Si chiamava Susie Salmon

di Raven85
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Jack ***
Capitolo 2: *** Abigail ***
Capitolo 3: *** Lindsey ***
Capitolo 4: *** Buckley ***
Capitolo 5: *** Ruth ***



Capitolo 1
*** Jack ***


Era il 1973 quando mia figlia venne uccisa.
Accadde il 6 dicembre, un giorno che nevicava. Io e Abigail, mia moglie, avevamo all’epoca tre figli: Susie e Lindsey molto ravvicinate, ad appena un anno di distanza, e Buckley, molto più piccolo. Io lavoravo nelle assicurazioni e avevamo una casa rispettabile, abbastanza grande, e nessun grosso problema, né finanziario né di altra natura.
Eravamo una famiglia normale.
Lindsey era a casa da un pezzo quel pomeriggio, e io ero appena tornato dal lavoro. Aspettavamo Susie per cenare. Ma lei non tornò.
Aveva quattordici anni e frequentava la scuola media. Era una ragazzina normale, dolce, affettuosa, con un’intelligenza nella media. Era la mia bambina, la mia Susie.
In seguito i poliziotti parlarono del campo di granturco, e posso immaginare che fu lì, mentre tornava a casa, che qualcuno la adescò. So anche da chi, nonostante non sia mai stato provato: George Harvey, il nostro vicino di casa.
Quel pomeriggio al posto di mia figlia alla porta di casa si presentò l’agente Len Fenerman, che non esito a definire un salvatore. Certo, non scoprì mai l’assassino di Susie e tantomeno riuscì ad arrestarlo, ma non si arrese fino a quando l’evidente mancanza di indizi gli impedì di continuare.
Avevo fatto al telefono una descrizione di Susie, preoccupato per il suo ritardo. Ma quando vennero gli agenti, fu per dirmi che avevano trovato solo una parte del corpo di mia figlia.
Il suo gomito.
Da quel momento in poi per me il mondo divenne una macchia sfocata, come se camminassi sempre nella nebbia. Nessuno che non abbia perso un figlio può capire cosa significa.
Ma non fui sicuro da subito che mia figlia fosse morta. Anche nei giorni seguenti, nonostante le prove si accumulassero - il gomito, il suo libro di testo smarrito, il sangue nel campo - il suo corpo non era stato ritrovato, dunque perché preoccuparsi? Sarebbe tornata, anche senza un gomito. Sarebbe tornata di sicuro.
Mi era difficile consolare mia moglie. A darle il colpo di grazia fu Len che arrivò a casa nostra con il cappello di Susie, che lei le aveva fatto personalmente. Era chiuso in un sacchetto di plastica, ed era impregnato della saliva della mia bambina. Il mostro che le aveva fatto del male glielo aveva infilato in bocca, per evitare che urlasse.
Fu solo da quel giorno che prendemmo atto della verità. Nostra figlia era morta. Era stata uccisa, e chissà cosa di orribile prima. Non osavo immaginarlo.
Lindsey lo seppe dai nostri discorsi, non avendo osato né io né tantomeno Abigail affrontarla apertamente. Ma aveva tredici anni, per di più era estremamente intelligente, un piccolo genio in boccio. Aveva quindi compreso molto di più e molto prima.
Il difficile fu dirlo a Buckley. Aveva solo quattro anni, e i primi giorni cercammo di tenerlo al riparo dalla verità, servendoci anche dell’aiuto dei genitori del suo amico Nate, che lo ospitarono per qualche giorno. Lui chiedeva sempre di sua sorella, ma cercavamo di distrarlo con altre attività.
Nel mio studio avevo decine e decine di navi in bottiglia. Era un passatempo che mi aveva sempre appassionato, e avevo cercato di trasmetterlo anche ai miei figli. Ma c’ero riuscito solo con Susie. Lei amava quei modellini, e amava tenermi ferma la bottiglia mentre io raddrizzavo le vele. Era una cosa come un’altra che ci teneva uniti.
Una sera mi trovavo proprio nello studio, circondato dalle navi in miniatura. Forse per la prima volta guardandole realizzavo che quelle piccole mani non avrebbero più retto i miei lavori. Non avrei più visto il suo sorriso mentre le vele si alzavano, non l’avrei più vista trattenere il respiro, come se da un piccolo fiato potesse dipendere il destino di quelle imbarcazioni.
Cominciai a spaccare le bottiglie una dopo l’altra.
In breve mi ritrovai circondato da migliaia di cocci di bottiglia. E allora accadde una cosa che ancora oggi sono in dubbio se potessi essermela immaginata. Vidi il viso di Susie in ognuno di quei vetri.
Quando uscii, poco dopo, incontrai il nostro vicino di casa. Stava montando una tenda, così mi offrii di dargli una mano.
In quel momento ebbi la certezza di avere davanti a me l’assassino di mia figlia.
Naturalmente non gli feci capire di sospettarlo, ma immagino che lui lo avesse intuito, quando gli dissi che sapeva qualcosa. Ma non mi diede alcuna risposta. Mi disse semplicemente di tornare a casa.
Appena rientrai telefonai subito alla Polizia, e devo dire che Len si fece in quattro per verificare i miei sospetti. Ma non trovò nulla su George Harvey, se non una piccola discrepanza col nome di sua moglie defunta: a Abigail aveva detto che si chiamava Sophie, a Len Leah.
Mi decisi a parlare a Buckley la notte di Natale - anche se può sembrare il momento meno opportuno. Ma il bambino si rendeva conto che in casa non c’era la solita atmosfera festosa, e soprattutto sentiva l’assenza di Susie, che pesava come un macigno. Così, mentre in cucina Lindsey parlava col suo nuovo ragazzo - nuovo da quella sera - e Abigail sfogava le sue lacrime, lo portai con me in sala e lo invitai a giocare a Monopoli per la prima volta. Mi sembrava una buona metafora, e funzionò.
Da quella sera la candelina, il segnaposto che Susie usava sempre quando giocavamo sparì dalla scatola e io non ne seppi più nulla. In seguito, dopo alcuni anni, mio figlio ormai dodicenne mi accusò di averla sottratta dal cassettone della sua camera da letto, ma io non la vidi più.
Di una cosa in particolare mi vergogno di quel periodo, e non posso darne causa al dolore che stavo vivendo: di non essere stato il padre di cui i miei figli avevano bisogno. Amavo tutti e tre i miei ragazzi, non facevo distinzione fra loro. Ma Susie era la mia prediletta, era la maggiore, era stata la prima ad arrivare e soprattutto somigliava così tanto ad Abigail, che la sua perdita avvizzì in me l’essere padre. A logica sapevo che Lindsey non meritava di venire trattata come l’ombra di sua sorella, che Buckley era ancora piccolo, e che entrambi avevano bisogno del massimo amore da parte mia. Ma ero distrutto dal dolore, ero annientato, e non riuscivo a vedere le cose con la giusta lucidità. Sono certo però che almeno Lindsey lo ha capito.
Non sapendo bene neanch’io il motivo andai a casa di Ray Singh, un compagno di classe di Susie che a quanto pareva aveva una cotta per lei. Per breve tempo era stato sospettato dell’omicidio, ma io non lo avevo mai creduto davvero. Diciamo che era stato un sospetto fondato sul suo essere straniero, nella fattispecie di origini indiane.
Mi aprì sua madre, Ruana, e rimasi colpito dalla sua bellezza esotica. I poliziotti si erano fermati a casa sua e lei era rimasta impassibile mentre interrogavano suo figlio. Doveva sicuramente aver dato loro l’impressione di una donna fredda e altera, ma con me non si comportò così. Rifiutò decisamente il mio dispiacere per il coinvolgimento di suo figlio nelle indagini. E a lei per prima rivelai chi pensavo che fosse l’assassino.
Disse che se fosse stata al mio posto, e avesse avuto la mia stessa certezza, non avrebbe esitato ad ammazzare il colpevole. Solo poco tempo dopo le sue parole mi tornarono in mente.
A gennaio, circa un mese dopo la scomparsa di Susie, il preside propose di fare una messa in suo onore. Secondo lui portare per così dire alla luce la faccenda avrebbe fatto bene anche agli altri ragazzi, così venne organizzato tutto.
Quella mattina dunque salimmo tutti in auto, noi quattro con la madre di Abigail, Lynn. Veniva raramente a trovarci e per mia moglie era sempre un imbarazzo, con le sue manie di protagonismo, il suo colletto di visone, le sue limousine e il suo trucco pesante. Ma sotto sotto era una donna molto più tenera di quanto si pensasse. Amava a modo suo la sua unica figlia, e allo stesso modo i tre nipoti. In quei giorni Lindsey le chiese di insegnarle a truccarsi.
Alla messa c’erano quasi tutti, tranne Ray Singh e sua madre. Ma tutti gli altri c’erano: i compagni di classe di Susie, la sua amica Clarissa col ragazzo, e naturalmente il ragazzo di Lindsey, Samuel.
Di quel giorno non ho ricordi molto chiari, probabilmente perché non successe nulla di particolare. Sentivo Susie più o meno come al solito, dentro e accanto a me, e forse la sua presenza aleggiava per tutti più adesso che non c’era più, che quando era in vita. A volte capita.
Ricordo però che a un certo punto mia suocera si voltò verso Lindsey e le sussurrò qualcosa all’orecchio. Lei si voltò verso la porta d’ingresso della chiesa, e un attimo dopo era svenuta.
Non mi disse mai né cosa le aveva detto né il motivo della sua reazione.
Quell’estate Lindsey andò al raduno degli studenti dotati, e nella nostra casa rimanemmo in tre: io, Abigail e Buckley. Di mattina molto presto uscivo per fare jogging conducendo con me Holiday, il nostro cane, e questo mi forniva la possibilità di passare davanti alla casa di George Harvey. Esternamente non aveva nulla di diverso da mille altre case, ma dentro di me la certezza che lui fosse l’assassino di mia figlia e che magari nascondesse il suo corpo proprio lì, in cantina, diventava sempre più solida. A consolidare il tutto, poi, si mise anche il cane, che una mattina d’agosto iniziò ad abbaiare furiosamente proprio davanti all’abitazione di quell’uomo.
Telefonavo spesso alla Polizia, premendo affinché facessero indagini più approfondite. Per questo nel mese di agosto Len venne a casa nostra e mi chiese di non contattarli più.
Il caso di Susie era stato archiviato.
Per quanto capissi la situazione, l’impotenza della Polizia e tutto il resto, non potevo fare a meno di sentirmi abbandonato. In un certo senso, era come se Susie fosse stata uccisa una seconda volta.
Una notte ero nel mio studio, che ormai era diventata la mia camera da letto. Non che Abigail mi avesse cacciato dalla nostra stanza, ma io ero sempre perso dietro ai miei pensieri e spesso annotavo particolari che ritenevo importanti su un taccuino, e volevo concederle almeno la notte un po’ di pace. Così dormivo là, su una poltrona.
Quella notte in particolare ero proprio nello studio. Avevo messo sul davanzale della finestra una candela che tenevo sempre accesa: era un modo per sentire più vicina la mia bambina. Ero come al solito immerso nei miei pensieri, e riflettevo sull’ipotesi di entrare nella casa di George Harvey, convinto che là avrei trovato la risposta a tutte le mie domande. Adesso sono certo che almeno per un periodo il corpo di Susie sia veramente stato lì, e che una semplice perquisizione lo avrebbe sicuramente fatto saltar fuori.
Era passata la mezzanotte quando vidi una luce fuori, nel giardino. Non so perché, nel mio delirio impotente mi convinsi che fosse proprio il nostro vicino di casa, così mi vestii e afferrai la mazza da baseball che avevo regalato a Lindsey prima che lei scegliesse il calcio. Uscii nella notte, e tra le nostre due case c’era davvero qualcuno, qualcuno seduto e rannicchiato per terra, terrorizzato dalla mia presenza. Ma non era George Harvey.
