Una scelta difficile

di Valvonauta_
(/viewuser.php?uid=433241)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Primi dubbi ***
Capitolo 2: *** Confusion ***
Capitolo 3: *** Inquietudine ***
Capitolo 4: *** Sbalzi d'umore ***
Capitolo 5: *** Degenerazione ***
Capitolo 6: *** Ritorno da te ***
Capitolo 7: *** E' quella definitiva, l'accendiamo? ***



Capitolo 1
*** Primi dubbi ***


Una scelta difficile
Capitolo 1 - Primi dubbi


SPOILER ALERT!
La ff tiene conto degli avvenimenti fino alla puntata 3x01 non tenendo conto di quelle successive, facendo di questa ff una sorta di storia alternativa a quella presentata dalla serie.

ic
©estrellasrosascaenenlineas.tumblr.com

30 giorni prima del matrimonio…
Si svegliò sudato, attorcigliato nelle coperte come un pesce nella rete dei pescatori, nella camera da letto di Mary, solo. Guardò l’orario sulla sveglia: erano le cinque del mattino.
La sua fidanzata doveva essere uscita per la sua solita camminata mattutina.
Si alzò ed andò a darsi una sciacquata in bagno, nel tentativo di calmarsi. Fissò allo specchio la sua figura riflessa e si chiese il perché di quel risveglio tormentato.
Si ricordava sempre solo alcuni sprazzi di quegli… incubi o… non sapeva neanche lui cosa fossero; solo una cosa era certa: ogni volta c’era Sherlock.
Si sciacquò la faccia alla bell’e’meglio buttando acqua per terra senza curarsene e chiusi gli occhi, fece un lungo sospiro per calmarsi.
Sembrò funzionare. Almeno per il momento.
 
15 giorni prima…
John era seduto sulla poltrona, rilassato, quella che dava le spalle alla finestra, godendosi dalla visuale migliore lo spettacolo di Sherlock davanti a lui che camminava inquieto per la stanza, avanti ed indietro, a grandi falcate, senza fermarsi un secondo.
Non poté davvero fare a meno di ridere, vedendolo in questo stato. Ogni volta che si angosciava assumeva uno strano aspetto… buffo, per così dire.
Da lì a due settimane ci sarebbe stato il matrimonio con Mary ed invece di essere lui, John, quello agitato, beh, lo era Sherlock! Ovvio, no?
“Devo venirci per forza?” ripeté per la duecentesima volta l’uomo, fermandosi d’improvviso con una gamba all’aria, leggermente alzata da terra, nell’atto di mettere il piede per terra.
Ogni volta gli ricordava Beep Beep quando vedeva il Coyote. Tirò un sospiro di sfinimento e alzò gli occhi al cielo: erano tre ore che Sherlock si stava tormentando nella decisione di venire o no al matrimonio, dopo che gli aveva annunciato che avrebbe voluto lui come testimone.
“Sherlock, fai come vuoi, ok?” e si alzò dalla poltrona e fece per andare in cucina. Si sentì trattenere per il braccio a metà strada. Voltatosi, trovò Sherlock con occhi titubanti.
Lasciò immediatamente la presa una volta che lo ebbe fermato. Si raddrizzò, si mise a posto la giacca e, gli disse con insensato orgoglio: “Mi hai convinto però mi dileguerò da quella plebaglia appena avrai detto sì, non voglio foto con chicchessia. Ho una reputazione, io.”
Sherlock, a decisione presa, si rilassò visibilmente e, ritornato sui suoi passi, si sedette sulla poltrona dove prima aveva preso posto lui.
Come suo solito, mise le mani giunte sotto il mento e si andò a rifugiare nel suo Mind Palace, chiudendo gli occhi, come a dormire. Sapeva che in quel preciso momento stava vagando nei ricordi per cercare di ricordare magari dettagli che spiegassero il perché del rapimento di John, mesi prima.
Watson osservò la figura slanciata e longilinea del suo compagno di avventura. Ancora non riusciva a credere che fosse vivo. A volte osservandolo accanto a sé, mentre lui era distratto e neanche lo considerava, gli pizzicavano stranamente gli occhi, in una maniera del tutto inedita, quasi si commuovesse della sua vicinanza.
Rivederlo di nuovo li, aveva dovuto ammettere, su quella poltroncina consumata dell’appartamento, certe volte gli dava euforia, gli veniva voglia di mettersi ad urlare dalla gioia ed abbracciarlo.
Focalizzò la sua attenzione al viso dell’uomo e notò quanto fosse… bello. Si, era bello.
Beh, decisamente un tipo… non quel tipo di bellezza oggettiva, definitoria ma… una bellezza particolare, unica nel suo genere. Una bellezza… intelligente.
Per non parlare dei capelli ribelli e riccioluti che gli incorniciavano il viso…
“John” si sentì chiamare lievemente da un filo di voce.
Sherlock aveva mosso impercettibilmente le labbra, senza muovere nessun’altro muscolo. L’espressione facciale del tutto immota, gli occhi ancora chiusi.
Per poco non sobbalzò sul posto. Si ridestò da quei pensieri di soprassalto e si stupì di se stesso, per quelle considerazioni che la sua mente aveva creato con così tanta facilità. Gli era già capitato altre volte di osservare di nascosto Sherlock ed apprezzare i suoi lineamenti ma…
Lo interruppe un’altra volta: “Prendi il taccuino”
“S…si” disse quasi perso.
A quella risposta, Sherlock, notando sicuramente qualcosa di strano nel tono della sua voce, aprì di scatto gli occhi e girò il viso verso quello dell'amico, incatenando gli occhi di John ai suoi con la forza del suo sguardo.
Gli occhi invece, pensò John, erano indubbiamente, inevitabilmente stupendi. Di un colore impossibile da definire con precisione… una sorta di miscuglio tra azzurro e verde acqua… con delle leggere striature di… giallo chiaro proprio vicino la pupilla, quasi a contornarla… dovette constatare che occhi così particolari e profondi non ne aveva mai visti. Come aveva fatto a non notarli prima in tutto il loro splendore? Era per caso diventato momentaneamente cieco dopo l’Afghanistan? Si ritrovò a fissarli per la prima volta in una maniera nuova, incantato, incapace di smettere.
Occhi multicolore che rispecchiavano le mille anime di Sherlock, le sue mille sfaccettature.
Vide il suo amico socchiudere leggermente gli occhi, come a scrutargli l’anima in cerca di qualche indizio.
Era brutto dover vivere a stretto contatto con il Genio della Deduzione, un soggetto che notava ogni minimo particolare, ogni cambiamento di comportamento, anche lievissimo. Che se ne fosse accorto non c’erano dubbi ma sperò che magari non cercasse di capire il perché di tali sguardi…
Improvvisamente lo vide aggrottare la fronte: “Tutto ok, John?”
Cercò di riprendersi e di recuperare, togliendo lo sguardo dal suo viso e puntandolo sulla parete dove Sherlock teneva tutti i suoi appunti incasinati: “Si, si”
Sospirò e disse con un tono freddo e deciso, che non rispecchiava il suo stato d’animo: “Mi vado a fare un giro, devo cambiare aria” e senza neanche guardarlo, prese il cappotto dall’attaccapanni e, chiusosi per sicurezza la porta alle spalle, nel tentativo di scoraggiare qualunque inseguimento, scese le piccole scale.
Chiuse la porta di sotto con un tonfo.
 
 
CHE DIAVOLO MI STA PRENDENDO? urlò a se stesso prendendosi la testa tra le mani.
Era seduto in uno dei tavoli dello Speedy’s Cafe cercando di raccapezzarci qualcosa, senza grandi risultati.
CHE PENSIERI DEL CAVOLO STO FACENDO? Mio Dio! Mi sto per sposare con la donna che amo, tra due settimane e…
Non riuscì a finire la frase. Un grandissimo senso di colpa lo attanagliò proprio all’altezza del petto, sentendosi per un attimo in apnea.
Già giorni prima aveva fatto uno strano sogno… in verità, era da quando era tornato Sherlock che faceva strani sogni che lo svegliavano in uno stato di affannamento, anche se non li ricordava quasi per niente, come se la sua mente si rifiutasse di accettarne il contenuto e precauzionalmente li cancellasse.
Quanto avrebbe voluto maledire Sherlock per essere tornato, per avergli fatto rischiare la vita già due volte in pochissimi giorni, per avergli mentito…. ma, in cuor suo, sapeva che non era vero.
Ammirava quell’uomo, da sempre. Non era un segreto. Lo faceva sentire stranamente vivo stare con lui: amava il sangue pompargli nelle vene ogni volta che erano in pericolo, ogni volta che erano vicini, quando la mano affusolata dell'amico casualmente sfiorava la sua….
“BASTA!” gridò inconsapevolmente a voce alta. Si guardò intorno e vide due o tre facce di uomini fissarlo come se fosse pazzo per poi ritornare a fare i fattacci loro, appena incontrò i loro sguardi.
Stette lì, fermo, in preda ad un qualche attacco d’ansia, con il boccale di vino davanti al naso, intento ad ubriacarsi quando il telefonino vibrò nella tasca del giubbotto. Lo estrasse con il cuore in gola e vide il nome sullo schermo: Mary.
Le aveva promesso che si sarebbero visti a casa di lei verso le sei ed erano le sette passate.
Imprecò a bassa voce e, odiandosi, rifiutò la chiamata.


Salve a tutti, questa è la mia prima ff in cui parlo di una coppia omosessuale e tratto, in modo specifico, dopo un primo tentativo fallimentare, la relazione tra John e Sherlock. Quindi abbiate pietà di me! (LOL)
Comunque era da tanto che volevo trattare di loro e finalmente ce l'ho fatta! Alleluia! *suona le campane, suona le campane, din don dan din don dan*
Spero gradiate, io adoro Sherlock e spero davvero di non deludere tutti gli altri fans con le mie castronerie.
Un abbraccio,
Francisca


 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Confusion ***


Una scelta difficile 
Capitolo 2 - Confusion




©hello-supernova.tumblr.com

 
Aveva di fronte a sé tre boccali di birra da mezzo litro completamente prosciugati del loro contenuto e la mente praticamente blackout a causa dell’alcol in circolazione quando vide presentarsi Sherlock al locale.
L'uomo, guardandolo compassionevolmente, gli disse qualcosa, mentre si sedeva davanti a lui, ma non riuscirono ad arrivargli alle orecchie le parole che uscivano da quella bocca dischiusa, con quel taglio così particolare. Di lì in poi non si ricordò più nulla di quella serata.
 
