A Kid

di fourty_seven
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Me, myself and my demons ***
Capitolo 2: *** Secondo giorno: sto riprendendo le vecchie abitudini ***
Capitolo 3: *** Il caffè delle cinque (ma non era il tè?) ***
Capitolo 4: *** Screaming in the rain ***
Capitolo 5: *** Nuove conoscenze ***
Capitolo 6: *** Assassini ***
Capitolo 7: *** Cene e appuntamenti ***
Capitolo 8: *** This party is getting crazy ***
Capitolo 9: *** A spasso con Jason ***
Capitolo 10: *** Dream ***
Capitolo 11: *** Scambi culturali ***
Capitolo 12: *** Kid ***



Capitolo 1
*** Me, myself and my demons ***


“Allora cosa mi racconti oggi, figliolo”.
 
Ah, dunque... Ieri notte ho avuto un altro incubo, diverso dai precedenti, anche se il tema era uguale; eravamo io e Tom in piedi nel giardino di casa mia, stavamo parlando, ma non sentivo suoni, poi all’improvviso è risuonato uno sparo e il corpo di Tom si è accasciato al suolo. Io ho abbassato lo sguardo e ho visto che in mano tenevo una pistola. Che cosa significa dottore?.
Che cosa vuoi mai che significhi; sono stato io, io ho ucciso Tom, Jen e gli altri e ogni notte i miei sogni me lo ricordano. Sarei dovuto morire là, assieme a loro; invece sono tornato.
 
“Niente di nuovo dottore, è da un po’ che non ho più incubi” rispondo.
“Stai prendendo le medicine?”.
“Certamente, anzi me ne potrebbe prescrivere un’altra scatola, le ho quasi finite”.
“Ma certo”.
Mezz’ora dopo, quando esco da quello studio, appena trovo un cestino, butto la ricetta. Prendo il primo autobus e me ne torno a casa.
Appena apro la porta, mai madre mi corre in contro per sapere come è andata dal dottore. Mi invento una storia sul momento; le dico ciò che vuole sentirsi dire, così evita di preoccuparsi per me e mi lascia in pace. Quando ho finito mi rintano in camera mia, chiudo la porta a chiave e mi sdraio sul pavimento davanti alla porta a vetri, così che il sole pomeridiano mi illumini in pieno. Poi chiudo gli occhi e cerco di recuperare il sonno arretrato. Con il pensiero che domani ritornerò a scuola dopo due anni di assenza forzata.
 
Mi sveglio a sera inoltrata, il sole sta ormai tramontando e illumina tutta la stanza di un arancione scuro, quasi rosso.
Esco il più velocemente possibile da lì, sbattendo la porta dietro di me.
Non lascio la presa sulla maniglia, finché le mani non hanno smesso di tremare.
Odio questi momenti di debolezza, ma non posso farci nulla, non è una cosa che dipende da me; non è colpa mia se qualsiasi cosa che possa ricordare il sangue umano, sangue che io ho versato abbondantemente, mi manda nel panico.
Non è colpa mia se qualunque cosa mi possa ricordare quei giorni, mi terrorizza.
Non è colpa mia.
Sì, continua a ripeterti queste stronzate, prima o poi inizierai a crederci sul serio.
È colpa tua, è SOLO colpa tua.
TU hai ucciso; TU non ti sei fatto scrupoli ad ammazzare altre persone per poter sopravvivere, quindi ora non venire qui a fare l’innocentino, che si impressiona per un nonnulla!
Hai fatto quello che hai fatto, ora accettane le conseguenze.
 
Scendo al piano di sotto e immancabilmente mia madre mi aspetta di fianco agli ultimi gradini, per vedere se stia bene.
Posso capirla; non è stato sicuramente facile per lei sapere che il proprio figlio sarebbe potuto morire in ogni istante, morire lontano da casa, in una giungla senza nome, e magari non sapere mai cosa gli fosse successo veramente.
Non è stato facile sopportare questo pensiero per più di un anno, la capisco; tuttavia dopo un paio di mesi mi ero già stufato di questa sorveglianza continua, e ora è quasi un anno, da quando sono tornato.
Le voglio bene certo, ma non la sopporto più.
È anche per cercare di tranquillizzarla, che ho deciso di tornare a scuola; per tranquillizzarla e per non averla attorno per qualche ora.
Poi c’è mio padre; per fortuna non è così tanto ossessionato come mia madre, anche se è lui ad aver insistito affinché andassi dallo psicologo almeno tre volte alla settimana, è lui che nell’ultimo anno mi ha fatto visitare da non so quanti specialisti, spendendo migliaia di dollari; tanto sono soldi suoi.
Però c’è una cosa che mi da fastidio, molto più fastidio della petulanza di mia madre, ed è il fatto che sia fiero di me. Il tipico orgoglio americano, che Tom disprezzava tanto. È fiero del fatto che io sia riuscito a contribuire alla vittoria del nostro Paese nella guerra in India; è fiero del fatto che io, un semplice ragazzo di campagna, sia riuscito a tornare a casa, mentre molti altri veterani non ci sono riusciti.
Questo non riesco a capirlo. Mi rifiuto di capirlo; lui non era là, non sa cosa sia successo, non sa cos’abbia fatto, non ha la minima idea di che cosa sia la guerra, anche se continua a riempirsene la bocca, quando parla con i suoi amici.
 
Questa sera mia madre è più agitata del solito, e ciò perché domani sarà il mio primo giorno di scuola. Sì, effettivamente è il mio primo giorno dopo due anni; ma lei si comporta come se fossi ancora bambino, che per la prima volta, il giorno dopo, va a scuola. Ci manca solo che domani mattina mi accompagni in macchina.
Io, invece, mi comporto come al solito, e questo la preoccupa ulteriormente, perché teme che mi comporti allo stesso modo anche con le altre persone, cosa che effettivamente faccio. Non vedo il motivo di fingere di essere chi in realtà non sono.
Passo tutta la cena in silenzio, come al solito, guardando il cibo nel piatto e cercando di ascoltare il meno possibile la tele. Tra le tante cose, la televisione, e soprattutto i notiziari, non li sopporto più da quando sono tornato.
Dopo cena mi rinchiudo in camera mia pronto ad affrontare un’altra nottata di incubi.
Ormai mi sono quasi convinto che i miei incubi dipendano anche dal buio; al pomeriggio, quando mi addormento sotto al sole, non mi sembra di avere incubi. Invece di notte, al buio, non ho alcuna difesa contro i miei fantasmi che puntualmente tornano a trovarmi. Certo, basterebbe dormire con una luce accesa, ma non ho la minima intenzione di far capire hai miei genitori che ho paura del buio.
 
Al mattino ovviamente mi risveglio più stanco della sera prima. Questa volta non ricordo bene i sogni che ho fatto, meglio così. Almeno non continueranno a tormentarmi anche durante il giorno.
Esco di casa appena finito di mangiare. Non ho voglia di aspettare l’autobus, vado a piedi, tanto ho tempo, e poi spero di arrivare all’ultimo secondo per evitare il più possibile quelli che saranno i miei nuovi compagni.
 
Come programmato arrivo un paio di minuti prima dell’inizio delle lezioni. Entro in classe e cerco un posto vuoto.
In realtà la scuola è iniziata già da un mese, quindi non so dove potrò trovare posto. Spero in ultima fila.
Invece ne vedo uno in terza fila, di fianco alla finestra. Senza guardare gli altri, che comunque non sono molto interessati a me, vado verso quel posto.
“Scusate, quello è libero?” chiedo ad un gruppo di ragazze, che sono sedute nei banchi attorno; quelle smettono di parlare e mi fissano sorprese, poi una di loro esclama: “Ah, tu devi essere quello nuovo!”.
Quello nuovo.
Sbuffo e faccio per andarmene, quando un’altra parla: “Ehi, ciao!”. Guardo chi ha parlato: una ragazza, non molto alta, capelli rossi, non lunghi, ma voluminosi, occhi di un verde chiaro, un viso piccolo, con una spruzzata di lentiggini sul naso. Mi ricorda qualcuno, ma non saprei dire chi.
“Ehm...”.
“Non mi riconosci?” dice ancora.
“No, purtroppo no” rispondo.
“No?! Dai! Come puoi aver dimenticato i pomeriggi che passavi a casa mia a giocare al computer!”. E capisco chi mi ricorda.
“Sarah!”. Siamo stati vicini di casa fino a sette, otto anni fa, lei aveva il computer a casa, io no, a lei non piaceva usarlo, a me sì. Risultato: passavo tutti i pomeriggi a casa sua a giocare. Poi si è trasferita in un’altra città e non l’ho più vista; e questo spiega il perché non l’ho riconosciuta subito. È alquanto diversa adesso, rispetto a sette anni fa.
“Ti sei trasferita nuovamente, non lo sapevo?”.
“Ci siamo trasferiti l’anno scorso, ma tu eri...”.
“Via” concludo io per lei.
Ovviamente la speranza che non sapesse ciò che mi è successo era quasi nulla, dopotutto sono stato per mesi e mesi su tutti i giornali e in tutti programmi televisivi. Cioè, in realtà io mi sono sempre rifiutato di farmi intervistare ma, purtroppo, per molto tempo non hanno fatto altro che parlare di me.
Ovviamente l’accenno a ciò che mi è successo ha rovinato l’atmosfera; forse perché anche le altre mi hanno riconosciuto, non importa. Fatto sta che ora si stiano tutte guardando i piedi, imbarazzate. Tutte tranne Sarah, lei è sempre stata un po’ particolare.
“Avevi chiesto se il posto fosse libero, giusto?” inizia a parlare.
“Sì”.
“Beh, in realtà sarebbe di una nostra amica, ma per qualche giorno non verrà a scuola quindi, finché non aggiungeranno un banco, è tutto tuo!” mi sorride. E io ricambio, spontaneamente.
Per qualche istante rimango sorpreso di me stesso, non saprei neanche dire quando è stata l’ultima volta in cui ho sorriso spontaneamente. Poi mi siedo al banco nell’esatto istante in cui entra il professore. Per fortuna Sarah si siede nel posto accanto al mio, perché non ho la minima intenzione di fare amicizia o, comunque, di avere un qualunque tipo di interazione con le sue amiche e, più in generale, con le altre persone presenti in questa classe.
Il professore si mette a parlare.
“Scusa, che lezione è questa?” chiedo a Sarah.
“Storia” mi risponde mentre comincia a scrivere ciò che il tipo sta dicendo. Dato che sembra abbastanza interessata mi metto ad ascoltare anch’io.
“... Attualità. Dato che ieri ho scoperto il vostro interesse per la situazione internazionale in cui è inserito il nostro paese, ho deciso di dedicare la lezione di oggi ad un avvenimento recente che ci ha coinvolti direttamente come nazione, e su cui, magari, non tutti hanno le idee chiare. Naturalmente sto parlando della guerra che ormai è stata battezzata Guerra d’India”. Ecco perfetto, ero venuto a scuola per non ricordare, invece mi tocca sentire la storia dalla bocca di un estraneo ai fatti. Speriamo solo che non dica stronzate.
“Allora, la situazione allo scoppio del conflitto era la seguente, come sapete. Da qualche anno un nuovo e agguerrito gruppo terroristico aveva fatto la sua comparsa sulla scena internazionale. Si può dire che, rispetto alla tradizione, questo gruppo sconosciuto fosse molto più pericoloso degli altri, soprattutto perché il suo scopo era agire nell’ombra, commettendo attentati, ma agendo in modo da far ricadere la responsabilità su altre cellule terroristiche”.
Fin qua è vero, quelli erano dei bastardi senza morale; facevano esplodere bombe ovunque, aeroporti, ambasciate, scuole, posti casuali, senza un apparente scopo.
“Tuttavia, alla fine si è riuscito a individuare i veri responsabili degli attentati e addirittura a trovare la loro... base operativa si può dire, insomma il luogo in cui erano nascosti i capi dell’organizzazione”, a questo punto si alza e, con una bacchetta in mano, si dirige verso il planisfero appeso dietro di lui, poi con la bacchetta indica la valle del Gange. “Si riteneva che tale posto si dovesse trovare qui, lungo la valle del Gange, in India. Tuttavia questa zona, come potete vedere, è abbastanza ampia, quindi è stato deciso di inviare anche delle squadre con il compito setacciare la zona, per avere qualche speranza in più di trovare la loro base. Contemporaneamente a ciò, assieme ad altri paesi, abbiamo dato il via ad una massiccia invasione dell’India, con lo scopo di attrarre l’attenzione dei terroristi altrove. Purtroppo l’India e altri Paesi limitrofi non hanno rispettato gli accordi internazionali stabiliti, attaccandoci, cosa che ha dato origine ad una guerra, la quale, ovviamente, ha comportato dei costi immensi, in termini di perdite umane; ma ciò era finalizzato ad una giusta causa...”.
Eccolo; ecco un altro come mio padre, ad inneggiare la guerra, la ‘Santa Guerra’ contro i popoli nemici! Guarda, guarda come gli brillano gli occhi mentre ne parla, mentre parla dei ‘nostri ragazzi’, morti per salvare la patria! Ancora qualche istante e si metterà a piangere. Invece io ancora qualche istante e andrò a prenderlo a pugni.
Mi alzo, prendo la mia roba, tanto la prossima ora dovrò cambiare aula, anche se non ho la minima idea di dove debba andare, ed esco. Nessuno osa aprire bocca, il professore evita addirittura di guardarmi, e io ricambio sbattendo il più violentemente possibile la porta. Una cortesia per un’altra.
Vado in giardino, dove si trova un albero, non ho idea di quale specie, molto grande, con rami massicci che toccano quasi il suolo. Vado verso uno di questi, lascio cadere lo zaino a terra e ci salgo sopra. Appoggio schiena e testa al tronco, mentre lascio penzolare le gambe, poi chiudo gli occhi.
 
Questa volta siamo stati fortunati, abbiamo trovato un buon posto dove fermarci, una conformazione rocciosa, in parte naturale, in parte lavorata dall’uomo; infatti tra le varie piante rampicanti si indovinano i bassorilievi e altri segni del lavoro dell’uomo. Però quello che conta è che per una notte non dovrò dormire in un riparo improvvisato. C’è una specie di “grotta” in cui tre persone possono dormire tranquillamente; inoltre tra le rocce vi è una conca abbastanza ambia di terreno in cui si può accendere un fuoco, dato che le rocce stesse nascondono il bagliore delle fiamme ad occhi indiscreti.
Almeno così mangeremo qualcosa di caldo per una volta.
Mentre gli altri accendono il fuoco e cercano qualcosa da mangiare, io mi apposto di vedetta; il primo turno tocca sempre a me. E io, purtroppo, non ho abbastanza coraggio per protestare. Sinceramente ho abbastanza paura della giungla di notte.
Come la maggior parte delle volte, mi arrampico su di un albero in modo da aver una visione quasi completa di ciò che ho attorno, soprattutto del campo.
Appoggio schiena e testa al tronco mentre lascio penzolare le gambe. Il sole sta ormai tramontando, e qua, sotto le chiome degli alberi, è già abbastanza scuro. Dato che non abbiamo più torce elettriche, e anche se ce le avessimo di sicuro non mi azzarderei mai ad accenderla, non riesco a vedere che per pochi metri attorno a me; comunque diciamo che per svolgere il mio compito mi basta ascoltare, ascoltare i suoni della giungla. Ed è una cosa in cui sono diventato abbastanza bravo, dopo tutti i mesi trascorsi in questo posto, e che, infondo, mi piace. Soprattutto perché ho inventato una specie di gioco che mi aiuta a non avere troppa paura e mi diverte molto.
Tale gioco consiste nell’immaginare che i versi degli animali che sento siano parole. In pratica mi invento conversazioni fra gli animali attorno a me, conversazioni e storie su di loro. Molto probabilmente sto andando fuori di testa. Adesso alla mia sinistra ci deve essere un gruppo di scimmie, cinque o sei vecchie comare, che passano il tempo a sparlare dietro a tutti. Soprattutto oggi sono particolarmente infastidite da una partita di football che si sta tenendo alle mie spalle da cui proviene un fracasso infernale. Si deve trattare di un’amichevole fra due squadre locali di pappagalli o, comunque, di una qualche specie di uccelli locali. Sento le urla dei tifosi imbestialiti quando viene segnato un fallo inesistente.
Molto probabilmente l’arbitro è stato comprato dagli avversari, non potete farci nulla ragazzi, così è la vita!
Intanto sotto di me passeggia un’allegra famigliola di porcellini d’India, penso che siano la madre e i suoi quattro figli; Tommy, il più piccolo, è veramente terribile, non da mai ascolto a sua madre e la settimana scorsa ha rischiato di diventare lo spuntino di un cucciolo di tigre. Per fortuna tutto è andato per il meglio.
All’improvviso vengo scosso dalle mie fantasie da un cambiamento improvviso, gli uccelli si sono zittiti, o la partita è finita, oppure qualche pericolo si è avvicinato a loro, quindi è probabile che arrivi anche qui. Tendo l’orecchio ed effettivamente sento qualcosa muoversi nel buio, qualcosa di troppo rumoroso per essere un predatore notturno. Poi dei fasci di luce compaiono sotto di me. Torce elettriche, due torce in mano a due uomini, vedo che sono armati, AK-47 o, comunque, armi simili, non me ne intendo molto. Il fatto è che sono io a non essere armato; abbiamo troppe poche munizioni e ho preferito lasciarle a chi sappia usarle bene.
Però ora è un problema. Potrebbero trovare l’accampamento in cui i ragazzi hanno già acceso il fuoco che, anche se è coperto, non è totalmente invisibile, quindi potrebbero portarci via le poche risorse che ci rimangono, dato che al momento non c’è nessuno. È probabile che siano andati a cercare acqua o cibo, contando sul fatto che li avrei avvisati immediatamente in caso di problemi. Ma non ci sono riuscito.
Ovviamente notano i bagliori rossastri e si avvicinano alle rocce. Non ho più tempo, devo inventarmi qualcosa rapidamente. Mi sto per lanciare giù dall’albero quando vedo arrivare qualcuno. È Tom e ha in mano quella che dovrebbe essere la nostra cena. Fortunatamente si accorge immediatamente dei due uomini che, d’altra parte, fanno ben poco per cercare di essere silenziosi; riesce a nascondersi dietro una roccia, nell’esatto momento in cui i due arrivano nella conca in cui è stato acceso il fuoco.
Questi cominciano a confabulare tra loro indicando i nostri zaini e le nostre armi. Io continuo ad osservare la roccia dietro cui si è nascosto Tom aspettando qualche segno, qualche segnale che mi dica cosa fare. All’improvviso si vede un bagliore, uno scintillio di una lama colpita dalla luce delle fiamme, che punta verso di me. Messaggio chiaro.
Grido più forte che posso attirando la loro attenzione su di me e Tom agisce. Con un movimento veloce e preciso taglia la gola a quello più vicino a lui; poi si avventa sull’altro cominciando a colpirlo senza dargli tempo per reagire; continua finché il corpo dell’uomo cade a terra senza vita.
 
“Ehi, stai dormendo?”. Apro gli occhi e torno alla realtà.
È giorno, attorno a me non ci sono piante tropicali ma adolescenti in pausa pranzo, e di fronte a me c’è Sarah con il suo gruppo di amiche.
“Ti sei addormentato sull’albero?” mi chiede ancora.
“Beh, non proprio. Stavo solo riposando gli occhi” rispondo.
“Sì, certo, come no!” ribatte. Ancora una volta mi scappa un sorriso involontario. Due in un giorno? Vuoi vedere che forse venire a scuola non è stata una cattiva idea?
“Hai intenzione di stare lì ancora per molto, o ti va di venire a pranzare con noi?” chiede.
“Al pomeriggio abbiamo lezione?”.
“Certo, letteratura” risponde.
“Allora penso che me ne andrò a casa” concludo. Scendo dall’albero e mi incammino, ma qualcuno mi insegue.
“Senti, mi spiace per ciò che è successo questa mattina, penso che il prof abbia parlato appositamente della... Di quell’argomento, perché appena te ne sei andato ha chiuso il discorso. Lo sanno tutti che è uno stronzo...” comincia a parlare Sarah.
“Non ti preoccupare, non sto scappando. Domani torno. È letteratura che non riesco proprio a sopportare!” dico cercando di avere un tono allegro, ma è un tentativo patetico. Comunque lei decide di non insistere.
“Okay. Allora ci vediamo domani! Tengo il posto riservato per te?”.
“Certamente, ciao!”. Ed esco dal cortile della scuola.
Vago per un po’, poi mi ritrovo nel posto che in questo ultimo anno ho frequentato di più, un piccolo parco con un laghetto artificiale. Mi vado a sedere sulla solita panchina salutando Fred, un barbone che vive qui. Siamo diventati ottimi amici, ci capiamo al volo senza nemmeno bisogno di parlare. Anche perché nessuno dei due ne ha voglia. Passo il pomeriggio così, seduto a guardare le anatre nuotare nel lago, a guardare i bambini giocare attorno a me, ad ascoltare le conversazioni dei loro genitori.
Ho una specie di coprifuoco per le sette di sera, nel senso che se non sono tornato a casa per le sette mia madre comincia ad andare fuori di testa pensando che abbia fatto chissà quale stupidata; in sostanza ha paura che mi possa buttare giù da qualche ponte, oppure sotto qualche autobus. Così cerco di essere sempre puntuale.
La serata trascorre tranquilla, cioè tranquilla per i miei standard. Poi me ne vado a dormire.

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Capitolo 2
*** Secondo giorno: sto riprendendo le vecchie abitudini ***


Non ho sentito la sveglia. È il secondo giorno che vado a scuola e già inizio a non sentire la sveglia. È proprio vero che il lupo perde il pelo ma non il vizio. Due anni fa quando si presentava una situazione come questa, cioè praticamente ogni giorno, mi scaraventavo giù dal letto, mi vestivo in un picosecondo, scendevo in cucina, afferravo una fetta di pane tostato, che avrei mangiato sull’autobus; uscivo di casa con la fetta di pane in bocca, mentre mi sistemavo lo zaino, poi correvo fino alla fermata per non perdere l’autobus.
Ora invece me ne frego. Esco lentamente dal letto, scendo tranquillamente a fare colazione, poi vado con calma a scuola.
Arrivo con quaranta minuti di ritardo. Busso e apro la porta; alla cattedra c’è una donna, che mi guarda con un’espressione omicida appena metto piede nell’aula.
“Cosa vuole?” mi chiede in modo brusco.
“Seguire la lezione?” rispondo, mentre vado al mio posto. E penso che capisca chi sono, perché la sua espressione cambia: l’ostilità cede il posto alla pietà.
“Ah, sì. Lei è lo studente appena trasferito, si accomodi” mi dice, poi riprende a parlare.
“Ce l’hai fatta, cominciavo a disperare” mi sussurra Sarah.
“Scusa, non ho sentito la sveglia”.
“Uhm, crediamoci”.
“Quella chi è?”. Lei fa uno strano sorriso: “La professoressa di letteratura”.
“No! Dimmi che è uno scherzo!”, lei scuote la testa sorridendo divertita.
“Maledizione, devo imparare a leggermi l’orario prima di venire a lezione”.
Sono costretto a sorbirmi due ore di letteratura. Una vera tortura, beh non così insopportabile come quelle là.
L’ora successiva è quella di matematica; seguo Sarah e le sue amiche che si sono presentate, anche se ho già dimenticato tutti i loro nomi.
Entriamo in un’aula completamente diversa dalla precedente; se in quella, come in ogni altra, ti sembra di essere in prigione, qui no. È luminosa, in primo luogo, così tanto luminosa, che forse converrebbe indossare degli occhiali da sole; poi è piena, ma piena, di poster, non c’è nemmeno un centimetro di parete libera. Do un’occhiata generale e capisco che l’argomento principale dei poster è matematica; ci sono scritte formule, oppure compaiono ritratti di illustri matematici del passato.
“Oh, ben arrivati miei prodi! Sopravvissuti anche oggi all’ardua sfida letterale! Complimenti!” e parte un applauso, mentre i miei compagni si mettono a ridere. Guardo chi ha parlato, e rimango di sasso. È stato il professore, di matematica ovviamente, che, ovviamente, sta seduto alla cattedra, la quale non assomiglia per nulla ad una cattedra, così come lui non assomiglia per nulla ad un professore.
Innanzitutto al momento è stravaccato su una sedia a sdraio e ha i piedi appoggiati sulla cattedra; piedi a cui sono infilati un paio di infradito, le quali si accompagnano alla camicia a fiori stile Hawaiano e ai boxer da mare; in più porta un paio di occhiali da sole e al polso ha il braccialetto di una discoteca. La cattedra invece; innanzitutto sul bordo esterno, rivolta verso la classe, c’è la tipica statuetta Hawaiana, che al posto della collana di fiori, ha al collo un cartello, con scritto: “Qui il capo sono IO”. Poi attorno a questa ci sono un po’ di pile di fogli, di natura varia; nell’angolo in basso a destra vi è una serie di bicchieri vuoti, che sicuramente NON contenevano semplice acqua e, per finire, nell’angolo in basso a sinistra c’è una pantegana impagliata, sul cui piedistallo è inciso:
 
Mr. Cheese   Born 11-04-2037   Dead 02-21-2045.
 
“Oh, e qui chi abbiamo? Una new entry?” dice alzandosi.
“Ehm... Sì” rispondo.
“Ma non sei un po’ più grande degli altri?” continua.
“Effettivamente ho perso un paio d’anni”.
“E come mai?”. Al che rimango spiazzato. Fortunatamente mi viene in aiuto Sarah: “Per principio né legge i giornali, né guarda i notiziari. Lui crede solo a ciò che vede con i suoi occhi e sente con le sue orecchie”. Ah, bene, ho idea che andremo molto d’accordo!
Gli sorrido: “Nulla di che; ho deciso di conoscere un po’ il mondo”. Poi vado a sedermi, sempre accanto a Sarah.
Devo ammettere che matematica mi è sempre piaciuta, più delle altre materie. Ma con lui è tutta un’altra storia. Le due ore passano in un lampo e quando suona la campana mi unisco anch’io alla protesta generale: nessuno ha voglia di andarsene.
“Dai ragazzi sparite, che ho voglia di tornare a casa!” ci dice, quando vede che nessuno si è ancora alzato dal proprio posto. Così la classe lentamente comincia a svuotarsi. Quando passo davanti alla cattedra, il prof mi ferma.
“Aspetta ragazzo”, lo guardo, “Mi piacerebbe ascoltare la tua storia, appena sarai pronto”, poi mi sorride e mi congeda con un gesto della mano. Io esco, un po’ sorpreso, perché non so come interpretare la sua frase.
“Non avevi detto che lui non è informato su ciò che succede nel mondo?” chiedo a Sarah, appena la raggiungo.
“Sì, è vero; ma a volte fa, o dice, cose che ti sorprendono. A volte ci da l’impressione di essere capace di leggerti l’anima” risponde. Sì, ha ragione.
Andiamo in giardino a mangiare, non fa ancora così freddo. Mangio in silenzio senza prestare attenzione a ciò che ho attorno.
“Ehi, sei con noi?” dice Sarah, scuotendomi per un braccio.
“Eh? Cosa?” dico tornando alla realtà.
“Hai sentito cosa ti ha chiesto?”.
“No, scusa ero perso nei miei pensieri”. Si mettono tutte e tre a ridere, poi un’amica di Sarah, che se non sbaglio si chiama Samantha, mi chiede: “Volevo sapere i tuoi progetti per questo fine settimana?” mi chiede dopo un po’
“Non ne ho idea, vivo abbastanza alla giornata” rispondo.
“Allora, se non ti capiteranno impegni più urgenti, sei invitato alla mia festa di compleanno!”.
“Sul serio?”.
“Sì, perché c’è qualche problema?”.
“No, nulla. Cioè mi hai un pochino sorpreso; ci conosciamo da appena un giorno”.
“Ma Sarah ti conosce da sempre e so che non sarebbe mai amica di uno psicopatico, e poi oggi è solo martedì, quindi abbiamo ancora quattro giorni per fare amicizia!” conclude sorridendo. Io faccio spallucce: “Se tu non hai problemi, ci sarò!”.
“Perfetto!” dice alzandosi dal tavolo, “Ah, non preoccuparti del regalo, non penso che tu possa permetterti ciò che vorrei avere!” aggiunge, poi scappa via, dato che non ha i miei corsi pomeridiani e i suoi stanno per iniziare.
“Sbaglio o mi ha appena dato dello straccione?” chiedo a Sarah, lei e l’altra sua amica scoppiano a ridere. “Sì, e lo farà ancora. Vuol dire che sta iniziando ad entrare in confidenza con te, quindi preparati a ricevere un trattamento simile almeno una volta al giorno!” mi spiega Sarah, poi l’altra aggiunge: “Non lo fa con cattiveria, semplicemente non ci arriva. Comunque a parte questo piccolo difetto è una bravissima persona, sempre disposta ad aiutarti”. Rimaniamo ancora qualche minuto, poi anche per noi giunge l’ora di andare a lezione.
Arriviamo nell’aula di biologia; la cara vecchia aula di biologia, con la cara vecchia Miss Witchcraft, vecchia megera. Seguo Sarah, ma vedo che il posto accanto al suo è già occupato da un altro ragazzo.
“Ah già, mi ero dimenticata di dirti che io ho un compagno fisso di laboratorio, quindi penso che dovrai...” inizia.
“Non c’è problema; inoltre qui siamo troppo vicini alla vecchia per i miei gusti”. Mi allontano, lanciando un’occhiata al tipo: capelli corti a scodella, occhiali grandi come il suo volto, apparecchio ai denti, acne ovunque, maglioncino da nonno, insomma il classico cervellone. I tipi come lui non mi sono mai stati antipatici, anzi trovo la loro compagnia interessante, soprattutto perché imparo più cose sentendoli parlare che studiando, questo perché, ovviamente, non studio. Tuttavia questo non mi fa una bella impressione; non mi piace per niente dove guarda, e soprattutto come guarda, Sarah. Però non sono affari miei, quindi tiro dritto e vado verso l’ultimo bancone, l’unico con un posto libero e, quando arrivo, capisco perché è libero. Con i gomiti appoggiati al tavolo, c’è un ragazzo di colore, ad occhio deve essere più grande di me, un bel barbone gli copre metà viso e una bella cicatrice gli attraversa l’occhio sinistro. Mi rivolge una rapida occhiata, poi torna a farsi gli affari suoi; io mi siedo, facendomi gli affari miei. Sicuramente saremo ottimi amici.
Passo, come ero abituato a fare, tutte e due le ore dormicchiando e scarabocchiando sul quaderno. Mi piacerebbe moltissimo fare biologia, ma purtroppo non la si fa! Non con lei. Dopo che una decina d’anni fa un suo studente ha rischiato la vita durante una sua ora, perché ha maneggiato sostanze che non doveva, lei ha deciso di smettere di fare laboratorio e le sue ore sono solo teoriche. In più ogni anno che passa è sempre peggio, lei ormai è così malandata da non riuscire più ad alzarsi dalla sedia, poi è quasi sorda e, a furia di urlare per sentirsi, sta perdendo la voce. Insomma le sue lezioni non sono mai riuscito a sopportarle.
Ad un certo punto mi accorgo che il “ragazzo” di fianco a me si sta studiando con molta passione il libro di biologia, lo ha quasi finito. Lancio un’occhiata al suo zaino aperto ai miei piedi e lo vedo zeppo di libri, chissà per quante ore al giorno studia. Ciò dimostra quanto le persone siano ignoranti a volte.
Appena suona la campana questo si alza ed esce di corsa, io, invece, raggiungo con calma Sarah, che è ancora seduta a chiacchierare con il tipo occhialuto. Cerco di fare più rumore possibile avvicinandomi, così da costringerli ad interrompersi.
“Ehi, come hai trovato la lezione?” mi chiede Sarah.
“Esattamente uguale a quelle che seguivo due anni fa: molto riposante”. Mi guarda un po’ incerta.
“Nel senso che come sempre ho dormito per tutte e due le ore”.
“Ah” poi sorride titubante, rivolgendo un’occhiata al suo amico, per vedere la sua reazione. L’ho messa in imbarazzo.
Okay, promemoria: smettere di essere così capra e cercare di farmi una minima cultura.
Poi il tipo, sentendosi escluso dalla conversazione, interviene. Si alza in piedi: “Devi essere quello nuovo” e mi tende la mano “Piacere io sono Richard”.
“Io no” dico, stringendola. Ritrae la mano un po’ imbarazzato, mentre io lo guardo con un sorriso, appena accennato, di scherno.
“Uhm, così ti sei seduto al banco con Jason” continua. Assumo un’espressione interrogativa e Sarah mi spiega: “Il ragazzo all’ultimo posto”.
“Ragazzo! Altro che ragazzo, quello è una bestia, basta vedere la cicatrice che ha sull’occhio” dice ancora Richard, credendosi simpatico; infatti fa anche una risatina, tanto fastidiosa. Io lo guardo serio: “Molto probabilmente è più istruito lui di te; senza dubbio è stato educato meglio, dal momento che non insulta persone che non conosce” e questo lo smonta completamente. Abbassa lo sguardo e, dopo un paio di tentativi infruttuosi, rinuncia a cercare di ribattere e se la squaglia, salutando a bassa voce Sarah.
Appena se ne è andato esclamo: “Come puoi stare nello stesso banco di quell’idiota!”, ma penso di aver detto qualcosa di sbagliato, perché lei mi guarda male.
“Di solito non è così. Comunque anche tu non ti sei sforzato molto di essere gentile!” dice seria, mentre si alza dal banco.
“E perché avrei dovuto?”.
“Mah, non saprei, forse per fare amicizia?” ribatte con tono ironico.
“Con quello? Ma neanche per idea! Te l’ho detto, mi sto chiedendo come tu abbia fatto a sopportarlo per un anno!”. La sua espressione cambia, da arrabbiata diventa triste; solleva una mano e l’appoggia sulla mia guancia: “Cosa ti è successo? Prima non eri così...”, non finisce la frase, forse perché non trova le parole adatte. Ma l’aiuto io: “Così freddo, distaccato, incurante degli altri? Semplice: sono stato in guerra”. Poi mi volto e me ne vado. Esco dalla scuola e prendo una direzione a caso.
Cammino, continuo a camminare anche se i miei occhi non vedono più l’asfalto.
 
