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In tutta Celestis non c’era
vascello più splendente del Megonia.
Ultimo
ritrovato nel campo dell’ingegneria aerospaziale, era nato inizialmente come
vascello militare, ma a seguito dell’approvazione delle nuove limitazioni sugli
armamenti orbitali l’aeronautica amalteca aveva deciso di riconvertirlo ad uso civile,
facendone la nave da crociera più lussuosa ed innovativa che si fosse mai
vista.
Essendo
nata come nave da guerra non raggiungeva le dimensioni delle altre sue sorelle
battenti bandiera di Caldesia, di Eyban o di Alepto, ma ciò nonostante era
considerata la più bella astronave che Celestis avesse mai prodotto.
Con
cinque ponti passeggeri, tre ponti equipaggio e due ponti macchine, il Megonia
aveva una capacità d’imbarco pari a cinquemila persone, ovvero circa la metà
della maggior parte degli altri velieri, ma ciò nonostante restava la nave da
crociera più ambita, soprattutto dalla nobiltà e da tutti coloro che in Generale
potevano permettersi di tirare fuori i soldi necessari.
La sua
forma lunga e affusolata, simile ad un veliero vero e proprio, la rendeva agile
e veloce, oltre che esteticamente più bella della maggior parte delle altre
navi civili, che in nome di una maggiore capacità d’imbarco finivano talvolta
per apparire pesanti, quasi sciancate, con quei loro lucernari mastodontici e
le ampie vetrate che somigliavano a gigantesche gobbe di cammello.
Il
Megonia di vetrate panoramiche ne aveva solo una, una scintillante cupola non
troppo alta che emergeva elegantemente dalla fusoliera color panna, proprio
sopra il grande salone centrale su cui confluivano, attraverso varie balconate
disposte ad altezze regolari, tutti i ponti passeggeri; vi si poteva arrivare
con un ascensore apposito, che partendo dalla base della possente scalinata che
collegava tra di loro i vari balconi permetteva di raggiungere quello più alto,
da dove si aveva la miglior vista possibile, ma più in Generale lo spettacolo
offerto dal cosmo era più o meno ammirabile da tutti i punti del salone, oltre
che dalle numerose altre vetrate disposte un po’ dappertutto in tutti i punti
della nave.
A poppa,
enormi e suggestivi barbigli emergevano dalla chiglia, protendendosi ben oltre
il bordo poppiero da cui sbucavano le turbine a propulsione; rassomigliavano
alle ali di un angelo, ed in effetti a ciò in un certo senso servivano,
fungendo all’occorrenza da sostegno alle vele solari che protendendosi da
barbiglio a barbiglio potevano essere dispiegate in qualunque momento.
L’unico
neo era costituito dalla torre di comando, in cima alla quale vi era il ponte
ufficiali, che svettando proprio sopra la vetrata panoramica ne limitava un po’
la visuale, ma la sua stessa figura, così possente ed aggraziata, con quella
cupola trasparente a svettare sulla sommità, in un certo senso costituiva un
ulteriore elemento di fascino.
Il Comandante
del Megonia, Gerome La Hire, era uno dei più capaci ufficiali che la marina
amalteca avesse mai avuto, e lo provava il fatto che malgrado non avesse ancora
compiuto cinquant’anni gli era stata messa in mano l’ammiraglia della flotta
civile, un privilegio che fino ad anni recenti era stato riservato solo ad
arzilli ufficiali alle soglie della pensione.
Conosceva
la nave come le sue tasche, le voleva bene come ad una figlia, ed aveva il
massimo rispetto e stima di tutti i suoi uomini, a cominciare dal Primo Ufficiale
Alex Shawn.
Insieme
avevano condotto il Megonia attraverso le più disparate rotte del sistema
solare, ma quella salpata all’inizio dell’estate dell’Anno Solare 170 era una
crociera molto speciale.
La
destinazione, la luna minore Erithium, non era insolita; insolito era semmai lo
spettacolo che i ricchissimi passeggeri imbarcati in quell’occasione erano sul
punto di godere da una prospettiva di assoluto privilegio: la Nascita di
Erithium.
Ogni
cinquantanove anni, era stato stimato, a seguito di un particolare allineamento
di Celestis e dei suoi due satelliti, i raggi del sole colpivano direttamente
Erithium invece della sua sorella maggiore, illuminandolo in modo ancor più
violento del solito e facendo così scintillare come non mai i suoi vasti giacimenti
di krylium; ma il vero spettacolo era un altro, perché comportandosi come una
lente Erithium proiettava un cono di luce verso Neos, la cui l’atmosfera contenente
la polvere di krylium che la gemella disperdeva ininterrottamente attorno a sé
provocava una vera e propria pioggia di luce: questa poi andava a ricadere
proprio sul Mare di Venere, un immenso cratere naturale la cui forma
richiamava, per l’appunto, una figura umana con le braccia protese verso
l’alto, facendola risplendere di quella stessa luce azzurra che come una stampa
di stagliava ben visibile sulla superficie bianco-grigiastra.
Uno
spettacolo assolutamente impagabile, e che oltretutto, verificandosi sulla
faccia nascosta di Neos, risultava invisibile dal pianeta, lasciando a chi non
aveva migliaia di Kylis da investire in un biglietto evento per un viaggio
unico al mondo la magra consolazione di poterlo seguire alla televisione grazie
alle immagini dei satelliti.
Certo,
navigare nello stretto cunicolo che separava le due lune, tra detriti e
correnti gravitazionali anomale, non era impresa da tutti, ma nulla che
l’esperto Comandante La Hire non sapesse gestire, e la sera prevista per il
grande spettacolo tutto era assolutamente in ordine.
Il
ristorante di prima classe sul ponte principale, addobbato per la festa,
sembrava il salotto buono di un palazzo reale, tra gioielli, vestiti
sfavillanti, cibi e bevande di lusso e tanti, tantissimi volti noti; della
politica, dello spettacolo, dello sport. C’era perfino qualche rappresentante
della MAB, la cui autorità a livello internazionale negli ultimi anni era in
rapida e continua ascesa, tanto da aver trasformato Caldesia, la sua
roccaforte, nel faro politico ed istituzionale dell’intero pianeta.
La
contessa Johanna Sauchel, fresca moglie in seconde nozze di Balthus Weilmann,
Conte di Bonnestal e Cavaliere dell’Ordine Coloniale di Amaltea, era impegnata
come al solito a bisticciare con la figliastra Hilda, otto anni e un
temperamento peperino ereditato dalla madre, la compianta contessa Weilmann; al
tavolo da poker sulla balconata superiore Richard Song, giocatore
professionista di Ebridan, stava spennando a dovere gli ingenui di turno,
trovando in Philippe Reynar, vicesindaco di Kyrador, il primo vero avversario da
qualche anno a quella parte; Georg Gullit, sommelier con trent’anni di
esperienza, faceva la spola da un tavolo all’altro consigliando ad ogni nutrito
gruppo di commensali il vino più adatto alle rispettive esigenze, perdendosi in
lunghe conversazioni inerenti al suo fantastico lavoro; Raoul Montero, umile
cameriere di seconda categoria, si godeva per quanto possibile quel piccolo
momento tra i grandi del mondo, insperatamente guadagnato grazie a quella
fastidiosa febbre parainfluenzale che già dal quarto giorno di viaggio aveva
preso a fare vittime tra lo staff, personale di sala compreso.
«Signore
e signori!» annunciò la specialissima animatrice della serata, la famosa
attrice e cantante Ashley Tunderscott «Sincronizzate gli orologi! Mancano
esattamente cinque minuti alla Nascita di Venere!».
Il
pubblico intero si alzò dai propri tavoli pronto a brindare, e mentre al centro
del salone il timer iniziava a scandire i secondi Ashley Tunderscott annunciò
l’arrivo del Comandante La Hire in persona, che come in un gioco di prestigio
comparve da un istante all’altro sul palco in un turbinio di suoni, luci e
vapore, sotto applausi scroscianti.
«Buonasera,
gentili ospiti» disse facendo loro un rispettoso inchino. «Vi ringrazio per
essere intervenuti così numerosi, in quello che è un evento che ad oggi in
pochissimi sono stati in grado di osservare in prima persona.» quindi, iniziò a
raccontare. «Secondo la leggenda, Venere, la dèa della bellezza, nacque da una
conchiglia, emergendo dalla spuma del mare.
La sua
bellezza era tale che non appena posò gli occhi sul mondo, questo si riempì di
luce e di colore, e tutte le forme di vita intonarono canti di gloria per la
venuta della dèa.
I nostri
antenati che vivevano sulla Terra coniarono questa leggenda per celebrare la
grandezza e la bellezza del mare, ma anche in ossequio ai molti misteri ed al
fascino che esso esercitava in quanto distesa sconfinata tutta da esplorare.
Oggi,
molte cose sono cambiate, ma la leggenda è rimasta la stessa. L’infinità del
mare è stata sostituita da quella del cosmo, la conchiglia è diventata grande
come una luna; ma Venere, la Dèa della Bellezza che porta la luce e la gioia nel
mondo, lei continua ancora a rinascere, oggi come allora.
E
quindi, è giunta per noi l’ora di salutare la sua nuova rinascita, e di
ringraziarla per le infinite meraviglie che riempiono il nostro mondo.
Salutiamo
la Nascita di Venere!».
Ad un
cenno del Comandante, le immense vetrate del ristorante vennero scoperte
dall’abbassamento dei pannelli protettivi, giusto in tempo per assistere in
diretta all’arrivo del primo raggio di sole, che rimbalzando su Erithium
colorandolo di azzurro vivo puntò diritto verso Neos, prendendo a delineare in
modo sempre più nitido la figura di Venere che, come nel mito, emergeva dalla
sua conchiglia nel mezzo dell’oceano stellare, benedicendo tutto e tutti.
Gli
applausi per il Capitano furono presto sostituiti da grida di esclamazione, e
quasi tutti si affrettarono a raggiungere il miglior punto d’osservazione
possibile accalcandosi davanti ai vetri.
Le altre
navi, che non potevano vantare la stessa affidabilità del Megonia, erano
costrette a rimanere più lontano, e così per quei pochi fortunati si trattò di
un’esperienza quasi da favola, da raccontare negli anni a venire a nipoti e
pronipoti.
Anche il
Capitano, che come tutti assisteva alla Nascita di Venere per la prima volta in
vita sua, cercava per quanto possibile di godersi quel momento, quando una
chiamata inopportuna sul suo comunicatore disturbò la sua contemplazione
proprio sul più bello.
«Cosa
c’è, Shawn?» rispose
«Comandante,
scusi se la disturbo» disse dalla plancia il Primo Ufficiale «C’è qualcosa che
non và nella sala dei server di controllo. Non riusciamo a metterci in contatto
con Oskar e Wilbur.»
«Staranno
godendosi il momento come tutti gli altri. Non è il caso di preoccuparsi.»
«Lo
pensavo anch’io, le comunicazioni si sono spente di colpo, e poco prima che
succedesse Oskar ha detto che Wilbur si stava sentendo male».
Il Comandante
rimuginò contrariato, masticando imprecazioni varie.
Quella
dannata febbre che era spuntata proprio nel momento sbagliato, e se non fosse
stato per le direttive provenienti dalla compagnia che avevano tassativamente
proibito il ritorno in porto avrebbe immediatamente ordinato di virare la rotta
alle prime avvisaglie di una probabile epidemia.
I medici
di bordo avevano parlato di una banale influenza, neanche troppo aggressiva, ed
era anche per questo che la compagnia non se l’era sentita di annullare quella
che si proponeva di essere la crociera del secolo, pena la perdita di fiumi di
soldi tra biglietti, cause legali varie e diritti televisivi per il
documentario che si stava girando.
Se non
altro isolare i contagiati, quasi tutti dell’equipaggio, nelle proprie cabine o
nell’infermeria si era rivelato efficace, perché dopo di allora i nuovi casi
erano sensibilmente calati, ma occorreva affrontare rapidamente ogni
imprevisto, anche per evitare che i passeggeri scoprissero cosa stava
accadendo.
«D’accordo,
vado a controllare».
Dileguatosi rapidamente, senza
dare nell’occhio, La Hire prese l’ascensore di servizio fino al Ponte H, e
percorso un lungo corridoio raggiunse infine la porta che immetteva nella sala
centrale di controllo.
Qualche
anno prima un pazzo aveva cercato di prendere il comando di una nave da
crociera per commettere un eclatante atto di protesta, e da allora le norme di
sicurezza che regolavano l’accesso alle zone più sensibili e vitali, dal ponte
di comando alla sala macchine, erano state severamente amplificate.
La sala
centrale era il cuore della nave.
Da lì si
poteva controllare qualsiasi cosa, dagli impianti di alimentazione ai sistemi
di sicurezza ed emergenza, fin’anche alla distribuzione dell’ossigeno, anche se
quest’ultima era comunque dotata di sistemi di emergenza che le permettevano di
funzionare in modo autonomo in caso di necessità.
Così
come per il ponte, la sala macchine e altre zone calde, l’accesso era regolato
da un codice di sicurezza, noto solo al personale che lavorava in ogni singolo
settore. Solo il Comandante aveva i codici di tutte le zone, quindi per La Hire
non fu un problema ottenere l’accesso.
L’interno,
dominato al centro dal nucleo di memoria, che come una gigantesca clessidra
svettava verso l’alto tramutando la stanza in una sorta di grande anello, era
stranamente scuro, e tutte le luci apparivano staccate, ma i monitor dei
computer e gli altri sistemi sembravano tutti operativi.
Il
silenzio era totale.
«Wylbur.
Oscar.» disse il Comandante addentrandosi nell’oscurità «Tutto ok?».
Nessuno
rispose.
«Mi
hanno chiamato dal ponte. Hanno detto che vi siete spenti di colpo. È successo
qualcosa?».
D’improvviso,
qualcosa di unto e scivoloso fece slittare in avanti il piede di La Hire, anche
se grazie ai suoi riflessi il Comandante riuscì a restare in piedi.
Più per
caso che per vera volontà l’occhio del Comandante andò a trovare il
responsabile di quel fuori programma, ma come il suo sguardo riuscì a fendere
il buio al suo interno comparvero uno sgomento ed un terrore senza confini.
«Oh, mio
Dio…».
Il dottor Mark Curtis aveva
trattato altre volte casi di epidemie sviluppatesi a bordo di navi da crociera
o vascelli mercantili, e la sua condotta era sempre stata esemplare.
Tutti
coloro che avevano contratto quella strana febbre erano stati confinati nella
zona di quarantena del Ponte C, nei pressi dell’infermeria della nave, da dove
non era loro consentito uscire vista anche l’estrema facilità di contagio.
I malati
accusavano febbre, un po’ di tosse e dei dolori addominali, ma niente di
particolarmente serio, tanto che qualcuno era già stato dimesso non appena i
sintomi più evidenti si erano affievoliti, e dopo l’iniziale superlavoro anche
il vario personale infermieristico aveva iniziato a tranquillizzarsi.
La
situazione si era a tal punto tranquillizzata che il dottore aveva anche
trovato il tempo di seguire a sua volta la Nascita di Venere dalla vetrata
dell’infermeria assieme ai suoi collaboratori.
«Toglie
il fiato, davvero.» disse il dottore, che non si stancava mai di ammirare le
meraviglie che il cosmo era in grado di offrire.
Ma
d’improvviso, proprio nel bel mezzo dello spettacolo, il suo comunicatore e
quelli di tutti i presenti presero a suonare come tanti allarmi.
«Presto,
dottore!» urlò un infermiere entrando nell’infermeria quasi sfondando la porta
«Ci sono problemi!».
Quello
che Curtis trovò tornando nella zona di quarantena, però, andava oltre
qualunque cosa si sarebbe mai potuto immaginare.
Da un
momento all’altro, e per ragioni inspiegabili, quasi tutti i pazienti erano
improvvisamente peggiorati. Una semplice febbre si era tramutata di colpo in
una intensa vampata, i dolori addominali in spasmi lancinanti, e le urla di
dolore erano tali da risultare assordanti.
Alcuni
poi accusavano tremendi dolori alla testa, altri ancora arrivavano a tossire
litri di sangue minacciando di soffocare.
«Soluzione
Beta e venti unità di tirvazina, subito!» sbraitò il medico buttandosi sul
paziente più vicino, un’addetta alle pulizie tra i primi a venire contagiata.
Ma fu
tutto inutile.
Mark
vide quella poveretta arrivare quasi a spezzarsi la schiena in preda a tremende
convulsioni, vomitarsi addosso tutto il sangue che aveva in corpo, quindi,
rivolti gli occhi all’indietro, spirare senza vita sul suo letto con
un’espressione spaventosa, urlante, e a nulla valsero i tentativi di rianimarla
col defibrillatore.
«Fanculo!»
urlò Mark fracassando a terra una siringa di vetro.
Quasi contemporaneamente,
le urla che riempivano la stanza echeggiando dai vari stanzini recintati da
tendaggi si acquietarono o scomparvero del tutto, come se tutti quei poveri
sventurati si fossero coordinati per arrivare nello stesso istante
all’appuntamento con la morte, improvvisa ed implacabile.
Avvinto,
come ogni altra volta che aveva visto un paziente morirgli davanti, il dottore
fece per dirigersi dove vi era ancora bisogno di lui, quando d’un tratto, come
per incanto, un tintinnio riecheggiò nello stanzino.
Voltosi
verso i macchinari, però, Mark si accorse che di magico quel suono non aveva
nulla; semmai, era altamente inquietante.
L’elettrocardiogramma
era assolutamente piatto, come si conviene ad una persona defunta, ma di contro
l’elettroencefalogramma, dopo aver taciuto per un po’, aveva preso a segnalare
attività cerebrale in corso; era debole, ma c’era, e con il passare dei
secondi, invece che acquietarsi, sembrò prendere vigore.
Com’era
possibile?
«Ma che
diavolo…»
Riavutosi dallo sgomento,
ma con una strana paura nel cuore che montava sempre più, quasi a volerlo
mettere in allarme, il Comandante La Hire seguì, dapprima con gli occhi e poi a
piccoli passi, quella innaturale linea rosso opaco, che come una mano di
pittura su un muro scolorito risaltava sul grigio del pavimento metallico,
avventurandosi sempre più in profondità verso il centro della stanza.
Poi,
indistinto, si udì un suono, come di qualcosa che si strappava, solo pochi passi
più in là, oltre il cuore dell’impianto che copriva la vista; La Hire vi girò
attorno, i nervi tesi e le tempie rigate dai sudori freddi, ma ciò che vide
andava ben oltre la dimensione del tollerabile, scivolando in quella
dell’incomprensibile, oltre che dell’orrore.
Oskar
era a terra, morto, gli occhi fuori dalle orbite e la bocca innaturalmente
aperta, aperto come un animale da macello, gli intestini scoperti e anneriti
dal contatto con l’aria; e Wilkins, il suo amico Wilkins, era sopra di lui, le
mani affondate nel braccio destro ridotto ad un moncherino e il viso,
mostruoso, completamente nascosto dal suo sangue, impegnato a spolpare la parte
di osso ancora attaccata al corpo come un leone farebbe con la propria preda.
La Hire
era così atterrito e sconvolto che non gli riuscì di parlare, né di muoversi,
almeno fino a quando Wilkins non sollevò gli occhi accorgendosi della sua
presenza. Per fortuna, da esperto combattente ed eccellente soldato quale era,
i suoi riflessi erano più che attenti, così quando Wilkins, con un’agilità ed
una forza quasi innaturali, gli saltò addosso con espressione demoniaca, fu
abbastanza rapido da riuscire ad afferrarlo, evitando di venire azzannato alla
gola.
«Wilkins,
che stai facendo?» urlò tentando di allontanarlo.
Ma il
marinaio non rispose, limitandosi ad emettere sinistri gemiti e rantoli da
animale, mentre imperterrito continuava a tentare di vincere la presa della sua
vittima nel tentativo di morderla, tanto che alla fine La Hire non ebbe altra
scelta: afferrata saldamente la testa di Wilkins vi esercitò tutta la pressione
possibile, e finalmente quella specie di abominio, emesso un ultimo gemito, si
accasciò a terra con il collo spezzato in più punti.
Il Comandante
rimase a lungo immobile, atterrito dall’orrendo spettacolo che aveva davanti,
ma poi, cercando di richiamare a sé tutto l’autocontrollo di cui disponeva, si
avventò subito sui sistemi di controllo per dare l’allarme.
Anche la
consolle era imbrattata di sangue, e alcune parti erano danneggiate; doveva
esservi stata una lotta davvero feroce, che Oskar aveva perso solo dopo avervi
profuso tutte le energie di cui disponeva.
«Ponte
di comando, mi sentite?» disse aprendo il collegamento diretto col ponte dopo
aver ripristinato del tutto le funzioni operative
«La
ricevo, Comandante.» disse Shawn apparendo sul monitor «Cosa è accaduto?»
«Shawn,
contatta subito il dottor Curtis. Massima priorità. È accaduto qualcosa a
Wilkins. Temo che quella che abbiamo a bordo non sia affatto una semplice
influenza. Dobbiamo…».
La Hire
non ebbe il tempo di finire la frase.
Con gli
intestini quasi completamente a penzoloni, un braccio ridotto ad un moncherino
e varie altre ferite in tutto il corpo, Oskar si avventò sul suo Comandante
proprio come aveva fatto Wilkins, gli occhi neri come la notte e la faccia
ridotta ad una maschera demoniaca; questa volta La Hire, colto alla sprovvista,
venne sopraffatto quasi subito, e come se una sfilza di paletti gli fossero
stati violentemente piantati il corpo si vide portare via un’intera porzione di
spalla all’altezza del collo, prendendo a spruzzare fiumi di sangue sotto lo
sguardo, attonito ed impotente, del suo secondo.
Nel
venire buttato in avanti il Comandante azionò inavvertitamente l’altoparlante,
e così tutti, nei ponti passeggeri come nel resto della nave, poterono udire le
sue urla spaventose, da far gelare il sangue, mentre Oskar gli strappava
letteralmente la carne dal corpo un pezzo per volta.
Con la
forza della disperazione La Hire si buttò all’indietro nel tentativo di
allontanare Oskar, che nel mentre gli era di fatto salito in groppa in preda
alla sua famelica furia, ma perso l’equilibrio rovinò senza scampo contro la
sottile lastra di vetro protettivo che ricopriva il nucleo di energia,
fracassandolo e finendo arrostito vivo assieme al suo aggressore per le
scariche di energia che come una scossa elettrica folgorarono entrambi.
Il corto
circuito si propagò in un lampo per tutta la nave, e da un istante all’altro
nel salone delle feste tutti si ritrovarono al buio, con le sole luci di
emergenza a fornire un po’ di chiarore.
A quel
punto, il silenzio spaventoso generatosi al suono delle urla del Comandante
attraverso i microfoni si tramutò in un coro di urla spaventate.
Gli
inservienti e il personale di bordo tentarono di riportare la calma, e per un
attimo sembrò che quella massa esagitata potesse in qualche modo venire
controllata, ma la realtà era che la situazione era tutt’altro che semplice,
soprattutto a causa dell’impossibilità di comunicare con il ponte di comando.
«Le
linee sono isolate.» disse uno sollevando la cornetta, e visto che tra i membri
dell’equipaggio presenti non ve n’era nessuno dotato di poteri magici non si
poteva neanche ricorrere alla telepatia.
La
situazione sembrava sul punto di calmarsi, quando da una porta chiusa, una
delle molte che immettevano nel ristorante, prese a giungere un rumore strano,
come di qualcuno che vi batteva per farsi aprire, attirando l’attenzione di
quelli più vicini.
Questione
di un istante, e i battenti furono praticamente divelti da cinque o sei
creature abominevoli, quasi dei mostri, che senza indugio saltarono addosso
agli ospiti più vicini, buttandoli a terra e prendendo a sventrarli con morsi
ed unghiate, mentre quei poveri sventurati urlavano dal dolore implorando di
essere salvati.
Da uno
stato di calma apparente si passò al panico più totale, e tutti presero a
correre in ogni direzione nel tentativo di salvarsi da quei mostri, che come
uno sciame di mosche attirate da una carcassa stavano arrivando da ogni dove
bloccando quasi tutte le possibili vie di fuga.
Nessuno
o quasi si curava degli altri.
Quello
che contava era solo salvarsi la vita.
La
contessa Sauchel, nonostante tutto, tentò di tenere Hilda stretta a sé, ma la
bambina approfittò di un momento di esitazione per divincolarsi e correre alla
ricerca del padre, scomparendo a sua volta nella calca che nello stesso tempo
trascinò letteralmente via Johanna verso una delle poche uscite sicure;
Philippe Reynar riuscì a strappare una donna dalle grinfie di uno di quei
mostri spaccandogli in testa una sedia, e aiutata la donna a rialzarsi la prese
sottobraccio allontanandosi assieme a lei; Georg e Raoul si incontrarono nella
ressa, con il primo che stortosi una caviglia e debilitato dall’età dovette
appoggiarsi al secondo per riuscire a fuggire; Richard Song dovette trascinare
via a forza una donna il cui marito era stato tra i primi a venire sbranato,
riuscendo ad allontanarla dal cadavere giusto un attimo prima che questo si
rianimasse cercando di assalirla.
Come nel
salone, la stessa scena si ripeté praticamente in ogni angolo raggiungibile
della nave.
I mostri
seguitarono a crescere rapidamente di numero, e in poco tempo dilagarono in
tutti i settori, dalle zone cabina al quartiere dei locali, dalle piscine al
parco artificiale, facendo scempio di tutto ciò che avesse anche solo una
parvenza di commestibile, inclusi gli esseri umani; di quella grandissima parte
tra passeggeri ed equipaggio che non riuscì a mettersi in salvo alcuni, poco
dopo la morte, si unirono agli assalitori, mentre altri, la maggioranza,
finirono dilaniati prima ancora di potersi rialzare.
Nelle
pubblicità e nei depliant delle agenzie di viaggio, il Megonia era decantato
come un angolo di paradiso; ora, invece, era divenuto l’anticamera
dell’inferno.
Georg, nome in codice “Black Face”, diede fondo alla quinta tazza di caffè nel
giro di una giornata, se di giornata si poteva parlare, sprofondando
contrariato in una delle sedie dello stanzino attiguo all’area di
addestramento.
A bordo
della stazione spaziale l’orologio era l’unico strumento che permetteva di
percepire lo scorrere del tempo, e tutto era sempre maledettamente uguale a sé
stesso.
Da bravo
amalteco, il Comandante Georg Klopfer
amava le montagne, la vita all’aria aperta e la tranquillità della sua Otisa, una capitale per modo di dire che, come l’altro lato
della medaglia di realtà quali Kyrador e Volgorad, all’evoluzione data da una spasmodica ricerca di
nuove soluzioni sempre più avveniristiche ne aveva preferito una che coniugasse
passato e futuro, lasciando alla pietra, al legno e al mattone il ruolo loro
convenuto di strumenti con cui dare vita ad una superba città.
Lassù,
invece, era tutto diverso.
La
Stazione Spaziale Ares era ancora per buona parte in costruzione, con i soli
distretti residenziali e qualche settore operativo già completati e attualmente
in uso, ma nel giro di pochi anni la MAB contava di farne il proprio centro di
addestramento personale per ufficiali e reparti d’elite.
Dopotutto,
era per questo che Georg e la sua squadra erano stati convocati lassù.
Come
reparto scelto sperimentale in servizio nella regione di Otisa
avevano risolto diverse situazioni ingarbugliate, soprattutto inerenti ad
occasionali incidenti EDA, e negli anni avevano viaggiato il mondo in lungo e
in largo per addestrare altre unità e diffondere i loro metodi di intervento.
Ora gli
era stato chiesto di portare questa loro esperienza di ingaggio e di intervento
anche nello spazio aperto, dove erano stati inviati sia per addestrare un
nutrito gruppo di reclute selezionate sia per sottoporsi essi stessi ad un
nuovo programma di perfezionamento che sfruttava i limiti, ma anche le
potenzialità, di un ambiente così proibitivo e particolare.
Certamente
la sua era una squadra atipica, soprattutto per quanto riguardava la differenza
d’età; Georg ormai viaggiava a passo spedito verso la cinquantina, mentre di
contro dei suoi quattro inseparabili partner solo Vincent “HawkEye” Trenton aveva già
spento trenta candeline.
Jacob
“Trigger” Keys si era fatto le ossa come tiratore scelto nella polizia; Helen
“Sleeping Beauty” Castaldi, capelli insolitamente argentei e occhi verdi che
tagliavano come lame, si era laureata a pieni voti all’accademia magica
dell’agenzia; Mayu “Tetsu” Marufuji, un visetto rotondo da bambina dominato da lenti
rotonde e folta ma corta chioma castano scura, veniva da una breve esperienza
nel mondo delle esibizioni aeree, e nonostante i suoi ventisei anni portava una
navetta da ricognizione orbitale con la semplicità di un’aeronave da turismo.
Ormai
erano passati sei mesi dall’inizio del corso, e Goerg
contava febbrilmente i giorni che mancavano al loro ritorno su Celestis, che come una sfera azzurra brulicante di vita si
stagliava oltre la vetrata dello stanzino.
In quel
momento stavano sorvolando l’isola di Zipangu,
nell’estremo est, una delle ultime terre a venire colonizzata, ed il cui
ingresso nelle Nuove Nazioni Unite risaliva ad appena un paio di decenni prima.
I
conterranei di Mayu l’avevano voluta tutta per loro,
perché dicevano di vedervi l’isola natale dei loro antenati sulla Terra, e
tutti erano stati ben felici di lasciargliela; forse abbondava di giacimenti
aurei, foreste vergini ricche di specie animali e paesaggi montani da mozzare
il fiato, ma fra terremoti e continue eruzioni dei vulcani che la costellavano
non poteva certo dirsi un’isola tutta quiete e serenità.
Intanto,
lui e i suoi colleghi avevano iniziato a stendere le valutazioni per i vari
membri del corso, ed in base al giudizio che avrebbero espresso per ciascuno di
loro si sarebbero aperte le porte di un impiego in prima linea o di una
bocciatura senza appello, perché per chi veniva escluso non c’erano seconde
opportunità.
Un
allievo in particolare aveva stimolato la curiosità e le aspirazioni del
nerboruto e ciclopico Capitano amalteco; Klaus Krietzmann, da lui soprannominato Il Rosso per il colore
acceso dei suoi capelli, aveva personalità, carattere e grande dedizione, oltre
ad un’abilità sia come soldato che come stregone che non gli faceva difetto, ma
a tutto questo faceva da contraltare un temperamento troppo scalmanato e
focoso, che solo il rispetto della gerarchia riusciva in qualche modo a tenere
a freno.
Lo aveva
visto rischiare in prima persona per salvare un ostaggio, gettarsi a capofitto
in una sparatoria per soccorrere i suoi compagni rimasti intrappolati, ma
troppo spesso quella testa calda confondeva il coraggio con la sconsideratezza,
mettendosi inutilmente in situazioni pericolose che nelle simulazioni potevano
anche essere tollerate, ma che in battaglia rischiavano di rivelarsi molto
pericolose.
«Giornata
storta?» domandò Vincent entrando nella stanza con in mano una scodella piena
di cereali.
«Se di
giornata si può parlare. Se non avessi un orologio, probabilmente sarei uscito
di testa tempo fa. E poi non sopporto questo postaccio angusto e stretto che puzza
di metallo verniciato».
Il suo
amico rise e si sedette, svuotando la scodella con poche cucchiaiate.
«Come
fai a ingurgitare quella merda?»
«Ehi
capo, non offendere i cereali Blueberry. I mirtilli
fanno bene alla vista e affinano la mente.»
«Te li
lascio volentieri.» e sbuffando il Capitano provò a bere il suo caffè, ma
dovette farsi forza per non sputarlo disgustato. «Da quale pozzo di catrame
tirano fuori questa schifezza? Se lo avessi saputo mi sarei portato dietro un
po’ del nostro caffè amalteco.»
«Avanti,
pensa che presto sarà finita. E poi, di cosa ti lamenti? Ci pagano
profumatamente per fare da babysitter a queste matricole. Molto meglio così che
schivare pallottole e scariche magiche sul campo di battaglia, no?»
«Dov’è
finito il letale tiratore scelto che si lamenta per un centimetro di errore e
mugugna se la missione finisce senza che abbia sparato?»
«Io sono
come un senzatetto. Prendo quello che arriva, mi godo quello che ho, e spendo
ogni singolo giorno succhiando dal capezzolo di questo mondo tutto il latte che
posso.
Perché
in fin dei conti, quelli come noi non sono mai sicuri di poter vedere il
sorgere della prossima alba.»
«Nessuno
può esserlo. Se così non fosse, vorrebbe dire che siamo tutti immortali».
Vincent
replicò con un sorrisetto sarcastico, ma non per questo offensivo, e dopo pochi
attimi il discorso venne interrotto dal trillare del comunicatore interno.
«Non si
può neanche fare colazione in santa pace?» brontolò Georg vedendo apparire
sullo schermo il volto tridimensionale del Sergente Castaldi.
«Desolata
di fare la guastafeste, ma ci sono problemi in sala mensa, e temo avrò bisogno
di una mano.»
«E chi
devo ringraziare per questa seccatura?»
«Ti do
tre possibilità, ma te ne basterà una».
Il Capitano
si passò una mano sulla faccia contrariato.
«Krietzmann» sibilò, e assieme a Victor lasciò rapidamente
la stanza.
Klaus con il suo
atteggiamento un po’ sopra le righe e la tendenza a prendere fuoco per la cosa
più piccola si era fatto parecchi nemici, e pur sapendo quello che poteva
costargli si faceva trascinare in qualche scazzottata con una frequenza
disarmante.
Quella
mattina, memori della cattiva prestazione nell’ultima prova pratica, i membri
di un altro team non avevano perso occasione per punzecchiarlo, e lui come al
solito aveva risposto alle provocazioni con un vassoio del pranzo dritto sul
naso.
Ne era
nata così una rissa furibonda, con gli altri studenti che assistevano in
disparte mentre Klaus si faceva riempire di botte, distribuendone però a sua
volta.
Quando
Georg, Vincent ed Helen arrivarono in mensa la situazione era degenerata già da
diversi minuti.
Due di
quelli che avevano cercato la rissa erano già nel mondo dei sogni, uno con la
testa infilata in un forno a microonde aperto l’altro a terra con attorno i
resti di una scodella di vetro che gli era stata spaccata sulla fronte; dei
quattro superstiti, tre se la stavano vedendo con Klaus, mentre un quarto era
tenuto a bada da Joe Debois, il fedele compagno di
squadra del Rosso, atteggiamento gelido ma abilità da combattente quasi
sovrumane; l’altra loro compagna, Amanda Gerth,
assisteva impotente, lanciando di quando in quando inutili ed inascoltati
richiami alla calma.
Vincent
fece per intervenire subito, ma Georg inaspettatamente lo trattenne, almeno
fino a quando Klaus, ormai esausto, non venne afferrato saldamente da uno dei
suoi aggressori, mentre il terzo, il caposquadra UlrichDrassimovic, un giovane Sottotenente eybaniano dal grande avvenire ma un po’ troppo incline alla
superbia, lo tempestava ininterrottamente di pugni.
«Basta
così!» si decise finalmente a comandare.
Tutti si
misero sull’attenti, ma Klaus dovette essere aiutato da Amanda per rimettersi
in piedi, anche se in presenza del Capitano il giovane si ostinò a rifiutare il
supporto riuscendo, pur con molta fatica, a stare in piedi sulle sue gambe.
«La
solita rissa di colazione, Krietzmann?».
Lui non
rispose, sorreggendosi sull’attenti, ma quello che Georg leggeva ogni volta nei
suoi occhi non gli piaceva per niente.
«Nel mio
ufficio tra venti minuti. Prima però vai in infermeria a farti rimettere
assieme.
Amanda,
accompagnalo.»
«Sissignore.»
rispose rispettosamente la ragazza.
Anche la
squadra che aveva cercato la rissa, o almeno quelli di loro che assieme a Ulrich riuscivano ancora a contare fino a dieci, furono
trascinati a rapporto, ma la lavata di capo che il Capitano intendeva riservare
loro non era nemmeno paragonabile a quella che aveva in mente per Klaus.
Klaus si presentò in
ufficio dopo qualche ora, trovando come al solito il suo superiore seduto alla
scrivania, lo sguardo truce e l’espressione funerea, anche più del solito.
Aveva
qualche livido in giro per il corpo, una fasciatura di poco conto
all’avambraccio sinistro e ferita abbastanza seria sopra l’occhio destro mezzo
tumefatto, che era stata chiusa con un paio di punti; la dottoressa Stern
sapeva davvero fare miracoli con la sua magia rigenerativa e curativa,
altrimenti per il turbolento Sergente il decorso, dopo tutte quelle botte,
sarebbe stato decisamente più lungo.
Klaus
fece il saluto, mettendosi sull’attenti.
«Sergente
Klaus Krietzmann a rapporto, signore.»
«Cosa
c’è che non funziona in quella tua testa bacata?» sbottò immediatamente Georg
quasi capottando la scrivania nell’atto di alzarsi.
Con due
passi fu appresso al suo allievo; Klaus non era certo un mingherlino, ma anche
così sembravano Davide e Golia.
«Il tuo
stato di servizio è a dir poco encomiabile. Hai partecipato a più operazioni ad
alto rischio di ogni altro membro del tuo distretto, collezionando note di
merito e riconoscimenti ufficiali.
Ciò
nonostante, sei stato buttato fuori da quattro diversi corsi d’aggiornamento
per la promozione ad Agente scelto, e ogni volta per lo stesso motivo. Scarsa
disciplina, poco autocontrollo. E una preoccupante predisposizione ad alzare le
mani. Ti avrebbero buttato fuori dall’Agenzia tempo fa se non fosse stato per
le tue indubbie qualità, ma la fortuna è come il vento: non gira sempre nella
stessa direzione.
Se solo
ti dessi una regolata, se imparassi un accidente di disciplina, potresti
arrivare ad ufficiale prima ancora dei trent’anni, battendo ogni record.
Giusto
che non ho mai visto nessuno buttare via una promettente carriera come stai
facendo tu».
Klaus
ascoltava in silenzio, sempre sull’attenti, ma nei suoi occhi Georg poteva
leggere varie diverse emozioni.
«Cerca
di goderti quello che resta di questo corso, ragazzo» sussurrò tra i denti.
«Non credo che ne vedrai altri».
Solo a
quel punto Klaus ebbe una reazione, serrando i denti dietro le labbra
appiccicate l’una all’altra e facendo roteare leggermente gli occhi come a
voler evitare lo sguardo del suo superiore.
«Questo
è tutto. Puoi andare, Sergente».
Fatto il
saluto Klaus lasciò l’ufficio, apparentemente impassibile. Come fu lasciato
solo, Georg si buttò nuovamente a sedere sulla poltrona, sospirando di
delusione: dopotutto, si diceva, era anche colpa sua se quel ragazzo non era
riuscito a sfruttare l’ultima opportunità che gli era stata data per mettersi
in riga e raddrizzare la sua carriera.
Ma era
destino che per quel giorno non gli fosse dato di potersi concedere un minuto
di riposo per riordinare i pensieri.
«Capitano
Klopfer.» disse un attendente apparendo in ologramma
al centro della scrivania. «Il Direttore Shane vuole vederla.»
«Arrivo
subito.» rispose il nerboruto istruttore.
Il Direttore Nathan Shane, Colonnello
dell’aeronautica militare amalteca, era un uomo tutto
d’un pezzo, di quelli che si erano fatti da soli ed amavano rammentarlo agli
altri, anche solo ostentando la propria presenza.
Non era
supponente né arrogante, cosa difficile a dirsi per qualcuno che partendo dal
nulla era arrivato ad avere tutto o quasi, e proprio per questo i capoccia di Otisa lo avevano voluto come proprio alto rappresentante
all’interno dell’Agenzia.
Forse la
MAB aveva subodorato qualcosa, un’intrusione nelle alte schiere con il
tentativo da parte di una realtà esterna di mettere il naso in questioni
strettamente private; fatto sta che dopo pochi anni dal suo arrivo Nathan era
stato sì promosso Direttore, ma subito dopo si era visto assegnare
quell’incarico di Direttore del programma di addestramento avanzato ed era
stato spedito in orbita a meno di due mesi dalla sua nomina.
Molti
altri Direttori, soprattutto tra i suoi colleghi collaboratori, avrebbero
pagato oro per un posto simile, che garantiva alti guadagni al prezzo di
pochissimi rischi e rogne amministrative, ma per Nathan quello era come una
sorta di limbo, una trappola in cui era stato rinchiuso perché non potesse
nuocere.
Se non
altro, aveva avuto la possibilità di scegliere personalmente i propri
collaboratori, anche se non era sicuro che il Capitano Klopfer
avesse gradito quella nuova sistemazione.
Ciò
nonostante i due avevano profonda stima l’uno dell’altro, incentivata forse dal
fatto di essere connazionali, e tenevano sempre in considerazione i rispettivi
punti di vista, pur senza mai far venire meno la catena del comando.
Già il
fatto di essere stato convocato in sala conferenze fu per Georg la conferma che
doveva essere accaduto qualcosa, ma quando, una volta entrato, oltre al Direttore
trovò ad attenderlo anche il Direttore Esecutivo Nolan,
membro del Consiglio di Sicurezza dell’Agenzia, il ministro della marina
mercantile amaltecaRobson
e il viceComandante dell’esercito di Amaltea Generale Loy, fu chiaro
al Capitano che si trattava senza dubbio di una cosa seria.
Il Direttore
Shane era in piedi, la sua adorata pipa chiusa in una mano ed il fare altero,
quasi ascetico, da vero soldato; quanto agli ospiti, seduti attorno al tavolo
ovale al centro della stanza abbastanza lontani l’uno dall’altro, Georg aveva
già avuto modo di conoscerli in passato, ma dei tre l’unico che avesse mai
incontrato in prima persona in più occasioni era il Direttore QuintusNolan.
Facendo
un paragone con il Direttore Shane, lui e Nolan erano
come il diavolo e l’acqua santa; Nolan veniva da una
famiglia prestigiosa, e la sua carriera gli era stata praticamente servita su
di un piatto d’argento; aveva mancato per ben due volte la promozione a Direttore
Generale, ma secondo i più il terzo tentativo sarebbe stato sicuramente quello
buono. Non che questo lo si potesse considerare un bene; infatti, secondo
Georg, la MAB aveva tutto da perdere nel mettersi nelle mani di un tipo simile.
«Benvenuto,
Capitano.» disse Shane «Si accomodi.»
«Grazie,
signore. Preferisco stare in piedi.»
«Sempre
integerrimo e ligio al dovere, eh Klopfer?» domandò Nolan con una punta quasi di sarcasmo, cui il Capitano non
parve fare attenzione
«Come
preferisce. L’abbiamo convocata perché è sorto un problema inaspettato, e c’è
bisogno di qualcuno che ci aiuti a fare chiarezza.»
«Sono a
vostra disposizione, signori. Cosa posso fare per voi?».
I tre si
consultarono con lo sguardo, e Robson in particolare
sembrava quantomeno nervoso; fu lui a prendere la parola, quasi imbarazzato.
«Quattro
giorni fa abbiamo perso i contatti col Megonia.»
«Perso i
contatti?» domandò Georg un po’ incredulo. «Com’è possibile?»
«La nave
si trovava nella zona d’ombra tra Neos ed Erithium per assistere alla Nascita di Venere. Avrebbero dovuto
ripristinare i contatti due giorni fa, dopo essere usciti dal buco nero, ma da
allora non siamo più riusciti a stabilire un collegamento.
Inoltre,
il segnale lanciato dal tracciatore e intercettato dalle torri di controllo ha
appurato che il Megonia si trova molto lontano dalla
rotta prestabilita».
Al
centro del tavolo comparve una proiezione tridimensionale delle due lune, con
una linea verde tratteggiata a segnare la rotta del Megonia
e un puntino giallo lampeggiante che invece ne indicava l’attuale posizione, al
termine di una seconda linea sempre gialla.
«Le
trasmissioni sono ancora parzialmente disturbate a causa della tempesta di
radiazioni prodotta dalla Nascita di Venere,» spiegò Loy
«ma l’ultimo segnale ricevuto indicava il Megonia in
questo settore, ancora al limitare della zona oscura.»
«Per
quale motivo dovrebbero trovarsi in un posto simile?» si chiese Georg «Quel
settore brulica di detriti spaziali, e oltretutto sono pericolosamente vicini a
Neos. Di questo passo rischiano di venire catturati
dalla luna e schiantarcisi.»
«La
rotta che si ritiene possa avere seguito è molto irregolare e discontinua.»
disse Shane «È altamente probabile che in questo momento la nave stia andando
alla deriva».
Non era
la prima volta che capitava una cosa del genere, soprattutto in quella porzione
di spazio.
Celestis ed
il suo popolo erano lontani ancora anni luce dallo sviluppare una tecnologia
che permettesse di ridurre significativamente la durata dei viaggi spaziali, e
per quanto riguardava i tempi di percorrenza della rotta con la Terra i cento e
passa anni della prima spedizione erano ancora immutati; tuttavia, grazie alla
tecnologia del warp, che consentiva di percorrere
notevoli distanze siderali in tempi relativamente ristretti azzerando la teoria
della relatività e la curvatura dello spazio-tempo, era stato possibile se non
altro esplorare vaste zone del Sistema Noesis,
costruendo varie piattaforme e stazioni orbitali e anche qualche installazione
terrestre per studi scientifici, seppur interamente gestita dai computer.
Non
tutte queste realtà extraplanetarie però erano note alle forze di sicurezza, e
con l’aumentare delle spedizioni, sia turistiche che commerciali, era
ricomparso anche il fenomeno della pirateria, con bande di saccheggiatori che
assaltavano occasionalmente vascelli civili e mercantili, arraffando tutto il
possibile per poi dileguarsi e nascondersi in qualche stazione illegale, magari
riadattata e rimessa a nuovo tra quelle non più operative.
«Pensate
ad un abbordaggio?»
«È una
delle ipotesi.» rispose il ministro Robson «Ma anche
così c’è qualcosa che non torna.»
«Cosa
vuole dire?»
«Come ha
fatto candidamente notare anche lei,» disse Nolan col
medesimo tono di poco prima «Quella zona è particolarmente pericolosa, quindi
nessuna delle altre navi in transito nella zona è stata in grado di avvicinarsi
a sufficienza da scorgere il Megonia.
Tuttavia,
alcune di loro sono riuscire a scattare delle foto sufficientemente accurate, e
analizzandole i tecnici dell’Agenzia hanno riscontrato che le scialuppe di
salvataggio sembrano essere ancora tutte al loro posto.»
«Volete
dire che i passeggeri potrebbero essere ancora a bordo?»
«È
possibile, anche se non ci spieghiamo il perché.» disse Robson
«Ed è
qui che entra in gioco lei, Capitano.» intervenne il Generale Loy «Sulla superficie si sta già preparando una spedizione
di salvataggio, ma prima gli alti comandi dell’Agenzia e il governo di Amaltea vorrebbero capire bene cosa è realmente successo. A
quanto ne so, della sua squadra fa parte anche un eccellente pilota. Vorremmo
che lei e i suoi uomini raggiungeste il Megonia per
accertarvi della situazione.»
«Con il
dovuto rispetto signore, non sarebbe più semplice accelerare i tempi e inviare
subito i soccorsi? Quella gente potrebbe avere bisogno di aiuto.»
«Lei
deve capire, Capitano,» disse Robson, «Questa
operazione costerà milioni e milioni di kylis. Le
circostanze ci suggeriscono che potrebbe essere effettivamente successo
qualcosa di serio, e dobbiamo considerare anche la peggiore delle ipotesi.
In base agli
accordi gli armatori e le compagnie assicurative dovranno coprire le spese di
soccorso, ma prima di poterlo fare vogliono avere un quadro chiaro della
situazione. Spendere soldi non piace a nessuno, soprattutto se si parla di
cifre a otto zeri».
Il Capitano
aggrottò le sopracciglia e serrò i pugni; alla fine di tutto, si tornava sempre
lì. Al denaro.
Il Megonia poteva sempre essere recuperato in un secondo
momento, o nella peggiore delle ipotesi se ne poteva anche costruire un altro,
a condizione ovviamente che non vi fossero dei naufraghi da salvare.
Ma lui e
i suoi uomini erano solo soldati, e in quanto tali dovevano obbedire agli
ordini.
«Ai
vostri ordini, signori.» disse facendo il saluto «Farò mobilitare subito la mia
squadra.»
«Avrà
tutte le informazioni e l’equipaggiamento che le occorrono, Capitano.» disse il
Direttore Shane «Troverà ogni cosa ad attenderla a bordo della navetta.»
«Sissignore.
Grazie, signore.»
«Può
essere soddisfatto, Capitano» intervenne ancora Nolan.
«Avrà la possibilità di testare i suoi programmi di allenamento.»
«Signore!?»
replicò Georg come confuso.
«Il
Consiglio di Sicurezza caldeggiava da tempo la possibilità di mettere alla
prova i suoi ragazzi, e questa occasione è capitata a fagiolo.
