PREDATORS

di Pluma
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** SOS ***
Capitolo 2: *** TROJAN ***
Capitolo 3: *** GOCCE DI SANGUE ***
Capitolo 4: *** TOC, TOC ***
Capitolo 5: *** 99 LUFTALLONS ***
Capitolo 6: *** Dolore ***
Capitolo 7: *** PESSIMI INCONTRI ***
Capitolo 8: *** ANCHE IO SORRIDEVO ***
Capitolo 9: *** PRENDI UN UOMO, TRATTALO MALE... ***
Capitolo 10: *** DUE CORPI ***
Capitolo 11: *** ASRIEL ***
Capitolo 12: *** SOUVENIRE DEI 21 ANNI ***
Capitolo 13: *** SAINTE VIERGE DU PARDON ***
Capitolo 14: *** TRAPPOLA ***
Capitolo 15: *** BANG BANG ***
Capitolo 16: *** RABBIA E VENDETTA ***
Capitolo 17: *** BLQ ***
Capitolo 18: *** UNO PER UNO ***



Capitolo 1
*** SOS ***


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I° CAPITOLO

SOS

 

Someone saved my life tonight(*)        

 

Erano le tre di una mattina decisamente poco piacevole, il freddo penetrava nei vestiti, raggiungendo con facilità la pelle che, inevitabilmente, reagiva accapponandosi. Le Strade di Cardiff erano buie e, logicamente considerando l’ora tarda, erano anche deserte e silenziose, fatta eccezione per l’eco di due paia di scarpe che ticchettavano sul cemento. Il loro ritmo dei passi era abbastanza sostenuto, ma avrebbe potuto essere molto più veloce se le due italiane avessero conosciuto, con sicurezza, la strada da percorrere.

Camminavano in silenzio, spedite verso la loro meta, sperando vivamente di riuscire a trovarla presto. A nessuna delle due piaceva l’atmosfera quasi sepolcrale in cui si stavano muovendo. Nonostante questo, era chiaro come una fosse notevolmente più sicura e impavida dell’altra, o forse era semplicemente più stupida e ingenua. Al contrario dell’amica, che reagiva ad un minimo spostamento del sassolino che lei stessa aveva calciato, la giovane guardava dritto davanti a sé e quando voltava la testa, lo faceva solo per cercare di leggere il nome delle vie. Impresa tutt’altro che semplice data la scarsa luce dei lampioni.

“Si può sapere quanto ci manca ancora?” chiese la ragazza più spaventata.

“E come pensi che possa saperlo. Non sono mai venuta in questa città. In più su internet non c’erano delle istruzioni dettagliate, vado a naso.”

“Sarebbe più facile andare all’isola che non c’è, almeno conosciamo le indicazioni per arrivarci: seconda stella a destra e poi dritto fino al mattino” recitò alzando gli occhi verso il cielo per ricordare la frase, di cui non era propriamente sicura.

“Ti sembra il momento?” la riprese l’altra, ora molto irritata. Con un gesto di stizza si portò dietro un boccolo traditore che era sfuggito dall’orecchio. Non era arrabbiata con la compagna, ma le scocciava non avere la situazione sotto controllo, e sentire l’amica vaneggiare la esasperava maggiormente.

“Scusa, è solo che non sono tranquilla.”

“Non essere sciocca, cosa vuoi che succeda? Sono le tre del mattino, non c’è in giro un cane e questo è un male dato che se incontrassimo qualcuno potremmo chiedere informazioni” disse cercando di mantenere i nervi sotto la pelle.

In quel momento due figure si staccarono dall’ombra, spuntando all’improvviso a pochi passi da loro.

“Signorine, avete per caso bisogno di un aiutino” chiese una voce palesemente falsa.

Le reazioni delle due ragazze furono molto diverse, ma entrambe erano d’accordo sul non fidarsi di quella voce melliflua. Quella più spaventata si irrigidì, il suo corpo era un fascio di muscoli tesi per la tensione e tremanti per il terrore; il fiato le usciva dalla bocca come il fumo di una sigaretta ad un ritmo che faceva a gara con quello accelerato del suo cuore. L’altra, al contrario, si mise sulla difensiva: gambe divaricate leggermente flesse, mentre le braccia scattarono verso l’alto in posizione da pugile.

“Oh-oh guarda un po’ Frankie, le abbiamo spaventate” le derise la voce di prima, avvicinandosi.

Frankie rispose con una risatina di scherno silenziosa e pacata.

“Vi assicuro che non avete motivo, signorine.” Ora i due uomini erano abbastanza vicini da poterli vedere benino. “Se farete le brave e ci consegnerete le vostre belle borsette firmate, potremmo anche decidere di scortarvi…potreste fare dei brutti incontri, non si può mai sapere.

La pessima battuta suscitò un altro attacco di ilarità di Frankie che, come l’amico, si era fermato a due metri di distanza dalle povere e sprovvedute turiste.

“Corri, vai a chiamare aiuto” sussurrò la più calma delle due mal capitate.

“Cosa?” chiese inebetita l’altra.

“Ma perché tutte a me?” piagnucolò mentalmente la prima, ormai al culmine della sopportazione. Con un enorme sforzo di volontà si voltò verso l’amica urlandole in faccia:

“MUOVITI!”

Come una secchiata di acqua gelida in pieno volto, l’ordine ebbe l’effetto di rianimare la giovane donna che cominciò a fare un passo, poi un altro e, finalmente, si girò di spalle cominciando a correre, incurante di quello che stava succedendo dietro di lei.

Frankie che probabilmente non aveva una buona parlantina come il suo compare, aveva, al contrario, degli ottimi riflessi e appena si accorse che una delle due vittime stava tentando di scappare, scattò in avanti con l’intento di inseguirla. Non aveva fatto i conti, però, con la velocità della ragazza che era rimasta, la quale allungò una gamba facendolo rovinare sull’asfalto. Alcuni sassolini gli scorticarono i palmi delle mani che lui aveva portato prontamente avanti per non sbattere la faccia sul cemento. Si rialzò di scatto, imprigionando l’italiana nella morsa delle sue forti braccia, riuscendo addirittura a tapparle la bocca con una mano, ma al contrario di quello che pensava, la partita era tutt’altro che finita. La ragazza pestò con tutta la forza di cui era capace il piede del suo aggressore e mentre lui sfogò il suo dolore con un urlo, lei riuscì a trovare spazio sufficiente per mordergli la mano.

Infuriato per come quella sgualdrinella straniera li stava facendo penare, Frankie ripartì alla carica, questa volta, però, usando il poco cervello che mostrava di avere assestando un colpo a due mani dietro la schiena della turista che si afflosciò a terra, come una sportina in balia del vento. Senza che ci fu bisogno di tante parole, i due uomini cominciarono a tirare calci, mentre lei, sdraiata su un fianco, faceva il possibile per proteggersi, sebbene tutti i suoi sforzi fossero alquanto vani.

“Vostra madre non vi ha detto che le donne non si toccano neanche con un fiore?”

Una voce, spuntata all’improvviso, fece fermare i due malviventi, che si voltarono a guardare con astio chi li aveva interrotti. Anche la ragazza riuscì ad alzare gli occhi sul suo salvatore e non ne trovò solo uno, bensì tre: due uomini e una donna. Quello che aveva parlato si trovava al centro del terzetto e se la situazione non fosse stata quella che era, poco ma sicuro la turista si sarebbe messa a piangere dal gran ridere, per quanto il suo aspetto fosse strambo. Aveva dei capelli anormali dalla forma inconfondibile anche al buio; folti e dritti come la criniera di un leone, ma soprattutto lunghi a sufficienza perché esprimessero tutta la loro unicità.

“E voi chi cazzo siete?” chiese il capo, il quale aveva abbandonato il suo tono gentile per adottarne uno furioso.

“Delle persone che vi insegneranno le buone maniere se non ve ne sarete andati nel giro di cinque secondi.”

Probabilmente la ragazza a terra non era l’unica a trovare l’inizio della giornata alquanto sgradevole, ma sicuramente non era l’unica ad essere stanca di tutta quella situazione. A prova di ciò Frankie, senza aspettare un ordine esplicito da parte del suo compare, si scagliò verso l’uomo che, impassibile, teneva le mani in tasca con un portamento invidiabile, a dispetto del suo aspetto trasandato.

La ragazza si alzò, appoggiando il peso del busto sulle mani, per vedere meglio la scena, e in quel momento notò un piccolo spostamento alla sinistra del tipo con la criniera. Spostò le pupille e vide l’altro uomo, che avrebbe potuto avere qualche anno in più di lei, caricare i muscoli delle gambe, mentre dalla manica del maglione gli scivolò in mano un pugnale. Senza accennare ad agire prima del tempo, il ragazzo rimase immobile come un predatore e solo quando Frankie gli fu abbastanza vicino si piazzò davanti all’uomo dai capelli strani. Con un solo, preciso, fluido movimento della spalla destra, il ragazzo tagliò la gola dell’aggressore che cominciò a sprizzare sangue come quelle pistole ad acqua per i bambini.

Spaventato dalla scena l’altro malvivente si piegò sulla ragazza, rimasta a bocca aperta, sbalordita tanto quanto lui, risvegliandola dal suo stupore rubandogli la borsetta tanto agognata.

La sua reazione fu immediata:

“maledizione la mia borsa!” urlò con rabbia, voltando la testa verso il ladro che correva a perdifiato, verso l’oscurità del vicolo.

“Savannah!” sussurrò semplicemente l’unico che avesse mai aperto bocca del terzetto.

Immediatamente uno spostamento d’aria veloce e aggressiva fece capire alla turista che qualcuno, anzi non qualcuno la donna, anche lei presumibilmente molto giovane, era partita all’inseguimento del gallese sopravvissuto. Ben presto entrambi sparirono nel buio e l’ultima cosa che la derubata era riuscita a scorgere fu che Savannah, così l’aveva chiamata il tizio, aveva guadagnato molto terreno.

“Tutto bene signorina?”

L’italiana alzò lo sguardo, trovandosi sovrastata dal ragazzo che aveva, molto saggiamente, nascosto il pugnale e dall’uomo con i capelli leonini che le tendeva la mano. Lei la accettò, tanto anche se fossero stati ladri pure loro, oramai non aveva più niente che le potessero rubare.

“Benone” rispose una volta che le gambe le smisero di tremare e la testa si decise a fermarsi.

“Ci ha avvertito la sua amica, ora si trova a casa nostra. Non ci sembrava il caso portarla con noi.”

In apparenza il suo salvatore era una persona gentile e ora, da più vicino, la donna notò che era ancora più trasandato di come se lo fosse immaginato.

“Avete fatto bene, grazie dell’aiuto” biascicò a fatica; conosceva abbastanza bene l’inglese, ma con tutto quello che era successo faticava a mettere in fila due parole.

Dei passi, provenienti dalla zona in cui erano scomparsi i due corridori, richiamarono l’attenzione dei presenti. Savannah era tornata con in mano la borsetta. Più sollevata di prima la straniera allungò la mano per farsi restituire ciò che le era stato rubato, ma la biondina, che non aveva un filo di sudore che le imperlasse la pelle del viso, la superò senza un commento, consegnando l’oggetto recuperato al suo capo. Quello era il colmo, non ne poteva veramente più. Era stanca e non le sarebbe costato troppo sforzo cedere ad un attacco isterico se il capellone non le avesse restituito la borsetta.

“Scusa se mi faccio gli affari suoi, ma lei e la sua amica cosa ci fate qui a quest’ora?”

“Stiamo cercando un’agenzia: i Predators. Non è che voi sapreste dirmi da che parte devo andare per trovarli?”

Il viso dell’uomo si aprì in un sorriso che avrebbe potuto fare concorrenza a quello di un bambino, se non fosse stato per un piccolo, insignificante particolare: era troppo inquietante su di lui.

“Lei è fortunata, signorina. Io sono Richard Heart: il boss dei predators.”   

 

(*)Titolo di una canzone di Elton John

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Capitolo 2
*** TROJAN ***


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II° CAPITOLO

TROJAN

 

Dondola, dondola il cavallino

Porta in sella l’allegro bambino

Ma come quel cavallo di un epoca lontana

In sé nasconde una cosa arcana

 

Quando la ragazza varcò la porta, con la sua preziosa borsetta stretta al petto, si ritrovò in una sola, spaziosissima stanza. In un angolo c’era un tavolone circondato da alcune sedie, più di quelle che sarebbero servite, considerando il numero di persone presenti; a poco più di un metro di distanza era stato posto un frigo modesto e dall’apparenza malandato e subito al suo fianco vi era la cucina dove, in quel momento, stava bollendo l’acqua per il the. C’erano poi un divano, al centro dell’ufficio, su cui si era accomodata la sua amica, e altre quattro poltrone, due delle quali erano vuote.

Richard la fece accomodare a fianco della compagna, che la guardava con occhioni spaventati da Bambie; ricambiò il suo sguardo per tranquillizzarla, regalandole un mezzo sorriso. Non poteva concederle niente di più poiché erano lì per affari. Da quello che le aveva detto il suo capo, i Predators, erano persone strane, ma soprattutto erano potenzialmente pericolose. Non aveva tempo, quindi, di coccolare la sua collega, doveva tenere gli occhi aperti, almeno fino a quando l’altra non si fosse ripresa dallo shock e avesse potuto cominciare a fare il suo lavoro. Sì perché loro due erano una coppia perfetta, si completavano. Una riusciva a mantenere il sangue freddo in situazioni difficili, ma era completamente incapace di sostenere una trattativa. Ora però la sua amica non era nelle condizioni di fare molto, l’unica cosa da fare era perdere un po’ di tempo e fare del suo meglio. Cominciò a muovere le pupille da una parte all’altra per studiare le persone presenti nella stanza.

Il boss di quel gruppo talmente disomogeneo che chiunque avrebbe potuto notare le differenze tra un componente e l’altro senza bisogno di un grande sforzo di analisi, era l’unico di cui conoscesse il cognome: Heart. Nome piuttosto insolito Richard Heart; Riccardo Cuore, come re Riccardo Cuor di Leone. Più che un re, al primo colpo d’occhio, appariva un barbone. I capelli e la barba lunghi e anche un po’ crespi li aveva notati anche in strada, ma ora, con una situazione più tranquilla e grazie alla luce delle lampadine, vedeva gli occhi grandi poco marcati che, in quel momento, la guardavano con un’espressione di stupore. I suoi vestititi erano indubbiamente troppo vecchi, ma soprattutto erano anche troppo grandi per la sua taglia effettiva; guardando meglio si accorse persino di un buco nel maglione di lana.  

Si voltò verso il ragazzo che aveva ucciso Frankie; guardandolo negli occhi verdi non riuscì a reprimere un brivido. Aveva un’espressione soddisfatta: non era normale avere quegli occhi giocosi subito dopo un omicidio! Si soffermò poco sul volto di quel ragazzo, la metteva troppo in soggezione. Decise, quindi, di passare all’analisi del look. I suoi capelli spettinati davano l’idea che fosse un tipo piuttosto trasandato, esattamente come il suo capo. In realtà ogni ciocca, apparentemente fuori posto, era stata messa dov’era intenzionalmente e, nel caso a qualcuno fossero venuti dei dubbi, sarebbe bastato che guardasse i vestiti all’ultima moda per capire che quello era un tipo che gli piaceva ricoprirsi di cose costose.

La ragazza che era venuta a soccorrerla insieme ai primi due, era seduta nella poltrona vicina a quella del ragazzo. Si strizzò un po’ le meningi e si ricordò che Richard l’aveva chiamata Savannah. Era facile notare quanto fosse atletica; a parte la rapidità con cui aveva recuperato la borsetta, era vestita con una semplice tuta da jogging. Sarebbe potuta essere anche carina peccato per il suo viso troppo serio, quasi rabbioso.

In quel momento la teiera fischiò, richiamando la sua attenzione verso il piano cottura.

“Scusa Sheril, potresti?” chiese Richard.

Ubbidiente, l’unica donna del gruppo oltre a Savannah, si alzò dalla poltrona. Lei sì che era bella. Il suo stile era molto curato: i capelli, il trucco, il top, la minigonna, le scarpe, tutto assolutamente perfetto. La sua camminata sensuale e sicura incantava chiunque la stesse guardando, uomo o donna che fosse; Sheril emanava fascino da tutte le cellule del suo corpo. Quando la donna ritornò aveva in mano un vassoio sul quale vi erano sette tazzine fumanti. Porse la prima a Richard, chiaro segno del rispetto che tutti provavano per il loro capo. In seguito servì le due ospiti, per finire con le altre tre persone presenti nella stanza e se stessa. La giovane italiana era talmente incantata da Sheril che, per poco non le sfuggì l’ultimo componente del gruppo, il più anziano di tutti. Doveva avere su per giù una cinquantina d’anni, forse anche un po’ di più. I capelli, tenuti lunghi dietro la schiena, erano quasi completamente bianchi, sebbene si potessero ancora notare qualche striatura nera. Gli occhi grigi e i lineamenti marcati e duri non le lasciarono alcun dubbio sulla sua nazionalità.

“Danke, Sheril” disse lui dopo che la donna gli porse la tazzina da the.

“Bitte Asriel” le rispose lei.

“Bene, bene signorina, ora che ci ha studiato per bene un po’ tutti, vogliamo cominciare a palare di affari?”

Lei arrossì per la prima volta in vita sua e in quel momento si accorse che la valutazione su Richard era completamente errata: non era affatto un idiota come aveva pensato.

“Cosa ne dice se iniziamo con le presentazioni?”

“S-sì certo, mi scusi. Io sono Sara, mentre lei è Chiara” rispose la ragazza che aveva perso tutta la sua proverbiale spavalderia.

“Molto piacere. Come ho già detto io sono Richard Heart. Questa bellissima donna è Sheril Water, il mio braccio destro. Il più vecchio tra noi è Asriel Stern. La ragazza che le ha recuperato la borsetta si chiama Savannah Runner; infine, lui è Jack Salvador, in realtà non si chiama così, ma il suo nome è per tutti noi impronunciabile perciò…Jack.”

“Piacere di conoscervi” risposero Sara e Chiara all’unisono, come due brave scolarette che rispondono al saluto di un professore.

“E ora che abbiamo fatto tutte le presentazioni, cosa volete dai Predators?” chiese Asriel con voce annoiata.

“Signor Stern, ti sembra il caso di trattare in questa maniera le nostre clienti?” lo stuzzicò Jack, il quale fu immediatamente ripreso e zittito da un’occhiataccia di Richard.

Sara inspirò profondamente e mentre cercava un piccolo rimasuglio di coraggio, pregò perchè Chiara si riprendesse alla svelta da quello che era successo poco prima e cominciasse a fare il suo dovere. In ogni caso era strano, non riusciva a riconoscersi dal tanto era intimorita, mai nessuno le aveva fatto quell’effetto.

“Il mio capo è stato derubato di un oggetto molto importante per lui: il Trojan. Si tratta di un modellino del più famoso cavallo di legno della storia classica, ovviamente parlo del cavallo di Troia.”

“E voi siete disposti ad assumere i Predators per un semplice cavallino? Non fareste prima ad ordinarne uno nuovo da un bravo falegname?” domando Sheril.

“Il mio capo non è un semplice, vecchio collezionista annoiato; si tratta di un uomo influente e…diciamo che il Trojan è molto speciale. Non chiedetemi di più, perché non sono autorizzata a dirvi altro!” rispose Sara, recuperando il suo solito tono irritante; fu facile, però, per Richard rimetterla al suo posto.

“Peccato perché se non ci può dire chi ha rubato il vostro preziosissimo cavallino, o per lo meno, dove, faremo fatica a recuperarlo.”

Sara arrossì ritirando, imbarazzata, la testa tra le spalle.

“In America. Famiglia Rizzo.”

A quel nome Savannah si agitò nella sua poltrona, portandosi un’unghia alla bocca e mordicchiandola nervosamente. Sara si fermò di parlare osservando la biondina che aveva cominciato a respirare più velocemente.

“Li conosce?” chiese Chiara a Savannah.

Tutti si girarono, sorpresi, verso la giovane donna che ancora non aveva spiccicato mezza parola.

“Sono americana; da dove vengo io chiunque conosce i Rizzo” rispose Savannah, anche lei aprendo bocca per la prima volta. “Piuttosto perché una famiglia decaduta e decimata è interessata ad un cavallino di legno?”

“Per recuperare prestigio, mi sembra ovvio. Rubare qualche cosa al nostro capo e passarla liscia è sinonimo di forza!”

“Chi è questo famoso “Capo”? domandò Sheril.

“Mi sembra che Sara sia già stata abbastanza chiara a questo proposito: non siamo autorizzate a dirvi altro sul conto del nostro datore di lavoro.”

“Non facciamo niente per i John Doe, noi” disse Jack, senza alzare gli occhi da quello che stava facendo, ovvero pulire con cura il pugnale che aveva usato per difendere Richard poco meno di una mezz’oretta prima.

“Allora siamo ad un vicolo cieco signori, il che è un peccato” disse Chiara guardando negli occhi Richard. Oramai lo shock era passato e quasi nulla l’avrebbe fermata dal fare il suo lavoro per cui era pagata. “Noi non abbiamo un limite per il vostro compenso, il nostro John Doe ci ha lasciato carta bianca.”

“Noi non lavoriamo per i John Doe!” ripeté Jack.

Chiara non si voltò a guardare il ragazzo, al contrario si comportò come se a parlare fosse stato Richard, rivolgendosi direttamente a lui. Era in questo che Chiara era migliore di Sara; quest’ultima si sarebbe fatta sopraffare dal nervoso e avrebbe risposto malamente a Jack. Lei, invece, aveva capito che per ottenere i servigi dei Predators non era necessario convincerli tutti. Non si trattava di un’agenzia democratica; Richard era il capo, Richard era quello che prendeva le decisioni, assumendosene sia il merito che le responsabilità. Probabilmente ad ogni elemento del gruppo era lasciata una certa autonomia, ma questa non era illimitata, e quasi sicuramente la scelta delle commissioni spettava al capo, quindi perché darsi pena per cercare di convincere cinque persone quando bastava concentrarsi solo su una?

“Allora chiamatelo Adam Smith.”

Il viso di Richard si aprì in un sorriso da bambinone che gli illuminò i lineamenti.

“Mi piaci Chiara, sei brava. Ti proporrei di lavorare per me, ma suppongo che sarebbe conflitto di interessi data la situazione.”

“Allora parliamo del compenso.” Contraccambiò il sorriso la ragazza.

La discussione si protrasse per il resto della notte, fino alle sei di mattina, quando, finalmente, ambedue le parti si trovarono d’accordo. Quando le due ragazze italiane lasciarono l’ufficio/appartamento, Savannah chiese a Richard:

“Hai intenzione di accettare?”

“Savannah dov’eri con la testa fino ad ora; secondo te perché avrei sprecato tutto questo tempo se alla fine avevo intenzione di rifiutare? E poi perché avrei dovuto farlo? Sono un mucchio di soldi.”

“Richard, io conosco abbastanza bene i Rizzo. Non basterebbe nessun cavallino per recuperare il loro prestigio. Quelle nascondono qualche cosa.”

“Lo so. Infatti, non parlo dei soldi che ci hanno offerto, ma di quelli che il nostro caro Adam Smith sarà costretto a sganciare quando avremo tra le mani il Trojan e il suo segreto, qualunque esso sia” le rispose Richard con il suo solito sorriso immutato.   

 

 

Bily: ok, in teoria in questo capitolo si delineano un po’ di più i Predators, ovviamente non si sono scoperti più di tanto e solo nel corso della storia si scoprirà qualcosa su di loro. Spero vivamente che continuerai a recensirmi dato che ne ho veramente molto bisogno.

Dracontessa: tesoro mio insostituibile, cosa farei senza di te? Anzi come farò senza di te al mio fianco durante le ore di lezione? Oramai è indispensabile che tu mi recensisca tutti i capitoli, sebbene so le tue opinioni perché me le hai già dette in separata sede…comunque il mio ego ne ha bisogno! Ciao amore mio!

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Capitolo 3
*** GOCCE DI SANGUE ***


Nuova pagina 1

Ok, di questa storia sono abbastanza convinta nel senso che a me piace sebbene mi sia leggermente bloccata e a causa dell’università non ho molto tempo per scrivere. Quello che non so è se ai lettori piace, quindi please, por favor, fate un piccolo sforzo e recensitemi, anche perché in questo modo ho almeno una vaga idea se stò andando nella direzione giusta o se è meglio fare dei cambiamenti!

 

III° CAPITOLO

GOCCE DI SANGUE

 

Misero di che godi?

(…) di quel sangue ogni stilla un mar di pianto(*)

 

“Non sei contenta? Stiamo andando nella tua terra natale” disse Jack, una volta preso posto sull’aereo, a fianco di Savannah.

L’espressione della ragazza era inequivocabile: no, non era contenta di ritornare in America.

“Ora che ci penso, io non so niente del tuo passato.”

“Posso dire la stessa cosa di te” rispose pronta Savannah, con il tono serio di sempre.

Jack rise, per nulla scoraggiato dal comportamento della collega. Oramai si era abituato ai suoi modi bruschi e, a dirla tutta, era ciò che più lo divertiva di lei. Era una tipa tosta e non le importava cosa le persona pensassero di lei.

“Però mi conosci” continuò Jack, sempre sorridendo. “Sai come sono fatto e perché, non c’è bisogno di conoscere il mio passato per capire chi sono, giusto?”

“Non è colpa mia se sei un semplicissimo libro aperto, con tanto d’indice.”

“Cos’era, un tentativo d’insulto Savannah? Lo sai che puoi fare di meglio” la stuzzicò.

Ecco uno dei giochetti preferiti da Joaquin Salvador, da tutti chiamato con il diminutivo Jack: torturare e portare allo sfinimento le persone. Niente era paragonabile alla sensazione di potere che si ottiene innervosendo la gente. Niente, fatta eccezione per l’assassinio. Jack era un killer nato. Non parlava per niente del suo passato, come tutti del resto, ma per lui era diverso rispetto agli altri membri dell’agenzia. Era come se la sua esistenza fosse cominciata dal momento in cui aveva deciso di non uccidere Richard, accettando la sua proposta di lavorare con i Predators. Non se l’era dimenticato il suo passato, semplicemente era poco interessante. “Perché perdere tempo con il passato, quando nel presente ho la possibilità di essere pagato per divertirmi?” questo era l’unico commento che si limitava a fare nei riguardi della sua vita in Argentina. Ora uccideva e questo, per lui, era la cosa più importante. Era quasi meglio del sesso, forse era anche meglio…sicuramente dipendeva dalla donna!

Savannah espirò profondamente e, per la prima volta da quando si erano messi a sedere sui seggiolini, si girò guardando gli occhi verdi di Jack.

“Qual è il tuo segreto, tesoro?” chiese lui intrappolandola con lo sguardo e dando un tocco di serietà alla sua espressione. “Perché non sorridi mai?”

Savannah guardò alle spalle dell’amico, verso gli altri tre membri dei Predators. Richard e Asriel stavano lavorando; mentre Sheril era immersa in una specie di stato catatonico. Il loro vice soffriva di mal d’aereo e quando era costretta a viaggiare per motivi di lavoro, si richiudeva in una specie di barriera mentale dalla quale non usciva, fino a quando l’aereo non toccava terra di nuovo. Nessuno, però, poteva dire con sicurezza se, realmente, Sheril perdesse ogni contatto con il mondo o se, in realtà, ascoltava e assorbiva tutto ciò che la circondava. Qualsiasi fosse la verità Savannah non aveva intenzione di rischiare. Sheril era una sua collega, o per meglio dire, era un suo superiore; ma ognuno dei Predators aveva i propri segreti. Difficilmente uno dei cinque appariva agli altri per quello che era veramente, fatta eccezione, forse, per Jack, la lui era un uomo strano.

“Jack, mi fai un favore?” chiese Savannah.

“Dipende tesoro, sei bene che non prometto favori a casaccio” rispose il ragazzo.

Savannah avvicinò le labbra all’orecchio di Jack e sussurrando il più possibile gli raccontò molte cose interessanti. Jack ascoltava attento, di tanto in tanto annuiva leggermente, ma non osò mai interrompere la biondina. Sapeva bene che i particolari poco approfonditi non erano frutto di una dimenticanza.

Alla fine di quella specie di confessione, i due ragazzi si allontanarono l’uno dall’altra.

“Va bene Savannah” disse serio lui. “Non ti prometto niente perché per prima cosa noi lavoriamo per Richard e lui, ora, lavora per questo Adam Smith, ma se avremo il tempo fai conto che sia già cosa fatta.”

I due si misero zitti, con le cuffie nelle orecchie ad ascoltare un po’ di musica, senza aggiungere nemmeno una sillaba del discorso che avevano appena terminato. Non avevano idea di quanto, in realtà avessero fatto bene, perché quel poco che avevano detto ad alta voce, qualcuno lo aveva recepito perfettamente.

 

Era vero, Sheril non amava volare. Non era una vera e propria fobia, era più un astio che le nasceva dal ventre causandole un grosso e vertiginoso cratere nello stomaco. L’aereo le ricordava un particolare periodo della sua vita; era passato ma, a differenza di Jack, non riusciva proprio a dimenticare. Al contrario della donna sicura e fascinosa che ora era, da ragazzina era un po’ cicciotta, arrogante per difesa e imbranatissima quando doveva mostrare i suoi sentimenti, di qualsiasi genere essi fossero. Era in gamba, intelligente e furba ma, a volte, non sapeva come affrontare certe situazioni; non perché fosse incapace di agire. Aveva semplicemente paura degli altri, di sé stessa, di quello che provava; non si sentiva mai adeguata alle situazioni e alle persone che la circondavano. Era una ragazzina segretamente insoddisfatta. Aveva degli amici, pochi forse, ma decenti; sicuramente imperfetti, ma capivano quando Sheril aveva bisogno di loro. All’età di diciannove anni, dopo una serie di delusioni in campo di amicizia, era riuscita a trovare la forza di aprirsi nuovamente, chiamando amiche un paio di ragazze con cui aveva cominciato a stringere un legame in prima superiore! Era stato un percorso lungo; probabilmente, un giorno, si sarebbe anche fidata, ma non aveva fretta, per questo motivo evitava di esprimere la sua irrequietudine.  In amore, però, le cose andavano decisamente male.

Non si piaceva fisicamente, e questo la portava a vestirsi con maglie larghe e scure; jeans di quattro taglie più grandi e capelli perennemente legati. Scherzava e giocava con i ragazzi, si comportava da amica e come tale era vista, con il risultato che all’ultimo anno di liceo non aveva avuto molte esperienze e quelle poche erano finite abbastanza male. Tutto cambiò, come in un film da quattro soldi, un pomeriggio all’aeroporto.

Era in Italia, in gita scolastica, l’ultima della sua vita e pertanto si era ripromessa di viverla pienamente, sforzandosi, quindi, di essere più espansiva e solare. Si stupì nel costatare che, dopo un po’, il nuovo modo di fare le era molto più congeniale di quello che aveva previsto. No, in realtà non doveva sorprendersi, anzi…era abbastanza scontato. La nuova Sheril era fiorita grazie ad una cotta per un italiano, il figlio delle persone che l’avevano ospitata. Francesco, così si chiamava, era un ragazzo, o per meglio dire un uomo, dato che aveva trenta anni, molto simpatico. Conosceva bene l’inglese di conseguenza tra i due non ci furono problemi di comunicazione e, di punto in bianco, Sheril si era ritrovata a ridere ad ogni sua battuta; anche le più ignobili scatenavano in lei le tipiche risatine infantili che spesso le ragazze innamorate non sono capaci di evitare.       

Sembrava perfetto agli occhi della giovane ragazza: normale, non troppo bello, ma nemmeno brutto, sempre sorridente e scherzoso. Sheril adorava vederlo ridere perché non si tratteneva. Francesco era un tipo di persona che, quando aveva i suoi momenti di ilarità li esprimeva, senza farsi troppi problemi. Era solito appoggiarsi una mano sullo stomaco che si muoveva a ritmo della sua risata, mentre la testa era buttata indietro con il volto rivolto verso l’alto e la bocca spalancata, da cui uscivano delle grosse e grasse risate. Non faceva caso a chi lo circondava, se doveva ridere e agli altri non andava bene potevano anche tapparsi le orecchie o voltarsi dall’altra parte.

Aveva un unico problema che sheril non poteva considerare un difetto, era più una sfiga tremenda…per lei. Francesco era fidanzato, con una ragazza poco più grande di Sheril, la quale, appena saputa la notizia, aveva cominciato ad allontanarsi, non volendo rischiare di innamorarsi inutilmente di una persona che non le avrebbe mai detto ciò che voleva sentire. I calcoli erano giusti, peccato che oramai era troppo tardi. Sheril pendeva dalle labbra di Francesco, come se tutto quello che lui diceva fosse oro colato. Lei era sempre stata un soggetto intelligente e obbiettivo, si accorse, perciò, che non era normale sentire quel calore alle gote ogni volta che lui la guardava o giocava con lei. Era triste sì, ma se lui era felice, infondo, andava tutto bene. L’unica cosa che poteva fare era aspettare il viaggio di ritorno per poterlo non rivedere più.

I problemi nacquero quando anche Francesco si rese conto di quello che la piccola studentessa inglese provava per lui. Cominciò a stuzzicarla; in principio si limitava a frasi relativamente innocenti, seppure a sfondo sessuale, ma Sheril non si scandalizzava facilmente e da un certo punto di vista, il nuovo tipo di rapporto le piaceva. Con l’andare del tempo, però, la parte “relativamente innocente” delle provocazioni si disperse e, molto lentamente senza che Sheril se ne rendesse conto, si ritrovò ad avere in mano la possibilità di perdere la verginità; lei non era una ragazza che si faceva troppi scrupoli, ma non voleva avere rapporti con un ragazzo occupato sentimentalmente.

Non si può dire che lui non ci provò; addirittura, per farla cedere, cominciò ad insinuare nella sua testa l’ipotesi che se Sheril si fosse dimostrata una fidanzata più carina, dolce e accomodante, probabilmente Francesco avrebbe rinunciato alla sua ragazza italiana per stare con lei. Tutto questo, a patto che lei gli desse un anticipo. Ma nessuna lusinga valse a qualche cosa. Forse era il lato pessimistico di Sheril o la sua naturale mancanza di fiducia negli altri, stà di fatto che arrivò il giorno del viaggio di ritorno senza che lei avesse fatto niente, eccezion fatta per un innocuo bacio alla fragola. Veloce e indolore, sebbene non a sufficienza per evitare la scossa elettrica dietro la schiena.

