terminante in una orrenda testa a triangolo rovesciato sormontata da un paio di corna ricurve; del naso aveva solo i fori, gli occhi erano piccoli e neri, e dalla bocca aperta, oltre alla saliva e alla bava, spuntavano quattro minacciose file di denti, due per ogni estremità. Il volto poi era parzialmente nascosto dietro a un vetro, e non occorreva un genio per capire che si trattava di un casco; il corpo doveva essersi gonfiato fino ad inglobare la tuta protettiva che quell’uomo indossava al momento della mutazione, e forse era per questo che la pelle del mostro aveva quella parvenza quasi gommosa.

Joe aveva già visto degli EDA in passato, ma niente che rassomigliasse a ciò che aveva ora davanti, e anche Ulrich rimase di stucco.

«Santo cielo. Sarà come minimo un Classe Cavallo. Joe, vattene da lì!».

Ma Joe non aveva alcuna intenzione di scappare.

Mai voltare le spalle al nemico, soprattutto quando si aveva una missione: questo era ciò che gli era stato insegnato. Così come gli era stato insegnato che nessun avversario era imbattibile, e che da ogni situazione si poteva sempre venire fuori.

L’EDA ringhiò, forse irritato di fronte all’apparente mancanza di paura da parte del suo avversario, quindi lanciato un grido alzò entrambe le braccia menando un colpo violento, anche questo prontamente schivato.

A quel tentativo di assalto ne seguirono altri, alcuni violenti e istintivi altri, all’apparenza, un po’ più ragionati; comunque Joe non si limitò ad evitare gli attacchi, e alla prima occasione riuscì a rispondere affondando con precisione nel torace del mostro, anche se a causa della pelle molto spessa l’affondo non fu così grave da ledere organi vitali.

Ciò nonostante l’EDA accusò pesantemente il colpo, infuriandosi ancora di più, e girato su sé stesso colpì il giovane con un poderoso colpo di coda che lo sparò letteralmente contro il muro dalla parte opposta del condotto. Solo il colpo teoricamente sarebbe bastato a fargli esplodere il torace, senza contare l’urto con la parete che avrebbe dovuto polverizzargli la schiena, ma la tuta in puro exium non serviva solo a proteggere dagli effetti del vuoto spaziale.

Ma si trattava comunque di un colpo tremendo, anche per un soldato temprato dagli allenamenti come Debois, che infatti rantolato sulla passerella metallica impiegò molti preziosi secondi a trovare la forza per rialzarsi.

In questo lasso di tempo l’EDA, come un ragno, aveva preso a correre lungo i muri, quasi avesse avuto delle ventose al posto delle dita, e arrivato di nuovo sopra la sua preda vi si gettò sopra tentando un assalto in picchiata, a cui stavolta Joe sfuggì quasi per miracolo.

Toccando il suolo, gli artigli del mostro produssero alcune scintille, che a causa della presenza dell’idrogeno non ancora filtrato ed espulso dal condotto immediatamente produssero una piccola vampata; fortunatamente si trattò di una cosa di poco conto, e l’EDA cadendoci sopra lo spense col suo stesso corpo.

«Joe, sta attento!» gli ricordò nuovamente Ulrich dopo essersi spaventato come poche altre volte in vita sua. «Se succede di nuovo, potremmo non essere così fortunati! Non dovete provocare scintille!».

Era una parola.

Lui poteva anche controllarsi, ma come si poteva domandare la stessa cosa ad un animale con un briciolo di intelligenza?

Joe guardò in basso, maturando l’unica decisione possibile, e recuperate le forze quel tanto che bastava iniziò a correre in tutte le direzioni per sfuggire ai nuovi, infuriati assalti dell’EDA.

Con il suo machete tranciò e allentò in vari punti alcune delle sbarre della balaustra, stando ben attento a menare fendenti precisi che non provocassero scintille, e raggiunta una buona posizione vi si piazzò aspettando che il nemico cadesse nella trappola.

Come aveva previsto l’EDA abboccò all’amo, caricando a tutta forza; Joe attese fino all’ultimo secondo, fin quando il mostro non gli fu praticamente appresso, quindi lasciò cadere a terra la propria granata stordente, oscurando immediatamente la visiera. In questo modo, benché l’ordigno gli esplose praticamente ai piedi, ne rimase immune, al contrario dell’EDA che invece rimase abbagliato ed intontito.

A quel punto Joe saltò alle spalle dell’avversario, e caricate al massimo le fibre energetiche della tuta originariamente pensate per migliorare le prestazioni atletiche, le utilizzò per assestare al mostro un tremendo calcio con la pianta del piede che lo scaraventò di sotto.

Purtroppo, forse per caso forse per precisa volontà, un attimo prima di precipitare l’EDA avviluppò la punta della coda attorno al piede del giovane, trascinandolo con sé.

«Dannazione!».

Joe riuscì a liberarsi tranciando di netto la coda del mostro, che ringhiò dal dolore mentre ovunque si liberavano getti di sangue violaceo, ma questo non gli impedì di precipitare assieme a lui nel baratro, e visto che la barriera sottostante non era pensata per bloccare i corpi solidi il giovane si ritrovò da un momento all’altro a galleggiare nello spazio fuori dalla nave.

«Oh, merda!» esclamò Ulrich assistendo impotente alla scena.

Solo quando gli riuscì di rimuovere l’oscuramento della visiera Joe riuscì a capire realmente cosa era successo, ma tutto quello che poté vedere fu il vuoto cosmico nel quale era finito, e il Megonia sopra di sé ad un centinaio di metri.

Per fortuna la tuta era pressurizzata e specifica per quel genere di situazioni, ma questo non migliorava lo stato delle cose, senza contare che di quel maledetto EDA non sembrava esservi più traccia.

«Di bene in meglio».

Quella era in assoluto la sua prima esperienza spaziale al di fuori delle stanze di allenamento, e riuscire a mantenersi in equilibrio non era per niente facile. Joe stringeva con forza il pugno attorno al machete, dato che l’istinto gli suggeriva che quella bestiaccia era tutto fuorché sconfitta; quindi, pur sapendo di rischiare seriamente di soffocare, usò parte dell’ossigeno incamerato nella tuta per generare una combustione che, uscendo fuori dalla presa d’aria nella schiena, funzionò come un piccolo propulsore permettendogli di raggiungere nuovamente la nave, alla quale si aggrappò grazie ai magneti installati nelle dita e nelle piante dei piedi.

Per un attimo pensò di avercela fatta, tanto che si guardò intorno per cercare il condotto e ritornare dentro, ma come aveva previsto l’EDA era ancora vivo, e quando meno se lo aspettava gli si scagliò addosso, colpendolo con una poderosa manata per poi correre nuovamente a nascondersi camminando a sua volta sulla fusoliera del Megonia. Joe riuscì a difendersi quasi per miracolo, ma il colpo che ricevette gli fece scivolare via il machete di mano lasciandolo completamente disarmato.

La stessa scena si ripeté un altro paio di volte, e in entrambe le occasioni Joe riportò dei danni piuttosto seri, che non riuscirono per fortuna a perforare la tuta, ma che nonostante ciò riuscirono ad incrinargli qualche costola.

Del resto non era facile combattere a testa in giù, senza contare che l’energia che alimentava i magneti non sarebbe durata per sempre, così come le riserve di ossigeno ormai al minimo sindacale. Ma quell’EDA era come un fantasma, colpiva e scappava prima ancora che Joe potesse vederlo; l’unica era tendergli una nuova trappola, o distrarlo quel tanto che bastava per rientrare e chiuderlo fuori, ma come fare?

Alla ricerca di una soluzione, Joe notò una specie di sfiatatoio dal diametro di neanche un metro, e spalancata per un momento la bocca in un moto di stupore vi si diresse il più velocemente possibile comprendendo di che si trattava. Raggiuntolo, prese a colpirlo violentemente con le nocche metalliche, incrinandone la superficie e facendovi comparire delle strane striature rosse.

Attirato dal rumore come da una campanella, l’EDA emise il suo violento ruggito, e camminando a quattro zampe scivolò lungo la fusoliera pronto a scagliare l’assalto finale.

«E parti, maledetto!» imprecò il giovane continuando a colpire il buco, oltretutto ormai quasi del tutto a corto di aria.

Ma non succedeva nulla, e intanto il mostro si stava avvicinando. Poi, di colpo, lo sfiatatoio divenne rossissimo, e fulmineo Joe si spostò lateralmente, evitando sia l’ennesima artigliata, che stavolta poteva essergli davvero fatale, sia soprattutto una vera e propria eruzione vulcanica che sprigionatasi da un momento all’altro investì in pieno l’EDA, tramutandolo in una torcia.

Centraline di scarico.

Per quanto potessero essere grandi, nessuna batteria o condensatore poteva generare l’energia tale a far muovere un intero vascello spaziale.

Come tutte le astronavi il Megonia usava il krylium, che ridotto in polvere girava ininterrottamente all’interno dei generatori fungendo sia da carburante per i motori sia da fonte di energia per quasi tutti i sistemi della nave, liquefacendosi per via delle altissime temperature cui veniva sottoposto.

Data la sua elevata tossicità la maggior parte del composto così ottenuto veniva espulso attraverso i rotori, ma una parte, dato l’elevato valore energetico ancora presente al suo interno, veniva ridistribuita in una serie di cellette disseminate in tutta la nave, sì da essere utilizzata in caso di emergenza come “propulsori alternativi” per improvvise accelerate o virate repentine.

Bastava uno di quegli sfiatatoi, una fonte di calore posizionata subito prima dell’imboccatura, e dai condotti usciva una vera e propria cascata di plasma rovente, con una temperatura vicina ai 4000 gradi, contro cui non c’era corazza o pelle d’acciaio che potesse resistere.

L’EDA urlò come un dannato, cercando inutilmente di liberarsi dal fuoco che lo aveva avvolto, ma bastarono pochi secondi per fare di lui un carbone ardente che aspettava solo di esalare l’ultimo respiro.

Approfittando del momento Joe fece ricorso a tutte le forze che gli restavano, e messosi anche lui a gattoni scivolò lungo le pareti e la pancia della nave fino a raggiungere il foro da cui era uscito, infilandosi subito dentro.

Ma il suo avversario, per quanto morente, non aveva alcuna intenzione di lasciarlo scappare; con la forza della disperazione si riattaccò alla nave, correndo fin quando gli fu possibile incurante del dolore e della sua pelle che, bruciata e incenerita dal fuoco, sotto l’effetto del gelo cosmico, si stava tramutando in pietra, e quando le sue gambe letteralmente si staccarono impedendogli di andare oltre allungò il suo collo flessibile più che poteva.

Joe vide la testa di quel mostro fare capolino da oltre il bordo fin dentro la nave, agitandosi furiosamente come la coda di una lucertola, ed era talmente provato che non riuscì ad impedirgli di travolgerlo buttandolo a terra.

Gli mancava l’aria, ormai quasi del tutto esaurita, e tutto il corpo gli faceva male, e l’EDA da parte sua sembrava intenzionato a investire ogni briciolo di energia che gli restava nel tentativo di ucciderlo.

Il pannello che controllava la botola era lì, a pochi passi. Istintivamente Joe si tolse il casco, e caricato il braccio il più possibile lo scagliò contro il computer centrandolo in pieno; il monitor andò in pezzi, ma la copertura lamellare del condotto si azionò con la forza e la rapidità di una ghigliottina, tranciando di netto la testa dell’EDA e buona parte del suo collo.

A quel punto il resto del corpo, ormai senza vita, si lasciò cadere all’indietro, prendendo a galleggiare ancora fumante e parzialmente pietrificato in direzione di Neos, da cui prima o dopo sarebbe stato probabilmente attratto; quanto alla testa, stranamente, come il resto del corpo non andò in cenere: forse la pietrificazione aveva interessato anche quel misterioso Agente che causava la disgregazione dei tessuti, ma in quel momento Joe non aveva né voglia né tempo per pensarci, preso com’era dall’essere finalmente in grado di respirare di nuovo.

«Paratie chiuse» disse il sistema di controllo. «Pressione stabile. Atmosfera ristabilita.»

«Lo pensavo già Debois, ma ora devo proprio dirtelo» commentò Ulrich. «Hai nove vite come i gatti».

 

Oltre a doversi guardare le spalle respingendo occasionali attacchi da parte di gruppi più o meno grandi di EDA, Vincent e Jacob avevano anche altri problemi da affrontare.

Jacob non aveva l’aria di stare granché bene; anzi, più il tempo passava e più si sentiva uno schifo. Quel maledetto morso rimediato nella prima sparatoria non smetteva di sanguinare, e la pelle tutto attorno gli prudeva da morire, inoltre gli girava la testa e gli bruciavano gli occhi.

«Ti senti bene?» gli domandava continuamente Vincent, sempre più preoccupato

«Sto bene, non preoccuparti» era la sua risposta ogni volta.

Che il morso o la ferita di un’EDA potessero essere settici era un fatto risaputo, e ciò era particolarmente vero nel caso di chi come Jacob non era dotato di poteri magici; le scorie di magia impura che un’EDA si portava dietro erano dure da smaltire per un organismo sano, ma con un po’ di pazienza e qualche medicinale di solito tutto svaniva nel giro di qualche ora.

Intanto, i due agenti erano ormai giunti nell’infermeria, ma l’atmosfera che trovarono nell’avvicinarsi a quella zona era strana e molto inquietante.

In giro, a differenza che in altre parti dello stesso ponte, non si vedeva nessuno, e l’aria era satura di un odore nauseabondo, da putrefazione.

La cosa strana fu che mentre Vincent quasi non riusciva a sopportare quel tremendo fetore Jacob al contrario quasi non lo sentiva, benché avesse il naso perfettamente libero e si fosse sempre fatto vanto di un olfatto piuttosto sviluppato.

«Ecco, ci siamo.» disse Vincent notando la croce sopra l’ingresso della zona dell’infermeria.

Come tutte le altre porte anche quella era robustamente chiusa, ma bastò loro passare la mano sullo scanner per entrare, ma nell’istante in cui le porte si aprirono quell’odore di morte sbuffò verso i due agenti con la potenza di una bomba d’aria, e anche dopo aver varcato la soglia entrambi non riuscirono quasi a credere ai propri occhi.

Non lo si poteva neanche chiamare mattatoio.

Era riduttivo.

Ovunque, nelle cellette, nel corridoio, persino ammucchiati sui letti grondanti di putrescenze ed interiora, erano ammassate centinaia e centinaia di corpi mutilati, sventrati, amputati; alcuni non avevano la testa, altri le braccia, altri ancora erano stati svuotati di tutto il loro contenuto.

La maggior parte, oltre ad essere nuda, portava addosso segni di morsi e di masticamenti, mentre quasi tutti avevano addosso segni evidenti di incisioni chirurgiche, eseguite peraltro da una mano molto esperta.

C’erano tante mosche ed insetti da impestare un’intera città, e il putridume portato da una putrefazione che, nonostante la parvenza ancora abbastanza recente dei cadaveri, appariva in alcuni corpi già piuttosto avanzata faceva annerire e marcire i corpi, soprattutto attorno alle ferite e le menomazioni.

Persino il pavimento era rosso, e reso scivoloso dai litri di sangue e intestini che lo ricoprivano, l’aria era tinta del rosso del sangue che pareva essere persino evaporato, e la luce quasi del tutto assente rendeva quella massa contorta di cadaveri un’immagine degna delle peggiori profondità infernali; sembrava quasi di sentirli ancora gridare, emettendo i loro lamenti.

Uomini. Donne. Bambini. Vecchi. Ce n’erano di tutte le età sesso. Ma la cosa più orrenda era che, a guardarli, non tutti erano, o per meglio dire erano stati, degli EDA. Alcuni erano palesemente degli esseri umani, benché morsi o parzialmente mangiati, ma ciò nonostante erano stati ugualmente mutilati.

«In nome del cielo, ma che diavolo di posto è questo?» disse sconcertato Vincent.

D’un tratto, avviandosi sempre più nel cuore dell’infermeria, i due agenti iniziarono a sentire un rumore metallico, come di una sega circolare, provenire da una stanzetta sul fondo, da cui giungeva inoltre una luce un po’ più forte.

Si avvicinarono, e scostata leggermente la tendina che copriva la porta d’ingresso fecero irruzione all’interno.

Un uomo stava in piedi accanto al tavolo operatorio, il camice da medico rosso da far spavento, e tra le mani una sega circolare con cui stava sezionando un’EDA incatenato e ancora vivo, che si dimenava come un ossesso mentre gli veniva letteralmente aperta la pancia, cercando di mordere il suo carnefice apparentemente insensibile al dolore che doveva arrecargli un tale supplizio.

Accortosi dei due agenti, l’uomo interruppe il suo lavoro, avvicinandosi a loro e abbassandosi la mascherina.

«Ah, siete arrivati. Sapevo che doveva esserci qualcuno. Allora avete ricevuto il mio segnale.»

«Chi accidenti sei tu?» domandò Vincent dopo interminabili secondi di silenzioso sgomento, e seguitando a tenere il fucile puntato

«Dottor Mark Curtis. Sono il dottore responsabile dell’infermeria del Megonia».

Di nuovo i due agenti si guardarono attorno, sempre più sconvolti.

«Che cazzo è successo qui dentro?» ringhiò Jacob con gli occhi rossi.

«Chiedo scusa per questo spettacolo poco piacevole. Quando è incominciato tutto, gli EDA hanno iniziato ad assalire chiunque gli capitasse a tiro, e prima che potessi attivare le misure di emergenza con gli impulsi magici hanno sbranato quasi tutti» quindi il dottore esibì una pistola che portava alla cintura. «Grazie al cielo io avevo questa, e mi sono potuto difendere, ma nel giro di poche ore quei pochi che erano sopravvissuti sono morti anche loro».

I due uomini guardarono l’EDA, che benché sventrato seguitava inspiegabilmente ad agitarsi senza volerne sapere di morire.

«Tranquilli, è paralizzato dal collo in giù. L’ho anche imbottito di anticoagulanti e nitrato di krylium per ritardarne la morte» quindi il dottore si tolse un momento gli occhiali, ansimando. «Ho studiato da coroner, e ho avuto modo di sezionare più di qualche EDA, ma non ho mai visto niente del genere.

Non potete neanche immaginare quello che è successo qui».

Senza dire altro, Jacob puntò l’arma all’EDA facendogli saltare la testa, sconvolgendo il dottore.

«No, che fate? Non avevo ancora finito di analizzarlo! Era l’unico ancora vivo!»

«Non importa se sono mostri. Un tempo erano uomini. Meritano un po’ di dignità.»

«Si fidi, la dignità è l’ultimo dei nostri problemi al momento. Avete ripristinato le comunicazioni, vero?»

«Abbiamo una linea con la superficie. Stanno inviando aiuti».

Il Direttore spalancò gli occhi.

«Allora, dovete mettermi in comunicazione con loro! Subito!

Devo assolutamente parlare con l’alto comando dell’Agenzia!».

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


10

 

 

L’Aurora, viaggiando a pieno regime, aveva già raggiunto la Ares, dove aveva rapidamente dato avvio alle operazioni di rifornimento e imbarco della forza d’attacco necessaria a riprendere il controllo del Megonia.

Nell’attesa che tutto fosse pronto per ripartire, nella sala riunioni della stazione il consiglio di sicurezza aveva organizzato un’ultima riunione tattica per decidere la linea d’intervento, nella speranza di sentir giungere da un momento all’altro la trasmissione che annunciava l’avvenuto ripristino dei sistemi di navigazione che conducesse il Megonia in un luogo favorevole per il salvataggio.

Una  trasmissione arrivò, ma invece del volto di Ulrich o di quello del Capitano Klopfer i membri del Consiglio videro materializzarsi sul monitor lo sguardo atterrito e sconvolto, per quanto composto, del dottor Curtis.

Il dottore si era risistemato, smettendo il camice degno di un macellaio in favore uno ancora intonso, lavandosi malamente il sangue anche da faccia e capelli, inoltre aveva appositamente aperto la comunicazione procuratagli da Ulrich nel proprio ufficio lasciato in ordine.

Tuttavia, ciò che il dottore aveva da dire era di una gravità e di uno sconvolgente tale che nessuno, nell’ascoltarlo, avrebbe fatto caso al suo aspetto.

«Un virus!?» esclamò Nolan

«Sì, signore. Più precisamente, il virus dell’influenza.

Abbiamo avuto una piccola epidemia a bordo subito dopo la partenza, per questo si è diffusa in tutta la nave in modo così rapido.»

«Ma come può un virus provocare un fenomeno EDA?»

«E soprattutto, perché un virus!? Gli EDA non dovrebbero nascere solo dagli esseri umani?»

«La mia è solo un’ipotesi, signori, ma ritengo abbia a che fare con la Nascita di Venere. Come tutte le astronavi, anche il Megonia è dotato di barriere e rivestimenti protettivi, ma la quantità di radiazioni magiche emesse da Neos in occasione di questo fenomeno atmosferico sono particolarmente elevate. Forse anche più di quanto ci aspettassimo.

Il virus dell’influenza è basato su di una sequenza RNA, che per quanto complessa è strutturalmente più semplice rispetto all’originale DNA, ma anche molto più fragile.

La mia teoria è che le radiazioni abbiano alterato la sequenza genomica del virus dell’influenza che si era diffuso a bordo, tramutandolo in una sorta di EDA-virus capace di trasmettere la propria infezione a chiunque ne sia colpito».

I membri del Consiglio sbiancarono.