Quale
modo migliore per farlo se non con una prova sul campo?».
Georg
non aveva mai fatto venire meno il significato della catena del comando, ma in
quell’occasione non se la sentì di stare zitto.
«Signore,
questi ragazzi non hanno ancora completato l’addestramento. Non sono pronti per
una prova di questo tipo, senza contare che molti di loro non hanno mai neppure
partecipato ad una vera operazione.»
«Vale lo
stesso discorso del ministro Robson, Capitano Klopfer» replicò Nolan col tono
di chi non ammetteva repliche. «Questo programma sta costando una somma
notevole all’Agenzia, e nel caso non l’avesse capito non siamo una società di
volontariato.
Il
Consiglio le ordina di portare con sé quattro dei suoi allievi. Potrà scegliere
quelli che preferisce. Mi auguro sia consapevole che dall’esito della missione
e dal rapporto che ne verrà fuori dipenderà il futuro del suo progetto.
E con
questo, ho finito.
Buona
giornata, Capitano».
Detto
questo, e lanciato al Capitano un sorrisetto da far prudere le mani, Nolan scomparve come l’ologramma che era, seguito poco dopo
anche dal ministro Robson e dal Generale Loy.
«So
quello che stai pensando» mormorò il Direttore Shane. «Lo sto pensando anch’io.
Nolan è un
maledetto arrivista, ma è anche il nostro capo, senza contare che, per quanto
mi scocci ammetterlo, ha ragione. I nostri ragazzi sono qui per diventare dei
soldati, non per mettersi in mostra davanti alle telecamere come quel bastardo
arrogante.»
«Per
quale motivo fanno intervenire noi?» replicò Georg tenendo lo sguardo basso.
«Il Megonia è una nave di Amaltea.
Perché non se la risolvono da soli?»
«Noi
siamo la MAB, Capitano» rispose il Direttore quasi con astio. «Il nostro
compito è garantire la pace e la sicurezza di tutti gli abitanti di questo
mondo, e di proteggerli da ogni possibile minaccia.
Lo
ricorda il motto della nostra agenzia, vero?».
Georg
temporeggiò, poi con un filo di voce pronunciò le nove parole che capeggiavano
in calce ad ogni stemma dell’Agenzia.
«Per la
pace. Per il mondo. Per l’umanità.»
«Si
prepari, Capitano. La missione parte alle dodici e zero zero.»
Georg si collegò un’ultima
volta con la stazione spaziale per ricevere le ultime istruzioni dal Direttore
Shane, che comparve nel monitor della navetta serio e impassibile come il Capitano
non ricordava di averlo mai visto.
«Stando
alle nostre ultime previsioni, seguitando per questa rotta il Megonia sarà catturato dall’orbita di Neos
nel giro di ventiquattro ore, ma se il sistema di emergenza è ancora operativo
entreranno in azione i razzi stabilizzatori che eviteranno una collisione.
Attualmente
la nave si trova ancora nella zona oscura, quindi è probabile che perderemo il
contatto. Stiamo cercando di creare un ponte radio usando alcuni satelliti
meteorologici, ma dovremo aspettare che la zona si ripulisca delle particelle
magiche presenti nella zona per riuscire a stabilire un collegamento.»
«Abbiamo
una benché minima idea di cosa potremmo incontrare a bordo, signore?»
«Nessuna,
Capitano. La zona oscura ci impedisce anche di accedere in remoto ai sistemi di
sorveglianza e alla scatola nera.
Di fatto
siamo completamente ciechi riguardo a quello che sta accadendo a bordo. È per
questo che la stiamo mandando lì.
Appena
possibile ci rimetteremo in contatto. Fino a quel momento, siamo nelle vostre
mani.
Buona
fortuna, Capitano»-.
In quel
momento la trasmissione si interruppe di colpo, lasciando dietro di sé solo un
fastidioso effetto nebbia.
«Siamo
entrati nella zona oscura.» disse Mayu dalla cabina
di pilotaggio.
Ora,
erano soli.
Goerg tornò
verso la zona di carico, dove il resto della squadra sedeva in silenzio sulle
panche laterali, ognuno preso nei propri pensieri.
Per
Vincent, Jaboc ed Helen era solo l’ennesimo lavoro,
un’inezia se paragonata ad altri incarichi che avevano dovuto affrontare nel
corso degli ultimi anni; Vincent e Jacob, da bravi tiratori scelti quali erano,
se ne restavano ognuno per conto proprio, con il primo che pareva addirittura
essersi appisolato su quello scomodo pezzo di metallo e il secondo che seguitava
a giocherellare con la sua catenina d’oro cui era appeso il bossolo di un
proiettile, un cimelio di cui nessuno, neanche i suoi compagni, conosceva il
significato; quanto ad Helen, come molti altri maghi aveva l’abitudine di
tenere da sé il proprio equipaggiamento, e l’ultima cosa che faceva ogni volta
subito prima che la missione avesse inizio era ricontrollare le pietre magiche
del suo armamentario, infilandole nel borsello alla cintura dopo averle
eventualmente ricaricate.
Quanto
agli allievi, anche loro sembravano stranamente calmi, forse perché quasi tutti
avevano altro a cui pensare. Klaus e Ulrich non
avevano fatto proprio i salti di gioia nel vedersi convocare entrambi, e
trascorrevano il tempo a tirarsi delle occhiatacce oblique seduti l’uno di
fronte all’altro.
Non era
solo per dare una lezione a quella testa matta di Krietzmann
che Georg aveva voluto selezionare proprio la sua squadra, oltre al suo peggior
nemico, per quella missione; Amanda, che dei quattro sembrava l’unica davvero
tesa e in ansia, se la cavava egregiamente con la magia curativa e gli
incantesimi di supporto, Joe eccelleva negli scontri all’arma bianca e nel
corpo a corpo, e Ulrich, che aveva studiato da
tecnico operativo, aveva grande dimestichezza con l’informatica e
l’elettronica. Tutti talenti che potevano tornare utili a bordo del Megonia, e a conti fatti loro erano gli unici cui il Capitano
era disposto a concedere il benefico del dubbio, facendoli scendere in campo a
così poca distanza dall’inizio dell’addestramento.
E poi
c’era Klaus.
Klaus.
Georg
voleva che vedesse; che vedesse con i suoi occhi cosa aveva buttato via con il
suo atteggiamento. O forse, in cuor suo, voleva dargli una nuova, ennesima
possibilità di dimostrare le sue capacità, come soldato e come capo.
«Molto
bene, verginelle» disse richiamando l’attenzione delle reclute. «Questa è la
vostra prima missione degna di questo nome.
So bene
che per alcuni di voi non si tratta della prima esperienza sul campo, ma
nonostante ciò vi invito a non dare nulla per scontato.
Ragion
per cui, mente sgombra, culo stretto, e seguite le nostre disposizioni. In ogni
caso, non credo sarà nulla di eccezionale.
Probabilmente
hanno solo voluto vedere lo spettacolo troppo da vicino, e ci hanno rimesso i
sistemi primari.»
«Ma
allora, perché non hanno abbandonato la nave?» domandò Amanda
«Per
fare lo slalom tra i detriti cosmici in un guscio d’uovo rischiando una
collisione? Molto meglio restarsene al sicuro a bordo della nave. Tanto
sapevano molto bene che, prima o poi, non vedendoli tornare qualcuno sarebbe
andato ad aiutarli».
In
realtà Georg era il primo a credere che una teoria tanto semplice potesse
effettivamente essere vera, ma si augurava intimamente di essere comunque nel
giusto, per il bene dei suoi ragazzi.
«Obiettivo
in vista, Capitano.» disse di nuovo Mayu.
Georg
raggiunse velocemente la cabina per vedere di persona, e qualche attimo dopo
anche il resto della squadra poté scorgere dagli oblò la figura maestosa e
misteriosa al tempo stesso del Megonia, che fluttuando
alla deriva orbitava a poche migliaia di chilometri dalla superficie brulla di Neos, da solo, come uno dei tanti relitti che affollavano
quel tratto di cosmo.
Sembrava
davvero essere stata abbandonata, ed erano evidenti i segni degli urti avvenuti
con tutta la spazzatura e i detriti che orbitavano tutto attorno al satellite
principale di Celestis; nel complesso però lo scafo
non appariva così compromesso, e probabilmente l’atmosfera interna era ancora
intatta, una cosa che faceva ben sperare.
Tuttavia,
le luci di posizione e quelle di segnalazione erano completamente spente, e
come previsto anche l’illuminazione principale appariva disattivata, come se
tutti i generatori e i sistemi di alimentazione della nave fossero stati
interrotti.
Per un
po’ mentre la navetta si avvicinava sempre più all’obiettivo, tutti rimasero in
silenzio, domandandosi ognuno per conto proprio cosa mai potesse aver provocato
un simile incidente.
«Puoi
aprire un canale radio?» domandò Georg senza togliere gli occhi dal Megonia
«Credo
di sì, solo un secondo.» rispose Mayu
«Non che
mi aspetti qualcosa, ma tanto vale fare un tentativo».
Dal
momento che le connessioni virtuali erano tutte disattivate l’unica soluzione
era ricorrere ai sistemi analogici, anche se per poter stabilire un contatto fu
necessario avvicinarsi ulteriormente al vascello, abbastanza perché il piccolo
sistema radio della navetta fosse in grado di ricevere e trasmettere un
segnale.
«Ponte
radio operativo, Capitano. Può parlare.»
«Parla
il Capitano Klopfer. Forze di sicurezza speciali
della MAB. Mi ricevete, Megonia?».
L’altoparlante
rimase muto, producendo solo un gracchiare confuso, e allora il Capitano provò
una seconda volta.
«Siamo
qui per accertare le vostre condizioni. Vi trovate in una zona ad alto rischio,
e tutti i vostri sistemi principali sono spenti o danneggiati. Parlate, Megonia».
Ma di
nuovo, non vi fu risposta.
«Sarebbe
stato troppo bello» mugugnò Georg, che quindi lanciò un ultimo messaggio. «Megonia, se riuscite a sentirci, ora saliamo a bordo.
Mayu,
dirigiti al ponte d’atterraggio.»
«Al
volo, Capitano».
Come
tutte le navi di grandi dimensioni anche il Megonia
disponeva di un ponte d’attracco per vascelli medio-piccoli,
che come una proboscide si allungava da una fiancata della fusoliera per consentire
l’aggancio e allo stesso tempo preservare l’atmosfera.
Mayu condusse
la navetta nel punto d’attracco, ma la attendeva una brutta sorpresa: un
detrito, probabilmente un vecchio satellite, aveva centrato in pieno il ponte;
le paratie di emergenza fortunatamente erano intatte e si erano immediatamente
chiuse, ma di fatto quell’ingresso era praticamente inservibile.
«Accidenti.»
sibilò la ragazza «Questa non ci voleva».
Neanche
il tempo di brontolare per quello spiacevole imprevisto, che volgendo lo sguardo
alle spalle Georg si ritrovò a tu per tu con il giovane Ulrich,
terminale portatile alla mano e atteggiamento sicuro, ma comunque rispettoso.
«Possiamo
accedere dal portellone della zona carico, signore.»
«E
come?» chiese Mayu «Il loro sistema di energia e
quello telematico sono entrambi disattivati. Anche intervenendo in remoto
tramite hacking non c’è modo di poterlo aprire.»
«Possiamo
intervenire manualmente attraverso i comandi di sicurezza per la manutenzione.»
«Manualmente!?»
ripeté Georg «Vuoi dire andare fuori!?»
«Conosco
questo genere di navi. Il sistema di apertura computerizzato probabilmente è
fuori uso, ma il portello quasi sicuramente dispone anche di un’apertura
automatica d’emergenza attivabile dall’esterno.»
«E se il
meccanismo è protetto da un codice di sicurezza?»
«Lo
posso bypassare. Ho già condotto simulazioni di questo tipo in passato.»
«Appunto,
simulazioni.» lo interruppe il Capitano «Qui parliamo di un intervento vero,
nello spazio aperto. Un minimo errore e farai la fine di un palloncino, senza
contare che potresti finire catturato dall’atmosfera di Neos
e andare giù come una meteora.»
«Posso
farcela, signore. Mi circonderò con uno scudo protettivo. Le barriere non sono
la mia specialità, ma me la cavo discretamente.
D’altronde,
con il dovuto rispetto, non credo vi siano molte altre alternative.»
«Cos’è,
stai cercando di fare l’eroe?» domandò provocatorio Klaus dal vano equipaggio
«Sta
zitto, Krietzmann» lo ammonì il Capitano, che
sbuffando si passò una mano sulla barba rada che ne circondava la bocca, per
poi guardare nuovamente Ulrich. «Sei sicuro di
poterci riuscire?»
«Sissignore.»
rispose il giovane senza esitare.
Georg
esitò, ma quasi subito si rese conto che effettivamente quella era l’unica
soluzione attuabile; e visto che nessuno dei suoi compagni aveva mansioni da
tecnico, l’unica era affidarsi a quel ragazzotto con manie di comando ma dalla
volontà e dal talento riconosciuti.
Di
certo, però, non gli avrebbe fatto correre un simile rischio da solo.
«Helen,
và con lui.»
«Sissignore.»
disse l’interessata alzandosi in piedi
«Grazie,
signore. Non la deluderò.»
«Niente
colpi di testa. Rimani appiccicato ad Helen, fa quello che devi fare, e
raggiungici subito all’interno.»
«Agli
ordini».
Mentre Mayu riposizionava la navetta il più vicino possibile alla
zona desiderata del Megonia, i due interessati,
indossati i caschi delle speciali tute da battaglia, si portarono quindi nella
zona di sbarco sul fondo della navetta, con Ulrich
che un attimo prima della chiusura del portello d’isolamento parve quasi
sogghignare dietro il vetro opaco all’indirizzo di Klaus, il quale fu costretto
ad ingoiare il boccone amaro sfogando la sua frustrazione con un violento pugno
sulla parete.
«Mai
fatto prove di volo nello spazio?» domandò Helen mentre dalla cabina veniva
annunciato il countdown per l’apertura
«Centotre
ore di simulazione, quindici di esperienza sul campo. Signore.» rispose Ulrich educatamente ma risoluto
«Niente
male per un ragazzino».
Giusto
il tempo per entrambi di circondarsi con uno scudo protettivo in grado di
annullare ulteriormente gli effetti del vuoto cosmico, e i due agenti si
ritrovarono fuori dalla navetta, a fluttuare nello spazio.
Normalmente
per uno stregone era impossibile servirsi della magia nello spazio aperto, a
meno di non ricorrere alle batterie energetiche come quelle installate nelle
tute da combattimento, ma per un mago di buon livello era sufficiente trovarsi
a poca distanza da un pianeta dotato di un Core
attivo, come ad esempio Celestis, per sfruttarne
l’energia senza per forza doversi trovare all’interno della sua atmosfera.
E Ulrich ed Helen, maghi di talento lo erano di sicuro; non
per niente entrambi avevano i capelli argentati, un vero e proprio marchio che
identificava gli stregoni virtualmente più potenti e capaci di tutti, in quanto
dotati di un codice genetico molto più affine alla magia rispetto a quelli di
chiunque altro, compresi i loro simili.
Entrambi
non dovettero fare altro che immaginare di concentrare tutto il loro potere in
un solo punto, e come se avessero avuto un jet pack invisibile montato sulla
schiena i due presero a muoversi con sicurezza verso il loro obiettivo,
raggiungendo in pochi minuti la superficie fredda e metallica del Megonia sotto gli sguardi attenti dei loro colleghi, che li
osservavano dagli oblò della navette trattenendo il respiro.
Ulrich era
così sicuro di essere sulla buona strada che non impiegò nulla a trovare prima
l’esatta ubicazione del portello dell’hangar, e quindi il piccolo vano in cui
erano celati i comandi per poterlo aprire. Come aveva previsto erano ancora
operativi nonostante il blackout, e sempre come aveva previsto bypassare la
password di sicurezza con il suo terminale fu un’azione sorprendentemente
semplice.
Non
lesinando una critica con il pensiero a chi aveva architettato una difesa tanto
facile da scardinare il giovane decrittò il codice, e come per incanto il resto
della squadra vide il portellone aprirsi lentamente dinnanzi alla loro navetta.
«Sarà
pure uno sbruffone, ma sa quello che fa» non poté non ammettere Amanda.
Anche
Georg restò positivamente colpito, e riavutosi dal momento di stupore ordinò a Mayu di puntare dritta verso l’obiettivo.
Una
volta che la navetta, lentamente, fu entrata, Helen ed Ulrich
non dovettero fare altro che entrare a loro volta e usare i comandi dall’altro
lato per richiudere la porta sigillando nuovamente la stiva, che con l’entrata
in funzione dei sistemi di decontaminazione e ripristino della gravità tornò ad
essere perfettamente abitabile.
«Atmosfera
stabile» disse Mayu subito dopo l’atterraggio. «Via
libera, Capitano.»
«Molto
bene, signorine. Tutti fuori. Mayu, tu resta qui ad
aspettare. Ci terremo in contatto.»
«Agli
ordini, signore. Mi ci voleva proprio un po’ di riposo».
Per un
eccesso di prudenza Georg ordinò comunque a tutti di azionare il sistema di
protezione montato dietro al collo, capace di costruire letteralmente il casco
della tuta attorno alla testa dell’utente nell’arco di pochi secondi, quindi
lui e gli altri, armi alla mano e ricetrasmittenti operative, uscirono
all’esterno.
La stiva
era davvero enorme, e a guardarla non risultava difficile immaginare per quale
vero scopo fosse stata originariamente costruita; in una stanza di simili
dimensioni avrebbero potuto trovare tranquillamente posto tre o anche quattro
intercettatori da battaglia, inoltre come si era visto poteva essere facilmente
isolata, e probabilmente era strutturata per poter mantenere gravità ed
atmosfera anche con i portelloni aperti grazie ad un sistema di barriere
magiche.
Ulrich ed
Helen arrivarono pochi istanti dopo, e a Klaus toccò l’ingrato compito di
passare ad Ulrich il suo fucile, ricevendo in cambio
un: “Grazie” che sapeva terribilmente
di beffa.
«Niente
male davvero, ragazzo.» disse Georg lodando Ulrich.
«Ora andiamo.»
«Sono
d’accordo.» disse Vincent «Chiudiamo questa storie e torniamocene a casa».
Il team,
serrati i ranghi, lasciò rapidamente l’hangar, dirigendosi a passo spedito
verso le zone passeggeri.
All’interno
il silenzio era spaventoso, ed il buio pressoché totale, fatte salve le varie
luci di emergenza disseminate qua e là, che riuscivano solo a rendere
l’atmosfera ancor più spettrale.
Tramite
una scala di servizio, Georg e la sua squadra salirono fino ai livelli
superiori, raggiungendo prima il Ponte F, quindi, attraverso una seconda rampa,
il Ponte C, che a rigor di logica, tra i negozi, le zone divertimento e tutto
il resto, doveva essere il più affollato della nave.
Ma in
giro non c’era nessuno.
La
tensione salì rapidamente, e dopo aver percorso parte della strada in modo
sostanzialmente tranquillo, molti membri della squadra iniziarono a provare una
certa ansia, le armi alzate e le dita sui grilletti.
Le torce
montate sul fondo della canna fendevano l’oscurità, ma tutto ciò che
illuminavano erano sfarzosi corridoi, eleganti negozi, pareti affrescate e
decorate, pavimenti in marmo pregiato, senza alcuna traccia di una presenza
umana.
In
compenso c’era uno strano odore, piuttosto acre, come di qualcosa andato a
male, che impestava varie zone di quelle che il team si trovò ad attraversare.
Odore di
morte.
Quando
arrivarono ai grandi portoni, stranamente chiusi, che immettevano nel
ristorante panoramico, gli animi erano già abbastanza tesi, compresi quelli di
alcuni dei membri più navigati ed esperti della squadra.
Vincent
e Joe si appiattirono contro il muro, Georg e Jacob rimasero in copertura;
anche Klaus cercò di alzare il proprio fucile, ma Georg lo fermò prima ancora
che potesse pensare di farlo.
«Sta
calmo, fiammetta. Lascia fare a noi.»
«Ma, signore…».
Ma
protestare era del tutto inutile, e così, per l’ennesima volta in pochi minuti,
Klaus dovette farsi da parte masticando imprecazioni.
«Forze
speciali MAB, stiamo entrando!».
I
quattro agenti si scambiarono un cenno, e al via libera del Capitano, Vincent e
Joe aprirono violentemente la porta, entrando per primi seguiti quasi subito
dal resto dei compagni.
Il
ristorante era come tutte le altre zone viste fino a quel momento: vuoto.
Ma c’era
anche dell’altro: lì dentro era il caos più completo; tavoli, sedie, perfino i
lampadari. Sembrava che fosse passato un ciclone, tanto il locale appariva
sottosopra, ma ciò nonostante il silenzio, anche lì, era pressoché totale.
Nessuna traccia di forme di vita.
I membri
della squadra si guardarono attorno e tra loro, attoniti, e per la prima volta
dopo tanto tempo Georg sentì uno strano brivido freddo salirgli lungo la
schiena.
«Che sta
succedendo?» chiese Amanda con gli occhi sbarrati. «Dove sono spariti tutti?».
I membri della squadra si
guardarono attorno, non riuscendo a capacitarsi di ciò che avevano dinnanzi
agli occhi.
Il Megonia, la nave più esclusiva che si fosse mai vista, sembrava
essersi trasformata in un vascello fantasma, svuotato di tutti quegli
industriali, conti, magnanti e altri pezzi grossi che
sborsando cifre improponibili per i comuni mortali si erano voluti regalare
quel viaggio da sogno.
Nessuno,
neppure Georg, sapeva cosa pensare, e la situazione divenne ancor più
angosciante quando Vincent, avventuratosi nel cuore della stanza per cercare di
capire meglio cosa avesse provocato quella baraonda, trovò in terra una macchia
rossa dall’origine inequivocabile.
«Qui c’è
del sangue» disse tastandolo.
Fu come
il suono di un allarme, che, semmai ve ne fosse stato bisogno, fece salire
ulteriormente la tensione.
Una dopo
l’altra, a ben cercare, non fu difficile localizzare altre pozze più o meno
grandi in vari punti della sala.
«Mio
Dio, c’è sangue dappertutto» mormorò Ulrich.
Georg
sentì nuovamente quel brivido.
A questo
punto, la teoria dell’attacco pirata non appariva più così campata per aria; ma
se questa era la verità, che ne era stato dei corpi?
Perché
dei pirati, interessati solo a fare soldi e scappare a tutta velocità prima
dell’arrivo di qualche pattuglia, avrebbero dovuto prendersi il disturbo di
fare una strage tra i passeggeri, e fare oltretutto sparire i cadaveri?
La cosa
si stava facendo paradossale, e tra i giovani il nervosismo era evidente.
«Ma si
può sapere che diavolo è successo qui?» si domandò Klaus «Dove sono spariti
tutti?»
«È una
cosa senza senso.» disse Amanda «Niente corpi, solo sangue.»
«Datevi
una calmata!» ordinò perentoriamente Georg. «È proprio per scoprire cosa è
successo che ci hanno mandati qui, ricordate?
Se voi
signorine vi lasciate impressionare da così poco non sopravvivrete cinque
minuti. Quindi ora mente sgombra, culo stretto e sangue freddo, mi sono
spiegato?»
«Sissignore.»
risposero i cadetti, ma nessuno con vera convinzione
«Bene»
replicò Georg fingendosi soddisfatto. «Come prima cosa, cerchiamo di capire se
questa bagnarola può ancora funzionare. Dobbiamo tirarla fuori da questo cono
oscuro, così potremo ripristinare il contatto con Celestis.
Drassimovic e
Trenton, alla sala di controllo. Debois
e Castaldi, ponte di comando. Keys e Gerth, salone
principale e ponti passeggeri. Io e Krietzmann
esploreremo i livelli inferiori e la stiva.
Tutto
chiaro?»
«Sissignore!»
dissero tutti in coro
«E
allora forza, chiappe in spalla! E teniamoci in contatto radio!».
Quasi ogni punto della nave
poteva essere raggiunto attraverso varie rampe di scale, alcune pubbliche altre
riservate al personale, ma vi erano zone, soprattutto quelle di alta sicurezza,
accessibili solo tramite ascensori a riconoscimento.
Tra
queste zone vi era la sala di controllo, a cui si accedeva per mezzo di un
ascensore che scendeva direttamente al Ponte H. Teoricamente questi ascensori
“sensibili” dovevano poter funzionare anche in caso di guasto all’alimentazione
principale, ma visto come erano ridotti i sistemi del Megonia,
Ulrich e Vincent non nutrivano grandi speranze di
trovarlo ancora attivo.
Ma la
fortuna, una volta tanto, aveva voluto essere dalla loro, e raggiunte le porte
sul Ponte B i due agenti si avvidero che l’ascensore, incredibilmente,
funzionava ancora.
C’era
solo un piccolo problema.
«Sarà
anche in grado di muoversi, ma come lo usiamo?» mugugnò Vincent indicando il
pannello di sicurezza. «Senza una di quelle carte di riconoscimento questo
affare non si muove, e non so tu ma io non ne ho nessuna sottomano.»
«Non
serve la carta.» rispose Ulrich collegando il suo
terminale e prendendo subito a lavorare.
Nel giro
di quindici secondi, il sistema fu bypassato, e le porte dell’ascensore si
aprirono placidamente davanti a loro lasciando Vincent con gli occhi sul fondo
del naso.
«Basta
un buon computer.»
«Ora
capisco perché il Capitano ti ha voluto per questa missione» sorrise HawkEye «Forza, dentro».
Con
l’ascensore scesero fino al ponte desiderato, ma anche qui trovarono ad
attenderli solo oscurità, silenzio e nessun’anima viva.
«Qui diventa
sempre più inquietante.» osservò Vincent, che con il mirino ad infrarosso del
suo fucile cercò di fendere l’oscurità meglio di quanto non facessero le torce.
Lungo il
corridoio, come previsto, non vi era nessuno, ed in lontananza si poteva
scorgere la porta della sala controllo.
«Via
libera, procediamo».
A rigor
di logica, anche quella porta avrebbe dovuto essere saldamente chiusa. Ma
piuttosto del fatto di trovarla allentata quanto bastava da poterne aprire
manualmente le ante a colpire i due agenti furono più che altro le condizioni
in cui era ridotta: accatastati in un angolo vi erano una mazza, uno scalpello
di fortuna e vari altri attrezzi da scasso, e le due ante della porta erano
state visibilmente percosse con una certa violenza, tanto che la chiusura ermetica
alla fine doveva aver ceduto sotto il peso di tutti quei colpi.
Inoltre,
il lettore di tessere sembrava disattivato, il che probabilmente era ciò che
aveva spinto chicchessia a tentare quella misura disperata.
Vincent
buttò un occhio all’interno, e il vedere scintille che sprizzavano di quando in
quando da una fonte non meglio identificata fu come la prova evidente che lì
dentro doveva essere accaduto qualcosa di serio.
«Non
promette nulla di buono. Prudenza».
Ulrich si
appoggiò al muro, e ricevuto il via libera dal partner aprì fulmineo la porta
permettendogli di entrare per poi varcare la soglia a sua volta; fecero
irruzione fucili alla mano, già pronti a rispondere a qualunque minaccia, ma
tutto ciò che trovarono fu il nucleo centrale con la parete protettiva divelta
e apparentemente in pieno corto circuito, oltre ad una quantità abnorme di
sangue che come un tappeto rosso ricopriva non solo il pavimento, ma anche e
soprattutto la console di comando.
«E
questo cos’è?» domandò Vincent, che pure era abituato a spettacoli di quel
genere. «Il mattatoio della nave?».
Per
nulla impressionato da quella scena cosi macabra Ulrich
mosse una mano sopra le pozze di sangue, facendole scomparire nel nulla sia dal
nucleo di memoria che dalla console.
«Allora
non sei solo un nerd da computer, dopotutto.» rise Vincent, che poi rivolse la
sua attenzione sul nucleo. «Sembra conciato piuttosto male. Ora mi spiego
perché qui è andato tutto all’aria.
Pensi di
poterlo aggiustare?»
«Non con
i mezzi che abbiamo» rispose il giovane, già intento ad armeggiare con i
computer. «Ma forse posso ripristinare alcune funzioni isolando le zone
danneggiate del sistema operativo.»
«Ah,
capisco» rispose HawkEye,
che in realtà non ci aveva capito niente.
Come Ulrich provò ad avviare il computer, però, tutti gli
schermi si illuminarono di rosso.
«Che
succede?»
«Accidenti.
Sembra che tutti i firewall siano attivi. Qualcuno deve aver provato a forzare
l’accesso.»
«Probabilmente
la stessa persona che ha fatto il diavolo a quattro per entrare qui dentro,
dovunque sia finita.»
«Ci
vorrà un po’ per riuscire a violarli tutti. Tu intanto mettiti comodo.»
«Certo,
come no? Mi farò un pisolino. Tanto qui non sta succedendo niente di che,
giusto?».
Di tutti i cadetti che
aveva avuto occasione di conoscere e addestrare nelle tecniche di infiltrazione
e contrasto silenzioso in cui era maestra, Joe Debois
era certamente quello dal quale Helen era rimasta maggiormente colpita.
Le sue
abilità erano molto al di sopra della media degli altri agenti operativi,
avvicinandolo al livello dei professionisti navigati, al punto che Sleeping
Beauty quasi non riusciva a spiegarsi perché qualcuno avesse voluto inserirlo
in quel corso invece di promuoverlo direttamente Agente scelto, o addirittura
caposquadra.
Poi,
leggendo il suo stato di servizio e la relativa scheda, aveva cominciato a
capire.
Quel
ragazzo era speciale.
«Ho
letto la tua scheda» disse d’un tratto così, per rompere il silenzio e
allentare un po’ la tensione. «Tu sei un Ranger».
Se Celestis e le sue città, per non dire le sue intere
nazioni, avevano potuto vedere la luce, lo dovevano in egual misura alla
volontà ferrea dei suoi coloni e all’operato indispensabile dei Ranger.
Quando i
primi terrestri avevano deciso di avventurarsi al di fuori dei primi insediamenti
dando via all’opera di colonizzazione vera e propria, come subito dopo l’arrivo
sul pianeta, avevano trovato ad attenderli territori inesplorati ed una natura
alle volte ostile.
Tra i
troll della montagna, i worrold delle foreste e gli anuk delle praterie, Celestis
abbondava di specie più o meno pericolose, senza contare le conoscenze
indispensabili per garantire la sopravvivenza di una comunità, conoscenze che i
coloni alle volte non possedevano.
I Ranger
erano nati come corpo volontario puramente civile, ma nel giro di pochi anni
erano diventati prima una unità paramilitare vera e propria e poi, in seguito,
un corpo scelto di molte nazioni che grazie a loro erano riuscite a sorgere, e
a cui avevano affidato la custodia degli insediamenti più distanti ed
inaccessibili nell’attesa di dare vita a più efficaci vie di comunicazione e
collegamento.
Le loro
competenze spaziavano dall’esplorazione alla caccia, fino alla cura del
bestiame e alla salvaguardia di quella natura da cui, alle volte, erano chiamati
a difendere gli esseri umani; inoltre impedivano fenomeni come il brigantaggio,
le ruberie e le scorribande dei predoni, tutti problemi che stando ai libri di
storia erano stati tutt’altro che sporadici nei primi cinquant’anni di
colonizzazione.
E in quanto
a retaggio famigliare, Joe aveva di che vantarsi per generazioni.
I suoi
antenati avevano aperto la strada ai coloni che nell’anno 12 avevano fondato Eldkin, la terza città di Caldesia,
inoltre avevano avuto un ruolo fondamentale nella salvaguardia delle molte
realtà minori nate tutto attorno alla zona metropolitana, come Pondrith, Olster e Amadar.
Negli
anni, però, molte cose erano cambiate.
Con la
fine del periodo coloniale i Ranger avevano visto ridursi notevolmente le
proprie mansioni operative, e la pacificazione portata dall’istituzione di
apposite forze di polizia aveva reso superfluo anche il loro ruolo di garanti
della legge. E se in alcune parti del mondo, ad esempio ad Eyban,
dove le notevoli dimensioni territoriali punteggiate da piccoli borghi molti
distanti tra loro permettevano ai Ranger di risultare ancora la forza di ordine
pubblico maggiormente diffusa, ciò non accadeva sicuramente nel caso di Caldesia, dove ormai quello dei Ranger era diventato un
corpo assegnato quasi esclusivamente alla salvaguardia forestale, con incarichi
che andavano dal contrasto al bracconaggio alla supervisione all’opera di
inserimento delle specie animali terrestri nell’ecosistema di Celestis, a buon punto ma ancora non del tutto compiuta.
La
regione di Eldkin era stata una delle ultime a
revocare ai Ranger la qualifica di garanti dell’ordine pubblico, senza contare
che la natura particolarmente impervia del territorio faceva dei Ranger di
quella regione delle guide montane molto esperte, e forse era per questo che
quel patrimonio di conoscenze e di abilità di sopravvivenza, nel caso di Joe,
non erano andate perdute.
L’interessato
non rispose, preservando quel suo apparire così cupo, e per certi versi
minaccioso; un vero Ranger, insomma, come quelli di cui si leggeva nei racconti
popolari e nelle favole per bambini.
Per
arrivare al ponte di comando occorreva prendere l’ascensore di servizio che
partiva dal Ponte A e saliva lungo la torre, accessibile dal salone principale,
ma quanto raggiunsero il monumentale fiore all’occhiello del Megonia Helen e Joe trovarono ad attenderli una brutta
sorpresa.
Forse a
causa di uno dei tanti urti che la nave doveva aver subito coi detriti
spaziali, parte della scala che collegava tra loro le varie balconate era
crollata, e in particolar modo la porzione che andava dal Ponte C al Ponte A.
«Ecco,
questa non ci voleva» disse contrariata Helen, rivolgendosi poi
all’imperturbabile Joe. «Se non sbaglio tu non sei dotato di poteri magici, e
le capacità della tua tuta non ti permettono certo di compiere salti di questo
genere» quindi sospirò. «Poco male. Vorrà dire che ci inventeremo qualcosa.
Alla
peggio, faremo il giro più largo».
Non ebbe
neanche il tempo di girare nuovamente lo sguardo che Joe, presa una piccola
rincorsa, iniziò a saltare da un detrito all’altro con l’agilità di una scimmia
e la grazia di un felino, balzando sospeso nel vuoto senza la minima
esitazione, e prima che Helen potesse dire o fare alcunché il suo compagno era
già sulla balconata più alta che la guardava con fare quasi sornione.
«Ma sei
proprio sicuro di non essere uno stregone?» domandò ironicamente lasciandosi
trasportare da una corrente invisibile sempre più in alto, fino a raggiungerlo.
«Forza, andiamo».
Klaus seguiva Georg,
standogli qualche passo indietro, con il fare e l’entusiasmo di un alunno che
segue il professore verso l’ufficio del preside, e anche se non poteva vederlo
il Capitano sapeva quasi per certo quale dovesse essere la sua espressione.
«Perché
mi ha voluto per questa missione?» domandò ad un certo punto il giovane
sottufficiale. «Tanto ha già deciso di buttarmi fuori.»
«In
verità non lo so neppure io» replicò Georg dopo un lungo silenzio, e seguitando
a camminare verso il cuore della stiva. «Forse voglio illudermi che per te ci
sia ancora speranza.»
«Drassimovic fa lo spaccone dalla mattina alla sera, e
attacca briga quanto se non più di me, però è bastata un’azione da macho di
quel damerino azzimato per guadagnarsi la sua stima.
Di me,
invece, lei vede solo i difetti».
Ce ne
voleva di coraggio per rivolgersi ad un ufficiale superiore in simili termini,
soprattutto se si era la metà di lui sia in termini di gradi che di stazza
fisica, ma l’avventatezza, e Georg lo sapeva bene, era una inseparabile
compagna di Klaus Krietzmann.
Anche
per questo Georg un po’ lo ammirava, ma certo non poteva passare sopra ad una
cosa del genere, anche se detta in preda all’impeto.
«Allora
non hai proprio capito» disse inchiodando e girandosi a guardarlo con occhi
infuocati. «Non è una questione di una, due, o cento risse. Non me ne frega
niente se Ulrich è un maledetto snob tronfio e pieno
di sé. Ne incontrerai a pacchi ovunque andrai, e quasi tutti saranno in una
posizione tale che tu non potrai fare altro che ingoiare e far finta di niente.
Credi
non mi sia capitato di avere a che fare con gente simile? Se avessi dovuto
riempire di botte tutti i maledetti figli di papà che mi è capitato di
conoscere nella MAB sarei già finito davanti alla corte marziale.
Tu sei
un soldato, e un caposquadra. Il tuo compito è essere sempre calmo, freddo,
razionale. Tu non devi farti sopraffare dalle tue emozioni, né permettere di
venire condizionato.
Ulrich sarà
anche un maledetto snob, ma il suo compito ha dimostrato di saperlo fare fin
troppo bene, e cosa più importante tiene ben separate le questioni personali da
quelle professionali.
La tua
squadra conta su di te, sei la loro guida. Credi sul serio che Gerth e Debois si sentirebbero
del tutto al sicuro nel mettere la loro vita nelle tue mani?
Ma più
di ogni altra cosa, in quanto soldato e Agente della MAB, il tuo compito è
aiutare e assistere gli abitanti di questo pianeta, in qualunque circostanza.
Tra
incidenti occasionali e quelli dovuti alla stupidità di qualcuno, non passa
quasi giorno senza che vi siano delle persone in pericolo, e quasi sempre siamo
noi a dover impedire che degli innocenti ci rimettano la vita».
Klaus
rimase di sasso, la bocca semiaperta e gli occhi sbarrati; il Capitano gli si
fece incontro, sovrastandolo con fare sempre più minaccioso ed autoritario.
«Ora,
guardami negli occhi e dimmi sinceramente. Sei davvero convinto di poterti
assumere tutte queste responsabilità? Sei sicuro di poterci riuscire?».
Questa
volta, fu Klaus a rimanere in silenzio.
«E con
questo, la discussione è chiusa» sentenziò Georg vedendo che l’interessato era
rimasto chiaramente senza obiezioni. «Andiamo.»
«Sissignore»
rispose il giovane con un tono che sapeva di sconfitta.
La
marcia però durò poco, fermandosi per l’ennesima volta davanti ad una porta
stagna sprangata.
«È già
la terza che troviamo» si lamentò Georg portando la mano alla radio infilata
nell’orecchio. «Drassimovic, mi ricevi?»
«Forte e
chiaro, Capitano. Cosa posso fare per lei?»
«Stiamo
incontrando un passaggio sprangato dietro l’altro, ma stavolta temo sia
impossibile girarci attorno.
Puoi
fare qualcosa?»
«Mi dia
un attimo, controllo subito».
Nel
mentre Ulrich aveva ormai violato quasi tutti i
firewall a protezione della memoria centrale, e quando finalmente anche
l’ultimo lucchetto saltò via non riuscì a trattenere un sorriso di
soddisfazione.
«Sono
entrato!» esclamò svegliando Vincent, che effettivamente si era appisolato
sull’altra poltroncina abbracciato al suo fucile.
Purtroppo,
anche così la situazione non si presentava idilliaca, e bastò un istante perché
quel sorriso si tramutasse in una smorfia di disappunto.
«Maledizione,
è come sospettavo.»
«Che
altro c’è?»
«Il
nucleo di memoria non è così danneggiato come potrebbe sembrare, ma il corto
circuito ha fritto sia i generatori che i collegamenti con le batterie al
combustibile.»
«Insomma,
non c’è energia» concluse Georg, che ascoltava via radio.
«Appena
quanto basta per tenere in piedi i sistemi fondamentali, ma il generatore di
emergenza ha una capienza veramente minima.»
«Si può
fare qualcosa?» chiese Vincent
«Poco o
nulla. Bisognerebbe effettuare delle riparazioni, ma non abbiamo né le
attrezzature né le conoscenze necessarie per farlo».
Poi
però, come un fulmine a ciel sereno, il ragazzo ebbe l’illuminazione.
«A meno che…» e immediatamente riprese a lavorare.
Quando
poi vide ricompare sul volto del partner quello stesso sorriso, Vincent si
sentì rinascere a sua volta.
«Lo
sapevo. Dopotutto, questa era pur sempre una nave da guerra.»
«Che hai
trovato?»
«Stia a
vedere, Capitano. La sorprenderò».
Mayu aveva la brutta abitudine di lasciarsi
prendere dal proprio lavoro, immergendovisi ad un livello tale da perdere il
contatto con la realtà.
Così, le
capitava spesso di fare le ore piccole, salvo poi ritrovarsi con addosso una
stanchezza cronica non appena la concentrazione veniva meno e subentravano le
inevitabili necessità fisiologiche.
Quella
notte la ragazza l’aveva spesa quasi per intero ad armeggiare con il motore
della navetta, e la comparsa indesiderata di quella missione le aveva impedito
di concedersi qualche ora di sonno.
Così,
appena i suoi compagni se n’erano andati, si era lasciata immediatamente andare
sullo schienale della sua poltrona in cabina di pilotaggio, forse non
comodissima ma sicuramente soffice, senza contare che ormai ci aveva fatto
l’abitudine a dormire là sopra.
Probabilmente
avrebbe continuato a ronfare senza sosta per molte ore, se improvvisamente uno
strano e per certi versi inquietante stridio non l’avesse fatta trasalire.
«Che è
stato!?» domandò balzando in piedi.
Rimessi
gli occhiali, senza i quali si vantava lei stessa di essere cieca come un
pipistrello, quello che vide fu una specie di enorme tentacolo metallico
scivolare lungo la fusoliera della navetta appena oltre il finestrino.
Non era
da solo. Almeno una decina di altri suoi simili erano sbucati da un momento
all’altro da delle botole nel pavimento dell’hangar, e come i tentacoli di una
gigantesca piovra avevano iniziato ad avvilupparsi attorno alla navetta quasi a
volerla stritolare. E da come lo scafo scricchiolava sotto la forza e la
pressione, non era da escludersi che ciò potesse effettivamente accadere.
Mayu, pur con
tutta la sua esperienza di meccanico, non aveva mai visto niente del genere, e
il vedere tutte le apparecchiature lampeggiare come impazzite non la aiutava
certo a calmarsi.
«Ma che
diavolo sta succedendo!?».
Poi, una
voce giunse gracchiante dalla radio di bordo.
«Signorina
Mayu, mi sente?»
«Ulrich!?»
«Mi
dica, per caso sta accadendo qualcosa attorno alla navetta?»
«Direi
proprio di sì! Questa dannata nave la sta stritolando! Ancora poco e farà la
fine di una vongola!».
Nella
sala di controllo, invece che preoccuparsi, Ulrich
sorrise compiaciuto.
«Non si
preoccupi, è tutto a posto.»
«A
posto!? Col cavolo che è a posto!»
«Stia
calma, sono stato io.»
«Tu!? Si
può sapere che significa?»
«Ancora
qualche istante, e lo vedrà con i suoi occhi».
In uno
dei tanti monitor della sala comparve una barra di caricamento, che come Ulrich digitò un nuovo comando prese rapidamente a
riempirsi, mentre finalmente i tentacoli che avviluppavano la navetta
smettevano di muoversi e prendevano a circondarsi di una strana luce azzurrata.
Passarono
pochi secondi, e non solo nell’hangar o in sala di controllo, ma in tutta della
nave Georg e il resto della squadra videro le luci accendersi come per incanto,
le porte automatiche aprirsi, e persino i monitor di servizio tornare a
funzionare.
Georg e
Klaus, in particolare, videro spalancarsi dinnanzi a loro la porta stagna che
li aveva bloccati, rivelando dietro di sé l’ultima rampa di scale che conduceva
al livello più basso dei ponti stiva.
«Ma come
accidenti hai fatto!?» disse attonito Victor
«Protocollo
Vulcan. Le navi da guerra amalteche
sono dotate di un meccanismo di alimentazione d’emergenza che permette loro, in
caso di bisogno, di legarsi ad un’altra fonte di energia per compensare
eventuali ammanchi.»
«Aspetta,
fammi capire» disse Mayu visibilmente inalberata. «Tu
stai parassitando la mia nave?!»
«Non
sarà il modo più elegante per dirlo, però effettivamente è così.»
«Non me
ne frega niente dell’eleganza! La mia nave non si tocca!»
«Dacci
un taglio, Mayu» la interruppe via radio Georg. «Ben
fatto, Drassimovic. Ci sarà di sicuro molto utile» e
imbracciato il fucile riprese a camminare.
Mayu invece
non era per nulla soddisfatta della piega che aveva preso la situazione, e
appena chiusa la comunicazione radio si buttò imbronciata sul sedile, ma ormai
il sonno le era passato.
Per
cercare di calmarsi volle scendere a controllare di persona l’entità dei danni,
ma questo non fece altro che aumentare il suo livello di stress.
«La mia
povera carrozzeria!» esclamò notando qua e là segni di graffio provocati dalle
lamelle dei cavi. «Quel damerino finirà sepolto di compiti supplementari per un
mese, parola mia!».
La
rabbia però non precludeva le sue abilità di Agente, infatti dopo poco ebbe la
netta sensazione di non essere più sola all’interno di quell’hangar sconfinato;
la prova gliela diede un rumore sordo, di qualcosa che cadeva, accompagnato da
quelli che sembravano passi di corsa.
Si
volse, fulminea. Tutto attorno, era solo calma e silenzio. Ma era certa di non
essersi sbagliata.
«Chi
c’è?» domandò avventurandosi, lentamente, in un intricato dedalo di cunicoli
alti e stretti formato dalle centinaia di casse ammassate in un angolo della
stanza. «C’è qualcuno?».
Nessuno
rispose, ma quel rumore continuò a presentarsi a intervalli irregolari; era
come se qualcuno si stesse divertendo a girarle velocemente attorno, cercando
di rimanere in silenzio senza però riuscirci del tutto.
«Victor,
se è uno dei tuoi scherzi, sappi che non è divertente!» urlò quasi a volersi
auto convincere che fosse l’ennesima bravata dell’amico.
Ma
Victor non era sicuramente lì, e poi neanche uno come lui si sarebbe messo a
scherzare in una situazione simile; sempre più in ansia, Mayu
mise mano alla pistola, e movendo un piede per volta prese a camminare
all’indietro per cavarsi da quella situazione così rischiosa, dove il pericolo
poteva sbucare fuori da ogni angolo.
Ad un
rumore se ne aggiunse un altro, ed un altro; nessuna voce, solo un respiro
affannoso, che di quando in quando si faceva sentire facendo gelare il sangue
di Mayu, che pur essendo solo un semplice meccanico
aveva già affrontato situazioni di quel genere in passato.
Poi,
d’un tratto, il silenzio. Di nuovo; assoluto.
Mayu pensò
per un solo istante che tutto fosse finito, ma prima ancora che un nuovo
rumore, assai più vicino e minaccioso, giungesse alle sue orecchie, l’istinto
le disse di girarsi, anche se quanto restava del suo raziocinio le diceva che
forse era già troppo tardi.
Un urlo
fortissimo, una specie di ruggito, squarciò il silenzio, e assieme ad esso se
ne levò un altro, acuto e terrorizzato, cui fece seguito il fragore di due
spari in successione.
«Di preciso, quali sistemi
hai ripristinato?» domandò Vincent mentre Ulrich non
smetteva un attimo di armeggiare ai computer
«Non
molti. Ho aperto le porte stagne, ripristinato l’illuminazione fondamentale, e
stabilizzato l’atmosfera in tutti i settori della nave.
Immagino
di poter fare anche altre cose, ma come mi aspettavo ogni singolo sistema è
protetto da un alto numero di firewall. Stavolta, però, non sarà una cosa da
poco».
Poi,
cercando tra i sistemi più protetti, il giovane trovò qualcosa che riuscì a
stupire persino lui.
«Incredibile.
Avevano pensato proprio a tutto.»
«Di che
parli?».
Senza
prendersi la briga di rispondergli, Ulrich chiamò
subito Georg via radio.
«Capitano,
mi sente?»
«Forte e
chiaro, Drassimovic. Parla pure.»
«Ho
trovato delle informazioni classificate. Sembra che il Megonia
avesse in dotazione dei satelliti d’emergenza per le comunicazioni. Devono
averne lanciati alcuni senza successo nel tentativo di lanciare l’SOS, ma ne ho
trovato uno ancora operativo.
Se
riesco a lanciarlo oltre la zona oscura, potremmo essere in grado di comunicare
direttamente con la superficie.»
«Questa
è un’ottima notizia. Lo puoi fare davvero?»
«Appena
riesco a violare le protezioni. Mi ci vorranno almeno un paio d’ore.»
«Te ne
do una.»
«Ricevuto,
signore» e Ulrich si rimise immediatamente al lavoro.
«Beh»
intervenne Vincent sornione, «Visto che qui non sembro servire a molto, vorrà
dire che mi sposterò altrove.
Forse in
giro per questo rottame ci sono ancora dei superstiti, e un paio di occhi in
più farebbero comodo.»
