Mr. Lecter, Hannibal Lecter

di lamialadradilibri
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 3: *** Capitolo Due ***
Capitolo 4: *** Capitolo tre. ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 6: *** Capitolo Cinque ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo.



Entrai in classe con venti minuti di ritardo. Un altro sgarro simile, e Mrs Dalton mi avrebbe certamente fatta sospendere dalla scuola; ma cosa potevo farci se l’autobus arrivava sempre in ritardo di lunedì, quand’era alla prima ora?
Non appena entrai nella stanza, la donna si bloccò dallo spiegare. Si voltò, lentamente, lanciandomi uno sguardo d’odio. La sua espressione s’inasprì attimo dopo attimo, finché non arrivò ad essere terrificante. Osservai ansiosamente il muro oltre a lei, concentrata per rimanere impassibile e non andarmene di lì urlando. Non la potevo più sopportare: era una pazza isterica!
«Signorina Greene.» Cominciò, fingendosi poco irritata. Ma la sua espressione la tradì, ovviamente.
Ottimo. Mi restavano sì e no cinque minuti di vita. Poi, mi avrebbe ucciso a mani nude.
Ed in fondo aveva anche ragione, per questo  me la prendevo così tanto.
«Mrs Dalton!» esordii, alzando entrambe le braccia  a mo’ di resa. Lo zaino mi scivolò su una spalla sola e quasi persi l’equilibrio, arrossendo. Qualcuno – un ragazzo – ridacchiò, ma non persi tempo a fulminarlo con un’occhiataccia.
«Cosa vuole dirmi, eh? Che c’è una spiegazione logica per il suo ennesimo ritardo, magari? La prego, inizi.»
Divenni rossa come un pomodoro, o anche di più. Maledetta lei e la sua lingua biforcuta!
Mossi un passo all’interno della classe, lanciando un’occhiata alla lavagna. Prima che la interrompessi, Mrs Dalton stava spiegando qualche parte del corpo umano a me, purtroppo, sconosciuta. Il cervello.
«L’autobus è perennemente in ritardo il lunedì mattina, gliel’ho detto. Lo può confermare Mark, in 3B, che prende il bus con me...»
Lei annuì. Aveva un’espressione vittoriosa. «Ovviamente l’ho già interrogato a tal proposito, signorina Greene; Mark mi ha informato sulla sua soluzione a questo problema: il lunedì viene a scuola in bici, così è sempre puntale.» Fece una breve pausa, si gustò il mio volto sconvolto. Poi ricominciò, sorridente: «Non ha notato la sua mancanza sull’autobus, signorina?»
Beh, in realtà no, non l’avevo notato. Mark era il tipico ragazzo capace di mimetizzarsi ovunque, un po’ troppo magrolino e con un volto banale, così avevo semplicemente pensato che lui ci fosse sempre stato, ma io non l’avevo mai visto. Dannazione.
«Mrs Dalton... Sono così...»
«Dispiaciuta? Imbarazzata? Cosa è lei, signorina Greene? Perché io sono delusa. Da lei, dal suo scarso rispetto nei miei confronti!»
Scrollai le spalle, a mo’ di sconfitta, ed abbassai lo sguardo sul pavimento. Aveva completamente ragione, ovviamente; il problema c’era, sì, ma io non avevo mai provato a risolverlo. Ero un’idiota.
«Cosa devo fare con lei, me lo dica.»
Non mi sospenda! La voce mi morì in gola. Mi limitai ad osservare il laminato rovinato del pavimento della classe con un’aria afflitta.
In classe c’era il silenzio più totale.
«Grazie a dio, e lo dico per lei, ho trovato una soluzione migliore della sospensione. Ed è tutto merito di Mr. Lecter, lo sa? Lui, senza saperlo, l’ha salvata. Su, lo ringrazi e si sieda vicino a lui, mentre le spiego la sua pena.»
Mr Lecter? Non l’avevo mai sentito. Doveva essere un nuovo studente del liceo, ipotizzai, lanciando uno sguardo all’intera classe. C’erano diversi ragazzi distratti, probabilmente stavano chattando con il telefono nell’astuccio o stavano disegnando; alcuni ricambiarono il mio sguardo, con più o meno divertimento. La mia migliore amica, Molly, mi osservò dispiaciuta ma anche irritata: lei mi aveva sempre detto di trovare una soluzione al mio “Problema del Lunedì”, come lo definiva sempre con un'aria afflitta e preoccupata. Sapeva che sarebbe finita così, ovviamente.
E poi lo vidi. Mr. Lecter.
Il mio cuore perse un battito.
Perché c’era un angelo nella nostra classe?

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Capitolo 2
*** Capitolo Uno ***