«Ha detto a chiunque!?» ripeté il Direttore Geithner

«Ho studiato il decorso della malattia, se così si può chiamarla. Subito dopo la mutazione, il virus inizia a moltiplicarsi in modo incontrollato, causando in breve tempo il collasso dell’organismo ospite a causa dell’aumento esponenziale di particelle magiche nell’organismo.

Al momento della morte, il livello di contaminazione risulta a tal punto elevato da provocare la mutazione all’interno del corpo stesso, provocando la nascita di un vero e proprio EDA. L’alta percentuale di energia infetta presente negli EDA generati è considerevole, abbastanza da permettere loro una sopravvivenza decisamente più lunga rispetto alla media, oltre ad una resistenza sopra la media ai comuni sistemi di contenimento.

Infine, in base agli esami autoptici che ho potuto condurre, credo di poter affermare con certezza due cose. La prima, è che il virus non ha effetto sugli stregoni, data la presenza di un core molto sviluppato che assorbe gli effetti nefasti dell’infezione, la seconda che in base al tasso di infezione negli esseri umani possono verificarsi vari stadi di mutazione. Circa due terzi dei soggetti colpiti muoiono prima che l’infezione diventi così grave da causare una mutazione post-mortem, mentre di quelli che restano nove su dieci si trasformano in EDA di classe Pedone, con la restante percentuale che può assumere caratteristiche che possono andare da un Classe Cavallo ad un Classe Alfiere.

Quando l’energia nefasta si esaurisce, o se il decesso avviene prima che questa abbia incrinato pesantemente il DNA, in entrambi i casi il virus rapidamente si autodistrugge assieme all’organismo ospite e a qualunque materiale non sufficientemente resistente che si trovi nei dintorni del corpo in una specie di auto-combustione, anche se servendomi di ritardanti e inibitori sono riuscito in qualche modo a limitare tale processo sì da condurre i miei esperimenti».

I membri del Consiglio si fecero dei fantasmi, guardandosi attoniti tra loro.

«E non c’è niente che si possa fare?» domandò ancora il Direttore Generale.

«Ho tentato di somministrare ai pazienti colpiti dosi massicce di antibiotici, oltre a bombardarli di incantesimi decontaminanti nel tentativo quantomeno di arrestare la mutazione, ma non ho ottenuto risultati».

Il dottore si fermò un momento; sembrava a sua volta sconvolto.

«Ma c’è una cosa ancora peggiore. Questo virus… è contagioso».

Fu come se un vento gelido si fosse abbattuto nella stanza, immobilizzando e cristallizzando ogni cosa.

«Come… come ha detto prego?» domandò Pierce McArdle, il più giovane membro del Consiglio, sia per età che per nomina

«È così, signore. Ringraziando il cielo ha perso la capacità di sopravvivere nell’aria, ma a parte questo si propaga ancora come la normale influenza, soprattutto per contatto diretto: morsi, graffi, a volte basta il semplice contatto fisico. Il tempo di incubazione varia a seconda del soggetto, ma in ogni caso non và oltre le dodici ore.

L’unica nota positiva è che con la disgregazione dei corpi non rimangono cadaveri che fungano da ricettacoli, ma di fronte alla sua virulenza questa una ben magra consolazione.

Dovete inviare aiuti al più presto, o moriranno tutti!».

Qualcuno si buttò sul tavolo come sfinito, chi li aveva si tolse gli occhiali quasi a voler piangere; gli unici a restare impassibili furono Nolan e Geithner, ma mentre il secondo sembrava cercare di nascondere il suo reale stato d’animo il primo lasciava trasparire tutto il suo disappunto e sconcerto, senza però che questo si traducesse in una parvenza di rassegnazione.

Dopo qualche attimo il segnale si interruppe di colpo, senza motivo apparente, ma ormai quegli uomini avevano sentito abbastanza. E se non bastavano le parole, dopo poco giunsero anche le poche immagini che il dottore era riuscito a mettere insieme sia dalle riprese della sicurezza prima che si spegnessero del tutto, sia da quelle delle sue autopsie da lui condotte, e per interminabili minuti in quella stanza regnò il più totale silenzio.

Non la si poteva neanche più chiamare situazione al limite: quella era una cosa mai successa prima, oltre alla più grave, potenziale catastrofe che la MAB e l’intero pianeta si trovavano a dover affrontare.

«Avete sentito quello che ha detto, vero?» esclamò ad un certo punto Nolan, il più risoluto di tutti. «Immagino siate tutti d’accordo su quale sia la cosa giusta da fare.»

«Ma…» tentò di obiettare Geithner. «Stiamo parlando di migliaia di persone. Avete sentito quello che ha detto l’Agente Drassimovic. Ci sono dei superstiti a bordo.»

«E sono tutti potenziali vettori della malattia, Signore» disse un altro, il Direttore Haseo Aoyama. «Chi ci assicura che tra di loro non ci siano degli infetti? Temo sia un rischio che non possiamo permetterci di correre. È in gioco la sicurezza del nostro pianeta.»

«Potremmo mettere in quarantena la nave» provò ad ipotizzare un altro ancora, Andrey Valdes. «Mandiamo i nostri uomini a bordo, eliminiamo gli infetti, e isoliamo i superstiti fino a che non potremo accertarne la non pericolosità.»

«E se uno dei nostri uomini viene infettato cosa facciamo?» irruppe Nolan.

Di nuovo tutti tacquero, chinando il capo.

«Signore, lo so che è una decisione dolorosa» disse Aoyama «Ma dobbiamo fare ciò che è giusto.»

«Non dovremmo avvertire Amaltea della situazione?» chiese McArdle. «La nave è loro dopotutto.»

«Per farci rallentare da burocrazia e paternalismi?» tuonò Nolan. «Il tempo è un lusso che non abbiamo! Dobbiamo agire subito! È in gioco la sicurezza di questo mondo!».

 

Il Direttore Shane nel frattempo si era ritirato nel suo ufficio, certo che sarebbe stato richiamato appena fosse venuto il momento di deliberare le ultime questioni e partire per Neos.

Stranamente la cosa andò per le lunghe, anche se Nathan era troppo preso nei suoi pensieri per accorgersene, ma quando gli venne da gettare uno sguardo sull’orologio avvedendosi di che ore fossero iniziò a pensare che forse era successo qualcosa.

Poi, uno dei suoi assistenti irruppe nell’ufficio, incredulo e frastornato.

«Signore, l’Aurora si sta preparando a ripartire.»

«Che cosa!?» esclamò lui balzando dalla poltrona

«È così, Signore. Hanno anche annullato le operazioni di imbarco truppe, e ordinato il rifornimento dei sistemi d’arma».

In linea teorica nessuno poteva fare niente a bordo di quella stazione senza il permesso di Nathan, ma quello era l’ultimo dei problemi.

Come un toro infuriato il Direttore si diresse a grandi passi verso la zona d’attracco, trovando man mano che vi si avvicinava la frenesia più assoluta. Chiunque fermasse dell’equipaggio dell’Aurora non apriva bocca, obiettando quando gli veniva ricordata la differenza di grado che l’ordine di silenzio veniva direttamente dal Direttore Generale in persona.

Con tutte quelle bocche cucite, a Nathan non rimase che andare dal suo vecchio amico McArdle, con cui aveva da anni una bella amicizia, ma che soprattutto gli doveva parecchi favori dai tempi dell’accademia, tra compiti lasciati copiare e assenze ingiustificate prontamente coperte.

Lo trovò in una saletta nei pressi dell’imbarco, funereo e con il volto cereo, gli occhi al pavimento che trattenevano a stento lacrime di vergogna.

Dovette forzarlo un po’, ma alla fine riuscì a fargli raccontare cosa fosse realmente accaduto in quella stanza, e qualche minuto dopo Nolan, intento a controllare lo stato dei rifornimenti davanti al portello della nave, se lo vide venire contro schiumante di rabbia.

«Oh, porca miseria.» imprecò tra sé mentre Nathan si avvicinava

«Brutto figlio di puttana! Pensavi che non l’avrei saputo?»

«La decisione ormai è stata presa. Il Consiglio l’ha approvata!»

«Quale decisione!? Quella di vaporizzare migliaia di civili? Lassù ci sono i miei ragazzi!»

«Non possiamo fare niente per loro, e se sono furbi scommetto che già lo sanno! E comunque, se quel virus lascia il Megonia potrebbe esserci una pandemia! Vuoi vedere Kyrador, o Otisa, o Volgorad, o qualunque altra cazzo di città trasformata in una specie di inferno in terra? Io no! Preferisco perderne poche migliaia di interi milioni! E scommetto anche tu!»

«Ma il virus non è aerobico, santo Dio! Possiamo contenerlo con la quarantena!»

«È un rischio che non possiamo né vogliamo correre, stupido amalteco

«Hai ragione, sono amalteco! Quindi non vi permetterò vi polverizzare una nave del mio Paese! Ora alzerò il telefono e informerò Amaltea della situazione, e vediamo se vi lasceranno fare quello che volete!»

«No, tu non farai proprio nulla! Sarai pure amalteco, ma prima di tutto sei un membro di questa Agenzia, e in quanto tale ti atterrai alle direttive dei tuoi superiori!»

«Il Megonia è una nave di Amaltea! È il governo di Amaltea che deve avere l’ultima parola!»

«Niente affatto! Emergenza militare di Classe Uno! In base alle direttive, in caso di emergenza di Classe Uno la MAB ha la facoltà di agire, cito testualmente, nell’interesse e nell’incolumità della sicurezza mondiale e della popolazione di Celestis! Vatti a rileggere l’RMA per i dettagli!»

«Ma scommetto che ad Amaltea non avete detto niente! Saranno felici quando sapranno che avete disintegrato la loro nave ammiraglia senza dirgli niente!»

«Lo saranno ancora di più quando sapranno che gli abbiamo evitato una pandemia di livello potenzialmente catastrofico!

Questa è una situazione che, porca puttana, va’ risolta subito!»

«Direttore» disse in quella un marinaio. «Siamo pronti a decollare.»

«Bene, era ora. Scusa, amico. I tuoi uomini non ci servono più» e detto questo Nolan salì sull’Aurora chiudendo letteralmente in faccia il portello al Direttore Shane, che poté solo restare ad osservare attraverso i vetri la nave che si allontanava in direzione di Neos.

Uno dei suoi, cui aveva ordinato di tentare di ristabilire il contatto con il Megonia con qualunque mezzo necessario, gli si fece incontro poco dopo pallido e sconfortato, trovando il suo superiore ancora immobile come una statua dinnanzi al portello chiuso.

«Mi dispiace signore, non c’è niente da fare. Temo che il satellite sia stato colpito da qualche detrito.»

«Fai preparare gli uomini e una nave.»

«Signore?!»

«Subito!».

 

Jacob era sicuro che con un po’ di tempo e di riposo si sarebbe sentito meglio, invece di colpo le sue condizioni sembrarono precipitare, e a Vincent bastò poggiargli una mano sul volto per rendersi conto di come scottasse da far paura.

«Santo cielo Jacob, ma che ti succede?» domandò Vincent sempre più preoccupato.

Ma ormai Jacob era ridotto in uno stato tale da non riuscire quasi a parlare, tanto i colpi di tosse e i conati di vomito gli rendevano difficile persino trovare la forza per respirare.

Per tentare di aiutare in qualche modo l’amico Vincent andò a cercargli qualcosa da bere, e mentre Jacob era da solo, disteso alla meglio su uno dei pochi lettini non lordi di sangue, aperti un momento gli occhi trovò a sovrastarlo il dottor Curtis, che lo fissava dall’alto come un giudice pronto ad emettere una sentenza.

«Ti hanno morso?».

Jacob fece cenno di sì.

«Lo sai che cosa ti aspetta, non è vero? Mi hai sentito mentre ne parlavo».

Era vero.

Forse il dottore lo aveva fatto di proposito; forse aveva detto volontariamente a Vincent di distendere l’amico ad un lettino così vicino all’infermeria, cosicché le orecchie di Jacob, rese ipersensibili da una mutazione che di fatto era già cominciata, potesse sentire di persona quale era il suo destino e decidere di conseguenza.

Il suo destino era segnato. Non c’era niente da fare. L’unica cosa che poteva fare era morire con onore, senza tramutarsi in uno di quei mostri.

«Ragazzi, brutte notizie» disse d’improvviso Ulrich. «Ho un nutrito schieramento di EDA sui monitor nei pressi dell’infermeria. Se non ve ne andate subito potreste non farlo più».

Vincent tornò in tutta fretta, ma quello che vide lo scioccò: in suo amico Jacob si era seduto, gli occhi che piangevano  sangue e una poltiglia fetida che gli usciva dalla bocca.

Riconobbe subito i sintomi: li aveva visti centinaia di volte. Ma non voleva crederci; non poteva crederci.

«Il suo collega è stato colpito in forma blanda» spiegò funereo il dottore. «Il virus non lo ucciderà, ma questo non impedirà la mutazione.»

«No! No! Non può essere!» gridò Vincent scotendo l’amico, ormai moribondo, e mostrandogli il suo stesso pendente. «Jacob, tu sei più forte di così! Sei sopravvissuto a mille EDA!»

«È inutile. Teoricamente sarebbe ancora possibile arrestare la mutazione, ma essendo provocata da un virus fermarla è impossibile.»

«Non può essere così! Deve esserci qualcosa che possiamo fare!»

«Una soltanto».

Freddo, senza apparente esitazione, il dottore prese la pistola, e con un colpo dritto in mezzo alla fronte pose fine alle sofferenze di Jacob, che si accasciò senza vita sul lettino.

Vincent rimase di sasso, mentre in lui montava la rabbia.

«Bastardo!» sbraitò atterrando Mark con un pugno che quasi gli ruppe la mascella. «L’hai ucciso!»

«Non l’ho ucciso!» rispose fieramente il dottore. «Ho salvato quello che restava del suo onore!»

«Stai mentendo!»

«Guardalo! Ti sembra una persona triste?».

Solo allora Vincent si accorse che sul volto lordo di sangue e vomito del suo più caro amico era comparso, come una rosa in mezzo al fango, un bellissimo sorriso, rilassato e felice, e allora capì.

Forse non era la morte che Jacob avrebbe sempre sognato, ma almeno era stata una fine onorevole. Meglio morire così che diventare uno di quei mostri che avevano sempre combattuto.

Di certo, però, non avrebbe permesso al suo corpo di diventare cibo per quelle maledette creature. Sapeva di non poterselo portare dietro, ma contava di tenerlo al sicuro fino a che quell’incubo infernale non fosse finito, così, con l’aiuto del dottore, lo portò dentro la sala operatoria, adagiandolo con cura sul tavolo.

Prima di andarsene lo compose come poteva, incrociandogli le mani sul busto attorno al pendente, e fino a che gli fu possibile stette ad osservarlo in silenzio, sfiorandogli di tanto in tanto i capelli insanguinati; quindi, quando i ruggiti di quei mostri si erano fatti ormai troppo vicini, se ne andò, sprangando con forza la porta dell’infermeria perché risultasse un santuario, o un cimitero, assolutamente impenetrabile.

«E ora forza, andiamo via!» ordinò al dottore.

 

Nella sala dei superstiti, l’aria si stava facendo davvero pesante.

Anche se gli scossoni si erano sensibilmente ridotti di quando in quando si sentiva la nave scricchiolare, e ogni volta la paura montava sempre più forte.

La maggior parte delle persone si era convinta che tutto fosse nelle mani del Capitano Klopfer, e attendeva come i suoi due giovani sottoposti di sentire da lui buone notizie da un momento all’altro, ma c’era anche una ristretta minoranza che non perdeva occasione per polemizzare e mugugnare a mezza voce il proprio disappunto, fulminando Klaus e Amanda con delle occhiatacce e degli improperi mal celati.

«È tutta colpa vostra!» urlò ad un certo punto Richard Song all’indirizzo dei due ragazzi. «Solo colpa vostra!»

«Adesso non incominciare.» cercò di bloccarlo Gullit

«Chi ha aperto le porte? Chi ha permesso a quei dannati mostri di circolare liberi per tutta questa fottuta nave? Siete stati voi!»

«Ma non lo capisci, imbecille?» gli rispose Ashley. «Se non avessero aperto le porte, non sarebbero neppure arrivati qui. E noi saremmo ancora a farci luce con le candele.»

«Sta zitta, culo basso. Cosa puoi saperne tu? E comunque preferivo di gran lunga pisciare alla luce di una fiammella che finire mangiato da quelle creature!

Voi avete provocato tutto questo, e ora voi dovete farci uscire!»

«È quello che stiamo facendo» tentò di spiegare Amanda. «Abbiate solo un po’ di pazienza. Quando i motori saranno stati riparati…»

«Al diavolo i motori! Chi vi dice che funzionino ancora? E soprattutto, chi ci assicura che quei tre ce la faranno? Grazie a voi, e ribadisco grazie a voi, ora questa fottuta nave è infestata da cima a fondo! Cosa credete che possano fare tre uomini? Scommetto che a quest’ora sono già stati sbranati, il che significa che potrebbero essere diventati anche loro come quei cosi!

L’unica cosa da fare è raggiungere le scialuppe!»

«Il Capitano è l’uomo più competente che conosca» disse spazientito Klaus. «Se ha detto che ce la farà, allora è così.»

«Ma taci, ragazzino. Cosa credi di saperne tu? Guarda che ti abbiamo visto tutti fare il cane bastonato davanti a quel tipo. È chiaro che per lui tu non conti niente, e non intendo stare qui a farmi guardare le spalle da un lattante che non ha neppure la fiducia del suo capo.»

«Come hai detto, spocchioso pezzo di merda?».

Klaus aveva cercato di trattenersi fino all’ultimo, ma alla fine non ce la fece più e assestò uno dei suoi famosi sinistri dritto allo zigomo di Song, che volò al tappeto con un molare in meno e il setto nasale spostato.

«Tu, brutto figlio di…».

Sembrava davvero che dovesse scatenarsi una gigantesca rissa, ma un urlo paralizzò tutti.

«Basta, smettetela!».

Johanna, rannicchiata in un angolo, seguitava a tenere la figliastra stretta a sé, senza che però questa ricambiasse in qualche modo, e intanto guardava i responsabili di quella zuffa con occhi iniettati di astio.

«Che senso ha combattere tra di noi? Non lo capite che siamo tutti sulla stessa barca?

Ora smettetela di fare i bambini e comportatevi da uomini! Così spaventate tutti!».

Effettivamente, guardandosi attorno Klaus si avvide che le persone tutto attorno li stavano guardavano, ed era evidente la loro paura.

Si diede dello stupido: se proprio lui, il cui compito era di portare in salvo quelle persone, si lasciava sopraffare dalla tensione, come poteva aspettarsi di poter essere di qualche aiuto?

Lasciò andare Song, che quasi senza accorgercene aveva preso con forza per il bavero, scaraventandolo via.

«Se ti sento ancora aprire bocca, ti faccio saltare qualche altro dente» e quello, masticando, poté solo obbedire, spaventato dal modo in cui Klaus accarezzava il suo fucile.

 

Helen non era mai stata una persona fortunata; o almeno, non si era mai reputata tale.

Così, il fatto che l’ascensore per il ponte fosse difettoso non la sorprese più di tanto, e poiché era una maga  non dovette neanche faticare particolarmente per percorrere in volo la tromba quadrangolare fino a giungere a destinazione.

Il ponte, immenso, era completamente deserto; probabilmente i suoi occupanti erano quelli che aveva sterminato all’ingresso. Inoltre, le paratie di sicurezza a protezione dei vetri erano tutte abbassate, ma si trattava senza dubbio di una misura d’emergenza attivatasi automaticamente con il blocco dei sistemi.

Di nemici, per fortuna, nemmeno uno.

«Sono sul ponte» disse via radio. «La zona è sicura.»

«D’accordo» rispose Ulrich. «Dammi un attimo che ripristino i sistemi».

Ma per il ragazzo era in serbo una brutta sorpresa.

Quando tentò di accedere ai comandi del ponte per ripristinarne le funzionalità, infatti, si ritrovò davanti solo una massa inestricabile di dati e pattume digitale, oltre a dei software scombinati all’inverosimile.

«Che diavolo è successo qui?» disse incredulo.

La risposta arrivò ad un rapido controllo, e non era certo delle più rassicuranti.

«Cattive notizie, Helen. Temo ci sia un bug nel computer della nave.»

«Come sarebbe a dire, un bug!?»

«Non so di preciso di che bug si tratti, ma una cosa è certa: ha fatto macello dei sistemi che controllano le funzionalità del ponte di comando. Ora come ora è impossibile perfino dare energia ai motori, figuriamoci ripristinare la rotta.»

«Vuoi dire che ho fatto tutta questa strada per niente!?»

«Proverò ad eliminare il bug e a fare un controllo. Se siamo fortunati il sistema che cerchiamo non è stato toccato. In caso contrario, dovremo inventarci qualcos’altro.»

«Non c’è che dire, questa missione sta filando liscia come l’olio».

 

La strada verso la sala motori si stava rivelando incredibilmente semplice: forse anche troppo.

Era vero che quel ponte in particolare era stato di fatto quasi isolato grazie ad Ulrich, ma la situazione sembrava fin troppo tranquilla: in quei corridoi era solo buio e silenzio.

«Non mi convince» disse Reynar. «Sembra tutto troppo facile.»

«Cosa c’è in fondo a questo corridoio?» chiese Georg a Raoul

«Le cucine».

Le porte scorrevoli delle cucine apparvero infatti poco dopo a bloccare la strada, ma erano porte strane, robuste e di puro acciaio, oltre che apparentemente infrangibili.

«Porte tagliafuoco» disse Raoul preoccupato. «Deve esserci stato un incendio».

Georg provò a buttarci sopra l’acqua della sua borraccia, e questa evaporò del tutto ancor prima di toccare la superficie.