«Vai pure»
rispose Ulrich senza staccare gli occhi dal monitor.
«Ho riattivato l’ascensore. Se sali fino al Ponte D e prendi la scala di
servizio numero quarantaquattro, dovresti imbatterti in Amanda e Jacob. Sto
tracciando la loro posizione sulla mappa usando i segnali radio.»
«Come
vuoi. Ma tu non muoverti, mi raccomando. Non vorrei che ti perdessi».
Con la ricomparsa della
luce, anche se solo in alcune zone, Amanda e Jacob avevano potuto constatare in
maniera molto più tangibile la portata del lusso e dello sfarzo dei Ponti
Passeggeri che stavano esplorando.
Tutto lì
trasudava di buon gusto, e tra statue, pavimenti in marmo, volte affrescate e
in alcuni casi placcate in oro, lampadari in cristallo e finti candelabri,
tappeti pregiati e quant’altro sembrava di trovarsi nei corridoi del palazzo
reale di New Aalborg.
Persa in
tutto quello splendore, Amanda stava perfino per dimenticare la paura e
l’angoscia che aveva provato fino al momento in cui era stata costretta a
camminare nel buio, con la sola luce delle torce e i visori notturni a
rischiarare l’ambiente.
«Non
distrarti» la ammonì Jacob notando come la sua sottoposta tendesse a guardarsi
un po’ troppo attorno. «Non sappiamo cosa ci aspetti.»
«Le
chiedo scusa» rispose lei imbarazzata.
Jacob
quando voleva sapeva essere davvero spaventoso, con quel suo fare così composto
e il perenne silenzio che lo avvolgeva, e Amanda a volte era quasi intimorita
dalla sua figura; persino guardarlo negli occhi era impossibile, per colpa di
quella frangia generosa che scendeva dalla fronte come le fronde di un albero,
così la ragazza non riusciva mai a capire quale fosse la sua reale espressione,
lasciata solo intendere dai movimenti della bocca.
Con
l’attenzione, però, ritornò anche un po’ di tensione, e Amanda volle provare a calmarla
parlando con il suo superiore.
«Mi
scusi, posso farle una domanda?»
«Del
tipo?».
Amanda
parve venir colta da un momento all’altro da una vampata di imbarazzo.
«Ecco…» disse arrossendo, «Il suo pendente è… curioso».
Lui si
fermò un momento, tanto che Amanda per poco non gli andò addosso, e fatta
scivolare una mano all’interno della corazza esterna della tuta ne trasse fuori
il famoso bossolo legato alla catenina.
«La mia
trentunesima missione» disse come se si stesse rivolgendo al proprio io.
«Quartiere industriale di Otisa. In un cantiere erano
comparsi due EDA contemporaneamente.
Ero
andato in esplorazione, e uno mi ha attaccato.
Ho
sparato tutti i miei colpi, ma lui non moriva. Mi colpì con forza, gettandomi
contro un muro. Mi ruppi un braccio e due costole. Stava per uccidermi. Sparai
l’ultimo, e finalmente morì».
Detto
questo, strinse forte il pugno attorno al bossolo, e anche se non poteva
vederli Amanda intuì dovessero esservi delle lacrime a rigare i suoi occhi.
«Allora,
è un portafortuna.» disse quasi a voler sdrammatizzare la situazione
«La
fortuna non c’entra quando fai questo lavoro. È l’esperienza che conta. Mai
usare l’ultimo proiettile del caricatore, a meno che non vi sia reale
necessità. Se rimani senza colpi, sei morto».
Amanda
restò un attimo basita, conscia dell’importanza di quella lezione, ma anche
atterrita dalla severità e dal tono cupo del suo partner.
Stavano
per rimettersi a camminare, quando Jacob, fermatosi di colpo un’altra volta,
girò lo sguardo alle spalle di Amanda, spingendo anche la ragazza a voltarsi.
Il corridoio da cui erano venuti era deserto così come lo avevano trovato,
discretamente illuminato, e in lontananza di intravedevano le porte dietro cui
vi erano le scale di servizio.
«Che
succede?»
«Ho
sentito qualcosa».
Helen e Joe stavano ancora
attraversando l’area passeggeri in prossimità dell’ascensore che conduceva al
ponte.
La
situazione si era un po’ calmata, grazie anche al ritorno della luce, anche se
Joe in particolare non faceva venire meno il proprio autocontrollo seguitando a
mantenere un’attenzione elevatissima verso tutto ciò che lo circondava.
Di
quando in quando si fermava e si guardava attorno, saggiando il pavimento
freddo della nave o cercando qualche suono, o anche qualche odore; qualsiasi
cosa i sensi affinati che solo un Ranger possedeva potessero aiutarlo a
comprendere la situazione, o a percepire anzitempo potenziali minacce.
Negli
ultimi minuti qualcosa sembrava aver destato il suo interesse, ma lui come al
solito se ne restava in silenzio senza condividere i propri pensieri con Helen.
«Senza
offesa» disse lei con una punta di sarcasmo spazientito quando il suo partner
si fermò per l’ennesima volta, «Ma mi sembra di stare lavorando con un cane
poliziotto».
Non che
Sleeping Beauty disconoscesse o non apprezzasse le capacità dei Ranger, al
contrario, ma l’atteggiamento così introverso e incomprensibile di Joe non
rendeva facile riuscire a capire cosa passasse nella mente di quel ragazzo.
L’ultima
tappa del tragitto prima di raggiungere l’ascensore di servizio era il centro
commerciale, una vasta area circolare con una grande piazza centrale dal
soffitto a volta dalla quale si dipanavano svariate attività ed esercizi, dai
negozi d’alta moda a quelli di gadget e souvenir. Completavano tutto alcune
panchine e una piccola isola verde nel mezzo, con al centro una bella fontana.
Vi
albergava una luce strana, quasi da discoteca, dall’indubbio effetto scenico ed
estetico ma che rendeva la zona parecchio buia, in cui i giochi di ombre e i
faretti proiettati in ogni dove servivano solo a creare falsi allarmi.
Ulrich, che
aveva collegato il segnale emesso dalle loro trasmittenti alle mappe virtuali
della nave, li chiamò per trasmettergli ulteriori istruzioni.
«Ci
siete quasi. Superate l’area commerciale, uscite dalla porta sull’altro lato,
fate altri trenta metri e troverete l’ingresso all’ascensore di servizio.»
«Sentito?
Muoviamoci».
Invece,
fatti solo due passi, Joe si immobilizzò, guadagnandosi un’occhiata incredula
di Helen.
«E
adesso che ti prende?»
«Qui c’è
qualcuno.» sussurrò il giovane girando gli occhi in ogni direzione.
Helen
ebbe un attimo di smarrimento, recuperando però subito il raziocinio e
drizzando a sua volta le antenne nella speranza di avvertire a sua volta i
segni che avevano messo in allarme il suo partner.
«Che
cos’è?»
«Piccolo.
E veloce. Si muove su due gambe. E ci sta tenendo d’occhio».
La
ragazza alzò il fucile, mentre Joe ripose il proprio preferendovi invece il suo
machete, quindi i due agenti si divisero prendendo direzioni opposte, la
camminata silenziosa e il ventre il più vicino possibile a terra.
Helen si
avventurò nella boutique, traboccante in ogni dove di abiti d’alta classe, dai
vestiti da sera agli eleganti smoking neri per uomini e ragazzi, dove
l’articolo più economico non costava meno di alcune centinaia di kylis, e appiattitasi ancora più prese a girare per gli
scaffali alla ricerca di una qualunque forma di vita.
Non
servì molto perché anche lei si avvedesse del fatto che lì c’era sicuramente
qualcuno, qualcuno la cui presenza venne confermata senza ombra di dubbio da
Joe, che avventuratosi nel bar trovò il frigo saccheggiato e spazzatura sparsa
un po’ ovunque, oltre ad uno stretto pertugio, una specie di nascondiglio
improvvisato ricavato da uno stipetto a livello terra il cui contenuto era
stato gettato in ogni direzione per fare quanto più posto possibile.
Chiunque
fosse non sembrava interessato a passare inosservato, o quantomeno non era
capace di farlo, movendosi di continuo e facendo, nonostante la moquette, quel
tanto di rumore che bastava da annunciare la sua presenza.
«Forze
speciali MAB!» disse Helen nel tentativo di far uscire la misteriosa ombra allo
scoperto. «Vieni fuori! Non abbiamo cattive intenzioni!».
Ma il
fuggitivo non rispose, e anzi ad un certo punto si azzittì di colpo, fermandosi
apparentemente in un punto per non spostarsi più. O si era accorto di stare
facendo troppo rumore, o forse era ormai troppo spaventato per fare o dire
qualunque altra cosa, con due segugi che gli stavano alle costole.
Di
sicuro, chiunque fosse, si trovava lì nella boutique, e tendendo bene
l’orecchio Helen riuscì a sentire per un breve istante un respiro affannoso,
chiaramente spaventato, ed un lamento come di pianto.
«È qui»
sussurrò alla radio rivolta a Joe.
Seguendo
quel richiamo, anche se ormai scomparso, la donna varcò prima l’angolo di uno
scaffale, quindi si appiattì contro la porta di un camerino.
Ne era
sicura; la sua preda era lì. Quasi poteva sentirne il battito.
Trasse
un respiro, chiudendo un momento gli occhi, poi, calmate le palpitazioni, fece
scivolare la mano verso la maniglia, che aprì di getto catapultandosi
all’interno.
Non
c’era nessuno.
In
compenso, la grata a livello del pavimento, probabilmente un condotto
dell’aria, era aperta, e dall’interno giungevano ben distinti rumori metallici
che si facevano sempre più lontani.
«Merda!
Sospetto in fuga!» strillò.
Joe
accorse veloce come un fulmine, e assieme a Helena raggiunse il retrobottega
dove sbucava il pertugio, ma intanto il misterioso fuggitivo doveva essersela
già data a gambe, perché lì dentro non c’era nessuno.
Il che
era ai limiti dell’assurdo, dal momento che esclusa la porta che collegava il
negozio con lo stanzino retrostante non vi erano altri punti da cui il
fuggitivo potesse essersi dileguato, almeno a prima vista.
«Ma come
diavolo ha fatto?».
In un
angolo, nei pressi del soffitto, vi era un’altra presa d’aria, ma illuminandola
Joe notò che aveva ancora la grata ben inserita ed avvitata, quindi il loro
bersaglio doveva trovarsi ancora lì dentro.
«Si può
sapere che succede?» domandò Ulrich, che aveva
sentito tutto
«Abbiamo
un sospetto nel centro commerciale» rispose Helen. «Gli stavamo dietro, ma ora
sembra sparito.»
«Amico o
nemico?»
«Non lo
sappiamo. Non siamo riusciti a vederlo.»
«Continuate
a cercarlo. Potrebbe aiutarci a capire cos’è successo su questa nave».
Era una
parola. Tra file di attaccapanni con abiti appesi, scatole e contenitori vari
c’erano mille e più posti in cui il fuggitivo poteva essersi intrufolato,
tenuto conto anche del fatto che doveva trattarsi di qualcuno molto basso.
Lo
cercarono per qualche istante, ma poi Joe, che per tutto il tempo non aveva
fatto venire meno la sua espressione preoccupata, si avvide prima ancora di
Helen di un rumore di passi che giungeva da fuori.
Fu
sufficiente per loro guardarsi negli occhi per capire cosa doveva essere
successo; erano stati talmente impegnati a frugare nella stanza, da non
guardare nemmeno all’interno della grata che collegava le due stanze.
«Maledetto!
Prendiamolo!».
Di nuovo
lo inseguirono, prima di nuovo nel negozio poi nell’atrio, ma stavolta la
distanza da coprire era decisamente troppa, e quando seguendo il rumore
riuscirono a recuperare terreno poterono solo vedere le porte dell’ascensore
del centro che si chiudevano davanti a loro.
«Dannazione!»
strillò Helen battendo i piedi a terra. «Ulrich, è
scappato! Ascensore numero quindici del centro commerciale!»
«Ok, ce
l’ho! Forse riesco a bloccarlo! Datemi un secondo per entrare nei sistemi di
controllo!».
Per
fortuna, Amanda e Jacob si trovavano proprio da quelle parti, solo qualche
ponte più in basso. Ulrich li chiamò subito.
«Gerth, Keys! C’è un pacco per voi. Ascensore numero quindici,
all’ingresso della sala cinema. Ve lo consegnerò già incartato.»
«Ricevuto,
ci muoviamo» rispose Jacob.
Il cinema, che
all’occorrenza poteva diventare anche un teatro o una sala conferenze, era
talmente grande che tra la sala vera e propria e le varie attività connesse
distribuite attorno all’atrio e alla relativa anticamera occupava da solo quasi
un quinto del Ponte C.
L’ascensore
15 segnalato da Ulrich permetteva di spostarsi in un
lampo dall’atrio degli acquisti a quello dell’intrattenimento che gli stava subito
sotto, e si trovava proprio davanti alle porte che immettevano nella galleria.
Amanda e
Jacob stavano cercando di scoprire l’origine del suono che aveva messo in
allarme l’Agente Keys, identificato come qualcosa di simile ad un rantolo
soffocato, ma alla chiamata di Ulrich raggiunsero
velocemente l’area cinema.
«Siamo
davanti all’ascensore» comunicò Jacob via radio.
«Giusto
in tempo. Ho violato i comandi dell’ascensore. Pacchetto in arrivo tra tre,
due, uno… adesso».
Le porte
si aprirono, e i due agenti puntarono all’istante le armi innanzi a sé, solo
per ritrovarsi a tu per tu con una bimba di forse otto anni che, appiattita
contro la parete opposta, li osservava con i denti serrati e gli occhi
spalancati per il terrore.
Jacob e
Amanda rimasero di sasso.
«Ma… è una bambina…».
La
piccola, talmente spaventata da non riuscire a parlare, si raggomitolò a terra
con le mani sopra la testa, e a nulla valse l’estremo tentativo da parte dei
due agenti di tranquillizzarla abbassando i fucili.
«Che sta
succedendo?» domandò Ulrich via radio. «L’avete
preso?»
«Falso
allarme» lo tranquillizzò Jacob. «È solo una bambina.»
«Una
bambina?».
Amanda
si sfilò l’arma, mettendosi in ginocchio, e a piccoli passetti si avvicinò
lentamente alla bambina, che la guardò con i suoi occhi terrorizzati.
«Come ti
chiami?».
Lei non
rispose, e anzi si appiattì leggermente di più contro la parete seguitando a
tirare su con il naso.
«Io mi
chiamo Amanda. E tu invece?»
«H…Hilda» fu, dopo molti secondi,
la sua timida risposta. «HildaWeilmann.»
«Che bel
nome».
Amanda
fece qualche altro passo avanti, e stavolta Hilda non
si ritrasse.
«Hilda, non devi avere paura. Non siamo cattivi. Siamo qui
per aiutarti» quindi allungò la mano verso di lei. «Vieni. Ti portiamo al
sicuro».
Seguirono
secondi interminabili, persi in un assoluto silenzio; poi, timidamente, Hilda si riscosse, e dopo aver fissato a lungo quella mano
protesa, lentamente, la sfiorò, riuscendo a sentirne il calore nonostante il
tessuto gommoso che la ricopriva. Un attimo dopo, era stretta addosso ad
Amanda, che carezzandola dolcemente dietro ai capelli le sussurrava parole di
conforto.
«Capitano,
mi sente?» disse Jacob alla radio
«Forte e
chiaro, che succede?»
«Abbiamo
trovato una superstite. Zona intrattenimento del Ponte C.»
«Ottimo
lavoro. Portatela alla navetta di salvataggio. Lì sarà al sicuro.»
«La luce
è andata via» disse di colpo Hilda, con il volto
ancora nascosto nel seno di Amanda. «Poi sono arrivate quelle…
quelle cose.»
«Quali
cose?» chiese Amanda
«Assalivano
le persone. Le mangiavano. Io cercavo il mio papà, ma mi sono persa. Hanno
cercato di mordermi, e sono scappata. Ho strisciato, e strisciato, e
strisciato. E sono arrivata in quel negozio. Le porte non si aprivano, e
neanche l’ascensore.
Ero da
sola.
Mi sono
nascosta. Avevo paura».
Dovette
fermarsi, perché i singhiozzi erano tali che non le riusciva più neppure di
parlare.
«Non
parlare, ora va’ tutto bene» la tranquillizzò Amanda. «Ora ci siamo noi con
te».
In
realtà c’era ben poco da stare tranquilli, e ai due agenti non servì neanche
guardarsi negl’occhi o aprire bocca per realizzare di aver avuto la stessa
sensazione.
Amanda
cercò di calmare ulteriormente Hilda, mentre Jacob
non smetteva un momento di guardarsi attorno, e quando quel rumore che aveva
sentito poco prima tornò a risuonare, quasi impercettibile, nelle sue orecchie,
lo destò, facendogli drizzare tutti i peli del corpo.
«Amanda»
sussurrò preoccupato.
Anche
lei a quel punto lo sentì, per non parlare di Hilda,
che strinse così forte il braccio della ragazza da dare l’idea di volerglielo
strappare, chiudendo gli occhi più che poteva.
Il suono
si fece sempre più vicino, e stavolta i due agenti non avevano dubbi sulla
natura ostile di ciò che si stava avvicinando.
La loro
attenzione si focalizzò sulla porta, chiusa, dietro al bancone del bar,
probabilmente le cucine, che d’un tratto, lentamente, si aprirono, lasciando
entrare nell’atrio un essere che al solo vederlo fece venire ad Amanda conati
di vomito.
La pelle
era chiara, quasi cadaverica, gli occhi, la bocca e le orecchie erano lordi di
sangue nero e coagulato, e tutto il corpo presentava varie ferite, alcune veri
e propri squarci, come se quella poveretta fosse stata assalita da un branco di
cani randagi.
Una
dipendente del cinema, senza dubbio, che movendo la testa ad intermittenza come
una bambola rotta portò la sua attenzione dal pavimento ai due agenti,
fissandoli con i suoi occhi vuoti, la bocca semiaperta e la lingua a penzoloni.
Amanda
esitò, più preoccupata di accertarsi che Hilda fosse
ancora vicina a sé che di neutralizzare la potenziale minaccia. Jacob, invece,
non ebbe dubbi, e presa la mira fulminò la giovane dritta in mezzo al petto, un
colpo degno del miglior tiratore. Quella specie di mostro rantolò, sospinto
all’indietro dal rinculo del colpo subito, benché dalla ferita non uscirono che
pochi schizzi di sangue, ma incredibilmente, dopo aver dato l’idea di stare per
crollare, si ridestò, tornando salda sulle proprie gambe cadaveriche.
E
allora, anche Jacob restò palesemente senza parole.
«Ma che diavolo…» e senza esitazioni sparò altri due colpi, che
però sortirono il medesimo, scarso effetto.
A quel
punto, bersagliata a più riprese, la creatura lanciò un urlo acuto a dir poco
assordante, quasi un richiamo, e piegate le ginocchia si esibì in un salto
quasi inumano con l’intento di piombare addosso alle sue prede. Jacob la
intercettò a mezz’aria, ma stavolta le scaricò addosso una decina di proiettili
in automatico, e allora quell’essere, emesso di nuovo il suo rantolo roco,
parve finalmente morire, precipitando inerte sul pavimento.
L’Agente
Keys attese qualche attimo, quindi, cautamente, si avvicinò, lasciando che i
muscoli si distendessero e la concentrazione venisse meno solo quando, tirato
un piccolo calcio alla testa della creatura, questa non mostrò alcuna reazione.
«Tranquilla,
è finita» disse Amanda rassicurando Hilda, che per
tutto il tempo non si era staccata un attimo a lei.
Ma in
realtà, anche Amanda era spaventata. E non poco.
«Che
storia è questa?» chiese quasi con rabbia. «Da quando in qua resistono alle
pallottole?»
«Devo
ancora incontrarne uno che si lascia uccidere con un solo colpo» replicò Jacob
sostituendo il caricatore, «Anche se devo ammettere che era piuttosto coriaceo.
Sono
sicuro di averlo colpito in pieno, e ciò nonostante non è morto.»
«Ti era
mai capitata una cosa del genere?»
«Non che
io ricordi».
Per
sicurezza, Jacob scaricò sul mostro anche tre colpi di pistola, e a quel punto
la creatura, come un legno consumato dalla fiamma, si tramutò in cenere, e con
essa anche la divisa che indossava. Persino il sangue scomparve, e fu come se
quella povera ragazza, chiunque fosse stata prima di diventare così, non fosse
mai esistita.
I due
agenti, di nuovi, rimasero senza parole.
«Ecco
un’altra cosa che non vedi tutti i giorni» mormorò Jacob, che portatosi un dito
all’orecchio azionò la radio. «Capitano, mi sente?»
«Che
altro c’è, Trigger?»
«Capitano… temo che su questa nave sia in corso un nove-nove ».
Un
codice che gli agenti della MAB, e le squadre speciali di sicurezza in
particolar modo, ben conoscevano.
«Ne sei
proprio sicuro, Jaocob?» chiese ancora Georg
«Ne
abbiamo appena abbattuto uno, Capitano. Classe Pedone. Nonostante ciò ci sono
voluti parecchi colpi per riuscire ad abbatterlo».
A quel
punto, non vi erano quasi più dubbi su cosa doveva essere accaduto a bordo di
quella nave; l’ipotesi peggiore, quella che nessuno avrebbe voluto prendere in
considerazione.
«Capitano»
disse Jacob traendo un respiro. «Abbiamo un’emergenza EDA in atto».
EDA.
Ovvero, Extreme Dna Alteration. Il lato
spiacevole della magia.
La magia
era come un fiume, una turbinio di energia che scorreva ininterrottamente
all’interno di tutti gli esseri viventi tramite il dna, ma che solo una
percentuale ancora molto ristretta di persone, gli stregoni appunto, era in
grado di maneggiare per influenzare e trasformare la materia.
Ma il
dna, e l’M-Code in particolare che permetteva agli stregoni di esercitare la
magia, era delicato, e quando qualcuno era talmente folle o imprudente da spingersi
oltre i propri limiti, l’esito era un corto circuito nel fragile equilibrio di
energie che regolavano il corpo umano, con il risultato, nel peggiore dei casi,
di dare vita a creature mostruose e terribilmente aggressive.
Smarrita
ogni traccia di raziocinio, questi mostri avevano l’unico scopo di assorbire
quanta più energia possibile, al fine di preservare quel nucleo impazzito che
come una batteria costituiva la fonte della loro vita, ma che i gravi danni
provocati dalla mutazione portava ad esaurirsi rapidamente; e in quanto un
possesso di un M-Code tra i più sviluppati del regno animale, gli esseri umani
costituivano la preda favorita degli EDA, che come bestie feroci assalivano e
sbranavano qualsiasi malcapitato capitasse loro a tiro, oltre a sfogare la
propria furia distruttiva su qualunque cosa i loro sensi deviati indicassero
come una potenziale minaccia.
Fino a
pochi anni prima il problema relativo agli EDA aveva riguardato solo coloro in
grado di maneggiare la stregoneria, ma con la diffusione di apparecchiature
atte a permetterne un controllo rudimentale anche da parte degli esseri umani
gli incidenti erano sensibilmente aumentati, e in fin dei conti era proprio per
questo che era stato istituito quel corso speciale per la formazione di unità
specializzate a contrastare la minaccia.
Gli EDA
erano suddivisi in cinque classi, Pedone, Cavallo, Torre, Alfiere e Regina, cui
venivano assegnati in base alla violenza della mutazione e alla loro
pericolosità relativa. Il Pedone era la classe più bassa, e teoricamente quella
meno pericolosa, ma il problema in quel caso non era tanto nella pericolosità
del nemico, quanto nel numero.
E Jacob
non mancò di parlarne al Capitano.
«La
ragazzina ha parlato di un alto numero di assalitori. Siamo chiaramente di
fronte ad un nove-nove-zero».
Georg si
sentì gelare il sangue, e non per il freddo che attraversava i locali della
stiva.
Nove-nove-zero.
Il peggior codice identificativo che si potesse immaginare.
Nove-nove era
già di per sé una brutta cosa, perché indicava una manifestazione multipla di
più EDA contemporaneamente, fatto raro ma non impossibile, ma lo Zero
significava chiaramente la natura indeterminata ed indeterminabile del numero
esatto di potenziali nemici.
«Drassimovic, come va’ con quel satellite?» domandò allora
Georg, che Klaus non ricordava di aver mai visto così preoccupato
«Ci sto
ancora lavorando, Capitano. Ci sono un sacco di protezioni.»
«Muovi
il culo. Chiama subito la stazione. Ci serve supporto immediato.»
«Mi
rimetto subito al lavoro, signore.»
«Trigger,
Gerth. Voi portate la ragazzina alla nave ed
aspettate lì. Meno gente c’è in giro per questi maledetti corridoi e meglio mi
sentirò.»
«Ricevuto,
Capitano. Ci muoviamo subito».
Chiusa
la conversazione, Jacob e Amanda si prepararono a muovere per fare ritorno
all’hangar, ma come fecero per percorrere il tragitto inverso altri rumori
presero a giungere, minacciosi e sempre più vicini, dalla porta chiusa da cui
erano venuti, lasciando entrambi impietriti.
Di
nuovo, Hilda si bloccò per la paura nascondendosi
dietro ad Amanda, che cercava di farsi forza se non altro per non spaventare
ulteriormente la bambina.
«Ulrich» sussurrò Jacob alla radio. «Ci sono altre vie per
uscire da qui?»
«C’è una
porta di servizio tra l’atrio e l’ingresso dal cinema, e un’altra che porta
alla balconata e alla cabina di proiezione.»
«Qual è
la più breve per arrivare alla nave?»
«La
porta di servizio. Proseguite lungo il corridoio che troverete fino alla scala
dell’equipaggio trentatre, scendete fino al ponte K, procedete dritti e ci
siete.»
«Muoviamoci,
Gerth».
Non
riuscirono neanche a muovere un passo, che all’improvviso le porte vennero
letteralmente sfondate, e un vero esercito di EDA simili a quella che avevano
abbattuto fece irruzione nel salone strillando e lanciando assordanti stridii.
Indossavano
abiti da sera, vestaglie da notte della migliore fattura, ma anche uniformi da
mozzi, camerieri e inservienti.
«Fuoco!».
Amanda
non aveva mai sparato, non contro bersagli mobili, e la sua mira era piuttosto
imprecisa, e contro una simile ora di nemici non c’era molto che Jacob da solo
potesse fare, pur con tutto il suo talento.
Purtroppo,
quello del mostro-cameriera non si stava rivelando un caso isolato; quelle
dannate bestie erano terribilmente coriacee, e neanche una scarica in pieno
petto bastava a fermarli; inoltre, quei pochi che morivano, come la prima che i
due agenti avevano abbattuto finivano in polvere subito dopo essere spirati, il
che era quantomeno insolito.
Se c’era
una cosa che gli EDA non facevano mai, questa era senza dubbio l’assomigliarsi
tra loro, eccezion fatta ovviamente per il comportamento aggressivo e l’istinto
di nutrirsi; gli EDA erano un po’ come gli umani, simili ed insieme diversi.
Ognuno aveva un proprio aspetto e delle proprie capacità che seguitavano a
rimanere anche dopo la trasformazione, ma non esisteva che manifestassero gli
stessi poteri, non in numero così elevato e tutti insieme.
Poi,per caso, accadde qualcosa; esaurito
l’ennesimo caricatore, Jacob ne infilò un altro, e alzata velocemente l’arma
centrò d’istinto il mostro più vicino proprio in mezzo alla fronte. Di solito
fronte e testa non erano bersagli appetibili quando si aveva a che fare con
un’EDA, ma quello invece rimase morto per terra subito dopo aver preso il
colpo, incenerendosi.
«La testa…» mormorò, ed un secondo colpo piazzato allo stesso
modo gli confermò di aver capito. «Amanda, tira alla testa!».
La
ragazza puntò un nemico, cercando di controllare il tremore della mano, prese
la mira, e sparò; non un colpo preciso come quello del suo superiore, ma
l’anziana donna in abito nero che riuscì a trapassare poco sopra l’occhio seguì
la stessa sorte di tutti gli altri.
Purtroppo,
anche così, la situazione rimaneva drammatica.
Per
tentare di arrestare l’avanzata dei nemici Amanda usò la sua magia per
materializzare una serie di pareti invisibili alte e strette, che come enormi
tessere del domino svettavano qua e là costringendo gli assalitori a lunghi
giri che li rendevano dei facili bersagli; un mago di classe elevata avrebbe
semplicemente eretto un unico, grande muro per creare una difesa assoluta, ma
lei purtroppo non era ancora così brava da realizzare un simile incantesimo
protettivo.
Il
problema restava raggiungere le porte del cinema, da cui non uscivano nemici ma
che si trovavano dalla parte opposta della sala, impresa tutt’altro che facile
con tutti quegli EDA che non smettevano di arrivare.
Jacob
esitò, mordendosi le labbra, ma Amanda era preda a tal punto dell’ansia e
dell’istinto incontrollabile di continuare a sparare che non se ne accorse.
«Amanda,
ora ascoltami!» le urlò con tono di ordine. «Al mio segnale, prendi la bambina
e corri verso l’uscita! Io ti coprirò la fuga!»
«Che
cosa!?»
«Non
temere, non ti inseguiranno! Questi animali attaccano sempre per primo chi ritengono
più pericoloso! Non sparare e ti lasceranno scappare!»
«E tu
cosa farai?» domandò lei guardandolo atterrita
«Non
temere, me la caverò! Sono uscito da situazioni peggiori di questa!»
«Non
puoi chiedermi di abbandonarti!»
«Questa
non è una richiesta, è un ordine di un tuo superiore!» le sbraitò contro Jacob
quasi spaventandola. «Quindi piantala di fare l’eroina e ubbidisci! La salvezza
dei civili viene prima di tutto!».
Amanda
si bloccò, fulminata dall’ultima frase.
Era un
concetto quello che fin dal giorno in cui aveva indossato la divisa per la
prima volta le era stato ripetuto fino alla noia, ma di cui solo in quel
momento iniziò a capire il vero significato.
Salvezza
dei civili spesso, per non dire sempre, significava rischio personale.
Ma
Jacob, si risolse a pensare la ragazza, aveva ragione.
Non le
piaceva l’idea di abbandonarlo, ma d’altronde la vita di Hilda
aveva la priorità, come quella di qualunque altro civile che avessero
eventualmente incontrato da lì in avanti.
«D’accordo»
disse risoluta, ricevendo in risposta un sorriso soddisfatto.
Gli EDA
potevano pure essere poco più che animali, ma non erano immuni ad alcune delle
debolezze tipiche degli esseri umani. Così, quando Jacob fece esplodere in
mezzo a loro una granata stordente dopo averla fatta rotolare sul pavimento i
mostri, storditi dal fumo, dal frastuono assordante e dalla forte luce,
rimasero disorientati, raggomitolandosi a terra con le mani sulla testa.
«Vai!».
Amanda
afferrò Hilda, e assieme a lei riuscì a passare in
mezzo a quelle creature senza che queste quasi se ne accorgessero, e quando la
situazione si fu acquietata nella stanza, come potenziale preda, gli EDA
trovarono solo Jacob, che li fissava sornione con il mitra sollevato.
«Certo
che è stata proprio una gran bella idea».
Le
pareti magiche erano ancora attive, ma ora che la loro creatrice se n’era
andata erano destinate a sparire in breve tempo.
In ogni
caso, Jacob non aveva alcuna intenzione di fare il martire; fino a che fosse
stato possibile, avrebbe fatto quanto era in suo potere per riportare a casa la
pelle e garantirsi un altro giorno di vita.
Provò a
raggiungere la sala cinema, ma trovatosi la strada bloccata dall’arrivo di un
nuovo gruppo di nemici non ebbe altra scelta che rifugiarsi dietro al bancone
del bar, da dove prese a scaricare sugli EDA tutto quello che aveva facendone
strage.
Sfortunatamente,
per quanti ne uccidesse, continuavano ad arrivarne, e ogni volta che ne
abbatteva uno la reazione degli altri si faceva sempre più rabbiosa. Oltretutto
vista la loro agilità colpirli era parecchio complicato, e con la testa come
unico punto vulnerabile persino un tiratore esperto come “trigger” aveva le sue
belle difficoltà ad andare a segno.
Come
ultima linea di difesa, Jacob ripiegò verso la porta da cui era uscito il primo
EDA, confidando nella strettoia così creatasi per impostare una resistenza che
si faceva disperata; sperava che gli assalitori, notando la grande potenza di
fuoco e pericolosità della loro preda, finissero per desistere, o che lì dentro
vi fosse una grata, uno spiraglio, una buca per cani da cui sgattaiolare via,
ma quando, infilata una mano nella borsa, si trovò ad inserire il suo ultimo
caricatore per il fucile d’assalto, cominciò a temere che quella fosse davvero
la fine.
Oltretutto,
poco prima che riuscisse a rifugiarsi in quello stanzino, uno di quei mostri lo
aveva morso ad un braccio, riuscendo ad azzannargli la pelle nonostante la tuta
protettiva, una ferita non seria ma che rendeva le cose ancor più complicate.
«Di bene
in meglio».
Di certo
non sarebbe caduto senza combattere; nella peggiore delle ipotesi poteva fare
ricorso al machete, oppure alla granata ad alta frammentazione, l’arma per i
casi di emergenza assoluta, ma così potente che in un ambiente tanto ristretto
e pieno di sostanze infiammabili probabilmente avrebbe polverizzato anche lui.
Di certo, non si sarebbe lasciato mangiare.
Aveva
infilato il caricatore, ed era pronto a sparare, quando l’EDA che era sul punto
di irrompere nella cucina alla testa del gruppo cadde a terra centrato alle
spalle in piena nuca. Altri lo seguirono, colpiti con letale precisione, e
alzato lo sguardo oltre la porta Jacob poté scorgere, con sua grande gioia, una
figura amica in piedi sulla balconata.
«Serve
aiuto?» domandò Vincent ammiccandogli, per poi infilare nuovamente l’occhio nel
mirino del suo fucile e riprendere a mietere avversari.
Sotto il
fuoco incrociato dei due agenti gli EDA fecero la fine dei topi in trappola, e
complice anche una granata piazzata nel punto giusto dopo pochi minuti non ne
rimase nemmeno uno; Vincent a quel punto saltò giù dalla balconata, riunendosi
all’amico nel centro dell’atrio.
«E con
questa, direi che siamo pari. Ora la smetterai di rinfacciarmi quella volta
nella vecchia fabbrica al porto, voglio sperare.»
«Può
darsi» replicò Jacob ricordando l’incidente in questione. «Non dovevi essere
con Drassimovic?»
«Il
piccolo nerd se la caverà anche da solo. E poi, con l’ascensore bloccato e le
porte sprangate, laggiù è più al sicuro che in una fortezza.»
«Guarda
che ti ho sentito.» disse l’interessato via radio
«Com’è
la situazione?»
«Da
schifo. La nave è infestata di quei cosi. È solo per un mezzo miracolo che sono
arrivato qui senza rimetterci la pelle.»
«Avresti
anche renderci partecipi di questa tua scoperta.»
«Lo
avrei fatto, ma il mio primo incontro con questi bastardi è stato piuttosto… ravvicinato.
Per
fortuna ci ho rimesso solo la radio, invece dell’orecchio.»
«Ulrich, puoi fare qualcosa per noi?»
«Appena
sarò riuscito a lanciare il satellite, proverò a ripristinare il sistema di
videosorveglianza. In questo modo avremo un’idea chiara di quali siano i
settori compromessi.»
«Una
cosa è certa, di quei cosi ce ne sono in giro a centinaia.» disse Vincent
«Comincio a pensare che su questa nave non ci sia più nessuno vivo.»
«Non
direi» replicò Ulrich. «Ho appena ricevuto un
segnale. Sembrava una richiesta di aiuto. Proviene dall’infermeria. Potrebbe
esserci qualcuno ancora vivo laggiù».
I due
agenti si guardarono tra di loro.
«L’infermeria,
dici?» disse Jacob. «E dove si trova?»
«Ponte C,
zona centrale.»
«Non
sarà un viaggio da poco» commentò Vincent. «Sarà anche a questo livello, ma si
tratta di attraversare quasi metà della nave.»
«Beh»
replicò Jacob facendo scattare la rotaia del fucile. «È il nostro lavoro.»
«Ben
detto» e i due si avviarono insieme.
Seguendo le indicazioni di Ulrich, e cercando di non guardarsi indietro, Amanda
raggiunse la rampa di scale.
Hilda
camminava accanto a lei, tenendole forte la mano, anche se la paura di poco
prima sembrava essere passata, messa a tacere dall’apparente coraggio e forza
di volontà della sua salvatrice.
«Non
temere» continuava a dirle Amanda. «Ci sono io qui con te. Ti porterò in
salvo».
Purtroppo,
scese fino al primo ponte stiva, dovettero bloccarsi, perché da più in basso,
anche senza tendere l’orecchio, presero a giungere rumori inquietanti.
Amanda
mise per scrupolo una mano sulla bocca di Hilda e
gettò silenziosamente uno sguardo nella tromba, scorgendo nitidamente alcune
ombre che si movevano nei livelli inferiori.
Probabilmente
non le avevano viste né sentite, ma scendere ancora di più era troppo
rischioso.
«E
adesso cosa facciamo?» domandò Hilda, tesa ma non per
questo spaventata.
Per
trovare una risposta, Amanda si collegò con Ulrich.
«Ulrich, siamo all’ingresso del Ponte G» sussurrò. «La scala
è compromessa. Ci serve un’altra strada.»
«Da dove
vi trovate ora, potete uscire sul ponte e usare un’altra scala di servizio.
Purtroppo, gli ascensori di quella zona sono tutti fuori uso».
Amanda
provò a spingere la pesante porta blindata che immetteva al corridoio del
ponte, ma questa non si mosse.
«È
chiusa dall’altro lato.»
«Puoi
sempre far scattare la serratura con la magia.»
«Sbloccare
la serratura!? Ma non l’ho mai fatto.»
«C’è
sempre una prima volta. Del resto, non hai altra scelta».
Hilda, nel
mentre, si guardava attorno, e quando si avvide della presenza di una grata
proprio accanto alla porta le sue labbra si piegarono in un sorriso divertito.
«Lasciate
fare a me» disse, e prima che Amanda potesse fermarla la bambina si era già
infilata nel condotto.
«Hilda, torna subito qui. È pericoloso.»
«Non ti
preoccupare, so badare a me stessa» rispose lei con ritrovato coraggio.
Strisciando
nello stretto pertugio la ragazzina riuscì a scavalcare l’ostacolo, ed
accertatasi, sbirciando oltre la rete, che nel corridoio oltre la porta non vi
fosse alcuna minaccia, sbucò all’esterno, scrollandosi la polvere dai vestiti.
«Amanda.
Sono dall’altra parte. Adesso ti apro.»
«Sbrigati.
Potrebbe essere pericoloso».
Hilda era sul
punto di aprire, quando un rumore proveniente dal buio del corridoio attirò la
sua attenzione, come se qualcosa, o qualcuno, venisse trascinato rumorosamente
sul pavimento metallico, molto diverso da quello elegante e soffice dei ponti
superiori.
«Hilda, che succede?» disse Amanda vedendo che la bambina
esitava ad aprire.
L’attenzione
della piccola, infatti, era stata catturata tutta da quello strano rumore, al
punto che, dando un calcio a tutto il resto, iniziò a farsi strada nella
semi-oscurità per capire da dove provenisse.
Non
aveva paura; anche se si fosse trattato di uno di quei mostri, dal modo in cui
si trascinava doveva essere ridotto in uno stato pietoso, e all’occorrenza
sarebbe sempre potuta scappare.
Ad un
certo punto, una figura iniziò a stagliarsi in lontananza, riversa al suolo
sulla pancia, apparentemente morta.
Sembrava
umana, perché non emetteva gli stessi gemiti di quelle creature, ma a giudicare
dal suo essere immobile, chiunque fosse, doveva essere già morto, o comunque
molto malridotto.
Hilda
continuò ad avvicinarsi, pronta a scattare all’indietro al minimo segno di
vita, ma quando riconobbe in quella figura senza vita apparente una rada
capigliatura castana, un naso un po’ pronunciato, e soprattutto un anello d’argento
con un rubino all’anulare, nei suoi occhi, al posto della curiosità, apparve
nuovamente la paura.
«Papà!»
esclamò.
Istintivamente
corse verso di lui, inginocchiandosi nel tentativo di aiutarlo, ma appena lo
toccò lo sentì freddo, e duro come la pietra; le gambe, poi, erano ridotte in
uno stato pietoso, completamente disarticolate: doveva essersele rotte cadendo
da qualche scala. Inoltre, i vestiti erano insanguinati in più punti.
Hilda lo
scosse, violentemente, ma lui non si mosse, e allora gli occhi della piccola si
riempirono di lacrime.
«Papà…».
Poi
però, come per incanto, ebbe la sensazione che le palpebre si fossero mosse, e
il suo cuore per un attimo tornò a sperare. Una speranza che si infranse come
un cristallo quando il conte BalthusWeilmann, spalancati i suoi occhi bianchissimi e lanciando
un gemito agghiacciante, allungò violentemente un braccio verso Hilda, che terrorizzata d’istinto si buttò all’indietro
riuscendo a non farsi afferrare.
Nel
mentre, Amanda era ancora dietro la porta, sempre più preoccupata, ma quando
all’improvviso dalla parte opposta giunse un grido di terrore il cuore quasi le
si fermò in petto.
«Hilda! Hilda!».
I
mostri, di sotto, la sentirono, e come lupi attratti dal sangue presero a
salire rapidamente le scale, dritti verso la preda.
La
ragazza guardò la serratura, che sembrava quasi volerla sfidare, quindi vi
appoggiò lentamente sopra una mano, che appena entrata a contatto con il freddo
metallo si circondò di luce.
«Resisti,
piccola! Sto arrivando!».
Hilda si fece
indietro, sconvolta nel vedere il proprio genitore che, non potendo alzarsi per
le gambe rotte, le si faceva incontro strisciando a terra come moribondo.
«Papà!»
piangeva. «Sono io! Sono Hilda!».
Il suo
gattonare stentato si concluse inevitabilmente contro la parete, contro la
quale rimase bloccata, immobile per il terrore, i denti serrati e gli occhi
spalancati in direzione di quella cosa che continuava ad avvicinarsi.
L’EDA,
forse odorando la paura della sua preda, usò le poche forze residue per
compiere un piccolo balzo, riuscendo ad afferrare una gamba della bambina, che
prese a tirare verso di sé.
«Papà,
smettila!» urlò Hilda afferrandosi ad un tubo e
tirando calci nel tentativo di liberarsi. «Ti prego! Non farlo!».
Ogni
urlo che giungeva dall’altra parte era per Amanda come un colpo al cuore, così
come il rumore sempre più vicino degli EDA lungo la scala, ma fece
l’impossibile perché quella situazione non pregiudicasse il suo lavoro.
Come i
tentacoli di una piovra, filamenti di luce si incunearono in tutti gli angoli
della serratura, afferrarono il meccanismo, e, dopo qualche tentativo,
riuscirono a farlo saltare.
Amanda
si gettò oltre la porta, ricordandosi istintivamente di chiuderla giusto in
tempo per non venire travolta dai mostri, e accortasi di quello che stava
succedendo corse senza esitazioni incontro ad Hilda
con la pistola già in mano.
«Lasciala!»
urlò allontanando l’aggressore con un calcio che lo scaraventò lontano.
Quello,
già provato, accusò pesantemente il colpo; ma ci voleva ben altro per
ucciderlo, e senza esitazioni Amanda puntò l’arma contro di lui, venendo però
incredibilmente bloccata proprio da Hilda.
«Non
farlo!» pianse la bambina afferrandole il braccio «Quello è il mio papà!».
Sconvolta,
Amanda esitò per un istante, ma quando il mostro, ripresosi, tentò di aggredire
tutte e due, la ragazza sparò un po’ per istinto e un po’ per volontà propria,
realizzando uno dei suoi centri migliori che non lasciò scampo all’EDA.
«Papà!».
Amanda
bloccò Hilda, nel timore che quella cosa maledetta
non fosse realmente morta, ma anche dopo che l’EDA come gli altri si fu
incenerito la bambina seguitò a piangere e dimenarsi, urlando alla ragazza di
avere ucciso il suo papà.
«Hilda ascoltami. Ascoltami!».
Lei,
scossa, la guardò con gli occhi lucidi e l’espressione stupita.
«Hilda. Quello non era più il tuo papà. Il tuo papà è morto,
e al suo posto è nato quel mostro».
Dentro
di sé la bambina lo sapeva, perché altrimenti l’istinto non le avrebbe permesso
di sopravvivere; ma d’altro canto, accettarlo non era facile. Prima aveva visto
morire la sua mamma, e ora anche il suo papà.
Era
sola.
E
allora, non riuscì a non lasciarsi sopraffare dal pianto, abbandonandosi di
nuovo sul seno di Amanda, la prima cosa calda ed amorevole che le riusciva di
sentire da quattro giorni a quella parte.
«Mi
dispiace, piccola. Ma ti prometto che quando tutto questo sarà finito,
costruiremo insieme una tomba per il tuo papà».
Poi,
Amanda si avvide che l’anello, a differenza dei vestiti, era sopravvissuto,
forse perché l’argento era notoriamente un materiale molto sensibile alla
magia, ed immune a molti dei suoi effetti più nocivi. Lo raccolse, infilandovi
dentro un pezzetto del filo universale che aveva con sé, e sotto lo sguardo
incredulo di Hilda glielo mise al collo.
«E
comunque, in qualche modo, il tuo papà, quello vero, sarà sempre con te.»
«Tu… lo credi davvero?» disse Hilda
sorpresa e smettendo di piangere.
«Ne sono
sicura. Ora forza. Presto sarà tutto finito».
Presesi
per mano, ripresero a correre.
Se avesse saputo che la
cosa avrebbe assunto dei contorni così drammatici, Georg ci avrebbe pensato due
volte prima di portare i ragazzi della scuola a bordo di quella nave maledetta.
Contrastare
gli EDA e affrontare situazioni pericolose era ciò per cui li stava
addestrando, ma quello era un caso di alta emergenza, oltre che anomalo, per il
quale persino lui non era certo di essere pronto.
Klaus
dal canto suo cercava di mostrarsi forte e risoluto, ma si vedeva che anche lui
era nervoso.
«Nervi
saldi, ragazzo» gli disse vedendolo guardarsi attorno con l’arma sempre pronta
a sparare. «Quei cosi saranno anche tanti, ma sono anche stupidi. Li sentiremo
arrivare.»
«Non
riesco a capire. Perché non li abbiamo visti arrivando? Abbiamo attraversato
mezza nave senza incontrarli.»
«Perché
probabilmente erano stati isolati con la chiusura delle porte di sicurezza.
Aprendole, senza volerlo li abbiamo liberati.»
«Mi
dispiace, signore.» disse Ulrich via radio «È colpa
mia.»
«Niente
affatto. Ho dato io l’autorizzazione.»
«Un
momento» intervenne Klaus. «Se davvero qualcuno ha cercato di isolarli…»
«Esatto.
È probabile che a bordo di sia qualcun altro oltre a quella ragazzina».
Il
cammino dei due agenti proseguì fino ad una biforcazione a T, con il loro
corridoio che proseguiva verso il fondo della nave ed un altro che invece,
stando ai cartelli, conduceva alle cambuse e alle zone di stoccaggio delle
merci.
Georg e
Klaus fecero per tirare dritto, se non che nell’istante in cui ebbero il
corridoio diretto alle cambuse alla propria sinistra dal buio il Capitano vide
sbucare, dritta sull’orecchio di Klaus, la luce rossa di un mirino al laser.
«Attento!».
Si buttarono
entrambi a terra, giusto in tempo per evitare una fucilata e le raffiche di
almeno due armi automatiche, schiacciandosi contro le pareti.
«Cessate
il fuoco! Siamo amici!».
Seguirono
attimi di interminabile silenzio, poi una voce giunse dal buio.
Dall’ombra, camminando
lentamente e a sguardo basso, arrivarono tre uomini, di cui due in abiti civili
ed uno con una uniforme da inserviente, forse un cameriere.
Erano
tutti e tre armati, ma tenevano le loro armi come veri e propri dilettanti;
solo l’inserviente, giovane e dai capelli scuri, sembrava avere una qualche
familiarità con il volture che aveva tra le mani.
Georg e
Klaus gli si fecero incontro.
«Capitano
Klopfer, forze speciali d’intervento.»
«Raoul
Montero» disse l’inserviente. «Aiuto cameriere. Lieta di vederla, Capitano.
Siete una gioia per gli occhi.»
«Sei un
soldato?»
«Quasi,
signore. Tre anni nella Guardia Nazionale di Ebridan.»
«Spari
un po’ troppo alla leggera per essere uno che dovrebbe avere dimestichezza con le
armi» protestò Klaus. «Ecco cosa succede a mettere un fucile nelle mani di un
soldato a chiamata.»