 
Non posso, non riesco più a resistere. Eppure sembro l’unico, gli altri continuano ad andare avanti, senza guardarsi indietro, come se tutto ciò non fosse mai accaduto. Come se nessuno notasse che manca qualcuno, proprio alla mia destra; è accaduto tutto troppo in fretta, nessuno si è reso conto dell’attacco se non quando William è caduto a terra, morto. Aveva ventuno anni solo tre più di me. Era sempre ottimista, certo che saremmo riusciti ad uscire da quest’inferno, anche se è da più di un mese che vaghiamo senza meta.
Ora è morto, e sembra che nessuno se ne interessi.
Tom ordina di fermarsi, siamo abbastanza lontani dal luogo dell’imboscata e alcuni di noi sono feriti; io no, dopotutto non ho partecipato molto. Mi avvicino a Tom. “Come fate...” inizio, lui si volta a guardarmi, “Come potete continuare come se niente fosse? È appena morto un nostro compagno e sembra che non vi interessi minimamente!” esclamo.
“Cosa pretendi. Un rito funebre? Che rimaniamo qui a pregare per lui tutto il giorno?” ribatte Tom.
“No, certo che no. Però un minimo, sono l’unico che è dispiaciuto dalla sua morte!”.
“Chi lo dice. Guardati attorno”.
Faccio come dice: guardo gli altri, guardo i volti degli altri e mi accorgo che anche loro stanno soffrendo, che anche loro sentono il vuoto lasciato da Will. “Non sei l’unico. Non puoi capire quanto sia stanco, quanto tutti noi siamo stanchi, quanto vorremmo poter fermarci e piangere per lui, per lui e anche per tutti gli altri morti. Ma non possiamo. Non possiamo perché farlo significherebbe smettere di lottare per sopravvivere, e la sopravvivenza è l’unica cosa che conta in guerra, kid. Sicuramente qualcuno potrebbe criticare le mie parole, molto probabilmente qualcuno potrebbe dire che un vero uomo, un vero essere umano, lo si riconosce in situazioni come questa, perché continua comunque a mantenere intatta la sua umanità. Probabilmente è la verità, ma io ho una mia personale idea su chi sia un vero uomo. Un vero essere umano lo si riconosce dal fatto che non arriverebbe mai a compiere azioni simili, un vero uomo è colui che non muoverebbe mai guerra contro un suo simile. Noi ormai non lo siamo più e, di conseguenza, non possiamo più permetterci certi lussi”. Io rimango immobile a fissarlo, scioccato, quasi incapace di accettare le sue parole. Ma una voce, una voce flebile, che cerco di non ascoltare, mi dice che ha ragione e prima lo accetterò, più alte saranno le possibilità che io riesca tornare a casa, vivo.
 
 
Mi ritrovo davanti alla mia panchina; ci sono arrivato inconsciamente.
Perché ho ripensato a quel discorso? Per ciò che ho detto a Sarah? È vero, là ho imparato a nascondere i sentimenti, ho imparato a pensare prima di tutto alla mia sopravvivenza, mia e degli altri assieme a me. Come mi aveva insegnato Tom; solo che ora sono tornato, non sono più in mezzo ad una giungla, non devo più lottare con tutte le mie forze per sopravvivere. Perché allora continuo a comportarmi in quel modo? Perché non riesco a tornare completamente alla mia vita di prima?
Perché in realtà non sono tornato, perché in realtà io sono ancora là in mezzo a quella maledetta giungla, esattamente come due anni fa. Anzi no, esattamente no, qualcosa è cambiato: ora sono solo, ora non ho più nessuno che mi possa aiutare, dato che tutti i miei compagni sono morti.
Mi lascio cadere sulla panchina, sorridendo; le conclusioni a cui sono appena giunto sono le stesse cose che mi sono sentito dire da tutti gli psicologi da cui sono andato. Solo che io ho capito una cosa in più, cioè che in verità io non voglio tornare. Non ancora, almeno.
Passo il resto del pomeriggio a fare ciò che ho sempre fatto: guardare gli altri vivere. Verso sera, forse le cinque, compare Fred tirando un carrello pieno di cianfrusaglie. Mi saluta, poi si siede sulla panchina affianco a me.
“Come va giovanotto?” chiede.
Mi stringo nelle spalle: “Potrebbe andare meglio” rispondo.
Lui sorride e aggiunge: “Certamente, ma potrebbe andare anche peggio. Guarda me ad esempio!” esclama, poi si mette a ridere e io lo imito.
Quando finiamo rimaniamo per qualche minuto entrambi in silenzio, a fissare il nulla; poi lui si volta e mi guarda negli occhi, con un’espressione seria: “Ragazzo, non sprecare la tua vita, finché ne hai ancora una. Qualunque cosa ti sia capitata, è successa nel passato e devi riuscire a superarla, per poter tornare a vivere nel presente”.
“Forse non voglio tornare a vivere nel presente, forse voglio continuare a vivere nel passato per non dimenticare”.
“Ma io non ho detto di dimenticare. Guai a te se abbandoni il tuo passato! Senza non saresti più nulla; io ti sto consigliando di cercare di guardare oltre, oltre il tuo passato, mantenendolo comunque ben visibile di fronte a te”. Ritorno a guardare il lago. Lui mi da una pacca amichevole sulla gamba, poi aggiunge: “Pensaci mi raccomando. Rifletti bene sulle mie parole, sarò pure un barbone, ma qualcosa della vita l’ho capita”; poi si alza e afferra il suo carrello, “Ti saluto figliolo; si è fatto tardi e ho ancora un po’ di faccende da sbrigare”.
“Certo Fred, ci vediamo domani”.
“No, domani no” dice, poi si incammina.
 
Al mattino mi risveglio riposato, per la prima volta non ho avuto incubi. Così bello rilassato mi preparo per andare al scuola. Prendo addirittura l’autobus! Anche se forse non avrei dovuto farlo, dato che un gruppo di piccoli mocciosi di prima passa tutto il viaggio gridando talmente forte, che ad un certo punto l’autista si ferma in mezzo alla strada e intima loro di stare zitti, altrimenti li avrebbe fatti scendere a calci dal mezzo. Dopo la sua sfuriata i bambinetti si siedono tranquilli, mentre parte un applauso generale rivolto all’autista, che prima di sedersi al posto di guida mima un mezzo inchino.
Arrivo in classe abbastanza di buon umore. Tanto che, quando raggiungo Sarah e le sue due amiche, esordisco con un “Salve gente”, che scatena l’ilarità generale. Poi le due se ne vanno, lasciandomi solo con Sarah, che immediatamente si siede di fianco a me: “Volevo chiederti scusa per ieri, io...”, la interrompo alzando una mano: “Sono io che mi devo scusare. Mi spiace, non avrei dovuto comportarmi in quel modo”. Mi torna in mente l’ultima cosa che Fred mi ha detto ieri e mi viene un’idea. “E a proposito che ne diresti se ci vedessimo oggi pomeriggio dopo scuola per prendere un caffè?” chiedo; appena finisco di parlare le si illuminano gli occhi: “Dico che è una bellissima idea!”.
“Se vuoi possono venire anche...” dico indicando con un cenno le sue amiche.
“Samantha e Carol” mi suggerisce.
“Samantha e Carol, non mi li dimenticherò”.
“Sì, va bene, chiederò” mi risponde, anche se con un tono strano. Ma non posso indagare oltre perché entra il professore, uno degli ultimi due che non ho ancora visto.
Trascorro tranquillamente la mattinata, anche perché ho ancora matematica. Però mentre sto andando in mensa a mangiare con Sarah, ricevo una brutta notizia: al pomeriggio mi aspettano due ore di storia.
“Se vuoi posso saltarla anch’io, così ti faccio compagnia!” mi propone Sarah.
“Non se ne parla. Tu segui la lezione, non vorrei mai che i tuoi pensino che la mia compagnia ti faccia male! Non preoccuparti per me, andrò a casa a mangiare e a studiare qualcosa. Ci vediamo al solito bar per le cinque?”. Lei annuisce. Io mi volto e me ne vado. Mi incammino tranquillamente sulla strada per tornare a casa.
Non ho la minima intenzione di rivedere quel bastardo.
Sono a metà strada quando un pensiero improvviso mi attraversa la testa, un pensiero che mi fa scoppiare a ridere, così forte che mi devo fermare e appoggiami al muro di una casa per evitare di cadere a terra. Un uomo, che mi passa di fianco, si ferma preoccupato e mi chiede: “Tutto bene signore?”, io prima di vederlo bene in faccia, mi devo asciugare le lacrime dal viso, poi rispondo: “Mai stato meglio”, detto ciò mi volto e comincio a camminare verso scuola.
Non vedo il motivo per cui solo quello di storia si possa divertire.
Arrivo di proposito con un quarto d’ora di ritardo; apro la porta con un po’ di forza, faccio un passo in classe e mi fermo sbattendo i tacchi, mettendomi sull’attenti e esibendomi in un perfetto saluto militare: “BUON GIORNO SIGNORE! SCUSI IL RITARDO SIGNORE!” grido, come mi avevano insegnato a fare. E ottengo il risultato sperato: spalanca gli occhi talmente tanto, che rischiano i uscirgli dalle orbite, mentre un bellissimo colore rosso peperone gli colora la faccia. Io rimango fermo sull’attenti, per qualche istante, giusto il tempo che gli serve per riprendersi dallo stupore, poi mi intima: “Vada immediatamente al suo posto”.
“SISSIGNORE SIGNORE! SUBITO SIGNORE!” urlo ancora più forte di prima; questa volta, soprattutto perché la porta è rimasta aperta, mi ha sentito tutto il corridoio. Batto nuovamente i tacchi e mi muovo verso il mio posto con una camminata in perfetto stile militaresco.
Mi siedo, mentre lui cerca faticosamente di riprendere il filo del discorso, che ho interrotto con il mio intervento. Sarah, che sta a cercano a fatica di evitare di mettersi a ridere, mi sussurra: “Sei stato fantastico”, le sorrido, poi mi accorgo che molte altre persone mi stanno guardando, un paio mi alzano il pollice, altre mimano un applauso. Insomma ho fatto colpo.
Infatti alla fine delle due ore, quando il prof se ne va, alcuni mi si avvicinano. “Era ora che qualcuno gli facesse abbassare la cresta! Ormai era diventato insopportabile!” dice qualcuno.
“Beh, contento di essere stato utile” rispondo, mentre esco dalla classe assieme a Sarah.
Le ho promesso un caffè e non ho la minima intenzione di rimangiarmi la parola data.

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Capitolo 3
*** Il caffè delle cinque (ma non era il tè?) ***


Alle cinque esatte arriviamo di fronte al solito bar, cioè il bar che io e Sarah abbiamo sempre frequentato fin da quando eravamo bambini. Questo perché qui vicino c’è un parco in cui i nostri genitori ci portavano tutti i pomeriggi a giocare e, al ritorno, ci fermavamo sempre a prendere un gelato o un succo di frutta; poi quando siamo cresciuti, nei pomeriggi in cui non sapevamo cosa fare, finivamo sempre per venire qui a prenderci qualcosa. Insomma il proprietario del bar ci ha visti crescere.
“Chissà se Bob si ricorda ancora di noi” chiede Sarah.
“Tu non sei mai tornata qui?” le chiedo a mia volta, stupito.
Si è trasferita qui da un anno e non è mai tornata a trovare Bob, che è il proprietario del locale.
“No. Tu eri... via e io non volevo tornarci da sola” risponde un po’ imbarazzata.
“Hai ragione, dopotutto nemmeno io ci sono mai tornato da quando ti sei trasferita. Non mi sembrava giusto, questo è il nostro posto; starci da solo non ha senso” le dico, sorridendo. Poi apro la porta.
“Prego prima le signore”.
“Grazie, che gentile!”.
Entriamo e al bancone delle ordinazioni chi troviamo? Bob.
Anche se sono passati sette, forse otto anni, non è cambiato per nulla; secondo me il tempo per lui non passa, perché ha sempre, sempre, avuto quest’aspetto. Andiamo verso di lui, entrambi curiosi di sapere se ci riconoscerà.
Non ci nota subito, sta pulendo un bicchiere, ci sente solo quando siamo vicini; così alza la testa e ci guarda, vedo le sue labbra muoversi, molto probabilmente per chiederci cosa desideriamo, ma dalla bocca non esce alcun suono. Sul suo volto compare prima un’espressione interrogativa, poi viene sostituita dallo stupore.
“Ragazzi! Siete proprio voi?” esclama. Io annuisco sorridendo, mentre Sarah lo saluta nello stesso modo in cui lo salutava sempre quando eravamo piccoli e ciò spazza via gli ultimi dubbi.
“Oh per la miseria, quanto siete cresciuti!” urla ancora, mentre fa il giro attorno al bancone. Ci viene in contro e ci abbraccia.
“Quanto siete cresciuti! Eh, d'altronde il tempo passa e io invecchio” dice mentre ci scruta attentamente. Per un attimo mi sembra che un lampo di tristezza gli attraversi gli occhi quando mi guarda; ma solo per un istante, poi tornano ad essere i soliti occhi ridenti. Ovviamente anche lui sa cosa mi è successo.
“Non restiamo qua in piedi. Andiamo a sederci” e ci spinge gentilmente via dal bancone, a cui si era formata una piccola fila.
Questo è sempre stato un bar abbastanza frequentato.
“Mi sembra che hai rinnovato il locale” commenta Sarah. Effettivamente ora è un po’ diverso; prima i muri erano rivestiti di pannelli di legno scuri, lo stesso legno di cui erano fatti il bancone e i tavoli, dava l’impressione di essere un locale vecchio con un bel po’ di storia interessante alle spalle. Ora invece è tutto più colorato, più chiaro, ma secondo me meno affascinante.
“Sì, è stata un’idea di mia figlia quando ha preso le redini dell’azienda. Ha sempre detto che non avrebbe mai lavorato in un posto che assomigliava ad un ricovero per nonni, così ha dato una mano di modernità”.
“Preferivo come era prima, mi sembrava più accogliente” aggiunge Sarah e io annuisco per confermare le sue parole. Bob ci sorride, poi si ferma. Abbiamo raggiunto la fine del locale, dove un tempo c’era il nostro tavolo, il tavolo in cui ci siamo sempre seduti.
“Tuttavia, anche se mi ha fatto cambiare tutto il locale, una cosa ho voluto a tutti i costi tenerla” si sposta di lato e ci mostra cosa nascondeva.
Il nostro tavolo.
“No! Hai tenuto il nostro tavolo!” esclama Sarah. Lui annuisce sorridendo.
“Sì, non me la sentivo di buttarlo, soprattutto mentre tu non eri a casa” dice rivolgendosi a me. Poi mi da un’affettuosa pacca sulla spalla, che per poco non mi strappa un gemito di dolore. Forse non ho detto che Bob è un omone di quasi due metri e non sempre riesce a controllare la sua forza.
“Coraggio ragazzi sedetevi! Fatemi indovinare, vi porto una cioccolata con panna e una senza, giusto?”.
“Ovviamente!” esclamiamo contemporaneamente io e Sarah. Sorridendo si allontana.
Questo tavolo era il nostro preferito perché si trova proprio all’estremità del grosso finestrone che occupa la maggior parte della facciata, in questo modo una volta seduti nessuno all’esterno ci poteva vedere.
Ci sediamo uno di fronte all’altro, come usavamo fare.
“Non mi hai ancora chiesto cosa mi è successo” dice Sarah.
“In che senso?” chiedo, non capendo a cosa si riferisce.
“Beh, non ci vediamo da tantissimo tempo; non sei curioso di sapere cosa ho combinato nel frattempo?”.
“Ah, ho capito. Sì, se hai voglia di raccontarmelo ti ascolto”. Forse avrebbe preferito una risposta un po’ più sentita, perché mi sembra un tantino delusa, però comincia comunque a raccontare.
Dopo qualche minuto ritorna Bob con le nostre cioccolate, alla panna per me, senza per Sarah. Si siede anche lui a sentire la storia di Sarah. Assaggio la cioccolata; ha lo stesso identico sapore di quelle che bevevo da piccolo.
Bob e Sarah ridono per un aneddoto divertente, io li guardo e rivedo i pomeriggi di tanti anni fa, quando ci sedevamo in queste identiche posizioni a chiacchierare spensierati.
Sorrido involontariamente; Sarah mi vede: “Che hai?”. Scuoto la testa: “Nulla, tranquilla. Va avanti” le dico ancora sorridendo, poi mi appoggio allo schienale della sedia e sorrido ancora ascoltandola, felice.
Per la prima volta felice, felice di essere qui.
 
Restiamo a parlare con Bob per un paio d’ore, poi lui deve andare via e anche noi ce ne andiamo.
“Adesso che facciamo?” chiede Sarah appena usciti. Io la guardo sorridendo.
“Se vuoi posso farti vedere il mio posto preferito”.
“Sì! Sì certamente!” esclama entusiasta.
“Non pensare che sia chissà che, altrimenti potresti rimanere delusa!”.
Prendiamo un autobus e dopo una decina di minuti arriviamo al parco.
“Il tuo posto preferito è questo parco?” chiede subito.
“Non proprio; il mio posto preferito è quella panchina” le rispondo indicando la mia panchina, su cui mi siedo appena la raggiungo.
“Interessante” commenta, sedendosi anche lei; “E quindi cosa fai qui?” chiede ancora.
“Nulla di particolare, me ne sto fermo a guardare il mondo che ho attorno”.
“Per tutto il pomeriggio?”.
“Per tutto il pomeriggio tutti i pomeriggi, tranne ovviamente quando piove; per quelle occasioni ho altri posti”. Lei mi guarda in un modo strano.
“Che hai?” le chiedo.
“Mi ricordo che un tempo non eri capace di stare fermo a far nulla per più di cinque minuti, e ora passi intere giornate seduto su di una panchina?” dice in modo scherzoso.
“È vero, non sapevo star fermo; ma ho avuto fin troppe possibilità di muovermi negli ultimi tempi e ho bisogno di un po’ di immobilità” le rispondo sorridendo. Tuttavia capisce a cosa mi riferisco e cambia espressione: “Scusa, io non volevo... Ho parlato senza pensare, mi dispiace”.
Le sorrido nuovamente: “Non ti preoccupare”, lei annuisce e volta lo sguardo cominciando a fissare il centro del laghetto.
Io invece guardo lei.
Improvvisamente mi torna in mente un episodio di quando eravamo bambini. Non ricordo precisamente cosa fosse accaduto alla famiglia di Sarah, è passato troppo tempo, comunque si trattava di qualcosa di spiacevole. Mi era stato detto di non dirle nulla, ci avrebbero pensato i suoi genitori quando sarebbe stato il momento; tuttavia lei ne venne comunque a conoscenza e soprattutto venne a sapere che io ne ero a conoscenza. Ricordo ancora le parole esatte che mi disse la prima volta che ci incontrammo.
“Promettimi che d’ora in poi tra di noi non ci saranno più segreti, di nessun genere” ripeto ad alta voce le parole che mi disse allora.
Lei si volta a guardarmi sorpresa.
“Ti ricordi?” le chiedo, lei annuisce, “Allora mi sa che dovrò raccontarti un po’ di cose per mantenere fede alla promessa” dico serio.
“No, non devi. Solo se vuoi”.
Sospiro e guardo il cielo, comincia ad diventare nuvolo, probabilmente domani ci sarà brutto tempo.
Voglio? Voglio davvero confidare a qualcuno tutto ciò che ho passato? No, a qualcuno no, ma a Sarah sì.
“Ti avviso che non sarà esattamente una storia a lieto fine, altrimenti non sarei qui ora, ma là, assieme a loro”. Lei come risposta mi afferra e stringe una mano, che tenevo appoggiata sulla panchina.
“Va bene. Penso che comincerò dall’inizio” mi sistemo per stare più comodo e fisso la città in lontananza, mentre inizio a raccontare.
“Era marzo, un pomeriggio di marzo in cui i miei non c’erano e sarebbero stati via anche il giorno dopo. Io stavo studiando incredibilmente, il giorno dopo avrei avuto l’ultima possibilità per evitare di buttare all’ortiche l’intero anno, così mi ero deciso ad impegnarmi per una volta. Ma evidentemente non era destino. Qualcuno bussò alla porta e quando aprii mi ritrovai di fronte un soldato con tanto di medaglie appuntate su petto. Stava cercando mio nonno, che al tempo della guerra in Iraq era colonnello, però c’erano due problemi. Innanzitutto mio nonno era morto da qualche anno e in secondo luogo io avevo il suo stesso nome e, combinazione, siamo nati nello stesso giorno dello stesso mese. Da lì a confondersi l’anno di nascita è stato facilissimo. Risultato: erano venuti per prendermi e portarmi in una certa base militare in qualche posto mai sentito nominare. Ovviamente gli ho spiegato chiaramente la situazione, ma quando ho finito di parlare ho avuto l’impressione che non avesse ascoltato una singola parola di tutto il mio discorso. Infatti l’unica cosa che mi ha detto è stato di seguirlo. Io, non sapendo cosa fare, l’ho seguito. Quello era il periodo del bum di arruolamenti volontari e in stazione era stata allestita una postazione militare a tal fine. Siamo scesi lì e il soldato ha cominciato a spingermi tra la folla, attraverso la stazione, fino ad un binario a cui era fermo un treno pieno di persone, per lo più ragazzi. A quel punto mi ha messo in mano una cartelletta e ha detto qualcosa che si è persa nella confusione. Io ero praticamente in tilt, non capivo più nulla di ciò che mi stava succedendo, ho preso la cartelletta poi qualcuno mi ha spinto dentro al treno che, qualche istante dopo, è partito. Quando si è fermato ero in un campo militare per l’addestramento delle reclute. Anche lì ho provato in tutti i modi di spiegarmi, ma non c’è stato verso; in più il fatto che i miei non fossero raggiungibili non ha migliorato la situazione. Comunque lì ci sono rimasto solo una settimana, poi hanno fatto salire tutti su un aereo e mi sono ritrovato in un altro continente nel giro di qualche ora. A quel punto non c’è stato più nulla da fare” finisco di parlare e abbasso lo sguardo su di lei.
“E i tuoi che hanno fatto?” chiede.
“Secondo quanto mi hanno raccontato loro, appena tornati, dopo che non sono riusciti in alcun modo a contattarmi, hanno denunciato la mia scomparsa alla polizia, che ovviamente non sapeva nemmeno da dove iniziare le indagini. Sono arrivati ad ipotizzare di tutto, persino che fossi stato vittima di un ipotetico serial killer. Ci sono voluti quasi tre mesi prima che il mio nome comparisse tra le reclute inviate in India a combattere; ma ormai era troppo tardi per rintracciarmi, io e la squadra a cui ero stato assegnato risultavamo dispersi già da qualche tempo. Però questa è un’altra storia” concludo, cercando di usare un tono di voce allegro per alleggerire l’atmosfera. Lei fa un sorriso, ma è evidente che non è rimasta del tutto impassibile alle mie parole.
Mi alzo e le tendo una mano, la afferra e la tiro in piedi con troppa forza, così sbattere contro di me e per poco un cadiamo a terra. “Cretino” dice ridacchiando.
Bene, le ho fatto passare la tristezza.
“Coraggio andiamo, comincio ad avere freddo”. Poi ci incamminiamo.
La accompagno a casa sua, che si trova dall’altra parte della città rispetto alla mia, dopo di che mi incammino a piedi verso casa mia.
 
Arrivo di fronte alla porta, infilo le chiavi nella serratura, le giro e la porta si spalanca con violenza. Riesco ad evitarla per un soffio e solo perché ho dei riflessi piuttosto buoni, altrimenti mi avrebbe spaccato il setto nasale. Dalla casa esce qualcosa che mi abbraccia con forza.
Riconosco mia mamma, quasi in lacrime.
Per un attimo mi chiedo il perché di una sua reazione così esagerata, poi abbasso lo sguardo sull’orologio: un quarto alle nove.
Per la miseria, è già tanto che non ha chiamato la polizia!
“Dove diamine sei stato!” mi urla contro.
“Scusa, ero con Sarah e non mi sono accorto dell’ora” rispondo.
Lei mi guarda in modo strano: “Sa... Ah, Sarah, la nostra Sarah?”.
Io annuisco: “Sì, seguiamo gli stessi corsi” le spiego.
“Ma davvero? Bene, bene” dice, mentre rientra in casa.
Crisi scongiurata per fortuna.
“Vieni, ti ho lasciato la cena in caldo”, la seguo in cucina.
“Non ci avevo pensato. Effettivamente i suoi genitori ci erano venuti a trovare un paio di volte. Beh, a questo punto possiamo riprendere le vecchie abitudini, no?” dice, più a se stessa che a me.
Il fatto è che non solo io e Sarah eravamo grandi amici ma anche i nostri genitori; infatti praticamente tutti i sabato sera andavamo a mangiare fuori e capitava molto spesso di andare in vacanza assieme d’estate.
“Sì certo” le rispondo. Lei annuisce un paio di volte assorta, probabilmente rievocando qualche episodio passato; qualche episodio divertente, perché all’improvviso sorride, per poi uscire dalla cucina.
Finisco la cena, dopo di che  vado in camera mia.
Non ho idea di cosa fare; mi siedo sul letto e faccio scorrere lo sguardo per tutta la stanza, finché non mi cadono gli occhi sullo zaino.
Senza pensarci più di tanto mi alzo, vado verso di esso, lo apro, prendo il libro di matematica, torno sul letto, mi metto comodo e comincio a studiare.

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Capitolo 4
*** Screaming in the rain ***


“Corri! Scappa!”.
Comincio a correre accecato dalla pioggia che riesce addirittura a filtrare attraverso il fogliame. Corro nel buio della notte senza sapere dove andare, cercando solo di allontanarmi dagli spari.
Corro, inciampo in qualcosa, cado a terra, qualcuno mi risolleva.
“Via, via!” grida Tom, poi sento delle raffiche vicino a noi. Abbasso la testa e riprendo a correre.
“Qui! Da questa parte!”.
Tom mi spinge verso le voci.
Un tuono squarcia l’aria. Dopo il tuono altri colpi d’arma.
“Giù!”.
Tom mi spinge a terra, poi lui e qualcun altro cominciano a sparare contro qualcuno davanti a noi.
Un fulmine cade vicinissimo; vedo, per un istante, tre figure, poi arriva il tuono
 
 
Mi sveglio urlando.
Rimango immobile, seduto sul letto con gli occhi spalancati, mentre all’esterno infuria un violento temporale.
Mi alzo dal letto ansimando.
Ho freddo, un gelo incredibile mi invade il corpo, ma al tempo stesso sto sudando; sento le gocce di sudore colarmi dalla fronte. Me le asciugo con una manica della maglietta.
Un tuono risuona facendo vibrare i vetri delle finestre di camera mia.
Vado alla finestra: nero; non si vede altro che buio, lo stesso buio di quella volta.
Con uno scatto mi allontano dalla finestra, tremando. Ritorno nel letto, ma non riesco a prendere sonno: ad ogni lampo spalanco gli occhi, ad ogni tuono il mio corpo ha un tremito involontario.
Non riesco a stare qui.
Scendo dal letto ed esco dalla camera dirigendomi al piano inferiore. Vado in cucina prendo un bicchiere e lo riempio d’acqua.
Un lampo e un tuono fortissimo; con un grido lascio cadere il bicchiere e mi porto le mani alle orecchie, rannicchiandomi a terra.
Rimango in questa posizione per quelle che mi sembrano ore aspettando che il rombo del tuono si esaurisca, poi mi rialzo e ritorno immediatamente in camera mia. Prendo l’iPod, infilo le cuffie e faccio partire la musica a tutto volume.
Non sono mai stato così tanto contento di averlo come in questo momento.
Appoggio la testa sul cuscino e chiudo gli occhi, senza sentire più i rumori del temporale.
 