«Ulrich, ci serve un’altra strada.»

«C’è un corridoio di servizio poco distante che gira attorno alle cucine. Tornate indietro di quindici metri e prendete a destra».

I tre fecero come era stato loro detto, ma ancora una volta si trovarono di fronte ad una porta chiusa.

«Ho bloccato entrambe le porte. Aspettate un momento, ora le riapro».

L’attesa fu piuttosto lunga, ma almeno sembrava destinata a scorrere senza imprevisti, tanto che i tre uomini finirono persino per calmarsi.

«Accidenti a mia moglie» imprecò Reynar. «Avrei fatto meglio ad impuntarmi.»

«Sua moglie è a bordo?» chiese Raoul

«Grazie al cielo no. Ha baciato un albero a quaranta all’ora e da due settimane è all’ospedale con un femore rotto e un trauma cranico.

Avevamo comprato i biglietti per questo viaggio già due anni fa, e ormai era tardi per riavere i soldi, così mi ha convinto a venirci da solo.»

«Guardi il lato positivo. Ha assistito a due grandi eventi in una volta sola.»

«Ne avrei fatto volentieri a meno. Io odio volare.»

«E tu, Raoul? Sei sposato?» domandò Georg

«Ho una ragazza. Svetlana. Sta a Volgorad

«Sei fortunato» rise Reynar «Visto il freddo che fa laggiù, scommetto che ogni volta che vi vedete ti chiede di riscaldarla a dovere».

Non era granché come battuta, ma in quella situazione qualunque cosa aiutasse a stemperare la tensione era benaccetta.

Se non che, proprio nel momento in cui Georg e i suoi improvvisati compagni erano maggiormente calmi, un rumore inquietante, come di qualcosa di metallico che cadeva violentemente a terra rompendo il silenzio, li riportò violentemente alla realtà.

«Avete sentito?» domandò il Capitano.

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


11

 

 

A quel rumore ne seguirono altri, molto più inquietanti, fatti di strepiti, respiri sibilanti e passi di corsa.

Non dovettero passare che pochi secondi, e dall’angolo sul fondo del corridoio i tre uomini videro sbucare un vero esercito di EDA, che sguardi assatanati e bocche grondanti di saliva correva verso di loro.

«Fuoco!».

Spararono all’unisono, e poiché sia Raoul che Reynar non erano nuovi all’uso delle armi il loro rateo di fuoco, oltre che considerevole, risultò anche piuttosto preciso, ma questo non rendeva la loro situazione meno tragica.

Per quanti ne uccidessero quelli continuavano ad arrivare, e inoltre abbatterli non era facile, con quel loro correre indeciso e quell’unico bersaglio vulnerabile, la testa, che si muoveva di continuo da una parte all’altra come quella di uno struzzo al galoppo.

«Ulrich, dannazione muoviti!»

«Sto facendo il possibile, signore!» rispose il giovane, che per la prima volta stava cedendo al panico e all’ansia.

Una pallottola vagante andò a centrare una conduttura del gas che alimentava le cucine provocando una fontana di fuoco che rallentò per qualche attimo l’avanzata dei nemici, ma quasi subito entrò in funzione il meccanismo antincendio che inondando d’acqua il corridoio iniziò a spegnere rapidamente le fiamme.

«Ulrich

«Ci sono!».

Le porte alle spalle dei tre finalmente si aprirono, e con esse anche quelle dalla parte opposta della stanza che dovevano percorrere.

«Ho craccato il sistema, ma non resteranno aperte per sempre! Sbrigatevi!».

La stanza in questione era costituita in realtà da due piccoli loculi spalancati su di un’immensa galleria che portava le condutture di alimentazione per tutta la nave, sopra le quali si poteva passare per un ponticello metallico lungo e stretto: una perfetta strozzatura.

«Presto, dentro!» ordinò Georg.

Salirono sul ponticello, percorrendolo il più velocemente possibile, con quella massa di mostri che spentesi le fiamme subito andarono loro dietro.

Georg era l’ultimo del gruppo, e camminava all’indietro sparando tutto quello che aveva, ma non si accorse che uno degli EDA, aggirando la prima linea con un salto sovrumano, era sul punto di piombargli addosso.

«Attento!» gridò Reynar che lo precedeva, e che con un tiro ben piazzato fulminò l’aggressore facendolo precipitare nel baratro.

Si ebbe quindi un cambio di posizioni, con Reynar ultimo della fila, e lasciato perdere lo sparare agli assalitori tutti e tre si misero a correre verso la salvezza.

Reynar non si accorse che stavano iniziando i gradini del ponticello, e sentendosi mancare all’improvviso la terra sotto i piedi cadde malamente in avanti battendo con forza il ginocchio sul pavimento, tanto che quando provò a rialzarsi non gli riuscì di trattenere le grida di dolore.

«Philippe!».

In quel momento le porte iniziarono a chiudersi, e Georg, afferrati saldamente i battenti, usò tutta la sua forza per tenerli faticosamente aperti, ma la pressione era tale che non avrebbe resistito a lungo. Il vicesindaco gattonò i pochi metri che lo separavano dalla porta, con Raoul che gli tendeva la mano il più possibile; l’aveva appena afferrata, ed era già fuori dalla stanza con metà del corpo, quando qualcun altro lo agguantò con forza dalla parte opposta, affondandogli i denti nella gamba fin quasi a staccargliela.

Il suo urlo fu assordante e spaventoso, e quando Georg, con i muscoli che tremavano per lo sforzo, riuscì a guardare dinnanzi a sé, vide una decina di EDA ammassati attorno alle gambe di Reynar, che tiravano e mordevano con bestiale veemenza mentre altri si ammassavano per unirsi a quelle specie di sadico tiro alla fune.

«Non mollare!» continuava ad urlare Raoul, tirando con entrambe le mani.

Nel disperato tentativo di salvare il compagno Georg lasciò andare la porta, che si chiuse con uno scatto per fortuna non troppo violento, afferrando con una mano il braccio di Reynar e prendendo a sparare attraverso la fessura con quella ancora libera, ma quei maledetti mostri non volevano saperne di arrendersi.

Reynar gridò con tutta la voce che aveva, lanciando nel contempo urla di dolore mentre le gambe gli venivano divorate, e nonostante tutti gli sforzi dei suoi due compagni alla fine, con gli occhi sbarrati per e la faccia sconvolta per il terrore, scomparve dietro le porte che si richiudevano, mentre le sue grida rapidamente si spegnevano.

Raoul restò a lungo immobile, seduto in terra, guardando verso la porta chiusa, mentre Georg, riavutosi dallo shock, prese a tirare violenti calci al muro.

«Porca troia! Come cazzo hanno fatto ad arrivare fin qui?»

«Non ne ho idea, signore» tentò di giustificarsi Ulrich. «Il computer dice che tutte le porte sono ancora chiuse.»

«E allora quelli da dove cazzo sono usciti?».

A quel punto, con la cucina isolata e gli EDA ad infestare quella zona, non c’era più alcun modo per tornare indietro, ma al momento quello era l’ultimo dei loro problemi.

«In piedi, soldato» ordinò Georg tentando di far leva sui trascorsi militari di Raoul per riportarlo alla ragione. «Quanto manca alla sala motori?»

«Circa… circa cento metri…» rispose lui ancora sconvolto. «Ma dovremo fare delle deviazioni…»

«E allora muoviamoci. Restare qui a piangere non servirà a niente».

 

Dato che il tragitto fatto all’andata per raggiungere l’infermeria, a sentire Ulrich, era ormai infestato, Vincent e il dottor Curtis non ebbero altra scelta che passare per l’acquaparco, salendo di un ponte con l’intenzione di scendere nelle stive usando un’altra scala di servizio ancora sgombra dietro agli spogliatoi.

Lo spettacolo che i due uomini trovarono varcando le porte stagne che immettevano nella zona delle piscine, pensata e strutturata in modo da ricreare l’atmosfera tropicale isolando quell’enorme androne dal resto della nave, fu però quanto di più macabro si potesse immaginare: l’acquaparco era dotato di tre piscine, di cui una con idromassaggio e una con grandi scivoli che salivano fin quasi a lambire l’altissimo soffitto a volta, e persino un piccolo laghetto di acqua termale che riproduceva le famose pozze di Zipangu, e in ognuna di quelle vasche galleggiavano senza vita decine e decine di corpi, mentre altri giacevano inerti sulle mattonelle bianche, il volto blu e la bocca innaturalmente spalancata. Alcuni poi avevano le mani serrate con forza attorno al collo o vistosi tagli sulla gola, altro sintomo che indicava chiaramente una morte per soffocamento.

Se non altro non si muovevano, ma ciò non bastava a rendere spiegabile ed accettabile tutto quell’orrore.

«In nome del cielo, che è successo qui dentro?» domandò Vincent

«Probabilmente c’è stato un guasto al sistema di aerazione. Quest’area è a tenuta stagna, e quando è mancato l’ossigeno…».

Non fece in tempo a finire di parlare, che Vincent notò una inspiegabile e minacciosa increspatura nell’acqua, puntandovi subito contro il suo fucile.

Uno ad uno, quegli innumerevoli cadaveri parvero tornare in vita, e quello che era peggio molti di loro, avvolti da una luce inquietante, presero a mutare rapidamente aspetto, trasformandosi in una schiera minacciosa di mostri dalle forme più diverse, ma ugualmente spaventose.

Probabilmente era colpa della polvere di krylium che veniva pompato nell’acqua delle piscine allo scopo di renderla più traslucida e luminescente, e che in qualche modo doveva essere riuscito a penetrare nei corpi accentuandone la mutazione.

Ma il problema era un altro.

«Ma che diavolo…» ringhiò Vincent. «Perché si sono risvegliati solo adesso?».

La risposta, ad un rapido calcolo, poteva essere soltanto una, e fece rabbrividire il dottore.

«Oh, mio Dio…» sussurrò sconvolto. «È di nuovo aerobico…».

Gli EDA si fecero avanti minacciosi; se non altro, una volta tanto la trasformazione sembrava aver indebolito le loro capacità atletiche invece di accrescerle, tanto che Vincent non ebbe problemi a centrare i primi due proprio in mezzo agli occhi.

«Presto, andiamo via!».

Entrambi si misero a correre verso l’uscita secondaria, da dove sarebbero potuti scendere ai livelli inferiori, ma non riuscirono a fare molta strada che altri mostri gli si pararono davanti bloccando loro il passo, e cercando ognuno una soluzione diversa finirono per separarsi.

«Fermo, restami vicino!» ordinò Vincent.

Il dottore riuscì a dribblare alcuni mostri, sparando a casaccio più per panico che per altro, ma mentre passava accanto dall’acqua termale due EDA sbucarono d’improvviso da sotto la superficie, afferrandolo e trascinandolo urlante nell’acqua torbida, che in pochi secondi si tinse di rosso, ribollendo come lava.

«Dannazione!».

Rimasto solo, e con entrambe le vie di fuga bloccate, Vincent non ebbe altra scelta che arrampicarsi sulla riproduzione di una torre medievale da dove prese a far saltare la testa ad ogni EDA che capitava nel suo mirino.

I nemici caddero come mosche, ma sfortunatamente c’erano molti più EDA di quanti fossero i proiettili a disposizione dell’Agente, che trovandosi a dover inserire il suo ultimo caricatore cominciò a pensare che fosse la fine.

Poi però notò un cavo che pendeva dal soffitto, un cavo elettrico senza dubbio, malamente assicurato alla sua presa in un angolo dall’altro lato della stanza e staccatosi probabilmente a causa dei ripetuti scossoni; per qualcun altro sarebbe stato un colpo difficile o quasi impossibile, con un bersaglio così piccolo e ad una distanza considerevole, senza contare i mostri che accalcatisi attorno alla torre, non riuscendo a salire la scala a pioli, stavano cercando invece di ribaltarla, ma Vincent non era “qualcun altro”.

Fece scattare il carrello, si inginocchiò poggiando il calcio dell’arma sulla spalla, regolò il mirino e vi appoggiò l’occhio, mentre tutto attorno a lui il mondo pareva dissolversi, lasciandolo solo con il suo fucile, la sua mira, ed il bersaglio che si stagliava al centro della croce; quindi, sparò.

La presa saltò via, senza un graffio o un’ammaccatura, semplicemente separata dallo spinotto dallo spostamento d’aria e da un tocco leggero. Il pavimento era letteralmente inondato d’acqua, e anche gli EDA ne erano ricoperti, così quando la spina sfiorò appena la superficie marmorea si scatenò una vera tempesta di fulmini, e gli EDA finirono abbrustoliti cercando inutilmente di mettersi in salvo, mentre l’aria si riempiva di un insopportabile olezzo di carne bruciata.

Alla fine, nessuno di loro di mosse più, e qualcuno addirittura esplose per la combinazione letale tra un tasso esorbitante di krylium nel sangue e una scarica da migliaia di volt, e come fu certo di non avere altri nemici attorno Vincent sparò nuovamente al cavo, recidendolo di netto.

Tornato coi piedi per terra, provò a cercare tracce del dottor Curtis, ma quando trovò un braccio mozzato coperto a malapena da una manica bianca imbrattata di sangue a galleggiare nell’acqua rossa della piscina termale, capì che era perfettamente inutile farsi delle illusioni.

«Ti avevo detto di restarmi vicino, stupido.» e se ne andò, determinato più che mai a restare vivo.

 

Ulrich provò in tutti i modi a debellare quel virus che stava mettendo a soqquadro i sistemi della nave, ma ogni tentativo si stava rivelando inutile.

Oltretutto, era un virus piuttosto strano, e dal comportamento anomalo: analizzando il suo percorso si poteva capire che, oltre non avere alcuna logica nei suoi movimenti tra i vari server, alcuni li distruggeva completamente, altri invece li attraversava senza quasi toccarli o alterarli.

«Ma che razza di virus è mai questo?».

Ad un certo punto fu evidente che la situazione era a tal punto compromessa che era impossibile riuscire a ripristinare sia il pilota automatico sia, soprattutto, il sistema di alimentazione dei motori, il che avrebbe reso praticamente inutile riavviare i sistemi.

«Fanculo!» strillò allora il giovane tirando un pugno alla consolle.

Quasi per caso, aprendo le pagine a caso capitò in un altro archivio video, trovandovi un altro file con un nome simile a quelli che aveva visionato poco prima.

Più per curiosità che per vera speranza di trovarvi qualcosa di utile, lo aprì.

Il viceComandante Shawn appariva ora debilitato e molto debole, come se avesse avuto la febbre: i capelli erano imperlati di sudore, appiccicati alla fronte e alle tempie, gli occhi apparivano dilatati, inoltre si sentiva il suo respirare affannoso.

«Non c’è niente da fare, non riesco a riavviare i sistemi. Non ho le conoscenze necessarie.

Ma forse, c’è ancora una possibilità. Il Comandante me ne ha parlato la sera che è cominciato tutto questo.

Doveva essere un segreto, ma a quanto pare nei meandri della nave è stato installato il primo prototipo di Morpheus».

Ulrich spalancò la bocca per lo stupore.

«Che cosa ha detto!?».

Shawn si fermò, tossendo violentemente.

«È lontano da qui… ma è l’unica speranza. Se… se non ripristino tutti i sistemi, sarà imp… ossibile rimettere in moto la nave.

Inoltre, da ieri sera non mi sento bene» e mostrò il suo braccio, con una zona nera e dall’aspetto incancrenito in prossimità del segno di un morso. «Temo che quelle… quelle bestie si portino dietro qualche malattia.

Spero di riuscire a fare in tempo. Ogni minuto che passa, mi sento sempre più debole».

Il video si interruppe di colpo, ma Ulrich aveva sentito abbastanza da risollevarsi subito il morale.

Da appassionato di informatica aveva letto tutto quello che si poteva leggere sul Progetto Morpheus, ma mai si sarebbe sognato che ne fosse già stato realizzato un prototipo, e che fosse oltretutto già stato installato.

Una tecnologia rivoluzionaria, sviluppata dall’Università di Otisa per conto dell’aeronautica amalteca, in grado di consentire l’accesso diretto a qualunque sistema operativo tramite una connessione neurale che trasportava letteralmente l’utente all’interno del software sì da averne un controllo totale, aggirando qualunque protezione.

Forse, allora, una speranza c’era, e si ributtò subito al lavoro. Ovviamente era impossibile che il luogo in cui si trovava Morpheus fosse segnato sulle mappe, quantomeno su quelle cui era riuscito ad accedere, ma con un po’ di ragionamento poteva arrivarci.

Aveva letto che il sistema operativo alla base di Morpheus necessitava di una grande quantità di energia, oltretutto di una frequenza particolare e molto poco usata, ma anche di una ricercata condizione atmosferica che favorisse il distacco tra la mente ed il corpo.

Alla fine localizzò una stanza, non lontana dal condotto di manutenzione cinque, sospesa apparentemente sul nulla nel mezzo di un enorme androne quasi al centro della nave.

«Buongiorno, Morpheus.» disse soddisfatto.

 

Joe aveva davvero una resistenza fuori dal comune, tanto che pochi minuti dopo aver terminato la sua lotta all’ultimo sangue con quell’EDA così coriaceo era di nuovo in piedi, anche se un po’ malandato e visibilmente provato dallo scontro.

Appena le forze glielo avevano concesso il giovane ranger aveva lasciato il condotto, ma avventuratosi in un’altra zona delle stive aveva percepito, nuovamente, la sgradevole sensazione di non essere solo, benché a detta di Ulrich quella zona fosse a tal punto interessata da porte sprangate e deviazioni create ad arte da risultare quasi inviolabile.

Certo che non fosse solo un’impressione, Joe si mise sulle tracce del nemico, uno solo a giudicare dal rumore e dalle vibrazioni, ma abbastanza scaltro ed intelligente da fare l’impossibile per cercare di passare inosservato.

Per lunghi minuti, in quella vasta area di carico traboccante di materiale vario, fu una specie di gioco a nascondino, con uno che inseguiva e l’altro che si nascondeva, cercando di quando in quando di tendere a propria volta delle imboscate. La fuga sembrò destinata a concludersi quando Joe, appiattitosi contro una grossa cassa, percepì distintamente la presenza del nemico dall’altra parte dell’angolo, e veloce come un serpente si sporse puntando il proprio fucile, solo per ritrovarsi la canna di una pistola poggiata sulla fronte.

«Sergente Marufuji!?».

La ragazza spalancò i suoi grandi occhi neri in un moto incontenibile di felicità.

«Joe! Grazie al cielo, finalmente ho trovato qualcuno! Allora siete ancora vivi!»

«Potremmo dire la stessa cosa, Sergente» disse Ulrich attraverso la radio di Joe. «Perché non ha risposto alle mie chiamate?»

«Perché quei maledetti mostri mi hanno assalita all’improvviso!» protestò lei con fare offeso. «È già tanto se sono riuscita ad uscirne viva! Hanno anche tentato di mangiarmi!»

«L’hanno morsa per caso?» domandò Joe non senza preoccupazione

«Per chi mi hai presa? Ho la pelle dura, io. Anche se la tuta ha fatto comunque il suo dovere.»

«Parlerete più tardi.» tagliò corto Ulrich «Ora ho bisogno di voi».

Seguendo le sue indicazioni Joe e Mayu, ripassando attraverso il condotto che Joe aveva chiuso poco prima, arrivarono al livello più basso, subito prima dello spesso strato di titanorium che costituiva la chiglia della nave.

«E quella?» domando il ranger durante la camminata rivolto alla curiosa sciabola corta che la sua nuova compagna portava dietro la schiena

«L’ho trovata in una stiva. Forse dovevano farci qualche mostra.»

«Sembra molto antica.»

«Credo faccia parte dell’eredità dei miei antenati. Ho sentito dire che il popolo da cui discendiamo usava spade come questa.

Ma fidati, è davvero affilata. Pensa, sono riuscita a tagliarci persino una porta».

Superato da un lato all’altro un ampio androne che faceva da anticamera e un breve corridoio immerso nel buio, i due agenti oltrepassarono una porta a doppio scomparto, ritrovandosi una volta dall’altra parte in una specie di grande stanza di contenimento, completamente spoglia, a percorrere una stretta passerella aperta sul niente.

Al centro, come sospesa, dall’altro lato del ponticello, gravitava una grande sfera del diametro di circa dieci metri, collegata al soffitto da una colonna di metallo che la rendeva simile ad un enorme lampadario e letteralmente tappezzata di cavi, che come i fili della tela di un ragno ricoprivano ogni cosa disegnando una rete inestricabile.

Per entrare all’interno della sfera, in cui era custodito il cuore di Morpheus, occorreva però superare una seconda porta, che a differenza della precedente era protetta da un formidabile sistema difensivo al quale Ulrich, come Mayu vi ebbe collegato il proprio computer da polso per facilitare la decrittazione, cominciò subito a lavorare.

«Se il cielo lo vuole» disse Mayu, «Questo maledetto incubo presto sarà finito».

Joe però non sembrava altrettanto fiducioso, e fissava con preoccupazione l’ingresso da cui erano venuti, riuscendo lui solo a percepire i preoccupanti stridii che giungevano dall’altra parte.

Mayu lo vide stringere con forza i pugni, chinando il capo verso terra come in preghiera mentre nei suoi occhi sembrava trasparire, per la prima volta, un barlume di incertezza.

«Quanto ti ci vorrà per aprire questa porta?» domandò con un filo di voce

«Non saprei. Forse dieci minuti.»

«Posso dartene al massimo cinque.»

«Joe…» disse Mayu «Ma cosa…».

Non ebbe il tempo di finire, perché il giovane, sfilatale la spada e messole il proprio auricolare nell’orecchio, si allontanò a passo veloce scomparendo dietro le porte.

