And I'd give up forever to touch you

di _White_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** And I'd give up forever to touch you ***
Capitolo 3: *** 'Cause I know that you feel me somehow ***
Capitolo 4: *** You're the closest to heaven that I'll ever be ***
Capitolo 5: *** And I don't wanna go home right now ***
Capitolo 6: *** And all I can taste is this moment ***
Capitolo 7: *** And all I can breathe is your life ***
Capitolo 8: *** When sooner or later is over ***
Capitolo 9: *** I just don't wanna miss you tonight ***
Capitolo 10: *** And I don't want the world to see me ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

Prologo

 
- Papà, questo dove va? – urlò Irina, prendendo l’ultimo grosso scatolone dal bagagliaio dell’utilitaria del padre. Era stanca di sollevare i pacchi del trasloco e il caldo che si faceva sentire quel sabato pomeriggio di metà agosto non l’aiutava a recuperare le energie e la voglia, ma almeno aveva finito di svuotare l’auto.
- Guarda cosa c’è scritto sopra. – rispose Gerald Barnes, mentre si stava avvicinando alla vettura, pronto ad aiutare la figlia a portare il pesante carico dentro la sua nuova casa.
- Non c’è scritto nulla. – la ragazza controllò come meglio poteva i lati del contenitore, ma non trovò nessun indizio che potesse aiutarla a scoprirne il contenuto.
- Ah, ecco dov’erano le tende! Pensavo di averle dimenticate a casa. – la voce acuta ed entusiasta della madre si sovrappose prepotentemente, mettendo a tacere il mistero.
- Tende? Amore, sei sicura che siano necessarie? Philip mi ha assicurato che la villetta è già ammobiliata. – la faccia del marito impallidì all’improvviso, vedendo la donna correre a prendere il pacco.
- Sì, mi fido del tuo amico, però non del suo gusto per l’arredamento. – spiegò Marianne.
- A me piace come ha sistemato l’interno. – confessò Irina. Dopotutto, il nuovo inquilino di quella casa per i prossimi tre anni era lei. Si era innamorata di quella struttura già la prima volta che l’aveva vista qualche mese prima: i mattoni rossi a vista le ricordavano la casa in campagna della nonna paterna, dove da piccola era solita trascorrere l’estate. Per non parlare dell’architettura interna, così vittoriana con la sua solida scala in legno, un bellissimo parquet e una grande finestra in soggiorno che occupava due terzi della parete che dava sulla strada. Era la casa dei suoi sogni. Forse troppo grande per una diciottenne tutta sola, però lì si era sentita subito a proprio agio.
Era una fortuna che il proprietario dell’immobile fosse il professor Philip Hunt, collega e amico di suo padre. Quando aveva saputo che la figlia di Gerald avrebbe studiato a Liverpool, la sua città natale, si era subito offerto di affittarle la casa, disabitata da quando aveva accettato la cattedra di Chimica e Fisica Molecolare all’università di Nottingham. Era stato molto cortese a non richiedere una cifra mensile esagerata per le strette finanze dei Barnes, sebbene il valore della proprietà fosse di gran lunga superiore. Hunt non aveva mai accennato direttamente a questo favoritismo, ma il signor Barnes si era accorto immediatamente della faccenda e aveva deciso di compensare con cene offerte da lui e un passaggio tutti i giorni per andare al lavoro, offendendosi se l’amico cercava di pagargli la benzina o un caffè durante le pause tra una lezione e l’altra. Nonostante questo, i viveri e i cambiamenti d’arredo erano a carico della studentessa che si apprestava a viverci per i prossimi tre anni, ma a Irina non importava. Era troppo elettrizzata all’idea di abitare da sola, come un’universitaria che si rispetti.
- Mi raccomando, se ti senti troppo sola o ti manchiamo, non esitare a telefonarci a qualsiasi ora del giorno e della notte. – Marianne afferrò le spalle della sua unica figlia, in modo da poterla guardare negli occhi, e le fece questa strana richiesta, tipica delle madri che si apprestano a lasciar uscire di casa i propri pargoli. Sapeva che sarebbe arrivato il momento di separarsi dalla sua bambina, ma non era ancora pronta per quest’evento. Voleva ancora un altro anno, un altro mese e un altro giorno con la sua piccola Irina. Davanti a sé non la vedeva come la giovane donna che stava diventando, ma come la bambina di otto anni che s’impuntava per aiutarla a cuocere i biscotti e che passava il pomeriggio incollata alla televisione a guardare i cartoni animati. Avrebbe tanto voluto rivivere quei momenti all’infinito, ma non era possibile. Ora Irina era grande abbastanza per badare da sola a se stessa e Marianne doveva accettarlo. Così come avrebbe dovuto accettare il fatto che in futuro sua figlia avrebbe messo su famiglia e sarebbe diventata anche lei una madre. È proprio vero che i figli crescono troppo in fretta.
- Tranquilla, mamma, mi farò sentire. – la rassicurò la ragazza, agguantando la donna in un caloroso abbraccio. Le faceva una profonda tenerezza sua madre, così preoccupata e sentimentale nei suoi confronti, ma in fin dei conti non aveva tutti i torti ad esserlo. Anche Irina avrebbe sentito la mancanza dei genitori, soprattutto i primi mesi, essendo non ancora abituata al silenzio terrificante della sua nuova abitazione e non avendo ancora nessun amico su cui poter contare e che avrebbe alleviato in parte la solitudine.
Gerald avrebbe voluto anche lui unirsi all’abbraccio, ma qualcosa lo bloccò. Anzi qualcuno. Si stava guardando intorno per valutare la zona in cui avrebbe lasciato sua figlia, quando scorse quattro individui, tre uomini e una donna, uscire dalla villetta confinante, salutarli con la mano e dirigersi verso di loro. Barnes tossicchiò, segnalando alle sue donne la venuta dei vicini.
- Buon pomeriggio! Immagino voi siate i nuovi inquilini del professor Hunt. Ci aveva avvisati del vostro arrivo e così siamo venuti a darvi il benvenuto nel quartiere. Io sono Yuki Johnson, è un piacere conoscervi. – esclamò con notevole energia e un grande sorriso la vicina. Irina rimase subito affascinata da quella donna, così aperta e cordiale, non schiva e riservata come gli inglesi. Era diversa, lo si capiva non solo dalla felicità che emanava, ma anche dall’aspetto. Come suggeriva il nome di battesimo, Yuki era asiatica, più precisamente giapponese, di Osaka. Era impossibile definire con esattezza l’età anagrafica: non era presente alcun capello bianco nella sua folta chioma corvina e la sua pelle candida non mostrava alcuna ruga, macchia o segno del tempo. Non aveva nemmeno le zampe di gallina intorno agli occhi a mandola dalle grandi iridi color pece! Irina aveva sentito da qualche parte che per i giapponesi il processo d’invecchiamento fosse più lento rispetto agli occidentali, ma non immaginava fosse così miracoloso. Alla prima occhiata Yuki sembrava una donna di appena trent’anni, ma vedendola insieme al resto della famiglia si capiva che era impossibile che fosse così giovane.
L’uomo che le stava accanto era indubbiamente il marito. Ed era indubbiamente inglese, così rigido nel comportamento. Lui, al contrario della moglie, dimostrava i suoi cinquanta e passa anni, tuttavia era ancora un bell’uomo. Alto, spalle larghe, capelli castani un po’ brizzolati, occhi grigi. Portava un paio di occhiali da vista dalla montatura sottile che gli conferivano un’aria da intellettuale, da insegnante. In realtà era un ingegnere navale di una delle più grandi compagnie di costruzione navale del Regno Unito.
- Piacere, io sono Richard Johnson. Mia moglie Yuki si è già presentata e questi sono i nostri figli, Matthew e Thomas. – disse quell’uomo, indicando ogni membro della sua famiglia non appena lo citava. Irina seguì con lo sguardo la sua mano, soffermandosi sui volti di ognuno di loro, in particolare sui due fratelli. Loro erano pochi passi indietro ai genitori, quasi fossero timidi e allo steso tempo riluttanti all’idea di avere dei nuovi vicini rompiscatole. Il primo, Matthew, era il maggiore. Assomigliava molto al padre come corporatura, però era pallido come la madre. Portava i capelli neri corti con una lunga frangia. Irina immaginò che fosse uno di quei tagli da uomini d’affari, che si tengono i ciuffi lunghi per poi tirarli indietro con quintali di brillantina durante le cene d’affari e sul luogo di lavoro e in effetti Matt aveva proprio l’aspetto da uomo in carriera, con i suoi grandi e severi occhi grigi.
L’altro ragazzo, invece, aveva ereditato maggiormente i geni orientali della madre, ma questo non lo rendeva meno affascinante. Thomas era esile di costituzione, ma si notavano benissimo i piccoli rigonfiamenti muscolari delle braccia sotto la maglietta a maniche corte che indossava. Accanto al fratello, sembrava più insignificante, ma c’era qualcosa nel suo sguardo fiero e cupo che impediva a Irina di guardare altrove.
- Il piacere è tutto nostro. Noi siamo i Barnes. Io sono Gerald, questa è mia moglie Marianne, mentre lei è nostra figlia, Irina. Sapete, sarà lei ad abitare in questa casa. È una studentessa universitaria qui a Liverpool. È al primo anno. Io e Marianne l’abbiamo accompagnata soltanto per aiutarla con il trasloco. – spiegò Gerald.
- Benvenuta, Irina. Sappi che se avessi bisogno di qualcosa, siamo a tua completa disposizione! – disse Yuki, allegra come non mai. Irina la ringraziò timidamente. Non sapeva come comportarsi di fronte a tanta euforia, ma presto l’avrebbe apprezzata. – E siete tutti invitati a cena da noi stasera. – continuò la donna.