Era Clarissa.
Seppi in seguito che lei mi aveva visto con la mazza in mano e aveva cominciato a piangere e a urlare. Il suo ragazzo, che la stava raggiungendo, l’aveva sentita e mi aveva massacrato di botte, rompendomi un ginocchio.
Io ricordo solo i singhiozzi della ragazzina, l’allentarsi delle mie dita che lasciavano cadere la mazza, la sua figura raggomitolata. E un attimo dopo il ruggito del suo ragazzo e le botte, il dolore, la perdita di coscienza.
La mattina dopo mi svegliai in ospedale, reduce da un’operazione al ginocchio, con Lindsey che dormiva, la testa bionda appoggiata contro il mio fianco. La mia bambina era lì per me.
Una delle mie bambine era lì per me.
La riabilitazione fu lunga e difficile, e altrettanto si poté dire della riabilitazione morale. In paese tutti sapevano cosa avevo fatto, e quando Lindsey tornò a scuola si sentì circondata da frecciate e maldicenze, perché adesso non era solo “la sorella della ragazza uccisa”, ma anche “la figlia del pazzo”.
Questa è un’altra cosa che non mi sono mai perdonato.
Quell’autunno Buckley intraprese la strada dell’asilo, ma anche su di lui aleggiava l’ombra della sua sorella maggiore. Ma per quello sapevo che non avrei mai potuto fare niente.
Avevo ripreso vigore ed ero in grado di portare il mio bambino a cavalluccio su per le scale, e fu durante questi giochi che un pomeriggio irrompemmo nel bagno dei ragazzi e scoprii Lindsey intenta a depilarsi le gambe col mio rasoio.
Il rapporto con Lindsey è sempre stato più difficile di quello con Susie. La mia figlia maggiore poteva anche non avere all’apparenza nulla di speciale, ma era dolce, mite, più docile di Lindsey, che era un mezzo maschiaccio e un genio intero. Aveva in sé qualcosa di ribelle che la faceva scontrare puntualmente con me e sua madre - più con lei - e dalla morte della sorella in lei era cresciuta anche la rabbia. Non amava fare sport femminili. Correva coi ragazzi e le era stato proposto di entrare nella squadra di calcio, cosa che per gli anni ‘70 sarebbe stata improponibile. Già allora capivo che era molto più forte di me, di sua madre, di tutti noi. Aveva imparato a contare solo su sé stessa.
Cogliendo quell’occasione insperata mandai Buckley a giocare con Holiday, e io reperii una lama nuova per il rasoio. Mentre Lindsey si depilava per la prima volta, le confessai i miei sospetti.
Penso fu allora che in lei maturò la decisione di fare ciò che io non avrei potuto: entrare nella casa di George Harvey.
Non ero stato io a chiederglielo. Non avrei mai esposto mia figlia a un tale pericolo. Perché naturalmente una persona capace di uccidere una ragazzina non si sarebbe fatto problemi a farne sparire un’altra - quali che fossero i motivi delle sue “abitudini”.
Ma lei non mi chiese nemmeno il permesso. Semplicemente una sera tornò con un’ora di ritardo, la maglietta sporca di fango e piena di tagli, stringendo in mano un foglio appallottolato. Il disegno raffigurava una buca - probabilmente la tomba di Susie.
Disse che adesso mi credeva.
In seguito alla denuncia alla Polizia George Harvey partì, e non ne sapemmo più nulla. Non venne mai preso e non pagò mai per i suoi delitti.
All’anniversario della morte di Susie si radunarono spontaneamente tutti i nostri vicini per una veglia in suo onore. Lindsey era a casa con sua madre e suo fratello, e aveva visto i movimenti dalla finestra, e me lo comunicò appena tornai dal lavoro. Così prendemmo Buckley - questa volta non lo avremmo tenuto fuori - e li raggiungemmo, nel campo di granturco.
Fu una cosa sentita e bellissima, e ancor più perché era nata in totale spontaneità. E c’erano tutti: Ray e Ruth, una compagna di classe di mia figlia; i Gilbert, il cui cane aveva trovato il gomito di Susie; e anche la madre di Ray, che rimase nascosta.
C’erano tutti. Mancava solo Abigail.
Probabilmente già quella sera mia moglie aveva deciso di lasciarci. Disse che avrebbe fatto una piccola vacanza in una casa al mare di proprietà dei suoi genitori, invece non tornò e i giorni diventarono settimane, le settimane mesi. I mesi anni.
Non credo di averlo capito subito. Ma feci il mio dovere di padre. Continuai a lavorare e stavo in casa, cucinavo, lavavo, stiravo. Poi Lynn mi telefonò e disse che voleva trasferirsi da noi.
La mettemmo nella vecchia stanza di Susie, dove ogni tanto tutti noi andavamo per sentirla vicina, almeno un po’. E la convivenza fu meno spiacevole del previsto, nonostante i suoi assalti al mio frigo bar e le frequenti sbronze.
Ogni tanto Abigail scriveva, e spesso mandava cartoline ai ragazzi. A volte telefonava. Mia suocera fu per me un grande aiuto, soprattutto con Buckley, che stava diventando un bambino difficile e solitario, indurito dall’assenza di sua madre. E questo, lo potevo capire benissimo. Perché anche Susie non c’era più, ma non era stata lei a volerci lasciare. Invece mia moglie lo aveva deciso.
Lindsey andava bene con Samuel e andava altrettanto bene a scuola. Era una ragazza complicata, ma non era più solo l’ombra di sua sorella. Aveva trovato la sua identità, ed era venuta alla luce anche davanti ai miei occhi.
In quegli anni le cose erano cambiate per tutti, ma non per me. Ogni anno, ad ogni anniversario della morte di Susie ripetevo la veglia nel campo, ma partecipavano sempre meno persone. E io capivo bene cosa stava accadendo; proprio ciò che io non volevo assolutamente accettare. Tre anni, cinque anni, otto anni e le persone la dimenticavano. Per gli studenti della scuola media mia figlia era ormai solo un nome: nessuno di loro l’aveva conosciuta di persona. Susie Salmon era soltanto una delle migliaia di ragazzine scomparse. Solo io continuavo a pensare a lei come se fosse sempre quel 6 dicembre, come se da un momento all’altro potesse tornare a casa da scuola con una scusa per giustificare il ritardo. E mi rendevo conto - ma me ne rendo conto di più adesso - che questo stava pregiudicando pesantemente non solo il mio senso della realtà, ma anche il rapporto con chi era ancora vivo intorno a me.
Era il mio Buckley a risentirne di più. Lindsey aveva ormai passato quella fase, ma lui aveva appena dodici anni e soffriva del fatto che guardando lui sembravo rivedere sempre la mia bambina scomparsa.
Nel nostro giardino aveva costruito qualche anno prima un fortino, con materiali rimediati per lui anche da Hal, il fratello di Samuel. Era una delle cose che avrebbe voluto fare con Susie, ma io non avevo mai avuto la forza di aiutarlo a realizzarlo. Così lo aiutò Lindsey, con Samuel e Hal.
Alle medie scoppiò in lui la passione per il giardinaggio, e in questo gli fu consigliera mia suocera. Lynn gli procurava sempre libri sul giardinaggio, e se lui l’accompagnava a fare la spesa lo portava al vivaio a comperare piante in vaso. Era un’attività anche potenzialmente utile, e a lui piaceva perché lo aiutava a non pensare. E non c’era niente di meglio.
Dopo il diploma, una sera di pioggia Lindsey e Samuel non tornarono. Ricomparirono il giorno dopo, fradici, con addosso solo magliette e biancheria. E mi diedero la splendida notizia: avevano deciso di sposarsi.
Lindsey era preoccupata della reazione che avrei avuto, o forse aveva ancora qualche riserva a lasciarmi solo. Ma io mi ero affezionato a Samuel, in quegli anni aveva avuto sempre il massimo rispetto per mia figlia e per me, quindi dissi che non avrei potuto essere più felice.
Qualche giorno dopo vidi Buckley uscire in giardino con una scatola sottobraccio. Mi spiegò che aveva rimediato dei cenci per sostenere le piantine di pomodoro che stavano crescendo, e io lo osservai dalla finestra. Quando vuotò il contenuto notai con stupore che aveva preso i vestiti di Susie.
Adesso sono certo che se fossi stato meno duro con lui, se avessi cercato di spiegargli, nulla sarebbe accaduto e neanche la sua reazione sarebbe stata così violenta: ma ero come un automa. Uscii e raccolsi i vestiti di mia figlia, dirigendomi verso casa.
Buckley espose. Sono sicuro che quello fu solo il naturale esplodere di un vulcano che covava da molto tempo, e solo allora vidi per intero la sua rabbia. Era troppo piccolo per saperla controllare come aveva fatto Lindsey tanto tempo prima. Gridò che dovevo scegliere. Che Susie era morta, ma lui era vivo. Disse solo cose vere, lo sapevo anche allora. E mi accusò di avergli portato via il segnalino del Monopoli, la candelina che usava sua sorella.
Fu troppo per il mio cuore già provato. Una fitta di dolore si arrampicò sul mio braccio, e mi accasciai a terra, colpito da un infarto. L’ultima cosa che ricordo fu il grido angosciato di mio figlio, e la sua corsa in casa a chiamare la nonna. Poi il buio.
Quando all’ospedale mi risvegliai, accanto a me c’era Abigail. Sua madre l’aveva chiamata e lei era venuta dalla California. Per me.
Mi era mancata in un modo che non so spiegare neanche adesso. L’avevo sempre amata, certo, ma nel corso della sua assenza mi domandai spesso come avevo potuto permetterle di andar via. Speravo che adesso fosse tornata per restare.
Solo il giorno dopo la vidi. Era l’alba e Abigail dormiva accanto a me, seduta su una sedia. E io vidi Susie, nell’angolo della stanza. Non potevo mentire a me stesso: lei c’era, c’era stata fin dalla sua scomparsa e ci sarebbe stata sempre. Era la mia bambina e sarebbe rimasta nell’angolo del mio cuore dedicato solo a lei.
Quando Abigail si svegliò le dissi cosa avevo visto, e inaspettatamente lei mi credette. Non perché l’avesse vista anche lei: mi credette e basta. Ero felice anche solo di questo.
Len Fenerman venne a trovarci. Sperai che ci fossero sviluppi, che Harvey fosse stato preso, invece ci aveva solo riportato una cosa che sapeva appartenere a Susie.
Un ciondolo del suo braccialetto. La chiave di volta della Pennsylvania con le sue iniziali.
Insieme a quello era stato trovato anche un corpo, disse, ma non era quello di mia figlia. Per questo penso che il nostro vicino di casa abbia fatto male anche ad altre persone prima di capitare sulla strada della mia famiglia. E per questo non potrò mai perdonarlo.
Quella fu l’ultima volta in cui incontrammo Len. Il caso era archiviato e il corpo non sarebbe mai stato trovato: non restava che rassegnarci e cercare di andare avanti.
Lindsey e Samuel si sposarono, e comprarono la casa vittoriana dove si erano rifugiati la notte di pioggia. La combinazione aveva voluto che appartenesse al padre di Ruth, la compagna di Susie, e che aveva accettato di venderla ai ragazzi se Samuel avesse accettato di lavorare con lui. Così poterono ristrutturarla.
E arrivò la piccola Susie.
Nacque in primavera, e fu naturale per Lindsey darle il nome della sorella maggiore. Abigail Suzanne. Susie.
Naturalmente la ferita non si è chiusa del tutto. Continuo sempre a pensare alla mia bambina perduta, ma mi piace pensare che da dov’è ci osservi e che tenti anche di proteggerci, se rientra nelle sue possibilità… come io avrei dovuto fare con lei.
Ti voglio bene, Susie.



