Conversazioni con Alex Turner

di Christa Mason
(/viewuser.php?uid=220447)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una giornalista ***
Capitolo 2: *** Miles ***
Capitolo 3: *** Lo Studio ***



Capitolo 1
*** Una giornalista ***


L'idea è quella di immaginare un Alex Turner lontano dagli schiamazzi e delle pose plastiche sui giornali, l'idea è quella di raccontare Alex Turner dopo gli Arctic Monkeys, oltre gli Arctic Monkeys in varie conversazioni con giornalisti e altri.


Era passato del tempo da quando mi ero sentito ancora in dovere di parlare degli Arctic Monkeys, dall’ultimo concerto, dall’ultimo festival, da quella volta in cui scagliai la mia Fender Bronco contro un’impalcatura. Fu una cosa che feci in Germania mi sembra di ricordare, fu uno degli ultimi concerti, fu un gran bel concerto e posso dire che quella contro cui si distrusse la mia Fender era una gran bella impalcatura.
“Da quanto non si trova in uno studio radiofonico?” mi chiese la giornalista. 
Indossavamo entrambi quelle grosse cuffie che ti fanno sentire la mente come sottovuoto. La voce della ragazza pulsava insinuandosi all’interno dei miei timpani. Pensai alla mia Fender, il cui suono spesso mi arrivava allo stesso modo, sensazione che comunque non mi mancava.
“Dieci anni, almeno.” risposi. 
“E da quanto non rilascia un’intervista?” 
“Da dieci anni, almeno.”
“E le mancano, le interviste?”
“Non esattamente. Credo mi manchi la pubblicità, per lo più. Non credo che le interviste servano a qualcosa che non sia pubblicità. Si dicono delle cose, che servono a far vendere altre cose. Adesso, dopo dieci anni dall’ultima intervista, forse ho bisogno di pubblicità.”
“Probabilmente sì. Quindi le manca che si parli di Alex Turner, che le persone sentano parlare Alex Turner, in modo che il mercato musicale ne sia influenzato?”
Feci una smorfia di dissenso.
“No, non è questo. Spero di ottenere un contatto discografico. Ma non posso farlo se non si parla di me. Questo era ciò che volevo dire: ho bisogno di pubblicità.”
Intendevo dire che Alex Turner non era più di moda. 
Fu allora che la ragazza si guardò intorno, con quell’aria entusiasta di chi ha appena ricevuto un dono così speciale ed esclusivo da avere paura di perderlo. Mi sorrise, cercando pertanto di farmi ripetere nel modo più completo potessi ciò che avevo accennato. Non ero mai stato bravo in queste cose, e non sapevo se avessi dovuto ricambiare, seppur timidamente, quel sorriso.
“Sta dicendo che vorrebbe tornare a suonare?”
“Immagino di sì.”
“Perché adesso, improvvisamente?”
“Perché non credo di poter fare altro…”
“Sono sicura che ci sarebbero così tante attività in cui riuscirebbe a distinguers…”
“No.” la interruppi bruscamente. Non era mai stata mia abitudine farlo, in special modo con giornaliste dai gusti musicali nostalgici. Ma sentivo che erano ormai passati i tempi delle lusinghe radiofoniche. “Intendo dire che non c’è altro che potrebbe permettermi la felicità.”
“Ma fu lei a dire di voler lasciare gli Arctic Monkeys e la musica perché non la rendevano felice.”
Furono cose che dissi veramente.
“Forse la musica aveva il potere di distruggermi, pur essendo ciò che amavo di più.”
“Non si pente dello scioglimento degli Arctic Monkeys?”
“No, per niente.”
“E non è strano che gli altri, Matt Helders, Jamie Cook e Nick O’Malley, abbiano continuato la carriera musicale in vari modi, mentre lei sia rimasto del tutto nell’ombra?”
“Hanno continuato a suonare? Tutti loro?”
“Non ne ha più sentito parlare?”
“Ho evitato di sentire qualsiasi cosa dal giorno in cui decidemmo di interrompere il nostro ultimo tour. Ma non avrei mai creduto che tutti loro avrebbero potuto andare avanti.”
“Che vuol dire?”
“Sono riusciti ad andare avanti, mentre io sono rimasto a far niente per questi anni. Credevo che gli Arctic Monkeys avessero distrutto loro, quanto avevano distrutto me.”
“Come l’hanno distrutta gli Arctic Monkeys?”