Il resto della serata trascorse tranquillo e vivace nel giardino posteriore dei Johnson. Tutta la famiglia si dimostrò cortese, disponibile e affabile, tanto che Marianne si sentì più rassicurata nel separarsi dalla figlia, conscia che si sarebbe trovata bene e in buone mani con i vicini di casa, che l’avevano presa assai volentieri sotto la loro ala protettrice. Dopotutto, Irina aveva già allacciato un buon rapporto con i genitori Johnson e una buona confidenza con Matt, che si era rivelato più estroverso e amichevole rispetto alla prima idea che si era fatta di lui. Lui l’aveva fatta sentire a casa, raccontandole tutto della sua vita e interessandosi anche a lei. Irina era venuta così a sapere che era all’ultimo anno di Legge all’università di Londra e nel frattempo svolgeva un tirocinio in uno dei più importanti studi legali della capitale e che era tornato a casa quel fine settimana soltanto per conoscerla. La ragazza restò colpita dalla sua curiosità di vederla: le ricordava l’ansia che aveva avuto il suo cuginetto quando sua zia stava aspettando il secondo figlio. Ecco, Matt era stato impaziente d’incontrarla come un bambino che non vede l’ora che nasca il suo fratellino e questo aveva intenerito Irina. Peccato che il giorno dopo lui dovesse ripartire. Era un peccato anche che fosse fidanzato da otto anni con una compagna del liceo, Eleanor, e che avesse deciso di continuare gli studi a Londra per poterle stare più vicino, visto che lei frequentava Oxford. Eleanor era davvero una ragazza fortunata, pensò Irina, perché Matt l’amava tanto e lo si sentiva attraverso le dolci parole che lui usava per descriverla e per gli occhi che brillavano ogni volta che la nominava. Anche la diciottenne avrebbe tanto voluto avere accanto un ragazzo come Matt, anche se teneva molto al suo Jeremy.
Al contrario del fratello, Thomas era rimasto in silenzio per quasi tutta la cena. Mentre il maggiore non aveva avuto difficoltà nel raccontare ogni aspetto della sua vita alla nuova vicina, lui non aveva aggiunto niente sulla sua. Mentre Matt era curioso di conoscerla, Thomas l’avvertiva come una seccatura. No, non era così. Lui aveva paura di lei. L’aveva osservata tutta la sera e per tutto il tempo aveva avvertito una scossa nello stomaco. Quella ragazza dai capelli biondi che risplendevano come il grano sotto il sole e dagli occhi così verdi da assomigliare a due smeraldi purissimi e pregiati gli aveva acceso qualcosa dentro, un sentimento diverso dalla semplice attrazione fisica. No, era qualcosa di molto più intenso. Lui voleva di più. Sapeva però che se avrebbe provato ad ottenere ciò che bramava, non sarebbe riuscito a viverle più accanto. E lei sarebbe rimasta nella villetta confinante per i prossimi tre anni. No, non poteva correre un rischio simile. L’avrebbe conosciuta e avrebbe cercato di essere un buon vicino, anche un amico se lei gliene avesse data l’occasione, però oltre non poteva andare. No, lei non poteva essere sua.

Irina sistemò le coperte sul suo nuovo letto e ci si sdraiò sopra. Fissò il soffitto per alcuni minuti, pensando a come poter rendere quel luogo suo. Avrebbe di sicuro ridipinto le paresti, visto che il proprietario le aveva dato il permesso di fare tutte le modifiche che voleva. Magari di lilla. Lei adorava qualsiasi tipo di viola. Avrebbe spostato la scrivania sotto la finestra per avere più luce quando studiava e avrebbe messo di fronte al letto una libreria. L’armadio l’avrebbe lasciato lì dov’era, come il letto. Bene, aveva già pianificato l’arredamento per la sua nuova camera da letto. Soddisfatta, spense la luce e cercò di addormentarsi, però la sua mente ancora vagava e ripensava ai Johnson. Era una famiglia davvero eccezionale, le avevano fatto una gran bella impressione. Però faceva fatica a inquadrare bene Thomas, così taciturno e solitario come si era presentato. Non riusciva davvero a immaginare come sarebbe stato vivergli accanto: chissà cosa sarebbe accaduto se non si fossero sopportati e si fossero totalmente ignorati o avessero litigato continuamente. Chissà se sarebbero diventati grandi amici, di quelli su cui si poteva sempre contare. Chissà.

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Capitolo 2
*** And I'd give up forever to touch you ***


 


1. And I'd give up forever to touch you

 

La mia vita potrebbe essere un racconto. Gli ingredienti necessari ci sono tutti: un’eroina goffa, un migliore amico figo e la sua affascinante famiglia. Che razza d’inizio da teenager….
 
Irina cancellò il testo dalla pagina di Word. L’inizio di quel racconto non la convinceva per niente. Le ricordava l’inizio di uno di quei libri sull’adolescenza che leggeva a tredici anni, non una short-story strappalacrime tipicamente sua. Riguardò l’agendina su cui appuntava i suoi barlumi di genialità: la trama le sembrava buona, ma non sapeva come trasformarla in parole vive sullo schermo del computer. Rimase altri dieci minuti a fissare Word, mentre la sua playlist da scrittura scorreva nelle casse. Niente, non aveva l’ispirazione giusta per scrivere. Salvò quello sgorbio di schizzo e spense il portatile. Ci avrebbe lavorato un altro giorno, tanto era solo un racconto che voleva scrivere per puro piacere personale.
Andò in cucina, dove si preparò una cioccolata calda. Anche se era marzo inoltrato, il gelo non se n’era ancora andato e il sole era sempre coperto dalle nuvole. Era stato un inverno orribile, in cui quasi ogni giorno aveva piovuto, eccetto che per la tempesta di neve in dicembre. Irina adorava l’inverno, ma quell’anno aveva decisamente esagerato, impedendole di tornare dai genitori per le feste e rovinandole così le vacanze di Natale. L’unica consolazione era che neanche i suoi vicini di casa, i Johnson, erano partiti per la montagna, in questo modo non aveva trascorso un Capodanno solitario.
Quanto adorava quella famiglia! I signori Johnson l’avevano trattata come una figlia già dal primo giorno in cui lei era arrivata nel loro quartiere a Liverpool, esattamente nella villetta a schiera accanto. Irina si era stupita subito delle loro amorevoli cure, forse perché Richard e Yuki avevano sempre desiderato una bambina, invece avevano due maschi. Anche i fratelli Matthew e Thomas l’avevano accolta a braccia aperte, come una sorella… No, forse più come la loro cugina piccola. In ogni caso, era una famiglia fantastica e lei si sentiva fortunata ad abitare di fianco a loro. Sì, la famiglia di cui voleva scrivere era la loro, dopo tutto aveva sentito in giro che uno scrittore scrive sempre di ciò che conosce. E l’unica cosa che lei conosceva, a parte cucinare e i testi universitari, erano i Johnson.
Leccò il cucchiaio di legno che aveva usato per mescolare la cioccolata, rimuginando sull’andamento della sua nuova storia e dei suoi protagonisti. Capì che era impossibile creare un racconto drammatico, loro non erano il genere di persone da dramma, anzi erano più da sitcom americana, tipo I Robinson. Versò la bevanda calda in una tazza e si risedette alla scrivania. Mentre si riscaldava bevendo la cioccolata, portò alcune modifiche alla bozza della trama sul suo taccuino senza righe. Rilesse il tutto un’ultima volta e, convinta delle sue scelte, lo chiuse e lo ripose nel primo cassetto del comodino sotto la scrivania.  Anche se non aveva buttato giù nemmeno una riga, era comunque soddisfatta del lavoro svolto.
Riportò la tazza in cucina, la sciacquò e la rimise nella credenza. Controllò il cellulare. Le era arrivato un messaggio da parte di Thomas. “Domani alla tua porta alle 7?”. Senza accorgersene, sorrise mentre gli rispondeva affermativamente. La mattina dopo avrebbe avuto compagnia durante il tragitto verso la facoltà. Spense il telefono, poi andò a dormire.
 
- Cazzo, Irie, ti vuoi muovere? – Irina sentì Thomas invocarla, sbraitando dal giardino e citofonandole in continuazione.
-Arrivo, un attimo! – urlò lei di rimando dal bagno al pian terreno della sua casa. Mettersi il mascara non era semplice, soprattutto quando il proprio cavaliere aveva fretta di andarsene. Accidenti, il bordo dell’occhio destro aveva sbavato! Strappò un pezzo di carta igienica, pronta ad aggiustare il trucco. Stava portando la carta all’occhio, quando il campanello squillò senza interruzione. Irina imprecò in russo, o almeno credeva che fosse russo: non aveva mai verificato che le parole straniere che aveva imparato da sua nonna materna esistessero veramente. Gettò nel gabinetto il pezzo di carta igienica e corse a prendere la giaccia e la borsa.
- Maledizione, Thomas! – ruggì lei, spalancando la porta. Il ragazzo che aveva davanti la guardò con fare scocciato. Era un bel tipo, affascinante. Aveva folti capelli neri che alla luce si tingevano di blu e gli occhi, anch’essi neri, erano profondi e lucenti. I caratteri orientali del viso, ereditati dalla madre giapponese, gli davano quel tocco d’eleganza in più, in armonia con l’alta statura occidentale del padre. Thomas Johnson era senz’ombra di dubbio uno dei maschi più belli che Irina avesse mai incrociato.
- Sei in ritardo. – sbottò lui, chiudendole la porta alle spalle.
- Avevo delle cose urgenti da fare. – rispose lei, indicandogli la sbavatura di mascara.
- Sul serio, tu chiami questa emergenza? Ma non si vede nulla. – protestò Thomas, avvicinandosi al suo volto. Irina trattenne inconsciamente il respiro, quando l’amico sfumò la macchia nera accanto al suo occhio. Era troppo imbarazzata da quel gesto e dalla premura di lui per ricordarsi di espirare. Thomas diede una rapida occhiata al suo lavoro, poi si ritrasse, lasciandola riprendere fiato. – Ecco, ora sei perfetta.
- Grazie. – disse lei, arrossendo lievemente.
- Ora possiamo andare? – chiese il ragazzo, indicando platealmente il cancello alle sue spalle. Irina sbuffò per la sua impazienza, ma si incamminò, precedendolo e tirandolo per un lembo del colletto della giacca, affinché la seguisse.
 