14 giorni prima…
La mattina dopo si svegliò sul divano del 221B, coperto solo da un plaid. In casa non faceva freddo e fuori di certo non era pieno inverno.
Aprì gli occhi riluttante e si ritrovò ad osservare la schiena di Sherlock fasciata in una delle sue classiche camice color prugna.
Un improvviso senso di nausea lo colse, impedendogli di chiamare l’amico, e fece per correre al bagno ma tutto ciò che riuscì a fare era di finire steso per terra.
Sherlock alzò la testa dalle carte e fece per alzarsi a soccorrerlo. Si chinò su di lui con un ginocchio a terra e cercò di tirarlo su senza successo, dato che, in piena fase post-sbronza, l’uomo riverso sul pavimento non dava alcun aiuto.
"John, che ci fai per terra?" chiese scocciato.
Manco a rispondergli vomitò per terra.
Sentì subito lo sbuffo di disapprovazione di Sherlock mentre, riluttante, si alzò da terra, allontanandosi.
"Fai presto" gli intimò e subito dopo urlò “Signora Hudson!"
La donna, dopo un minuto circa, fu già da loro e quando vide John vomitante a terra tirò un urlo.
"Signora Hudson, la prego! Non è mica un cadavere" la invitò Sherlock.
Quando John ebbe finito i conati, Sherlock, aiutato dalla padrona di casa, lo tirò su di peso sul divano, cercando di accomodarlo per quanto fosse possibile.
"Ora pulisca, signor Hudson, su, che c'è uno schifo!" e puntando la mano contro il ‘corpo del delitto’ la roteo in cerchio con aria schifata.
"Quante volte ve l'ho detto? Non sono la vostra donna delle pulizie!" quasi urlò sul finale.
Questo improvviso innalzamento di voce procurò a John una violenta fitta alla testa.
Sherlock, invece, come sempre in risposta a quegli atteggiamenti dell'anziana, si irrigidiva e tirava su la schiena per darsi autorità.
La donna magicamente, ogni volta, lo guardava un po' imbronciata poi si metteva a ridacchiare e facendo segno con la mano quasi a dire 'lasci perdere' andava a fare/prendere quello che Sherlock le aveva chiesto.
Questa fu la volta dello straccio e dell'alcol.
La donna si dileguò giù dalle scale.
John alzò gli occhi intorbiditi verso Sherlock e, libero dal peso allo stomaco, parlò con voce incredibilmente roca: “Hai pezzi di cadaveri nel frigo e ti schifi per un po’ di vomito per terra?” e la Deduzione impersonificato per tutta risposta riserbò quello stesso sguardo autoritario a lui, scuotendo, in aggiunta, la testa.
A grandi falcate, lo vide scomparire in cucina. Ritornò dopo pochi secondi, evitando accuratamente la pozza di vomito, con un bicchiere in mano.
"Che roba è?" chiese l’ex soldato al detective.
"Butta giù, John, niente storie" e dall'alto della sua posizione, con un braccio piegato dietro la schiena, quasi fosse un cameriere, gli mise davanti il bicchiere.
Lui l'accetto ed inevitabilmente loro dita si sfiorarono per un millesimo di secondo. 
Ciò bastò a regalargli strane sensazioni al basso ventre.
Si, sono decisamente ubriaco, pensò tra sé.
Cercò così di ignorare la cosa e sotto gli occhi vigili del Detective buttò giù tutto d'un fiato. Scoprì con stupore che era semplicemente aspirina.
Aveva inizialmente paura fosse qualche sostanza illegale importata dalla Cina o chissà dove… si ricordò di quella volta che gli aveva nascosto nel thé, sciogliendola, della mescalina, con l'intenzione di usarlo come cavia per capire al meglio i riti sciamani dell'America Latina. Non seppe ricordarsi a quale caso associare quel singolare episodio.
Fortunatamente non bevve quel thé: quel giorno non ne aveva voglia. Solo dopo alcune settimane il Detective glielo ammise, nella speranza che la distanza di tempo lo facesse infuriare di meglio. Beh, aveva sbagliato.
Sorride di quell'episodio.
Quando vide il bicchiere vuoto, Sherlock, soddisfatto, si rimise al tavolo, dandogli le spalle.
"Beh, neanche mi chiedi come sto?" domandò.
Continuando a stare in quella posizione, senza neanche girarsi, rispose: "Ti sei ubriacato, cosa ci sarebbe da chiedere?"
"Come sto" insistette John, che non nascondeva la necessità di quella premura dall'amico.
In quel preciso momento arrivò alla soglia del loro appartamento proprio la Signora Hudson, con un po’ di fiatone.
Sherlock, rivolto a lui, si limitò a fare un gesto evasivo della mano continuando a scartabellare in silenzio tra quel macello di foto, documenti ed oggetti vari che non era altro che la sua scrivania.
John posò il bicchiere sul bracciolo del divano e si distese nuovamente, coprendosi.
Guardò per un po' la Signora Hudson che ripuliva tutto e che nel frattempo borbottava, proprio come una caffettiera, continui rimproveri che riguardavano lo sfruttamento della disponibilità della donna. Nessuno dei due rispose a quelle provocazioni e dopo poco ricadde in un sonno abbastanza pacifico.
 
Si risvegliò il pomeriggio con ancora un leggero mal di testa e lo stomaco un po’ sotto sopra.
Si alzò barcollante, andò in bagno a sciacquarsi un po' la faccia e poi si diresse in cucina, sapendo che, suo malgrado, doveva buttar giù qualcosa. Era da mezzogiorno del giorno prima che non toccava cibo e si sentiva decisamente debole.
Sherlock non sembrava essere in casa. Quando fece per andare al frigo, sfregandosi gli occhi, ancora non del tutto sveglio, sentì qualcosa battere contro i suoi piedi. Abbassò lo sguardo e per poco non si sentì svenire.
C’era una specie di carcassa, proprio davanti al frigo, di… non seppe cosa, forse umana?… viscida e in decomposizione distesa su di un telo trasparente, di quelli da autopsia…
“MALEDIZIONE! SHERLOCK!” urlò alzando lo sguardo al soffitto ed allontanandosi di alcuni passi.
 “Hey!” sentì una voce squillante alle sue spalle, allegra. Si girò di scatto, infuriato.
Vide Sherlock in vestaglia con uno spazzolino da denti sporco di sangue in mano. Doveva essere stato in bagno... con uno spazzolino insanguinato. Certo. Una cosa normalissima.
“Mi dici che… che diavolo ci fa una…” si dovette fermare e attaccarsi al tavolo per un improvviso abbassamento di pressione “carcassa davanti AD UN DANNATO FRIGO? Il NOSTRO frigo, Sherlock…”
Lo Psicosociopatico, come lui stesso amava definirsi, lo fissò con il suo solito sguardo innocente e la buttò in ironia, un suo grande classico: “Aveva bisogno di una ripulita. Gli stavo lavando i denti, non vedi? Oh, ma lascia che vi presenti. Mitch, John. John, Mitch.”
Li presentò puntando verso uno e poi l’altro quel maledetto spazzolino.
“Ah! Davvero molto divertente, davvero, Sherlock” e gli puntò un dito contro “Tu, tu… Oh, God!”
“Non capisco perché te la prendi tanto sinceramente” fece notare l’uomo con tono distaccato, mentre esaminava quel ‘referto’ mettendoselo davanti al naso.
Ed aveva ragione. Perché se la stava prendendo a quel modo? In fondo erano anni che Sherlock lasciava cadaveri e pezzi organici di qualunque foggia e natura per casa, c’era da stupirsi? Ma erano anche due anni che non lo vedeva… che non ci fosse più abituato? No, ne dubitava.
Che invece se la stesse prendendo con lui per quello che era successo, per i suoi dubbi? Sherlock lo aveva capito, aveva captato i suoi pensieri?
Si rese conto che erano tante le domande che gli frullavano in testa sia da rivolgere a Sherlock, che a se stesso. Ma aveva dimenticato la più importante.
“Che è successo ieri sera?” chiese.
Sentì che era avvenuto qualcosa di… spiacevole. Era decisamente una brutta sensazione. Eppure non ricordava nulla, per quanto se ne sforzasse e provò la stessa irritazione di quando non riusciva a ricordare i sogni che da un po’ a quella parte lo tormentavano.
Stranamente, sempre che qualcosa potesse definirsi normale in Sherlock, l’uomo non gli rispose, ignorandolo con una smorfia sulla bocca e fece per andare nel salotto.
“Almeno sapresti dirmi dove è il mio cellulare?” chiese cercando di non perdere il controllo.
Di schiena, Sherlock puntò il dito al caminetto.
“Grazie, eh” fece passandogli accanto ma in cambio non ricevette neanche una parola o un gesto.
Si sedette sulla poltrona, quella vicina alla cucina, e guardò lo schermo.
24 chiamate e 6 messaggi. Per un attimo andò in panico.
Aprì la finestra delle chiamate perse e scoprì che tutte erano della sera precedente e che tutte erano di Mary, tranne una sola di Sherlock.
Dei cinque messaggi, quattro erano di ieri sera: due di Mary.
“John, ti prego, dove sei? Ho chiamato Sherlock per sapere come stai ma neanche lui risponde. Ti imploro di chiamarmi al più presto. Mary.”
L’altro recitava invece: “Sherlock ti sta cercando.”
E gli altri di Sherlock.
“WATSON.
RISPONDI.
ORA. ”
“MARY E’ PREOCCUPATA.
DOVE SEI?”
L’unico di oggi era di Mary. Inviatogli nel pomeriggio.
“Tesoro, appena ti riprendi chiamami.
Mary”
Di nuovo il senso di colpa lo attanagliò. Più forte che mai.
Si alzò ed andò nella sua stanza, alla ricerca di un po’ di privacy. Cliccò il tasto della cornetta con il battito del cuore un po' accelerato e la chiamata partì.
Cosa le avrebbe detto? Cosa lei avrebbe detto? Cosa avrebbe dovuto dirle?
Al secondo squillo rispose.
 “John, tesoro!” squittì la voce di lei.
Si aspettava che gli urlasse contro, fuori di sé ed invece eccola lì con voce sollevata che lo chiamava tesoro. Di tutto si attendeva tranne una reazione del genere e questo complicò di certo la fase della risposta.
“Mary, si, guarda…” cercò di iniziare una frase logica, di senso compiuto ma lei lo tolse dall’impiccio.
“Amore, ti senti meglio?” gli chiese con voce sinceramente preoccupata, che non accennava al minimo senso di rabbia.
“Si, io…” si grattò la testa. “Non so quanto Sherlock ti abbia detto ma…”
“Lo so che ti sei ubriacato” lo anticipò la sua fidanzata.
“Okei, allora…” presto un sospiro partirono le scuse a raffica.“Tesoro, mi dispiace. Sono desolato. Non è da me, non sono un ubriacone, figuriamoci. Non bevo quasi mai, lo sai.”
“Basta, John. Basta scuse. Non c’è niente da dire. L’unica cosa che ti chiedo è: c’è qualcosa che non va?”
Quella domanda gli fece inarcare le sopracciglia. Era la più ovvia eppure era quella a cui non aveva pensato e che lo colse talmente impreparato che dovette aspettare ben dieci secondi per risponderle: “No, Mary, tutto ok, niente di cui preoccuparsi, davvero.”
Una bugia. Una sola. Solo per questa volta. Non faceva male a nessuno, no?
“Ok, ti credo” e sentì la voce di lei improvvisamente intristirsi.
“No, Mary, non pensare quello che stai pensando qualunque cosa tu stia pensando.”
La sentì sorridere, se fosse finto o vero quel sorriso non lo avrebbe mai saputo: “Ti amo, John.”
“Ti amo anch’io.”
E il suono del bip bip del telefono risuonò nelle sue orecchie come una accusa svuotandolo di quella poca energia che gli era rimasta.