 
“La mano! Dammi la mano!” mi urla Jen.
“Non riesco!”, non riesco, non posso, se lasciassi la presa verrei trascinato via, verrei trascinato a fondo. Jen si sporge ancora di più, un’altra onda mi colpisce sommergendomi; mi ritrovo nell’oscurità, nel buio ancora più nero di quello che c’è fuori. L’acqua, quest’acqua scura e fredda mi invade la gola, mi entra nei polmoni. Urlo e quando riemergo comincio a tossire.
“Maledizione! Non ci arrivo!”.
“Via!” grida qualcuno, poi una mano afferra la mia; immediatamente lascio la presa e mi aggrappo a questa nell’esatto istante in cui un’onda mi investe. Prima vengo spinto in alto con violenza, perdo la presa sulla mano, poi cado sbattendo contro qualcosa e finisco sott’acqua
 
 
Grido. Grido mentre mi dimeno per cercare di tornare in superficie, poi apro gli occhi e mi accorgo di non essere sott’acqua, di non essere in mezzo alle acque scure di uno sconosciuto fiume indiano.
Mi metto seduto, cercando di uscire dalle coperte che si sono attorcigliate attorno al mio corpo.
Rimango per qualche minuto immobile ansimando; mi passo una mano sulla fronte è bagnata come se fossi stato veramente sott’acqua.
La pioggia e l’ululato del vento, assieme ai tuoni, sono gli unici suoni che si sentono; il temporale sembra essere diventato ancora più violento.
Provo a sdraiarmi nuovamente. Chiudo gli occhi ma i ricordi ritornano. Spalanco nuovamente gli occhi.
No, non posso continuare così; li devo affrontare.
Mi alzo dal letto e, sempre respirando a fatica, vado alla finestra e la spalanco. Una folata di vento gelido entra con violenza nella mia stanza: respiro a pieni polmoni.
Mi appoggio al davanzale e rimango immobile ad occhi chiusi mentre la pioggia, spinta dal vento, entra nella mia stanza bagnando tutto ciò che tocca.
Dopo qualche minuto apro gli occhi e scavalco il davanzale, sedendomi sulla tettoia che si trova sopra la porta di ingresso. Appoggio la testa al muro e chiudo nuovamente gli occhi, respirando a fondo la fredda aria notturna.
La pioggia ha ormai lavato via tutto il mio sudore e la mia paura; ora non temo più i tuoni, non sussulto più vedendo un lampo, ma gli aspetto, aspetto che cadano e ogni volta che li vedo, ogni volta che li sento, un pezzo di me torna a galla, un pezzo di me torna indietro
 
 
“Ragazzi guardate là!” esclama Philip indicando il cielo. Alzo lo sguardo, sul subito non vedo nulla, a parte le nuvole grigie che si stanno ammassano sopra la nostra testa, poi noto un particolare strano: qualcosa, anch’esso grigio, sta salendo dagli alberi di fronte a noi.
“Fumo. Fumo di un fuoco da campo” dice Marco.
“Probabilmente si tratta di un villaggio di nativi” continua George.
“”Sia ciò che sia, l’importante è che ci sono altre persone! Finalmente! Non ne potevo più di vedere solamente le vostre brutte facce, soprattutto la tua!” esclama ancora Philip rivolgendosi a Marco, che gli risponde con un pugno sulla spalla.
“Coraggio continuiamo. Se George ha ragione, magari riusciremo a trovare un riparo sicuro per la notte” dice Tom mettendosi in marcia.
Io e Philip rispondiamo con dei versi di protesta, ma non veniamo presi in considerazione.
È da questa mattina che camminiamo senza sosta, finalmente eravamo riusciti a trovare un buon posto in cui riposare!
Invece ci dobbiamo rimettere in marcia solo dopo pochi minuti di riposo.
Rientriamo nel fitto della vegetazione, cercando di muoverci il più possibile in linea retta verso il punto da cui dovrebbe provenire il fumo.
“Speriamo di non ritrovare una situazione simile a quella della volta scorsa” dice ancora Philip, dando voce ai pensieri di tutti.
“No, non penso. Questa volta non si sente odore di bruciato” ribatte George. Io lo guardo, sconvolto dalla tranquillità con cui ha parlato. Come può non essere rimasto scioccato da quell’esperienza!?
“Ehi tu! No! Aspetta!” dice Tom ad alta voce, poi fa un paio di passi di corsa prima di fermarsi.
“Che succede?” chiede Jen.
“Un ragazzino, c’era un ragazzino ma è corso via”.
“Sicuro?” chiede ancora Phil, Tom in risposta lo incenerisce con lo sguardo.
“Okay, scusa! Non volevo mettere in dubbio la tua parola, volevo solo...”.
“Se hai visto un bambino, allora è quasi sicuro che il fumo provenga da un villaggio qui vicino” constata George.
“Allora forza, in marcia” e riprendiamo nuovamente a camminare.
Non dobbiamo fare molta strada prima di scoprire la fonte del fumo e il luogo di provenienza del bambino.
Infatti dopo pochi minuti gli alberi si diradano nuovamente e ci ritroviamo in una radura, più grande della precedente, al cui centro si trova un gruppo di persone intente a discutere fra loro.
Mi guardo velocemente attorno: ai lati della radura sono state costruite delle capanne, ne conto una decina, mentre al centro, non molto distante dal gruppo di persone, c’è un grande fuoco: l’origine del fumo che abbiamo visto.
Prima di essere notati passa qualche istante, durante il quale noi avanziamo di qualche passo. E forse sbagliamo, perché quando ci vedono siamo piuttosto vicini e non sembrano gradire la cosa.
Gli uomini scattano in avanti, alcuni con in mano delle armi, altri senza, e si piazzano di fronte a noi, mentre le donne e i bambini si riparano dietro di loro.
“Calma” dice Tom, mentre lentamente alza le mani e lascia cadere a terra il fucile.
“Calma, non vogliamo farvi del male” dopodiché si volta verso di noi e facciamo cadere a terra tutte le nostre armi per poi alzare le mani sopra la nostra testa.
“Eravamo nei dintorni e abbiamo visto uno dei vostri bambini, così lo abbiamo seguito” continua Tom, con un tono di voce calmo e rassicurante.
Non credo che capiscano ciò che sta dicendo, ma penso che l’importante sia non spaventarli.
“Americani?” chiede qualcuno all’improvviso, qualcuno nascosto dietro la fila di uomini.
“Conoscono la nostra lingua!?” esclama stupito Phil.
“Solo io, ma poco” fa ancora la voce, poi dallo schieramento emerge un ragazzo, non molto più piccolo di me.
“Cosa fate...” e indica il suo villaggio.
“Come ho detto, stavamo passando vicino a questo villaggio quando...”.
“Non siete venuti per portarci via?” chiede con un tono quasi di sorpresa.
“No, certo che no! Perché dovremmo?” esclama Jen, al che il ragazzo si rilassa e si rivolge brevemente agli altri abitanti i quali, a loro volta, abbassano le armi e ci vengono in contro sorridenti.
“Che cambiamento!” esclama Phil sottovoce.
“Se hanno reagito in quel modo, una ragione c’è sicuramente” gli risponde Marco che si china a raccogliere la sua arma, per poi incamminarsi assieme agli altri.
 
Queste persone si rivelano molto, molto più gentili e accoglienti di quanto potessimo immaginare.
Ci fanno sedere acconto al fuoco assieme a loro e condividono con noi la loro cena che, tranne qualche eccezione del tipo larve di insetti, si rivela ottima, soprattutto perché non consumo un pasto caldo da giorni.
Mentre mangiamo il ragazzo ci spiega la loro situazione.
A quanto pare questo è un piccolo insediamento, ma abbastanza trafficato, soprattutto dai ribelli, cioè i tipi contro cui siamo stati mandati a combattere, i quali ogni tanto vengono a prendersi qualcuno, o uomini per farli combattere, oppure donne per un altro scopo. Anche lui era stato preso, ma è riuscito a scappare; l’americano l’ha appreso al campo dei ribelli da alcuni soldati tenuti prigionieri.
“Sei stato nel loro campo base!” esclama George, molto interessato all’argomento, appena il ragazzo lo menziona; dopotutto trovare questo campo è la nostra missione.
“Penso di sì. Non sono sicuro che sia quello più importante però”.
“In che senso?” continua George.
“Là sentivo che parlavano di altri posti come quello in cui ero io”.
“Sapresti comunque dirci dove si trova questo posto?” chiede Tom.
Il ragazzo scuote la testa: “Non molto bene, ci portavano via dentro...” e mima qualcosa, facendo il rumore di un motore.
“Dentro dei camion?” suggerisce Jen, lui le sorride.
“Sì, camion! Dentro camion, chiusi e bui, e quando sono scappato sono tornato qui dopo molto girare senza sapere dove andavo”.
“E ti pareva!” esclama Phil, immediatamente Jen gli rivolge un’occhiataccia, mentre Marco gli da una gomitata nel fianco. Il ragazzo lo guarda e poi parla ancora: “Però mi ricordo che vedevo le montagne da lì perché era in alto, sopra gli alberi” e mentre lo dice indica una direzione alle nostre spalle.
George lo guarda interessato: “Montagne? Ci sono delle montagne alle nostre spalle?”.
Il ragazzo annuisce, ma sembra un po’ titubante.
“Sì, ma montagne basse, non ricordo come le chiamate voi”  dice un po’ imbarazzato.
“Ne sei sicuro?” chiede ancora George. Lui annuisce convinto questa volta. George guarda Tom, che ricambia lo sguardo.
“Sì, finalmente abbiamo uno straccio di indizio su dove andare” commenta Tom. A queste parole io, Phil e Marco scattiamo all’unisono.
“Aspetta un attimo...”
“Vuoi dire...”
“Abbiamo trovato il nostro obbiettivo?” parliamo uno dopo l’altro.
“No, sta solo dicendo che forse abbiamo una buona probabilità di trovarlo” ci chiarisce Jen.
“Ah, mi sembrava troppo strano!” commenta Phil.
“Quindi ci  dobbiamo dirigere in quella direzione?” chiedo indicando la parte opposta rispetto a dove si dovrebbero trovare le montagne.
“Esatto ragazzo” mi risponde Tom.
Okay, ora ho capito.
“Perché state cercando quel posto?” chiede ancora il ragazzo.
“Mi spiace ma non lo possiamo dire” risponde immediatamente Phil per prenderlo in giro.
“Dobbiamo distruggerlo” risponde invece Tom. Il ragazzo annuisce, poi qualcuno del suo villaggio chiede qualcosa e lui si mette a parlare con loro, allontanandosi da noi.
Io riporto l’attenzione sul pezzo di carne che sto mangiando e lo finisco in un paio di morsi per evitare che si raffreddi troppo.
“Ehi! Piano non ingozzarti!” mi rimprovera Jen, al che Phil scoppia a ridere; io con uno spintone lo faccio cadere e lui risponde con uno scappellotto; allora io cerco di colpirlo con un pugno, ma vengo fermato ancora una volta da Jen: “Smettetela di fare i bambini!”.
Immediatamente mi fermo, Phil ridacchia ancora e mi dice: “Ubbidisci alla mammina!”.
“Guarda che ce l’ho anche con te!” gli dice Jen fulminandolo con lo sguardo. Io lo guardo sorridente e gli faccio una linguaccia; lui sbuffa, poi si sdraia con le braccia dietro la testa. Jen intanto ha ripreso a parlare con Tom.
Praticamente Jen mi ha adottato, poiché le ricordo suo fratello minore, che avrebbe la mia stessa età, se fosse ancora vivo. Erano orfani e sono stati adottati da una famiglia a cui non importava molto di loro, quindi lei si è sempre presa cura di suo fratello fin da bambini. Purtroppo è stato coinvolto in un incidente d’auto, assieme ai loro genitori adottivi, ed è stato l’unico a non salvarsi. Così, dal momento che ormai era maggiorenne, ha deciso di entrare nell’esercito per cambiare vita.
Io non riesco proprio e dirle di smetterla di trattarmi come se fossi lui, anche perché, e ciò mi costa molto ammetterlo, ho bisogno di un po’ di affetto. Se mi dovesse sentire Phil dire una cosa simile sarei morto, nel senso che continuerebbe a rinfacciarmelo ventiquattrore su ventiquattro, sette giorni su sette, ma è la verità.
 
Restiamo accanto al fuoco ancora per qualche ora, cercano di chiacchierare, con l’aiuto del ragazzo, con le altre persone. Poi quando diviene veramente buio gli abitanti si alzano e cominciano a dirigersi verso le rispettive abitazioni.
“Seguitemi, c’è una casa libera che potete usare per dormire” e lo seguiamo verso una capanna ai margini del villaggio.
Non è molto grande, ma dovremmo starci tutti, magari non molto comodi. Lo ringraziamo ed entriamo.
Vado in un angolo e mi preparo per dormire, gettando lo zaino per terra e ci nascondo sotto la pistola. Poi mi sdraio.
“Ehi, che hai intenzione di fare?” mi dice Phil.
“Dormire!?”.
“A sì? E chi fa il primo turno di guardia?”. Io mi metto seduto e guardo Tom.
“Dobbiamo farlo anche questa notte? Non è un posto sicuro?” chiedo. Lui annuisce: “Sì, penso di sì. Fidiamoci di questa gente”.
“Mah, se lo dici tu” ribatte Philip.
“Se vuoi stare di guardia sei libero di farlo, penso che nessuno ti fermerà” commenta Marco. Phil sbuffa ma non aggiunge altro. Io sono così stanco che mi addormento subito.
 
“Hey kid! Hey wake up!”.
Apro gli occhi assonnato e mi trovo davanti al viso quello di Tom.
“Che succede?” chiedo con la voce impastata dal sonno.
“Dobbiamo andarcene. Subito. Ci hanno avvisato che sta per arrivare un gruppo di ribelli”, mi sveglio completamente all’istante.
Mi alzo, afferro lo zaino ed esco di corsa seguendo gli altri.
Ci inoltriamo nella vegetazione guidati dal ragazzo, che si nasconde anche lui assieme a noi.
Ci porta in una zona non molto distante dal villaggio da cui si può osservare ciò che accade senza essere visti.
“Di solito arrivano da quella direzione e poi vanno via da lì” risponde ad una domanda di Tom.
“Bene. Quando se ne andranno noi li seguiremo, è il modo migliore per scoprire dov’è il loro nascondiglio”, noi annuiamo.
Mi volto a guardare ciò che succede nel villaggio. Anche se è notte si riesce a vedere, poiché hanno nuovamente acceso il fuoco al centro della radura; c’è molta agitazione, ovviamente, e mi sembra che le persone agiscano come se seguissero un copione già recitato diverse volte; tutte le donne e i bambini si posizionano al centro accanto al fuoco; invece gli uomini, dopo aver spalancato la porte di tutte le case, le raggiungono e si posizionano tutti con lo sguardo rivolto verso un punto preciso.
Non dobbiamo aspettare molto, poi comincia a riecheggiare per la giungla un rumore, un suono che fino a poco tempo fa avrei dato qualsiasi cosa per poterlo sentire nuovamente, ma che ora mi provoca solo rabbia. Qualche istante ancora e le luci dei veicoli, che stanno sopraggiungendo, bucano il buio della notte.
Dagli alberi sbucano un camion e tre jeep militari che si posizionano accanto al fuoco, ostacolando in parte la mia visuale; da questi scendono un po’ di uomini, mi sembra di contarne una ventina, tutti armati e si posizionano attorno agli abitanti. Per ultimo dal camion scende un altro uomo, non armato; rimango colpito soprattutto da come è vestito, giacca e pantaloni eleganti con una collana al collo, la noto perché cattura i riflessi del fuoco.
Scende dal camion e cammina fino al fuoco, entrando completamente nel mio campo visivo; qui rimane fermo in silenzio per qualche secondo, poi in modo molto plateale comincia a parlare rivolgendosi, suppongo, agli abitanti del villaggio. Ovviamente non capisco ciò che dice, ma dalle reazioni del ragazzo, stringe i pugni e digrigna i denti, posso immaginare il senso del discorso.
Parla per qualche minuto, poi si volta verso i suoi uomini e ordina qualcosa, penso che sia un ordine dal tono che usa. Infatti questi si dividono in piccoli gruppi e, con torce elettriche in mano, entrano nelle case.
Non so perché, ma quando entrano in quella che abbiamo occupato noi trattengo il fiato e non mi rilasso finché, dopo qualche istante, uno dei due uomini entrati esce tranquillamente. Tuttavia questo fa solo due passi poi un grido del suo compagno lo richiama dentro. Vi rimane solo pochi secondo, poi esce di corsa e si dirige verso il loro comandante, gli dice qualcosa ed entrambi tornano di corsa dentro la casa.
Non mi piace per niente il loro comportamento, e non sono l’unico dato che sento gli scatti delle sicure dei fucili dei miei compagni.
Dentro nella capanna ci rimangono qualche minuto, poi quando escono mi sembra di scorgere sulla faccia dell’uomo, fra le ombre create dal fuoco, una smorfia di piacere. Si posiziona ancora accanto a fuoco; vedo che in mano tiene un oggetto scuro, che tuttavia luccica quando viene colpito dal bagliore delle fiamme. Lo alza tenendolo solo con un dito e lo mostra a tutti gli uomini che gli stanno attorno, mentre grida qualcosa.
E quando lo vedo vengo preso dal panico.
Lentamente, incredulo, porto la mano al fianco dove c’è la fondina con la mia pistola, dove dovrebbe esserci la fondina con la mia pistola, dove c’è la fondina, ma è vuota.
“Merda la mia pistola” sussurro.
E adesso che succede? Adesso che farà quell’uomo? Ha trovato un’arma che sicuramente non si può trovare in uni sperduto villaggio in mezzo ad una giungla sconosciuta, che cosa ha intenzione di fare a queste persone?
Ottengo la risposta dal ragazzo, che dopo una frase gridata dall’uomo, scatta in avanti gridando.
Fortunatamente Jen lo ferma in tempo tappandogli la bocca con una mano, ma ormai è tardi, tardi per fare qualunque cosa.
Un soldato, che non vedo, spara; spara a qualcuno, qualcuno del villaggio e dal gruppo di persone si levano grida di disperazione. Ma mentre succede ciò, un altro soldato, il più vicino al posto in cui noi siamo nascosti, si volta nella nostra direzione, attirato dal grido del ragazzo; scruta le tenebre per qualche secondo, poi comincia ad avanzare. Mentre le grida non accennano a cessare.
Un movimento alla mia sinistra cattura la mia attenzione; mi volto e vedo che Tom si è messo in posizione per sparare, mirando al soldato, che nel frattempo si è fermato ed è tornato indietro, forse richiamato da un ordine del suo comandante.
Tom si volta velocemente verso il ragazzo; lo guardo anch’io: ha gli occhi sbarrati per il terrore e respira molto velocemente, le mani chiuse ad artigliare il terreno.
Qualunque cosa abbia in mente di fare quell’uomo non si limiterà ad uccidere una sola persona.
“Damn it!” esclama a bassa voce Tom, poi sposta il fucile, appoggia l’occhio al mirino e nell’esatto momento in cui preme il grilletto risuona un tuono.
Il soldato cade a terra senza emettere alcun suono.
Per alcuni interminabili secondi nessuno si muove, per alcuni lunghissimi secondi i soldati rimangono fermi a contemplare il loro compagno a terra senza ben capire che cosa è successo.
Poi si scatena l’inferno.
I soldati corrono a ripararsi, mentre Tom avanza allo scoperto diretto verso gli abitanti del villaggio; io lo seguo correndo il più velocemente possibile, mentre Phil e Marco ci coprono rimanendo nascosti nell’oscurità. Altri due soldati cadono a terra; poi raggiungo il camion che è il riparo più vicino. Mi schiaccio contro una ruota, aspettando l’occasione per poter arrivare alla mia pistola, che l’uomo ha fatto cadere di fianco al fuoco nel momento in cui è scappato a nascondersi.
Tom, che si è riparato anche lui dietro al camion, si affaccia e spara un’altra raffica. Dalla parte opposta rispetto a dove siamo noi risuonano altri spari e altre grida di dolore si propagano nell’aria.
Jen e George hanno attaccato alle spalle i soldati.
Approfittiamo del momento di confusione per agire; Tom scatta verso gli abitanti, che non si sono ancora mossi dalle loro posizioni, mente io corro verso la mia arma.
Mi tuffo, la afferro e rotolo via dal cono di luce creato dalle fiamme per evitare di essere troppo visibile.
Però qualcun altro ha avuto la mia stessa idea.
Quando mi fermo e alzo gli occhi, vedo l’uomo di prima acquattato dietro una delle jeep, noto che ha una pistola in mano. Anche lui mi vede, alza l’arma e sparo.
Il suo corpo cade al suolo privo di vita.
Qualcuno mi afferra alzandomi da terra e mi spinge verso gli alberi, mentre i soldati cominciano a sparaci contro.
Seguo Tom nel buio della vegetazione; corro nell’oscurità cercando di restargli vicino, mentre lui a sua volta corre cercando di non sbattere contro gli alberi. Sento il rombo dei motori dei veicoli.
Ci vogliono inseguire con quelli in mezzo alla giungla?
Alla nostra sinistra risuonano altri spari; Tom si ferma all’improvviso, mi afferra e mi spinge a sinistra. Riprendiamo a correre nella direzione degli spari.
Improvvisamente gli alberi si diradano e sbuchiamo in quello che sembra un sentiero battuto e mi accorgo che sta piovendo. Altri spari giungono da qualche parte alla nostra destra, riprendiamo a correre in quella direzione seguendo il sentiero.
All’improvviso davanti a noi si stagliano le luci dei fari di una delle jeep.
Entrambi stupiti ed accecati ci fermiamo in mezzo al sentiero, poi un lampo cade dietro di noi e riusciamo a vedere bene ciò che abbiamo davanti, soprattutto mi accorgo che sulla jeep è montata una mitragliatrice.
Tom è il primo a riprendersi, mi afferra per un braccio e grida: “Corri! Scappa!”.
Comincio a correre accecato dalla pioggia che riesce addirittura a filtrare attraverso il fogliame.
Corro nel buio della notte senza sapere dove andare, cercando solo di allontanarmi dai colpi della mitragliatrice.
Corro, inciampo in qualcosa, cado a terra, Tom mi risolleva immediatamente.
“Vai! Vai!” grida Tom, altri colpi esplodono vicino a noi. Abbasso la testa e riprendo a correre.
Sento delle voci provenire da qualche parte.
“Qui! Da questa parte!”.
Tom mi spinge verso le voci. Un tuono squarcia l’aria. Dopo il tuono altri colpi d’arma.
“Giù!” Tom mi spinge a terra, poi lui e qualcun altro cominciano a sparare contro qualcuno davanti a noi. Un fulmine cade vicinissimo, vedo per un istante tre figure, poi arriva il tuono e con il tuono il dolore.
Fortissimo alla spalla, qualcosa di incandescente mi ha colpito, scavandosi un buco nella pelle.
Grido, grido con tutto il fiato che ho.
Qualcuno, non so chi, mi parla, ma sono completamente stordito dal dolore per capire ciò che dice.
So che vengo rimesso in piedi a forza.
Mi costringo a camminare, mi costringo a muovere i piedi cercando di riprendermi dal dolore.
Attorno a me la situazione deve essere disperata; sono consapevole del fatto che la pioggia stia cadendo con forza sempre crescente, ne sono consapevole perché il suo tocco freddo allevia il dolore alla spalla.
Sono consapevole anche che siamo circondati, continuo a sentire le esplosioni delle armi, che spesso si confondono con i tuoni, ma non riesco a capire se sono gli altri che ci sparano contro o se siamo noi a sparare a loro.
So che ad un certo punto, dopo essere caduto a terra innumerevoli volte, dopo essere stato rialzato altrettante volte, qualcuno sbatte contro di me e poi mi abbraccia. Sento la voce di Jen sussurrarmi qualcosa nell’orecchio, ma, anche se è vicina, il rumore dell’acqua sovrasta ogni cosa e non riesco a capire le parole.
Altri spari di fronte a me, retrocedo, rimanendo sempre vicino a Jen. Poi però qualcuno grida, grida più forte del rumore della pioggia: “Indietro! Via correte!”.
Mi volto e mi metto a correre separandomi da Jen, da lei e da tutti gli altri.
Continuo per non so quanto tempo, poi sbatto contro qualcosa e cado a terra urtando il terreno proprio con la spalla ferita.
Mi scappa un altro grido di dolore.
Mentre sono a terra, che cerco di rialzarmi, vedo davanti a me delle luci, delle luci che puntano verso di me.
Stanno arrivando, mi hanno visto.
Questo pensiero mi attraversa la mente, ma, invece di cercare di alzarmi per scappare, mi arrendo; rimango a terra, tenendomi una mano sulla spalla ferita, a guardare le luci avvicinarsi.
Arrivano talmente vicini che io riesco a vedere le loro sagome dietro le luci delle torce, vedo le loro armi alzarsi e puntarsi verso di me. Poi un’altra sagoma sfreccia davanti a me e viene colpita al posto mio.
Il corpo cade a terra con il volto rivolto verso di me.
Riesco a vedere le labbra di Phil formare un’unica parola prima che si blocchino nell’immobilità della morte.
Go.
Con una spinta mi rimetto in piedi e comincio a correre nella direzione da cui è arrivato Phil; comincio a correre ignorando il dolore della ferita. E continuo finché non urto qualcosa, anzi qualcuno, per poi cadere in avanti, nel vuoto.
Cado in acqua, nell’acqua di un fiume in piena a causa del diluvio.
Non so come ma riesco ad afferrare qualcosa che emerge dalla superficie dell’acqua; mi ci aggrappo con tutte le mie forze e grido aiuto.
“La mano! Dammi la mano!” mi urla Jen, sporgendosi per raggiungermi.
“Non riesco!”, non riesco, non posso, se lasciassi la presa verrei trascinato via, verrei trascinato a fondo. Jen si sporge ancora di più, un’altra onda mi colpisce sommergendomi.
Mi ritrovo nell’oscurità, nel buio ancora più nero di quello che c’è fuori; l’acqua, quest’acqua scura e fredda mi invade la gola, mi entra nei polmoni.
Urlo e quando riemergo comincio a tossire.
“Maledizione! Non ci arrivo!”.
“Via!” grida qualcun altro, poi una mano afferra la mia; immediatamente lascio la presa e mi aggrappo a questa nell’esatto istante in cui un’onda mi investe. Vengo spinto in alto con violenza, perdo la presa sulla mano, poi vengo spinto in basso e sbatto la testa contro qualcosa e finisco sott’acqua.
Grido mentre affondo, grido mentre l’acqua mi invade i polmoni.
Provo a muovermi per cercare di riemergere, ma i miei arti sono immobili, pesanti e mi trascinano a fondo.
Sto per morire, sto per morire affogato e ciò non mi spaventa, non mi preoccupa.
Semplicemente chiudo gli occhi, o almeno credo di farlo, e mi abbandono all’acqua.
 
Qualcosa, come un peso, mi schiaccia il petto costringendomi ad aprire gli occhi e a respirare. Comincio a tossire, mentre sputo acqua dal naso e dalla bocca.
Un volto entra nel mio campo visivo: Jen. Allungo una mano ed è quella di Tom che la afferra.
Sono vivo, sono ancora vivo e non sono sicuro che sia ciò che veramente desidero.

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Capitolo 5
*** Nuove conoscenze ***


Apro gli occhi; il temporale è finito, ma il cielo non è ancora completamente libero dalle nubi scure; solo all’orizzonte vi è una striscia di cielo limpido e si vede il sole sorgere.
Rimango immobile a fissarlo. Anche quel giorno, quando ho ripreso conoscenza, era mattino, ma il sole purtroppo non si poteva vedere attraverso gli alberi; ma non sono sicuro che sarebbe stata una vista magnifica come questa.
Un refolo si vento mi fa rabbrividire; sono completamente zuppo e la temperatura non è esattamente la più adatta per poter restare seduto qua fuori. Mi alzo e rientro in stanza nell’esatto istante in cui mia madre apre la porta.
Ci blocchiamo entrambi; lei ferma sulla soglia, una mano sulla maniglia, io con metà corpo dentro e metà ancora fuori sulla tettoia. Restiamo fermi a fissarci per qualche istante, poi con noncuranza richiudo la finestra e vado tranquillamente verso l’armadio per prendermi dei vestiti asciutti; intanto lei non ha ancora mosso un muscolo.
Prendo i vestiti e vado verso la porta; sul volto l’espressione più serena che posso fare.
“Mamma mi faresti passare? Vorrei andarmi a fare una doccia”. Alza gli occhi verso i miei e mi fissa per qualche istante, poi scuote la testa e si sposta.
“Ma certo tesoro, vai pure!” mi risponde con una nota di isteria repressa nella voce; io esco.
Poverina, sto seriamente minando la sua sanità mentale.
Vado in bagno e mi piazzo sotto il getto dell’acqua calda rabbrividendo mentre il freddo accumulato durante la notte sparisce dalle mie membra.
All’improvviso starnutisco. Una volta, poi due, poi ancora e prima della fine della doccia il mio naso cola come una fontana.
Scendo in cucina per mangiare e ci trovo mia madre. Si volta e fa una faccia strana: “Stai bene?” chiede.
Io non capisco a che si riferisce; di solito evita di parlare di episodi come quello appena accaduto, non vuole avere niente a che fare con le mie “stranezze comportamentali”, come le definisce il mio psicologo.
“In che senso?” chiedo con una voce roca, dopodiché comincio a tossire.
“In questo senso. Ti stai ammalando?”. Scuoto la testa: “Do, ho solo preso trop-” e tossisco ancora, “Troppo freddo ieri pomeriggio”.
“Secondo me hai la febbre” e corre a prendere un termometro.
Ho la febbre, trentotto e due. Maledizione.
“Vai a sdraiarti e non muoverti” mi ordina. Io annuisco; vado sdraiarmi sul divano, non ho voglia di tornare in camera mia. Dopo qualche minuto arriva mia madre con una pastiglia di aspirina.
 
Passo tutta la mattinata sonnecchiando, solo nel tardo pomeriggio comincio a stare meglio. Verso le sei i miei escono per andare ad una cena di lavoro e io rimango a casa da solo.
Perfetto.
Chiudo gli occhi con l’intenzione di farmi un’altra bella dormita, quando suona il campanello. Mi volto verso la porta di casa, che è perfettamente visibile da dove sono; che faccio? Vado ad aprire? No, torneranno domani.
Mi sistemo meglio e chiudo nuovamente gli occhi, ma il campanello suona ancora. Sbuffo e mi alzo dal divano. Un pochino barcollante vado alla porta, la apro e vedo Sarah.
“Sarah? Che ci fai qui?” chiedo. Lei fa una faccia strana: “Che voce terribile! E che aspetto mostruoso!”.
“Grazie, molto gentile. Sono leggermente raffreddato”.
“Non lo avevo capito” dice in tono ironico. Mi sposto di lato a apro la porta.
“Entra pure se non hai paura di essere contagiata”.
“Userò una mascherina” entra e si chiude la porta alle spalle; io la precedo standole il più lontano possibile.
“Come hai fatto ad ammalarti?” chiede.
“È una lunga storia. Centra il temporale di ieri notte” dico, aspettandomi qualche domanda in più, che non arriva. Bene.
“Sei a casa da solo?”, io annuisco, “Ma ti hanno lasciato qualcosa da mangiare?”. Mi siedo sul divano.
“Penso di sì, ma sinceramente non ho molta fame”.
“Invece dovresti mangiare qualcosa” commenta seria.
“Da quando sei diventata mia mamma?”.
Lei si siede sul divano di fronte la mio, si porta una mano al volto e comincia a tamburellarsi la bocca con un dito, assumendo un’espressione pensierosa.
“Uhm, dunque... Da sempre penso” risponde e mi guarda dritto negli occhi.
Restiamo seri forse per due secondi, poi scoppiamo a ridere.
Però ha ragione.
“Allora mi dovrò preparare qualcosa” commento.
“Oppure ti posso preparare io la cena?”, io la guardo stupito.
“Sul serio, e tu?”.
“Mangio qui con te. Devo solo avvisare casa”.
E trascorriamo assieme il resto della sera. Dato che mi sento meglio mi obbliga a studiare qualcosa assieme a lei, poi ci mettiamo a guardare la tele.
Quando tornano i miei, verso mezzanotte, scopro che ci siamo entrambi addormentati davanti alla tele. Infatti veniamo svegliati da mia madre, che noto essere piacevolmente sorpresa dalla presenza di Sarah.
Si mettono a chiacchierare, poi, dopo una decina di minuti, arriva suo fratello che la riporta a casa. Mentre io vado a dormire.
 