- Tanto casino per una tazza di caffè? – osservò Irina non appena Thomas afferrò lo schienale della sedia di fronte a lei, un bicchiere di carta nell’altra mano. Lui si sedette al tavolo che l’amica aveva preso e bevve un sorso di caffè bollente prima di risponderle.
- Non per il caffè, ma per lei. – il ragazzo indicò una biondina che stava entrando nel locale. – Ogni mattina viene qui sempre alla stessa ora a prendere un cappuccino e un muffin da portar via. È un mese e mezzo che la osservo.
- Sei inquietante. – commentò Irina, voltandosi verso la preda del vicino di casa. – Se è un mese e mezzo che le stai dietro, perché non ti sei ancora fatto avanti?
- Tempo al tempo, mia cara. Con le donne ci vuole calma, pazienza e tempo. Basta un approccio frettoloso e voi scappate.
- Se io fossi seguita per un mese e mezzo da un pervertito psicopatico come te, scapperei immediatamente, appena mi rivolge la parola. – rifletté lei ad alta voce, conscia del fatto che Thomas si sarebbe notevolmente infastidito per il “pervertito psicopatico”, sul quale lei aveva volontariamente calcato. Dopo tutto, Thomas era così: un amante delle donne. Fin da quando lo conosceva, Irina non lo aveva mai visto single o impegnato in una storia seria. Aveva avuto vari flirt che erano durati al massimo una settimana e con più ragazze alla volta, ma su questo ultimo punto non aveva alcuna certezza: aveva sentito solamente delle voci in proposito, forse messe in giro addirittura da Thomas stesso, e nessuna prova.
- Fidati, sarà mia. – scommise lui, ignorando la provocazione di prima.
- Ma non te la sei già giocata venendo qui con me? – puntualizzò la ragazza e sorrise, soddisfatta del suo acume.
- Tu non sei fondamentale per il piano di conquista. Ti ho portata qui solo perché mi annoio ad appostarmi da solo.
- Se è solo questo il motivo, perché non hai chiesto ad un tuo amico di accompagnarti? – domandò lei, ferita dalla scoperta della sua inutilità.
- Nessuno era disposto ad alzarsi così presto. – rispose Thomas calmo, sorseggiando il caffè. Irina tacque, ammutolita dal comportamento glaciale del ragazzo nei suoi confronti. E pensare che la sera prima era stata così felice nel leggere l’invito che le aveva mandato, dopo tanto che non andavano più all’università insieme… Si morse il labbro, incassando quel duro colpo. Per evitare di guardarlo, prese il cellulare dalla tasca della giacca e controllò l’ora.
- Si sta facendo tardi per me: devo correre, altrimenti non arriverò in tempo a lezione. – finse lei, alzandosi dalla sedia e fuggendo dal bar prima che lui potesse salutarla o seguirla.
Thomas la osservò dileguarsi, attonito. Sbirciò l’orario dall'orologio che sfoggiava al polso sinistro. Mancava ancora mezz'ora all’apertura delle aule e la facoltà era a cinque minuti da lì. Lesse per scrupolo anche gli orologi appesi alle pareti, i quali concordavano con il suo. Thomas non riusciva proprio a capire la frettolosa uscita dell’amica. Forse Irina aveva letto male l’ora oppure si era offesa per qualcosa che lui aveva detto. No, adesso non poteva pensare a Irina: la biondina era da sola al bancone. Era giunto il momento di entrare in azione. Scrollò le spalle per togliersi di dosso ogni pensiero sull'amica e si avvicinò alla preda.

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Capitolo 3
*** 'Cause I know that you feel me somehow ***



 

2. 'Cause I know that you feel me somehow



Irina si guardò attorno, cercando un posto in cui potersi nascondere. Aveva già girato l’isolato quattro o cinque volte e adesso voleva solo fermarsi da qualche parte, un po’ per la stanchezza dovuta alla camminata e un po’ perché si sentiva stupida a passare davanti alle stesse case in continuazione. Era certa che qualche residente si fosse già accorto della sua ennesima ronda e che avesse già preso in mano il telefono per chiamare la polizia. Doveva assolutamente cambiare zona.
Poteva dirigersi al campus. Sebbene le aule fossero ancora chiuse, si sarebbe potuta appostare lo stesso sulle gradinate della sede della Scuola di Culture e Lingue, ma c’era freddo e inoltre Thomas poteva essere lì, ad aspettarla, e lei non aveva voglia di vederlo. Non poteva nemmeno tornare da Starbucks: per quel che ne sapeva, lui poteva essere ancora seduto al tavolo dove lo aveva lasciato, da solo o con la bionda. Lui era dappertutto, maledizione!
Appoggiò la schiena ad un muro di mattoni rossi, la tipica recinzione delle case di Liverpool, e alzò lo sguardo. Nella sua testa continuava a rivivere le dure parole di Thomas e il suo atteggiamento distaccato. Dannazione, era mai possibile che quello non si fosse ancora reso conto che lei non era un amico con il quale poteva parlare delle ragazze che frequentava e renderlo complice dei suoi abbordaggi? A quanto pareva no e probabilmente non ci sarebbe mai arrivato da solo. Doveva assolutamente affrontarlo e spiegargli tutto. Ma non oggi, non ne aveva il coraggio.
Un fulmineo movimento della tenda della casa di fronte la fece insospettire. Cercando di essere il più naturale possibile, prese il cellulare e finse di usarlo. Lo ripose con cura nella tasca della giacca e se ne andò con aria scocciata. Decise di andare all’università e, se avesse incontrato l’amico, di ignorarlo.
Il quartiere universitario era già pieno di vita: le auto dei professori e dei ricercatori occupavano le strade, tutte intenzionate a parcheggiare non troppo lontano dal luogo di lavoro, mentre alcuni studenti facevano jogging sui marciapiedi. Invece Irina passeggiava con calma, ben attenta a scansare i corridori troppo concentrati nell’attività e che si dimenticavano dell’esistenza dei pedoni. Quelli erano i peggiori.  Una volta un jogger era stato messo sotto da una bicicletta e si era ritrovato una gamba incastrata fra i raggi della ruota anteriore. Fortunatamente non aveva riportato danni permanenti, però da allora prestò maggiore attenzione alla strada.
Era già arrivata nel parco di Abercromby Square. In primavera, quando il clima era più mite, vi trascorreva volentieri le ore buche ed era solita studiare sotto una grossa quercia vicina al palazzo della facoltà. Ora, vederla spoglia le metteva tristezza e sperava che quell’ondata di gelo fuori stagione cessasse presto, facendo sì che il caldo facesse spuntare le prime gemme. La ragazza si voltò di scatto, interrompendo la contemplazione del suo albero, tuttavia non si accorse della studentessa che si stava avvicinando, carica di libri in mano.
- Maledizione, scusami, non ti avevo visto! – gridò Irina così forte da attirare l’attenzione dei passanti, che non si preoccuparono nemmeno di accorrere quando videro che due ragazze si erano scontrate.
- No, scusami tu, dovevo fare più attenzione io. – la rincuorò l’altra. Era una bella ragazza dai capelli rossi, raccolti in una disordinata crocchia. Gli occhi nocciola chiaro erano protetti da un paio di occhiali dalla montatura sottile.
Irina si sentì in soggezione. Preferiva di gran lunga gli uomini alle donne, ma non riusciva a restare indifferente di fronte a quella sconosciuta. Era troppo bella, maledizione! Già che Irina si sentiva un brutto anatroccolo, ma davanti alla ragazza dai capelli rossi non c’era competizione: Irina era un insetto stecco con capelli color paglia, dritti come fil di ferro. L’unica cosa che le piaceva del suo aspetto erano gli occhi verdi. Sua nonna Nadiya non faceva altro che ripeterle che era uguale a lei alla sua età e che, quando era in Russia, gli uomini facevano a gara per corteggiarla. Tuttavia non erano in Russia, ma in Inghilterra e Irina non si sentiva affatto bella.
- Io sono Irina, piacere. – si presentò lei, mentre stavano raccogliendo i testi scolastici sparsi a terra.
- Piacere, Hannah. – la rossa sorrise timidamente e strinse a sé la pila di libri ricomposta. Le due ragazze si studiarono per qualche secondo, non sapendo bene come comportarsi.
- Scusa se te lo chiedo, ma non ho potuto fare a meno di notare che i libri sono in francese. Frequenti la Scuola di Lingue anche tu? – infine fu la bionda a rompere il silenzio.
- Sì, sono al secondo anno. – rispose Hannah, distogliendo lo sguardo. Era tremendamente imbarazzata: era la prima persona al campus che le aveva rivolto la parola in modo così energico e solare. Di solito le sue compagne di corso la evitavano come la peste, ritendendola la secchiona che si siede sempre in prima fila e fa le domande più noiose a pochi minuti dalla fine della lezione, tenendole bloccate ancora in aula. Per non parlare poi dei terribili scherzi che le aveva fatto la sua compagna di stanza al primo anno!
- Che coincidenza, anch’io! Però mi sembra di non averti mai vista in giro. Che lingue studi? – Irina continuò a riempirla di domande, sperando di scoprire qualcosa d’interessante su di lei. La incuriosiva in particolare il fatto che, sebbene fossero entrambe coetanee, non si erano mai incontrate prima.
- Spagnolo e francese.
- Ecco perché: non abbiamo gli stessi corsi. Io faccio tedesco e italiano, anche se stavo pensando di aggiungere francese l’anno prossimo. È una bella lingua?
- Non è male. – disse Hannah, sentendosi sempre più in soggezione per la conversazione. Doveva allontanarsi da lì alla svelta, non ce la faceva più a sostenere il dialogo. – Scusami, ma devo andare. Ci rivedremo in facoltà, no?
- Sì, certamente! – le promise l’altra, ma non fece in tempo a finire la frase che Hannah si era già volatizzata. Che strana ragazza, pensò. Le era bastato poco per inquadrarla: era una tipica ragazza da parete che aveva paura delle persone, però la trovava simpatica. Non le sarebbe dispiaciuto conoscerla meglio e diventare sua amica. Forse perché era proprio di un’amica di cui entrambe avevano bisogno.
Mentre stava ancora fissando il vuoto davanti a sé, immersa nei suoi pensieri, il bidello della facoltà arrivò, irritato per la nuova giornata lavorativa e aprì le porte dell’istituto. Lei aspettò una decina di minuti, giusto per non sembrare una stalker, poi entrò a sua volta. Dopo tutto quello che le era successo quella mattina, adesso non aveva voglia di seguire le lezioni, ma il suo buon senso le diceva che almeno fisicamente doveva essere presente in aula, ma con la testa poteva spaziare dove voleva. Passò così quasi l’intera giornata a scarabocchiare trame per possibili racconti, fregandosene degli appunti. Tanto i professori mettevano sempre sul sito le diapositive con la spiegazione della lezione.
 