Capitolo Uno.
Mi avvicinai a testa china verso il mio banco. Era in fondo all’aula, vicino ad una delle ampie finestre della nostra classe; davanti ad esso c’erano tre banchi allineati, vicini: verso il muro c’era Beth, in mezzo si trovava la mia amica Molly ed infine c’era Katy. Rabbrividii, prevedendo la strigliata che mi sarebbe toccata poco più tardi, a ricreazione o al cambio d’ora: Molly si trovava proprio in mezzo alle due T-A-C della classe – Troie, Antipatiche, Cagne, un soprannome che avevamo affibbiato io e la mia migliore amica alle ragazze che... Be’, lo erano.
Quando passai accanto a quelle tre, Molly mi riservò un’occhiata tutt’altro che amichevole, poi riprese a scribacchiare sul suo libro. Prevedevo una tempesta.
La prima cosa che notai di Mr. Lecter fu il suo ordine. Accanto al mio banco sgombro c’era il suo, carico di libri ed appunti: ma ogni cosa aveva un suo posto, un suo perché. Era il contrario del modo con il quale io usavo tenere le mie cose, che si trovavano in uno stato di perenne disordine tanto odiato da mia madre.
Mi sedetti vicino a lui, facendo scivolare rumorosamente il mio zaino a terra.
Avrei dovuto scoppiare di gioia: per un pelo avevo evitato l’espulsione. Invece, non riuscivo a non pensare che Mr. Lecter fosse strano. Quel pensiero mi aveva accompagnata quasi dal primo istante che l’avevo visto – ovviamente all’inizio ero stata folgorata dalla sua incantevole perfezione e bellezza – ed era come una serpe strisciante lungo la mia spina dorsale, che mi faceva rabbrividire. Non ne sapevo il motivo, ovviamente, era stata un’impressione che avevo provato così, a tatto. E mi angosciava.
Mrs. Dalton si schiarì la gola, sorridendo. Non me l’avrebbe fatta pagare liscia. «Ringrazi Mr. Lecter, signorina!» mi intimò, sfogliando il suo libro.
Io non potei non irrigidirmi, irritata. Mi voltai verso questo benedetto Mr. Lecter con un’aria di sfida che non mi apparteneva, e che persi nell’istante in cui incrociai il suo sguardo. Azzurro. Aveva degli occhi profondi, limpidi e così azzurri. Così belli. I tipici occhi che ti permettono di vedere l’anima pura di una persona... Soltanto che negli occhi di Mr. Lecter non riuscii a vedere niente. Sembrava privo d’espressione. Nei suoi occhi potevo notare soltanto una spaventosa calma, un distacco profondo.
Abbassai subito la cresta, deglutendo rumorosamente. Avevo addosso gli sguardi di tutti e stavo facendo la figura dell’idiota. «Grazie mille, Mr. Lecter!» sbottai, calcando sul suo nome. “Mr. Lecter”. La Dalton l’aveva ripetuto così tante volte che già non ne potevo più.
«Bene!» strillò Mrs. Dalton dalla cattedra. Il ragazzo smise di fissarmi, tornando ai suoi appunti. Mi sentii liberata da un peso, più leggera. La sensazione d’inquietudine che avevo provato prima si intensificò. Perché ero così agitata vicino a quel ragazzo? D’accordo, era molto bello e sì, metteva soggezione. Ma a comportarmi così esageravo!
«La punizione è semplice. E non è nemmeno una punizione, in realtà – non so perché non ti sospenda e basta... Va beh, andiamo avanti. Aiuterai Mr. Lecter a ambientarsi  a scuola – lo porterai in giro per le classi, gli farai conoscere persone nuove... E così via. Ah! Ovviamente, se avrà bisogno d’aiuto con i compiti o non capirà qualcosa, tu gli farai ripetizioni. Gratis.» Precisò dopo un secondo.
In normali situazioni mi sarei alzata, indignata. Avrei urlato che aveva superato il limite, probabilmente sarei tornata a casa senza nemmeno la giustificazione.
Ma quella non era una normale situazione. Rischiavo d’essere sospesa. Per di più, l’idea di conoscere più a fondo Mr. Lecter mi affascinava. Magari avrei scoperto come mai mi angosciava così tanto.
Gli lanciai un’occhiata di sottecchi. Aveva un profilo perfetto: mascella squadrata ma non troppo, naso piccolo e dritto, due occhi grandi e celesti, sopracciglia molto arcuate. Era perfetto.
«Va bene, Mrs. Dalton. Lo aiuterò.» Dissi, ponendo fine a quell’imbarazzante situazione.
Stavo già tirando fuori il libro di scienze, preparandomi ad una noiosa mezz’ora di spiegazioni sul corpo umano, quando accadde l’impensabile.
Mr. Lecter parlò.
Non l’aveva fatto neppure quando l’avevo ringraziato, non aveva detto una parola da quando l’avevo conosciuto.
E la sua voce mi stupì, tant’era avvolgente e calda. Da un tipo così mi sarei aspettata d’udire una voce gelida, magari anche un po’ acuta ed irritante. Ed invece no, era una voce perfetta. Proprio come lui.
«Capisco che, per voi, ormai i giochi siano fatti». Esordì, sfiorandosi il mento con una delle sue grandi mani affusolate. Non guardava me, guardava solo l’insegnante. Mrs. Dalton, sotto il suo sguardo penetrante, arrossì. Arrossì. Certo, potevo capirla, ma non era un evento da tutti i giorni. Quella megera era in imbarazzo.
Molly si voltò di scatto, lanciandomi un’occhiata stupefatta. Le feci un cenno: anch’io ero scioccata, ma non quanto lei: mi preoccupavano troppo le parole del ragazzo accanto a me. Cos’avrebbe detto? Era così imprevedibile.
Molly tornò a guardare davanti a sé, con gli occhi ancora sbarrati.
«Ma se io non accettasi, Mrs. Dalton?».
Lei esitò. L’aveva messa con le spalle al muro.
«Oh, beh... A quel punto, io...» Sospenderò la signorina Greene, Mr. Lecter.
Non aveva detto ciò, ovviamente. Ma la mia mente riuscì a modificare la realtà, sentii cose che non erano state dette e, presa dallo shock, afferrai la mano di Mr. Lecter, quella posata sul banco. Nel farlo osservai uno strano particolare. I suoi appunti. O meglio, l’argomento dei suoi appunti.
L’avremmo  dovuto affrontare solo anni dopo, all’ultimo anno di liceo.
La cosa, sul momento, non mi stupì molto. Ero più stupefatta dalla mia mano che era proprio sopra quella di Mr. Lecter.
Mi allontanai di scatto. «Oh! Non puoi non accettare, Mr. Lecter...» balbettai, incespicando tra le parole. Chiamare quel ragazzo che doveva avere, approssimativamente, la mia età, con quell’appellativo mi fece sembrare ancor più stupida. «Nel senso, io...»
Lui inarcò un sopracciglio. Aveva uno sguardo gelido, sembrava non provare alcuna emozione. Con calcolata lentezza, allontanò la mano da me. «Cosa dovrebbe importarmi di te?»
E lo sussurrò.
Ma a me sembrò che l’avesse urlato ai quattro venti, con un megafono.
Fu come una pugnalata al cuore.
Serrai i denti, scioccata. «Oh, ora niente! Ma t’importerà quando tornerò dopo la sospensione e ti renderò la vita un incubo!» Quasi urlai, orgogliosa. Inutile dirlo, un minuto dopo mi sentivo già un’imbecille.
Le mie parole sembrarono far scattare qualcosa dentro di lui. Le sue labbra s’incresparono in un sorriso e, per un momento, tornò ad essere l’angelo che mi era sembrato quando l’avevo visto per la prima volta. Bellissimo.
Si passò una mano tra i capelli castani, osservandomi divertito. «Allora penso che accetterò. Sei troppo divertente
Ignorai il suo ultimo tentativo – andato a segno – di umiliarmi, e tornai ad osservare Mrs. Dalton. Quella mi lanciò un’occhiata rabbiosa: «Signorina Greene! È pazza, per caso!? Ha appena minacciato...»
«Mrs. Dalton. È tutto a posto.» la liquidò velocemente Mr. Lecter, con un mezzo sorriso.
Ecco, pensai, osservando ogni suo movimento. Ora si trasformerà in un ragazzo normale. Mi chiederà il numero e diventeremo amici. Ed io non sentirò più quest’ansia...
Ma non andò così. Quel bellissimo angelo tornò ad osservare i suoi appunti – i suoi strani appunti – e non mi degnò di un’occhiata.
Angosciata, recuperai il mio libro di scienze e seguii, per la prima volta in quegli anni, la lezione di Mrs. Dalton.
 