«Joe! Aspetta! Dove vai?».

Cercò di corrergli dietro, ma Ulrich la fermò.

«Non farlo, Mayu

«Ma, Joe…»

«Lo sta facendo per farci guadagnare tempo! Se non entri lì dentro sarà stato tutto inutile!».

Mayu tergiversò, indecisa, ma poi con i denti serrati e le lacrime agli occhi costrinse il proprio corpo a restare immobile.

 

Un nugolo di EDA, almeno un centinaio, come una mandria di iene attirate da una carcassa, procedeva ferocemente lungo i corridoi della stiva verso il centro della nave.

Raggiunto l’androne, i primi della fila si fiondarono nel corridoio che conduceva alla stanza di Morpheus resi folli dalla fame, ma subito dopo che furono scomparsi nel buio si udirono urla strazianti, poi il rumore di corpi che cadevano al suolo.

Qualche attimo dopo, Joe si fece avanti comparendo dall’oscurità, la lama ricurva stretta tra le mani e imbrattata di sangue e lo sguardo gelido, ma allo stesso tempo come vuoto, che parve persino spaventare quei mostri i quali, a rigor di logica, non avrebbero dovuto conoscere la paura.

Il ranger sfiorò con un dito il sangue sulla lama, e passatoselo sul volto vi disegnò una serie di linee e segni che accrebbero ancora di più la ferocia e la paura della sua apparizione. Sapendo la pericolosità di quelle creature per chi, come lui, non poteva contare su poteri magici, non avrebbe mai fatto una cosa del genere; ma quello era il suo ultimo atto, il suo Canto del Cigno, e voleva morire alla maniera dei suoi avi, quei guerrieri senza macchia e senza paura di cui aveva letto da piccolo nelle favole e nei libri.

«Non andrete oltre questo punto. Parola mia».

Quindi, fu lui a colpire per primo.

Con un salto arrivò in mezzo al gruppo, e menando un solo fendente riuscì a decapitare di netto tre EDA in un unico colpo, constatando con i propri occhi la superba fattura di quella spada; quando gli EDA si decisero finalmente a rispondere Joe se n’era già andato, lasciandogli però in regalo una granata stordente che esplodendo li mandò ulteriormente nel panico, producendo una esplosione di fumo che come una nebbia avvolse ogni cosa.

E da quella nebbia Joe appariva e scompariva come un fantasma, correndo e movendosi in modo così repentino che gli EDA, pur potendolo fiutare, non avevano il tempo di contrastarlo, cadendo uno dietro l’altro.

«È un Dio della Morte» disse sconvolto Ulrich assistendo allo scontro attraverso i monitor.

Purtroppo, Joe non era affatto un dio, e per quanto forte e resistente aveva anche lui il suo limite.

Quando il fumo si diradò i mostri attaccarono a testa bassa, e alla fine uno di loro riuscì ad affondare i propri denti nella sua spalla perforando la tuta, un momento prima di venire decapitato. Il sangue prese ad uscire a fiumi, e in pochi secondi il giovane si ritrovò a corto di energie, ma seguitò a battersi fino all’ultimo senza cedere di un millimetro.

Alla fine, stremato e morente, cadde in ginocchio, ma ancora una volta gli EDA, istintivamente spaventati, esitarono ad attaccare, aspettando forse il momento in cui la preda sarebbe morta da sé.

A fatica, e senza smettere un attimo di mulinare la spada, Joe riuscì a portarsi fino alla più vicina parete, contro la quale si lasciò cadere, e un po’ alla volta i nemici cominciarono a farsi avanti, stringendo sempre di più il cerchio attorno a lui; alzò gli occhi verso la telecamera, certo che qualcuno lo stesse guardando, rivolgendovi un’espressione quasi serena.

«Il mio nome… è Joe Debois. Quinto squadrone Ranger di Eldkin. Agente Cadetto della Magic Administation Bureau».

Detto questo, e cercando di contenere il tremore, prese dalla cintura la sua ultima granata, quella dalle striature rosse, stringendola a sé come fosse stato un grande tesoro.

«I ranger aprono la strada» disse con un sorriso, tirando la linguetta.

 

Mayu sentì la stanza tremare ed il fragore di una violenta esplosione, volgendosi verso l’ingresso con gli occhi sbarrati e l’espressione sconvolta.

«Joe!»

«È finita…» mormorò Ulrich.

Alla fine, Joe aveva resistito molto più di cinque minuti, ma né UlrichMayu ebbero voglia di festeggiare né si sentirono sollevati quando finalmente la porta di Morpheus si aprì; entrambi fecero appello alla volontà di concludere quanto prima quella maledetta missione, sì da fare in modo che il sacrificio di Joe e la morte di tanti poveri innocenti non risultasse vana, e messe da parte le lacrime Mayu varcò la soglia, che subito si richiuse alle sue spalle ripristinando l’inviolabilità del santuario.

La stanza, illuminata a giorno da decine di luci che si riflettevano su di una superficie interamente bianca, era del tutto spoglia, fatta eccezione per una grande poltrona posizionata esattamente al centro con braccioli, poggiatesta e schienale leggermente inclinato, circondata da apparecchiature informatiche.

«Sarebbe questo Morpheus?» domandò Mayu

«Non l’ho mai visto prima d’ora, ma suppongo di sì».

Avvicinatasi, Mayu notò una strana polvere simile a cenere che ricopriva sia la poltrona che il terreno tutto attorno, e per qualche motivo le salì una strana inquietudine che la fece esitare a lungo prima che, riavutasi, la ragazza decidesse alfine di sedersi.

«Okay, ci siamo» disse Ulrich armeggiando al computer. «Dovrei essere in grado di attivarlo da qui».

Mentre aspettava Mayu si guardò attorno, e lo sguardo le cadde su di una luce ad intermittenza che lampeggiava sul bracciolo di sinistra. Come la sfiorò, dinnanzi a lei comparve una finestra olografica contenente una nuova registrazione del viceComandante Shawn, il quale si presentava ora talmente pallido e devastato nella sua figura da risultare inquietante: gli occhi erano rossi, e colavano sangue, la bocca era tutta impastata da saliva mista a vomito, e la carne, oltre che pallida, sembrava quasi stare ribollendo, ricoprendo il volto di spaventose e grosse pustole.

«Non… non mi resta molto tempo. Ma questa è l’ultima… speranza.

Se riesco a ripristinare i sistemi, il motore potrà tornare a funzionare…

Potremmo far ripartire la nave. Non so se avrò la forza di farcela… ma è l’unica alternativa che mi resta» quindi, si lasciò andare al pianto fatto di sangue e lacrime, inquietante e devastante allo stesso tempo. «Se solo avessi saputo che sarebbe finita così.

Mi dispiace, Monika. Mi dispiace che sia finita così. Se potessi tornare indietro…».

Terminata quell’ultima registrazione, Mayu non riuscì a non provare una enorme compassione per quel giovane morto troppo presto, prima di poter correggere uno dei suoi tanti errori; perché morto doveva esserlo di sicuro, se di lui non era rimasta che cenere.

«Ce l’ho fatta» disse Ulrich. «Sono entrato nei sistemi di Morpheus.

Sei pronta?».

La ragazza trasse un respiro.

«Abbastanza.»

«D’accordo allora. Cominciamo».

Tutti i macchinari a quel punto si accesero, la stanza si riempì di uno strano ronzio, e la poltrona sembrò diventare improvvisamente più calda; poi, quando una specie di spinotto con una terminazione a forma di rete sbucò da dietro lo schienale avvolgendo interamente la testa di Mayu, la ragazza si sentì come strattonata, mentre una luce fortissima l’accecava.

Riaperti gli occhi, a prima vista si trovava nello stesso identico posto, seduta su quella poltrona bianca al centro della stanza sferica.

«Che è successo?» domandò guardandosi attorno. «È andato storto qualcosa?»

«Niente affatto».

Il solo fatto che la voce di Ulrich non arrivasse più dall’auricolare, sembrando invece una sorta di parlata ultraterrena che giungeva da ovunque e da nessun posto, fu la prova per Mayu che quello in cui si trovava forse non era più il Megonia.

«Aspetta, vuoi dire che ora mi trovo…»

«All’interno del sistema operativo centrale del Megonia. Esatto».

Confusa, Mayu provò a toccare la parete della stanza, sentendone la consistenza dura e la superficie fredda.

«Eppure qui sembra tutto così reale.»

«Protocollo di interfaccia. Il computer ha strutturato il sistema creando una simulazione virtuale che riproduce la nave in tutto e per tutto.

Il che significa che raggiungendo la sala del nucleo in cui mi trovo io, in linea di logica dovresti poter ottenere il controllo totale di ogni sistema.»

«La sala del nucleo, hai detto? D’accordo, ci vado subito».

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


12

 

 

Song sembrava essersi calmato dopo il diretto rifilatogli da Klaus, che oltre al dente gli aveva portato via anche il rispetto e la considerazione di cui aveva goduto fino a quel momento tra una ristretta cerchia di superstiti, ma in realtà non aveva ancora rinunciato all’idea di risolvere quella situazione alla sua maniera.

Stava semplicemente aspettando il suo momento, e con il tempo la sua pazienza sembrò incominciare a venir premiata.

Quel duo di ragazzini infatti stavano diventando nervosi a causa della perdita del contatto radio con la squadra inviata alla sala motori, si ipotizzava a causa dell’alto tasso di particelle magiche emesse dagli stessi che disturbava le comunicazioni, e il tentativo continuo di ricontattare il loro nerboruto caposquadra nero li stava tenendo impegnati.

Al momento giusto, fece la sua mossa.

Approfittando del fatto che la ragazza stava dandogli le spalle, e che quelli tutto attorno si stavano facendo ognuno i fatti propri, si avvicinò camminando basso, gli occhi ben fissi sulla pistola riposta nella fondina alla cintura.

Solo Hilda, seduta in terra poco lontano, se ne accorse, ma quando ormai era troppo tardi.

«Attenta, Amanda!» strillò, ma a quel punto Song aveva già l’arma tra le mani.

Istintivamente la bambina tentò di fermarlo, ma lui senza difficoltà riuscì a liberarsi della sua stretta esitante, mettendola fulmineo davanti a sé e puntandole la pistola alla testa.

«Che diavolo stai facendo, pazzo incosciente?» urlò Klaus

«Mi salvo la vita. Non so voi, ma io non intendo restare qui un minuto di più. Ora aprirò quella porta e me ne andrò per conto mio.»

«Se apri quella porta, metterai a rischio tutte queste persone» lo ammonì Amanda. «Gli EDA ti salteranno addosso in massa.»

«Sempre meglio che restare chiusi in questa cazzo di trappola aspettando di fare la fine del topo. E sono sicuro di non essere il solo a pensarla così, dico bene?».

Di nuovo, una parte dei sopravvissuti si mostrò accondiscendente nei riguardi dell’uomo, rivelando, chi palesemente chi in maniera più sommessa, di condividerne il pensiero.

Quelli più audaci si fecero avanti, e su ordine del loro autoproclamato capo presero quante più armi possibili per poi raccogliersi attorno alla porta nel tentativo di aprirla. Tuttavia, forse per la tensione o per inesperienza, uno di loro aprì l’ultimo chiavistello con troppa veemenza, dimenticandosi inoltre di trattenere il battente, che infatti privato da un istante all’altro di ciò che lo bloccava si aprì con inaudita violenza producendo forte rumore.

Song si rivolse quindi nuovamente alla folla.

«Signori! Chiunque volesse venire con noi, è libero di seguirci! Almeno avrete una possibilità!».

Klaus era sicuro che nessuno sarebbe stato tanto incosciente da dare retta a quel pazzo, ma la paura e la voglia sconfinata di far finire quanto prima quell’incubo furono la molla che spinse più di un centinaio di superstiti ad accettare la proposta di Song.

«Non fatelo» tentò di dire Amanda mentre questi, uno per volta, se ne andavano. «Non arriverete mai alle scialuppe, e condannerete a morte queste persone.»

«Sai che ti dico, non me ne frega niente».

Quasi senza volerlo Song allentò un momento la presa, ed Hilda immediatamente ne approfittò per mordergli la mano più forte che poteva, un morso potentissimo che per poco non gli portò via un pezzo di carne.

«Maledetta mocciosa!» tuonò iracondo scaraventandola contro il muro.

Più per rabbia che per necessità vera Klaus sparò fulmineo al nemico, centrandolo ad una spalla, e questi rispose a sua volta con un colpo che, se non fosse stato per la tuta antiproiettile, avrebbe provocato al ragazzo ben più che un tremendo dolore al petto, abbastanza forte da farlo cadere in ginocchio mezzo svenuto.

«Addio, signori» ringhiò Song andandosene con una mano stretta sulla ferita.

 

Song faceva tanto lo spaccone, ma in realtà non aveva la minima idea di come fare per raggiungere le scialuppe.

Per fortuna c’erano le indicazioni affisse sulle pareti, e volendole seguire a tutti i costi lui e i suoi fedelissimi non esitarono ad aprire manualmente, a volte mettendoci solo un po’ di forza a volte con qualche scarica di mitra, tutte le porte che Ulrich aveva chiuso nel tentativo di confondere e bloccare gli EDA.

Se non altro, il gruppo riuscì a salire di due ponti senza incontrare anima viva, e quando arrivarono nel grande ristorante a quattro stelle, ultima stanza da superare prima di arrivare ai ponti di salvataggio, i più pensarono che ormai fosse fatta.

«Sembra che non ci sia nessuno.» osservò uno

«E quelli laggiù erano tanto preoccupati» commentò cinico Song. «Peggio per loro. Che crepino. Muoviamoci».

Tra i pochi esaltati c’era però anche tanta gente spaventata, che seguiva il gruppo stando nelle ultime file e guardandosi costantemente attorno.

Solo le luci sceniche erano accese, e gettavano sulla stanza un’atmosfera spettrale, minacciosa, fatta di ombre sinuose che potevano nascondere ovunque potenziali minacce.

Una anziana coppia di coniugi erano gli ultimi della fila, ed erano anche i più terrorizzati, tanto che quelli che gli stavano davanti dovevano continuamente richiamarli perché non si perdessero.

«Caro, ho visto qualcosa.» disse ad un certo punto la donna

«Eudora, è la centesima volta che lo dici. È già abbastanza difficile così. Hai deciso di farmi prendere un colpo?».

L’anziano fu assalito alle spalle e sbranato prima che potesse rendersene conto, e l’urlo della signora le rimase strozzato in gola quando un altro EDA le saltò addosso uccidendola come era accaduto al marito.

Da un secondo all’altro, una trentina di EDA sbucarono da alcune delle porte secondarie che immettevano nei vari corridoi, circondando completamente il gruppo e prendendo a farne scempio. I sopravvissuti, terrorizzati e colti di sorpresa, tentarono a malapena di resistere, ma quasi subito la loro difesa si tramutò in una fuga incontrollata in ogni direzione che, come accaduto quando tutto quell’orrore aveva avuto inizio, ebbe il solo risultato di spingerli più facilmente tra le braccia di quei mostri segnando la loro fine.

Song dal canto suo sparò tutti i colpi che aveva nel caricatore, e quando rimase a secco senza pensarci corse a perdifiato verso l’uscita secondaria, chiudendosela alle spalle e bloccandola gettandovi contro un pesante armadio.

Così, quando uno di quelli che lo avevano seguito fin dall’inizio riuscì a sua volta a raggiungere la via di salvezza, con suo grande sgomento la trovò bloccata.

«Figlio di puttana, torna indietro!» urlò all’indirizzo dell’uomo che scappava attraverso l’oblò, per poi venire assalito alle spalle da due mostri, con uno che gli portò via mezza gola e l’altro che gli strappò il braccio a forza di tirare.

Rimasto solo, e barcollante per la ferita che non smetteva di sanguinare, Song raggiunse infine i portelli delle scialuppe di salvataggio. Era solo questione di un altro sforzo, l’ultimo, e tutto sarebbe finalmente finito.

Certo, non poteva immaginare che un passeggero sopravvissuto miracolosamente all’assalto iniziale si fosse rifugiato proprio nella scialuppa che Song scelse di aprire, ma fosse morto prima di riuscire ad azionare il distacco.

Song ebbe giusto il tempo di visualizzare nella mente due occhi assatanati e una fila spaventosa di denti, e subito dopo nell’area tutto attorno risuonò un acuto e straziante urlo di dolore.

 

Morpheus era stato in grado di replicare il Megonia con una fedeltà quasi disarmante.

Dalle porte ai corridoi, dalle scale agli ascensori, tutto era perfettamente riprodotto, al punto che per Mayu risultava quasi difficile immaginare che si trattasse di un mondo virtuale.

L’unica conferma al fatto che quella non fosse la realtà veniva, oltre che dalla voce ultraterrena di Ulrich, dalla forte luce bianca che proveniva dagli oblò e dalle vetrate che la ragazza incontrava lungo la strada, come se la nave si fosse trovata a galleggiare sul nulla.

Altra cosa erano il silenzio, oltre alla totale assenza di qualsivoglia anima viva, ma era una cosa piuttosto naturale. Quello che appariva insolito, invece, era lo stato in cui la ragazza trovò alcune parti di quella specie di nave virtuale, completamente devastate come se ci fosse passato un uragano.

«È colpa del virus» le spiegò Ulrich. «Il computer ha riprodotto le alterazioni causate ai server sottoforma di danni fisici.»

«Ehi, aspetta un momento! Se è vero quello che dici, allora anche il virus dovrebbe essere qui da queste parti! Che faccio se lo incontro!?»

«Non preoccuparti. Per poter accedere al programma di rielaborazione digitale è necessario accedere al software di Morpheus, e a quanto mi risulta questo non è stato toccato».

Almeno, pensò Mayu, non c’era il rischio di incontrare qualche cyber-EDA ansioso di farsi una sana mangiata con la sua carne virtuale.

Dalla stiva, con uno dei tanti ascensori la giovane arrivò nel salone centrale, o almeno nella sua riproduzione, da dove avrebbe potuto raggiungere l’ascensore di servizio che l’avrebbe condotta alla sala del nucleo.

«Ci sei quasi. Prendi la porta al terzo piano dall’altra parte della balconata, scendi di tre livelli e ci sei».

Mayu fece per obbedire, ma all’improvviso udì un rumore metallico molto strano, e certamente inquietante, che la particolare conformazione della stanza tramutò in un eco impossibile da localizzare.

«Che è stato!?» domandò guardandosi attorno spaventata.

Contemporaneamente, anche Ulrich notò qualcosa di insolito nel flusso di dati, ma dapprincipio non gli venne neanche lontanamente da pensare che potesse trattarsi proprio del virus.

Passò un attimo, e alzato lo sguardo Mayu si vide letteralmente piovere addosso un pezzo di colonna che riuscì ad evitare per il rotto della cuffia rotolando sul pavimento, e quando risollevò lo sguardo dinnanzi a lei era comparso un essere ributtante: l’aspetto era ancora umano, ma il volto e le braccia lasciate scoperte erano di un colore olivastro e pieni di piaghe; gli occhi, quasi invisibili tra le pustole e i capelli arruffati, erano rossi e minacciosi, la bocca quasi priva di labbra, e i vestiti, oltre che strappati, erano anche lordi di sangue.

«Ma questo…» disse impietrita la ragazza riconoscendo in quell’essere deforme i tratti del viceComandante Shawn.

Ulrich rimase a propria volta basito, non riuscendo a capire come potesse essere possibile; la risposta però, a pensarci, poteva essere solo una.

«Oh, mio Dio. Allora è lui il virus».

Ora era chiaro. Era per questo che quel virus, se così lo si poteva chiamare, aveva attaccato a casaccio senza seguire una logica; era furia bestiale pura e semplice, tipica di un qualunque EDA.

Senza tanti complimenti Shawn caricò Mayu, che istintivamente sfoderò la pistola premendo due volte il grilletto, ma tutto quello che uscì dalla canna fu aria.

«Ma che…».

Il pugno che ricevette fu come una cannonata, talmente forte da spararla addosso alle scale quasi svenuta; ma la cosa più sconvolgente fu, quando tentò di riprendersi, vedere parte del proprio corpo che per un attimo sembrò svanire, dissolvendosi in una sorta di effetto nebbia.

«Sta attenta! Quell’avatar è la proiezione della tua mente! Se ti danneggia troppo il legame si spezzerà e resterai intrappolata lì dentro!»

«Potevi anche dirmelo prima, dannazione!».

L’EDA tentò un secondo assalto, ma stavolta Mayu lo prese in controtempo e se la diede a gambe, salendo la scalinata e iniziando a correre in ogni direzione.

«Ma si può sapere che ci fa lui qui?» domandò mentre scappava

«Deve essersi connesso quando l’infezione era sul punto di consumarlo. Sia il corpo che la mente sono stati danneggiati dal virus, e quando il corpo fisico è morto la mente è rimasta intrappolata lì dentro.»

«E perché le mie armi non funzionano?»

«Quello non è il mondo reale. È solo una proiezione virtuale. La tua pistola è solo decorativa.»

«Fantastico! E ora come ce ne sbarazziamo?».

Ulrich provò a lanciare un antivirus, che apparve nel mondo virtuale come una sorta di nuvola rossa simile ad un denso cumulo di vapore, ma come temeva questo si rivelò del tutto inefficace, transitando da una parte all’altra della stanza per poi scomparire senza prestare la minima attenzione all’EDA, che imperterrito continuò ad inseguire Mayu.

«È come temevo. Non si tratta di un bug vero e proprio, quindi gli antivirus e i firewall non lo riconoscono.»