La chiave girò nella serratura e Irina entrò in casa. Si tolse senza troppa cura gli stivali alti e li lasciò cadere rumorosamente a terra nel minuscolo antro dell’ingresso che fungeva da scarpiera. Li guardò per una manciata di secondi, indecisa se lasciarli lì o metterli sul poggia scarpe. La sua pigrizia avrebbe preferito dimenticarseli in mezzo allo stanzino, ma il senso pratico le ordinava di tenere in ordine. Se ci fosse stata un’emergenza che l’avrebbe costretta a uscire di strada in pantofole e in fretta, quegli stivali non erano un tantino tra i piedi? Irina sbuffò di fronte a quell’argomentazione estremamente convincente e decise di ascoltare la sua coscienza. Scocciata, acciuffò gli stivali e li mise da un lato, accanto alla scarpiera. Ora che il passaggio era sgombro poteva finalmente affondare i calzini nella moquette dell’ingresso. Quanto le piaceva sentire quel pizzicorino morbido e affettuoso sotto la pianta dei piedi dopo un’intensa giornata all’università!
Quel gesto la faceva sempre sentire a casa e le alleviava la solitudine che si prova a vivere da soli in una grande casa, o almeno quel tanto che bastava a non telefonare in lacrime alla mamma come aveva fatto ogni giorno del primo semestre in cui si era trasferita. Per carità, sentiva ancora nostalgia della sua famiglia dopo quasi due anni di separazione, però ormai ci aveva fatto l’abitudine. Anche adesso la percepiva in quell’enorme silenzio di quella enorme casa vuota. Doveva assolutamente telefonare ai suoi genitori dopo cena.
Si issò la borsa sulla spalla e si diresse in cima alle scale, dove c’era la sua camera. Accasciò la cartella accanto alla porta e si buttò sul letto. Era sfinita! Quella giornata era stata massacrante sia a livello fisico sia a livello emotivo. Per farsi ancora più male, controllò il telefonino. Non le era arrivato niente, né un messaggio né una mail. A quel punto si chiese se Thomas non la stesse evitando: al campus non lo aveva incrociato neanche una volta e non lo aveva trovato fuori dalla sede di Lingue come faceva di solito. Per scrupolo, Irina aveva controllato la doppia tabella con i loro orari e quel giorno finivano alla stessa ora. Ma forse stava pensando troppo e si stava preoccupando inutilmente: lui poteva benissimo essere tornato a casa un’ora prima o un’ora dopo. Era comunque strano il fatto che lui non le avesse detto nulla in proposito…
Lei si sarebbe strappa i capelli dalla disperazione se in quel preciso istante il campanello non avesse suonato, facendola riemergere dalle sue congetture apocalittiche. Con gran fatica si alzò dal letto e corse al piano terra. Spalancò la massiccia porta colo bordeaux e si ritrovò davanti il suo bel vicino.
- Mamma vuole sapere se vieni a cena da noi adesso. – la informò Thomas tutto d’un fiato. Dal modo in cui la guardò, si capì che non era felice di essere venuto fin lì per una bazzecola. Irina ebbe una gran voglia di rifiutare l’invito, poi però pensò all’enorme dispiacere che avrebbe dato alla signora Johnson non presentandosi.
- Sì, va bene, vengo. – accettò infine.
- Ok, tra cinque minuti è pronto. – disse lui rapidamente e si dileguò, scavalcando abilmente la bassa recinzione che separava le due proprietà. Irina rimase intontita davanti all’ingresso: era successo tutto troppo in fretta. Quando realizzò che aveva tre minuti per andare alla villetta accanto, indossò il primo paio di scarpe da ginnastica logore che le capitò sotto mano, prese velocemente le chiavi, serrò la casa e si precipitò nel giardino confinante.
- Sei in ritardo. – la accolse Thomas sulla porta. Irina rimase scioccata: come poteva essere in ritardo se aveva avuto l’avviso poco prima?
- Non dargli ascolto, cara. Thomas sta solo facendo l’antipatico. – la voce della signora Johnson rimbombò potente tra le pareti della hall.
- Mamma, le ho detto che aveva cinque minuti e ne sono passati sei. È in ritardo! – strepitò il ragazzo, rivolto alla cucina, dove sua madre stava preparando qualcosa di buono. Ne era testimone il delicato profumo che sfuggiva dal forno e che stava invadendo il cortile.
- Non essere sempre così fiscale, figliolo, soprattutto con una donna. Ma che razza di educazione hai ricevuto? – riprese la donna, quando i due ragazzi fecero capolino nel suo regno. Yuki era intenta a mescolare una grossa pentola su fuoco medio. Stava preparando una delle sue tipiche salse piccanti che accompagnavano il pollo. Irina si leccò i beffi in segreto, ringraziando mentalmente la vicina per averla chiamata a cena: se non fosse stato per lei, la ragazza avrebbe riscaldato dei bastoncini di pesce. A Irina piaceva cucinare, ma non pranzava mai a casa e dopo un’intensa giornata all’università non aveva voglia di mettersi ai fornelli, così mangiava i cibi precotti che ogni nonna detesta.
- Ricordo che mi hai cresciuto tu. – Thomas continuò la diatriba, ormai abitudinaria. Sua mamma si lamentava sempre del suo carattere distaccato e quasi aggressivo, ma in fondo si volevano molto bene. In realtà Yuki aveva capito che il temperamento del figlio era causato dall’essere il piccolo di famiglia, oscurato da suo fratello maggiore, Matthew. Thomas non avrebbe mai ammesso che sentiva la mancanza di quelle piccole attenzioni che i suoi genitori avevano riversato sul primogenito e adesso che Matt viveva a Londra, non riusciva a colmare la sua solitudine. L’unica compagnia che aveva era Irina, ma era spaventato dal legame che si era creato tra loro e per questo a volte la allontanava, anche in malo modo.
- Non mi sembra di averti insegnato a trattare così una signora. Dev’essere tutta colpa di tuo padre.
- E io cosa c’entro? – s’intromise il signor Johnson, abbassando il Liverpool Daily Post. Dalla sua sedia della sala da pranzo poteva vedere la moglie indaffarata a cucinare e sentire ogni parola che diceva. Ripiegò con cura il quotidiano e lo appoggiò sulla tavola.
- Caro, non mettere il giornale lì, che bisogna apparecchiare. – ordinò la moglie, accortasi del gesto e lui subito obbedì. Si alzò in piedi e preparò quattro tovagliette di bambù. 
Irina cercò di aiutare Richard come poté: stava per prendere i bicchieri dalla credenza in cucina, ma Yuki la fermò, picchiettandole la mano con il mestolo di legno che stava usando. Irina era un’ospite, perciò non doveva occuparsi delle faccende domestiche. Doveva essere invece suo figlio ad aiutare in casa, ma Thomas se ne lavò bellamente le mani e si sedette al suo solito posto nella sala da pranzo, lasciando tutto il lavoro ai genitori.
La signora Johnson portò in tavola i piatti. Irina aveva immaginato bene: pollo arrosto, dalla doratura perfetta. Gustò ogni morso del petto che aveva davanti. Yuki la conosceva così bene, che le aveva dato la sua parte preferita di carne. Anche il dolce era squisito: una crema guarnita con le prime fragoline della stagione.
Finita la cena, i genitori si occuparono delle pulizie, mentre Thomas portò Irina in camera sua. Era una stanza abbastanza spaziosa, che si affacciava sulla strada. Thomas aspettò che la ragazza si sedesse sul suo letto per chiudere la porta a chiave.
- Si può sapere che cosa ti è preso stamattina? – iniziò lui.
- A me? Niente. – mentì lei, cercando di sembrare il più naturale possibile, ma l’amico non ci cascò.
- Irie, sei andata via prima. All’inizio pensavo che avessi guardato male l’orario del telefono, poi ho capito che era una balla. È tutta la giornata che ci rimugino. Avanti, dimmi cosa succede. – la incitò lui, sedendosi accanto a lei. Nonostante il tono autoritario, era davvero preoccupato per Irina: non l’aveva mai vista infastidita come quella mattina e impacciata come in quel momento. Voleva stringerle la mano, così vicina alla sua, ma qualcosa lo frenò.
- Mi ha dato fastidio il modo in cui mi hai parlato questa mattina. – confessò la ragazza, alzandosi e portandosi alla finestra. Lui era vicino, troppo vicino.
- Cosa, di preciso? – insisté Thomas, quando si accorse che la ragazza non continuava.
- Il fatto che mi tratti come un amico maschio. Non sono un ragazzo, Thomas! Mi dà fastidio quando parli delle tue avventure: tratti le donne come se fossero oggetti e questo non lo tollero. – infine Irina riuscì a dirgli la verità. Si sentì libera di un peso che stava portando da troppo tempo. Lo osservò, mentre gli stava dicendo la realtà. Lui rimase impassibile: se ne era ferito, non lo dava a vedere.
- Non lo sapevo. Mi dispiace. – disse alla fine lui, tranquillo. Questo atteggiamento irritò Irina non poco. Cominciava a credere che quel ragazzo non provasse sentimenti di alcun genere.
- Tutto qui? – Irina dovette farsi forza per non gridare. Sentiva gli occhi pungere, pronti a piangere.
- Sei un’amica, cosa posso dirti? Certo, forse ho esagerato. – ammise lui e la raggiunse, per poi abbracciarla. La strinse così forte a sé, che Irina scoppiò in lacrime. – Ti prometto che ti terrò fuori dalle mie “avventure”, se questo ti farà stare meglio. – le giurò in un rassicurante sussurro. Irina afferrò la sua camicia e si lasciò cullare dalla sua tenerezza. Le sue braccia la tranquillizzarono. Lo aveva giudicato male, come faceva spesso. Dopo tutto, Thomas non era una cattiva persona e intuiva sempre come si dovesse comportare in momenti come quello. Faceva solo finta di essere indifferente, ma aveva un cuore, Irina ne era sicura. Inspirò il suo profumo delicato, che tanto le piaceva e si lasciò trasportare dal momento.
 
Thomas si abbottonò la camicia. Era un capo d’abbigliamento un po’ elegante da indossare per andare all’università, ma dopo anni che era stato costretto a portarla come divisa scolastica, ci aveva fatto l’abitudine. Oltre tutto, l’uomo con la camicia piaceva sempre. Si riguardò attentamente allo specchio. Ora era pronto per andare. Si mise la tracolla e scese le scale. Uscendo da casa, diede una rapida occhiata alla villetta accanto. Si sentì solo, se pensava al fatto che oggi doveva fare la strada senza di lei, la sua vicina. Infatti Irina era andata via un’ora prima per preparare una presentazione. O qualcosa del genere. Da quando si erano chiariti, le cose tra di loro andavano meravigliosamente.
Si fermò da Starbucks a prendere un cappuccino da portar via. Con la biondina non era andata bene, ma questo non lo aveva fatto desistere dal continuare a passare in quel coffee shop prima delle lezioni. C’era sempre così tanta gente da osservare! Una ragazza in particolare aveva attirato la sua attenzione: era seduta su una poltroncina in fondo al locale e leggeva. Le piaceva il modo con cui si tirava su gli occhiali, portando un lato della mano sotto la montatura e spingendo. Non era la solita preda dallo sguardo ammiccante e dall’atteggiamento sensuale. Quella ragazza non era truccata e non indossava nulla di appariscente. Thomas scommetteva però che quel maglioncino sformato celasse un abbondante seno. Ma fu la sua mano che scostava e arruffava i riccioli rossi a fargli perdere la testa. Si diresse sicuro verso di lei, decidendo mentalmente che tattica d’approccio usare.
- Scusa, è libero questo posto? Gli altri tavoli sono tutti occupati. – chiese educatamente il ragazzo, indicando la poltroncina di fronte a lei. Riccioli di Fuoco, così l’aveva battezzata Thomas, si staccò dal libro e prima guardò lui imbarazzata, poi il locale. Era pieno. Non aveva voglia di far sedere uno sconosciuto, per quanto bello e affascinante lui fosse. E quello era davvero aitante. La buona educazione prevalse però, così fece un accenno di assenso con la testa.
Thomas la ringraziò e si sedette. Accavallò le gambe e bevve il suo cappuccino, cercando di non guardarla per non scoprire le sue vere intenzioni. Lei era davvero timida e lo provava il fatto che non osava staccare gli occhi dal libro. Serviva una strategia diversa. Con tipe del genere a volte bastava solo sicurezza e spirito di intraprendenza.
- Cosa leggi di bello? – e attaccò. Riccioli di Fuoco quasi sobbalzò per la sorpresa. Nessuno si era mai interessato a lei, soprattutto un bel ragazzo. Sollevò il volume e gli fece leggere il titolo. – “I Miserabili”, ottima scelta. L’ho letto al liceo e mi è piaciuto molto. – se Thomas era rimasto affascinato dall’aspetto di lei, adesso lo aveva incatenato la sua mente. I due iniziarono una conversazione intellettuale su Hugo e i romanzi francesi. Era incredibile il modo in cui si capivano: avevano gli stessi gusti.
- Si è fatto tardi, tra poco ho lezione. – la informò Thomas, sinceramente dispiaciuto di abbandonarla.
- Anche io.
- Perfetto, allora possiamo andarci insieme! – esclamò il ragazzo, contento di poter trascorrere dell’altro tempo in sua compagnia. La ragazza annuì e si alzò. Lui la seguì, come un cagnolino che fa le feste perché la padrona lo porta a spasso.
- A proposito, non ci siamo ancora presentati. Io sono Thomas, è un piacere conoscerti. E tu come ti chiami?
- Hannah, mi chiamo Hannah.