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Capitolo 3
*** Capitolo Due ***


Capitolo Due.

È un capitolo piuttosto lungo ❤ Vi consiglio di cacciare ogni eventuale fonte di distrazione, per poi immergervi nella lettura ✌. E con ciò… buona lettura! ;)
 

Il cane mi osservò, i piccoli occhi scuri sembravano proiettare ombre sinistre tutt'attorno al suo corpo muscoloso, un fascio di nervi. Istintivamente arretrai, piegando un po' le ginocchia. «Buono», sussurrai, con il cuore in gola. Ma in quell'animale — un pitbull dall'aria nervosa e violenta, molto violenta — di “buono” non c'era alcunché. Potevo già sentire i suoi grandi denti sulla mia pelle e, poco più tardi, nella mia carne. Il sangue sarebbe uscito a fiotti scuri, che si sarebbero confusi con l'oscurità della notte stellata che ci avvolgeva.
Il pitbull ringhiò, piano. Fu un rumore basso, lieve ma al tempo stesso violento, minaccioso. «No. Non così. Sta' buono», sussurrai, portandomi un altro passo distante da quella creatura irascibile.
In realtà, non sapevo che cos'avessi fatto per rendere quell'animale così rabbioso. Se è vero che il cane è il miglior amico dell'uomo, allora perché questa bestia voleva uccidermi?
Un altro passo indietro. Evidentemente, il pitbull pensò che era un passo indietro si troppo e, con un ringhio più forte del precedente,  si avventò su di me.

Il rumore insistente della sveglia mi salvò da quell'incubo alle sei di mattina. Con un pugno feci bloccare quel trillare fastidioso e, sospirando, mi misi a sedere sul morbido materasso del mio letto. Odiavo dormire. Odiavo sognare — se così poteva essere definito tutto quell'agitarsi nel letto mandando disperate urla d'orrore e scalciando via le lenzuola, in preda agli incubi. Ormai nemmeno mia madre veniva più a controllare come stessi quando urlavo, si era abituata. Aveva perfino comprato dei tappi per le orecchie e la cosa mi rendeva immensamente felice. Non volevo renderla partecipe della mia vita notturna.
Mi alzai in piedi. Ero un po' barcollante, in realtà, ma dopo qualche minuto mi stabilizzai. E ricordai anche cos'era successo il giorno prima.
Mr. Lecter.

Non appena suonò la campanella che segnalava l'intervallo delle undici, mi voltai verso il nuovo arrivato in classe. Durante l'ora di scienze e quelle d'arte avevo chiarito a me stessa cosa fare: e cioè, parlare con quello strano ragazzo. Anche un semplice “come va?” sarebbe potuto bastare ad “aiutarlo ad ambientarsi”, come voleva mrs. Dalton.
Non appena mi voltai verso di lui, tuttavia, Mr. Lecter mi precedette.
Con voce piatta — ma pur sempre elegante ed avvolgente, nonostante tutto — disse: «Hai rovinato i miei piani, signorina Greene.»
Boccheggiai per qualche secondo alla ricerca d'una spiegazione logica per ciò che mi aveva appena detto. Avevo rovinato i suoi piani?  Quali piani? Lui sembrò leggere nel mio sguardo lo sconcerto che stavo provando, e spiegò: «Non volevo dividere il mio banco con nessuno.» disse. Io intanto mi sforzavo di non guardare troppo a lungo i suoi occhi incredibilmente intensi, probabilmente facendo la figura dell'idiota. Non potei fare altrimenti. «Non volevo neppure ambientarmi, in verità. Sto bene da solo» chiarì, come se non fosse già abbastanza evidente. 
«Oh, beh... Mi dispiace».
“Mi dispiace.”
Mi dispiaceva? No, certo che no! Avevo appena evitato l'espulsione grazie a questo tizio inquietante che passava il suo tempo a leggere appunti a me indecifrabili e, sinceramente, non mi dispiaceva. Nemmeno un po'! Al massimo, ero preoccupata. Ma no, non dispiaciuta. 
Lui alzò un sopracciglio, accigliato. «In realtà no, vero? Non sta bene mentire, signorina Greene.»
E in quel momento la sua voce, il suo sorriso… mi sembrò di essere in uno dei miei incubi. Il mio cuore perse un colpo e mi guardai attorno, accertandomi di essere ancora in classe e non in qualche stanza delle torture. Perché Mr. Lecter sarebbe stato benissimo in una sala delle torture, magari con in mano una testa. Sbattei gli occhi più volte, confusa. Ma no, stavo impazzendo. Mr. Lecter era solo un ragazzo bellissimo, ma asociale. Sì,  era così.
«Non stavo mentendo.» replicai, cocciuta. E mentendo l'ennesima volta.
Il suo sorriso, se possibile, si allargò ancor più. «Ah, no? Qualcosa mi dice di sì. Ti conviene smetterla».
Ti conviene smetterla. Mi morsi la lingua per non chiedere aiuto a nessuno. Mr. Lecter tornò a sembrarmi un killer. 
«Allora», borbottai, cambiando argomento drasticamente. «vuoi fare un giro della scuola? Vorrai conoscerla, immagino. Ah, non so ancora il tuo nome, Mr Lecter».
«Per la verità, neanche io conosco il tuo.» Ci stringemmo la mano, un gesto che mi parve abbastanza fuori luogo. In realtà, lui allungò la sua grande mano e, accorgendosi che non l'avrei mai stretta di mia spontanea volontà — fossi matta! Mi terrorizzava a morte — afferrò la mia, stringendola. «Hannibal Lecter.» si presentò.
La sua mano era gelida. Spaventosamente, gelida.
«Tea Greene.»
Con un sorriso circostanziale, ma non meno angosciante — e, ahimè, fin troppo bello — si allontanò da me. «Tea, eh? Gran bel nome.»
«Grazie». Avrei voluto aggiungere “anche il tuo lo è”, ma si sarebbe accorto che stavo mentendo. Riuscivo solo a pensare a quanto fosse strano, con quel suo sguardo assente ma,  allo stesso tempo, intenso. Sembrava poterti leggere dentro, con quelle sue iridi azzurre. Sembrava sapere chi eri, ciò che avevi fatto. I tuoi errori, sogni, paure, desideri. Tutto. 
E non volevo sapesse ciò che avevo fatto. Nessuno doveva, né poteva, saperlo.
Di fronte al mio volto turbato, Mr. Lecter — Hannibal, ora potevo chiamarlo così —, si esibì in un'espressione di educata preoccupazione. «Tutto bene… Tea?».
Tea. Non mi ero accorta che il mio nome potesse essere pronunciato in maniera così soave, così limpida. Ero più abituata alla rude voce del giudice di New York, che mi chiamava sempre “Greene Tea”. Scacciai quei ricordi crudeli.
«Sì, grazie.» anche se non ti importa davvero. «Allora, iniziamo il tour, che dici?». Domandai, più per dovere che per voglia.
«Oh, no. Grazie. Penso che farò da solo, non c'è bisogno che ti disturbi».
Oh. No, no, no. «Hannibal! Non mi disturbi, affatto» dissi, non sapendo se stessi mentendo o meno. «Davvero.» aggiunsi. Una supplica.
Lui sorrise. «Non ti farò sospendere, tranquilla. Ora va' dalla tua amica, sembra piuttosto irritata. Grazie lo stesso, Tea. A più tardi.»
Detto ciò, dopo avermi liquidata così velocemente, si avviò verso l'uscita della classe. Evitò qualche ragazzo o ragazza più estroversa con un sorriso gentile ed uscì.