Peccato, però, che con la sfiducia connaturata, a comporre il puzzle della personalità di Sheril c’era anche una buona dose di romanticismo, ben nascosto, ma capace di mandare in tilt il cervello della povera ragazza, anche solo con una frase leggermente più dolce.

Si trovava in aeroporto, lontana dai suoi compagni intenti a scambiarsi eccitati le loro esperienze italiane. Lei, immusonita, aspettava l’imbarco con le braccia incrociate al petto, fino a quando il cellulare le vibrò nella tasca dei jeans troppo larghi. Sheril guardò terrorizzata il ciondolino attaccato al telefonino; era come se avesse la premonizione di qualche cosa di brutto. L’idea, però, di apparire una vigliacca, agli occhi di sé stessa, la atterrì molto di più rispetto alla sensazione di qualche attimo prima e, per tanto, tirò fuori il cellulare. Come sospettava, era un messaggio di Francesco in cui le diceva che si trovava in aeroporto e la pregava di raggiungerlo. Senza pensarci, come se non fosse una pazzia, Sheril si alzò, corse dal professore e accampando la miglior scusa che le era venuta in mente, ebbe il permesso di scendere. Poco male, in fondo era già stato annunciato un ritardo della partenza di almeno un quarto d’ora.       

Sheril corse il più rapidamente possibile, per quanto le era consentito dai pantaloni a cavallo basso. Quando intravide Francesco da lontano, il suo cuore cominciò a batterle forte e il brutto presentimento si fece risentire, questa volta, però, sfogandosi sullo stomaco. Aveva la semplice intenzione di salutarlo, dirgli addio e, possibilmente, una volta tornata a casa dimenticarlo. Le cose, però, andarono in maniera decisamente diversa.

Appena lo raggiunse, Sheril non fece in tempo ad aprire bocca che Francesco le prese il viso tra le mani grandi e callose da lavoratore. Abbassandosi le soffiò sulle labbra:

“Enough talking…too many words have been used, now it’s time for action!”

Detto questo le prese il polso destro trascinandola verso il bagno. La lasciò solo per un secondo, il tempo per guardarsi in torno e verificare che nessuno facesse caso a loro, per poi spingerla dentro oltre la porta, chiudendosela dietro le spalle. La testa di Sheril era in subbuglio, sapeva perfettamente cosa sarebbe successo di lì a poco se non avesse trovato la forza di opporsi. Francesco cominciò ad accarezzare e baciare il suo collo. Fu in quel momento che Sheril decise di fidarsi; in fondo, pensava, se lui non fosse stato interessato non si sarebbe presentato in aeroporto. “Ma sì dai, in fondo lo vuoi anche tu” pensò Sheril, persa tra i baci e le carezze. Aveva diciannove anni ed era ancora vergine, sperava che Francesco si meritasse di essere il primo, sperava che il loro rapporto potesse durare, superando le distanze.

Di fatto fu una cosa spiacevole, scomoda e dolorosa. Dopo i primi attimi di galanterie e coccole, appena Francesco percepì che Sheril non lo avrebbe fermato, velocizzò il tutto. Si slacciò i pantaloni in un attimo, lasciando la ragazza a bocca aperta per il brusco cambiamento di ritmo. Accortosi che lei non faceva niente, l’italiano le mise le mani sui bottoni, senza però, slacciarli subito.

“Mi devo fermare?”

Nella mente di Sheril apparvero i momenti in cui Francesco la lusingava o le parlava male della sua fidanzata. Ancora una volta si disse che era la sua possibilità e che sarebbe stato stupido perderla.

“Non ho detto niente” provò a stare sul vago.

“Appunto per questo te lo chiedo.”

Per tutta risposta, con una sicurezza che non sapeva di possedere, spostò le mani di lui slacciandosi i pantaloni rapidamente e lasciandoli cadere sul pavimento.

Durante il rapporto Sheril non provò il benché minimo piacere, solo fitte di dolore che le facevano tremare le gambe. Per poco non scoppiò a piangere dalla disperazione. Solo un pensiero la consolava: è la tua possibilità, alla prossima andrà meglio. Alla prossima tu non sarai più vergine e quel cavolo di imene non romperà più; alla prossima ci sarà più tempo e preliminari più teneri, calmi e dolci. La prossima volta sarà il tuo momento, ma per avere una prossima volta devi lasciargli il ruolo da protagonista questa volta.

Era quello che pensava per tentare di non sentire i gemiti soffocati di lui che, però, le rimbombavano nelle orecchie, fastidiosi ed odiosi. Odiava quei rumori, le davano la sensazione che ciò che stava facendo fosse dannatamente sporco e sbagliato…ma la prossima volta.

Quando, finalmente, Francesco venne e uscì, Sheril si sentì persa. Un po’ a causa delle fitte che sentiva all’interno del suo corpo, un po’ per quel fastidioso prurito, nato dalla mancanza di soddisfazione. Sentiva che non ci sarebbe voluto molto tempo, ma Francesco si era fermato prima. Sperava che sarebbe stata una cosa passeggera. Sicuramente, una volta che lui l’avrebbe presa tra le braccia, si sarebbe sentita subito meglio. Purtroppo per lei non ci furono abbracci consolatori, né dolci parole sussurrate all’orecchio. Si limitò a riallacciarsi i pantaloni, guardandola con un sorriso compiaciuto mentre lei faceva altrettanto. Una volta sistemato evitò l’abbraccio di Sheril, rivolgendosi a lei per l’ultima volta con tono canzonatorio:

“Evita di fare la bambina e non ti azzardare ad aprire bocca su quello che è successo. Non è il caso di andare in giro a pavoneggiarsi per una bottarella nel bagno di un aeroporto.”

Sheril ritornò mogia, mogia al suo gruppo, che subito dopo salì sull’aereo che l’avrebbe portata via da lì. Non era più immusonita, non era né seria né arrabbiata, era molto peggio di tutto ciò: non provava niente, si sentiva svuotata. Per tutto il viaggio rimase zitta e, in concreto, non raccontò a nessuno quello che aveva fatto; non c’era veramente nessun motivo per compiacersi di essersi fatta prendere in giro. Ma il suo carattere cambiò dopo quel giorno. Si rese conto di essere stata presa per il naso con tanta facilità per colpa sua. Non perché era troppo stupida per capire le vere intenzioni di Francesco, piuttosto perché era troppo inesperta.

Quel giorno mentre tornava in Inghilterra, si ripromise che nessuno l’avrebbe mai più manipolata in quel modo; al contrario avrebbe imparato a gestire lei le situazioni. Sarebbe stata lei a mantenere il controllo, e questo è quello che effettivamente fece. Dimagrì; cominciò a vestirsi in maniera più femminile; imparò a truccarsi in modo che i suoi occhi marrone chiaro risaltassero di più, lasciando che le ciglia lunghe, ereditate dal padre facessero il resto. Divenne un carattere più forte, si ricoprì di amici, alcuni dei quali rimasero tali, mentre altri, affascinati dalla sua persona, divennero qualche cosa di più. Mai nessuno, però, riuscì a catturare il suo cuore, giocarci e spezzarlo come, invece, era riuscito a fare quel maledetto italiano di nome Francesco.      

 

(*) Frase tratta da “Gerusalemme liberata” di Tasso. Chiedo venia, perché ho decisamente cambiato                   

      il significato dei versi ma, perdonatemi, pensavo che fosse appropriato.

 

Bily: intanto grazie, grazie, grazie e ancora grazie del sostegno! In questo capitolo c’è un piccolo ritorno al passato, che per me è molto importante per il semplice fatto che alcuni elementi sono autobiografici e quindi i sentimenti di Sheril sono veri e spero di averli descritti al meglio! Ma questo lo devi giudicare tu e spero che lo farai!

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Capitolo 4
*** TOC, TOC ***


Nuova pagina 1

IV° CAPITOLO

TOC, TOC

 

Toc, toc.

Chi è?

 Il ricordo.

Vattene via.

Toc, toc.

Chi è?

L’alcool.

Prego, entra pure.

 

I cinque toccarono il suolo americano a pomeriggio inoltrato. Il viaggio avrebbe potuto essere più piacevole, ma il pilota aveva fretta di arrivare a destinazione; mosso, forse, dalla promessa di una giovane hostess, o magari di un bel stewart…tanto i tempi era cambiati: eterosessualità od omosessualità, chi ci faceva più caso? In ogni caso, sia nessun passeggero fu risparmiato dal fastidioso fischio nei timpani provocato dall’eccessiva velocità.

Appena usciti dall’aeroporto, Sheril diede segno di essersi ripresa rivolgendo un sorriso a Richard, che controllava il suo stato.

“Bene Sheril, direi che potresti cominciare a metterti a lavoro.”

“Come preferisci. Prima di partire da casa ho cercato un numero di recapito della famiglia Rizzo, ma se preferisci che prenda un appuntamento di persona, non ci sono problemi” rispose diligente la donna.

“Ecco brava, fai così”

“Devi darmi altre indicazioni?”

Richard ci pensò un po’ su, intanto i suoi occhi scorrevano lungo la strada a destra e a sinistra, in basso e in alto, scivolando sugli alti palazzi che li circondavano.

“A dire il vero sì. Preferirei che non dicessi il motivo della nostra visita. Sarà mio privilegio parlarne di persona, diciamo…domani mattina.” Volutamente Richard sottolineò le sue ultime parole. Non amava perdere tempo. Non che fosse un tipo frettoloso, ma gli piaceva avere le situazioni sotto controllo e, per averle, doveva sapere che genere di posizione avrebbero adottato i Rizzo nei loro confronti.

“Finito il tuo lavoro, ci raggiungerai in hotel.”

“Scusami se t’interrompo Richard, ma non pensi che dovrei fare un sopralluogo e andare con lei?” chiese Asriel, affidando le valige a Jack e a Savannah, che le montarono su un taxi, insieme a tutte le altre.

“Non sappiamo che genere di accoglienza ci riserveranno i nostri ladruncoli. Forse ci lasceranno comprare il cavallino senza darci ulteriori noie” affermò con voce ingenua.

“Lo sai bene che non andrà mai così.”

“Vero, ma sinceramente non  voglio che si mettano in allerta prima di domani. E con la tua vecchia faccia da militare sarà impossibile che non si domandino il perché una signora così bella sia in tua compagnia. No, preferisco che ti faccia un giretto discreto questa sera, dopo cena.”

Spiegato le sue intenzioni, Richard aprì la portiera del taxi giallo.

“Signore non si può salire nel posto del passeggero” dichiarò l’autista.

Richard, senza ascoltarlo, chiuse la portiera e si mise la cintura.

“Signore mi ha sentito?” protestò il conducente, senza avere più fortuna di prima. Stava per mettersi ad urlare quando, come per magia, apparvero un paio di banconote, e nemmeno tante piccole, sotto il suo naso. Il taxista alzò gli occhi, guardando sbalordito il suo nuovo cliente preferito.

“Io ti ho sentito, ma tu senti questi?” chiese Richard con tono dolce e affabile.

L’uomo acchiappò al volo i soldi, aspettò che gli altri tre passeggeri salissero, dopodiché sfrecciò verso la destinazione indicatagli, senza dire altro oltre al “grazie, arrivederci!” di commiato.

 

L’hotel scelto non era il più lussuoso in circolazione, ma ai Predators piaceva la riservatezza garantita unicamente dagli alberghi modesti. La cosa principale, per loro, era la pulizia e il buon gusto nell’arredamento. Quello che Sheril aveva scelto per tutti loro, era perfetto. Avevano preso cinque stanze, tutte nello stesso piano, una vicino all’altra. Richard e Asriel, dopo aver appoggiato i loro bagagli erano ritornati ad uscire, con l’obiettivo di trovare un buon ristorante dove avrebbero cenato la sera, dopo il ritorno di Sheril.

Al contrario Savannah aveva deciso di rinchiudersi nella sua camera e scolarsi tutte le bottiglie che avrebbe trovato dentro il frigo bar. Dopo molti anni era stata costretta a far ritorno nella sua città natale e le voci dei ricordi cominciarono ben presto a bussare, ma sinceramente non aveva proprio voglia di aprire. Non aveva fretta e non sapeva nemmeno se si sarebbe fermata in tempo per evitare il mal di testa post-sbornia, il giorno successivo. Non voleva fare piani, non si sarebbe trattenuta dal fare quello che le pareva e, in fondo, perché farlo? Era da sola, nella sua stanza singola, lontana dagli occhi inquisitori dei suoi superiori. Se qualcuno l’avesse scoperta quando il danno era già stato fatto, poteva evitare di preoccuparsene. Richard si sarebbe limitato a ordinargli di saltare la cena e, forse, le avrebbe diminuito la percentuale sul compenso. Nessuno le avrebbe fatto una ramanzina e, tanto meno, nessuno l’avrebbe licenziata. Che motivo c’era per non ubriacarsi?

Si era appena attaccata alla quarta bottiglia, o era la già la quinta, (stava già cominciando a perdere colpi, siccome lei non riusciva a tenere l’alcool), quando sentì un toc, toc lontano. La sua mente allegra riuscì, per miracolo,  a collegare quel bussare con la sua porta. Con qualche difficoltà si alzò dal morbido materasso su cui si era seduta e, appoggiandosi un po’ qua e un po’ là, riuscì a raggiungere la maniglia e a spingerla in basso. Si rifiutò, però, di aprirla, limitandosi a lasciare una fessura, sufficiente a far capire all’ospite che poteva entrare.

Invece di tornare dov’era prima, Savannah, avvicinò l’unica sedia al letto, lasciando che fosse Jack ad accomodarsi.

“Era proprio necessario?” 

Non c’era traccia di biasimo nella sua voce. Figuriamoci se un ragazzo come lui si mettesse a dispensare prediche, non era proprio il tipo. Ma il cervello annebbiato di Savannah registrò quella frase come rimprovero. Scocciata, si sfregò gli occhi con le nocche delle mani, rovesciandosi il whisky sulla canotta sportiva. Quasi non se ne accorse e solo grazie alla prontezza di Jack, Savannah evitò una doccia completa.

“Evita di sprecarlo, almeno” ridacchiò lui, appoggiando la bottiglia a fianco del televisore, ritornando poi a sedersi sul letto davanti a Savannah.

“Che cosa vuoi Jack? Ti ho già detto tutto quello che dovevi sapere…non voglio dirti altro.”

“Non ti ho chiesto niente, Savannah” rispose Jack, prendendo tra le mani le ginocchia di lei.

La ragazza, ubriaca, interpretò male il gesto. Un po’ per i fiumi dell’alcool che le stavano mandando in subbuglio gli ormoni, un po’ perché Jack era il tipico latino sensuale da togliere il fiato. Sul volto di Savannah apparve un sorriso malizioso.

“O-oh,  sei sicuro che non vuoi chiedermi niente?” chiese Savannah, avvicinandosi col suo viso a quello del collega. Lui, per contro, non rispose; si limitò semplicemente a contraccambiare il sorriso, divertito per come si stavano mettendo le cose. “Scommetto di sapere cosa vuoi.”

Savannah appoggiò una mano sulla spalla sinistra dell’argentino, spingendolo con delicatezza ma anche con fermezza, fin tanto che la sua schiena non toccò il materasso. Gli si sedette a cavalcioni sugli addominali, continuando imperterrita a sorridergli dall’alto.

“E chi ti dice che io ti voglia?”

“Perché, non è così?” chiese lei, sicura di avere ragione. “So che non mi ami, ma se è per questo nemmeno io provo qualche cosa per te, ma una volta ho letto che: non è l’amore il collante più forte tra due persone, ma il sesso(*). So che i nostri corpi si attraggono…alla fine dovrà succedere qualche cosa. Sbaglio forse?”

“No, non ti sbagli dolcezza.” Jack afferrò Savannah per i bicipiti, ribaltandola e scambiando le posizioni. “Ma a me piace bere l’alcool puro e non diluito con la saliva di un’ubriacona che il giorno dopo mi accuserà di aver approfittato di lei.”

“Non accadrà!”

“Sicuro che accadrà! E ti arrabbieresti moltissimo, per giunta.”

“Non avrai altre occasioni” minacciò lei.

“Può essere, io però non credo.”

Le si tolse di dosso, lasciandola sdraiata sul materasso con gli occhi nocciola fissi verso il soffitto. Provò tenerezza per lei. Savannah Runner era, forse, l’unica donna che poteva permettersi di voltare le spalle a Jack dopo una discussione molto accesa, senza avere il dubbio di riuscire a vedere il giorno dopo. Erano i più giovani del gruppo, con un solo anno di differenza. Spesso si erano trovati a difendersi a vicenda contro Sheril, Richard e Asriel; a volte si scambiavano favori e consigli. Erano come fratello e sorella, solo che, a minare il loro rapporto, c’era una buona dose si attrazione fisica, che non si erano mai azzardati a consumare.

In quel momento qualcuno bussò alla porta.

“Chi è?” domandò a gran voce Jack.

“Cominciate a prepararvi. Sheril è tornata, vi porto fuori a cena a spese di Adam Smith.” Rispose Richard, al di fuori della stanza.

Jack percorse la distanza che lo separava dalla porta, aprendola leggermente.

“Penso che Savannah non si senta molto bene. Forse è meglio se rimango con lei” disse il più veloce e vago possibile.

La faccia di Richard si oscurò, le sopraciglia si unirono in un cipiglio minaccioso e serio, mentre i lineamenti della mascella si indurirono. In un attimo, il capo dei Predators, spalancò la porta, entrando a, lunghi passi nella stanza. Si fermò a fianco del letto, dove Savannah era sdraiata con gli occhi chiusi e le braccia spalancate nella promessa di un abbraccio. La sua bocca era semiaperta, cominciava a far fatica a respirare. Infuriato Richard si voltò verso Jack, puntandogli l’indice contro. Lui poteva farlo. Se Savannah era, forse, l’unica donna a cui Jack non avrebbe mai torto un capello; Richard Heart era, in assoluto, e senza forse, l’unico essere vivente su cui Jack non avrebbe mai alzato le mani.

“Se domani la sentirò lamentarsi di qualche cosa, anche solo una volta, vi ritroverete entrambi nei casini.” Detto questo si avviò verso il corridoio, sbattendosi la porta alle spalle.

Jack ritornò a guardare l’amica sospirando. Senza fare troppo sforzo, nonostante i tre centimetri in più di lei, la prese in braccio.

“Cosa vuoi fare?” mugugnò lei, rannicchiandosi contro il petto muscoloso di Jack.

“Cerco di evitarci una ramanzina, stupida!” rispose blando nel suo insulto.

La portò in bagno, aprendo l’acqua fredda. Qualche minuto dopo la stanza si riempì del rumore di conati di vomito.   

 

(*) frase tratta dal libro “L’alchimia del desiderio”  di Tarun J Tejipal. Sinceramente ve lo consiglio

 

Bily: Grazie del complimento; mi fa sempre molto piacere quando qualcuno dice che scrivo bene…soddisfa il mio narcisismo!  Mi dispiace non aver aggiornato più velocemente, ma volevo aspettare l’ispirazione del VI capitolo (Il V è gia pronto) e finalmente è arrivata! Spero che anche questo capitolo ti abbia soddisfatto! Kiss, kiss!

Leuconoe: Sono contenta che i personaggi ti piacciono! So che è molto prematuro però mi piacerebbe sapere qual è il tuo preferito. So che alcuni non sono stati ancora presentati, però magari qualcuno ti ispira simpatia più degli altri…Ti ringrazio anche per l’augurio per i prossimi capitoli! In effetti ne avevo bisogno, perché il V era già pronto, ma il VI sapevo solo più o meno di cosa avrebbe trattato e non avevo ancora cominciato ascriverlo. Per questo ho aspettato prima di aggiornare! Per fortuna con l’ispirazione per il VI è arrivata anche quella per un altro paio di capitoli successivi…non so di preciso quanti numericamente, ma penso abbastanza per tenermi occupata per un po’! Baci, baci!

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Capitolo 5
*** 99 LUFTALLONS ***


Nuova pagina 1

Ok, sembra proprio che questa storia non vi piaccia più di tanto!!! Le soluzioni sono due: o tolgo anche gli altri capitoli e cerco un altro sito, oppure continuo sperando che prima o poi cominci a piacervi! In realtà non ho molti dubbi, e sicuramente la mia scelta sarà la seconda opzione! Comunque sia spero veramente che prima o poi vi ispiri e vi diverti come mi diverto io a scriverla!

Tra parentesi un mega grazie a Bily e a Leuconoe che, invece, hanno dimostrato il loro interesse!!! Grazie mille e mille baci

 

V° CAPITOLO

99 LUFTBALLONS

 

Hast du etwas Zeit für mich
Dann singe ich ein Lied für dich
Von neunundneunzig Luftballons
Auf ihrem Weg zum Horizont

 

Sheril e Asriel stavano aspettando gli altri, comodamente seduti sulle poltrone della hall dell’albergo.

La donna, come sua abitudine, si era impegnata con molta dedizione a rendere il suo aspetto il più perfetto possibile. Il suo sguardo aveva assunto una lieve sfumatura di mistero, grazie alla frangia tagliata a ciuffo che le copriva l’occhio sinistro. Il resto dei capelli tagliati corti e scalati erano stati ingellati dietro la testa. Il mascara aveva accentuato maggiormente le ciglia già notevolmente lunghe; mentre l’ombretto violetto sfumato con il colore mattone e il piccolo aiuto della matita nera, accentuava l’iride marrone della donna. Per quella serata tranquilla, tra colleghi, Sheril aveva scelto il rossetto rosa, la tonalità più tranquilla a sua disposizione.

La maglietta nera senza maniche scendeva larga sul seno, mentre la fascia elastica le avvolgeva il ventre, mettendo in mostra un lieve cenno di pancetta, ricordo di gioventù che, però, le faceva tutt’altro che difetto. I jeans a vita bassa, per contrasto, erano chiari e abbastanza stretti; nulla di troppo sfarzoso: niente stampe né fronzoli vari. Senza indecisione, sicura come sempre, aveva preso dalla sua valigia dei sandali neri con qualche brillantino sul laccetto che le avvolgeva la caviglia. Essendo, per sua natura e costituzione, molto alta (solo Richard la superava con il suo metro e novantacinque) le sue scarpe non superavano il tacco 10, e quelle che si mise per uscire non fecero eccezione.

Asriel, al contrario del collega, era decisamente meno curato. Adorava indossare dolcevita dai colori scuri, ma essendo in una città molto calda, aveva momentaneamente abbandonato il suo stile per una maglia più fresca e leggera, ma comunque rigorosamente sobria. I capelli lisci e lunghi unicamente dietro la schiena erano stati raccolti in una coda si cavallo bassa.

“Jack e Savannah?” chiese Sheril quando li raggiunse Richard senza la compagnia dei due ragazzi.

“Savannah si è ubriacata” rispose accigliato, infilandosi la giacca di jeans dimessa e scolorita, avviandosi verso l’uscita.

I due uomini avevano scelto di cenare in un ristorante cinese, relativamente vicino all’alberghetto dove soggiornavano. Per strada il trio non passò inosservato; la gente si voltava chiedendosi che cosa centrasse una così bella donna in compagnia di un uomo abbastanza avanti con l’età da poter essere suo padre, ma visibilmente diverso fisicamente per poterlo essere veramente, e con un tipo talmente mal vestito da sembrare un senza tetto. I tre non si curarono degli sguardi che stavano attirando; camminavano sicuri per la loro strada dritti verso destinazione, parlando del più e del meno.

Entrati nel ristorante, Richard richiese il tavolo più appartato a disposizione. Solo una volta seduti e dopo aver controllato che nessun orecchio troppo lungo potesse sentire, si misero a parlare del giorno dopo.

“Il numero di telefono che ho trovato appartiene ad una stireria. Il gestore conosce solo di fama la famiglia Rizzo; l’ho trovato sinceramente stupito quando ho chiesto del capofamiglia proprio a lui. Dopo un po’ sono riuscita a farmi dare il numero di cellulare del proprietario che, ovviamente, conosce la persona che stiamo cercando” raccontò Sheril.

“Non mi stupisce che questa famiglia sia caduta in disgrazia. Dare in gestione la stireria ad un uomo che non ha nulla a che vedere con i traffici non è una mossa sbagliata, ma personalmente avrei fatto in modo che fosse più difficile avere un contatto con il proprietario” commentò Asriel.

Richard rivolse all’uomo un lieve sorriso, per poi ritornare a guardare la donna dandogli il permesso di proseguire.

“Non ho potuto evitare di dire chi siamo. Mi dispiace Richard, ma se non lo avessi fatto non ci avrebbero concesso di andare a casa loro e parlare con il patriarca” si scusò la donna.

“Immaginavo, speravo diversamente, ma ero scettico” la tranquillizzò il capo. “La cosa importante è che non sappiano che siamo venuti per il Trojan.”

“Hai intenzione di essere diretto o hai deciso di non scoprirti subito?” si informò Asriel, mentre inforchettava il suo primo raviolo al vapore.

“Prima voglio scoprire dov’è il Trojan.”

“Non sarà una cosa facile” ribatté Asriel.

Richard evitò di rispondere, limitandosi a infilare in bocca un pezzo eccessivamente grande del toast di gamberetti; masticandolo con gusto e fissando, con il suo solito sguardo giocoso e ironico, il serioso tedesco.

“Sei piuttosto ottimista Richard” notò Sheril. “Dimmi la verità, hai già calcolato le tue mosse e hai previsto una partita facile!”

“Affatto” rispose l’uomo, portandosi il bicchiere di birra annacquata che aveva ordinato. “Se fosse per i Rizzo effettivamente prevedo una giocata facile, veloce e indolore. Mi preoccupa Savannah.”

“Non è la prima volta che alza il gomito.”

“Sheril ha ragione. Questi americani…prontissimi a bere superalcolici, ma non riescono poi a gestirli.”

“Cosa che invece voi tedeschi sapete fare bene” rispose ironico il gallese. “Comunque non si è mai lasciata andare durante i viaggi di lavoro; sa bene che proprio non lo tollero. No, sono sicuro che lei sappia chi sono questi Rizzo. Il problema è che ora è tardi. Anche se la mettessi sotto torchio questa sera, sarebbe troppo ubriaca per rendersene conto.”

“Vai sul sicuro e lasciala in albergo domani mattina” consigliò Asriel.

“Potrei, ma ho bisogno di lei. E’ americana e, se il mio istinto continua a sostenermi, è cresciuta con degli italo-americani. Sarà più facile per lei che per noi capire i discorsi sotto banco.”

In quel momento alla donna tornò in mente la promessa che Jack aveva fatto a Savannah sull’aereo. Il cervello della donna cominciò a fare velocemente i calcoli, soppesando i pro e i contro nel caso avesse informato Richard. Alla fine decise di tenersi la cosa per sé, cercando, per quanto le era possibile, di gestire autonomamente la questione, nel tentativo di evitare alla ragazza una sonora strigliata. Sheril Water era il superiore dell’americana, ma c’era una cosa chiamata complicità femminile, che spinse la donna a prendere la parte di Savannah.

In quel momento Asriel si alzò e senza dire una parola, si avvicinò al proprietario.

“Cosa stà facendo?” chiese Sheril perplessa, con il sopraciglio destro alzato.

“Non ti sei accorta che stava tenendo d’occhio il karaoke?”

E di fatto, avvicinatisi al computer, mentre il cinese picchiettava sulla tastiera, Asriel prese in mano il microfono.

 Hast du etwas Zeit für mich
Dann singe ich ein Lied für dich
Von neunundneunzig Luftballons
Auf ihrem Weg zum Horizont
Denkst du vielleicht g'rad an mich
Singe ich ein Lied für dich
Von neunundneunzig Luftballons
Und daß so was von sowas kommt

Neunundneunzig Luftballons
Auf ihrem Weg zum Horizont
Hielt Man für Ufos aus dem All
Darum schickte ein General
'Ne Fliegerstaffel hinterher
Alarm zu geben, wenn's so wär
Dabei war'n da am Horizont
Nur neunundneunzig Luftballons

Neunundneunzig Düsenflieger
Jeder war ein großer Krieger
Hielten sich für Captain Kirk
Das gab ein großes Feuerwerk
Die Nachbarn haben nichts gerafft
Und fühlten sich gleich angemacht
Dabei schoß man am Horizont
Auf neunundneunzig Luftballons

Neunundneunzig Kriegsminister
Streichholz und Benzinkanister
Hielten sich für schlaue Leute
Witterten schon fette Beute
Riefen "Krieg!" und wollten Macht
Man, wer hätte das gedacht
Daß es einmal so weit kommt
Wegen neunundneunzig Luftballons
Wegen neunundneunzig Luftballons
Neunundneunzig Luftballons

Neunundneunzig Jahre Krieg
Ließen keinen Platz für Sieger
Kriegsminister gibt's nicht mehr
Und auch keine Düsenflieger
Heute zieh' ich meine Runden
Seh' die Welt in Trümmern liegen
Hab' 'nen Luftballon gefunden
Denk' an dich und laß' ihn fliegen      

 

Quando il tedesco concluse la sua performance, accolse l’applauso con un mezzo sorriso gelido, il più radioso del suo repertorio.

“Allora?” richiese informazioni Richard, incuriosito dall’attacco d’arte del collega.

“Non la conoscete? Eppure era piuttosto famosa.

“Si intitola 99 Luftabballons risale al 1983, quando io avevo 30 anni, un periodo di profonda crisi; a dire il vero è una canzone di protesta.

“Si dice che sia nata durante un concerto dei Rolling Stones a Berlino. Vennero liberati dei palloncini e il chitarrista della band di Nena, l’interprete della canzone, mentre li osservava allontanarsi, gli sembrò che stessero assumendo la forma di un’astronave. Immaginò che cosa sarebbe potuto accadere se avessero oltrepassato il Muro, sconfinando nella Berlino Est.

“La musica fu composta da Uwe Fahrenkrog-Petersen, il tastierista; mentre il testo fu scritto dallo stesso chitarrista, Carlo Karges.”

“E cosa sarebbe successo se questi 99 palloncini avessero sorpassato il muro?” chiese curiosa e interessata Sheril.

“Secondo la canzone avrebbero scatenato un’esagerata reazione da parte delle forze militari.”

Richard sorrise:

“Speriamo di avere più fortuna di quei poveri palloncini!”

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Capitolo 6
*** Dolore ***


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VI° CAPITOLO

DOLORE

 

Nel dolore

Non c’è nessun sole dopo le nuvole

Nemmeno guardando un altro cielo

 

“Pronto?” rispose Sheril al telefono della camera, con una voce resa roca dal sonno.

“Buongiorno signorina Water. Sono le sette meno un quarto.”

“Grazie e buona giornata” rispose con un moto di stizza riagganciando la cornetta con un po’ troppa forza.

“Maledizione!” disse fra sé e sé, immaginando il receptionist che l’aveva svegliata inerte, con la parte superiore del corpo appoggiata al bancone, le braccia penzolanti e…il collo spezzato. Stava ancora pensando ai pro e ai contro di una sua eventuale scelta di mettere in pratica le immagini che aveva nella testa, quando si ricordò perché il dipendente dell’hotel l’aveva svegliata a quell’ora ignobile.

“Ops, gliel’ho chiesto io!” si ricordò, ridendo.

Di fatto, la sera precedente quando, dopo la cena con Richard e Asriel, era rientrata, aveva lasciato in portineria la consegna di svegliarla un’ora prima rispetto ai suoi compagni. Il motivo era semplice: aveva bisogno di un po’ di tempo per inquadrare la situazione di Savannah e assicurarsi che i postumi della sbornia non fossero troppo evidenti.

Si alzò, ancora un po’ di malavoglia, ma con un leggero sforzo riuscì a raggiungere il bagno. La figura che veniva riflessa dallo specchio non si avvicinava nemmeno minimamente alla Sheril che tutti erano abituati a vedere, con tutti i più piccoli particolari del suo aspetto in ordine e al posto giusto. Ora i capelli corti erano scompigliati e arruffati come il pelo di un cucciolo di tigre bagnato; persino il ciuffo, che veniva sottoposto con regolarità allo stress del pettine e della piastra, a quell’ora si rifiutava di stare al suo posto. Le occhiaie, che Sheril, copriva ogni mattina, facevano bella mostra di sé, appesantendo lo sguardo della donna.

Al contrario di quello che sarebbe successo se Sheril si fosse presentata in pubblico in quello stato, la trentaseienne si passò la mano destra tra la chioma castana chiara, arruffandola con non curanza, ancora di più. Aprì il beauty rosso, dal quale trasse lo spazzolino e il dentifricio. L’operazione di tolettatura fu minuziosa e accurata tanto quanto lo sarebbero state, una decina di minuti dopo, l’operazione di vestizione e di make up. Una sera, dopo aver visto “American Psycho I”, i suoi colleghi l’avevano presa in giro, paragonandola al giovane protagonista, interpretato da Christian Bale che, all’inizio del film, aveva descritto nei minimi particolari tutta la sua routine: dai vari prodotti di bellezza alla ginnastica mattutina.

“Ho sempre pensato che tu non fossi del tutto normale” disse Richard, dopo i titoli di coda.

“Potresti descrivere anche tu, tutto quello che usi e fai per essere sempre così bella. Faresti sicuramente meno fatica a uccidere qualcuno” continuò Jack.

Finalmente, dopo varie manovre, lo specchio riflesse la Sheril Water di tutti i giorni e uscì.

Per arrivare nella camera di Savannah doveva passare davanti alla porta di Richard. Quell’uomo era tremendo! Nessuno aveva mai capito come facesse, comunque sia tutto ciò che poteva essergli utile lo sentiva o lo veniva a scoprire in altri modi; trucchi segreti e conoscenze che teneva gelosamente per sé e che lo rendeva il leader indiscusso dei Predators. Fortunatamente, nel mezzo del corridoio, era stato steso un piccolo strato di tappeto rosso, sufficiente ad attutire il ticchettio delle scarpe alte di Sheril.

Bussò più e più volte cercando di fare il meno rumore possibile e quando stava cominciando a perdere la pazienza, qualcuno aprì leggermente la porta in una modesta fessura. Quello che Sheril vide, però, non era la pupilla nocciola della ragazza, ma quella verde di Jack; il quale, una volta resosi conto chi lo aveva svegliato aprì maggiormente.

Il vice dei Predators, non si stupì più di tanto. Non fece domande; in realtà non fece nemmeno supposizioni. Non le importava; ciascuno dei cinque componenti del gruppo aveva una propria vita e ognuno le teneva per sé. Sheril non si sarebbe nemmeno preoccupata di scoprire qual’era il problema di Savannah che l’aveva portata ad ubriacarsi, se non fosse stata convinta che avrebbe potuto compromettere il risultato del lavoro.