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Capitolo 4
*** You're the closest to heaven that I'll ever be ***


 

3. You're the closest to heaven that I'll ever be

 

La giornata di Irina era stata pessima: si era alzata prima del solito per incontrarsi con una collega e progettare una presentazione, ma quest’ultima non era venuta all’appuntamento e addirittura si era infuriata a lezione, perché Irina non aveva concluso il lavoro. Già di pessimo umore, la classe fu sottoposta ad una esercitazione a sorpresa, che poteva aumentare di qualche punto l’esame di fine corso se svolta bene. Irina rispose solo a poche domande, convincendosi così di non aver passato il test e abbattendosi ancora di più. Al termine delle lezioni, aveva cominciato a piovere e sfortunatamente la ragazza aveva dimenticato l’ombrello a casa. Non c’era nemmeno Thomas ad aspettarla, perciò fece tutto il tragitto che separava l’università dalla sua villetta di corsa. Avrebbe potuto prendere l’autobus, ma la fermata era distante dall’abitazione, poi era abituata a fare il percorso a piedi, anche con la neve.
I vestiti grondanti stavano inzuppando tutta la moquette dell’ingresso. Irina si strinse forte le braccia, cercando di placare il freddo che le era entrato sotto pelle, innescandole brividi in tutto il corpo. Era stata sotto l’acquazzone a lungo, senza un riparo. Il giorno dopo avrebbe avuto sicuramente la febbre. Si fiondò nel bagno di servizio e lasciò gli indumenti fradici nel lavandino. Con una velocità da corridore olimpionico, scattò al primo piano, dove fece una doccia bollente. Si mise anche il pigiamone di flanella, che teneva tanto caldo. Tanto aveva deciso che quella sera non sarebbe uscita, nemmeno per la cena dai vicini. Aveva soltanto voglia di stare al calduccio, raggomitolata sotto il piumone a guardare la tv: c’era in replica “Notthing Hill” e non poteva perderselo. Sì, aveva proprio bisogno di vedere il suo film preferito per tirarsi su di morale dopo quella giornata infame. Prese dall’armadio a muro sotto la scala un paio di coperte di lana e fece appena in tempo a sistemarle sul divano, quando il campanello suonò.
La ragazza non si stupì, ormai non poteva più: c’era soltanto una persona che poteva passare a quell’ora. Infatti, dietro alla porta, coperto da un grosso ombrello, c’era il suo vicino di casa, la figura più onnipresente nella vita di Irina, ma solo quando pareva a lui.
- I miei sono andati fuori a cena e io sono a casa da solo, ti va se… Aspetta un momento, perché sei già in pigiama? – Thomas si distrasse dal suo discorso, programmato mentre stava venendo da lei, quando notò quell’imbarazzante “tuta” violetta che era il doppio della sua amica.
- Mi sono bagnata mentre stavo tornando a casa. Ho preso una montagna di freddo e adesso sto applicando i metodi della nonna per non farmi venire la febbre. – riassunse lei, ma ciò confuse il ragazzo ancora di più. – Devo stare al caldo. – spiegò Irina, più diretta, ma Thomas non dava segni di aver capito. Chissà cosa gli stava passando per la testa.
- Aspettami un attimo. Torno subito. – il ragazzo si chiuse la porta in faccia e sgattaiolò dall’altra parte della recinzione. Irina rimase a guardarlo dalla finestra mentre entrava in casa e accendeva le luci del soggiorno. Non riusciva a capire il suo atteggiamento frenetico. Che avesse paura di prendere qualche malanno da lei? Impossibile, Irina non si era ancora ammalata. Allora cosa stava confabulando quello là? Ma eccolo che stava uscendo con una sacca da ginnastica sulla spalla. La ragazza aprì in fretta il portone e lo fece entrare. Gli fece togliere le scarpe e gli diede un paio di pantofole col pelo rosa da indossare.
- Cos’hai in quella borsa? – domandò lei, mentre l’amico si stava slacciando una scarpa.
- Il pigiama. Dormo qui stanotte, sempre che non sia un problema. – rispose lui con il massimo di nonchalance. Praticamente si era autoinvitato per la notte e aveva pure la sfacciataggine di non creare disagi. Irina lo avrebbe volentieri sbattuto fuori di casa, sotto la pioggia, ma era troppo civile per farlo.
- Va bene. – disse lei, secca e incolore. Dopo tutto, un po’ di compagnia non le avrebbe fatto male. Basta che non si lamentasse del letto nella stanza degli ospiti, come faceva sempre.
- Ho pensato che avessi bisogno di qualcuno che si prenda cura di te prima che ti venga qualche accidente per la pioggia. Ho chiamato i miei e non hanno niente da ridire. – chiarì poi Thomas, rendendosi conto che aveva imposto all’amica la sua presenza senza una valida spiegazione.
- Ti ringrazio per il pensiero, ma non sto morendo. – ribatté lei, stizzita. Incrociò le braccia al petto, un chiaro segno che non le andava a genio tutta quella premura. Poteva aspettarsi un gesto simile da parte di Yuki Johnson, madre amorevole e tipicamente giapponese nell’idea di occuparsi dei malati. Suo figlio minore, però, non aveva mai avuto tendenze simili.
- Non si sa mai. – disse Thomas, sarcastico. Lasciando la padrona di casa vicino alle scale, si diresse in cucina. – Vai a sdraiarti sul divano. E non voglio sentire scuse: penso a tutto io. – ordinò lui. Anche se poteva sentire soltanto la sua voce, Irina rimase comunque spiazzata. Da quando il suo migliore amico menefreghista era diventato così apprensivo e gentile? Sempre che il ragazzo che aveva accolto in casa fosse proprio Thomas e non un alieno che ne aveva preso le sembianze. O più probabilmente le stava salendo la febbre e tutto questo era un’allucinazione. Si pizzicò un braccio per verificare che non stesse sognando: sentiva il dolore, quindi era sveglia. La situazione rimaneva comunque strana. Infine decise di dargli corda e si sistemò sul sofà, ben riscaldata dalle coperte. Se Thomas voleva prendersi cura di lei, che lo facesse pure: ogni tanto era bello essere coccolati!
Il ragazzo fu un bravo infermiere: le preparò del brodo di pollo e le fece vedere alla televisione ciò che voleva lei. Ebbe da ridire soltanto quando iniziò “Notthing Hill”: non sopportava quel film. La trama era completamente insulsa e inverosimile. Non capiva perché le donne andavano matte per quel genere di roba. Idealizzavano fortemente l’amore, inculcando in loro l’idea che una relazione dovesse essere così pura e genuina. Lui non si sarebbe mai imbarcato in una storia del genere, ecco perché si teneva alla larga da qualunque ragazza che affermava che il film più bello al mondo fosse “Le pagine della nostra vita”. Una calamità naturale, ecco che cos’erano.
- Cos’è che ti piace tanto di questo film? – chiese Thomas alla sua amica, stravaccata dall’altra parte del divano, non appena finì il primo tempo e iniziò la pubblicità.
- Hugh Grant. – rispose lei, prendendo un manciata di pop corn, che lui le aveva gentilmente preparato.
- Davvero guardi un polpettone del genere solo per Hugh Grant? – il suo tono di voce si alzò di un’ottava. Il ragazzo non poteva credere a quell’affermazione. Certo, Irina aveva tutta l’aria di essere il tipo di ragazza che fa cose simili, ma non l’aveva mai creduta capace di tanto.
- Poi mi piace anche la trama. È assurda, ma sognare non fa mai male. – ammise subito dopo. Si girò per guardarlo e si mise a ridere: l’espressione di Thomas era un misto tra incredulità e disgusto. Era davvero buffo!
- Non ci credo. Non posso crederci! Tu, una romanticona?
- So che non vivrò mai una storia d’amore simile, ma ogni tanto vedere qualcosa di sdolcinato mi fa ripensare al fatto che forse anche gli uomini hanno dei sentimenti.
- Certo che ce li hanno! – rispose lui, sbuffando. – Perché ti è venuta questa assurda idea in mente? – chiese dopo poco. Il film ormai era ricominciato, ma sembrava intenzionato a impedire alla vicina di seguirlo.
- Perché tu non hai sentimenti. Sei l’Uomo di Ghiaccio. – spiegò Irina, gli occhi fissi sullo schermo. Thomas incassò silenziosamente il colpo. È vero, non si era mai messo in gioco seriamente in una relazione, ma lo faceva perché non si sentiva coinvolto da nessuna delle ragazze che frequentava. Non aveva ancora trovato quella giusta.
- Credi davvero che sognare il principe azzurro sia inutile? – la voce di Irina si sovrappose a quella di Julia Roberts, proprio su un momento chiave.
- Se ti crei delle aspettative troppo alte su come debba essere il tuo uomo ideale, allora sì. – rispose sinceramente lui. Quella conversazione stava diventando troppo strana, troppo femminile per i suoi gusti.
- Perché gli uomini non sono mai come nei film? – si lamentò la ragazza, raggomitolandosi sotto la coperta.
- Hai sentito Jeremy di recente? – dedusse lui. Jeremy era il fidanzato del liceo di Irina. Thomas non lo aveva mai incontrato, ma da quello che le aveva raccontato la sua amica era un vero idiota: si era fatto beccare con un’altra la prima sera del primo ritorno a casa di Irina dal suo trasferimento a Liverpool.
- Mi ha cercata un paio di giorni fa. Voleva sapere se avevo io il suo dannato cd dei Foo Fighters. Ma io non ce l’ho. Come farei ad averlo se nemmeno mi piacciono? – la ragazza prese a pugni il bracciolo del divano per sfogarsi. Maledizione, aveva bruciato quattro anni della sua vita insieme a lui!
- Che idiota. – concluse Thomas. – Poi, scusa, vi siete lasciati più o meno due anni fa…
- Un anno e mezzo. – lo corresse lei, interrompendolo.
- Sì, insomma, quel che è. Dicevo: vi siete mollati tanto tempo fa e non vi vedete da altrettanto, quindi perché dovresti avere tu il suo cd? – finì Thomas.
- Mi aveva prestato molte delle sue cose quando eravamo fidanzati, persino della musica. Avrà pensato che non gliel’avessi restituito, ma sono sicura di non averlo tenuto, perché non è rimasto nulla di mio a Nottingham. Me ne sarei accorta col trasloco, non ti pare?
- Non saprei, sei sempre così sbadata che potrebbe aver ragione quell’idiota del tuo ex. – la punzecchiò lui. Irina si offese immediatamente per il commento dell’amico e stava per rispondergli per le rime, quando notò il sorriso sarcastico che aveva stampato in faccia. Thomas stava aspettando la sua risposta e si stava già pregustando una bella battaglia verbale. Una dichiarazione di guerra in piena regola e lei avrebbe raccolto il guanto di sfida, ma non alla sua maniera. La ragazza finse di sistemarsi il cuscino dietro la schiena, ma in realtà lo scagliò contro il vicino, che non si aspettava un attacco così violento e al contempo infantile da parte di lei. Non gli piacque quel gioco, per niente. Anche perché rischiava di perdere una lente a contatto. Non che ci vedesse male, in fondo soffriva soltanto di una lieve miopia, però non si trovava a suo agio con gli occhiali. Ecco perché decise di terminare lì il gioco: si strinse il cuscino al petto e non lo mollò un solo istante, neanche quando Irina cercò di riprenderselo per riusarlo come sostegno per la sua povera schiena dolorante. Quel ragazzo era davvero antipatico.
 