«Tea! Vieni giù, è tardissimo!» urlò mia madre dal piano inferiore, interrompendo i miei ricordi. Lanciai un'occhiata preoccupata all'orologio, per vedere quanto “tardissimo” fosse. Erano le sei e dieci.
Più tranquilla, mi concessi di lavarmi e poi vestirmi con calma infinita, arrivando perfino a truccarmi leggermente.
Davanti allo specchio, però, mi immobilizzai. Allo specchio una ragazza più grande ricambiò il mio sguardo con un'espressione accigliata. Osservai l'eyeliner nero e il lucidalabbra. Io li odiavo, li avevo comprato solo per zittire Molly che voleva che avessi almeno qualche trucco.
Allora perché diavolo mi ero truccata? Perché?
Senza pensarci due volte, mi lavai il viso. Sembravo di nuovo io. La vera me. Ecco, così era meglio.

Arrivai in classe con un bel po' d'anticipo. Accadeva così ogni giorno, grazie a mia madre che mi costringeva a muovermi; ovviamente lei, di lunedì mattina, aveva il turno in ospedale e così non poteva aiutarmi.
Solitamente la classe era deserta. Io mi sedevo al mio banco a leggere, o a guardare il giardino che, pian piano, si popolava di studenti stressati e pieni d'occhiaie. Signore e signori, ecco a voi gli effetti collaterali del Liceo Classico.
Quel giorno però il mio banco non era vicino all'entrata. Era in fondo all'aula. 
E la classe non era vuota.
«Buongiorno, Tea. Tutto bene?»
Odiai la cordialità e l'educazione di Hannibal. Era sempre così pacato, così posato. Da quel poco che lo conoscevo, mi sembrava la persona più educata al mondo.
«Sì, tutto alla grande». La mia frase sembrò infantile in confronto alla sua.
«Non hai una bella cera, mi stai mentendo.» affermò, per poi ricredersi. «Oh! Il mio non intendeva essere un insulto, davvero».
Ancora quella storia delle bugie. Mi lasciai cadere sulla sedia accanto alla sua, distrutta. No, decisamente non avevo una bella cera e no, non stavo “alla grande”.
«Beh, di solito le persone accettano questo tipo di bugia senza la minima preoccupazione.» borbottai, cercando nella cartella il libro di epica — adoravo l'epica, tant'è vero che avevo il voto più alto della classe, otto. No, il professor Battisti non era dei più generosi in fatto di valutazioni. Quando lo trovai, senza guardare Hannibal, gli chiesi: «E tu, come stai?»
Ridacchiò. Per un lungo attimo quello fu l'unico suono nella classe. «Ho avuto una serata un po'… movimentata.» mi rivelò con la voce di chi la sa lunga.
Non approfondii. Non mi interessava.
Pochi minuti dopo, l'aula si riempì. Osservai l'orario di quel giorno nel diario, rabbrividendo: seconda ora, Mrs. Dalton. 

“Movimentata”. Avevo definito così la mia notte, a Tea. Chissà che cosa avrebbe pensato, ora. Beh, francamente la scelta era sua: io non le avevo dato indizi per scoprire la verità. Ed in ogni caso, non ci sarebbe arrivata. Mai.
Per un attimo il volto di Paul mi ritornò in mente, vivido più che mai. Lo avevo fatto soffrire un bel po'. Scacciai i ricordi con un sadico sorriso, aprendo il libro d' epica. L' epica era l'unica materia che mi interessava realmente, per di più il professor Battisti era un uomo intelligente, furbo, coinvolgente. Aveva perfino la scintilla, il genio; era un bravissimo professore, l'unico del quale avrei seguito le lezioni.
L'uomo entrò in classe. Passo spedito, spalle dritte, fronte alta. «Buongiorno» esordì, sedendosi alla cattedra. 
Guardò dritto nella mia direzione, con un piccolo sorriso. «Eccola lì, Mr. Lecter. Proprio in fondo, e... Oh! Si trova in compagnia di Miss Greene, vedo; una brava ragazza, mentre brillante. Sì» continuò, quasi tra sé e sé. Aprì il libro d'epica, iniziando la lezione. Era, oltretutto, un uomo piuttosto interessante, se non strano. 
Lanciai un'occhiata riservata a Tea. Miss Greene. Brava ragazza, sicuramente. Ne aveva tutta l'aria. Mente brillante? Probabile, e ben nascosta sotto un inutile strato di banalità, per essere più simile alla massa.
Era concentrata sulla lezione, con uno sguardo ammirato verso il professore. Prendeva molti appunti. Era animata dall'interesse, puro e sincero. 
Ma stava male. Magari gli altri non lo notavano, non avevano esperienza. Ma io, sì. Avevo decenni d'esperienza alle spalle, non poteva essere altrimenti.
Riuscivo a leggere chiaramente l'espressione distrutta che le animava — per così dire — il volto. Continuava a passarmi le mani tra i capelli, con fare indeciso — il che poteva essere colpa mia. Sapevo di essere un po' fuori dal comune; le persone a me più fidate — coloro che non venivano torturate — mi definivano un ragazzo “d'altri tempi” e non sapevano quanto avevano ragione...
Ripresi a seguire la lezione, con un'idea precisa, un piano, in testa. Detestavo la gente che si comportava come Tea, mentendo spesso e nascondendosi dietro una facciata di allegria. No, non potevo sopportarle.
Il professor Battisti mi lanciò un'occhiata carica d' aspettative, alla quali risposi con uno sguardo interessato. “Sì, la sua lezione non è male” lo rassicurai con lo sguardo e lui tornò a spiegare, più convinto e coinvolgente di prima. Mi lasciai trascinare.