Salve!
Si, dopo neanche un giorno ho pubblicato il nuovo capitolo. Deve essere una specie di miracolo dato che solitamente sono lentissima ad aggiornare. Meglio così per tutti. Sarà che per una volta ho già praticamente la storia in testa, dall'inizio alla fine; sarà che ho finito due ore fa di vedere la seconda puntata... chissà.
Scrivete una recensione, se avete un po' di tempo da perdere, mi farebbe davvero piacere.
 
Mi scuso se lo avete trovato un capitolo "corto" ma vi lascio con la promessa che aggiornerò al più presto (non sperate nella tempestività che ho mostrato in quest'occasione, comunque ;D). 
Ho visto che è molti hanno messo già tra i seguiti/preferiti la storia solo dopo un capitolo, wow. Ringrazio tutti voi e in particolare Vanth_ per aver recensito.
Un abbraccio e al prossimo capitolo!
FranciscaMalfoy

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Inquietudine ***


Una scelta difficile
Capitolo 3 - Inquietudine




©planets-bend-between-us.tumblr.com  
  Dopo dieci minuti di esitazione, a torturarsi sul da fare, uscì dalla camera con l'intenzione di parlare con Sherlock, chiarire quella situazione imbarazzante che lui aveva creato involontariamente con la sua stupidità, e farsi dire perché tutti, compreso lui stesso, si stessero comportando in quel modo. Risolveva casi impossibili, sarebbe stato in grado di dare una soluzione anche a quello stupido interrogativo, no?
"Sherlock!" urlò appena uscito dalla camera e fece appena in tempo ad arrivare in salotto per vedere il suo cappotto lungo svolazzare via, giù per le scale.
Il suo migliore amico non si era neanche preoccupato di chiudersi la porta alle spalle, tanta era la fretta di andar via.
 
***
 
Che Sherlock sapesse, avesse capito che...? Chiuse gli occhi, in cerca di equilibrio, per non farsi prendere dal panico, e fece quattro sospiri profondi.
Non lo aveva mai evitato a quel modo, mai aveva eluso una sua precisa domanda, come aveva fatto prima, per lo meno non in quel modo, non senza il sorriso sulle labbra.
Sherlock sa. Questa fu la conclusione che ne trasse, era l’unica possibile.
Un attimo di panico.
Poi la domanda fatidica: ma cosa sa?
No, no, ma che vuol dire trovare belli gli occhi di un uomo? Mica vuol dir niente!
Poi, una vocina maligna, da qualche angolino buio e remoto della sua mente, gli rispose: ‘Gli occhi di Lestrade li hai mai guardati davvero? Sai almeno di che colore sono?’
Va beh, ma che significa? Niente. Niente.
Sorrise tra sé rincuorato dalle sue stesse affermazioni.
In fondo non voleva dire niente, ripeté ancora a se stesso.
La vocina riprese forza, accusandolo: ‘Stai semplicemente rigirando la frittata’.
Io amo Mary, ok? La amo, la amo. Lei c'è stata per me. Sempre. Anche nei miei momenti più bui, soprattutto in quelli, anche quando volevo fare quel gesto, si, proprio quello, lei c'era ed è venuta a soccorrermi. Mi ha salvato la vita col suo affetto e la sua dolcezza. Sherlock invece, da buon amico, si è finto morto ed è stato lui a portarmi sull’orlo del non ritorno. Si, quel Psicopatico bastardo, ha inscenato la sua morte anche con me, come se fossi un qualunque estraneo non degno di condividere i suoi piani. I suoi genitori, suo fratello Mycroft, addirittura Molly Hooper!, sapevano. Io no. Io che...
Gli vennero, dal nervoso, quasi le lacrime agli occhi e li strinse fortissimo finché il pericolo di piangere non fu scampato.
Sospirò nuovamente ma era nervoso, troppo nervoso per poter ritornare quieto con così poco sforzo.
Mantieni la calma, John. Mantieni la calma, si disse.
Sei un soldato, per Dio!
Capitan John Watson, quinto reggimento dei fucilieri di Nothumberland.
Calma, soldato! Pancia indietro, petto in fuori! E cercò di riprendere a respirare normalmente, ad imporre ai battiti una velocità normale.
Questo auto-ordine gli ridiede una nuova apparente calma.
Quanto sarebbe durata?
 
 
***
 
Cercò Sherlock in tutti i posti che lui amava frequentare. Discariche, Speedy’s, obitori, Scotland Yard, ecc. ma niente da fare. Chiese anche ai senza tetto ma sembrava che fosse scomparso nel nulla, anche ai loro occhi. Mycroft lo liquidò dicendo che aveva badato abbastanza a suo fratello minore, che ne aveva le scatole piene e di certo aveva di meglio da fare che star dietro alle sue “uscite da draq queen”. Lo aveva rassicurato con un “vedrai che ritornerà, lo fa sempre”.
Ritornò lui a Baker Street, sconsolato. La Signora Hudson appena lo vide arrivare lo rimproverò del cadavere lasciato da Sherlock sul pavimento della cucina.
In effetti aveva ragione: il puzzo era diventato insopportabile.
Con l'aiuto dell'anziana, impacchettarono il caro vecchio Mitch e furtivamente John andò a buttarlo in un cassonetto dell'immondizia, uno di quelli vuoti in modo che con l'altra spazzatura sopra potesse non essere notato il sacco che per forma ed aspetto, ma soprattutto odore fetente, poteva risultare sospetto.
Aspettò il Vivisezionatore di Cadaveri in piedi tutta la notte come un cretino, guardando TLC, il canale che da Aprile aveva preso il posto di Discovery Real Time, così gli aveva spiegato la Signora Hudson, la quale gli fece compagnia fino alle 4, instancabile nella sua personale maratona di Cake Boss.
 