Al mattino sono completamente guarito. Quindi mi tocca andare a scuola.
Va beh, mi divertirò per due ore durante matematica e dormirò per altre due durante biologia.
Appena arrivo in classe noto un particolare diverso dal solito. Seduta al banco, che ho occupato io per due giorni, vi è una ragazza, che potrebbe essere la legittima proprietaria.
Vado verso Sarah: “Buon giorno a tutte voi” dico; la nuova ragazza si volta subito verso di me, con un’espressione stupita.
“Sabrina lui è colui di cui stavamo parlando!” esclama allegra Samantha, al che le due si rivolgono uno sguardo complice. Sguardo che non passa inosservato nemmeno a Sarah: “La volete smettere! Come ve lo devo dire!” dice ad alta voce alle sue amiche.
“Noi non faremo più commenti del genere quando tu smetterai di passare la...” ma non finisce la frase perché Sarah le tira contro un quaderno.
“Ma come ti permetti!” le urla contro Samantha, quindi le lancia contro il suo astuccio. Io e le altre due scoppiamo a ridere.
“Asilo. Mio fratello quando litiga con i suoi amici si comporta in questo modo” commenta Carol.
“Quanti anni ha tuo fratello?” le chiedo.
“Sei, tra due mesi” e ci mettiamo ancora a ridere. Ritorniamo seri solo dopo qualche minuto.
“Lei, come penso tu abbia già capito, è Sabrina” mi dice Sarah, per evitare che le sue amiche aggiungano qualcosa.
“Adesso però dove si siede?” chiede Samantha, “C’è un banco vuoto, ma è là in fondo!” continua usando un tono di voce quasi disperato.
“Che problema c’è, un posto vale l’altro” rispondo, anche se non mi va molto l’idea di sedermi vicino ad altre persone.
“No! Tu devi stare qui, vicino a Sarah!” esclama ancora, come se fosse scioccata dalle mie parole. Io guardo Sarah che, sorridendo, mi fa segno che Samantha è po’ svitata. Poi arriva qualcuno e interrompe la conversazione.
“Ehi bellezze come ve la passate?”.
Mi volto e mi trovo davanti tre tipi. Mi mordo la lingua per evitare di mettermi a ridere: innanzitutto sono vestiti uguali, cambia solo il colore, pantaloni corti, anche se siamo in autunno, e maglietta a maniche corte, così da poter mostrare la loro abbronzatura, occhiali da sole e cappello tenuto con la visiera al contrario; per finire piercing: uno ce lo ha al naso, uno al labbro e l’altro al sopraciglio.
Mi passa un pensiero lampo: scemo, più scemo e ancora più scemo.
L’unica che li guarda è Sarah: “Lucas” dice con un tono di voce abbastanza scocciato. Uno degli altri due mi indica: “Sai chi è?” chiede a quello che penso sia Lucas il quale si volta a fissarmi. Dopo qualche secondo esclama: “Oh! Il nostro soldatino! Mi hanno detto che l’altro giorno hai fatto uno spettacolino divertente durante l’ora di storia, perché non lo rifai per me? Purtroppo me lo sono perso!”.
Mi vengono in mente tre possibili comportamenti: ignorarlo, mandarlo a quel paese o mandarlo a quel paese con un bel pugno in faccia.
Opto per la prima. E per fortuna lo faccio, poiché qualche secondo dopo si sente un “Hello everybody” segnale che è arrivato il prof.
Tutti si vanno sedere, quindi io comincio a camminare verso il banco in fondo all’aula, ma vengo fermato dal prof stesso.
“Tu!” grida indicandomi, “Qua” continua indicando un posto di fronte a lui, un posto già occupato.
“E io?” chiede il ragazzo già seduto.
“Tu là” risponde indicando il banco vuoto verso cui stavo andando.
“Perché?” chiede il poverino.
“Perché!? Qual è LA regola che vige qua dentro?”.
Il ragazzo non risponde, ma penso di essere in grado di indovinare da solo, soprattutto pensando alla statuetta che tiene sulla cattedra.
Mi siedo nel posto indicato, preparato per qualunque tipo di scherzo sadico da professore; tuttavia le due ore trascorrono tranquillamente senza strani eventi. Quindi non ho capito il perché mi abbia fatto mettere al primo banco.
Quando finiamo però noto un particolare; anche se indossa gli occhiali da sole, capisco che il prof mi sta osservando, come se si aspettasse qualcosa da me.
Io esco senza guardarlo.
“Però non puoi dire che non sia carino” sento dire da Samantha quando lei e le altre mi raggiungono. Sarah mi guarda e alza gli occhi al cielo esasperata, scommetto che non è la prima volta che è costretta ad affrontare una conversazione simile.
“Beh, è meglio di altri” le risponde Sabrina, “Ma dire che è carino mi sembra troppo!”.
“A me piace” continua imperterrita Samantha.
“Se è per questo a te piacciono molte cose che la gente normale troverebbe mostruose” commenta Carol, poi lei e Sabrina si mettono a ridere mentre Samantha guarda il soffitto con aria sognante.
“Purtroppo a Lucas interessa una persona sola” aggiunge abbassando lo sguardo su Sarah. Io rimango un attimo interdetto, poi chiedo: “Ma si sta riferendo a mister lampada abbronzante?”.
Samantha fa una faccia scioccata, mentre le altre scoppiano a ridere; “La sua è un’abbronzatura naturale! È cresciuto in California!”. Non rispondo perché Sarah mi spinge via allontanandomi da loro.
“Non ascoltarle. In questi occasioni non le sopporto proprio, penso che lo facciano apposta”.
L’aula di biologia si trova in un altro edificio, quindi per andarci dobbiamo attraversare il cortile e quando usciamo vedo nuovamente i tre tipi di prima, che stanno salendo su di un auto. Un auto che, a meno che non mi stia immaginando il cavallo nero rampante su campo giallo, è una Ferrari.
“Però il californiano non è messo male” commento e Sarah annuisce.
“Giusto per curiosità, la sua famiglia di che cos’è proprietaria?”.
“Di una concessionaria qui in zona”.
“E il figlio guida una macchina simile?!”.
“La situazione è un po’ più complicata. Mentre non c’eri sono cambiate, in peggio, un po’ di cose” non aggiunge altro e continuiamo a camminare in silenzio verso l’aula.
Appena entro mi dirigo immediatamente verso l’ultima fila e trovo ancora Jason intento a leggersi un libro. Questa volta mi saluta con un cenno del capo e io ricambio.
La vecchia, cioè la prof, ha già iniziato la lezione, ma qui in fondo la sua voce arriva poco, quindi sarei tentato di farmi una bella dormita; tuttavia prima di appoggiare la testa sul banco lancio un’occhiata a Sarah, che da qui è perfettamente visibile, e vedo che sta ridendo a qualche battuta che ha fatto il suo “compagno di banco”.
Improvvisamente cambio progetti.
“Scusa, per caso tu sai che argomento verrà trattato oggi?” chiedo a Jason.
“Penso che spiegherà il capitolo cinque” mi risponde, guardandomi come se fosse sorpreso che qualcuno gli abbia rivolto la parola.
“Okay, grazie”.
Apro lo zaino e scopro che miracolosamente qualcuno ci ha infilato dentro i libri giusti, io no di certo, dato che non ho alcun ricordo al riguardo. Comunque prendo il libro di biologia e lo apro al capitolo cinque.
Sono un sessantina di pagine e io ho due ore di tempo... se mi impegno potrei farcela.
 
Mi studio bene tutto il quinto capito, tutto, anche i trafiletti inutili.
Quando la lezione finisce vado al banco di Sarah, che sta ancora parlando con l’altro.
“Ehi ciao!” dico interrompendoli e ricevo un’occhiata poco amichevole da parte del tipo, che non ricordo più come si chiama.
“Interessante la lezione di oggi” dico ancora, entrambi mi guardano stupiti.
“Hai veramente seguito la lezione di biologia?!” esclama il tipo.
“Certamente, perché tu no?”, non risponde e abbassa lo sguardo imbarazzato.
“Comunque che programmi hai per oggi pomeriggio” chiedo a Sarah, dato che se non sbaglio non abbiamo lezioni pomeridiane.
“Ecco, in realtà io e Richard oggi pomeriggio dovremmo fare una ricerca assieme per un lavoro di biologia che dovremmo consegnare tra qualche settimana”.
“Ah, okay”. Rimaniamo tutti in silenzio per qualche secondo, poi parlo ancora: “Beh, allora io vado. Ci vediamo domani” e me ne vado.
Mi sento un po’ deluso, mi sarebbe piaciuto passare anche oggi pomeriggio con Sarah, ma pazienza, troverò qualcos’altro da fare.
Per prima cosa vado a casa a mangiare, poi, non so quale forza mistica mi spinge a farlo, provo a studiare qualcosa.
Ma mi stufo subito, così decido di farmi un giro.
Comincio a camminare verso il parco, ma all’improvviso cambio idea, non ho voglia di andarci; così prendo una strada a caso e comincio a camminare, senza prestare attenzione a dove vado.
Dopo un altro paio di svolte casuali mi ritrovo nella zona più malfamata della città.
Purtroppo, anche se non è una città molto grande, ha anche lei il suo “ghetto”; non ci sono stato molte volte, non è che sia un posto tranquillo in cui passare le giornate, anche se non si sono mai registrati livelli di criminalità come nelle grandi metropoli.
Continuo tranquillamente a camminare, ma qualcosa attira la mia attenzione: a qualche centinaio di metri vedo un paio di persone camminare molto velocemente; non ci sarebbe nulla di strano se non fosse che una tiene in mano una mazza da baseball e non sembra per nulla un giocatore di baseball.
Affretto il passo per raggiungerli, sperando di sbagliarmi sul possibile utilizzo di quella mazza.
Si sente un urlo e chissà perché non mi stupisco quando li vedo mettersi a correre.
Mi metto anch’io a correre; dopo qualche decina di metri i due girano in un vicolo e io li raggiungo dopo qualche istante.
Ciò che vedo, anche se era ciò che sospettavo, mi lascia comunque stupito.
Contando anche me, ci sono cinque persone in questo vicolo; e di queste cinque ne riconosco immediatamente una: Jason.
È in piedi, quindi sovrasta tutti di una ventina abbondante di centimetri, e accanto a lui, accasciato contro un muro, c’è un tizio, dal cui naso cola un bel po’ di sangue e non sembra essere molto cosciente.
Non ho dubbi su chi lo abbia ridotto in quello stato.
Ovviamente Jason mi vede e mi riconosce, ma non c’è tempo per un amichevole scambio di convenevoli, dato che i due tizi, che ho seguito, i quali sono verosimilmente amici di quello steso a terra, decidono di spezzare il silenzio: “Sei morto bastardo”, “Questa volta hai osato troppo” e aggiungono altre frasi delle stesso stampo, ma con un linguaggio un po’ più colorito.
Dopo averne snocciolata una decina, si decidono ad agire; quello con la mazza fa un passo in avanti, alza l’arma sopra le testa, io gli appoggio una mano sulla spalla e dico: “Ehi!”.
Sentendomi gira involontariamente la testa, per vedere chi ha parlato, e gli tiro un pugno con tutta la mia forza; barcolla in avanti, mentre il suo compare mi guarda stupito. Tuttavia rimane fermo a fissarmi solo per qualche istante, poi si lancia contro di me, ma interviene Jason.
E scoppia una bella scazzottata.
 
Alla fine i due tizi si ritirano, portandosi dietro il loro compagno svenuto.
Io penso di avere un occhio nero, mentre Jason ha un taglio in fronte, dove quello con la mazza lo ha colpito di striscio.
Mi tocco l’occhio dolorante; già questo deve essere stato il destro del biondo, i due tizi erano uno biondo e uno moro, quello moro aveva la mazza. Comunque non è tanto importante l’occhio nero, quanto invece cosa dirò a mia madre per spiegarlo.
“Grazie amico” dice Jason, appena ha ripreso fiato.
“Di nulla; anche se forse avrei dovuto aiutare gli altri due”, sorride.
“Vieni, ho qualcosa per quell’occhio” dice ancora, questa volta sorrido io, poi si incammina e lo seguo.
Attraversiamo quasi tutto il quartiere prima di fermarci di fronte ad un vecchio condominio, in cui Jason entra.
“Ah, a proposito, io so chi sei, ma tu non conosci me” dice, mentre saliamo le scale.
“In realtà ci hanno pensato i nostri compagni a presentarci, ma l’unica che ho deciso di ascoltare delle loro parole è stato il tuo nome. Per esperienza personale so che la storia della propria vita raccontata da altri non è per nulla attinente alla verità”, annuisce.
Ci fermiamo di fronte alla porta di un appartamento.
“Se ti va ho una storia da raccontarti”.
“Uhm, anch’io”.
Apre la porta ed entriamo
.

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Capitolo 6
*** Assassini ***


Entro in un bilocale abbastanza spoglio; gli unici mobili sono un tavolo circolare di legno, al centro della stanza, accompagnato da due sedie, una piccola cucina, cioè forno, fornello e frigo; mentre nell’altra stanza vi è un letto singolo, un armadio e una libreria, traboccante di libri, al cui centro è stato ricavato lo spazio per un piccolo televisore.
Andiamo nella cucina/sala da pranzo e mi fa cenno di sedermi su di una sedia. Mi accomodo mentre lui prende del ghiaccio dal congelatore, che mi passa, e uno straccio, che appoggia alla fronte per asciugarsi il sangue. Poi si siede anche lui.
“Vuoi qualcosa da bere?” chiede.
“Dell’acqua va più che bene”. Si alza nuovamente, prende due bicchieri e li riempie con l’acqua del rubinetto; li appoggia sul tavolo e si risiede nuovamente. Rimaniamo entrambi in silenzio, lui fissa fuori dall’unica finestra di questa stanza, mentre io guardo l’acqua nel mio bicchiere.
“Penso che tu sia curioso di sapere perché quei due ce l’avevano con me?” inizia a parlare.
“Più che altro sono curioso di sapere il legame fra te e il tizio che era a terra semisvenuto”, lui sposta lo sguardo su di me.
“Beh, le due cose sono collegate”.
“Su questo non avevo dubbi”. E cade ancora il silenzio tra di noi.
Vedo, capisco che si sta sforzando di tirare fuori le parole; so quanto è difficile far uscire la verità quando la si vorrebbe tenere nascosta, chiusa in una camera blindata della propria mente, lontana da tutti, poiché, dopo che l’avranno sentita, dopo che avranno visto nel profondo della nostra essenza, non ci guarderanno più come prima, non ci tratterranno più come prima; ma nei loro occhi, nei loro atteggiamenti vedremo riflessi i crimini e le colpe che abbiamo commesso e che volevamo tenere segreti.
“Hai detto che sai chi sono, presumo tu intendessi dire che conosci la mia storia” parlo io per primo questa volta; lui annuisce: “A grandi linee”.
Mi sposto sulla sedia per cercare una posizione più comoda, poi bevo un sorso d’acqua.
“Ero in India già da quasi un mese. Facevo parte di una squadra il cui compito era localizzare la base operativa nemica” smetto di parare e lo guardo.
“Questo lo so già; questa parte di storia è stata di dominio pubblico per un po’ di tempo”.
“Bene, allora posso saltare qualche passaggio”.
 
 
“Coraggio continua a camminare ragazzo” mi esorta Marco, ma io sono stanco. Odio essere debole, odio essere un peso per gli altri, ma ho raggiunto il limite. Due giorni, due giorni di cammino ininterrotto, di vagabondaggio senza meta con un unico obbiettivo: allontanarsi il più possibile dall’esercito nemico che resta sempre e comunque vicino a noi; indipendentemente dalla direzione che prendiamo alla fine troviamo loro.
L’arbusto a cui sono aggrappato si spezza, perdo la presa e cado. Ma non faccio molta strada; fortunatamente ho accanto Marco che mi afferra al volo.
“Grazie”.
“Coraggio continua”. Pochi metri e mi aggrappo alla mano di Philip che mi aiuta a raggiungere la cima del piccolo pendio, su cui sto cercando di salire.
“Non mi sempre che la situazione sia migliorata” commenta Fred.
“Già; invece di vedere i tronchi, vediamo le cime degli alberi” continua Philip.
“Dateci un taglio” dice perentorio Marco, Phil si volta e gli sorride: “Magari! Se solo avessi una motosega gigante taglierei volentieri tutte queste piante, così potremmo finalmente capire dove andare!”, poi io, lui e Fred ci mettiamo a ridere, mentre Marco, scuotendo la testa, raggiunge Tom che è più avanti, in piedi sul ciglio. Mi avvicino anch’io; effettivamente Phil ha ragione, non ci ha aiutato molto l’aver scalato questa bassa collina rocciosa, non si vede altro che alberi in ogni caso!
Tuttavia quando raggiungo il ciglio mi rendo conto che fare tutta quella fatica non è stata del tutto inutile, almeno da qua il panorama è stupendo.
Il “piccolo” pendio, che ho appena scalato, lo è solo da un lato, l’altro lato è uno strapiombo di un centinaio di metri da cui la vista può spaziare indisturbata per chilometri e chilometri, perdendosi in un mare di verde, in continuo movimento, bagnato dalla luce del sole che risplende al centro di un cielo del colore dell’oceano.
Però che poeta! Questa me la sarei dovuta segnare, non era male.
Il mio sguardo viene catturato da un particolare strano; proprio ai piedi del dirupo si vede una macchia scura in mezzo al verde brillante degli alberi; qualunque cosa sia non può essere naturale.
“Che è quello?” chiedo.
“Potrebbe essere un villaggio o un accampamento, in ogni caso al momento sembra essere vuoto” mi risponde George.
“Di che state parlando?” chiede Phil avvicinandosi anche lui, “Ah! Quello. Sì, non penso che tutti quegli alberi possano essere caduti di loro spontanea volontà, e sicuramente non avrebbero mai potuto formare uno spiazzo così regolare” aggiunge lasciandoci tutti stupiti, dato che non è da lui fare ragionamenti del genere.
“Che avete tutti da guardare! Se faccio l’idiota non vuol dire che lo sia veramente!”.
“Sarà” commenta Marco.
“Chi l’avrebbe mai detto” aggiunge Fred. Io continuo a guardare in basso: “Dobbiamo scendere a vedere di che si tratta?” chiedo.
“Direi proprio di sì” risponde George guardando Tom per avere conferma, il quale, dopo un attimo di riflessione, annuisce.
Ci rimettiamo in marcia, costeggiando il ciglio del dirupo, che digrada dolcemente verso il basso.
 
Non so di preciso quanto tempo ci impieghiamo, ma comunque non poco, dato che quando siamo arrivati il sole è sta per iniziare a tramontare.
“Okay, abbiamo avuto la conferma che si tratta di un accampamento militare e ora cosa si fa?” chiede Fred, quando ci fermiamo al limitare degli alberi che circondano l’accampamento.
“Andiamo dentro a controllare?” chiedo io guardando la palizzata che si erge attorno ad esso, nascondendo l’interno alla nostra vista.
“Sì, potremmo trovare qualcosa di utile” risponde Tom, poi si volta verso di noi: “Marco, Jen e George con me”, abbassa lo sguardo su di me: “Tu, Philip e Fred pattugliate la zona, al minimo segno di pericolo...”.
“Facciamo un fischio. Capito” completa Phil, mettendomi un braccio sulle spalle, “Coraggio ragazzi, di pattuglia!” dice allegro, poi mi spinge via.
Ci inoltriamo fra gli alberi percorrendo tre percorsi diversi per pattugliare l’area più ampia possibile attorno all’accampamento.
Dopo mezz’ora, forse, si sente un fischio; così mi volto e torno sui miei passi, fino al punto in cui Tom e gli altri sono entrati nell’accampamento. Sono l’ultimo ad arrivare e noto immediatamente un paio di zaini in più.
“...Munizioni e un paio di fucili” sta dicendo George.
“Ottimo” dice Phil, prendendo un fucile in mano; vedo che anche gli altri sono tutti armati, finalmente abbiamo qualcosa con cui difenderci.
“Oh eccoti qua!” esclama Philip appena mi vede, “Ho un regalo per te” continua alzando uno zaino da terra, “Prego è tutto tuo!” e me lo lancia. Lo prendo al volo, ma è più pesante di quanto mi aspettassi, così mi cade dalle mani. Ovviamente Phil scoppia a ridere, ma decido di ignorarlo e mi carico lo zaino sulle spalle.
Tom si avvicina, noto che in mano ha un oggetto nero; “Tieni, non abbiamo trovato altre armi e questa ha pochi colpi, usala bene” dice allungandomi una pistola. Un po’ titubante la afferro; ovviamente ho già maneggiato un’arma, ma solo durante esercitazioni; per adesso non ho mai avuto occasione di provarne una in un’esperienza reale e sinceramente mi auguro che non capiti mai quest’opportunità.
Restiamo accanto all’accampamento per altri cinque minuti, giusto il tempo che serve a Tom per riferirci ciò che hanno trovato, o meglio ciò che non hanno trovato, poiché, sebbene sia evidente che quest’accampamento venga usato, non ci sono tracce recenti della presenza di esseri umani.
Finito il resoconto ci mettiamo in cammino, ancora una volta senza una meta precisa, dato che non siamo ancora riusciti a trovare indicazioni precise sulla nostra posizione.
 
Percorriamo qualche chilometro in mezzo alla vegetazione, poi all’improvviso risuonano attorno a noi delle voci.
Immediatamente ci fermiamo, dopo qualche istante Tom ci fa segno di nasconderci da qualche parte e io seguo Fred sotto le radici di un grande albero. Restiamo in ascolto, armi in pugno, mentre le voci si avvicinano sempre di più; è evidente che non sono altri soldati americani, dato che non capisco nulla di ciò che dicono, ma c’è la speranza che siano di altre nazioni alleate, anche se mi sembra alquanto improbabile. All’improvviso scoppia una risata praticamente di fronte al nostro nascondiglio e dopo qualche istante compare un gruppo di uomini armati. Non ho più dubbi: sono i ribelli. Non ci vedono e passano oltre tranquillamente, dirigendosi, credo, verso l’accampamento che abbiamo appena lasciato. Però questi non sono gli unici, dato che si sentono altre voci un po’ più distanti; improvvisamente, tra le voci straniere, una famigliare che grida qualcosa e dopo le grida risuonano degli spari. Io e Fred abbiamo la stessa reazione; tutti i nostri muscoli si contraggono, preparandosi per scattare via. Altri spari più vicini, io esco dal nascondiglio, seguito a ruota da Fred, cominciando a correre verso di essi; ma prima di raggiungerli ci imbattiamo in altri uomini, che si stanno guardando attorno confusi con le armi in mano. Ci vedono e Fred apre il fuoco, falciandone tre prima che abbiano il tempo di reagire, poi mi spinge via e continuiamo a correre, inseguiti dai proiettili. Corro, corro e improvvisamente non ho più terra sotto i piedi; cado in avanti e inizio a rotolare giù per un pendio. Riesco a fermarmi solo quando colpisco violentemente con la schiena qualcosa di duro.
Rimango immobile, stordito, per qualche minuto; poi, quando il mondo smette di girare e il dolore alla schiena è un po’ diminuito, provo a mettermi in piedi. Un po’ barcollante faccio qualche passo, uscendo da dietro il gruppo di rocce contro cui ero andato a sbattere, e vedo due cose: Fred, vivo ma svenuto, e un uomo accanto a lui con un fucile in mano. Rimango fermo, paralizzato, incapace anche solo di pensare mentre guardo le braccia dell’uomo alzarsi, mentre vedo la canna del fucile sollevarsi e puntare contro la testa di Fred; poi qualcosa dentro di me scatta. Se avessi la pistola gli avrei già sparato, ma, dato che la tenevo in mano quando sono caduto, l’ho persa, così agisco in maniera differente.
Corro verso di lui gridando e nel momento in cui si volta nella mia direzione gli sono addosso; lo spingo a terra, prendo il suo fucile e con uno strattone glielo tolgo dalle mani; lui è troppo stupito per reagire prontamente, così appoggio la canna dell’arma contro il suo sterno e premo il grilletto.
Tolgo il dito solo quando il caricatore è vuoto, poi mi rialzo e mi allontano dal corpo.
 
Solo quando è il sole è quasi calato Tom riesce a trovare anche l’ultimo soldato ribelle; lo capisco perché risuona un altro sparo nel silenzio.
Dopo una decina di minuti lui, Marco e Phil ritornano all’accampamento che abbiamo allestito. La prima cosa che Tom fa è guardarmi; Jen gli va in contro e cominciano a parlare, cercando di non farsi sentire, ma io li sento comunque.
“È da quando lo abbiamo trovato che è in quello stato. Penso che dovresti parlargli”.
“Per quale ragione; è una situazione che deve affrontare da solo...”.
“Tom! È solo un ragazzo e a differenza nostra non ha scelto questo mondo di sua spontanea volontà” continua lei. Penso che queste parole convincano Tom, dato che lo sento avvicinarsi. Tuttavia ha ragione lui; è una situazione che devo affrontare da solo, anche perché non sono in questo stato per la ragione che credono loro.
Tom si siede accanto a me sul tronco su cui io sono seduto da quasi un’ora, seduto immobile con lo sguardo perso nel vuoto.
“Senti, so come ti senti; è difficile da...”.
“No” dico interrompendolo, “No, è questo il punto; non è difficile, non è stato difficile, ho semplicemente agito, agito senza pensare”; smetto di parlare, ma lui non aggiunge nulla, così continuo io: “Anche adesso... Nulla, non provo nulla. Pensavo, ero convinto che non sarei mai riuscito ad uccidere un uomo, che sarebbe stata un’esperienza terribile; invece no, non sento nulla, sono solo sollevato, felice che Fred sia ancora vivo, felice che io sia ancora vivo e sinceramente non me ne frega nulla che per ottenere queste due cosa sia dovuto morire un uomo. L’ho già dimenticato; ho il suo sangue addosso, sui vestiti, sul volto, eppure non mi ricordo più nulla di lui, nemmeno che faccia avesse. Ormai è solo un corpo, quasi un oggetto, là fra gli alberi, un oggetto di cui non mi devo più preoccupare dato che ho, dato che abbiamo altri problemi più importanti al momento”. Prendo fiato, poi continuo ancora: “È questo il mio problema. È giusto reagire in questo modo?”.
Tom alza lo sguardo verso di me: “No, non è giusto. Non è giusto e è nemmeno sbagliato; non qui, non ora che stai lottando per la tua sopravvivenza. Dopo, solamente quando sarai riuscito a tornare a casa, potrai riflettere lucidamente sulle tue azioni, solamente quando sarai tornato nel mondo civile potrai giudicare il tuo comportamento e ti assicuro che ci riuscirai benissimo, ad autoaccusarti; sarai il giudice più spietato che esista al mondo quando esaminerai i tuoi crimini e ti infliggerai una condanna terribile. Stai tranquillo, è successo a tutti noi” dice indicando gli altri, “Hai detto che già non ti ricordi più il suo volto? Non ti preoccupare, poi lo ricorderai; li ricorderai tutti alla perfezione e non sarai mai più in grado di dimenticarli” conclude, poi si alza e va ad aiutare Jen.
 
 
“E aveva ragione. Quello è stato il primo uomo che ho ucciso, il primo di una lunga serie e adesso tornano tutti, abbastanza puntualmente, a trovarmi” concludo, poi bevo l’ultimo sorso d’acqua rimasto nel bicchiere.
Jason è ancora fermo, le braccia appoggiate sul tavolo con le mani giunte, i suoi occhi fissi nei miei; ha ascoltato, ha capito e non mi ha giudicato un assassino.
Rimaniamo in silenzio per un bel pezzo; qualcosa, una macchina o forse un mezzo più pesante, passa nella strada sottostante, il primo segno di vita dopo molto tempo.
Quando si è allontanato, quando è scomparso anche l’ultimo segno del suo passaggio, Jason si riscuote, si posta dal tavolo e si appoggia allo schienale della sedia.
“Invece io non posso saltare qualche passaggio” dice.
“Non preoccuparti, ho a disposizione tutto il tempo che serve”, lui annuisce; poi anche lui finisce in un sorso solo l’acqua rimasta e comincia a parlare.
“Come penso tu abbia notato, io non sono americano, ma sono di origini colombiane. Mio padre era un narcotrafficante, non un pezzo grosso di fama internazionale, ma abbastanza importante da potersi permettere una bella casa e una bella vita per se e sua moglie; non gli ho mai conosciuti. Mia madre è morta di parto, mentre mio padre è stato coinvolto in una sparatoria quando avevo solo due anni. Sono stato cresciuto da mio zio, uno dei signori della droga più famigerati al mondo, ad Houston, da dove poteva controllare al meglio i sui traffici”, si ferma e mi guarda; forse si aspetta di vedere qualcosa sul mio volto, un segno che testimoni il fatto che io lo stia giudicando, che sentendo le sue parole mi sia già fatto un’idea su di lui e sulla sua storia; ma non è così e lui lo capisce, e sembra apprezzarlo. Con un sospiro continua a raccontare: “Aveva un villa immensa, ancora ricordo le stanze in cui giocavo da bambino, assieme ad una domestica; non si può dire che abbia avuto un’infanzia difficile, anzi ero abbastanza viziato e coccolato, almeno fino al giorno in cui mio zio decise che ero abbastanza uomo per cominciare ad interessarmi al suo mondo”.
 
 
Finalmente oggi ho dodici anni! È da un pezzo che lo zio dice di avere una grossa sorpresa per me e io non vedo l’ora di scoprire che cosa sia.
“Sei agitato giovanotto?” mi chiede.
“Un po’. Non mi puoi proprio anticipare nulla Carlos?”, lui mi sorride: “Certo che no! Tuo zio non mi perdonerebbe mai se rovinassi la sorpresa. Tanto siamo arrivati” mi risponde fermandosi di fronte alla porta dello studio dello zio, uno dei posti che fino a questo momento sono stati inaccessibili per me, e quindi ora non resisto più alla curiosità di vedere che cosa ci sia dentro. Non aspetto nemmeno che Carlos mi apra la porta, lo precedo e la spalanco. Ciò che vedo un po’ mi delude, ero convinto che contenesse chissà quali meraviglie; invece scopro che non è molto diversa dalle altre parti della casa, forse ci sono solo più oggetti preziosi, come statue e quadri appesi alle pareti.
“Oh, buenas dias niño!” esclama mio zio appena mi vede. Porto gli occhi su di lui, distogliendo l’attenzione dal resto della stanza; è seduto dietro una grande scrivania di legno di fronte a cui ci sono altre tre persone, solo adesso noto la loro presenza. Due le conosco, sono le guardie di mio zio, l’altra invece è un uomo, seduto su una sedia, che mi sta fissando con gli occhi spalancati, come se avesse paura di me, ma non ne capisco il motivo.
“Vieni qui figliolo” dice ancora mio zio; mi muovo verso di lui, ma continuo ad osservare l’uomo, che ha riportato l’attenzione su mio zio. La paura dai suoi occhi non è ancora scomparsa.
“Ti presento il signor Hernandez” dice indicandomi l’uomo.
“Perché ha paura?” chiedo, mio zio scoppia a ridere.
“Che ragazzo sveglio!” dice guardandomi, poi torna ad osservare l’uomo: “Ha paura che lo sgridi poiché non ha restituito ciò che mi appartiene”; a queste parole l’uomo si agita sulla sedia e comincia a parlare: “Non è vero, ho solo...” ma ad un cenno di mio zio le guardie gli tappano la bocca, impedendogli di continuare. Io guardo mio zio, non capendo cosa sta succedendo. Lui si alza dalla sedia e va verso l’uomo.
“Vedi figliolo, quest’uomo ha sbagliato e io lo devo punire, proprio come facevo con te quando eri piccolo” mi dice posizionandosi di fronte a lui, poi mi fa cenno con la mano di raggiungerlo. Io obbedisco e mi metto di fianco a mio zio che si volta verso una delle sue guardie, questa prende qualcosa da dentro la giacca e la passa a mio zio che a sua volta la da a me.
Mi ritrovo una pistola in mano, una pistola vera. Ho sempre voluto toccarne una vera; le ho sempre viste, esposte assieme ad altre armi, in un mobile in salotto, ma non ho mai potuto toccarle. Ho solo ricevuto una pistola giocattolo due anni fa, mi piace usarla e sono anche bravo. Però ora, ora che finalmente posso toccare una pistola vera, non mi piace più; non mi piace questa situazione, io e mio zio in piedi di fronte a quest’uomo, un uomo adulto che sta piangendo come un bambino.
C’è qualcosa di sbagliato.
“Sparagli” ordina mio zio.
“Cosa?” chiedo. Non capisco, perché dovrei farlo.
“Ti ho già spiegato, deve essere punito. Coraggio, so che sei capace, tira fuori il vero uomo che c’è in te”.
“Ma... ma... Lui... No non sono capace” balbetto.
“Non è diverso da come fai di solito” dice mio zio mettendo una mano su quella con cui impugno la pistola, facendomela alzare verso la fronte dell’uomo, poi il suo dito indice spinge il mio verso il grilletto e me lo fa premere.
Parte un colpo, il corpo dell’uomo viene spinto all’indietro mentre io chiudo gli occhi. Qualcosa di caldo mi colpisce il volto.
Lascio immediatamente cadere la pistola e mi volto dalla parte opposta. La prima cosa che vedo, appena riapro gli occhi, è il volto di mio zio: è serio, ma non arrabbiato, con un fazzoletto toglie ciò che ho sul volto.
“Non devi sentirti dispiaciuto per ciò che hai appena fatto, ma non ti deve nemmeno essere piaciuto. Uccidere deve essere qualcosa che fai per necessità, non per piacere”, si rialza, “Comunque ricorda sempre che finché non si conosce la morte non si può apprezzare la vita”.
 
 
“Quello è stato il primo uomo che ho ucciso, il primo di una lunga serie” finisce di parlare e mi guarda; mi guarda e capisce che nemmeno ora che conosco la sua storia l’ho giudicato, che non mi ha nemmeno sfiorato il pensiero di considerarlo un assassino, che per me lui è e rimarrà sempre un essere umano.
Restiamo in silenzio ancora per qualche minuto, poi gli devo assolutamente chiedere una cosa: “E quella come te la sei fatta?”. Lui  prima mi guarda sorpreso, poi si mette a ridere.
Si alza per mettere i bicchieri sporchi nel lavandino; “Questa” e indica la sua cicatrice, “Me la sono fatta a quindici anni, spaccando la legna assieme a mio padre”, si volta e ride ancora vedendo la mia espressione perplessa.
“Quando avevo quattordici anni mio zio è stato arrestato e io sono stato affidato ad una tranquilla famiglia canadese, il più lontano possibile da lui. Quello è stato veramente il periodo più bello della mia vita; e la mia cicatrice risale a quei tempi”.
“Come mai adesso sei qui e non in Canada?”.
“Mio zio è stato rilasciato. Alla fine del processo, invece di venire condannato alla pena capitale, gli hanno dato solo una trentina d’anni, che in realtà sono stati solo cinque”.
“Com’è possibile! Non era un criminale Internazionale?”. Lui annuisce: “Sì certamente, ma il suo nome non compariva mai; qualunque cosa abbia fatto, dal comprare una casa a far ammazzare una persona, ha sempre agito nell’ombra, usando prestanome o altri espedienti simili. Agli occhi della legge lui era solo un rispettabile cittadino Texano. Lo hanno preso solo perché ha commesso una piccola imprudenza. Ha sempre affermato di essere in grado di capire le persone al volo, di saper distinguere i codardi da quelli che invece gli avrebbero potuto creare problemi; beh una volta non ci è riuscito. Ma a quanto pare ha molte amicizie e tutte molto in alto, le quali non si sono tirate in dietro nel momento del bisogno. E così, appena uscito dal carcere, la prima cosa che ha fatto è stata quella di trovarmi e riprendermi con sé. Ho ripreso a lavorare per lui, anzi mi sono trasferito in questa città un paio d’anni fa proprio per conto suo, poiché ha deciso di aprire un’attività in zona, affidandone la gestione ad un suo conoscente, e ha mandato me a controllare”.
“Capisco. Quindi anche i tizi di prima...”.
“Sono collegati alle mie... mansioni”.
Mi alzo dalla sedia e do una veloce occhiata alla casa: “E questa topaia? È una sorta di copertura per non destare sospetti?” chiedo.
“No, semplicemente non posso permettermi altro. L’unica cosa che sono riuscito a rifiutare sono i soldi; la possibilità di non vivere sfruttando i soldi di mio zio è l’unico atto di ribellione che mi rimane. Purtroppo il mio stipendio di bibliotecario part-time è molto, molto misero”.
Si alza anche lui e va nella stanza con il letto; “Vivere solo con quello che guadagno e studiare” aggiunge al discorso di prima, mentre prende in mano un libro, un grosso tomo di una qualche materia a me sconosciuta. Poi lo rimette al suo posto e mi guarda, io gli sorrido.
“Questo è quanto” conclude. Io abbasso gli occhi sull’orologio: cinque minuti e scatta il coprifuoco.
“Ora dovrei proprio andare”.
 