Ehm. Ciao…
Sì, ancora su Amabili Resti. Credo che questo libro mi resterà nel cuore e quindi ho deciso di cimentarmi in questo… ogni capitolo porterà il nome di uno dei personaggi che gravitavano intorno a Susie, a cominciare naturalmente dai suoi genitori. Iniziando dal padre, Jack appunto.
Hope u like it…
Raven85

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Capitolo 2
*** Abigail ***


Era il 1973 quando mia figlia venne uccisa.
Quella data, 6 dicembre 1973, rimarrà sempre impressa a fuoco nella mia mente. È il giorno in cui è morta una parte di me.
Avevamo tre figli allora, mio marito Jack e io. I Salmon. Una bella famiglia, unita, apparentemente perfetta. Papà Jack, mamma Abigail e tre figli. Susie, quattordici anni. Lindsey, tredici. Buckley, quattro.
Vivevamo in un quartiere tranquillo, tra brava gente, in una tranquilla cittadina di provincia. A volte capitava che qualche ragazzina scomparisse, ma mai là, e comunque sembrava impossibile che potesse succedere proprio a noi.
Un maniaco? Nel nostro paese? Impossibile! È sempre quello che si pensa, no?
Ci sbagliavamo.
Quel giorno nevicava. Lindsey e Susie frequentavano la stessa scuola media, e tornavano sempre a casa da sole, ma ognuna per conto suo. A volte una delle due tardava, perché Lindsey poteva fermarsi per gli allenamenti o Susie a chiacchierare con un’amica. Ma non era mai nulla di allarmante. E anche quel giorno, quando non la vidi tornare non mi allarmai subito.
Mio marito lavorava per le assicurazioni, e quando rientrò notò che nostra figlia maggiore non c’era. Ma non era ancora così tardi.
L’aspettavamo per cena, come al solito, o comunque prima che facesse buio. Ma lei non tornò. Così Jack chiamò la Polizia, trovandosi a dover descrivere agli agenti i lineamenti di nostra figlia, come era vestita e cosa aveva con sé. Ma nonostante l’angoscia continuasse a crescere, speravamo sempre di vederla rientrare da un momento all’altro, magari con il fiatone per aver corso, ovviamente con una scusa convincente.
L’agente Len Fenerman si prese carico del caso, e venne subito a casa nostra. In seguito mi servii di lui per allontanare da me l’orrore, il devastante senso di colpa, ma non posso non dire quanto ci fu vicino anche dal punto di vista umano, e non solo come poliziotto. Teneva nel suo portafoglio tutte le foto delle vittime di casi che non aveva ancora risolto, compresa quella di sua moglie, che a quanto mi disse morì poco dopo il loro matrimonio. Si impegnò davvero a dare un nome all’assassino di mia figlia, ed era anche ottimista di natura. Certo, con i suoi limiti.
Per tre giorni io e mio marito ci trascinammo da un’ora all’altra, con l’unico conforto di doverci occupare insieme dei nostri figli. Lindsey in verità aveva già tredici anni e credo avesse capito qualcosa, anche se noi non ce l’eravamo sentita di dirle nulla. Buckley invece aveva solo quattro anni, e aveva bisogno di tutta l’attenzione possibile da mamma e papà.
Devo dire però che non fummo lasciati soli. Len ci faceva visita spesso, e la mamma di Nate, l’amico di Buckley si offriva sempre di occuparsi di lui. Nessuno di noi osava ancora dare voce al terrore comune: Susie era scomparsa. Forse morta. Forse non sarebbe tornata mai più. Forse, forse.
Fu il 9 novembre che cominciammo a intuire il peggio, anche se nessuno voleva ammetterlo. Len telefonò a Jack, e gli disse che qualcosa avevano trovato. Un gomito. Di Susie.
Solo il giorno dopo so che parlò finalmente a Lindsey. A quel punto era logico supporre che nostra figlia fosse morta, magari uccisa, ma per me non significava nulla. Non volevo crederci.
Le indagini si restrinsero al campo di granturco. Trovarono un libro di Susie, e poi ci portarono un compito fatto da lei. Lasciai che lo prendesse Lindsey, e per quanto ne so lo conserva ancora.
Nei due giorni seguenti furono trovate altre cose, appunti e un bigliettino in uno dei suoi libri scritto da un ragazzo che le piaceva, Ray Singh. La sua famiglia era indiana e lui viveva praticamente solo con sua madre, dato che il padre era sempre fuori per lavoro. Fu il primo sospettato, ma noi non credemmo mai che potesse essere stato lui a fare del male a nostra figlia.
Fu il 15 dicembre che fui costretta ad accettare la realtà. Len venne a casa nostra e disse che nel campo di granturco era stato trovato molto sangue, ma non fu questo a convincermi.
Fu la vista del cappello con i campanellini che avevo fatto a mia figlia per Natale. C’era sopra la saliva di Susie, così disse: l’assassino doveva essersene servito per farla tacere.
In quel momento una parte del mio cuore morì. Non so spiegarlo. Ma la vista di quell’oggetto inanimato, di quell’indumento che mia figlia indossava sempre, fatto da me… lei non se ne sarebbe mai separata. Così fui certa che fosse morta.
Jack telefonò a mia madre per informarla, e io dissi a Lindsey che per quanto mi riguardava poteva anche non tornare a scuola, per il momento: dopo una settimana sarebbero iniziate le vacanze di Natale. Ma lei decise di andare.
Non le chiesi mai come andasse nei corridoi, ma in un certo senso ero certa che se la cavasse meglio di quanto stavamo facendo suo padre e io. Aveva sempre avuto un carattere più forte di quello di Susie, e in quel frangente ne fui felice, perché corazzò il suo cuore contro le chiacchiere della gente.
Buckley chiedeva sempre dov’era sua sorella. Era ancora così piccolo e fragile, e forse non capiva ancora del tutto cosa fosse la morte. In certi momenti, cercavamo di distrarlo proponendogli qualche divertimento che gli piacesse.
Ma ci faceva sentire in colpa. Era come corromperlo.
Arrivò il Natale. Ed eravamo solo noi, per la cena solita. Che io personalmente avrei evitato, ma se non fu deciso altrimenti fu per il nostro bambino. Aveva solo quattro anni, e meritava un Natale felice, come sempre.
Quella sera ci fece visita un compagno di scuola di Lindsey, Samuel Heckler, portandole un regalo. E non so bene cosa successe o cosa si dissero, so solo che dal giorno dopo mia figlia tredicenne aveva un ragazzo.
Fu anche la sera in cui, finalmente, Jack raccontò anche a Buckley la verità, cioè che sua sorella non sarebbe tornata mai più. Almeno questo fu un sollievo, non doverci più nascondere dietro a delle scuse.
Il rapporto con Lindsey era sempre stato complicato, e l’assenza di sua sorella non migliorò le cose. Certo, era una ragazza forte, ma era anche una ribelle. Per giunta si sa che l’adolescenza è di per sé il periodo della ribellione.
Len tornò un pomeriggio in cui ero sola con Buckley e Nate. I bambini si facevano compagnia e io ero certa che mio figlio avesse bisogno solo di questo, di qualcuno con cui stare, senza pensare troppo. Avrei voluto anch’io essere ancora una bambina, senza un marito e una figlia morta.
Fu quel giorno che mi disse di sua moglie, che secondo lui mi somigliava perché “non era una gran conversatrice quando non c’era niente da dire”. Ma non parlammo d’altro, perché poi arrivò mio marito.
Jack era fermamente convinto di sapere chi fosse l’assassino di Susie. Secondo lui era George Harvey, il nostro vicino di casa. Con questa certezza telefonò alla Polizia e li spinse ad investigare, ma non scoprirono nulla di rilevante. Ma lui continuava nelle sue certezze.
A fine gennaio fu organizzata una messa per ricordare Susie. Con mia grande sorpresa decise di venire anche mia madre, sostenendo che sarebbe stato il funerale di mia figlia. Sono certa che a modo suo amasse molto i suoi nipoti, così come a modo suo amava anche me. Del resto ero figlia unica, e nonostante fossimo molto diverse e spesso mi mettesse in imbarazzo era sempre mia madre.
Poteva ancora essere considerata una donna piacevole, nonostante avesse superato la sessantina. Spesso inquisiva sui nostri vicini di casa, voleva sapere ogni cosa di loro, e amava vestirsi col suo vecchio visone, truccarsi molto, indossare i tacchi e viaggiare su limousine sempre più appariscenti. Mi dava spesso anche consigli non richiesti su come crescere le mie figlie, e insisteva - soprattutto con Susie - sul fatto che non fosse abbastanza magra. Lo ripeté anche con Lindsey, ma non gliela diedi mai vinta. Non volevo certo delle bambine anoressiche.
La sera del suo arrivo, dopo la cena insistette come al solito per truccarmi. Ma dovetti subire soltanto il piegaciglia, perché poi per fortuna si dedicò a Lindsey che le aveva chiesto di insegnarle a truccarsi.
Come era probabilmente prevedibile quella sera mia madre si ubriacò. E truccò Lindsey come una squillo.
Forse riesco adesso a capire il motivo della sua richiesta a sua nonna. Dalla scomparsa di Susie vedere Lindsey era stato per me e mio marito - soprattutto per Jack - come vedere sua sorella maggiore attraverso di lei. Invece con il trucco, sebbene volgare e sconveniente alla sua età, riusciva ad essere di più sé stessa e di meno il fantasma di qualcun altro.
Alla messa intervennero Samuel con suo fratello, Clarissa, l’amica di Susie col suo ragazzo, e molti suoi compagni di classe con tutti gli insegnanti. Solo Ray Singh non c’era, e nemmeno sua madre.
La cerimonia si trascinò fra inni sacri e belle parole dette sul conto di nostra figlia. Non ne ricordo nemmeno una. In compenso ricordo mia madre voltarsi verso Lindsey e sussurrarle qualcosa. E poi mia figlia voltarsi e cadere svenuta.
Non scoprii mai il perché, e neanche glielo chiesi.
In estate Lindsey andò coi suoi compagni di classe al raduno degli studenti dotati. Mi sorprendeva sempre come Jack e io, che in fondo avevamo un’intelligenza abbastanza comune, avessimo potuto dar vita ad una figlia brillante in scienze (Susie) e a un’altra che eccelleva praticamente in tutto (Lindsey). Solo Buckley rientrava nella categoria dei bambini “normali”.
Ma non per questo gli volevamo meno bene.
In luglio Jack telefonava sempre alla Polizia cercando di premere sulle indagini, e questo costrinse Len a farci una visita ufficiale. Per chiedergli di non chiamare più, e per dirci che il caso era archiviato.
Questo non fece altro che schiacciare mio marito sempre di più. Nonostante fossi la prima a credere che stava esagerando, che l’intera situazione era grottesca, capivo anche che questo era il suo modo di tenersi occupato, di reagire alla vicenda. Senza Susie il suo mondo era crollato: e se c’era un modo in cui avrebbe potuto trovare pace, era la cattura del suo assassino.
Forse fu quest’ultima visita di Len a scatenare gli eventi di quella notte. In verità già da tempo Jack non dormiva in camera con me, ma riposava sulla poltrona del suo studio. Così non ebbi modo di accorgermi di nulla, e non sentii grida o rumori sospetti. Solo la mattina dopo, quando fummo svegliati da sirene della Polizia e chiacchiericci e Lindsey andò a controllare, vide che lo studio era vuoto. Suo padre non c’era.
Ammetto di avere agito anche quella volta nella maniera sbagliata. Posso giustificarmi dicendo che ero a pezzi, ero stanca dei deliri di mio marito e di dovermi caricare il peso di tutta la famiglia da sola. Ma così andò: nonostante le insistenze di Lindsey la rimandai a letto, e lei stava per prendere suo fratello e salire nella sua stanza quando la Polizia telefonò.
Dissero che mio marito era all’ospedale, colpito dalla mazza da baseball che era appartenuta a Lindsey. Così afferrai giacca e borsa, e lasciando i miei figli corsi.
Avevo chiamato Len. Ci incontrammo nel corridoio, e io gli dissi tutto quello che sapevo: Jack era in sala operatoria con un ginocchio rotto, ma altro non potevo dire. Mi spiegò il resto lui.
A quanto pareva mio marito era sì uscito di casa con la mazza da baseball, e aveva raggiunto il campo di granturco, convinto che George Harvey fosse lì e deciso a ucciderlo. E c’era sì qualcuno nel campo, ma non era il nostro vicino: era Clarissa, in attesa del suo ragazzo. E sembrava che fosse stato proprio il suddetto ragazzo a ridurre in quel modo mio marito, sentendo lei che urlava.
Con Len uscimmo su un balcone. Fumammo una sigaretta e gli chiesi di sua moglie. Disse che si era suicidata, ma non sapeva il perché.
Qui iniziò la fine, o così credevo, del mio matrimonio. Ci baciammo soltanto, io e Len, ma devo essere sincera e dire che non mi innamorai mai di lui, semplicemente lo usai per distrarre la mia mente e allontanare da me tutto il resto: Jack ferito, mia figlia morta.
Quando ero giovane, il mio sogno sarebbe stato di fare l’insegnante. Anche quando sposai Jack ero convinta che sarei riuscita ugualmente a conciliare tutto: almeno finché non arrivò Susie, e dopo di lei Lindsey.
Buckley fu ugualmente inaspettato, e arrivò proprio nel momento in cui ero convinta - con due figlie di dieci e nove anni, quindi abbastanza grandi - che quel sogno potesse ancora essere realizzato. La terza gravidanza mi indusse a lasciar definitivamente perdere, ma nonostante questo non odiai mai nessuno dei miei figli, anche se non avevo mai avuto uno spiccato senso materno. Lo avevo riscoperto con loro.