A Sheril bastò un semplice comando:

“Lasciami sola con lei” disse accompagnando le sue parole con un appena accennato movimento della testa in direzione della stanza di Jack.

Il ragazzo, senza proferire parola, le scivolò accanto e, silenzioso come sempre, se ne ritornò a dormire.

Sheril entrò nella penombra, chiudendosi la porta alle spalle e stando bene attenta che il click della serratura non fosse troppo rumoroso. Non si poteva mai sapere con Richard a due passi di distanza. Guardò verso il letto, dove Savannah si era addormentata pesantemente e, senza troppe cerimonie, dopo essersi avvicinata, la svegliò.

“Io e te dobbiamo farci una bella chiacchierata!”

“Che ore sono?” farfugliò l’altra.

“Le sette e trenta; quindi non abbiamo molto tempo.”

“Ma tempo per cosa?” protestò Savannah, facendo il gesto di girarsi dall’altra parte.

“Non ci provare, signorinella” la bloccò Sheril, afferrandole un braccio.

La prepotenza di quel gesto fece svegliare completamente l’americana che, con uno sguardo furente si mise a sedere sul materasso. Appoggiò la schiena al cuscino, incrociando le braccia al petto. La sua espressione era di sfida, ma entrambe sapevano che era semplicemente questo: una protesta per non dargliela subito vinta.

“Allora cosa vuoi?”

“Qual’ è il problema?”

“Il problema è che tu sei piombata in camera mia senza un mio invito, ad un orario indecente; ti comporti in modo prepotente e non hai una vera motivazione per essere qui!” rispose impertinente Savannah tutto d’un fiato.

A quelle parole Sheril avvicinò il suo viso a quello della sottoposta. Era buio, e la sua espressione, come conseguenza, era celata, ma il sibilo della sua voce compensò la mancanza.

“Non fare la furbetta. So che in aereo tu e Jack avete parlato di qualche cosa, di talmente segreto da dover sussurrare nelle orecchie come spie.”

“Ma di cosa ti impicci? Sono affari miei! Ma è mai possibile che volete tenerci con il moroso stretto?”

“Non fare la vittima ragazzina! In nessun lavoro saresti così libero di fare ciò che vuoi.”

“Non mi risulta che Richard si sia mai lamentato di come eseguo i suoi ordini.”

“Vorrà dire che ti nomineremo impiegato dell’anno…oh che bello” disse con un tono palesemente falso e accompagnando le parole con una gestualità affettata. “Allora sii coerente con il tuo stato di servizio e ubbidisci senza tante storie anche a me.”

“Sesso! Ci siamo messi d’accordo per fare sesso. Infatti lui era qui prima, ma tu lo sai, visto che ti ha aperto lui. a proposito come ti è sembrato? Soddisfatto, stremato, eccitato?” rispose Savannah.

“Non offendere la mia intelligenza! Da quello che ha detto Richard eri talmente ubriaca che non avresti avuto le forze neanche per i preliminari.”

“Che c’è di strano? Lo sapete che mi piace bere e che ogni tanto non tengo conto dei limiti. Asriel non perde occasione per farmelo notare. Perché oggi è un problema?”

“E’ un problema perché non hai mai esagerato la sera prima di una giornata impegnativa come quella di oggi. Tu vieni da questa città e conosci i Rizzo. Non è che hai avuto a che fare con loro?”

“No, non ho mai visto, nemmeno da vicino, i Rizzo” rispose sinceramente la ragazza in allerta. Non era più offesa per essere stata svegliata in malo modo, non poteva più deviare le domande di Sheril. Era suo dovere rispondere e se non voleva lasciarsi sfuggire niente doveva misurare le parole, esattamente come stava facendo.

“Ma li conosci” insistette Sheril.

“Tutti li conoscono, maledizione! Hanno fatto del male a mezza città e l’altra metà è sotto la loro protezione.”

“E tu da che parte della torta sei?”

Savannah non rispose. Abbassò lo sguardo sulla coperta, seguendo con l’indice la fantasia ricamata sopra.

“Non hai chiesto a Jack di uccidere uno dei Rizzo per vendetta, vero?”

“No, nessun componente della famiglia sarà ucciso per mio volere” rispose la bionda tenendo sempre lo sguardo abbassato.

“Non comprometterai la missione per i tuoi affari personali?”  

“E’ la stessa risposta di prima. Non ho intenzione di rovinare nulla.”

Sheril rimase in silenzio, cercando di cogliere qualsiasi cosa che l’aiutasse a capire cosa aveva nella testa Savannah. Perché qualche cosa sotto c’era; e questo era poco ma sicuro. A dire il vero troppo poco e troppo sicuro tanto quanto lo era il fatto che qualche cosa, quel giorno sarebbe successo e avrebbe complicato il lavoro. Purtroppo, la politica dei Predators, era basata sul presupposto che tutti avevano una loro privacy e avevano tutto il diritto di difenderla. Aveva le mani legate. Insoddisfatta e impotente, Sheril si alzò dal letto, su cui si era seduta durante quella sottospecie di interrogatorio.

“Almeno cerca in tutti i modi di contenere i danni che farai” aggiunse poco prima di uscire dalla stanza.

Nella penombra, Savannah Runner, lasciata sola, sorrise amaramente.

“Avrei dovuto rimanere a casa per contenere i danni.”

In quel momento le si riempirono gli occhi di lacrime che, piano piano, cominciarono a rigarle il viso serio. Nella sua testa, l’alcool stava perdendo di efficacia e il cancello dei ricordi cominciò a cigolare. Si trattava di un cancello vecchio, arrugginito forse, ma sicuramente molto robusto. Era il risultato di anni di lotta interna. Una maledetta lotta interna che aveva portato Savannah, promessa dell’atletica leggera non solo nella squadra della sua scuola, ad attaccarsi alla bottiglia, rovinando il suo futuro. Alla fine era riuscita ad erigere il cancello e credeva di aver fatto un buon lavoro, ma a quanto pare si sbagliava. Era bastato il ritorno in patria per far crollare la sua costruzione che le era costato tutti i suoi sogni e le sue speranze.

Il cancello cigolava e scricchiolava sotto il peso dei ricordi, che aleggiavano pericolosi nei recessi del suo essere, avanzando solo un poco per volta, ma inesorabile. Savannah cominciò ad aprire e chiudere le mani, stringendo il lenzuolo bianco dell’hotel. Ogni volta che serrava la forza aumentava e le nocche diventavano sempre più bianche. Quando sentì di essere arrivata al limite, con uno scatto si buttò verso la bottiglia che, la sera prima, Jack le aveva tolto dalle mani. Ma se la sua mente non sentiva gli effetti della sbronza della sera prima, non poteva dire la stessa cosa del suo corpo. I suoi piedi incespicarono tra le lenzuola che aveva gettato per terra per alzarsi, e le fecero perdere l’equilibrio. Con una spalla urtò il tavolino dove il suo compagno aveva appoggiato il whisky senza tappo, che si rovesciò sul parquet della stanza.

Arrabbiata, furiosa e isterica, Savannah cominciò a picchiare i pugni sulla pozza di liquido con violenza, in modo incontrollabile, tanto che, in un momento di maggiore foga scivolò, finendo faccia a terra. Le lacrime continuavano a scendere ininterrottamente e le immagini, nella sua testa si moltiplicarono, accavallandosi una sull’altra.

In un momento di lucidità ritrovata, Savannah si rese conto dell’assurdità della sua posizione e provò vergogna, nonostante non ci fosse nessuno a guardarla.

“Ok, va bene così!” si disse. “ Abituati ad essere umiliata, perché oggi andrà anche peggio!”

 

leuconoe: no, non vi abbandono! Allora il tuo preferito è Richard! Bè buona lettura, scusa se la mia risposta è un po’ superficiale, ma non è un buon periodo…comunque sia buon natale!

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Capitolo 7
*** PESSIMI INCONTRI ***


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VII° CAPITOLO

PESSIMI INCONTRI

 

Parenti serpenti…

 

 

Savannah si gettò con forza contro la porta di vetro dell’albergo, spalancandola. Sotto lo sguardo stupito e meravigliato dei presenti percorse la hall con lunghe e rapide falcate delle gambe, raggiungendo in un lampo l’ascensore. Aveva la faccia rossa e sconvolta, con movimenti isterici cominciò a schiacciare ripetutamente il pulsante. Spaventata si guardò alle spalle e ciò che vide le fece tremare tutte le ossa del corpo; poco sci mancò che le ginocchia non cedessero sotto il suo peso.

Richard stava entrando nell’hotel, seguito dagli altri tre. La faccia del capo era terrificante; i suoi grandi occhi marroni avevano abbandonato la tipica espressione di stupore, adottando uno sguardo furente e minaccioso, fissato sulla bionda del suo gruppo. Sheril e Asriel, alla sua destra, avevano i lineamenti del volto induriti e tesi. Anche loro fissavano Savannah con disapprovazione e biasimo. Alla sinistra del boss c’era Jack, l’unico che guardava la compagna con apprensione.

Sempre più terrorizzata ad ogni passo che i suoi colleghi facevano verso di lei, Savannah comprese che cosa prova un animale braccato. La sua testa si girò verso destra, verso le scale la cui visione rappresentavano l’unica scappatoia rimasta. La ragazza scattò verso di esse, mangiando gli scalini due alla volta, più in fretta che poteva. Aveva raggiunto solo il primo piano quando sentì la voce di Jack che le giungeva dalle spalle e la pregava di fermarsi. Le orecchie dell’americana percepirono anche altri suoni, ma il suo cervello non riuscì a tradurle in parole, stordito dal rimbombo della pressione sanguigna che le massacrava i timpani e dal rumore del fiato che le usciva affannoso dalla bocca. Era da molto, molto tempo che non faceva tanta fatica davanti ad uno sforzo fisico. I suoi piedi raggiunsero il suo piano. Si guardò velocemente, prima da una parte poi dall’altra: il corridoio era libero. I muscoli delle gambe cominciarono a dolerle, ma sapeva che avrebbe avuto tutto il tempo per farli riposare nella sicurezza della sua camera.

Raggiunse la porta e con mani tremanti si frugò nelle tasche della tuta turchese, alla ricerca frenetica delle chiavi. La destra, poi la sinistra: ma dov’erano quelle maledette chiavi? In un attimo di lucidità, Savannah ripercorse mentalmente tutti i suoi movimenti, da quando era entrata nell’hotel pochi minuti prima a quel momento. Nella fretta si era scordata di ritirare la chiave e con quella certezza si fece avanti anche la convinzione di essere spacciata. Il pugno destro si abbatte una, due, tre volte contro la porta che le negava l’accesso.

“Perché? Non è giusto, non è colpa mia. Perché devo essere l’unica a rimetterci?” pensò, stringendo i denti nel tentativo di bloccare l’urlo di disperazione che le stava salendo dalla gola.

La sua testa fu riportata alla realtà da un rumore di passi, attutito dal tappeto. Savannah si girò verso le scale, dal quale spuntarono i capelli neri e ribelli di Jack. Non c’era nessun altro con lui, per il momento almeno. Savannah fece qualche passo in certo verso l’amico e con occhi supplichevoli sussurrò:

“Aiutami Jack. Non è stata colpa mia, credimi. Niente nella mia vita è stata causa mia.”

Il ragazzo, per la prima volta in vita sua, seriamente preoccupato salì l’ultimo scalino, velocizzando le sue gambe in un ultimo scatto verso Savannah.

Forse esisteva ancora una piccola possibilità, pensò lei, ma ad un tratto vide Jack fermarsi di colpo. Gli occhi verdi si spalancarono, la bocca si distorse in una smorfia di orrore. Avrebbe voluto avvisarla:

“Guardati le spalle, girati maledizione!” ma non poteva.

Il resto del gruppo era appena uscito dall’ascensore, qualche metro più indietro di Savannah, troppo spaesata, a causa dell’agitazione del momento, per sentire il fievole din dell’apertura delle porte. Richard lo guardava con sguardo intimidatorio, inviandogli un silenzioso ordine: tieni la bocca chiusa, non ti azzardare ad avvisarla! Con tutta la sua incredibile eleganza e un’inquietante sensualità Sheril si avventò su Savannah alle spalle. Ecco qual’era il metodo della vice dei Predators: attaccare da dietro e spezzare il collo dell’avversario in un colpo secco.

“Dio ti prego, fa che non soffra.” Si riscoprì a pensare Jack, ancora immobile al centro del corridoio dell’albergo; pietrificato nella sua posa come se il suo corpo fosse stato vittima del potere di medusa.

Le cose, però, non andarono come il giovane sud-americano aveva previsto. Sheril si limitò ad avvolgere il collo di Savannah con il braccio destro, mentre con la mano sinistra le tappò la bocca. Nonostante Sheril fosse più alta di sette centimetri buoni, che le avrebbero permesso di sopraffare la sottoposta senza sforzo alcuno, preferì non correre rischi, assestando un colpo con il ginocchio nell’incavo di quello di Savannah, che si afflosciò docilmente.

Asriel, che aveva osservato lo svolgersi della scena al fianco di Richard, intervenne,afferrando e bloccando i polsi della ragazza dietro la schiena con una mano, mentre con l’altra, appoggiata sulla spalla,si assicurò che l’atleta dei Predators non avesse la possibilità di rialzarsi e tentare la fuga. Richard si avvicinò al trio, facendo girare il portachiavi dell’hotel nell’indice.

“Siamo un po’ sbadatelli, non è vero Savannah? Ma per te è normale, dato che è da un po’ di giorni che ti dimentichi di fare le cose. Come, ad esempio, dirmi che sei imparentata con i Rizzo.”

Le dita di Richard afferrarono saldamente i capelli biondi della povera sventurata, strattonando con violenza, per obbligarla ad alzare il volto e guardarlo negli occhi.

“Ora sarebbe carino che ci raccontassi un po’ di cose.”

Richard si girò, lasciando la presa sui capelli martoriati della ragazza; aprì la camera di quest’ultima, dove fu trascinata di peso da Sheril e Asriel. Richard si girò verso Jack, che qualche metro più in là, aveva assistito impotente alla scena.

“Forse è meglio se entri anche tu.” Disse Richard con voce dolce e un luminoso sorriso.

Sebbene espresso in tono amichevole, quello era un ordine chiaro e diretto a cui Jack non poteva assolutamente opporsi. Ammutolito, senza più voglia di scherzare, Jack passò davanti al boss, che entrò per ultimo nella stanza chiudendosi la porta alle spalle.

 

Appena un’ora prima i Predators erano scesi dai due taxi che, il receptionist, aveva gentilmente chiamato per loro. L’indirizzo corrispondeva ad una villetta, troppo modesta per definirla proprietà di ricconi, troppo appariscente per pensare che gli abitanti fossero semplici cittadini americani. Il gruppo entrò dal cancelletto e, percorrendo un giardino sommariamente ben tenuto, arrivò al portone di legno massiccio. Venne ad aprire un bambino che avrebbe potuto avere sugli 8-9 anni.

“Chi siete?” chiese, con un po’ di impertinenza, il ragazzino.

“Adulti che fanno il loro lavoro.” Rispose Sheril, guardando dall’alto il giovane arrogante. “E tu, non dovresti essere a scuola?”

“Fai troppe domande, nonna!”

“Nonna?!” ripeté a pappagallo Sheril.

Il volto della donna era diventato felino, le sue labbra si dischiusero mostrando i denti bianchi su cui passò la lingua, come se si stesse leccando i baffi in segreto. La sua vanità era stata insultata; non aveva alcuna importanza se quello era solamente un bambinetto ancora nella fase in cui si odiano le femminucce della sua età.

Spintonando leggermente il suo superiore, Savannah si mise in mazzo, afferrando il braccio del ragazzino e inginocchiandosi per parlargli alla sua altezza.

“E tu giochi troppo a fare il padrino. Magari fra qualche anno, ora proprio non è il caso.”

Detto questo Savannah entrò in casa, senza fare troppi complimenti, seguita dal resto dei Predators.

“Salvatore, chi è?”

Una signora comparve dalle scale. Era la copia del ragazzino che lei aveva chiamato Salvatore. Guardò per qualche secondo la scena poi, con apparente indifferenza, aprì le braccia chiamando a sé il figlio che, ubbidiente, si divincolò dalla stretta della bionda per riparare nell’abbraccio della madre.

“Vai a chiamare il nonno” disse questa con dolcezza.

Quando il bambino uscì dall’ingresso, la signora si avvicinò al gruppo. Era serena, sebbene mostrasse di aver intuito che razza di persone aveva davanti. Ne aveva visti fin troppi, varcare la soglia della sua casa, e anche se non aveva mai fatto troppe domande, non era una stupida.

“Suo figlio è un bambino ubbidiente. Dovrebbe, però, insegnargli a essere educato anche con gli estranei” la rimproverò Sheril, ancora offesa per essere stata chiamata nonna.

“A Salvatore è stato insegnato a farsi rispettare da tutti, ma anche a portare rispetto a chi gli è dovuto. Se è stato maleducato, probabilmente gliene avete dato il motivo” rispose con orgoglio l’altra.

Sheril mosse un passo verso la donna, che per tutta reazione non si scostò di un millimetro. Non era stata educata a comportarsi in quel modo, ma l’avevano tacciata di essere una cattiva educatrice per il suo primogenito maschio. Tutto sommato, poi, si trovava in casa sua, nel suo regno, dove ogni uomo avrebbe dato la vita per proteggerla.

“Ora basta Sheril, concentrati!” disse Richard, richiamando la sua vice.

Sheril ritornò indietro senza abbassare gli occhi, come se stesse immaginando la donna inerme tra le sue braccia e il collo, indifeso, avvinghiato tra le dita che si stringevano inesorabili.

“Maria” chiamò la voce di un uomo, proveniente dal salone adiacente. “Maria fai accomodare gli ospiti.”

Maria indicò la direzione con il braccio piegato a 90° e il palmo della mano volto verso l’alto, come se portasse un vassoio; il busto leggermente inclinato verso il salone. Con gli occhi, però, continuava la sua muta battaglia con la stangona che l’aveva rimproverata.

Richard fu il primo ad entrare nello stanzone. Trovò l’uomo che li aveva invitati ad entrare, seduto comodamente su una poltrona, aveva preso sulle ginocchia il giovane Salvatore, il cui peso, probabilmente, non era ancora abbastanza gravoso per le sue gambe. Un uomo, forse il padre del bambino, era in piedi alla sinistra del padrone di casa.

“Prego sedetevi” disse il vecchio, indicando un divano davanti a lui.

Il signor Rizzo osservò attentamente, uno ad uno, i suoi ospiti, soffermandosi infine sulla bionda.

“Dove ti ho già vista?”

Savannah vide, con la coda dell’occhio, che Richard si era voltato verso di lei, con la sua solita espressione curiosa.

“Non saprei signore.”

“Sei sicura Savannah? Perché non ci pensi bene?” si intromise Richard scandendo bene il nome della giovane donna.

“Savannah?!” ripeté il signor Rizzo. Un accenno di sorriso gli illuminò il volto rugoso.

“Salvatore fai un piacere al nonno. Vai a chiamare lo zio.”

Il bambino si alzò dalle ginocchia del patriarca che, prima di sgambettare via, baciò rispettosamente su una guancia, congedandosi da lui.

Savannah cambiò posizione, con un movimento quasi isterico che cercò immediatamente di controllare.

“allora signori, fatta eccezione per questa bella ragazza non mi sembra di conoscervi. Avete per caso sbagliato indirizzo?”

“No signor Rizzo, non abbiamo sbagliato. Sappiamo che lei ha preso in prestito un oggetto che il vecchio proprietario rivuole indietro” rispose Richard, sorridente.

“Strano! Solitamente sono io che presto i miei averi.”

“Esistono le eccezioni.”

“E di cosa si tratta?”

“Non lo sappiamo” affermò Richard, stupendo persino il suo gruppo che, però, si guardò bene dal contraddirlo.

“Non so proprio come aiutarvi allora.”

“Ci hanno detto che dobbiamo recuperare un cavallino di legno. Si chiama Trojan, ma sono sicuro che c’è qualche cosa al suo interno.”

Rizzo si fece serio. Le sopraciglia si unirono, gli occhi si chiusero in due fessure come se volesse concentrare lo sguardo per carpire il segreto di Richard.

“Voi cosa sapete?” sibilò Rizzo.

“Salvatore, buongiorno. Mi avete fatto chiamare?” chiese una voce proveniente dall’ingresso.

Il capofamiglia non schiodò gli occhi dalla figura di Richard. Si limitò ad invitare il nuovo arrivato con un superficiale gesto della mano.

Savannah appoggiò la schiena sullo schienale del divano, schiacciandosi contro di esso più che poteva; guardava dritto davanti a sé come se fosse in trance. A nessuno dei presenti sfuggì il suo comportamento, ma solo il signor Rizzo ne conosceva il motivo. Motivo che rimase sconosciuto agli altri fino a quando non apparve, nel loro campo visivo, l’uomo appena arrivato. Era abbastanza alto, poco più di Savannah, poco meno di Sheril. I capelli castani chiarissimi, tagliati corti con la riga da una parte erano virilmente sottili e poco numerosi; come quelli di Savannah. Anche gli occhi color nocciola erano uguali. L’unica differenza stava nelle zampe di gallina dell’uomo, segno di una persona che rideva tanto; al contrario di Savannah.

“Annah?” la voce era tesa, strana. Non dava l’idea di essere contento o felicemente sorpreso di vedere la ragazza.

Savannah si riscosse dal suo torpore a sentire quella voce. Le sue pupille si alzarono verso l’uomo che le stava in piedi davanti a sé.

“Buongiorno zio” ringhiò lei.

La ragazza si girò verso Jack che, come gli altri, osservava la scena nel tentativo di capire.

“Lui” disse semplicemente Savannah rivolta al suo collega.

Jack spalancò la bocca, incerto la prima volta su cosa fare.

“Azzardati moccioso!” sibilò Richard intuendo la brutta piega che la situazione stava prendendo.

“Lo hai promesso” ricordò Savannah, fregandosene, per la prima volta, del volere di Richard.

“Ricordo, ma ti ho detto di sì solo nel caso fosse stato possibile” rispose Jack.

Il petto di Savannah tremò; si sentì ferita, tradita dall’unica persona con cui avesse legato realmente nei Predators. Anzi con l’unica persona con cui aveva legato in generale da molti anni. ma non importava. Il dolore, l’umiliazione erano sensazioni con cui aveva imparato a sopportare e con cui conviveva senza problemi, soprattutto se usufruiva del piccolissimo ausilio di un goccetto, qua e là durante il giorno. La vendetta, invece, era una voce che si era assopita da un po’ e non reclamava l’azione in mancanza dell’oggetto. Ora, però, l’oggetto era davanti a lei, e la sua figura aveva risvegliato completamente quella voce che, ora, urlava più forte di prima.

Savannah si voltò nuovamente verso lo zio, il quale aveva assistito allo scambio di battute, ignorando completamente di aver sfiorato una morte certa. Non era ancora fuori pericolo nonostante Jack si fosse fatto indietro. D’un tratto Savannah si alzò, come se fosse stata tirata da dei fili invisibili. Con il palmo della mano colpì suo zio in mezzo al costato, costringendolo ad arretrare di qualche passo. Il colpo era stato duro, sebbene non sembrava avere nulla di rotto; cominciò a tossire pesantemente, inalando, ogni volta, quanta più aria gli fosse possibile. Non contenta Savannah fece per ricolpirlo con un calcio, ma due mani glielo impedirono. Jack, il più vicino a lei, la afferrò per la vita traendola a sé e bloccandola in una morsa da cui l’amica non aveva la forza di liberarsi. Cosciente della sua debolezza, la delusione di Savannah esplose in urla che il suo naturale autocontrollo non le aveva mai permesso di fare:

“La pagherai! Giuro, fosse l’ultima cosa che faccio su questa terra, ti farò pentire di essere nato!” ringhiò Savannah con tuta la rabbia che aveva in corpo.

“Portala fuori. Sheril chiama due taxi” ordinò Richard in tono imperioso, riprendendo in mano la situazione.

“Penso che il nostro colloquio sia finito” disse soddisfatto il signor Rizzo dalla sua comoda poltrona.

I Predators uscirono dalla casa, accompagnati, come una colonna sonora di un film, dalle urla di Savannah, che ancora lottava, nel vano tentativo di divincolarsi. Una volta in strada Richard, infastidito, si voltò verso di lei:
”Asriel falla tacere.”

Il tedesco assestò uno schiaffo a mano aperta alla ragazza che si afflosciò appoggiandosi al petto di Jack.

Richard le si avvicinò e con molta calma le disse:
”Sei già in una brutta situazione. Vedi di non peggiorarla.”

Savannah si arrese.

I due taxi arrivarono dieci minuti dopo. Nel primo salirono Richard e Sheril che si immersero immediatamente in una fitta conversazione; nel secondo Jack e Asriel affiancarono Savannah, che si trovò stretta tra i due uomini.

“O-oh, qualcuno è nei guai” disse Asriel con un sorrisetto stampato in faccia.

“Non ci provare Asriel” ringhiò Jack furioso.

“Cos’è ragazzino, hai perso il senso dell’umorismo?”

“Ce l’ho ancora il senso dell’umorismo. Se vuoi te lo mostro spaccando quella tua brutta faccia da culo tedesca. Ah, ah, sai che spasso!”

“Basta!” lo fermò Savannah. “Basta, Jack. Ora è tardi per prendere le mie parti.”

Il trio sprofondò nel silenzio che durò per tutto il viaggio, per la felicità dell’autista.

Quando arrivarono all’hotel, Jack fece scendere velocemente Savannah dalla sua parte, chiudendo la portiera in faccia ad Asriel, obbligandolo a scendere dalla vettura sul lato opposto.

Jack prese per un polso Savannah e le sussurrò piano:

“Ora Richard è troppo incazzato, ma se riesci a stargli lontano, forse riesco a farlo calmare.”
”Ma come vuoi che faccia?”

“Colpiscimi allo stomaco, poi vai a chiuderti nella tua stanza fino a quando non ti chiamo io. Non rischieranno di creare un putiferio sfondandola.”

“Ti devo colpire?” chiese sbalordita Savannah.

“Sì e vedi di metterci un po’ di convinzione. Se mi colpisci troppo piano capiranno e allora saremo entrambi nei guai.”

“Cosa state complottando voi due?” chiese Asriel girano in torno al taxi.

Jack si voltò a guardare il tedesco con astio, sperando vivamente che un giorno, Richard, trovi un sostituto per lasciargli la possibilità di tappargli la bocca per sempre.

Cogliendo l’occasione in cui Jack era realmente distratto, Savannah alzò la gamba e lo colpì con il ginocchio in pieno ventre. La mano di Jack si spalancò, lasciando libero il polso della ragazza che, senza perdere un secondo si gettò con forza contro la porta di vetro dell’albergo, spalancandola.  

 

Leuconoe: mi dispiace veramente tanto per il ritardo, ma ho cominciato gli esami all’università e tra le lezioni e lo studio ho avuto poco tempo per pensare a questo settimo capitolo, spero che valga la pena dell’attesa. Per quanto riguarda il passato di Savannah, visto che hai detto che ti ha incuriosita, dovrai aspettare il prossimo capitolino. Non ti faccio promesse per quanto riguarda la tempistica, però ho già in testa le linee generali…impegni universitari permettendo farò del mio meglio per non ritardare troppo! Un mega bacio!    

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Capitolo 8
*** ANCHE IO SORRIDEVO ***


Nuova pagina 1

VIII° CAPITOLO

ANCHE IO SORRIDEVO

 

When you’re sure had enough of this life, well hang on

Don’t let yourself go, everybody cries and everybody hurts sometimes (*)

 

 

“Io ho il nome di una città, il luogo di origine della mia famiglia: i Runner. Savannah si trova nella parte sud-orientale della Georgia, al confine con il Sud Carolina e dista pochissimi chilometri dalle acque dell’Oceano Atlantico; capoluogo della contea di Chatam.

“Nonno David e nonna Roxie, i genitori di mio padre, mi hanno, da sempre, riempito le orecchie con Savannah. Abitazioni, edifici pubblici, le ventiquattro piazze sparse un po’ ovunque decorate con fontane, monumenti ed obelischi; tutto a Savannah racconta la propria storia. Non la vidi mai con i miei occhi perché mio padre, con l’appoggio di mio zio Bruce, convinse i nonni a trasferirsi; non per questo, però, fui dispensata dal conoscere tutto di questo posto. Fondata il 12 febbraio 1733 dal generale inglese James Oglethorpe, Savannah è la più antica città della Georgia. Grazie alla sua collocazione strategica sull’Oceano Atlantico, divenne un’importante roccaforte dell’esercito sudista nella Guerra Civile, anche se fu risparmiata dalle vicende belliche. Secondo la leggenda, il generale unionista William Tocumseh Sherman  non distrusse la città perché rimase impressionato dalla sua bellezza storica.

“Questo vi dovrebbe far capire che i Runner e i Rizzo non sono parenti. La realtà, però, penso che sia decisamente peggio. Quando la mia famiglia si trasferì, papà divenne uno dei protetti di Salvatore Rizzo, il signore con cui abbiamo parlato questa mattina. Ha dato, letteralmente, la sua vita a quell’uomo; infatti fu ucciso, poco dopo la mia nascita, durante una guerra tra famiglie. Mia madre non era propriamente una donna affidabile e, senza entrare nello specifico, i nonni riuscirono a toglierle la Patria Podestà che esercitava su di me. Non che riscontrarono grosse obiezioni, quella donna era troppo interessata ai suoi buchi, per occuparsi di me; alla fine dei conti le avevano fatto solo un favore. I Rizzo trovarono un degno sostituto nella persona di mio zio Bruce.

“I nonni fecero di tutto perché io fossi migliore dei loro figli. Una delle tante tattiche fu il non risparmiarmi la verità, nonostante fossi, effettivamente, un po’ troppo piccola per avere una così bassa opinione di mio padre. Praticamente sono un’orfana, ma non ho sentito la mancanza di un padre né, tanto meno, di una madre: David e Roxie supplirono abilmente a queste perdite. Non consideravo Bruce una persona furba, pensavo che, prima o poi, avrebbe condiviso il destino fatale di suo fratello maggiore. Però lo amavo, come se fosse un fratello.

“La soddisfazione e l’orgoglio che provavano i nonni, nei miei confronti, raggiunse l’apice quando il mio insegnante di educazione fisica scoprii in me un vero talento da velocista. Non eravamo molto ricchi, anche perché, Roxie e David rifiutavano categoricamente qualsiasi tipo di aiuto finanziario offerto dallo zio Bruce, arrivando persino a rifiutare regali i regali di Natale e di compleanno. Nonostante le ristrettezze, però, decisero di mandarmi in quei campi estivi per giovani promesse dell’atletica. Non ne sono sicura, ma penso che fosse un modo come un altro per farmi vedere quanto potesse essere bello il mondo, anche senza i soldi dei Rizzo. Erano semplicemente terrorizzati dall’idea che quella maledetta famiglia rubasse loro anche la nipote; si erano già presi troppi Runner.

“Al campo estivo conobbi Michael, un ragazzo della mia età che, scoprii mi sarei ritrovata a settembre nella scuola nuova. L’ultima settimana del campo, glia allenatori programmarono due giornate di gare sportive che comprendevano tutte le categorie. I vincitori avrebbero ottenuto il permesso di rimanere alzati l’ultimo sabato sera che avremmo passato lontano da casa, partecipando ad una party, rigorosamente analcolico. Vinsi nella gara dei 100 m piani, mentre Michael si dimostrò un vero campione del salto in lungo.

“In quegli anni non ero come ora. Mi piaceva ridere, mi piaceva stare bene, ma soprattutto mi piacevano gli sguardi dei ragazzi che accarezzavano il mio corpo da atleta. Ho sempre fatto di tutto per apparire carina. Michael era un bel ragazzo: capelli neri sempre in ordine grazie al gel, occhi verdi e, ovviamente lo sport contribuiva a non passare inosservato. Io lo avevo già notato durante le gare, sarebbe stato un po’ impossibile il contrario. Non mi intendevo molto della sua disciplina, ma la sua tecnica mi sembrava perfetta; purtroppo per lui l’allenatore non era dello stesso avviso. C’era sempre qualche cosa che non andava, piccole imprecisioni che quelli non mancavano mai di farti notare, ma infondo era il loro mestiere. Durante la serata-premio, ci ritrovammo vicini e quando, per errore (o forse no), gli rovesciai sulla camicia una bibita cominciammo a parlare e non smettemmo più fino all’orario di coprifuoco.

“Il resto delle vacanze estive lo trascorsi a pensare a lui, buona distrazione dall’incubo della scuola nuova con nuovi compagni.

-Nonno dovevi vederlo quando saltava. Sembrava una pantera con i suoi movimenti aggraziati, quasi poetici e potenti allo stesso tempo.-

-Nonna dovevi vedere i suoi occhi, non riuscivo a smettere di fissarli quel sabato.-

“David, Roxie e anche Bruce si fecero molte risate in quei giorni, mentre ascoltavano le mie descrizioni iperboliche di Michael; commentando, poi, i luccichini dei miei occhi e la mia voce spezzata dall’emozione.

“La notte prima dell’inizio della scuola ero talmente in ansia che quasi non chiusi occhio. La mia testa era un guazzabuglio di domande:

-E se lui si era dimenticato di me?

-E se lui non prova ciò che provo io?

-E se si è trovato la fidanzata in questo periodo?

-E se, e se, e se, e se…

“Fu con grande gioia che, la mattina seguente scoprii che Michael non si era affatto dimenticato di me, non aveva la fidanzata e, anche se era più bravo di me a dissimularlo in pubblico, nemmeno io gli ero indifferente. Lui faceva già parte della squadra di atletica, ovviamente, e, fortunatamente riuscii ad entrare anche io; inutile dire che tutto ciò fu molto utile a far salire di qualche gradino la nostra amicizia. Era bello stare insieme a Michael. Per la scuola eravamo due ragazzi divertenti, belle ed atletici che non si davano troppe arie; l’unico nostro difetto, secondo gli altri, era la mancanza di vizi. Non fumavamo e non ci ubriacavamo nemmeno alle feste più scalmanate a cui ci invitavano. Il nostro comportamento irreprensibile era giustificato dal fatto che, entrambi, volevamo diventare professionisti. Persino i teppisti della scuola, sebbene ci trovassero noiosi, ci esclusero dalle loro liste nere. Noi eravamo la coppia che portava prestigio all’istituto. Fu questa la mia vita per qualche anno: scuola e campo estivo, sempre con Michael, innamorata di lui ogni giorno di più.