«Fantastico, e ora che faccio?».

 

Klaus e gli altri, passata la tempesta, tentarono in ogni modo di richiudere la porta e ripristinare l’inviolabilità della stanza, ma per quanto si sforzassero di tirare il battente non voleva saperne di muoversi, e il varco seguitava a rimanere aperto.

«È inutile» mugugnò contrariato uno. «Il meccanismo di scorrimento è saltato. Questa porta non si muoverà.»

«Fanculo!» strillò Klaus prendendola a calci.

Amanda sorvegliava il buio, usando le sue abilità di maga per scorgere prima di altri eventuali minacce.

«Arriva qualcuno.» disse notando un’ombra in lontananza e conseguente rumore di passi.

Tutti quelli che avevano un’arma la puntarono verso la porta, e per lunghissimi istanti l’aria fu carica di una tensione allucinante.

«Non sparate, sono io!» si sentì urlare.

I due agenti abbassarono le armi, e dopo poco Vincent sbucò dall’ultima barricata di fortuna, un po’ ammaccato ma in buona salute.

«Allora siete ancora vivi.»

«Potremmo dire lo stesso di te» replicò Klaus. «E Jacob?»

Vincent chinò il capo; la sua espressione diceva tutto.

«Mi dispiace.» disse Amanda

«Abbiamo altri problemi. Ulrich aveva detto di aver bloccato questo posto, ma ho trovato un sacco di porte aperte venendo qui.»

«È colpa di quello stronzo di Song» disse Ulrich. «Hai visto anche degli EDA?»

«Non da queste parti. Ma se non troviamo il modo di isolare nuovamente questa stanza, temo che non resteremo soli molto a lungo».

 

Ulrich, prima di essere un Agente, era stato un hacker; uno dei tanti modi con cui un rampollo di buona famiglia senza molto da fare e con poche attenzioni da parte dei genitori poteva ammazzare il tempo.

Per questo era entrato nell’agenzia: perché quando infine lo avevano colto sul fatto l’avevano costretto a scegliere tra un lungo periodo di detenzione e mettere le proprie capacità al servizio dell’Agenzia.

E come amava dire sempre, se si sa come creare una cosa, nella fattispecie un bug da computer, si sa anche come distruggerla.

Dovette pensarci qualche minuto, dal momento che si trattava di un virus che definire anomalo era poco, ma alla fine pensò di aver trovato la soluzione, e subito si mise al lavoro.

Nel mentre, Mayu attendeva, nascosta in un anfratto del salone, le ginocchia raggomitolate e il volto ben infilato nell’incavo per nascondere quanto più possibile il rumore del suo respiro.

Il silenzio tutto attorno sembrava totale, ma di quando in quando poteva udire distintamente i passi pesanti e l’ansimare animalesco di quella creatura, che come una tigre in caccia fiutava l’aria e tendeva l’orecchio alla ricerca della sua preda aggirandosi lentamente per il salone.

Di tentare la fuga non se ne parlava. C’era ancora una rampa di scale da salire per arrivare all’ascensore che l’avrebbe condotta al nucleo, e con la sua agilità sovrumana quel mostro le sarebbe saltato addosso prima ancora che avesse potuto raggiungerla.

«Mayu, ascoltami» disse Ulrich, che grazie al cielo solo lei poteva sentire. «Forse ho trovato il modo per liberarci di lui.

Ho riprogrammato un antivirus installato nel software perché possa distruggere la mente contaminata del viceComandante

«E allora muoviti a usarlo. Quella bestiaccia non ci metterà molto a trovarmi.»

«Qui sta il problema. In questo momento mi è impossibile lanciarlo direttamente da qui.»

«Che cosa!?»

«Potrei farlo, ma mi ci vorrebbe del tempo. Tempo che non abbiamo. L’unica possibilità è caricarlo all’interno dell’interfaccia che stai usando per mettertelo a disposizione.»

«In altre parole, dovrei usarlo io.»

«Praticamente. Lo programmerò perché tu possa attivarlo a distanza, altrimenti potresti venirne colpita anche tu.

Aspetta solo altri due minuti».

Furono i due minuti più lunghi della vita di entrambi, con Ulrich che pregava tutti gli dèi dell’universo di aiutarlo a non sbagliare nulla e Mayu che temeva di vedersi comparire davanti quel mostro da un momento all’altro, tremando di paura come quando da piccola si rannicchiava sotto al letto durante i temporali.

«Finito! Eccolo che arriva!».

Un tenue bagliore apparve attorno alle mani di Mayu, nelle quali comparvero quella che sembrava una carica al plastico poco più piccola di un mattone e il relativo detonatore a pulsante.

«Mi raccomando, non devi essere nelle vicinanze al momento dell’attivazione. È programmata per riformattare e cancellare tutte le proiezioni avatar. Se ti colpisse, per te non ci sarebbe scampo.»

«Strepitoso».

In quel momento il mostro passò proprio davanti all’ingresso dell’anfratto, e Mayu silenziosamente si appiattì ancora di più nascondendosi nel buio. Mosse qualche detrito, attirando l’attenzione dell’EDA, che però dopo aver gettato uno sguardo nel buco senza vedere niente, ringhiando ricominciò a camminare.

«Giuro che dopo questo firmo il congedo e me ne torno alle corse clandestine» imprecò la ragazza uscendo dal buco.

Silenziosa, e trattenendo il respiro, si avvicinò lentamente alle spalle del mostro, che malgrado l’udito e la vista molto sviluppati non parve accorgersi di lei; per un attimo pensò di potercela davvero fare, ma proprio all’ultimo momento l’EDA si voltò fulmineo, lasciandola impietrita per la paura, e battendosi i pugni sul petto come un gorilla caricò a testa bassa.

Questa volta però, Mayu scelse di non fuggire, perché sapeva che continuare a scappare era inutile: doveva combattere.

Sfruttando la sua forma minuta e quell’agilità che, per quanto non al livello del suo avversario, non le faceva comunque difetto, schivò due pugni in successione, quindi scivolò sotto le gambe del nemico, e quando questi si girò ricevette un tremendo calcio a piedi uniti sotto il mento che, anche a causa del tacco leggero, gli portò via di netto la mascella. Purtroppo questo non bastò a fermarlo, rendendolo anzi ancor più spaventoso e infuriato per via di quella vistosa menomazione, e mentre Mayu cercava ancora di tornare in equilibrio ricevette un secondo, spaventoso pugno che oltre a spararla via produsse ancora quell’inquietante effetto nebbia sul suo corpo, molto più lungo ed esteso del precedente.

«Sta attenta, la tua mente ormai è al limite!» le intimò Ulrich. «Un altro colpo e sarai consumata!».

Fuori di sé dalla rabbia l’EDA partì nuovamente alla carica, ma stavolta Mayu riuscì a spostarsi all’ultimo e quel poveretto si fece crollare addosso un’intera balconata portandosi via una delle colonne di supporto per poi andarsi a schiantare contro la parete.

Una simile pioggia di detriti avrebbe ucciso chiunque, ma quello restava pur sempre un mondo virtuale, e l’EDA nonostante tutto ne uscì senza un graffio; tuttavia, quando riuscì finalmente a liberarsi delle macerie, la sua preda sembrava sparita.

Ringhiando, si guardò attorno, alla ricerca di un qualunque indizio, e non gli servì molto per notare un bordo di tuta gommosa che emergeva a malapena da dietro una colonna poco distante.

La terza carica doveva essere quella decisiva, e stavolta il mostro centrò in pieno il proprio bersaglio, provocando un nuovo crollo ma riuscendo ad afferrare la preda; tuttavia, quando provò a stringerla, si accorse non senza stupore di avere tra le mani solo il busto di una statua, cui era stata malamente infilata la tuta di gomma e con un minaccioso pacchetto biancastro infilato nella cerniera semichiusa.

Un attimo dopo, uno strano bip lo spinse a guardare alla propria destra.

Mayu era lì, a qualche metro di distanza, con indosso i soli slip, una mano a coprire il seno e l’altra che stringeva una specie di telecomando.

«Oyasumi, stronzo.»

Una grossa sfera di elettricità si generò dall’ordigno non appena la ragazza spinse il bottone, e l’EDA, lanciando urla di dolore, finì letteralmente polverizzato, dissolvendosi in un pulviscolo luminoso.

Vedendolo scomparire così, Mayu e Ulrich non riuscirono a non provare un po’ di pena nei suoi confronti; in fin dei conti, quel poveretto aveva cercato fino all’ultimo di salvare migliaia di vite, anche a costo di sacrificare la propria, ed entrambi gli augurarono col pensiero di poter riposare in pace.

«Avanti ora. Adesso non dovresti incontrare altri ostacoli.»

«Lo spero. Questo mi basterà per qualche secolo.»

Raggiunto l’ascensore, fortunatamente senza nuovi imprevisti, Mayu scese al livello desiderato, percorse per intero il corridoio e aprì la porta del nucleo, immergendosi non senza qualche esitazione nella luce che comparve dall’altra parte dell’ingresso.

Un attimo dopo, Ulrich vide la figura a mezzobusto della ragazza materializzarsi su uno dei monitor.

«Sono dentro».

Era incredibile. Era come se il suo corpo fosse diventato un tutt’uno con la nave; come se la nave stessa fosse diventata il suo corpo. Poteva essere ovunque, vedere ovunque, aprire e chiudere porte a suo piacimento, accendere luci, azionare scale mobili, e persino comandare erogatori d’acqua o macchine del caffè.

«Ottimo» disse Ulrich. «Ora ripristina i sistemi di alimentazione».

 

Helen vide tutte le apparecchiature del ponte riaccendersi come d’incanto, riprendendo a funzionare senza apparente motivo.

«Ulrich, sei stato tu?»

«Non proprio. Ad ogni modo, ora per favore segua le mie istruzioni. Le spiegherò come ridare energia ai motori».

Per prima cosa fu necessario riprogrammare la rotta, e secondo le direttive fornitele da Ulrich, Helen ne impostò una che con le macchine a pieno regime avrebbe condotto il Megonia fuori dalla Zona Oscura nel giro di pochi minuti, quindi fu il momento di ripristinare l’afflusso di energia.

La giovane donna stava per avviarsi al relativo pannello di controllo, quando da sopra la sua testa giunse un sinistro rumore di qualcosa che strisciava.

Alzò gli occhi, e per un attimo le parve di vedere il soffitto scricchiolare sotto la spinta di qualcosa: qualcosa di molto grosso.

Di qualunque cosa si trattasse, si muoveva così velocemente che era difficile stargli dietro, e la tensione nel petto di Helen, nonostante il suo comprovato autocontrollo, salì rapidamente, tanto che appena notò distintamente un’asse metallica ondeggiare immediatamente sparò, ricevendo in cambio una specie di sibilo dolorante.

«Che diavolo era quello?».

La risposta alla domanda arrivò quando la grata dell’aria sopra la sua testa per poco non le piovve addosso sotto la spinta di una sorta di lunga protuberanza carnosa simile ad un tentacolo che scattando verso il basso tentò di afferrarla.

Helen riuscì ad evitare la presa per un soffio, e istintivamente consumò il caricatore contro quell’ignoto aggressore, che colpito in pieno apparentemente si ritirò abbandonando il campo.

«Qui siamo oltre la comprensione» disse attonita.

Ma il vero dramma, pensò Ulrich dopo aver assistito alla scena, era un altro.

«I condotti dell’aria!» esclamò. «Quei bastardi sono nei condotti!».

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


13

 

 

La sala motori era come un gigantesco baratro che occupava da solo l’intera zona poppiera della nave.

Il cuore dell’impianto erano le due immense turbine che alimentavano i propulsori; sopra di esse, una decina di metri più in alto, passerelle più o meno larghe collegavano tra di loro una serie di stanzette, piccoli terrazzamenti e pontili posti a diverse altezze formando un intricato reticolo di metallo che aveva nella stanza di controllo centrale il suo punto di massima sopraelevazione.

Da lassù si poteva controllare tutto, anche se le molte apparecchiature disseminate qua e là lungo le passerelle oscuravano comunque la vista, per non parlare della poca luce e del rumore che, a motori accesi, doveva essere a dir poco assordante.

La sala di controllo era anche l’unico punto da cui si potesse interagire con il nucleo di alimentazione, che come una gigantesca stalattite pendeva dal soffitto arrivando a lambire con la punta il bordo della passerella. Al suo interno, scintillante d’azzurro, e ben visibile attraverso uno sportello di vetro, risplendeva il gigantesco blocco di krylium che, in quanto fonte primaria di energia, veniva di volta in volta letteralmente grattugiato per andare a bruciare nelle turbine.

Come previsto Georg e Raoul trovarono tutti i sistemi di controllo spenti o in stand-by, ma riavviarli non fu un problema.

«Ok, ci sono» disse Raoul resettando l’ultimo computer. «Ora dobbiamo solo aspettare».

Georg, però, era nervoso, e lo divenne ancora di più quando l’energia stentò ad arrivare.

«Ma si può sapere che sta combinando Helen?».

 

Purtroppo, in quel momento, Helen aveva altro a cui pensare.

Dopo aver cercato un altro paio di volte di afferrarla facendo sbucare dall’alto la sua appendice carnosa, arrivando in un’occasione molto vicina a stritolarla, quella maledetta creatura si era infine rivelata in tutta la sua mostruosità.

Di umano aveva solo la parte superiore del corpo, dalla cintola in su, se di umano si poteva parlare, con quella testa rasata e allungata all’indietro, le braccia lunghe e rinsecchite terminanti in tre dita armate di artigli ricurvi lunghi almeno venti centimetri e quella bocca spropositata, da cui uscivano ben tre lingue biforcute; al posto delle gambe aveva invece una lunga coda serpentina, che occupava da sola quasi tre quarti della lunghezza complessiva del corpo, abbastanza forte da sorreggere il busto e veloce quanto bastava da permettergli di scivolare ovunque a grande velocità.

Ma quello che era peggio, era che quel maledetto mostro aveva la capacità di rendersi invisibile; più che di invisibilità vera e propria sembrava trattarsi di una qualche barriera protettiva, dal momento che fin quando rimaneva in quello stato il suo corpo riusciva a respingere qualsiasi attacco magico gli venisse scagliato contro.

Helen si trovò quindi costretta a dover correre e scappare di continuo, acquattandosi di volta in volta dietro le varie postazioni di controllo nella speranza di sentire un rumore, uno strepito, o qualunque cosa che potesse aiutarla a capire la posizione del nemico prima che questi avesse il tempo di saltarle addosso e sbranarla.

Era una situazione ai limiti del dramma.

Le specialità di Sleeping Beauty erano incentrate sulla rapidità e sugli attacchi a sorpresa, che però servivano a ben poco in un ambiente così angusto e pieno di ostacoli, senza contare che l’avversario sfoggiava la medesima tecnica, oltre ad essere quasi immune a qualunque tipo di incantesimo.

Nel tentativo estremo di cavarsi da quella situazione Helen, infilato il suo ultimo caricatore, provò a usare la medesima tecnica sfruttata poco prima contro tutti quegli EDA; atteso che il nemico avesse la propria attenzione rivolta altrove, in silenzio generò una bomba stordente ad alto potenziale, e poggiatala lentamente a terra la guidò con il pensiero fino ai piedi dell’EDA.

Questi se ne accorse solo all’ultimo momento, e quando la bomba gli esplose in faccia accecandolo Helen sbucò fuori dal suo nascondiglio bersagliandolo con una pioggia di fasci luminosi che tagliavano come coltelli e che la pelle dell’EDA, per quanto spessa, non riuscì a respingere.

Il mostro fu investito da più colpi, ma non sembrò accusare particolare dolore, facendosi al contrario ancor più furente, ed alzata la terra la punta della coda prese a menare frustate in ogni direzione, colpendo a più riprese varie apparecchiature e provocando così una tempesta di scintille e scariche elettriche.

La giovane donna riuscì a schivare la maggior parte dei colpi, ma ne arrivavano così tanti e in così rapida successione che dimenticò di tenere d’occhio anche il resto del corpo del mostro; quasi avesse avuto due cervelli, mentre la coda teneva impegnata Helen la testa le arrivò alle spalle, piombandole addosso dall’alto, e quando Helen se ne accorse istintivamente tentò di allungare il braccio dinnanzi a sé per erigere uno scudo.

L’EDA aveva una bocca così grande che riuscì ad azzannarla poco sotto la spalla, e la giovane ebbe quasi l’impressione che all’interno della gola quel mostro avesse avuto file e file di denti più piccoli che come tanti uncinetti le arpionarono la carne in più punti quasi a volerla scarnificare.

Helen, con gli occhi fuori dalle orbite e la bocca spalancata in un agghiacciante urlo di dolore, con la forza della disperazione impugnò la pistola, sparando a casaccio tutti i colpi che aveva; fortuna volle che uno dei proiettili centrò l’EDA in un occhio costringendolo a mollare la presa e ad allontanarsi sibilando per poi scomparire alla sua solita maniera, pronto a tendere una nuova imboscata.

Il dolore per Helen fu tale da farla cadere in ginocchio, e quando trovò la forza per guardarsi il braccio quasi non riuscì a crederci; persino la tuta non aveva resistito, e al posto dell’arto la giovane donna non aveva altro che una massa di carne masticata e grondante di sangue, con le falangi che per chissà quale miracolo erano ancora tutte al loro posto, ma i nervi e i tendini erano talmente malridotti che quel braccio non le riusciva quasi più di sentirlo.

Era finita.

Nessuno poteva sopravvivere ad una cosa del genere. Anche se qualcuno fosse stato in grado di salvarla, con quel mostro quel maledetto doveva averle trasmesso una tale quantità di energia infetta che probabilmente nel giro di pochi minuti il suo core sarebbe scoppiato, e per lei sarebbe già stata una fortuna non trasformarsi in un’EDA a sua volta.

Ma se davvero era giunta la fine per lei, non sarebbe morta senza compiere la sua missione. Aveva ancora un incarico da portare a termine.

Il problema era capire come riuscirci, e intanto l’EDA era ancora là attorno, pronto a sferrare l’assalto finale.

Perennemente nascosto dietro il suo specchio illusorio, il mostro si era già portato nuovamente alle spalle della sua preda, ed attendeva solo il momento buono per colpire. Forse aspettava di vederla morire, ma poiché questa per interminabili minuti seguitò a restare in ginocchio, immobile ma apparentemente ancora viva, si risolse invece a fare la propria mossa, e caricatosi a molla scattò all’attacco piovendo un’altra volta dall’alto.

Helen si girò velocissima, i denti serrati e lo sguardo infuocato, e come protese violentemente dinnanzi a sé il braccio menomato tutto il sangue che lo circondava, quasi animato di vita propria, induritosi schizzò verso il nemico, che finì letteralmente impalato su di una selva paletti di sangue.

Blood of Stone.

Ovvero, usare il proprio sangue come un’arma, indurendolo fino a renderlo forte quanto il diamante e tagliente come l’acciaio. Una sublimazione magica volta a creare un attacco fisico.

Mai una volta Helen se n’era servita, perché sapeva quanto fosse pericoloso, poiché non controllando adeguatamente la fuoriuscita vi era il rischio di dissanguarsi, ma in fin dei conti quella sarebbe stata senza ombra di dubbio la sua ultima battaglia.

L’EDA cadde morto prima ancora di potersene rendere conto, ma la missione di Helen non poteva ancora dirsi conclusa.

Tremante, e sorreggendosi malamente sulle gambe, la giovane donna si alzò faticosamente in piedi, facendo appello alle sue ultime forze; riuscì a malapena a raggiungere la consolle di comando, usando l’unico braccio che le restava per digitare la password che Ulrich le aveva fornito poco prima, quindi, piegate le labbra in un ultimo sorriso, si accasciò, spirando con la sicurezza che avendo esaurito del tutto il proprio core non vi era per lei il rischio di poter tornare indietro da mostro.

 

Amanda, Klaus e Vincent non erano più sicuri che difendere ad oltranza quella cambusa fosse la scelta migliore, non ora che la sua impenetrabilità era venuta meno e che, probabilmente, diffondendo l’odore di carne viva molto presto avrebbe condotto gli EDA dritti da loro.

«Forse a questo punto portarli alle scialuppe è davvero l’unica cosa da fare» si azzardò ad ipotizzare Vincent. «Siamo in tre, e ci sono solo due ponti da attraversare.

Con un po’ di fortuna magari…»

«Sei impazzito?» lo interruppe Klaus, guadagnandosi un’occhiata di stupore da parte dei suoi colleghi. «Tanto per cominciare non abbiamo idea di quanti ostili potremmo trovare lungo la strada. E in secondo luogo, da che quello stronzo di Song se n’è andato, non abbiamo ancora sentito il segnale d’allarme che annuncia il distacco delle scialuppe.

A questo punto direi che non ci sono più dubbi su quale deve essere stata la sorte sua e dei poveracci che l’hanno seguito».

Amanda chinò il capo rattristata; alla fine, era successo ciò che aveva previsto.

Tuttavia Vincent, per quanto colpito, non sembrava intenzionato a desistere.

«Se quelli caricano in massa, quel collo di bottiglia non li fermerà per sempre. E una volta che saranno entrati, sarà la fine.»

«Almeno qui possiamo difenderci. Non dobbiamo fare altro che tenere il corridoio sotto tiro. Là fuori potrebbero attaccarci da qualunque direzione.»

«Senti, io capisco che tu stia cercando di salvare queste persone, ma ti ricordo che sono ancora il tuo superiore.

Aspetteremo ancora cinque minuti. Poi, se non accade niente, prenderemo queste persone e le porteremo alle scialuppe.

Devi capire che alle volte salvare alcuni civili è sempre preferibile a non salvarne nessuno».