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Post Scriptum: sarò Via dal 16 al 27 luglio … quindi ci vedremo tra un po' , A presto:3

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Capitolo 4
*** Capitolo tre. ***


Capitolo Tre
 
 Il quaderno
 
La lezione di scienze, quel giorno, sembrava non dover iniziare più. La campanella era già suonata da dieci minuti abbondanti, ma di Mrs. Dalton non c’era traccia – non che mi dispiacesse poi così tanto, ma quella donna non era tipa da far ritardo. Me ne chiesi il perché mentre, distrattamente, passavo un dito sugli appunti di epica. Una materia così interessante, così piena di sfaccettature, l’unica in grado d’affascinarmi e d’appassionarmi toccandomi l’anima. Spesso Molly mi prendeva in giro, dicendo che ero una «malata di miti» e che mi piaceva l’Iliade soltanto perché avevo visto Troy. E cioè Brad Pitt, senza maglietta e con quei lunghi capelli biondi che... Oh, certamente non lo avevo disprezzato.
«Mrs. Dalton è stranamente tardi, oggi.» commentò il mio vicino di banco, sfogliando il libro di scienze.
Mi ritrovai ad annuire, osservando il suo profilo elegante. Mi mancò il respiro, un’altra volta. «Sì. Non è da lei, starà male» supposi, con aria pensierosa e quasi preoccupata. In realtà non m’interessava granché della salute della mia professoressa – anzi, il mio interesse era pari a zero –, ero soltanto inquieta per ciò che stava succedendo a me. Non era da me comportarmi così con un ragazzo, non era da me essere così ansiosa.
Cominciai anch’io a leggere qualche paragrafo di scienze. Mi muovevo a scatti, come una persona sotto stress da troppo tempo, o che non dorme più da giorni. Ma io dormivo regolarmente, fatta eccezione per i miei soliti incubi.
Incubi. Cercavo di nasconderlo anche con i miei parenti, ma non ne potevo più. Dal giorno dell’incidente... Da quel maledetto giorno, non riuscivo più a sognare. Soltanto incubi, soltanto urla. Ne avevo parlato con i miei genitori, nessun altro. Nemmeno con Molly, non volevo turbarla così tanto.
Ma non potevo più resistere. C’è chi dice che una persona non può vivere senza sogni.
In quanto tempo sarei morta? Mesi, settimane? Anni, giorni?
Una cosa era certa: il mio cuore era morto il giorno dell’incidente. Ciò che restava di me non poteva più essere definito a parole.
«Sì, può darsi» confermò la mia teoria Hannibal, chiudendo il libro. Si chinò verso di me di poco, ma quel poco bastò a mandarmi su di giri; mi si chiuse la gola e spalancai gli occhi. Ne volevo di più, non ne volevo più niente. Il ragazzo sembrò accorgersene e restò lì, in bilico tra la sanità mentale e la pazzia. Il problema era che non capivo da che parte fosse una e dove stesse l’altra: con o senza Hannibal?
«Tea, dormi regolarmente?» mi domandò qualche secondo dopo, con voce calma.
M’immobilizzai. «Cosa?» La mia voce uscì strozzata, terrorizzata. Afferrai con forza la prima cosa che trovai davanti a me – una matita innocente – rischiando di spezzarla a metà.
Il mio cuore cominciò a pompare sangue sempre più velocemente.
Possibile che sapesse ciò che mi era accaduto?... Ma no, doveva aver tirato ad indovinare. Magari avevo delle enormi occhiaie delle quali non mi ero accorta.
«Calmati, Tea. È una domanda più che comprensibile» Continuò Hannibal. Sembrava leggermi nella mente. «Sembri molto stressata, ti muovi a scatti. Hai un’aria così distrutta
Finalmente mi  voltai a guardarlo. Ora era più vicino, potevo sentirne il profumo fresco. Mi guardava con un’espressione interessata, ma sempre irraggiungibile e diffidente. Abbozzò un sorriso quasi imbarazzato ed io non riuscii a non arrossire di fronte a tale bellezza.
Deglutii, sentendomi un’idiota. Ovvio. Non sapeva nulla. «Ehm, scusa. È che sì... Sono stanca, non dormo così tanto. Ma sto bene.»
Il suo sorriso si ampliò, inquietante. «Menti così spesso, tu».
Sorrisi, a disagio. Sì, mentivo spesso; lo facevo per proteggermi, perché a dire la verità alle persone, poi ci resti secco.
Lui intuì il mio stato d’animo. O forse fu solo fortunato.
«Mi dispiace che tu sia così stressata, Tea» mormorò, con voce suadente. Sembrava stesse cercando d’ammaliarmi... e ci riuscì: dopo qualche secondo non riuscii più a distogliere il suo sguardo dal mio, ed Hannibal riuscì a stringermi una mano tra le sue. «Tutto passa e tutto passerà anche per te. E ciò che è successo... Beh, il passato è passato, dimenticalo.»
Sì... il passato era passato, ed io ero così tranquilla vicino a lui...
Così...
«Ciò che è successo che cosa, Hannibal? Cosa sai tu?» sibilai, allontanandomi di scatto. Oh, mio dio! Sapeva la verità! Sapeva tutto e io ne ero così certa che-
«Tea, l’ho detto per consolarti» Rispose Hannibal, indecifrabile. Si allontanò ancor più da me, ponendo fine ad ogni contatto fisico. Finalmente riuscii a respirare. «Sta’ calma» M’invitò. Ma usò una voce gelida, prepotente.
Mi alzai spaesata. La mia sedia raschiò sul pavimento. «Io... Sono un po’ confusa. Scusa!» sbottai, allontanandomi a grandi passi senza mai dargli le spalle. L’intera classe mi guardava, ora. Il volto di Molly era scioccato, d'altronde lei non sapeva nulla, non poteva capire.
Proprio quando arrivai alla porta, diretta al bagno, entrò Mrs. Dalton. Mi osservò con aria altezzosa, spostandosi i capelli bagnati di pioggia dalla fronte – s’era messo a piovere e io non me ne ero neppure accorta.
«Beh? Vuole già andar via, signorina Greene?» mi apostrofò, andando alla cattedra.
Arrossii vergognosamente. «Sì! Cioè, no... Insomma, volevo andare al bagno, tutto qui!»
Mrs. Dalton ripose lentamente l’ombrello fradicio sotto la cattedra. «Hai avuto ben sedici minuti per andarci, signorina. Va’ al tuo posto e restaci!» mi zittì, furibonda.
Incassai la testa tra le spalle, un po’ sorpresa. In realtà mi aspettavo che mi negasse d’uscire, ma perché aveva usato un tono così stronzo?
Cercando di non pensare a niente tornai al mio banco. Hannibal era lì.
Mi osservò per un momento senz’alcuna espressione. Poi tornò a prendere appunti – e la lezione non era neppure iniziata.
 