“Era come se ogni cosa facessi e pensassi fosse del tutto giusta e del tutto sbagliata nello stesso momento. Ero sempre sottoposto a un giudizio gratuito e categorico. Capisce cosa voglio dire? Ogni canzone era allo stesso tempo un capolavoro e uno schifo.” esitai, non del tutto certo che ciò che stavo dicendo potesse essere comprensibile. “Come se ogni mio passo sul palco fosse causa di sospiri e fischi, mi sentivo così bene perché tendevo una mano e potevi vedere il pubblico tendersi verso di me, a costo di ferirsi, a qualunque costo, e improvvisamente la musica degli Arctic Monkeys non era così importante come lo erano diventati gli Arctic Monkeys stessi. Avrei solo voluto poter tornare a fare concerti in cui il biglietto costava meno di dieci sterline,  perchè si tende ad essere meno categorici quando la musica costa poco. Circondato da tutti quei soldi e tutte quelle persone non riuscivo a scegliere se sentirmi bene o male.”
“Recupererà le sonorità degli Arctic Monkeys, nel suo prossimo progetto?”
“Non lo so.” tagliai corto, perché davvero non sapevo come sarebbe stato un mio prossimo disco, né sapevo che musica ascoltava la gente in quel periodo, non volevo parlarne. Ero rimasto stupidamente bloccato a dieci anni prima, me ne rendevo conto solo in quel momento, non volevo che nessun altro potesse vederlo.  
“Non ha più suonato da allora, anche solo per sè?”
“Sì, ogni tanto.”
“E tornerà a suonare per amore della musica?”
“Esistono altri motivi per tornare a suonare?”
“E dell’amore più tradizionale cosa mi dice?”
“Non sono mai stato bravo nell’amore tradizionale.”
“Le va di parlare di quella lite in albergo, con Arielle Vandenberg?”
“Non credo che quell’episodio possa c’entrare con l’amore tradizionale, io e Arielle non eravamo più una coppia da almeno un paio d’anni.”
“Eppure eravate nella stessa stanza d’albergo.”
“Ci incontrammo a Los Angeles…”
“Gli Arctic Monkeys si erano appena sciolti.” precisò la giornalista a chi ascoltava.
“Sì. E decidemmo testardamente che potevamo riprovarci. Ma non potemmo resistere oltre dieci minuti nella stessa stanza, eravamo soli e patetici, e anche di nuovo insieme avremmo continuato a essere soli e patetici.”
“É vero che tentò di buttare Arielle giù dalla finestra?”
“Quel che conta è che non l’abbia fatto.”
Avrei potuto rispondere che no, non avevo provato a fare niente del genere. Non so perché non lo feci, già cominciavano a mutare i miei toni e miei atteggiamenti solo per il fatto che sapevo che qualcuno avrebbe ascoltato e riascoltato le mie risposte.
“Il suo pubblico non è abituato a immaginarla in questo modo.”
“Quale pubblico?”
“Quello che riconquisterà, e che la sta aspettando.” fu forzatamente gentile in questa risposta. Ancora quelle lusinghe da intervistatrice che avrebbero dovuto avere lo scopo di rendermi più disposto a parlare, e che invece mi allontanavano da lei e mi rendevano più sintetico.
“Il pubblico potrà conoscere solo la musica, non me.” conclusi teatralmente.
“Escluso l’episodio dell’albergo, ha avuto altri contatti con Arielle dall’inizio del 2014?”
“No.”
“Nè con Alexa Chung?”
“No, neanche con lei.”
“E non c’è stata nessun altra?”
“No, nessun altra.”
“Quindi possiamo dire che lei crede solo nell’amore per la musica, e non in altri tipi di amore?”
“So che può sembrare così, ma non credo sia vero. Si possono amare tante altre cose.”
“Come per esempio, la cucina, l’arte, la famiglia?”
“Gli amici…”
“Come Miles Kane?”
“Qualcosa del genere.” 
Sì, qualcosa del genere.
“Vi siete più rivisti, dopo il suo ritiro dalla scena musicale?”
“Sì, con lui sì.”
“In che occasione?”
“In più occasioni. Forse è per questo che ho deciso di tornare a suonare, lui sembra in grado di non farsi distruggere, e in questi anni ha continuato per la sua strada. Voglio provarci anche io.”
“Ha già scritto qualcosa, per il suo nuovo disco?”
“Qualcosa.”
“E ci vuole dare qualche anticipazione.”
“Ho paura di rovinare le aspettative.”
“Allora la ringrazio, Alex.” mi allungò la mano per stringermela. Lo trovai stupido perché, essendo un’intervista radiofonica, nessuno avrebbe potuto vedere quel suo cortese gesto. 
“Grazie a lei.” risposi ricambiando quella stretta di mano. 