Arrivo a casa con venti minuti di ritardo e, considerate anche le condizioni della mia faccia, posso affermare con sicurezza che sono nei guai.
Busso alla porta per farmi aprire dal momento che non mi sono portato dietro le chiavi di casa quando sono uscito oggi pomeriggio, preparandomi mentalmente per affrontare ogni possibile reazione che potrebbe avere mia madre; prendo addirittura il cellulare, pronto per comporre il numero delle emergenze. Ma chi mi apre la porta è Sarah.

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Capitolo 7
*** Cene e appuntamenti ***


“Sorpresa! Contento di vedermi?”.
“Sarah? Che ci fai...”.
“Che hai all’occhio?”.
“Niente, ho incontrato...”.
“Ma hai l’occhio nero! Hai fatto a botte con qualcuno?”.
“Non ho fatto a botte con nessuno, sta...”.
“Ci devi mettere del ghiaccio subito! Lo vado a prendere”.
“Non ce ne bisogno ci ha già pensato Jason...”.
“Jason!? Che diamine centra Jason?”.
“Niente! Fammi par...”.
“Non avrai fatto a botte con Jason?”.
“No!” urlo esasperato e questo attira l’attenzione del resto della famiglia; infatti mia madre si affaccia dal soggiorno tutta sorridente: “Tesoro! Hai visto chi è venuto a trovarci?” dice, mentre altre due persone escono dalla sala: il padre e la madre di Sarah. Mi salutano, ma io non faccio in tempo a ricambiare perché anche mia madre vede l’occhio nero.
“COSA TI SEI FATTO!” grida mentre mi afferra il volto tra le mani e comincia a studiare il mio occhio da diverse angolazioni; io la allontano e poi mi allontano di un passo da lei e da Sarah.
“Calme! Non...”.
“Non avrai fatto a botte con qualcuno?” chiede anche mia madre.
“NO!” urlo ancora, “No, ho ricevuto una porta in faccia, va bene?” mi invento su momento, “Stavo passeggiando quando ho incontrato Jason, un compagno di corso, mi ha invitato a casa sua e lì accidentalmente ho sbattuto contro la porta di ingresso, tutto qui”. Mi madre annuisce convinta, ma vedo che Sarah non è per nulla persuasa; tuttavia non insiste.
“Okay, se avete finito di parlare di me, mi piacerebbe sapere che ci fai qui” chiedo a Sarah, al che tutti si riscuotono e tornano sorridenti come prima.
“Oh giusto!” esclama mia madre, “Ci hanno appena invitati a cena, non è una bella idea?”.
“È un’ottima idea” ribatto sorridendo.
“Perfetto! Dobbiamo solo aspettare tuo padre, che dovrebbe essere a casa da un momento all’altro. Intanto vai a prepararti” continua mia madre.
“Certo” rispondo mentre entriamo in casa.
 
Un’ora dopo siamo di fronte al solito ristorante, ovvero il posto in cui venivamo sempre a mangiare molti anni fa.
Sarah mi sembra un po’ agitata, o forse è solo nostalgia dei tempi andati, perché continua a guardarsi attorno. Questo posto, a differenza del bar di Bob non è cambiato per nulla e rievoca molti, molti ricordi, soprattutto delle sgridate che ci prendevamo dopo aver combinato qualche disastro.
“Oddio” dice Sarah, poi mi da un pugno sulla spalla.
“Perché!” esclamo guardandola stupito.
“Non te l’ho ancora fatta pagare il bagno nella fontana che mi hai fatto fare!”. Io mi immobilizzo, non capendo che cosa sta dicendo.
“Quando?”.
“Al mio compleanno, undici anni fa, in quella fontana” risponde indicandomi la fontana che si trova al centro del parcheggio.
“Ma che...” poi mi torna in mente l’episodio a cui si riferisce e scoppio a ridere.
“Che stronzo!” dice dandomi un altro pungo sulla spalla.
“Okay, okay, la pianto, ma facevi troppo ridere!”.
Eravamo venuti qui a festeggiare il suo compleanno e, come sempre, finito di mangiare io e lei siamo usciti a giocare nel parcheggio, mentre i nostri chiacchieravano all’interno. Io avevo preso un dolce al gelato, che avevo portato fuori con me per mangiarlo; ad un certo punto Sarah ha chiesto se potevo farglielo assaggiare, le ho risposto con un no secco, facendole anche la linguaccia, lei per ripicca mi ha dato uno spintone a cui ho risposto spingendola a mia volta, purtroppo dietro di lei c’era la fontana e quindi ci è caduta dentro, bagnandosi completamente. Quando è uscita ha cominciato ad urlarmi contro, infuriata nera, e vedendola completamente zuppa, rossa in volto per la rabbia, mi sono messo a ridere, e più gridava più io ridevo; alla fine qualcuno ci ha sentito e sono arrivati i nostri genitori. Ci siamo beccati entrambi un mese di punizione.
Riesco a calmarmi e tornare serio, così raggiungiamo i nostri genitori che nel frattempo sono arrivati all’ingresso.
Mentre camminiamo rimango in silenzio guardando il terreno.
“Perché non dici più nulla? Non sarai agitato?”.
“Agitato? Perché?” chiedo un po’ sorpreso.
“Beh, stai andando a cena con una ragazza; questa cosa fa molto appuntamento romantico” risponde. Io la guardo serio per qualche istante, poi le sorrido: “Ma dai, per...” e mi ritornano in mente le parole di Philip, “Perché dovrei, non è la prima volta che porto fuori a cena una bella ragazza”.
Lei si blocca sul posto e mi fissa sorpresa, io la guardo negli occhi serio e dico: “Ti sto prendendo in giro stupida!” e mi allontano ridacchiando.
 Entro e attraverso il locale, che è già abbastanza affollato, dirigendomi verso il tavolo a cui si sono già seduti i nostri genitori; Sarah mi raggiunge qualche istante dopo: “Sei un’idiota, lo sai?”.
“Per quale motivo, ho solamente citato un mio amico”, mi guarda con un’espressione interrogativa e le rispondo: “Te lo spiego dopo, ora ho fame” e mi siedo al tavolo.
I miei genitori e quelli di Sarah stanno chiacchierando spensierati, è da un po’ di tempo che non li vedevo così rilassati; tranne per qualche sporadica occhiata, non prestano molta attenzione a me. Avevano proprio bisogno di distrarsi un po’.
Io e Sarah ordiniamo gli stessi piatti che prendevamo da piccoli, mangiamo e, come accadeva sempre, finiamo prima degli altri.
“Andiamo a farci un giro?” chiede Sarah, io sorrido: “Certamente”.
Ci alziamo e andiamo verso l’uscita, i nostri genitori non ci prestano molta attenzione, anche se io mi sarei aspettato di sentirci dire di stare attenti alle macchine che entrano nel parcheggio.
Davanti alla porta però un cameriere ci ferma: “Signori, avete qualche problema?”.
Non capisco subito a che cosa si sta riferendo, poi mi rendo conto che stiamo uscendo senza aver pagato; finché eravamo bambini non ci facevano storie, ma ora è diverso.
“No, ci scusi. Siamo con i nostri genitori” e indico il tavolo a cui sono seduti. Non so se lo convinco completamente, ma si allontana.
“Che figuraccia”, io sorrido: “Già. Usciamo prima di farne altre”.
Andiamo a sederci sul bordo della fontana; anche se non è il posto ideale, visto che fa abbastanza freddo e ogni tanto qualche schizzo di acqua gelida ci colpisce.
“Mi racconti la storia che sta dietro la citazione?”.
“Sì, ma non è nulla di che”.
“Fa niente, sono curiosa”.
“Okay. Hai vagamente presente cos’è successo in India al reparto a cui ero stato assegnato?”.
“Sì, più o meno”.
“Perfetto” mi fermo per raccogliere le idee; non ho la minima intenzione di raccontarle esattamente ciò che è successo, non voglio rovinare la serata, “Allora... Niente, semplicemente una sera Philip, uno dei miei compagni, ci ha raccontato che era solito usare quella frase ad ogni nuovo appuntamento”.
“Tutto qui?”; mi stringo nelle spalle: “Ti ho detto che non è nulla di che”. Restiamo seduti ancora per qualche minuto, poi abbiamo entrambi troppo freddo per continuare a stare fuori e decidiamo di rientrare.
Restiamo al ristorante per una mezz’oretta poi ognuno torna a casa propria.
 
“È stata veramente una bella serata” dice mia madre appena entriamo in casa.
“Sì, era da tanto...”, lascio i miei da soli a parlare nell’ingresso e salgo in camera mia.
Mi spoglio e mi stendo sul letto.
Avrei dovuto raccontarle la verità; quello che le ho detto non si può nemmeno considerare una bugia, dato che me lo sono quasi completamente inventato. Forse non ci sono riuscito perché è una delle esperienze che mi hanno segnato di più.
 
 
 
“Era il mio primo appuntamento in assoluto”.
“Il primo?”.
“Sì, lo so dovrei vergognarmi, in sedici anni di vita non avevo ancora invitato una ragazza ad uscire” risponde Philip, Fred annuisce: “Giusto un pochino”.
“Comunque stavo dicendo: era il mio primo appuntamento e me la stavo facendo sotto dalla paura; non ne ho capito ancora ora il motivo, ma la ragazza con cui sarei dovuto uscire era la più ambita della scuola: due anni più vecchia di me e... beh ve la lascio immaginare, tanto non riuscirei mai a descriverla. In realtà l’invito era partito da lei, diciamo che mi aveva fatto capire che avrebbe gradito uscire con me”.
“E così l’hai portata a cena fuori”.
“E in uno dei locali più chic della città!”.
“Però! Questo ti fa guadagnare qualche punto”.
“E questo era un altro motivo che mi preoccupava”.
“Non ti potevi permettere il conto?” Phil lancia un’occhiata assassina a Fred: “Okay, sto zitto”.
“Lei si deve essere accorta che non ero molto tranquillo; infatti mi hai chiesto se fossi agitato e io le ho risposto serio: perché dovrei, non è la prima volta che porto fuori a cena una bella ragazza”, scoppiamo tutti a ridere, immaginandoci la scena.
“E lei ti ha creduto’?”.
“Penso di sì, visto che è uscita con me altre due volte”.
“Poi?”.
“Poi l’ho mollata”.
“Perché?” intervengo sorpreso.
“Ho incontrato mia moglie”.
“Però! Hai avuto una storia sentimentale molto semplice” commenta Fred.
“Non tutti sono dei playboy come te! Comunque io ho raccontato la mia storia, l’ultimo sei tu” dice Philip indicandomi. Io abbasso lo sguardo un po’ imbarazzato; “Coraggio! Non puoi essere peggio di lui!” esclama Fred.
“Purtroppo sì. Non sono tanto spigliato con le ragazze; ho molte amiche, ma sono solo amicizie superficiali. L’ultima vera amica che ho avuto si è trasferita in un’altra città un po’ di anni fa; e per quanto riguarda appuntamenti, non ho mai invitato nessuno fuori a cena, ho portato solamente due ragazze al cinema un paio di volte, ma finiva lì; il giorno dopo eravamo amici come prima”.
“Che delusione” commenta Fred scuotendo la testa.
“La cena” dice una voce alle mie spalle, mi volto e vedo i cacciatori di ritorno con il loro bottino, un po’ magro, ma ce lo faremo bastare.
Quando finisco di mangiare il sole sta cominciando a tramontare, e quindi devo iniziare il mio turno di guardia.
Mi allontano dal fuoco assieme a Philip, anche lui di guardia assieme a me.
“Io mi piazzo fra quelle rocce, tu fa il giro e controlla la parte opposta. Mi raccomando non rimanere fisso in un posto, controlla tutto...” comincia a dire Phil.
“Non ho bisogno delle istruzioni, so come fare” rispondo scocciato.
“Sì, certo, occhi aperti” e va verso il gruppo di rocce che mi ha indicato. Io devio verso destra e vado dalla parte opposta dell’accampamento rispetto a dove si trova lui.
Non mi piace per nulla questo posto, è troppo scoperto, ma nei dintorni non c’era nulla di meglio; questa notte dovremmo prestare più attenzione del solito.
Passeggio lungo metà perimetro dell’accampamento, stando attento a non fare troppo rumore e prestando attenzione ad ogni minimo fruscio che sento.
Non so quanto tempo sia passato di preciso, un paio d’ore sicuramente, dato che almeno qua sotto gli alberi è scesa completamente la notte, quanto improvvisamente sento dei rumori.
Sembrano voci, grida più che altro e devono provenire da una bella distanza dato che non sono molto forti. Comunque corro immediatamente dagli altri per avvisarli, ma quando arrivo accanto al fuoco trovo già tutti in piedi con le armi in pugno; anche loro le hanno sentite.
“Hai visto qualcosa?” chiede George; scuoto la testa.
“Che si fa?” chiede Philip, appena ci raggiunge, “”Restiamo qui sperando che non passino da queste parti?”.
“Andiamo a controllare. Non è da escludere che sia una pattuglia dei nostri in ricognizione” dice Tom, anche se sa che è impossibile.
In silenzio raccogliamo i nostri zaini e cominciamo a camminare verso le voci.
 
L’intensità delle grida continua ad aumentare, ma attorno a noi ci sono solo alberi, nessun segno di presenza umana.
“Solo un gruppo molto numeroso di persone potrebbe fare tutto questo fracasso” commenta George.
Camminiamo ancora per qualche minuto, poi di fronte a noi la giungla comincia ad essere meno buia; proseguiamo per qualche metro e diventa chiaro il fatto che non molto più avanti qualcuno sta illuminando la notte con fari molto potenti.
“Spegnete le torce e proseguite in silenzio” ordina Tom.
Ad un certo punto gli alberi finiscono e riesco a vedere la fonte dei rumori che sentivo.
A qualche centinaio di metri di distanza scorre un fiume, sulla cui sponda è stato costruito un pontile di legno, sul quale al momento si trovano due uomini, che stanno guardando a monte del fiume parlando fra loro; l’area è disseminata di potenti riflettori che illuminano il posto a giorno, è per questo che riesco a vedere i due uomini anche se sono molto lontani; a poca distanza da noi si trova una grossa baracca di legno, da cui provengono delle risate, mentre altre due baracche simili sono più lontane e all’apparenza sembrano vuote. Ma la fonte del frastuono che si sentiva è al centro dello spiazzo, controllata da una decina di guardie armate, si tratta di una moltitudine di persone, almeno un centinaio, tutte donne o bambine.
“Bastardi” sibila Marco fra i denti.
“Mercanti di schiavi” dice George.
“Mercanti di schiavi?” chiedo, sorpreso e scioccato al tempo stesso.
“Quelle donne verranno vendute in occidente come prostitute o per altri incarichi simili” mi risponde.
“Come agiamo?” chiede Philip. Mi volto a guardarlo, “Non ho la minima intenzione di andarmene senza fare nulla” aggiunge.
Sono pienamente d’accordo con lui.
“All’esterno ho contato tredici uomini, presumibilmente lì dentro ce ne sono almeno una ventina” dice Jen.
“Non abbiamo abbastanza munizioni per eliminarli tutti” commenta Fred.
“Io ho ancora una granata” aggiunge Marco.
“Bene” inizia Tom, “Il posto è troppo illuminato, non potremmo agire senza farci scoprire. Quindi ci muoveremo in questo modo: io e il ragazzo ci occuperemo di quelli sul molo, Marco pensa agli uomini nella baracca, voi concentratevi sulle guardie all’esterno, soprattutto controllate prima di agire che le altre due baracche siano vuote”, poi si rivolge a me: “Avremo una sola occasione, un colpo solo. Tu darai il via”, io annuisco abbastanza spaventato, “Perfetto, andiamo” conclude. Lui e George si incamminano verso il molo restando nascosti fra gli alberi, io e Jen li imitiamo dirigendoci però dalla parte opposta. Dopo un centinaio di metri dagli alberi si vede il retro di una delle tre baracche e quindi Jen si ferma di fianco a questa. Io proseguo.
Quando arrivo in posizione, la prima cosa che faccio è cercare tra gli alberi di fronte a me Tom; lo vedo nella penombra, anche lui mi vede e mi fa cenno di agire.
Prendo la pistola e tolgo la sicura; avanzo di un passo per avere una visuale migliore, tanto non c’è pericolo di venire scoperto, dato che i due uomini mi danno le spalle e sono ancora intenti a scrutare il fiume.
Impugno la pistola e distendo le braccia, butto fuori l’aria dai polmoni e premo il grilletto.
Il corpo dell’uomo più vicino si rovescia in avanti, un secondo dopo un altro sparo e anche l’altro uomo cade a terra morto.
Però quello che succede subito dopo è completamente sbagliato.
Mi alzo ed esco dalla vegetazione contemporaneamente a Tom; faccio qualche passo verso le altre guardie, ma mi fermo subito non riuscendo a capire ciò che sta accadendo: vedo uscire di corsa dagli alberi Jen, Marco e gli altri sparando non alle guardie che hanno di fronte, ma alle loro spalle. Mi volto velocemente verso Tom, non sapendo cosa devo fare, e vedo un uomo armato uscire dagli alberi alle sue spalle. Poi tutto diviene buio.
 
Mi risveglio lentamente; un dolore pulsante mi martella la testa talmente forte che faccio persino fatica a pensare. Provo a spostarmi, ma scopro di non potermi muovere; abbasso lo sguardo gemendo per il dolore e scopro di essere legato ad una sedia. Mi guardo attorno e noto altre due persone, anche loro legate ad una sedia.
Ho la vista ancora un po’ annebbiata, quindi non le riconosco subito, ma capisco chi sono solo quando parlano: “Hey kid are you okay?”, Tom.
“Tom dove... dove son... sono?” biascico.
“Hai la pelle dura ragazzo!”, Philip.
“Perché, che ci facciamo qui, e gli altri?”.
“Calma ragazzo, è tutto apposto. Hai preso una botta in testa molto violenta, non ti sforzare, quanto ti sentirai meglio ti spiegherò tutto” e chiudo nuovamente gli occhi.
Quando mi risveglio di nuovo il dolore si è attenuato e sono molto più lucido; nemmeno loro hanno le idee chiare su ciò che è successo, ma a quanto pare altri uomini armati sono arrivati nell’esatto istante in cui facevamo irruzione; hanno colto di sorpresa Philip e gli altri, che stavano per agire costringendoli ad uscire allo scoperto, mentre alcuni di loro hanno attaccato alle spalle me e Tom. Anche loro quando si sono ripresi erano già in questo posto legati alla sedia, quindi non mi sanno dire molto altro.
“Ciò che mi preoccupa è il fatto che non si sia fatto vedere ancora nessuno” conclude Tom.
“Non dovrai restare preoccupato ancora a lungo amico mio”.
La voce che ha appena parlato proviene dalle mie spalle, quindi non vedo a chi appartiene, ma sicuramente posso dire che non è americano, anche se lo parla alla perfezione.
“Nel frattempo spero che apprezzerete la mia ospitalità” dice ancora, poi risuonano dei passi e una figura entra nel mio campo visivo: è una donna,  molto giovane, tratti tipicamente indiani, ma con lunghi capelli biondi raccolti in una treccia. Va verso Tom, si china alle sue spalle, armeggiando con la catena che lo lega alla sedia, la quale dopo qualche si apre e cade a terra. Tom alza gli occhi stupito e, penso, rivolge lo sguardo all’uomo alle mie spalle: “Questo cosa significa”.
“Tengo legati solo gli esseri inferiori che altrimenti si rivolterebbero contro di me, ho fiducia che voi non vi comporterete in modo simile”.
La ragazza slega me, poi va da Philip, in fine esce dalla stanza.
 
Passa diverso tempo, durante il quale nessuno si fa vedere.
So perché ci tengono qui, e sono alquanto spaventato, ma non voglio mostrarlo. All’improvviso si sentono dei rumori da dietro la porta e questa si apre; per un secondo ho la visione di un corridoio illuminato e di due guardie che sorvegliano la nostra stanza, poi la porta si richiude alle spalle della ragazza di prima. Avanza nella stanza con un vassoio in mano; io sono appoggiato alla parete, dalla parte opposta della stanza rispetto alla porta, Tom è accanto a me, Philip, invece, è seduto su una delle tre sedie al centro della stanza, quindi la ragazza va verso di lui. Gli si ferma di fronte e lascia cadere il vassoio, poi lo guarda e lui guarda lei: “Che hai americano? Hai paura?”.
“Perché dovrei, non è la prima volta che porto fuori a cena una bella ragazza” risponde sorridendo, anche lei sorride, poi con un movimento rapido gli tira un pugno in pieno volto facendolo cadere da terra. Gli sorride ancora, poi se ne va.
“Che carattere, sarebbe perfetta per Fred” commenta Phil, massaggiandosi la mascella. Sorridiamo tutti e l’atmosfera si alleggerisce un po’.
Quella ragazza ci porta da mangiare altre tre volte, il quarto pasto ci è offerto direttamente dall’uomo.
Me lo ero immaginato diverso; non so perché ma pensavo che fosse una bestia grande e grossa, capelli e barba lunghi e spettinati, una specie di cavernicolo insomma; invece è completamente l’opposto: non deve avere più di quarant’anni, indossa un vestito elegante, a cui è abbinata una sgargiante cravatta rossa, ha i capelli lunghi, ma sono raccolti molto accuratamente in una coda di cavallo e non ha barba.
Ovviamente non è lui a consegnarci il vassoio ma due guardie, lui rimane sulla soglia, il più possibile lontano da noi. Deve essere passato più di un giorno da quando ci hanno presi e se già prima quanto a igiene personale non eravamo messi bene, chissà ora.
Phil vedendolo si alza in piedi e gli va incontro a braccia aperte, ma immediatamente viene fermato dalle guardie.
“Immagino che sia giunto il momento, giusto?” chiede Philip. L’uomo annuisce sorridendo; invece io non capisco a cosa si riferiscono, o meglio lo capisco ma non ci voglio pensare. Ad un suo cenno le guardie lasciano Philip, che si incammina fuori dalla stanza.
 
Passano tre, quattro, forse cinque ore, poi la porta si riapre e Philip viene lanciato dentro. Immediatamente io e Tom lo prendiamo e lo portiamo in un angolo. È semicosciente, ma sul volto un sorriso di trionfo.
 
Altri sei pasti, due giorni forse, poi l’uomo ritorna.
L’altra volta era sorridente, questa volta è serio, non parla, fa solo cenno alle guardie di prendere Tom e Philip scoppia a ridere: “Cosa credi di fare. Se non sei riuscito a far parlare me, speri di riuscire a far parlare lui?”; a queste parole sul viso dell’uomo spunta un ghigno terribile: “So riconoscere un vero uomo quando ne vedo uno, è per questo che ho intenzione di usare lui” risponde indicando me, poi altre due guardie entrano, vengono verso di me e mi sollevano di peso.
 
 
 
A questo punto mi sveglio. Non mi ero nemmeno accorto di essermi addormentato.
Guardo l’ora, le cinque del mattino; non voglio più addormentarmi, c’è il rischio che l’incubo continui e quella parte non la voglio assolutamente rivivere.
Che posso fare ora?
Esco dal letto e scendo al piano di sotto. Mi siedo sul divano di fronte alla tele; rimango per una decina di minuti immobile a fissare lo schermo spento, poi la accento, tolgo l’audio e rimango seduto a fissare le immagini che si susseguono sulla schermo.

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Capitolo 8
*** This party is getting crazy ***


Verso le otto comincio a sentire dei rumori al piano di sopra, segno che i miei si sono svegliati. Infatti dopo pochi minuti spunta mio padre.
“Che fai già in piedi?”.
“Non riuscivo più a dormire” rispondo alzando le spalle.
“Vuoi fare colazione?”.
“No, ho già mangiato, grazie. Anzi ora che ci penso tra poco devo uscire”.
“Va bene” poi esce dalla sala. Io spengo la tele e vado nella mia camera per vestirmi.
 
Esco e comincio a camminare; dopo una decina di minuti suona il mio telefono; cosa insolita visto che nessuno ha il mio numero tranne i miei e...
“Sarah?” rispondo alla chiamata.
“Ciao! Ti ho svegliato?”.
“No, no, sono sveglio da qualche ora”.
“Ah, allora mi sa che dirai di no. Volevo chiederti se ti andava di fare colazione al bar”.
“Certo, in effetti non l’ho ancora fatta”.
“Perfetto...”.
“Allora ti precedo, sono già in strada, ti aspetto al nostro tavolo”.
“No, aspetta, lasciami spiegare. Il fatto è che avevamo pensato di andare a fare colazione direttamente in un bar del supermercato, così siamo già lì appena aprono i negozi”.
“Non ti seguo”.
“Ah già, hai ragione, tu non ne sei stato informato. Questa sera c’è la festa di Samantha e dobbiamo comprarle il regalo, ho pensato che volessi partecipare anche tu, visto che ti ha invitato”.
“Sì certamente, ma non aveva detto che non lo voleva?”.
“Lo dice ogni anno, ma è sempre stata contenta di riceverli”.
“Va bene, dimmi dove devo andare”.
“Casa mia, andiamo in macchina, sempre se non hai paura di salirci con me alla guida”.
“L’ultima volta che ti ho visto guidare qualcosa è stato quando avevi nove anni, ed era una macchina a pedali con la quale hai investito il tuo gatto”.
“Avevo nove anni!”.
“Sì, ma era solo una macchina a pedali. Comunque vengo anch’io, ma c’è un problema, non so dov’è casa tua”.
“Giusto, è vero, beh adesso ti spiego”.
 
Venti minuti dopo sono di fronte alla sua porta. Suono e mi apre Sabrina, la saluto con un gesto della mano.
“Era ora! Sarah è arrivato! Possiamo andare!”, poi esce spingendomi via, dopo di lei escono come delle furie Sarah e Carol; vanno verso una macchina parcheggiata di fronte alla casa. Mi fanno sedere davanti, di fianco al conducente, cioè Sarah che si volta e con una luce omicida negli occhi dice: “Non osare criticare la mia guida”, io alzo le mani e dico: “Non è mai stata mia intenzione”.
“Okay, allora muoviamoci” dice.
“Come mai tanta fretta?”.
“Alcuni negozi stanno facendo delle promozioni in questo periodo e se non ci sbrighiamo ad arrivare li troveremo già tutti pieni” dice, poi mette in moto e parte; e io vorrei scendere all’istante.
La prima cosa che fa, o meglio non fa, è rispettare la precedenza, dato che taglia la strada ad una macchina a meno di cinque metri da noi, la quale non evita di rispondere con un colpo di clacson, a cui Sarah reagisce suonando a sua volta e lanciando un insulto al povero conducente.
“Non bisognerebbe farla guidare quando siamo di fretta” sento dire a bassa voce da qualcuno seduto dietro di me, io sorrido, ma ricordandomi della minaccia evito di aggiungere qualcosa.
Dieci minuti e siamo arrivati al centro commerciale, dall’altra parte della città rispetto alla casa di Sarah; è passata almeno tre volte con il giallo, ha superato a destra un auto che stava svoltando a destra e... meglio lasciare perdere, è stato troppo terrificante per continuare a pensarci.
“Ma guida sempre in questo modo?” chiedo a Carol appena scendiamo.
“No, di solito va fin troppo lentamente; quando ha fretta invece si trasforma, come hai potuto constatare”.
“Ehi voi due, che vi state dicendo!” dice Sarah fulminandoci con lo sguardo.
“Nulla! Mi ha soltanto chiesto se abbiamo già in mente che regalo fare a Samantha”.
“Uhm, ora andiamo” ordina.
Entriamo.
“Scusate ma per che ora aprono i negozi?” chiedo.
“Nove e mezza, questo weekend” risponde Sarah.
“Allora perché tutta questa gente è qui se manca ancora un’ora?” chiedo, ma la mia voce si perde nel caos generale, dal momento che ci devono essere come minimo un paio di centinaia di persone e siamo solo nell’ingresso.
Le seguo fra la calca, facendomi largo fra centinaia di persone, di ogni età, razza e sesso.
 
Dopo un po’, un bel po’, arriviamo ad un bar affollato; hanno avuto tutti la stessa idea di Sarah.
“Saremmo dovute venire almeno due ore fa” dice Sabrina, Sarah annuisce. Ci mettiamo in coda e dopo almeno una ventina di minuti mi ritrovo in piedi a sorseggiare un discutibile cappuccino quasi freddo.
“So che non è il massimo” mi dice Sarah.
“Ho mangiato nl posti più scomodi” le rispondo soprapensiero, poi mi accorgo di ciò che ho detto e cerco di rimediare sorridendole, comunque non fa in tempo a dire nulla poiché Carol le afferra improvvisamente una spalla e la fa voltare nella sua direzione, dicendole qualcosa; intanto io finisco il mio cappuccino e quindi cerco un contenitore dei rifiuti dove buttarlo; ne vedo uno vicino alla vetrata accanto alla porta d’ingresso del bar. Vado a buttare il bicchiere vuoto e noto che all’esterno comincia ad esserci molta agitazione, inoltre mi sembra che la folla abbia cominciato a muoversi verso una direzione precisa.
“Là fuori cominciano a muoversi” dico a Sarah appena tono da lei.
“Cos... Allora è vero hanno già aperto!” esclama, poi comincia a spingere le sue amiche: “Forza andiamo hanno aperto!”.
E inizia la marcia attraverso la folla.
Le perdo di vista di fronte ad un negozio, nel quale sono costretto ad entrare spinto dalla folla. Comincio a camminare tra gli scaffali cercando di evitare di venire calpestato; c’è talmente tanta gente che nessuno ha il tempo di fermarsi per scegliere un vestito, vedo persone venire letteralmente trascinate via mentre tentano di afferrare un abito.
Improvvisamente sbatto contro una persona facendola barcollare: “Mi scusi” dico, si volta per rispondere e mi trovo faccia a faccia con Sarah.
“Ecco dov’eri, pensavamo che ti fossi perso!”.
“Più o meno”.
“Beh adesso che ci hai ritrovate ci porteresti questi?” e mi da in mano un po’ di vestiti. Io li guardo stupito.
“Sono tutti per Samantha?”.
“No per lei non abbiamo preso ancora nulla, questi sono spese personali nostre”.
E così le seguo tipo facchino per il negozio; prendono altri capi di abbigliamento, poi si piazzano di fronte ad un camerino vuoto e a turno entrano per provare i vestiti presi.
Due ore dopo usciamo, la folla di prima si è diradata un pochino, ormai sono tutti dentro i negozi a fare compere.
“Giusto un’informazione; per quanto ne avrete ancora?” chiedo interrompendo i loro discorsi su quali posti visitare ora.
“Non saprei. Se sei stufo non sei obbligato a seguirci” mi risponde Sarah. La guardo stupito: “Sul serio?”.
“Sì certamente, però ci puoi fare un favore? Terresti le borse?”.
“Sì certamente”.
“Perfetto, allora ci vediamo più tardi!” e se ne vanno. Io comincio a camminare nella direzione opposta a quella verso cui si muovono tutti. Alla fine sbuco in un’altra ala del centro commerciale con una densità di folla nettamente inferiore.
Ci sono delle panche e io vado a sedermi. Mi metto di fianco ad un altro ragazzo, penso abbia più o meno la mia età; guarda le borse e mi sorride: “Spese con la ragazza?”.
Sorrido a mia volta: “Più o meno”.
“Ah come ti capisco” poi si volta verso una ragazza che si sta avvicinando e le dice: “Arrivo, arrivo” si alza e mi saluta con un cenno della mano: “Good luck”, poi si allontana.
Resto seduto sulla panca per un bel pezzo, poi vedo arrivare Jason.
Un po’ sorpreso mi alzo e gli vado incontro.
“Ehi, come mai da queste parti?” chiede appena lo raggiungo.
“Sono venuto a fare un po’ di compere con delle amiche” rispondo, alzando le borse, “Tu?”.
“Avevo una commissione da sbrigare e a questo proposito, ti spiace aspettare qua un attimo? Devo parlare con una persona”. Si allontana e va verso un tipo, che se ne sta seduto su di una panchina a leggere un giornale. Appena Jason gli si avvicina l’uomo scatta in piedi e lo guarda preoccupato; poi ad un cenno di Jason si incamminano verso i bagni poco più avanti.
Ci rimangono una ventina di minuti, poi esce per primo Jason che si dirige immediatamente verso di me. Sta cercando i sistemarsi i vestiti, ma è evidente che la dentro non si sono semplicemente parlati.
“Andiamo, c’è un bar in cui il gestore è un mio amico” dice, si incammina e lo seguo. Anche se sono curioso evito di lanciare un’occhiata verso i bagni quando ci passo di fianco.
Alla fine torniamo nel bar in cui ho fatto colazione qualche ora fa. Effettivamente il barista è amico di Jason, si abbracciano e parlano fra di loro per qualche istante, poi ci accomodiamo ad un tavolo libero e ordiniamo del caffè. Cominciamo a chiacchierare del più e del meno.
All’improvviso suona nuovamente il mio telefono.
“Scusa un attimo” interrompo Jason; non può che essere Sarah.
“Dove sei?” mi chiede.
“Avete finito le vostre spese?”.
“Sì, stiamo aspettando te”.
“Dove siete?”.
“Davanti all’ingresso principale”.
“Perfetto, vi raggiungo”, poi mi rivolgo a Jason: “Mi spiace, ma devo andare”.
“Non c’è problema, tra poco me ne sarei andato anch’io”.
Mi alzo, lo saluto e me ne vado.
 