La lezione passò velocemente, o così sembrò a me. Molly, tra le T-A-C della classe, continuava a lanciarmi occhiate eloquenti – voleva sapere perché avevo litigato con Hannibal – e alla fine m’inviò persino un SMS.

 
Che cosa è successo?! Rispondimi!
 
Non le risposi. Non per farle un dispetto, ma sinceramente non volevo essere beccata dalla Dalton che era già furiosa, per poi essere espulsa seduta stante. Molly si limitò a lanciarmi un’ultima occhiata di rimprovero – lei e la sua curiosità! – poi tornò a prendere appunti.
«Ragazzi, tra una settimana esatta ci sarà un test su questo argomento» ci avvisò, prima di uscire, Mrs. Dalton. La classe sospirò, sconsolata.  I test di scienze erano impossibili, il voto più alto era stato un 7 ottenuto per grazia divina da Molly, in prima. Ed il più basso... Beh, 2. Il mio 2. «Signorina Greene, lei aiuterà Mr. Lecter a studiare, visto che è in classe da poco. Obiezioni?»
“Obiezioni? Sì, molte! Io e Mr. Lecter da soli? Per interi pomeriggi? Assolutamente no! Mi terrorizza! E poi non ha bisogno d’aiuto, ma dico, ha visto i suoi appunti? È geroglifico per me!”
Mi trattenni dal dirle ciò che in realtà pensavo. Quella era più una domanda da: Obiezioni? Nossignore, è tutto perfetto signore!
E così scossi il capo, sconsolata.
Hannibal, accanto a me, ringraziò la prof per la sua prontezza e lei uscì sorridente dall’aula.
«Allora, che ne dici di questo pomeriggio, Tea? Prima iniziamo a studiare, meglio è» propose Hannibal, senza sorridere.
Alzai le spalle guardando dritto davanti a me. «Alle quattro, da me
Assolutamente non volevo entrare di già in casa sua, nella tana del lupo. Assolutamente no e poi no!
«È perfetto. Così potremo chiarire ciò che è successo... prima» aggiunse a  bassa voce, ricordandomi la mia stupidità. Lui non sapeva nulla, non poteva sapere nulla e non avrebbe mai conosciuto la verità. Io ero un'idiota stressata isterica, lui un bellissimo ragazzo misterioso; eravamo vicini di banco, niente di più. E non sarebbe mai diventato niente di più - pensai tra me e me. Non c'era ragione d'essere preoccupati, non sarebbe successo nulla tra noi.
Volevo solo fuggire. Ma mi costrinsi a restare là, immobile.
Mi voltai e gli sorrisi. Fu uno dei sorrisi più forzati della mia vita.
 
Stavo per andare da Tea a studiare. Come se ne avessi bisogno. Avevo studiato l’anatomia umana per molti, troppi anni. Era così perfetta ma così fragile... Fattore che si rivelava più che utile durante le mie torture.
Lanciai un’occhiata al libro nero dove segnavo i nomi delle persone sospette. Le persone che avrebbero dovuto pagarla per ciò che avevano fatto. Lo aprii. L’ultimo nome era quello di Paul Stein, un tedesco che fino a pochi giorni prima aveva spacciato droga ed organi per mezzo mondo. Ora se ne stava nel cimitero dietro casa mia, seppellito con cura accanto a tutti gli altri. Ce n’erano a centinaia ma, a prima vista, il mio poteva sembrare un normalissimo giardino. Non c’erano bare, non c’erano riconoscimenti per i morti. Soltanto io sapevo dove si trovavano e perché. Sopra Paul Stein la terra era ancora smossa, i fiori presto ci sarebbero cresciuti in gran quantità.
Afferrai una penna, indeciso. Tea Greene. Chissà se avrei scritto il suo nome. Mi aveva dato prova d’aver fatto qualcosa d’orribile, in passato. In quel momento, però, le mie erano solo supposizioni – non potevo condannarla.
Riposi il quaderno al suo posto con un sospiro. Chissà, chissà come sarebbe andata a finire.
Uscii di casa canticchiando una marcia funebre d’altri tempi.

NdA Sono tornata c: come state? Che ve ne pare del capitolo? Recensite in molti <3 lamialadradilibri

PS. il mio TUMBLR è Sonosoltantoio - dateci un'occhiata! <3<3

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Capitolo 5
*** Capitolo Quattro ***


Capitolo Quattro.
L’incidente.

«Ammetti tu, Tea Greene, d’aver ucciso – e poi sventrato – William Black, il 31 ottobre dell’anno passato? Giura di dire la verità, soltanto la verità, nient’altro che la verità.»
Guardai il giudice. Aveva un’aria apatica e così sicura di sé che l’avrei volentieri preso a sberle – o magari a pugnalate.
Poi lanciai un’occhiata al mio avvocato, Mike. Era un ragazzo piuttosto giovane, che si era rivelato anche un buon amico, dopotutto. Ricambiò il mio sguardo con un’espressione decisa, ma non poté dirmi nulla.
Tornai al giudice. Guardandolo, le parole mi scapparono quasi di bocca, come un fiume in piena.
«Sì. Ammetto».
Nella sala si udì un forte tramestio, urla, insulti. Il giudice batté più volte il martello e richiamò l’ordine. «Chiedo un attimo di riflessione. Il processo riprenderà tra qualche minuto». Ormai lo conoscevo abbastanza per sapere che “qualche minuto” per lui significava mezz’ora o più.
Mike mi raggiunse di corsa, anticipando i miei familiari - chissà cosa stavano pensando di me, ora? Loro figlia, un'assassina... Non è certo cosa che capita ogni giorno.
 «Cos’è, sei pazza?! Ma ti rendi conto di ciò che hai fatto...»
Con un gesto della mano fermai le sue lamentele ringhiate a mezza voce. «Mike... Non è che sono pazza. Sono solo stanca di nascondere la verità. Te l’ho detto, lo ho ucciso e...»
Lui mi prese per le spalle, forte. «No! Non lo hai ucciso! È una tua convinzione, Tea! Eri mezza ubriaca quella sera! Sei convinta di averlo ucciso a causa di tutti questi processi e di quello psicologo...» pronunciò l'ultima parola con astio. Mike era convinto che lo psicologo dal quale ero stata mandata dai miei - contro la sua volontà - avesse contribuito a darmi credere d'essere io l'assassina. Non sapeva che in realtà quando andavo alle sedute di Mr. Parker non facevo altro che parlargli dei miei sogni, delle mie aspirazioni, chiedendogli se sarei mai riuscita a realizzarle. E lui, un uomo dall'aria burbera ma in realtà con un cuore d'oro, sorrideva dicendomi "Non lo so, cara, non sono un indivino".
Scossi il capo. «Mike. Non ti ho mai mentito, lo sai? Nemmeno quando ti dicevo d’avere ancora addosso l’odore del suo sangue» lo rimbeccai, gelida.
Lui strabuzzò gli occhi, gemendo spazientito. La sua stretta sulle spalle si fece più forte. «No! Sei pazza, ti hanno convinta! Dio mio, come puoi averlo ucciso tu, una bambina? Neppure ricordi dove sono le sue viscere! È una prova ovvia del fatto che sei innocente!» Sbottò.
«Mike, non odiarmi.» Bisbigliai, guardandolo negli occhi. Neri. Sembravano catturare tutta la luce vicino a loro. Bellissimi. Come quelli d’un dio. Ma Mike non era un dio buono, era il dio della menzogna e della falsità che voleva aiutarmi a nascondere i miei peccati. Io però non ce la facevo più, questa storia andava avanti – in segreto, per di più – da troppo tempo.
«Non ricordo molte cose di quella sera. Quello è solo un dettaglio. Sono l’assassina, Mike».
Mi lasciò andare e se ne andò, scuotendo il capo. Quella fu l’ultima volta che lo vidi, ma non soffrii molto - sì, era diventato un buon confidente, ma era una persona meschina, che voleva coprire la verità. Un giorno mi aveva detto, sorridendo "Il mestiere dell'avvocato è quello di costruire una verità falsa, e convincere tutti che sia quella vera. E sai quant'è difficile? Però poi ti abitui".
La verità è che la gente si abitua a tutto. Ma non era il mio caso, no. Non mi ero mai abituata ai lunghi processi, allo sguardo d'accusa del giudice - già convinto che fossi pazza. No, mai.