«Mi
dispiace. Credevamo che foste alcuni di quei maledetti mostri. Da queste parti
ne sono arrivati di continuo per giorni.»
«Per
quale motivo?»
«Ci sono
dei sopravvissuti qui vicino, nelle cambuse. Quei bastardi probabilmente ne
sentono l’odore. Poi le porte si sono bloccate, la corrente è andata via del
tutto, e non sono più arrivati.»
«È colpa
nostra» rispose Georg quasi mortificato. «Riattivando la corrente abbiamo anche
aperto le porte.»
«Non si
preoccupi. Anzi, ci avete fatto un grosso favore. Quaggiù forse eravamo al
sicuro, ma eravamo anche prigionieri. Almeno ora possiamo muoverci di nuovo.»
«Che
cosa ci fate qui?»
«Quando
è tornata la luce, abbiamo pensato che poteva essere qualcuno venuto da fuori
per cercarci, e che era meglio farci trovare. Noi tre eravamo gli unici ad
avere dimestichezza con le armi, e io conosco la nave, così ci siamo offerti di
venirvi incontro».
I due
interessati a quel punto si presentarono.
«Philippe
Reynar. Cacciatore a tempo perso. Per servirvi.»
«Lou
Wong, signore. Sono vice-Comandante dei vigili del fuoco a Holsted.»
«Io a te
ti conosco.» disse Klaus all’indirizzo di Philippe
«Me lo
dicono in tanti.» sorrise l’interessato
«Quanti
superstiti ci sono in quelle cambuse?» interruppe Georg
«In
tutto, quattrocentotrentanove» rispose Raoul «Duecentoquattro uomini,
centosettantanove donne e cinquantasei tra bambini e ragazzi.
Tutti
quelli che siamo riusciti a mettere insieme e a portare qui prima che le porte
si bloccassero.»
«Ci sono
feriti?»
«Contusioni,
distorsioni e altre cose del genere. Quelli che erano stati assaliti da quelle
creature non ci siamo fidati a portarli con noi. La maggior parte di coloro che
vengono morsi alla fine muore, e chi muore poi spesso ritorna come uno di loro.»
«Avete
corso un bel rischio avventurandovi qua fuori. Per fortuna questa zona non è
stata ancora raggiunta dagli EDA. E con un po’ di fortuna, non lo sarà mai».
Georg si
mise allora in contatto con Ulrich.
«Drassimovic,
puoi isolare la zona delle cambuse?»
«Non
completamente, ma posso creare una serie di strozzature e di occlusioni
bloccando alcune porte.»
«Bene,
fallo.»
«Seguiteci»
disse Raoul «Vi portiamo al rifugio».
I tre superstiti condussero
allora Georg e Klaus attraverso il corridoio, volutamente ricoperto di casse,
fusti e ogni altro genere di ostacolo per rendere la vita difficile a qualunque
assalitore, al termine del quale vi era un ampio portone.
«Solo un
istante» disse Raoul rimuovendo uno ad uno dei chiavistelli artigianali che
impedivano l’attivazione del congegno di apertura automatica. «Prima che la
corrente andasse via del tutto bloccando le porte, abbiamo pensato di
rinforzarla. Non è il massimo della praticità, ma dovrebbe funzionare».
In
effetti servì la forza di tutti e tre per riuscire a togliere quei cardini così
pesanti, e appena la porta, liberata dai fermi, si aprì con uno scatto, tanto
che Raoul dovette afferrarla per evitare che il contraccolpo fosse tale da far
saltare il meccanismo, lo sguardo dei due soldati si aprì su di una sala molto
ampia, con un’alta volta, una forma quasi perfettamente circolare e un diametro
di almeno una quindicina di metri.
Sicuramente
un crocevia, a giudicare dalle molte altre porte poste ad uguale distanza l’una
dall’altra, tutte sprangate; le uniche aperte erano quelle che conducevano alla
cambusa vera e ai servizi igienici, che a giudicare dall’odore dovevano aver
lavorato a pieno regime negli ultimi giorni. A questo si aggiungeva anche
l’olezzo di fumo, di cui la stanza era peraltro satura, prodotto dai bivacchi e
dalle torce di fortuna per riscaldare e fare un po’ di luce.
Qua e là
si innalzavano mucchi casse contenenti generi alimentari di vario genere,
soprattutto scatolette, ed era stato organizzato in un angolo un centro di
distribuzione; inoltre, più di uno era armato, anche se si trattava perlopiù di
armi di piccolo calibro non particolarmente pericolose.
Nel
vedere arrivare Georg e Klaus, col gagliardetto della MABben visibile sulle tute, gli occhi di molti
superstiti si accesero di meraviglia.
«Beh…»
disse Raoul quasi sconsolato. «Benvenuti».
La gente
si alzò, formando un semicerchio attorno ai due agenti.
«Sono il
Capitano Georg Klopfer. Forze speciali di intervento. Siamo qui per aiutarvi».
Un uomo
sulla quarantina, pizzetto e baffi ben curati, si fece avanti con fare
piuttosto arrogante.
«Finalmente,
era ora. Aspettavate un invito in carta bollata?»
«Lei non
cominci come al solito, signor Song.» lo ammonì Raoul
«Richard Song!?» disse Klaus stupito. «Il giocatore professionista?»
«In
carne ed ossa, ragazzino.»
«Ho
seguito la sua partita contro Draxler Yale su internet. Una finale fenomenale.»
«Sì, sì,
commovente. Gli autografi a dopo. Ora per favore vi dispiacerebbe farci uscire
da questa nave maledetta?».
Georg
però parlò come se non lo avesse sentito, e la cosa non fece visibilmente
piacere al diretto interessato.
«Ci sono
ufficiali tra di voi?»
«No,
signore» rispose sempre Raoul. «Di ufficiali c’era solo il Comandante in
Seconda Shawn. Si è avventurato nel cuore della nave tempo fa per cercare altri
superstiti e provare a rimettere in moto la nave, ma non è più tornato.»
«Abbiamo
bisogno di sapere con esattezza cos’è successo. Qualcuno sa come abbiano fatto
quegli EDA ad arrivare a bordo del Megonia?»
«Tutto
quello che sappiamo è che sono comparsi all’improvviso in vari punti della
nave. Centinaia, forse anche di più. È successo proprio durante la Nascita di
Venere. Io e alcuni altri ci siamo fatti strada fino a qui, e lungo il tragitto
abbiamo raccolto quanti più sopravvissuti possibili. Poi, dopo qualche ora, le
porte stagne d’emergenza si sono chiuse e siamo rimasti intrappolati.»
«Avete
idea del perché si siano chiuse?»
«Probabilmente
è stato fatto da qualcuno. A quanto ne so, le porte possono essere chiuse solo
dal ponte di comando o dal nucleo di memoria.»
«Le armi
come ve le siete procurate?»
«C’è un
piccolo arsenale nei ponti inferiori. Una contromisura per difendersi dai
pirati. La sicurezza ha tentato di contrastare gli EDA appena sono comparsi, ma
sono stati travolti. Abbiamo trovato queste armi in giro per la nave.»
«Pensate
sia possibile raggiungere l’armeria?»
«Ne
dubito. Chi veniva da laggiù ha detto che quei ponti erano infestati.»
«Capisco».
Georg si
guardò attorno, raccogliendo gli sguardi supplichevoli, confusi o spaventati
dei sopravvissuti, quindi, chiamato a sé tutto il carisma di cui disponeva,
parlò ad alta voce.
«Allora,
signori. Statemi a sentire.
È
evidente che la situazione a bordo del Megonia è assai più grave di quanto noi
stessi avessimo preventivato.
Ci
aspettavamo che aveste bisogno del nostro intervento, ma è chiaro che questa
nave deve essere assolutamente evacuata il prima possibile».
In molti
sorrisero, pensando già all’imminente fine di quell’incubo, ma le successive
parole tramutarono i sorrisi in moti di sgomento.
«Tuttavia,
non sarà per niente facile. Noi siamo solo in otto, ed è altamente probabile
che il numero degli ostili superi abbondantemente il migliaio di unità.
Inoltre, questo è un tipo di emergenza EDA assolutamente fuori dal comune, come
non ne sono mai state affrontate.
Ragion
per cui, prima di fare qualunque cosa, sarà necessario mettersi in contatto con
la superficie, e ricevere da loro le dovute disposizioni, oltre ai rinforzi
necessari per contenere la minaccia costituita dagli EDA e garantirci una
evacuazione sicura.»
«Come
sarebbe a dire!?» esclamò Ashley Tunderscott. «State dicendo che non ci
porterete in salvo?»
«Purtroppo,
al momento io e la mia squadra non abbiamo i mezzi per poter garantire la
vostra incolumità.
Quelle
creature sono estremamente pericolose, e il loro alto numero costituisce una
ulteriore minaccia.»
«Tutte
balle!» sbottò Song. «Le scialuppe di salvataggio sono solo due ponti più in
alto. Non ci vorrebbe niente per raggiungerle.»
«Forse
lei si dimentica che qui dentro siamo più di quattrocento» rispose gentilmente
ma fermo il signor Gullit. «Crede sul serio che riusciremmo ad arrivare tutti
quanti sani e salvi alle scialuppe? Gli EDA sono attratti dal calore e
dall’odore del sangue. Ci sarebbero addosso prima ancora di poter superare un
ponte, figuriamoci due.»
«Stiamo
cercando di metterci in contatto con la superficie» disse ancora Georg per
tranquillizzare la gente. «Quando ci saremo riusciti, comunicheremo la
situazione e richiederemo rinforzi.
Si
tratta di pazientare solo qualche altra ora. Qui dentro è sicuro, e ci sono
provviste a sufficienza. Ora barricheremo di nuovo la porta, quindi ci
chiuderemo dentro ed aspetteremo gli aiuti».
La
maggior parte dei presenti rispose con pessimismo ed evidente delusione alle
rassicurazioni del Capitano, e ognuno tornò a pensare ai fatti propri mentre
l’aria si caricava di un’atmosfera poco piacevole, faticosamente contenuta da
chi cercava di vedere positivo e contagiare gli altri con il proprio ottimismo.
«Ulrich,
a che punto sei con quel collegamento?»
«Ci sono
quasi, Capitano. Ancora un lucchetto, e potrò lanciare il satellite.»
«D’accordo.
A tutta la squadra, cambio di programma. Portate tutti i superstiti che trovate
nella zona cambuse nel Ponte K».
Tutti
risposero affermativamente, tranne Mayu che rimase in silenzio.
«Marufuji,
mi ricevi? Marufuji, rispondimi.»
«Che
succede, Capitano?»
«Mayu
non mi risponde. Spero non le sia accaduto nulla».
Klaus
allora prese da parte il Capitano, guardandolo quasi con severità.
«Non gli
ha detto della questione relativa all’attrazione gravitazionale di Neos.»
«Hai
intenzione di far scoppiare una rivolta? I nervi sono già tesi. Più a lungo
riusciamo a tenere calma questa massa di civili terrorizzati, meglio sarà. Un
uomo sopraffatto dalla paura è capace di tutto, dovresti saperlo.»
«Il
fatto è che il tempo non è dalla nostra. Anche ammesso che mandino una
spedizione di soccorso…»
«Non
fasciarti la testa prima di essertela rotta, ragazzo. Chi comanda non deve mai
lasciarsi andare al pessimismo.
Se il Comandante
esita, lo faranno anche i suoi uomini.
Ricorda.
Il Comandante deve sapere sempre cosa fare».
In
quella il Capitano si avvide della presenza di una donna accanto a lui,
piuttosto giovane ed attraente, ma segnata come gli altri da giorni di orrore e
privazioni.
«Vi
prego, dovete aiutarmi» disse con le mani giunte e lo sguardo supplichevole.
«Ho perso mia figlia e mio marito durante la fuga.
Mio
marito porta un anello con un rubino, mia figlia invece ha i capelli biondi e
indossa un vestito verde.
Dovete
trovarli, vi supplico. Loro sono tutta la mia vita».
Klaus e
Georg si guardarono tra di loro, annuendo.
«Sua
figlia per caso si chiama Hilda?» domandò Klaus.
Alla
donna si illuminarono gli occhi.
«L’avete
trovata?»
«Può
stare tranquilla, è sana e salva» la rassicurò il Capitano. «È con uno dei
nostri agenti.»
«Sia
ringraziato il cielo».
Era stata una gran bella
fatica, ma finalmente Ulrich era riuscito a violare il sistema di controllo dei
satelliti “tascabili”, o almeno dell’ultimo ancora operativo.
«Niente
di che» mentì a sé stesso. «Ma il difficile arriva adesso».
La mappa
stellare comparve sul monitor principale, e sulla fusoliera del Megonia,
all’altezza della base della torre di comando, si aprì una piccola botola,
dalla quale, con una vampata di fuoco e di plasma, schizzò fuori una sfera
metallica poco più grande di un’autovettura.
I
piccoli razzi direzionali montati nel guscio che proteggeva il satellite ne
permettevano un rudimentale controllo, ma non era per niente facile riuscire a
farlo muovere in mezzo ad una tale quantità di detriti spaziali, tanto che
persino Ulrich dopo poco prese a sudare.
«Così»
continuava a ripetere, la lingua tra i denti e le tempie rigate dal sudore,
maneggiando il joystick di controllo. «Piano. Piano. Sei bravissima, bella» e
intanto teneva d’occhio le scansioni del radiofaro che mostravano la potenza
del segnale, ancora assente.
Un piccolo
asteroide per poco non polverizzò la sfera, che Ulrich riuscì fortunatamente a
far virare all’ultimo secondo, un altro detrito colpì la superficie senza però
incrinarla, ma a parte questi piccoli inconvenienti il volo proseguì senza
problemi.
La sfera
volò dritta dinnanzi a sé, allontanandosi sempre di più dal Megonia, e in pochi
minuti uscì dalla zona oscura; ma del segnale, neanche l’ombra.
Poi, da
un momento all’altro, l’indicatore si accese come una città al tramonto.
«Beccato!».
La
sfera, giunta a centoventimila chilometri dal Megona, si fermò, aprendosi come
un fiore e rivelando il cuore pulsante del satellite, di cui la protezione
esterna altro non era che l’antenna vera e propria, che si completò
congiungendo ad ombrello i cinque petali.
Ulrich aprì
la comunicazione, impostando la traiettoria del segnale verso la stazione
orbitale.
«Qui
Ulrich Drassimovic. Otto-uno-quattro-cinque-due. Ares, mi ricevete?».
Nessuno
rispose. Ma il giovane non si diede per vinto.
«Qui
Ulrich Drassimovic. Otto-uno-quattro-cinque-due. Squadra Speciale d’Intervento.
Ares, mi ricevete?».
Il Direttore Shane stava
pranzando da solo nel suo studio, un pasto veloce prima di rimettersi al lavoro,
quando giunse la notizia che qualcuno si stava mettendo in contatto con la
stazione da coordinate riconducibili alla posizione attuale del Megonia.
Mollata
l’insalata, corse in sala comunicazioni.
«Avete
intercettato la comunicazione?»
«Ci
stiamo provando» disse uno degli operatori. «Il segnale è molto disturbato per
colpa delle radiazioni».
Dopo
poco, sul proiettore virtuale al centro della stanza, cominciò ad intravedersi
qualcosa, e a sentire delle parole gracchianti e distorte.
«Qui …
Drassimovic. Otto … cinque-due. Squadra …. vento. Ares, mi ricevete?»
«Ecco,
ci siamo! Provo a pulirla!».
Un'altra
correzione dell’antenna, e finalmente il volto del soldato scelto Drassimovic
comparve all’interno del monitor, e la sua voce risuonò molto più nitida.
«Qui
Ulrich Drassimovic. Otto-uno-quattro-cinque-due. Squadra Speciale d’Intervento.
Ares, mi ricevete?»
«Vi
riceviamo, otto-uno-quattro-cinque-due» disse il Direttore. «Faccia rapporto,
signor Drassimovic. Come procede la missione?»
«Molto
male, signore. Abbiamo un nove-nove-zero in pieno svolgimento a bordo del
Megonia».
Gli
occhi del Direttore si spalancarono, i suoi arti tremarono, e le sue mani si
strinsero con forza attorno all’asta metallica del parapetto.
«Ne
siete sicuri?»
«Abbiamo
già preso contatto con alcuni ostili, signore. Riteniamo ve ne possano essere
diverse centinaia.»
«Oh, mio
Dio.»
«Il Capitano
Klopfer e il resto della squadra hanno trovato dei superstiti, ma al momento ci
è impossibile riuscire ad organizzare in sicurezza la loro estrazione.
Il
rapporto numerico è soverchiante, e la nostra capacità di combattimento limitata.
Necessitiamo
urgentemente di rinforzi».
In
quella, così come era arrivata, l’immagine incominciò a scomparire.
«Che
diavolo succede?» sbraitò il Direttore
«Le
radiazioni stanno aumentando di nuovo!» rispose l’operatore. «Stiamo perdendo
il segnale!»
«Direttore…
bisogno… aiuto… resistere…»
«Cercate
di tenere duro. Mi metto subito in contatto con la superficie. Invieremo i
soccorsi».
In pochi
secondi il segnale sparì del tutto, ma per allora Shane si era già avventato
sul più vicino telefono.
«Sono il
Direttore Shane. Chiamatemi subito il Direttore Generale e il capo dell’Unità
di Crisi. Massima priorità».
Dal
canto suo Ulrich, rimasto di nuovo solo, tentò più volte di ristabilire la
connessione, seguitando anche a parlare nella speranza che almeno la sua voce
riuscisse a passare.
«Direttore,
la prego di inviare subito dei rinforzi. Abbiamo bisogno di tutto l’aiuto
possibile. Non so per quanto riusciremo a resistere.
Direttore,
mi sente? Stazione Ares, riuscite a ricevermi?» ma fu tutto inutile.
Il
livello di radiazioni aveva raggiunto ormai livelli proibitivi, e oltretutto il
segnale emesso dal Megonia arrivava già molto debole al satellite a causa delle
interferenze prodotte dalla Zona Oscura.
Il
giovane non era del tutto sicuro che avessero recepito il messaggio, quindi
bisognava ad ogni costo trovare il modo di ristabilire la comunicazione.
Di
sicuro, sperare di ricontattare la Ares era impossibile, tanto più che entro
poco tempo la stazione sarebbe scomparsa oltre la linea dell’orizzonte, diventando
irraggiungibile.
Ulrich
ci pensò a lungo, indeciso sul da farsi, fino a che non arrivò alla conclusione
che c’era un solo modo per sperare di rimettersi in contatto con l’esterno.
Ma tutto
ciò che era riuscito a fare fino a quel momento era niente in confronto a
quello che lo aspettava, poiché, non avendo i codici di accesso, si trattava di
violare il sistema di sicurezza informatico più impenetrabile di tutta
Celestis.
Una
bella prova, persino per lui.
«L’avevo
detto che sarebbe stata una lunga giornata» disse mettendosi al lavoro.
Quel giorno, l’intero Stato
Maggiore della MAB, con alla testa il Direttore Generale Dylan Geithner, aveva
in programma una visita all’Aurora, la nuova nave ammiraglia dell’aeronautica
dell’agenzia, un piccolo gioiello di tecnologia e innovazione scientifica
equipaggiata con le più moderne tecnologie, sia civili che militari.
La sua
costruzione aveva richiesto tre anni di lavoro, e ora che anche gli ultimi test
erano stati completati molto presto avrebbe iniziato la sua missione di
pattugliamento e contrasto alla pirateria lungo i confini del sistema solare.
Quella
visita serviva proprio a consegnare solennemente alla nave la bandiera di
rappresentanza, e per il tardo pomeriggio era già previsto un volo inaugurale
alla presenza dello Stato Maggiore.
Tutto
attorno, la città di Kyrador continuava imperterrita nel suo processo di
crescita, diventando ogni giorno sempre più splendente e maestosa: la MAB aveva
deciso ormai da quasi un secolo di farne la propria città, visti anche gli
ottimi rapporti che legavano l’Agenzia alla Repubblica di Caldesia, e nello
spazio di pochi decenni quella piccola baia nel sud di Erthea si era
trasformata nel centro del mondo.
Nel
centro, scintillanti grattacieli spuntavano come funghi, alcuni già ultimati ed
altri in costruzione, come la impotente e maestosa Union Tower, il futuro
quartier Generale della MAB, tanto voluta dal Direttore Geithner e il cui
completamento era ormai prossimo.
La
visita alla nave era in pieno svolgimento quando arrivò dalla Stazione Ares la
notizia che il Direttore Shane voleva parlare urgentemente con il Direttore
Geithner, e questi, d’accordo con i suoi colleghi, decise di far svolgere
l’incontro proprio nella sala conferenze dell’Aurora.
Tutti si
aspettavano la comunicazione dell’avvenuto raggiungimento del Megonia e della
messa in salvo dei passeggeri, così le notizie che lo Stato Maggiore ricevette
dal Direttore Shane quando fu aperta la comunicazione lasciarono tutti quanti
impietriti.
Quintus
Nolan in particolare appariva piuttosto sconvolto, mentre il Direttore Shane
enunciava a lui e al resto dei presenti quella che ad ogni parola sembrava
tramutarsi sempre di più in una situazione da incubo.
«E
questo è tutto quello che sappiamo?» domandò Geithner, a sua volta preoccupato
«Purtroppo
la comunicazione si è interrotta a causa delle interferenze, signor Direttore. Comunque
ritengo che la stima del Soldato Drassimovic sia attendibile.»
«Come
diavolo è potuto succedere?» mormorò uno. «Migliaia di EDA tutti in una volta.»
«E
abbiamo mandato laggiù dei ragazzi.» disse sospirando il Direttore Generale
«Non
deve sentirsi in colpa, signore. È stata una decisione presa nell’ambito di
questo consiglio. Lei non ha nulla da rimproverarsi.»
«Inoltre»
puntualizzò Nolan, «Si tratta senza ombra di dubbio di una situazione al
limite, oltre che assolutamente imprevedibile. Nessuno di noi poteva immaginare
neanche lontanamente cosa sarebbe successo.»
«Ma sono
io che ho autorizzato la missione. È mia la responsabilità di quello che
potrebbe accadere a quegli allievi.
Li
abbiamo mandati nello spazio perché siano la forza di sicurezza del domani, non
per farli sbranare da un’ora di EDA su una nave infestata» quindi, il Direttore
trasse un lungo respiro. «Dobbiamo aiutarli. Organizziamo subito una spedizione
di soccorso».
I membri
del consiglio si guardarono tra di loro, perplessi e incupiti, quando
all’improvviso il suono di un allarme fece saltare tutti sulle sedie.
«E ora
che succede?»
Il Direttore
Nolan contattò il ponte di comando per avere spiegazioni.
«Signore»
disse facendosi bianco. «Qualcuno sta cercando di entrare nei nostri sistemi
informatici!»
«Che
cosa!?» sbraitò un collega «Ci mancava anche questa! Bloccatelo!».
L’assalto
però fu troppo rapido, e in pochi attimi una parte considerevole di firewall
venne aggirata o sommariamente abbattuta dal misterioso hacker; chiunque fosse,
doveva essere davvero in gamba.
Ad una
potenziale tragedia già in atto rischiava di aggiungersene un’altra, ma
ringraziando al cielo, così come era cominciato, l’attacco cessò prima di
andare a colpire sistemi molto delicati e pericolosi, e dopo poco dal centro di
coordinamento orbitale giunse la notizia che chi aveva violato i sistemi
informatici stava usando il controllo così acquisito per riposizionare tutti i
satelliti dell’Agenzia orbitanti attorno al pianeta.
Un
pensiero illuminò la mente di Shane, e la comparsa sul monitor di una figura
famigliare accanto alla sua confermò i suoi sospetti.
«Chiedo
scusa per il metodo poco ortodosso» si affrettò a dire Ulrich. «Non avevo molto
tempo per fare le cose con delicatezza.»
«Violare
i sistemi informatici MAB và ben oltre la definizione di metodo poco ortodosso,
chiunque tu sia.» lo ammonì Nolan
«È il
soldato scelto Ulrich Drassimovic» lo presentò, quasi con baldanza, il Direttore
Shane. «In collegamento diretto dal Megonia».
Seguì un
moto di stupore, accompagnato da cenni di soddisfazione; se un ragazzo così
giovane era stato in grado di hackerare il più protetto sistema informatico di
Celestis, allora dopotutto i fiumi di soldi spesi nel Progetto Ares non erano
stati sprecati.
«Faccia
rapporto, Agente Drassimovic.» ordinò il Direttore Generale
«Sissignore.
Al momento tutti i membri della squadra sono vivi, e abbiamo localizzato circa
quattrocento superstiti. Si trovano nei livelli inferiori, assieme a due dei
miei compagni tra i quali il Capitano Klopfer.»
«Potete
organizzare un’estrazione.»
«Negativo,
signore. Il numero di ostili è troppo alto per le nostre forze. Sarebbe molto
difficile scortare tutti alle scialuppe, e anche se riuscissimo a farcela ciò
passerebbe senza dubbio per un considerevole numero di vittime.
Per
questo motivo, necessitiamo di rinforzi immediati, e in grande numero».
Di
nuovo, il pessimismo riempì la stanza.
«Il
fatto è, soldato Drassimovic» disse Nolan «Che al momento non abbiamo navi
operative. Anche se ne mettessimo una in stato di massima allerta, ci
vorrebbero ore per radunare gli uomini e farla decollare.»
«Con il
dovuto rispetto, signore, il tempo è un lusso che non abbiamo. Attualmente il
Megonia è fortemente debilitato, e più della metà dei sistemi operativi sono
offline o fuori uso. Di questo passo, stando alle previsioni, ci restano poco
meno di dodici ore prima che l’attrazione di Neos faccia precipitare la nave,
senza contare i molti detriti spaziali che gravitano qui intorno, e che
potrebbero colpirci in qualunque momento.»
«Usiamo
l’Aurora».
Gli
sguardi di tutti puntarono il Direttore Generale, che ricambiò ostentando
un’espressione austera ed irremovibile.
Nolan si
sentì gelare il sangue.
«Signore,
l’Aurora non è ancora del tutto operativa. E poi, è la nostra nave ammiraglia.
Non credo che sia il caso di…»
«Non
abbiamo costruito questa nave per farla sfilare in parata, Direttore Nolan.»
«Ma non
abbiamo personale, Signore.» cercò di protestare un altro
«Saremo
noi il personale. Tutti qui hanno già avuto esperienze in vari settori
dell’aeronautica e della navigazione spaziale. Sfruttando le competenze di
ciascuno di noi, ne salta fuori personale più che sufficiente per pilotare
qualunque nave spaziale, inclusa questa.
A questo
punto, servono solamente i soldati necessari ad eliminare gli EDA e riprendere
il controllo del Megonia.
Direttore
Shane?»
«Signore?»
«Noi
metteremo insieme tutti gli uomini possibili, ma ci serviranno anche alcuni dei
suoi cadetti. Faccia in modo di scegliere i migliori, possibilmente che abbiano
già esperienza in questo genere di operazioni.»
«Sissignore.»
«Aspetti
Direttore, c’è un altro problema.» intervenne ancora un altro membro
«E quale
sarebbe?»
«Il
fatto è che le piastre protettive dell’Aurora non sono ancora state
completamente testate. Possono resistere indubbiamente ad un eventuale scontro
con i pirati, ma i test per verificarne la resistenza agli urti con corpi
celesti pericolosi devono ancora essere ultimati.
Come ha
detto l’Agente Drassimovic, si tratta di una zona molto pericolosa, e se un
detrito spaziale ci colpisse rischieremmo di trovarci in pericolo tanto quanto
il Megonia».
Il Direttore
spalancò un momento la bocca, per poi volgere lo sguardo crucciato sul tavolo
di legno immergendosi in un meditativo silenzio.
Anche se
voleva a tutti i costi salvare quei poveri sventurati, non poteva rischiare di
trasformare una missione di soccorso in una seconda emergenza: anche quelli,
dopotutto, erano i compiti difficili e ingloriosi di un Comandante.
«Mi
dispiace chiederle un impegno così gravoso, Agente Drassimovic, ma avremo
bisogno ancora del vostro aiuto per potervi salvare.»
«Parlate
pure, Signore.»
«Abbiamo
bisogno che conduciate il Megonia fuori dalla Zona Oscura e dal campo di
detriti. Lì dove vi trovate sarebbe troppo pericoloso e difficile riuscire a
raggiungervi.»
«Faremo
il possibile, signore. Cercheremo di far ripartire la nave».
In
quella, la trasmissione si indebolì un’altra volta.
«Un’ultima
cosa, Agente» intervenne Nolan prima che la trasmissione sparisse del tutto. «A
bordo della nave si trovano alcune delle personalità politiche e militari più
importanti del globo. Semmai dovessero verificarsi dei fatti imprevisti, non
c’è bisogno che le ricordi che l’estrazione di questi individui ha la priorità
su ogni altra cosa, inclusa la sorte degli altri passeggeri.
Mi sono
spiegato?»
«Sissignore».
A tempo
di record, nel giro di pochi minuti, l’Aurora accese i motori, e quando tutti i
soldati disponibili in città furono caricati a bordo il Direttore Generale,
seduto per l’occasione alla poltrona del Comandante, diede ordine di mollare
gli ormeggi.
L’Aurora
era stata pensata come una nave da guerra; ora invece, come la sua illustre
antenata omonima, aveva come sua prima missione il restituire ad una nuova vita
innumerevoli persone.
«Rimettere in moto la
nave!?» ripeté Georg sentendo le disposizioni ricevute da terra
«È
l’unico modo per avere aiuti in tempi rapidi, signore» rispose Ulrich. «Il tempo purtroppo non è dalla nostra parte. È
solo una questione di tempo prima che Neos ci
attragga a sé, e in queste condizioni il Megonia non
può sostenere un atterraggio di emergenza.»
«E come
diavolo facciamo a rimetterla in moto?» chiese Klaus spazientito. «Giriamo la
chiave o la prendiamo a calci?»
«Teoricamente,
sarebbe possibile rimettere in funzione la nave semplicemente riavviando i
sistemi dal ponte di comando, ma al momento ci sono diverse anomalie ad alcuni
sistemi vitali che renderebbero inutile il riavvio.
È necessario
correggere tutte queste anomalie se vogliamo far ripartire il Megonia.»
«Specifica
anomalie.» disse Georg
«Una su
tutte, la sala macchine. I motori sono andati in arresto d’emergenza a causa
degli urti subiti dallo scafo. Sto provando a riavviarli da qui.»
«D’accordo,
tienici aggiornati».
Ulrich fece
per rimettersi al lavoro, ma quasi subito la sua attenzione fu attirata da un
file comparso apparentemente senza motivo nel mainframe che regolava e smistava
le trasmissioni della nave, forse di qualcuno che aveva cercato di comunicare
con l’esterno.
Era un
file video, piuttosto recente, e visto che l’istinto gli suggeriva trattarsi di
qualcosa di importante, messo da parte per un momento il lavoro lo aprì per
verificarne il contenuto.
Sul
monitor apparve un giovane uomo, lo sguardo sconvolto e i capelli spettinati,
il volto segnato di sporco e sudore; un ufficiale, a giudicare dai gradi che
svettavano dalla sua uniforme nonostante lo sporco ed il sangue.
Prima di
partire Ulrich aveva visionato i profili degli
ufficiali in servizio sul Megonia, quindi non ebbe
difficoltà a riconoscere in quell’uomo sudicio e sconvolto il Comandante in
seconda Alex Shawn; e qualunque cosa gli fosse
successa, sembrava più morto che vivo.
«Non
riesco a mettermi in contatto in alcun modo con il ponte di comando» disse
cercando di mantenere la calma. «Temo siano morti tutti.
Io sono
venuto quaggiù per tentare di riavviare i sistemi, ma il nucleo centrale è
troppo danneggiato, e anche se lo riparassi non ha abbastanza energie per
riuscire a lavorare.
Gli EDA
sono comparsi all’improvviso, e in poco tempo hanno infestato l’intera nave.
Ora però sono riuscito a chiudere le porte stagne di emergenza; questo dovrebbe
tenerli bloccati. So che in questo modo probabilmente condannerò a morte altre
persone, ma è l’unico modo per far sì che i superstiti nelle cambuse restino al
sicuro.
Abbiamo
tentato in tutti i modi di lanciare un segnale di sos,
ma la Zona Oscura blocca tutte le trasmissioni. Non so se questo messaggio
riuscirà a raggiungere qualcuno, ma abbiamo urgentemente bisogno di aiuto».
L’immagine
scomparve, ma ricomparve dopo pochi attimi, forse perché il sistema aveva
salvato tanti diversi file in un unico filmato per risparmiare spazio; ora,
però, il ViceComandanteShawn
appariva se possibile ancora più provato e sofferente di prima, per non parlare
del sangue che aveva addosso.
«Ho
provato a tornare sul ponte di comando per vedere se riuscivo a fare qualcosa
da lì, ma è stato tutto inutile. Appena sono uscito dall’ascensore, sei di quei
mostri mi hanno subito attaccato. Per fortuna ho trovato una pistola e sono
riuscito a difendermi, ma uno di quei bastardi mi ha morso, e ora sono di nuovo
bloccato qui» quindi si fermò, passandosi una mano sui capelli sudati. «Non so
più cosa fare. La nostra sola speranza è che qualcuno venga a prenderci.
Possibile
che non si siano ancora accorti che siamo spariti? Sono passati già due giorni,
dannazione!».
Ulrich chinò
il capo, sconfortato e deluso.
«Mi
dispiace, amico. Non abbiamo fatto a tempo» quindi, spento il file ormai
concluso, si rimise al lavoro.
Arrivare alle cambuse
rischiava di essere molto più difficile e pericoloso che fare ritorno alla nave
da sbarco, ma se come Georg aveva detto via radio Mayu
aveva smesso di rispondere, e vi era quindi il rischio concreto che le fosse
accaduto qualcosa, per Amanda ed Hilda la sola cosa
da fare era imbarcarsi in quella pericolosa traversata.
Attraversare
mezzo vascello con ogni singolo ponte infestato da quelle bestie, un’arma con
pochi colpi nel caricatore e una bambina appresso era fuori discussione.
D’altra parte, però, non si poteva neanche restare fermi ad aspettare aiuto,
senza contare che, in quanto Agente, Amanda aveva il dovere di portare Hilda in salvo, in qualunque modo.
Per un
po’ Amanda cercò di trovare una strada attraverso i corridoi, confidando nel
suo sesto senso e usando degli espedienti per attirare altrove l’attenzione
degli EDA che ormai avevano preso il completo controllo della nave, come globi
di luce o suoni provocati deliberatamente, ma ogni passo era un rischio, e
quegli esseri, malgrado la poca intelligenza, avevano al contrario dei sensi
molto sviluppati, in particolare l’udito.
Sfortunatamente,
tutti gli ascensori che le due incontrarono lungo la strada erano fuori
servizio, e in quella zona non c’erano rampe di scale per poter scendere.
Amanda
ben presto si sentì a corto di opzioni, ma cercava di mantenere l’autocontrollo
per non spaventare ulteriormente Hilda.
Poi,
però, le venne l’idea giusta, quando conversando con la bambina nel tentativo
di tenerla calma questa rivelò come avesse fatto a raggiungere il centro
commerciale sopravvivendo per quattro giorni.
«Ma
certo, i condotti dell’aria» disse spalancando gli occhi.
In fin
dei conti le condutture arrivavano dappertutto, ed era improbabile che qualche
EDA avesse dimostrato abbastanza ingegno da avere l’idea di entrarci a sua
volta; quindi, si trattava di una strada efficace e potenzialmente molto
sicura.
«Ulrich, puoi passarmi la mappa delle condutture dell’aria?»
chiese via radio.
«Al
volo».
La mappa
arrivò fulminea sul computer da polso della ragazza, e come previsto grazie ai
condotti era possibile raggiungere il Ponte K e le cambuse senza mai doverne
uscire.
Localizzata
la grata più vicina, in uno stanzino nei pressi della zona ristoranti, Amanda
la sollevò, infilandocisi dentro per prima per
accertare che non vi fossero pericoli.
«Tutto
tranquillo» mormorò tra sé, e sportasi aiutò anche Hilda
a salire. «Ora mi raccomando, spostati in silenzio. Qui siamo al sicuro, ma se
ci sentono potrebbero cercare di seguirci.»
«Và
bene».
Per
interminabili minuti procedettero così, strisciando nel buio; Amanda non si
fidava ad accendere la luce, nel timore che quei mostri potessero scorgerla
attraverso qualche feritoia o piastra a rete, ed accendeva il computer solo di
tanto in tanto per accertarsi di essere sulla giusta strada.
Ogni
tanto incontrarono dei salti, o delle zone in pendenza, a riprova del fatto che
stavano scendendo sempre di più verso i ponti inferiori, verso una sicurezza
che diventava sempre più vicina.
«Siamo
quasi arrivati» sussurrò finalmente Amanda dopo lungo tempo. «Ancora poche
decine di metri e arriveremo proprio sopra le cambuse.
Tutto
bene, Hilda?»
«Sto
bene.» rispose lei, apparentemente già riavutasi da quanto accadutole poco
prima.
Di tanto
in tanto, da sotto di loro, giungevano lamenti e versi inquietanti, a volte in
numero considerevole, e allora Amanda e Hilda si
fermavano in attesa che cessassero, oppure strisciavano ancor più lentamente
per fare meno rumore.
Amanda
procedeva alcuni passi avanti a Hilda, saggiando bene
ogni singola piastra sopra cui transitavano, e un paio di volte fu necessario
trovare altre strade per aggirare punti troppo scoperti o dal basamento non del
tutto solido.
Una
lastra cedette all’improvviso, proprio mentre Hilda
ci stava passando sopra, ma per chissà quale miracolo la bambina riuscì ad
aggrapparsi al bordo, strillando nello stesso tempo con tutta la sua voce.
Sotto di
lei, attratti dalle urla, comparvero come formiche su di una carcassa un nugolo
inestricabile di mani sollevate, bocche spalancate, e volti che facevano
rassomigliare quella zona di caldaie e regolatori termici la bocca
dell’inferno.
«Hilda!».
Amanda
tentò di girarsi, ma quel pertugio era cosi stretto che a malapena riusciva a
passarci, ma quando vide che Hilda era sul punto di
perdere la presa non ci pensò due volte e si girò violentemente, afferrandola
per un polso un istante prima che cadesse in quella fossa di mostri.
«Tranquilla,
ti ho preso!»
Una
tremenda fitta di dolore le arrivò dalla spalla destra, e non le fu necessario
guardarla per capire di essersela lussata, ma stringendo i denti riuscì a
tirare su la bambina, riportandola al sicuro.
«Stai
bene?»
«Credo
di sì.» rispose lei con il fiato corto per lo spavento, prima di girarsi
nuovamente e riprendere il percorso, stavolta tenendo Hilda
molto più vicina a sé.
La
grata, anche se aperta, era troppo in alto perché gli EDA potessero
raggiungerla, pur con tutta la loro agilità, ma comunque non era il caso di
indugiare lì più del necessario.
«Forza,
andiamocene» disse Amanda cercando di ignorare le fitte di dolore. «Ormai ci
siamo quasi».
E detto
questo ripresero a procedere, mentre sotto di loro quei mostri osservavano,
irritati ed incuriositi, quella fessura nel soffitto da cui il loro pranzo era
appena scappato.
Oltrepassata la zona
intrattenimento, Joe ed Helen avevano ormai raggiunto la torre di controllo in
cima alla quale si trovava il ponte, e almeno per quanto li riguardava fino a
quel momento non avevano ancora incontrato nessun EDA, ma neppure dei
superstiti da salvare.
Mancava
da percorrere solo l’ultimo corridoio, poi avrebbero trovato l’ascensore che li
avrebbe condotti direttamente alla meta.
Ma
l’imprevisto era in agguato.
«Desolato
di interrompere ancora la vostra missione, ma ho localizzato uno dei problemi
accennati poc’anzi» disse d’un tratto Ulrich. «A
quanto pare c’è un portello aperto nel condotto di manutenzione numero Cinque,
non lontano da dove vi trovate voi.
Deve
essere questo che ha fatto scattare i blocchi di sicurezza. Se non lo chiudiamo
stabilizzando di nuovo l’atmosfera sarà impossibile far ripartire i motori.»
«Che
storia è questa?» protestò Helen. «Ormai siamo praticamente al ponte.»
«Lo so,
ma siete anche quelli più vicini. Gli altri ci impiegherebbero troppo, e a
questo punto ogni secondo è prezioso.»
«Debois, occupatene tu» ordinò il Capitano. «Tu Helen
continua per il ponte.»
«Sissignore.»
«Joe,
aspetta» tentò di dire la ragazza, ma nel tempo che impiegò a pronunciare
quelle parole Joe era già dalla parte opposta del corridoio, diretto verso la
sua nuova destinazione con Ulrich ad impartirgli le
direttive per arrivarci. «Capitano, è sicuro che sia una buona idea lasciarlo
andare da solo?»
«Se si
fosse trattato di chiunque altro, ti avrei detto di no. Ma quel ragazzo prima
di essere una recluta è un ranger.
Se non
sa cavarsela lui in questa situazione, non so chi potrebbe farlo.
Prosegui
nella tua missione, Agente.»
«Agli
ordini».
Helen
riprese dunque a camminare, e fatti pochi metri la sua marcia si fermò dinnanzi
all’ennesima porta bloccata, il cui congegno di apertura però era
fortunatamente ancora funzionante.
«Sei
arrivata» le disse Ulrich. «Oltre quella porta c’è il
basamento della torre. Prendi l’ascensore dall’altra parte della sala, procedi
fino al penultimo piano e ci sei».
La
ragazza, però, esitava, fissando la porta con sguardo pensieroso. Alla fine,
quasi con esitazione, fece scivolare la mano sul meccanismo di riconoscimento,
e dal momento che Ulrich aveva già inserito le
impronte di ogni membro della squadra nell’archivio di sicurezza le porte si
aprirono davanti a lei, rivelando dietro di esse un androne all’apparenza molto
grande, ma completamente avvolto da un’oscurità che la luce del corridoio
riusciva a malapena a fendere.
Di
nuovo, Helen esitò ad entrare, crucciandosi sempre di più, mentre nel buio
figure minacciose si lasciavano sfuggire inquietanti lamenti e respiri sommessi,
come quelli di un predatore pronto a colpire.
Forse
era la paura della luce, fenomeno non nuovo che ad Helen era già capitato di
vedere, forse una via di mezzo tra l’istinto e quanto restava della loro
intelligenza, che piuttosto di scagliarsi tutti insieme sulla preda esponendosi
ad inutili rischi suggeriva loro di aspettare piuttosto che fosse lei a
venirgli incontro condannandosi da sola.
Serafica,
quasi seccata, Helen sollevò la mano sinistra, sopra la quale si materializzò
un globo di luce iridescente dalla consistenza simile a quella di una palla di
vetro, con una specie di nucleo azzurro che pulsava nel centro circondato da
pulviscolo rosso.
«Andate
all’inferno» disse lasciandola cadere.
La sfera
rotolò lentamente verso l’interno, illuminando una selva di piedi ed un
pavimento chiazzato di sangue, fermandosi dopo aver fatto qualche metro; passò
un secondo, e una vera esplosione di luce inondò l’intera stanza con la potenza
e i violenti bagliori di una tempesta di fulmini, disperdendo inoltre nell’aria
una pioggia di pulviscolo che al contatto con qualunque cosa, materiale ed
immateriale, bruciava come il fuoco.
Gli EDA,
più di una decina, ringhiarono furiosamente, accecati dalla luce e bruciati da
quella dannata polvere, e quando alcuni di loro riuscirono faticosamente a
riaprire gli occhi Helen era già in mezzo a loro, la pistola in una mano e
l’altra avvolta da una nube color cremisi. I primi due furono abbattuti prima
ancora di potersene rendere conto, mentre gli altri si scagliarono all’assalto
attaccando da tutte le direzioni, ma Helen prima staccò di netto la testa al
più vicino assestandogli un pugno con la mano libera quindi, agile come una
libellula, si librò nell’aria sfuggendo all’accerchiamento.
Mentre
era ancora in aria sparò alcuni colpi, uccidendone altri tre con tiri alla
testa di una precisione quasi chirurgica, quindi tornata coi piedi per terra
usò la propria agilità per scivolare nuovamente in mezzo agli EDA ancora
confusi, sgambettandone uno con una scivolata sul pavimento liscio e spezzando
il collo ad un altro subito dopo essersi rialzata con un colpo di tallone
dritto alla base del collo.
Helen
danzava come una ballerina, maneggiando le armi e la magia senza mai far venire
meno una certa quale eleganza; non un movimento fuori posto, non un affondo che
non fosse perfetto: per questo la chiamavano Sleeping Beauty.
Alla
fine ne rimase solo uno, l’unico superstite, che dopo aver tentato di assalire
la ragazza alle spalle prima ricevette un pugno che gli trapassò il torace da parte
a parte, quindi subito dopo, mentre nonostante la ferita tentava furiosamente
di assalire la sua preda, si ritrovò la canna della pistola infilata nella
bocca aperta, prendendosi l’ultimo proiettile nel caricatore che gli fece
scoppiare la nuca come un’anguria.
Quell’ultimo
assalitore finì incenerito prima ancora che Helen avesse modo di ritirare il
braccio, e a quel punto nella stanza tornò a regnare la calma.
«Devo
ricordarmi di non contraddirla mai, signora» scherzò Ulrich
dopo aver assistito all’intero scontro grazie al sistema di videosorveglianza
che era riuscito finalmente a ripristinare all’ennesimo tentativo. «Quando sarà
tutto finito, spero vorrà insegnarmi qualcosa.»
«Forse»
rispose lei sorniona salendo sull’ascensore.
In quanto Agente operativo,
Georg era stato addestrato, e aveva a sua volta addestrato, anche alla custodia
dei civili eventualmente coinvolti in operazioni speciali, ma quella era una
situazione talmente al limite che era davvero difficile riuscire a mantenere la
calma.
Gli animi
erano tesi, si vedeva ad occhio nudo, con lo stato di semi-prigionia che
accresceva il senso di impotenza, e forse solo la presenza della figura
carismatica della MAB, che il Capitano ben incarnava, costituiva la sicura
posta su di una valvola che altrimenti rischiava di saltare.
In
compenso, per tanta gente terrorizzata, vi era anche chi malgrado tutto cercava
di mantenere l’autocontrollo e di aiutare gli altri.
Ashley Thunderscott, prima che una presentatrice televisiva e una
cantante di fama mondiale, era stata una studentessa di medicina, e aveva speso
gli ultimi giorni ad assistere ininterrottamente chiunque ne avesse avuto
bisogno arrangiandosi con quel poco che era riuscita a trovare.
L’anziano
signor Gullit, ad esempio, si era procurato una brutta distorsione alla
caviglia, tanto da non potersi neppure reggere in piedi, e di quando in quando
la ragazza andava a cambiargli la fasciatura usando ora un pezzo della stoffa
che copriva qualche cassa ora un brandello del proprio costosissimo vestito.
Tra i
due si era instaurato un bel rapporto, e anche quando Ashley non era impegnata
a curare il suo attempato compagno di sventura capitava spesso che parlassero
insieme, così, per far passare le ore nella speranza che quell’incubo surreale
finisse presto.
«Lei mi
sembra un po’ troppo anziano per fare il cameriere su una nave da crociera.»
«E lei
troppo giovane per fare la cantante in giro per il mondo».
L’interessata
rise divertita.
«Ho
lasciato casa quando avevo diciassette anni. I miei genitori non volevano che
diventassi una cantante, ma d’altra parte era sempre stato il mio sogno.
Così mi
sono trasferita a Kyrador, mi sono rimboccata le
maniche lavorando dalla mattina ed esibendomi in locali di quinta categoria
fino a notte fonda, e finalmente un giorno un produttore ha voluto darmi
un’occasione.
Da
allora, è stato tutto più facile.»
«E non
le manca la sua famiglia?»
«Qualche
volta. Ogni tanto mi rifaccio viva, ma mio padre ormai non vuol più saperne
nulla di me. Pensi, non è venuto neppure al concerto speciale che ho tenuto al
mio paese, e mi hanno detto che non guarda nessuno dei programmi che presento o
in cui sono ospite.
E lei
invece? Con il lavoro che fa, immagino la vedrà poco la sua famiglia».
Anche
l’anziano sorrise, ma il suo era un sorriso di rammarico.
«Io non
ce l’ho più una famiglia».
Ashley
lo guardò atterrita, mordendosi nel contempo la lingua.
«Mio
figlio è morto quando aveva undici anni. Cancro al cervello. Allora non c’erano
tutte le tecnologie magico-scientifiche che ci sono
oggi. Mia moglie non si è più ripresa. Quanto a me, ho chiuso la mia enoteca e
ho iniziato a viaggiare. Mi teneva occupato, e mi aiutava a non pensare.
Un
giorno, ho scoperto che mia moglie si era trovata un altro. Ci siamo lasciati,
e lei è tornata a Dunglefort. Lei si è risposata, e
io ho ripreso a viaggiare. Prima una nave, poi un’altra, poi un’altra ancora.
E alla
fine, sono arrivato qui.