 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Miles ***


 Ok, riassunto della puntata precedente. Sono passati dieci anni dallo scioglimento degli Arctic Monkeys e Turner sembra essere sparito dalla circolazione fino al momento in cui non rilascia un'intervista in cui afferma di voler tornare a suonare. Questa fanfiction è fatta di "conversazioni" e quindi eccone un'altra, con Miles Kane. Nel capitolo viene anche citato Julian Casablancas, in un'altra fanfiction più letteraria ho descritto un incontro proprio tra Turner e Casablancas, due personaggi che amo e che sì, vorrei tanto vedere insieme. Naturalmente nulla di quello che scrivo è vero.

“Cosa cazzo hai in quella testa, Alex?”
  Miles aspira dalla sua sigaretta, nervoso. Casa sua è piena delle mie cose. 
  “Mi chiedevo quando finalmente avresti ascoltato quell’intervista.” dico mentre mi lascio cadere sul suo divano, ormai il nostro divano. Non so neanche da quanto tempo non ho una casa tutta mia, una casa che non sia questa di Miles a Manchester. 
  “Beh, l’avrei ascoltata prima quella dannata intervista se mi avessi avvertito.”
  “Sapevo che avresti disapprovato.”
  “Vorresti darmi torto?”
  No Miles, non riuscirei a darti torto neanche se volessi. 
  “Che problema c’è se torno a suonare?” chiedo innocentemente come se non ricordassi com’ero, come avevo cercato di buttare Arielle giù da una finestra, come avevo distrutto un’intera sala prove, tutto da solo. “Tu… tu continui a suonare, perchè non potrei…” faccio per aggiungere perchè non potrei continuare a suonare anche io?.
  “Io non divento un emerito stronzo quando suono.” mi interrompe.
  “Grazie.” dico, arreso. Grazie dell’aiuto, Miles.
  “Prego.”
  Ci guardiamo in silenzio.
  “Sei arrabbiato perchè non ho chiesto il tuo consiglio.” sentenzio.
  “Beh, visto che ultimamente era tutto un Hey Miles, cosa ne pensi di questo, cosa ne pensi di questo? concedimi di essere almeno sorpreso.”
  “Sei sempre così stronzo quando sei sorpreso?”
  Miles tradisce un sorriso, ci siamo capiti. Sarei tornato a suonare e Miles mi avrebbe disapprovato silenziosamente e controllato come era solito fare. Se questa conversazione è una gara a chi è più testardo, sono certo che Miles non ha neanche una chance.  
  “Ne ho bisogno, Miles. É stato bello sparire per un po’, davvero, ma devo tornare a suonare, non posso permettere che tutta la mia vita siano gli Arctic Monkeys. Sai cosa voglio dire?”
  “So cosa vuoi dire.”
  “Immagina il mio funerale: Muore il fottuto leader degli Arctic Monkeys, riposi in pace.
  “Leader?” mi provoca.
  “Non voglio che al mio funerale vengano nominati gli Arctic Monkeys.”
  “Hai trentanove anni, Alex… smettila di parlare di funerali.”
  “Penso ai funerali perchè non ho nient’altro a cui pensare. Ho bisogno di suonare, cazzo.”
  “Suona a casa.”
  “Non è la stessa cosa.”
  “No?”
  “Non fare il coglione, Miles, certo che non lo è.”
  Non mi manca suonare, mi manca il pubblico, le interviste, le persone davvero interessate ad ogni tua parola scritta e pronunciata, Cristo se mi mancano i talk show
  “Ti distruggerai Alex, come l’ultima volta. Non riuscirai più a toglierti di dosso quel maledetto personaggio che interpreti sul palco, Alex Turner la rockstar, poi comincerai a insultare chiunque ti capiti a tiro e a provarci con le fan in prima fila.”
  “Ti interessano le fan della prima fila, adesso?”
  “Ti ricordi com’è andata con quella Zadie?”
   Non mi è stato possibile dimenticare com’è andata con quella Zadie, dal momento che così spesso temo ancora oggi di ritrovarmela nella caffetteria che frequento a Manchester o nelle piccole librerie in cui passo il tempo. Una ragazzina minuta e scura, era bella come poche altre sue coetanee, folle come nessuno.
  “Zadie la stalker?”
  “Aveva sedici anni Alex, e per poco non l’hai investita con la macchina.”
  “Non che non lo meritasse.” sono sincero “Cazzo, Miles… mi seguiva ovunque, me la ritrovavo in ogni albergo, alla fottuta transenna della prima fila di ogni concerto.”
  “Cosa t’aspettavi che facesse. Ti ricordo che ci avevi provato con lei, s’era illusa.”
  “Sì beh, era prima che scoprissi che aveva sedici anni.”
  “Sei davvero senza speranza.”
  “In ogni caso non credevo mi servisse il tuo permesso per fare un disco.”
  “Non ti serve, ma sembri tenerci davvero molto al mio permesso.”
   Faccio una smorfia, siamo patetici, una vecchia coppia sposata, il terribile cliché di una serie televisiva per casalinghe annoiate. Resto nella sua casa di Manchester, nella nostra casa di Manchester anche quando non c’è, ascolto i suoi dischi, leggo i suoi libri e non faccio che desiderare che Miles torni a casa per potergliene parlare, ma non parlavamo mai, litigavamo fingendo di discutere. 
  “Potrei chiamare qualcuno per registrare il disco, per una collaborazione.”
  “Hai sempre odiato le collaborazioni.”
  “I Last Shadow Puppets, quella era una collaborazione.”
  “Quello è diverso.”
  “Oh sì, quello è diverso.” gli faccio il verso mentre m’accendo una sigaretta.
  “Sei proprio un coglione, Alex.”
  “Casablancas!” dico senza cogliere la sua provocazione. “Anche lui ha smesso di suonare, potrei chiamare lui, sarebbe una bella cosa, e potrebbe capirmi più di te.”
  “Julian Casablancas ha fatto almeno sei dischi negli ultimi dieci anni.”
  “Oh…” ero sicuro che fosse sparito anche lui dalla circolazione. Dannatamente sicuro.
  “Sei fuori dal mondo, Alex, e fuori di testa.”