“Era l’8 novembre 1999, il giorno del mio sedicesimo compleanno. Nonostante il giorno dopo ci fosse lezione, il nonno e la nonna permisero al mio ragazzo di portarmi fuori quella sera. Fu Roxie ad aiutarmi a farmi bella. In realtà storse un po’ il naso quando mi vide indosso il tubino nero dalla scollatura generosa, ma non si lasciò sfuggire nemmeno un commento di disapprovazione. Abbinate al vestito lungo fino al ginocchio, calzai un paio di Chanel nere tacco sei; un modello molto semplice che si limitava a lasciare scoperto il delcolté del piede e la punta delle dita dell’alluce e dell’indice. Quelle scarpe mi costrinsero a mesi di addestramento per imparare a fare qualche metro senza inciampare clamorosamente, ma per Michael avrei imparato a camminare anche sui carboni ardenti.

“Mi lasciai truccare da una professionista che risaltò i miei occhi con l’ombretto marrone sfumandolo in viola; i capelli che, dieci anni fa, erano lunghi fin sotto le spalle, vennero raccolti in un’acconciatura stile dea greca. I tocchi finali furono una collana a più fila di perline nere, lunga il giusto per mettere più in risalto il mio petto; un paio di orecchini al lobo e un bracciale al polso sinistro formato da tre giri di perle grosse.

“Quella sera mi sentii particolarmente bella e Michael dovette pensarla allo stesso modo. I suoi occhi verdi non smettevano di fissarmi, con un’espressione che non compresi fino in fondo. Molte mie amiche erano abituate a sguardi simili, ma io no. Mi curavo di più rispetto a ora, ma alla fine dei conti sono sempre stata più sportiva che elegante. Fino a quel momento pensavo che fosse sufficiente avere gli occhi dei ragazzi incollati sul mio sedere da velocista, ma l’aria soddisfatta di Micheal mi lusingò molto di più, soddisfò il mio narcisismo molto di più di qualsiasi fischio.

“Mchael aveva già la patente da qualche mese, avevamo a disposizione, quindi, la sua macchina, con la quale mi venne a prendere. Immaginavo mi portasse in qualche ristorante alla mano, non pretendevo più di tanto dal suo portafoglio, speravo solo che evitasse i fast food evitandomi l’imbarazzo per il mio abbigliamento. Fu, invece, più sveglio e romantico di quanto mi fossi aspettata. Mi portò nel campo di atletica dove la squadra si allenava tutti i pomeriggi; vicino alla pedana del lancio del peso aveva adagiato una coperta scozzese da pic-nic.

“L’erba fu un problema per me. Avevo imparato a camminare, ma non avevo pensato al terreno dei campi di atletica. Rendendosi conto delle mie difficoltà, Michael mi prese in braccio, come avrebbe fatto un neo-sposino alla prima entrata ufficiale nella casa coniugale. La pizza dentro al cestino si era raffreddata; mentre la glassa sopra i tortini di cioccolata si era un po’ sciolta, appiccicandosi alle dita. Ma tutto andava bene così, nelle sue dolci imperfezioni.

- Runner, 200 giri di corsa- scherzò Michael scimmiottando la voce del mio allenatore.

-Perché mister?-

-Come perché, Runner? Per quella bomba che hai in mano!- continuò Michael, trattenendo a stento le risate.

-Tu scherzi, ma domani dovrò allenarmi il doppio, ora che mi ci fai pensare- risposi, leggermente in colpa per tutto quello che avevo mangiato.

-Sciocchezze Savannah! Sei in formissima-

Sentii le gote arrossarsi e ringraziai la poca luce che nascondeva il mio nuovo colorito.

Micheal, sorprendendomi per la seconda volta quella sera, spostò i piattini che ci separavano uno dall’altra e, avvicinandosi a me, cominciò a baciarmi le labbra. A causa di ciò che dopo trovai a casa, la mia mente non ha mantenuta una gran memoria per i particolari di quel appuntamento. Ricordo che Michael non fece niente che io non volessi, fermandosi, senza nemmeno chiederlo, esattamente dove lo avrei bloccato io; non che gli permisi solo baci e carezze, ma oltre un certo limite non ero ancora pronta ad andare, nemmeno con lui. Per il resto la mia pelle era percorsa da brividi e scariche elettriche. Mi ricordo due cose che mi mandarono veramente in estasi.

“La prima fu il suo respiro nel mio orecchio e il calore del suo fiato sul collo, un miscuglio di udito e tatto, che mi suscitò la pelle d’oca. La seconda fu la punta della sua lingua che seguiva la linea delle vene del mio polso, lasciando una traccia umida. Quelle carezze, perché è così che le percepii, intervallate da piccoli bacetti, mi fecero buttare la testa indietro, con lo sguardo verso il cielo stellato. Le costellazioni erano forse un elemento fondamentale per una pozione d’amore e romanticismo, ma solo per i film, perché in quel momento i miei occhi non videro l’paca luce della Luna che eclissava quelle più brillanti delle stelle; i miei occhi non videro nulla. Tutti i sensi erano concentrati su Michael e sul contatto che avevo con il suo corpo.

“Il coprifuoco era fissato per le ventitré. Lo rispettammo ampiamente fermandoci davanti al vialetto di casa mia cinque minuti prima, anticipo che usammo in macchina per salutarci e chiudere nel migliore dei modi quella fantastica serata. Michael aspettò che inserissi la chiave nella toppa della porta, prima di ingranare la marcia  partire. Entrai in casa con espressione sognante, poco preoccupata delle luci della sala ancora accese. Avevo immaginato che i nonni sarebbero rimasti alzati fino al mio ritorno; la mia intenzione era quella di salutarli e dare loro la buona notte, rimandando il racconto al giorno dopo, quando sarei stata abbastanza calma da non lasciarmi sfuggire particolari che, i nonni non avrebbero voluto sentire e io non avrei voluto far sapere loro. Entrai nella sala e ciò che vidi mi cancellò dal viso il mio sorriso…

“Tre corpi riversi a terra in una pozza innaturalmente grande di sangue. Il mio cervello impiegò qualche secondo per registrare ed elaborare le informazioni, ma non appena vi riuscì, la mia reazione fu tale che metà quartiere la udì. Da quello che mi venne detto i vicini mi trovarono in stato confusionale, in ginocchio, vicino ai corpi dei miei nonni. Lo zio Bruce si salvò per miracolo, grazie ad una equipe di chirurghi, svegliata appositamente per la sua operazione d’urgenza. Ma per nonno David e nonna Roxie era troppo tardi. Quando la polizia interrogò Bruce sull’accaduto, accusò una forte perdita di memoria, affermando e giurando più volte di non ricordare assolutamente nulla.

“Da quella sera mi rifiutai di uscire di casa persino per andare a scuola, e quando lo zio fu dimesso, cercai di diminuire il più possibile anche le escursioni dalla camera. Non potevo sapere i particolari, ma la verità era una storia che i nonni mi avevano raccontato molte volte. In fondo sapevo che, prima o poi, mio zio si sarebbe bruciato con il fuoco con cui stava giocando, ma mai avrei pensato che le scintille sarebbero scoppiate in faccia ai suoi genitori. E perché mai avrei dovuto prevedere una cosa simile? Loro erano innocenti, cosa cazzo c’entravano loro con i giochetti di mio padre e suo fratello?

“Una sera che mio zio era fuori per una riunione, uscii dalla mia stanza da letto e scesi in sala. Aprii la credenza dove il nonno teneva i suoi liquori e, fottendomene ampiamente del futuro che avevo sognato, presi la mia prima sbronza. La prima di una lunga serie che mi sembra infinita. Bruce rientrò che io ero ancora attaccata al collo di una bottiglia.

-Cosa combini Savannah?- mi chiese.

-Fatti i cazzi tuoi!-

-Come ti permetti ragazzina?-

“Bruce fece qualche pazzo verso di me, forse con l’intenzione di mollarmi una sberla ma, miracolosamente, fui più veloce io a mettere in mezzo, tra me e lui, il divano. Credo che l’alcool perse 20 a 1 contro la rabbia.

-Io come mi permetto?- strillai. –Tu come ti sei permesso a farci questo!-

-Di cosa diavolo stai parlando Annah?-

-Non sono scema e smettila di chiamarmi Annah. Non sono più una bambina e ora voglio sapere cosa è successo-

-Vaneggi-

-Giuro che faccio tanto di quel casino da farti scoppiare i timpani se non mi racconti ORA cos’è successo!- parlavo di fretta, come un treno lanciato a tutta velocità.

“Probabilmente per calmarmi, sicuro che il giorno dopo non mi sarei ricordata di niente, Bruce mi spiegò perchè i nonni avessero fatto quella fine. I Rizzo stavano sbarrando la strada ad una famiglia emergente, che stava lottando con le unghie e con i denti per conquistarsi il loro territorio. Nascenti ma, a quanto pare, forti o fortunati, furono questi ultimi ad avere la meglio. Salvatore perse quasi tutti i suoi uomini di fiducia; si salvarono Bruce e suo genero, il padre del piccolo Salvatore. Il primo grazie all’abilità, a mio parere sprecata, dei medici; il secondo perché era con Maria, sua moglie, che cercavano di concepire un altro piccolo Rizzo. Salvatore stesso subì un attentato, ma fu ben protetto e ci rimise solo una gamba con cui, ora, zoppica vistosamente, che gli possa andare in cancrena in questo momento!

“come ho già detto, quella sera l’alcool perse contro la rabbia 20 a 1 e le conseguenze della sconfitta si devono essere protratte anche il giorno successivo, ricordavo ogni singola parola. Quando scesi per la colazione affrontai mio zio, prendendolo in contropiede dato che era seriamente convinto che mi sarei scordato ogni singola sillaba della sua confessione.

-Mi dispiace deluderti, ma mi ricordo tutto- dissi entrando, evitando di salutarlo. Perché augurargli un buon giorno, quando sperava vivamente che, uscendo di casa una tegola gli cadesse in testa?

“Bruce si girò verso di me con la faccia sconcertata:

-Come prego?-

-Basta con le cazzate zio. Io ricordo tutto e tu hai capito di cosa sto parlando!-

-Cosa hai intenzione di fare?- mi chiese guardingo.

-Di farti una proposta. Voglio che tu firmi le carte che mi permetteranno di essere indipendente. Voglio dei soldi per potermene andare via abbastanza lontano da evitare di vedere, anche per sbaglio, la tua brutta faccia-

-E se non accettassi?-

“Non stava facendo il furbo, lo capii dalla sua espressione. Stava semplicemente valutando ogni possibilità.

-Andrò dalla polizia-

-Non ti crederanno mai. Sei una bambina confusa per lo shock subito- mi schernì.

-Credi? Possiamo provare, vuoi? Io non ho nulla da perdere. E poi, nel caso tu abbia ragione, giuro che ti ammazzo. In fondo sono una bambina confusa per lo shock subito- non stavo facendo la furba nemmeno io e lo zio lo sapeva.

“Ero sempre stata una ragazzina per bene, poco incline alla violenza ma, del resto, ero solita ridere spesso…

-Se non lo faccio prima io- mi minacciò.

-Devi riuscire a prendermi prima!- gli feci notare, ricordandogli che ero molto più veloce e agile di quanto fosse lui.

“Non so perché, ma non tentò arrischiò nemmeno un movimento per cercare di sopraffarmi. E’ vero che, se avessi voluto sarei potuta essere fuori di casa in pochi secondi, ma non ero stupida e sapevo che Bruce aveva non poche possibilità di farmi fuori in un tempo minore. Forse era stanco di pulire dal sangue la casa; o forse si sentiva in colpa per ciò che era successo ai suoi genitori, non dubitavo che avesse un cuore. Magari, invece, la mia proposta era la soluzione che glia avrebbe fatto sprecare meno energie; oppure perché, guardandomi, era un po’ come guardare una sua foto, di quando era giovane e questo gli ricordava suo fratello, di cui io ero figlia e che lui aveva sempre messo su un piedistallo, come un idolo da adorare ed emulare. Qualunque fosse stata la sua motivazione, Bruce mi accontentò, in tutto e per tutto. Prima di uscire, per l’ultima volta, da quella casa mi girai e gli promisi che se mai lo avessi rivisto lo avrei ucciso. Lui non reagì; era troppo stanco per farlo,                      

“Tutto ciò che feci o ciò che mi successe non ha nulla a che vedere con il mio rapporto con i Rizzo o con Bruce né, tanto meno, con quel Trojan. Riguarda me che, stupidamente, lasciai sciogliere il mio sogno di diventare un’atleta professionista, come un cubetto di ghiaccio dentro ad un bicchiere.”

 

 

(*) “Everybody hurts” by R.E.M.

 

A tutti i lettori: c’è un motivo per cui ho scelto questa canzone. No in realtà la scelta era rivolta ai R.E.M. perché come la famiglia di Savannah anche loro provengono dalla Georgia, mi sembrava quindi appropriato mettere una loro canzone.

Vorrei motivare anche un’altra cosa: il fatto che Michael e Savannah non abbiano fatto l’amore sulla pista d’atletica. Questa era l’intenzione iniziale, in fondo stavano insieme da qualche anno, la situazione era carina, i sentimenti c’erano…Però quando sono arrivata nel momento in cui avevano finito di cenare ho capito che Savannah a 16 anni non era pronta. Mi piaceva anche l’idea che Michael capisse questo da solo e si comportasse di conseguenza. Sarò ingenua, ma Savannah è un personaggio che crede molto nell’amore, tanto è vero che non ha avuto più nessuno dopo il suo bel atleta, perché nessun ragazzo le ha mai fatto perdere la testa come Michael. La domanda è: riuscirà a trovarlo questo uomo? Non lo so nemmeno io ora, ma sicuramente durante la storia lo verremo a sapere.

 

Ringrazio i lettori e tutti quelli che mi hanno inserito tra i preferiti, un bacio grande!

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Capitolo 9
*** PRENDI UN UOMO, TRATTALO MALE... ***


Nuova pagina 1

IX ° CAPITOLO

PRENDI UN UOMO, TRATTALO MALE…

 

(*) Gli uomini sono come i serpenti.

L’idea che hanno di loro stessi supera di gran lunga la realtà.

Quasi tutti i serpenti sono privi di denti.

Certi hanno i denti ma sono privi di veleno.

E con i pochi provvisti di veleno devi essere un bravo incantatore.

Non è difficile.

Continua a muoverti e fai in modo che guardino dove vuoi tu.

Con il tempo sarai in grado di renderli innocui, con il tempo imparerai a muoverti così abilmente che non riusciranno mai a guardare dove non vuoi.

 

E’ vero che quando si rivela un segreto, protetto da una barriera molto spessa, ci si sente svuotati? Forse, ma questo non è ciò che senti Savannah quando chiuse le labbra, dopo aver concluso il racconto della morte dei suoi nonni. La confidenza che, per amore o per forza, fece ai suoi colleghi non ottenne altro risultato se non quello di risvegliare la rabbia e il rancore nei confronti di Bruce. Si sentiva umiliata; era difficile spiegarne il motivo, comunque aveva a che fare con l’accettazione di avere un parente a cui lei voleva bene come ad un fratello, che le aveva fatto del male, anteponendo la lealtà per una persona estranea, al bene della famiglia. Era sbagliato, quello che Bruce aveva fatto era scelta più sbagliata che potesse prendere, ma era ciò che aveva fatto e ora Savannah ne aveva parlato, per la prima volta dopo dieci anni di silenzio.

“Oh, ma che storia triste.” La schernì Asriel.

Savannah alzò i suoi occhi furenti sul tedesco; se lo sguardo potesse uccidere…

Asriel fu sicuramente molto indelicato a parlare in quel modo, ma in realtà aveva espresso il pensiero esatto di Richard e di Sheril. Fatta eccezione di Jack, al resto dei Predators non importava assolutamente nulla della tragedia che una giovane Savannah aveva dovuto vivere, esattamente come si stavano disinteressando della frustrazione che animava i pensieri dell’attuale Runner. Non è che fossero insensibili (o forse sì, lo erano), ognuno di loro aveva avuto, chi più chi meno, i loro problemi, ma mai nessuno aveva compromesso un lavoro per il passato, per quanto brutto e doloroso fosse.

“Mettiamola così Savannah” ruppe il silenzio Richard. “Se trovi un modo per sbloccare la situazione e farci ritornare a casa con il Trojan nella borsa, accetterò il tuo passato come attenuante.”

Non era il caso chiedere cosa sarebbe successo altrimenti; era un’eventualità che nessuno avrebbe voluto prendere in considerazione, nemmeno Richard, il quale non aveva ancora pensato realmente all’alternativa.

“Savannah pensa!” la incitò Jack, più calmo di prima, ma ancora in allerta. “Chi può sapere dov’è nascosto il Trojan?”

“Non molte persone. In realtà non sono del tutto sicura che persino Bruce lo sappia.”

“Potremmo comunque provarci” propose Asriel con un sorrisetto da pescecane.

“Non servirebbe a nulla” lo interruppe bruscamente Savannah. “Invece di prendermi per il culo e mancare una buona occasione per tenere la tua boccaccia chiusa, se vi avessi ascoltato sapresti che, ammesso e non concesso, mio zio sia a conoscenza del Trojan e del posto in cui il suo boss lo tenga, non dirà nulla. Nemmeno a te!”

“Allora cosa proponi?”

Savannah abbassò lo sguardo per pensare. Aveva gli occhi di tutti puntati addosso e questo la innervosiva, non le lasciava lavorare il cervello in santa pace. Cominciò a sfregarsi le mani appiccicaticce, visibilmente nervosa. Poi, l’illuminazione. Pericolosa, difficile, un altro datore di lavoro l’avrebbe scartata senza lasciarla finire di parlare ma, cavoli, lui era Richard Heart. Con la vittoria negli occhi, la ragazza rialzò la testa.

“L’unica persona che sa dove si trovi quel maledetto cavallino è Rizzo, giusto? Bene, allora chiederemo direttamente a lui. E’ vecchio e, sicuramente, risulterà un osso decisamente più malleabile di mio zio.”

“Ooh, ci hai pensato tutta la notte?” la ridicolizzò Asriel. “Sei veramente una fur…”

“Taci Asriel!” ordinò Sheril. “Lasciala finire di parlare.”

“Salvatore Rizzo ha la bella abitudine di passare i suoi venerdì sera in uno strip club non troppo lontano da casa sua. Una volta era di sua proprietà, dubito che lo sia tutt’ora, ma scommetto che per lui, come per tutti noi, le vecchie abitudini sono dure a morire.”

Richard si prese tra l’indice e il pollice il mento. Stava analizzando la proposta e, ora, lo sguardo dei presenti si era spostata su di lui. Al contrario di Savannah, però, Richard era abituato a stare al centro dell’attenzione, non ne era intimorito e nemmeno infastidito. Si prese tutto il tempo necessario per pensare e alla fine disse:

“Credo sia un’idea accettabile. Comunque sarebbe facile verificare quest’abitudine del signor Rizzo. Sheril?”

Il capo dei Predators si girò verso il suo vice.

“Sono d’accordo con te. Potrei farmi assumere e vedere che cosa dicono sul venerdì. L’unica pecca è che, prima di lasciarmi servire Rizzo, dovrò fare altre serate. Ma non è un così grosso problema.”

“Perché tu, Sheril?” chiese Asriel. “E’ Savannah che ha creato questa situazione.”

“Brutto bastardo!” urlò Jack, anticipando Savannah di qualche secondo.

Il ragazzo si avventò contro il tedesco, prendendolo per il bavero della maglia.

“Calmati Jack.” Intervenne Richard prima che la situazione degenerasse.

Il giovane sudamericano lasciò la presa, ubbidiente.

“Ti prego Richard, non prendere in considerazione Savannah per questo lavoro, non è per lei.”

“Ti turba, ragazzo, l’idea che altri uomini possano sbavare su un corpo che tu non hai avuto la possibilità nemmeno di sfiorare?” chiese ironico Richard.

Non ottenne risposta, ma del resto non la voleva.

“Al di là delle motivazioni dispettose, penso che non sia sbagliata la proposta di Asriel, almeno in parte. Sheril, Savannah andrete entrambe al colloquio e voglio che vi prendano insieme. Non ritengo prudente mandare solo una di voi due.”

 

“Salvatore, è sicuro di non volere nessuno nel privè?”

“Certo che sono sicuro, Bruce. Come ogni anno voglio godermi lo show delle pulzelle in privacy.”

“Normalmente non insisterei, ma dopo la visita di mia nipote e dei suoi amici non mi sento per nulla sicuro.”

“Ti preoccupi troppo, ma in fondo è per questo che ti tengo con me. Va bene, veniamoci incontro: vieni dentro, solo tu ovviamente; le ragazze arrivano; valuti la situazione e poi te ne vai senza fare storie.”

L’uomo non era molto convinto della nuova soluzione ma, del resto, era meglio di nulla. Bruce aprì la porta del privè con un sospiro, offrendo il passaggio al suo capo che entrò con un sorriso compiaciuto e contento stampato sul viso. La stanza non era molto grande, ma avendo solo un divanetto per al massimo due persone, lo spazio era sufficiente per ciò che doveva succedere lì dentro.

Salvatore fece appena in tempo ad accomodarsi che le luci si offuscarono, due ragazze entrarono nel privè, posizionandosi al centro, a qualche passo di distanza dal divanetto su cui era seduto il cliente della serata. Erano già pronte a cominciare lo spettacolo che Bruce le fermò:

“Aspettate, voglio controllarvi.”

“Ricordati che le hanno già perquisite e sono pulite, quindi vedi di non toccarle!”

La ragazza più alta stirò la bocca in un sorriso, allargando le braccia come un invito a fare ciò che volesse l’uomo si avvicinò loro, studiandole con circospezione e attenzione. Entrambe portavano sul viso una mascherina cosa, di per sé, poco sospetta dato che il mistero aiutava l’eccitazione, ma Bruce era poco convinto.

“Potrebbe chiedere di accendere le luci e di togliere le maschere, per favore?”

“Lasciale lavorare, Bruce. Non rovinarmi il compleanno” si lagnò Salvatore Rizzo, oramai stufo di aspettare. “Fai quello che devi, ma evita di rompere.”

Sconfitto, Bruce ritornò a guardare le donne, questa volta guardandole una alla volta.

La prima, la più alta portava una mascherina di colore rosso, lunga fino alle gote. La fessura dell’occhio sinistro era coperta dall’unico ciuffo di capelli lunghi che partiva dalla destra della fronte. Indossava un bustino nero con il profilo in pizzo bianco; sopra a questo portava una camicetta di tulle a maniche corte, lunga fino alla vita e leggermente arricciata sotto al seno. Il tubino di raso nero era lungo fino al polpaccio; dietro la gamba destra si apriva uno spacco, mentre su quella sinistra se ne apriva un secondo davanti, la cui generosità metteva in mostra una giarrettiera rosso a cui erano attaccate le calze a rete nere. Le decolté nere avevano un tacco 12 in alluminio. Sulla scapola destra faceva bella mostra di sé un caduceo, il simbolo di Ermes, messaggero degli dei: un bastone con in cima due ali piccole e poco curate nel dettaglio, a completare il tatuaggio due serpenti si intrecciavano tra loro intorno al bastone.

Le labbra rosse di rossetto erano accentuate dal tratto della matita color mattone; le unghie lunghe e ben curate erano tinte di viola chiaro che si scuriva verso la punta. Al collo portava una collana, quattro giri di catena dalla lunghezza diversa: il primo, il più corto, era quello che girava intorno al collo; il secondo si appoggiava sul seno ben proporzionato; il terzo arrivava alla vita; mentre l’ultimo fino all’inguine. Ai polsi aveva due bracciali, in quello sinistro c’era una fascia di brillanti, mentre nel destro c’era un polsino di pelle nera, poco più grande della fascia preziosa. Gli orecchini erano molto semplici, due brillanti al lobo e nulla di più.

La seconda ragazza, invece, era più sportiva. La mascherina nera copriva unicamente la zona degli occhi, ma c’era troppo buio per poter distinguere i tratti che erano rimasti esposti. Portava un gilet lucido di raso nero, con spalline sottili e quattro bottoni a gioiello. Il pinocchietto a vita bassa era di un tessuto nero che copriva solo la parte inguinale come una mutandine, mentre dal gluteo in giù era trasparente. I sandali neri non avevano il tacco ma una zeppa, segno che la ragazza era sicuramente meno pratica del mestiere. I lacci, stile schiava romana, erano allacciati sotto al ginocchio, nel punto dove terminava il tessuto del pantalone.

Il trucco era molto naturale, le labbra erano del loro colore, nonostante la loro morbidezza testimoniava almeno uno strato di rossetto. Le unghie corte e in alcuni punti mangiucchiate erano bianche. Solo gli orecchini erano ben in mostra, ma due anella d’oro, di quelle dimensioni, avrebbero attirato l’attenzione in qualsiasi caso.

Sembrava tutto quanto in disordine, quindi. Bruce stava per desistere dal cercare il particolare incriminante, quando notò i capelli della seconda ragazza: biondi, lisci, pettinati indietro come se fossero perennemente bagnati. Puntò i suoi occhi sul viso di lei, ma era troppo buio per poter essere completamente sicuri; se solo non ci fosse stata quella maledetta maschera. Bruce piegò le dita ad uncino, slanciando il braccio verso la seconda ragazza con l’intento di strapparle di forza quel pezzo di stoffa. Ce l’aveva quasi fatta, era riuscito ad afferrare la mascherina nera, ma i riflessi della giovane donna erano straordinariamente pronti e, grazie a quelli, gli bloccò il polso , impedendogli di strapparle dal viso il suo anonimato.

“Cosa diavolo pensi di fare?” urlò Salvatore Rizzo. “Lasciala subito e vattene!”

Bruce ubbidì all’istante, lasciando la presa dalla mascherina che la ragazza rimise immediatamente a posto. Le dita nodose di Rizzo lo afferrarono per una manica, strattonandolo con prepotenza e sospingendola verso la porta.

“Vatti a fare un giro! Ti chiamo io se ho bisogno” ringhiò il festeggiato, irritato, prima di sbattere la porta in faccia al suo braccio destro e chiudendola a chiave.

Con un sorrisetto ancora un po’ infastidito sulle labbra, Salvatore si voltò verso le donne, le quali per nulla spaventate dal comportamento dell’altro uomo, erano ancora al centro della stanza in attesa di poter cominciare lo spettacolo.

“Scusate signore” disse con una voce lievemente tremante. “Cominciate pure, ora nessuno vi disturberà.”

Le due si misero in posizione, molto vicine l’una all’altra. Ad un tratto la più alta schioccò le dita e la musica partì. Erano brave, ognuna a modo suo, però. La prima, quella che aveva dato l’ordine di attaccare la musica, aveva dei movimenti più invitanti, mentre l’altra si esibiva in acrobazie complicate ma, che di per sé, non avevano nulla di sensuale. L’esibizione del suo corpo, dei muscoli che si tendevano, delle membra che invitavano il cliente, rendevano tutto, comunque, abbastanza eccitante.

La ragazza con il ciuffo davanti all’occhio gli si avvicinò con passo strascicante, mentre le dita slacciavano i bottoni della camicetta trasparente che, ben presto, finì sul pavimento. Lei si piazzò davanti la faccia protesa di Salvatore, il cui sguardo era lucido dall’eccitazione; con una mezza piroetta gli diede le spalle, mostrando il sedere fasciato dal tubino. La mano di Salvatore si alzò a mezz’aria, protendendosi verso quella bellezza tonda, ma prima che potesse anche solo sfiorarla la donna si scostò, uscendo dal suo campo visivo. Al suo posto apparve la seconda ragazza che si avvicinò con sguardo serio e non propriamente accattivante, ma quando lei si inginocchiò sul divanetto, con le gambe di Salvatore in mezzo alle sue e il suo petto a pochi millimetri dal viso dell’uomo, lui non pensò più alle carenze della bionda che stava muovendo il bacino a tempo di musica, strusciando l’inguine sui suoi pantaloni.

Salvatore sentì le mani dell’altra showgirl che gli scivolavano lungo le spalle, intrufolando una mano nella camicia aperta, accarezzando il petto raggrinzito dall’età e dal peso. Il fiato di Rizzo diveniva sempre più corto e accelerato.

“Ragazze, se continuate così mi farete venire un infarto. Non vi posso pagare se mi uccidete.”

Per tutta risposta la donna alle sue spalle cominciò a ridere piano.

“Allora, per entrambi, sarà bene che tu risponda” disse continuando a ridere.

A quelle parole la ragazza seduta sulle gambe di lui si tolse la mascherina, interrompendo il suo movimento. Anche al buio riconobbe la ragazza e come avrebbe potuto fare il contrario? L’aveva vista nascere, crescere; era andato al funerale del padre e a quello dei nonni. Aveva assistito alla dimostrazione della sua pericolosità qualche giorno prima…         

 

 

(*) “L’alchimia del desiderio” di Tarun J. Tejipal

 

Leuconoe: Perdono ci ho messo un po’ per scrivere questo capitolo. Avevo solo dei flash di immagini, ma non sapevo come metterle insieme. Comunque ne è valsa la pena, dato che, da un capitolo solo ne sono nati due (il prossimo) che ho già scritto. Anche a me Savannah piace davvero tanto, anzi a dire il vero penso che sia la mia preferita, forse perché sotto alcuni punti di vista è più vicina a me rispetto agli altri. Per quanto riguardano i quesiti che ho creato se hai domande o curiosità chiedi pure, se potrò rispondere lo farò volentieri. Per ora ti ringrazio per la recensione e ti auguro una buona lettura. Baci, baci.

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Capitolo 10
*** DUE CORPI ***


Nuova pagina 1

X° CAPITOLO

DUE CORPI

 

(*) Pero cuando tu boca
me toca me pone y me provoca
me muerde y me destroza
toda siempre es poca

 

Il cervello di Salvatore Rizzo impiegò qualche istante a registrare le informazioni e a dedurre che si trovava in estremo pericolo, la sua reazione, per tanto, fu lenta e prevedibile. Con la poca forza a sua disposizione tentò di scansare la nipote del suo braccio destro, ma questa la respinse, spintonando il suo petto e ricacciandolo indietro, contro la spalliera del divano. In quel momento la donna alle sue spalle gli tappò la bocca con una mano, mentre con l’altro braccio gli circondò il collo, stringendo per qualche secondo, solo il tempo per fargli capire:

“Una mossa sbagliata e ti sbriciolo il collo.”

“Buon compleanno” disse Savannah con il volto sempre serio, a dispetto dell’ironia del suo augurio. “Cosa ne dici se, per quest’anno, cambiamo la tradizione? Facci un bel regalo e dicci dove tieni nascosto il Trojan.”

Gli occhi di Salvatore Rizzo divennero due fessure per la rabbia e quando Sheril lasciò libera la sua bocca dandogli modo di rispondere, lui prese l’occasione per sputare in faccia alla stronza che lo teneva ancora bloccato su quel maledetto divanetto. Per tutta riposta ricevette un ceffone a dir poco violento, dalla ragazza che usò poi la camicia dell’uomo per pulirsi dalla saliva.

“Sei stato molto gentile a liberarci da mio zio, ma a volte la gentilezza non paga” disse la bionda facendo un cenno con la testa in direzione di Sheril. Il braccio di questa tornò a stringersi, bloccando il respiro dell’uomo, il quale cominciò a dimenarsi, sebbene inutilmente dato che era bloccato da entrambe le parti.

Disperato, con il battito accelerato, Rizzo cominciò ad annuire con la testa. Sheril lasciò lievemente la presa, dando modo alla sua vittima di riprendere fiato.

“Se ve lo dico, mi promettete che non farete del male alla mia famiglia?”

Sheril e Savannah non risposero, i loro cervelli stavano cercando di capire il senso della frase, quando la vice dei Predators, con tono trionfale, disse alla sottoposta:

“telefona a Richard. Digli che è a casa Rizzo, probabilmente nella stanza del marmocchio.”

Aveva senso; dopotutto il Trojan aveva le sembianze di un giocattolo, si sarebbe mimetizzato bene tra le montagne di cianfrusaglie di un erede viziato.

Savannah si alzò per andare a prendere il cellulare che aveva lasciato nella borsetta. Successe tutto in pochi attimi; libero dalla presa della bionda, Salvatore pensò di potere avere la meglio sulla seconda donna presente nella stanza. Le sue dita cercarono di intrufolarsi tra il suo collo e il braccio della bastarda, la quale, però, reagì all’attacco. Sheril fece forza e, con una mossa veloce e secca spezzò il collo di Salvatore Rizzo Senior. Savannah si girò, appena in tempo per assistere, impassibile, alla morte del capofamiglia, con una punta di soddisfazione. Mentre il suo pollice componeva il numero di Richard sulla tastiera pensò:

“Per i miei nonni: una vita per una vita. Manca solo una persona e poi si ristabilirà l’equilibrio.”

“Pronto” richiamò l’attenzione la voce del boss.

“Il Trojan è nascosto a casa Rizzo; io e Sheril pensiamo che sia nella stanza del piccolo Salvatore.”

“Pensate? Non potete fare qualche domanda in più al vecchio che avete lì con voi?” chiese Richard.

Savannah guardò negli occhi Sheril; entrambe sapevano che lui non sarebbe stato soddisfatto di quello che era appena successo. La vice dei Predators allungò la mani verso la sottoposta che le passò il cellulare.

“Richard, sono Sheril. C’è stato un contrattempo e ho ucciso Salvatore.”

Silenzio.

“Sicura di essere stata tu, non è che stai coprendo Savannah?” chiese irritato Richard.

“Lo giuro, mi ha creato dei problemi e così…”

“Va bene, va bene. Uscite subito da lì. Immaginavo già che fosse a casa dei Rizzo, perciò ci ho mandato Asriel che aspetta una telefonata. Muovetevi così lo andiamo a prendere.”

Click.

Sheril restituì il telefonino alla proprietaria con un sospiro; per loro fortuna Richard aveva creduto a ciò che, del resto, era la verità. O forse no.

“Savannah, tu lo sapevi che avevo vicino a me il cellulare; non c’era bisogno che ti alzassi a prendere il tuo.”

Savannah si girò a guardare la sua interlocutrice e…sorrise. Che sensazione strana dopo tanto tempo. Le labbra si allungarono con le punte rivolte verso l’alto, mentre le gote si gonfiavano. Sorrideva, ma non rispose.

“E’ meglio sbrigarci” disse la bionda dirigendosi verso la porta.