Tornando dal balcone, nella sala d’aspetto c’era Hal, il fratello di Samuel. Disse che aveva accompagnato lui Lindsey, che Buckley era da Nate e che sarebbe rimasto ad aspettare mia figlia nel caso avesse bisogno di un passaggio al ritorno. Io lo ringraziai e poi andai da mio marito.
Fu allora, credo, che maturò in me l’idea di andarmene. La convalescenza di Jack fu lunga e dolorosa, e per farlo sembrare un gioco a Buckley si inventò ogni sorta di storie su un ginocchio alieno. A lui piaceva, glielo rendeva meno terribile. E naturalmente non sapeva che il suo papà era stato picchiato a sangue da un adolescente.
Ma anche stavolta, a risentirne fu Lindsey. Era lei, non suo padre, a dover tornare a scuola e sentirsi additata come “la figlia del pazzo”. Ma adesso lei aveva Samuel accanto, e sono certa che lui le diede una grossa mano.
Buckley invece andò per la prima volta all’asilo. Amava molto il luogo e la sua maestra gli piaceva, e sembrava che la simpatia fosse reciproca. Ma anche per lui non era facile convivere con l’ombra di una sorella uccisa.
Si avvicinava il giorno del primo anniversario della scomparsa di Susie. Per il giorno del Ringraziamento mia madre venne a trovarci, e dopo la cena uscimmo solo noi due per una passeggiata.
Si era sicuramente accorta di qualcosa nei miei modi di fare, e come al solito non usò tatto. Ma prima mi confessò che mio padre aveva avuto un’amante.
Credo che quella fu la prima volta in cui io e mia madre parlammo davvero. Era vedova da tempo, ma non l’avevo mai vista tanto fragile ripensando a lui. Forse per questo aveva sempre avuto difficoltà nei rapporti con me.
Decisi di colpo di passare davanti alla casa di George Harvey, e mia madre mi seguì. Ma prima della “casa verde”, come la chiamavamo, c’era quella dei Singh e lì, fuori dalla porta, seminascosta nei cespugli scoprii Ruana, la madre di Ray. Stava fumando.
Era una donna bellissima e con una grazia da danzatrice. Apparentemente fredda e snob, aveva un sorriso molto seducente e penso fosse anche una brava madre. Le chiesi se dava una festa dato che sentivo risate e voci in casa sua: disse di no, che la dava suo marito. Lei era solo la padrona di casa.
Capii perfettamente cosa intendeva, così le chiesi una sigaretta e fumammo, l’una accanto all’altra. Entrambe madri di un adolescente. Una con un figlio vivo, l’altra con una figlia morta.
Non passai davanti alla casa di George Harvey. E quella notte feci un sogno bellissimo, ambientato in India.
Un giorno, in cui sapevo che Lindsey avrebbe fatto il giro di corsa dell’isolato con i suoi compagni, Samuel tornò da solo. Disse che lei si era fermata al penultimo giro proprio davanti alla casa del nostro vicino, e poi l’aveva persa di vista.
Solo chi ha perduto un figlio può capire cosa provai quella sera, non vedendola rientrare. Di colpo fui catapultata indietro a quasi un anno prima, alla sera in cui stavo aspettando il ritorno di un’altra figlia. Una figlia che non era mai tornata.
Invece Lindsey tornò. Rientrò a casa piena di tagli e macchie di fango, ma quando Samuel le chiese dove fosse stata, lei guardava solo suo padre. E disse che era entrata nella casa del signor Harvey.
So che gli portò un foglio trovato là dentro, ma non chiesi cosa fosse e non volli neanche vederlo. Semplicemente uscii, per andare a prendere Buckley da Nate. Ancora una volta scappai dalla verità, scappai dalla mia bambina che non c’era più.
Appena ebbi preso il mio figlio minore, mi fermai ad una cabina e fissai un appuntamento con Len. Una volta di più sentivo il bisogno di distaccarmi dalla realtà, dalla mia vita di moglie e madre: e sapevo anche come fare.
Portai Buckley al Centro Commerciale e per la prima volta gli permisi di giocare da solo nella vasca con le palle di plastica. Poi lasciai il nome e andai alla ricerca di Len.
Ci incontrammo in un locale normalmente riservato agli addetti ai lavori, fra raffiche d’aria e rumori assordanti. E fu in quel luogo che tradii mio marito.
Se adesso mi guardo indietro non esito ad ammettere di essere stata ipocrita. Dopo il rientro di Lindsey uscii di casa dichiarando che avevo altro da fare ed eravamo ancora una famiglia: e neanche un’ora dopo ero nelle viscere del centro commerciale che facevo sesso con un altro uomo, lasciando mio figlio a giocare, solo, proprio come quelle madri sconsiderate che non sarei mai voluta diventare.
Era trascorso ormai un anno. Apparentemente tentavo di sembrare la stessa, moglie e madre, ma dentro di me avevo già preso la mia risoluzione: andarmene, fuggire. Il dolore per la perdita di Susie era nascosto dentro di me: l’avevo chiuso in un angolo della mia vita, in attesa di ritirarlo fuori una volta che fossi stata certa che non avrebbe fatto più male.
Quella sera non era ancora buio. Lindsey e io eravamo nella sala di casa nostra: io leggevo e lei guardava fuori dalla finestra. E fu lei a notare il trambusto nel campo di granturco.
Quando me lo disse risposi che non mi interessava, ma che sicuramente a suo padre sarebbe piaciuto saperlo, una volta che fosse tornato dal lavoro. E lei rimase lì, accanto a me, in attesa.
Ma non rimase tranquilla a lungo. Quando le sembrò finalmente di capire cosa stava accadendo, aprì la finestra perché sentissi il brusio delle voci poco lontano. Disse che stavano facendo una commemorazione per sua sorella.
Risposi, forse in modo troppo brusco, che non era certo quello il modo di ricordare Susie, ma non seppi dirgliene altri. E lei, così di punto in bianco mi chiese se avevo intenzione di andarmene.
Come le dissi in seguito, in quel momento le mentii. Promisi che non li avrei lasciati mai.
Ma sapevo che non era vero. E forse lo sapeva anche lei.
Sentimmo arrivare la macchina di Jack, e io dissi a Lindsey di andargli incontro e riferirgli. E come mi ero aspettata, lui affermò che ci sarebbero andati. E mia figlia decise che avrebbero portato con loro anche Buckley.
Io non andai. Lasciai che Lindsey vestisse suo fratello e che tutti e tre uscissero, se lo desideravano tanto. Io mi sarei sentita solo una comparsa inutile. Non so spiegare il perché.
Mio padre possedeva una casetta nel New Hampshire. La sera del Giorno del Ringraziamento mia madre mi aveva dato le chiavi, e nell’estate del 1975 io dissi che sarei andata là per un po’. Non ritenni opportuno specificare che non sapevo se sarei tornata.
Rimasi lì un inverno, poi mi spostai in California. In realtà non sapevo veramente cosa fare. Ma ero lontana, lontana dalla mia famiglia, da mio marito, dai nostri figli, quelli vivi e quella morta. E questo mi bastava.
Durante il viaggio mandavo cartoline ai ragazzi, non molto di più. E quando arrivai a San Francisco, trovai lavoro in un’azienda vinicola. Inutile dire che il mio sogno di insegnare non riuscii mai a realizzarlo.
Ogni tanto telefonavo a Jack, ma era più per avere notizie dei nostri figli. Buckley cresceva: Lindsey proseguiva a meraviglia coi suoi studi. E Holiday, il nostro cane, li teneva tutti su di morale.
Nell’autunno del 1981, una mattina come tante arrivai sul posto di lavoro e trovai un biglietto. Una parola sola: Emergenza. Dato che mia madre viveva da tempo a casa con Jack e i ragazzi, potevo solo supporre che fosse accaduto qualcosa a qualcuno di loro: e ovviamente quando telefonai a casa non rispose nessuno. Riuscii però ad avere il numero di telefono dei Singh, e Ruana mi disse di aver visto un’ambulanza a casa mia. Ma non sapeva chi avessero portato via.
Allora, anche per l’agitazione, non pensai ai problemi cardiaci di Jack: ma visto che a chiamare era stata mia madre, era in effetti la soluzione più plausibile. Telefonai dunque all’ospedale, dove mi confermarono i miei sospetti. Jack era stato colpito da un infarto.
Non pensai su due volte, mi feci accompagnare all’aeroporto e comprai il biglietto per il primo volo che riuscii a trovare. Tra i vari cambi fu un volo molto lungo e difficile, e nel frattempo ebbi ampio spazio per pensare.
All’aeroporto erano venuti a prendermi Lindsey, Samuel e Buckley. Mi sorpresi di quanto mia figlia mi somigliasse, di quanto si fosse fatta bella e alta, e di quanto mio figlio fosse diventato paffutello. Proprio com’ero io a dodici anni.
Il primo approccio non fu semplice. E non ne fui sorpresa. Avevo abbandonato un bambino di sette anni e lo ritrovavo alle soglie dell’adolescenza: avevo perso sei anni della sua vita, e non potevo certo pretendere che mi accogliesse a braccia aperte. In effetti l’unica parola che mi rivolse per tutto il tragitto fu una parolaccia. Ma per quanto rattristata, non insistetti.
E mi ritrovai a pensare che allo stesso modo avevo abbandonato anche Susie. Certo, non era la stessa cosa: lei non c’era più, e per sentirla non era necessario rimanere nella nostra casa. Se solo fossi stata pronta a sentire la sua presenza, lei si sarebbe palesata dappertutto. Invece Lindsey e Buckley erano vivi, e se era vero che lei aveva ormai quindici anni e poteva anche avermi perdonato, lui era appena un bambino ed era ovvio che il mio improvviso abbandono gli avesse causato un trauma.
Nella stanza d’ospedale, per la seconda volta in pochi anni, Jack sembrava ancora più inerme e invecchiato. Ma sembrò davvero felice di vedermi, e anche io credevo che tornare fosse stata la scelta giusta. Era ora di smettere di fuggire.
Quasi subito scesi all’ingresso dell’ospedale, dove una ragazza vendeva giunchiglie, e le comprai tutti i mazzi che poi sistemai nella stanza di mio marito. Erano i fiori preferiti di Susie: ed ero certa che a lui avrebbe fatto piacere.
La sera non seguii i miei figli a casa, ma rimasi accanto a Jack, e dopo avere mangiato un boccone al bar mi addormentai vicino a lui, anche per via della stanchezza accumulata in quel lungo viaggio.
Avevo deciso che gli avrei detto addio, e mi ero sentita meglio, ma forse già allora dentro di me sapevo che non ci sarei riuscita. E non era per la consapevolezza che lui potesse materialmente avere bisogno di me: del resto se l’era cavata benone per tutto quel tempo, anche prima che venisse a stare da noi mia madre. Ma perché lui mi amava, e io, anche se a modo mio, lo amavo.
Come amavo i frutti del nostro amore.
Quando prima dell’alba mi svegliai, Jack era già con gli occhi aperti. Disse di aver visto Susie. E quella fu la prima volta in cui gli confessai che l’avevo vista anch’io, ma non in quella stanza. Vedevo nostra figlia nella casa del New Hampshire, in California, nelle strade, nei negozi, in ogni bambina che incontravo, in ogni donna che non sarebbe mai diventata. Anche per me lei era ovunque, come per lui. E Jack ne fu felice.
Len venne a trovarci. Fu strano per me rivederlo, così come immagino lo fosse per lui, probabilmente non aspettandosi di trovarmi lì. Ma non venne a dirci che il corpo di Susie era stato trovato, o che George Harvey era stato arrestato. Aveva con sé un oggetto che apparteneva a nostra figlia: un ciondolo del suo braccialetto, la chiave di volta della Pennsylvania con le sue iniziali.
Fu l’ultima volta che ci incontrammo, con o senza mio marito.
Finalmente Jack uscì dall’ospedale, più o meno rimesso, e tornammo a casa tutti insieme. Da mia madre avevo saputo che Lindsey e Samuel avevano deciso di sposarsi, e ne ero stata lieta. Speravo solo che lei avesse più inclinazione alla maternità di quanta ne avevo avuta io.
Hal e Samuel avevano regalato a Buckley una batteria, e lui la provò immediatamente, ma nessuno gli chiese di smettere nonostante il fracasso. Se gli era di conforto, eravamo disposti a sopportarlo… per un po’.
Mia madre se n’è ormai andata da tempo, e mi piace pensare che in qualche modo lei e Susie si siano incontrate, o che lo faranno in futuro. Nonostante mamma fosse una persona particolare, con un suo speciale modo di vedere le cose, in fondo lei e mia figlia avevano alcune cose in comune. Tra tante, io che non ero riuscita ad avere un rapporto sano con nessuna delle due.
Le cose sono davvero migliorate per la mia famiglia. Jack e io abbiamo avuto modo di venirci incontro, e lo facciamo prevalentemente parlando di Susie e pensando a lei. Ormai non ci nascondiamo più dietro a ostinati silenzi, e questo è bene. Non solo per noi.
Lindsey e Samuel si sposarono, e acquistarono una casa che lui ristrutturò quasi tutta da solo. E poi arrivò la vera gioia della nostra vita, la loro figlia, la nostra prima nipote. Susie piccola.
Se penso mai a come sarebbe stata la nostra vita se Susie fosse ancora qui con noi? Certo, ci penso. Crediamo sempre di fare il possibile per proteggere i nostri figli: non restare fuori fino a tardi, non parlare con gli sconosciuti. Ma la verità è che a volte le cose accadono, e accadrebbero comunque, perché purtroppo siamo esseri umani e non siamo perfetti, non abbiamo occhi che vedono ovunque. Facciamo degli errori. A volte siamo stanchi, fragili, o semplicemente distratti. Possiamo solo sperare che qualcun altro possa vedere e provvedere, ma noi come madri e padri possiamo fare del nostro meglio. E credo proprio che noi in particolare lo abbiamo fatto. La nostra nipotina ne è la prova.
Ti voglio bene, Susie.