Klaus temporeggiò, sembrava quasi sul punto di cedere, anche se un’idea simile era una cosa che né lui né Amanda riuscivano razionalmente ad accettare.

Poi, d’incanto, si avvertì un rumore, che pervase come una piacevole musica tutta la nave.

Nella sala motori, Georg e Raoul videro i sistemi di controllo accendersi da un momento all’altro, il nucleo di alimentazione tornare a funzionare, e le turbine che, faticosamente, si rimettevano a girare, emettendo il loro pittoresco e scintillante barlume azzurro.

Al rumore seguirono dei brevi contraccolpi, come di una macchina col motore in panne, e infine una piacevole sensazione di movimento, accentuata dal fatto che il sistema di stabilizzazione pensato per evitare sgradevoli scossoni e simulare una gravità stabile era fuori uso.

Ciò nonostante, nessuno ci fece caso, e anzi tra i superstiti vi fu un’ondata di meravigliato stupore.

«Ci stiamo muovendo!» esclamò qualcuno. «La nave si muove! I motori funzionano di nuovo!».

Tutti si lasciarono andare ad esternazioni di gioia, chi piangendo, chi abbracciando la prima persona che capitava, chi rinvolgendo infiniti grazie ai propri salvatori.

«Il Capitano ce l’ha fatta!» esclamò Amanda.

Ma per Klaus e Vincent non era ancora il momento di sentirsi al sicuro.

«Secondo Lei» chiese Klaus, «Quanto ci impiegheremo a lasciare la Zona Oscura?»

«Non sono un pilota» replicò Vincent, «Ma a questa velocità, direi circa quindici minuti».

Klaus guardò verso la porta aperta.

«Trenta minuti. Tutto quello che dobbiamo fare è tenere questo posto per mezz’ora. Il tempo che la nave esca dalla Zona Oscura e che le navi in arrivo dalla superficie ci aggancino. Quando i loro uomini saranno a bordo ci penserà Ulrich a far sapere loro dove siamo, e così sarà tutto finito».

Stavolta, fu Vincent a tergiversare, passandosi lungamente una mano sulla fronte. Forse, era giunto il momento di dare un po’ di fiducia a quel ragazzo in cui anche lui, come il suo Capitano del resto, aveva sempre creduto, e che finalmente stava iniziando a comportarsi da vero leader.

«Forza, fortifichiamo questo ingresso. Saranno i trenta minuti più lunghi della nostra vita».

 

Georg guardò soddisfatto i motori che tornavano a cantare dopo un lungo silenzio, e anche Raoul non riuscì a trattenere la propria euforia.

«Ce l’abbiamo fatta!»

«Non cantiamo vittoria» lo calmò il Capitano. «Per il momento siamo bloccati qui. Ora si tratta solo di aspettare».

Poco distante si trovava un terminale di comunicazione, e Georg, che pure da tecnico valeva assai poco, prese a lavorarci nel tentativo di stabilire un collegamento con il resto della nave e avere notizie sulla situazione, mentre Raoul si lasciò ben presto rapire dall’alone color turchese emesso dalle turbine, fantasticando nella sua mente di tutte le cose che avrebbe fatto una volta tornato a terra e lasciato per sempre quel lavoro: un nuovo impiego, il matrimonio, tanti figli, una vita felice, e una serena vecchiaia in qualche isola corallina nel mare di New Aalborg.

La morte interruppe di colpo tutti i suoi sogni, presentandosi sottoforma di una specie di lunga zampa di ragno che sbucando alle sue spalle lo trafisse in pieno petto, e a nulla valsero i tentativi di Georg, accortosi del pericolo, di avvertirlo della minaccia, che servirono solo a dargli il tempo per girarsi e guardare in volto il suo assassino.

Sembrava uno di quegli orchi che popolavano le fiabe per bambini, alto e possente, mascella squadrata da scimmia, occhi piccoli e neri, la testa rapata e una bocca enorme, con quattro canini per arcata che sporgevano dalle grosse labbra.

L’unica cosa un po’ insolita erano quelle due specie di protuberanze che sbucavano dalla base delle scapole, forse la parte terminale dell’omero che si era ingrandita a dismisura fuoriuscendo dal corpo, una delle quali era ora piantata per più di metà nel petto di Raoul e fuoriusciva dalla parte opposta, lorda di sangue.

Il cameriere, agonizzante, fu sollevato in aria, e quindi scaraventato di sotto con un rapido movimento dell’artiglio, disintegrandosi a contatto con la luce emessa dalle turbine a causa dell’enorme energia sprigionata.

«Raoul!».

Georg imbracciò il mitra e fece fuoco, ma i proiettili rimbalzarono sulla pelle dell’EDA come su di una parete d’acciaio, e il mostro, furente, lo caricò, scagliandolo via con una poderosa manata che lo lasciò mezzo tramortito a terra e fece volare la sua arma oltre la balaustra.

Il Capitano impiegò diversi secondi a riprendere conoscenza, e fu sorpreso nel constatare che il colpo di grazia stentava ad arrivare; fu solo quando si avvide di come l’EDA avesse concentrato la propria attenzione sul contenitore del krylium, prendendo a tirargli contro pugni furiosi nel tentativo di romperlo, che capì cosa stava succedendo.

Gli EDA rassomigliavano a dei giocattoli a molla, che funzionavano fintanto che potevano disporre di una riserva di energia. Per questo erano attratti dagli esseri umani, e più in Generale da tutto ciò che potesse nutrirli prolungando la loro esistenza miserevole.

Ecco perché quel bestione si era limitato ad uccidere Raoul e tramortire lui: quando mai due corpi umani potevano risultare più appetibili di un intero blocco di purissimo krylium? Dal profondo della sua natura animale non riusciva a comprendere di non potersene nutrire, ma l’energia che esso emetteva era come la luce per le falene, assolutamente irresistibile.

Ma in ogni caso, Georg non poteva permettergli di fare quello che voleva; se quel contenitore fosse andato distrutto il sacrificio di Reynar, Raoul e tanti altri poveri sventurati sarebbe stato inutile.

Sfoderato il pugnale, e urlando per darsi coraggio, Georg saltò letteralmente in groppa al mostro, piantandogli la lama nel collo nella speranza di farlo desistere subito. Il mostro riuscì a disarcionarlo in pochi secondi, afferrandolo con le sue mani ciclopiche per poi sbatterlo violentemente a terra, ma prima che potesse colpirlo nuovamente Georg gli impalò il piede facendolo gridare dal dolore, e dandogli così il tempo di rialzarsi, caricare il destro ed assestargli un violento montante.

Nessuno, soprattutto se privo di poteri magici, si sarebbe mai sognato di affrontare un’EDA a mani nude, ma che altro gli restava da fare?

«Avanti, bestione» disse provocatorio mentre quel mostro, furente come non mai, tornava a fissarlo. «Se vuoi mangiare qualcuno, perché non provi con me?».

 

Il corridoio che conduceva dal cuore delle stive alle cambuse era già stato bloccato e ostruito in vario modo dai superstiti con tutto ciò che era stato possibile accumulare, ma a tempo da record venne riorganizzato da Amanda, Klaus e Vincent per farne una successione di tre barricate che, secondo il piano, avrebbero potuto garantire una continua linea di difesa, anche a costo di dover cedere dei metri.

Tutti coloro che avevano una qualche dimestichezza nell’uso delle armi furono equipaggiati con tutte le pistole, i fucili e le armi d’assalto che fu possibile mettere insieme, e vennero reclutati anche i pochi maghi presenti tra i sopravvissuti.

«Credo sia tutto pronto» disse Klaus osservando la linea ininterrotta di casse, cassoni e ingombri vari che partendo da subito oltre la porta arrivavano fino sul fondo del corridoio. «Ulrich, mi ricevi?»

«Forte e chiaro.»

«Abbiamo bisogno del tuo aiuto. Avvisaci quando li vedi arrivare.»

«State tranquilli. Sto tenendo d’occhio tutti i punti d’accesso. Nessuno si avvicinerà a quella stanza senza che voi lo sappiate per tempo.»

«Non avrei pensato di doverlo dire, Ulrich, ma… grazie del tuo aiuto.»

«Non c’è di che» rispose sornione l’interessato.

A quel punto, ad Ulrich restava solo una cosa da fare.

Per tutto quel tempo, da che era riuscito a ripristinare i sistemi di sorveglianza, il computer aveva accumulato, compattato e messo in ordine quanti più filmati gli era stato possibile, facendone un grande video contenente sia i momenti immediatamente precedenti e successivi allo scoppio dell’emergenza sia le varie fasi di intervento della squadra, trasferendo il tutto all’interno del computer da polso di Ulrich.

Quelle immagini sarebbero state sicuramente molto utili al momento di stilare il rapporto, inoltre avrebbero sicuramente contribuito a comprendere le origini e le cause di quella emergenza, sì da evitare in futuro simili tragedie.

Un rumore proveniente dalle sue spalle gli strozzò di colpo il respiro in gola.

«Ma cosa…».

Per fortuna i riflessi non gli facevano difetto, o l’EDA sbucato all’improvviso dalla porta ancora aperta della stanza del nucleo lo avrebbe azzannato prima che avesse avuto il tempo di sfoderare la pistola e fare fuoco.

Istintivamente, passata la minaccia, Ulrich eresse una barriera a protezione della porta, e fu un bene, perché dopo pochi attimi una ventina di altri mostri vi si avventò contro, trovando in quel fragile scudo tutto ciò che li separava dal loro pasto. Non serviva molta fantasia per immaginare da dove fossero arrivati, e gettando un occhio al corridoio si potevano notare, sul soffitto, diverse botole aperte.

«Ulrich, che succede?» domandò Klaus, che aveva sentito dei rumori attraverso la radio

«Sono qui, Klaus. Sono arrivati dai condotti.»

«Merda! Aspetta, ora vengo ad aiutarti!»

«No, lascia perdere!» gli intimò Drassimovic. «Sono troppo lontano! Sta tranquillo, per ora sono inoffensivi. Senza contare che non possiamo permetterci di perdere la sala del nucleo.» poi guardò i monitor, rimanendo per un attimo in silenzio, sconvolto. «E poi, state per avere visite».

 

Gli EDA, avevano dimostrato analisi autoptiche, non perdevano del tutto al propria coscienza umana al momento della trasformazione.

La memoria e la coscienza venivano alterate e sconvolte, impedendo loro di pensare e sentire razionalmente, ma non scomparivano in maniera completa, e in alcuni casi arrivavano a condizionare il comportamento successivo dell’EDA anche dopo la mutazione.

Quando un pugno di EDA, attratti dall’odore di cibo, raggiunse la zona delle scialuppe trovarono ad attenderli solo un Richard Song ormai mutato, il quale però, Comandante alla guida del proprio esercito, messosi alla testa di un vero battaglione di EDA cominciò a correre schiumante in direzione della stiva, coinvolgendo nella sua discesa verso il basso un numero sempre maggiore di propri simili, e non servì molto perché alle narici di tutti quei mostri giungesse un profumo tale da tramutare una fame istintiva in vera e propria furia distruttrice.

Vincent e Klaus, appostati assieme ad altri lungo la prima e più esposta barricata, li sentirono arrivare quando questi erano ancora a molti metri di distanza, tanto e tale era il fracasso prodotto dal loro avanzare furioso.

«State pronti!» ordinò Klaus.

La paura negli occhi di molti era evidente, e qualcuno era talmente spaventato e tremante da non riuscire a tenere dritta la propria arma, ma bene o male tutti sapevano che a quel punto non si poteva più tornare indietro. O vivere o morire: questa era l’unica scelta che rimaneva a ciascuno di loro.

Come la quiete prima della tempesta, per un istante tutto si fece silenzio; poi, ringhiando e strepitando, i primi EDA dell’interminabile armata si palesarono dalla biforcazione sul fondo. Song guidava la carica, e fu lui il primo a cadere, centrato in pieno da Klaus che non ci pensò due volte a tirare il grilletto appena lo vide comparire nel mirino.

«Ricordate, sparate in testa! Fuoco!» ordinò Vincent.

Klaus aveva letto una storia da piccolo, si diceva il resoconto di un fatto realmente accaduto all’alba dei tempi, quando ai loro antenati vivevano ancora sulla Terra, di un pugno di soldati che riuscivano da soli a respingere un esercito mille volte più grande sfruttando una stretta gola dove il vantaggio dato dal numero era azzerato; forse era anche un po’ in memoria di quella favola che si era convinto della fattibilità di quell’ultima, disperata resistenza, piuttosto che arrischiarsi in una traversata della nave dagli esiti imprevedibili, e inizialmente i fatti parvero dargli ragione.

Esposti al fuoco di sbarramento, impreciso ma comunque intensissimo, gli EDA non smisero un attimo di cadere.

Ma erano tanti. Troppi. E più della metà dei coraggiosi che si erano offerti di aiutare a contrastarli nei fatti non aveva mai toccato un fucile.

Sotto la spinta di quell’onda umana, la prima barricata non impiegò molto a cadere; Klaus ordinò il ripiegamento, ma dei cinque uomini che erano con lui solo due riuscirono a seguirlo fino al secondo sbarramento, e quando anche questo cadde, costringendo i superstiti a rifugiarsi nel terzo, dove li attendeva Vincent, Krietzmann era rimasto solo.

E sarebbe morto anche lui, se un’EDA che era in procinto di saltargli addosso non fosse stato intercettato a mezz’aria e finito provvidenzialmente da un colpo ben piazzato di Vincent, che coprì le spalle al compagno finché questi non l’ebbe raggiunto.

«Questa è l’ultima linea!» gridò Vincent per sovrastare il fragore degli spari. «Se perdiamo anche questa dovremo ripiegare fin nella cambusa!»

«Non succederà!» replicò fiero Klaus sporgendosi e riprendendo a sparare.

Man mano che i rumori si avvicinavano, tra i sopravvissuti montava la paura. Amanda stava dinnanzi alla porta, pronta a coprire un’eventuale fuga ai suoi compagni che ora poteva vedere a poca distanza, mentre tutto attorno a lei il panico tornava a prevalere sulla speranza.

Hilda, che per buona parte del tempo era rimasta in disparte, senza quasi capire il perché si ritrovò a cercare la compagnia di Johanna, che la strinse a sé ricevendo finalmente in cambio un uguale abbraccio.

«Ho paura.» disse la bambina con un filo di voce

«Ce la faremo, piccola. Te lo prometto».

 

L’Aurora aveva ormai raggiunto l’orbita alta di Neos, e tutti gli occhi erano puntati in direzione della Zona Oscura, da cui ci si aspettava di veder sbucare da un momento all’altro la figura esile e scintillante del Megonia, diretto verso la sua ultima destinazione.

A bordo regnavano incertezza e rassegnazione.

Bene o male, in quelle tre ore di volo, tutti si erano convinti che quella era l’unica cosa da fare, ma in pochi apparivano realmente determinati a farla, o quantomeno a farla senza dubbio alcuno.

Il Direttore Generale non aveva più aperto bocca da dopo la partenza, e sedeva come ipnotizzato alla poltrona di comando al centro del ponte, scrutando come gli altri l’immensità dell’universo con occhi quasi spenti, apatici.

Qualche migliaio di chilometri più indietro, la Voyager, la nave scuola della stazione Ares, seguiva la stessa rotta alla sua massima velocità, la stessa che risultando quasi doppia rispetto a quella della ben più grande ma anche più lenta Aurora le aveva permesso di colmare in poco tempo la distanza accumulata.

Anche sul ponte della Voyager regnava il silenzio, ma era un silenzio diverso.

Nessuno, tranne il Direttore Shane, sapeva ancora con certezza cosa stessero andando a fare, o quale fosse l’origine di tutto quel trambusto che aveva sconvolto una normale giornata di lezione, e i cadetti si guardavano increduli tra di loro.

Più l’Aurora si avvicinava, più Shane si faceva nervoso.

«Quanto manca per poterli raggiungere?»

«Ancora dieci minuti, signore».

Poi, d’un tratto, qualcosa apparve alle spalle di Neos, facendo sobbalzare tutti sia sull’Aurora che sul Voyager.

Una sagoma, bianchissima.

Il Megonia.

Procedeva lentamente, in modo incerto, sospinto da dei motori che nonostante i danni riportati riuscivano ancora a funzionare, a riprova del lavoro magistrale degli ingegneri.

Vedendola, Shane sbiancò, e le sue mani presero a tremare.

«Riusciamo a raggiungerli in tempo?»

«Sono ancora troppo distanti, Signore.» rispose timidamente il pilota.

A bordo dell’Aurora la razione fu quasi la stessa, ma lì tutti sapevano cosa stava per succedere.

«Cannone Odin in stand-by.» disse Aoyama.

Nolan si volse verso Geithner.

«Signore?».

Il Direttore Generale strinse forte i braccioli della poltrona, quindi fece un cenno appena visibile con la punta di un dito.

«Caricare Odin.» ordinò quindi Nolan.

 

Se Amaltea aveva Morpheus, la MAB e Caldesia avevano Odin: un’arma innovativa, di cui l’Aurora poteva fregiarsi di essere la prima in assoluto a beneficarne, capace di raccogliere il potere magico presente nel cosmo, anche nelle quantità più infinitesimali, e sommarlo a quello prodotto da una parte del proprio nucleo, sì da dare vita ad una enorme massa di energia capace di produrre un potere distruttivo senza precedenti.

Vedendo comparire una sfera di luce bianca davanti al muso dell’Aurora, che pulsando e palpitando come un cuore cresceva sempre più d’intensità, Shane si sentì scendere il latte alle ginocchia.

«Bastardi» ringhiò, quindi ordinò. «Mettetemi in comunicazione con l’Aurora! Aprite un canale!»

«Ma signore, la loro linea è protetta…»

«Craccatela!».

Nessuno di quei ragazzi era al livello di Ulrich, che bene o male era stato per loro quasi un professore, ma unendo le forze riuscirono comunque a violare i sistemi di sicurezza dell’Aurora, e il volto del Direttore Shane comparve al centro del ponte di comando proprio nel momento in cui il Direttore Generale, sfilatosi dal collo la chiave di controllo di Odin, era sul punto di infilarla nella fessura comparsa da uno sportello sul bracciolo della sua poltrona.

Vedendolo apparire, Nolan imprecò in silenzio, e anche Aoyama ne fu visibilmente contrariato.

«Nathan!? Che ci fai tu qui?»

«La prego, Signore. Non lo faccia. Non condanni a morte tutte quelle persone.»

«Ne abbiamo già parlato, Direttore Shane» tagliò corto Nolan. «La decisione è presa. Il Megonia deve essere sterilizzato.»

«Cannone Odin carico.»

«Ci sono ancora delle persone a bordo. Persone innocenti. Possiamo salvarle. Ho portato con me uomini ed equipaggiamenti. Mi dia trenta minuti, solo trenta minuti, e riprenderemo il controllo della nave.

Metta tutti in quarantena. Li arresti se necessario. Ma non li uccida così».

Geithner guardò in basso, sopraffatto dal peso della sua carica.

«Signore» disse Aoyama. «Qui è in gioco la salvaguardia del nostro pianeta. Che faremo se il contagio a bordo del Megonia dovesse diffondersi?»

«Questa è una decisione di cui potrebbe pentirsi per tutta la vita» incalzò Shane. «Noi siamo la MAB, signore. Il nostro compito è proteggere questo pianeta ed i suoi abitanti. Tutti i suoi abitanti.»

«La nave è nel mirino, Signore.»

«Signore!»

«Signore!».

La mente di Geithner viaggiò lontano.

Ripensò alla sua infanzia, ai racconti di suo nonno, alle gite in montagna; e poi all’accademia, al duro lavoro, alla scalata ai vertici, e a quel sogno di diventare l’uomo più importante del mondo: non per avidità o sete di gloria, ma solo per la volontà incontrollabile di aiutare gli altri, poiché solo la MAB aveva il potere di tramutare Celestis in quello scrigno di grandezza e di utopia che i loro antenati sognavano.

Una cosa però era certa: quella decisione, qualunque fosse stata, avrebbe cambiato il destino non solo della MAB, ma probabilmente dell’intero Celestis. Per sempre.

 

Ulrich guardò di nuovo verso la barriera, su cui quei mostri impazziti ed assetati di sangue spingevano senza sosta, e sulla quale iniziavano a comparire le prime crepe.

Di sicuro, non avrebbe retto ancora a lungo.

 

Georg si era battuto come un leone, e grazie alla sua stazza era riuscito in più occasioni a fare davvero male all’EDA, ma contro un avversario del genere non era facile riuscire a prevalere.

L’orco, all’ennesimo assalto furioso del Capitano, incassò alcuni colpi, poi ne ricevette uno allo zigomo che evidentemente gli fece più male degli altri, e con uno scatto furioso colpì il Capitano con tutta la sua forza, sparandolo contro una parete; e questa volta, neanche la tuta protettiva riuscì a salvare Georg, che nel momento dell’urto sentì distintamente varie ossa scricchiolare, e alcune spezzarsi, tanto che una volta a terra non fu capace di rimettersi in piedi.

Ma l’EDA non aveva ancora finito con lui. Prima ancora che il Capitano potesse cadere del tutto, il mostro scagliò in avanti tutti e due i suoi artigli, trafiggendolo da parte a parte all’altezza del cuore per poi sollevarlo di peso ancora vivo, portandolo tanto vicino a sé che i loro nasi quasi si sfiorarono, quasi quella creatura avesse voluto guardare dritto negl’occhi quell’omuncolo che aveva osato sfidarlo.

Georg dapprima urlò per il dolore, ma quando fu viso a viso con il mostro le sue labbra si piegarono in un ghigno provocatorio, i suoi occhi in uno sguardo di sfida.