Quando uscirono dalla stanza si trovarono su un lungo e stretto corridoio. Alla loro sinistra, in fondo, c’era una finestra; alla destra, qualche decina di metri più in là, delle scale scendevano al piano terra e, di fronte a queste, un’altra porta. Poco più in là, da una curva che faceva il corridoio comparve Bruce. Savannah non portava più la maschera e la luce non era soffusa come quella del privè. La ragazza e suo zio si guardarono. Lui aveva uno sguardo truce e preoccupato, sapeva che, non vedendo e non sentendo Salvatore, le possibilità che fosse ancora vivo erano veramente esigue. I suoi dubbi, del resto, si dileguarono quando vide il sorrisetto maligno della nipote. A interrompere il quadretto famigliare fu Sheril che afferrò il polso di Savannah strattonandolo.

“Vieni. La finestra” le disse.

Savannah si liberò dalla presa dell’inglese.

“Vai, ti copro le spalle. Dì a Richard che ritorno all’hotel da sola.”

Sheril scosse la testa, ma la scusa era buona e il suo comportamento non avrebbe ritardato il recupero di Asriel con il Trojan. Le due donne cominciarono a correre, una verso la finestra l’altra verso Bruce che, intanto, era scattato anche lui. savannah, normalmente, sarebbe stata più veloce di suo zio, ma ora portava delle zeppe di 10 cm. Arrivarono davanti al primo scalino, più o meno nello stesso momento, ma quando Bruce aprì le braccia per agguantare la figlia di suo fratello, Savannah si piegò schivandolo e, veloce, si gettò sulla porta che si richiuse alle spalle con il chiavistello. Suo zio cominciò a picchiare la porta che non avrebbe resistito a lungo ai colpi di sfondamento, del resto, non era ciò che voleva Savannah. Gli servirono pochi attimi per liberarsi dalla zavorra che erano i suoi sandali e cercare una buona posizione per aggredire Bruce, una volta entrato.

La porta di legno su cui era affissa la targhetta “UFFICIO” cedette agli urti, lasciando entrare l’uomo che, però, perse l’equilibrio abbassando la guardia e offrendosi come una facile preda alla più giovane dei Predators. Senza esitazioni la ragazza assestò un calcio in faccia all’uomo tanto odiato che stramazzò a terra.

 

Sheril corse verso la macchina che aveva preso a noleggio, aprì la portiera anteriore del passeggero e si sedette a fianco di Richard.

“Dov’è Savannah?” chiese lui, girandosi verso il locale e scrutando la strada.

Essere leale al proprio capo o coprire la ragazza…questo è il dilemma.

“Mi ha coperto le spalle. Ha detto che raggiungerà l’hotel da sola.”

Richard colpì con i palmi il volante lasciando che la nuca sbattesse contro il poggiatesta del sedile. Dalle labbra uscì uno sbuffo, chiuse gli occhi e si rivolse a Jack:

“Vai da lei. Vedete di ritornare entrambi.”

Quando il ragazzo chiuse la portiera e cominciò a correre, impaziente, verso il club, Sheril si voltò verso Richard.

“Perché la lasci fare, lo sai che era una scusa quella di coprirmi la fuga.”

“Perché la vendetta è una buona attenuante. L’importante è che non ci rimetta il lavoro; in fondo se Savannah e Jack tengono occupato Bruce qui, Asriel avrà un uomo in meno di cui preoccuparsi.”

L’auto ripartì, senza troppa fretta, senza sgommare, evitando di attirare l’attenzione. Una macchina normale che si muoveva per le vie della città.

 

Dopo aver atterrato lo zio, Savannah gli assestò un altro paio di calci, tanto per essere sicuri che non si rialzasse con pericolosa facilità. In fondo lei non era molto forte e lo sapeva, per questo, quando era obbligata ad un corpo a corpo, tendeva a mutilare e a rendere inoffensivo in vari modi l’avversario. Bruce si lamentava dolorante, ai suoi piedi, mentre lei decideva come ucciderlo. Si girò verso la scrivania sul quale trovò un tagliacarte affilato. Lo prese, ma quando si inginocchiò a fianco dello zio puntandogli la punta alla gola, si bloccò.

“Non ci riesci, vero?” tossicchiò una risata Bruce, meritandosi un ceffone in piena faccia e a mano aperta.

“Non sei nella posizione per prendermi per il culo.”

“Io credo di sì, invece. Non puoi uccidermi; molto semplicemente non puoi!”

Maledizione era vero; Savannah lo sapeva per questo, sull’aereo, aveva chiesto a Jack di risolverle il problema. Farlo lei era come tradire i suoi nonni, sebbene l’assassinio di Bruce fosse l’unico modo per vendicarli. La testa della ragazza si riempì di amarezza al pensiero di nonno David e nonna Roxie. Tradire la loro memoria lo aveva già fatto e senza farsi troppi problemi, inventandosi, di volta in volta una scusa nuova, fino a divenire un’abitudine. Uccidere, però, l’ultimo figlio che ancora viveva non aveva scuse, nemmeno la vendetta era sufficiente. Era una goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso…e lei sarebbe impazzita.

In quel momento un rumore, proveniente dalle sue spalle, dove prima c’era la porta, richiamò l’attenzione di Savannah. Si alzò, voltandosi; davanti a lei apparve Jack. Non fecero in tempo a rivolgersi mezza parola che Savannah fu afferrata di spalle dallo zio che le strappò di mano il tagliacarte, puntandoglielo contro la carotide.

“Tu non puoi uccidermi, ma scommetto che lui non si farebbe problemi” disse Bruce con un’espressione distorta dal dolore. “Siamo in una situazione di stallo, cosa vogliamo fare?”

Jack aveva una faccia preoccupata, ma bastò un mezzo sorriso della compagna per cancellargli quell’espressione che proprio non gli apparteneva. I suoi lineamenti mutarono in modo inquietante, in special modo i suoi occhi. Si accesero di uno sguardo divertito e giocoso, era come se si stesse leccando i baffi; pregustava una situazione che il suo cervello da professionista aveva già organizzato, passaggio dopo passaggio. Era così che lavorava Jack Salvador: studiava la vittima, decideva come agire e alla fine attaccava, gustandosi ogni attimo dei suoi movimenti.

“Cosa volgiamo fare, chiedi. Penso sia una domanda inutile” Jack fissò i suoi occhi verdi illuminati da un sentimento di giocosità, in quelli marroni di Bruce, dilatato dal terrore.” Tu muori e io ti ammazzo.”

In quel momento Jack si fece scivolare dalla manica una pallina di metallo che, sebbene le dimensioni ridotte, il suo peso era notevole. Con un gesto elegante e fluido lanciò la sfera in direzione della faccia dell’uomo che, subito dopo, venne sbalzato indietro. La lama del tagliacarte era troppo vicina alla pelle della ragazza e, sebbene si fosse spostata per non farsi uccidere da un morto, non riuscì ad evitare di riportare un taglietto superficiale ma abbastanza lungo. Non se ne curò più che tanto, però; i suoi pensieri erano tutti rivolti al cadavere che, ora, guardava ai suoi piedi. Il volto dello zio era di due colori differenti; una parte era normale deformata solo dallo sbigottimento dipinto nei lineamenti, mentre nell’altra metà la palpebra, che era riuscita a chiudersi, sebbene inutilmente, aveva un buco creato dalla sfera di metallo.

La bionda si ritornò a girare, verso il suo salvatore. Si sorprese nel constatare che l’uomo aveva cambiato ancora espressione: era eccitato. Aveva appena ucciso un uomo, la cui cosa lo rendeva sempre molto adrenalinico, ma non era solo questo che accendeva il suo sguardo: la situazione, il corpo di Savannah vestito in modo inusuale e sexy. Ma ciò che la sorprese maggiormente era scoprire, in sé stessa, la voglia e la passione che animava il respiro pesante di lui. Jack la voleva, ora più che mai; Savannah lo voleva, ora più che mai. Per la quarta volta, a distanza di poco tempo le labbra dell’americana si stirarono in un sorriso.

Senza pensarci su più di tanto, Jack si avvicinò velocemente a Savannah prendendola in braccio, senza il minimo sforzo, appoggiandola poi contro il muro. Il volto di lei era più in alto rispetto a quello di lui, ma Jack era troppo impaziente per aspettare che lei si abbassasse verso di lui così, quando vide a portata di bocca il sangue che usciva lentamente dal taglio sul collo, non seppe trattenersi. La sua lingua leccò tutta la lunghezza dell’insignificante ferita, provocando ad entrambi un primo brivido di piacere. Finalmente lei portò la sua bocca a portata di bacio, attaccandosi alle labbra di lui con fare affamato venendo contraccambiata a pieno. Più che baci, i loro, sembravano morsi; le loro bocche si mangiavano a vicenda senza staccarsi mai. Ben presto, però, Jack si fece impaziente. Si irritò dei vestiti che fasciavano quel corpo che bramava da tempo, mostrandogli le forme ed eccitando la sua fantasia, ma costituendo, allo stesso tempo, un ostacolo non permettendogli d andare oltre. Nonostante questo, però, le sue mani non si decidevano di lasciare andare quei glutei così allenati e perfetti.

“No, così non va bene” pensò Jack che, con un sospiro, si allontanò dalla parete, avvicinandosi alla scrivania dove adagiò Savannah.

Istintivamente le gambe di lei circondarono i fianchi di lui, allacciandosi dietro la schiena. Finalmente le dita di Jack furono libere di slacciare il gilet che venne buttato a terra senza ritegno, come fosse uno straccio vecchio. Sicure, le mani da assassino toccarono il seno nudo della donna. Inizialmente furono solo carezze, poi il tocco divenne sempre più deciso e completo, palpando ogni centimetro di pelle esistente. Savannah si liberò del bacio di Jack, lasciando cadere la testa indietro e godendosi quel piacere. La bocca di lui, rimasta vuota, ma tutt’altro che sazia, cominciò a baciare e succhiare. Il collo, poi le spalle e sempre più giù fino a raggiungere le mani, ricordandosi persino della punta delle dita. Succhiava, leccava, baciava, ma continuava a non averne abbastanza.

Savannah si sdraiò, appoggiando la schiena alla scrivania e gli occhi di Jack videro nuova pelle, ancora inviolata; subito la bocca ricominciò la discesa, lappando il ventre piatto. Quando arrivò all’elastico del pinocchietto si fermò, alzò lo sguardo su Savannah che gli rinnovò il permesso. Anche i pantaloni fecero la stessa misera fine del gilet, sul pavimento sporco di uno squallido locale di striptease. Jack non ricominciò a baciare; fece una cosa che lasciò piacevolmente sorpresa la ragazza: immerse il naso nella zona inguinale, limitandosi ad annusare. Jack si lasciò invadere dal profumo dell’intimità di lei, chiuse gli occhi memorizzando la fragranza. Non era profumo si capiva bene, era il suo odore naturale che, però, non era per nulla sgradevole.

Il ragazzo ritornò ad alzarsi, appoggiando il suo corpo su quello sdraiato di Savannah mettendole ai lati della testa gli avambracci, cominciando ad accarezzarle i capelli biondi. Si guardarono per qualche istante, solo qualche attimo nulla di più, per poi ricominciare a baciarsi, questa volta, però, in modo più dolce e meno impaziente. Le mani di Savannah si appoggiarono sulla testa di lui, accarezzando a sua volta i capelli scompigliati.

Driin-driin, il telefonino di Jack cominciò a suonare fastidioso. Non ci voleva una mente geniale per indovinare chi fosse, per questo si fermarono, entrambi, al primo squillo della suoneria, sospirando. Per la prima volta, da quando era entrato nei Predators, Jack aveva la tentazione di mandare al diavolo Richard e non rispondergli. Era molto probabile che, una volta usciti da quella stanza, Savannah non si sarebbe lasciata andare così facilmente una seconda volta, avrebbe dovuto attendere un’altra occasione simile. Non c’era problema ad aspettare, ma sarebbe stato più semplice se, nel mentre, lui avesse avuto il ricordo del corpo di lei che cedeva al suo, la pelle che reagiva ai suoi baci, gli occhi nocciola languidi solo per lui.

Driin-driin, ma il cellulare suonava ancora, sempre più insistente. Però lei era pronta, aveva acconsentito e il suo corpo…così perfetto, se lo sarebbe sognato per notti e notti, divenendo un incubo per non poterlo avere. Jack non riusciva decidersi, così fu lei a sbloccare la situazione. Si alzò, appoggiandosi su un avambraccio, mentre con una mano si intrufolò nella tasca dove il cellulare stava ancora trillando. Senza proferire parola Savannah glielo porse; Jack la guardò per qualche secondo, poi ringhiando:

“maledizione!”

prese il cellulare, liberò Savannah dal suo peso e mentre lei cominciò a raccogliere la sua roba e vestirsi lui rispose al telefono.

“Pronto?” disse con tono irritato.

“Dove siete?” chiese Sheril.

“Siamo ancora al locale” ringhiò lui.

“Va tutto bene? Hai una voce strana.”

“Sì, va tutto a meraviglia. Ora usciamo e ci dirigiamo all’hotel.”

Jack interruppe la chiamata senza aggiungere altro, riccacciandosi in tasca il cellulare.

 

“Cosa ti ha detto?” si informò Richard.

Sheril aveva un’espressione dubbiosa poi, sorridendo maliziosa, si girò verso il suo capo.

“Penso di aver interrotto qualche cosa…ops!”

La macchina si riempì di risate.

 

(*) “Morena mia” Miguel Bosè & Julieta Venegas

 

leuconoe: Bombe? Ok non indago… J Mi fa piacere che la storia continua a piacerti e spero che anche questo capitolo soddisfi e rimanga interessante come gli altri se non di più. Personalmente mi sono divertita parecchio a scriverlo, spero che ti diverta anche tu a leggerlo. Per quanto riguarda l’ultima cosa che hai scritto, ovvero non essere toccati dalla sofferenza altrui perché ognuno ha le proprie…bè io l’ho sempre pensata così. E’ ovvio che non sono felice quando qualcuno stà male, né rimango completamente indifferente, ma personalmente non ho mai sopportate frasi del tipo “Pensa che c’è gente che stà peggio di te.” Che frase è? Non ha senso! Ognuno sente il proprio dolore e credo che, chiunque affermi che lui stà peggio di un altro vuol dire che non stà così tanto male. Io non stò passando un bel periodo…anzi il contrario, ma quando una mia amica si lamenta  per il suo moroso non le dico io stò più male di te quindi smettila di frignare. E’ inumano fare a gara con il dolore!!! Ovvio questa è la mia opinione! Va bene, basta con questa filosofia. Spero sinceramente che questo capitolo ti piaccia e grazie ancora per le recensioni non so cosa farei.

 

 

Chiedo venia e mille volte scusa…ma tra il lavoro e gli esami devo rimandare a settembre il prossimo capitolo. Quindi, per ora, vi auguro BUONE VACANZE!!!

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Capitolo 11
*** ASRIEL ***


Nuova pagina 1

XI° CAPITOLO

ASRIEL

 

(*)Deutschland, Deutschland über alles,
über alles in der Welt

 

Dall’altra parte della strada, di fronte a casa Rizzo, si estendeva un vialetto da alberi con tanto di panchine per giovani coppiette che volevano scambiarsi, in santa pace, tenere e romantiche effusioni. A quell’ora tarda, però, tutte le panchine erano vuote, fatta eccezione per una sola, poco più in là rispetto alla villetta Rizzo. Non si trattava di una coppia, ma di una persona sola che, in sé, non aveva nulla di romantico e tenero. Al contrario, i suoi occhi grigi, aperti solo a metà, avevano un’aria da essere superiore, anche ora che, davanti a lui non c’era proprio nessuno su cui esercitare la sua arroganza. La temperatura della notte era piacevole e, qualsiasi altro componente dei Predators si sarebbe rilassato nell’attesa della telefonata di Richard. Asriel Stern no, però. Schiena dritta, mani sulle ginocchia, bocca serrata ed espressione attenta, rivolta verso il suo obbiettivo.

Finalmente i suoi pantaloni cominciarono a vibrare. Asriel aveva tolto la suoneria per evitare che l’inno nazionale tedesco destasse troppa attenzione. Infilò la mano in tasca estraendone il cellulare.

“Richard?”

“Come avevo previsto si trova a casa sua. Secondo Sheril dovresti provare nella stanza di Salvatore Junior.”

“Quindi non è sicura. Non possono chiederlo a Rizzo, prima che vada dentro inutilmente?”

Una risatina giunse dall’altro capo del telefono.

“Sei troppo simile a me. Mi chiedo quanto tu possa essere utile.”

Asriel non degnò la benché minima attenzione alla provocazione e aspettò, pazientemente, che Richard smettesse di scherzare.

“E’ morto prima che potesse dare qualche informazione in più.”

Il sopraciglio destro scattò verso l’alto. Più che sorpreso, il tedesco, era irritato.

“Dovresti chiederti quanto sia utile la ragazza.”

“Lo farò, grazie del consiglio.”

Con il pollice, Asriel, interruppe la chiamata.

Era sicura che, nonostante il ringraziamento, Richard non avrebbe mai messo in dubbio la posizione di Savannah né, tanto meno e purtroppo, quella del moccioso sudamericano. Il pensierosi Jack gli provocò un moto di stizza che dominò con qualche difficoltà. Una volta ritrovata la calma si alzò dalla panchina e si diresse verso l’altro lato della strada, senza prendersi il disturbo di guardarsi in torno. La strada era deserta.

Fu facile, per uno scalatore esperto come Asriel, arrampicarsi sulla facciata della casa. Per sua sfortuna, però, le finestre erano chiuse; non sarebbe riuscito ad entrare senza fare rumore. Gli rimaneva solo da sperare che in casa non ci fosse nessuno. Riparandosi il gomito  ruppe il vetro della finestra più vicina, senza guardare dentro e, veloce come sempre, a dispetto dell’età, girò la maniglia entrando finalmente nella stanza.

“VERDAMT!”

Quella non era proprio serata. Ancora una volta la fortuna non gli aveva degnato nemmeno una rapida occhiatina. Si era intrufolato nella camera da letto del piccolo Salvatore che, svegliato dal rumore dei vetri rotti, ora era seduto sul materasso con la schiena dritta ed un’espressione pietrificata sul volto pallido e seminascosto dal buio.

Ma Asriel si era sbagliato: quella sera quel poco di fortuna che ebbe gli semplificò il lavoro. Tutte le guardie del corpo dei Rizzo, quella sera, come tutti i compleanni di Salvatore, avevano la serata libera. Lusso che la famiglia poteva permettersi da quando il suo potere era solo un ricordo o la speranza per il futuro. Bruce aveva pregato Salvatore di lasciarne almeno un paio per la figlia e il nipote, ma il capofamiglia, con sua enorme stupidità, non lo aveva ascoltato. Al posto delle guardie del corpo, quindi, nella stanza del bambino, si precipitò, disarmata, la madre. Fu un sollievo, per Asriel, veder entrare l’esile figura di Maria, ma nonostante questo se ne guardò bene dall’abbassare completamente la guardia. La natura insegna: una madre può diventare molto più pericolosa del cacciatore più esperto. Il primo istinto dell’uomo fu quello di prendere come ostaggio il ragazzino che, ora, guardava speranzoso la madre. Sarebbe stata la mossa migliore se ad entrare fossero stati i gorilloni dei Rizzo, oppure se Maria fosse stata armata; ma in quella situazione non c’era alcuna ragione di provocare due omicidi inutili. Asriel si limitò ad alzare le mani a mezz’aria, rivolgendosi con un tono calmo a Maria:

“Mi ascolti signora. Non ho alcuna intenzione di fare del male e suo figlio e nemmeno a lei. Voglio solamente uno stupido cavallino di legno; niente di più. giuro che dopo me ne vado senza creare altro disturbo.”

La donna non era molto convinta, ma Asriel si rifiutò di aggiungere altro. Sarebbe stata soltanto una perdita di tempo, la dialettica non era una delle sue doti migliori e non avrebbe saputo dire null’altro per convincere Maria. In fondo sarebbe stato meglio se fosse uscito da quella casa con i due ancora vivi, ma sei era tanto stupida da non dargli retta non era certo colpa di Asriel.

Finalmente Maria si mosse in direzione del figlio, andandosi a sedere al suo fianco e circondandolo in un abbraccio materno. L’uomo fece per uscire dalla stanza, quando un’idea bloccò i suoi passi.

“Signora, suo padre ci ha detto che il cavallino si trova nella stanza di suo figlio, ma io qui non vedo nulla di interessante. Non è che mi farebbe il favore di evitarmi una telefonata?”

Ciò che aveva appena fatto era molto rischioso. Sheril e Savannah non potevano essere sicure di aver interpretato bene le poche informazioni di Rizzo; se il Trojan non era nelle mani del bambino Maria avrebbe potuto capire che suo padre non stava collaborando e che loro non potevano costringerlo per qualche motivo. In questo caso sarebbe stato bene, per la salute di madre e figlio, che lei non intuisse la vera ragione.

“Non si trova qui” rispose la donna mentre Asriel tratteneva il fiato. “E’ nella sua stanza dei giochi, al piano di sopra. La porta a sinistra delle scale.”

Maria ritornò a chiudere la bocca non aggiungendo altro, ma si vedeva perfettamente dalla sua espressione che aveva altro da dire. Sembrava preoccupata, ma allo stesso tempo rassegnata.

“Non si preoccupi, eviterò di metterle a soqquadro la camera.”

Detto questo Asriel uscì non preoccupandosi di suggerire, in modo perentorio, ai due di non uscire per quella notte; non sarebbe stato necessario.

Quando asriel varcò la porta della stanza dei giochi si ritrovò in una specie di paese dei balocchi in miniatura. Nella parete opposta c’era un’enorme finestra in quel momento chiusa, ma di giorno, quasi sicuramente, la sua grandezza lasciava passare una buona quantità di lice solare. Le pareti erano azzurre, dall’odore si sarebbe detto che erano appena state ridipinte. Probabilmente sotto la vernice c’era una carta da parati dai disegni infantili, poco adatti all’età di Salvatore in cui si pensa sempre di essere troppo grandi per certe cose.

“Lo fossero realmente” borbottò fra sé.

Ora, a decorare i muri, c’erano vari poster di fumetti come Batman e l’Uomo Ragno, per non parlare di tutti le figure maschili principali degli X-Men, personaggi inventati molto prima che Salvatore fosse nei pensieri e nei progetti dei genitori. Nell’angolo, alla destra della finestra, c’era un divanetto con alcuni cuscinetti dalle fodere colorate, perfetti per riposarsi dopo ore ed ore di gioco. Si sa che divertirsi è stancante. Al centro c’era un tavolo ovale su cui erano disposti alcuni modellini di soldati in assetto da combattimento. Mancava una televisione con Play Station, ma quasi sicuramente quella l’avrebbe potuta trovare in salotto, dove anche i dipendenti dei Rizzo avrebbero potuto giocarci. Per Asriel sarebbe stata veramente un’impresa individuare ciò che cercava in mezzo a quella baraonda di roba, ma fortunatamente i gusti di Salvatore erano decisamente moderni e colorati, per questo alla fine riuscì a scovare il pezzo di legno. Il Trojan si trovava su una mensola, vicina alla finestra. Era troppo in alto per il piccolo; la madre la usava per metterci i giochi più delicati e costosi, mentre il nonno l’aveva usata come nascondiglio per la sua ultima speranza. Con un sorriso soddisfatto, Asriel depose con cura il Trojan nello zaino appositamente imbottito. Richard era stato molto chiaro in proposito, il cavallino non doveva subire nemmeno un graffietto. Si era appena rialzato in piedi quando gli arrivò una seconda telefonata.

“Siamo qui fuori.”

“Arrivo, ma, Richard, perché ridacchi.”

“Lo vedrai da te quando arriviamo in albergo!”

 

Arrivati nella camera dell’hotel occupata da Richard, Sheril, che aveva preso in consegna lo zaino, lo chiuse nella cassaforte a loro disposizione. Savannah e Jack erano rientrati da poco più di mezz’ora. Il moccioso era scuro in volto, decisamente imbronciato se ne stava seduto in disparte con la gamba destra sul ginocchio e le dita incrociate sul ventre. Savannah, invece, per la prima volta da quando la conosceva, aveva il viso rilassato e soddisfatto; la fronte non era crucciata e questo dava un’espressione più dolce ai suoi occhi nocciola.

“Avete fatto uno scambio d’identità voi due?” chiese Asriel riferendosi al fatto che, normalmente, lei era quella musona e lui con la faccia perennemente soddisfatta.

Lo sguardo di Jack si alzò su di lui, fulminandolo. Tutti, nella stanza, videro il tremito che il ragazzo ebbe nelle mani. Un movimento veloce e breve, ma c’era poco di cui scherzare, Jack era carico come una molla. Una bomba pronta ad esplodere al minimo scossone, forse, questa volta, nemmeno l’autorità di Richard avrebbe fermato l’argentino dall’uccidere il collega. Per questo Asriel pensò (e pensò bene) che, per quella sera, sarebbe stato meglio evitare frecciate.

“Devo dire” cominciò Richard, interrompendo il silenzio creatosi. “che nonostante tutto siamo stati bravini. Alla fine non ci abbiamo messo molto tempo per recuperare il Trojan.”

“Quindi non mi punirai?” chiese Savannah.

Non è che ci sperasse realmente, in realtà non le importava nemmeno più di tanto, era solamente una domanda a titolo informativo.

“Direi proprio di sì, invece. Ti toglierò il 40% della tua parte per esserti ubriacata e per non avermi detto niente di Bruce. Ma non prenderò ulteriori provvedimenti perché, infondo, non saremmo riusciti ad essere più veloci di così.”

“Che cosa facciamo ora?”

“Anche se Salvatore e Bruce sono morti non è il caso di adagiarsi sugli allori. Potrebbe sempre esserci un terzo uomo pronto per riorganizzare la famiglia. Partiamo domani per il Galles.”

“Devo contattare il nostro amico John Smith?”

“No, Sheril. Voglio prima capire chi è il nostro Ulisse e cosa nasconde dentro il suo cavallo di Troia.”

“Sai da che parte cominciare?”

“Probabilmente cercando informazioni sulle due italiane che erano venute a farci visita troveremmo anche il loro datore di lavoro con facilità. Ma per ora preferisco andare a casa, l’aria che c’è a Cardiff ha sempre avuto il potere di farmi venire delle intuizioni geniali. Se dovessimo andare in Italia, faremmo sempre in tempo a ripartire.”

“Che gioia” disse in tono ironico Sheril, per nulla felice di dover prendere un aereo una volta di troppo.

In quel momento il cellulare di Richard ricevette un messaggio. Quando l’inglese lesse sul display ciò che c’era scritto la sua espressione divenne seria e pensierosa. I Predators rimasero in religioso silenzio, aspettando l’imminente novità.

“Cambio di programma, non andiamo a casa. Sheril prendi i biglietti per Montpellier. Chissà che per un colpo di fortuna la situazione non si sblocchi da sola.”

 

Tutti: eccomi di nuovo con un nuovo capitolo di questa storia che nasce e cresce piano, piano. Il fatto che nessuno abbia recensito il capitolo precedente e dato il suo contenuto mi è venuto un dubbio: non è che ho scritto una cosa troppo volgare e di poco gusto? Ad essere sincera io mi sono divertita a scrivere del primo, e fugace, contatto fisico tra Jack e Savannah, e non mi è sembrato brutto quando l’ho riletto. Però siete voi i miei giudici quindi mi piacerebbe sapere se ho esagerato.

Intanto spero che questo vi sia piaciuto…la prossima volta ci rivedremo nella bellissima città di Montpellier…spero vivamente di ritrovare le foto…  

 

 

 

(*) Inno nazionale tedesco (=Germania, Germania, al di sopra di tutto/ al di sopra di tutto nel mondo)

 

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Capitolo 12
*** SOUVENIRE DEI 21 ANNI ***


Nuova pagina 1

XII° CAPITOLO

SOUVENIRE DEI 21 ANNI

 

(*)L’infinito sai cos’é? ... L’irraggiungibile fine o meta
Che… rincorrerai per tutta la tua vita,
“ma adesso che farai?... adesso io ... non so... “ infiniti noi
so solo che non potrà mai finire
mai ovunque tu sarai, ovunque io sarò
non smetteremo mai
se questo é amore ... é amore infinito

 

 

Era una bella giornata di fine primavera. Richard girava tranquillo, in solitudine, per le strade della città francese; le mani in tasca e un’andatura rilassata, ma sicura nella direzione della sua meta. Si trattava di un barattino, che lui conosceva fin troppo bene, dove aveva appuntamento con una sua vecchia conoscenza. Girò l’angolo fermandosi subito dopo. Eccola là, Satine Chabrol, più che una vecchia conoscenza, quella, era una sua vecchia fiamma, una di quelle di cui ci si dimentica difficilmente. Lei era seduta di spalle e non poteva vederlo; i soliti capelli neri e lisci, tagliati in un baschetto perfetto con una lieve scalatura nelle ciocche che le incorniciavano il viso. Le gambe lunghe e affusolate erano accavallate sotto il tavolino dove, Richard, vide una cosa che gli fece morire il sorriso sulle labbra e passargli la voglia di andarsi a sedere. Il  pastore di Beauce di Satine, sua guardia personale. Il pastore di Beauce è il cugino francese del Dobermann, con un fisico più robusto e rustico rispetto alla razza tedesca. Satine possedeva un cane della stessa risma anche quando si erano conosciuti; dato il tempo che era passato non poteva essere lo stesso, ma tra Richard e il vecchio cane di Satine c’era sempre stato un odio viscerale che divertiva molto la donna. Sebbene lui non conoscesse il nuovo pastore, poco ma sicuro, quella non era una razza molto socievole con gli estranei.

In quel momento la testa del cane, che fino ad ora era appoggiata su una delle zampe anteriori scattò verso l’alto, puntando, poi, gli occhi scuri sullo sconosciuto. Da quella distanza Richard non poteva esserne totalmente sicuro, ma avrebbe scommesso che appena lo aveva visto aveva cominciato a ringhiare nella sua direzione, probabilmente allarmato che un uomo stesse fissando così intensamente la propria padrona. Satine piegò la testa di lato per controllare il suo fedelissimo, dando prova che stava effettivamente ringhiando. Dopo aver calmato il cane, voltò il busto verso Richard regalandogli uno dei suoi più splendidi sorrisi maliziosi. Lui si avvicinò e, dopo aver controllato che il pastore non si muovesse, posò una mano sul fianco della donna, baciandola sulle guance.

“Sempre scortata?” disse Richard sedendosi.

“Lo sai che adoro i Beauce. Lei si chiama Rouge. Tu, invece, sembri sempre uno straccione.”

Richard sorrise, passandosi con noncuranza le dita fra i lunghi capelli.

“Non penso di ricordare male: nonostante il mio aspetto hai ceduto.”

“Ero giovane ed inesperta” si giustificò lei, senza averne una reale intenzione.

“Giovani lo eravamo insieme, quanto all’inesperta non lo credevo all’ora come non lo credo oggi.”

In quel momento, un ragazzo con la divisa da cameriere portò loro due caffè.

“Direi che abbiamo usato sufficiente tempo per il passato.”

“Sono d’accordo. Allora Satine, perché mi hai fatto venire a Montpellier?”

“Siete riusciti a prendere il Trojan?”

Il volto di Richard non mutò nel sentire la domanda, si limitò solamente a continuare a fissare la francese.

“So tutto del tuo attuale incarico, quindi non fare giochetti.”

“Non ti ho insegnato proprio niente, allora, mia cara.”

Fu tra loro due che tutto iniziò: la storia dei Predators. Richard era una specie di avventuriero moderno, ciò che era anche ora all’età di 46 anni, ma gli mancavano le conoscenze, le persone giuste come potenziali clienti. Gli mancava ciò che a Satine Chabrol, figlia unica di una famiglia schifosamente ricca non mancava affatto.

 

Nel 1984 Richard aveva 21 anni, una grandissima voglia di viaggiare, la forza per farlo e l’età per pretenderlo. Amava moltissimo l’Inghilterra, ma trovare un lavoro con cui aveva la possibilità di viaggiare per il mondo era il sogno della sua vita. Anche da giovane Richard era abbastanza brillante da riuscire a trovare, senza troppe difficoltà, un lavoro adatto. A dire il vero ne aveva provati molti, ma a tutti mancava una piccola caratteristica: il rischio che avrebbe dato frizzantezza al viaggio. L’ultima volta che si ritrovò in Francia, senza pensare troppo ai pro e ai contro decise di rimanerci, almeno per un po’. Camuffando il suo aspetto, già all’epoca trasandato, cominciò a frequentare locali alla moda, confondendosi e facendo conoscenza con le persone più ricche in circolazione. Sentendo i loro discorsi e l’atmosfera che si percepiva in quei posti, Richard si convinse che quello decisamente non era il suo ambiente. Lo circondavano persone troppo concentrate sull’apparenza. Le donne facevano a gara per chi aveva il vestito più costoso, non era importante se la vincitrice fosse volgare o ridicola. gli uomini, tra le altre cose, facevano mostra delle loro donne, una più bella dell’altra; poco importava che non fossero vere conquiste ma solo signorine a pagamento. Ciò che piaceva a Richard Heart erano i soldi e quella gente ne aveva molti, allora perché non servirli nei loro capricci? Fu in quel periodo che nacque l’idea di un’agenzia tutto fare. Solo il pensiero eccitava la fantasia del giovane; c’era solo una falla in tutto il suo progetto: non aveva le basi per cominciare a farsi un nome.

L’incontro con un’annoiata riccona di nome Satine Chabrol fu una vera e propria manna dal cielo. Richard e Satine si compensavano: lui conosceva abbastanza il mondo da sapersela cavare, più o meno, in tutte le situazioni, lei aveva la lista dei clienti e il fascino per trovarne di nuovi. Per circa un annetto le cose andarono a gonfie vele, fino a quando ognuno rimase nel proprio campo di competenza, ma sia lui che lei avevano un carattere forte, decisamente inclini al comando. Satine cominciò a fare di testa sua durante le “missioni”; anche Richard, però, non fu da meno. Stando con Satine aveva imparato a tirare fuori quel carisma necessario perché le persone gli affidassero i propri capricci.

I due si lasciarono esattamente come si erano incontrati. Nella camera da letto di Satine, tra le lenzuola vellutate, senza litigare e senza rimbeccare all’altro i suoi errori. Iniziò con passione e finì con la stessa.