Cinque mesi prima.
«Mamma, io esco! C’è una festa a casa di Molly!».
«Va bene, Tea. Però torna entro le due!» Rispose mia madre, dalla cucina.
Sorrisi, guardandomi allo specchio. Ero vestita da vampiro – sì, non un travestimento originale, però realizzato in modo eccellente. Ero bellissima.
«Sì, mamma» le promisi, uscendo di casa. In realtà non sapevo per che ora sarei tornata, ma non avrei certo perso la migliore festa di Halloween di sempre per uno stupido coprifuoco.
La festa passò in fretta, mi divertii moltissimo. Qualcuno mi passò dei drink alcolici , ad un certo punto – vedendo che Molly ne beveva tranquillamente in gran quantità, la imitai. Dopo un poco ero già mezza ubriaca e felice più che mai.
«Molly, sono le quattro! Io vado via, mia mamma sarà furiosa» urlai alla mia amica quando vidi per caso l’ora sul display di un cellulare.
Lei buttò giù un drink rosso sangue. Era vestita da pipistrello, ed era tremendamente sexy – così bella come io non sarei mai stata. Mi lanciò un’occhiata scettica, ponendo fine ad una conversazione con un ragazzo molto alto che non conoscevo.
«Ma come, di già? Voglio dire, è prestissimo...»
«Lo so, ma dovevo essere a casa già due ore fa...» le spiegai, sentendomi un po’ un’idiota.
«Va beh! Ma almeno fatti portare da qualcuno, da sola non vai da nessuna parte» mi ordinò, con il suo solito istinto iperprotettivo. Dovevo fare sì e no seicento metri per arrivare a casa, ed il sole stava già sorgendo in cielo. Non c’era di che preoccuparsi.
Stavo già per ribattere, ma dopo qualche secondo lo stesso ragazzo alto di prima tornò da noi. Molly gli ordinò subito di venire con me.
«Okay, nessun problema» acconsentì, con un sorriso dolce. Mi sembrò bellissimo, bello ed infinitamente bellissimo – chissà se lo era davvero o era colpa dell’alcool? «Tanto sto andando via anch’io. Dove abiti, dolcezza?»
«Poco distante da qua. Mezzo chilometro. E comunque mi chiamo Tea.» aggiunsi irritata.
Lui sorrise ancor più. «William, ma chiamami Will» ammiccò, prendendomi per mano.
William Black, alle ore quattro del mattino, aveva all’incirca un’altra mezz’ora di vita prima che il suo cuore si fermasse abbracciando la lama di un coltello.

Oggi.
Il suono del campanello interruppe il mio incubo. Mi alzai di scatto  dal divano dove mi ero appisolata – avevo il fiatone. Da un bel po’ non sognavo più Will, da un bel po’ facevo incubi che non mi riportavano così indietro, a quel maledetto giorno.
Andai alla porta più veloce che potei. «Sì, chi è?»
«Sono io, Tea. Hannibal. Hannibal Lecter» precisò, non udendo alcuna mia reazione. Mi limitai a guardare dallo spioncino la sua figura alta e così bella da mozzare il fiato, dandomi mentalmente dell’idiota. «Dovevamo vederci, per studiare. È un brutto momento?»
È un brutto momento, sì! Sto per avere una crisi di panico causata da un incubo, soltanto da un cazzo di incubo! E arrivi tu, così, dal nulla! Sì, lo so, dovevamo vederci, lo so ... ma mi fai paura, mi terrorizzi e sei così bello da sembrare un dio! Va’ via, Hannibal, potrei accoltellarti... Va’ via!
«Uh, no! Scusa, Hannibal. Stavo dormendo...» lo salutai, aprendo il portone. Mi sembrò un angelo, circondato dal sole del pomeriggio. Per di più aveva in mano un sacchetto con il marchio d’una pasticceria poco distante – la mia preferita.
Alzò il pacchetto a mo’ d’offerta di pace. «Posso entrare?»
Mi scostai di lato, con un sorriso falso. «Sì, certo.»
In quel momento volevo solo morire.
Non sapevo ancora di essere ad un passo dal mio desiderio.