Al Megonia.»
«Mi dispiace… io non volevo, davvero…»
«Non si
preoccupi. Gli sbagli che ho fatto sono stati solo miei. Quando tutto questo
sarà finito, le suggerirei di provare a ricucire il rapporto con suo padre. I
legami famigliari, dopotutto, sono come il vino; se gli lasci il tempo di
maturare, possono diventare sopraffini.
D’altronde,
la vita scorre troppo rapidamente per perdersi in inutili attriti, perché poi
quando si è vecchi si ha un sacco di tempo per rimpiangere ciò che si sarebbe
potuto fare, e non si è fatto».
La
ragazza tergiversò, fissando il pavimento su cui erano seduti, poi nei suoi
occhi parve accendersi un filo di luce.
Stava
quasi per ringraziare quel gentile signore che con delle semplici parole era
stato in grado di farla sentire un po’ meglio, quando un rumore strano e
metallico, che sembrava provenire direttamente da dentro la parete alle sue
spalle, le fece rizzare i capelli per la paura.
«Aiuto!».
Come una
mandria di pecore spaventate dalla vista dai lupi tutti fecero il vuoto attorno
a quel punto, e solo la presenza autoritaria del Capitano riuscì a mantenere la
calma.
«Non vi
agitate!» ordinò Georg, quindi sia lui che Klaus raggiunsero di corsa la grata
di metallo contro la quale Ashley si era inconsapevolmente seduta, da cui
seguitavano a giungere quei rumori misteriosi.
«Non
sparate, siamo amici!» si udì poi provenire dal buio del condotto.
I due
agenti sgranarono gli occhi, fissandosi allibiti.
«Amanda!?»
disse Klaus.
Qualche
attimo dopo, il volto amichevole di Amanda faceva capolino dal buco.
«Chiedo
scusa per l’attesa, Capitano. Ho preferito prendere una strada alternativa.»
«Pienamente
scusata, Agente Gerth.» sorrise il Capitano.
Subito
dopo di lei, dal condotto uscì anche la piccola Hilda,
e come la vide Johanna le corse incontro
abbracciandola più forte che poteva.
«Hilda! Grazie a Dio sei salva!».
La
bambina però non ricambiò in alcun modo la stretta, seguitando a rimanere
immobile, senza espressione, come una bambola.
«Il papà
non c’è più.» furono le sue uniche parole.
Atterrita,
la donna guardò Amanda, che abbassò lo sguardo facendo un cenno con il capo.
«Mi
spiace. Non ho potuto fare niente».
Ma il
dolore di Johanna, pur incommensurabile, era in parte
mitigato dal sollievo per aver ritrovato quella figliastra con cui, fino a
quattro giorni prima, non aveva mai fatto altro che litigare, ma che ora invece
stringeva come fosse stato il suo più grande tesoro.
«Vieni,
tesoro. Hai fame? Vediamo cosa c’è da mangiare».
Johanna portò
Hilda in un altro punto della stanza, ma la bambina
nonostante tutte le attenzioni e l’affetto ricevuto continuò a mantenere un
atteggiamento scostante, lo stesso che aveva caratterizzato da sempre il suo
rapporto con la matrigna.
Nel
mentre Amanda, seduta in terra con l’espressione sofferente, faceva rapporto al
Capitano, mentre Klaus le rimetteva a posto la spalla provocandole ulteriore
dolore.
«Qual è
la situazione nel resto della nave?» chiese Georg
«Ci sono
EDA dappertutto. Soprattutto nei ponti superiori.»
«Superstiti?»
«Nessuno
a parte Hilda. E neanche dei corpi. Ma ogni volta che
qualcuno di loro muore, si incenerisce nel giro di pochi secondi. Forse succede
la stessa cosa anche alle loro vittime, per questo non abbiamo trovato corpi».
Poco
dopo Hilda si avvicinò nuovamente a loro.
«Mi
dispiace. È stata colpa mia».
Amanda
le sorrise gentilmente.
«Tranquilla,
non è successo niente.»
«Ti fa
molto male?» chiese preoccupata.
«Un
pochino, ma ho applicato un incantesimo lenitivo. Presto non sentirò più
nulla».
Hilda posò
quindi la sua attenzione sull’omone nero che aveva accanto, tanto alto da
sembrare un gigante.
«Hilda, lui è il mio superiore. Il Capitano Klopfer.»
«Piacere,
signorina».
Vedere
un sorriso su di un volto simile era la cosa più buffa che Hilda
potesse immaginarsi, tanto che non riuscì a non farsi scappare una risatina.
Persino da inginocchiato riusciva ad essere più alto di lei.
«Mi
dispiace per il tuo papà. Ma ti prometto che ti porteremo al sicuro, qualunque
cosa accada.
Vero, Agente
Gerth?»
«Sicuramente.»
«Lo
farete davvero?»
«Parola
di soldato.» sorrise ancora lui.
Di
fronte ad un così impacciato ma rassicurante tentativo di apparire bonario e
affettuoso Hilda sentì rinascere la speranza, proprio
come era accaduto quando aveva toccato la mano di Amanda, tanto che, nonostante
tutto, la piccola riuscì a ritrovare dopo molto tempo la forza di sorridere.
All’improvviso,
un rumore metallico attraversò tutta la nave, ed un violento rollio minacciò di
mandare tutti gambe all’aria. Il tutto, per fortuna, durò solo pochi istante,
almeno nella sua fase più violenta, ma era come se una mano ciclopica si stesse
divertendo a sballottare la nave da una parta all’altra come un giocattolo,
fomentando ulteriormente il panico.
Gli scossoni si fecero
sempre meno violenti, ma continuarono in ogni caso, e ad ogni nuovo tremolio la
paura appariva sempre di più negli occhi dei civili.
«Drassimovic, rapporto!» strillò il Capitano alla radio. «Ti
spiace dirmi che succede?»
«Quello
che temevo, signore. La nave si è avvicinata troppo a Neos,
e ora la luna ci sta tirando dentro.»
«Come
sarebbe a dire?» chiese Klaus, che poteva sentire a sua volta. «Non ci avevano
detto che ci sarebbe voluto più tempo?»
«È colpa
di quel portello aperto. Scombussola i parametri relativi al mantenimento
dell’atmosfera interna della nave, e così gli stabilizzatori funzionano male».
Georg
digrignò i denti per la rabbia, quindi contattò via radio Joe.
«Debois, mi senti? Abbiamo bisogno del tuo aiuto, e subito.»
«Ci sono
quasi, Capitano.»
«Nel
frattempo, signore, ho localizzato un altro problema. I motori sono andati in
arresto d’emergenza sempre a causa di quel condotto.
Possiamo
far ripartire la nave da qui o dal ponte di comando in qualunque momento, ma è
necessario riavviare le turbine perché la nave possa ripartire.»
«E come
facciamo a riavviarle?»
«Il
computer che controlla il riavvio si trova nella stanza di controllo della sala
motori. È su quel ponte, ma dall’altra parte della nave».
Un
barlume di esitazione offuscò per un momento il volto del Capitano, che si
guardò attorno rivolgendo lo sguardo ora alla folla ora verso i suoi due
allievi.
«Sei in
grado di guidarmi fino a lì?»
«Qui sta
il problema, signore. Le mappe della sala motori e dei settori limitrofi sono
inaccessibili con questo livello di autorizzazione, suppongo per questioni di
sicurezza. Inoltre le analisi termiche e barometriche sono tutte fuori norma, e
quasi nessuna delle telecamere di sicurezza di quella zona sembra funzionare.
Devono esserci stati degli incidenti anche piuttosto seri.
Mi
dispiace, Capitano. Non ho alcuna maniera di poterla guidare».
Georg si
accigliò, cercando di pensare a un’altra possibile soluzione, ma a parte
l’unica che la sua mente aveva partorito fin dal primo momento non gli fu
possibile teorizzarne altre.
Cercando
di ostentare autocontrollo, si avvicinò nuovamente ai superstiti.
«Come vi
ho già detto prima, non ho alcuna intenzione di mentirvi. Questi scossoni che
sentite sono dovuti all’attrazione che Neos ha
iniziato ad esercitare sulla nave».
Minacciò
di scoppiare nuovamente il panico, ma al Capitano bastò un cenno della mano per
riportare subito la calma.
«Non
avete di che preoccuparvi. Un nostro compagno si sta già occupando della
questione, e presto questo imprevisto sarà risolto senza incidenti.
Altri
sono i nostri problemi.
Siamo
riusciti a metterci in contatto con la superficie, e da Kyrador
è già partita una spedizione di soccorso che sarà qui nel giro di poche ore».
Ma così
come aveva intercettato e bloccato la paura, Georg fece lo stesso anche con la
gioia.
«Tuttavia,
perché l’operazione possa avere successo, è necessario riavviare la nave e
condurla fuori dalla zona oscura, e per farlo è necessario riavviare i motori
andati in arresto di emergenza.
Per
questo motivo, ho bisogno di qualcuno che mi faccia da guida fino alla sala
motori, da dove potremo rimuovere l’arresto e far ripartire le turbine» quindi
esitò un momento, riprendendo a parlare dopo qualche secondo. «In altre
circostanze non mi sognerei mai di chiedere una cosa del genere a dei civili,
ma girare a vuoto per tutta la stiva con la speranza di trovare la porta giusta
ci farebbe solo perdere tempo, e più il tempo passa più diminuiscono le
possibilità che possiate uscire tutti sani e salvi da qui.
Sarebbe
preferibile qualcuno che abbia lavorato nella sala motori, ma chiunque conosca
bene questa nave e se la senta di accompagnarmi sarà di grande aiuto a tutti.
Ho
finito».
I
superstiti si guardarono tra di loro, mormorando a bassa voce sotto lo sguardo
attento ed enigmatico del Capitano.
«È
inutile, non lo faranno» mormorò Klaus esternando quello che in realtà
pensavano tutti. «Hanno troppa paura.»
«Come ho
detto, è l’unica alternativa che abbiamo. Nella peggiore delle ipotesi, andremo
noi da soli».
Il
signor Gullit ruppe il silenzio.
«Se non
vi crea problemi farvi accompagnare da uno sciancato,» disse mettendosi
faticosamente in piedi, sorretto da un rudimentale bastone «Posso guidarvi io.
In tutto il Megonia non c’è membro dell’equipaggio
più vecchio di me, e ho passato più tempo a bordo di questa nave che a casa
mia.»
«Aspetti,
signor Gullit» disse Ashley. «Lei è ferito. Non potrebbe mai farcela.»
«Apprezzo
la sua determinazione, ma non è il caso che lei rischi in questo modo» rispose
educatamente il Capitano. «È probabile che là fuori ci sarà da correre, forse
anche da sparare, e la sua vita potrebbe essere in pericolo.»
«Vengo
io!» esclamò di colpo Raoul facendo un passo avanti. «Sono un cameriere, ma
conosco queste stive come pochi altri».
Tutti lo
guardarono, alcuni più sorpresi di altri, ma in Generale non si denotò troppo
stupore negli sguardi degli altri superstiti; Raoul doveva essersi calato molto
bene nei panni del leader per meritare tanta fiducia.
«Un’arma
in più può sempre servire» disse Reynar. «Inoltre,
prima che sindaco e cacciatore sono un ingegnere, e ho lavorato spesso alla
progettazione di sistemi di alimentazione per astronavi. Se arriviamo alla sala
controllo, posso riavviare tutti i sistemi ad occhi chiusi.»
«Potrebbe
essere molto rischioso» li ammonì il Capitano. «Siete sicuri di voler davvero
venire?»
«L’ha
detto lei» rispose Raoul. «Prima sistemiamo questa storia, prima ce ne torniamo
tutti a casa».
Dopo un
nuovo, lungo silenzio interlocutorio, Georg si avvicinò ai due uomini,
poggiando ad entrambi una mano sulla spalla.
«D’accordo,
preparatevi. Prendete un’arma a testa, e tutte le munizioni che riuscite a
portare, ma cercate di tenervi leggeri. È probabile che dovremo strisciare o
arrampicarci, per non parlare delle fughe.»
«Sissignore».
Mentre
Georg ricontrollava per l’ultima volta il proprio fucile e Raoul si faceva
aiutare da Reynar ad aprire la porta, Klaus si
appressò nuovamente al suo superiore assieme ad Amanda.
«Capitano,
non sarebbe meglio che venissimo noi con Lei?»
«Niente
affatto. Voi resterete qui a sorvegliare questi civili. Non possiamo lasciarli
senza protezione.»
«Ma potrebbe
accaderle qualcosa. Avrà bisogno di aiuto» tentò di protestare Amanda
«Anche
queste persone» replicò perentorio il Capitano. «Il nostro compito, il vostro
compito, è assicurarvi che escano da qui sane e salve.
Questa
storia diventa più drammatica ogni giorno che passa, e non posso perdere tempo
a tenervi d’occhio».
I due
giovani abbassarono lo sguardo come mortificati, e il Capitano quasi subito si
rese conto di avere forse ecceduto un po’ troppo.
«Comunque
vada, voglio che sappiate che se vi ho scelti per questa missione era perché vi
ritenevo pronti per essere considerati dei veri agenti operativi» quindi guardò
Klaus. «Anche tu, nonostante tutto».
Gli
occhi mesti di Klaus e Amanda si accesero allora di una luce di orgoglio.
«Vi
affido questi civili. Io tornerò il prima possibile.»
«Sissignore»
risposero i due, in coro e risollevati.
A quel
punto, aperta la porta, il Capitano se ne andò assieme a Raoul e Reynar.
Joe riuscì a percorrere le
poche decine di metri che lo separavano dal suo obiettivo senza farsi
praticamente notare dai molti EDA che, nonostante tutto, gli capitò di
incontrare scendendo verso i ponti inferiori.
La sua
agilità era pari se non superiore a quella di un felino, tanto che fu in grado
di passare sotto il naso di un gran numero di mostri senza che questi si
accorgessero minimamente della sua presenza, così non ebbe necessità di sparare
neppure un colpo.
Su
suggerimento di Amanda, che aveva comunicato via radio come avesse fatto ad
attraversare indenne metà della nave, percorse l’ultima parte del tragitto
scivolando silenzioso nei condotti di areazione, dai quali uscì appena giunto
di fronte ad una porta stagna molto più spessa e massiccia di tutte le altre,
su cui era ben visibile il cartello che segnalava il pericolo di assenza d’atmosfera.
«La
gravità è mantenuta da una barriera» disse Ulrich via
radio aprendogli la porta, oltre la quale vi era una piccola stanza di
contenimento. «Ma all’interno non c’è atmosfera.
Inoltre
il rivestimento della stanza impedisce le comunicazioni radio. Però ho
ripristinato gli altoparlanti e i sistemi di videosorveglianza, così potrò
guidarti.»
«Ho
capito».
Debois
materializzò il casco della propria tuta, quindi, tratto un breve respiro, aprì
la seconda porta.
L’interno del condotto sembrava quello di un
enorme silos, un gigantesco cilindro che scendeva verso il basso intervallato
da passerelle corrispondenti ognuna ad un diverso ingresso sui vari ponti che
venivano attraversati, collegate l’una all’altra per mezzo di scale ed acensori.
Tramite quel genere di condotti, disposti ad
intervalli regolari da poppa a prua, era possibile regolare e stabilizzare
l’atmosfera interna; somigliavano a degli enormi sfiatatoi da cui veniva
espulsa continuamente l’aria viziata perché fosse sostituita con quella nuova
prodotta dai sistemi vitali, inoltre assicuravano la stabilità della struttura
garantendo un punto di contatto e di interscambio tra l’atmosfera interna ed il
vuoto cosmico.
Sul fondo, la paratia di controllo, aperta sotto
la pancia della nave; la barriera magica di emergenza era attiva, ma sotto di
essa si poteva scorgere nitidamente la superficie cerulea di Neos, così distante ma, all’occhio, talmente vicina da
sembrare a portata di mano.
La situazione appariva calma, e non vi era traccia
alcuna di potenziali nemici, eppure Joe non si sentiva al sicuro.
«Il pannello che controlla la porta si trova al
livello più basso» disse Ulrich attraverso gli
altoparlanti. «Prendi la scala più vicina, scendi fino infondo, gira attorno
alla passerella e ci sei.»
Il ragazzo
fece come gli era stato detto, avviandosi verso le scale, ma quella sensazione
non voleva saperne di lasciarlo in pace.
Ulrich da
parte sua aveva notato, grazie alle telecamere, l’atteggiamento sospettoso e
guardingo del suo compagno, ma non vi faceva troppo caso, reputando che fosse
una cosa normale fare attenzione ad eventuali minacce nonostante all’apparenza
non ve ne fossero.
Se non
che, all’improvviso, gli parve di notare qualcosa. Un’ombra, o forse solo un
riflesso, quasi un’onda fosse passata per un attimo accanto all’obiettivo
increspando l’aria circostante.
Dapprincipio
pensò di aver visto male, ma poi il fenomeno si ripeté su di un’altra
telecamera, e stavolta il fenomeno, qualunque cosa fosse, si verificò
abbastanza lentamente da poterlo scorgere con sicurezza.
«Joe,
aspetta» si affrettò a dire. «Temo che ci sia qualcuno lì con te».
Era la
conferma ai suoi sospetti, e immobilizzatosi a circa metà della discesa Jose
fece per mettere mano al fucile, ma Ulrich
immediatamente lo fermò.
«Non farlo!
La camera è satura di idrogeno! Un colpo e salterà tutto in aria!».
Non era
un problema, e per non correre il rischio di agire d’istinto Joe si disfò
direttamente dell’arma scaricandola e lasciandola cadere a terra per poi
estrarre il machete, la sola e vera arma di un ranger.
Il
giovane parve farsi una statua, chiuse gli occhi e stette in attesa, riuscendo
nonostante il casco e la tuta che lo isolavano dal mondo esterno a percepire le
più piccole vibrazioni nella temperatura, nella pressione e nei movimenti
dell’aria.
Chiunque
fosse lì dentro intento ad osservarlo doveva essere furbo, molto più furbo dei
soliti EDA, movendosi in silenzio e badando bene di non farsi vedere.
Tuttavia,
Joe non immaginava neanche lontanamente cosa fosse sul punto di piombargli
addosso.
Come un
falco che dall’alto di una roccia piomba su di un ignaro pesce, una creatura che
non assomigliava a nulla che Joe o Ulrich avessero
mai visto saettò sul giovane ranger, il quale tuttavia forte dei propri
riflessi rotolò di lato evitando il colpo per un soffio.
Quando
poté vedere negli occhi il suo avversario, poi, persino Joe rimase per un
attimo interdetto.
Era
enorme: almeno due metri e mezzo d’altezza. Il corpo bianco, muscoloso, con
alcune venature blu, e una pelle che appariva liscia e soffice come la gomma ma
resistente come la pietra; braccia sottili e sproporzionate, tanto che le mani
a quattro dita toccavano terra, con una specie di lame ossee affilate come
rasoi che dal polso arrivavano fino all’avambraccio; di contro le gambe erano
molto grosse, le cosce in particolar modo, e terminavano in un piede da rettile
con tre dita, due anteriori e una posteriore, armate ciascuna di un lungo
artiglio ricurvo; aveva anche una coda, lunga e carnosa, come lungo era il suo
collo, simile a quello di una giraffa, tutto lamellato come una colonna
vertebrale, e terminante in una orrenda testa a triangolo rovesciato sormontata
da un paio di corna ricurve; del naso aveva solo i fori, gli occhi erano
piccoli e neri, e dalla bocca aperta, oltre alla saliva e alla bava, spuntavano
quattro minacciose file di denti, due per ogni estremità. Il volto poi era
parzialmente nascosto dietro a un vetro, e non occorreva un genio per capire
che si trattava di un casco; il corpo doveva essersi gonfiato fino ad inglobare
la tuta protettiva che quell’uomo indossava al momento della mutazione, e forse
era per questo che la pelle del mostro aveva quella parvenza quasi gommosa.
Joe
aveva già visto degli EDA in passato, ma niente che rassomigliasse a ciò che
aveva ora davanti, e anche Ulrich rimase di stucco.
«Santo
cielo. Sarà come minimo un Classe Cavallo. Joe, vattene da lì!».
Ma Joe
non aveva alcuna intenzione di scappare.
Mai
voltare le spalle al nemico, soprattutto quando si aveva una missione: questo
era ciò che gli era stato insegnato. Così come gli era stato insegnato che
nessun avversario era imbattibile, e che da ogni situazione si poteva sempre
venire fuori.
L’EDA
ringhiò, forse irritato di fronte all’apparente mancanza di paura da parte del
suo avversario, quindi lanciato un grido alzò entrambe le braccia menando un
colpo violento, anche questo prontamente schivato.
A quel
tentativo di assalto ne seguirono altri, alcuni violenti e istintivi altri,
all’apparenza, un po’ più ragionati; comunque Joe non si limitò ad evitare gli
attacchi, e alla prima occasione riuscì a rispondere affondando con precisione
nel torace del mostro, anche se a causa della pelle molto spessa l’affondo non
fu così grave da ledere organi vitali.
Ciò
nonostante l’EDA accusò pesantemente il colpo, infuriandosi ancora di più, e
girato su sé stesso colpì il giovane con un poderoso colpo di coda che lo sparò
letteralmente contro il muro dalla parte opposta del condotto. Solo il colpo
teoricamente sarebbe bastato a fargli esplodere il torace, senza contare l’urto
con la parete che avrebbe dovuto polverizzargli la schiena, ma la tuta in puro exium non serviva solo a proteggere dagli effetti del vuoto
spaziale.
Ma si
trattava comunque di un colpo tremendo, anche per un soldato temprato dagli
allenamenti come Debois, che infatti rantolato sulla
passerella metallica impiegò molti preziosi secondi a trovare la forza per
rialzarsi.
In
questo lasso di tempo l’EDA, come un ragno, aveva preso a correre lungo i muri,
quasi avesse avuto delle ventose al posto delle dita, e arrivato di nuovo sopra
la sua preda vi si gettò sopra tentando un assalto in picchiata, a cui stavolta
Joe sfuggì quasi per miracolo.
Toccando
il suolo, gli artigli del mostro produssero alcune scintille, che a causa della
presenza dell’idrogeno non ancora filtrato ed espulso dal condotto
immediatamente produssero una piccola vampata; fortunatamente si trattò di una
cosa di poco conto, e l’EDA cadendoci sopra lo spense col suo stesso corpo.
«Joe,
sta attento!» gli ricordò nuovamente Ulrich dopo essersi
spaventato come poche altre volte in vita sua. «Se succede di nuovo, potremmo
non essere così fortunati! Non dovete provocare scintille!».
Era una
parola.
Lui
poteva anche controllarsi, ma come si poteva domandare la stessa cosa ad un
animale con un briciolo di intelligenza?
Joe
guardò in basso, maturando l’unica decisione possibile, e recuperate le forze
quel tanto che bastava iniziò a correre in tutte le direzioni per sfuggire ai
nuovi, infuriati assalti dell’EDA.
Con il
suo machete tranciò e allentò in vari punti alcune delle sbarre della
balaustra, stando ben attento a menare fendenti precisi che non provocassero
scintille, e raggiunta una buona posizione vi si piazzò aspettando che il
nemico cadesse nella trappola.
Come
aveva previsto l’EDA abboccò all’amo, caricando a tutta forza; Joe attese fino
all’ultimo secondo, fin quando il mostro non gli fu praticamente appresso,
quindi lasciò cadere a terra la propria granata stordente, oscurando immediatamente
la visiera. In questo modo, benché l’ordigno gli esplose praticamente ai piedi,
ne rimase immune, al contrario dell’EDA che invece rimase abbagliato ed
intontito.
A quel
punto Joe saltò alle spalle dell’avversario, e caricate al massimo le fibre
energetiche della tuta originariamente pensate per migliorare le prestazioni
atletiche, le utilizzò per assestare al mostro un tremendo calcio con la pianta
del piede che lo scaraventò di sotto.
Purtroppo,
forse per caso forse per precisa volontà, un attimo prima di precipitare l’EDA
avviluppò la punta della coda attorno al piede del giovane, trascinandolo con
sé.
«Dannazione!».
Joe
riuscì a liberarsi tranciando di netto la coda del mostro, che ringhiò dal
dolore mentre ovunque si liberavano getti di sangue violaceo, ma questo non gli
impedì di precipitare assieme a lui nel baratro, e visto che la barriera
sottostante non era pensata per bloccare i corpi solidi il giovane si ritrovò
da un momento all’altro a galleggiare nello spazio fuori dalla nave.
«Oh, merda!»
esclamò Ulrich assistendo impotente alla scena.
Solo
quando gli riuscì di rimuovere l’oscuramento della visiera Joe riuscì a capire
realmente cosa era successo, ma tutto quello che poté vedere fu il vuoto
cosmico nel quale era finito, e il Megonia sopra di
sé ad un centinaio di metri.
Per
fortuna la tuta era pressurizzata e specifica per quel genere di situazioni, ma
questo non migliorava lo stato delle cose, senza contare che di quel maledetto
EDA non sembrava esservi più traccia.
«Di bene
in meglio».
Quella
era in assoluto la sua prima esperienza spaziale al di fuori delle stanze di
allenamento, e riuscire a mantenersi in equilibrio non era per niente facile.
Joe stringeva con forza il pugno attorno al machete, dato che l’istinto gli
suggeriva che quella bestiaccia era tutto fuorché sconfitta; quindi, pur
sapendo di rischiare seriamente di soffocare, usò parte dell’ossigeno
incamerato nella tuta per generare una combustione che, uscendo fuori dalla
presa d’aria nella schiena, funzionò come un piccolo propulsore permettendogli
di raggiungere nuovamente la nave, alla quale si aggrappò grazie ai magneti
installati nelle dita e nelle piante dei piedi.
Per un
attimo pensò di avercela fatta, tanto che si guardò intorno per cercare il
condotto e ritornare dentro, ma come aveva previsto l’EDA era ancora vivo, e
quando meno se lo aspettava gli si scagliò addosso, colpendolo con una poderosa
manata per poi correre nuovamente a nascondersi camminando a sua volta sulla
fusoliera del Megonia. Joe riuscì a difendersi quasi
per miracolo, ma il colpo che ricevette gli fece scivolare via il machete di
mano lasciandolo completamente disarmato.
La
stessa scena si ripeté un altro paio di volte, e in entrambe le occasioni Joe
riportò dei danni piuttosto seri, che non riuscirono per fortuna a perforare la
tuta, ma che nonostante ciò riuscirono ad incrinargli qualche costola.
Del
resto non era facile combattere a testa in giù, senza contare che l’energia che
alimentava i magneti non sarebbe durata per sempre, così come le riserve di
ossigeno ormai al minimo sindacale. Ma quell’EDA era come un fantasma, colpiva
e scappava prima ancora che Joe potesse vederlo; l’unica era tendergli una
nuova trappola, o distrarlo quel tanto che bastava per rientrare e chiuderlo
fuori, ma come fare?
Alla
ricerca di una soluzione, Joe notò una specie di sfiatatoio dal diametro di
neanche un metro, e spalancata per un momento la bocca in un moto di stupore vi
si diresse il più velocemente possibile comprendendo di che si trattava.
Raggiuntolo, prese a colpirlo violentemente con le nocche metalliche,
incrinandone la superficie e facendovi comparire delle strane striature rosse.
Attirato
dal rumore come da una campanella, l’EDA emise il suo violento ruggito, e
camminando a quattro zampe scivolò lungo la fusoliera pronto a scagliare
l’assalto finale.
«E
parti, maledetto!» imprecò il giovane continuando a colpire il buco, oltretutto
ormai quasi del tutto a corto di aria.
Ma non
succedeva nulla, e intanto il mostro si stava avvicinando. Poi, di colpo, lo sfiatatoio
divenne rossissimo, e fulmineo Joe si spostò lateralmente, evitando sia
l’ennesima artigliata, che stavolta poteva essergli davvero fatale, sia
soprattutto una vera e propria eruzione vulcanica che sprigionatasi da un
momento all’altro investì in pieno l’EDA, tramutandolo in una torcia.
Centraline
di scarico.
Per
quanto potessero essere grandi, nessuna batteria o condensatore poteva generare
l’energia tale a far muovere un intero vascello spaziale.
Come
tutte le astronavi il Megonia usava il krylium, che ridotto in polvere girava ininterrottamente
all’interno dei generatori fungendo sia da carburante per i motori sia da fonte
di energia per quasi tutti i sistemi della nave, liquefacendosi per via delle
altissime temperature cui veniva sottoposto.
Data la
sua elevata tossicità la maggior parte del composto così ottenuto veniva
espulso attraverso i rotori, ma una parte, dato l’elevato valore energetico
ancora presente al suo interno, veniva ridistribuita in una serie di cellette
disseminate in tutta la nave, sì da essere utilizzata in caso di emergenza come
“propulsori alternativi” per improvvise accelerate o virate repentine.
Bastava
uno di quegli sfiatatoi, una fonte di calore posizionata subito prima
dell’imboccatura, e dai condotti usciva una vera e propria cascata di plasma
rovente, con una temperatura vicina ai 4000 gradi, contro cui non c’era corazza
o pelle d’acciaio che potesse resistere.
L’EDA
urlò come un dannato, cercando inutilmente di liberarsi dal fuoco che lo aveva
avvolto, ma bastarono pochi secondi per fare di lui un carbone ardente che
aspettava solo di esalare l’ultimo respiro.
Approfittando
del momento Joe fece ricorso a tutte le forze che gli restavano, e messosi
anche lui a gattoni scivolò lungo le pareti e la pancia della nave fino a
raggiungere il foro da cui era uscito, infilandosi subito dentro.
Ma il
suo avversario, per quanto morente, non aveva alcuna intenzione di lasciarlo
scappare; con la forza della disperazione si riattaccò alla nave, correndo fin
quando gli fu possibile incurante del dolore e della sua pelle che, bruciata e
incenerita dal fuoco, sotto l’effetto del gelo cosmico, si stava tramutando in
pietra, e quando le sue gambe letteralmente si staccarono impedendogli di
andare oltre allungò il suo collo flessibile più che poteva.
Joe vide
la testa di quel mostro fare capolino da oltre il bordo fin dentro la nave,
agitandosi furiosamente come la coda di una lucertola, ed era talmente provato
che non riuscì ad impedirgli di travolgerlo buttandolo a terra.
Gli
mancava l’aria, ormai quasi del tutto esaurita, e tutto il corpo gli faceva
male, e l’EDA da parte sua sembrava intenzionato a investire ogni briciolo di
energia che gli restava nel tentativo di ucciderlo.
Il
pannello che controllava la botola era lì, a pochi passi. Istintivamente Joe si
tolse il casco, e caricato il braccio il più possibile lo scagliò contro il
computer centrandolo in pieno; il monitor andò in pezzi, ma la copertura
lamellare del condotto si azionò con la forza e la rapidità di una
ghigliottina, tranciando di netto la testa dell’EDA e buona parte del suo
collo.
A quel
punto il resto del corpo, ormai senza vita, si lasciò cadere all’indietro,
prendendo a galleggiare ancora fumante e parzialmente pietrificato in direzione
di Neos, da cui prima o dopo sarebbe stato
probabilmente attratto; quanto alla testa, stranamente, come il resto del corpo
non andò in cenere: forse la pietrificazione aveva interessato anche quel
misterioso Agente che causava la disgregazione dei tessuti, ma in quel momento
Joe non aveva né voglia né tempo per pensarci, preso com’era dall’essere
finalmente in grado di respirare di nuovo.
«Paratie
chiuse» disse il sistema di controllo. «Pressione stabile. Atmosfera ristabilita.»
«Lo
pensavo già Debois, ma ora devo proprio dirtelo» commentò
Ulrich. «Hai nove vite come i gatti».
Oltre a doversi guardare le
spalle respingendo occasionali attacchi da parte di gruppi più o meno grandi di
EDA, Vincent e Jacob avevano anche altri problemi da affrontare.
Jacob
non aveva l’aria di stare granché bene; anzi, più il tempo passava e più si
sentiva uno schifo. Quel maledetto morso rimediato nella prima sparatoria non
smetteva di sanguinare, e la pelle tutto attorno gli prudeva da morire, inoltre
gli girava la testa e gli bruciavano gli occhi.
«Ti senti
bene?» gli domandava continuamente Vincent, sempre più preoccupato
«Sto
bene, non preoccuparti» era la sua risposta ogni volta.
Che il
morso o la ferita di un’EDA potessero essere settici era un fatto risaputo, e
ciò era particolarmente vero nel caso di chi come Jacob non era dotato di
poteri magici; le scorie di magia impura che un’EDA si portava dietro erano
dure da smaltire per un organismo sano, ma con un po’ di pazienza e qualche
medicinale di solito tutto svaniva nel giro di qualche ora.
Intanto,
i due agenti erano ormai giunti nell’infermeria, ma l’atmosfera che trovarono
nell’avvicinarsi a quella zona era strana e molto inquietante.
In giro,
a differenza che in altre parti dello stesso ponte, non si vedeva nessuno, e
l’aria era satura di un odore nauseabondo, da putrefazione.
La cosa
strana fu che mentre Vincent quasi non riusciva a sopportare quel tremendo
fetore Jacob al contrario quasi non lo sentiva, benché avesse il naso
perfettamente libero e si fosse sempre fatto vanto di un olfatto piuttosto
sviluppato.
«Ecco,
ci siamo.» disse Vincent notando la croce sopra l’ingresso della zona
dell’infermeria.
Come
tutte le altre porte anche quella era robustamente chiusa, ma bastò loro
passare la mano sullo scanner per entrare, ma nell’istante in cui le porte si
aprirono quell’odore di morte sbuffò verso i due agenti con la potenza di una
bomba d’aria, e anche dopo aver varcato la soglia entrambi non riuscirono quasi
a credere ai propri occhi.
Non lo
si poteva neanche chiamare mattatoio.
Era
riduttivo.
Ovunque,
nelle cellette, nel corridoio, persino ammucchiati sui letti grondanti di
putrescenze ed interiora, erano ammassate centinaia e centinaia di corpi
mutilati, sventrati, amputati; alcuni non avevano la testa, altri le braccia,
altri ancora erano stati svuotati di tutto il loro contenuto.
La
maggior parte, oltre ad essere nuda, portava addosso segni di morsi e di
masticamenti, mentre quasi tutti avevano addosso segni evidenti di incisioni
chirurgiche, eseguite peraltro da una mano molto esperta.
C’erano
tante mosche ed insetti da impestare un’intera città, e il putridume portato da
una putrefazione che, nonostante la parvenza ancora abbastanza recente dei
cadaveri, appariva in alcuni corpi già piuttosto avanzata faceva annerire e
marcire i corpi, soprattutto attorno alle ferite e le menomazioni.
Persino
il pavimento era rosso, e reso scivoloso dai litri di sangue e intestini che lo
ricoprivano, l’aria era tinta del rosso del sangue che pareva essere persino
evaporato, e la luce quasi del tutto assente rendeva quella massa contorta di
cadaveri un’immagine degna delle peggiori profondità infernali; sembrava quasi
di sentirli ancora gridare, emettendo i loro lamenti.
Uomini.
Donne. Bambini. Vecchi. Ce n’erano di tutte le età sesso. Ma la cosa più
orrenda era che, a guardarli, non tutti erano, o per meglio dire erano stati,
degli EDA. Alcuni erano palesemente degli esseri umani, benché morsi o
parzialmente mangiati, ma ciò nonostante erano stati ugualmente mutilati.
«In nome
del cielo, ma che diavolo di posto è questo?» disse sconcertato Vincent.
D’un
tratto, avviandosi sempre più nel cuore dell’infermeria, i due agenti
iniziarono a sentire un rumore metallico, come di una sega circolare, provenire
da una stanzetta sul fondo, da cui giungeva inoltre una luce un po’ più forte.
Si
avvicinarono, e scostata leggermente la tendina che copriva la porta d’ingresso
fecero irruzione all’interno.
Un uomo
stava in piedi accanto al tavolo operatorio, il camice da medico rosso da far
spavento, e tra le mani una sega circolare con cui stava sezionando un’EDA
incatenato e ancora vivo, che si dimenava come un ossesso mentre gli veniva
letteralmente aperta la pancia, cercando di mordere il suo carnefice
apparentemente insensibile al dolore che doveva arrecargli un tale supplizio.
Accortosi
dei due agenti, l’uomo interruppe il suo lavoro, avvicinandosi a loro e
abbassandosi la mascherina.
«Ah,
siete arrivati. Sapevo che doveva esserci qualcuno. Allora avete ricevuto il
mio segnale.»
«Chi
accidenti sei tu?» domandò Vincent dopo interminabili secondi di silenzioso
sgomento, e seguitando a tenere il fucile puntato
«Dottor
Mark Curtis. Sono il dottore responsabile dell’infermeria del Megonia».
Di nuovo
i due agenti si guardarono attorno, sempre più sconvolti.
«Che
cazzo è successo qui dentro?» ringhiò Jacob con gli occhi rossi.
«Chiedo
scusa per questo spettacolo poco piacevole. Quando è incominciato tutto, gli
EDA hanno iniziato ad assalire chiunque gli capitasse a tiro, e prima che
potessi attivare le misure di emergenza con gli impulsi magici hanno sbranato
quasi tutti» quindi il dottore esibì una pistola che portava alla cintura.
«Grazie al cielo io avevo questa, e mi sono potuto difendere, ma nel giro di
poche ore quei pochi che erano sopravvissuti sono morti anche loro».
I due
uomini guardarono l’EDA, che benché sventrato seguitava inspiegabilmente ad
agitarsi senza volerne sapere di morire.
«Tranquilli,
è paralizzato dal collo in giù. L’ho anche imbottito di anticoagulanti e
nitrato di krylium per ritardarne la morte» quindi il
dottore si tolse un momento gli occhiali, ansimando. «Ho studiato da coroner, e
ho avuto modo di sezionare più di qualche EDA, ma non ho mai visto niente del
genere.
Non
potete neanche immaginare quello che è successo qui».
Senza
dire altro, Jacob puntò l’arma all’EDA facendogli saltare la testa,
sconvolgendo il dottore.
«No, che
fate? Non avevo ancora finito di analizzarlo! Era l’unico ancora vivo!»
«Non
importa se sono mostri. Un tempo erano uomini. Meritano un po’ di dignità.»
«Si
fidi, la dignità è l’ultimo dei nostri problemi al momento. Avete ripristinato
le comunicazioni, vero?»
«Abbiamo
una linea con la superficie. Stanno inviando aiuti».
Il Direttore
spalancò gli occhi.
«Allora,
dovete mettermi in comunicazione con loro! Subito!
Devo
assolutamente parlare con l’alto comando dell’Agenzia!».
L’Aurora, viaggiando a
pieno regime, aveva già raggiunto la Ares, dove aveva rapidamente dato avvio
alle operazioni di rifornimento e imbarco della forza d’attacco necessaria a
riprendere il controllo del Megonia.
Nell’attesa
che tutto fosse pronto per ripartire, nella sala riunioni della stazione il
consiglio di sicurezza aveva organizzato un’ultima riunione tattica per
decidere la linea d’intervento, nella speranza di sentir giungere da un momento
all’altro la trasmissione che annunciava l’avvenuto ripristino dei sistemi di
navigazione che conducesse il Megonia in un luogo
favorevole per il salvataggio.
Unatrasmissione arrivò, ma invece del volto di Ulrich o di quello del Capitano Klopfer
i membri del Consiglio videro materializzarsi sul monitor lo sguardo atterrito
e sconvolto, per quanto composto, del dottor Curtis.
Il
dottore si era risistemato, smettendo il camice degno di un macellaio in favore
uno ancora intonso, lavandosi malamente il sangue anche da faccia e capelli,
inoltre aveva appositamente aperto la comunicazione procuratagli da Ulrich nel proprio ufficio lasciato in ordine.
Tuttavia,
ciò che il dottore aveva da dire era di una gravità e di uno sconvolgente tale
che nessuno, nell’ascoltarlo, avrebbe fatto caso al suo aspetto.
«Un
virus!?» esclamò Nolan
«Sì,
signore. Più precisamente, il virus dell’influenza.
Abbiamo
avuto una piccola epidemia a bordo subito dopo la partenza, per questo si è
diffusa in tutta la nave in modo così rapido.»
«Ma come
può un virus provocare un fenomeno EDA?»
«E
soprattutto, perché un virus!? Gli EDA non dovrebbero nascere solo dagli esseri
umani?»
«La mia
è solo un’ipotesi, signori, ma ritengo abbia a che fare con la Nascita di
Venere. Come tutte le astronavi, anche il Megonia è
dotato di barriere e rivestimenti protettivi, ma la quantità di radiazioni
magiche emesse da Neos in occasione di questo
fenomeno atmosferico sono particolarmente elevate. Forse anche più di quanto ci
aspettassimo.
Il virus
dell’influenza è basato su di una sequenza RNA, che per quanto complessa è
strutturalmente più semplice rispetto all’originale DNA, ma anche molto più
fragile.
La mia
teoria è che le radiazioni abbiano alterato la sequenza genomica del virus
dell’influenza che si era diffuso a bordo, tramutandolo in una sorta di EDA-virus capace di trasmettere la propria infezione a
chiunque ne sia colpito».
I membri
del Consiglio sbiancarono.
«Ha
detto a chiunque!?» ripeté il Direttore Geithner
«Ho
studiato il decorso della malattia, se così si può chiamarla. Subito dopo la
mutazione, il virus inizia a moltiplicarsi in modo incontrollato, causando in
breve tempo il collasso dell’organismo ospite a causa dell’aumento esponenziale
di particelle magiche nell’organismo.
Al
momento della morte, il livello di contaminazione risulta a tal punto elevato
da provocare la mutazione all’interno del corpo stesso, provocando la nascita
di un vero e proprio EDA. L’alta percentuale di energia infetta presente negli
EDA generati è considerevole, abbastanza da permettere loro una sopravvivenza
decisamente più lunga rispetto alla media, oltre ad una resistenza sopra la
media ai comuni sistemi di contenimento.
Infine,
in base agli esami autoptici che ho potuto condurre, credo di poter affermare
con certezza due cose. La prima, è che il virus non ha effetto sugli stregoni,
data la presenza di un core molto sviluppato che
assorbe gli effetti nefasti dell’infezione, la seconda che in base al tasso di
infezione negli esseri umani possono verificarsi vari stadi di mutazione. Circa
due terzi dei soggetti colpiti muoiono prima che l’infezione diventi così grave
da causare una mutazione post-mortem, mentre di
quelli che restano nove su dieci si trasformano in EDA di classe Pedone, con la
restante percentuale che può assumere caratteristiche che possono andare da un
Classe Cavallo ad un Classe Alfiere.
Quando
l’energia nefasta si esaurisce, o se il decesso avviene prima che questa abbia
incrinato pesantemente il DNA, in entrambi i casi il virus rapidamente si
autodistrugge assieme all’organismo ospite e a qualunque materiale non
sufficientemente resistente che si trovi nei dintorni del corpo in una specie
di auto-combustione, anche se servendomi di ritardanti e inibitori sono
riuscito in qualche modo a limitare tale processo sì da condurre i miei
esperimenti».
I membri
del Consiglio si fecero dei fantasmi, guardandosi attoniti tra loro.
«E non
c’è niente che si possa fare?» domandò ancora il Direttore Generale.
«Ho
tentato di somministrare ai pazienti colpiti dosi massicce di antibiotici,
oltre a bombardarli di incantesimi decontaminanti nel tentativo quantomeno di
arrestare la mutazione, ma non ho ottenuto risultati».
Il dottore
si fermò un momento; sembrava a sua volta sconvolto.
«Ma c’è
una cosa ancora peggiore. Questo virus… è
contagioso».
Fu come
se un vento gelido si fosse abbattuto nella stanza, immobilizzando e
cristallizzando ogni cosa.
«Come… come ha detto prego?» domandò Pierce McArdle, il più giovane membro del Consiglio, sia per età
che per nomina
«È così,
signore. Ringraziando il cielo ha perso la capacità di sopravvivere nell’aria,
ma a parte questo si propaga ancora come la normale influenza, soprattutto per contatto
diretto: morsi, graffi, a volte basta il semplice contatto fisico. Il tempo di
incubazione varia a seconda del soggetto, ma in ogni caso non và oltre le
dodici ore.
L’unica
nota positiva è che con la disgregazione dei corpi non rimangono cadaveri che
fungano da ricettacoli, ma di fronte alla sua virulenza questa una ben magra
consolazione.
Dovete
inviare aiuti al più presto, o moriranno tutti!».
Qualcuno
si buttò sul tavolo come sfinito, chi li aveva si tolse gli occhiali quasi a
voler piangere; gli unici a restare impassibili furono Nolan
e Geithner, ma mentre il secondo sembrava cercare di
nascondere il suo reale stato d’animo il primo lasciava trasparire tutto il suo
disappunto e sconcerto, senza però che questo si traducesse in una parvenza di
rassegnazione.
Dopo
qualche attimo il segnale si interruppe di colpo, senza motivo apparente, ma
ormai quegli uomini avevano sentito abbastanza. E se non bastavano le parole,
dopo poco giunsero anche le poche immagini che il dottore era riuscito a
mettere insieme sia dalle riprese della sicurezza prima che si spegnessero del
tutto, sia da quelle delle sue autopsie da lui condotte, e per interminabili
minuti in quella stanza regnò il più totale silenzio.
Non la
si poteva neanche più chiamare situazione al limite: quella era una cosa mai
successa prima, oltre alla più grave, potenziale catastrofe che la MAB e
l’intero pianeta si trovavano a dover affrontare.
«Avete
sentito quello che ha detto, vero?» esclamò ad un certo punto Nolan, il più risoluto di tutti. «Immagino siate tutti
d’accordo su quale sia la cosa giusta da fare.»
«Ma…» tentò di obiettare Geithner.
«Stiamo parlando di migliaia di persone. Avete sentito quello che ha detto l’Agente
Drassimovic. Ci sono dei superstiti a bordo.»
«E sono
tutti potenziali vettori della malattia, Signore» disse un altro, il Direttore HaseoAoyama. «Chi ci assicura
che tra di loro non ci siano degli infetti? Temo sia un rischio che non
possiamo permetterci di correre. È in gioco la sicurezza del nostro pianeta.»
«Potremmo
mettere in quarantena la nave» provò ad ipotizzare un altro ancora, AndreyValdes. «Mandiamo i nostri
uomini a bordo, eliminiamo gli infetti, e isoliamo i superstiti fino a che non
potremo accertarne la non pericolosità.»
«E se
uno dei nostri uomini viene infettato cosa facciamo?» irruppe Nolan.
Di nuovo
tutti tacquero, chinando il capo.
«Signore,
lo so che è una decisione dolorosa» disse Aoyama «Ma
dobbiamo fare ciò che è giusto.»
«Non
dovremmo avvertire Amaltea della situazione?» chiese McArdle. «La nave è loro dopotutto.»
«Per
farci rallentare da burocrazia e paternalismi?» tuonò Nolan.
«Il tempo è un lusso che non abbiamo! Dobbiamo agire subito! È in gioco la
sicurezza di questo mondo!».
Il Direttore Shane nel
frattempo si era ritirato nel suo ufficio, certo che sarebbe stato richiamato
appena fosse venuto il momento di deliberare le ultime questioni e partire per Neos.
Stranamente
la cosa andò per le lunghe, anche se Nathan era troppo preso nei suoi pensieri
per accorgersene, ma quando gli venne da gettare uno sguardo sull’orologio
avvedendosi di che ore fossero iniziò a pensare che forse era successo
qualcosa.
Poi, uno
dei suoi assistenti irruppe nell’ufficio, incredulo e frastornato.
«Signore,
l’Aurora si sta preparando a ripartire.»
«Che
cosa!?» esclamò lui balzando dalla poltrona
«È così,
Signore. Hanno anche annullato le operazioni di imbarco truppe, e ordinato il
rifornimento dei sistemi d’arma».
In linea
teorica nessuno poteva fare niente a bordo di quella stazione senza il permesso
di Nathan, ma quello era l’ultimo dei problemi.
Come un
toro infuriato il Direttore si diresse a grandi passi verso la zona d’attracco,
trovando man mano che vi si avvicinava la frenesia più assoluta. Chiunque
fermasse dell’equipaggio dell’Aurora non apriva bocca, obiettando quando gli
veniva ricordata la differenza di grado che l’ordine di silenzio veniva
direttamente dal Direttore Generale in persona.
Con
tutte quelle bocche cucite, a Nathan non rimase che andare dal suo vecchio
amico McArdle, con cui aveva da anni una bella
amicizia, ma che soprattutto gli doveva parecchi favori dai tempi
dell’accademia, tra compiti lasciati copiare e assenze ingiustificate
prontamente coperte.
Lo trovò
in una saletta nei pressi dell’imbarco, funereo e con il volto cereo, gli occhi
al pavimento che trattenevano a stento lacrime di vergogna.
Dovette
forzarlo un po’, ma alla fine riuscì a fargli raccontare cosa fosse realmente
accaduto in quella stanza, e qualche minuto dopo Nolan,
intento a controllare lo stato dei rifornimenti davanti al portello della nave,
se lo vide venire contro schiumante di rabbia.