Nei 25 anni che passarono si rividero solo una volta, un paio di anni dopo. Richard si trovava a Montpellier per affari e, avendo un po’ di tempo libero aveva cercato Satine, invitandola a bere qualche cosa insieme, nello stesso bar in cui si trovavano ora. Lei gli raccontò di aver trovato un altro lavoro ma, ogni tanto, si divertiva a mettere in pratica ciò che aveva imparato stando con Richard. Per lei insomma era diventato solamente un hobby, con cui passare il tempo nei periodi di noia.

Lui, invece, aveva continuato e, scendendo nei particolari, le disse di aver messo su una squadra perché si era reso conto che, nonostante il suo talento, non era assolutamente capace di fare tutto con eccellenza. Sheril era perfetta per le pubbliche relazioni e anche se non era come Satine, poteva solo dire di essere soddisfatto della sua PR. Asriel era un ladro fantastico; anche Richard non aveva troppe difficoltà ad entrare nelle case altrui, ma il tedesco non conosceva neanche un ostacolo. Jack era un sadico assassino privo di morale e amore per il prossimo; tutti nei Predators erano in grado di difendersi, ma il signor Salvador si divertiva e questo era un vantaggio per lui in certe occasioni: niente coscienza con cui fare i conti a fine giornata. Savannah era un atleta, il suo ruolo non era mai stato ben definito e all’inizio Richard aveva avuto dei grossi dubbi su di lei. La ragazza era l’unica del gruppo ad aver cercato Richard, mentre con gli altri era avvenuto il contrario. Lui li aveva visti, si era innamorato delle loro capacità e li aveva ingaggiati. A convincere Richard su Savannah era stata la rabbia repressa che l’americana emanava da ogni cellula del suo corpo. Nonostante la sua apparente inutilità, Savannah si era rivelata spesso vantaggiosa in più di un’occasione.

I due amanti di un tempo parlarono per tutto il pomeriggio, come se nulla fosse cambiato; solo quando lei aveva dichiarato di dover rientrare ci fu una prova della lontananza che si era creata fra i due. Si erano alzati entrambi, guardandosi negli occhi, entrambi decisi su come salutarsi o sulle frasi da dire di commiato. Fu Richard a sbloccare la situazione, prese la mano destra di Satine e dopo avergliela baciata, senza aggiungere altro le girò le spalle.

 

“Non ti ho insegnato proprio niente, allora, mia cara.”

“Sì, sì lo so: bocca chiusa occhi ed orecchie ben aperti.”

Richard si limitò a sorridere, soddisfatto.

“Allora facciamo un bel gioco” propose Satine. “Il gioco del supponiamo.”

“Molto bene, prima tu.”

“Supponiamo che una signora mi abbia contattato per recuperare una statuetta. Supponiamo che io sia impazzita nel cercare le sue tracce, perché in ogni via che setacciavo, ad un certo punto lei spariva sempre e, al suo posto, mi capitava un cavallino di legno che, per pura comodità, chiameremo Trojan. Mettiamo che io sia venuta a sapere che una famiglia di mafiosi americani, oramai di poco valore, per tornare in auge, abbia rubato il Trojan, non tanto perché il buzzurro che ne è a capo lo colleghi alla statuetta…

“Che per pura comodità chiameremo?”la interruppe Richard.

Per un attimo Satine rimase in silenzio, chiedendosi se e cosa avrebbe dovuto tenere nascosto all’uomo.

“La Sainte Vierge du Pardon, posso continuare con il gioco?”

“Te ne prego” rispose Richard con un lieve inchino del capo.

“Il vero motivo per cui questi americani avrebbero rubato il Trojan sarebbe stato il fatto che chiunque rubi qualche cosa al nuovo possessore della statuetta deve, per forza di cose, essere molto stupido o molto potente. Per quanto ne saprebbero, la famiglia…”

“Rizzo.”

“Per supposizione.”

“Ovviamente.”

“Avrebbero rubato un modellino senza conoscerne il vero valore.”

“Ti prego fammi continuare” richiese Richard. “Supponiamo che sei venuta a sapere che il vecchio proprietario John Smith…”

“Quanta fantasia” lo interruppe Satine.

“Sono d’accordo, ma io non c’entro. Dicevo? Ah sì, John Smith ha ingaggiato un’agenzia per recuperare il Trojan senza raccontare tutta la storia e tu, per non fare troppa fatica hai aspettato, perché conosci il capo dell’agenzia.”

Satine sorrise annuendo.

“Cosa vuoi?”

“Per supposizione?” chiese la donna ironicamente.

Richard non rispose, non ce ne era bisogno. Mandarla a cagare sarebbe stata una caduta di stile; dichiarare che il gioco lo aveva stancato sarebbe equivalso ad un autogol.

“Voglio che tu mi consegni il Trojan” rispose, questa volta seria, Satine.

“Certamente, basta che tu mi paghi più di quello che ho pattuito con John Smith.”

“Tu non capisci. Non vengo pagata nemmeno io questa volta.”

“Satine Chabrol che fa beneficenza?” la prese in giro lui.

“C’è una storia triste dietro quella statuetta.”

“Faccio portare un pacchetto di fazzoletti?”

“Stronzo!”

“Sempre al tuo servizio.”

Dopo l’ultimo scambio di battute cadde il silenzio. Rouge, percependo la tensione creatasi, sporse il muso lungo, toccando con il naso umido il ginocchio nudo della padrona. Per tranquillizzare il suo pastore di Beauce la accarezzò sulla testa, grattandole il pelo grosso e duro. A dire il vero Satine era molto tentata a dire una semplice parola, un unico comando e i Predators sarebbero stati costretti a portarsi il loro capo su una carrozzina, in giro per tutto il mondo.

“Fammela vedere, Satine.”

Lei guardò l’omo che le stava di fronte. Non era cambiato in quella ventina di anni, sempre trasandato come quando ne aveva 21. Capelli e barba lunghi, un po’ crespi, di un colore simile all’ocra con qualche striatura rossiccia. Gli occhi grandi, ma poco marcati, le ricordarono il perché Richard non avesse mai avuto problemi di donne. L’espressione sempre gioiosa, a parte rari casi eccezionali; sempre curiosa come quella dei bambini forse smuoveva l’istinto materno che alberga in ogni donna. Poi tutto passava, quando rimaneva senza maglietta. Il suo fisico muscoloso era tutt’altro che fanciullesco ma non lo era, in special modo, il tatuaggio che aveva dietro la schiena. Una corona inglese in bianco e nero, minuziosamente particolareggiata in tutte le più piccole sfumature, lunga da scapola a scapola e proporzionalmente alta. Non che il fisico e il tatuaggio allontanassero le conquiste, anzi. Solo che, al posto della madre, usciva la donna.

La mano che stava accarezzando ancora Rouge si spostò dalla testa del cane e aprì la borsetta firmata, dalla quale uscì una foto. Il soggetto era una piccola, ma fine ed elegante, statuetta della Vergine. Il viso, le mani giunte in preghiera e i piedi scalzi erano, stranamente, di un bianco sporco, lo stesso colore del vestito. Solo le pieghe di quest’ultimo e il rosario che Maria aveva in mano erano d’oro.

“Perché tutta bianca?”

“E’ d’avorio.”

“John Smith mi paga decisamente poco.”

“Ed è anche vecchia.”

“Quanto?”

“Seconda Guerra Mondiale.”

“Non così tanto.”

“Sì, ma vale di più per un collezionista, amante del periodo.”

“Per essere più precisi?”

“Non sono la tua consulente” rispose rabbiosa Satine, quasi ringhiando. “Non ti ho fatto venire a Montpellier per farti guadagnare di più.”

“Lo sai in che guaio mi metterei se ti dessi la statuetta? Se la vuoi almeno pagami.”

Satine sbuffò, appoggiando la schiena alla sedia, esasperata.

“Se ti facessi raccontare la storia, cambieresti idea?”

“Improbabile, comunque non sarei solo io a dover essere convinto.”

“Pensavo che fossi tu il capo” lo provocò Satine.

“Infatti, ma ci sono dei limiti. Vorrei vedere te come terresti a freno quattro persone, tutt’altro che innocue, se gli dici che dopo un lavoro non li pagherai.”

“Almeno acconsenti di sentire la storia.”

“Per quello che cambia, a me va bene. Ma verrà anche la mia squadra.”

“Ti manderò un messaggio” disse Satine alzandosi e, senza nemmeno salutare concluse così l’appuntamento. Lasciando a Richard solo il conto da pagare.

 

(*) “L’infinito” di Raf.

Vorrei spiegare il perché ho scelto questa canzone. Il motivo è semplice: tra Richard e Satine c’è un rapporto un po’ particolare. Non si sono dimenticati, ma sanno di essere incompatibili, così hanno fatto la loro scelta di vivere due strade diverse. Essendo persone coerenti non lasciano che ciò che è stato ricominci ancora una volta. Spero che dai dialoghi tutto ciò sia venuto fuori, a voi l’ardua sentenza!!! Per quanto riguarda la storia la domanda è: Richard e Satine continueranno a voler avere due vite diverse o ci riproveranno? Sinceramente ancora non lo so…né l’uno né l’altra mi hanno suggerito niente per ora.

 

Leuconoe: va bene và, per questa volta ti perdono J… ovviamente stò scherzando!!! Non ti devi preoccupare, soprattutto perché almeno qualcuno (cioè tu) ha risposto alla mia domanda e sono molto contenta che il cap tra Jack e Savannah non fosse volgare. Per rispondere alla tua recensione, è vero il cadavere a pochi passi fa senso, però come hai detto tu caratterizza Jack. Savannah, finalmente, ha avuto la sua rivincita, forse ora sarà un pochino più serena. A dire il vero questa storia è nata proprio con il passato di Savannah: mi ero immaginata i Predators, tutti quanti, ma non sapevo cosa fargli fare, poi mi è venuto in mente il passato di Savannah. Solo dopo è nato il Trojan e solamente da pochi giorni è nata La Sainte Vierge du Pardon, con la relativa storia che rivelerò nei prossimi capitoli con personaggi tutti nuovi…spero solo di non annoiarvi con questa storia nella storia…

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Capitolo 13
*** SAINTE VIERGE DU PARDON ***


Nuova pagina 1

XIII° CAPITOLO

SAINTE VIERGE DU PARDON

 

Un po’ di bene nel male e un po’ di male nel bene…

Ma che razza di stronzata!

Se così fosse uno potrebbe decidere di tenere chiuso dentro di sé uno dei due

Invece, le cose, sono sempre un po’ più complicate di così…

 

 

“Scusa se sono un po’ ripetitiva, ma non vedo l’utilità di questa cosa” si lamentò assonnata Sheril.

“E’ un favore, quello che stiamo facendo” ripeté, per l’ennesima vota, Richard.

“E il bel paio di gambe che ci ha aperto la porta, immagino che non c’entri nulla” si intromise ironico Asriel.

La risposta di Richard si limitò ad un semplice sorriso, accompagnato da una luce maliziosa negli occhi marrone scuro. Ovvio che satine era l’unico motivo per cui i Predators non erano già in Galles, pensare a cosa fare con il Trojan e con il piccolo segreto, oramai non più tale, che teneva racchiuso dentro. Sheril e Asriel si erano dichiarati, fin da subito, estremamente contrari al contrattempo. Savannah, invece, non si era mostrata particolarmente interessata alla cosa; il viaggio in America aveva dato riposo ai suoi fantasmi e tanto le bastava. Che fossero gli altri a decidere sul da farsi. Jack aveva mantenuto il muso intatto dalla sera in cui avevano rubato il Trojan; né lui e tanto meno la ragazza avevano rivelato che cosa fosse successo nello strip club, ma non ci voleva un genio per capire, almeno l’andamento generale. Comunque nemmeno lui si era espresso e, questo, diede a Richard la possibilità di “costringere” i Predators a rimandare il ritorno a casa.

Si trovavano, in quel momento, nel salotto della signorina Rolland, per quanto il termine sembrasse fuori luogo riferito ad una donna di 85 anni suonati. Le pareti della stanza erano di un bel rosa salmone; qua e là era stato appeso qualche quadretto paesaggistico di piccole dimensioni, ma niente foto. Nessun ritratto era in mostra, in quella casa, almeno da ciò che avevano potuto vedere i cinque ospiti. Al centro della sala un enorme tappeto dai colori freddi, impreziosito da vari ghirigori ricamati, proteggevano il parquet dai due divano e dalla poltrona di legno. Questi ultimi erano ricoperti da cuscini beige che attenuavano la durezza del materiale con cui erano fatti. Al centro, per finire, vi era un tavolino rettangolare, su cui la signorina Rolland posò un vassoio con alcune tazzine da the, aiutata da satine che cominciò a servire la bevanda fumante.

“Oh, grazie mille cara.”

“Non si preoccupi. Si metta pure a sedere, ci penso io a servire” disse la donna rivolgendo all’anziana un sorriso gentile ed educato.

La signorina Camille Rolland, così si era presentata, si mise a sedere sulla poltrona rimasta vuota che fronteggiava il divano da tre posti su cui erano seduti Asriel, Richard e Sheril; mentre alla sua destra aveva quello da due posti su cui si erano accomodati i più giovani della stanza.

“Vorrei ringraziarvi per la vostra gentilezza” cominciò con voce dolce ma chiara Camille.

“Per dimostrarci la sua gratitudine potrebbe iniziare subito a dirci ciò che deve, senza inutili preamboli” si intromise, in modo poco educato, Sheril.

Lo sguardo di Satine fulminò l’altra donna.

“Li scegli così maleducati o lo diventano a stare con te, Richard?”

“Perdoni la mia dipendente signorina Rolland, svegliarsi presto la rende sempre piuttosto suscettibile” si scusò Richard, nonostante il suo tono non fosse per nulla rammaricato. “Però non ha tutti i torti: il nostro tempo è prezioso.”

“Decisamente lo diventano a stare con te!” constatò Satine porgendo, in modo brusco, la tazza di the al suo ex amante.

“Non ti preoccupare Satine, in fondo hanno ragione loro” disse la signorina Rolland per nulla turbato dalla mancanza di tatto dei suoi ospiti.

Il suo sorriso, rilassato e tenero, si affievolì, solo per un istante, ovvero quando la sua mente, avanti con gli anni, cercò di riordinare i ricordi; ma appena i suoi occhi, dall’iride sbiadita per l’età, ritornarono a fissare le tre persone che le stavano di fronte, il suo viso recuperò nuovamente un’espressione serena.

 

 

“Compii i miei 20 anni un paio di settimane dopo il D-day, lo sbarco in Normandia. Grande giorno, ma per noi che lo abbiamo vissuto in prima persona ricordiamo molto più facilmente l’astio che, sia noi francesi che i tedeschi, provammo in quei mesi estivi. Noi eravamo stanchi di sentire il nostro idioma sporcato  dal nemico, loro si sentivano sotto pressione per ciò che stava accadendo. La situazione stava influenzando le vite di tutti noi, anche i bambini dovevano stare molto attenti e, di norma, era difficile vederne qualcuno gironzolare per le vie. Io, da poco ventenne, la percepii e la sopportai a pieno la nuova situazione, soprattutto da quando i miei genitori si erano messi in combutta con le file partigiane.

“L’unica perdona che se ne fregava di tutto era mia sorella Doriane. Non era una brutta persona, ma era maliziosa e stupida, troppo interessata a cose non propriamente adatte alla sua esperienza. E lui aveva i capelli biondi e gli occhi grigi, lo sguardo di qualcuno che del mondo ne sapeva un poco di più e un modo di fare che incantò Doriane dal primo momento. Un principe azzurro:così lo definiva.

-Camille, Camille guarda, ha anche la divisa.-

-Vero sorellina, ed è proprio quella che dovrebbe tenerti lontana da lui.-

“Eberwolf Schulte, un soldato della Wehrmacht, l’esercito regolare tedesco: questo era l’identità del primo amore di mia sorella. Nonostante si mostrasse carino ed educato, interessato e dolce con Doriane non era diverso dagli altri soldati che marciavano per le vie della mia città. Anche lui, come glia altri, era sempre a caccia di qualcuno da accusare di complotto contro il Reich. Fu Schulte ad arrestare i miei genitori, una mattina di inizio luglio.

-Anne Rolland e Baptiste Rolland?- chiese il tedesco entrando in casa nostra senza nemmeno bussare.

-Eberwolf lo sai che sono loro, ci conosci caro- rispose ingenuamente la piccola Doriane.

“La vidi sbiancare, divenire più pallida di un cencio, quando gli stessi occhi che la fecero innamorare si girarono verso di lei intimandola di tacere con un semplice sguardo carico di disprezzo. La sorressi, mentre i tedeschi portavano via mamma e papà. Piangemmo; piangemmo entrambe e piangemmo tanto. Lei per il suo cuore spezzato, io per la mia famiglia distrutta. Ma i tedeschi avevano tutt’altro che ultimato le umiliazioni alla famiglia Rolland.

“Qualche giorno dopo Schulte passò davanti casa nostra, accompagnato da un manipolo di sottoposti. Quando Doriane lo vide si lanciò con foga verso la porta, gli occhi carichi di lacrime e speranza che lui fosse lì per lei.

-Eberwolf caro, amore mio. Ti perdono non c’è bisogno che ti scusi, dimenticherò.-

“Lui si mise a ridere, beffardo:

-di cosa dovresti perdonarmi, stupida?

“Fu uno spettacolo pietoso: urla, pianti, sberle e le risate dei tedeschi al seguito di Schulte che deridevano mia sorella, umiliata e picchiata sotto gli occhi di tutti.

-Doriane basta- dissi uscendo di casa e cingendola con un braccio la vita.

-Buon giorno, signorina Camille- mi salutò Schulte.

Lo guardai, stranita dal fatto che conoscesse il mio nome; non mi aveva mai rivolto la parola, ed io stavo bene ugualmente.

-Buon giorno a lei signor Schulte- risposi al saluto con il tono più neutro che mi riuscì di trovare, nonostante la rabbia che provavo.

-La prego, mi chiami Eberwolf.-

Fu un attimo, mia sorella si liberò dalla mia presa, allontanandomi poi con uno spintone. La sua testa girava a destra e a sinistra in modo frenetico, guardando prima me, poi Schulte e ancora me.

-Maledetti. Voi siete amanti. SIETE AMANTI- mi accusò, puntandomi il dito indice contro. –Lo sapevi che io lo amo, perché mi hai fatto questo, Camille?-

Non mi diede nemmeno il tempo di difendermi che mi diede uno schiaffo. La guancia bruciava, ma ancora più dolorante era il mio spirito. Era come se un macigno si fosse posato sul mio petto, un peso invisibile all’esterno, ma che io percepivo come se fosse reale e tangibile. Com’era possibile che un uomo avesse potuto mettere due sorelle una contro l’altra?

-Cosa fai, stupida?- La bloccò Schulte, prendendole con una mano il polso e stringendolo, prima che Doriane potesse colpirmi nuovamente.

-Lasciami, lasciami maledetto. Ti odio!- strillò, sempre più isterica, la mia sorellina.

-Ti avverto, piccola pervertita. Occhio a quello che dici- minacciò il tedesco.

“Mi misi in mezzo ai due, prendendo con forza e determinazione le spalle di Doriane, liberandola dall’uomo. La riportai in casa e quando lei si sedette, disperata e sfinita, su una sedia della cucina le rivolsi la parola con tanto di quel rancore nella voce da rimanerne basita io stessa.

-Vergognati, stupida ragazzina. Sei la macchia della nostra famiglia. Se ti vedo uscire di casa senza il mio permesso te ne darò tante da farti diventare livida. E lo dico perché ho il potere di farlo: ricordati la tua età.-

“Detto questo uscii di casa, chiudendo la porta a chiave. Mi incamminai nella direzione della campagna, verso il mio posto preferito. Una sottospecie di boschetto. A dire il vero non è giusto definirlo nemmeno così: qualche albero, vicino uno all’altro. Erano pochi, ma se si conoscevano bene era possibile nascondercisi, esattamente ciò che facevo quando sentivo il bisogno di solitudine. Non era molto distante dal mio paese, vi arrivai nel giro di una mezz’oretta e, come al mio solito mi addentrai nella piccola macchia vegetativa. Mi sedetti sul terriccio, tanto cosa importava se mi fossi sporcata, a casa non ci sarebbe stata mia madre a rimproverarmi. In pochi giorni ero divenuta pienamente responsabile di me stessa e di quella ingenua e alquanto poco furba di mia sorella che, nonostante tutto, amavo immensamente.

“Ero immersa nei miei pensieri, nei progetti che la mia mente cercava di organizzare, per rimanere occupata ed evitare di perdere la ragione. Per questo motivo sentii solo troppo tardi i passi degli stivali.

-Signorina Camille.-

-Signor Schulte.

-Mi sembrava di averle dato il permesso di chiamarmi Eberwolf.-

-Come lo ha dato a mia sorella?-

-Non ho promesso niente a sua sorella.-

-Ma non ha mai nemmeno smentito.-

“Lo fissai con arroganza. Fossimo stati in mezzo ad altre persone il mio comportamento sarebbe stato, senza dubbio, punito; ma lì eravamo soli e sembrava non essere interessato al mio atto di sfida. Detta francamente fossi stata nei suoi panni credo che non ci avrei fatto caso nemmeno io.

-Non ho interesse per Doriane.-

-Questo non cambia le cose- affermai.

-Io sono interessato a te, Camille- disse, inginocchiandosi davanti a me e prendendosi la libertà di darmi del tu.

“Non potevo crederci, ma che razza di uomo avevo davanti?

-Se ne vada. Ha rovinato la mia famiglia, non vedo come la sua dichiarazione possa toccarmi.-

-Ho rovinato la tua famiglia?-

-I miei genitori…mia sorella.-

-I tuoi genitori sono nemici della mia patria e tua sorella, bè ti stupiresti di quanto poco la conosci- scattò furioso Schulte. –Tu mi odi, ma proprio non ce n’è la ragione. Io ho fatto il mio dovere e se c’è qualcuno da biasimare quella è Doriane.-

-Come osa accusare mia sorella?-

“Lo aggredii, spingendolo lontano da me, quel tanto che bastava per rialzarmi.

Eberwolf Schulte era un ventisettenne ben addestrato, una spintarella da parte di una povera fanciulla non avrebbe potuto fargli effetto nemmeno se avesse voluto. Veloce si rialzò anche lui, utilizzando la mia spinta come slancio per mettersi in piedi e bloccarmi la strada.

-Mi faccia passare- gli ordinai, come se ne avessi realmente il potere.

-No, mi ascolti- disse recuperando la distanza formale del lei.

“Mi bloccò la faccia con le mani, obbligandomi a guardarlo e, per la prima volta da quando i tedeschi avevano occupato la Francia, lessi tristezza e stanchezza negli occhi di uno di loro. La stessa stanchezza e tristezza che avvelenavano le nostre vite: loro, almeno alcuni di loro, erano come noi. La pietà che provai durò meno di qualche istante, in fondo quello era l’uomo che aveva sedotto mia sorella e arrestato i miei genitori. Passata l’empatia, nacque la paura che quell’uomo volesse, come dire, approfondire il contatto fisico. Suppongo che capì, perché subito dopo mi lasciò il viso, rimanendo, però, dov’era impedendo il mio ritorno a casa.

-Crede che l’aggredirei? Crede che io voglia violentarla? Non ne ho l’intenzione; io sono un uomo non un vigliacco.-

-Lo credo perché si è già comportato male.-

- E’una menzogna, io non ho mai toccato Doriane. E’ lei che si è avvicinata a me, e per farlo mi ha venduto i vostri genitori.-

“Le parole gli uscirono tutto d’un fiato, senza una pausa, senza respirare, per questo impiegai qualche secondo per capire. Anche quando la mia testa recepì il messaggio e il suo significato non riuscii a trovare le parole per ribattere.

-Suppongo che non mi crede e a questo punto nemmeno mi importa. Io sono sinceramente interessato a lei e proprio per questo motivo ho fatto in modo che Anne e Baptiste Rolland ricevessero un trattamento di favore, ma nemmeno questo è più importante. Io sono il nemico- disse con amarezza.

-Non può aver avuto il potere di farlo. Lei è solo un Unterfeldwebel.-

-Eppure i signori Rolland sono vivi e in condizioni decenti.-

-Non le credo, non è nel vostro stile- mi ostinai a rifiutare.

-Come non lo dovrebbe essere il fatto che lei è ancora qui con tutti i vestiti addosso, giusto?- mi schernì. –Comunque domani partirò e, probabilmente, morirò. Morirò odiato da lei senza una vera motivazione, ma la perdono, perché, al contrario di quello che lei crede, io sono un essere umano.-

“Detto questo, mi girò le spalle e se ne andò. Non lo rividi più, come non rividi i miei genitori.

“Ritornai a casa sco0nvolta, come non lo ero mai stata. Il mio mondo era stato capovolto, le mie certezze erano crollate . L’unica cosa di cui ero certa eriche avrei cacciato Doriane; non avrei mai lasciato che vivesse nella casa di mamma e papà la loro piccola Giuda. Ma anche quel punto saldo crollò, a suo tempo. Ero davanti a casa mia, infilai la mano nella tasca ma, invece di estrarne la chiave, mi ritrovai a stringere una statuetta e un foglietto piegato.

Spero vivamente di essere riuscito a parlarti. Suppongo di averti raccontato tutto su Doriane e, se il mio istinto non mi ignora, credo che nel tuo cuore non ci sia spazio per il perdono, né per lei né per me. E’ proprio di questo che voglio parlarti, Camille. Noi siamo solo pedine. Io devo combattere e vivere (e morire) lontano da casa mia; voi dovete subire la presenza di un invasore, sebbene oramai sconfitto.

Non è una bella situazione, quindi perché peggiorarla odiandoci? Per me pazienza, ma quella è tua sorella.

Io non ho obblighi verso di lei, ma tu sì e, probabilmente, se tu non fossi stata così occupata ad adorare i tuoi genitori e loro stessi a complottare contro di noi, forse vi sareste accorti della mia presenza nella sua vita. Io ho fatto il mio dovere, mentre voi no, non nei confronti di una ragazzina inesperta e stupidina. Se foste stati più attenti io avrei perso la partita.

Come vedi nessuno può evitare il biasimo, ma penso che sarebbe meglio lasciare l’astio a sfere più in alto di noi.

Questa l’ho comprata da voi. Si chiama Sainte Vierge du Pardon. Immagino che tu capisca cosa voglia dire. Nonostante tutto e le circostanze non vi dimenticherò.

Era firmato Eberwolf Schulte.

 

 

 

 

 

Leuconoe: è sempre un piacere ricevere recensioni così ben articolate. Cosa dire? La tua interpretazione di Richard è a dir poco perfetta…non avrei potuto essere più chiara ed esauriente: hai fatto un quadro a dir poco perfetto del mio piccolo boss capellone. Sono contenta: sono convinta che hai una buona sensibilità nel percepire le sfumature, però a quanto pare sono stata brava a trasmetterle nel momento giusto. Nel modo più assoluto non hai sbagliato niente.

Per quanto riguarda questo capitolo, spero vivamente che non risulti noioso. Anche perché tocca un argomento per me molto importante (anzi due). Posso lanciarti una piccola sfida? Solo per giocare: prova ad indovinare quali sono…

Per il prossimo capitolo, invece, non posso dare delle grosse anticipazioni perché, per ora, esiste solo nella mia testa; ma la tua recensione mi è piaciuta talmente tanto che voglio dirti che mi ha ispirato il video “she wolf” di Shakira. Non tanto il senso della canzone, l’immagine di lei nella gabbia…la domanda sorge spontanea: chi finirà nella gabbia e chi ce lo/la metterà? J 

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Capitolo 14
*** TRAPPOLA ***


Nuova pagina 1

XIV° CAPITOLO

TRAPPOLA

 

Tra uomo e donna vince chi fugge…

Ma anche chi ingabbia

 

 

 

 Camille Rolland interruppe il suo racconto. Era difficile capire se fosse concluso o, se invece, ci fosse dell’altro; qualche cosa in più per cui l’anziana signora doveva prendere fiato, prima di proseguire. Tutto questo, però, non fu colto dal suo uditorio. Jack, con le braccia incrociate al petto, si guardava le ginocchia, mentre Savannah giocava distrattamente con le punte dei capelli del ragazzo. Del trio era impossibile stabilire chi e quanto stava ascoltando realmente; Satine era estremamente irritata dal trattamento che Camille stava ricevendo dai Predators. Con il sopraciglio destro alzato fulminò con i suoi occhi cristallini Richard, attirando la sua attenzione con una veloce ma insistente schiarimento di gola. Heart le sorrise con la sua solita espressione beffarda ma alla fine cambiò atteggiamento, annuendole accondiscendente:

“Mi dica signora, cosa fece quando aprì la porta?” chiese Richard.

La francese si portò una mano fremente alla fronte, se la accarezzò per un istante, come per togliersi un pensiero, ma non recuperò la serenità quando tornò ad alzare il volto.

“Quando aprii la porta mi ritrovai davanti al corpo appeso e senza vita della mia piccola Doriane.”

Savannah ebbe un sussulto nel sentire quelle parole. Camille si era interrotta nuovamente senza aggiungere altro; non disse che cosa le passò nel cuore e nella testa quando vide la sorella minore. Probabilmente solo Savannah poteva raggiungere una piena empatia con l’anziana signora, ma se anche gli altri avessero potuto comprendere completamente l’importanza di ciò che stavano ascoltando, sarebbe cambiato qualche cosa? Presumibilmente no.

Ci fu qualche attimo di silenzio, in cui i Predators si guardarono, immergendosi in una silenziosa discussione riguardante il da farsi con la statuetta. Dopo aver raccolto le mute opinioni di ciascun componente della sua squadra, Richard annuì.

“Che cosa ci chiede, signora?”

“Vorrei che consegnaste a me la Sainte Vierge du Pardon.”

“Gratis!” aggiunse Satine, sottolineando una cosa ovvia, ma che doveva essere precisata.

“E magari vorrebbe anche che la portassimo indietro nel tempo, per impedire il suicidio di Doriane” la schernì Asriel accentuando, il più possibile, l’accento tedesco.

“Tieni a bada i tuoi bastardi” ammonì Satine, rivolgendosi a Richard.

“Hei signorina” la interruppe Asriel. “Prima di pretendere rispetto, dovrebbe darne. Sono sempre e comunque più anziano di lei.”

Satine stava per rispondergli per le rime quando fu bloccata da un gesto della mano di Camille che le chiedeva silenzio.

“Allora signor Heart” disse la signora Rolland con una voce nuovamente posata e controllata. “Che cosa mi risponde?”

“Le dico che mi dispiace molto per tutto ciò che ha dovuto passare, ma non possiamo farci proprio nulla. Abbiamo una sola parola; forse è l’unico pregio che hanno i Predators, ma lo abbiamo: sono legato al mio impegno con il signore che mi ha commissionato il lavoro.”

Non aveva senso fermarsi ulteriormente in quella stanza, solo per dare a Satine la possibilità di fare una scenata e aggravare il dolore di Camille. Detto ciò che doveva dire, quindi, Richard si alzò dal divano dirigendosi verso l’uscita senza voltarsi, seguito dai suoi silenziosi sottoposti. Satine Chabrol, però, non fu molto d’accordo; dopo aver controllato che la sua cliente stesse bene seguì, con passo veloce ed energico, i Predators, raggiungendoli in strada. Satine non era una donna bassa, ma Richard la superava di una ventina di centimetri, nonostante questo, però, la francese era abbastanza infuriata da superare qualsiasi differenza di misura.

“Avevi promesso” lo accusò, urlandogli in faccia.

“Non credo proprio mia cara. Io avevo promesso che avrei ascoltato e, per giunta, avevo premesso che non sarebbe servito a niente.”

“Lei ha voluto far perdere tempo a tutti. A lei alla sua Camille Rolland e cosa ben peggiore a noi” si intromise Asriel. “Pensava veramente che fossimo dei pivelli e che sarebbe bastata una storiellina da quattro soldi strappa lacrime?”

Satine scoppiò, cominciando a gridare come un’ossessa contro il tedesco, fino a quando Richard non si parò in mezzo ai due. La donna, infuriata, alzò il pugno ingioiellato, pronta a picchiarlo contro il petto del Gallese. Si bloccò immediatamente, però, nel momento in cui vide gli altri quattro Predators circondare Richard, pronti a proteggere lui e fare del male a lei. Ma chi comanda i Predators non ha certo bisogno di essere difeso, per lo meno non da un avversario come Satine; veloce come un fulmine, Richard afferrò il polso rimasto alzato di Satine, facendo poi roteare il braccio dietro la schiena e intrappolando la donna tra le sue braccia in una morsa che non aveva nulla di affettuoso.

“Ragazzi, andate a farvi un giro, ok?” Non era tanto una domanda, anche se ne aveva la forma.

 

Come spesso accadeva i Predators trascorsero la serata separati. Richard la trascorse, non si sa dove, insieme a Satine. Savannah e Jack decisero di rimanere in hotel.

“E voi due che cosa fate?” chiese Jack, in realtà poco interessato alla risposta.

Asriel si girò verso Sheril.

“Io vado a bermi un aperitivo, poi deciderò. Vuoi venire con me?”

“No, grazie comunque dell’invito” rispose il tedesco. “Dopo oggi pomeriggio ho solo bisogno di una bella doccia per togliermi la puzza di vittimismo.”

 

Dopo essersi chiusa nella sua camera, Sheril ringraziò mentalmente che Asriel avesse rifiutato l’invito. Era troppo tempo che non stava un po’ da sola; la sua intenzione era quella di prepararsi per benino, fermarsi in un bar carino e vedere se riusciva a trovare un po’ di divertimento. Quando erano arrivati a Montpellier, esattamente come era sua abitudine fare, aveva disfatto la valigia riponendo tutta la sua robe dentro l’armadio. Con l’asciugamano che le avvolgeva il corpo ancora profumato dal bagno che aveva appena fatto, aprì le ante e dopo aver guardato un po’ in giro prese dei pantaloni di velluto nero, stretti in vita e a zampa d’elefante sulle gambe; al posto della cintura c’era un filo d’oro che dava un po’ di colore. Il top prescelto era dello stesso tessuto e dello stesso colore del pantalone, sagomato sul seno le fasciava morbidamente le curve invidiabili.

Tra le tante paia di scarpe che si era portata dietro, optò per un paio di decolté nere con la punta chiusa e il tacco a spillo dei soliti sei centimetri in oro. Per ornare il collo si allacciò un girocollo dal filo trasparente con un ciondolo di vetro nero che rappresentava lo stesso caduceo di Ermes che aveva tatuato sulla scapola destra. Alle orecchie lasciò le anelline in oro che aveva portato tutta la giornata, non aveva voglia di portare niente di più pesante ed elaborato.