La sveglia del cellulare di Thomas rimbombò per tutta la camera, svegliando i due dormienti. Irina mugugnò qualcosa, ancora immersa nel torpore del sonno, e si rigirò dall’altro lato del letto. Thomas ebbe invece il buon senso di alzarsi e di staccare quell’allarme infernale, contento di potersi sgranchire le gambe. Aveva passato una notte da incubo dormendo per terra, rannicchiato nel sacco a pelo che si era portato da casa. Irina aveva provato a sistemarlo nella stanza degli ospiti, ma lui non volle sentir ragione, sostenendo che così sarebbe stato più facile assicurarsi che lei stesse bene durante la notte.
- Svegliati, pigrona. – la chiamò il ragazzo. Irina borbottò ancora qualcosa di incomprensibile, ma fu costretta a svegliarsi quando avvertì un oggetto estraneo e caldo premerle sulla fronte. Improvvisamente spalancò gli occhi, ritrovandosi davanti un naso. Non era particolarmente armonioso, ma almeno era dritto. Sì, lo ammetteva: era un bel naso.
- Thomas, si può sapere cosa stai combinando? – riuscì a dire la ragazza a stento: l’incredibile vicinanza dell’amico l’aveva messa in soggezione.
- Verifico soltanto che tu non abbia la febbre. – spiegò lui, togliendole la mano dalla fronte. – Non scotti, però non capisco perché le tue guance siano rosse.
- Forse perché mi hai spaventato? Non si sveglia bruscamente chi sta dormendo, non lo sapevi? – Irina inventò una maldestra scusa per spiegare il suo comportamento, così strano agli occhi del ragazzo. A pensarci bene, era strano anche per lei: anche se la loro era un’amicizia burrascosa, erano molto complici e certi comportamenti troppo affettuosi, come la preoccupazione di Thomas per la sua salute, non avevano mai creato loro alcun disagio. Erano fratello e sorella, ma allora perché ultimamente Irina avvertiva un nodo allo stomaco quando la distanza tra loro due era minima?
- Guarda che quella regola vale soltanto per i sonnambuli. – la corresse lui, con il suo solito tono incolore, ma incredibilmente saccente.
- Non m’interessa: adesso avrò una brutta giornata perché tu mi hai svegliata male! – lo accusò lei, alzandosi di scatto dal letto e andando verso l’armadio. – Ora, se non ti dispiace, vorrei vestirmi. – e aprì le ante. Fece finta di essere concentrata sulla ricerca di cosa indossare, ma in realtà spiò dallo specchio incastonato nel legno il suo vicino di casa. Anche se la parte più logica di lei le stava gridando di non farlo e di cercare dei vestiti che stessero bene insieme, Irina non riusciva a non guardarlo. Il modo in cui Thomas arrotolava il sacco a pelo e lo metteva nella borsa. Il gesto che faceva per scostarsi i capelli corvini. Il tatuaggio dietro la spalla sinistra, che s’intravedeva sotto la quasi-del-tutto-trasparente canotta bianca, che sembrava prendere vita quando si stirava le braccia. Tutto in lui era maledettamente perfetto. E Irina se ne era accorta soltanto ora.
La porta della camera si chiuse rumorosamente, risvegliando la ragazza dallo stato di trance in cui era sommersa. Si appoggiò ad una mensola dell’armadio, in preda alla confusione. Non si era mai chiesta cosa ci fosse dietro all’attaccamento che provava per il suo vicino di casa. Si era sempre detta che fosse una normale amicizia, però si era resa conto soltanto adesso del modo in cui lo osservava. Non era affatto… normale. Non poteva di certo essersi innamorata di lui: c’erano tante cose che non sopportava del suo carattere. Era vero però che in sua compagnia si sentiva a proprio agio e libera di comportarsi come le piaceva, senza doversi adattarsi all’indole di lui. Ma forse stava interpretando tutto nel verso sbagliato. Maledizione, perché definire i propri sentimenti era così difficile?
Basta, doveva smettere di pensarci. Thomas era il suo migliore amico, quindi non poteva fare nulla al momento. Sì, doveva prendersi del tempo per riflettere e capire la causa delle vertigini che sentiva ogni volta che era in sua compagnia e, se nel caso fosse davvero infatuata di lui, decidere il momento giusto per dichiararsi. No, a quello avrebbe pensato una volta scoperta la vera natura dei suoi sentimenti. Adesso doveva solamente pensare a cosa mettersi.
Irina passò dieci minuti buoni a stravolgere il disordine che regnava incontrastato nell’armadio. Sua madre aveva ragione a definirla una casinista: i panni erano ammassati in pile pendenti senza alcun ordine logico e piegati molto male. Di solito preparava la sera prima i vestiti da indossare il giorno dopo, ma tra una cosa e l’altra quella mattina non aveva nulla di pronto, quindi dovette arrangiarsi, prendendo i capi messi alla meno peggio: un paio di jeans schiariti e un pullover blu scuro con la scollatura a V sopra una canotta bianca. Si pettinò in fretta i capelli, poi corse giù per le scale.
Thomas era già in cucina ad aspettarla, perfettamente in ordine, indaffarato a preparare la colazione. Per una sola persona.
- Tu non mangi? – gli chiese la ragazza, quando lui le servì due toast.
- No, ho un appuntamento per colazione. – rispose lui, sedendosi accanto a lei.
- Con chi? – Irina cercò di mantenere il tono della voce distaccato, anche se stava morendo di curiosità.
- Non mi avevi chiesto di tenerti fuori dalle mie “avventure”? – le ricordò il ragazzo.
- Sì, è vero. – ammise lei, dispiaciuta di non poter sapere altro. Ma almeno lui stava mantenendo la promessa e questo la bionda lo apprezzava.
- Sarà meglio che vada o rischio di arrivare in ritardo. Devo anche portare a casa la borsa. Ci vediamo. – Thomas salutò in fretta l’amica e uscì da casa sua velocemente, così come era entrato la sera prima, lasciandola senza parole, capace solo di spalmare di marmellata la fetta di pane che aveva in mano.

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Capitolo 5
*** And I don't wanna go home right now ***


 