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Lo Studio ***


Riassunto delle puntate precedenti. Alex Turner rilascia un’intervista, la prima dopo 10 anni dallo scioglimento degli Arctic Monkeys, in cui dichiara di voler tornare a suonare. Miles, con cui Alex divide da qualche anno un appartamento a Manchester, disapprova. 




Uno studio di registrazione. Scopro improvvisamente di aver sentito la mancanza di quest’odore, di tutto questo in realtà, di tutti gli strani e tristi materiali che assorbono i suoni. Mi sento come questa moquette che sto calpestando, una dannata spugna. 
  “Sei pronto, Alex?” mi dice Miles da dietro il mixer, al di là del vetro. Parla con me accendendo un microfono e la sua voce risuona in questo studio come fosse la voce di Dio. 
  Oh vaffanculo, Miles. Mi sta addosso come una vecchia suocera, teme che io possa avere un crollo, lanciare la mia chitarra contro queste morbide pareti, urlare contro tutti bere disperatamente e lasciarmi poi andare a un pianto catartico, senza riuscire a registrare neanche una nota. Non che non possa succedere, non che non sia già successo solo… Fidati di me una cazzo di volta, Miles.
  “Prontissimo.” 
   Sono seduto su uno sgabello, una chitarra acustica vibrante tra le mani.
  “Non vuoi provare qualcosa prima di registrare?”
  “No, fanculo, sono pronto.”
  Miles si appoggia al bancone, esausto. Non abbiamo neanche cominciato a discutere che già sente il peso delle parole che sta per dire. 
  “Alex…” comincia con quel suo tipico tono, irritante e paterno. Alex, vorrebbe dire, prova questa cazzo di canzone una volta, una volta sola, poi la registriamo. Dimostrami di avercela una canzone, almeno. 
  “Miles…” lo interrompo prima che possa dire qualsiasi cosa, imitando il suo tono. Se solo non mi sentissi isolato e protetto da quel vetro, probabilmente mi prenderei a schiaffi da solo. Miles mi guarda, sostengo il suo sguardo.
  “Ah… lascia perdere, Alex.” dice. Si alza e se ne va. 
  Rimango qualche attimo lì seduto, silenzioso e inosservato in un grande studio completamente vuoto. Parte il mio ginocchio nervoso. Forse dovrei aspettare che Miles torni, non lo faccio. Lascio cadere la mia chitarra, esco. 
  Lo trovo che fuma instabile nel vicolo di mattoni sul retro dello studio. 
  “Miles…” gli dico, senza l’aggressività passiva e canzonatoria con cui avevo pronunciato il suo nome prima. 
  “Non ce l’hai una canzone, non è vero?”
  “No.”
  “Perchè mi stai facendo perdere tempo, Alex? Ti ho concesso una giornata in studio… Hai promesso alla Domino un demo e non hai niente. Assolutamente niente.”
  “Pensavo di poter semplicemente…” esito. 
  “Cosa Alex?” 
  “Di poter, sai… farlo spontaneamente. Registrare una canzone nel momento stesso in cui nasce.”