Dopo essersi vestita andò in bagno dove accese le luci abbaglianti dello specchio che le illuminarono il viso, si guardò per un po’ controllando che nessuna imperfezione si fosse aggiunta sulla sua pelle, poi cominciò a truccarsi. Con l’eyeliner nero si tracciò una riga intorno agli occhi, pronunciandola un po’ di più sulla palpebra, aggiungendovi sopra una linea sottile di eyeliner oro per dare maggiore luce all’occhio. Per il resto della palpebra scelse la sfumatura del blu, arrabbiandosi, dopo un po’, perché l’occhio destro non era venuto come quello sinistro.

“Va bè” si disse tra sé e sé. “Io lo vedo perché lo so.”

Rossetto rosso e un po’ di phard sulle guance completarono l’opera.

Sheril si guardò studiandosi poi, soddisfatta, si fece l’occhiolino maliziosamente per poi ridere di gusto del suo gesto, mentre con la mano si tirò dietro l’orecchio il ciuffo dei capelli. Prima di uscire prese la sua pochette di paillettes nere e, finalmente si avviò verso l’inizio della sua serata. Alla reception si fece chiamare un taxi e, tanto che c’era, si fece consigliare un bel locale in cui una donna non accompagnata poteva divertirsi, senza, però, andare incontro a fastidiose scocciature.

 

Quando Sheril entrò nel locale, la prima cosa che fece fu quella di guardarsi intorno, scandagliando l’ambiente e le persone che lo occupavano. Non percepiva nulla di particolarmente negativo, ma nemmeno positivo. Questo significava che non c’era nessuno che si era alzato la mattina con l’intento di piantare grane, ma non vedeva nessun uomo di qualche significato. Con un sospiro si diresse al bancone; chissà, magari era solo troppo presto. Forse, dopo un aperitivo, sarebbe entrato dalla porta un’opportunità di divertimento.

“Cosa le posso servire?” le chiese una delle tante bariste a disposizione nel locale, una volta che Sheril si fu seduta su uno sgabello.

“Che cosa mi propone?” rispose Sheril.

“Vuole affidarsi a me?”

La donna si portò la mano alla bocca per coprire la risata.

“Non esageriamo” disse poi.

La barista sorrise, si voltò verso la bottiglia e, dopo un po’ di indecisione prese in mano una bottiglia.

“Noilly Prat. Ha una storia carina alle spalle. Potrebbe piacerle solo per questo.”

“Racconti” la incitò.

“All’inizio del XIX secolo padre e figlio, Joseph e Louis Noilly, cominciarono a produrre e vendere il primo vermouth dry francese. Louis aveva una figlia molto bella, dagli occhi scuri molto corteggiata dalla gioventù locale. Noilly, però, sospettava che i corteggiatori erano più interessati al denaro che alla figlia, così decise di mettere in giro la voce che chiunque desiderasse sposare la figlia, doveva prima lavorare nella sua agenzia vinicola. Qual’ era il problema, dirà lei: Louis Noilly si presentò come un datore di lavoro molto tosto. Ben presto la ragazza si ritrovò senza spasimanti .

“Un giorno, un viaggiatore di nome Claudius Prat arrivò a Marseillan, il piccolo paese portuale dove vivevano i Noilly, incontrò la pupilla della famiglia e se ne innamorò. Accettò le condizioni del padre di lei, dopo due anni i giovani si sposarono e, alla fine, suocero e genero fondarono una società.”

“Ritenta, sarai più fortunata” si limitò a commentare Sheril.

Non furono tanto le parole della cliente a deprimere la barista quanto la sua faccia inorridita.

“Non le piacciono le storie d’amore, signora?”

“Signorina. No, da almeno una quindicina di anni.”

“E’ rimasta scottata?”

“Già” disse sorridendo Sheril. “Ma tutto ciò che sono è merito di quella delusione. Non credo che mi sia rimasta tanto male, tutto sommato” affermò vanitosamente l’inglese indicandosi il busto con una mano.

“Ma non crede più nell’amore” tentò la barista.

Sheril guardò la ragazza. Non era arrabbiata con lei, in fondo era giovane e, nonostante la sua esperienza e il modo in cui vedeva il mondo maschile, non augurava tutto ciò a nessuno. Si limitò, quindi, a ripetere perentoria:

“Ritenta, sarai più fortunata!”

La barista prese il Noilly Prat e lo ripose al suo posto. La sua seconda scelta fu più veloce:

“Guignolet.”

“C’è una storia anche qui?” chiese beffarda Sheril.

“Non che io sappia” rispose cupa la barista.

“Così non mi convince a prenderlo.”

Con mosse stizzite la giovane donna prese un libro da sotto il bancone; lo sfogliò e si mise a leggere:

“Il Guignolet Marie Brizard, dal luminoso colore rosso ciliegia, ha un bouquet fresco e fruttato; il gusto è deliziosamente dolceamaro, il finale poco dolce è piuttosto persistente” concluse la barista con un sorrisetto finto dipinto sul volto.

“Aggiudicato” affermò Sheril, scimmiottando un venditore d’aste.

La ragazza prese un bicchiere, versò il Guignolet aggiungendovi, poi, del ghiaccio. Servì Sheril allontanandosi subito dopo, contenta di poter allontanarsi da quella scomoda cliente. Sorridente, Sheril cominciò ad assaporare l’aperitivo. Un paio di uomini le si avvicinarono ma, un po’ non era in vena, un po’ nessuno si dimostrò veramente interessante.

Stava per alzarsi e andarsene scoraggiata, quando un ragazza si appoggiò al bancone. Era giovane e bello; guardandolo Sheril aveva la sensazione di averlo già visto, ma non riuscì a capire fino a quando la barista, che l’aveva servita, non gli si avvicinò. Erano gemelli, o se non lo erano sicuramente fratello e sorella. Non riusciva a smettere di guardarlo tanto che lui se ne accorse e, voltandosi verso di lei, le sorrise.

“Michel, stai attento. E’ una donna senza amore” lo avvertì la sorella, provocando la risata di Sheril, per nulla infastidita da tanta impudenza.

“Ma cosa mi dici Jeanne? Non ci sono donne senza amore.”  

Michel e Sheril continuarono a guardarsi, contenti della piega che stava prendendo la serata.

“Questo perché non ne hai mai vista una.”

“E ora ne ho una davanti?”

“Puoi scommetterci.” Gli fece l’occhiolino.

“Davvero? Accetto, Jeanne che cosa hai servito alla signorina?”

“Guignolet.”

“Ne potresti portare altri due? Grazie sorella.”

Non furono solo due, nemmeno a testa. I due sconosciuti parlarono, risero, scherzarono. Lui la stuzzicava, a volte, anche ingenuamente e lei rispondeva senza farsi troppi problemi.

“Credo di aver bevuto abbastanza” disse ad un certo punto Sheril.

“Dici? Credo proprio che questo valga anche per me.”

“Scusa Jeanne, non è che mi chiameresti un taxi?”

All’inizio della serata Sheril non avrebbe mai potuto chiedere un favore alla barista, ma mentre le ore passavano la ragazza sembrava avesse recuperato un po’ di simpatia per l’inglese.

“Un taxi? Che brutta cosa” disse Michel. “Ti accompagno io.”

“Anche tu hai bevuto troppo” rispose Sheril con un sorriso, accarezzandogli con i polpastrelli la pelle del petto lasciata scoperta dalla camicia sbottonata.

“Ma Jeanne no, e fra un pochino finisce il turno.”

Sheril e Michel si girarono verso la francese, intenta a lucidare i calici.

“Va bene” disse semplicemente, alzando le mani.

“Andiamo fuori ad aspettarla, l’aria non potrà che farci bene” propose Michel alzandosi dallo sgabello e porgendo la mano alla compagnia della serata.

L’aria era piacevolmente fresca; Sheril sentiva le guance pizzicarle e, per proteggersi, si alzò il bavero del giubbino. Nonostante il venticello, la donna continuò a sentirsi strana: le girava la testa e anche le gambe minacciavano di cedere. Preoccupata che Michel se ne accorgesse e la trovasse sciocca e imbarazzante, lo guardò. Altro che accorgersi del suo stato, non la guardava nemmeno; era come se, tutto d’un tratto, lui non fosse più interessato. Non faceva altro che spostare lo sguardo intorno, improvvisamente serio e…per nulla ubriaco. Eppure avevano bevuto, più o meno, lo stesso numero di bicchieri, e lei non era Savannah. Lei l’alcool lo reggeva discretamente bene.

“Strano” affermò Sheril strizzando gli occhi nel tentativo di schiarirsi la vista.

“Cosa?”

“Pensandoci non ho bevuto così tanto.”

Michel si voltò verso la donna; il suo nuovo sorriso era inquietante. Non come quello che Sheril era abituata a vedere sul volto di Jack, ma molto simile. Una sola parola le balenò nella mente: assassino. Non era lucida e, ora lo sapeva per certo, non era dovuto a quanto aveva bevuto. Se fosse stato quello il motivo, avrebbe avuto un certo senso reagire e tentare di scappare, ma drogata senza sapere quale sostanza le avessero dato, non era molto furbo.

“Comunque non più di te” continuò.

Il corpo ciondolò tanto che Michel dovette prenderla tra le braccia per sostenerla.

“Per avermi non avevi bisogno di arrivare a tanto.”

“Lo so.”

Bene, almeno ora poteva togliere uno delle mille motivazioni plausibili.

“Posso almeno sapere come hai fatto?”

Non ci fu bisogno di una risposta perché in quel momento comparve Jeanne che la salutò:

“Salve donna senza amore.” Aveva la stessa espressione di Michel, erano decisamente gemelli.

Fu l’ultima cosa che sentì e che vide, prima di perdere i sensi.

 

Sheril sentì le palpebre pesanti come macigni; si concentrò sui suoi arti, accorgendosi che erano liberi.

“Grosso, grosso errore” disse fra sé ridendosela fra i baffi per la negligenza commessa dai suoi rapitori.

Si sfregò gli occhi con le dita, infastidita al pensiero del trucco sbavato:

“MI pagheranno anche questa” giurò a sé stessa con un ringhio.

Fu un brutto colpo accorgersi, una volta aperti gli occhi, che nessuno aveva commesso la stupidata di sottovalutarla. L’avevano rinchiusa. Guardò in alto infuriandosi maggiormente nel constatare che era stata imprigionata in una gabbia alta appena un metro; in questo modo le impedivano la gran parte dei movimenti e tolto una qualsiasi possibilità di fuga. Non è che poteva escogitare molto gattonando di qua e di là come una tigre inferocita:

“Suppongo che, ora, daresti tutta te stessa per un principe azzurro che ti salvi.”

Sheril si voltò e vide Michel appoggiato al muro, il bel volto estremamente divertito.

La donna lo fulminò. Tese i muscoli come se volesse balzare addosso all’uomo, cosa che avrebbe fatto molto volentieri se non ci fossero state le sbarre a proteggerlo.

“Appena esco di qui, ti strapperò quel tuo cuore ricolmo d’amore.”

 

 

Dracontessa: ecco la mia crucca mancata preferita!!! J Sono contenta che ti sia piaciuto il cap. precedente; effettivamente pensavo un po’ a te mentre lo scrivevo. All’inizio Eber (come lo hai chiamato tu…bello cinghialone mio) doveva essere molto più simile a Wilhelm, nel senso che avevo previsto una violenza poi, però, ho pensato alla mia visione dei tedeschi. Io credo che una parte facevano il loro dovere, non erano tutti dei sadici mostri…

Leuconoe:partendo dalla piccola sfida che ti ho lanciato ci hai azzeccato in pieno! Come ho scritto nella risposta precedente avevo programmato una violenza sessuale ad opera del bel tedesco, poi, mentre scrivevo Eberwolf mi ha parlato (sì, lo ammetto i miei personaggi mi parlano di tanto in tanto…sono un po’ matta lo so J ) “ma perché devo essere un animale…io sono un soldato dell’esercito regolare tedesco, non uno stupratore” Aveva ragione. Almeno così la penso io

Come sempre le tue recensioni mi fanno un gran piacere e mi danno la carica giusta ogni volta, quindi spero che la storia continui a piacerti. Ritornando un attimino alla sfida: l’ho fatto perché mi piace avere un dialogo con chi legge le mie ff, soprattutto se si dimostrano aperte come te, quindi ANCORA GRAZIE!!!

 

PER TUTTI I LETTORI DI “PREDATORS”: GRAZIE A TUTTI, BUON NATALE E FELICE ANNO NUOVO  

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Capitolo 15
*** BANG BANG ***


Nuova pagina 1

XV CAPITOLO

BANG BANG

 

*In fin dei conti dobbiamo tutti morire.

Purtroppo non possiamo scegliere in che modo ma,

possiamo decidere come andare incontro alla fine,

per poter essere ricordati

da uomini

 

 

Sheril era sdraiata sulla schiena; i piedi appoggiati alla gabbia, uno davanti all’altro, come un’equilibrista da circo che cammina su un filo, sospeso nel vuoto. L’incavo del braccio destro copriva gli occhi, mentre quello sinistro era disteso perpendicolarmente al suo corpo. Sembrava tranquilla e serena, il respiro era profondo e regolare, come se stesse dormendo. I gemelli Michel e Jeanne non si fecero ingannare: i Chiens Jemeaux, così erano chiamati nell’ambiente, non erano novellini a dispetto della loro età; per quanto la situazione si fosse risolta a loro vantaggio, non avevano intenzione di sottovalutare la loro prigioniera.

“Basta, vado fuori a fumarmi una sigaretta” disse a un tratto Jeanne.

Michel le rivolse un accenno di sorriso come consenso ritornando, poi, a guardare il corpo quasi immobile della donna chiusa in gabbia; la scena aveva un non so che di erotico. Come tutte le cose pericolose eccitavano la sua fantasia  da racconta storie mancato,era questo il talento del maschio dei Chiens Jemeaux. Quando gli commissionavano un omicidio, passava giorni e giorni a studiare la sua vittima, non passava all’azione fino tanto che la sua immaginazione non veniva stuzzicata da un’idea spettacolare. I suoi lavori erano, in certo senso, artistici, ma il cliente non doveva avere fretta. Fortunatamente, lavorava con lui la sorella, notevolmente più pratica di quanto fosse Michel; di fatto, era stato commissionato a lei il rapimento. Commissione, organizzazione, azione: così lavorava Jeanne e così era andata anche quella volta. Michel aveva trovato noioso il piano della gemella ma, ora, le cose stavano cambiando.

Vedeva quel corpo lungo, indiscutibilmente di donna, mostrarsi a lui come se fosse nudo. I vestiti attillati gli facilitavano il divertimento; i pantaloni e il top neri fasciavano Sheril come una seconda pelle, mettendo in mostra le sue rotondità, anche quell’accenno di pancia che a Michel non dispiaceva affatto.

“Sai, stavo pensando che sarebbe stato tutto molto divertente se la tua e la mia posizione fossero state diverse” cominciò Michel, una volta che non udì più i passi della sorella riecheggiare sulle scale. “Però, potrebbe esserlo realmente se tu collaborassi.”

Sheril non rispose, nonostante stesse ascoltando, non riteneva necessario parlare.

Michel cominciò ad accarezzare le sbarre, camminando intorno alla gabbia, fermandosi davanti ai piedi della donna.

“Mi piacerebbe raggiungerti sai? Però, data la tua ultima frase, non credo sarebbe molto saggio, per me, entrare lì dentro.”

Anche questa volta la donna non rispose, si limitò a stirare le labbra, in un sorriso che diede ragione all’ipotesi del francese.

“Peccato.”

“Mi dici il suo nome?” chiese Sheril senza cambiare posizione.

“Il nome di chi?”

“John Doe.”

“Ah si è fatto chiamare così?”

Silenzio.

“Non si è mai presentato nemmeno a noi. Ci hanno contattato due italiane qualche anno fa, proponendoci una specie di contratto. Avremmo dovuto considerare il loro datore di lavoro come un nostro cliente speciale cui avremmo dovuto dare, sempre e comunque, la precedenza. In cambio ci avrebbero garantito un piccolo stipendio tutti i mesi e i veri soldi ogni volta che ci avrebbe chiamato. Io non ero molto convinto, non mi piace essere dipendente di qualcuno, se fossi stato quel tipo di uomo, mi sarei messo a fare il banchiere o qualche cosa del genere. Però Jeanne mi disse che era stanca di andare in giro a cercare i clienti, per lei era umiliante.”

“Ma che storia triste” commentò ironica la donna. “Scusa il mio cinismo, ma noi che cosa centriamo?”

“Ci hanno chiamato, dovevamo tenervi d’occhio. Quando vi abbiamo visto entrare dalla signora Rolland abbiamo avvisato il nostro cliente speciale.”

“E?”

“Ci hanno detto di comportarci di conseguenza.”
“Conseguenza a cosa?” Sheril cominciava a diventare veramente esasperata.

“Al tradimento!”

“Tradito? Cosa?” chiese Sheril, alzandosi velocemente in ginocchio, finalmente interessata al discorso.

“Avete consegnato il Trojan alla vecchia.”

“No!” urlò Sheril rabbiosa per la situazione che si stava mostrando nella sua totale stupidità.

“Allora avete intenzione di consegnarglielo” tentò incerto Michel corrugando la fronte.

“IMBECILLI! Noi abbiamo rifiutato la richiesta di Camille Rolland.”

“Oh.”  Per un attimo l’uomo rimase senza parole. Fu solo qualche secondo d’indecisione, poi la sua faccia si aprì in un’espressione luminosa.

“Allora la situazione è risolta. Chiameremo Richard, spiegheremo la situazione e, magari, quando avrete consegnato il Trojan, ci faremo una bevuta in allegria tutti insieme.”

“Sei bello quanto scemo. Credi che sarà così facile, ora?” disse Sheril puntando gli occhi marrone chiaro su volto del suo rapitore e indicandosi intorno con gli indici, per segnare le sbarre. “Avreste dovuto pensarci prima di sparare sentenze.”

Mai verbo fu più appropriato di quello in quel momento. Appena l’inglese chiuse la bocca il rumore di spari cominciò a rimbombare, giungendo fino alla stanza dove si trovavano Sheril e Michel.

“Ma come cavolo hanno fatto?”

“La borsetta. L’avete tenuta non è vero?” chiese Sheril come risposta. “Pessimo errore. Davvero pessimo errore, pivelli!”

Michel arricciò le labbra, mostrando i denti in un ringhio che aveva poco di umano. Sputò un’imprecazione, mentre con i palmi delle mani colpì le sbarre della gabbia. Prese qualche altro secondo per guardare Sheril; era furioso. Quella donna doveva essere nelle sue mani, spaventata per l’incertezza del suo immediato futuro; e, invece era lì, che lo guardava con tanta impudenza che Michel le avrebbe volentieri cavato gli occhi. Senza indugiare oltre, il francese voltò le spalle alla gabbia, dirigendosi verso la porta e chiudendosela alle spalle con violenza.

 

Sheril si era sbagliata: Michel dei Chiens Jemeaux non assomigliava per nulla a Jack dei Predators. Il primo era un artista, per lo meno si riteneva tale; spendeva settimane a volte anche mesi a fantasticare, giocare con le immagini, fino a quando non trovava quella giusta. Poi, però, come la sorella Jeanne amava la perfezione nell’esecuzione del suo piano artistico. A volte, se l’assassinio era particolarmente ambizioso, si esercitava su altre persone. Tale era la sua insofferenza nei confronti di ogni più piccola falla.

Jack, invece, era un sangue latino, passionale e istintivo. Non si preparava mai, non aveva mai fatto i compiti a casa studiando le sue vittime, anche perché, con i Predators, non avrebbe avuto l’occasione di farlo. Per questo aveva accettato la proposta di Richard: l’imprevedibilità che gli aveva garantito quell’uomo era ciò che lo eccitava di più al mondo. Quando lavorava, anche se è più corretto dire quando si divertiva, il suo animo era sempre invaso da uno stato di attesa. Che cosa gli avrebbe riservato il secondo successivo? Morte di sicuro, ma per chi?

 

“Finalmente sono riuscito a raggiungerti. Ci abbiamo messo un pochino ma, alla fine, siamo riusciti a spingere il ragazzo al piano superiore” disse Asriel dopo aver infilato la testa nella stanza.

“Dove sono gli altri?”

“Perché non li senti?”

“Noi non usiamo mai le armi da fuoco” fece notare Sheril.

Asriel le mostrò la pistola che aveva in mano:

“Quasi mai. E, comunque, nessuno di noi è mai stato rapito.”

Il tedesco cominciò ad armeggiare con la serratura del lucchetto.

“Ce la fai?”

“Ma che domande sono? Ovvio che ce la faccio. La domanda sarebbe come tu ti sia potuta far fregare da degli inetti. Però, penso proprio che non te la porrò.”

“Gentile” sospirò Sheril.

“Piuttosto, è stata una fortuna che il receptionist aveva un’aria strana.”

“Non capisco.”

Asriel sorrise, poi cominciò a raccontare mentre lavorava:

“Stavamo mangiando quando Richard ritornò in hotel. Siamo rimasti un po’ al ristorante a parlare, in special modo di lui e di Satine…”

“Va bene, va bene. Vedi di stringere i tempi della narrazione.”

Asriel sbuffò.

“Ok, stai calma. Insomma in definitiva, stavamo andando verso l’ascensore, quando Savannah notò che il receptionist ci guardava in maniera strana. Ha tirato una manica a Richard facendogli segno di guardare il ragazzo. Lo abbiamo, per così dire, prelevato dalla sua postazione e bè conosci le capacità di persuasione di Jack” finì Asriel con un sorriso divertito. 

“Allora vogliamo darci una mossa? Qui fuori la situazione è tutt’altro che divertente.” La testa bionda di Savannah sbucò dalla porta, ma subito la voce gioviale di Jack contraddisse la compagna:

 “Parla per te piccola. Io mi stò divertendo come non mai.”

Il lucchetto scattò; Sheril uscì velocemente dalla gabbia, raggiungendo i compagni rimasti fuori dalla stanza. Si trovavano su un pianerottolo da cui partivano due scale, una che portava al piano superiore e, l’altro a quello inferiore; i proiettili arrivavano da entrambe le direzioni.

“Felice di vederti” sorrise Sheril a Richard mentre quest’ultimo le porgeva un’arma.

“Non la so usare tanto bene.”

“Allora siamo in due” sghignazzò Jack aggiungendo un urlo alla cowboy.

“Smettila di fare l’idiota e pensa a riportare il culo a casa con me” lo rimproverò Savannah.

“Va bene, ora basta. Mi sono proprio stancato di questa situazione di merda” esplose stizzito Richard dopo un po’. “Voglio uscire da questa scala. Mettete in moto i cervelli.”

“Non c’è molta scelta. Giù c’è la ragazza, mentre in alto il fratello. Direi di aspettare, quando lei si fermerà per ricaricare corriamo giù per le scale, mentre teniamo occupato Mr simpatia scaricandogli addosso il caricatore” propose Sheril.

“Suicidio. Gran bel piano” commentò Richard.

“A me piace” si intromise Jack.

“Quindi, ora, la proposta mi piace ancora meno!”

“Se nessuno propone qualche cosa di meglio, tanto vale muoverci” disse Asriel, prendendo la parte della gallese.

“Va bene” sospirò Richard. “Jack tendi l’udito” ordinò.

Il latino si ritirò al riparo; fissò lo sguardo smeraldino su un punto impreciso davanti a sé. Era importante che gli altri sensi non interferissero nella percezione delle sue orecchie, ma chiudere le palpebre no, non lo avrebbe mai fatto.

“Ora!” urlò scagliandosi verso le scale e portandosi dietro Savannah.

Entrambi alzarono il braccio in cui avevano la pistola, puntarono e spararono verso una persona di cui non avevano mai visto nemmeno il viso. Non c’era nulla di personale e, quindi, i tratti somatici, non erano un dettaglio indispensabile. Furono seguiti dagli altri tre che si comportarono allo stesso modo, mentre i due più giovani avevano già raggiunto Jeanne.

“Non uccidetela” ordinò loro Sheril.

I Predators si girarono verso di lei, stupiti.

“Voglio farlo io. Lei è MIA.”

Per le scale cominciarono a risuonare i passi affrettati di Michel che accorreva per salvare la gemella. Sheril tese il braccio destro puntando direttamente in mezzo agli occhi della ragazza. I Predators cominciarono a indietreggiare di qualche passo solo Asriel rimase vicino alla collega, pronto a qualsiasi eventualità.

“Muoviti Sheril.”

Richard non era preoccupato per il ragazzo che stava per arrivare, bensì delle sirene della polizia che cominciarono a farsi sentire in lontananza. Il rumore degli spari non era ovviamente passato inosservato e, qualcuno, aveva avvisato le forze dell’ordine; non avevano più tanto tempo a disposizione.

Sheril non ubbidì. Voleva aspettare ambedue i suoi rapitori, dolce era la vendetta nei suoi pensieri. Si comportò come una ragazzina, si fece distrarre dall’idea delle facce simili dei Chiens Jemeaux prima distorte dal dolore, poi incoscienti e alla fine fredde per la morte. Accecata dalla vendetta, vide troppo tardi il movimento repentino di Jeanne che si portò la mano dietro la schiena, tirando fuori da una fondina posta lì, una seconda pistola.

Tutto successe a una velocità impressionante. Asriel, il più vicino a Sheril, si scagliò con tutto il suo peso sulla collega, mentre due proiettili furono sputati fuori dalle rispettive canne. Jeanne aveva mirato Sheril, mancandola a causa dell’intervento di Asriel; il secondo grilletto fu premuto da Jack che colpì la femmina dei Chiens in pieno stomaco, facendola accasciare sul pavimento. In quel momento si affacciò il viso preoccupato di Michel, voleva raggiungere la sorella e portarla via; probabilmente non avrebbe nemmeno guardato i Predators, ma essi non glielo permisero. Richard, Jack e Savannah cominciarono a sparargli addosso, colpendolo ad una gamba.

“Lo finiamo?” chiese Jack speranzoso.

“Non credo che ce ne sia il bisogno” rispose Richard

“Le abbiamo ammazzato la sorella. Ci cercherà.”

“Se sopravvive, cosa non del tutto scontata.”

 “Io ce la farei.”

Questo fu l’ultima frase che Michel riuscì a sentire.

 

La prima cosa che Sheril percepì, appena la sua testa ricominciò a funzionare, dopo il blackout dovuto alla confusione del momento, durata qualche attimo, fu che non provava dolore; quindi o era morta o non era ferita. Sentiva, però, il peso del corpo di Asriel sul suo, automaticamente l’ipotesi più plausibile era la seconda.

“Asriel spostati. Non riesco ad alzarmi.”

Al suo orecchio arrivò un debole lamento. Ed ecco la terza cosa che percepì del proprio corpo, l’umidità e un senso di appiccicaticcio. Con fatica liberò una mano e, quando se la portò davanti agli occhi, vide che era rossa.

Richard arrivò in quel momento liberando la donna, ruotando il corpo di Asriel e appoggiandoselo contro.

“E’ ferito?” chiese Sheril senza ottenere risposta.

Jack s’inginocchiò davanti ad Asriel e a Richard; come un prestigiatore fece scivolare un pugnale giù per la manica, tagliando con questo il maglione del ferito.

“Zampilla” disse semplicemente, riferendosi al sangue rosso vivo che fuoriusciva.

“Stronzo. Sei sempre così bravo e veloce a uccidere. Com’è che quando si tratta di salvare la mia pelle diventi una lumaca?” chiese Asriel sdrammatizzando.

Era tranquillo, il respiro, ancora regolare, gli permetteva di parlare senza problemi, fatta eccezione per le fitte di dolore.

“Dovremmo darci una mossa Richard” consigliò Savannah che si era messa all’ingresso per controllare l’ormai immediato arrivo dei poliziotti.

“Coraggio Jack, aiutami a metterlo in piedi. Dobbiamo portarlo via.”

“Stai scherzano, vero signor Heart? Il sangue zampilla, mi ha preso un’arteria. Non ci metterò molto ad andare in shock ipovolemico.”

“Ti puoi salvare lo stesso, l’importante è che ci diamo una mossa.”

“E cosa mi vuoi fare? Mi porti in ospedale e poi? Sai sarebbe divertente vedere le scuse che ti inventerai.”

Asriel cominciava a fare sempre più fatica a respirare e a parlare; trovava indispensabile, però, convincere il suo capo a lasciarlo lì.

“Richard” chiamò nuovamente Savannah, sempre più scalpitante e nervosa.

“Vattene!”

“Io do gli ordini.”

“Ora come ora con i tuoi ordini mi ci pulisco … non posso continuare in presenza di due signore. Però hai capito.”

“Richard, ha ragione lui.”

Qualche ciocca dei capelli ricci di Richard sfuggì dall’elastico, finendo sulla sua faccia e coprendo la sua espressione. L’aria si riempì del silenzio dei Predators e dell’odore di sangue.

 

*Il Gladiatore (Proximo)

 

Per tutti: vorrei dedicare questo capitolo alla mia tata Dracontessa che quest’anno mi ha fatto un gran bel regalo di compleanno disegnando proprio loro: Richard Heart; Sheril Water; Asriel Stern; Joaquin (Jack) Salvador e Savannah Runner. Non ho potuto fare a meno di metterli su facebook, non avendo un blog tutto mio. E’ una cosa troppo bella vedere i propri bambini delineati anche solo su carta…

La seconda cosa da comunicare è che, finalmente ho i finali… ebbene sì: finali. In generale ce ne saranno uno per personaggio, fatta eccezione per Savannah e Jack che saranno insieme.  Non aggiungo altro, solo che avendo, finalmente, un’idea di come andrà questa ff sono molto elettrizzata!!!

 

Leuconoe: parto ringraziandoti per i complimenti e non ti preoccupare per la recensione “in ritardo”, ti capisco. Sono anche io sotto esame; un esame fra l’altro che non c’entra nulla con la mia facoltà. Puoi immaginare quanta voglia io abbia di farlo.

Passando al capitolo precedente: ero un po’ preoccupata perché pensavo che sarebbe balzato subito all’occhio il ruolo dei due gemellini. Quindi sono contenta che tu mi abbia detto che non te lo aspettavi e che hai accantonato i sospetti su Michel quando hai scoperto essere il gemello di Jeanne.     

Per quanto riguarda il discorso sull’amore di Sheril, posso solamente dirti che scoprirai alla fine quanto realmente lei creda a questa filosofia. A sua discolpa posso dire che quando prendi una bella fregatura, soprattutto ad una certa età, rimane dentro e la ferita non guarisce fino a quando non trovi qualcuno che ti faccia cambiare idea. Però non aggiungo altro, anzi ho paura di aver detto anche troppo.

Grazie ancora per le tue recensioni, alla prossima

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Capitolo 16
*** RABBIA E VENDETTA ***


Nuova pagina 1

XVI CAPITOLO

RABBIA E VENDETTA

 

 (*) Ma in quel momento la Vendetta mi prese sotto la sua ala e io la riconobbi e appresi all’istante la sua lezione.

Era lei che volevo; era lei che mi avrebbe impedito, da allora in poi, di sentirmi un’ombra vivente.

 

 

Quando il proiettile raggiunge il bersaglio, determina un effetto contusivo, spingendo verso l’interno la pelle. La ferita si presenta all’esterno come un foro con i margini sfrangiati; prima di entrare, il proiettile, provoca nella cute un orletto di escoriazioni di colore rosso nerastro, di forma ovoidale nel caso il colpo sia obliquo. Se il proiettile non incontra nessun tipo di resistenza, esce dal corpo; il nuovo foro, quello di uscita, non ha le escoriazioni come il primo. L’onda d’urto impressa ai liquidi può determinare lo scoppio degli organi.

Questo è ciò che subì il corpo di Asriel Stern, cinquantasei anni alla sua morte.

 

I Predators tornarono in hotel che erano passate le tre del mattino. Senza dire una parola si rifugiarono tutti quanti nella stanza di Richard, che si andò a sedere sul bordo del suo letto. Si sciolse i capelli con un movimento di stizza, lasciando che i ricci si sparpagliassero come volessero, liberamente. Rimase in silenzio, con i gomiti appoggiati alle ginocchia e le mani che gli coprivano il volto stanco e sofferente.

Il gruppo era riuscito ad evitare la polizia solo per un soffio, trascinando di peso e con forza il loro capo, che non sembrava avere alcuna intenzione di lasciare in quella casa, il corpo di uno dei suoi uomini, morente e sanguinate.

“Mi dispiace” disse Sheril colpevole, rompendo il silenzio.

“E fai bene!” tuonò Richard, alzandosi di scatto e avvicinandosi pericolosamente al suo braccio destro.

Prontamente, Jack, si frappose tra i due, bloccando l’avanzata, tutt’altro che rassicurante, dell’uomo; non osò però respingerlo con troppa forza.

“Ma si può sapere che cosa sei? Una ragazzina in preda ad una tempesta ormonale? Sei solo una cagna in calore. Guarda che cosa ci ha portato la tua filosofia di usare tutti gli uomini come giocattolini erotici.”

“Non l’ho ucciso io” strillò Sheril.

Furioso più che mai, Richard si approfittò dei diciotto centimetri in più, che aveva rispetto a Jack, per scansarlo da una parte; senza ostacoli riuscì ad afferrare la gola di Sheril con una mano.

“Non fa alcuna differenza se hai premuto tu il grilletto o no.”

Non furono azioni volontarie e nemmeno ragionate; puro e semplice istinto di sopravvivenza.

Sheril prese, con la propria mano destra, quella di Richard; gliela torse, in modo che le dita dell’uomo, che a onor del vero non stava stringendo più di tanto, si staccassero dalla gola. Colpì, poi, due volte il volto del suo connazionale con il gomito sinistro e, solo per completare la manovra, riprese il polso destro con la sinistra e, afferrando la nuca di Richard, abbassò la sua testa colpendogli il volto con una ginocchiata. Sbagliò la mira o, forse, lo fece apposta, comunque sia, invece di colpire il naso, il ginocchio di Sheril cozzò contro la fronte del suo aggressore, facendolo rimbalzare indietro.

Sorpreso, più che dolorante, Richard scosse la testa. Si asciugò un rivolino di sangue che gli usciva dalla bocca con le nocche che leccò mentre puntava furente la donna. Appoggiandosi al letto, fece per rialzarsi, con il chiaro tentativo di ritornare alla carica, ma questa volta Jack fu più deciso nel placcarlo. Aspettò che si alzasse per buttarsi addosso a lui, bloccandolo al materasso con il suo peso e impedendogli qualsiasi movimento.