4. And I don't wanna go home right now

- Scusami, sono in ritardo. – Thomas aveva il fiato corto per la corsa che aveva fatto per arrivare puntuale allo Starbucks. Aveva perso del tempo a casa a parlare coi genitori, provando a convincere in tutti i modi sua madre che non avrebbe saltato il “pasto più importante della giornata”, ma lo avrebbe fatto al bar con un amico. Beh, proprio un amico no: era il primo appuntamento con una ragazza che gli piaceva davvero e non voleva rendere pubblico l’avvenimento, caricando di aspettative la sua famiglia. Prima voleva essere certo di riuscire a impegnarsi seriamente, poi avrebbe dichiarato al mondo la relazione.
- No, sei in perfetto orario. Sono io che ho calcolato male i tempi e sono arrivata in anticipo. – lo rassicurò Hannah, arrossendo violentemente. Era palesemente nervosa: quello era il primo rendez-vous serio con un ragazzo e non sapeva come comportarsi. Lui era incredibilmente sicuro di sé e non lo nascondeva, mentre lei si trovava a disagio con qualunque creatura vivente, anche fosse un gatto.
- L’importante è che non ti abbia fatto aspettare troppo a lungo. – concluse il ragazzo, sorridendo. Anche se si erano conosciuti soltanto il giorno prima, lui aveva voluto rivederla il prima possibile. C’era qualcosa in lei che lo attirava come un magnete. Forse la sua bellezza, di cui lei non era consapevole e che celava con la sua timidezza. Oppure il suo carattere brillante che aveva sfoderato nelle poche parole che si erano detti mentre l’accompagnava all’università, anche quello emerse con notevole fatica. Forse era proprio la sua riservatezza ad averlo incuriosito.
Il luogo scelto era lo stesso del loro primo incontro, il normalissimo coffee shop vicino al campus, e quasi non troppo casualmente il tavolino a cui erano seduti era lo stesso di quella volta. Thomas si alzò dalla poltroncina e andò al bancone a prendere la colazione. Volendo fare bella figura al loro primo appuntamento ufficiale, offrì tutto lui. Hannah insisté per dividere, ma il ragazzo non volle sentire ragioni e lei lo ringraziò, arrossendo un’altra volta. Per un po’ il silenzio regnò sovrano tra di loro: nessuno dei due sapeva come poter iniziare un discorso. Thomas era abituato a fare la prima mossa, ma temeva che la sua solita condotta avrebbe spaventato la rossa, che aveva faticosamente convinto ad uscire con lui. Al contrario, Hannah non sapeva reggere una conversazione con l’altro sesso.
- Ci hai messo molto ad arrivare? – chiese Thomas alla fine, quando ormai aveva finito il muffin. Era un argomento banale, ma almeno non era troppo invadente. Così facendo, avrebbe anche intuito la zona in cui lei abitava e avrebbe scelto un locale più vicino a lei per il prossimo appuntamento, sempre che ci fosse stato.
- No, circa un quarto d’ora. Tu? – Hannah fu grata di non essere stata lei a iniziare la chiacchierata. Non sapeva davvero cosa chiedergli. E tanto meno cosa rispondergli. Era consapevole che quella era una domanda di circostanza, un semplice convenevole della buona educazione, ma non sapeva se doveva rimanere sul vago o essere più specifica. Non dando indicazioni precise, non gli avrebbe dato un dettaglio che a lui avrebbe potuto non interessare e avrebbe evitato un’aggressione in piena notte da parte sua. Dopo tutto non sapeva se era un maniaco. D’altro canto, avrebbe omesso un particolare che poteva essere di suo interesse. Infine optò per non aggiungere altro e gli rigirò la domanda, come il protocollo sociale imponeva.
- Più o meno anche io. – rispose Thomas. Purtroppo il suo piano non era andato come lui sperava, ma almeno aveva intuito che era vicina alla zona universitaria. Non sarebbe stato difficile trovare un posto per la prossima volta. – Non sei di Liverpool, vero? Hai un accento più duro di quello della zona. – osservò lui, cogliendola di sorpresa.
- Sì, in effetti vengo da Stirling. – Hannah giocherellò nervosamente con le mani, che erano appoggiate sulle ginocchia. Avrebbe dovuto aspettarsi una domanda simile, ma non immaginava così presto. Sperò che lui non volesse approfondire la questione: non era ancora pronta a parlarne.
- Stirling? Non l’ho mai sentita. Dov’è?
- Scozia, non troppo distante da Edimburgo. – Hannah abbassò lo sguardo, sempre più agitata, e si fissò le dita, che stavano tormentando le pellicine di alcune unghie.
- Quindi sei scozzese? Che stupido che sono: avrei dovuto capirlo prima per via del colore dei tuoi capelli. – Thomas, accortosi del disagio della ragazza, cercò di risollevare lo spirito della conversazione con una squallida battuta. Si vergognò nel dirla, ma non gliene era venuta in mente nessun’altra migliore per far distrarre la rossa. Ma straordinariamente quella rise.
- No, non c’entra nulla. Ci sono tantissimi scozzesi che non sono rossi. – gli spiegò, il sorriso ancora sulle labbra. Thomas prese il bicchiere di carta contenente il caffè e ne bevve un sorso, godendoselo mentre la stava contemplando. Così raggiante, Hannah era ancora più bella. Ebbe l’impulso di scattarle una foto col cellulare per avere quell’immagine sempre con sé, ma non ebbe il coraggio di farlo: così facendo, quell’istante avrebbe perso tutto il suo splendore. – C’è qualcosa che non va? – chiese la ragazza, quando si accorse dello sguardo perso del suo interlocutore.
- No, stavo solo ammirando il tuo sorriso. Mi piace: ti rende ancora più bella. – ammise lui, schietto. Si mostrò più naturale che mai, ma dentro aveva paura di aver sbagliato mossa. Alle sue solite prede, una frase del genere gli assicurava sempre la vittoria, ma lei, così timida, era come un terreno inesplorato.
- Grazie. – sussurrò Hannah, dopo l’iniziale imbarazzo che l’aveva fatta arrossire violentemente. Il suo cervello ci mise qualche secondo a capire che non stava sognando e che quel complimento era reale. I ragazzi della sua città non si erano mai interessati a lei e neanche quelli dell’università l’avevano mai degnata di uno sguardo. Ma Thomas sì, era realmente affascinato da lei e non aveva problemi nel dimostrarlo.
 
Anche quella giornata sarebbe stata nefasta, Irina se lo sentiva dentro: dalle radici dei capelli alle unghie dei piedi. Anche l’aria umida e il grigiore delle nuvole glielo suggerivano. Ma forse stava solo sfogando il suo malumore sull’ambiente. Dopo tutto, non si sentiva affatto bene: la sua mente ripercorreva insistentemente il brusco risveglio e, come se non bastasse la confusione che l’affliggeva, lo stomaco non le dava tregua. Probabilmente la nausea che provava fin da dopo la colazione era uno sfogo postumo del freddo patito il giorno precedente. Eppure era certa che la causa non fosse il fisico: era una sensazione diversa dai comuni problemi di digestione. Poteva benissimo essere ansia da esame, sì, quella stretta allo stomaco che le toglieva il fiato prima di ogni prova orale e la faceva andare nel panico, rovinando il colloquio. Non si stupiva se i suoi voti di lettorato erano così bassi.
Passeggiava nelle vie attigue al campus, non facendo caso a dove stava andando. Non aveva voglia di seguire i corsi quel giorno: i docenti delle ore di conversazione si sarebbero infuriati con lei per il pessimo livello di lingua che aveva raggiunto e la scarsa partecipazione e lei si sarebbe sentita ancora più piccola e più inutile di quanto si sentisse già. Finiva quasi sempre così: rinchiusa nella toilette a piangere, ovviamente quando non c’era nessuno. C’erano giorni in cui desiderava cambiare indirizzo di studi, ma nessuno ne era al corrente: i suoi genitori avevano fatto un sacco di sacrifici per permetterle di trasferirsi e studiare a Liverpool, che renderli partecipi dei suoi fallimenti le sembrava rendere insignificante tutto ciò che loro avevano fatto per lei. Se avesse potuto tornare indietro nel tempo, non avrebbe fatto nulla di tutto ciò. Sarebbe rimasta a Nottingham e avrebbe fatto l’università lì, che comunque aveva la facoltà di lingue. Non avrebbe preso italiano, che non c’era, ma avrebbe fatto lo stesso tedesco e forse russo, così sua nonna Nadiya sarebbe stata contenta. E se non si fosse trovata bene, non si sarebbe fatta così tanti scrupoli per cambiare.
Neanche Thomas era a conoscenza di queste fantasie. Irina preferiva non dirgli niente per non sentire falsi discorsi incoraggianti o la dura verità. Non poteva prevedere come il ragazzo avrebbe reagito, ma non intendeva scoprirlo. Il solo incrociare il suo sguardo severo, mentre lei gli spiegava la situazione, significava ammettere la sconfitta su tutti i fronti. No, non era pronta a farlo. Doveva mandare giù il rospo e continuare a fare del suo meglio, così avrebbe dato un senso all’ammissione in quell’ateneo, quindi anche ai debiti dei genitori. Dopo tutto, mancavano solo un paio di mesi di lezione e qualche esame. Doveva impegnarsi per passarli tutti, ecco qual era il suo proposito più immediato.
Era ormai giunta nel quartiere del dormitorio universitario. Poteva sempre scappare e tornare indietro o magari bigiare per fare shopping in centro, ma gli edifici che si stagliavano attorno a lei, così vecchi, consunti e saggi, sembravano ammonirla per tutto quanto, facendola sentire tremendamente in colpa. Irina non avrebbe potuto sopportare tanto peso se fosse scappata da quel luogo. Aveva scelto quella strada anni fa e adesso non poteva rimangiarsi tutto. Profondamente consapevole di questo, si ordinò di correre in aula. Non sarebbe stato un ritardo a farle perdere ulteriori punti con i professori. Imboccò Oxford Street e tagliò giù per il parco di Abercrombie Square. Era sicura di assomigliare a una pazza in quel momento, con i capelli svolazzanti, la lingua penzolante e la velocità da perfetto studente universitario in ritardo, e ringraziò che il suo vicino di casa non fosse lì a vederla: le avrebbe scattato una foto e l’avrebbe presa in giro per settimane, simpatico com’era. Invece non fu lui il conoscente che incontrò.
Hannah era seduta sugli scalini dell’istituto di Lingue, i gomiti appoggiati alle ginocchia, le braccia dritte e le mani che le sorreggevano la testa. Anche lei era pensierosa, ma piuttosto che sulla sua eccellente carriera universitaria, fantasticava sul ragazzo con il quale era appena uscita. Era stato un incontro fantastico, migliore di quanto si aspettasse. Alla prima occhiata, Thomas le era sembrato un tipo arrogante che giocava con le persone soltanto per il gusto di farlo, tuttavia si era dovuta ricredere man mano che la conversazione proseguiva ed entrambi acquistavano confidenza con l’altro, mostrandole il suo lato intellettuale e sensibile. Era colpita. E felice, così felice da voler mettere a parte qualcuno dell’incredibile appuntamento, ma non sapeva chi. Non aveva amiche con cui confidarsi e gioire. Era sola. Si arruffò i ricci, improvvisamente intristita da questa consapevolezza. Però non era troppo tardi: la ragazza biondina con cui si era scontrata la settimana prima le era sembrata simpatica e socievole, troppo buona per approfittarsi di lei per i compiti o per renderle la vita impossibile con stupidi scherzi da scuola media. Era perfetta per iniziare una nuova amicizia! Peccato che, eccetto il nome e cosa studiava, non sapeva altro di lei, quindi non sapeva come e dove rintracciarla e nemmeno cosa dirle nel caso l’avesse trovata. Ulteriormente avvilita, decise di rinunciare alla ricerca, a meno che non fosse il destino a farle rincontrare. Allora in tal caso si sarebbe sforzata di essere meno musona e più amichevole nei suoi confronti.
Si sistemò i ricci un’ultima volta e controllò l’orologio da polso. Era quasi ora di andare in classe. Si alzò dallo scalino, sistemandosi poi la gonna spiegazzata e impolverata. Nonostante le temperature basse, aveva deciso di essere più carina e più femminile del solito per l’appuntamento, ecco il perché della gonna. Se lo avesse detto a sua madre, questa non ci avrebbe creduto. Come non avrebbe creduto al fatto che fosse uscita con un ragazzo. O che la ragazza con cui sperava di diventare amica, ma che non sapeva come trovare, si stava dirigendo a gran passo verso di lei. Hannah strabuzzò gli occhi, incredula: ciò che aveva sperato si stava avverando. E di certo non poteva farsi sfuggire l’occasione.
Irina era quasi arrivata all’entrata principale. L’area era ormai praticamente quasi deserta, però distingueva una figura vicino all’ingresso che si sbracciava per attirare l’attenzione di qualcuno, forse la sua. Decise di rallentare per vedere meglio e soprattutto per riprendere fiato dopo l’estenuante corsa. Gli scalini le sembrarono montagne ripide e invalicabili, ma almeno c’era Hannah ad attenderla in cima, felice di vederla. Irina notò subito che c’era qualcosa di diverso in quella ragazza: la prima volta che l’aveva incontrata aveva un aspetto più trasandato, inoltre aveva avuto l’impressione che la rossa non vedesse l’ora di liberarsi di lei. Invece era lì, davanti a lei, sorridente.
- Buongiorno. – la salutò energicamente Hannah, non appena la bionda salì l’ultimo gradino. Aveva deciso di tenere momentaneamente da parte la timidezza e di sforzarsi di essere più socievole. Come Thomas le aveva dimostrato, se si apriva di più, piaceva di più alle persone.
- Ciao. – rispose l’altra, che si era fermata per respirare. Irina sentiva il cuore battere all’impazzata per lo sforzo fisico: anche se veniva sempre a piedi all’università, non era abituata a correre. Per fortuna aveva incontrato Hannah: una valida scusa per farsi cinque minuti di pausa, altrimenti avrebbe scommesso che non sarebbe arrivata intera al secondo piano. Maledizione, aveva ancora quattro rampe di scale da fare. – Scusa, ma sono in ritardo. È meglio che vada. – a Irina dispiacque congedarla, ma aveva i minuti contati.
- Tranquilla, anch’io devo andare adesso. In che aula sei? – Hannah continuò a sorridere, nonostante Irina non la degnasse di uno sguardo. La bionda stava fissando il pavimento, le mani premute sul fianco destro, concentrata a regolarizzare il respiro.
- L’aula informatica al secondo piano.
- Che coincidenza, io sono al primo: possiamo fare un pezzo di strada insieme. – propose l’altra. Adesso Hannah era seriamente preoccupata: Irina si stava pian piano raggomitolando su stessa. Che stesse per morire?
- Sì, perché no? – acconsentì la bionda. Si drizzò a fatica e cercò di sembrare il più naturale possibile, sebbene non avesse ancora recuperato tutte le energie. Hannah la esaminò un’ultima volta e, convintasi che la maratoneta sarebbe riuscita a muoversi, s’incamminò, seguita a ruota dall’altra. L’ampio atrio dalle colonne in marmo e il soffitto a volta era vuoto. Alla fine Irina ce l’aveva fatta ad arrivare in ritardo.
- Mi dispiace che non abbiamo avuto tempo di parlare. Se vuoi, possiamo trovarci all’ingresso al termine delle lezioni e andare da qualche parte a chiacchierare. – suggerì Irina alla rossa, quando giunsero al pianerottolo del primo piano, dove dovevano salutarsi.
- Sì, ne sarei felice. Io finisco alle tre.
- Io alle cinque, invece. Forse è il caso di fare un altro giorno. – rifletté la bionda. I loro orari erano completamente diversi: si sarebbe sentita in colpa se avrebbe costretto Hannah a restare in facoltà o di farla andare a casa, magari abitava lontano dall’ateneo, per poi ritornare in facoltà.
- No, nessun problema. Abito in un dormitorio qui vicino, quindi non faccio fatica a venire. Allora ci troviamo giù nell’atrio alle cinque, va bene? Ci vediamo dopo! – Hannah confermò l’appuntamento e scappò via, in mezzo al corridoio, raggiante di felicità. Dopo anni di solitudine, finalmente anche lei aveva trovato un po’ di compagnia.
Irina si fermò un paio di secondi a guardare l’amica dirigersi verso la classe, poi riprese le scale e salì al piano successivo. Non le importava se il suo passo era lento: ormai la ramanzina se la sarebbe beccata comunque.