«Oh,
porca miseria.» imprecò tra sé mentre Nathan si avvicinava
«Brutto
figlio di puttana! Pensavi che non l’avrei saputo?»
«La
decisione ormai è stata presa. Il Consiglio l’ha approvata!»
«Quale
decisione!? Quella di vaporizzare migliaia di civili? Lassù ci sono i miei
ragazzi!»
«Non
possiamo fare niente per loro, e se sono furbi scommetto che già lo sanno! E
comunque, se quel virus lascia il Megonia potrebbe
esserci una pandemia! Vuoi vedere Kyrador, o Otisa, o Volgorad, o qualunque
altra cazzo di città trasformata in una specie di inferno in terra? Io no!
Preferisco perderne poche migliaia di interi milioni! E scommetto anche tu!»
«Ma il
virus non è aerobico, santo Dio! Possiamo contenerlo con la quarantena!»
«È un
rischio che non possiamo né vogliamo correre, stupido amalteco!»
«Hai
ragione, sono amalteco! Quindi non vi permetterò vi
polverizzare una nave del mio Paese! Ora alzerò il telefono e informerò Amaltea della situazione, e vediamo se vi lasceranno fare
quello che volete!»
«No, tu
non farai proprio nulla! Sarai pure amalteco, ma
prima di tutto sei un membro di questa Agenzia, e in quanto tale ti atterrai
alle direttive dei tuoi superiori!»
«Il Megonia è una nave di Amaltea! È
il governo di Amaltea che deve avere l’ultima
parola!»
«Niente
affatto! Emergenza militare di Classe Uno! In base alle direttive, in caso di
emergenza di Classe Uno la MAB ha la facoltà di agire, cito testualmente, nell’interesse e nell’incolumità della
sicurezza mondiale e della popolazione di Celestis!
Vatti a rileggere l’RMA per i dettagli!»
«Ma
scommetto che ad Amaltea non avete detto niente!
Saranno felici quando sapranno che avete disintegrato la loro nave ammiraglia
senza dirgli niente!»
«Lo
saranno ancora di più quando sapranno che gli abbiamo evitato una pandemia di
livello potenzialmente catastrofico!
Questa è
una situazione che, porca puttana, va’ risolta subito!»
«Direttore»
disse in quella un marinaio. «Siamo pronti a decollare.»
«Bene,
era ora. Scusa, amico. I tuoi uomini non ci servono più» e detto questo Nolan salì sull’Aurora chiudendo letteralmente in faccia il
portello al Direttore Shane, che poté solo restare ad osservare attraverso i vetri
la nave che si allontanava in direzione di Neos.
Uno dei
suoi, cui aveva ordinato di tentare di ristabilire il contatto con il Megonia con qualunque mezzo necessario, gli si fece
incontro poco dopo pallido e sconfortato, trovando il suo superiore ancora
immobile come una statua dinnanzi al portello chiuso.
«Mi
dispiace signore, non c’è niente da fare. Temo che il satellite sia stato
colpito da qualche detrito.»
«Fai
preparare gli uomini e una nave.»
«Signore?!»
«Subito!».
Jacob era sicuro che con un
po’ di tempo e di riposo si sarebbe sentito meglio, invece di colpo le sue
condizioni sembrarono precipitare, e a Vincent bastò poggiargli una mano sul
volto per rendersi conto di come scottasse da far paura.
«Santo
cielo Jacob, ma che ti succede?» domandò Vincent sempre più preoccupato.
Ma ormai
Jacob era ridotto in uno stato tale da non riuscire quasi a parlare, tanto i
colpi di tosse e i conati di vomito gli rendevano difficile persino trovare la
forza per respirare.
Per
tentare di aiutare in qualche modo l’amico Vincent andò a cercargli qualcosa da
bere, e mentre Jacob era da solo, disteso alla meglio su uno dei pochi lettini
non lordi di sangue, aperti un momento gli occhi trovò a sovrastarlo il dottor
Curtis, che lo fissava dall’alto come un giudice pronto ad emettere una
sentenza.
«Ti
hanno morso?».
Jacob
fece cenno di sì.
«Lo sai
che cosa ti aspetta, non è vero? Mi hai sentito mentre ne parlavo».
Era
vero.
Forse il
dottore lo aveva fatto di proposito; forse aveva detto volontariamente a
Vincent di distendere l’amico ad un lettino così vicino all’infermeria,
cosicché le orecchie di Jacob, rese ipersensibili da una mutazione che di fatto
era già cominciata, potesse sentire di persona quale era il suo destino e
decidere di conseguenza.
Il suo
destino era segnato. Non c’era niente da fare. L’unica cosa che poteva fare era
morire con onore, senza tramutarsi in uno di quei mostri.
«Ragazzi,
brutte notizie» disse d’improvviso Ulrich. «Ho un
nutrito schieramento di EDA sui monitor nei pressi dell’infermeria. Se non ve
ne andate subito potreste non farlo più».
Vincent
tornò in tutta fretta, ma quello che vide lo scioccò: in suo amico Jacob si era
seduto, gli occhi che piangevanosangue
e una poltiglia fetida che gli usciva dalla bocca.
Riconobbe
subito i sintomi: li aveva visti centinaia di volte. Ma non voleva crederci;
non poteva crederci.
«Il suo
collega è stato colpito in forma blanda» spiegò funereo il dottore. «Il virus
non lo ucciderà, ma questo non impedirà la mutazione.»
«No! No!
Non può essere!» gridò Vincent scotendo l’amico, ormai moribondo, e
mostrandogli il suo stesso pendente. «Jacob, tu sei più forte di così! Sei
sopravvissuto a mille EDA!»
«È
inutile. Teoricamente sarebbe ancora possibile arrestare la mutazione, ma essendo
provocata da un virus fermarla è impossibile.»
«Non può
essere così! Deve esserci qualcosa che possiamo fare!»
«Una
soltanto».
Freddo,
senza apparente esitazione, il dottore prese la pistola, e con un colpo dritto
in mezzo alla fronte pose fine alle sofferenze di Jacob, che si accasciò senza
vita sul lettino.
Vincent
rimase di sasso, mentre in lui montava la rabbia.
«Bastardo!»
sbraitò atterrando Mark con un pugno che quasi gli ruppe la mascella. «L’hai
ucciso!»
«Non
l’ho ucciso!» rispose fieramente il dottore. «Ho salvato quello che restava del
suo onore!»
«Stai
mentendo!»
«Guardalo!
Ti sembra una persona triste?».
Solo
allora Vincent si accorse che sul volto lordo di sangue e vomito del suo più
caro amico era comparso, come una rosa in mezzo al fango, un bellissimo
sorriso, rilassato e felice, e allora capì.
Forse
non era la morte che Jacob avrebbe sempre sognato, ma almeno era stata una fine
onorevole. Meglio morire così che diventare uno di quei mostri che avevano
sempre combattuto.
Di
certo, però, non avrebbe permesso al suo corpo di diventare cibo per quelle
maledette creature. Sapeva di non poterselo portare dietro, ma contava di
tenerlo al sicuro fino a che quell’incubo infernale non fosse finito, così, con
l’aiuto del dottore, lo portò dentro la sala operatoria, adagiandolo con cura
sul tavolo.
Prima di
andarsene lo compose come poteva, incrociandogli le mani sul busto attorno al
pendente, e fino a che gli fu possibile stette ad osservarlo in silenzio,
sfiorandogli di tanto in tanto i capelli insanguinati; quindi, quando i ruggiti
di quei mostri si erano fatti ormai troppo vicini, se ne andò, sprangando con
forza la porta dell’infermeria perché risultasse un santuario, o un cimitero,
assolutamente impenetrabile.
«E ora
forza, andiamo via!» ordinò al dottore.
Nella sala dei superstiti,
l’aria si stava facendo davvero pesante.
Anche se
gli scossoni si erano sensibilmente ridotti di quando in quando si sentiva la
nave scricchiolare, e ogni volta la paura montava sempre più forte.
La
maggior parte delle persone si era convinta che tutto fosse nelle mani del Capitano
Klopfer, e attendeva come i suoi due giovani
sottoposti di sentire da lui buone notizie da un momento all’altro, ma c’era
anche una ristretta minoranza che non perdeva occasione per polemizzare e
mugugnare a mezza voce il proprio disappunto, fulminando Klaus e Amanda con
delle occhiatacce e degli improperi mal celati.
«È tutta
colpa vostra!» urlò ad un certo punto Richard Song
all’indirizzo dei due ragazzi. «Solo colpa vostra!»
«Adesso
non incominciare.» cercò di bloccarlo Gullit
«Chi ha
aperto le porte? Chi ha permesso a quei dannati mostri di circolare liberi per
tutta questa fottuta nave? Siete stati voi!»
«Ma non
lo capisci, imbecille?» gli rispose Ashley. «Se non avessero aperto le porte,
non sarebbero neppure arrivati qui. E noi saremmo ancora a farci luce con le
candele.»
«Sta
zitta, culo basso. Cosa puoi saperne tu? E comunque preferivo di gran lunga
pisciare alla luce di una fiammella che finire mangiato da quelle creature!
Voi avete
provocato tutto questo, e ora voi dovete farci uscire!»
«È
quello che stiamo facendo» tentò di spiegare Amanda. «Abbiate solo un po’ di
pazienza. Quando i motori saranno stati riparati…»
«Al
diavolo i motori! Chi vi dice che funzionino ancora? E soprattutto, chi ci
assicura che quei tre ce la faranno? Grazie a voi, e ribadisco grazie a voi,
ora questa fottuta nave è infestata da cima a fondo! Cosa credete che possano
fare tre uomini? Scommetto che a quest’ora sono già stati sbranati, il che significa
che potrebbero essere diventati anche loro come quei cosi!
L’unica
cosa da fare è raggiungere le scialuppe!»
«Il Capitano
è l’uomo più competente che conosca» disse spazientito Klaus. «Se ha detto che
ce la farà, allora è così.»
«Ma
taci, ragazzino. Cosa credi di saperne tu? Guarda che ti abbiamo visto tutti
fare il cane bastonato davanti a quel tipo. È chiaro che per lui tu non conti
niente, e non intendo stare qui a farmi guardare le spalle da un lattante che
non ha neppure la fiducia del suo capo.»
«Come
hai detto, spocchioso pezzo di merda?».
Klaus
aveva cercato di trattenersi fino all’ultimo, ma alla fine non ce la fece più e
assestò uno dei suoi famosi sinistri dritto allo zigomo di Song,
che volò al tappeto con un molare in meno e il setto nasale spostato.
«Tu,
brutto figlio di…».
Sembrava
davvero che dovesse scatenarsi una gigantesca rissa, ma un urlo paralizzò
tutti.
«Basta,
smettetela!».
Johanna,
rannicchiata in un angolo, seguitava a tenere la figliastra stretta a sé, senza
che però questa ricambiasse in qualche modo, e intanto guardava i responsabili
di quella zuffa con occhi iniettati di astio.
«Che
senso ha combattere tra di noi? Non lo capite che siamo tutti sulla stessa
barca?
Ora
smettetela di fare i bambini e comportatevi da uomini! Così spaventate tutti!».
Effettivamente,
guardandosi attorno Klaus si avvide che le persone tutto attorno li stavano
guardavano, ed era evidente la loro paura.
Si diede
dello stupido: se proprio lui, il cui compito era di portare in salvo quelle
persone, si lasciava sopraffare dalla tensione, come poteva aspettarsi di poter
essere di qualche aiuto?
Lasciò
andare Song, che quasi senza accorgercene aveva preso
con forza per il bavero, scaraventandolo via.
«Se ti
sento ancora aprire bocca, ti faccio saltare qualche altro dente» e quello,
masticando, poté solo obbedire, spaventato dal modo in cui Klaus accarezzava il
suo fucile.
Helen non era mai stata una
persona fortunata; o almeno, non si era mai reputata tale.
Così, il
fatto che l’ascensore per il ponte fosse difettoso non la sorprese più di
tanto, e poiché era una maganon dovette
neanche faticare particolarmente per percorrere in volo la tromba quadrangolare
fino a giungere a destinazione.
Il
ponte, immenso, era completamente deserto; probabilmente i suoi occupanti erano
quelli che aveva sterminato all’ingresso. Inoltre, le paratie di sicurezza a
protezione dei vetri erano tutte abbassate, ma si trattava senza dubbio di una
misura d’emergenza attivatasi automaticamente con il blocco dei sistemi.
Di
nemici, per fortuna, nemmeno uno.
«Sono
sul ponte» disse via radio. «La zona è sicura.»
«D’accordo»
rispose Ulrich. «Dammi un attimo che ripristino i
sistemi».
Ma per
il ragazzo era in serbo una brutta sorpresa.
Quando
tentò di accedere ai comandi del ponte per ripristinarne le funzionalità,
infatti, si ritrovò davanti solo una massa inestricabile di dati e pattume
digitale, oltre a dei software scombinati all’inverosimile.
«Che
diavolo è successo qui?» disse incredulo.
La
risposta arrivò ad un rapido controllo, e non era certo delle più rassicuranti.
«Cattive
notizie, Helen. Temo ci sia un bug nel computer della nave.»
«Come
sarebbe a dire, un bug!?»
«Non so
di preciso di che bug si tratti, ma una cosa è certa: ha fatto macello dei
sistemi che controllano le funzionalità del ponte di comando. Ora come ora è
impossibile perfino dare energia ai motori, figuriamoci ripristinare la rotta.»
«Vuoi
dire che ho fatto tutta questa strada per niente!?»
«Proverò
ad eliminare il bug e a fare un controllo. Se siamo fortunati il sistema che
cerchiamo non è stato toccato. In caso contrario, dovremo inventarci
qualcos’altro.»
«Non c’è
che dire, questa missione sta filando liscia come l’olio».
La strada verso la sala
motori si stava rivelando incredibilmente semplice: forse anche troppo.
Era vero
che quel ponte in particolare era stato di fatto quasi isolato grazie ad Ulrich, ma la situazione sembrava fin troppo tranquilla: in
quei corridoi era solo buio e silenzio.
«Non mi
convince» disse Reynar. «Sembra tutto troppo facile.»
«Cosa
c’è in fondo a questo corridoio?» chiese Georg a Raoul
«Le
cucine».
Le porte
scorrevoli delle cucine apparvero infatti poco dopo a bloccare la strada, ma
erano porte strane, robuste e di puro acciaio, oltre che apparentemente
infrangibili.
«Porte
tagliafuoco» disse Raoul preoccupato. «Deve esserci stato un incendio».
Georg
provò a buttarci sopra l’acqua della sua borraccia, e questa evaporò del tutto
ancor prima di toccare la superficie.
«Ulrich, ci serve un’altra strada.»
«C’è un
corridoio di servizio poco distante che gira attorno alle cucine. Tornate
indietro di quindici metri e prendete a destra».
I tre
fecero come era stato loro detto, ma ancora una volta si trovarono di fronte ad
una porta chiusa.
«Ho
bloccato entrambe le porte. Aspettate un momento, ora le riapro».
L’attesa
fu piuttosto lunga, ma almeno sembrava destinata a scorrere senza imprevisti,
tanto che i tre uomini finirono persino per calmarsi.
«Accidenti
a mia moglie» imprecò Reynar. «Avrei fatto meglio ad
impuntarmi.»
«Sua
moglie è a bordo?» chiese Raoul
«Grazie
al cielo no. Ha baciato un albero a quaranta all’ora e da due settimane è
all’ospedale con un femore rotto e un trauma cranico.
Avevamo
comprato i biglietti per questo viaggio già due anni fa, e ormai era tardi per
riavere i soldi, così mi ha convinto a venirci da solo.»
«Guardi
il lato positivo. Ha assistito a due grandi eventi in una volta sola.»
«Ne
avrei fatto volentieri a meno. Io odio volare.»
«E tu,
Raoul? Sei sposato?» domandò Georg
«Ho una
ragazza. Svetlana. Sta a Volgorad.»
«Sei
fortunato» rise Reynar «Visto il freddo che fa
laggiù, scommetto che ogni volta che vi vedete ti chiede di riscaldarla a
dovere».
Non era
granché come battuta, ma in quella situazione qualunque cosa aiutasse a
stemperare la tensione era benaccetta.
Se non
che, proprio nel momento in cui Georg e i suoi improvvisati compagni erano
maggiormente calmi, un rumore inquietante, come di qualcosa di metallico che
cadeva violentemente a terra rompendo il silenzio, li riportò violentemente
alla realtà.
A quel rumore ne seguirono
altri, molto più inquietanti, fatti di strepiti, respiri sibilanti e passi di
corsa.
Non
dovettero passare che pochi secondi, e dall’angolo sul fondo del corridoio i
tre uomini videro sbucare un vero esercito di EDA, che sguardi assatanati e
bocche grondanti di saliva correva verso di loro.
«Fuoco!».
Spararono
all’unisono, e poiché sia Raoul che Reynar non erano
nuovi all’uso delle armi il loro rateo di fuoco, oltre che considerevole,
risultò anche piuttosto preciso, ma questo non rendeva la loro situazione meno
tragica.
Per
quanti ne uccidessero quelli continuavano ad arrivare, e inoltre abbatterli non
era facile, con quel loro correre indeciso e quell’unico bersaglio vulnerabile,
la testa, che si muoveva di continuo da una parte all’altra come quella di uno
struzzo al galoppo.
«Ulrich, dannazione muoviti!»
«Sto
facendo il possibile, signore!» rispose il giovane, che per la prima volta
stava cedendo al panico e all’ansia.
Una
pallottola vagante andò a centrare una conduttura del gas che alimentava le
cucine provocando una fontana di fuoco che rallentò per qualche attimo
l’avanzata dei nemici, ma quasi subito entrò in funzione il meccanismo
antincendio che inondando d’acqua il corridoio iniziò a spegnere rapidamente le
fiamme.
«Ulrich!»
«Ci
sono!».
Le porte
alle spalle dei tre finalmente si aprirono, e con esse anche quelle dalla parte
opposta della stanza che dovevano percorrere.
«Ho craccato il sistema, ma non resteranno aperte per sempre!
Sbrigatevi!».
La
stanza in questione era costituita in realtà da due piccoli loculi spalancati
su di un’immensa galleria che portava le condutture di alimentazione per tutta
la nave, sopra le quali si poteva passare per un ponticello metallico lungo e
stretto: una perfetta strozzatura.
«Presto,
dentro!» ordinò Georg.
Salirono
sul ponticello, percorrendolo il più velocemente possibile, con quella massa di
mostri che spentesi le fiamme subito andarono loro dietro.
Georg
era l’ultimo del gruppo, e camminava all’indietro sparando tutto quello che
aveva, ma non si accorse che uno degli EDA, aggirando la prima linea con un
salto sovrumano, era sul punto di piombargli addosso.
«Attento!»
gridò Reynar che lo precedeva, e che con un tiro ben
piazzato fulminò l’aggressore facendolo precipitare nel baratro.
Si ebbe
quindi un cambio di posizioni, con Reynar ultimo
della fila, e lasciato perdere lo sparare agli assalitori tutti e tre si misero
a correre verso la salvezza.
Reynar non si
accorse che stavano iniziando i gradini del ponticello, e sentendosi mancare
all’improvviso la terra sotto i piedi cadde malamente in avanti battendo con
forza il ginocchio sul pavimento, tanto che quando provò a rialzarsi non gli
riuscì di trattenere le grida di dolore.
«Philippe!».
In quel
momento le porte iniziarono a chiudersi, e Georg, afferrati saldamente i
battenti, usò tutta la sua forza per tenerli faticosamente aperti, ma la
pressione era tale che non avrebbe resistito a lungo. Il vicesindaco gattonò i
pochi metri che lo separavano dalla porta, con Raoul che gli tendeva la mano il
più possibile; l’aveva appena afferrata, ed era già fuori dalla stanza con metà
del corpo, quando qualcun altro lo agguantò con forza dalla parte opposta,
affondandogli i denti nella gamba fin quasi a staccargliela.
Il suo
urlo fu assordante e spaventoso, e quando Georg, con i muscoli che tremavano
per lo sforzo, riuscì a guardare dinnanzi a sé, vide una decina di EDA
ammassati attorno alle gambe di Reynar, che tiravano
e mordevano con bestiale veemenza mentre altri si ammassavano per unirsi a
quelle specie di sadico tiro alla fune.
«Non
mollare!» continuava ad urlare Raoul, tirando con entrambe le mani.
Nel
disperato tentativo di salvare il compagno Georg lasciò andare la porta, che si
chiuse con uno scatto per fortuna non troppo violento, afferrando con una mano
il braccio di Reynar e prendendo a sparare attraverso
la fessura con quella ancora libera, ma quei maledetti mostri non volevano
saperne di arrendersi.
Reynar gridò
con tutta la voce che aveva, lanciando nel contempo urla di dolore mentre le
gambe gli venivano divorate, e nonostante tutti gli sforzi dei suoi due
compagni alla fine, con gli occhi sbarrati per e la faccia sconvolta per il
terrore, scomparve dietro le porte che si richiudevano, mentre le sue grida
rapidamente si spegnevano.
Raoul
restò a lungo immobile, seduto in terra, guardando verso la porta chiusa,
mentre Georg, riavutosi dallo shock, prese a tirare violenti calci al muro.
«Porca
troia! Come cazzo hanno fatto ad arrivare fin qui?»
«Non ne
ho idea, signore» tentò di giustificarsi Ulrich. «Il
computer dice che tutte le porte sono ancora chiuse.»
«E
allora quelli da dove cazzo sono usciti?».
A quel
punto, con la cucina isolata e gli EDA ad infestare quella zona, non c’era più
alcun modo per tornare indietro, ma al momento quello era l’ultimo dei loro
problemi.
«In
piedi, soldato» ordinò Georg tentando di far leva sui trascorsi militari di
Raoul per riportarlo alla ragione. «Quanto manca alla sala motori?»
«Circa… circa cento metri…» rispose
lui ancora sconvolto. «Ma dovremo fare delle deviazioni…»
«E
allora muoviamoci. Restare qui a piangere non servirà a niente».
Dato che il tragitto fatto
all’andata per raggiungere l’infermeria, a sentire Ulrich,
era ormai infestato, Vincent e il dottor Curtis non ebbero altra scelta che
passare per l’acquaparco, salendo di un ponte con
l’intenzione di scendere nelle stive usando un’altra scala di servizio ancora
sgombra dietro agli spogliatoi.
Lo
spettacolo che i due uomini trovarono varcando le porte stagne che immettevano
nella zona delle piscine, pensata e strutturata in modo da ricreare l’atmosfera
tropicale isolando quell’enorme androne dal resto della nave, fu però quanto di
più macabro si potesse immaginare: l’acquaparco era
dotato di tre piscine, di cui una con idromassaggio e una con grandi scivoli
che salivano fin quasi a lambire l’altissimo soffitto a volta, e persino un
piccolo laghetto di acqua termale che riproduceva le famose pozze di Zipangu, e in ognuna di quelle vasche galleggiavano senza
vita decine e decine di corpi, mentre altri giacevano inerti sulle mattonelle
bianche, il volto blu e la bocca innaturalmente spalancata. Alcuni poi avevano
le mani serrate con forza attorno al collo o vistosi tagli sulla gola, altro
sintomo che indicava chiaramente una morte per soffocamento.
Se non
altro non si muovevano, ma ciò non bastava a rendere spiegabile ed accettabile
tutto quell’orrore.
«In nome
del cielo, che è successo qui dentro?» domandò Vincent
«Probabilmente
c’è stato un guasto al sistema di aerazione. Quest’area è a tenuta stagna, e
quando è mancato l’ossigeno…».
Non fece
in tempo a finire di parlare, che Vincent notò una inspiegabile e minacciosa
increspatura nell’acqua, puntandovi subito contro il suo fucile.
Uno ad
uno, quegli innumerevoli cadaveri parvero tornare in vita, e quello che era
peggio molti di loro, avvolti da una luce inquietante, presero a mutare
rapidamente aspetto, trasformandosi in una schiera minacciosa di mostri dalle
forme più diverse, ma ugualmente spaventose.
Probabilmente
era colpa della polvere di krylium che veniva pompato
nell’acqua delle piscine allo scopo di renderla più traslucida e luminescente,
e che in qualche modo doveva essere riuscito a penetrare nei corpi
accentuandone la mutazione.
Ma il
problema era un altro.
«Ma che diavolo…» ringhiò Vincent. «Perché si sono risvegliati solo
adesso?».
La
risposta, ad un rapido calcolo, poteva essere soltanto una, e fece rabbrividire
il dottore.
«Oh, mio
Dio…» sussurrò sconvolto. «È di nuovo aerobico…».
Gli EDA
si fecero avanti minacciosi; se non altro, una volta tanto la trasformazione
sembrava aver indebolito le loro capacità atletiche invece di accrescerle,
tanto che Vincent non ebbe problemi a centrare i primi due proprio in mezzo agli
occhi.
«Presto,
andiamo via!».
Entrambi
si misero a correre verso l’uscita secondaria, da dove sarebbero potuti
scendere ai livelli inferiori, ma non riuscirono a fare molta strada che altri
mostri gli si pararono davanti bloccando loro il passo, e cercando ognuno una
soluzione diversa finirono per separarsi.
«Fermo,
restami vicino!» ordinò Vincent.
Il
dottore riuscì a dribblare alcuni mostri, sparando a casaccio più per panico
che per altro, ma mentre passava accanto dall’acqua termale due EDA sbucarono
d’improvviso da sotto la superficie, afferrandolo e trascinandolo urlante
nell’acqua torbida, che in pochi secondi si tinse di rosso, ribollendo come
lava.
«Dannazione!».
Rimasto
solo, e con entrambe le vie di fuga bloccate, Vincent non ebbe altra scelta che
arrampicarsi sulla riproduzione di una torre medievale da dove prese a far
saltare la testa ad ogni EDA che capitava nel suo mirino.
I nemici
caddero come mosche, ma sfortunatamente c’erano molti più EDA di quanti fossero
i proiettili a disposizione dell’Agente, che trovandosi a dover inserire il suo
ultimo caricatore cominciò a pensare che fosse la fine.
Poi però
notò un cavo che pendeva dal soffitto, un cavo elettrico senza dubbio,
malamente assicurato alla sua presa in un angolo dall’altro lato della stanza e
staccatosi probabilmente a causa dei ripetuti scossoni; per qualcun altro
sarebbe stato un colpo difficile o quasi impossibile, con un bersaglio così
piccolo e ad una distanza considerevole, senza contare i mostri che accalcatisi
attorno alla torre, non riuscendo a salire la scala a pioli, stavano cercando
invece di ribaltarla, ma Vincent non era “qualcun altro”.
Fece
scattare il carrello, si inginocchiò poggiando il calcio dell’arma sulla
spalla, regolò il mirino e vi appoggiò l’occhio, mentre tutto attorno a lui il
mondo pareva dissolversi, lasciandolo solo con il suo fucile, la sua mira, ed
il bersaglio che si stagliava al centro della croce; quindi, sparò.
La presa
saltò via, senza un graffio o un’ammaccatura, semplicemente separata dallo
spinotto dallo spostamento d’aria e da un tocco leggero. Il pavimento era
letteralmente inondato d’acqua, e anche gli EDA ne erano ricoperti, così quando
la spina sfiorò appena la superficie marmorea si scatenò una vera tempesta di
fulmini, e gli EDA finirono abbrustoliti cercando inutilmente di mettersi in
salvo, mentre l’aria si riempiva di un insopportabile olezzo di carne bruciata.
Alla
fine, nessuno di loro di mosse più, e qualcuno addirittura esplose per la
combinazione letale tra un tasso esorbitante di krylium
nel sangue e una scarica da migliaia di volt, e come fu certo di non avere
altri nemici attorno Vincent sparò nuovamente al cavo, recidendolo di netto.
Tornato
coi piedi per terra, provò a cercare tracce del dottor Curtis, ma quando trovò
un braccio mozzato coperto a malapena da una manica bianca imbrattata di sangue
a galleggiare nell’acqua rossa della piscina termale, capì che era
perfettamente inutile farsi delle illusioni.
«Ti
avevo detto di restarmi vicino, stupido.» e se ne andò, determinato più che mai
a restare vivo.
Ulrich provò in tutti i modi a debellare quel
virus che stava mettendo a soqquadro i sistemi della nave, ma ogni tentativo si
stava rivelando inutile.
Oltretutto,
era un virus piuttosto strano, e dal comportamento anomalo: analizzando il suo
percorso si poteva capire che, oltre non avere alcuna logica nei suoi movimenti
tra i vari server, alcuni li distruggeva completamente, altri invece li
attraversava senza quasi toccarli o alterarli.
«Ma che
razza di virus è mai questo?».
Ad un
certo punto fu evidente che la situazione era a tal punto compromessa che era
impossibile riuscire a ripristinare sia il pilota automatico sia, soprattutto,
il sistema di alimentazione dei motori, il che avrebbe reso praticamente
inutile riavviare i sistemi.
«Fanculo!» strillò allora il giovane tirando un pugno alla
consolle.
Quasi
per caso, aprendo le pagine a caso capitò in un altro archivio video,
trovandovi un altro file con un nome simile a quelli che aveva visionato poco
prima.
Più per
curiosità che per vera speranza di trovarvi qualcosa di utile, lo aprì.
Il viceComandanteShawn appariva ora
debilitato e molto debole, come se avesse avuto la febbre: i capelli erano
imperlati di sudore, appiccicati alla fronte e alle tempie, gli occhi
apparivano dilatati, inoltre si sentiva il suo respirare affannoso.
«Non c’è
niente da fare, non riesco a riavviare i sistemi. Non ho le conoscenze
necessarie.
Ma
forse, c’è ancora una possibilità. Il Comandante me ne ha parlato la sera che è
cominciato tutto questo.
Doveva
essere un segreto, ma a quanto pare nei meandri della nave è stato installato
il primo prototipo di Morpheus».
Ulrich
spalancò la bocca per lo stupore.
«Che
cosa ha detto!?».
Shawn si
fermò, tossendo violentemente.
«È
lontano da qui… ma è l’unica speranza. Se… se non ripristino tutti i sistemi, sarà imp…ossibile rimettere in moto
la nave.
Inoltre,
da ieri sera non mi sento bene» e mostrò il suo braccio, con una zona nera e
dall’aspetto incancrenito in prossimità del segno di un morso. «Temo che quelle… quelle bestie si portino dietro qualche malattia.
Spero di
riuscire a fare in tempo. Ogni minuto che passa, mi sento sempre più debole».
Il video
si interruppe di colpo, ma Ulrich aveva sentito
abbastanza da risollevarsi subito il morale.
Da
appassionato di informatica aveva letto tutto quello che si poteva leggere sul
Progetto Morpheus, ma mai si sarebbe sognato che ne
fosse già stato realizzato un prototipo, e che fosse oltretutto già stato
installato.
Una
tecnologia rivoluzionaria, sviluppata dall’Università di Otisa
per conto dell’aeronautica amalteca, in grado di
consentire l’accesso diretto a qualunque sistema operativo tramite una
connessione neurale che trasportava letteralmente l’utente all’interno del
software sì da averne un controllo totale, aggirando qualunque protezione.
Forse,
allora, una speranza c’era, e si ributtò subito al lavoro. Ovviamente era
impossibile che il luogo in cui si trovava Morpheus
fosse segnato sulle mappe, quantomeno su quelle cui era riuscito ad accedere,
ma con un po’ di ragionamento poteva arrivarci.
Aveva
letto che il sistema operativo alla base di Morpheus
necessitava di una grande quantità di energia, oltretutto di una frequenza
particolare e molto poco usata, ma anche di una ricercata condizione
atmosferica che favorisse il distacco tra la mente ed il corpo.
Alla
fine localizzò una stanza, non lontana dal condotto di manutenzione cinque, sospesa
apparentemente sul nulla nel mezzo di un enorme androne quasi al centro della
nave.
«Buongiorno,
Morpheus.» disse soddisfatto.
Joe aveva davvero una
resistenza fuori dal comune, tanto che pochi minuti dopo aver terminato la sua
lotta all’ultimo sangue con quell’EDA così coriaceo era di nuovo in piedi,
anche se un po’ malandato e visibilmente provato dallo scontro.
Appena
le forze glielo avevano concesso il giovane ranger aveva lasciato il condotto,
ma avventuratosi in un’altra zona delle stive aveva percepito, nuovamente, la
sgradevole sensazione di non essere solo, benché a detta di Ulrich
quella zona fosse a tal punto interessata da porte sprangate e deviazioni
create ad arte da risultare quasi inviolabile.
Certo
che non fosse solo un’impressione, Joe si mise sulle tracce del nemico, uno
solo a giudicare dal rumore e dalle vibrazioni, ma abbastanza scaltro ed intelligente
da fare l’impossibile per cercare di passare inosservato.
Per
lunghi minuti, in quella vasta area di carico traboccante di materiale vario,
fu una specie di gioco a nascondino, con uno che inseguiva e l’altro che si
nascondeva, cercando di quando in quando di tendere a propria volta delle
imboscate. La fuga sembrò destinata a concludersi quando Joe, appiattitosi
contro una grossa cassa, percepì distintamente la presenza del nemico
dall’altra parte dell’angolo, e veloce come un serpente si sporse puntando il
proprio fucile, solo per ritrovarsi la canna di una pistola poggiata sulla
fronte.
«Sergente
Marufuji!?».
La
ragazza spalancò i suoi grandi occhi neri in un moto incontenibile di felicità.
«Joe!
Grazie al cielo, finalmente ho trovato qualcuno! Allora siete ancora vivi!»
«Potremmo
dire la stessa cosa, Sergente» disse Ulrich
attraverso la radio di Joe. «Perché non ha risposto alle mie chiamate?»
«Perché
quei maledetti mostri mi hanno assalita all’improvviso!» protestò lei con fare
offeso. «È già tanto se sono riuscita ad uscirne viva! Hanno anche tentato di
mangiarmi!»
«L’hanno
morsa per caso?» domandò Joe non senza preoccupazione
«Per chi
mi hai presa? Ho la pelle dura, io. Anche se la tuta ha fatto comunque il suo
dovere.»
«Parlerete
più tardi.» tagliò corto Ulrich «Ora ho bisogno di
voi».
Seguendo
le sue indicazioni Joe e Mayu, ripassando attraverso
il condotto che Joe aveva chiuso poco prima, arrivarono al livello più basso,
subito prima dello spesso strato di titanorium che
costituiva la chiglia della nave.
«E
quella?» domando il ranger durante la camminata rivolto alla curiosa sciabola
corta che la sua nuova compagna portava dietro la schiena
«L’ho
trovata in una stiva. Forse dovevano farci qualche mostra.»
«Sembra
molto antica.»
«Credo
faccia parte dell’eredità dei miei antenati. Ho sentito dire che il popolo da
cui discendiamo usava spade come questa.
Ma
fidati, è davvero affilata. Pensa, sono riuscita a tagliarci persino una
porta».
Superato
da un lato all’altro un ampio androne che faceva da anticamera e un breve
corridoio immerso nel buio, i due agenti oltrepassarono una porta a doppio
scomparto, ritrovandosi una volta dall’altra parte in una specie di grande
stanza di contenimento, completamente spoglia, a percorrere una stretta
passerella aperta sul niente.
Al
centro, come sospesa, dall’altro lato del ponticello, gravitava una grande
sfera del diametro di circa dieci metri, collegata al soffitto da una colonna
di metallo che la rendeva simile ad un enorme lampadario e letteralmente
tappezzata di cavi, che come i fili della tela di un ragno ricoprivano ogni
cosa disegnando una rete inestricabile.
Per
entrare all’interno della sfera, in cui era custodito il cuore di Morpheus, occorreva però superare una seconda porta, che a
differenza della precedente era protetta da un formidabile sistema difensivo al
quale Ulrich, come Mayu vi
ebbe collegato il proprio computer da polso per facilitare la decrittazione,
cominciò subito a lavorare.
«Se il
cielo lo vuole» disse Mayu, «Questo maledetto incubo
presto sarà finito».
Joe però
non sembrava altrettanto fiducioso, e fissava con preoccupazione l’ingresso da
cui erano venuti, riuscendo lui solo a percepire i preoccupanti stridii che
giungevano dall’altra parte.
Mayu lo vide
stringere con forza i pugni, chinando il capo verso terra come in preghiera
mentre nei suoi occhi sembrava trasparire, per la prima volta, un barlume di
incertezza.
«Quanto
ti ci vorrà per aprire questa porta?» domandò con un filo di voce
«Non
saprei. Forse dieci minuti.»
«Posso
dartene al massimo cinque.»
«Joe…» disse Mayu «Ma cosa…».
Non ebbe
il tempo di finire, perché il giovane, sfilatale la spada e messole il proprio
auricolare nell’orecchio, si allontanò a passo veloce scomparendo dietro le
porte.
«Joe!
Aspetta! Dove vai?».
Cercò di
corrergli dietro, ma Ulrich la fermò.
«Non
farlo, Mayu!»
«Ma, Joe…»
«Lo sta
facendo per farci guadagnare tempo! Se non entri lì dentro sarà stato tutto
inutile!».
Mayu
tergiversò, indecisa, ma poi con i denti serrati e le lacrime agli occhi
costrinse il proprio corpo a restare immobile.
Un nugolo di EDA, almeno un
centinaio, come una mandria di iene attirate da una carcassa, procedeva
ferocemente lungo i corridoi della stiva verso il centro della nave.
Raggiunto
l’androne, i primi della fila si fiondarono nel corridoio che conduceva alla
stanza di Morpheus resi folli dalla fame, ma subito
dopo che furono scomparsi nel buio si udirono urla strazianti, poi il rumore di
corpi che cadevano al suolo.
Qualche
attimo dopo, Joe si fece avanti comparendo dall’oscurità, la lama ricurva
stretta tra le mani e imbrattata di sangue e lo sguardo gelido, ma allo stesso
tempo come vuoto, che parve persino spaventare quei mostri i quali, a rigor di
logica, non avrebbero dovuto conoscere la paura.
Il
ranger sfiorò con un dito il sangue sulla lama, e passatoselo sul volto vi
disegnò una serie di linee e segni che accrebbero ancora di più la ferocia e la
paura della sua apparizione. Sapendo la pericolosità di quelle creature per
chi, come lui, non poteva contare su poteri magici, non avrebbe mai fatto una
cosa del genere; ma quello era il suo ultimo atto, il suo Canto del Cigno, e
voleva morire alla maniera dei suoi avi, quei guerrieri senza macchia e senza
paura di cui aveva letto da piccolo nelle favole e nei libri.
«Non
andrete oltre questo punto. Parola mia».
Quindi,
fu lui a colpire per primo.
Con un
salto arrivò in mezzo al gruppo, e menando un solo fendente riuscì a decapitare
di netto tre EDA in un unico colpo, constatando con i propri occhi la superba
fattura di quella spada; quando gli EDA si decisero finalmente a rispondere Joe
se n’era già andato, lasciandogli però in regalo una granata stordente che
esplodendo li mandò ulteriormente nel panico, producendo una esplosione di fumo
che come una nebbia avvolse ogni cosa.
E da
quella nebbia Joe appariva e scompariva come un fantasma, correndo e movendosi
in modo così repentino che gli EDA, pur potendolo fiutare, non avevano il tempo
di contrastarlo, cadendo uno dietro l’altro.
«È un
Dio della Morte» disse sconvolto Ulrich assistendo
allo scontro attraverso i monitor.
Purtroppo,
Joe non era affatto un dio, e per quanto forte e resistente aveva anche lui il
suo limite.
Quando
il fumo si diradò i mostri attaccarono a testa bassa, e alla fine uno di loro
riuscì ad affondare i propri denti nella sua spalla perforando la tuta, un
momento prima di venire decapitato. Il sangue prese ad uscire a fiumi, e in
pochi secondi il giovane si ritrovò a corto di energie, ma seguitò a battersi
fino all’ultimo senza cedere di un millimetro.
Alla fine,
stremato e morente, cadde in ginocchio, ma ancora una volta gli EDA,
istintivamente spaventati, esitarono ad attaccare, aspettando forse il momento
in cui la preda sarebbe morta da sé.
A
fatica, e senza smettere un attimo di mulinare la spada, Joe riuscì a portarsi
fino alla più vicina parete, contro la quale si lasciò cadere, e un po’ alla
volta i nemici cominciarono a farsi avanti, stringendo sempre di più il cerchio
attorno a lui; alzò gli occhi verso la telecamera, certo che qualcuno lo stesse
guardando, rivolgendovi un’espressione quasi serena.
«Il mio nome… è Joe Debois. Quinto
squadrone Ranger di Eldkin. Agente Cadetto della MagicAdministation Bureau».
Detto
questo, e cercando di contenere il tremore, prese dalla cintura la sua ultima
granata, quella dalle striature rosse, stringendola a sé come fosse stato un
grande tesoro.
«I
ranger aprono la strada» disse con un sorriso, tirando la linguetta.
Mayu sentì la stanza tremare ed il fragore di
una violenta esplosione, volgendosi verso l’ingresso con gli occhi sbarrati e
l’espressione sconvolta.
«Joe!»
«È finita…» mormorò Ulrich.
Alla
fine, Joe aveva resistito molto più di cinque minuti, ma né Ulrich
né Mayu ebbero voglia di festeggiare né si sentirono
sollevati quando finalmente la porta di Morpheus si
aprì; entrambi fecero appello alla volontà di concludere quanto prima quella
maledetta missione, sì da fare in modo che il sacrificio di Joe e la morte di tanti
poveri innocenti non risultasse vana, e messe da parte le lacrime Mayu varcò la soglia, che subito si richiuse alle sue
spalle ripristinando l’inviolabilità del santuario.
La
stanza, illuminata a giorno da decine di luci che si riflettevano su di una
superficie interamente bianca, era del tutto spoglia, fatta eccezione per una
grande poltrona posizionata esattamente al centro con braccioli, poggiatesta e
schienale leggermente inclinato, circondata da apparecchiature informatiche.
«Sarebbe
questo Morpheus?» domandò Mayu
«Non
l’ho mai visto prima d’ora, ma suppongo di sì».
Avvicinatasi,
Mayu notò una strana polvere simile a cenere che
ricopriva sia la poltrona che il terreno tutto attorno, e per qualche motivo le
salì una strana inquietudine che la fece esitare a lungo prima che, riavutasi,
la ragazza decidesse alfine di sedersi.
«Okay,
ci siamo» disse Ulrich armeggiando al computer.
«Dovrei essere in grado di attivarlo da qui».
Mentre
aspettava Mayu si guardò attorno, e lo sguardo le
cadde su di una luce ad intermittenza che lampeggiava sul bracciolo di
sinistra. Come la sfiorò, dinnanzi a lei comparve una finestra olografica
contenente una nuova registrazione del viceComandanteShawn, il quale si presentava ora talmente pallido e
devastato nella sua figura da risultare inquietante: gli occhi erano rossi, e
colavano sangue, la bocca era tutta impastata da saliva mista a vomito, e la
carne, oltre che pallida, sembrava quasi stare ribollendo, ricoprendo il volto
di spaventose e grosse pustole.
«Non… non mi resta molto tempo. Ma questa è l’ultima… speranza.
Se
riesco a ripristinare i sistemi, il motore potrà tornare a funzionare…
Potremmo
far ripartire la nave. Non so se avrò la forza di farcela…
ma è l’unica alternativa che mi resta» quindi, si lasciò andare al pianto fatto
di sangue e lacrime, inquietante e devastante allo stesso tempo. «Se solo
avessi saputo che sarebbe finita così.
Mi
dispiace, Monika. Mi dispiace che sia finita così. Se
potessi tornare indietro…».
Terminata
quell’ultima registrazione, Mayu non riuscì a non
provare una enorme compassione per quel giovane morto troppo presto, prima di
poter correggere uno dei suoi tanti errori; perché morto doveva esserlo di
sicuro, se di lui non era rimasta che cenere.
«Ce l’ho
fatta» disse Ulrich. «Sono entrato nei sistemi di Morpheus.
Sei
pronta?».
La
ragazza trasse un respiro.
«Abbastanza.»
«D’accordo
allora. Cominciamo».
Tutti i
macchinari a quel punto si accesero, la stanza si riempì di uno strano ronzio,
e la poltrona sembrò diventare improvvisamente più calda; poi, quando una
specie di spinotto con una terminazione a forma di rete sbucò da dietro lo
schienale avvolgendo interamente la testa di Mayu, la
ragazza si sentì come strattonata, mentre una luce fortissima l’accecava.
Riaperti
gli occhi, a prima vista si trovava nello stesso identico posto, seduta su
quella poltrona bianca al centro della stanza sferica.
«Che è
successo?» domandò guardandosi attorno. «È andato storto qualcosa?»
«Niente
affatto».
Il solo
fatto che la voce di Ulrich non arrivasse più
dall’auricolare, sembrando invece una sorta di parlata ultraterrena che
giungeva da ovunque e da nessun posto, fu la prova per Mayu
che quello in cui si trovava forse non era più il Megonia.
«Aspetta,
vuoi dire che ora mi trovo…»
«All’interno
del sistema operativo centrale del Megonia. Esatto».
Confusa,
Mayu provò a toccare la parete della stanza,
sentendone la consistenza dura e la superficie fredda.
«Eppure
qui sembra tutto così reale.»
«Protocollo
di interfaccia. Il computer ha strutturato il sistema creando una simulazione
virtuale che riproduce la nave in tutto e per tutto.
Il che
significa che raggiungendo la sala del nucleo in cui mi trovo io, in linea di
logica dovresti poter ottenere il controllo totale di ogni sistema.»
«La sala
del nucleo, hai detto? D’accordo, ci vado subito».
Song sembrava essersi calmato dopo il diretto
rifilatogli da Klaus, che oltre al dente gli aveva portato via anche il
rispetto e la considerazione di cui aveva goduto fino a quel momento tra una
ristretta cerchia di superstiti, ma in realtà non aveva ancora rinunciato
all’idea di risolvere quella situazione alla sua maniera.
Stava
semplicemente aspettando il suo momento, e con il tempo la sua pazienza sembrò
incominciare a venir premiata.
Quel duo
di ragazzini infatti stavano diventando nervosi a causa della perdita del
contatto radio con la squadra inviata alla sala motori, si ipotizzava a causa
dell’alto tasso di particelle magiche emesse dagli stessi che disturbava le
comunicazioni, e il tentativo continuo di ricontattare il loro nerboruto
caposquadra nero li stava tenendo impegnati.
Al
momento giusto, fece la sua mossa.
Approfittando
del fatto che la ragazza stava dandogli le spalle, e che quelli tutto attorno
si stavano facendo ognuno i fatti propri, si avvicinò camminando basso, gli
occhi ben fissi sulla pistola riposta nella fondina alla cintura.
Solo Hilda, seduta in terra poco lontano, se ne accorse, ma
quando ormai era troppo tardi.
«Attenta,
Amanda!» strillò, ma a quel punto Song aveva già
l’arma tra le mani.
Istintivamente
la bambina tentò di fermarlo, ma lui senza difficoltà riuscì a liberarsi della
sua stretta esitante, mettendola fulmineo davanti a sé e puntandole la pistola
alla testa.
«Che
diavolo stai facendo, pazzo incosciente?» urlò Klaus
«Mi
salvo la vita. Non so voi, ma io non intendo restare qui un minuto di più. Ora
aprirò quella porta e me ne andrò per conto mio.»
«Se apri
quella porta, metterai a rischio tutte queste persone» lo ammonì Amanda. «Gli
EDA ti salteranno addosso in massa.»
«Sempre
meglio che restare chiusi in questa cazzo di trappola aspettando di fare la
fine del topo. E sono sicuro di non essere il solo a pensarla così, dico
bene?».
Di
nuovo, una parte dei sopravvissuti si mostrò accondiscendente nei riguardi
dell’uomo, rivelando, chi palesemente chi in maniera più sommessa, di
condividerne il pensiero.
Quelli
più audaci si fecero avanti, e su ordine del loro autoproclamato capo presero
quante più armi possibili per poi raccogliersi attorno alla porta nel tentativo
di aprirla. Tuttavia, forse per la tensione o per inesperienza, uno di loro
aprì l’ultimo chiavistello con troppa veemenza, dimenticandosi inoltre di
trattenere il battente, che infatti privato da un istante all’altro di ciò che
lo bloccava si aprì con inaudita violenza producendo forte rumore.
Song si
rivolse quindi nuovamente alla folla.
«Signori!
Chiunque volesse venire con noi, è libero di seguirci! Almeno avrete una
possibilità!».
Klaus
era sicuro che nessuno sarebbe stato tanto incosciente da dare retta a quel
pazzo, ma la paura e la voglia sconfinata di far finire quanto prima
quell’incubo furono la molla che spinse più di un centinaio di superstiti ad
accettare la proposta di Song.
«Non
fatelo» tentò di dire Amanda mentre questi, uno per volta, se ne andavano. «Non
arriverete mai alle scialuppe, e condannerete a morte queste persone.»
«Sai che
ti dico, non me ne frega niente».
Quasi
senza volerlo Song allentò un momento la presa, ed Hilda immediatamente ne approfittò per mordergli la mano
più forte che poteva, un morso potentissimo che per poco non gli portò via un
pezzo di carne.