“Avete trovato ciò che cercavate?” chiedo appena le raggiungo.
“Sì e grazie per aver tenuto le altre borse”.
“Di nulla”. Usciamo e raggiungiamo la macchina.
“Anche adesso hai fretta di tornare a casa?” chiedo a Sarah prima di salire sull’auto.
“No, perché?”.
“Per curiosità” rispondo.
Il viaggio di ritorno è completamente differente dall’andata; penso che andando a piedi avrei impiegato la metà del tempo per tornare a casa.
 
Quando apro la porta mi viene in mente una cosa: questa mattina sono uscito di casa con l’intenzione di stare via solo poco tempo; invece adesso è pomeriggio, si saranno preoccupati di sicuro per me.
“Sono tornato, sto bene” urlo appena entro.
“Okay” risponde mia madre.
Okay? Tutto qui? Non ci posso credere.
Vado in cucina, da dove proviene la voce e scopro che abbiamo visite, la madre di Sarah.
“Ciao! Sei sopravvissuto alle spese folli di mia figlia?” mi chiede.
Okay, quindi questo spiega la mancata reazione di mia madre, era già informata su ciò che mi è successo.
“Sì, ne sono uscito incolume, soprattutto perché non sono stato con lei. L’ho lasciata assieme alle sue amiche, io ho trascorso la mattinata a parlare tranquillamente con un mio amico”.
“Astuto”.
“Ora mi spiace ma devo andare, tra un paio d’ore devo passare a prenderle per andare alla festa di Samantha”.
“Vai, vai, non ti preoccupare” risponde mia madre.
Per prima cosa mi faccio una doccia, poi cerco di indossare l’abito che mi ha preso Sarah.
Sì, mi ha comprato un abito molto elegante, che secondo me è da indossare solo in caso di cerimonie importanti come matrimoni o simili, ma lei ha detto che bisogna essere eleganti per partecipare alle feste di Samantha, quindi mi è stato imposto di indossarlo.
Appena sono pronto esco di casa, prendo la macchina di mia madre e vado a casa di Sarah.
Suono il campanello, qualcuno arriva correndo alla porta e sento una voce chiedere: “Chi è?”.
“Io” rispondo sorridendo, si sente la serratura sbloccarsi, poi la porta si spalanca e compare Sarah sulla soglia.
“Avevamo detto per le cinque! Manca ancora mezz’ora, non sono ancora pronta!” esclama sorpresa.
“Sì, questo lo vedo” dico abbassando lo sguardo abbastanza imbarazzato.
“Oh merda” dice a bassa voce dopo qualche, poi sento la porta chiudersi, così rialzo lo sguardo e di Sarah vedo solo il volto spuntare dalla porta socchiusa.
“Scusa, scusa, scusa, mi dispiace!”.
“Non ti devi scusare; non è stata una brutta esperienza” dico sorridendo.
“Idiota” mi sento rispondere, “Aspetta ad entrare!” dice, poi la sento correre via,
“Ora puoi!” grida ancora, così entro chiudendomi la porta alle spalle.
Mi siedo su un divano vicino alla porta di ingresso.
“Per quanto ne hai ancora?” le chiedo gridando.
“Un po’! Non mi sono nemmeno fatta la doccia! Sei tu ad essere arrivato in anticipo!” mi risponde allo stesso modo.
“Questa mattina mi avete quasi ucciso per venti minuti di ritardo, così ho pensato di arrivare in anticipo!”.
“Mezz’ora è forse un po’ troppo!”.
“Non è vero, sei tu che sei lenta a prepararti, due ore di tempo sono più che sufficienti per una persona normale!”.
“Non ho intenzione di rispondere alla tua critica; sei un maschio, non puoi capire i problemi che abbiamo noi donne!”.
“Afferrato, ma ora muoviti, altrimenti facciamo ritardo!”.
“Se smettessi di farmi parlare forse riuscirei a fare più in fretta”.
“Perché? Sei talmente impedita che non riesci a fare due cose contemporaneamente?”, non mi risponde e dopo qualche istante sento scorrere l’acqua della doccia.
Dopo venti minuti esatti sento la porta del bagno aprirsi.
“Chiudi gli occhi” mi ordina.
“Perché?”.
“Perché mi devo vestire, i vestiti sono nella mia camera e per andarci devo passare per il salotto”.
“Non vedo il problema”.
“Ho in dosso solo l’accappatoio”.
“E allora? Prima mi apri la porta indossando solo la biancheria intima e adesso hai vergogna a farti vedere in accappatoio?”.
“innanzitutto va a quel paese e in secondo luogo fa come ti ho detto!”.
“Sissignora!” dico chiudendo gli occhi e coprendoli con le mani; sento prima dei passi affrettati percorrere la stanza, poi il rumore di una porta che si chiude.
 
Dieci minuti dopo la porta si riapre e esce Sarah, o almeno una persona che dovrebbe essere Sarah.
“Allora, come sto?” chiede questa persona.
La voce è quelle di Sarah, quindi è davvero lei.
Mi alzo e mi schiarisco la voce, poi rispondo cercando di usare un tono di voce normale: “Uhm, passabile”.
Fa una faccia scioccata e dice: “Ma sei proprio stronzo! Andiamo che è tardi” e comincia a camminare verso la porta di ingresso.
No, questa non è Sarah, non può essere lei; come ho fatto a non accorgermi di quanto sia bella? No, ci deve essere stato uno scambio di persone; la Sarah che conosco io, cioè quella che indossa prevalentemente magliette e pantaloni, preferibilmente della tuta, quella che porta sempre i capelli sciolti e non si mette mai un filo di trucco, non può essere quelle che ho di fronte; oppure lo è e io sono un grandissimo stupido, per non usare epiteti più coloriti.
“Sei rimasto incantato?”.
“No, stavo, stavo pensando ad una... Andiamo che siamo in ritardo” riesco a dire.
“È tutto apposto?”.
Non ne sono molto sicuro; “Sì certo” rispondo invece. Poi esco per primo e vado verso la macchina, apro la portiera e sto per salire quando Sarah dice: “Non mi apri nemmeno la portiera?”.
“Ah, già hai ragione” salgo, poi dal sedile del guidatore mi allungo per aprire la portiera a Sarah.
“Non era questo che intendevo, però fa niente” commenta salendo.
“Non avevo voglia di fare tutto il giro” le rispondo sorridendo, scuote la testa per mostrare il suo disappunto, io la ignoro e parto.
Mi guida fino a casa di Carol, dove troviamo anche Sabrina, almeno hanno avuto la buona idea di farsi trovare tutte in un unico posto, così risparmiamo tempo.
“Siete in ritardo” commenta Sabrina non appena sale in macchina.
“Questa volta non è colpa mia” metto subito le cose in chiaro.
“Possiamo evitare le chiacchiere? Parti, altrimenti non arriviamo più. Anche perché Sam mi ha scritto che ha bisogno del nostro aiuto per sistemare le ultime cose”.
“Agli ordini capo” dico, mentre mi immetto nel traffico.
“Per fortuna sta guidando lui” dice Carol a Sabrina non abbastanza a bassa voce.
“E con questo cosa stai cercando di dire?” chiede subito Sarah.
“Nulla, solo che...”.
“Guidi male quando hai fretta” le dico sorridendo.
“Ma! Va bene, lo hai voluto tu!” risponde seria, poi incrocia le braccia al petto e si volta dalla parte opposta.
Io, Sabrina e Carol scoppiamo a ridere per la sua reazione, e anche lei si unisce a noi dopo qualche secondo.
 
“Svolta qui, siamo arrivati” dice Sarah indicandomi una strada sulla sinistra. Giro e mi ritrovo in una corta strada che termina di fronte ad uno cancello di ferro battuto oltre il quel si vede un immenso prato.
“Questa è la casa si Samantha?” chiedo stupito, mentre il cancello si apre automaticamente e io comincio a percorrere un sentiero ghiaioso, che porta verso un’enorme villa a qualche centinaio di metri di distanza.
“Sì, appartiene alla sua famiglia da molte, molte generazioni; i suoi antenati possedevano una piantagione da queste parti, se non mo sbaglio, e questa era la casa padronale” mi spiegano.
“Niente male!”.
Mi fermo in uno spiazzo a qualche metro da casa, che sembra essere un parcheggio provvisorio preparato per la festa.
 
È una villa immensa, ancora più spettacolare all’interno che all’esterno, anche se non ho molto tempo per ammirarla dato che Samantha, appena ci vede, corre da noi e esclama: “Ho ancora miliardi di cose da fare! Se non mi aiutate non so se finirò in tempo”.
“Siamo qui per questo” risponde Sarah.
“Perfetto” e comincia a darci ordini.
A me toccano i lavori pesanti, cioè devo aiutare il vecchio maggiordomo a portare il cucina le casse con le bevande che verranno servite alla festa, sistemare nel giardino i tavoli e le sedie per gli invitati; insomma è una bella sfaticata, soprattutto perché devo stare attento a non rovinare il vestito che indosso.
 
“Grazie mille figliolo, con la mia artrite non posso più fare certi lavori” mi ringrazia il maggiordomo quando ho finito.
“Non si preoccupi, vado a sentire se hanno altri ordini per me”.
Raggiungo il cortile sul retro della casa, dove si terrà la festa e dove, al momento, stanno lavorando Sarah e la sua combriccola.
“Oh, giusto il tempo, avevamo bisogno di qualcuno alto che ci appendesse questo” sento dire appena le raggiungo.
“Agli ordini” e appendo anche lo striscione di buon compleanno ad un tendone che hanno montato nel giardino.
 
I lavori continuano per un altro paio d’ore, tuttavia la festa non inizierà fino alle nove, quindi abbiamo un po’ di tempo per riposare.
“E in anteprima, come sempre, ecco il nostro regalo!” dice Sarah mentre entro nel salone con in mano il regalo per Samantha, che avevamo dimenticato in macchina.
“Oh, grazie! Siete fantastiche!” esclama lei, le porgo il pacco e poi mi siedo, osservandole mentre commentano gli abiti che le hanno regalato.
“Però questa sera non fare come l’anno scorso, è estremamente imbarazzante stare in tua compagnia quando sei completamente ubriaca” dice Samantha ad un certo punto della conversazione; al che mi incuriosisco e entro anch’io nella conversazione.
“L’anno scorso si è ubriacata?” chiedo sorpreso; quest’oggi Sarah è una continua sorpresa per me.
“È stato solo un episodio isolato!” esclama Sarah.
“Questo te lo concedo, ma vedi di non avere una ricaduta” continua Carol.
“Che cos’è successo di preciso?”.
“Diciamo che ha provato ad affogare i suoi dispiaceri nell’alcool, ma il tentativo non è andato a buon fine” risponde Sabrina.
“Già, abbiamo dovuto evitare per due volte che si esibisse in uno spogliarello improvvisato e che si buttasse da una finestra del primo piano per vincere una scommessa fatta con uno” continua Samantha.
“Ora basta! Non ero in me, non accadrà più!” esclama Sarah rossa in viso, mentre noi ridiamo di lei.
“Ma ancora mi sfugge il motivo per cui si è ubriacata”.
“Era appena stata mollat-” inizia a dire Samantha, ma Sarah le tappa la bacca con la mano.
“Che ti prende?” le chiede appena riesce a togliersi la mano dalla bocca.
“Niente è che non...”.
“Non vuoi fare sapere che il tuo ragazzo ti ha lasciata? Non sei la prima che per dimenticare un uomo si da all’alcool!” dice Carol ridendo assieme a Sabrina e Samantha; invece io e Sarah non ridiamo.
Lei sembra troppo imbarazzata per farlo; io, invece, non conosco il motivo per cui non abbia voglia di ridere, so solo che in questo momento mi sento un po’ infastidito da questa scoperta.
“Questo non me lo avevi detto” le dico cercando di non far trasparire la mia irritazione.
“Non mi sembrava importante” ribatte seria, le altre smettono di ridere e ci guardano.
“Mi hai fatto la lista dei pesci rossi che hai avuto da quando ti sei trasferita, forse dirmi che hai un ragazzo non è leggermente più importante?”.
“Avevo, passato. È per questo che non ho detto nulla, è passato”.
“Non sono perfetti?” dice tutta sorridente Samantha.
“Già, litigano come una coppia senza nemmeno stare assieme” commenta Carol.
“Che state insinuando?” chiede Sarah, ancora più imbarazzata di prima.
“Nulla, nulla” rispondono quasi in coro.
“Oh, ma guarda che ora si è fatta!” esclama Samantha con un tono di finta sorpresa, “Tra poco inizieranno ad arrivare, è meglio andare a vedere se è tutto pronto!” conclude alzandosi, seguita a ruota dalle altre due.
“Sono delle idiote” commenta Sarah incamminandosi dietro di loro.
Io invece rimango ancore per qualche secondo seduto, a pensare a ciò che hanno detto, o meglio insinuato.
No, sarebbe troppo strano; siamo amici da sempre e non potremmo mai andare oltre... Oppure sì.
Scuoto la testa, basta pensarci.
 
Tempo mezz’ora e comincia ad arrivare gente, tutte persone che non conosco, quindi resto defilato ad osservare; su una cosa Sarah aveva ragione, sono tutti vestiti molto elegantemente, quindi ho fatto bene a darle ascolto.
“Ah, ecco dov’eri!” sento dire da qualcuno alle mie spalle, ovviamente riconosco la voce.
“Non dovrebbe essere tanto difficile trovarmi; sono rimasto sempre qui”.
Sarah si posiziona di fronte a me: “Appunto, non è normale restare soli in un angolo con una festa in corso”.
“Mi trovo bene qui” le rispondo sorridendo, ma lei mi guarda seria.
“Ti da fastidio tutta questa gente?” chiede.
“Solo un pochino. Non sono più molto abituato a stare in mezzo alla folla, soprattutto se sono ragazzi mezzi ubriachi”.
“Vuoi che ce andiamo?”.
“No! Ma ti pare! Non preoccuparti per me, va a divertirti!”.
“Per adesso non c’è niente; ho già parlato con tutte le persone che conosco e la torta non è ancora arrivata, quindi non ho nient’altro di meglio da fare che restare qui a chiacchierare con te”.
“Okay, allora di che cosa vuoi parlare?”.
“Non saprei...”.
“Io sì!” dico, “Su che cosa state lavorando tu e... l’altro, il tuo compagno di scienze?”.
“Richard?”.
“Quello”.
“Richard” ribadisce lei, “Comunque stiamo lavorando ad un progetto di scienze”.
“Sì, lo so, lo hai già detto, ma di che si tratta?”.
“Un esperimento con i batteri; stiamo cercando di scoprire qual è il terreno di coltura ottimale per diverse specie di batteri”.
“Batteri. Interessante” dico con ironia non troppo velata.
“Ti posso assicurare che sono più interessanti gli organismi unicellulari di alcuni organismi pluricellulari di mia conoscenza”.
“Non posso darti torto”.
“Comunque non è stata una mia idea; è stato Richard a proporre questo esperimento alla professoressa e poi ha insistito affinché partecipassi anch’io, anche se non ho capito perché voleva il mio aiuto”. Io so perché voleva io tuo aiuto, però tengo questo pensiero per me.
“Ne vuoi ancora?” chiede indicando il mio bicchiere vuoto, “Tanto devo andare a prenderla anch’io”.
“Okay” rispondo passandole il mio bicchiere, “Però per te è l’ultimo, non vorrai fare la fine dell’anno scorso” aggiungo sorridendo.
“Ah, ah, ah. Ma quanto siamo divertenti”.
Ritorna dopo un paio di minuti, ma non è da sola; con lei ci sono Samantha, e fin qui va tutto bene, e i tre tizzi di ieri, quelli con i piercing in faccia.
Il capobranco sta parlando con Sarah, che comunque non sembra prestargli molta attenzione.
“Tieni” dice allungandomi il bicchiere quando mi si avvicina.
“E così c’è anche il tuo amico” commenta il capo banda di cui sinceramente non m’interessa ricordarmi il nome.
“Sì e adesso se non ti dispiace vorrei continuare a parlare con lui, tu torna a fare quello che stavi facendo prima di incontrare me”.
“Stavo cercando te” risponde sorridente.
“Ottimo, mi hai trovato, mi hai parlato, quindi ora ciao!” conclude voltandosi nella mia direzione.
“Neanche per idea!” continua imperterrito afferrandole il volto con una mano e costringendola a voltarsi nuovamente verso di lui. Sarah non fa in tempo a reagire che qualcosa colpisce il tipo dritto sulla mascella; qualcosa che scopro essere il mio pugno destro.
Rimango per qualche istante sorpreso ad osservare il mio braccio proteso, il mio pugno chiuso e il tipo caduto a terra. Contando che mi fa abbastanza male la mano, devo avergli dato un bel colpo, anche se è stato del tutto involontario.
Poi Sarah si piazza davanti a me gridando qualcosa del tipo: “Ma che ti è saltato in mente!”, mentre Samantha si china per aiutare l’altro a rialzarsi mentre anche lei urla frasi del tipo: “Lucas stai bene?”.
Lucas si rialza massaggiandosi la mascella; mi aspetto una reazione da parte sua, e lo stesso Sarah, dato che cerca subito di correre hai ripari: “Forse è meglio se andiamo a farci un giro” propone rivolgendosi a me.
“Sì, forse è meglio” rispondo.
Ce ne andiamo, tuttavia il tipo non ha altra reazione se non quella di lanciarmi una strana occhiata; strana nel senso che non riesco ad interpretarla.
 
Camminiamo per qualche minuto, allontanandoci dalla gente, percorrendo un piccolo sentiero illuminato che si inoltra nel giardino della villa, che tra parentesi è veramente enorme.
All’improvviso si ferma e mi guarda: “Perché gli hai dato un pugno?”.
“Non ne ho idea. Ho capito ciò che stavo facendo solo dopo averlo fatto. Mi dispiace”.
“No, cioè sì, ti devi dispiacere, non avresti dovuto farlo; però a me non è dispiaciuto, nel senso che se non lo avessi fatto te, gli avrei dato io volentieri un pugno!” esclama, mentre stringe le dita a pungo e lo alza di fronte al volto, “Comunque non fare mai più una cosa simile!” aggiunge dopo qualche istante. Io non posso non evitare di mettermi a ridere e dopo di me scoppia a ridere anche lei.
Quando ci calmiamo lei mi guarda seria: “Mi è appena venuta in mente una cosa”.
“Spara”.
“Non mi hai ancora chiesto di ballare” e mi sorride.
“E mai lo farò! Tu non mi vedrai mai ballare!”.
“Vuoi scommettere?”.
“Ehm, no, perché so già che perderei”.
“Esatto, e ora torniamo” dice prendendomi per mano e trascinandomi indietro.

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Capitolo 9
*** A spasso con Jason ***


La festa continua fin verso le tre di notte e ovviamente Sarah riesce a farmi ballare con lei almeno una volta.
Noi due siamo gli ultimi ad andare via, Carol e Sabrina si sono fatte accompagnare a casa da altre persone.
“È stato divertente, no?”.
“Tranne che per una cosa” rispondo serio; lei mi guarda per qualche istante, poi anche lei diviene seria e dice: “In quell’occasione hai sbagliato anche tu, Lucas sarà pure...”.
“Non mi riferisco a quello”.
Mi guarda un po’ confusa, poi sembra illuminarsi: “Sì ho capito. Non ti costringerò mai più a ballare...”.
“No sei fuori strada. Io sto parlando di quando ti è caduto addosso quel tipo ubriaco” dico, cercando di evitare di mettermi a ridere.
“Hai ragione, non è stato per nulla divertente” aggiunge lei seria.
“infatti; definire quell’episodio divertente sarebbe riduttivo, io direi che è stato esilarante, epico, soprattutto la parte in cui cercava di baciarti e tu gli hai stampato una bella cinquina in faccia” concludo scoppiando a ridere, mentre lei si limita a sbuffare fingendosi irritata.
 
 
 
Quando mi fermo davanti a casa sua e ci salutiamo ho come l’impressione che si sarebbe aspettata qualcosa di più che un semplice “ciao” detto a mezza voce, dato che rimane qualche secondo a guardarmi prima di aprire la portiera e scendere. Ho quest’impressione, ma potrei anche sbagliarmi.
Dopodiché arrivo a casa, mi butto sul letto.
E mi risveglio urlando.
Mi metto seduto e mi guardo attorno; deduco che non è più notte dal fatto che c’è troppa luce, così porto gli occhi sulla sveglia: cinque alle nove.
Decido che è troppo tardi per provare a riaddormentarmi, così scendo dal letto e vado in cucina, dove trovo i miei che stanno facendo colazione, così mi unisco a loro.
Quando finisco di mangiare esco di casa. Potrei andare a trovare Sarah, ma magari sta ancora dormendo; dopotutto siamo tornati a casa solo sei ore fa e lei non ha incubi che possono disturbarle il sonno. Quindi in totale non so cosa fare, come al solito del resto.
Mentre sono fermo in mezzo al marciapiede decidendo cosa fare, noto una faccia conosciuta dall’altra parte della strada; così attraverso e vado in contro a Jason.
“A quanto pare siamo destinati ad incontrarci casualmente”.
Lui si ferma e mi sorride; “Direi proprio di sì” risponde, poi riprendiamo a camminare.
“Sei ancora in giro con le tue amiche?”.
“No, sono solo”.
“E stavi andando da qualche parte?”.
“In effetti no”.
“Io ho anche oggi un bel po’ di lavori da sbrigare, hai voglia di farmi ancora compagnia?”.
“Certo, perché no”.
“Per prima cosa devo andare nella biblioteca in cui lavoro; so che è domenica, ma ho ancora dei libri da catalogare e avrei dovuto finire ieri di farlo”.
 
 
 
Mi cade un libro dalle mani e il tonfo spezza il silenzio di questo luogo.
“Scusa” dico immediatamente, appoggio i libri che ho tra le braccia e raccolgo quello caduto.
“Certo che è un bel mattone” commento raccogliendolo.
“Che cos’è?” chiede Jason, che si trova qualche passo davanti a me e mi da le spalle.
“Uhm, Guerra e Pace”.
“Ah, quel libro lo so quasi a memoria”.
“Davvero?”.
“Per sei anni ho avuto una babysitter russa e tutte le sere mi leggeva quel libro prima di andare a dormire”.
“Però! Non ti invidio”. Si volta sorridendo verso di me.
“Non ti interessano proprio i libri, vero?”.
“Sì, cioè leggo, non molto spesso però qualcosa leggo anch’io; ma prevalentemente libri digitali”.
“Ognuno ha i suoi gusti” commenta, mentre riprende il suo lavoro: annota i titoli dei libri sugli scaffali, ne segna alcuni che io prendo e porto su una grande scrivania.
Non ho ben capito a cosa serva tutto questo, ma non importa, mi limito a fare ciò che mi dice.
“Posso chiederti una cosa?”, lui annuisce, “Com’era vivere con tuo zio? Da bambino, intendo, prima che ti facesse entrare nel suo mondo”.
Rimane immobile e in silenzio per qualche istante, poi riprende a fare ciò che stava facendo e mi risponde: “In tutta sincerità non era niente male; come ti ho già detto, da bambino mio zio era molto gentile, tutto ciò che volevo lo ottenevo immediatamente; mi bastava chiedere. E questo non succedeva solo con mio zio, ma anche con i miei amici, o meglio con i ragazzini con cui giocavo. Non credo che amici sia il termine corretto, dato che stavano assieme a me solo per paura. Infatti erano tutti ai miei ordini, e devo ammettere che mi piaceva, anche se non sapevo capivo il motivo del loro comportamento”, si volta a guardarmi, “A volte capitava che qualche ragazzino, magari più grande di me, osasse discutere la mia autorità, e immancabilmente dopo un paio di giorni lui e la sua famiglia si trasferivano altrove. E quando ciò avveniva mi sentivo ancora più importante e potente di prima. Ovviamente quando ho scoperto il motivo di tutto ciò me ne sono vergognato. Mi sono vergognato di me stesso e del fatto che non avessi capito il vero motivo per cui fossi circondato da tanti “amici”; tuttavia, contemporaneamente a ciò, non potevo non essere arrabbiato con loro, mi sentivo tradito e, devo ammetterlo, per un po’ di tempo ho pensato di vendicarmi. Fino a quel momento avevo usufruito della mia posizione in modo inconsapevole, perché non iniziare a farlo con consapevolezza? Ma non l’ho mai fatto, anche perché il mondo a cui mi aveva iniziato mio zio richiedeva la maggior parte del mio tempo; e io mi ci sono immerso, anima e corpo, per non deluderlo”.
Finisce di parlare e riprendiamo a sistemare i libri in silenzio.
“Invece a te come andava la vita prima di finire in India?”.
“Mah, non saprei. Cioè sicuramente meglio che là, però non è che me la spassavo. Avevo un bel po’ di problemi con la scuola; come anche adesso del resto, non avevo per nulla voglia di studiare e ovviamente i miei erano alquanto arrabbiati con me”.
“Capisco”.
 
 
 
“Ti avevo detto che è un posto accogliente”.
“Sì, hai ragione” commento guardandomi attorno; ha insistito per andare a mangiare in un ristorante vicino alla biblioteca, dato che si mangia molto bene e il proprietario è un suo amico, di conseguenza riceveremo un trattamento speciale; inoltre ha detto che è un posto tranquillo, perfetto per chi vuole mangiare in pace.
E sulla tranquillità ha ragione; anche se il locale è discretamente affollato, è stranamente silenzioso: poche persone stanno parlando e chi parla, lo fa a bassa voce.
“Oh buon giorno signore; vedo che ha ospiti oggi! Vuole mangiare al solito tavolo o ne preferisce un altro?”.
“No, il solito va bene, Scott, grazie”.
Lo seguo attraverso il locale, fino ad un tavolo in fondo alla sala.
“Hai scelto proprio un bel posto” commento quando ci sediamo.
“Da qui posso controllare tutto ciò che succede senza essere visto” mi risponde. Sorrido e non aggiungo altro.
Dopo un paio di minuti un cameriere viene a prendere le nostre ordinazioni e dopo nemmeno dieci minuti stiamo già mangiando. E devo ammettere che anche sul fronte cibo Jason aveva ragione.
“Devo ammettere che hai ottimi gusti in fatto di locali” commento quando finiamo di mangiare. Lui sorride: “Scott è molto esigente, la cucina per lui è un’opera d’arte e pretende di avere solo le migliori materie prime e i migliori artisti in circolazione. È per questo che è entrato in affari con mio zio: lui procura le eccellenze che il mercato può offrire, mentre Scott permette che nei suoi locali si svolgano attività che sarebbe meglio non praticare alla luce del sole”.
“Capisco” commento.
 
 
 
“Grazie ancora per il disturbo”.
“Ma figurati”.
“Quando si va in giro con una carretta di vent’anni questi sono i rischi”.
Ci mettiamo a ridere, mentre entro in casa.
“Mamma?”.
“Sì?”.
“Posso prendere ancora in prestito la tua macchina? Dovevo andare fuori città con un mio amico, ma la sua auto l’ha lasciato a piedi”.
“Va bene, ma stai attento!”.
“Come al solito”. Prendo le chiavi e raggiungo Jason, che è rimasto fuori ad aspettarmi.
Saliamo in macchina, parcheggiata davanti a casa.
“Questa sì che è una bella auto” commenta appena sale.
“Probabile, non che mi interessino poi molto le auto. Piuttosto tu non hai mai pensato di cambiarla, quante parti di quel catorcio non si sono mai rotte?”.
“Forse solo i sedili, ma solo perché gli ho cambiati quando l’ho comprata; e comunque avrei un bel po’ d’auto di ricambio, ma non mi va di usarle”.
“Giusto, non ricordavo più la decisione di non vivere con i soldi di tuo zio”.
“In realtà non è per quel motivo; o meglio centra anche quello: se devo comprare un auto lo farò con i miei soldi. Tuttavia le macchine a cui mi riferisco sono quelle della “collezione” personale di mio zio”.
“Collezionista d’auto d’epoca?”.
“Anche. Diciamo che apprezza le auto di lusso”.
“Ho capito”.
“E un giorno ho avuto una brutta esperienza guidando una sua auto, così ho... perso i miei diritti sul suo garage”.
“Una brutta esperienza?”.
“Una sera, di ritorno da una cena, una pattuglia mi ha fermato. Guidavo senza patente, quasi ubriaco e superavo di cento miglia orarie il limite consentito. Mio zio ha risolto immediatamente la situazione, però ho perso un pochino la sua fiducia. Mi riteneva una persona con più giudizio, a quanto pare” conclude sorridendo.
Metto in moto e partiamo.
“Certo che le tue giornate sono sempre piene di impegni” commento dopo un po’, ricordando la lista di faccende che deve sbrigare ogni giorno.
“E questo è un periodo relativamente tranquillo; per ora non sono ancora previste importanti attività”.
“Quindi per oggi manca ancora l’auto officina e poi quel tuo amico?”.
“Sì, e dopo di queste non avrò più bisogno dell’auto, quindi se devi andare...”.
“Non ti preoccupare, non ho altro da fare”.
“Bene”.
 
 
 
“Parcheggiati pure lì, sei con me quindi non faranno storie”.
“Sono sempre più convinto che essere un tuo amico sia molto vantaggioso” commento ridendo, mentre parcheggio nell’unico posto rimasto libero: quello personale del proprietario.
“Sì, finché non ti troverai coinvolto in situazioni spiacevoli” risponde, poi esce dall’auto. Scendo anch’io ed entriamo nella concessionaria.
“Dai pure un’occhiata in giro, io devo parlare con il proprietario”.
“Okay”, poi lui si allontana e io comincio a girare, finché non vedo delle sedie da cui posso tenere d’occhio la porta in cui è entrato Jason, così decido di sedermi.
Comincio a sfogliare svogliatamente una rivista, ma dopo qualche minuto qualcuno si piazza di fronte a me.
Alzo lo sguardo e mi trovo di fronte il tipo a cui ieri sera ho dato un pugno.
Per qualche secondo rimango sorpreso: com’è possibile che ovunque vada me lo ritrovi di fronte; poi mi ricordo che Sarah aveva accennato al fatto che i suoi avessero aperto una concessionaria in città e questa è l’unica concessionaria che c’è in questa città. Il mondo è proprio piccolo.
Rimane in piedi, fermo di fronte a me. Temo di sapere quali siano le sue intenzioni e cerco di correre ai ripari; così mi alzo in piedi anch’io.
“Senti, mi dispiace per ieri sera, non...” inizio a dire.
“Tranquillo, il tuo destro è stato molto eloquente e io non sono il tipo che porta rancore a persone in grado di stendermi con un pungo, preferisco averli come amici”.
“Non posso darti torto”.
“Quindi amici come prima?” dice allungandomi la mano; per qualche secondo rimango fermo a guardarla, chiedendomi se è serio o sta scherzando. Poi decido di assecondarlo e stringo la mano.
“Bene. Ora che abbiamo dimenticato tutti i nostri screzi passati, ti posso invitare a partecipare ad un evento che si terrà tra qualche settimana? Per adesso è ancora tutto in fase di preparazione, ma ti assicuro che sarà qualcosa che rivoluzionerà questa tranquilla cittadina; e vorrei che tu partecipassi”.
“Va bene, ci sto” rispondo non sapendo cos’altro dire.
“Ottimo” poi mi saluta e se ne va.
Mi risiedo e lo guardo allontanarsi, sempre più stupito del suo comportamento.
Dopo un paio di minuti Jason esce dalla stanza e io lo raggiungo.
“Ho avuto una strana conversazione con il figlio del proprietario” inizio a dire appena usciamo, Jason si volta a guardarmi, “Sì, purtroppo lo conosco. Comunque mi ha accennato qualcosa in merito ad un evento molto particolare. Tu ne sai qualcosa?”.
“Sì” risponde semplicemente.
“Uhm, mi piacerebbe sapere di che si tratta, dato che ho accettato di parteciparvi”.
“No, fidati non è qualcosa che ti può interessare. Restane fuori”.
Dire che rimango stupito dalle sue parole, soprattutto dal modo in cui lo dice, è poco; mi fermo e lo guardo andare tranquillo verso la macchina. Quando arriva e si accorge che sono rimasto indietro di qualche passo, si volta a guardarmi.
“Che ti prende?” chiede.
“Tu. Non mi devo preoccupare, vero? Non è che si tratta di... non saprei incontri illegali, combattimenti con i cani o robe del genere? In quel caso non so se...”.
“No, nulla di simile. Ma è meglio se ne resti fuori, tu che puoi”.
“D’accordo” dico per nulla rassicurato.
Saliamo entrambi in macchina; la nostra prossima destinazione è un altro suo “amico” che abita in un paese qua vicino.
 