“Basta Richard. Controllati” lo supplicò.

Suonò il telefono fisso della camera; Savannah alzò la cornetta mentre Richard si dibatteva come poteva.

“Certo, certo” disse la ragazza per risposta alla cornetta, riagganciandola. “Sono quelli dell’hotel. I vicini si stanno lamentando del baccano.”

“CHE POSSINO CREPARE PURE LORO!” urlò Richard impazzito. “Non è un problema; ci penso io con le mie mani.”

“Richard, torna in te.”

Ma il capo dei Predators non aveva alcuna intenzione di riprendersi. Jack fu così costretto a riprendere in mano il pugnale, ancora sporco del sangue di Asriel; lo puntò alla gola di Richard che si bloccò all’istante al contatto con il gelo della lama. Anche quello fu istinto di sopravvivenza. Il dolore poteva anche avergli annebbiato il cervello, ma non tanto da fargli dubitare che Jack avrebbe esitato. Lui lo sapeva, era stato lui ad assumerlo.

“Vai fuori di qua, Sheril” ordinò Jack al suo superiore.

 

“Pronto?”

“Sai qualche cosa?”

“A cosa ti riferisci?”

“Voglio sapere chi è il John Doe”

“Cosa ti fa pensare che io lo sappia o che te lo voglia dire?”

Silenzio.

Sospiro. “Come stai?”

Silenzio.

“Richard, sei ancora lì?”

“Sì, sono ancora qui Satine.”

“Ti sento stanco.”

“Lo sono.”

“Ti spedirò tutto quello che so domani mattina per e-mail.”

“Se sopravvivo, ti prometto che porterò il Trojan alla signora Rolland.”

“Cos’hai in mente?”

“Non fare domande. Conosci le regole: meno sai meglio è per entrambi.”
“Pensi che ne valga la pena?”

“Ha  fatto uccidere Asriel. Direi proprio di sì.”

Silenzio.

“E poi o lui o noi. In questa storia non c’è via di uscita.”

“Posso fare altro per te?”

“Puoi mettere in moto le tue conoscenze e far portare Asriel in Germania?”

“Pensavo che volessi andare in Italia per vendicarlo. Non potrai essere in due posti diversi contemporaneamente.”

“Non andrò al suo funerale. Non posso espormi dato il modo in cui è morto. Prova a metterti in contatto con la sua famiglia, credo che gli sia rimasto qualche parente in un posto o nell’altro. Se ne occuperanno loro.”

“E se non vogliono spendere soldi?”

“Digli che ci penserai tu. Ovviamente ti rimborserò”

“Va bene, però voglio una cosa in cambio.”

“Ti ho già promesso il Trojan.”

“No. Voglio che ritorni, vivo.”

 

 

(*) “La leggenda di Otori” Lian Hearn

 

 

Comunicazioni o spiegazioni o dir si voglia: era da parecchio che non scrivevo un capitolo di una ff così corto, quindi urge una spiegazione. A dire tutta la verità ho impiegato un po’ di tempo per mettere insieme queste due pagine (neanche). Per la precisione in due tirate: prima il litigio e poi la telefonata tra Richard e Satine. Sono abbastanza soddisfatta per la prima parte perché mi da una base per i finali di cui vi ho anticipato il capitolo precedente credo; la seconda perché mostra una parte indifesa di Richard che poteva venire fuori solamente con il suo vecchio amore. Nonostante tutto ciò sia assolutamente positivo, almeno per me (non so per voi?) la verità è che sono stata praticamente costretta a scriverlo per collegare il periodo in Francia con quello dell’Italia; e credo che sia sufficiente così. Potevo andare diretta,  però ho preferito scrivere questo capitolo di passaggio, se avrò fatto bene o no stà a voi dirmelo.

 Altro piccolo problema sarà la tempestività con cui scriverò i prossimi capitoli. Il problema è che non riesco a smettere di pensare ai finali separati, perciò tutto dipenderà da quanto sarò brava a concentrarmi.

Chiedo nuovamente scusa per la lunghezza di questo capitolo, spero che nessuno ne rimanga deluso.

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Capitolo 17
*** BLQ ***


Nuova pagina 2

XVII CAPITOLO

BLQ

 

Trova l’ombra di Hitchcock

 

 

 

BLQ era l’autobus che portò i Predators, dall’aeroporto, alla stazione dei treni di Bologna. Dentro le mura della città sono concentrate le sedi universitarie, era quindi normale che, in ogni angolo in cui lo sguardo del gruppo si posava, non vedessero altro che studenti, più o meno giovani, intenti nelle loro chiacchiere, accademiche e non; le stesse persone affollavano il treno diretto a Piacenza. Sheril, Jack e Savannah si accomodarono vicino ad una ragazza mora con il viso nascosto dietro ad un libro grigio con la foto di un’attrice in copertina.

“Ingrid Bergman” disse Sheril guardando la biografia della diva che l’universitaria stava leggendo.

Sentendo nominare l’oggetto dei propri studi, da un accento particolare, il volto della ragazza fece capolino da dietro le pagine, guardò la copertina e poi, rivolgendosi alla donna che aveva parlato, le regalò un sorriso. Era una di quelle persone che, si suole dire, sorridano anche con gli occhi, socchiudendo le palpebre e nascondendo il proprio sguardo marrone. Poi, come se non avesse mai sentito nulla, ritornò ad immergersi nei propri studi.

Da Bologna a Modena, il viaggio non è troppo lungo; una quarantina di minuti sarebbero più che sufficienti anche con la fermata a Castelfranco Emilia. Il problema è che, il treno regionale non è uno dei mezzi più confortevoli che vi siano a disposizione e, sicuramente, non è uno dei più puntuali. Quando, poi, si deve prendere una coincidenza, ogni secondo di ritardo sembra un’eternità. E pensare che c’è gente che passa ore intere della propria giornata sui treni: pendolari, categoria maltrattata.

Quando dal finestrino spuntò la Maserati, la ragazza chiuse il suo libro mettendolo dentro lo zaino e, alzandosi bofonchiò una qualche scusa e permesso per poter passare in mezzo ai tre sconosciuti, avviandosi poi verso la fine del vagone.

“Andiamo ragazzi. Siamo arrivati” disse Richard spuntando alle spalle di Jack.

I tre si alzarono e si diressero anche loro verso l’uscita scorrevole.

Gente ammassata come un gregge di pecore, ognuno con il proprio odore; una situazione da panico durante l’estate, quando il calore della temperatura aumenta la secrezione della pelle. Il treno entrò nella stazione di Modena, fermandosi sul binario uno; la porta cominciò ad aprirsi con una lentezza snervante, mentre le persone impazienti scalpitavano. In prima fila la ragazza del libro che lanciava occhiate preoccupate di là del finestrino nella direzione di un secondo convoglio a due vagoni. I Predators non avevano fretta, la loro fermata era Modena, per loro fortuna.

 

Ecco un ennesimo albergo, questa volta, però, lo avevano scelto un poco più modesto, rispetto ai precedenti. Oramai era chiaro che, da quel lavoro, non avrebbero guadagnato nulla, se non l’anticipo che le due ragazze avevano portato con loro.

“Domani mattina ci procureremo un macchina. La villa del nostro amico, il signor John Doe, si trova nella campagna dei dintorni. Ragazzi, voglio un lavoro pulito. Entriamo, uccidiamo lo stronzo ed eventualmente ogni figlio di puttana che si mette in mezzo. Se riuscite a prendere qualcosa di valore tanto meglio, ma non perdete tempo a cercare. Voglio tornare a casa.”

Queste furono le uniche direttive di Richard, prima che si isolasse nella sua stanza. Quanto male faceva vederlo in quello stato; triste e sconsolato in ogni cosa che diceva, in ogni espressione che il suo viso, altrimenti sempre allegro, assumeva. Cambiava solamente quando era costretto a rivolgersi a Sheril; in quel caso i suoi occhi si riempivano di astio e biasimo, persino la sua bocca assumeva una smorfia di disprezzo nei confronti della sottoposta.

 

Perché mai esistono le porte? Basta poco per sfondarle, soprattutto se sono vecchie. Jack si trovava proprio davanti a quella che celava l’ufficio dell’uomo che, sebbene ancora non lo sapesse, era morto. Ai lati c’erano Richard e Sheril armati e tesi come due corde di violino. Savannah, invece, si trovava dietro le spalle del compagno, pronta per ogni evenienza. Ad un cenno del capo, Jack caricò la gamba e con quella colpì la porta che si aprì docile e obbediente.

In pochi attimi tutti i Predators furono dentro l’ufficio, circondando la grossa scrivania di legno dipinto. L’uomo che vi era seduto era un piccoletto di mezza età, con i capelli perfettamente pettinati e un’espressione stupita e ridicola in volto.

“Voi!”

“Perspicace!” lo prese in giro Jack.

“Non te lo aspettavi, forse?” domandò Richard, in realtà poco interessato della risposta, con la propria pistola che premeva sulla tempia di John Doe.

Passi affrettati echeggiarono per le scale di marmo, catturando l’attenzione di Jack che fece cenno a Savannah di seguirlo. Giunti suk pianerottolo videro solo il gemello francese che aveva irretito e rapito Sheril. Stando alle parole della donna, anche Michel provava uno strano gusto per l’omicidio. Le pupille di Jack brillarono di sfida; la lingua uscì per leccarsi lebbra, pregustando il sapore del divertimento. Sempre che il sopravvissuto non deludesse le sue aspettative.

“Ritorna con gli altri due.”

Savannah fece per replicare, ma un’occhiata all’espressione del suo collega le fece capire che, se non avesse ubbidito, Jack l’avrebbe colpita senza esitare: nemmeno lei poteva intromettersi nei suoi giochi.

La bionda fece dietro-front, rientrando nello studio giusto in tempo per vedere Richard premere il grilletto, sporcando le pareti di sangue e materia celebrale.

“Maledetti!” ringhiò tra i denti Michel al suono della detonazione.

Con uno scatto rabbioso ricominciò a salire le scale, accorciando la distanza che lo separava dal sorridente ed estasiato Jack.

La mano destra dell’argentino afferrò saldamente la ringhiera, mentre la sinistra premette con forza contro il muro, all’altezza della sua spalla. Fece forza sugli addominali e, aspettando l’ultimo istante, colpì in faccia il francese con entrambi i piedi. Michel perse l’equilibrio; il suo corpo rotolò giù, ritornando al primo piano. Per sua fortuna fece in tempo a proteggersi la testa con le braccia, ma quando la gravità smise di esercitare la sua forza, l’avambraccio destro di Michel era fuori uso. Non aveva preso particolari pose scomposte, ma era inerme e inutile.

Alzò gli occhi su Jack che, sempre sorridente, scendeva le scale.

“Tutto qui, mangia rane?”

“Vaffanculo.”

Tenendosi l’arto ferito stretto al petto, Michel corse verso una porta trascinandosi lievemente la gamba destra.

“Dove vai topolino? Vieni qui, questo gatto vuole giocare.”

Jack seguì l’avversario nella nuova stanza, lanciando una breve e superficiale occhiata in giro. Si trattava di una cucina arredata in stile moderno: elegante ma priva di qualsiasi calore, senza carattere e completamente asettica. Michel si trovava a fianco di un tavolino di vetro con la pistola puntata davanti a sé.

“Vuoi un suggerimento? Quella pistola dovresti spostarla un po’ più a destra. Se mi spari, il massimo che puoi fare è graffiare il mio bellissimo viso.”

“Io non sto mirando a te” affermò Michel, affannato e dolorante.

“Jack” chiamò una voce femminile, proveniente dalle spalle.

Non si girò; se lo avesse fatto, sarebbe morto e anche Savannah avrebbe fatto la stessa fine. Brutta situazione: sapeva che, come lui, anche la ragazza non aveva portato un’arma da fuoco. Se si fosse ritrovato da solo contro Michel, avrebbe schivato un paio di volte e, una volta disorientato il pivello, avrebbe attaccato. Ma non era solo; se avesse deciso di optare per la prima soluzione, Savannah si sarebbe ritrovata con un foro in mezzo agli occhi. Il problema era che lei e lui avevano ancora una faccenda in sospeso come i fantasmi.

“Lascia stare, francese. Sei morto comunque.”

“Cosa vuoi che mi importi? Avete ucciso mia sorella. Pensavo di eliminare te, ma qualcosa mi dice che farei più danno se ammazzassi lei” disse muovendo la mano sinistra e perdendo la mira su Savannah per qualche attimo.

Jack non sputò in faccia alla buona sorte. Il suo fedele pugnale scivolò in mano, come aveva fatto qualche tempo prima a casa e, senza perdere troppo tempo per prendere la mira, lo lanciò verso Michel. L’arma bianca si piantò al centro dello sterno, trafiggendo la metà destra del cuore. Michel, ferito a morte, cadde in ginocchio senza lasciarsi sfuggire, però, la pistola di mano.

“Sei stupida?” chiese Jack arrabbiato, girandosi verso Savannah.

“Ti sono venuta a cercare. Sheril e Richard sono già in macchina.”

“Sei comunque stata una stupida” ripeté il ragazzo, un poco più blandamente.

“Speravo di riuscire a perdere più tempo per far uscire più gas, ma spero che basti.”

Sentendo la voce di Michel, Jack si voltò. Fece appena in tempo a vedere che il ragazzo, oramai morente, puntava la sua arma verso il piano cottura. Sparò.

Jack vide l’esplosione far saltare in aria il corpo dissanguato di Michel e pensò:

“Vediamo se sopravivi anche questa volta”

Vide i mobili resistere all’urto e pensò:

“Viva la resistente modernità.”

Sentì la propria coscienza scemare e pensò:

“Che palle, mi fischieranno le orecchie per giorni.”

 

“Jack, sei sveglio Jack?”

L’assassino era sdraiato suk sedile posteriore della macchina che avevano rimediato, con la testa appoggiata sulle cosce di Savannah che lo chiamava un po’ apprensiva.

“Ci siamo tutti?” chiese il ragazzo.

Si sentiva relativamente bene, l’unico fastidio era che non riusciva ad alzare le palpebre, nonostante, lo sforzo. Infine decise che, per ora, poteva anche tenere gli occhi chiusi.

“Siete stati fortunati” disse Richard con un tono di voce finalmente sereno. “La stanza non si era riempita a sufficienza. Inoltre c’era la porta aperta e il gas non era abbastanza concentrato per fare danni grossi.”

“Quindi state tutti bene?”

“Perché non vedi che stiamo bene?”

“Sheril, ho gli occhi chiusi, come posso guardarvi?”

Nella macchina scese un silenzio pesante che schiacciò il morale a tutti, mano a mano che la frase di Jack assumeva un suo senso.

“Perché vi siete zittiti tutti?”

“PARLATE, MALEDIZIONE!”

Savannah avvicinò la propria bocca all’orecchio di Jack, non poteva fare altro perché sapeva che non sarebbe riuscita a parlare ad alta voce. Aveva cominciato a piangere e, mentre le sue lacrime bagnavano fastidiose e la tempia del giovane uomo che ave in grembo, gli disse:

“Hai gli occhi aperti.”   

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Capitolo 18
*** UNO PER UNO ***


Nuova pagina 2

XVIII CAPITOLO

UNO PER UNO

In tutte le cose

C’è sempre una fine

 

 

Tutto era come quando se ne erano andati in America; sembrava fosse passato un secolo, invece quel lavoro era durato poco più di un paio di settimane. Probabilmente era l’epilogo di tutta quella faccenda a dare l’impressione di un tempo lungo. Il dolore annebbia il cervello e si fa fatica, poi, a percepire le cose per come stanno realmente. Persino quella stanza sembrava diversa, nonostante non fosse cambiato nulla. Il tavolone circondato dallo stesso numero di sedie era sempre all’angolo; il frigo vuoto e la cucina non sembravano più logori dell’ultima volta che li avevano usati.

Sheril, Savannah e Richard continuavano a guardarsi intorno silenziosi, cercando di capire come mai la casa dei Predators fosse così diversa ed estranea; poi, finalmente, capirono: le due poltrone vuote. Le poltrone che erano usate da Jack e Asriel non avevano più una loro funzione. Asriel era morto e Jack si comportava come se lo fosse da quando era diventato ceco.

Ritornati a Cardiff, Salvador si era fatto riportare a casa; non erano riusciti a convincerlo a partecipare alla loro misera riunione "aziendale".

"A fare che?" aveva semplicemente chiesto.

Alla fine Savannah era salita per metterlo a letto e, prima di raggiungere Richard e Sheril aveva promesso che appena si fosse liberata sarebbe tornata da lui.

Il silenzio era oppressivo, ma più pesava sugli animi delle tre persone che erano nella stanza, meno ciascuna di loro aveva il coraggio di romperlo. Sapevano tutti come sarebbe finita quella discussione, ma la consapevolezza non serviva a nulla. Alla fine fu Savannah a rompere il silenzio.

"Hai sentito la tua amica francese?"

"Sì. Ha detto che il corpo di Asriel è stato portato nella sua città natale e lì lo hanno seppellito. Credo che le porterò il denaro di persona così potrò consegnare il Trojan."

"Hai deciso di darlo alla signora Rolland?" chiese Sheril.

Oramai l’atrito tra i due si era attenuato, sebbene non fosse totalmente scomparso; almeno, ora si parlavano civilmente senza saltarsi alla gola.

"Credo che sia l’unica a meritarlo davvero, in tutta questa storia."

"Potresti vendere la Sainte Vierge du Pardon" consigliò Savannah.

Richard mosse il capo lentamente mentre fissava il giocattolo di legno che aveva appoggiato al centro del cerchio.

"Potrei, sarebbe la cosa più sensata da fare. Almeno coprirei le spese che abbiamo dovuto affrontare in più. Ma non lo farò."

"Perché?"

"Perché sono stanco. Perché anni fa ho rinunciato a una persona importante per questo lavoro e oggi mi rendo conto di quanto poco ne sia valsa la pena.

Quello che voglio adesso per me, non è nel vostro interesse, per lo meno a livello economico, ma me ne frega abbastanza poco in tutta sincerità."

"Quindi non vuoi che ti accompagniamo."

Richard tornò a scuotere la testa fissando, questa volta, le due donne.

Ritornò a calare il silenzio. Mancava una frase; solo una frase per concludere il discorso. Parole che alleggiavano nell’aria, ancora una volta mancò il coraggio per pronunciarle, senza tanti giri di parole.

"Credo che Jack ne voglia uscire" ricominciò un discorso a caso Savannah.

"Sì, lo credo anche io. Michel ha inferto un duro colpo al nostro amico e non immagino nemmeno come supererà la cosa."

"Ma questo, a te, non importa. Vero?"

"La domanda (affermazione) di Savannah non era solo un dato di fatto; la ragazza stava cercando di imboccare le parole giuste a Richard per mettere fine a quella scena pietosa.

"Sì, non mi importa."

Silenzio, poi finalmente il coraggio ritornò a pulsare.

"Come non mi importa più niente di voi."
"Era così difficile da dire?" chiese Sheril, senza mostrare falso stupore o risentimento.

Richard scosse le spalle.

"Abbiamo lavorato insieme parecchio tempo. Mi sono preso cura di voi, a modo mio, sicuramente con metodi che a voi non sono piaciuti" guardò Savannah. "Ma l’ho fatto e non potete negarlo. Ho coordinato le vostre teste calde, soprattutto quelle di Asriel e Jack, e ho fatto in modo che lavoraste bene insieme, nonostante tutto. Ho fatto un ottimo lavoro e voi, in cambio mi avete riempito la vita. Era quello che volevo e sono sempre rimasto soddisfatto, per questo ho continuato ad impegnarmi con i Predators. Ora, però, le cose sono cambiate. Me ne voglio lavare le mani e vi dico andate per la vostra strada con la mia totale benedizione e stronzate simili, ma ora il mio tempo ritorna libero.

Non ho avuto paura di perdervi, solo del vuoto che lascerete andandovene."

"Un vuoto che riempirai con Satine" disse Sheril.

"Forse, se non è troppo tardi."

Le due donne non tentarono nemmeno di pensare a una frase che desse un po’ di speranza a Richard. Loro non avevano voglia di sostenerlo nelle sue pene d’amore e lui non aveva voglia di essere coccolato da loro.

"Bene, se questo è tutto io ritorno da Jack" affermò Savannah, alzandosi dalla poltrona.

La bionda americana non aspettò risposta, si chiuse semplicemente la porta alle spalle.

Nel covo dei Predators erano rimasti solo Sheril e Richard; passarono qualche minuto in silenzio, poi la donna si alzò dirigendosi verso la porta senza nemmeno salutare.

Fu Richard a palare prima che lei aprisse la porta d’ingresso:

"se lo vuoi ti lascio questo posto. A me non serve."

"Nemmeno a me. Tu hai ragione su molte cose."

"Ovvero?"

"Molto poco, di questi anni è valsa la pena degli ultimi giorni."

"Buona fortuna Sheril."

"La donna si voltò, sorrise e rispose:

"buona fortuna a te Richard."

Erano entrambi sinceri.

Richard si guardò in torno, le mani giunte come se fosse in preghiera; le punte delle dita rivolte verso il basso e gli avambracci appoggiati sulle gambe. Sheril se ne era andata; la prima dei Predators era l’ultima ad aver abbandonato.

Richard Heart aveva visto, per la prima volta, Sheril Water in un bar. Lui era ritornato da poco in Inghilterra; aveva abbandonato ogni progetto romantico per il suo futuro, preferendo impiegare la sua creatività per il suo progetto. Problema: non era uno scherzo dimenticare Satine, la verità gli ronzava nella testa come una fastidiosa mosca, aveva bisogno della francese. Poi alzò lo sguardo che si fissò su una figura femminile seduta al bancone. Il volto della sconosciuta era girato da un lato e Richard era abbastanza vicino da poterne vedere il profilo. Non aveva nessuna caratteristica fisica che si potesse avvicinare, anche lontanamente, a Satine. Eppure quella donna gli ricordava il suo amore in modo sconcertante; era probabile che l’associazione mentale di Richard si basasse sul comportamento che entrambe tenevano nei confronti del mondo. Guardavano tutti dall’alto in basso, coscienti di non passare inosservate. Lui era notevolmente molto stanco del ricordo di Satine che non gli dava modo di lavorare così, dopo aver visto e deriso un paio di uomini che si erano attentati ad avvicinarla ottenendo un puntuale rifiuto, decise che lui sarebbe stato il terzo. Ca avrebbe fatto tanto di quel sesso che, alla fine, non avrebbe più avuto le forze per pensare a Satine.

Si era avvicinato e, nonostante Richard non fosse, per come si presentava, il tipo ideale di Sheril riuscì ad offrile da bere e a chiacchierarci. Inizialmente l’intento di Richard di farsi quella donna rimase intatta, ma con il proseguire del dialogo all’uomo venne in mente un’idea migliore. Alla fine della serata, Richard fece una proposta a Sheril, ma non era nulla di indecente: un posto di lavoro che lei accettò senza farsi troppi problemi. Lui aveva bisogno di una donna che lo aiutasse a organizzare le commissioni e a lei serviva un impiego.

Diverso fu il primo incontro con il tedesco del gruppo.

A Richard serviva un ladro professionista ma, tra quelli che conosceva, non c’era nessuno che lo soddisfaceva pienamente: troppo spericolato; troppo lento; troppo inesperto. Non aveva fretta e sicuramente non avrebbe scelto il primo decente che gli bussava alla porta; non era questo ciò che serviva alla squadra perfetta che lui desiderava. Alla fine qualcuno gli parlò di un tedesco di mezza età, ma nessuno gli seppe dare informazioni più dettagliate. Per quello che avevano da perdere, Richard e Sheril decisero di fare un viaggetto a Monaco. La coppia non fece mistero del loro obbiettivo, anche perché, spargere la voce della loro presenza in città era l’unico modo per contattare l’ombra. Al contrario di molti suoi colleghi, infatti, questo famoso ladro non firmava i suoi lavori, non una traccia che legasse un furto all’altro e a chi li avesse perpetrati. Tutto ciò non era molto soddisfacente per Richard: se nessuno sapeva nulla di più preciso dell’età e della nazionalità, come facevano tutti ad essere così convinti che fosse così bravo?

"Vediamo la refurtiva che porta" gli dicevano.

Né Richard né Sheril erano molto convinti delle spiegazioni. Questo tizio poteva essere solo uno qualunque, uno che si passava il tempo facendo il furbo o, peggio ancora, poteva essere un poliziotto; non che Richard avesse fatto qualche cosa di illegale, non ancora almeno, ma di sicuro non aveva voglia di finire sulla lista nera di qualche agente.

Forse solo per curiosità, più che per una vera convinzione di portare qualche cosa di buono a casa, i due inglesi rimasero un paio di settimane, ma sicuramente non sarebbero rimasti di più se qualche cosa non si fosse mossa. Una sera, di ritorno da una bevuta all’Hard Rock, Richard e Sheril trovarono un ospite ad attenderli nella stanza di quest’ultima. Asriel Stern era seduto composto su una sedia in direzione della porta e li fissava studiandoli.

"Lei chi è?" chiese Sheril, irritata per la presenza di un intruso in camera sua.

"Mi stavate cercando, se non ho capito male" rispose lo sconosciuto.

"Chi l’ha fatta entrare?" domandò Richard.

"Non ho bisogno di nessuno per entrare in qualche posto."

"Ma allora è bravo come di cono tutti" continuò Richard, fingendo di non aver percepito il tono baldanzoso dell’altro. "Oppure è un agente di polizia che non ha bisogno di particolari attrezzi per entrare in un albergo e, pensandoci, sarebbe facile mostrare anche della falsa refurtiva."

Gli occhi di Asriel si riempirono di disprezzo. Il tedesco si alzò facendo pressione con la mano sinistra sul tavolo che gli era a fianco.

"Fino a prova contraria siete stati voi a venire fino a Monaco per cercarmi" disse in tono gelido, per poi andarsene.

Quello fu solo il primo, aspro incontro; niente di più né di meno del secondo e del terzo. Sebbene, però, i rapporti non migliorassero Richard non era tornato in Galles, al contrario di Sheril che aveva un appuntamento per un monolocale per i Predators. Allo stesso modo Asriel aveva cominciato a farsi vedere nei posti in cui Richard passava il suo tempo. A volte parlavano, a volte non si guardavano nemmeno, a volte sfioravano la rissa; ma alla fine Richard gli fece proposta, sebbene fosse convinto che avrebbe ricevuto un rifiuto. Contro ogni aspettativa Asriel accettò.

Cedendo per primo, Richard aveva dato modo all’altro di mantenere un atteggiamento di superiorità, ma rimase sempre e solo quello: un atteggiamento. Fin da subito fu chiaro chi era a dare gli ordini.

Mai lo fu, però, dal momento in cui Richard dovette cominciare ad arbitrare i dispetti pesanti che si scambiavano Asriel e Jack.

L’Argentina fu uno dei primi lavori dei Predators, probabilmente uno dei più facili. Si trattava di recarsi ad Alta Gracia, una città del nord della provincia di Còrdoba; prendere contatto con una specie di esperto di storia locale; dargli i soldi in cambio di una statuetta risalente al periodo in cui Alta Gracia era un possedimento agricolo dei Gesuiti e tornare in Europa. Consegnare, venire pagati per il lavoro svolto e rientrare a Cardiff. Tutto troppo veloce e facile, tanto valeva rimanere qualche giorno in più in città.

Il trio si trovava a El Tajamar, un lago artificiale sulla sponda del quale si trovava la chiesa gesuita. I tre stavano prendendo il sole sul lato opposto, godendo della visione della chiesa, quando passò, con fare tranquillo, un ragazzo. Era di media altezza, capelli neri e occhi verdi, svegli e giocosi: fu tutto ciò che vide Asriel quando incrociò lo sguardo con il giovane argentino e fu odio a prima vista. Questione di qualche attimo e il latino americano aveva un’arma bianca in mano, uno strano sorriso stampato in volto e le gambe che correvano in direzione di Asriel, puntando la lama verso il cuore del tedesco.

Se si fosse fermato a ripensare a quel momento, Richard non sarebbe riuscito a spiegare il motivo per cui si comportò in modo così insensato. Seguì semplicemente il suo istinto che gli suggerì di mettersi in mezzo, convinto (o sperando) che l’assalitore si sarebbe fermato. Jack effettivamente si arrestò davanti al gesto dello straniero; era letteralmente sovrastato dall’altezza di quell’uomo dai capelli strani, ma non era per nulla intimorito. Il moro inclinò la testa di lato, tentando di capire. Richard sorrise nel vedere quella nuova espressione, intanto il suo cervello stava calcolando i pro e i contro di avere quel ragazzo. Da una parte un soggetto che non aveva problemi ad uccidere, poco importava che, in realtà, si divertisse, sarebbe stato molto utile; dall’altro Richard non si faceva molte illusioni che tra lui e Asriel i rapporti sarebbero migliorati. Entrambe le motivazioni erano valide, ma se aggiungeva che, forse, sarebbe stato risparmiato se avesse fatto la sua offerta, decisamente doveva far entrare quel sadico nei Predators.

Fu molto semplice convincere Jack Salvador. Non era la prospettiva del lavoro, non era il denaro; sicuramente i cambiamenti eccitavano Jack, ma la verità è che accettò per come aveva agito Richard. Non sarebbe riuscito a trovare un altro uomo che non avesse avuto paura di lui; doveva seguirlo e giurò con sé stesso che non avrebbe mai fatto del male, qualsiasi cosa fosse successa, a quello strano tipo con i capelli leonini.

Promessa simile fu fatta nei riguardi di Savannah Runner.

L’americana fu l’unica a bussare alla porta dei Predators senza essere invitata; Richard non la fece nemmeno entrare. La prima cosa che notò fu l’espressione terribilmente seria, la seconda fu il sedere sodo e ben proporzionato della ragazza. Quando Richard uscì per un appuntamento, non si sapeva se di lavoro o galante, o entrambi, Jack cominciò ad insidiare Sheril.

"Dai è carina. Se entra nei Predators divento più bravo."

"Ma quanti anni hai? Vai all’asilo, per caso?"

"Dai, dai, dai, dai …"

Il discorso durò quasi un’ora. Alla fine la donna, esausta e con le orecchie dolenti, cedette e, con Jack uscì dal monolocale per cercare la ragazza.

"Lo sai, vero, che è praticamente impossibile ritrovarla?" stava dicendo la donna al suo collega quando, da un vicolo perpendicolare al loro spuntarono tre uomini dall’aspetto poco raccomandabile. In effetti, Sheril aveva fatto un affare con il monolocale, ma la zona non era delle più tranquille disponibili sul mercato di Cardiff: ne avevano fatta esperienza le due segretarie del John Doe italiano.

"Non sei troppo giovane per una donna cosi?" chiese uno del trio, rivolgendosi a Jack.

"Vedi? Alla fine non siamo usciti per niente" commentò il moro, dimenticandosi della bionda che lo aveva tanto attirato prima.

Due uomini, quelli che si stavano avvicinando maggiormente, erano particolarmente grossi; mentre il terzo, quello che aveva parlato, era abbastanza mingherlino. I primi afferrarono per le spalle Jack e Sheril, la quale guardò il suo compagno con espressione interrogativa: perché non si era ancor a mosso? La risposta era semplice, lo annoiavano, non erano abbastanza per lui. Avrebbe reagito all’ultimo o, forse, non avrebbe mosso nemmeno un muscolo. Il tipo magro si piazzò davanti a Sheril, osservando la collana d’argento che portava al collo, strappandogliela dopo aver deciso che era un oggetto interessante.

"Jack, vuoi fare qualche cosa o ci devo pensare da sola?"

"Va bene, va bene" accondiscese l’altro.

I tre non fecero in tempo a capire il breve scambio di battute che Jack ruppe il naso dell’uomo che lo teneva stretto con una testata piantandogli, poi, il pugnale nella pancia. L’altro omone fece lo sbaglio di lasciare la presa sulle spalle di Sheril e di voltarle le spalle per aiutare l’amico. La donna lo afferrò, gli ruotò il collo spezzandoglielo. Il terzo non aveva nemmeno aspettato che il primo dei suoi compari si accasciasse a terra che cominciò a correre con la collana stretta nel pugno. Era, quindi, già abbastanza lontano quando Sheril e Jack si liberarono dalle due montagne umane. In più la donna aveva, come al suo solito, i tacchi, mentre il ragazzo semplicemente non ne aveva voglia.

"Non ti preoccupare, Richard te la ritrova la tua collana " disse Jack.

In quel momento il suo cervello registrò un movimento rapido nella zona periferica della sua visuale; stava per girarsi, pronto a difendersi, quando si accorse che si trattava della bionda della mattina. Correva come una scheggia nella direzione del fuggitivo.

"Dai, andiamo" disse Sheril; non aveva riconosciuto la ragazza e non le importava sapere chi fosse né il perché inseguiva il tipo che le aveva fregato il gioiello.

"No aspetta! Forse la recuperi prima di quanto speri."

Qualche minuto dopo la coppia vide tornare la bionda con il pugno destro chiuso. Il giorno dopo Sheril parlò con Richard, convincendolo a far entrare Savannah nella squadra.

I Predators erano al completo: avevano chi impartiva gli ordini; chi si occupava della parte pratica; chi non aveva bisogno di un invito per entrare da qualche parte; chi non aveva problemi ad uccidere. Avevano persino un elemento sicuramente meno utile degli altri, ma non per questo inutile, soprattutto perché Jack aveva effettivamente cominciato a fare il bravo, almeno la maggior parte del tempo. Mesi per costruire un gruppo di tutto rispetto e poche settimane per distruggere tutto. Uno per uno se ne erano andati tutti: Asriel e Jack non erano nemmeno tornati; Savannah era andata via con la massima indifferenza, Sheril, almeno, aveva salutato. Rimaneva solo Richard che si fermò ancora qualche minuto per guardarsi intorno.

Alla fine si alzò e si diresse verso l’uscita del monolocale. Una vocina infantile gli urlò una frase che si dice spesso da bambini:

"l’ultimo chiuda la porta!"

 

 

Nota: Chiedo umilmente scusa per l’immenso ritardo di questo capitolo. Spero che qualcuno abbia continuato a seguire questa storia e che magari commenterà questo capitolo…fosse solo per insultarmi pesantemente.

Piccola precisazione: questo non è l’ultimo capitolo che posterò in questa storia, i prossimi saranno dei piccoli epiloghi, ma non vi voglio anticipare nulla; tanto è abbastanza facile da capire che tipo di finale ho pensato per i poveri, piccoli Predators…

Come al solito spero che qualcuno mi dica la sua opinione. Per il resto, buona lettura.

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