13 giorni prima…
Neanche il giorno dopo fece ritorno.
A mezzogiorno si stufò di star li a scaldare la poltrona. L'inattività l’aveva sempre ripudiata.
A quel punto c’era solo una persona con cui potesse cercare di chiarire la situazione: Mary.
Si sentiva terribilmente in colpa per non averla chiamata per un giorno intero lasciando in quel modo osceno le cose sospese tra loro. Ebbe paura che quel suo non richiamare avesse compromesso la loro relazione irrimediabilmente.
Mary era una donna sveglia, bellissima e dotata di una innata perspicacia. A lei, come a Sherlock, non era facile nascondere niente. La differenza era solo una, tra i due: la prima lo faceva per una sorta di sensibilità emotiva, l’altro perché era un pazzo sociopatico drogato.
La chiamò. Rispose subito, al primo squillo.
“John, ti fai risentire, eh?”
La voce di lei come al solito fu calma e dolce, anche se con una punta di rimprovero questa volta, messa ironicamente alla fine.
“Eh, già!” fece in imbarazzo dondolandosi sui piedi e fissandoli.
“Hai ripensato alla nostra conversazione di ieri? John, io…” cominciò lei ma la fermò.
“E’ inutile fingere ancora.” Sospirò e chiuse gli occhi, maledicendo con tutto se stesso ciò che stava per dire. “Dobbiamo parlare.”
Aveva sempre odiato quelle due parole. Era sempre il primo segnale di allarme in una relazione, era sempre quello, sia nella realtà che nelle telenovele spagnole.
Non poteva essere più originale? Originale in cosa, nel dirle che aveva dei dubbi dopo neanche due mesi dopo averle chiesto di sposarla? Che non sapeva quello che voleva? Che l’aver affermato che non c’erano problemi, il giorno prima, era tutta una balla? E il perché soprattutto, oh, li avrebbe dovuto ingegnarsi molto a spiegarlo anche perché neanche lui sapeva con precisione il perché di tutto quel macello in cui stava riducendo la sua vita, rischiando di perdere il suo miglior amico e sua promessa sposa, in caso tutto fosse degenerato dalle sue mani ulteriormente con il passare del tempo.
Sono un uomo semplice, io, di queste cose non ci capisco niente, non c’ho mai capito niente. E’ anche per quello che sono entrato nell’esercito. Li ricevi ordini e fai quello che ti dicono senza pensarci tanto. E’ anche per questo che adoro Sherlock. Con lui l’aspetto emotivo non c’è, lui le emozioni le evita, le scaccia via da se come si fa con gli insetti, inoltre nei nostri casi io non lavoro d’ingegno, quello che ragiona, che osserva, che elabora soluzioni è lui, è sempre lui. Io mi limito a fare le mie solite opinioni banali, quelle di un medico o di un semplice essere umano ma lui non è umano, lo sanno in molti, tutti quelli che lo conoscono, suppongo. Io gli faccio compagnia, come un buon cane da compagnia. Aveva ragione lui quando mi ha detto che servo da supporto al suo smisurato genio. E’ così, sempre è stato e sempre sarà.
Fino ad ora ho evitato questo tipo di impicci. Anche con mia sorella. L’ho lasciata affogare nell’alcol, dopo un blando tentativo di aiutarla poi per me è risultato troppo, troppo pesante da sopportare emotivamente e sono scappato. Scappato dai problemi di gestione di tutto quel casino. Non mi piace parlare di questo, neanche mentalmente.
Ora mi ritrovo in uno stato mentale di confusione e non so che fare. Quando Sherlock è morto, quando si è finto morto io sapevo cosa volevo. Volevo che vivesse, volevo che facesse quell’ultimo miracolo per me e sapevo cosa provavo: dolore. Tutto, in quel dolore, era ben definito e chiaro. Anche quando è arrivata Mary tutto ha continuato ad essere semplice. Mary mi faceva stare bene, dimenticare per un po’ il ricordo di Sherlock, allontanarlo in modo da non avere quel senso costante di soffocamento alla gola. I miei sentimenti erano stati chiari fin dall’inizio: la amavo. Punto. Amavo la sua gentilezza, la sua riservatezza, la sua comprensione e la sua pazienza. Era quello di cui avevo bisogno in quel periodo e lei ne era l’incarnazione umana. Tutto era lineare.
E’ lo stato mentale di confusione che odio. Quando non so chi sono, cosa voglio o provo. E’ quello da cui ho sempre fuggito ed ora… mi ci trovo proprio in mezzo, schiacciato come un wurstel in un hot dog.
La donna che amava gli rispose in tono accomodante: “Certo, a che ora?”
“Tra un’ora? Casa tua?”
“Casa nostra, John” gli ricordò e sentì il soffio d’aria nasale tipico di un sorriso appena accennato.
“A dopo, Mary” fece per chiudere. Non credeva di poter sopportare a lungo ancora quella conversazione senza dare di matto.
“A dopo John!” gli rispose e la chiamata terminò.
Arrivò sotto casa della donna, mille pensieri sparsi per la sua mente, incapace di radunarli.
Suonò il campanello e lei gli aprì la porta, sorridendogli, quasi come fa una mamma che vede tornare il suo piccolo dopo settimane fuori.
In una situazione normale sapeva che lo avrebbe baciato ed abbracciato. Ma non lo fece e questo per fortuna, o sfortuna, dipende dai punti di vista, gli confermò che sospettava che qualcosa si era rotto tra di loro.
Almeno quando le avrebbe detto quello che doveva dirle non sarebbe caduta dal pero. In effetti dopo quel “Dobbiamo parlare” e l’ubriacatura era giusto pensarlo, no? Prepararsi al peggio.
“Accomodati, è casa nostra!” insistette lei su quel punto, proprio come aveva fatto al telefono, mettendogli una mano sulla spalla destra e quasi spingendolo di forza all’interno.
Lui si sedette sul divano, incerto, con le mani sudate. Lei si accomodò nella poltroncina di fronte, in attesa che dicesse qualcosa, fissandolo con i suoi occhi blu che gli infondevano tranquillità.
Approccio blando: “Scusa se non ti ho chiamata…”
“Non c’è problema” rispose secca, senza dargli tempo di iniziare quell’abbozzo di discorsetto che si era preparato nel tragitto.
“Scusa se mi sono ubriacato…” riprese lui dopo alcuni attimi di silenzio.
“Non c’è problema” insistette lei.
“Ok” fece infine mordendosi il labbro inferiore.
Ed ora che diavolo le dico? Tutto dipendeva dalla sua risposta alla domanda che avrebbe fatto tra un momento.
“Sherlock è scomparso ed è strano dalla sera in cui mi sono ubriacato. La cosa buffa è che non mi ricordo nulla. E mi sto preoccupando per lui.”
Era molto peggio di così ma non sapeva come porre la questione quindi si limitò alla scusa più banale per ottenere le informazioni di cui necessitava.
“Fino a quando ricordi?” le chiese la compagna, paziente.
“Ero al locale quando Sherlock è arrivato per parlarmi, poi il nulla, non mi ricordo nemmeno quello che mi ha detto” raccontò.
“Beh, come avrai letto dai messaggi dopo che hai rifiutato più volte le mie chiamate – John abbassò lo sguardo, beccato ed affondato in pieno – ho iniziato a preoccuparmi seriamente e ho contattato Sherlock, che ovviamente non ha risposto subito, ma solo dopo un’ora.
Lui mi ha detto che eri uscito,
che non c’era bisogno di preoccuparsi. Alla fine dopo una breve lite l’ho costretto a cercarti e solo dopo quattro ore ti ha trovato, allo Speedy. Deve aver pensato che quello fosse l’ultimo posto in cui cercarti. Mi ha contattata dicendomi che eri ubriaco, che non ti reggevi in piedi ma che tutto sommato stavi bene. Mi sono offerta di venire ma lui ha insistito che no, non ce n’era bisogno. Di star calma che ci pensava lui.”
“E tu?” chiese sporgendosi involontariamente verso di lei, come a prepararsi a bere assetato tutte le parole che avrebbe detto di li in poi.
“Io niente. Alla fine ho rinunciato – fece spallucce – abito in periferia, sai. Andare in giro di notte non è il mio hobby preferito.”
Fece segno di assenso con la testa: “E quindi?”
“Niente. Sono andata a letto. Era mezzanotte. Ho provato a prendere sonno, leggere ed altro ma ero troppo preoccupata per te, davvero.” E allungandosi con il corpo tese una mano fino a prendere tra la sua quelle di lui.
Fu un attimo, un tocco lieve e poi ritornò ad accomodarsi sulla poltrona, con un sorriso dispiaciuto, quasi si sentisse in colpa per l’interesse che lei stessa provava per le sue condizioni di salute.
“Alla fine alle 4 ho preso un taxi e sono venuta a Baker Street. Tu dormivi sul divano. Io sono stata con te finché ho potuto poi sono dovuta andare a lavoro. Verso le 7.”
“Tutto qui?” Sinceramente? Si aspettava di meglio, almeno qualcosa che gli facesse capire che fosse successo. In fondo tutto dipendeva da quello… o no?
“Mi spieghi che sta succedendo, John? Perché sei tanto interessato a quella sera? Seriamente? Quello di cui mi preoccuperei fossi in te è del perché ci sei arrivato su quel divano, non come.”
“Cosa vuoi dire?” esclamò aggrottando la fronte. Si, era vero, sapeva quello che voleva dire ma preferì per la figura del finto tonto.
Lei lo guardò poi fissò i suoi piedi e rialzò lo sguardo su di lui ed incerta iniziò il discorso: “Oh, John, ti prego, dimmi perché, perché hai sentito il bisogno di ubriacarti, il bisogno di dimenticare tutto a due settimane dal nostro matrimonio.”
“Io… Mary…” Accidenti, era stata più diretta di quello che si aspettasse ed ora non sapeva come uscirne. “Non lo so” ammise infine ammosciandosi visibilmente sotto il proprio peso, abbandonando la postura rigida che lo caratterizzava.
“Ah, quindi tu…” e la vide scrollare la testa “non sai che ti sta succedendo?”
Vide gli occhi di lei timorosi, impauriti da lui, da quello che poteva uscire dalla sua bocca, dalla verità.
“No, Mary, credimi io ti amo, ti voglio sposare…” iniziò per poi fermarsi bruscamente alla ricerca delle parole giuste.
“Ma…”
“No, io… ti prego… dammi tempo” chiese. Che altro poteva dire o dare, garanzie che non c’erano?
“Vuoi ancora sposarmi?” Lui fece per ribattere ma stese un braccio per fermarlo e riprese subito a parlare. “John, se hai dei dubbi, qualunque cosa, non ti senti pronto… io non ti forzo a far niente. Rimandiamo o lo cancelliamo semplicemente. Sei stato tu a chiedermi di sposarmi, se neanche tu ci credi più…”
“No, io non voglio annullare il matrimonio. Sono solo agitato, ok? Passerà. Passerà.”
Vide gli occhi di lei desiderosi di ribattere ma dalla sua bocca non uscì nessuna frase.
“Te lo prometto” concluse lui.
“Ok” replicò semplicemente lei.
Si osservarono per un po’. Lui ad un certo punto, non tollerando più la pressione, si alzò di scatto, come attivato da una molla nascosta nel divano, e lei lo imitò, quasi in un riflesso condizionato.
Le disse in tono solenne, quasi fosse ancora all’esercito: “Vado a cercare Sherlock.”
Poi con tono più calmo e scherzoso aggiunse: “Che non sia in qualche casa del crack o a cercare di farsi ammazzare da qualche psicopatico come lui.”
Lei rise, ma per poco: “Ok. A dopo?”
“A presto” rispose senza neanche sapere lui bene il perché.

 

Olè.
Ce l'ho fatta! Contenti? Spero proprio di sì.
Questa volta ho optato per un capitolo un po' più lungo del solito. Spero abbiate gradito la scelta!
La storia si sta ingarbugliando sempre più ed il nostro John non sa più che pesci prendere. Sherlock nel frattempo è scomparso a rifugiarsi chissà dove. Come andrà a finire? John riuscirà a sposarsi e Sherlock ritornerà mai a Baker Street per chiarire le cose con l'amico? 
Lo scoprirete solo leggendo!
Ringrazio tutti coloro che hanno messo tra le preferite/seguite/ricordate la mia ff e ringrazio ancora Vanth_ per l'ulteriore commento lasciatomi nel secondo capitolo, troppo carina come sempre. 
Un abbraccio a tutti,
FranciscaMalfoy