Salve… eccomi tornata col nuovo capitolo, questa volta protagonista la mamma di Susie, personaggio forse ritratto in una luce più egoista. Spero di aver fatto un buon lavoro.
Un ringraziamento speciale va a DelilahAndTheUnderdogs, che giustamente mi ha corretto sull’anno della morte di Susie… spero che ti piaccia anche questo capitolo!
Ciau

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Capitolo 3
*** Lindsey ***


Avevo tredici anni quando mia sorella venne uccisa.
Era il 1973. Erano i primi di dicembre e nevicava.
Susie aveva solo un anno più di me, ma non avevamo molto in comune. Forse gli occhi azzurri, ereditati da mamma. Anche i nostri caratteri erano diversi: lei era più docile, io più ribelle. Ma credo di poter ringraziare anche il mio carattere, se oggi sono qui.
Non è mai facile perdere una persona cara, che questa sia un genitore, un fratello o un nonno o un amico. Figuriamoci poi perderla in questo modo, senza mai sapere veramente come, quando, perché e soprattutto chi.
Eppure c’è qualcosa di ironico in tutto questo. Susie non era mai stata una che andava a caccia di guai. Tornava a casa da scuola sola perché distavano pochissimi metri, io invece le avventure le adoravo. Quindi mi chiedo perché è capitato a lei, e non a me.
Comunque, andò così. Stava facendo buio e io ero a casa, al sicuro, ma Susie non era tornata. Mamma voleva sempre che fossimo a casa prima di sera, com’era ovvio. E noi cercavamo di obbedire, ma spesso trasgredivamo.
Naturalmente mamma e papà si preoccuparono e allertarono subito le ricerche quando mia sorella non tornò, ma per me evidentemente secondo loro doveva bastare la spiegazione che avevano dato a nostro fratello Buckley: Susie era a dormire dalla sua amica Clarissa.
Ma una cosa del genere non poteva certo convincermi. Comunque non chiesi nulla. Aspettavo qualsiasi cosa: di veder tornare mia sorella oppure di sapere dov’era. Ma che fosse la verità.
Dovettero trascorrere tre giorni prima che la Polizia telefonasse a papà per dirgli che avevano trovato qualcosa. Io stavo in cima alle scale e aspettavo che finisse, poi scesi e pretesi di sapere cosa gli avevano detto. E lui mi raccontò del gomito.
Nei giorni seguenti fu setacciato il campo di granturco e trovati altri oggetti, ma nulla di veramente personale se non il tema che aveva consegnato pochi giorni prima del quale io le avevo suggerito una parte del titolo. Libri di scuola, appunti sparsi. Nulla che non potesse avere semplicemente perso per strada.
Alcuni giorni dopo infine, ecco la prova principe. Len Fenerman, il detective che si occupava del caso, venne a casa nostra e portò a mamma e papà il cappello coi campanellini che mamma le aveva fatto, gemello del mio. Fu allora che vidi mia madre crollare.
E allora feci la cosa più logica: nascosi il mio cappello nel posto più inarrivabile che potei trovare. Per mamma sarebbe stato troppo averlo sempre davanti agli occhi.
Per la verità già allora un sospettato c’era stato. Si chiamava Ray Singh ed era indiano. Aveva la stessa età di Susie. La Polizia arrivò a casa sua e lo interrogò a lungo, ma aveva una cotta per mia sorella e poi era solo un ragazzino. Per di più aveva un alibi di ferro. Ma anche senza quello, noi eravamo convinti che non c’entrasse nulla.
Non dirò che condannavo i miei genitori perché sembravano non curarsi di me. Già allora sapevo che loro avevano fatto del loro meglio, stavano continuando a farlo, ma semplicemente quel dolore era troppo anche per due persone così forti come loro. Perciò mi lasciarono a me stessa. E io imparai a cavarmela.
Di lì a una settimana sarebbero iniziate le vacanze di Natale, e mamma disse che se volevo avrei potuto tornare a scuola direttamente a gennaio. Ma io andai ugualmente, e speravo di essere pronta a quello che poteva aspettarmi.
In effetti non fu semplice. In classe e nei corridoi, ovunque ci fossero studenti tutti mi fissavano, tutti bisbigliavano l’uno con l’altro, domandandosi - posso presumere - cosa si provasse ad avere una sorella morta, forse uccisa. Ma contro questo sapevo difendermi. La cosa peggiore fu quando venni convocata nell’ufficio del preside.
Era la compassione quello che temevo di più, ma ero decisa a non lasciarmi andare. Così, quando mi propinarono le solite frasi di circostanza - ci dispiace così tanto, Susie era una così brava ragazza - riuscii a mantenermi fredda e distaccata. Non scoppiai in lacrime tra le braccia del preside, come forse tutti si erano aspettati che facessi. Non sarei caduta così in basso.
E funzionò. Riuscii a mettere in imbarazzo perfino il buon preside. E, non nego, con una certa soddisfazione.
Quella sera feci doppie serie di addominali, flessioni e sollevamenti. Mi faceva sentire meglio. Mi impediva di pensare. E dentro di me giuravo con sempre più convinzione che avrei tenuto duro. Andava tutto bene. Stavo bene.
Non piangevo mai davanti agli altri. Mi dava già abbastanza fastidio il dover vedere mio padre che mi guardava e invece di me vedeva Susie. Purtroppo ci assomigliavamo troppo. Per questo evitavo gli specchi. E mi chiedevo quanto sarebbe durata.
Natale si avvicinava, e nessuno aveva ancora detto niente a Buckley. D’accordo, aveva quattro anni e poteva credere ancora un po’ che sua sorella maggiore avesse deciso di fermarsi per qualche giorno dalla sua amica, o che fosse chissà dove e con chissà chi. Ma nemmeno io mi decidevo a farlo: volevo aspettare che fossero i miei genitori a muoversi.
E venne la sera di Natale. Si può immaginare con quale animo si festeggiava in casa nostra, e forse non avremmo fatto niente se non fosse stato per Buckley. Ma una sorpresa per me ci fu: Samuel. A casa mia. Con un regalo.
Per me.
Non so cosa avesse saputo dell’intera vicenda, forse quello che sapevano tutti, ma non credo nemmeno che fosse quello il motivo della sua visita. Lui veniva a scuola con me e aveva la mia stessa età, era proprio carino e non mi sarei mai aspettata né di piacergli, né tantomeno che si presentasse a casa mia la sera di Natale con un regalo per me. Eppure così era. E da quella sera stavamo insieme.
So anche che quella sera il mio fratellino apprese finalmente la verità su Susie. Naturalmente senza scendere nei particolari, ma seppe che nostra sorella non sarebbe tornata più. Il che, per i suoi quattro anni, era tutto quello che gli bastava sapere.
Non c’era naturalmente stato nessun funerale per Susie, perché nessun corpo era stato trovato. Sapevamo tutti però che era morta, anche se non venne da noi l’idea di una messa in suo onore: fu il preside a pensarci.
Venne fissata quasi due mesi dopo la sua scomparsa, e il giorno prima arrivò, per parteciparvi, anche mia nonna Lynn, la madre di mia madre. Era vedova e non aveva altri figli a parte la mamma, ed era una nonna davvero insolita.
Aveva passato da poco i sessant’anni ma era una donna snella, che amava truccarsi molto, beveva quasi tutto - preferibilmente superalcolici - e portava un visone anche in occasioni decisamente casual. Quando veniva a trovarci veniva dall’aeroporto con sempre una limousine diversa che noleggiava per l’occasione. Indossava i tacchi alti sempre, e puntualmente insisteva col truccare mia madre - di solito prima di essersi ubriacata con gli alcolici di mio padre. Per di più insisteva con me e Susie e soprattutto con la mamma, perché a suo avviso eravamo tutte e due troppo grasse. Spesso lei e mamma discutevano per questo motivo.
A me, soprattutto quella sera affascinò proprio la sua borsetta dei trucchi. Mi era venuta un’idea, per giunta ritenevo di essere ormai abbastanza grande per potermi truccare, anche poco. Così le chiesi di insegnarmelo.
Ovviamente prima si ubriacò. Si prese una sbronza anche papà. Ma io ebbi quello che volevo, anche se guardandomi allo specchio vedevo che sembravo più una maschera. Ma tolto l’eccesso di belletto, non era affatto male. Non ero più la copia di Susie. Avevo il mio viso, più adulto, ma mio.
La mattina dopo cercai di non farmi notare troppo da mamma: volevo conservarmi più che potevo la mia faccia nuova. Andai poi nella camera di Susie, per trovare un vestito, e lì mi raggiunse la nonna, per chiedermi di aiutarla a chiudere il suo.
Fu lei a trovare nell’armadio di Susie un bell’abito, corto, che io non le avevo mai visto addosso. A tutt’oggi non ho idea di dove l’avesse preso.
Non parlammo molto mentre lei mi aiutava a vestirmi e poi mi sistemava il trucco. Accennò però a un “tizio”, che papà riteneva fosse l’assassino di mia sorella. Non mi disse molto altro, nemmeno il nome.
Davanti alla chiesa, Samuel mi aspettava. Alla messa vennero quasi tutti, tranne i Singh. Non credo che fosse per via della loro religione, e nemmeno per il fatto che Ray era stato sospettato dell’omicidio: semplicemente, credo, si sarebbero sentiti fuori posto.
La cerimonia fu come ci si aspetta sempre che siano questo tipo di cose: persone che conoscevano Susie, molto o poco, che dicevano delle cose su di lei. Cose belle, ovviamente, come capita sempre in questi casi. Ma poi mia nonna si voltò, vide qualcuno alla porta della chiesa, e mi sussurrò che era lui.
Quando mi voltai vidi il nostro vicino di casa, George Harvey. Per un attimo la consapevolezza si fece strada in me: poi svenni.
Fortunatamente nessuno mi chiese spiegazioni. Io comunque non avrei saputo darne.
Quell’estate il Raduno degli studenti dotati mi diede l’opportunità per andarmene un po’ da casa. C’era anche Samuel con me, e tutti i nostri compagni di scuola, ma c’erano anche ragazzi di altre città e io ero lieta di poter avere un po’ di anonimato. Sulla mia targhetta di riconoscimento avevo scritto solo il nome, sostituendo il mio cognome con il disegno di un pesce.
Andò tutto abbastanza liscio per tre settimane, solo l’ultima il progetto annuale fu cambiato all’ultimo: invece di una trappola per topi, come realizzare il delitto perfetto.
Non ne seppi nulla fino a quando Artie, un compagno di classe di Susie, non venne a riferirmelo una mattina. Non avevo visto il volantino e non si poteva immaginare un tema peggiore per me, dopo quello che era successo a mia sorella. Ma ovviamente non lo diedi a vedere. Solamente uscii dalla mensa, senza dire una parola.
Poco dopo Samuel mi aveva raggiunto, e ci eravamo rifugiati sotto una vecchia canoa per ripararci dalla pioggia. Io continuavo a ripetergli che stavo bene, ma lui mi conosceva già abbastanza per sapere come fare in certe circostanze. Non parlammo molto.
Ma fu lì, sotto quella canoa, che facemmo l’amore la prima volta.
In agosto, infine, la Polizia ci lasciò definitivamente a noi stessi. Effettivamente mio padre era stato ossessivo nelle sue telefonate, ma era un papà che voleva sapere cos’era successo a sua figlia. Ma poiché su George Harvey - lui era il colpevole secondo mio padre - nulla era stato trovato, perlomeno nulla di sospetto, era meglio che la cosa avesse un freno.
Per papà fu come se il mondo gli cadesse addosso di nuovo. Io non sapevo come aiutarlo: nessuno lo sapeva. Potevamo solo continuare a sostenerlo: ma ormai lo facevamo solo Buckley e io.
All’alba del giorno dopo io, mia madre e mio fratello fummo svegliati dalle sirene della Polizia e dell’ambulanza. Mamma mi mandò a chiamare papà, ma nello studio lui non c’era. Quando tornai a dirglielo lei non mi lasciò uscire a cercarlo: per di più Buckley era spaventato, e io lo presi tra le braccia cercando di calmarlo.
Mia madre non sembrava intenzionata a fare nulla: si limitò a rimandarmi a letto. Solo poco dopo suonò il telefono, e lei borbottò poche parole e poi afferrò l’impermeabile e uscì in fretta. Io rimasi sola, il mio fratellino aggrappato a me, senza sapere che fare.
Ma mi ripresi in fretta. Telefonai alla mamma di Nate e la pregai di venire a prendere Buckley, cosa che lei fece in un’ora. Poi chiamai Hal, il fratello di Samuel, e mi feci accompagnare all’ospedale.
Mamma non c’era quando entrai nella stanza di papà. Ma io pregai Hal di avvertirla che ero lì, e poi sedetti sul letto. Mi addormentai, la mano in quella di mio padre.