«Maledetta
mocciosa!» tuonò iracondo scaraventandola contro il muro.
Più per
rabbia che per necessità vera Klaus sparò fulmineo al nemico, centrandolo ad
una spalla, e questi rispose a sua volta con un colpo che, se non fosse stato
per la tuta antiproiettile, avrebbe provocato al ragazzo ben più che un
tremendo dolore al petto, abbastanza forte da farlo cadere in ginocchio mezzo
svenuto.
«Addio,
signori» ringhiò Song andandosene con una mano
stretta sulla ferita.
Song faceva tanto lo spaccone, ma in realtà
non aveva la minima idea di come fare per raggiungere le scialuppe.
Per
fortuna c’erano le indicazioni affisse sulle pareti, e volendole seguire a
tutti i costi lui e i suoi fedelissimi non esitarono ad aprire manualmente, a
volte mettendoci solo un po’ di forza a volte con qualche scarica di mitra,
tutte le porte che Ulrich aveva chiuso nel tentativo
di confondere e bloccare gli EDA.
Se non altro,
il gruppo riuscì a salire di due ponti senza incontrare anima viva, e quando
arrivarono nel grande ristorante a quattro stelle, ultima stanza da superare
prima di arrivare ai ponti di salvataggio, i più pensarono che ormai fosse
fatta.
«Sembra
che non ci sia nessuno.» osservò uno
«E
quelli laggiù erano tanto preoccupati» commentò cinico Song.
«Peggio per loro. Che crepino. Muoviamoci».
Tra i
pochi esaltati c’era però anche tanta gente spaventata, che seguiva il gruppo
stando nelle ultime file e guardandosi costantemente attorno.
Solo le
luci sceniche erano accese, e gettavano sulla stanza un’atmosfera spettrale,
minacciosa, fatta di ombre sinuose che potevano nascondere ovunque potenziali
minacce.
Una
anziana coppia di coniugi erano gli ultimi della fila, ed erano anche i più
terrorizzati, tanto che quelli che gli stavano davanti dovevano continuamente
richiamarli perché non si perdessero.
«Caro,
ho visto qualcosa.» disse ad un certo punto la donna
«Eudora,
è la centesima volta che lo dici. È già abbastanza difficile così. Hai deciso
di farmi prendere un colpo?».
L’anziano
fu assalito alle spalle e sbranato prima che potesse rendersene conto, e l’urlo
della signora le rimase strozzato in gola quando un altro EDA le saltò addosso
uccidendola come era accaduto al marito.
Da un
secondo all’altro, una trentina di EDA sbucarono da alcune delle porte
secondarie che immettevano nei vari corridoi, circondando completamente il
gruppo e prendendo a farne scempio. I sopravvissuti, terrorizzati e colti di
sorpresa, tentarono a malapena di resistere, ma quasi subito la loro difesa si
tramutò in una fuga incontrollata in ogni direzione che, come accaduto quando
tutto quell’orrore aveva avuto inizio, ebbe il solo risultato di spingerli più
facilmente tra le braccia di quei mostri segnando la loro fine.
Song dal
canto suo sparò tutti i colpi che aveva nel caricatore, e quando rimase a secco
senza pensarci corse a perdifiato verso l’uscita secondaria, chiudendosela alle
spalle e bloccandola gettandovi contro un pesante armadio.
Così,
quando uno di quelli che lo avevano seguito fin dall’inizio riuscì a sua volta
a raggiungere la via di salvezza, con suo grande sgomento la trovò bloccata.
«Figlio
di puttana, torna indietro!» urlò all’indirizzo dell’uomo che scappava
attraverso l’oblò, per poi venire assalito alle spalle da due mostri, con uno
che gli portò via mezza gola e l’altro che gli strappò il braccio a forza di
tirare.
Rimasto
solo, e barcollante per la ferita che non smetteva di sanguinare, Song raggiunse infine i portelli delle scialuppe di
salvataggio. Era solo questione di un altro sforzo, l’ultimo, e tutto sarebbe
finalmente finito.
Certo,
non poteva immaginare che un passeggero sopravvissuto miracolosamente
all’assalto iniziale si fosse rifugiato proprio nella scialuppa che Song scelse di aprire, ma fosse morto prima di riuscire ad
azionare il distacco.
Song ebbe
giusto il tempo di visualizzare nella mente due occhi assatanati e una fila
spaventosa di denti, e subito dopo nell’area tutto attorno risuonò un acuto e
straziante urlo di dolore.
Morpheus era stato in grado di replicare il Megonia con una fedeltà quasi disarmante.
Dalle
porte ai corridoi, dalle scale agli ascensori, tutto era perfettamente
riprodotto, al punto che per Mayu risultava quasi
difficile immaginare che si trattasse di un mondo virtuale.
L’unica
conferma al fatto che quella non fosse la realtà veniva, oltre che dalla voce
ultraterrena di Ulrich, dalla forte luce bianca che
proveniva dagli oblò e dalle vetrate che la ragazza incontrava lungo la strada,
come se la nave si fosse trovata a galleggiare sul nulla.
Altra
cosa erano il silenzio, oltre alla totale assenza di qualsivoglia anima viva,
ma era una cosa piuttosto naturale. Quello che appariva insolito, invece, era
lo stato in cui la ragazza trovò alcune parti di quella specie di nave
virtuale, completamente devastate come se ci fosse passato un uragano.
«È colpa
del virus» le spiegò Ulrich. «Il computer ha
riprodotto le alterazioni causate ai server sottoforma di danni fisici.»
«Ehi,
aspetta un momento! Se è vero quello che dici, allora anche il virus dovrebbe
essere qui da queste parti! Che faccio se lo incontro!?»
«Non
preoccuparti. Per poter accedere al programma di rielaborazione digitale è
necessario accedere al software di Morpheus, e a
quanto mi risulta questo non è stato toccato».
Almeno,
pensò Mayu, non c’era il rischio di incontrare
qualche cyber-EDA ansioso di farsi una sana mangiata
con la sua carne virtuale.
Dalla
stiva, con uno dei tanti ascensori la giovane arrivò nel salone centrale, o
almeno nella sua riproduzione, da dove avrebbe potuto raggiungere l’ascensore
di servizio che l’avrebbe condotta alla sala del nucleo.
«Ci sei
quasi. Prendi la porta al terzo piano dall’altra parte della balconata, scendi
di tre livelli e ci sei».
Mayu fece per
obbedire, ma all’improvviso udì un rumore metallico molto strano, e certamente
inquietante, che la particolare conformazione della stanza tramutò in un eco
impossibile da localizzare.
«Che è
stato!?» domandò guardandosi attorno spaventata.
Contemporaneamente,
anche Ulrich notò qualcosa di insolito nel flusso di
dati, ma dapprincipio non gli venne neanche lontanamente da pensare che potesse
trattarsi proprio del virus.
Passò un
attimo, e alzato lo sguardo Mayu si vide letteralmente
piovere addosso un pezzo di colonna che riuscì ad evitare per il rotto della
cuffia rotolando sul pavimento, e quando risollevò lo sguardo dinnanzi a lei
era comparso un essere ributtante: l’aspetto era ancora umano, ma il volto e le
braccia lasciate scoperte erano di un colore olivastro e pieni di piaghe; gli
occhi, quasi invisibili tra le pustole e i capelli arruffati, erano rossi e
minacciosi, la bocca quasi priva di labbra, e i vestiti, oltre che strappati,
erano anche lordi di sangue.
«Ma questo…» disse impietrita la ragazza riconoscendo in
quell’essere deforme i tratti del viceComandanteShawn.
Ulrich rimase
a propria volta basito, non riuscendo a capire come potesse essere possibile;
la risposta però, a pensarci, poteva essere solo una.
«Oh, mio
Dio. Allora è lui il virus».
Ora era
chiaro. Era per questo che quel virus, se così lo si poteva chiamare, aveva
attaccato a casaccio senza seguire una logica; era furia bestiale pura e
semplice, tipica di un qualunque EDA.
Senza
tanti complimenti Shawn caricò Mayu,
che istintivamente sfoderò la pistola premendo due volte il grilletto, ma tutto
quello che uscì dalla canna fu aria.
«Ma che…».
Il pugno
che ricevette fu come una cannonata, talmente forte da spararla addosso alle
scale quasi svenuta; ma la cosa più sconvolgente fu, quando tentò di
riprendersi, vedere parte del proprio corpo che per un attimo sembrò svanire,
dissolvendosi in una sorta di effetto nebbia.
«Sta
attenta! Quell’avatar è la proiezione della tua mente! Se ti danneggia troppo
il legame si spezzerà e resterai intrappolata lì dentro!»
«Potevi
anche dirmelo prima, dannazione!».
L’EDA
tentò un secondo assalto, ma stavolta Mayu lo prese
in controtempo e se la diede a gambe, salendo la scalinata e iniziando a
correre in ogni direzione.
«Ma si
può sapere che ci fa lui qui?» domandò mentre scappava
«Deve
essersi connesso quando l’infezione era sul punto di consumarlo. Sia il corpo
che la mente sono stati danneggiati dal virus, e quando il corpo fisico è morto
la mente è rimasta intrappolata lì dentro.»
«E
perché le mie armi non funzionano?»
«Quello
non è il mondo reale. È solo una proiezione virtuale. La tua pistola è solo
decorativa.»
«Fantastico!
E ora come ce ne sbarazziamo?».
Ulrich provò
a lanciare un antivirus, che apparve nel mondo virtuale come una sorta di
nuvola rossa simile ad un denso cumulo di vapore, ma come temeva questo si
rivelò del tutto inefficace, transitando da una parte all’altra della stanza
per poi scomparire senza prestare la minima attenzione all’EDA, che imperterrito
continuò ad inseguire Mayu.
«È come
temevo. Non si tratta di un bug vero e proprio, quindi gli antivirus e i
firewall non lo riconoscono.»
«Fantastico,
e ora che faccio?».
Klaus e gli altri, passata
la tempesta, tentarono in ogni modo di richiudere la porta e ripristinare
l’inviolabilità della stanza, ma per quanto si sforzassero di tirare il
battente non voleva saperne di muoversi, e il varco seguitava a rimanere
aperto.
«È
inutile» mugugnò contrariato uno. «Il meccanismo di scorrimento è saltato. Questa
porta non si muoverà.»
«Fanculo!» strillò Klaus prendendola a calci.
Amanda
sorvegliava il buio, usando le sue abilità di maga per scorgere prima di altri
eventuali minacce.
«Arriva
qualcuno.» disse notando un’ombra in lontananza e conseguente rumore di passi.
Tutti
quelli che avevano un’arma la puntarono verso la porta, e per lunghissimi
istanti l’aria fu carica di una tensione allucinante.
«Non
sparate, sono io!» si sentì urlare.
I due
agenti abbassarono le armi, e dopo poco Vincent sbucò dall’ultima barricata di
fortuna, un po’ ammaccato ma in buona salute.
«Allora
siete ancora vivi.»
«Potremmo
dire lo stesso di te» replicò Klaus. «E Jacob?»
Vincent
chinò il capo; la sua espressione diceva tutto.
«Mi
dispiace.» disse Amanda
«Abbiamo
altri problemi. Ulrich aveva detto di aver bloccato
questo posto, ma ho trovato un sacco di porte aperte venendo qui.»
«È colpa
di quello stronzo di Song» disse Ulrich.
«Hai visto anche degli EDA?»
«Non da
queste parti. Ma se non troviamo il modo di isolare nuovamente questa stanza,
temo che non resteremo soli molto a lungo».
Ulrich, prima di essere un Agente, era stato un
hacker; uno dei tanti modi con cui un rampollo di buona famiglia senza molto da
fare e con poche attenzioni da parte dei genitori poteva ammazzare il tempo.
Per
questo era entrato nell’agenzia: perché quando infine lo avevano colto sul
fatto l’avevano costretto a scegliere tra un lungo periodo di detenzione e
mettere le proprie capacità al servizio dell’Agenzia.
E come
amava dire sempre, se si sa come creare una cosa, nella fattispecie un bug da
computer, si sa anche come distruggerla.
Dovette
pensarci qualche minuto, dal momento che si trattava di un virus che definire
anomalo era poco, ma alla fine pensò di aver trovato la soluzione, e subito si
mise al lavoro.
Nel
mentre, Mayu attendeva, nascosta in un anfratto del
salone, le ginocchia raggomitolate e il volto ben infilato nell’incavo per
nascondere quanto più possibile il rumore del suo respiro.
Il
silenzio tutto attorno sembrava totale, ma di quando in quando poteva udire
distintamente i passi pesanti e l’ansimare animalesco di quella creatura, che
come una tigre in caccia fiutava l’aria e tendeva l’orecchio alla ricerca della
sua preda aggirandosi lentamente per il salone.
Di
tentare la fuga non se ne parlava. C’era ancora una rampa di scale da salire
per arrivare all’ascensore che l’avrebbe condotta al nucleo, e con la sua
agilità sovrumana quel mostro le sarebbe saltato addosso prima ancora che
avesse potuto raggiungerla.
«Mayu, ascoltami» disse Ulrich,
che grazie al cielo solo lei poteva sentire. «Forse ho trovato il modo per
liberarci di lui.
Ho
riprogrammato un antivirus installato nel software perché possa distruggere la
mente contaminata del viceComandante.»
«E
allora muoviti a usarlo. Quella bestiaccia non ci metterà molto a trovarmi.»
«Qui sta
il problema. In questo momento mi è impossibile lanciarlo direttamente da qui.»
«Che
cosa!?»
«Potrei
farlo, ma mi ci vorrebbe del tempo. Tempo che non abbiamo. L’unica possibilità
è caricarlo all’interno dell’interfaccia che stai usando per mettertelo a
disposizione.»
«In
altre parole, dovrei usarlo io.»
«Praticamente.
Lo programmerò perché tu possa attivarlo a distanza, altrimenti potresti
venirne colpita anche tu.
Aspetta
solo altri due minuti».
Furono i
due minuti più lunghi della vita di entrambi, con Ulrich
che pregava tutti gli dèi dell’universo di aiutarlo a non sbagliare nulla e Mayu che temeva di vedersi comparire davanti quel mostro da
un momento all’altro, tremando di paura come quando da piccola si rannicchiava
sotto al letto durante i temporali.
«Finito!
Eccolo che arriva!».
Un tenue
bagliore apparve attorno alle mani di Mayu, nelle
quali comparvero quella che sembrava una carica al plastico poco più piccola di
un mattone e il relativo detonatore a pulsante.
«Mi
raccomando, non devi essere nelle vicinanze al momento dell’attivazione. È
programmata per riformattare e cancellare tutte le proiezioni avatar. Se ti
colpisse, per te non ci sarebbe scampo.»
«Strepitoso».
In quel
momento il mostro passò proprio davanti all’ingresso dell’anfratto, e Mayu silenziosamente si appiattì ancora di più
nascondendosi nel buio. Mosse qualche detrito, attirando l’attenzione dell’EDA,
che però dopo aver gettato uno sguardo nel buco senza vedere niente, ringhiando
ricominciò a camminare.
«Giuro
che dopo questo firmo il congedo e me ne torno alle corse clandestine» imprecò
la ragazza uscendo dal buco.
Silenziosa,
e trattenendo il respiro, si avvicinò lentamente alle spalle del mostro, che
malgrado l’udito e la vista molto sviluppati non parve accorgersi di lei; per
un attimo pensò di potercela davvero fare, ma proprio all’ultimo momento l’EDA
si voltò fulmineo, lasciandola impietrita per la paura, e battendosi i pugni
sul petto come un gorilla caricò a testa bassa.
Questa
volta però, Mayu scelse di non fuggire, perché sapeva
che continuare a scappare era inutile: doveva combattere.
Sfruttando
la sua forma minuta e quell’agilità che, per quanto non al livello del suo
avversario, non le faceva comunque difetto, schivò due pugni in successione,
quindi scivolò sotto le gambe del nemico, e quando questi si girò ricevette un
tremendo calcio a piedi uniti sotto il mento che, anche a causa del tacco
leggero, gli portò via di netto la mascella. Purtroppo questo non bastò a
fermarlo, rendendolo anzi ancor più spaventoso e infuriato per via di quella
vistosa menomazione, e mentre Mayu cercava ancora di
tornare in equilibrio ricevette un secondo, spaventoso pugno che oltre a
spararla via produsse ancora quell’inquietante effetto nebbia sul suo corpo,
molto più lungo ed esteso del precedente.
«Sta
attenta, la tua mente ormai è al limite!» le intimò Ulrich.
«Un altro colpo e sarai consumata!».
Fuori di
sé dalla rabbia l’EDA partì nuovamente alla carica, ma stavolta Mayu riuscì a spostarsi all’ultimo e quel poveretto si fece
crollare addosso un’intera balconata portandosi via una delle colonne di
supporto per poi andarsi a schiantare contro la parete.
Una
simile pioggia di detriti avrebbe ucciso chiunque, ma quello restava pur sempre
un mondo virtuale, e l’EDA nonostante tutto ne uscì senza un graffio; tuttavia,
quando riuscì finalmente a liberarsi delle macerie, la sua preda sembrava
sparita.
Ringhiando,
si guardò attorno, alla ricerca di un qualunque indizio, e non gli servì molto
per notare un bordo di tuta gommosa che emergeva a malapena da dietro una
colonna poco distante.
La terza
carica doveva essere quella decisiva, e stavolta il mostro centrò in pieno il
proprio bersaglio, provocando un nuovo crollo ma riuscendo ad afferrare la
preda; tuttavia, quando provò a stringerla, si accorse non senza stupore di
avere tra le mani solo il busto di una statua, cui era stata malamente infilata
la tuta di gomma e con un minaccioso pacchetto biancastro infilato nella cerniera
semichiusa.
Un
attimo dopo, uno strano bip lo spinse a guardare alla
propria destra.
Mayu era lì,
a qualche metro di distanza, con indosso i soli slip, una mano a coprire il
seno e l’altra che stringeva una specie di telecomando.
«Oyasumi, stronzo.»
Una
grossa sfera di elettricità si generò dall’ordigno non appena la ragazza spinse
il bottone, e l’EDA, lanciando urla di dolore, finì letteralmente polverizzato,
dissolvendosi in un pulviscolo luminoso.
Vedendolo
scomparire così, Mayu e Ulrich
non riuscirono a non provare un po’ di pena nei suoi confronti; in fin dei
conti, quel poveretto aveva cercato fino all’ultimo di salvare migliaia di
vite, anche a costo di sacrificare la propria, ed entrambi gli augurarono col
pensiero di poter riposare in pace.
«Avanti
ora. Adesso non dovresti incontrare altri ostacoli.»
«Lo
spero. Questo mi basterà per qualche secolo.»
Raggiunto
l’ascensore, fortunatamente senza nuovi imprevisti, Mayu
scese al livello desiderato, percorse per intero il corridoio e aprì la porta
del nucleo, immergendosi non senza qualche esitazione nella luce che comparve
dall’altra parte dell’ingresso.
Un
attimo dopo, Ulrich vide la figura a mezzobusto della
ragazza materializzarsi su uno dei monitor.
«Sono
dentro».
Era
incredibile. Era come se il suo corpo fosse diventato un tutt’uno con la nave;
come se la nave stessa fosse diventata il suo corpo. Poteva essere ovunque,
vedere ovunque, aprire e chiudere porte a suo piacimento, accendere luci,
azionare scale mobili, e persino comandare erogatori d’acqua o macchine del
caffè.
«Ottimo»
disse Ulrich. «Ora ripristina i sistemi di
alimentazione».
Helen vide tutte le
apparecchiature del ponte riaccendersi come d’incanto, riprendendo a funzionare
senza apparente motivo.
«Ulrich, sei stato tu?»
«Non proprio.
Ad ogni modo, ora per favore segua le mie istruzioni. Le spiegherò come ridare
energia ai motori».
Per
prima cosa fu necessario riprogrammare la rotta, e secondo le direttive fornitele da Ulrich, Helen ne
impostò una che con le macchine a pieno regime avrebbe condotto il Megonia fuori dalla Zona Oscura nel giro di pochi minuti,
quindi fu il momento di ripristinare l’afflusso di energia.
La
giovane donna stava per avviarsi al relativo pannello di controllo, quando da
sopra la sua testa giunse un sinistro rumore di qualcosa che strisciava.
Alzò gli
occhi, e per un attimo le parve di vedere il soffitto scricchiolare sotto la
spinta di qualcosa: qualcosa di molto grosso.
Di
qualunque cosa si trattasse, si muoveva così velocemente che era difficile
stargli dietro, e la tensione nel petto di Helen, nonostante il suo comprovato
autocontrollo, salì rapidamente, tanto che appena notò distintamente un’asse
metallica ondeggiare immediatamente sparò, ricevendo in cambio una specie di
sibilo dolorante.
«Che
diavolo era quello?».
La
risposta alla domanda arrivò quando la grata dell’aria sopra la sua testa per
poco non le piovve addosso sotto la spinta di una sorta di lunga protuberanza
carnosa simile ad un tentacolo che scattando verso il basso tentò di
afferrarla.
Helen
riuscì ad evitare la presa per un soffio, e istintivamente consumò il
caricatore contro quell’ignoto aggressore, che colpito in pieno apparentemente
si ritirò abbandonando il campo.
«Qui
siamo oltre la comprensione» disse attonita.
Ma il
vero dramma, pensò Ulrich dopo aver assistito alla
scena, era un altro.
«I
condotti dell’aria!» esclamò. «Quei bastardi sono nei condotti!».
La sala motori era come un
gigantesco baratro che occupava da solo l’intera zona poppiera della nave.
Il cuore
dell’impianto erano le due immense turbine che alimentavano i propulsori; sopra
di esse, una decina di metri più in alto, passerelle più o meno larghe
collegavano tra di loro una serie di stanzette, piccoli terrazzamenti e pontili
posti a diverse altezze formando un intricato reticolo di metallo che aveva
nella stanza di controllo centrale il suo punto di massima sopraelevazione.
Da lassù
si poteva controllare tutto, anche se le molte apparecchiature disseminate qua
e là lungo le passerelle oscuravano comunque la vista, per non parlare della
poca luce e del rumore che, a motori accesi, doveva essere a dir poco
assordante.
La sala
di controllo era anche l’unico punto da cui si potesse interagire con il nucleo
di alimentazione, che come una gigantesca stalattite pendeva dal soffitto
arrivando a lambire con la punta il bordo della passerella. Al suo interno,
scintillante d’azzurro, e ben visibile attraverso uno sportello di vetro,
risplendeva il gigantesco blocco di krylium che, in
quanto fonte primaria di energia, veniva di volta in volta letteralmente
grattugiato per andare a bruciare nelle turbine.
Come
previsto Georg e Raoul trovarono tutti i sistemi di controllo spenti o in
stand-by, ma riavviarli non fu un problema.
«Ok, ci
sono» disse Raoul resettando l’ultimo computer. «Ora dobbiamo solo aspettare».
Georg,
però, era nervoso, e lo divenne ancora di più quando l’energia stentò ad
arrivare.
«Ma si
può sapere che sta combinando Helen?».
Purtroppo, in quel momento,
Helen aveva altro a cui pensare.
Dopo
aver cercato un altro paio di volte di afferrarla facendo sbucare dall’alto la
sua appendice carnosa, arrivando in un’occasione molto vicina a stritolarla,
quella maledetta creatura si era infine rivelata in tutta la sua mostruosità.
Di umano
aveva solo la parte superiore del corpo, dalla cintola in su, se di umano si
poteva parlare, con quella testa rasata e allungata all’indietro, le braccia
lunghe e rinsecchite terminanti in tre dita armate di artigli ricurvi lunghi
almeno venti centimetri e quella bocca spropositata, da cui uscivano ben tre
lingue biforcute; al posto delle gambe aveva invece una lunga coda serpentina,
che occupava da sola quasi tre quarti della lunghezza complessiva del corpo,
abbastanza forte da sorreggere il busto e veloce quanto bastava da permettergli
di scivolare ovunque a grande velocità.
Ma
quello che era peggio, era che quel maledetto mostro aveva la capacità di
rendersi invisibile; più che di invisibilità vera e propria sembrava trattarsi
di una qualche barriera protettiva, dal momento che fin quando rimaneva in
quello stato il suo corpo riusciva a respingere qualsiasi attacco magico gli
venisse scagliato contro.
Helen si
trovò quindi costretta a dover correre e scappare di continuo, acquattandosi di
volta in volta dietro le varie postazioni di controllo nella speranza di
sentire un rumore, uno strepito, o qualunque cosa che potesse aiutarla a capire
la posizione del nemico prima che questi avesse il tempo di saltarle addosso e
sbranarla.
Era una
situazione ai limiti del dramma.
Le
specialità di Sleeping Beauty erano incentrate sulla rapidità e sugli attacchi
a sorpresa, che però servivano a ben poco in un ambiente così angusto e pieno
di ostacoli, senza contare che l’avversario sfoggiava la medesima tecnica,
oltre ad essere quasi immune a qualunque tipo di incantesimo.
Nel
tentativo estremo di cavarsi da quella situazione Helen, infilato il suo ultimo
caricatore, provò a usare la medesima tecnica sfruttata poco prima contro tutti
quegli EDA; atteso che il nemico avesse la propria attenzione rivolta altrove,
in silenzio generò una bomba stordente ad alto potenziale, e poggiatala
lentamente a terra la guidò con il pensiero fino ai piedi dell’EDA.
Questi
se ne accorse solo all’ultimo momento, e quando la bomba gli esplose in faccia
accecandolo Helen sbucò fuori dal suo nascondiglio bersagliandolo con una
pioggia di fasci luminosi che tagliavano come coltelli e che la pelle dell’EDA,
per quanto spessa, non riuscì a respingere.
Il
mostro fu investito da più colpi, ma non sembrò accusare particolare dolore,
facendosi al contrario ancor più furente, ed alzata la terra la punta della
coda prese a menare frustate in ogni direzione, colpendo a più riprese varie
apparecchiature e provocando così una tempesta di scintille e scariche
elettriche.
La
giovane donna riuscì a schivare la maggior parte dei colpi, ma ne arrivavano
così tanti e in così rapida successione che dimenticò di tenere d’occhio anche
il resto del corpo del mostro; quasi avesse avuto due cervelli, mentre la coda
teneva impegnata Helen la testa le arrivò alle spalle, piombandole addosso
dall’alto, e quando Helen se ne accorse istintivamente tentò di allungare il
braccio dinnanzi a sé per erigere uno scudo.
L’EDA
aveva una bocca così grande che riuscì ad azzannarla poco sotto la spalla, e la
giovane ebbe quasi l’impressione che all’interno della gola quel mostro avesse
avuto file e file di denti più piccoli che come tanti uncinetti le arpionarono
la carne in più punti quasi a volerla scarnificare.
Helen,
con gli occhi fuori dalle orbite e la bocca spalancata in un agghiacciante urlo
di dolore, con la forza della disperazione impugnò la pistola, sparando a
casaccio tutti i colpi che aveva; fortuna volle che uno dei proiettili centrò
l’EDA in un occhio costringendolo a mollare la presa e ad allontanarsi
sibilando per poi scomparire alla sua solita maniera, pronto a tendere una
nuova imboscata.
Il
dolore per Helen fu tale da farla cadere in ginocchio, e quando trovò la forza
per guardarsi il braccio quasi non riuscì a crederci; persino la tuta non aveva
resistito, e al posto dell’arto la giovane donna non aveva altro che una massa
di carne masticata e grondante di sangue, con le falangi che per chissà quale
miracolo erano ancora tutte al loro posto, ma i nervi e i tendini erano talmente
malridotti che quel braccio non le riusciva quasi più di sentirlo.
Era
finita.
Nessuno
poteva sopravvivere ad una cosa del genere. Anche se qualcuno fosse stato in
grado di salvarla, con quel mostro quel maledetto doveva averle trasmesso una
tale quantità di energia infetta che probabilmente nel giro di pochi minuti il
suo core sarebbe scoppiato, e per lei sarebbe già
stata una fortuna non trasformarsi in un’EDA a sua volta.
Ma se
davvero era giunta la fine per lei, non sarebbe morta senza compiere la sua
missione. Aveva ancora un incarico da portare a termine.
Il
problema era capire come riuscirci, e intanto l’EDA era ancora là attorno,
pronto a sferrare l’assalto finale.
Perennemente
nascosto dietro il suo specchio illusorio, il mostro si era già portato
nuovamente alle spalle della sua preda, ed attendeva solo il momento buono per
colpire. Forse aspettava di vederla morire, ma poiché questa per interminabili
minuti seguitò a restare in ginocchio, immobile ma apparentemente ancora viva,
si risolse invece a fare la propria mossa, e caricatosi a molla scattò
all’attacco piovendo un’altra volta dall’alto.
Helen si
girò velocissima, i denti serrati e lo sguardo infuocato, e come protese
violentemente dinnanzi a sé il braccio menomato tutto il sangue che lo
circondava, quasi animato di vita propria, induritosi schizzò verso il nemico,
che finì letteralmente impalato su di una selva paletti di sangue.
Bloodof Stone.
Ovvero,
usare il proprio sangue come un’arma, indurendolo fino a renderlo forte quanto
il diamante e tagliente come l’acciaio. Una sublimazione magica volta a creare
un attacco fisico.
Mai una
volta Helen se n’era servita, perché sapeva quanto fosse pericoloso, poiché non
controllando adeguatamente la fuoriuscita vi era il rischio di dissanguarsi, ma
in fin dei conti quella sarebbe stata senza ombra di dubbio la sua ultima
battaglia.
L’EDA
cadde morto prima ancora di potersene rendere conto, ma la missione di Helen
non poteva ancora dirsi conclusa.
Tremante,
e sorreggendosi malamente sulle gambe, la giovane donna si alzò faticosamente
in piedi, facendo appello alle sue ultime forze; riuscì a malapena a
raggiungere la consolle di comando, usando l’unico braccio che le restava per
digitare la password che Ulrich le aveva fornito poco
prima, quindi, piegate le labbra in un ultimo sorriso, si accasciò, spirando
con la sicurezza che avendo esaurito del tutto il proprio core
non vi era per lei il rischio di poter tornare indietro da mostro.
Amanda, Klaus e Vincent non
erano più sicuri che difendere ad oltranza quella cambusa fosse la scelta
migliore, non ora che la sua impenetrabilità era venuta meno e che,
probabilmente, diffondendo l’odore di carne viva molto presto avrebbe condotto
gli EDA dritti da loro.
«Forse a
questo punto portarli alle scialuppe è davvero l’unica cosa da fare» si azzardò
ad ipotizzare Vincent. «Siamo in tre, e ci sono solo due ponti da attraversare.
Con un
po’ di fortuna magari…»
«Sei
impazzito?» lo interruppe Klaus, guadagnandosi un’occhiata di stupore da parte
dei suoi colleghi. «Tanto per cominciare non abbiamo idea di quanti ostili
potremmo trovare lungo la strada. E in secondo luogo, da che quello stronzo di Song se n’è andato, non abbiamo ancora sentito il segnale
d’allarme che annuncia il distacco delle scialuppe.
A questo
punto direi che non ci sono più dubbi su quale deve essere stata la sorte sua e
dei poveracci che l’hanno seguito».
Amanda
chinò il capo rattristata; alla fine, era successo ciò che aveva previsto.
Tuttavia
Vincent, per quanto colpito, non sembrava intenzionato a desistere.
«Se
quelli caricano in massa, quel collo di bottiglia non li fermerà per sempre. E
una volta che saranno entrati, sarà la fine.»
«Almeno
qui possiamo difenderci. Non dobbiamo fare altro che tenere il corridoio sotto
tiro. Là fuori potrebbero attaccarci da qualunque direzione.»
«Senti,
io capisco che tu stia cercando di salvare queste persone, ma ti ricordo che
sono ancora il tuo superiore.
Aspetteremo
ancora cinque minuti. Poi, se non accade niente, prenderemo queste persone e le
porteremo alle scialuppe.
Devi
capire che alle volte salvare alcuni civili è sempre preferibile a non salvarne
nessuno».
Klaus
temporeggiò, sembrava quasi sul punto di cedere, anche se un’idea simile era
una cosa che né lui né Amanda riuscivano razionalmente ad accettare.
Poi,
d’incanto, si avvertì un rumore, che pervase come una piacevole musica tutta la
nave.
Nella
sala motori, Georg e Raoul videro i sistemi di controllo accendersi da un
momento all’altro, il nucleo di alimentazione tornare a funzionare, e le
turbine che, faticosamente, si rimettevano a girare, emettendo il loro
pittoresco e scintillante barlume azzurro.
Al
rumore seguirono dei brevi contraccolpi, come di una macchina col motore in
panne, e infine una piacevole sensazione di movimento, accentuata dal fatto che
il sistema di stabilizzazione pensato per evitare sgradevoli scossoni e
simulare una gravità stabile era fuori uso.
Ciò
nonostante, nessuno ci fece caso, e anzi tra i superstiti vi fu un’ondata di
meravigliato stupore.
«Ci
stiamo muovendo!» esclamò qualcuno. «La nave si muove! I motori funzionano di
nuovo!».
Tutti si
lasciarono andare ad esternazioni di gioia, chi piangendo, chi abbracciando la
prima persona che capitava, chi rinvolgendo infiniti grazie ai propri
salvatori.
«Il Capitano
ce l’ha fatta!» esclamò Amanda.
Ma per
Klaus e Vincent non era ancora il momento di sentirsi al sicuro.
«Secondo
Lei» chiese Klaus, «Quanto ci impiegheremo a lasciare la Zona Oscura?»
«Non
sono un pilota» replicò Vincent, «Ma a questa velocità, direi circa quindici
minuti».
Klaus
guardò verso la porta aperta.
«Trenta
minuti. Tutto quello che dobbiamo fare è tenere questo posto per mezz’ora. Il
tempo che la nave esca dalla Zona Oscura e che le navi in arrivo dalla
superficie ci aggancino. Quando i loro uomini saranno a bordo ci penserà Ulrich a far sapere loro dove siamo, e così sarà tutto
finito».
Stavolta,
fu Vincent a tergiversare, passandosi lungamente una mano sulla fronte. Forse,
era giunto il momento di dare un po’ di fiducia a quel ragazzo in cui anche
lui, come il suo Capitano del resto, aveva sempre creduto, e che finalmente
stava iniziando a comportarsi da vero leader.
«Forza,
fortifichiamo questo ingresso. Saranno i trenta minuti più lunghi della nostra
vita».
Georg guardò soddisfatto i
motori che tornavano a cantare dopo un lungo silenzio, e anche Raoul non riuscì
a trattenere la propria euforia.
«Ce
l’abbiamo fatta!»
«Non
cantiamo vittoria» lo calmò il Capitano. «Per il momento siamo bloccati qui.
Ora si tratta solo di aspettare».
Poco
distante si trovava un terminale di comunicazione, e Georg, che pure da tecnico
valeva assai poco, prese a lavorarci nel tentativo di stabilire un collegamento
con il resto della nave e avere notizie sulla situazione, mentre Raoul si
lasciò ben presto rapire dall’alone color turchese emesso dalle turbine,
fantasticando nella sua mente di tutte le cose che avrebbe fatto una volta
tornato a terra e lasciato per sempre quel lavoro: un nuovo impiego, il
matrimonio, tanti figli, una vita felice, e una serena vecchiaia in qualche
isola corallina nel mare di New Aalborg.
La morte
interruppe di colpo tutti i suoi sogni, presentandosi sottoforma di una specie
di lunga zampa di ragno che sbucando alle sue spalle lo trafisse in pieno
petto, e a nulla valsero i tentativi di Georg, accortosi del pericolo, di
avvertirlo della minaccia, che servirono solo a dargli il tempo per girarsi e
guardare in volto il suo assassino.
Sembrava
uno di quegli orchi che popolavano le fiabe per bambini, alto e possente, mascella
squadrata da scimmia, occhi piccoli e neri, la testa rapata e una bocca enorme,
con quattro canini per arcata che sporgevano dalle grosse labbra.
L’unica
cosa un po’ insolita erano quelle due specie di protuberanze che sbucavano
dalla base delle scapole, forse la parte terminale dell’omero che si era
ingrandita a dismisura fuoriuscendo dal corpo, una delle quali era ora piantata
per più di metà nel petto di Raoul e fuoriusciva dalla parte opposta, lorda di
sangue.
Il
cameriere, agonizzante, fu sollevato in aria, e quindi scaraventato di sotto
con un rapido movimento dell’artiglio, disintegrandosi a contatto con la luce
emessa dalle turbine a causa dell’enorme energia sprigionata.
«Raoul!».
Georg
imbracciò il mitra e fece fuoco, ma i proiettili rimbalzarono sulla pelle
dell’EDA come su di una parete d’acciaio, e il mostro, furente, lo caricò,
scagliandolo via con una poderosa manata che lo lasciò mezzo tramortito a terra
e fece volare la sua arma oltre la balaustra.
Il Capitano
impiegò diversi secondi a riprendere conoscenza, e fu sorpreso nel constatare
che il colpo di grazia stentava ad arrivare; fu solo quando si avvide di come
l’EDA avesse concentrato la propria attenzione sul contenitore del krylium, prendendo a tirargli contro pugni furiosi nel
tentativo di romperlo, che capì cosa stava succedendo.
Gli EDA
rassomigliavano a dei giocattoli a molla, che funzionavano fintanto che
potevano disporre di una riserva di energia. Per questo erano attratti dagli
esseri umani, e più in Generale da tutto ciò che potesse nutrirli prolungando
la loro esistenza miserevole.
Ecco
perché quel bestione si era limitato ad uccidere Raoul e tramortire lui: quando
mai due corpi umani potevano risultare più appetibili di un intero blocco di
purissimo krylium? Dal profondo della sua natura
animale non riusciva a comprendere di non potersene nutrire, ma l’energia che
esso emetteva era come la luce per le falene, assolutamente irresistibile.
Ma in
ogni caso, Georg non poteva permettergli di fare quello che voleva; se quel
contenitore fosse andato distrutto il sacrificio di Reynar,
Raoul e tanti altri poveri sventurati sarebbe stato inutile.
Sfoderato
il pugnale, e urlando per darsi coraggio, Georg saltò letteralmente in groppa
al mostro, piantandogli la lama nel collo nella speranza di farlo desistere
subito. Il mostro riuscì a disarcionarlo in pochi secondi, afferrandolo con le
sue mani ciclopiche per poi sbatterlo violentemente a terra, ma prima che
potesse colpirlo nuovamente Georg gli impalò il piede facendolo gridare dal
dolore, e dandogli così il tempo di rialzarsi, caricare il destro ed
assestargli un violento montante.
Nessuno,
soprattutto se privo di poteri magici, si sarebbe mai sognato di affrontare
un’EDA a mani nude, ma che altro gli restava da fare?
«Avanti,
bestione» disse provocatorio mentre quel mostro, furente come non mai, tornava
a fissarlo. «Se vuoi mangiare qualcuno, perché non provi con me?».
Il corridoio che conduceva
dal cuore delle stive alle cambuse era già stato bloccato e ostruito in vario
modo dai superstiti con tutto ciò che era stato possibile accumulare, ma a
tempo da record venne riorganizzato da Amanda, Klaus e Vincent per farne una
successione di tre barricate che, secondo il piano, avrebbero potuto garantire
una continua linea di difesa, anche a costo di dover cedere dei metri.
Tutti
coloro che avevano una qualche dimestichezza nell’uso delle armi furono equipaggiati
con tutte le pistole, i fucili e le armi d’assalto che fu possibile mettere
insieme, e vennero reclutati anche i pochi maghi presenti tra i sopravvissuti.
«Credo
sia tutto pronto» disse Klaus osservando la linea ininterrotta di casse,
cassoni e ingombri vari che partendo da subito oltre la porta arrivavano fino
sul fondo del corridoio. «Ulrich, mi ricevi?»
«Forte e
chiaro.»
«Abbiamo
bisogno del tuo aiuto. Avvisaci quando li vedi arrivare.»
«State
tranquilli. Sto tenendo d’occhio tutti i punti d’accesso. Nessuno si avvicinerà
a quella stanza senza che voi lo sappiate per tempo.»
«Non
avrei pensato di doverlo dire, Ulrich, ma… grazie del tuo aiuto.»
«Non c’è
di che» rispose sornione l’interessato.
A quel
punto, ad Ulrich restava solo una cosa da fare.
Per
tutto quel tempo, da che era riuscito a ripristinare i sistemi di sorveglianza,
il computer aveva accumulato, compattato e messo in ordine quanti più filmati
gli era stato possibile, facendone un grande video contenente sia i momenti
immediatamente precedenti e successivi allo scoppio dell’emergenza sia le varie
fasi di intervento della squadra, trasferendo il tutto all’interno del computer
da polso di Ulrich.
Quelle
immagini sarebbero state sicuramente molto utili al momento di stilare il
rapporto, inoltre avrebbero sicuramente contribuito a comprendere le origini e
le cause di quella emergenza, sì da evitare in futuro simili tragedie.
Un
rumore proveniente dalle sue spalle gli strozzò di colpo il respiro in gola.
«Ma cosa…».
Per
fortuna i riflessi non gli facevano difetto, o l’EDA sbucato all’improvviso
dalla porta ancora aperta della stanza del nucleo lo avrebbe azzannato prima
che avesse avuto il tempo di sfoderare la pistola e fare fuoco.
Istintivamente,
passata la minaccia, Ulrich eresse una barriera a
protezione della porta, e fu un bene, perché dopo pochi attimi una ventina di
altri mostri vi si avventò contro, trovando in quel fragile scudo tutto ciò che
li separava dal loro pasto. Non serviva molta fantasia per immaginare da dove
fossero arrivati, e gettando un occhio al corridoio si potevano notare, sul
soffitto, diverse botole aperte.
«Ulrich, che succede?» domandò Klaus, che aveva sentito dei
rumori attraverso la radio
«Sono
qui, Klaus. Sono arrivati dai condotti.»
«Merda!
Aspetta, ora vengo ad aiutarti!»
«No,
lascia perdere!» gli intimò Drassimovic. «Sono troppo
lontano! Sta tranquillo, per ora sono inoffensivi. Senza contare che non
possiamo permetterci di perdere la sala del nucleo.» poi guardò i monitor,
rimanendo per un attimo in silenzio, sconvolto. «E poi, state per avere
visite».
Gli EDA, avevano dimostrato
analisi autoptiche, non perdevano del tutto al propria coscienza umana al
momento della trasformazione.
La
memoria e la coscienza venivano alterate e sconvolte, impedendo loro di pensare
e sentire razionalmente, ma non scomparivano in maniera completa, e in alcuni
casi arrivavano a condizionare il comportamento successivo dell’EDA anche dopo
la mutazione.
Quando
un pugno di EDA, attratti dall’odore di cibo, raggiunse la zona delle scialuppe
trovarono ad attenderli solo un Richard Song ormai
mutato, il quale però, Comandante alla guida del proprio esercito, messosi alla
testa di un vero battaglione di EDA cominciò a correre schiumante in direzione
della stiva, coinvolgendo nella sua discesa verso il basso un numero sempre
maggiore di propri simili, e non servì molto perché alle narici di tutti quei
mostri giungesse un profumo tale da tramutare una fame istintiva in vera e
propria furia distruttrice.
Vincent
e Klaus, appostati assieme ad altri lungo la prima e più esposta barricata, li
sentirono arrivare quando questi erano ancora a molti metri di distanza, tanto
e tale era il fracasso prodotto dal loro avanzare furioso.
«State
pronti!» ordinò Klaus.
La paura
negli occhi di molti era evidente, e qualcuno era talmente spaventato e
tremante da non riuscire a tenere dritta la propria arma, ma bene o male tutti
sapevano che a quel punto non si poteva più tornare indietro. O vivere o
morire: questa era l’unica scelta che rimaneva a ciascuno di loro.
Come la
quiete prima della tempesta, per un istante tutto si fece silenzio; poi,
ringhiando e strepitando, i primi EDA dell’interminabile armata si palesarono
dalla biforcazione sul fondo. Song guidava la carica,
e fu lui il primo a cadere, centrato in pieno da Klaus che non ci pensò due
volte a tirare il grilletto appena lo vide comparire nel mirino.
«Ricordate,
sparate in testa! Fuoco!» ordinò Vincent.
Klaus
aveva letto una storia da piccolo, si diceva il resoconto di un fatto realmente
accaduto all’alba dei tempi, quando ai loro antenati vivevano ancora sulla
Terra, di un pugno di soldati che riuscivano da soli a respingere un esercito
mille volte più grande sfruttando una stretta gola dove il vantaggio dato dal
numero era azzerato; forse era anche un po’ in memoria di quella favola che si
era convinto della fattibilità di quell’ultima, disperata resistenza, piuttosto
che arrischiarsi in una traversata della nave dagli esiti imprevedibili, e
inizialmente i fatti parvero dargli ragione.
Esposti
al fuoco di sbarramento, impreciso ma comunque intensissimo, gli EDA non
smisero un attimo di cadere.
Ma erano
tanti. Troppi. E più della metà dei coraggiosi che si erano offerti di aiutare
a contrastarli nei fatti non aveva mai toccato un fucile.
Sotto la
spinta di quell’onda umana, la prima barricata non impiegò molto a cadere;
Klaus ordinò il ripiegamento, ma dei cinque uomini che erano con lui solo due
riuscirono a seguirlo fino al secondo sbarramento, e quando anche questo cadde,
costringendo i superstiti a rifugiarsi nel terzo, dove li attendeva Vincent, Krietzmann era rimasto solo.
E
sarebbe morto anche lui, se un’EDA che era in procinto di saltargli addosso non
fosse stato intercettato a mezz’aria e finito provvidenzialmente da un colpo
ben piazzato di Vincent, che coprì le spalle al compagno finché questi non
l’ebbe raggiunto.
«Questa
è l’ultima linea!» gridò Vincent per sovrastare il fragore degli spari. «Se
perdiamo anche questa dovremo ripiegare fin nella cambusa!»
«Non
succederà!» replicò fiero Klaus sporgendosi e riprendendo a sparare.
Man mano
che i rumori si avvicinavano, tra i sopravvissuti montava la paura. Amanda
stava dinnanzi alla porta, pronta a coprire un’eventuale fuga ai suoi compagni
che ora poteva vedere a poca distanza, mentre tutto attorno a lei il panico
tornava a prevalere sulla speranza.
Hilda, che
per buona parte del tempo era rimasta in disparte, senza quasi capire il perché
si ritrovò a cercare la compagnia di Johanna, che la
strinse a sé ricevendo finalmente in cambio un uguale abbraccio.
«Ho
paura.» disse la bambina con un filo di voce
«Ce la
faremo, piccola. Te lo prometto».
L’Aurora aveva ormai
raggiunto l’orbita alta di Neos, e tutti gli occhi
erano puntati in direzione della Zona Oscura, da cui ci si aspettava di veder
sbucare da un momento all’altro la figura esile e scintillante del Megonia, diretto verso la sua ultima destinazione.
A bordo
regnavano incertezza e rassegnazione.
Bene o
male, in quelle tre ore di volo, tutti si erano convinti che quella era l’unica
cosa da fare, ma in pochi apparivano realmente determinati a farla, o
quantomeno a farla senza dubbio alcuno.
Il Direttore
Generale non aveva più aperto bocca da dopo la partenza, e sedeva come
ipnotizzato alla poltrona di comando al centro del ponte, scrutando come gli
altri l’immensità dell’universo con occhi quasi spenti, apatici.
Qualche
migliaio di chilometri più indietro, la Voyager, la
nave scuola della stazione Ares, seguiva la stessa rotta alla sua massima
velocità, la stessa che risultando quasi doppia rispetto a quella della ben più
grande ma anche più lenta Aurora le aveva permesso di colmare in poco tempo la
distanza accumulata.
Anche
sul ponte della Voyager regnava il silenzio, ma era
un silenzio diverso.
Nessuno,
tranne il Direttore Shane, sapeva ancora con certezza cosa stessero andando a
fare, o quale fosse l’origine di tutto quel trambusto che aveva sconvolto una
normale giornata di lezione, e i cadetti si guardavano increduli tra di loro.
Più
l’Aurora si avvicinava, più Shane si faceva nervoso.
«Quanto
manca per poterli raggiungere?»
«Ancora
dieci minuti, signore».
Poi,
d’un tratto, qualcosa apparve alle spalle di Neos,
facendo sobbalzare tutti sia sull’Aurora che sul Voyager.
Una
sagoma, bianchissima.
Il Megonia.
Procedeva
lentamente, in modo incerto, sospinto da dei motori che nonostante i danni
riportati riuscivano ancora a funzionare, a riprova del lavoro magistrale degli
ingegneri.
Vedendola,
Shane sbiancò, e le sue mani presero a tremare.
«Riusciamo
a raggiungerli in tempo?»
«Sono
ancora troppo distanti, Signore.» rispose timidamente il pilota.
A bordo
dell’Aurora la razione fu quasi la stessa, ma lì tutti sapevano cosa stava per
succedere.
«Cannone Odin in stand-by.» disse Aoyama.