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Sbalzi d'umore ***


Una scelta difficile
Capitolo 4 - Sbalzi d'umore




11 giorni prima del matrimonio…
Per due interminabili giorni aspettò quell'idiota di Sherlock rinchiuso in casa, al 221B, neanche fosse agli arresti domiciliari. Tre maledettissimi e fottutissimi giorni, contando quello in cui gli era toccato portare fuori il morto.
Aveva inviato un messaggio alla sua promessa sposa per dirle di eliminare tutti gli appuntamenti per quella settimana.
Lei non aveva risposto al messaggio ma era sicuro che Mary avrebbe fatto quanto le aveva chiesto. Ne era più che certo. A differenza di Sherlock, lei rispettava le sue decisioni.
La signora Hudson gli comunicò che Sherlock ancora non si era fatto vivo. Lo invitò insistentemente ad uscire, gli disse che c’era lei in casa, che lo avrebbe chiamato in caso fosse arrivato, che non c’era bisogno di preoccuparsi più di tanto ma lui la ignorò totalmente e niente di ciò che disse riuscì a farlo schiodare da lì.
Doveva sapere quello che aveva bisogno di sapere.
Era certo che quello che non ricordava riguardo a quella notte era il motivo per il quale Sherlock si comportava in quel modo inedito: evidentemente doveva averlo scosso, doveva aver cambiato in lui qualcosa e non erano tante le cose che potevano modificare in maniera così repentina il suo modo di porsi col mondo. Inoltre aveva il terrore di aver detto o fatto qualcosa di spiacevole, sensazione che non lo aveva abbandonato fin dal suo risveglio, nel divano di Baker Street.
Girovagò per casa, si prese un tè con l’anziana, guardò un po’ l’appartamento che era stato loro e notò che Sherlock non aveva cambiato quasi nulla, aveva lasciato tutto com’era, intatto. Poi, guardando meglio il salotto, notò che qualcosa non tornava. Mancava decisamente qualcosa.
Gli bastò un momento per rendersi conto che era sparita la sua poltrona, quella che dava sulle finestre, la sua preferita, dove, quando erano stati insieme, aveva preso l’abitudine di sedersi.
Come ho fatto a non accorgermene prima?, si chiese.
Quel gesto rappresentava qualcosa di più di un semplice cambiamento nei gusti in fatto di arredamento dell'amico, era come se… avesse voluto cancellarlo dalla propria vita.
Rifletté molto su quella scelta, che presentava finalmente un aspetto umano di Sherlock: il desiderio di liberarsi di una persona, della sua presenza, anche togliendo le cose che gli appartengono o che lo rappresentano, proprio come quella poltrona.
Era il più stupido e banale degli atteggiamenti umani.
Che l’amico lo vedesse come un traditore, che ce l’avesse con lui perché “preferiva” Mary?
L’altro giorno quando si era risvegliato sul divano non aveva notato quel cambiamento. Beh, era in stato post-sbornia, come avrebbe potuto accorgersene? Ma a pensarci bene, quando era andato a chiedergli di essere il suo testimone, il giorno prima, c’era ancora. Ne era sicuro.
Si sedette dietro la scrivania di Sherlock.
Cercando di mettere a tacere il cervello facendo qualcosa, guardò i fogli sparpagliati su di essa. C’erano svariati ritagli di giornali, la solita penna Mont Blanc nera, la sua preferita, varie foto e cartelle di Scotland Yard con lo stampo “TOP SECRET”.
Poi c’era da un lato, buttato li quasi per caso, sopra pile di fogli e foglietti, il computer portatile, aperto, con lo screensaver attivo e l’icona di Windows che girovagava per lo schermo, scomparendo e riapparendo da un’altra parte. 
Prima che potesse anche solo ripensarci, si allungò, lo prese tra le proprie mani e lo mise davanti alla postazione.
S risedette, fece leggera pressione sul touchpad e lo schermo prese vita.
Il desktop era semplicemente la foto del muro di Baker Street, proprio come si presentava ora, dietro di lui, pieno di foto e con la mappa di Londra in bella mostra.
Non se ne stupì affatto. Sherlock ogni volta che cambiava qualcosa al muro lo fotografava e metteva la nuova immagine come sfondo. Lo sapeva. Era una delle sue tantissime manie.
Come diceva il Detective, in un attimo, anche mentre stava al computer, a forza di guardare quelle immagine, potevano ritornargli alla mente ragionamenti o aspetti che magari gli erano sfuggiti prima.
Sherlock viveva di quei momenti di flash, dove in un millesimo di secondo, a volte anche casuale, mentre stava facendo tutt’altro, aveva l’illuminazione sul caso.
Ci fu una cosa che lo stupì davvero: il fatto che il computer fosse privo di qualunque sistema di protezione file.
Si, Sherlock era strano sotto ogni punto di vista. Tutti i documenti in quella stanza potevano essere facilmente rubati o sottratti senza grande sforzo, e alcuni erano top secret, ma mentre questi ultimi erano di qualcun'altro, Scotland Yard per la precisione, un computer è un computer, e Sherlock ci passava molto del suo tempo, alla ricerca continua di informazioni.
Non sapendo che fare girò col mouse per lo schermo, guardando le cartelle presenti. Non che ce ne fossero tante. Solo una: Cestino.
Forse la mancanza di sistemi di protezione era per il fatto che non contenesse nulla che valesse la pena di essere rubato o guardato.
Non aveva mai frugato nel pc di Sherlock, neanche mai aveva contemplato quella possibilità, eppure ora aveva l’irrefrenabile voglia-bisogno di scoprire quello che conteneva.
Pensò che non faceva niente di male, che in fondo Sherlock aveva violato il suo di computer almeno un centinaio di volte, che John sapesse, senza contare quelle di cui non era a conoscenza, che sicuramente era un numero molto superiore.
Stava per andare su Documenti, quando sentì una porta aprirsi ai piani inferiori. Doveva essere quella d’entrata.
Velocemente chiuse il laptop, rimettendo dov’era prima. Si andò ad accomodare sul divano, cercando di atteggiarsi come se niente fosse, mettendosi in grembo uno dei giornali che erano posti a vanvera sul tavolino davanti al divano, l’Index on Censorship, e aspettò che l’amico finalmente facesse il suo ingresso in casa. 
Ascoltò, al piano di sotto, la voce della signora Hudson mentre lo informava che John lo stava aspettando su da giorni. Mentalmente ringraziò la donna per aver sottolineato quell'aspetto. Sentì poi dei passi veloci, sempre più vicini, ed eccolo spalancare la porta in modo teatrale neanche fosse arrivato il Principe di Galles e urlò “Dadà!” con un entusiasmo assolutamente esagerato, anche per uno come lui.
Teneva per una gruccia una busta copri abiti, che a giudicare da come era gonfia, doveva contenere un abito.
"Dove cavolo eri finito?" chiese sbalordito dal suo entusiasmo.
"Dove sono stato, dove sono stato?" replicò l’altro guardandosi intorno e facendo un giro su se stesso.
"Oh Cielo John, dadà!” e rifece la mossa di prima mettendo ancora di più in bella mostra il copri abiti.
"Sei riuscito a trovare finalmente un'altra copia del tuo adorassimo cappotto?" chiese scettico e decisamente poco incline a quelle pagliacciate.
Sherlock era sempre una continua sorpresa. Lunatico in un modo tutto suo. Più che altro si poteva dire che il suo umore dipendeva da tanti piccoli meccanismi di cui erano privi gli umani "versione standard". Anche un piccolo cambiamento, insignificante agli occhi dei comuni mortali, poteva portarlo all’euforia o viceversa, facendolo sembrare agli estranei un uomo con il mestruo.
Fintanto che erano stati conviventi nella stessa casa, John era stato a conoscenza di quelle cause ma ora, dato che vivevano in due zone di Londra completamente diverse e parecchio distanti, si rese conto di essere tornato di nuovo dalla parte degli estranei, degli sconosciuti.
Gli prese un groppo alla gola pensando a quello che stavano diventando, al loro legame che si stava inevitabilmente logorando, pian piano, giorno dopo giorno, però, testardo, continuò a mantenere un’aria distaccata e non curante, nascondendo il malessere che aveva dentro. 
Sherlock non era l’unico che sapeva fingere, a volerlo.
"L'abito!" gridò su di giri.
"Embè?"
"Per il matrimonio!" esclamò entusiasta come se gli fosse stato assegnato il caso più complesso e pericoloso al mondo.
"Ah, embè?" si ritrovò a rispondergli di nuovo. Il magone restava lì, fossilizzato, sentiva quella strana pressione alla gola, quel peso immenso. Si costrinse a non pensarci, a concentrarsi su Sherlock e su quegli occhi, quel mare dopo la tempesta. Concentrarsi sull'amico e le sue pazzie era il miglior modo per dimenticare tutto il resto. Era una di quelle persone che, standoci vicino, hanno una personalità talmente forte da risucchiare tutta l'attenzione di coloro che hanno intorno. John più di una volta aveva dimenticato i proprio bisogni a favore di quelli di Sherlock, senza neanche rendersene veramente conto.
"Embè? John, mi deludi!"
"Hai ripreso a farti di eroina?" chiese squadrandolo, alzando un sopracciglio.
"Ma certo che no!" fece lo Psicopatico aprendo la bocca per alcuni secondi, stupito.
"Allora morfina."
"John, perché il tuo migliore amico…”
Lo interruppe e con un’aria distaccata e saputella lo contraddisse: "Ci sono solo quattro cose per cui tu potresti fare una scenata del genere: primo la droga, secondo un caso assurdo, terzo la morte di tuo fratello, quartro stai fingendo.”
Amava contraddirlo, amava sapere tutte quelle cose su di lui, cose di cui nessun’altro era a conoscenza.
Il nodo alla gola si allentò un po’.
"Io aggiungerei anche una quinta: matrimonio di un amico."
"Sherlock, sputa il rospo" lo intimò. Oggi non era proprio in vena di giochetti.
"Non posso, ce n'avevo uno nel frigo, lo sai, ma l'ho buttato via da tempo, saran tre anni ormai!" Poi si fermò portandosi l'indice della mano libera alla bocca e guardando il lampadario "In realtà era una rana ma data la tua ignoranza  sia in fatto di anfibi che di tassonomia linneana...
"
"Che diavolo..." iniziò.
Il Detective riportò lo sguardo su John, il quale sentì il cuore accelerare impercettibilmente il proprio battito.
"Volevo riprodurre l'esperimento di Galvani, per vedere se l'elettrostatica porta davvero..."
“Quante volte ti ho detto: lascia perdere l’ironia. Fai schifo!” gli urlò contro, incapace di non sorridere. Poi si ricordò: "Ah, a proposito. La carcassa... Beh, grazie di avercela lasciata come souvenir."
Vide il Consulente Detective girarsi di scatto verso la cucina, incredulo, puntando lo sguardo sullo spazio vuoto dove pochi giorni prima era disteso il morto e gli parlò senza staccare lo sguardo da quel punto: "Hai osato buttarlo?"
"Certo, Sherlock! Cosa avevi pensato che avrei fatto?"
"Che ne so, magari andare a casa?!”
“Magari potevi pensare che mi sarei schifato a vederlo lì?"
"Era un importante esperimento!" gli urlò contro buttando l'abito sul tavolo incasinato.
Sherlock sembrava essere davvero tornato in sé, dopo due giorni di assenza: l’uomo ambivalente che aveva imparato ad adorare in quegli anni. Che si fosse inventato tutto, che tutte le paure, i timori gli avessero fatto vedere le cose in modo distorto?
"Come osi gettare le mie cose?" gli chiese Sherlock, tra lo scandalizzato e l’iracondo.
"Non era una cosa, Sherlock, era un cadavere puzzolente. So che non abito più qui ma ho solo aiutato la signora Hudson a liberarsene prima che ci fosse un infestazione di ratti e vermi" gli fece notare con tono calmo, come se stesse parlando ad un bambino di cinque anni, invece che ad un trentenne.
"Era il mio esperimento e tu hai osato gettarlo – e lo vide porsi con portamento fiero, alzando il mento – Io non ho mai toccato le tue cose!”
"Cosa?" chiese con sguardo esageratamente allucinato, piegando la bocca in un sorrisetto di scherno. Ogni volta che lo Psicopatico diceva una delle sue bugie si metteva in quell’atteggiamento di superiorità quasi che così potesse compensare la mancanza di verità insita nelle sue affermazioni.
"Si, mai" rispose Sherlock con sguardo e tono ancora convintissimi, bugiardo come solo lui sapeva essere.
"Ah, beh, la volta in cui hai regalato ai tuoi amici barboni, senza dirmi niente, il set di cravatte che mi aveva regalato Jeanette me lo sono inventato" e per poco John non si mise a ridere ripensando a quando per caso in strada aveva visto tre delle sue costosissime cravatte indosso a quel tipo.
Il nodo alla gola era completamente svanito, risucchiato dalla compagnia di Sherlock.
Rimase un po' in silenzio poi allargando le braccia replicò con un: "Ma erano orribili, John! Erano un attentato al...!"
L'amico lo guardò con le sopracciglia alzate, mettendosi comodamente sulla poltrona, sapendo di aver vinto quella battaglia, e Sherlock alla fine ammise: "Ok, ok, hai ragione tu" e dopo aver fatto frettolosamente gesto con una mano di lasciar perdere, si mise apposto il colletto del cappotto e, mettendosi entrambe le mani in tasca, disse: "Sarà meglio che vada a cercare Mitch."
"Cosa, scusa?" fece John raddrizzandosi velocemente a sedere.
"Si, devo trovarlo" replicò avvicinandosi alla finestra e guardando di sotto.
"Dove lo hai preso, Sherlock? Non mi dire che..."
Accortosi del tono strano della voce del compare, girò lo sguardo verso di lui, puntandolo con i propri occhi poi esclamò, muovendo la testa in cerchio: "Per Dio, John, no di certo!" e mosse le mani davanti a sé a casaccio: "Non sono mica un assassino!"
"Sherlock" lo chiamò cercando di richiamarlo all'ordine ma l'uomo lo ignorò totalmente e gli fece una domanda: "Quando hai portato giù il sacco? Dove?"
"Ieri mattina..." e neanche il tempo di finire di parlare che si alzò in piedi costretto a prendere al volo il cappotto e corrergli dietro giù per le scale, a rotta di collo.