Papà aveva un ginocchio rotto, ma gli fu ricostruito e anche se la riabilitazione sarebbe stata lunga, poteva dirsi che stava benone. Il difficile per me non fu quello, ma tutto il dopo, ossia il rientro a scuola. Il fatto che mio padre era uscito con la mazza da baseball in piena notte ed era stato picchiato da Brian, il ragazzo di Clarissa, si era ovviamente risaputo: e così ero diventata anche la figlia del matto. Ma potevo ancora reggere.
Il tempo passava. Mi ero tenuta in contatto con la nonna e lei mi aveva passato tutti i suoi consigli di bellezza, che funzionavano piuttosto bene. E a novembre, con papà ormai quasi del tutto ristabilito, mi accingevo per la prima volta a depilarmi le gambe.
Mi sorprese proprio papà quella prima volta, mentre stava giocando con Buckley. E, cogliendo l’occasione mandò in stanza il mio fratellino e mi prese una lama nuova per il suo rasoio. E parlammo.
Mi disse per la prima volta di George Harvey, parlandomi dettagliatamente dei suoi sospetti. Mi parlò come se io fossi un’adulta. E fu lì che mi venne l’idea.
Nei giorni seguenti, mentre facevo il solito giro con i ragazzi e Samuel davanti mi faceva l’andatura tenni d’occhio la casa del signor Harvey. Passò però una settimana, prima che decidessi di passare all’azione.
Non fu difficile entrare in quella casa, perché feci in modo da rimanere indietro rispetto ai miei compagni e in giro non c’era nessuno. Avevo paura, e sapevo di stare commettendo un reato, ma lo stavo facendo per mio padre. Perché lui aveva bisogno di qualcuno che gli credesse.
Ma in quei minuti trascorsi in quella casa si fecero strada in me i ricordi. Susie e io eravamo state sorelle per tredici anni, eravamo cresciute insieme, e lei era sempre stata avanti a me in tante cose: ma adesso, nonostante la rivalità che era sempre esistita, mi mancava e in tutto. Mi mancava il giocare con lei alla tomba del soldato sotto la lapide fatta col carboncino. Mi mancava anche invidiarla per i vestiti che riceveva per prima. Mi mancava il classico, infantile “Perché lei sì e io no?“. Mi mancava l’essere sua sorella.
Frugai in tutta la casa, senza sapere cosa stessi cercando, finché salii al piano di sopra e capitai nella stanza di Harvey. Trovai un blocco da disegno, e lì, ultimo foglio, c’era lo schizzo di una buca scavata nel terreno. Sotto c’era scarabocchiato il nome del campo di granturco.
Non so ancora bene il perché, ma pensai di avere in mano l’indizio giusto, così strappai il foglio, proprio mentre il signor Harvey rientrava a casa. Evidentemente mi sentì, perché lo sentii salire le scale e riuscii a fuggire dalla finestra appena in tempo, prima che mi prendesse.
Quando rientrai a casa ero sporca e lacera, piena di graffi e zoppicavo per via del salto dalla finestra. Avrei potuto farmi male, ma in quel momento avevo pensato solo a fuggire. In mano avevo la pallottola di carta del disegno.
Mamma era sconvolta, e potevo immaginare il perché. C’era anche Samuel, e papà che sembrava più vecchio e stanco che mai. Non mi chiese nulla, ma parlai io. Dissi quello che avevo fatto e gli diedi il disegno. Dissi anche che pensavo mi avesse vista.
Soltanto pochi giorni dopo sparì, misteriosamente, e non ne sapemmo più nulla. La casa ebbe dei nuovi proprietari. E l’omicidio di mia sorella rimase impunito.
La sera del 6 dicembre 1974, ossia un anno esatto dopo la sparizione di Susie, ero in casa con la mamma e Buckley. Lei leggeva sulla poltrona, io ero alla finestra e Buckley giocava al piano di sopra. Fui io a notare movimento nel campo di granturco, ma quando informai la mamma lei si dimostrò indifferente. Disse però di avvertire papà, quando fosse tornato.
Prima che lui arrivasse però io tentai di parlare con mia madre. Ma lei non sembrò aperta al dialogo. Disse che era una cosa inutile quella cerimonia per Susie, perché di certo lei non era lì fuori ad aspettarci. E io, nel tentativo di capirla un po’ meglio, le feci la domanda diretta. Le chiesi se stava pensando di lasciarci.
Forse allora non ne ero totalmente consapevole, ma adesso sono certa che già allora mi stava mentendo dicendomi di no. Comunque, così fu.
Quando papà tornò a casa andai ad avvisarlo, e questa volta non volli che Buckley fosse tagliato fuori. Così andammo al campo, lasciando a casa la mamma.
Fu molto bello, toccante: lo ricordo ancora chiaramente. Nulla a che vedere con la messa in suffragio. Non che quella non fosse sincera, ma questa cosa spontanea, tutte queste persone che avevano amato Susie, che si stringevano intorno ad una famiglia spezzata, devastata dal dolore… mi piace pensare che anche mia sorella abbia visto tutto, dove era, e che ne sia stata felice. Felice che dopotutto la gente non l’avesse dimenticata.
Era l’estate del 1975 quando la mamma partì. Disse che avrebbe fatto un weekend di vacanza, sola, naturalmente, nella casetta che mio nonno possedeva nel New Hampshire. Ma il weekend, ed era forse prevedibile, divenne un mese, poi due, finché fu chiaro che non sarebbe tornata.
I nostri vicini erano fantastici con noi. Spesso trovavamo dei dolci sulla porta di casa, a volte un ciambellone, spesso la torta di mele della madre di Ray Singh, che era una meraviglia. E nonna Lynn decise di venire a stare da noi.
Verso la fine dell’anno decisi di andare alla Polizia, a verificare cosa stessero combinando e se stessero ancora seguendo qualche pista - cosa di cui dubitavo molto. Ci andai con Hal, ma mentre aspettavo di parlare con Len Fenerman, notai qualcosa di familiare sulla sua scrivania.
La sciarpa rosso cina di mia madre.
Credo che la consapevolezza per me arrivò tutta in quel momento, mentre furiosa chiedevo a Len perché aveva un indumento di mia madre. Adesso capivo le sue stranezze, e anche il suo desiderio di allontanarsi da noi. Naturalmente non chiesi mai alla mamma se aveva avuto una relazione con Len, ma non ne ho mai dubitato.
Nella primavera del ‘76 Buckley diede corpo ad un progetto che aveva sempre accarezzato con Susie: costruire un fortino. Lei non c’era, naturalmente, e papà non se la sentiva di aiutarlo, ma lo facemmo Samuel, Hal e io. Hal gli trovò una lamiera per il tetto, e mio fratello, che aveva ormai sette anni, ebbe il suo rifugio per leggere i fumetti e stare per conto suo.
Intanto nostra madre aveva iniziato a viaggiare fra uno Stato e l’altro, mandandoci spesso cartoline e telefonando ogni tanto. Per papà non era facile parlare con lei, così le loro conversazioni erano brevi e piene di imbarazzo, e avevano praticamente come unico argomento Buckley e me. L’unica cosa che ancora li accomunava: i figli che avevano avuto insieme.
E finalmente Samuel e io ci diplomammo, insieme come avevamo affrontato tutti quegli anni. Spesso giravamo in due sulla sua moto, tutti e due vestiti di pelle, con lo stesso corto taglio di capelli. Stavamo insieme da così tanti anni che ormai eravamo in simbiosi: ciò che faceva l’uno, faceva anche l’altro. Eppure eravamo anche due persone distinte. Come, non so.
Nel pomeriggio del giorno del diploma tornavamo a casa, in moto, appunto. Ma faceva scuro, per di più cominciò a piovere, e anche forte, tanto che fummo costretti a fermarci. Parcheggiammo la moto sotto gli alberi, e poi cercammo un riparo.
Sapevo che mio padre si sarebbe preoccupato, ma non era prudente proseguire con quel tempo. E trovammo rifugio in una vecchia casa vittoriana, che cadeva a pezzi ma era perfetta per quella notte, essendo solida e robusta.
Fu qui che Samuel mi chiese di sposarlo.
Prima di questo, prima cioè che facessimo l’amore in quella che sarebbe diventata la nostra casa, lui disse che “sentiva” che quella casa aveva bisogno di lui. E adesso sono certa che il suo non fosse un semplice desiderio, ma molto di più.
I fulmini erano cessati dopo la sua proposta, e allora decidemmo di tornare a casa a piedi. Pioveva ancora, ma era giugno. Così noi ci togliemmo le tute di pelle, rimanendo in maglietta e biancheria, e corremmo fino a casa mia. Con lui davanti a me a farmi l’andatura, come aveva fatto per tutti quegli anni.
Come avevo pensato papà era in ansia, ma il vederci sani e salvi - anche se fradici e sporchi di fango, e praticamente senza vestiti addosso - gli fece dimenticare ogni altra cosa, strappandogli anche una risata. E poco dopo, avvolti nelle coperte, vicino al fuoco e circondati dall’amore della mia famiglia, annunciammo che ci saremmo sposati.
Papà era felice.
In quel periodo Buckley trovò una nuova occupazione che gli riempiva le giornate e lo rendeva felice. Rimise su l’orto che la mamma aveva abbandonato.
La nonna gli dava molti consigli, ma lui preferiva fare da solo e provare ogni esperienza per conto suo. Anche Hal lo incoraggiava, ed era per lui un fratello maggiore come Samuel. Questo mi rendeva felice.
Ma un brutto giorno la nonna chiamò me e Samuel per dirci che papà aveva avuto un infarto. Non seppi mai cosa fosse successo di preciso: solo che stava discutendo con Buckley, e forse era stato questo a far cedere il suo cuore. Ma mio fratello mantenne sempre il completo silenzio, che poteva essere anche solo senso di colpa.
Fu sempre la nonna a telefonare a mamma, che partì subito. Andammo a prenderla all’aeroporto Buckley, Samuel e io.
Non ero certa di poter prevedere le reazioni di mio fratello, che aveva tredici anni - l’età che avevo io quando Susie era stata uccisa. Ma potevo immaginarle: aveva “perso” sua madre quando aveva più bisogno di lei, nell’età in cui si è ancora dipendenti dalla mamma. Nessuno di noi aveva saputo dargli una spiegazione sufficiente, e lei per prima non lo aveva fatto. Così adesso Buckley aveva molto rancore verso di lei, com’era ovvio. E non credo che nemmeno la mamma si aspettasse di essere accolta a braccia aperte.
Comunque nemmeno per me fu semplice. L’imbarazzo era grande, e nemmeno Samuel riuscì a dissiparlo del tutto. Così il tragitto verso l’ospedale si svolse praticamente in silenzio.
Papà venne tenuto solo per qualche giorno, ma si rimise in fretta e lo riportammo a casa. Mamma venne con noi, anche se non fece alcuna promessa né specificò quanto sarebbe rimasta. Ma forse questa volta era un bene, almeno non avrebbe mentito a nessuno.
Hal regalò a Buckley una batteria per il suo compleanno. Era il regalo perfetto per lui, soprattutto in quel momento. Certo, meno piacevole era per noi starlo a sentire.
Cenammo tutti insieme, e si unirono a noi anche Ray, sua madre e Ruth, venuti a portare la solita torta di mele. E parlando scoprimmo che la casa vittoriana di cui Samuel si era innamorato apparteneva proprio al padre di Ruth. Che lui stava giusto cercando un giovane che lavorasse con lui, e che accettava di vendercela e anche di aiutarci a rimetterla a nuovo. Se Samuel avesse accettato di lavorare nella sua azienda di ristrutturazioni.
Così la nostra vita era assicurata. Samuel e io ci sposammo, e la mamma rimase a casa con papà e Buckley. Sfortunatamente la nonna venne a mancare poco dopo, e chissà se lei e Susie si sono incontrate. Mi piace pensare di sì.
Ma non era finita, perché non passò molto tempo prima che io rimanessi incinta. La nostra Susie nacque in primavera, e Samuel e io pensavamo di prendere un cane che potesse crescere insieme a lei, come eravamo cresciuti noi con Holiday. La nostra casa era perfetta e il nostro giardino cresceva. Era la vita che sognavamo.
Se mi chiedo che rapporto avrei avuto con mia sorella, se lei fosse qui? Me lo chiedo spesso. Molto più di quanto mi chieda dove sia il suo corpo, e dove sia nascosto il suo assassino. Sono certa che sarebbe stata una zia formidabile, e che avrebbe insegnato molto a mia figlia.
Ma più di tutto mi manca averla come sorella. Gli anni passati sono tanti, purtroppo tanti altri bambini e ragazzi scompaiono e vengono ritrovati dopo anni, oppure non vengono ritrovati affatto. Purtroppo spesso i responsabili la fanno franca. Ma il mondo è duro, e io adesso posso credere soltanto che mia sorella sia in un posto migliore di questo, dove nessuno potrà più farle del male. E spero che ogni tanto pensi a noi come noi pensiamo a lei.
Ora sono felice. La scomparsa di mia sorella è un vuoto enorme, e certo nessuno potrà mai colmarlo, ma l’amore della mia famiglia mi aiuta e mi sostiene ogni giorno. E anche se può sembrare assurdo, spesso nel sorriso della mia bambina rivedo “le stelle che esplodono”, che caratterizzavano quello di Susie. Spero che le somigli molto. E spero che lei se ne prenda cura, da dov’è.
Ti voglio bene, Susie.