 

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Capitolo 6
*** Capitolo Cinque ***


Capitolo Cinque
Ritrovamenti scomodi



Hannibal entrò lentamente, si guardò attorno. Lo osservai senza farmi notare – o così credevo – chiudendo la porta alle mie spalle. Il lieve rumore che produsse sbattendo fuori il mondo mi fece sentire in trappola, mi ricordò che i miei non sarebbero tornati entro le dieci di sera o più tardi, poiché erano a  una cena di lavoro.
Che sciocca. Perché non avevo chiamato Molly per stare con lei assieme al mio vicino di banco, quel pomeriggio? Sarebbe stato tutto più sicuro.
Ma sapevo perché non l’avevo chiamata. Per il semplice motivo per il quale non le avevo detto la verità su dov’ero stata il marzo precedente, quando avevo passato praticamente ogni giorno in tribunale: non volevo farle vivere tutta la merda che dovevo passare io. Lei era così felice, così tranquilla e serena: perché cambiare tutto? Per di più neppure si ricordava di William, del ragazzo di quell’Halloween maledetto, ed allora perché turbarla inutilmente?
«Questi sono per te, Tea. Ho pensato di sdebitarmi così, mi stai facendo un gran favore» disse Hannibal, passandomi l’incarto della pasticceria. Mi guardò accondiscendente, con un sorriso mesto. Aveva una fossetta su una guancia che gli dava un’aria innocente.
«Oh, grazie mille». Presi l’incarto, scrollando le spalle. «In realtà fai tu un favore a me, tenendo buona la Dalton. Comunque, vieni in cucina, studiamo.» Tagliai corto, poiché odiavo discorsi inutili e ringraziamenti di troppo.
Lui sembrò capire. Si sfilò la giacca, porgendomi anche quella: «Fa’ la brava padrona di casa», scherzò. O così interpretai la sua frase.
La afferrai e la gettai non troppo delicatamente sul divano. «Fatto».
Lui sorrise di più, precedendomi in cucina. «Ti ho svegliata, prima. Mi dispiace».
«Non c’è problema. Pagina 133.»
Lui alzò lo sguardo dal suo libro. «Per caso ho fatto qualcosa per irritarti così tanto?» domandò con uno sguardo preoccupato. Sembrò quasi sincero.
Assottigliai gli occhi. «No, non direi; sono sempre così, appena sveglia.»
Annuì e cominciò a leggere. Quando finì, disse: «Semplice, no?»
No. Non lo era. Non per me.
Presi fiato, indecisa. Non volevo essere così scortese con lui, ma non riuscivo a fare altrimenti. «Hannibal...»
Qualcosa m’interruppe. Una suoneria. Lui non si mosse, così capii che era il mio cellulare.
Risposi senza nemmeno guardare chi mi stesse chiamando – doveva essere Molly, o mia mamma. Forse mio papà, ma nessun altro.
«Sì?»
«Buongiorno, Tea. Ti disturbo?»
Quella voce.
Sbiancai, lanciando un’occhiata allo schermo del cellulare. Mike. Quel Mike?
«Mike?» balbettai. Hannibal, che stava sfogliando il suo libro, mi lanciò un’occhiata interrogativa. Non lo calcolai.
«E così, ti ricordi ancora di me. Sono contento.»
Dalla voce non lo sembrava. Nemmeno un po’.
Feci mente locale. Mike è un avvocato, perché mi sta chiamando? Non ho fatto nulla d’illegale, ultimamente. E nemmeno i miei parenti. Allora, perché?
«Ti starai chiedendo il perché della mia chiamata», continuò, con voce sicura di sé. Mi era mancato? No, neanche  un po’. In un momento di solitudine lo avevo trovato un buon conoscente... Ora però, mi riusciva difficile perfino parlargli al telefono.
«Sì, è proprio così» risposi, stando attenta a cercare le parole giuste. Poco distante da me c’era Hannibal, e lui non doveva sapere niente sul mio passato.
«Soddisfo subito la tua curiosità, allora».
«Mike, non ho molto tempo» sussurrai, rigirandomi tra le mani una matita. «Muoviti!»
«Oh, dovrai trovarne un bel po’, invece! Sono di nuovo il tuo avvocato e tu, cara mia, sei di nuovo nei pasticci.»
«Mike, perché?»
«Sono state ritrovate le viscere di William Black.»
 
Aprile, 1.
Quasi per scherzo, quel giorno fui richiamata in tribunale. Pensavo mi avrebbero messo in galera o in qualche ospedale per malati di mente, invece il giudice mi liquidò con l’accusa d’essermi trovata «al posto sbagliato nel momento sbagliato», costringendomi a un mese di lavori socialmente utili.
Poiché le viscere di William Black non erano state ritrovate, non c’era prova che io l’avessi ucciso – non c’erano mie impronte sul suo cadavere se non sulla mano che gli avevo stretto, alla festa. Non c’era un’arma del delitto. Insomma, non c’erano prove incriminanti.
Era fortuna? O ero davvero innocente?
Uscii dal tribunale sentendomi più vuota che mai. Pensavo che quel giorno avrei finalmente capito la verità, invece ora non ero che una ragazza da guardare con sospetto.
 
Oggi.
Mike riattaccò poco dopo, dicendo che stava per arrivare là, a casa mia. E che dovevo farmi trovare sola.
Appoggiai il telefono sul tavolo, osservando diffidente Hannibal. «C’è un contrattempo, mi sa.»
Lui alzò lo sguardo dai suoi libri. Per tutto il tempo, a parte un’occhiata curiosa, non aveva dato segni d’aver origliato la conversazione. Ma l’aveva fatto, lo sapevo. Aveva un’espressione, seppur diffidente, curiosa.
Non avrei soddisfatto la sua sete di sapere. Né quel giorno, né mai.
«Peccato» commentò, alzandosi. «Quest’incontro è durato così poco».
«Ci rifaremo» lo rassicurai anche se non la pensavo così, recuperando la sua giacca. Se la infilò osservandomi apertamente, tanto che dovetti trattenermi dall’insultarlo – ero stata già abbastanza stronza con lui, per quel giorno.
«Immagino che ci toccherà» precisò lui, prendendo i suoi libri. «Mrs. Dalton è piuttosto puntigliosa, riguardo alle punizioni – o così mi è parso».
Gli sorrisi, sentendo l’ansia che pian piano montava dentro me. «Oh, lo è».
Avevano trovato le viscere di William.
Ma come? Ne era passato, di tempo. avevo dato per scontato che si fossero deteriorate già da un bel po’.
Hannibal mi passò accanto, salutandomi. «A domani, allora».
Non riuscii a salutarlo. Avevo la gola serrata. Cominciai a sudare freddo.
Quando la porta sbatté confermando che Hannibal se n’era andato, mi lasciai andare a un attacco di panico.
 
Lei non poteva saperlo, ma avevo sentito ogni singola parola che s’era detta con questo ‘Mike’, l’avvocato.
E così, qualcosa d’orribile l’aveva fatto. Doveva essere così, se c’entravano viscere ed un morto.
E poi la sua espressione... Quell’espressione d’un cucciolo in trappola. Terrore puro.
Fischiettai un motivetto allegro tornando a casa. Poco lontano dalla casa di Tea, un’Audi nera sfrecciò accanto a me. Un uomo sulla trentina mi osservò per una frazione di secondo, con sguardo indagatore.
Aveva gli occhi più scuri che avessi mai visto.

 

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