«Non… non sai fare più di così?».

 

Nelle cambuse, anche la terza linea era saltata. Oltre a Vincent e Klaus, solo pochi altri erano sopravvissuti abbastanza a lungo da lasciare indenni quel corridoio infernale, e la difesa a spada tratta di quell’ultimo pertugio che era la porta d’ingresso appariva sempre più disperata.

Tutti sparavano, producendo un rumore che rafforzato dallo spazio chiuso risultava assordante, mentre nell’aria continuavano ad echeggiare le urla infernali di quei mostri, che fossero di dolore, di agonia o di rabbia famelica; anche dalle altre porte, tutte ancora sprangate, presero a giungere violenti colpi.

Qualcuno riuscì ad entrare, superando lo sbarramento e aggredendo alcuni dei superstiti, e a quel punto fu il panico Generale, con gente che scappava in tutte le direzioni intralciandosi a vicenda.

«Sto finendo le munizioni!» si continuava a sentire.

Ashley e il signor Gullit, come immersi in un’altra dimensione, si guardarono, scambiandosi un sorriso, mentre lui le sfiorava la guancia con un dito e lei passava una mano sui suoi folti capelli grigi.

«Il Capitano ha detto che usciremo di qui!» urlò Hilda tra le lacrime stringendo la matrigna più forte che poteva. «Lo ha promesso!»

«Và tutto bene, bambina mia!» le sussurrò teneramente la madre nascondendo le proprie, di lacrime. «Và tutto bene. Chiudi gli occhi».

 

Il Direttore Geithner abbassò lo sguardo; quando lo rialzò, guardando il vuoto davanti a sé, una lacrima scese lentamente lungo il volto rugoso.

«Per la pace. Per il mondo. Per l’umanità».

 

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Capitolo 14
*** Epilogo ***


EPILOGO

 

 

Nolan invitò a colazione il Direttore Liam Finnes, capo del distretto di Eldkin, e il suo collega Aoyama, che passata la crisi aveva accettato di lasciare il consiglio in cambio del comando della regione di Midgra, in occasione di un loro viaggio di piacere nella capitale, facendoli accomodare nel salotto-biblioteca della sua elegante residenza nelle colline attorno a Kyrador.

Erano passati ormai due mesi dall’Incidente del Megonia, come la stampa lo aveva ribattezzato, e inaspettatamente le acque sembravano già essersi calmate; ed era proprio di questo che i tre alti funzionari avevano intenzione di parlare a quella piccola riunione personale, degustando ottimo tè aleptiano, superbo caffè amalteco e dolciumi vari arrivati appositamente dalle maggiori pasticcerie e panetterie della città.

L’aria era fresca, peschi e ciliegi andavano ricoprendosi dei fiori della primavera, e dai finestroni della sala entrava un piacevole sole mattutino.

«La situazione si è acquietata, a quanto sembra.» commentò Aoyama

«Così pare» rispose Nolan. «Alla fine è bastato poco per convincere la gente che quella era la cosa giusta da fare.»

«E Amaltea come l’ha presa?» domandò Finnes

«Hanno fatto un po’ di storie. Minacciavano di ricorrere per vie legali, ma hanno accettato di far cadere tutto quando l’agenzia si è offerta di risarcire per intero sia i premi assicurativi che gli indennizzi per le famiglie delle vittime.»

«Voi credete che sarebbe potuta andare a finire diversamente?»

«Lo trovo difficile. Abbiamo dovuto scegliere. In entrambi i casi sarebbe stata una decisione drammatica. Fortunatamente per noi, il Direttore Generale ha preso quella giusta.»

«Le sue dimissioni hanno fatto meno rumore di quanto mi sarei aspettato» disse Aoyama. «Ma del resto, anche così, non c’era molto che potesse fare».

Finnes si portò alla bocca la tazza di caffè, stando bene attento a non macchiare i suoi curatissimi baffi grigi.

«E di quelle due superstiti che ne è stato?»

«Anche in questo siamo stati fortunati» rispose Aoyama portandosi alla bocca un pezzo di pancake «A sentire i medici, la ragazzina è ridotta praticamente ad un vegetale, e anche nel caso in cui tornasse in sé non ricorderebbe comunque nulla di quanto accaduto lassù.»

«Per quanto riguarda l’Agente invece, abbiamo preso i dovuti provvedimenti» intervenne Nolan. «Il suo silenzio è garantito. Morti i genitori, quella ragazzina ha ereditato un patrimonio. Ha dovuto scegliere tra il poterla curare lei pur non avendone alcun diritto legale e lasciarla nelle mani di qualche tutore avido di soldi che l’avrebbe spremuta fino alle ossa.»

«Le avete dato l’affidamento della bambina?» chiese Finnes quasi stupito

«Non è stato difficile. E abbiamo anche provveduto a garantirle una promozione, un lavoro dietro una scrivania e una lauta plusvalenza.»

«Non sarebbe stato meglio disfarsi di lei? È pur sempre una superstite.»

«Perché potesse andare a raccontare a mezzo mondo la sua storia? C’è gente là fuori che non aspetta altro che l’occasione buona per screditarci.

Almeno, finché resta con noi, ha un giuramento da rispettare.»

«E di Shane che mi dici? Terrà la bocca chiusa?»

«Non c’è molto che possa fare. Non ha prove che dimostrino che l’incidente poteva essere gestito in altra maniera, o che vi sia stata una qualche violazione dei diritti fondamentali nell’operato dell’Agenzia.

Inoltre, ora che il suo Progetto è stato rifinanziato e definitivamente approvato, apparirebbe come un profittatore e un poco di buono se dovesse tentare di screditare chi gli ha appena garantito altri dieci anni di stipendio».

Finnes si lasciò andare sospirante sulla poltrona.

«Certo, è stata proprio una bella seccatura. Ma almeno, è finito tutto per il meglio» quindi si rivolse a Nolan. «Stavo pensando. Ora che il Direttore Generale si è dimesso, direi che la tua nomina a capo dell’Agenzia sia quasi una formalità.»

«Ha ragione» incalzò Aoyama. «Sei uno dei pochi che ha tratto più vantaggi che problemi da tutta questa storia.»

«Non è del tutto sicuro» rispose l’interessato con una strana espressione, quasi ammiccante. «C’è qualcuno che ha avuto da ridire sul mio operato, e sapete bene che non tutti nell’Agenzia hanno approvato la nostra decisione. Dopo quelle del Direttore Generale, in molti si aspettano anche le mie.»

«Geithner si è preso tutte le responsabilità» disse Finnes. «Moralmente ed eticamente parlando, il Consiglio ne è uscito indenne.»

«Ma l’idea della soluzione finale è stata mia. E per quanto sia stata quella giusta, c’è ancora chi continua a dubitarne» quindi parve sorridere. «Del resto però, i più, inclusa l’opinione pubblica, ha dimostrato di avere del senno.

Staremo a vedere. In ogni caso, per il futuro, sarà opportuno prendere in considerazione l’idea di un deciso cambio di impostazioni in seno ai vertici dell’Agenzia. Ora come ora ci sono troppe persone con il potere di influire su decisioni importanti.»

«Sono d’accordo» concluse Aoyama. «D’altronde, non abbiamo un Comandante supremo solo per amore delle apparenze».

Il Sergente Doyle, che seguiva come un’ombra il Direttore Nolan facendogli da attendente, irruppe improvvisamente nella stanza, minacciando di far volare via il portauovo dalle mani del suo principale.

«Direttore, una catastrofe!»

«È modo di entrare, Agente Doyle?» lo rimproverò l’interessato

«La televisione! Accenda la televisione!».

Una specie di brivido attraversò senza apparente motivo le schiene dei tre ufficiali, che si guardarono tra di loro perplessi per poi volgere la propria attenzione verso il monitor affisso alla parete.

Seguendo le indicazioni del suo uomo Nolan accese la CNN.

Un titolo campeggiava in sovrimpressione: Verità negata! Esclusiva dal Megonia!, mentre sopra di esso scorrevano ininterrottamente immagini di eserciti di mostri simili a zombi che percorrevano in massa corridoi stretti e angusti, e di uno sparuto gruppo di soldati dalle inconfondibili uniformi che sparando senza sosta facevano scudo ad un folto gruppo di civili terrorizzati e ammassati all’interno di una grande stanza; poi, di colpo, l’immagine scomparve, ricominciando però immediatamente daccapo.

«Ripetiamo, queste sono immagini appena giunte in esclusiva alla nostra redazione!» disse la giornalista nel riquadro in alto, a sua volta sconvolta. «Non siamo ancora in grado di accertarne al cento per cento l’attendibilità, ma al momento i nostri analisti sono orientati a reputarle autentiche.

Quelle che vedete sono riprese realizzate dalle telecamere di sorveglianza installate a bordo della nave. Da quello che si può vedere appare chiaro che c’erano dei superstiti a bordo del Megonia. La nave non era perduta.

Eppure la MAB aveva assicurato in più occasioni di aver comprovato la morte o la mutazione di tutti i passeggeri della nave, nonché la perdita dei contatti con la propria squadra inviata a indagare sull’accaduto.

Se queste riprese si rivelassero vere, allora si aprirebbe dinnanzi a noi uno scenario sconvolgente.

Possibile che la MAB abbia deciso arbitrariamente di uccidere tutte queste persone pur di arrestare l’epidemia?

Abbiamo cercato di raggiungere telefonicamente alcuni membri del Consiglio di Sicurezza, ma quei pochi che siamo riusciti a contattare hanno rifiutato di rilasciare dichiarazioni.

In una parola, la situazione è agghiacciante».

Il silenzio cadde come un macigno nella stanza di quella bellissima villa, un silenzio sconvolto e smarrito.

Nolan, Aoyama e Finnes si guardarono tra di loro, quasi a cercare vicendevolmente di convincersi che non era vero, che era tutto in sogno, un sogno orribile da cui doversi svegliare.

Un urlo riecheggiò nell’aria.

«Shane!»

 

I vertici della MAB avevano un mare di difetti, e uno di questi era la supponenza.

Subito dopo la distruzione del Megonia, con Geithner che facendo il capro espiatorio davanti alle telecamere dirottava altrove l’attenzione dell’opinione pubblica, Nolan e gli altri si erano affannati a raccogliere e cancellare ogni traccia di ciò che era stato fatto.

Avevano bruciato, seppellito, minacciato o comprato tutto ciò che poteva costituire una prova, rimescolando e ricostruendo la verità nel modo più facilmente comprensibile ed accettabile, come del resto era già stato fatto altre volte in passato per eventi di gravità più o meno simile.

Come potevano immaginare che il video montato da Ulrich, vuoi per disattenzione o per chissà  quale intercessione del fato, della provvidenza o della semplice casualità, fosse stato trasmesso per errore dal sistema di comunicazione del Megonia assieme a tutte le riprese della sorveglianza e ad altro materiale audiovisivo, frammenti di dati lanciati nello spazio nell’attesa che l’antenna di ricezione della stazione riuscisse casualmente a captarli?

Ormai non si poteva più chiudere gli occhi.

D’altro canto, Nathan sapeva che probabilmente sarebbe stato impossibile impedire che la situazione giungesse a quell’epilogo; molto probabilmente il destino di Georg, Helen, Klaus e gli altri suoi ragazzi si era compiuto nel momento stesso in cui avevano messo piede sul Megonia, così come quello di tutta quella povera gente immolata sull’altare del sacrificio per impedirne uno ancora più grande.

Ma non poteva finire tutto così, con scuse di rito, un po’ di denaro e qualche medaglia.

La MAB aveva fatto una scelta, giusta o sbagliata che fosse, e ora doveva assumersene la responsabilità di fronte a quel mondo che aveva il compito di proteggere.

Nathan era cosciente del fatto che la sua scelta non sarebbe stata priva di conseguenze; ci sarebbero stati sconvolgimenti, forse anche catastrofici, e dall’esito assolutamente imprevedibile, ma era necessario.

La MAB doveva cambiare: tutto Celestis doveva cambiare.

Per oltre centocinquant’anni, gli abitanti di quel piccolo mondo smarrito nell’universo si erano illusi di aver dato vita ad un paradiso, un’utopia terrena traboccante di splendore e di felicità. Ma forse, in realtà, Celestis non era altro che una copia sbiadita di quella Terra che i loro antenati si erano lasciati alle spalle. Perché un mondo infondo altro non era che il frutto delle scelte dei suoi abitanti, e che si parlasse della Terra o di Celestis gli abitanti erano sempre loro: gli esseri umani.

La magia aveva scombinato le carte, illudendo tutti coloro che avevano ceduto al suo potere di poter essere la chiave di accesso alla perfezione: ma i pregi e i difetti, quelli erano rimasti.

E, probabilmente, non sarebbero scomparsi mai.

Non potevano scomparire: sarebbe significato il venire meno della stessa natura umana.

Quanto a lui, sapeva perfettamente quale fosse il suo destino.

La verità era che anche lui, come molti altri, era stato complice di tutta quella farsa, e non sarebbe bastata quella fuga di notizie a segnare la sua redenzione.

Lo squillare del telefono non interruppe i suoi pensieri, e neppure l’attivarsi della segreteria, dinnanzi alla quale restò impassibile, adagiato sullo schienale della sua poltrona con gli occhi persi nel vuoto del suo ufficio, una scatola chiusa poggiata dinnanzi a sé sulla scrivania e la vetrata aperta sull’atmosfera azzurra di Celestis alle proprie spalle.

«Nathan, razza di bastardo impenitente!» tuonò iracondo Nolan, ben sapendo che il suo vecchio compagno di corso lo stava ascoltando. «Si può sapere che ti dice la testa? Vuoi forse distruggere questa agenzia?

È la tua vendetta, non è vero? Perché sono stato sempre un passo avanti a te!

Ma se ti sono sempre stato avanti è perché tu sei un fallito! Una merdosa nullità! Tu non vali niente! Mi hai sentito, maledetto amalteco? Non vali niente!

Non credere di uscirne pulito! Se io vado a fondo, tu verrai con me! Ti getterò addosso tanta di quella merda che quando sarà finita rimpiangerai di non esserci stato anche tu su quella maledetta nave!

Io ti rovino! Ti rovino! Parola mia!».

L’ultimo suono che giunse attraverso la cornetta all’orecchio di Nolan, l’ultimo atto di quella commedia tragica, fu un colpo di pistola, cui fece seguito il colossale baccano proveniente dal cortile, con eserciti di giornalisti che si accalcavano davanti al cancello della villa minacciando quasi di abbatterlo.

 

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Capitolo 15
*** Extra ***


EXTRA

CON TE, FINO ALLA FINE DEL TEMPO

 

 

La giovane donna sedeva dinnanzi alla finestra della sua umile stanza, aperta sulla maestosa bellezza delle acque del Lago Biwa, con il monastero che come aggrappato con le unghie e con i denti alla ripida e brulla scogliera arrivava quasi a lambirne le sponde.

I capelli, biondissimi, erano elegantemente raccolti in una crocchia dietro la nuca, e portava una tunica leggera, di un colore bianco panna, che lasciava parzialmente scoperte le spalle, cinte invece da uno scialle.

Nei suoi occhi si leggeva la volontà di viaggiare; non con il corpo, ma con i ricordi.

La sua mente, a distanza di tanti anni, ancora faticava a rievocare il lungo e tortuoso cammino che l’aveva condotta fino a lì, a quella decisione, e ancor più difficile le veniva ricordare ciò da cui tutto era iniziato, quel giorno così ormai lontano nel tempo che aveva spento così tante vite e sconvolto, nel bene o nel male, quelle di tutti coloro che erano rimasti, e che avevano visto le false certezze sgretolarsi come fango secco per far spazio ad una dura, cinica e crudele realtà, quella stessa realtà in cui ora stava vivendo.

Così, come già altre volte aveva fatto, non le restò che affidarsi ai racconti, alle storie di cui lei stessa era in un certo senso protagonista, che unite ai pochi frammenti che negli anni era riuscita a mettere insieme andavano a comporre una storia terribile, ma che, per chissà quale miracolo, si era conclusa nel suo caso con una luce di speranza.

 

Gli EDA erano ormai giunti a ridosso della porta, ed erano sul punto di sfondare anche l’ultima linea di difesa, quando vi era stato una specie di sibilo, e subito dopo tutto si era spento in un mare di luce.

Amanda si vide cadere addosso un enorme pezzo di rivestimento, e quando riprese i sensi, riuscendo a fatica a toglierselo di dosso, fu sorpresa di vedersi ancora viva.

Protocollo di sopravvivenza.

In quanto maga, Amanda era stata addestrata negli anni a far sì che il suo organismo, se sottoposto a particolari stress o situazioni potenzialmente mortali, rispondesse istintivamente erigendo una barriera corporea di difesa usando tutto il potere magico disponibile; per questo fin dal momento in cui riaprì gli occhi si sentì piegata in due da una implacabile stanchezza e senso di spossatezza.

L’estrema debolezza però non le impedì, una volta ripresa pienamente coscienza di sé e del dolore che le arrivava da ogni parte del corpo, di rimanere di pietra di fronte all’orrore che le si parò innanzi.

Gli EDA, tutti, erano stati spazzati via; ma Klaus, Vincent, il signor Gullit, Ashley Thunterscott, e tutti gli altri… anche loro erano morti, ammassati senza vita l’uno sopra l’altro, sballottati via come bambole di pezza dalla potenza del colpo ricevuto.

Provò a chiamarli, a scuoterli, nella speranza di vederli riaprire gli occhi, ma nessuno le rispose.

Nessuno. Solo lei era sopravvissuta; un pensiero che la fece nuovamente cadere in ginocchio, il volto nascosto dietro le mani e gli occhi segnati dalle lacrime.

«Che sta succedendo qui?» urlò istericamente.

Poi, d’un tratto, il suo computer da polso si mise a gracchiare; nonostante i colpi presi e le crepe sul monitor, incredibilmente funzionava ancora.

«Amanda? Mi senti? Amanda!».

Lei, singhiozzando, guardò lo schermo, vedendovi comparire a fatica il mezzobusto di Mayu.

«Meno male, almeno tu sei ancora viva.

Devi andartene subito. La MAB sta attaccando il Megonia

«La… la MAB!?» esclamò sgranando gli occhi. «Che significa?»

«Ho intercettato le loro comunicazioni. Vogliono arrestare l’infezione con qualunque mezzo, anche a costo di sacrificarci tutti.

Devi andartene subito. La nave per ora resiste, ma basterà un altro colpo per farla affondare».

Dapprincipio, però, Amanda non volle neanche prendere in considerazione l’idea di scappare: non lei sola. Cosa aveva fatto di diverso per meritare di sopravvivere a quella follia?

«Ma… il Capitano… e Ulrich… e Helen…»

«Sono tutti morti, Amanda! Sei rimasta solo tu!»

«E… e tu? Tu puoi salvarti. Aspetta, ora ti raggiungo e…»

«È inutile» rispose Mayu apparentemente senza esitazioni, cercando di non tradire il suo vero stato d’animo. «Ho già provato a fare il log-out, ma non ci sono riuscita. Morpheus deve essersi guastato».

Allora, era dunque destino che dovesse salvarsi solo lei. Ma perché? Non riusciva ad accettarlo.

«No…» balbettò attonita. «Non puoi chiedermi questo. Non posso lasciarvi. Io…»

«Amanda, tu devi vivere!» le ordinò Mayu con veemenza. «Se muori anche tu, non sarà uscito niente di buono da questo maledetto inferno, lo capisci?».

Amanda rimase di sasso, non riuscendo a replicare, mentre nel suo animo si agitavano sentimenti contrastanti. Da una parte non le sembrava giusto abbandonare tutto e tutti per salvarsi, dall’altra invece sentiva che solo vivendo avrebbe potuto dare un senso a tutta quella tragedia.

«Vai, ora» le disse Mayu pacatamente. «Cercherò di farti guadagnare tempo. Raggiungi le scialuppe e lascia subito questa nave maledetta. Con un po’ di fortuna, dovresti poterti salvare».

La comunicazione a quel punto scomparve, ma Amanda non stette a lungo ad osservare il monitor annerirsi fino a soccombere del tutto ai danni che lo avevano segnato, e cercando di tacitare una voce della vergogna che la esortava a rimanere fece per andarsene.

Era praticamente già uscita dalla stanza, quando da un corpo rannicchiato e raggomitolato in un cantone lì vicino giunse un rantolo soffocato, ed avvicinatasi con qualche esitazione assistette con i suoi occhi a quello che, in quel momento, aveva tutta l’aria di un vero miracolo.

Johanna, quella Johanna che fin dal giorno delle sue nozze non aveva mai fatto altro che litigare come una figliastra Hilda, con il suo ultimo respiro si era avvolta attorno alla bambina come una seconda placenta, rimossa la quale Amanda vide emergere la piccola moribonda e priva di sensi, ma incredibilmente ancora viva.

Una volontà divina, o forse solo l’amore di una madre cui la mancanza di un legame genetico non aveva impedito di comportarsi come tale, le aveva salvato la vita, e ora stava ad Amanda far sì che quel sacrificio, così come quello di ogni altra singola vittima della follia del Megonia, non andasse sprecata.

Presala tra le braccia, ricevendo in cambio un gemito un po’ più forte, la ragazza si avviò barcollante verso l’uscita.

 

I membri del Consiglio di Sicurezza avevano accolto con un certo stupore il vedere il Megonia incassare un colpo tanto potente danneggiandosi gravemente, ma seguitando nonostante ciò a galleggiare agonizzante rifiutandosi di cadere.