Sera…
nuovo capitolo, questa volta dedicato a Lindsey. Spero non appaia troppo scontato, e naturalmente… hope u like it!
Raven85

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Capitolo 4
*** Buckley ***


Avevo quattro anni quando mia sorella venne uccisa.
Di quel giorno ho ricordi molto vaghi, com’è ovvio. Ma so che era il 6 dicembre del 1973 in pieno inverno.
All’epoca ero il più piccolo della famiglia, e avevo due sorelle maggiori. Susie e Lindsey, di quattordici e tredici anni. Loro due erano spesso gelose l’una dell’altra, e forse lo erano anche di me, ma so che si volevano molto bene.
Mi fu raccontato solo in seguito quello che accadde, e almeno per un mese non seppi che mia sorella era morta. Trascorsi molto tempo a casa del mio amico Nate, convinto che Susie fosse a dormire da Clarissa e senza nessun motivo per dubitare di ciò che mi veniva detto. Mi fidavo ciecamente della mia mamma e del mio papà. Loro non mi avrebbero mai mentito.
Credo però che nemmeno Lindsey, nonostante fosse più grande, abbia saputo subito tutta la verità. Certo però con lei, che come ho detto aveva nove anni più di me, non potevano sperare che credesse ad ogni singola parola che le veniva propinata. E infatti lei non ci credeva. Ma forse, più che saperlo per chissà quale segnale che poteva aver colto, era il suo sangue di sorella a gridarle la dura realtà: Susie era morta. Non sarebbe più tornata.
Per quello che ne so, comunque, nemmeno il corpo di nostra sorella ebbe mai degna sepoltura. Il cadavere non venne mai trovato, se non il suo gomito: il suo assassino, chiunque fosse, aveva fatto ogni cosa a regola d’arte. Ad esempio, la adescò e uccise prima che nevicasse, in modo che la neve poi cancellasse ogni traccia. Aveva trovato il nascondiglio perfetto per il corpo, chissà dove. Ancora ce lo chiediamo.
Come ho detto, comunque, quelle tre settimane prima di Natale le trascorsi quasi tutte a casa di Nate. Ogni tanto, quando ero a casa mia, chiedevo a mio padre dov’era Susie: e lui non sapeva rispondermi, limitandosi a propormi ogni sorta di diversivo - dallo zoo ad ogni gioco potesse piacermi. Adesso sono convinto che volessero tutti solo proteggermi, ma non sono sicuro che fosse quello il modo giusto.
Solo la sera della vigilia, mentre in cucina Lindsey parlava con Samuel Heckler, che da quella sera sarebbe stato il suo ragazzo e mamma chissà dove, papà mi prese in braccio e mi invitò a giocare a Monopoli, per la prima volta. Così, usando i segnalini del gioco, mi svelò finalmente la verità, nell’unico modo in cui un bambino di quattro anni potesse capirla.
Quella sera presi la candelina, il segnalino preferito da Susie, e la sistemai sul cassettone in camera mia, dal quale sparì misteriosamente parecchi anni dopo. Accusai poi mio padre di averla sottratta, ma a oggi non sono del tutto certo che fosse stato lui.
All’inizio dell’anno successivo il preside propose di organizzare una messa in suffragio per Susie. Naturalmente all’epoca non sapevo cosa fosse una messa in suffragio, ma pensavo che fosse qualcosa di simile a un funerale. Per parteciparvi chiesi in prestito un vestito a Nate, che quell’anno aveva partecipato a un matrimonio. E nonna Lynn venne con noi.
Era l’unica nonna che avessimo, ed era la madre di nostra madre. Era vedova da tempo ma ogni tanto veniva a trovarci, di solito intorno al Giorno del Ringraziamento. Ed era una nonna davvero atipica: penso di non averne mai vista nessuna come lei. Amava truccarsi come una ragazza giovane, portare i tacchi e ogni volta si faceva venire a prendere all’aeroporto con una limousine a noleggio, ognuna più lussuosa della precedente. Era molto magra e toccava i sessant’anni. Il suo rapporto con la sua unica figlia, mia madre, non era semplice, né lo era il suo con le mie sorelle. Quanto a me, non mi considerava molto.
Contro ogni previsione decise di partecipare anche lei alla messa in onore di Susie, ma la sera prima Lindsey le chiese di truccarla. Allora non capivo il perché, ma adesso ritengo di conoscerlo abbastanza.
Come ho detto Lindsey e Susie si somigliavano molto, anche se non al punto da essere scambiate per gemelle. Per questo motivo mio padre aveva difficoltà a guardare la sua figlia superstite, perché ogni tratto del suo viso gli ricordava l’altra figlia, quella che aveva perso. Lindsey era a perfetta conoscenza di questo, e perciò chiese alla nonna di insegnarle a truccarsi. Per poter vedere finalmente nello specchio un viso che fosse il suo.
In quei giorni anche Nate veniva spesso a casa mia, e un pomeriggio gli mostrai il disegno di carboncino di una lapide, sotto la quale Lindsey e Susie giocavano sempre. Poi lo portai nella stanza di mia sorella, dove avevo scoperto una cosa.
Circa un anno prima, in estate, Susie controllava Nate e me che giocavamo nel giardino. Non ricordo bene perché o come andò, ma ingoiai un bastoncino di cotone e rischiai di soffocare. Mi fu detto poi che Nate aveva chiamato Susie, ed era stata lei a caricarmi in macchina - nonostante avesse solo tredici anni - e portarmi di corsa in ospedale. Grazie alla sua tempestività ero vivo: e io da allora non l’ho più scordato.
In quell’occasione confidai al mio amico che io la vedevo spesso. Non so bene se fosse realmente così: ero un bambino, ed è possibile che si trattasse solo di un amico immaginario che ero convinto fosse mia sorella. Quello che so per certo - e lo so anche adesso - è che percepivo costantemente la sua presenza benevola accanto a me. E non solo la sentivo, ma era calda, reale. Susie era vicino a me e mi proteggeva, come aveva sempre fatto in vita.
In estate Lindsey partecipò con Samuel al Raduno degli studenti dotati, e io mi trovavo per la prima volta figlio unico in casa. Però non era facile: papà dormiva sempre nel suo studio, e lui e la mamma parlavano poco o niente. Per giunta, mio padre sospettava di un nostro vicino, il signor Harvey, e lo teneva costantemente sotto controllo.
Verso agosto infine, il capitano della Polizia che si occupava del nostro caso, Len Fenerman venne a dire a papà di non telefonare più in centrale. Nulla evidentemente era stato trovato di nuovo sul signor Harvey, e loro non potevano fare altro.
Per papà fu uno shock, l’ennesimo, ma in quell’occasione Lindsey si dimostrò perfino più matura di lui. Vidi Len davvero in imbarazzo: nemmeno per lui doveva essere stato semplice venire a portarci quella notizia. E sono certo che anche lui volesse davvero aiutarci.
Il giorno dopo, di primissima mattina, le sirene di ambulanza e Polizia ci svegliarono bruscamente. Ma non potevamo certo immaginare che l’una e l’altra fossero lì per papà.
Scendemmo in cucina. Lindsey era andata a vedere nello studio, e lo aveva trovato deserto. Io ero spaventato, non sapevo cosa stava succedendo, e di certo l’atteggiamento ostile della mamma non contribuiva a tranquillizzarmi. Fortunatamente lo faceva l’amore di mia sorella.
Stavamo per tornare di sopra, Lindsey e io, con lei che mi prometteva di lasciarmi dormire nel suo letto, quando suonò il telefono. La mamma rispose, assunse un’aria sconvolta, afferrò l’impermeabile e le chiavi della macchina e uscì senza guardarci.
Vidi che mia sorella non sapeva che cosa fare, ma fu solo per un attimo: in quella circostanza le tornò utile il fatto che Samuel avesse un fratello maggiore con la moto. Telefonò però prima alla mamma di Nate, che venne a prendermi, e poi corse all’ospedale.
Adesso so cosa accadde quella notte: mio padre aveva creduto di vedere il signor Harvey nel sentiero fra le nostre due case, e armato di mazza da baseball era uscito a cercarlo. Arrivato nel campo di granturco però aveva trovato Clarissa, l’amica di Susie, che appena lo aveva visto aveva iniziato a urlare. Il suo ragazzo, che la stava raggiungendo, era accorso e aveva picchiato papà proprio con la mazza, rompendogli un ginocchio.
Ma all’epoca avevo cinque anni, e non potevo comprendere tutte queste cose. Perciò, ogni volta che chiedevo a papà cosa avesse il suo ginocchio lui mi intratteneva con una storia sempre diversa. Era stato portato sulla Terra dagli alieni, ad esempio. E io ci credevo. La cosa mi entusiasmava.
Quell’autunno andai per la prima volta all’asilo, ma non riuscivo a restare anonimo fra gli altri bambini. Inconsciamente sapevo che per un motivo solo la maestra era più gentile con me che con gli altri: c’era Susie, sempre Susie. La sua scomparsa. La perdita di una sorella.
Verso la fine dell’anno papà stava molto meglio, e un pomeriggio in particolare mi portò a cavalluccio su per tutta la rampa di scale. Amavo stare con lui.
E un giorno dopo l’altro, si arrivò al primo anniversario di quel maledetto 6 dicembre. Io stavo giocando al piano di sopra, papà era al lavoro e mamma con Lindsey nella sala. Non avevo notato nulla di strano fuori casa, ma quando papà arrivò Lindsey mi disse che nel campo di granturco c’era una “festa per Susie”. Così decise di portare anche me, e fu la prima volta in cui mi coinvolsero davvero in quello che succedeva. Ricordo anche cosa mi disse mia sorella: che ero eccezionale, e che lei ci sarebbe stata sempre, qualunque cosa fosse accaduta.
Mantenne la parola.
La mamma non venne con noi, ma nemmeno ci fermò. Arrivati al campo notammo che c’erano tutti i nostri vicini di casa, più alcuni compagni di Susie, un sacco di persone che l’avevano conosciuta e volevano dimostrarci la loro vicinanza. C’erano candele, e le persone cantavano per lei. Fu molto bello.
Nell’estate dell’anno successivo nostra madre ci lasciò. Disse che avrebbe fatto una vacanza, e invece partì davvero, lasciando me e Lindsey a crescere soli con nostro padre, che troppo spesso temeva di non farcela. Fortunatamente la nonna decise di aiutarci, e venne a stare da noi.
C’era una cosa che avrei sempre voluto fare con Susie, se lei fosse vissuta: costruire un fortino, un posto dove rifugiarmi per stare per conto mio, anche solo per leggere in pace i miei fumetti. Lo feci nella primavera del ‘76, con l’aiuto di Lindsey, Samuel e Hal. Anche lui aveva iniziato a frequentare la nostra casa, ed era troppo un giusto: aveva una specie di officina dove riparava le moto, e proprio lì mi procurò alcuni materiali per la mia struttura. Mi aiutarono molto, anche con molti consigli pratici, ma non li lasciavo mai entrare. L’unica persona che avrei voluto dentro la mia casa era Susie, e Susie non c’era più.
Intanto il ricordo della mamma sbiadiva dentro di me. Non che non ricordassi più come fosse fatta: lo ricordavo benissimo invece, e in modo quasi crudele quello che faceva per me, i suoi abbracci, i suoi baci, le sue premure. Per questo, man mano che crescevo, in me cresceva anche l’odio verso di lei, per quello che avevo vissuto né più né meno come un abbandono. Mi rendo conto adesso che probabilmente voleva solo fuggire il ricordo della sua figlia morta: ma non era giusto che per farlo fuggisse anche dai suoi figli vivi.
In reazione a questa assenza mi attaccai sempre più a papà. Per me Samuel e Hal erano i fratelli maggiori che non avevo, e Lindsey era sempre fantastica. Come una seconda madre.
E trovai anche un’altra occupazione, sostenuto da nonna Lynn: occuparmi dell’orto che la mamma aveva abbandonato. La nonna mi dava alcuni consigli e mi portava con sé al vivaio, ma io pur avendo dei libri sul giardinaggio preferivo fare da solo. Tutti incoraggiavano la mia nuova attività, probabilmente pensando che potesse distrarmi. E in effetti era così.
Un pomeriggio, dopo il diploma di Lindsey e Samuel li stavamo aspettando a casa, ma loro non arrivavano. Papà era preoccupato, ma in serata li vedemmo arrivare sotto una pioggia battente, vestiti solo di magliette e biancheria. E di nuovo rinfrancati, davanti al fuoco, ci annunciarono che volevano sposarsi.
E fu allora che vidi mia sorella, davanti alla pendola. Ed era sempre lei, con i suoi quattordici anni e i capelli color topo e la riga in mezzo. Ma era lì, e stavo per dirlo, ma poi scomparve. Ma a oggi sono sicuro di quello che ho visto.
Solo poco tempo dopo il mio orto iniziava a dare i suoi frutti, con i germogli delle piantine di pomodoro. Dato che stavano crescendo avevo bisogno di qualcosa per sostenerle, così salii in soffitta e presi una scatola che pensavo fosse piena di stracci. Quando scesi e passai davanti a papà, però, lui mi bloccò e me la tolse di mano, dicendo che quelli erano i vestiti di Susie.
Mi sento ancora tremendamente in colpa per ciò che accadde, perché so che la colpa fu soprattutto mia. Sapevo benissimo, naturalmente, che il cuore di papà era debole: ma avevo dodici anni, avevo trascorso una vita a convivere con l’ombra di una persona che non c’era più, e cominciavo a essere stanco. Perciò aggredii verbalmente mio padre. Lo accusai di aver voluto bene solo a Susie, e di considerare Lindsey e me solo come dei suoi riflessi. Gli gridai che non ne potevo più, che lei era morta, ma noi eravamo vivi. Io ero vivo. E da ultimo lo accusai del furto del segnalino della candelina.
Soltanto la sua espressione quando accennai a questo mi convinse che davvero non sapeva di cosa stessi parlando, ma ormai era tardi. Un attimo dopo barcollò e si accasciò sul prato, quasi privo di sensi.
Solo allora realizzai l’enormità di ciò che avevo fatto. Fortunatamente c’era la nonna in casa, così corsi a chiamarla, e poi chiamammo Lindsey e Samuel. Lei cercò di capire, mi fece domande, ma io non ebbi il coraggio di ammettere le mie responsabilità.
Per la seconda volta nella mia vita quella notte dormii solo a casa, senza la buonanotte di papà. Ero terrorizzato all’idea di perdere anche lui, all’idea che raggiungesse mia sorella. Non riuscivo a dormire e continuavo a rigirarmi. E a pregare Susie che non lo facesse morire.
Naturalmente la nonna aveva telefonato anche alla mamma, che in quel periodo era in California. Andammo a prenderla all’aeroporto io e Lindsey, con Samuel.
Rivederla non fu semplice, e non credo che nemmeno lei ne sia rimasta sorpresa. Non posso dire che adesso la odi, ma di certo in quel periodo era il sentimento più vicino all’odio che un dodicenne potesse provare. Pure se la persona alla quale era indirizzato era mia madre.
Quando papà uscì dall’ospedale era vicino il mio compleanno, e Hal e Samuel mi regalarono una batteria. Mi insegnò Hal a suonarla, e come sfogo serviva anche meglio dell’orto. Anche se era un hobby che rompeva i timpani a tutta la famiglia.
Si può pensare che nonostante tutto un lieto fine ci fosse. La storia della nostra famiglia non è assurda o speciale, ma è quella di tantissime altre famiglie che hanno perso un figlio. Negli anni Settanta, quando ero un bambino io queste cose capitavano raramente, ma adesso purtroppo succede sempre più spesso: per questo dico che l’America e il mondo nei quali io sono cresciuto erano largamente più sicuri di quelli di adesso.
Ma la nostra vita proseguì comunque, come per tutte le famiglie, pure se avevamo perso uno dei membri più importanti. Ci fu il matrimonio di Samuel e Lindsey, ad esempio. Ebbero casa e lavoro assicurati quasi nello stesso momento, e furono presto allietati dal primo bocciolo della nostra famiglia, la loro figlia, mia nipote, Susie.
Purtroppo la nonna se ne andò, come è naturale che succeda, e chissà se lei e mia sorella si sono incontrate, e se trascorrono il tempo insieme parlando di vestiti e trucco. A Susie piacevano queste cose.
Mamma rimase a casa dopo quell’esperienza, e posso dire che il suo rapporto con papà trasse beneficio da quella separazione. Da quel momento in poi non si nascosero più le cose, e parlarono sempre apertamente della loro figlia scomparsa ogni volta che si sentivano di farlo. Decisamente si conoscono meglio adesso di quanto abbiano fatto quando ancora eravamo tutti insieme.
E io? Essere il più giovane della famiglia mi aveva preparato da subito a rimanere in casa anche molto tempo dopo le mie sorelle: se Susie fosse vissuta si sarebbe forse anche lei sposata, magari anche prima di Lindsey, e entrambe avrebbero lasciato la casa dei nostri genitori per crearsi una famiglia propria. Ho vissuto troppo poco mia sorella maggiore per sentire davvero la sua mancanza: più che altro ho vissuto la sua assenza, il ricordo di lei. Ma in ogni caso pensavo a lei anche quella sera, quando papà era appena tornato dall’ospedale ed eravamo tutti insieme, con Ray e Ruana Singh e Ruth, e i miei genitori insieme e Hal e Samuel. Per questo sono ancora più certo che lei non si sia persa un minuto della nostra vita dopo la sua scomparsa, e che abbia fatto tutto quello che poteva per farci sentire la sua presenza. Perché io la sento ancora, anche se da tempo non ho più quattro anni. So che ci protegge sempre, noi e la piccola Susie.
Ti voglio bene, Susie.

Ok, questa è stata un po' più complicata ma alla fine ce l'ho fatta! Sarà anche più corta, ma comunque... hope u like it!
Raven85