 
 
“Da una concessionaria ad un autofficina; come mai oggi sei così interessato alle auto?”.
“Sono solo questioni di lavoro” mi risponde mentre scende.
Appena entriamo veniamo immediatamente notati.
“Jason! Non speravo più in una tua visita! Ti sei dimenticato di me?” esclama l’uomo che si è avvicinato a noi, mentre lui e Jason si abbracciano.
Mi sa che questo è veramente suo amico.
“Certo che no. Fino ad ora non ho avuto motivo di venire a trovarti”.
“Ma certo. Ora venite, andiamo nel mio ufficio”.
Ci indica una porta alla nostra destra e noi lo seguiamo.
Il suo ufficio è uno stanza non molto grande, una poltrona un po’ sgualcita alla mia sinistra, un brutta scrivania di legno al centro della stanza, due sedie che hanno visto tempi migliori da un lato, un’altra sedia dall’altro, un vecchio portatile ronza tranquillamente in un angolo della scrivania e, per chiudere in bellezza, una finestra rotta si affaccia sull’autostrada che passa qua vicino. È proprio un posto accogliente.
“Allora, immagino che tu sia interessato a questi” dice raccogliendo dei fogli sparsi sulla scrivania, “E alla merce, che trovi sul retro” conclude sedendosi sulla sedia. Jason si siede e comincia a leggere velocemente i fogli. Mi accomodo anch’io.
“Sì, okay Vince. Comunque non arriveranno prima di una settimana”.
“Non c’è problema”.
“Bene, allora vado a controllare la merce già arrivata”.
“Sì certo, fatti aprire da uno dei ragazzi” e quindi Jason esce lasciandomi da solo con Vince che si accomoda meglio sulla sedia e dalla tasca interna della giacca estrae un astuccio di ferro, dentro vi sono dei sigari.
“Ne vuoi uno figliolo?” chiede.
“No grazie, non fumo”.
“E fai bene, anch’io dovrei smettere”.
“Comunque non penso di essere molto più giovane di te”.
A vederlo non gli darei più di una trentina d’anni, anche se non li porta molto bene: capelli già radi, un po’ di rughe sul volto e un fisico che rivela la sua scarsa attitudine all’attività fisica.
Alle mie parole scoppia a ridere: “Eh, già, hai ragione. Mi piace darmi delle arie”, mette il sigaro in bocca, “Come per i sigari; li fumo soltanto per darmi importanza”. Non aggiungo nulla e tra noi cala il silenzio, mentre fuma però continua ad osservarmi intensamente.
“Tuttavia sono sicuro di averti già visto” dice ad un certo punto, “Non sembri essere del giro, ma la tua faccia non mi è nuova”.
“Ti confondi con qualcun altro”, lui si stringe nelle spalle, poi appoggia nel posacenere il sigaro.
“Quindi se non sei del giro, come hai conosciuto Jason?”.
“A scuola, è un compagno di corso”.
“Interessante”.
“E tu? In questi giorni mi ha fatto conoscere un po’ di suoi “amici”, ma tu sembri l’unico ad esserlo veramente”.
Mi sorride, “È una storia molto vecchia. In sintesi Jason mi ha letteralmente salvato il culo quando eravamo ancora dei ragazzini e... beh non posso non essergli riconoscente”, appena finisce di parlare si apre la porta ed entra Jason.
“Bene, sembra sia tutto apposto”.
“Ovviamente, ci sono io a gestire la situazione!”.
“Okay, allora noi andiamo e ti lasciamo al tuo lavoro” risponde sorridendo. Salutiamo Vince e ce ne andiamo.
“Quindi ora?” chiedo mentre torniamo.
“Ora, se mi vuoi ancora accompagnare, devo fare prima un salto a casa, poi ci sono ancora un paio di posti da visitare”.
 
 
 
“Siete stati tutto il pomeriggio in giro?” chiede mia madre appena torno a casa.
“Sì, aveva un bel po’ di commissioni da sbrigare”.
“Ah, okay. Tra mezz’ora io e tuo padre mangiamo, poi dobbiamo uscire”.
“Ah, non lo sapevo”.
“Tu mangi con noi o più tardi?”.
“No, è troppo presto adesso, farò scaldare qualcosa più tardi”.
Salgo in camera mia intenzionato a fare qualcosa quando il mio telefono comincia a suonare.
“Sarah?”.
“Ciao. Disturbo?”.
“No, certo che no!”.
“Volevo sapere, visto che mio fratello non c’è e che anche i miei escono...”.
“Anche i tuoi escono questa sera?”.
“Sì, certo, assieme ai tuoi”.
“Ah, okay, adesso capisco”.
“Comunque, stavo dicendo, ti andrebbe se ordiniamo una pizza?”.
“Certo, perché no. Mezz’ora e arrivo”.

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Capitolo 10
*** Dream ***


Suono il campanello e neanche dieci secondi dopo Sarah mi apre.
“Ah, sei tu” dice delusa.
Rimango abbastanza spiazzato dalle sue parole, dopotutto è stata lei ad avermi invitato.
“Scusa, se disturbo posso anche tornare a casa”.
“No! No, non... Sto aspettando mio padre. Dovrebbe tornare a portarmi i soldi per pagare la pizza”.
“Ah, beh ho con me qualcosa, dovrebbero bastare per un paio di pizze”.
“Perfetto, allora smetto di preoccuparmi”, poi sorride: “Cancella e rifacciamo dall’inizio”, fa una pausa poi esclama: “Ciao! Sei arrivato!”.
“Sì! Che bello vederti!” dico facendole il verso.
“Ah, ah. Entra, forza”.
La seguo dentro casa fino in cucina, dove trovo la tavola mezza apparecchiata.
“Teoricamente dovrebbe essere qui a minuti” mi informa, mentre prende due piatti e li appoggia sul tavolo, poi io li sistemo.
“Allora cosa hai fatto oggi di bello?” chiede, ma subito dopo suona il campanello e quindi corre alla porta.
Dopo qualche secondo mi affaccio dalla cucina, e chiedo: “Tuo padre o la pizza?”.
“Papà” risponde mentre torna indietro.
Ci sediamo entrambi al tavolo ad aspettare.
“Stavo dicendo” riprende a parlare, “Come hai trascorso la giornata?”.
“Sono stato in giro con Jason”.
“Jason del corso di biologia? Siete diventati amici?”.
“Sì, beh, forse... cioè più o meno”.
“Lasciamo perdere” dice vedendomi in difficoltà.
A questo punto suona nuovamente il campanello.
“Pizza! Vado io!” dico, poi, prima che lei possa muovere un muscolo, afferro al volo i soldi che Sarah ha lasciato sul tavolo e corro via.
Apro la porta, prendo le pizze, consegno i soldi, poi invece di tornare in cucina appoggio i cartoni delle pizze sul divano vicino alla porta e li apro; come sospettavo ne ha ordinata una con il salame piccante e una ai funghi.
Queste sono le nostre pizze preferite, tuttavia tra le due preferiamo senza ombra di dubbio quella ai funghi e, praticamente da sempre, ogni volta che ci troviamo di fronte ad una pizza ai funghi ci mettiamo a litigare per decidere chi deve mangiarla. Però mi sa che oggi si è dimenticata delle nostre dispute, altrimenti non sarebbe rimasta in cucina ad aspettarmi.
Con un sorriso di trionfo sulle labbra ritorno da lei.
“Sei dovuto andare in pizzeria per fartele consegnare?” dice ironica.
“Il ragazzo ha avuto problemi nel darmi il resto. Comunque ecco la tua pizza” rispondo porgendole un dei due cartoni, poi piazzo l’altro di fronte a me. Mi siedo e la guardo: quando vede che pizza ha davanti, il sorriso che ha sulle labbra muore.
“Ma non avevo ordinato una pizza ai...”.
“Funghi?” completo la frase per lei, “Sì, certo, eccola qui” continuo aprendo il cartone con dentro la mia adorata pizza; immediatamente, anche se scotta, ne prendo una fetta e la addento. Lei mi fissa stupita per un paio di secondi, poi si riscuote: “Quella è mia!” urla, cercando di prendermi la fetta che ho tra le mani.
“No, l’ho presa per primo e me la mangio” ribatto ridendo.
“Ma dai! Smettila di fare il bambino e dammi la mia pizza!”.
“Io starei facendo il bambino! Tu allora, piccola bambina viziata?”. Colpita e affondata; infatti non aggiunge altro e sbuffando prende una fetta della sua pizza e, con aria da martire, la addenta.
“Va bene, ti lascio una fetta” dico fingendomi esasperato.
“Grazie!” risponde immediatamente sorridendo.
 
“Quindi che si fa adesso?” chiedo quando ci trasferiamo in sala dopo aver finito di mangiare.
“Un’idea ce l’avrei, anzi più di un’idea” va verso il televisore e lo accende; sullo schermo compaio alcuni titoli di film, tra cui uno attira la mia attenzione.
“Quello è...”.
“Sì, proprio lui. Ho fatto un po’ fatica a trovarlo, ma ne è valsa la pena”.
“Quindi la tua idea è di guardare quel film?”.
“Sì! Non penso ci farà ancora paura!”.
“Non pensi? Sento già dei brividi scendere lungo la schiena”.
“Fifone, scommettiamo. Chi non si spaventerà, la prossima volta si mangerà la pizza con i funghi”.
“Okay, ci sto” rispondo stringendole la mano. Poi mi accomodo sul divano di fianco a lei.
“Coraggio fai partire” la incito, visto che se ne sta seduta sul divano con il telecomando in mano senza fare nulla.
“Sì, non farà più paura” dice a bassa voce, penso più a se stessa che a me.
Il fatto è che questo film lo abbiamo visto una volta tanto tempo fa, diciamo una decina di anni fa più o meno; eravamo a casa da soli e così abbiamo deciso di guardarci un film dell’orrore molto popolare all’epoca. Tutte le persone che conoscevamo ad averlo visto, ci avevano avvertito del fatto che fosse un film veramente terrificante, ma non gli abbiamo dato retta e... è stato veramente terrificante. Non mi sono mai spaventato così tanto guardando un film, né prima né dopo.
Fa partire il film.
La storia in realtà è banale: due ragazzi si ritrovano di notte in una casa sperduta in mezzo ad un bosco infestata da “spiriti maligni” che cercano di ucciderli. Un classico.
Sbadiglio sonoramente mentre scorrono i titoli di testa.
“Sonno?”.
“In questi ultimi giorni ho dormito poco” rispondo.
“Capisco”.
Mi sistemo più comodamente sul divano e chiudo gli occhi; li riapro quando sento le voci dei due protagonisti.
Anche se sono passati un po’ di anni, me mi ricordo ancora ciò che succede a grandi linee; ed è per questo che dopo una decina di minuti mi accorgo di un particolare strano: la ragazza del film assomiglia molto a Sarah.
Boh, magari ricordo male.
I primi venti minuti sono tranquilli, quindi me ne sto bello rilassato ad aspettare il momento fatidico, che alla fine arriva.
Adesso aprono quella porta e...
Sarah sussulta, poi si stringe al mio braccio; io abbasso lo sguardo verso di lei e lei lo alza verso di me.
“Non una parola, okay?” mi minaccia, ma non ho alcuna intenzione di prenderla in giro, dato che mi sono spaventato anch’io.
Riporto l’attenzione sul film, che ora si è fatto molto movimentato.
I protagonisti cominciano a scappare per tutta la casa cercando di trovare una via d’uscita, e dopo qualche minuto mi accorgo di un altro particolare strano: la disposizione delle stanze, i mobili che vengono inquadrati, insomma la casa stessa è molto, molto simile alla mia.
Possibile che non me ne sia mai accorto?
“In cantina; sono sicuro che in cantina ci sono delle armi che possiamo usare” dice ad un certo punto il protagonista.
No, impossibile, sono sicuro che in questo film non ci siano armi.
Che non me lo ricordi più molto bene è un conto, ma un particolare del genere non posso averlo dimenticato! Dopotutto alla fine i due vengono uccisi proprio perché non trovano nulla con cui difendersi, quindi qui c’è qualcosa che non va.
Vorrei chiedere a Sarah se non le sembra strano ciò, ma vengo distratto da quello che avviene nel film.
I due protagonisti raggiungono la porta della cantina, che come a casa mia, si trova in cucina; la aprono, scendono e lì trovano su di un tavolo pistole e fucili militari, identici a quelli che usavo io.
Il ragazzo prende una pistola, che consegna alla ragazza, mentre per se prende un fucile d’assalto, poi ritornano velocemente al piano di sopra e vanno verso la porta di casa, si avvicinano
 
Abbasso la maniglia e mi volto a guardare Sarah, “Non ti allontanare da me per nessun motivo, capito?”, lei annuisce titubante; posso vedere il terrore nei suoi occhi e la posso capire, ciò che ci aspetta fuori è l’Inferno.
Sono già sopravvissuto una volta, ma non è bastato, ci sono dovuto tornare ancora e questa volta sarà ancora peggio: sono da solo.
Da solo e con Sarah da proteggere.
Da solo e contro i miei amici, contro i miei compagni.
Aumento la stretta sul fucile e respiro profondamente; è inutile rimandare, loro stanno per entrare e qui dentro saremmo in trappola, è meglio affrontarli in campo aperto.
“Va bene, andiamo” poi spalanco la porta e corro via.
Corro al massimo delle mie forze e per fortuna Sarah riesce a seguirmi. Mi fermo dopo qualche centinaio di metri e ci mettiamo al riparo dietro un albero.
La giungla attorno a noi è completamente immersa nell’oscurità e nel silenzio; i soli rumori sono i nostri respiri accelerati.
“Okay, siamo fuori, non saprei dire se ci abbiano visto o meno. Da adesso dobbiamo muoverci in silenzio e dobbiamo stare attent-”, uno sparo risuona fra gli alberi e un proiettile si conficca nella corteccia a qualche centimetro della mia testa. Immediatamente spingo via Sarah, mi volto e sparo dei colpi alla cieca, poi le afferro la mano e comincio nuovamente a correre.
Delle voci allo nostra destra, scatto a sinistra; altri spari, ci gettiamo a terra, rotolo dietro ad un riparo a rispondo al fuoco.
“Ragazzo cosa vuoi fare, pensi di riuscire a sopravvivere? Da solo?” dice una voce, la voce di Phil.
“Perché continui a lottare? Arrenditi e torna con noi!” esclama un’altra voce, quella di Jen.
Io stringo i denti e sparo ancora verso l’oscurità da cui provengono quelle voci.
Per fortuna li manco, dato che sento i loro passi allontanarsi.
Vicino a me sento Sarah muoversi, poi una mano si appoggia alla mia spalla.
“Tranquilla; andrà tutto bene” dico più a me che a lei, “Dobbiamo solo resistere fino all’alba”, si avvicina ancora di più e si stringe a me, io la abbraccio. “Coraggio, dobbiamo muoverci”, poi ci alziamo e riprendiamo a camminare.
Ci muoviamo lentamente tra gli alberi, finché non trovo un posto che ci può fornire un buon riparo: si tratta di alcune rocce, disposte a formare più o meno un semicerchio che, quindi, forniscono protezione su tre lati.
Entrambi ci lasciamo cadere al suolo.
“Tu, tu li conosci?” chiede sussurrando.
“Sì, erano i miei compagni di squadra”.
“Non avevi detto che erano tutti morti?”.
“Sì, è vero”.
“Allora cosa vogliono da te?”.
“Nulla. Sono io che voglio qualcosa da loro: voglio tornare da loro”.
“Perché non vai?”.
Impiego qualche secondo a rispondere: “Perché ci sei tu. Non ti posso abbandonare, devo proteggerti”. Cala il silenzio; dopo qualche secondo comincio a sentire un rumore strano e capisco che è Sarah che sta tremando.
“Hai freddo?”.
“Sì” risponde, così mi avvicino di più a lei e le faccio passare un braccio attorno alla spalle per poi attirarla a me, appoggia la testa al mio petto e poi sento che si alita sulle mani.
Effettivamente è gelata, constato appoggiandole una mano su una guancia.
“Prova a dormire un po’. Siamo svegli da quasi un giorno”.
Si sposta ancora più vicina a me e poi la sento sospirare, aumento la stretta e appoggio il mento sulla sua testa; dopo qualche secondo sento il suo respiro farsi profondo e regolare.
Per adesso sono tranquillo, a pochi metri da noi si sentono degli uccelli notturni cantare, e se lo fanno vuol dire che non c’è pericolo; quindi forse mi posso concedere anch’io qualche istante di riposo.
 
Vengo svegliato dal rumore di passi.
Spalanco gli occhi e afferro il fucile che addormentandomi avevo fatto cadere a terra.
Sarah sta ancora dormendo appoggiata a me.
Il rumore di passa si avvicina; la scuoto leggermente per svegliarla, ma senza successo; poi vedo qualcosa che mi sciocca: il buio della notte è rotto dalla luce di alcune torce.
Maledizione con quelle ci troveranno di sicuro.
La scuoto con più forza e riesco a farla svegliare.
“Stai pronta a correre” le dico immediatamente, mentre la costringo ad alzarsi in piedi.
I passi sono vicinissimi e sento la voce di Marco dire qualcosa, e non penso che stia parlando da solo, quindi probabilmente sono in due.
“Okay, ora ascoltami attentamente. Adesso io esco e li distraggo, tu devi correre via il più velocemente possibile, non importa dove; devi solo correre e resistere fino all’alba”.
“No, non...”.
“No” la interrompo, “Non c’è tempo, fa ciò che ti ho detto”, poi la lascio e esco dal nascondiglio.
Per poco non mi scontro contro Marco.
Per un istante rimaniamo immobili, poi lui alza il fucile e io corro via.
“Non rendere le cose più difficili!” urla Marco.
“Sai che non è questo ciò che vuoi! Fermati e vieni con noi!” urla a sua volta Fred.
Devo fare uno sforzo incredibile per non fermarmi, per non ascoltarli. Mi impongo di pensare a Sarah; so che se la dovessero trovare la ucciderebbero, lei è l’unica cosa che mi impedisce di lasciare tutto.
Una raffica di fucile spazza il terreno a qualche metro da me; d’istinto rispondo al fuoco, ma mi fermo subito, non posso sparare contro di loro; l’unica cosa a cui devo pensare in questo momento è di allontanarli da Sarah.
Ma il mio piano non ha successo.
L’urlo di una ragazza risuona nella notte; immediatamente i miei due inseguitori si fermano e io con loro.
“Bene, l’hanno presa; adesso potremmo...” e non riesco più a sentirli perché mi sono messo a correre in direzione del grido.
Altre urla mi guidano nella notte.
Più mi avvicino a Sarah, più diventa difficile correre: gli alberi diventano sempre più fitti, il terreno comincia ad essere invaso da rovi e altre piante con le spine, che mi rallentano e mi feriscono; ma io continuo a correre, finché non esco dalla giungla.
Appena esco dagli alberi inciampo e cado a terra perdendo la presa sul fucile.
Quando mi rialzo mi ritrovo in una piccola radura, debolmente illuminata dalla luce del sole, che sta per sorgere; al centro di questa ci sono tre figure, una si sta avvicinando a me, le altre due sono ferme e mi stanno fissando: sono Sarah, a terra, sovrastata da Tom; invece chi si sta avvicinando a me è George e ha un fucile in mano, puntato contro di me.
Non mi guardo nemmeno attorno per vedere dove è finito il mio fucile, sarebbe inutile; mi limito ad alzarmi in piedi con le mani ben in vista.
“Mi dispiace” dice George fermandosi a qualche metro da me.
“Sta a te la scelta” dice Tom dopo qualche istante.
Guardo lui, poi Sarah.
Lentamente abbasso le mani, incapace di reagire.
Loro o Sarah.
La vista comincia ad annebbiarsi e sento delle lacrime scendere lungo le guance.
Loro o Sarah, come posso scegliere.
Le ginocchia cedono e cado a terra.
Guardo Sarah, lei guarda me.
I nostri sguardi si incrociano per qualche secondo, poi chiudo gli occhi.
“Non posso scegliere” sussurro, ma Tom mi sente comunque.
“Allora lascia che ti aiuti”.
Sento il fruscio di vestiti, poi lo scatto della sicura del fucile.
È finita, ora voglio solo lasciarmi andare, solo smettere di essere, non ho più ragioni per continuare.
Invece il mio corpo si muove; invece gli occhi si aprono, le gambe mi costringono ad alzarmi, e decido di assecondarlo.
“No!” urlo, “No!” e comincio a correre verso di loro.
Tom si volta verso di me e mi sorride, poi il fucile cambia direzione e si sente uno sparo.
 
 
Spalanco gli occhi.
“No! No!” mi guardo attorno senza capire ciò che vedo, cerco di muovermi, ma qualcosa mi blocca.
“Sh, sh. Tranquillo, tranquillo”.
Sposto lo sguardo e mi trovo di fronte il viso di Sarah.
“Era solo un sogno” dice ancora.
“Solo un sogno” ripeto, la voce tremante.
Lei sorride: “Sì, molto probabilmente ti sei addormentato verso metà film; devi essere proprio stanco per riuscire a dormire mentre guardi un film del genere”.
“Già”. Lei si allontana e io mi muovo; mi piego in avanti, appoggio i gomiti sulle gambe e mi prendo la testa fra le mani. Noto che stanno tremando.
“Cosa stavi sognando?” chiede dopo qualche istante.
“Non ricordo” rispondo senza guardarla; mi alzo in piedi e vedo la tele spenta, quindi il film deve essere finito già da un po’.
“Che ore sono?” chiedo.
“Quasi mezzanotte, tra poco dovrebbero tornare i miei. Tu cosa fai?”.
“Penso che me ne tornerò a casa”.
“Sicuro?”.
“Sì, tranquilla non mi addormenterò in macchina”.
“Allora buona notte!” dice sorridendo; non rispondo e vado verso la porta di casa.
“Ci vediamo domani” dico prima di uscire.
 
 
Il sogno lo ricordo, o almeno ne ricordo la maggior parte; soprattutto l’ultima immagine si è impressa nella mia mente: Tom che punta il fucile contro se stesso.
 
 
Riuscire ad addormentarsi nuovamente è stata un’impresa.
Ho passato almeno un’ora a rigirarmi nel letto e appena sono riuscito a chiudere occhio è suonata la sveglia, di conseguenza ho deciso all’istante che non sarei andato a lezione. Anche se a Sarah ho detto il contrario, vuol dire che mi farò perdonare in qualche modo.
Alla fine mi sveglio, fresco come una rosa, verso mezzogiorno.
Involontariamente, mentre sto per scendere a fare colazione, anzi mi correggo, per pranzare, mi cade l’occhio sul telefono e noto che mi è arrivato un messaggio.
Non sono mai stato così ricercato come in questi giorni.
Il messaggio è da Sarah ovviamente.
Scommetto che è un qualche rimprovero per la mia assenza.
Invece mi sbaglio.
Immaginavo che non saresti venuto oggi. Se ti interessa possiamo vederci da Bob oggi pomeriggio, così ti passo gli appunti.
È ciò che mi ha scritto Sarah.
Sarebbe perfetto.
Rispondo io, poi scendo a mangiare.

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Capitolo 11
*** Scambi culturali ***


“Scusa per il ritardo” dice Sarah trafelata.
“Non ti preoccupare, sono arrivato anch’io da poco”, poi si siede al tavolo di fronte a me.
“Hai già ordinato qualcosa?” chiede.
“No, stavo aspettando te” e quindi richiamo l’attenzione di Bob, che sta servendo il caffè ad un uomo seduto qualche tavolo da noi.
Dopo qualche minuto ci raggiunge.
“Ciao ragazzi; cosa vi porto?”.
“Penso che prenderò un caffè” dico.
“Io invece un cappuccino” dice Sarah.
“Bene, torno subito”.
“Allora, come hai trascorso la giornata?” chiede Sarah.
“Oh beh, non ho fatto molto; prevalentemente ho dormito. In effetti non è da molto che sono sveglio” rispondo sorridendo.
“Ah, beato te. Sono così stanca; anch’io ho dormito male ieri notte”.
“Scommetto che ti sei sognata il film” e mi metto a ridacchiare.
“E anche se fosse? Okay, ammetto di essermi spaventata un pochino”.
“Effettivamente quel film continua ad essere spaventoso” confermo.
“Ma se ne avrai visti sì e no cinque minuti!” dice per prendermi in giro.
“È vero”.
“Ecco a voi ragazzi!” esclama Bob appoggiando sul tavolo ciò che abbiamo ordinato, poi si siede accanto a noi.
“Come ve la passate?” chiede sorridente.
“Non c’è male, soprattutto perché oggi per me è stata una giornata di completo ozio” rispondo.
“È già, è talmente intelligente che può permettersi di saltare le lezioni quando vuole!” esclama Sarah.
“Sei seria o mi stai prendendo in giro?”.
“Decidi tu” risponde sorridendo mentre beve un sorso del suo cappuccino.
 
Per una decina di minuti continuiamo a chiacchierare con Bob, poi arriva il momento di fare ciò per cui sono qui: ricopiare gli appunti di Sarah.
“Anche se non vedo l’utilità di ciò” mi lamento mentre leggo i fogli che mi ha passato.
“Perché? Non ti servono?”.
“Sì, almeno in teoria. Mi servirebbero se prendessi appunti, ma visto che non ne ho mai presi, non vedo perché dovrei avere questi”.
“Beh, c’è sempre la prima volta e mi assicurerò che ce ne saranno altre dopo questa”.
Appoggio i fogli e la guardo serio: “Che vuoi dire?”.
“Che ti costringerò a stare attento” risponde lei altrettanto seria.
“È una minaccia?” continuo abbassando la voce e sporgendomi verso di lei.
“No, non è una minaccia. È un dato di fatto” anche lei si sposta verso di me.
“Ne sei sicura? Non mi piacciono le imposizioni” mi avvicino a lei ancora di più.
“Oh, questa ti piacerà, sta tranquillo”.
“Dici?”.
“Senza dubbio”.
La guardo dritta negli occhi; è vicina, molto vicina; basta anche solo un piccolo movimento in avanti e...
Mi sposto di scatto e mi lascio cadere contro lo schienale della sedia guardando da un’altra parte.
No. No, che sto facendo. No, è sbagliato! È Sarah, per la miseria, lei è, lei è... molto bella ora che ci penso. Basta, smetti di pensarci!
Sposto nuovamente lo sguardo su Sarah; ha un’espressione strana sul volto che non riesco a decifrare, forse arrabbiata, delusa.
“Ti interessano gli appunti?” chiede con voce atona, “Altrimenti vado a casa, che ho un po’ di cose da fare”.
“No, cioè sì, mi interessano. Gli ricopio velocemente, va bene?”.
“Okay”.
E passiamo l’ora successiva così: io a scrivere, lei a studiare.
 
“Fatto. Che dolore, è da un bel po’ di tempo che non scrivevo così tanto” mi lamento appoggiando la penna; chiude il libro e sorride: “Devi fare più esercizio”.
“Beh, se hai intenzione di mantenere la tua parola penso che ne farò fin troppo”.
“Sai che io mantengo sempre le promesse che faccio”.
“Quindi dovrò comprarmi una bella scorta di quaderni; e di biro”.
Le passo i fogli, che lei sistema in un raccoglitore.
“Ah, indovina chi si è presentato questa mattina a lezione?”.
“Non ne ho idea. Il tuo amico di biologia?”.
“Richard, comunque no. Lucas”.
“Ah”.
“Tutto qui!”.
“Cosa?”.
“La tua reazione! Non ti sei dimenticato di averlo preso a pugni sabato sera, vero?”.
“Non l’ho preso a pugni! E comunque che reazione dovrei avere?”.
“Boh! Interessarti delle condizioni della sua faccia!”.
“Si da il caso che io sappia già in che condizioni è la sua faccia, anzi l’ho saputo con un giorno di vantaggio rispetto a te”.
“In che senso?”.
“Ho incontrato ieri Lucas”.
“Perché? Sei andato a scusarti?”.
“Ma ti pare! No è stata una cosa del tutto casuale; te l’ho detto, ieri ho accompagnato Jason in giro per il paese perché doveva fare della commissioni per suo zio, e mentre ero con lui ho incontrato Lucas”.
“Ah, e non vi siete presi ancora a pugni?”.
“Perché avremmo dovuto farlo? Di la verità, è a te che piacerebbe prenderlo a pugni, giusto?”.
Sorride: “In effetti vorrei farlo. E la voglia è cresciuta da quando l’hai fatto te”.
“Non credevo fossi così violenta”.
“È un lato di me che preferisco non mostrare” risponde sorridendo in modo malvagio; non riesco ad evitare di mettermi a ridere.
“Comunque tornando alle cose serie, mi sembrava strano questa mattina”.
“Stiamo parlando di Lucas”.
“Sì, okay è strano in generale, ma questa mattina mi sembrava più strano del solito. Sembrava su di giri; si è messo a parlare con persone che prima nemmeno considerava; parlava di un evento eccezionale e invitava quasi tutti a prendervi parte. A te non ha detto nulla?”.
“In effetti sì, ha accennato a qualcosa, ma è rimasto molto sul vago, comunque mi è stato detto che è meglio stargli alla larga”.
“Perché?”.
“È una storia lunga e soprattutto non tocca a me raccontartela”.
“Va bene”.
Restiamo ancona qualche minuto, poi entrambi torniamo a casa.
 
Il risveglio al mattino non è tragico come al solito e oggi ho un’insana voglia di andare a scuola, soprattutto perché ho avuto un lampo di genio la sera precedente. Un’idea che coinvolge Sarah, Jason e il tipo amico di Sarah, Richard, quello dei batteri.
Sorrido immaginando la scena: si rimangerà tutto ciò che ha detto su Jason.
Anche Sarah si accorge che sono in uno stato d’animo diverso dal solito.
“Mi sembri di buon umore questa mattina”.
“No, perché dovrei”.
“Bah, rinuncio a capirti”.
 
La mattinata vola e finalmente arriva l’ora di biologia.
“Devi andare ad occuparti anche oggi dei batteri, oppure hai il pomeriggio libero?”.
“No, questa volta sono libera, perché?”.
“Vorrei farti conoscere una persona”.
Per qualche secondo rimane immobile a fissarmi, “La tua ragazza?” chiede titubante.
La guardo con un’espressione di puro stupore: “Cosa?! No! Da dove hai tirato fuori un’idea simile?”.
“Ah! Lo hai detto in... Con un tono così serio che ho pensato fosse una persona importante per te e quindi...”.
“Beh, per essere importante è importante, cioè è un amico, o meglio l’unico amico che ho al momento; ma non è questo il punto. Voglio solo presentarti Jason; voi tutti avete delle idee su di lui completamente sbagliate. È un bravo ragazzo; o almeno cerca di esserlo nei limiti del possibile”.
“Ah, okay. Comunque io non ho alcun tipo di idea su di lui; come posso giudicarlo se nemmeno lo conosco?”.
A queste parole sorrido: “È per questo che ti adoro, sei completamente diversa da tutti gli altri” e nell’esatto momento in cui finisco di parlare mi accorgo di ciò che ho detto.
Lei mi guarda con aria interrogativa, mentre io la guardo con aria da ebete, la bocca aperta, una mano alzata con l’indice teso, come se volessi aggiungere qualcosa.
“Ma guarda che coincidenza siamo arrivati! Ciao!” infilo la porta dell’aula di biologia e vado dritto all’ultimo banco. Mi lascio cadere sulla sedia accanto a Jason.
“Buon pomeriggio” mi saluta.
“Speriamo! Senti dopo ti posso presentare una mia amica dopo?”.
“Perché?”.
“Boh, così. Voglio fartela conoscere, praticamente è la mia migliore amica da sempre, quindi...”.
“Quindi vuoi che facciamo amicizia, così poi potremmo andare tutti e tre a prenderci un caffè assieme?” mi sembra di cogliere dell’ironia nella sua voce.
“So che è difficile, ma ti assicuro che non succederà ciò che pensi; non è come gli altri, te lo assicuro, dopotutto riesce ad apprezzare la mia compagnia!”.
“La mia situazione è un po’ più delicata della tua”.
“Ah, ho capito! Sei timido! Non l’avrei mai detto”.
“Va bene! Ma non ho molto tempo”.
“Due minuti saranno più che sufficienti”, apre il libro e si mette a studiare, “Ah, un’altra cosa; ti intendi di batteri e organismi unicellulari in generale?” chiedo ancora.
“Perché?”.
“Beh, lei ed un suo amico stanno facendo un lavoro che ha a che fare con queste cose, quindi può essere un bel modo per rompere il ghiaccio”.
“Okay, comunque qualcosa so”.
“Ottimo”. Prendo anch’io il libro e cerco di farmi una cultura.
 