In fin dei conti, era stata progettata pur sempre come una nave da guerra. E in quanto tale, oltre che di un’ottima corazzatura ed efficaci scudi protettivi era stata equipaggiata anche con un arsenale di tutto rispetto.

La maggior parte di quelle armi erano state smontate con la riconversione, ma gli armatori avevano avuto la sagace idea di lasciarle qualche arma difensiva ad energia; niente di eccezionale, ma abbastanza per dare filo da torcere a qualche pirata ardimentoso che avesse avuto la malaugurata idea di attaccarla.

Delle feritoie si aprirono alle spalle della torre del ponte, e da esse sbucarono fuori alcuni cannoni binati che puntarono verso l’Aurora e fecero fuoco all’unisono; ci voleva ben altro per incrinare un vascello di tali dimensioni, ma ciò nonostante in plancia lo scossone prodotto dall’urto si sentì vistosamente.

«Che diavolo è successo?» strillò Nolan contrariato. «È opera di qualche detrito?»

«È il Megonia!» rispose attonito Aoyama. «Il Megonia ci sta sparando!»

«Come ci sta sparando!?».

Prima che tutti potessero riaversi dalla sorpresa arrivò una seconda bordata, ma stavolta l’urto risultò così violento che qualcuno volò giù dalla propria poltrona, e subito dopo alcuni allarmi risuonarono tutto intorno.

«Hanno colpito il sublimatore magico! Odin è fuori uso!»

«Maledetti bastardi» ringhiò Nolan a denti stretti. «Se volete la guerra, vi accontentiamo subito. Preparare il resto delle armi! Sbricioliamo quella nave una volta per tutte!».

 

Forse il Megonia riusciva ancora a galleggiare, ma certo non avrebbe resistito a lungo.

Al suo interno, la distruzione regnava sovrana.

Ovunque era un susseguirsi di crolli, deformazioni della struttura, incendi, ma soprattutto di morte; forse il virus che oltre alla mutazione provocava anche il disfacimento dei corpi stava risentendo degli effetti del vuoto cosmico o del potere del raggio emesso dall’Odin, ma i corridoi, i saloni e le stanze che Amanda si ritrovò ad attraversare pullulavano di creature morte o morenti, alcune orrendamente sfigurate e mutilate, quasi che nel loro ultimo rantolo di agonia avessero cercato di sopravvivere compiendo atti ai auto-cannibalismo.

Amanda procedeva a fatica, la caviglia sinistra che a causa di una storta la faceva gemere di dolore ad ogni passo, ulteriormente appesantita dal fardello della piccola Hilda, che per tutto il tempo seguitò a rimanere priva di sensi evitandosi, almeno, quell’orribile spettacolo.

Ad ogni tremore o scossone la ragazza temeva per la loro vita, figurandosi di vedere da un momento all’altro il Megonia spaccarsi in più tronconi per poi esplodere, e allora procedeva più rapidamente, soffocando le urla nella bocca con lo stivale che andava tingendosi di rosso.

L’aria, appesantita dal fumo e prosciugata del suo ossigeno dal fuoco, si faceva sempre più irrespirabile, tanto che ad un certo punto Amanda fu costretta a far comparire il proprio casco e a recuperare da un armadietto d’emergenza una maschera di soccorso per Hilda, rendendo la marcia verso la salvezza ancor più faticosa e apparentemente infinita.

All’ingresso nel ristorante, un’improvvisa esplosione per poco non investì entrambe in pieno, ma superato anche quell’ultimo ostacolo Amanda riuscì finalmente a raggiungere le scialuppe. Era così stanca che dovette percorrere gli ultimi metri quasi gattonando sul terreno, e aperta la botola di emergenza ebbe a malapena le forze di gettarvisi dentro assieme ad Hilda, riuscendo a chiudere il portello giusto in tempo per evitare l’arrivo di una violenta onda di fuoco che arroventò, senza per fortuna danneggiarla, la superficie vetrata.

Come il congegno di distacco fu sbloccato la capsula venne sparata via dal suo guscio, allontanandosi a grande velocità proprio nell’istante in cui, dall’Aurora, veniva lanciata una selva di missili antinave.

Amanda ebbe appena il tempo di affacciarsi dall’oblò, assistendo con i suoi occhi all’ultimo respiro del grandioso transatlantico Megonia, il Gioiello dello Spazio, che centrato in tutti i suoi punti più sensibili esplose in modo talmente violento da non lasciare dietro di sé null’altro che una massa informe di detriti non più grandi di una valigia, scomparendo nel nulla assieme al suo carico di vite, anime senza nome di cui non restava più neppure la cenere.

Non le riuscì di piangere; forse ciò a cui aveva assistito in quella che solo poche ore prima era iniziata come una giornata assolutamente normale le aveva tolto anche la forza e l’animo necessari per versare delle lacrime, o forse era il pensiero di aver salvato almeno una vita a far nascere dentro di lei la convinzione che, in qualche modo, non tutto era andato perduto.

Le avrebbero ritrovate solo due giorni dopo, sulla superficie di Neos, al limitare della griglia 15, nell’ultimo lembo di satellite al di fuori della Zona Oscura, da una delle navette inviate a proprie spese dal Direttore Shane alla disperata ricerca di superstiti.

Coloro che la conoscevano, e che poterono guardarla negli occhi al momento del salvataggio, avrebbero detto in seguito che quella che uscì da quella capsula non era più l’Amanda Gerth che era partita per raggiungere il Megonia.

 

Amanda voleva che fosse resa giustizia, ma voleva anche che quello che restava della vita di Hilda non andasse perduto.

Ma il cielo, dopo averla salvata, sembrò invece essersi dimenticato di quella poveretta.

Al suo risveglio, in un ospedale militare dove entrambe furono portate, Amanda restò di sasso quando la guardò negli occhi. Non c’era niente al loro interno, erano sfere colorate senza alcuna luce; come se la sua anima le fosse stata strappata, o fosse finita in pezzi sotto il peso di tutto quell’orrore, non ultimo l’aver visto probabilmente morire sua madre subito prima di svenire.

Secondo i dottori si trattava di una forma particolarmente grave di stress post-traumatico, che aveva comportato uno shock emotivo tale da aver causato uno stato catatonico simile ad una forma di coma vigile, da cui non era detto si sarebbe un domani risvegliata.

Sentendo quelle parole, Amanda si era ripromessa di aiutare in ogni modo Hilda a tornare la bambina solare e vivace che, pur non avendola mai conosciuta prima di quel giorno, era certa fosse stata.

E per farlo, non aveva avuto altra scelta che abbassare la testa.

La MAB era potente. Troppo potente. E aveva troppo da perdere a permettere che qualcuno raccontasse la vera storia del Megonia.

In altri tempi non si sarebbe fatta spaventare dalle loro minacce, non dopo essere sopravvissuta a qualcosa di così incredibilmente simile all’inferno; ma Hilda, lei era la sua debolezza.

Una bambina orfana, a detta dei più ormai mentalmente instabile in modo permanente, ma con un patrimonio stimato in oltre due miliardi di kylis era una preda fin troppo ghiotta per squali ed avvoltoi pronti a fiondarsi su di lei alla prima occasione.

La possibilità di restare vicino ad Hilda e proteggerla fu la tangente con la quale la MAB riuscì a comprare il suo silenzio.

Amanda si sentì morire dentro nell’istante in cui firmò l’affidamento della bambina; da una parte sapeva di stare facendo la cosa giusta, dall’altra sentiva di aver appena svenduto il sacrificio di migliaia di persone.

Ma lei non era Klaus, o Joe, o il Capitano Klopfer: lei non aveva la forza di lottare.

Lei voleva solo il bene di Hilda.

Per i suoi compagni ci sarebbero stati medaglie e onori, avanzamenti postumi di grado e solenni funerali, oltre a scuole, accademie e altri luoghi simbolici eretti in loro memoria, ma la realtà era che nessuno avrebbe mai conosciuto realmente il valore delle loro azioni, né il modo in cui erano morti.

Quanto a lei, oltre alla custodia di Hilda le fu dato ciò che, in cuor suo, come ogni altro giovane Agente aveva sempre desiderato: un ufficio, continue promozioni, e un impiego di tutta sicurezza che le avrebbe portato soldi e notorietà. Ma la verità, e lo sapeva bene, era che quella divisa era in realtà la prigione nel quale la MAB l’aveva rinchiusa, e in cui sarebbe rimasta intrappolata per il resto della sua vita; fintanto che l’avesse indossata l’Agenzia avrebbe avuto in mano il suo corpo, il suo destino, e la sua anima.

Sapeva che avrebbe sofferto, ma la riteneva una giusta punizione: la punizione per aver permesso alla verità sul Megonia di scomparire nell’immensità dello spazio. Quelle anime, quei fantasmi rimasti senza giustizia, l’avrebbero tormentata per sempre, come era giusto che fosse.

 

Passarono i mesi.

Hilda venne trasferita nella residenza di campagna della sua famiglia ad Amaltea, ma neanche questo sembrò sufficiente ad accendere qualche barlume di speranza.

Mangiava, beveva, e qualche volta sembrava anche percepire qualcosa del mondo che la circondava, ma in realtà era come un guscio vuoto.

Passava le giornate da sola, nella sua stanza, seduta sul letto a fissare il vuoto, con le numerose domestiche ed inservienti che cercavano come potevano di esserle d’aiuto aiutandola a mangiare, spazzolandole i capelli, o anche solo tenendole compagnia, ma ogni tentativo di suscitare in lei una qualche reazione, o anche solo di farla parlare, andava a sbattere ogni volta contro il muro con il quale la sua anima sembrava essersi isolata dal resto del mondo.

Amanda passava a trovarla ogni volta che poteva, trasferendosi definitivamente a casa sua quando il suo passaggio alla sede di Otisa divenne esecutivo, ma anche per lei le cose, con il tempo, iniziarono ad andare male.

La rivelazione portata dal Direttore Shane aveva aperto gli occhi al mondo su quanto realmente accaduto a bordo del Megonia, ma aveva anche generato una situazione politica e diplomatica che rischiava di gettare Celestis in preda al caos.

Come un violento ceffone che risveglia troppo presto da un bel sogno, quelle immagini così crude diffuse in ogni parte del pianeta risvegliarono in un sol colpo la coscienza collettiva, la quale giunse quasi all’unanimità ad una considerazione tanto evidente quanto drammatica: la MAB era troppo potente.

Era nata come un organo di sorveglianza con il compito di tramutare uno sparuto gruppo di coloni negli abitanti di una nuova Terra, e fare di Celestis una sorta di realtà superiore, ma negli anni aveva finito per abusare del suo potere, tramutandosi in una organizzazione paramilitare capace di agire a qualsiasi livello senza doverne rendere conto.

E visto che il Megonia era una nave di Amaltea, fu proprio ad Amaltea che quella sorta di focolaio di insoddisfazione assunse ben presto i connotati più drammatici, con un movimento di opposizione all’Agenzia che diventava di giorno in giorno sempre più incontenibile.

Ma di tutto questo Amanda non se ne curava: tutto quello che voleva era poter aiutare Hilda.

Avrebbe pagato qualunque cosa per vederla sorridere di nuovo, scacciare dalla sua mente i fantasmi del Megonia, ma per quanto ci provasse neppure lei sembrava in grado di rompere quel muro che la teneva prigioniera.

Un tardo pomeriggio d’estate, Hilda era sempre lì, nella sua stanza, l’espressione immobile e gli occhi fissi innanzi a sé, come una bambola di ceramica bellissima all’esterno ma in pezzi nell’animo.

Tra le cameriere e gli inservienti si vociferava che Amanda fosse stata richiamata a Kyrador, e a detta di molti probabilmente era solo una questione di tempo prima che tutte le sedi di Amaltea venissero chiuse a tempo indeterminato sotto la spinta pressante del dissenso popolare, con il rischio evidente che la loro signora si vedesse costretta a scegliere tra lasciare l’Agenzia e lasciare il Paese.

D’un tratto, due inservienti entrarono nella stanza tutte trafelate.

«Venite, signorina» dissero spingendo una sedia a rotelle. «La signora vuole vedervi».

Hilda venne vestita, pettinata e portata in giardino, dove trovò ad attenderla una maestosa mongolfiera dal pallone tutto colorato già pronta a partire. In piedi nel cestello, Amanda la guardava sorridendo, e di fronte a quella scena qualcosa parve muoversi; Hilda, a fatica, alzò gli occhi, quasi a voler cercare quelli della sua nuova madre adottiva.

«Bene arrivata. Forza, sali a bordo. C’è una cosa che voglio farti vedere».

Pur con qualche esitazione i domestici caricarono Hilda sul pallone, che ad un cenno di Amanda venne liberato dal suo ancoraggio sollevandosi immediatamente dal cielo.

Poco per volta, apparve dall’alto prima la imponente Villa Krietzmann, poi la scintillante Otisa, protesa gentilmente e con garbo sulle sponde del Lago Biwa, poi ancora l’intera vallata di Wermer, fino a che tutto attorno non vi fu altro che una infinita distesa di montagne e basse colline, illuminate dalla luce rossastra del tramonto che tingeva la roccia di blu e le nuvole di un arancio pastello, segni scomposti e insieme bellissimi dipinti sulla sconfinata tela azzurra sopra le loro teste.

In lontananza, verso ovest, il sole era quasi tramontato; sembrava un enorme buco rosso aperto nel cielo, sforzandosi di gettare i suoi ultimi bagliori sulle alte montagne di Amaltea prima di scomparire oltre le loro ripide cime, mentre un piacevole vento in arrivo da nord sospingeva la mongolfiera e scompigliava i capelli.

«Devi tornare Hilda!» disse Amanda stringendola forte, e bagnandole i capelli con le proprie lacrime. «Torna da noi! Ti prego! È tutto finito! Ci sono io qui con te! Apri gli occhi! Apri gli occhi, bambina mia!».

Quelle parole scesero fin nel profondo, e nell’istante in cui l’ultimo raggio di sole le colpiva gli occhi altre parole, molto simili, risuonarono nella mente della bambina.

Và tutto bene, bambina mia! Chiudi gli occhi!

Forse, inconsciamente, era questo che aveva fatto: aveva chiuso gli occhi.

Su tutto. In attesa di trovare qualcosa, o qualcuno, in grado di farglieli riaprire.

Qualcosa parve muoversi all’interno del suo sguardo, come se quell’ultimo raggio di sole avesse trovato la forza per andare a rischiarare quella sua anima addormentata e rinchiusa dandole nuova vita.

Poi, avvenne il miracolo, e come una macchina rimessasi improvvisamente in moto dopo un lungo silenzio la mente, il cuore e lo spirito Hilda si ridestarono come da un lungo sonno così, da un istante all’altro, quasi quei lunghi mesi non fossero mai esistiti.

Gli occhi, quei suoi bellissimi occhi verdi, si riaccesero come stelle, il volto riprese il suo colore, e con aria spaesata la bambina si guardò attorno meravigliata e confusa.

«Amanda!?» disse riconoscendo la giovane che piangeva di gioia nell’abbracciarla con tutte le sue forze. «Che cosa è successo? Dove siamo?».

 

La giovane donna si posò una mano sul seno, lasciandosi pervadere dal piacevole tepore che le riscaldava il cuore ogni qualvolta ripensava a quella storia.

Tante cose erano cambiate da quel giorno così lontano nel tempo, non solo per lei.

Non poteva ricordare, ma sapeva cosa fosse successo. Così, come la sua nuova madre, aveva deciso di dedicare la propria vita agli altri, per dimostrare di meritare il sacrificio fatto da tanti per salvare la sua.

Usando ogni singolo kylis della sua cospicua eredità aveva aiutato chiunque fosse stata in grado; aveva fatto costruire scuole, ospedali, interi villaggi, e aveva donato quel poco che le era rimasto a quella grande confraternita del quale, come ultimo atto di sacrificio, ora si accingeva a diventare parte.

Se qualcosa di buono era mai venuto fuori dalla Tragedia del Megonia, benché quasi metà del mondo pensasse il contrario, questa era stata proprio la Chiesa della Santa Croce.

Risvegliando le coscienze riguardo al preoccupante ordine mondiale venutosi a creare negli ultimi centocinquant’anni, il Megonia e ciò che ne era seguito aveva contribuito a rendere evidente agli occhi di molti un’altra realtà innegabile: l’Umanità aveva dimenticato l’importanza del proprio dono.

Perché questo era la magia: un dono bellissimo e preziosissimo, di cui però gli esseri umani avevano finito per abusare, nell’illusione tutta terrena di poterla soggiogare e controllare così come, fin dagli albori della storia, avevano controllato il Fuoco, il Vapore, l’Elettricità e l’Atomo.

Ma la magia non era solo una fonte di energia: la magia era la vita.

Tutto esisteva grazie ad essa, eppure di lei si sapeva ancora così poco.

Nasceva dal mondo, e ad esso ritornava, in un ciclo senza fine che, secondo i precetti del culto, rispecchiava quello dell’esistenza terrena: un continuo susseguirsi di rinascite, nell’attesa di veder compiuto il proprio cammino di redenzione.

Perché l’Uomo, in fin dei conti, altro non era che una delle innumerevoli creature che esisteva grazie a quella scintilla di magia che ogni essere vivente portava dentro di sé, ma la cui purezza veniva inevitabilmente sporcata dalle emozioni negative proprie dell’uomo.

Solo purificando questa energia, come una pietra preziosa ripulita dal fango, era possibile tornare a far parte del Grande Ciclo che regolava tutte le cose, restituendo la propria scintilla a quel mondo dal quale proveniva; così facendo si diventava parte di quella stessa energia, e di conseguenza dell’intero ordine cosmico.

La bontà, la carità e la preghiera erano gli strumenti migliori per giungere a questo faticoso traguardo, e una vita sola di sicuro non era sufficiente per arrivare alla meta.

Per Hilda, poi, sarebbe stato ancora più difficile, poiché in sé sentiva di portare anche l’energia e lo spirito di tutti i suoi compagni di sventura periti sul Megonia: anche per loro avrebbe pregato, come aveva fatto ogni giorno da che la sua anima era tornata a vivere, sì da essere degna del dono che le avevano fatto.

Non sarebbe stato facile, lo sapeva molto bene, ma sapeva di non essere sola, e questa era la vera sorgente della sua forza, oltre che della sua incrollabile fede.

Una giovane donna, vestita come lei, ma con in più un’elegante coroncina poggiata sul capo cui era legato un velo che discendeva elegantemente lungo la schiena fino ai glutei, bussò due volte alla porta della stanza, aprendola leggermente.

«Sorella» disse con un filo di voce. «È tutto pronto.»

«Arrivo» rispose lei con un sorriso.

 

La grande cattedrale del monastero era arricchita dei suoi più scintillanti paramenti di festa, e tantissima gente si era riunita per assistere alla cerimonia.

Tutti coloro che quell’angelo disceso in terra aveva aiutato nel corso della sua vita erano voluti essere presenti, ed erano talmente tanti che la chiesa, per quanto grande, non era riuscita ad accoglierli tutti.

L’organo e gli archi presero a suonare, le porte si aprirono, e Sorella Hilda, come sarebbe stata chiamata ancora per poco dai molti che vedevano in lei un incrollabile baluardo nei momenti difficili, avanzò lentamente attraverso la navata, il capo chino, gli occhi chiusi e le mani giunta alla base del ventre.

Giunta ai piedi dell’altare, dinnanzi alla grande statua dell’angelo dalle ali spiegate, si inginocchiò sul cuscino preparato per lei, gettando un rapido sguardo prima alla giovane donna seduta in prima fila, con la quale si scambiò in rapido sorriso, poi alle otto fotografie disposte l’una accanto all’altra sopra dei piccoli treppiedi, lasciandosi sfuggire una lacrima di commozione.

Sua santità Ruggero Luini, supremo vicario della Santa Croce, primo pontefice della storia della Chiesa, le si avvicinò con indosso i paramenti sacri e il bastone d’argento stretto in una mano, che con un delicato cenno della mano poggiò leggermente sul capo della giovane.

«Nel nome di Dio e della Santa Croce, in nome del potere conferitomi dal mio sacro uffizio, io ti riconosco ufficialmente come membro del nostro ordine.

Da questo momento, sei una serva del nostro Grande Padre Celeste. Dedicherai la tua vita al bene del prossimo, e non avrai altro scopo nella vita che servire Nostro Signore, nell’attesa che giunga per te il momento di tornare al Grande Ciclo.

Qual è il nome che hai scelto per la tua rinascita, sorella?».

La giovane si pensò un momento, chinando di più il capo, poi, con un filo di voce, disse:

«Johanna, vostra santità. Johanna sarà il mio nome da oggi in avanti».

A quel punto, il Santo Padre posò il bastone, e chiamato a sé un altro sacerdote prese una boccetta di vetro dal contenitore ligneo che questi teneva, aperto, tra le mani.

La tradizione diceva trattarsi di magia condensata e portata allo stato liquido, una cosa assolutamente impossibile secondo le attuali conoscenze scientifiche, tanto che secondo i laici si trattava probabilmente solo di un qualche intruglio frutto del ciarlatano di turno.

«Come la pioggia cadiamo» disse Sua Santità passando il contenitore, sigillato, sulla fronte della giovane. «Come la rugiada scompariamo. Come l’acqua scorriamo. Che la tua anima ed il tuo spirito siano illuminati dalla luce divina, e che il destino ti sia propizio, nell’attesa che ogni cosa torni al Grande Ciclo».

Un’altra sorella giunse alle spalle della ragazza, ponendo sulla sua testa la coroncina con il velo; Hilda sentì uno strano tremore sentendone la pressione sul capo, una sensazione bellissima che le fece vibrare il cuore.

«Alzati, Sorella Johanna».

 

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