Nolan si
volse verso Geithner.
«Signore?».
Il Direttore
Generale strinse forte i braccioli della poltrona, quindi fece un cenno appena
visibile con la punta di un dito.
«Caricare
Odin.» ordinò quindi Nolan.
Se Amaltea
aveva Morpheus, la MAB e Caldesia
avevano Odin: un’arma innovativa, di cui l’Aurora
poteva fregiarsi di essere la prima in assoluto a beneficarne, capace di
raccogliere il potere magico presente nel cosmo, anche nelle quantità più
infinitesimali, e sommarlo a quello prodotto da una parte del proprio nucleo,
sì da dare vita ad una enorme massa di energia capace di produrre un potere
distruttivo senza precedenti.
Vedendo
comparire una sfera di luce bianca davanti al muso dell’Aurora, che pulsando e
palpitando come un cuore cresceva sempre più d’intensità, Shane si sentì
scendere il latte alle ginocchia.
«Bastardi»
ringhiò, quindi ordinò. «Mettetemi in comunicazione con l’Aurora! Aprite un
canale!»
«Ma
signore, la loro linea è protetta…»
«Craccatela!».
Nessuno
di quei ragazzi era al livello di Ulrich, che bene o
male era stato per loro quasi un professore, ma unendo le forze riuscirono
comunque a violare i sistemi di sicurezza dell’Aurora, e il volto del Direttore
Shane comparve al centro del ponte di comando proprio nel momento in cui il Direttore
Generale, sfilatosi dal collo la chiave di controllo di Odin,
era sul punto di infilarla nella fessura comparsa da uno sportello sul
bracciolo della sua poltrona.
Vedendolo
apparire, Nolan imprecò in silenzio, e anche Aoyama ne fu visibilmente contrariato.
«Nathan!?
Che ci fai tu qui?»
«La
prego, Signore. Non lo faccia. Non condanni a morte tutte quelle persone.»
«Ne
abbiamo già parlato, Direttore Shane» tagliò corto Nolan.
«La decisione è presa. Il Megonia deve essere
sterilizzato.»
«Cannone
Odin carico.»
«Ci sono
ancora delle persone a bordo. Persone innocenti. Possiamo salvarle. Ho portato
con me uomini ed equipaggiamenti. Mi dia trenta minuti, solo trenta minuti, e
riprenderemo il controllo della nave.
Metta
tutti in quarantena. Li arresti se necessario. Ma non li uccida così».
Geithner
guardò in basso, sopraffatto dal peso della sua carica.
«Signore»
disse Aoyama. «Qui è in gioco la salvaguardia del
nostro pianeta. Che faremo se il contagio a bordo del Megonia
dovesse diffondersi?»
«Questa
è una decisione di cui potrebbe pentirsi per tutta la vita» incalzò Shane. «Noi
siamo la MAB, signore. Il nostro compito è proteggere questo pianeta ed i suoi
abitanti. Tutti i suoi abitanti.»
«La nave
è nel mirino, Signore.»
«Signore!»
«Signore!».
La mente
di Geithner viaggiò lontano.
Ripensò
alla sua infanzia, ai racconti di suo nonno, alle gite in montagna; e poi
all’accademia, al duro lavoro, alla scalata ai vertici, e a quel sogno di
diventare l’uomo più importante del mondo: non per avidità o sete di gloria, ma
solo per la volontà incontrollabile di aiutare gli altri, poiché solo la MAB
aveva il potere di tramutare Celestis in quello
scrigno di grandezza e di utopia che i loro antenati sognavano.
Una cosa
però era certa: quella decisione, qualunque fosse stata, avrebbe cambiato il
destino non solo della MAB, ma probabilmente dell’intero Celestis.
Per sempre.
Ulrich guardò di nuovo verso la barriera, su cui
quei mostri impazziti ed assetati di sangue spingevano senza sosta, e sulla
quale iniziavano a comparire le prime crepe.
Di
sicuro, non avrebbe retto ancora a lungo.
Georg si era battuto come
un leone, e grazie alla sua stazza era riuscito in più occasioni a fare davvero
male all’EDA, ma contro un avversario del genere non era facile riuscire a
prevalere.
L’orco,
all’ennesimo assalto furioso del Capitano, incassò alcuni colpi, poi ne
ricevette uno allo zigomo che evidentemente gli fece più male degli altri, e
con uno scatto furioso colpì il Capitano con tutta la sua forza, sparandolo
contro una parete; e questa volta, neanche la tuta protettiva riuscì a salvare
Georg, che nel momento dell’urto sentì distintamente varie ossa scricchiolare,
e alcune spezzarsi, tanto che una volta a terra non fu capace di rimettersi in
piedi.
Ma l’EDA
non aveva ancora finito con lui. Prima ancora che il Capitano potesse cadere
del tutto, il mostro scagliò in avanti tutti e due i suoi artigli,
trafiggendolo da parte a parte all’altezza del cuore per poi sollevarlo di peso
ancora vivo, portandolo tanto vicino a sé che i loro nasi quasi si sfiorarono, quasi
quella creatura avesse voluto guardare dritto negl’occhi quell’omuncolo che
aveva osato sfidarlo.
Georg
dapprima urlò per il dolore, ma quando fu viso a viso con il mostro le sue
labbra si piegarono in un ghigno provocatorio, i suoi occhi in uno sguardo di
sfida.
«Non… non sai fare più di così?».
Nelle cambuse, anche la
terza linea era saltata. Oltre a Vincent e Klaus, solo pochi altri erano
sopravvissuti abbastanza a lungo da lasciare indenni quel corridoio infernale,
e la difesa a spada tratta di quell’ultimo pertugio che era la porta d’ingresso
appariva sempre più disperata.
Tutti
sparavano, producendo un rumore che rafforzato dallo spazio chiuso risultava
assordante, mentre nell’aria continuavano ad echeggiare le urla infernali di
quei mostri, che fossero di dolore, di agonia o di rabbia famelica; anche dalle
altre porte, tutte ancora sprangate, presero a giungere violenti colpi.
Qualcuno
riuscì ad entrare, superando lo sbarramento e aggredendo alcuni dei superstiti,
e a quel punto fu il panico Generale, con gente che scappava in tutte le
direzioni intralciandosi a vicenda.
«Sto
finendo le munizioni!» si continuava a sentire.
Ashley e
il signor Gullit, come immersi in un’altra dimensione, si guardarono,
scambiandosi un sorriso, mentre lui le sfiorava la guancia con un dito e lei
passava una mano sui suoi folti capelli grigi.
«Il Capitano
ha detto che usciremo di qui!» urlò Hilda tra le
lacrime stringendo la matrigna più forte che poteva. «Lo ha promesso!»
«Và
tutto bene, bambina mia!» le sussurrò teneramente la madre nascondendo le
proprie, di lacrime. «Và tutto bene. Chiudi gli occhi».
Il Direttore Geithner abbassò lo sguardo; quando lo rialzò, guardando il
vuoto davanti a sé, una lacrima scese lentamente lungo il volto rugoso.
Nolan invitò a colazione il Direttore LiamFinnes, capo del distretto
di Eldkin, e il suo collega Aoyama,
che passata la crisi aveva accettato di lasciare il consiglio in cambio del
comando della regione di Midgra, in occasione di un
loro viaggio di piacere nella capitale, facendoli accomodare nel
salotto-biblioteca della sua elegante residenza nelle colline attorno a Kyrador.
Erano
passati ormai due mesi dall’Incidente del Megonia,
come la stampa lo aveva ribattezzato, e inaspettatamente le acque sembravano
già essersi calmate; ed era proprio di questo che i tre alti funzionari avevano
intenzione di parlare a quella piccola riunione personale, degustando ottimo tè
aleptiano, superbo caffè amalteco
e dolciumi vari arrivati appositamente dalle maggiori pasticcerie e panetterie
della città.
L’aria
era fresca, peschi e ciliegi andavano ricoprendosi dei fiori della primavera, e
dai finestroni della sala entrava un piacevole sole mattutino.
«La
situazione si è acquietata, a quanto sembra.» commentò Aoyama
«Così
pare» rispose Nolan. «Alla fine è bastato poco per
convincere la gente che quella era la cosa giusta da fare.»
«E Amaltea come l’ha presa?» domandò Finnes
«Hanno
fatto un po’ di storie. Minacciavano di ricorrere per vie legali, ma hanno
accettato di far cadere tutto quando l’agenzia si è offerta di risarcire per
intero sia i premi assicurativi che gli indennizzi per le famiglie delle
vittime.»
«Voi
credete che sarebbe potuta andare a finire diversamente?»
«Lo
trovo difficile. Abbiamo dovuto scegliere. In entrambi i casi sarebbe stata una
decisione drammatica. Fortunatamente per noi, il Direttore Generale ha preso
quella giusta.»
«Le sue
dimissioni hanno fatto meno rumore di quanto mi sarei aspettato» disse Aoyama. «Ma del resto, anche così, non c’era molto che
potesse fare».
Finnes si
portò alla bocca la tazza di caffè, stando bene attento a non macchiare i suoi
curatissimi baffi grigi.
«E di
quelle due superstiti che ne è stato?»
«Anche
in questo siamo stati fortunati» rispose Aoyama
portandosi alla bocca un pezzo di pancake «A sentire i medici, la ragazzina è
ridotta praticamente ad un vegetale, e anche nel caso in cui tornasse in sé non
ricorderebbe comunque nulla di quanto accaduto lassù.»
«Per
quanto riguarda l’Agente invece, abbiamo preso i dovuti provvedimenti»
intervenne Nolan. «Il suo silenzio è garantito. Morti
i genitori, quella ragazzina ha ereditato un patrimonio. Ha dovuto scegliere
tra il poterla curare lei pur non avendone alcun diritto legale e lasciarla nelle
mani di qualche tutore avido di soldi che l’avrebbe spremuta fino alle ossa.»
«Le
avete dato l’affidamento della bambina?» chiese Finnes
quasi stupito
«Non è
stato difficile. E abbiamo anche provveduto a garantirle una promozione, un
lavoro dietro una scrivania e una lauta plusvalenza.»
«Non
sarebbe stato meglio disfarsi di lei? È pur sempre una superstite.»
«Perché
potesse andare a raccontare a mezzo mondo la sua storia? C’è gente là fuori che
non aspetta altro che l’occasione buona per screditarci.
Almeno,
finché resta con noi, ha un giuramento da rispettare.»
«E di
Shane che mi dici? Terrà la bocca chiusa?»
«Non c’è
molto che possa fare. Non ha prove che dimostrino che l’incidente poteva essere
gestito in altra maniera, o che vi sia stata una qualche violazione dei diritti
fondamentali nell’operato dell’Agenzia.
Inoltre,
ora che il suo Progetto è stato rifinanziato e definitivamente approvato,
apparirebbe come un profittatore e un poco di buono se dovesse tentare di
screditare chi gli ha appena garantito altri dieci anni di stipendio».
Finnes si
lasciò andare sospirante sulla poltrona.
«Certo,
è stata proprio una bella seccatura. Ma almeno, è finito tutto per il meglio»
quindi si rivolse a Nolan. «Stavo pensando. Ora che
il Direttore Generale si è dimesso, direi che la tua nomina a capo dell’Agenzia
sia quasi una formalità.»
«Ha
ragione» incalzò Aoyama. «Sei uno dei pochi che ha
tratto più vantaggi che problemi da tutta questa storia.»
«Non è
del tutto sicuro» rispose l’interessato con una strana espressione, quasi
ammiccante. «C’è qualcuno che ha avuto da ridire sul mio operato, e sapete bene
che non tutti nell’Agenzia hanno approvato la nostra decisione. Dopo quelle del
Direttore Generale, in molti si aspettano anche le mie.»
«Geithner si è preso tutte le responsabilità» disse Finnes. «Moralmente ed eticamente parlando, il Consiglio ne
è uscito indenne.»
«Ma
l’idea della soluzione finale è stata mia. E per quanto sia stata quella
giusta, c’è ancora chi continua a dubitarne» quindi parve sorridere. «Del resto
però, i più, inclusa l’opinione pubblica, ha dimostrato di avere del senno.
Staremo
a vedere. In ogni caso, per il futuro, sarà opportuno prendere in
considerazione l’idea di un deciso cambio di impostazioni in seno ai vertici
dell’Agenzia. Ora come ora ci sono troppe persone con il potere di influire su
decisioni importanti.»
«Sono
d’accordo» concluse Aoyama. «D’altronde, non abbiamo
un Comandante supremo solo per amore delle apparenze».
Il Sergente
Doyle, che seguiva come un’ombra il Direttore Nolan facendogli da attendente, irruppe improvvisamente
nella stanza, minacciando di far volare via il portauovo dalle mani del suo
principale.
«Direttore,
una catastrofe!»
«È modo
di entrare, Agente Doyle?» lo rimproverò
l’interessato
«La
televisione! Accenda la televisione!».
Una
specie di brivido attraversò senza apparente motivo le schiene dei tre
ufficiali, che si guardarono tra di loro perplessi per poi volgere la propria
attenzione verso il monitor affisso alla parete.
Seguendo
le indicazioni del suo uomo Nolan accese la CNN.
Un
titolo campeggiava in sovrimpressione: Verità negata! Esclusiva dal Megonia!, mentre sopra di esso scorrevano ininterrottamente
immagini di eserciti di mostri simili a zombi che percorrevano in massa
corridoi stretti e angusti, e di uno sparuto gruppo di soldati dalle
inconfondibili uniformi che sparando senza sosta facevano scudo ad un folto
gruppo di civili terrorizzati e ammassati all’interno di una grande stanza;
poi, di colpo, l’immagine scomparve, ricominciando però immediatamente daccapo.
«Ripetiamo,
queste sono immagini appena giunte in esclusiva alla nostra redazione!» disse
la giornalista nel riquadro in alto, a sua volta sconvolta. «Non siamo ancora
in grado di accertarne al cento per cento l’attendibilità, ma al momento i
nostri analisti sono orientati a reputarle autentiche.
Quelle
che vedete sono riprese realizzate dalle telecamere di sorveglianza installate
a bordo della nave. Da quello che si può vedere appare chiaro che c’erano dei
superstiti a bordo del Megonia. La nave non era
perduta.
Eppure
la MAB aveva assicurato in più occasioni di aver comprovato la morte o la
mutazione di tutti i passeggeri della nave, nonché la perdita dei contatti con
la propria squadra inviata a indagare sull’accaduto.
Se
queste riprese si rivelassero vere, allora si aprirebbe dinnanzi a noi uno
scenario sconvolgente.
Possibile
che la MAB abbia deciso arbitrariamente di uccidere tutte queste persone pur di
arrestare l’epidemia?
Abbiamo
cercato di raggiungere telefonicamente alcuni membri del Consiglio di
Sicurezza, ma quei pochi che siamo riusciti a contattare hanno rifiutato di
rilasciare dichiarazioni.
In una
parola, la situazione è agghiacciante».
Il
silenzio cadde come un macigno nella stanza di quella bellissima villa, un
silenzio sconvolto e smarrito.
Nolan, Aoyama e Finnes si guardarono tra
di loro, quasi a cercare vicendevolmente di convincersi che non era vero, che
era tutto in sogno, un sogno orribile da cui doversi svegliare.
Un urlo
riecheggiò nell’aria.
«Shane!»
I vertici della MAB avevano
un mare di difetti, e uno di questi era la supponenza.
Subito
dopo la distruzione del Megonia, con Geithner che facendo il capro espiatorio davanti alle
telecamere dirottava altrove l’attenzione dell’opinione pubblica, Nolan e gli altri si erano affannati a raccogliere e
cancellare ogni traccia di ciò che era stato fatto.
Avevano
bruciato, seppellito, minacciato o comprato tutto ciò che poteva costituire una
prova, rimescolando e ricostruendo la verità nel modo più facilmente
comprensibile ed accettabile, come del resto era già stato fatto altre volte in
passato per eventi di gravità più o meno simile.
Come
potevano immaginare che il video montato da Ulrich,
vuoi per disattenzione o per chissàquale intercessione del fato, della provvidenza o della semplice
casualità, fosse stato trasmesso per errore dal sistema di comunicazione del Megonia assieme a tutte le riprese della sorveglianza e ad
altro materiale audiovisivo, frammenti di dati lanciati nello spazio
nell’attesa che l’antenna di ricezione della stazione riuscisse casualmente a
captarli?
Ormai
non si poteva più chiudere gli occhi.
D’altro
canto, Nathan sapeva che probabilmente sarebbe stato impossibile impedire che
la situazione giungesse a quell’epilogo; molto probabilmente il destino di
Georg, Helen, Klaus e gli altri suoi ragazzi si era compiuto nel momento stesso
in cui avevano messo piede sul Megonia, così come
quello di tutta quella povera gente immolata sull’altare del sacrificio per
impedirne uno ancora più grande.
Ma non
poteva finire tutto così, con scuse di rito, un po’ di denaro e qualche
medaglia.
La MAB
aveva fatto una scelta, giusta o sbagliata che fosse, e ora doveva assumersene
la responsabilità di fronte a quel mondo che aveva il compito di proteggere.
Nathan
era cosciente del fatto che la sua scelta non sarebbe stata priva di
conseguenze; ci sarebbero stati sconvolgimenti, forse anche catastrofici, e
dall’esito assolutamente imprevedibile, ma era necessario.
La MAB
doveva cambiare: tutto Celestis doveva cambiare.
Per
oltre centocinquant’anni, gli abitanti di quel
piccolo mondo smarrito nell’universo si erano illusi di aver dato vita ad un
paradiso, un’utopia terrena traboccante di splendore e di felicità. Ma forse,
in realtà, Celestis non era altro che una copia
sbiadita di quella Terra che i loro antenati si erano lasciati alle spalle.
Perché un mondo infondo altro non era che il frutto delle scelte dei suoi
abitanti, e che si parlasse della Terra o di Celestis
gli abitanti erano sempre loro: gli esseri umani.
La magia
aveva scombinato le carte, illudendo tutti coloro che avevano ceduto al suo
potere di poter essere la chiave di accesso alla perfezione: ma i pregi e i
difetti, quelli erano rimasti.
E,
probabilmente, non sarebbero scomparsi mai.
Non
potevano scomparire: sarebbe significato il venire meno della stessa natura
umana.
Quanto a
lui, sapeva perfettamente quale fosse il suo destino.
La
verità era che anche lui, come molti altri, era stato complice di tutta quella
farsa, e non sarebbe bastata quella fuga di notizie a segnare la sua
redenzione.
Lo
squillare del telefono non interruppe i suoi pensieri, e neppure l’attivarsi
della segreteria, dinnanzi alla quale restò impassibile, adagiato sullo
schienale della sua poltrona con gli occhi persi nel vuoto del suo ufficio, una
scatola chiusa poggiata dinnanzi a sé sulla scrivania e la vetrata aperta
sull’atmosfera azzurra di Celestis alle proprie
spalle.
«Nathan,
razza di bastardo impenitente!» tuonò iracondo Nolan,
ben sapendo che il suo vecchio compagno di corso lo stava ascoltando. «Si può
sapere che ti dice la testa? Vuoi forse distruggere questa agenzia?
È la tua
vendetta, non è vero? Perché sono stato sempre un passo avanti a te!
Ma se ti
sono sempre stato avanti è perché tu sei un fallito! Una merdosa nullità! Tu
non vali niente! Mi hai sentito, maledetto amalteco?
Non vali niente!
Non
credere di uscirne pulito! Se io vado a fondo, tu verrai con me! Ti getterò
addosso tanta di quella merda che quando sarà finita rimpiangerai di non
esserci stato anche tu su quella maledetta nave!
Io ti
rovino! Ti rovino! Parola mia!».
L’ultimo
suono che giunse attraverso la cornetta all’orecchio di Nolan,
l’ultimo atto di quella commedia tragica, fu un colpo di pistola, cui fece
seguito il colossale baccano proveniente dal cortile, con eserciti di
giornalisti che si accalcavano davanti al cancello della villa minacciando
quasi di abbatterlo.
La giovane donna sedeva
dinnanzi alla finestra della sua umile stanza, aperta sulla maestosa bellezza
delle acque del Lago Biwa, con il monastero che come
aggrappato con le unghie e con i denti alla ripida e brulla scogliera arrivava
quasi a lambirne le sponde.
I
capelli, biondissimi, erano elegantemente raccolti in una crocchia dietro la
nuca, e portava una tunica leggera, di un colore bianco panna, che lasciava
parzialmente scoperte le spalle, cinte invece da uno scialle.
Nei suoi
occhi si leggeva la volontà di viaggiare; non con il corpo, ma con i ricordi.
La sua
mente, a distanza di tanti anni, ancora faticava a rievocare il lungo e
tortuoso cammino che l’aveva condotta fino a lì, a quella decisione, e ancor
più difficile le veniva ricordare ciò da cui tutto era iniziato, quel giorno
così ormai lontano nel tempo che aveva spento così tante vite e sconvolto, nel
bene o nel male, quelle di tutti coloro che erano rimasti, e che avevano visto
le false certezze sgretolarsi come fango secco per far spazio ad una dura,
cinica e crudele realtà, quella stessa realtà in cui ora stava vivendo.
Così,
come già altre volte aveva fatto, non le restò che affidarsi ai racconti, alle
storie di cui lei stessa era in un certo senso protagonista, che unite ai pochi
frammenti che negli anni era riuscita a mettere insieme andavano a comporre una
storia terribile, ma che, per chissà quale miracolo, si era conclusa nel suo
caso con una luce di speranza.
Gli EDA erano ormai giunti
a ridosso della porta, ed erano sul punto di sfondare anche l’ultima linea di
difesa, quando vi era stato una specie di sibilo, e subito dopo tutto si era
spento in un mare di luce.
Amanda
si vide cadere addosso un enorme pezzo di rivestimento, e quando riprese i
sensi, riuscendo a fatica a toglierselo di dosso, fu sorpresa di vedersi ancora
viva.
Protocollo
di sopravvivenza.
In
quanto maga, Amanda era stata addestrata negli anni a far sì che il suo
organismo, se sottoposto a particolari stress o situazioni potenzialmente
mortali, rispondesse istintivamente erigendo una barriera corporea di difesa
usando tutto il potere magico disponibile; per questo fin dal momento in cui
riaprì gli occhi si sentì piegata in due da una implacabile stanchezza e senso
di spossatezza.
L’estrema
debolezza però non le impedì, una volta ripresa pienamente coscienza di sé e
del dolore che le arrivava da ogni parte del corpo, di rimanere di pietra di
fronte all’orrore che le si parò innanzi.
Gli EDA,
tutti, erano stati spazzati via; ma Klaus, Vincent, il signor Gullit, Ashley Thunterscott, e tutti gli altri…
anche loro erano morti, ammassati senza vita l’uno sopra l’altro, sballottati
via come bambole di pezza dalla potenza del colpo ricevuto.
Provò a
chiamarli, a scuoterli, nella speranza di vederli riaprire gli occhi, ma
nessuno le rispose.
Nessuno.
Solo lei era sopravvissuta; un pensiero che la fece nuovamente cadere in
ginocchio, il volto nascosto dietro le mani e gli occhi segnati dalle lacrime.
«Che sta
succedendo qui?» urlò istericamente.
Poi,
d’un tratto, il suo computer da polso si mise a gracchiare; nonostante i colpi
presi e le crepe sul monitor, incredibilmente funzionava ancora.
«Amanda?
Mi senti? Amanda!».
Lei,
singhiozzando, guardò lo schermo, vedendovi comparire a fatica il mezzobusto di
Mayu.
«Meno
male, almeno tu sei ancora viva.
Devi
andartene subito. La MAB sta attaccando il Megonia!»
«La… la MAB!?» esclamò sgranando gli occhi. «Che significa?»
«Ho
intercettato le loro comunicazioni. Vogliono arrestare l’infezione con
qualunque mezzo, anche a costo di sacrificarci tutti.
Devi
andartene subito. La nave per ora resiste, ma basterà un altro colpo per farla
affondare».
Dapprincipio,
però, Amanda non volle neanche prendere in considerazione l’idea di scappare:
non lei sola. Cosa aveva fatto di diverso per meritare di sopravvivere a quella
follia?
«Ma… il Capitano… e Ulrich… e Helen…»
«Sono
tutti morti, Amanda! Sei rimasta solo tu!»
«E… e tu? Tu puoi salvarti. Aspetta, ora ti raggiungo e…»
«È
inutile» rispose Mayu apparentemente senza
esitazioni, cercando di non tradire il suo vero stato d’animo. «Ho già provato
a fare il log-out, ma non ci sono riuscita. Morpheus
deve essersi guastato».
Allora,
era dunque destino che dovesse salvarsi solo lei. Ma perché? Non riusciva ad
accettarlo.
«Amanda,
tu devi vivere!» le ordinò Mayu con veemenza. «Se
muori anche tu, non sarà uscito niente di buono da questo maledetto inferno, lo
capisci?».
Amanda
rimase di sasso, non riuscendo a replicare, mentre nel suo animo si agitavano
sentimenti contrastanti. Da una parte non le sembrava giusto abbandonare tutto
e tutti per salvarsi, dall’altra invece sentiva che solo vivendo avrebbe potuto
dare un senso a tutta quella tragedia.
«Vai,
ora» le disse Mayu pacatamente. «Cercherò di farti
guadagnare tempo. Raggiungi le scialuppe e lascia subito questa nave maledetta.
Con un po’ di fortuna, dovresti poterti salvare».
La
comunicazione a quel punto scomparve, ma Amanda non stette a lungo ad osservare
il monitor annerirsi fino a soccombere del tutto ai danni che lo avevano
segnato, e cercando di tacitare una voce della vergogna che la esortava a
rimanere fece per andarsene.
Era
praticamente già uscita dalla stanza, quando da un corpo rannicchiato e
raggomitolato in un cantone lì vicino giunse un rantolo soffocato, ed
avvicinatasi con qualche esitazione assistette con i suoi occhi a quello che,
in quel momento, aveva tutta l’aria di un vero miracolo.
Johanna,
quella Johanna che fin dal giorno delle sue nozze non
aveva mai fatto altro che litigare come una figliastra Hilda,
con il suo ultimo respiro si era avvolta attorno alla bambina come una seconda
placenta, rimossa la quale Amanda vide emergere la piccola moribonda e priva di
sensi, ma incredibilmente ancora viva.
Una
volontà divina, o forse solo l’amore di una madre cui la mancanza di un legame
genetico non aveva impedito di comportarsi come tale, le aveva salvato la vita,
e ora stava ad Amanda far sì che quel sacrificio, così come quello di ogni
altra singola vittima della follia del Megonia, non
andasse sprecata.
Presala
tra le braccia, ricevendo in cambio un gemito un po’ più forte, la ragazza si
avviò barcollante verso l’uscita.
I membri del Consiglio di
Sicurezza avevano accolto con un certo stupore il vedere il Megonia
incassare un colpo tanto potente danneggiandosi gravemente, ma seguitando
nonostante ciò a galleggiare agonizzante rifiutandosi di cadere.
In fin
dei conti, era stata progettata pur sempre come una nave da guerra. E in quanto
tale, oltre che di un’ottima corazzatura ed efficaci scudi protettivi era stata
equipaggiata anche con un arsenale di tutto rispetto.
La
maggior parte di quelle armi erano state smontate con la riconversione, ma gli
armatori avevano avuto la sagace idea di lasciarle qualche arma difensiva ad
energia; niente di eccezionale, ma abbastanza per dare filo da torcere a
qualche pirata ardimentoso che avesse avuto la malaugurata idea di attaccarla.
Delle
feritoie si aprirono alle spalle della torre del ponte, e da esse sbucarono
fuori alcuni cannoni binati che puntarono verso l’Aurora e fecero fuoco
all’unisono; ci voleva ben altro per incrinare un vascello di tali dimensioni,
ma ciò nonostante in plancia lo scossone prodotto dall’urto si sentì
vistosamente.
«Che
diavolo è successo?» strillò Nolan contrariato. «È
opera di qualche detrito?»
«È il Megonia!» rispose attonito Aoyama.
«Il Megonia ci sta sparando!»
«Come ci
sta sparando!?».
Prima
che tutti potessero riaversi dalla sorpresa arrivò una seconda bordata, ma
stavolta l’urto risultò così violento che qualcuno volò giù dalla propria
poltrona, e subito dopo alcuni allarmi risuonarono tutto intorno.
«Hanno
colpito il sublimatore magico! Odin
è fuori uso!»
«Maledetti
bastardi» ringhiò Nolan a denti stretti. «Se volete
la guerra, vi accontentiamo subito. Preparare il resto delle armi! Sbricioliamo
quella nave una volta per tutte!».
Forse il Megonia riusciva ancora a galleggiare, ma certo non avrebbe
resistito a lungo.
Al suo
interno, la distruzione regnava sovrana.
Ovunque
era un susseguirsi di crolli, deformazioni della struttura, incendi, ma
soprattutto di morte; forse il virus che oltre alla mutazione provocava anche
il disfacimento dei corpi stava risentendo degli effetti del vuoto cosmico o
del potere del raggio emesso dall’Odin, ma i
corridoi, i saloni e le stanze che Amanda si ritrovò ad attraversare
pullulavano di creature morte o morenti, alcune orrendamente sfigurate e
mutilate, quasi che nel loro ultimo rantolo di agonia avessero cercato di
sopravvivere compiendo atti ai auto-cannibalismo.
Amanda
procedeva a fatica, la caviglia sinistra che a causa di una storta la faceva
gemere di dolore ad ogni passo, ulteriormente appesantita dal fardello della
piccola Hilda, che per tutto il tempo seguitò a
rimanere priva di sensi evitandosi, almeno, quell’orribile spettacolo.
Ad ogni
tremore o scossone la ragazza temeva per la loro vita, figurandosi di vedere da
un momento all’altro il Megonia spaccarsi in più
tronconi per poi esplodere, e allora procedeva più rapidamente, soffocando le
urla nella bocca con lo stivale che andava tingendosi di rosso.
L’aria,
appesantita dal fumo e prosciugata del suo ossigeno dal fuoco, si faceva sempre
più irrespirabile, tanto che ad un certo punto Amanda fu costretta a far
comparire il proprio casco e a recuperare da un armadietto d’emergenza una
maschera di soccorso per Hilda, rendendo la marcia
verso la salvezza ancor più faticosa e apparentemente infinita.
All’ingresso
nel ristorante, un’improvvisa esplosione per poco non investì entrambe in
pieno, ma superato anche quell’ultimo ostacolo Amanda riuscì finalmente a
raggiungere le scialuppe. Era così stanca che dovette percorrere gli ultimi
metri quasi gattonando sul terreno, e aperta la botola di emergenza ebbe a
malapena le forze di gettarvisi dentro assieme ad Hilda,
riuscendo a chiudere il portello giusto in tempo per evitare l’arrivo di una
violenta onda di fuoco che arroventò, senza per fortuna danneggiarla, la
superficie vetrata.
Come il
congegno di distacco fu sbloccato la capsula venne sparata via dal suo guscio,
allontanandosi a grande velocità proprio nell’istante in cui, dall’Aurora,
veniva lanciata una selva di missili antinave.
Amanda
ebbe appena il tempo di affacciarsi dall’oblò, assistendo con i suoi occhi
all’ultimo respiro del grandioso transatlantico Megonia,
il Gioiello dello Spazio, che centrato in tutti i suoi punti più sensibili
esplose in modo talmente violento da non lasciare dietro di sé null’altro che
una massa informe di detriti non più grandi di una valigia, scomparendo nel
nulla assieme al suo carico di vite, anime senza nome di cui non restava più
neppure la cenere.
Non le
riuscì di piangere; forse ciò a cui aveva assistito in quella che solo poche
ore prima era iniziata come una giornata assolutamente normale le aveva tolto
anche la forza e l’animo necessari per versare delle lacrime, o forse era il
pensiero di aver salvato almeno una vita a far nascere dentro di lei la
convinzione che, in qualche modo, non tutto era andato perduto.
Le
avrebbero ritrovate solo due giorni dopo, sulla superficie di Neos, al limitare della griglia 15, nell’ultimo lembo di
satellite al di fuori della Zona Oscura, da una delle navette inviate a proprie
spese dal Direttore Shane alla disperata ricerca di superstiti.
Coloro
che la conoscevano, e che poterono guardarla negli occhi al momento del
salvataggio, avrebbero detto in seguito che quella che uscì da quella capsula
non era più l’Amanda Gerth che era partita per
raggiungere il Megonia.
Amanda voleva che fosse
resa giustizia, ma voleva anche che quello che restava della vita di Hilda non andasse perduto.
Ma il
cielo, dopo averla salvata, sembrò invece essersi dimenticato di quella
poveretta.
Al suo
risveglio, in un ospedale militare dove entrambe furono portate, Amanda restò
di sasso quando la guardò negli occhi. Non c’era niente al loro interno, erano
sfere colorate senza alcuna luce; come se la sua anima le fosse stata
strappata, o fosse finita in pezzi sotto il peso di tutto quell’orrore, non
ultimo l’aver visto probabilmente morire sua madre subito prima di svenire.
Secondo
i dottori si trattava di una forma particolarmente grave di stress
post-traumatico, che aveva comportato uno shock emotivo tale da aver causato
uno stato catatonico simile ad una forma di coma vigile, da cui non era detto
si sarebbe un domani risvegliata.
Sentendo
quelle parole, Amanda si era ripromessa di aiutare in ogni modo Hilda a tornare la bambina solare e vivace che, pur non
avendola mai conosciuta prima di quel giorno, era certa fosse stata.
E per
farlo, non aveva avuto altra scelta che abbassare la testa.
La MAB
era potente. Troppo potente. E aveva troppo da perdere a permettere che
qualcuno raccontasse la vera storia del Megonia.
In altri
tempi non si sarebbe fatta spaventare dalle loro minacce, non dopo essere
sopravvissuta a qualcosa di così incredibilmente simile all’inferno; ma Hilda, lei era la sua debolezza.
Una
bambina orfana, a detta dei più ormai mentalmente instabile in modo permanente,
ma con un patrimonio stimato in oltre due miliardi di kylis
era una preda fin troppo ghiotta per squali ed avvoltoi pronti a fiondarsi su
di lei alla prima occasione.
La
possibilità di restare vicino ad Hilda e proteggerla
fu la tangente con la quale la MAB riuscì a comprare il suo silenzio.
Amanda
si sentì morire dentro nell’istante in cui firmò l’affidamento della bambina;
da una parte sapeva di stare facendo la cosa giusta, dall’altra sentiva di aver
appena svenduto il sacrificio di migliaia di persone.
Ma lei
non era Klaus, o Joe, o il Capitano Klopfer: lei non
aveva la forza di lottare.
Lei
voleva solo il bene di Hilda.
Per i
suoi compagni ci sarebbero stati medaglie e onori, avanzamenti postumi di grado
e solenni funerali, oltre a scuole, accademie e altri luoghi simbolici eretti
in loro memoria, ma la realtà era che nessuno avrebbe mai conosciuto realmente
il valore delle loro azioni, né il modo in cui erano morti.
Quanto a
lei, oltre alla custodia di Hilda le fu dato ciò che,
in cuor suo, come ogni altro giovane Agente aveva sempre desiderato: un
ufficio, continue promozioni, e un impiego di tutta sicurezza che le avrebbe
portato soldi e notorietà. Ma la verità, e lo sapeva bene, era che quella
divisa era in realtà la prigione nel quale la MAB l’aveva rinchiusa, e in cui
sarebbe rimasta intrappolata per il resto della sua vita; fintanto che l’avesse
indossata l’Agenzia avrebbe avuto in mano il suo corpo, il suo destino, e la
sua anima.
Sapeva
che avrebbe sofferto, ma la riteneva una giusta punizione: la punizione per
aver permesso alla verità sul Megonia di scomparire
nell’immensità dello spazio. Quelle anime, quei fantasmi rimasti senza
giustizia, l’avrebbero tormentata per sempre, come era giusto che fosse.
Passarono i mesi.
Hilda venne
trasferita nella residenza di campagna della sua famiglia ad Amaltea, ma neanche questo sembrò sufficiente ad accendere
qualche barlume di speranza.
Mangiava,
beveva, e qualche volta sembrava anche percepire qualcosa del mondo che la
circondava, ma in realtà era come un guscio vuoto.
Passava
le giornate da sola, nella sua stanza, seduta sul letto a fissare il vuoto, con
le numerose domestiche ed inservienti che cercavano come potevano di esserle
d’aiuto aiutandola a mangiare, spazzolandole i capelli, o anche solo tenendole
compagnia, ma ogni tentativo di suscitare in lei una qualche reazione, o anche
solo di farla parlare, andava a sbattere ogni volta contro il muro con il quale
la sua anima sembrava essersi isolata dal resto del mondo.
Amanda
passava a trovarla ogni volta che poteva, trasferendosi definitivamente a casa
sua quando il suo passaggio alla sede di Otisa
divenne esecutivo, ma anche per lei le cose, con il tempo, iniziarono ad andare
male.
La
rivelazione portata dal Direttore Shane aveva aperto gli occhi al mondo su
quanto realmente accaduto a bordo del Megonia, ma
aveva anche generato una situazione politica e diplomatica che rischiava di
gettare Celestis in preda al caos.
Come un
violento ceffone che risveglia troppo presto da un bel sogno, quelle immagini
così crude diffuse in ogni parte del pianeta risvegliarono in un sol colpo la
coscienza collettiva, la quale giunse quasi all’unanimità ad una considerazione
tanto evidente quanto drammatica: la MAB era troppo potente.
Era nata
come un organo di sorveglianza con il compito di tramutare uno sparuto gruppo
di coloni negli abitanti di una nuova Terra, e fare di Celestis
una sorta di realtà superiore, ma negli anni aveva finito per abusare del suo
potere, tramutandosi in una organizzazione paramilitare capace di agire a
qualsiasi livello senza doverne rendere conto.
E visto
che il Megonia era una nave di Amaltea,
fu proprio ad Amaltea che quella sorta di focolaio di
insoddisfazione assunse ben presto i connotati più drammatici, con un movimento
di opposizione all’Agenzia che diventava di giorno in giorno sempre più
incontenibile.
Ma di
tutto questo Amanda non se ne curava: tutto quello che voleva era poter aiutare
Hilda.
Avrebbe
pagato qualunque cosa per vederla sorridere di nuovo, scacciare dalla sua mente
i fantasmi del Megonia, ma per quanto ci provasse
neppure lei sembrava in grado di rompere quel muro che la teneva prigioniera.
Un tardo
pomeriggio d’estate, Hilda era sempre lì, nella sua
stanza, l’espressione immobile e gli occhi fissi innanzi a sé, come una bambola
di ceramica bellissima all’esterno ma in pezzi nell’animo.
Tra le
cameriere e gli inservienti si vociferava che Amanda fosse stata richiamata a Kyrador, e a detta di molti probabilmente era solo una
questione di tempo prima che tutte le sedi di Amaltea
venissero chiuse a tempo indeterminato sotto la spinta pressante del dissenso
popolare, con il rischio evidente che la loro signora si vedesse costretta a
scegliere tra lasciare l’Agenzia e lasciare il Paese.
D’un tratto,
due inservienti entrarono nella stanza tutte trafelate.
«Venite,
signorina» dissero spingendo una sedia a rotelle. «La signora vuole vedervi».
Hilda venne
vestita, pettinata e portata in giardino, dove trovò ad attenderla una maestosa
mongolfiera dal pallone tutto colorato già pronta a partire. In piedi nel
cestello, Amanda la guardava sorridendo, e di fronte a quella scena qualcosa
parve muoversi; Hilda, a fatica, alzò gli occhi,
quasi a voler cercare quelli della sua nuova madre adottiva.
«Bene
arrivata. Forza, sali a bordo. C’è una cosa che voglio farti vedere».
Pur con
qualche esitazione i domestici caricarono Hilda sul
pallone, che ad un cenno di Amanda venne liberato dal suo ancoraggio
sollevandosi immediatamente dal cielo.
Poco per
volta, apparve dall’alto prima la imponente Villa Krietzmann,
poi la scintillante Otisa, protesa gentilmente e con
garbo sulle sponde del Lago Biwa, poi ancora l’intera
vallata di Wermer, fino a che tutto attorno non vi fu
altro che una infinita distesa di montagne e basse colline, illuminate dalla
luce rossastra del tramonto che tingeva la roccia di blu e le nuvole di un
arancio pastello, segni scomposti e insieme bellissimi dipinti sulla sconfinata
tela azzurra sopra le loro teste.
In
lontananza, verso ovest, il sole era quasi tramontato; sembrava un enorme buco
rosso aperto nel cielo, sforzandosi di gettare i suoi ultimi bagliori sulle
alte montagne di Amaltea prima di scomparire oltre le
loro ripide cime, mentre un piacevole vento in arrivo da nord sospingeva la mongolfiera
e scompigliava i capelli.
«Devi
tornare Hilda!» disse Amanda stringendola forte, e
bagnandole i capelli con le proprie lacrime. «Torna da noi! Ti prego! È tutto
finito! Ci sono io qui con te! Apri gli occhi! Apri gli occhi, bambina mia!».
Quelle parole
scesero fin nel profondo, e nell’istante in cui l’ultimo raggio di sole le
colpiva gli occhi altre parole, molto simili, risuonarono nella mente della
bambina.
Và tutto bene, bambina mia! Chiudi gli
occhi!
Forse,
inconsciamente, era questo che aveva fatto: aveva chiuso gli occhi.
Su
tutto. In attesa di trovare qualcosa, o qualcuno, in grado di farglieli
riaprire.
Qualcosa
parve muoversi all’interno del suo sguardo, come se quell’ultimo raggio di sole
avesse trovato la forza per andare a rischiarare quella sua anima addormentata
e rinchiusa dandole nuova vita.
Poi,
avvenne il miracolo, e come una macchina rimessasi improvvisamente in moto dopo
un lungo silenzio la mente, il cuore e lo spirito Hilda
si ridestarono come da un lungo sonno così, da un istante all’altro, quasi quei
lunghi mesi non fossero mai esistiti.
Gli
occhi, quei suoi bellissimi occhi verdi, si riaccesero come stelle, il volto
riprese il suo colore, e con aria spaesata la bambina si guardò attorno
meravigliata e confusa.
«Amanda!?»
disse riconoscendo la giovane che piangeva di gioia nell’abbracciarla con tutte
le sue forze. «Che cosa è successo? Dove siamo?».
La giovane donna si posò
una mano sul seno, lasciandosi pervadere dal piacevole tepore che le riscaldava
il cuore ogni qualvolta ripensava a quella storia.
Tante
cose erano cambiate da quel giorno così lontano nel tempo, non solo per lei.
Non
poteva ricordare, ma sapeva cosa fosse successo. Così, come la sua nuova madre,
aveva deciso di dedicare la propria vita agli altri, per dimostrare di meritare
il sacrificio fatto da tanti per salvare la sua.
Usando
ogni singolo kylis della sua cospicua eredità aveva
aiutato chiunque fosse stata in grado; aveva fatto costruire scuole, ospedali,
interi villaggi, e aveva donato quel poco che le era rimasto a quella grande
confraternita del quale, come ultimo atto di sacrificio, ora si accingeva a
diventare parte.
Se
qualcosa di buono era mai venuto fuori dalla Tragedia del Megonia,
benché quasi metà del mondo pensasse il contrario, questa era stata proprio la
Chiesa della Santa Croce.
Risvegliando
le coscienze riguardo al preoccupante ordine mondiale venutosi a creare negli
ultimi centocinquant’anni, il Megonia
e ciò che ne era seguito aveva contribuito a rendere evidente agli occhi di
molti un’altra realtà innegabile: l’Umanità aveva dimenticato l’importanza del
proprio dono.
Perché
questo era la magia: un dono bellissimo e preziosissimo, di cui però gli esseri
umani avevano finito per abusare, nell’illusione tutta terrena di poterla
soggiogare e controllare così come, fin dagli albori della storia, avevano
controllato il Fuoco, il Vapore, l’Elettricità e l’Atomo.
Ma la
magia non era solo una fonte di energia: la magia era la vita.
Tutto
esisteva grazie ad essa, eppure di lei si sapeva ancora così poco.
Nasceva
dal mondo, e ad esso ritornava, in un ciclo senza fine che, secondo i precetti
del culto, rispecchiava quello dell’esistenza terrena: un continuo susseguirsi
di rinascite, nell’attesa di veder compiuto il proprio cammino di redenzione.
Perché
l’Uomo, in fin dei conti, altro non era che una delle innumerevoli creature che
esisteva grazie a quella scintilla di magia che ogni essere vivente portava
dentro di sé, ma la cui purezza veniva inevitabilmente sporcata dalle emozioni
negative proprie dell’uomo.
Solo
purificando questa energia, come una pietra preziosa ripulita dal fango, era
possibile tornare a far parte del Grande Ciclo che regolava tutte le cose,
restituendo la propria scintilla a quel mondo dal quale proveniva; così facendo
si diventava parte di quella stessa energia, e di conseguenza dell’intero
ordine cosmico.
La
bontà, la carità e la preghiera erano gli strumenti migliori per giungere a
questo faticoso traguardo, e una vita sola di sicuro non era sufficiente per
arrivare alla meta.
Per Hilda, poi, sarebbe stato ancora più difficile, poiché in
sé sentiva di portare anche l’energia e lo spirito di tutti i suoi compagni di
sventura periti sul Megonia: anche per loro avrebbe
pregato, come aveva fatto ogni giorno da che la sua anima era tornata a vivere,
sì da essere degna del dono che le avevano fatto.
Non
sarebbe stato facile, lo sapeva molto bene, ma sapeva di non essere sola, e
questa era la vera sorgente della sua forza, oltre che della sua incrollabile
fede.
Una
giovane donna, vestita come lei, ma con in più un’elegante coroncina poggiata
sul capo cui era legato un velo che discendeva elegantemente lungo la schiena
fino ai glutei, bussò due volte alla porta della stanza, aprendola leggermente.
«Sorella»
disse con un filo di voce. «È tutto pronto.»
«Arrivo»
rispose lei con un sorriso.
La grande cattedrale del
monastero era arricchita dei suoi più scintillanti paramenti di festa, e
tantissima gente si era riunita per assistere alla cerimonia.
Tutti
coloro che quell’angelo disceso in terra aveva aiutato nel corso della sua vita
erano voluti essere presenti, ed erano talmente tanti che la chiesa, per quanto
grande, non era riuscita ad accoglierli tutti.
L’organo
e gli archi presero a suonare, le porte si aprirono, e Sorella Hilda, come sarebbe stata chiamata ancora per poco dai
molti che vedevano in lei un incrollabile baluardo nei momenti difficili,
avanzò lentamente attraverso la navata, il capo chino, gli occhi chiusi e le
mani giunta alla base del ventre.
Giunta
ai piedi dell’altare, dinnanzi alla grande statua dell’angelo dalle ali
spiegate, si inginocchiò sul cuscino preparato per lei, gettando un rapido
sguardo prima alla giovane donna seduta in prima fila, con la quale si scambiò
in rapido sorriso, poi alle otto fotografie disposte l’una accanto all’altra
sopra dei piccoli treppiedi, lasciandosi sfuggire una lacrima di commozione.
Sua
santità Ruggero Luini, supremo vicario della Santa
Croce, primo pontefice della storia della Chiesa, le si avvicinò con indosso i
paramenti sacri e il bastone d’argento stretto in una mano, che con un delicato
cenno della mano poggiò leggermente sul capo della giovane.
«Nel
nome di Dio e della Santa Croce, in nome del potere conferitomi dal mio sacro
uffizio, io ti riconosco ufficialmente come membro del nostro ordine.
Da
questo momento, sei una serva del nostro Grande Padre Celeste. Dedicherai la
tua vita al bene del prossimo, e non avrai altro scopo nella vita che servire
Nostro Signore, nell’attesa che giunga per te il momento di tornare al Grande
Ciclo.
Qual è
il nome che hai scelto per la tua rinascita, sorella?».
La
giovane si pensò un momento, chinando di più il capo, poi, con un filo di voce,
disse:
«Johanna, vostra santità. Johanna
sarà il mio nome da oggi in avanti».
A quel
punto, il Santo Padre posò il bastone, e chiamato a sé un altro sacerdote prese
una boccetta di vetro dal contenitore ligneo che questi teneva, aperto, tra le
mani.
La
tradizione diceva trattarsi di magia condensata e portata allo stato liquido,
una cosa assolutamente impossibile secondo le attuali conoscenze scientifiche,
tanto che secondo i laici si trattava probabilmente solo di un qualche
intruglio frutto del ciarlatano di turno.
«Come la
pioggia cadiamo» disse Sua Santità passando il contenitore, sigillato, sulla
fronte della giovane. «Come la rugiada scompariamo. Come l’acqua scorriamo. Che
la tua anima ed il tuo spirito siano illuminati dalla luce divina, e che il
destino ti sia propizio, nell’attesa che ogni cosa torni al Grande Ciclo».
Un’altra
sorella giunse alle spalle della ragazza, ponendo sulla sua testa la coroncina
con il velo; Hilda sentì uno strano tremore
sentendone la pressione sul capo, una sensazione bellissima che le fece vibrare
il cuore.