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Capitolo 5
*** Ruth ***


Avevo quattordici anni quando Susie Salmon venne uccisa.
Era il 6 dicembre del 1973. Ne sono sicura perché proprio quel giorno la incontrai, probabilmente subito dopo il suo omicidio. Mi passò accanto come se stesse fuggendo. Adesso sono certa che fosse appena morta.
Susie aveva la mia stessa età ma non eravamo mai state amiche, non ci eravamo neanche mai parlate se non una volta, quando venni rimproverata dagli insegnanti per uno dei miei disegni. Eravamo nella palestra e i professori mi avevano appena lasciata sola, quando lei scese dalle quinte del teatro. Seppi in seguito che era lì sopra anche Ray Singh, ma quella volta non lo vidi. Io le dissi che il cappello che indossava era bruttissimo, e lei non se la prese, disse che lo sapeva, ma glielo aveva fatto sua madre. Poi chiese di vedere i miei disegni.
Mi sembrò sinceramente ammirata e sincera quando disse che ero “proprio brava”, ma da allora non avemmo più occasione di parlarci... fino all'incontro di quella sera, l'ultima della sua vita.
Probabilmente sono l’unica persona che possa dire di conoscere più o meno l’ora esatta della morte di Susie. Certo, per quello che ne sapevo poteva anche essere stata adescata qualche ora prima e poi magari torturata, o violentata, o comunque tenuta prigioniera prima di essere uccisa. Ma quando la vidi venirmi incontro, quella sera prima che nevicasse, fui certa che non fosse un essere di carne e di sangue come me, o almeno… non più. La ragazzina, la creatura che correva sconvolta verso di me era uno spettro, un fantasma, un'anima che fuggiva dal suo supplizio.
Inizialmente pensai a un sogno. Il giorno seguente lo raccontai a mia madre, ma naturalmente lei non mi credette, e questo bastò a farmi capire che nessun altro mi avrebbe creduto. Così, lo tenni per me. Non ne parlai mai neanche a Ray.
Da allora, penso, Susie divenne per me quasi un’ossessione. In verità sono sempre stata un po’ strana. Non ero fissata con la morte o cose simili, no, ma spesso mi chiedevo cosa ci fosse dopo la vita, quali altri significati nell’essere umano. E quell’omicidio, del quale parlavano tutti ancora mesi e anni dopo, mi indusse a farmi domande ancora più specifiche: cosa si prova a venire assassinati? C’è un momento in cui ci si rende conto che si sta per morire? Quando si smette di soffrire? Quando si soffre così tanto da poter invocare solo la morte? E soprattutto, dove si va dopo essere stati uccisi?
Da quel 6 dicembre Susie conosceva la risposta a tutte queste domande, anche se dubito se ne sia mai fatte. Lei non era come me: non era speciale, ma non era nemmeno bizzarra quanto lo ero io. In un certo senso, noi due eravamo quasi opposte. Lei era molto ingenua, solare, io ero più maliziosa, ombrosa, taciturna. Non sono cambiata molto, anche se gli anni sono passati. Susie era la luce, io le tenebre.
Ma da quel momento fu come se lei continuasse a vivere vicino a me. Mi aspettavo da un momento all’altro di vederla comparire nella notte quando mi svegliavo dopo strani sogni, o in una di quelle serate – tipo quella del suo omicidio – in cui mi aggiravo ancora per le strade quando il buio era calato da un pezzo, incurante dei rischi. Devo dire che ben poche cose mi hanno mai fatto paura.
E mi aspettavo che prima o poi mi si manifestasse, magari per farmi il nome del suo assassino. Non ero sua vicina di casa e non conoscevo le persone che abitavano accanto a lei: per me sarebbe rimasto solo un nome. E non posso affermare che in quel caso lo avrei detto ai suoi genitori, oppure alla Polizia. Era una specie di curiosità personale.
Cominciai a scrivere poesie ispirate a lei. Non avevo intenzione di farle leggere a nessuno, le tenevo per me. E mi piaceva pensare che Susie potesse leggerle, magari sporgendosi sulla mia spalla mentre le scrivevo. In un certo senso percepivo sempre la sua presenza.
Tenni anche un diario, dove annotavo ogni mia riflessione non solo su di lei e sul suo omicidio, ma sulla vita e le persone in generale. In realtà le consideravo tutte, o quasi, molto noiose. E probabilmente anche Susie lo sarebbe rimasta, se non fosse morta in quel modo.
Riflettevo molto e osservavo altrettanto. Nei corridoi mi capitava di incrociare la sorella di Susie, Lindsey, che aveva un anno meno di noi. Oppure la sua amica del cuore, Clarissa, insieme al suo ragazzo, che era poco meno di un idiota. Ma nemmeno lei era molto sveglia.
Osservavo, studiavo le persone che erano state intorno a lei. Riflettevo. Traevo conclusioni.
In quel periodo fumavo molta marijuana. Rubai la scorta che il ragazzo di Clarissa aveva nascosto nell’armadietto di lei, ma sembrava che nessuno ci facesse caso. In effetti ero sempre apparsa strana, quindi la cosa non dava nell'occhio.
Già a quattordici anni ero abbastanza disillusa sulle persone e sul loro modo di comportarsi. Non avevo amici e non ne cercavo, forse perché ero troppo sveglia e avere a che fare con me non era facile nemmeno per gli insegnanti, figuriamoci per i miei coetanei. Ma invece trovai qualcuno a cui avvicinarmi, l’ultima persona a cui avrei pensato. Ray Singh, l'innamorato di Susie.
Ci incontrammo una prima volta al campo di calcio, poco più avanti del luogo nel quale avevo visto lo spettro di Susie. Lì avevo trovato dei guanti, e mi piaceva pensare che in qualche modo fossero un suo dono. E lì ci trovammo.
Questo campo limitava con un campo di granturco, dove probabilmente Susie era stata uccisa. Forse per questo divenne il luogo di ritrovo per Ray e me. Lui era stato per breve tempo sospettato dell’omicidio, ma aveva un alibi solidissimo e io non avevo mai creduto alla sua colpevolezza, anche senza conoscerlo. Nessun quattordicenne, credo, avrebbe potuto tendere una trappola a una sua coetanea allo scopo di ucciderla, facendo poi sparire il corpo. Figuriamoci poi uno come Ray.
Aveva origini indiane ed era molto bello, così doveva aver pensato anche Susie. Incontrandoci non parlavamo sempre, potevamo trascorrere minuti interi senza dirci nulla, ma tra noi intuivo una curiosa sintonia. Forse perché, ognuno a suo modo, eravamo strani tutti e due. Sicuramente perché eravamo soli tutti e due.
L’altra cosa che avevamo in comune, e fu quella che ci unì, era Susie. A modo mio anche io le avevo voluto bene, ma forse di più adesso che non c’era più. Quanto a Ray penso che fosse sulla buona via per innamorarsi di lei, se solo lei fosse vissuta. Era rimasto un inizio, un bacio rubato, l'inizio di qualcosa che sarebbe potuto essere.
E così era anche per me, in effetti, anche se non nella stessa maniera. Non so dire se Susie e io saremmo diventate amiche, dopo quell’incontro nella palestra. Ma so che quel breve incontro fu come un sollevare un velo tra noi due, dietro il quale io avevo intravisto un barlume della sua luce e lei uno spicchio della mia oscurità. Tutto il resto sarebbe sempre rimasto un'incognita.
Certo, le dicerie su Ray e me c’erano, ma noi non ce ne curavamo. Mi aveva detto che aveva baciato Susie, e io gli avevo proposto di provare a baciarci noi due, per vedere se sentissimo qualcosa. Naturalmente nessuno dei due sentiva niente. Ma era abbastanza piacevole.
Non seguii le indagini, in verità non mi interessava. Certo, mi facevo delle domande: mi chiedevo come fosse stata uccisa e dove fosse nascosto il suo corpo. Il suo assassino doveva essere stato davvero abile a far sparire completamente le sue tracce, e doveva aver trovato un ottimo nascondiglio per il cadavere, dato che non fu mai ritrovato. In un certo senso tutto questo mi affascinava.
A gennaio il preside propose una messa in suffragio per Susie, e anche io partecipai, coi miei genitori. Ray non venne: aveva un modo tutto suo di mantenerla viva nei suoi ricordi, e io non lo avrei certo costretto.
Devo essere sincera: non mi innamorai mai di Ray Singh. Ma nemmeno lui si innamorò mai di me. Eravamo due persone sole, e la scomparsa di una conoscenza in comune ci aveva uniti, cosicché l’uno potesse colmare la solitudine dell’altro. Per questo sono grata a Susie, per averci fatti trovare.
In estate la nostra scuola organizzò il Raduno degli allievi dotati. Io andai, e venne anche Lindsey insieme col suo ragazzo, Samuel Heckler. Non so da quanto tempo stessero insieme, ma ero certa che avrebbero fatto l’amore prima dell’ultima settimana. Non so dire quanto ci avessi preso.
C’erano anche molte altre scuole, e Lindsey non aveva scritto il suo cognome sulla targhetta, limitandosi al disegno di un pesce. In un certo senso potevo capirla: era già abbastanza difficile per lei vivere nella nostra scuola, dove tutti sapevano della morte di sua sorella. Adesso cercava solo l'anonimato.
Lindsey era molto carina e aveva bei capelli biondi. Nonostante fosse più giovane della sorella possedeva un quoziente intellettivo notevolmente più alto, ma aveva anche un controllo sulle sue emozioni che nessun altro aveva – o almeno, non a quell’età. Non ricordo, infatti, di averla mai vista piangere, o anche solo in procinto di farlo.
Solo in quel raduno la vidi andare in pezzi, ma soltanto per un attimo. Ad ogni fine corso veniva organizzata una gara di trappole per topi, ma all’ultimo il tema venne cambiato con “Il delitto perfetto”. Ad avvisarla fu un nostro compagno, Artie, il cui padre faceva l’imbalsamatore. Glielo disse una mattina in sala mensa: lei non aveva letto il volantino all’entrata. In quell’attimo vidi calare il velo dai suoi occhi, e percepii la reale portata del suo dolore: ma appunto fu solo un attimo. Poi si voltò e uscì dalla sala, seguita dal suo ragazzo.
Parlai brevemente con Artie, ma potei percepire la sua buona fede: ero certa che, come mi avesse detto, desiderasse solo aiutarla, metterla sull’avviso. Ma Lindsey insisteva col dire di non averne bisogno.
Quella notte mi infiltrai nel suo letto e le chiesi se sua sorella le mancava. E credo che a ben poche persone confessò la verità: poche parole.
Più di quanto nessuno saprà mai.
Naturalmente, essendo figlia unica, non potevo capire fino in fondo cosa rappresentasse il rapporto tra due sorelle. Non potevo nemmeno capire cosa significava perdere qualcuno di così vicino, una parte del proprio cuore. Ma mi sentivo ugualmente molto vicina a lei.
Dopo il ritorno dell’autunno 1974, l’anniversario arrivò in un lampo. Quella sera andai a casa di Ray e gli chiesi se aveva voglia di venire con me al campo di granturco: pensai che potesse essere un buon modo per ricordare Susie.
Non potevo certo immaginare che quella mia idea potesse diventare ciò che poi diventò: una vera e propria commemorazione per Susie, che vide presenti tutti i suoi vicini di casa e le persone che l’avevano amata, oltre naturalmente a suo padre, sua sorella e suo fratello. Solo sua madre non si presentò. A parte Lindsey comunque non conoscevo nessuno della famiglia Salmon, perciò non mi feci domande.
Anche negli anni seguenti il padre di Susie cercò di ripetere quell’esperienza, ma come forse era ovvio si presentavano sempre meno persone e sua figlia venne quasi dimenticata. Lui sperava sicuramente che così non fosse: ma è sempre così che succede, purtroppo.
Quella sera invece fu tutto fantastico. Probabilmente era l’ora esatta della morte di Susie, magari poco dopo, e noi eravamo tutti lì, mentre qualcuno suonava e tutti cantavano. Mi piace pensare che anche lei da dov’è abbia sentito il nostro pensiero, e che la cosa l'abbia resa felice.
Intanto, la vita continuava a scorrere intorno a noi. E sia io che Ray, tenendoci sempre uniti per quello strano rapporto che la scomparsa di Susie aveva creato fra noi, crescemmo. Arrivammo ai diciassette anni, prendemmo la licenza liceale - lui un anno prima di me - e io me ne andai.
Feci le valigie e me ne andai lontano, a New York. Non avevo mai smesso di pensare a Susie, e avevo portato con me il mio diario, dove continuavo ad annotare le mie teorie e i miei pensieri. Mi faceva sentire vicino a lei, mi piaceva pensare che lei potesse leggere le mie parole al di sopra delle mie spalle.
A New York ovviamente dovetti trovare lavoro, e mi misi a fare la cameriera in un bar. Avevo anche un alloggio, seppure piccolissimo, che mi bastava giusto per tenerci un futon dove dormire. Ma in ogni caso, tutto il mio tempo libero lo trascorrevo in giro.
Aspettavo. Forse facevo proprio questo, aspettavo. Come per i primi quattordici anni della mia vita avevo atteso un momento come quello in quella strada buia, con l'anima di Susie Salmon che correva verso di me, come se io potessi salvarla. Aspettavo.
E infine accadde. Ero nella mia stanzetta quando papà mi telefonò, e mi disse che la vecchia discarica sarebbe stata chiusa. Decisi così di tornare a casa. Qualcosa dentro di me mi diceva che il corpo di Susie poteva essere passato di là.
Avevo saputo diffusamente come se la stava cavando la sua famiglia. Avevo saputo - dalle voci a scuola, naturalmente - che sua madre se n'era andata di casa, e non doveva essere stato semplice per Lindsey affrontare anche questo: ma ero certa che con Samuel al suo fianco tutto le sembrasse più semplice. Certe volte avrei anch'io voluto avere qualcuno su cui poter contare così.
Non che Ray non mi fornisse tutto questo.
Infatti, decisi che gli avrei chiesto di venire alla discarica con me. Forse Susie e io saremmo potute diventare amiche se lei fosse vissuta, ma mi sembrava un buon compromesso adesso cercare - per quanto potevo - di incoraggiare sua sorella oppure prendermi cura di Ray. Certo, in parte lo facevo anche per me.
In attesa di partire continuavo i miei pellegrinaggi a Manhattan. Le donne, ragazze e bambine uccise erano sempre tante, troppe, e spesso potevo letteralmente vedere cosa era loro successo, dove e in che modo erano morte. Annotavo tutto quello che ricordavo sul mio diario, e speravo che nessuno leggesse mai le mie parole. Altrimenti, in un attimo mi sarei ritrovata chiusa in manicomio.
Mi sentivo costantemente in compagnia. Le donne che non ce l'avevano fatta erano in qualche modo sempre con me, come se io potessi vivere per loro e fare giustizia, anche se agli effetti pratici non era possibile. Tante restavano le sparizioni e le uccisioni insolute.
Allo stesso modo tenevo il conto di quelle che "ce l'avevano fatta", ossia in un certo qual modo anche di me. Quelle che vivevano, quelle che potevano crescere e sposarsi e avere figli, e invecchiare. Le donne vive.
Come Lindsey Salmon.
Comunque, tornai. Mi unii a Ray e insieme, sulla sua auto andammo alla discarica. Parcheggiammo accanto alla buca che avrebbe dovuto essere riempita. C'era una stufa rossa, arrugginita e lì chissà da quanto.
E poi la sentii.
Fui certa che Susie fosse lì, accanto a me. Le dissi che le avevo scritto delle poesie. Poi le chiesi se voleva qualcosa.
Il dopo accadde tutto come un sogno. Ray vide delle pervinche accanto alla buca, e disse che ne avrebbe colta qualcuna per sua madre. Sparì dietro la collina, e io rimasi sola... ma non del tutto.
Pochissimo dopo vidi arrivare un'auto guidata da un uomo. Accanto e dietro nella macchina erano sedute donne con abiti rosso sangue. Non avevo mai visto una cosa del genere, ma afferravo il significato generale.
Poi caddi svenuta, credo, e un attimo dopo lasciavo il mio corpo per cederlo a Susie, fosse anche soltanto per poche ore. In effetti adesso penso che stessi aspettando proprio questo, per tutto quel tempo: un'esperienza che mi confermasse che esisteva una vita dopo la morte.
Fu una cosa incredibile. Credo che adesso non mi spaventi più la morte, dopo aver provato cosa succede quando la tua anima si distacca dal tuo corpo. Certo, in modo molto meno traumatico di quanto capitò a Susie. Ma pur sempre un distacco.
E lei era nel mio corpo.
Era l'alba quando tornai. Susie era stata nel mio corpo e aveva passato quella notte con Ray, nel vecchio negozio del fratello di Samuel. Io invece avevo passato alcune ore insieme a molte donne nel Cielo, donne che sembravano conoscermi anche senza avermi mai vista. Chissà cosa Susie gli aveva raccontato.
Quando anche Ray fu pronto andammo via e cancellammo ogni traccia del nostro passaggio, e poi tornammo a casa sua. Qui lui lesse i miei diari prima che mi svegliassi, e io gli raccontai tutto. Sapevo che mi avrebbe creduto.
Sua madre fu adorabile come al solito, preparando per noi il caffè e due torte di mele: una, disse, l'avrebbe portata ai Salmon. Ray l'accompagnò.
E la vita continuò. Ray divenne un medico, come voleva, e io continuai a vivere a New York, però cambiando casa, trovando un monolocale giusto un po' più grande del mio precedente alloggio. Con lui ci sentivamo spesso, e il nostro rapporto non fece che migliorare.
Ma io non ero mai cambiata. I miei incontri con Susie mi avevano convinta di cose che prima avevo solo immaginato, e che per molti sono ancora fantasie. Probabilmente sto ancora aspettando qualcosa, e probabilmente questo qualcosa non succederà mai. Ma penso anche di potermi ritenere soddisfatta di quello che ho vissuto.
Di questo posso solo ringraziare lei, Susie. Perché è stata Susie a scegliermi, anche se forse del tutto inconsapevolmente. La ringrazio e prego sempre per lei, perché finalmente possa trovare la pace. Dopo tutto questo, se lo merita.
Grazie, Susie.


Hola… finalmente sono riuscita a completare anche Ruth! Bene, devo dire che Ruth è il personaggio che mi ha colpita di più dell’intero libro, forse perché sfugge a ogni logica e un po’ somiglia a me… per questo l’ho sentita particolarmente. Ringrazio come sempre chi ha letto e chi ha commentato, l’uno e l’altro sempre bene accetti! E come sempre… hope u like it!
Raven85

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