Ecco un nuovo capitoletto.
Contenti? Si, non sono andata avanti con la storia. In questo capitolo ho voluto far stare un po' insieme i nostri protagonisti, analizzare un po' il loro rapporto, dal punto di vista di John, prima della Grande Tempesta! ;)
Ringrazio Saphira Oswin Pond per aver commentato il capitolo precedente e tutti coloro che si sono presi la briga di mettere la ff tra preferite/seguite/ricordate.
Grazie mille.
Al prossimo,
Francisca

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Degenerazione ***


Una scelta difficile
Capitolo 5 - Degenerazione




©believe-in--yesterday.tumblr.com  
 
 
10 giorni prima del matrimonio…
Sherlock, appena furono rientrati a casa, sparì nella propria camera da letto con il broncio stampato a fuoco sul volto.
Ce l’aveva con lui per la storia del cadavere.
Il buonumore del suo amico, con il passare del tempo e il mancato ritrovamento della carcassa, si era fatto sempre più sottile fino a scomparire, per lasciare il posto alla modalità “incazzatura nera”.
“Sherlock, è inutile che ce l’hai con me” gli rammentò John, urlando in modo che lo sentisse anche al di là del muro.
In cambio ebbe un ritorno di strani ed assurdi rumori sordi.
L’High-Functioning Sociopath uscì dopo poco dalla stanza, camminando spedito, a grandi falcate, con indosso la sua immancabile vestaglia blu satin, che sventolava nell’aria immota dell’appartamento.
Lo vide acchiappare delle scartoffie a caso dalla grande scrivania, nell’inedito tentativo di mettere a posto quel luogo di confusione.
“Sherl…” e fece per prenderlo per la manica e l’amico, per tutta risposta, si immobilizzò all’istante neanche gli avesse sparato.
L’infantilità racchiusa in una sola persona, senza scampo, pensò John.
Però quei pensieri vennero per un istante spazzati via, quando sentì l’odore leggero dell’Eau de Cologne N°4711, il suo preferito, invadergli le narici. Era così delicato e delizioso quel profumo… bergamotto, limone, arancio, lavanda…
Dopo quel brevissimo attimo di defiance, si riprese.
“Sai che a volte sai essere davvero un bambino?” lo rimboccò, cercando di nascondere quel momento di debolezza.
Il detective non rispose alla provocazione, continuando a guardarlo immobile come la più brava delle statue viventi. Vide ad un certo punto una strana luce negli occhi di lui, un bagliore anomalo, che sparì così come era arrivato. Che anche questa volta…? No.
Sbuffò ed esclamò esasperato: “Non è colpa mia se nascondi chiavette usb dentro le braccia ammuffite di un cadavere!”
L’uomo continuava a sembrare pietrificato, non dando alcun cenno di vita che non fosse lo sbattere delle palpebre.
Avevano cercato per ore ed ore quel cadavere, in tutte le discariche intorno a Londra, ma era stato ovvio, fin dal principio, che quella ricerca doveva avere esito negativo. Ma non per Sherlock e sapeva, suo malgrado, come era fatto: quando si intestardiva come un mulo era meglio non contraddirlo e lasciare che si schiantasse.
 “No, no, ti prego, Sherlock, dimmi quante persone al mondo farebbero una idiozia del genere!”
Lo sentì brontolare qualcosa a denti stretti ma niente di più.
“Hai da dire qualcosa?” lo pungolò.
Sherlock si divincolò finalmente dalla presa e, veloce, si sdraiò sul divano, sul fianco sinistro, dandogli le spalle.
“No” borbottò e, anche se non lo poteva vedere in faccia, notò l’irritazione all’ennesima potenza scaturire dal suo tono. Ma ancora non era riuscito completamente a smuoverlo. Strano perché solitamente ci voleva così poco per farlo scattare…
“Dovrei essere io quello arrabbiato, sappilo” lo informò.
Volutamente, si buttò a peso morto sulla poltrona preferita di Sherlock ed era sicuro che anche lui, con il suo udito sviluppato, non c’avesse messo molto a capirlo.
Lo vide scattare sul divano in posizione seduta per poi restare di nuovo praticamente di gesso, guardando le pantofole che gli ricoprivano i piedi.
John più guardava quei capelli ricci, più…
Poi, quella statua psicopatica riprese vita ed, alzando lo sguardo iracondo su di lui, esclamò: “Oh God! Fuori dalla mia poltrona!”
“Cosa prego?” fece John, mettendo su una faccia da angioletto.
“Sarà meglio che ti alzi entro dieci secondi” lo minacciò, scuro in volto.
“O se no…”
Il detective rimase interdetto, gli occhi sbarrati. E balbettò qualcosa per poi fermarsi e rimanere assolutamente zitto. L’aveva spiazzato.
Solitamente John assecondava quei suoi momenti d’ira/sclero e Sherlock, dal canto suo, era abituato a poter dir qualunque cosa che John obbediva, ma doveva capire che non era più così.
Perché lo sto facendo?, si chiese John. E non seppe trovarsi risposta.
Vide il trentenne davanti a lui rinunciare al tentativo di replicare, alzandosi con un colpo di reni esagerato dalla poltrona ed andando verso il cassetto della scrivania dove teneva nascosti i cerotti alla nicotina.
Ne prese uno, se lo infilò tra i denti strappando l’involucro e, con una mossa veloce, se lo appicciò all’avambraccio con uno schiocco sonoro.
“Credi di impressionarmi, Sherlock?” e alzò un sopracciglio per rimarcare il concetto.
“Nessuno ha chiesto il tuo parere. Alzati da quella dannata poltrona!” replicò quasi urlando sul finale.
“No” rispose ancora più sicuro John, irremovibile.
“Cosa significa no?!”
“Sei in grado di risolvere ventisette equazioni differenziali al minuto e poi non sei in grado di capire il significato di una banale affermazione come questa?” lo canzonò volutamente.
Lo osservò mentre rimaneva di stucco, per l’ennesima volta e, dopo alcuni secondi, sospirare rumorosamente.
“Che ho fatto?” chiese, puntandolo alla poltrona con quel suo sguardo enigmatico ed indagatore.
Fu la volta di John di distogliere lo sguardo.
“Sei scomparso” disse con voce improvvisamente flebile.
“Non è la prima volta” gli fece notare l’altro.
L’aria si caricò di tensione e paura, paura di dire qualcosa di sbagliato, di rovinare tutto con una sola sillaba… o tre.
“Si, lo so…” balbettò John. “E’ solo che non capisco perché lo hai fatto…”
Perché era così difficile parlare di quelle cose con lui? Beh, la risposta ce l’aveva davanti al naso ed era talmente palese da far sorridere. Entrambi odiavano esporsi, mostrare i propri sentimenti, soprattutto all’altro. Inoltre non c’era mai stato nulla da giustificare nel loro rapporto. Era per quello che era stato così facile e naturale stare insieme. 
“Perché?” chiese stupito l’altro. Dal tono della voce doveva proprio non aspettarsi una domanda del genere.
Alzò lo sguardo e trovò gli occhi di Sherlock trasudare domande inespresse... e ansia.
Però la sua voce, quando prese a parlare risultò sicura e fredda: “John, siamo amici 
 e neanche più coinquilini oramai... e tu sarai sposato tra poco. E di certo non voglio ritrovarmi a dovermi giustificare con te per quello che faccio.”
Detto ciò, lo vide andare verso la camera e, dopo pochi minuti, uscirne vestito di tutto punto: “Salutami Mary.”
Lo osservò sbalordito, mentre si avviava alla porta dell'appartamento.
Stava per chiudersela alle spalle quando lo vide girarsi lievemente e guardarlo freddo: “Al mio ritorno non voglio più ritrovarti qui.”
Detto così, chinò lievemente la testa in segno di saluto e si sbatté definitivamente la porta alle spalle.
Il silenzio che ne seguì fu assordante.