Alla fine dell’ora mi dirigo sorridente da Sarah e del suo amico.
Chissà perché sono così felice di stare per far fare una figuraccia a quel tipo.
“Ciao!” esordisco, Sarah e Richard si voltano verso di me, ma la loro attenzione è immediatamente catturata da Jason che si trova alle mie spalle.
“Sarah, Jason; Jason, Sarah” dico mentre mi sposto per lasciar avvicinare Jason a lei, così da poterle stringere la mano. E dopo qualche istante iniziale di stupore anche Richard interviene presentandosi; dopodiché cala un silenzio un po’ imbarazzato, che, tuttavia, dura solo pochi secondi.
“Ho sentito che stai lavorando ad un progetto di biologia” dice Jason rivolgendosi a Richard.
“Sì, beh è solo una ricerca scolastica, niente di interessante”.
“No, perché? Mi piacerebbe sapere di che si tratta”.
“È complicato da spiegare a chi non ha un minimo di conoscenza in materia” dice sorridendo, come se avesse appena detto una battuta molto divertente.
“Ti assicuro che di conoscenze ne ha più che a sufficienza” intervengo io.
“D’accordo allora” e si lancia in una spiegazione dettagliata con l’intento di mostrare la scarsa cultura di Jason; ma come previsto fallisce.
Non solo Jason riesce a seguire il suo discorso, ma fa delle osservazioni che mettono in difficoltà Richard.
Io invece non capisco nulla, ovviamente; e non sono l’unico, perché ad un certo punto, quando la discussione entra nel vivo, Sarah, che si trova fra Jason e Richard, sguscia e mi viene vicino, mentre quei due continuano a parlare ignorando completamente il mondo che li circonda.
“Capisco metà di quello che stanno dicendo, e metà di questo la capisco per metà” dice Sarah che li sta guardando con una strana espressione.
“E pensare che almeno metà della metà di ciò che stanno dicendo sono argomenti che dovremmo sapere, almeno per metà”.
“Quindi siamo nei guai?”.
“Sì, ma solo per metà”, poi ci guardiamo e scoppiamo entrambi a ridere.
 
Non si può dire che il mio piano sia perfettamente riuscito; ho dimostrato che Richard si sbagliava sul conto di Jason, tuttavia ho fallito nel cercare di far fare a Richard una figuraccia. Io e Sarah ce ne siamo andati dopo una decina di minuti stufi, lasciandoli soli a parlare e il giorno dopo Jason mi ha fato una testa così su Richard e i suoi dannati batteri; a quanto pare ha trovato un nuovo amico. Anzi due nuovi amici, dato che da quel giorno, quindi più di una settimana fa, è diventata abitudine per me, Jason e Sarah trovarci dopo lezione da Bob per studiare assieme. Su di sé Jason ha rivelato poco, ma comunque, come pensavo, Sarah ha compreso la sua situazione senza giudicarlo; il suo unico commento è stato: “Però, chi l’avrebbe mai detto”.
 
Quando entro in classe trovo ad aspettarmi una brutta sorpresa: Lucas.
È seduto su un banco di fronte a Sarah e sta amorevolmente chiacchierando con lei e le sue amiche; in realtà l’unica che gli sta prestando attenzione è Samantha, le altre stanno tranquillamente parlando tra di loro. Ma ho idea che lui non sia interessato a loro, dato che appena mi vede entrare mi sorride e si avvicina a me.
“Che combinazione, ti stavo giusto cercando!”.
“Ma dai, deve essere stato difficile trovarmi, praticamente sono qua tutti i giorni”, ma lui non sembra cogliere il sarcasmo nelle mie parole.
“È passato un po’ di tempo, ma spero che tu ricordi ancora l’evento di cui ti avevo parlato”.
“In realtà non ho capito di che cosa si tratta, comunque sì ricordo, tuttavia mi è stato caldamente consigliato di starti alla larga”.
Sembra alquanto sorpreso: “E chi mai avrebbe detto una cosa simile?”.
“Jason” rispondo semplicemente, dopo di che cerco di allontanarmi per andare al mio posto, ma non mi lascia passare.
“Jason?! Jason quello...”.
“Sì, il nipote dell’amico di tuo padre”. A questo punto sulla sua faccia compare un’espressione fantastica, un mix tra incredulità, shock e timore; penso che in questo momento si sta ricordando tutti i nostri passati incontri e si sta maledicendo per come si è comportato.
“Non sapevo che... che avesse amici” dice dopo qualche secondo di silenzio.
“Non importa, comunque stavi dicendo in merito a questo evento misterioso”.
“Sì, ecco io... cioè tu vuoi partecipare comunque?” continua impacciato.
“Sì, anche se mi piacerebbe sapere di che si tratta”.
“Ci sto per arrivare; se sei veramente interessato vieni da me questa sera, lì avrai tutte le spiegazioni che vuoi”.
“Da te dov’è di preciso?”.
“Dove ci siamo incontrati l’altra volta”.
“Okay”.
“Perfetto, ci vediamo” poi esce dall’aula e vado a sedermi.
“Che voleva?” chiede immediatamente Sarah quando mi siedo.
“Nulla di importante”.
 
“Sai come la penso, però fa come credi”.
“Andare a sentire di che si tratta non costa nulla, no?”.
“Come vuoi; comunque grazie anche per questa volta”.
“Figurati”.
Metto in moto e mi allontano dalla casa di Jason, diretti all’appuntamento con Lucas.
Quando arriviamo troviamo il posto abbastanza affollato.
“Da dove viene tutta questa gente?” chiedo stupito, soprattutto perché la maggior parte di queste non le ho mai viste.
“È meglio se non ti fai domande” risponde.
“Okay, messaggio chiaro”.
Parcheggio nel primo posto libero che trovo e scendiamo dalla macchina. Seguo Jason attraverso la folla e raggiungiamo Lucas che si trova vicino alla saracinesca di un garage.
“Jason! È un piacere vederti!”, poi si accorge che ci sono anch’io, “Oh, bene ci sei anche te! Ottimo!”.
“È tutto pronto?” chiede Jason, ignorandolo completamente.
“Sì, aspettavamo solo te per iniziare; quindi se vi volete accomodare tra il pubblico do il via allo show!”. Jason scuote la testa e mi fa segno di seguirlo; andiamo a metterci in prima fila, esattamente di fronte alla saracinesca.
“Ben trovati amici; sono molto contento che siate così numerosi!” e fa una pausa, forse si aspetta degli applausi ma nessuno accenna alcun movimento; “Allora” riprende dopo qualche secondo, “Molti di voi non sanno il perché sono stati invitati qui questa sera e quindi per non lasciarli ulteriormente sulle spine passo immediatamente alle spiegazioni”, ad un suo gesto qualcuno attiva la saracinesca e da dietro questa proviene il rombo di un motore, dopodiché un’auto palesemente truccata esce.
Capisco immediatamente qual è l’evento eccezionale a cui si riferisce Lucas.
“Corse clandestine? Ma fa sul serio?” dico a Jason.
“Non hai idea di quanti soldi si possano fare”.
Sto per ribattere che è una cosa ridicola, ma vengo smentito immediatamente delle grida di giubilo provenienti da una buona fetta dei presenti.
“Vedo che avete capito di che si tratta!” esclama entusiasta Lucas.
“Okay, ti credo” dico ancora rivolto a Jason, “Ma non capisco perché sono così entusiasti”.
“Esatto amici, si tratta di correre con i bolidi dei vostri sogni! Ogni fine settimana, dal mese prossimo, cinque di voi avranno l’occasione di sfidarsi e, beh devo dirlo, di vincere un mucchio di soldi!” al che altre grida entusiaste.
“A me sembra una gran cretinata” commento ancora.
“Potete partecipare tutti, con qualsiasi auto volete. Ovviamente se volete vincere vi sconsiglio di usare la carretta che avete in garage!”, altre grida e risate, “E in proposito adesso vi presento una persona che vi potrà essere molto utile!”.
Si fa da parte e al centro della scena compare Vince, il meccanico amico di Jason.
“Ora mi è tutto chiaro; faranno sicuramente un mucchio di soldi”.
“Esatto, la maggior parte dei presenti o si farà sistemare l’auto che già possiede, oppure ne comprerà una già truccata; in ogni caso verranno spesi un bel po’ di soldi”.
“Uhm, e immagino che non sia un’idea di Lucas, o del tuo amico”.
“Mio zio ha già avviato attività simili in altri posti, e tutti hanno dato dei buoni risultati”.
“Capisco”.
Vince finisce di parlare e ritorna sulla scena Lucas.
“Allora, chiunque voglia partecipare non deve fare altro che farmelo sapere, comunque non preoccupatevi, avete qualche giorno per decidere; tanto sapete tutti dove trovarmi!” e questo chiude la presentazione.
Alcuni se ne vanno ridendo e scuotendo la testa, quindi non l’unico a pensare che sia un’idiozia; tuttavia la maggior parte rimane e si dirige o verso Lucas, o verso Vince oppure ad ammirare l’auto.
Io ovviamente seguo Jason, non potendolo lasciare a piedi.
“Dunque? Sei sempre deciso a partecipare?” chiede Lucas appena mi avvicino, “Oppure hai deciso di ascoltare il saggio consiglio del nostro amico?” continua riferendosi a Jason, e mi guarda sorridendo; un sorriso di sfida.
“Sì, perché no”.
“Ottimo! Speravo che accettassi, perché ho un affare da proporti”.
“Sentiamo”.
“Come puoi immaginare la maggior parte di quegli idioti andrà a spendere tutti i loro soldi per avere un auto vincente, ma io ti voglio proporre questo: metto tutto io, sia l’auto che i soldi per la prima corsa. Se vinci l’auto è tua, così come la vincita, tranne ovviamente il dieci per cento per me; il dieci per cento di tutte le tue future vincite. Invece se non dovesse andare... beh sono sicuro che non succederà!”.
“Accetto” e quindi stringo la mano tesa davanti a me.
“Giusto per curiosità, come mai questo trattamento di favore?”.
“Oh, beh, dopotutto sei amico di Jason, e poi ho fiuto per gli affari, e so che non mi deluderai” detto ciò si allontana.
Beh, almeno è sincero.
Raggiungo Jason che si è allontanato per parlare con altre persone.
“Ho accettato l’invito e il tuo amico mi ha fatto un’offerta particolare”.
“Sì, so già tutto, domani ti porto al garage di Vince, vuole farti vedere l’auto, è quasi finita”.
“Ah, quindi tu sapevi già tutto”.
“È per questo che ti ho consigliato di rimanerne fuori; per certe cose non posso fare più di tanto, un debito deve sempre essere pagato nel mio mondo, non importa come”.
A questo non ci avevo pensato effettivamente.
“Allora cercherò di non avere mai debiti”.

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Capitolo 12
*** Kid ***


“Almeno sai guidare?” chiede ad un certo punto Jason.
“Chi è che ti ha scarrozzato per la città in questi giorni?”.
“Sai cosa voglio dire”.
“Sì, volevo solo sdrammatizzare! Comunque non sono un pilota professionista, ma da ragazzo ho giocato ad un sacco di video game di auto!”.
Jason scuote la testa, “Ti reputavo una persona seria, ma a quanto pare mi sbagliavo”.
“Le apparenze ingannano”.
Arriviamo sotto casa sua, così scende e io riparto.
 
Il mattino dopo, per le dieci, sono nuovamente sotto casa di Jason.
“Facciamo così, se dovessi vincere la prima corsa, ti regalo l’auto” dico appena sale, “Così non sei completamente dipendente da me”.
“Grazie per l’offerta, però quella non è una macchina con cui si può girare per le strade. Comunque non sarò appiedato ancora per molto”.
 
Dopo una quarantina di minuti arriviamo da Vince che ci accoglie tutto sorridente.
“Eccovi qui! Non vedo l’ora di mostrartela!” esclama e senza lasciarci il tempo di parlare o fare altro, comincia a camminare verso l’ingresso dell’officina.
Noi lo seguiamo.
“Hai già ricevuto qualche richiesta?” domanda Jason.
“Oh sì! Stiamo già lavorando a tre macchine e domani me ne porteranno altre due. Faremo un sacco di soldi!” esclama entusiasta.
“Basta poco per renderlo felice” commento a bassa voce.
“Sì, un paio di milioni sono più che sufficienti” risponde Jason.
“Cosa? Così tanto?”, non pensavo si trattasse di cifre simili.
“Nel complesso sì. In generale ogni auto frutta qualche centinaio di dollari; è per questo che ti ho sconsigliato di partecipare”.
“Immagino che sia tardi per tornare in dietro”.
“A questo punto sì”.
Vince ci porta nel retro dell’officina e vedo quale sarà l’auto che dovrò guidare.
“Non è ancora finita, come puoi vedere, mancano solo pochi ritocchi estetici; quindi che ne pensi?”.
“È... fantastica”.
“Sapevo che ti sarebbe piaciuta; mi hai dato l’impressione di uno che sa apprezzare le belle auto” commenta Vince più entusiasta di me.
In realtà non è vero; le auto mi interessano relativamente, però evito di dirlo per non deluderlo. Comunque quest’auto è veramente, veramente bella.
“È una Ford Mustang; beh ad essere sinceri è un po’ vecchiotta, ma ti assicuro che non ha nulla da invidiare alla auto di oggi, soprattutto rispetto alle macchine che mi hanno portato fino ad adesso. Però non dovrei parlarti dei tuoi possibili rivali, è antisportivo” mi sorride e io ricambio, “Tuttavia posso parlarti di questa superba auto! Anzi devo parlarti di lei!” esclama felice.
Io lo lascio parlare, anche se non capisco una parola di tutto il discorso.
Dopo una ventina di minuti smette e si appoggia all’auto, dandole un’affettuosa pacca sul cofano.
“Sono sicuro che ti troverai benissimo con lei” conclude.
“Non ne ho dubbi”.
Contempla ancora per qualche istante la macchina, poi si sposta e mi guarda.
“Un’ultima cosa poi ti lascio andare” si incammina e lo seguo, “Se sei veramente intenzionato a partecipare c’è ancora una cosa che dobbiamo sapere, è un’idiozia, però...”.
“Sentiamo”.
“Ci servirebbe sapere come vuoi farti chiamare”.
“In che senso?”.
“Ecco, dobbiamo, anzi devono, non è compito mio, cominciare ad organizzare le corse e devono sapere chi partecipa”.
“Sì, ma che centra il nome?”.
“Alcuni hanno voluto a tutti i costi un soprannome; è una cosa abbastanza stupida, però alcuni lo hanno preteso. Quindi tu come vuoi farti chiamare?”.
Come voglio farmi chiamare? Se proprio devo avere un nome, ne voglio solo uno.
“Kid” rispondo.
“Sul serio?”, annuisco, “Okay, perfetto; è tutto allora”, ci saluta e si avvia.
Io e Jason usciamo dall’auto officina e andiamo alla macchina.
“Mi dovresti spiegare cos’ha detto Vince; non ho capito una sola parola del suo discorso, e magari potrebbero essere informazioni utili” dico dopo qualche minuto.
“Okay, ma tu mi devi spiegare il motivo di quel soprannome”.
“Sì, certo” rispondo sorridendo, “Anche se non lo considero semplicemente un soprannome”.
 
 
“Hey kid come here!” mi chiama Tom.
“Ancora con questa storia? Non è ora di finirla con questo soprannome?”.
“No; il nome lo devi guadagnare e finché ciò non accadrà continueremo a chiamarti con questo soprannome!” mi risponde Phil.
“È la prassi; sai quante ne ho dovute passare prima che mi chiamassero con il mio vero nome? E il mio soprannome non era molto peggio di kid, ritieniti fortunato!” aggiunge Will.
“Sarà, comunque non mi piace” ribatto mentre vado verso Tom..
 
 
“Kid era il soprannome che mi hanno dato appena arrivato; teoricamente con il tempo avrebbero dovuto smettere di chiamarmi così, ma non l’hanno fatto”, dopo un attimo di silenzio aggiungo: “È l’unica cosa che mi è rimasta”.
“Ho capito” commenta semplicemente Jason.
 
I giorni successivi sono relativamente tranquilli. Relativamente poiché con la storia delle corse vedo un po’ troppo spesso Lucas per i miei gusti, tuttavia il resto compensa questi momenti spiacevoli; merito soprattutto di Sarah, e anche di Jason.
Mi sembra strano, ma in loro compagnia sto bene, anche quando devo fare da autista da Jason.
In realtà ha comprata una nuova auto, solo che ne ha presa una usata, forse un po’ troppo usata; infatti lo ha lasciato a piedi il giorno dopo averla portata a casa.
Un’altra persona che apprezzo ogni giorno sempre di più è il prof di matematica, o meglio Mister T; non ho la minima idea da dove abbia tirato fuori questo nome, semplicemente una mattina è entrato in classe e ha fatto quest’annuncio, cioè che da quel giorno avremmo dovuto chiamarlo, ovviamente non di fronte ad estranei, Mister T. La mia idea sul fatto che non sia troppo sano di mente in quel momento ha trovato altre prove che potrebbero confermarla, ma siccome, come mi ha fatto notare gentilmente Sarah, sono io il primo a non essere normale, evito di fare commenti in proposito.
 
 
Ma, ovviamente, la tranquillità non poteva durare a lungo.
Circa tre minuti fa, Jason mi ha chiamato, questa sera ci sarà la prima corsa, a cui dovrò partecipare, purtroppo.
Davvero, non so che mi sia preso quel giorno. Perché mai avrò accettato a partecipare ad un’idiozia simile? Roba che finisce male e peggioro ancora di più la mia situazione. A volte sono veramente un’idiota.
Comunque ho accettato e ora ci devo andare.
 
Come sempre, ormai, passo prima a prendere Jason e poi andiamo al luogo dell’appuntamento.
“Non c’è la possibilità che polizia, FBI e altri enti simili vengano a sapere di quello che sta per succedere? Non mi sembra che Lucas sia stato molto discreto”.
“Probabile; comunque stai tranquillo, non c’è pericolo che ti arrestino”.
“Sarà”.
 
Il luogo dell’incontro si trova quasi fuori città, almeno hanno avuto l’intelligenza di non farci gareggiare in mezzo alle case, e siamo praticamente gli ultimi ad arrivare.
Sul posto troviamo Lucas e tutta la sua combriccola, oltre a molta altra gente mai vista; in più già allineate davanti a quella che penso sia la linea di partenza, vi sono le auto che gareggeranno questa sera e non riesco a non fermarmi per contemplare la mia.
L’ho già vista parecchie volte, Vince è abbastanza pignolo e ha voluto che guardassi e giudicassi ogni singolo dettaglio dell’auto, sia dal punto di vista meccanico che da quello estetico. Tuttavia ogni volta che la vedo non posso non rimanerne affascinato; so che è solo un’auto, un pezzo di lamiera con ruote, ma mi piace parecchio.
“Allora, sei pronto?” chiede Lucas che si è avvicinato a me e Jason.
“Penso di sì”.
“Perfetto, si può iniziare” quindi mi sorride e poi si va a posizionare vicino alle auto.
“Eccoci finalmente!” esclama al pubblico che risponde con grida di entusiasmo.
“Gli piace proprio essere al centro dei riflettori” commento a bassa voce per farmi sentire solo da Jason che ridacchia divertito.
Per qualche minuto intrattiene il pubblico, sempre più impaziente, poi finalmente arriva alle informazioni che mi interessano: il percorso è semplice, circa tre miglia, la partenza e l’arrivo si trovano nello stesso punto, cioè qui.
Non sarà poi così difficile.
Finisce di parlare e si allontana dalle auto, mentre chi deve gareggiare comincia ad andare verso di queste, quindi io mi dirigo verso la mia.
“Un consiglio: l’ultima curva è larga, anche se c’è poca visibilità non aver paura” mi sussurra Lucas mentre mi passa affianco.
Salgo in macchina, metto in moto e aspetto, poi ad un segnale partiamo.
 
Aveva ragione Vince, anche se quest’auto ha una ventina d’anni alle spalle, è eccezionale; tranne uno, ho distanziato tutti gli altri facilmente ritrovandomi secondo, non molto distante dal primo.
Però la prima delle quattro curve la prendo troppo piano e il distacco dal primo aumenta ancora di più.
Quando esco dalla curva e affondo completamente l’acceleratore per cercare di recuperare la distanza persa, mi accorgo che sto sorridendo.
Effettivamente è alquanto eccitante tutto ciò; non credevo, ma guidare a questa velocità, con il ruggito del motore nelle orecchie, i fanali come unica fonte di luce nel buio della notte è estremamente divertente ed esaltante.
 
Alla curva successiva la distanza fra me e il primo si dimezza; prima ancora di essere uscito dalla curva accelero, “Coraggio piccola, dai che lo prendiamo!” incito la mia macchina mentre concentro completamente l’attenzione sulle luci dei fanali posteriori dell’auto davanti a me.
La terza curva compare dopo neanche due minuti, questo era il rettilineo più corto e quella che sto per affrontare la curva più stretta.
Quello davanti a me di colpo e il distacco fra noi si annulla quasi del tutto; giusto per un secondo mi passa per la testa l’idea di non frenare e superarlo, ma il buon senso ha la meglio, la curva è veramente troppo stretta.
Freno e scalo fino in seconda, esco dalla curva e abbasso completamente il pedale dell’acceleratore, ma è inutile, a quanto pare la sua auto è più scattante di questa e mi distanzia facilmente.
Digrigno i denti mentre lo vedo allontanarsi sempre di più.
Continuo ad accelerare fino a sfiorare le centocinquanta miglia all’ora, Vince si è raccomandato di non spingerla oltre, ma la distanza fra me e lui non diminuisce.
Non voglio arrivare secondo; devo vincere, non per Lucas o per altro, ma per me. Voglio assolutamente vincere questa gara.
 
Improvvisamente ai lati della strada compaiono degli alberi, non ne sono completamente sicuro, ma penso si tratti di un bosco.
Apparentemente senza motivo il primo frena.
Immediatamente il distacco si riduce e mi ritrovo a meno di una decina di metri da lui e capisco il perché ha frenato: di fronte a noi c’è l’ultima curva. Tra il buio e gli alberi si vedono praticamente solo i primi metri di strada, poi questa sparisce dalla vista, quindi potrebbe esserci qualsiasi cosa e noi non possiamo saperlo.
Per istinto schiaccio anch’io il pedale del freno, ma ritiro il piede dopo qualche secondo.
Questa è la mia ultima occasione per sorpassarlo e penso di potermi fidare del consiglio di Lucas.
Così tolgo i piedi dai pedali, mi sposto nella corsia opposta e lascio andare la macchina.
Scopro che effettivamente la curva è larga, tuttavia sto andando veramente troppo veloce e l’ho troppo larga, e mi ritrovo a pochi centimetri dal ciglio.
Per qualche secondo non riesco a fere nulla se non guardare i tronchi degli alberi avvicinarsi sempre di più, poi mi riprendo e reagisco.
Sterzo ancora di più; le gomme stridono mentre cerco di stringere la curva e per qualche istante temo che le ruote posteriori stiano per sbandare; ma non succede e la curva finisce. E io accelero.
 
Oltrepasso il traguardo quasi senza accorgermene.
Freno lentamente senza essere veramente consapevole di ciò che sto facendo e mi fermo un centinaio di metri più avanti.
Mi fermo e rimango così, immobile, entrambe le mani sul volante, che lo stringono convulsamente, il cuore che batte violentemente nel petto, il respiro accelerato, gli occhi spalancati senza riuscire a vedere nulla.
Ci sono andato vicino, molto vicino. Un errore, uno sbaglio e sarei finito contro un albero a cento miglia allora e tutto questo... tutto questo è stato fantastico.
Veramente, veramente fantastico!
Riesco a fare una sola cosa: mi afferro la testa fra le mani e urlo, urlo inebriato da tutte le sensazioni che ho provato in questi pochi minuti.
Spalanco la portiera e mi lancio fuori ancora urlante, proprio nell’esatto istante in cui tutta la folla, che ha assistito alla corsa, mi raggiunge.
Immediatamente mi zittisco e per una frazione di secondo mi sento un completo idiota, poi anche tutte le persone che ho di fronte si mettono ad urlare entusiaste e io mi unisco a loro.
Mi ritrovo circondato da persone urlanti, che riempiono di pacche sulle spalle, grida nelle orecchie e altro, finché qualcuno non mi afferra per le spalle, mi fa voltare e mi bacia.
Per lo shock rimango immobile per qualche secondo; poi reagisco, scosto questa persona e mi ritrovo a pochi centimetri da una bellissima ragazza che mi sorride. Le sorrido a mia volta, poi le passo un braccio attorno alle spalle, l’attiro a me e la bacio nuovamente.
Purtroppo veniamo interrotti quasi subito.
“Va bene, va bene” sento dire da una voce, la voce di Lucas, che si è fatto largo fra la gente fino a me; riesce a far zittire le persone e, sempre con il suo fare teatrale, inizia a parlare.
“Ecco il nostro vincitore!” esclama, dalla folla arrivano altre ovazioni, “Ed ecco la sua vincita!” esclama ancora passandomi una mazzetta di banconote alquanto spessa.
“La parte dell’accordo?” chiedo a bassa voce.
“L’ho già presa” mi risponde sempre a bassa voce sorridendo.
“Però ho un problema, non mi posso presentare a casa con tutti questi soldi” continuo.
Mi sorride con una strana luce negli occhi: “Io avrei una soluzione”.
“Penso di saperla. Tieni” dico porgendogli i soldi.
“Oh, non li posso prendere qui davanti a tutti; per questo verrà il momento. Tuttavia ti posso consigliare di fare una cosa”.
“Sentiamo”, ma invece di rispondermi si volta verso gli altri, che per qualche motivo si sono disposti a cerchio a qualche passo di distanza da noi.
“Ho appena scoperto che ci aspetta un’incredibile festa per festeggiare questa vittoria!” esclama, al che la folla esplode in grida ancora più forti.
In realtà penso che l’evento più atteso di tutta la serata fosse questo.
Lucas si avvia e la folla lo segue allontanandosi da me.
“Non vai alla festa in tuo onore?”.
“Sì, certo”.
“Allora andiamo” seguo la ragazza fino alla macchina e saliamo.
“Comunque io sono Tamara” si presenta.
“Tamara. Sono molto lieto di fare la tua conoscenza” rispondo sorridendole, poi partiamo.
Seguo gli altri fino ad una villetta in mezzo al nulla, illuminata quasi a giorno, con un paio di piscine nel giardino; piscine in cui, per mia sorpresa, ci sta nuotando gente.
Lascio la macchina assieme alle altre che hanno corso questa sera, e per prima cosa decido di cercare Jason.
“Scusami un attimo, devo cercare un mio amico” dico a Tamara.
“Sì, certo; intanto prendo da bere”.
Si allontana e io mi inoltro tra la gente.
Teoricamente non dovrebbe essere difficile trovarlo, dal momento che è molto più alto della maggior parte dei presenti, ma non lo vedo da nessuna parte. Però incontro un’altra persona.
“Stavo cercando proprio te” esordisce Lucas appena ci incontriamo.
“Io no; comunque che c’è?”.
“Sei veramente sicuro di voler darmi tutti i soldi?” chiede, fingendosi sorpreso.
Che bisogno ha di fare tutta questa commedia, dovrebbe seriamente prendere in considerazione l’idea di dedicarsi al cinema.
“Ti ho già detto che non saprei che farmene. Mi interessa solo l’auto, il resto lo puoi tenere te”.
Mi sorride: “Ero sicuro che ti saresti rivelato un ottimo affare!”.
“Mi fa piacere non avere deluso le tue aspettative; comunque ora dovrei trovare Jason, lo hai visto?”.
“No, ma se è qui, è sicuramente dentro a parlare con mio padre” risponde indicando la villetta alle sue spalle.
“Okay”.
Quindi mi faccio strada fino a raggiungere l’abitazione, sperando che vi sia meno confusione che all’esterno, altrimenti sarà ancora più difficile trovare Jason.
Oltrepasso la soglia e mi trovo di fronte un muro di persone ancora più compatto di quello che c’è fuori.
Mi incuneo tra i presenti sgomitando per farmi spazio e raggiungo il tavolo delle bevande, dove non trovo Jason.
“Mi stavi cercando?” chiede sorridendo Tamara, contro cui sono appena andato a sbattere.
“In realtà no, però sinceramente non mi dispiace di averti trovata”.
Il fatto è che prima indossava una giacca di pelle, ora l’ha tolta e... beh non è una vista che lascia indifferenti.
“Quindi hai ancora intenzione di cercare il tuo amico oppure vieni con me?”.
“Dipende dalla meta”.
“Fidati di me” mi sussurra all’orecchio.
“Mi hai convinto”.
Sorride, poi mi prende per mano e mi trascina attraverso la casa fino a delle scale che saliamo.
“Eccoci qui” dice di fronte ad una porta che viene aperta rivelando una stanza da letto.
“Uhm, uhm. Penso di aver capito le tue intenzioni”.
In risposta mi spinge dentro e si butta addosso a me baciandomi.
Arretro fino al letto, su cui cado spinto da lei; dopodiché si sdraia sopra di me e mi bacia ancora.
Si allontana di poco e mi sorride divertita: “ Noto che anche qualcun altro è felice di avermi incontrata”.
“Mi hai beccato” rispondo, un pochino imbarazzato.
“Da quanto non lo fai?” chiede improvvisamente seria.
Rimango un po’ spiazzato dalla domanda e rispondo titubante: “In tutta sincerità non ricordo”.
Si solleva e si mette seduta cavalcioni su di me. “Allora dobbiamo rimediare il prima possibile” dice mentre si sfila la maglietta.
“Uhm, concordo” rispondo.
 
 
 
Vengo svegliato da un rumore martellante.
Riapro gli occhi e scopro di essere in camera mia, al che sorge spontanea una domanda: come diavolo ci sono arrivato?
Mi metto seduto stropicciandomi gli occhi, mentre comincio a sentire i primi sintomi di un’emicrania che sicuramente si rivelerà essere terrificante.
Mi guardo attorno leggermente spaesato; di ieri sera non ho molti ricordi, prevalentemente riguardano la prima parte della serata e devo dire che sono ricordi alquanto piacevoli, ma per il resto è buio completo.
Mi metto in piedi a fatica.
Non sono più quello di una volta, e pensare che ai miei tempi d’oro riuscivo a sopportare di peggio.
Barcollante arrivo fino alla porta della camera e la apro.
Faccio qualche passo e sbatto contro mia madre.
“Oh, buon giorno!” esclama vedendomi.
“Giorno”.
“La prossima volta che decidi di fare così tanto tardi, avvisa prima”.
Penso che l’abitudine di fare baldoria alla sera sia l’unica cosa della vecchia vita di cui non sentono la mancanza.
“Per fortuna che c’è quel tuo amico” aggiunge.
“Jason?”.
“Sì, ti ha riportato a casa in macchina lui ieri, anzi questa mattina”.
Almeno ho scoperto chi mi ha riportato a casa.
“Per che ora sono tornato?”.
“Verso le cinque di mattina”.
“Scusa, non era previsto ciò; mi sono lasciato prendere la mano”.
“Fa niente. Se ti interessa ti abbiamo lasciato qualcosa da mangiare nel forno”.
“Okay, ma prima mi devo fare una doccia e cercare di rimettermi in sesto”.
Ritorno in camera e poso gli occhi sul telefono; scopro che ho ricevuto due messaggi, uno è di Sarah, l’altro proviene da un numero sconosciuto; ignoro quello di Sarah e apro l’altro.
È di Tamara; sorridendo le rispondo, dopodiché vado a farmi una doccia.

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