  “Non funziona così, Alex.” conclude, lascia cadere la sua sigaretta al suolo. Mi guarda. “Non ce la fai proprio a rendermi la vita meno difficile, vero?”
  “Suppongo di no.” gli metto una mano sulla spalla. Si scosta non permettendomi nessun contatto. Tipico di Miles e delle distanze da persona del tutto responsabile. Aspira dalla sua sigaretta. Ci guardiamo. Miles sorride appena, un sorriso che non riesco a decifrare, come liberatorio, canzonatorio, di sfida. Penso che forse siamo dei coglioni, entrambi, e potremmo anche lasciar perdere tutto, tornare alla nostro appartamento disordinato e all’otium dispersivo di chi ha fatto abbastanza soldi da non dover pensare a niente di veramente serio per anni.
  Penso queste cose mentre Miles mi tira un pugno. Improvviso. Mi trattengo la mandibola mentre lo guardo incredulo. Mi freme un sopracciglio mentre penso che vorrei picchiarlo. 
  “Dai, fallo Alex.” mi dice, getta la sigaretta contro il muro di mattoni alle mie spalle.
  “Cosa?” sbotto io. “Cosa cazzo dovrei fare?”
  “Ah, fanculo.”
  Mi tira un altro pugno che mi coglie nuovamente impreparato. Non assomiglia per niente alle inutili risse da liceo che mi conquistavano i soleggiati pomeriggi di Sheffield, un secondo pungo di Miles è qualcosa di inaspettatamente intenso e significativo, qualcosa che non smetterà mai di farmi male. Infine ricambio, con una cattiveria che mi sorprende provare per Miles. Miles cade per terra, raccogliendo il sangue che gli esce dal naso. Lo squadro mentre pietoso si rialza. Sono stato davvero io a fargli questo? Siamo stati capaci di farci del male? E perché lo stiamo facendo?
 Siamo ridicoli, così ridicoli. Continua la nostra rissa da quindicenni che non avevamo mai avuto modo di attuare. Le nostre unghie ci graffiano, le nostre nocche rientrano e del sangue cola dalla mia tempia. Siamo in un vicolo di mattoni, praticamente quarantenni, a picchiarci per un motivo che dovremmo chiarire non appena ci fermiamo. Mi colpisce l’orecchio, perdo l’equilibrio. Cado. Ondeggio appena per rialzarmi, ma l’orecchio mi fischia, cado di nuovo. Tutto s’annebbia per un attimo. Scuoto la testa cercando di riprendermi. Miles deve capire di avermi fatto male sul serio perché smette di accanirsi, e con cura paterna mi afferra un braccio, facendomi rialzare.
  Ci appoggiamo al muro, silenziosi. Miles mi porge una sigaretta. Ci ritroviamo a fumare silenziosi fissandoci, insanguinati ed esausti. 
  “Avremmo finito per litigare in modo adulto e responsabile.” dice Miles.
  “Mi avresti detto che sono un immaturo, e poi non ci saremmo più parlati.”
  “Sei un bastardo, Alex. Ma voglio continuare a parlarti.”
  “Per questo mi hai tirato un pugno?”
  “Abbiamo evitato di litigare in modo adulto e responsabile.”  
  “Hai ragione.”
  “Stai bene?”
  “Bene, sì.”
  “Ok.”

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2753850