Scusate tantissimo per l'attesa!
Sono imperdonabile, lo so.
E' solo che ho avuto sia creato che partecipato a dei concorsi e non ho trovato tempo di continuare questa bella long.
Spero il capitolo sia di vostro gradimento, anche se un po' cortino. Volevo continuarlo solo che mi sembrava bello farlo finire così.
Si, sono una infame. Non c'è bisogno che me lo urliate contro perché lo sappia.
Ringrazio chi ha messo/metterà questa storia tra le preferite/seguite/ricordate! Baci,
FranciscaMalfoy

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Ritorno da te ***


Una scelta difficile
Capitolo 6 - Ritorno da te


Sto perdendo la ragione, sto perdendo la ragione, sto perdendo la ragione.
Questa litania continuò a ripetersi mentalmente mentre usciva trafelato con la testa tra le mani dall’appartamento di Baker Street.
Provò con tutte le forze a calmarsi, a rientrare da quello stato mentale, ma sembrava che non ci fosse modo di uscirne.
Da un lato il caos gli attanagliava la mente, dall’altra la paura gli rodeva il cuore.
Sherlock non solo aveva eluso il suo più grande interrogativo – quello per cui era rimasto rinchiuso in quei cinquanta metri quadri per tre giorni - ma aveva chiaramente espresso il desiderio – sotto forma di ordine (e prima ancora di azione) – di non volerlo vedere più.
Quella sua uscita scenica l’aveva sconvolto più di quanto avesse mai potuto immaginare.
Sul momento era rimasto quasi intontito, come se non potesse credere a quello che lui aveva detto e fatto. Poi avevano iniziato a punzecchiargli pericolosamente di occhi e si era ritrovato sbalzato in men che non si dica sull’orlo di un pianto. Ma fortunatamente era riuscito a tenere a freno l’enorme fiume di lacrime tramite la diga dei suoi occhi, stringendo le mani a pugno: aveva già patito troppo per lui, non voleva – e non poteva - continuare a quella maniera.
E dopo quella fase si era susseguita quella della rabbia e si era ritrovato a prendere a calci il tavolino e a strappare le riviste di Sherlock.
Ripensando a quello scatto d’ira improvviso gli venne quasi da ridere, dato che gli ritornò alla mente una scena ridicola di quei programmi che guarda Miss Hudson, dove ci sono queste primedonne, intente in scenate teatrali per la conquista del proprio uomo.
Che lui fosse diventato caratterialmente una donna isterica, un uomo senza palle a forza di stare dietro a Sherlock, a forza di compiacerlo?
Quel pensiero non lo fece poi così ridere.
Si incanalò in una vietta laterale scura, lercia e stretta, e lasciò che la nebbia che gli offuscava il flusso dei pensieri si diradasse.
Respirò, cercando di mettere a freno i battiti del cuore un po’ troppo accelerati.
Sono mezz’ora dopo fu in grado di staccarsi dal muro di mattoni scuri a cui si era appoggiato, un po’ più lucido, e con in mente ben chiara l’unica alternativa possibile: ritornare da Mary.
Dove sarebbe potuto andare altrimenti?
L’idea non era delle migliori, lo sapeva bene. A lei avrebbe detto la verità del perché del suo ritorno - in generale era un pessimo bugiardo, figuriamoci con lei che aveva la capacità di captare le emozioni altrui tramite un solo sguardo – e lei avrebbe sofferto, in silenzio, senza fiatare, lasciandogli il suo spazio.
Si rese conto di quanto enormemente la stava facendo soffrire, di quanto il modo in cui la stava trattando fosse profondamente ingiusto. E per chi? Sherlock Holmes, un idiota con uno stupido cappellino ridicolo quasi quanto i suoi atteggiamenti.
Non aveva molto senso, eppure lo stava facendo. Stava rovinando una bellissima relazione per una persona che era sempre stata egocentrica, incapace di vedere emotivamente al di là del proprio naso, che… diede un pugno al cassonetto della spazzatura poco vicino a lui, passandovi accanto.
Si fece male, ma non gli importò: la rabbia stava rimontando, di nuovo, e chi sa quante volte per colpa sua sarebbe successo.
Uscì dal vicolo e si avviò verso casa, la sua.
 
 
***
 
 
Bussò: non voleva coglierla di sorpresa, voleva che sapesse, almeno con qualche secondo di anticipo, grazie allo spioncino, chi si accingeva ad incontrare.
Sentì chiaramente qualcosa muoversi dietro al pesante portone e dei rumori di catenacci rimossi.
Ed eccola finalmente, in tutto il suo splendore casalingo: i jeans logori, la maglietta larga, una bandana a tirare indietro i corti capelli biondi.
“Hey” disse per prima. Sembrava sinceramente sorpresa di trovarselo davanti.
Si avventò sulle labbra della donna prima che avesse anche solo il tempo di aggiungere qualcosa, anche una sola sillaba.
Nelle sue intenzioni avrebbe dovuto trascinarla fino al letto, lasciare che i loro corpi si scontrassero, ma lei facendogli resistenza non glielo permise.
“John!” gridò una volta libera dalla sua stretta.
“Ti voglio” disse convinto, con voce dura sulla porta di casa, non curandosi dei possibili vicini che avrebbero potuto sentire.
La vide guardarlo con gli occhi quasi sgranati e la bocca socchiusa dallo stupore, per poi scoppiare improvvisamente in una risata.
E lui non poté fare a meno di chiedersi: cos’ho fatto perché oggi tutti mi ridano in faccia?
La risata durò poco, ma fu significativa di quanto John fosse incapace a sedurre una donna… o anche una carpa.
“Scu… scusami, tesoro… è che…” cercò di dire, ancora colta da alcuni attacchi di risate. “Sei buffo!”
Si sentì pizzicato nell’animo: “Buffo, addirittura?”
“No, no, non fare quella faccia, non è in senso negativo” tenne a precisare, ritornando seria.
“Immagino in che senso” e si ritrovò suo malgrado a sorridere, per la prima volta dall’inizio della giornata.
“Dai, entra playboy” disse prendendolo per una manica della giacca e trascinandolo all’interno, sbattendogli la porta dietro.
Lui la guardò, mentre lei ricambiava pienamente lo sguardo.
“Si sono un playboy!” e imitò le pose dei culturisti. Si ritrovarono entrambi a ridere.
Era un suo brutto vizio quello di fare l’idiota nei momenti di stallo, quelli in cui non sai che dire, in cui c’è imbarazzo.
Poi il tono grave di lei nella domanda successiva lo riportò alla realtà.
“Che ci fai qua?”
Lui smise di fare il cretino e sentì le spalle incurvarglisi sotto il peso di ciò che gli stava accadendo.
La vide incamminarsi verso la cucina, senza attendere una sua risposta, e sedersi al tavolo e lui silenzioso la seguì, prendendo posto accanto a lei.
Lei lo guardava in attesa di risposte, ma stentavano ad uscirgli dalla bocca.
“Mary, è difficile per me…” iniziò.
“Ho tempo, non ti preoccupare” lo interruppe risoluta. Voleva – pretendeva – delle risposte, e non poteva darle torto.
“La situazione con Sherlock è degenerata. Abbiamo chiuso.”
Ne seguì un lungo silenzio, che nessuno dei due sembrava avere intenzione di riempire.
“Non ci posso credere” e la donna si mise una mano davanti la bocca, dopo averlo guardato allucinata.
“Già” disse lui, abbassando la testa. “Da non credere che abbia passato tutti questi anni della mia vita all’ombra di uno stronzo del genere.”
“Oh, John caro” e la mano di lei si allungò ad accarezzargli una spalla e sentì la sua compassione passare attraverso i vestiti ed arrivargli sotto pelle.
“Non mi compatire Mary, non c’è niente da compatire” disse tirandosi un po’ indietro per evitare la sensazione spiacevole che quel tocco gli procurava.
Lei riportò immediatamente la mano verso di sé: “Perdonami”
“Fanculo, Mary, fanculo.”
“Perché dici così? Sei arrabbiato con lui, con me, col mondo…”
E il suo tono diventò arrabbiato: “Sherlock sta cercando di mandarmi fuori di testa, te lo dico io. Ma non ci riuscita quel bastardetto psicopatico. No, non ci riuscirà.”
Agitò un dito davanti a sé, a casaccio, per rimarcare il concetto.
Cercò di rassicurarlo, ma non aveva capito che così gettava solo benzina sul fuoco: “Non reagire così, vedrai che le cose si sistemeranno, come sempre, non temere.”
“Sherlock pensa solo a se stesso, al suo fottuto sedere, non pensa a me, agli altri, a nessuno, perché…”
Mary sembrò quasi cercare di difendere l’uomo: “Lo sai che è così, lo ha dimostrato più di una volta…”
Le parlò quasi sopra: “Non pretendo che mi tratti da amico, ma neanche da animale domestico!”
Lei questa volta non cercò nemmeno di replicare e lasciò che si sfogasse.
“Lascia i cadaveri in cucina per giorni, vi inserisce dentro chiavette usb dentro a delle buste sigillate e pretende che nessuno lo tocchi. E’ normale? E’ normale? No, perché se è normale… beh, beh…”
Si alzò in piedi e stringendo i denti continuò, quasi rischiando di urlarle in faccia: “Io ho chiuso. Non lo voglio più vedere. Basta.”
“Non sai quello che stai dicendo” lo contraddisse lei, con voce dolce.
“Ed invece si, Mary, lo so e come!” esclamò.
“Perché ce l’hai tanto con lui?” chiese, e lui bloccò ogni movimento.
Bella domanda, davvero. Però trovò qualcosa con cui replicare.
“Sono stato ad aspettarlo tre giorni a Baker Street, preoccupato per lui, che fosse rimasto morto in qualche sparatoria… o che ne so… e ritorna e gliene va anche a lui.”
Mary alzò brevemente un sopracciglio: “Per questo ce l’hai tanto con lui?”
“Si” disse sicuro, ma in fondo al cuore sapeva che non era così.
Vide gli occhi di lei scrutare i suoi in cerca di risposte, per un tempo lunghissimo, infinito.
Poi la vide alzarsi sospirando e abbracciarlo a livello del collo, stringendolo a sé forte.
Stettero abbracciati così, senza dirsi niente, per un bel po’ e il calore placido che emanava il corpo di lei riuscì quasi a fargli dimenticare tutto il resto.

 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** E' quella definitiva, l'accendiamo? ***


Una scelta difficile
Capitolo 7 - E' quella definitiva, l'accendiamo?



Image and video hosting by TinyPic
©Valvonauta_  
 
 

A differenza di come lui aveva immaginato la serata, si ritrovò in cucina ad osservare Mary affaccendarsi tra i fornelli, tra i vapori rilassanti delle pentole. E pensò a quanto fosse affascinante poter guardare il volto leggermente accaldato di lei, mentre era presa dalle sue occupazioni casalinghe.
Lei, mentre tagliava zucchine, mondava cipolle, e maneggiava mestoli, parlava animatamente: “John, ho preso per te le ferie, e ti ho fatto sostituire dal dottor Smith, ma tra due giorni dovrai tornare allo studio altrimenti sai come reagiranno i vertici della clinica.” Un attimo di esitazione.  “Non volevo dirti niente, fino all’ultimo… ma dato che sei qua…” e la sua voce si spense e alzò lo sguardo su di lui, con evidente senso di colpa dipinto sul viso.
Licenziandomi, pensò tra sé esplicando il sottinteso con l’amaro in bocca.
Riabbassato lo sguardo, la donna prese a parlare con più calma, ma con difficoltà, quasi ogni parola le costasse una fitta alle costole: “Io sono riuscita a coprirti per una settimana, ma credimi di più…”
Possibile che sia così legata a me da sentirsi responsabile per non riuscire a permettermi di non andare a lavoro? Possibile che sia così… unica, così diversa da lui?
“Non ti preoccupare. Da domani torno a lavoro.”
La vide alzare la testa dal tagliere, coltello sollevato a mezz’aria, sorpresa come lo era stata tante volte quella serata, e rivolgergli infine un sorriso timido.
“Davvero?” chiese, ancora troppo incredula.
“Si, Mary, basta stare dietro agli psicopatici” e osservò lo sguardo di lei intristirsi, immagine speculare del proprio, con infinita certezza.
Un silenzio imbarazzato aleggiò tra loro.
Sherlock aveva questa capacità di rovinare i momenti belli, anche solo accennandovi, senza bisogno di nominarlo; strinse i pugni sul tavolo a quel pensiero.
Poi un odore pungente: “Cos'è questa puzza?”
E la vide sgranare gli occhi e urlare: “Oddio, il pollo! Il pollo!”
La vide abbandonare il coltello sul tagliere e correre verso il forno e una vampata nera ne uscì prepotentemente una volta che lo ebbe aperto frettolosamente.
La vide agitare la presina che teneva in mano per proteggersi.
Lui quasi corse verso di lei e accucciandolesi accanto cercò di scovare il pollo, che, poretto, era completamente, irrimediabilmente bruciato.
La vide agitare le mani e il volto di lei contorcersi in un espressione di esasperazione: “Sono un disastro! Un totale disastro! Oh, John, perdonami. Volevo fare… una cena romantica e tutto quello che sono riuscita a fare è far bruciare il pollo.”
Lui non poté che sorriderle, cercando di reprimere la voglia di ridere: “Beh, abbiamo ancora il soffritto di zucchine.”
“John, come fai a trovare la battuta in certi momenti?” e la vide mentre per poco si metteva a piangere.
“Sai che ti dico? Hai fatto bene ad avere dei dubbi sullo sposarmi. In fondo non sono fatta per essere una moglie, mannaggia.”
Il dolore che provò a quella dichiarazione fu inaspettatamente forte.“Hai fatto bene ad avere dei dubbi sullo sposarmi.”
Prova inconfutabile del male che le aveva procurato con la propria fuga.
“Non dire così” rispose semplicemente.
“E’ la verità, John. E non so che accidenti ti abbia fatto tornare indietro, da me.”
Si guardarono e capì dagli occhi di lei che lo sapeva perfettamente, ma il solito tatto di lei le aveva impedito di palesare una verità tanto sconcertante.
Diede vita ai propri pensieri: “Sei così dolce, Mary, così… così carina…”
Poi un soffriggere troppo sfrigolante attirò la sua attenzione questa volta. E John vide le zucchine oltre la spalla di Mary.
“Cosa stai guard…”
Si girò di scatto e anche lei vide il disastro, il secondo.
“No, no, no, no! Non è possibile!” urlò nuovamente.
Con una falcata fu dal fornello, e il fuoco in un attimo fu spento, ma un’altra impresa fu compiuta quella sera.
Prese il cucchiaio, guardò un attimo la padella crucciata, poi smosse le rondelle, ma era una cosa carbonizzata ed indefinibile, e anche quello era un processo irreversibile.
“Come sono venute le zucchine carbonizzate?” chiese John per sdrammatizzare, in uno dei suo blandi tentativi di risultare simpatico. Quello che gli mancava era l’intonazione, la maggior parte delle volte: si vedeva che non era sincero.
Lei sbuffò e lanciò il cucchiaio sul piano di cottura a casaccio, e la vide battere un piede a terra.
“Tesoro, non te la prendere a questa maniera” le raccomandò.
Si avvicinò a lei da dietro. Con due passi fu alle sue spalle; poté sentire il suo odore, un po’ troppo pungente per i suoi gusti, così diverso da quello di...
Fu un pensiero di un attimo che scomparve come fu arrivato.
Ora ho lei davanti, e il resto non importa, non deve importare, si dice.
Esitò un attimo, guardandole la linea delle spalle.
Era da tanto che non la abbracciava da dietro, che non le regalava il proprio calore… era passata una settimana, ma sembrano anni.
Le cinge i fianchi, dolcemente, con una lentezza esagerata, facendoglielo capire, dandole il modo di scappare, di evitare quel contatto in caso le fosse risultato indesiderato, ma per la gioia di John ciò non avvenne. Si lasciò abbracciare, e la sentì sciogliersi sotto il suo contatto.
Lei non era mai stata brava in cucina, ma allo stesso tempo mai sbadata.
Ma ci voleva poco per capire il perché: c’erano troppe cose da dire, troppi interrogativi in sospeso che aleggiavano per quei locali, tra di loro, c’era bisogno di parlare, di capire, di recuperare il tempo perso.
Insomma, il mangiare era l’ultimo dei pensieri.
E ora che lo avevano realizzato, non restava che focalizzarsi su di loro… forse a stomaco vuoto sarebbe riuscito ancora più facile.
 
 
9 giorni prima del matrimonio…
 
“John!”
La vide uscire dal bagno, sorridente, fasciata nell’asciugamano striminzito che le copriva a malapena le ‘zone rosse’, come le chiamava lui.
Aveva la pelle ancora imperlata di gocce d’acqua.
“Si?” disse, alzando gli occhi dal giornale.
“Allora, ti và di andare a ritirare l’abito?” chiese.
Si, già, l’abito da sposo.
Hanno fatto l’amore ieri notte, hanno parlato forsennatamente prima di darsi i sessi, come non facevano più da quando Sherlock era… una piccola fitta allo stomaco.
“Certo, amore” si affrettò a rispondere.
E’ inutile ripensare, rimuginare, rimischiare… la decisione è stata presa. E ho scelto lei.
Ho scelto la sua dolcezza, la sua tenerezza, il suo affetto incondizionato, ho scelto la sua voglia di vivere.
Mary è una donna stupenda, di una intelligenza sopra la media, perspicace, dolce, premurosa.
Perché non scegliere di amarla, perché non prometterle amore eterno, perché non passare la vita con lei, perché non abbandonarsi alla tranquillità di un matrimonio ordinario?
Ha tutto ciò che si cerca in una donna: sincerità, discrezione, schiettezza, allegria, perspicacia e tanto altro.
Lei stamane è spensierata, quasi che i demoni che la tormentavano la sera prima, i dubbi, che aveva così tanto covato – legittimi tra l’altro – e a cui aveva dato chiaramente voce, fossero svaniti con la notte, tra le pieghe del loro letto matrimoniale, mentre i loro sessi si scontravano, in modo placido e ritmico.
“Bene. Le bomboniere le avevamo già ordinate, e anche il catering e la location. Ormai è da tre mesi.” Gli saltò addosso, l’euforia in persona. “Meno male che non ho avvisato per disdire! Altrimenti sai che paciugo.”
“Già” si limitò a rispondere prima che lei lo baciasse.
“Tesoro, sbrigati, che tra mezz’ora dobbiamo essere in clinica” gli ricordò.
“Accidenti!” fece lui guardando la sveglia alla sua sinistra e saltò giù dal letto, rinchiudendosi velocemente in bagno.
Sentì l’aria vaporosa entrargli nei polmoni, e non fu una sensazione piacevole. Perché non c’erano di finestre in quel luogo asfissiante?
Respirò forte e aprì il getto d’acqua.
Si spogliò e vi si buttò velocemente sotto.
Poi d'improvviso, a disturbarlo la voce attutita di Mary dalla porta chiusa e dal getto d’acqua, quasi venisse da una dimensione parallela.
Chiuse il rubinetto: “Hai detto qualcosa?”
“John, Sherlock ti sta chiamando, che faccio?”
Sentì la voce di lei titubante, in difficoltà, perché sapeva che lo stava mettendo lui in difficoltà e non poteva fare a meno di sentirsi in colpa anche per quella comunicazione di servizio, che non poteva evitare di comunicargli con quel tono per il suo carattere così gentile ed attento al suo futuro marito.
Si sentì per un attimo mancare, al nome di lui.
Ho preso una decisione, pensò. Non posso tornare indietro.
“Rifiuta!” urlò, con la massima convinzione che poté tirare fuori dal tono di voce. Mary non rispose, ma - come al solito – fu sicuro che avesse sentito, e che avrebbe fatto quanto diceva.
Riaprì il rubinetto, questa volta al massimo, settandolo solo sull’acqua bollente.
Si rigettò sotto l'acqua, furioso. Sentì pizzicare dolosamente la carne, ma non si spostò, restò lì sotto quel getto fumante.
Cosa vuole da me, quel pazzo? Ho chiuso con lui, me lo sono ripromesso. Basta. Per me è morto e sepolto. Voleva che lo credessi morto? Beh, ora lo sto facendo. Sarà contento ora. E’ lui che mi ha cacciato, è lui che mi ha respinto.
Era così fuori di sé che - non seppe né perché né per come - prese il membro in mano ed iniziò a dimenarlo forte, quasi volesse staccarselo.
In poco tempo, con le lacrime agli occhi, venne.
Finalmente l’orgasmo che ieri sera non era riuscito a raggiungere arrivò prepotentemente, come una benedizione, a liberarlo – temporaneamente – dalle proprie angosce.


Salve, lettori affezionati. Scusate ancora una volta per il ritardo con cui mi presento sempre. Sono imperdonabile. Ma sono fatta così: giornate in cui guardo la tastiera del pc con desolazione e poi arriva la nottata in cui sono talmente ispirata che mi alzo apposta per scrivere. E questo capitolo è proprio nato così, in questo modo un po' rocambolesco, ma devo dire di esserne pienamente soddisfatta.
Comunque sia, ho voluto dare una piega particolare al nostro John, mostrandolo nelle sue debolezze - anche quelle più intime -, introducendo per la prima volta elementi legati alla sessualità esplicita (se così si possono definire). Soft porn is the way.
Mi piace questo John "smanecchiatore", sapete? ;D
Scherzi a parte, mi rendo perfettamente conto che questa scena, come già altre, rendono il mio John ben diverso dall'immagine data dal telefilm.
Che ne pensate voi?
Sono sinceramente curiosa di sentire il vostro parere in merito (soprattutto se negativo!).
In attesa di vostri feedback,
ringrazio tutti coloro che seguono/ricordano/mettono tra i preferiti questa ff o anche coloro che hanno fatto lo sforzo titanico di arrivare a leggere fino a questo capitolo,
siete stupendi, grazie,
Valvo

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2382293