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Capitolo 6
*** And all I can taste is this moment ***



5. And all I can taste is this moment

Le due ragazze si erano sedute a un tavolino del bar Net. Era un locale nuovo, che aveva aperto solo da pochi mesi, tuttavia erano già molti i clienti abituali, probabilmente perché era una novità oppure perché si trovava a pochi passi dagli alloggi studenteschi. Era comunque un luogo accogliente, con la sua ampia vetrata da cui si poteva ammirare la sommità dell’edificio principale dell’ateneo e il suo arredamento tipicamente da Irish pub, completo di luci soffuse e di intrattenimento serale.
Irina e Hannah erano finite lì un po’ per caso, quando la pioggia si avventò sulla città, cogliendole impreparate. Fortunatamente il Net era vicino, impedendo loro di infradiciarsi. All’inizio entrambe si erano sentite come due pesci fuor d’acqua in quel nuovo ambiente: Hannah non aveva mai frequentato locali simili, mentre Irina non metteva piede in un pub dal suo ultimo giorno ufficiale a casa dei genitori. Ben presto però si abituarono a quel clima estraneo, sebbene Hannah continuasse a guardarsi intorno, come se stesse cercando l’uscita di sicurezza più vicina. Irina fece finta di non aver notato l’agitazione dell’amica e si concentrò invece sul menu. Era indecisa su cosa ordinare: saltò la sezione del cibo, consapevole che si sarebbe rovinata la cena se avesse fatto merenda. Fu tentata dagli alcolici, ma era troppo presto per darsi alla birra. Infine optò per una cioccolata calda alla menta, che con l’acquazzone e il gelo che portava con sé non poteva guastare. Anche Hannah scelse una bevanda calda: the alla rosa.
Il cameriere, un gentilissimo giovanotto loro coetaneo, prese la loro comanda, cercando in tutti i modi di fare colpo sulla bionda.
- Credo che tu gli piaccia. – osservò Hannah, quando il ragazzo fu scomparso dietro il bancone.
- Stai dicendo sul serio? – Irina era scettica in proposito: non si riteneva una bella ragazza, soprattutto se era in compagnia di Hannah, che era molto più attraente di lei con i suoi stupendi capelli ricci e rossi.
- Sì, non faceva altro che fissarti, sorriderti e parlarti.
- È parte del suo lavoro essere gentile col cliente. – rifletté la bionda, sopprimendo ogni romantica congettura dell’altra.
- Sarà come dici tu, ma per me, lui ti ha puntato. – Irina non ebbe il tempo di ribattere, poiché il cameriere arrivò con le ordinazioni e un piattino colmo di biscotti omaggio per accompagnare il the.
Hannah si sentì sollevata nell’interrompere la conversazione: non era stato facile iniziare il discorso e, una volta avviato, aveva avuto difficoltà nel mantenerlo. Sbirciò Irina mentre stava ringraziando il cameriere. Lei era così perfetta! Sapeva esattamente come trattare con le persone e farle sentire a proprio agio, mentre Hannah si sforzava per sembrare il più naturale possibile. Anche adesso era profondamente a disagio. Era certa che la presenza della bionda l’avrebbe aiutata ad arginare il problema, ma per il momento non era successo nulla. Lei era la solita, insicura timidona. Evidentemente ci voleva del tempo prima che riuscisse a lasciarsi completamente andare e, finché non fosse arrivato il momento, doveva costringersi a parlare. Eppure sentiva che qualsiasi cosa lei dicesse fosse profondamente sbagliata e arrogante. Con la mano destra, scostò alcune ciocche che le erano cadute sugli occhi e le spostò dietro le orecchie. Doveva smettere di sentirsi inferiore alla giovane bionda che aveva davanti. Soprattutto doveva smettere di pensare, perciò si dedicò alla teiera in ceramica bianca che le era appena stata portata. Con un abile gesto del polso, versò il the bollente nella tazza, senza lasciarne cadere una singola goccia che potesse scottare le sue pallide dita affusolate o bagnare il tavolo in legno. Prese la piccola caraffa alla sua sinistra e aggiunge il latte, quindi mescolò per lasciar raffreddare un poco la bevanda. Appoggiò con estrema cura il cucchiaino sul piattino che completava il servizio da the, afferrò il manico della tazza e bevve una lunga sorsata di the con latte. Irina non l’aveva persa di vista un istante, ammaliata da quei gesti che sembravano così abitudinari ed eleganti per Hannah, quasi fosse una piccola nobile inglese. E per quello che Irina sapeva di lei, poteva anche essere vero.
- Guarda, ti ha messo accanto al bicchiere dei cioccolatini! – esultò la rossa, notando la montagnola in miniatura accanto alla cioccolata dell’amica.
- Non vuol dire nulla, saranno lì per decorazione o degustazione o per non so cos’altro. – Irina cominciava a spazientirsi della congettura dell’altra ragazza, ma non poteva certo dire che le dispiacesse sentirsi al centro dell’attenzione di un ragazzo per una volta. Dopo Jeremy non c’era stato più nessun altro.
- Allora perché ti sta fissando? – continuò l’altra, che non aveva l’assoluta intenzione di cedere. Dal suo posto poteva tenere sotto controllo il bancone e aveva notato il cameriere osservarle con fare sognante mentre stava pulendo dei boccali da birra. Irina si girò all’indietro per verificare che l’amica non stesse vaneggiando e in effetti era come diceva Hannah. Non appena quella si voltò, il barista sgranò gli occhi, sorpreso, e con fare colpevole abbassò lo sguardo e si concentrò sulla pulitura dei bicchieri.
- Va bene, forse gli piaccio. – ammise la bionda, lusingata.
- Perché non ci vai a parlare? – chiese Hannah. Quel ragazzo le sembrava abbastanza carino, con i suoi capelli castano chiaro tenuti scompigliati e gli occhi nocciola. Gli sembrava una brava persona, persino dolce.
- No, non m’interessa. – Irina era concentrata sulla sua cioccolata. Anche se l’idea di poter conoscere un nuovo ragazzo le sembrava buona, non si sentiva ancora pronta per uscire con qualcuno. Anche se era passato molto tempo dalla sua rottura con Jeremy, non era ancora riuscita a cancellare quattro anni di vita di coppia, in cui lei si era sentita quasi sempre rinchiusa in una gabbia. Ad esempio, Jeremy non le permetteva di andare a ballare senza di lui, perché aveva paura che un altro uomo ci avrebbe provato con lei e che sarebbe andata con lui. Quel ragazzo aveva il pallino dell’infedeltà di Irina, quando invece era stato tutto l’incontrario. La ragazza si era chiesta spesso perché avesse aspettato tanto a lasciarlo, forse perché a lui teneva veramente e per questo motivo aveva sopportato tutte le sue preoccupazioni, sperando che col tempo lui cambiasse e che si fidasse un po’ più di lei. In realtà non era successo e ora voleva solo godersi la libertà dell’essere single. Ma c’era anche Thomas: vedendo con che facilità passava da una donna all’altra, le era passata la voglia di cercarsi un uomo.
- Va bene, allora non insisto. – si arrese Hannah, evidentemente delusa. Irina inclinò leggermente la testa in avanti, come se fosse un piccolo inchino di ringraziamento.
Nel frattempo, aveva smesso di piovere. Le due amiche aspettarono ancora mezz’ora prima di andarsene, continuando a chiacchierare del più e del meno. Non avevano molto in comune, ma si trovavano bene l’una con l’altra e in fondo era questo ciò realmente importava.
Irina chiuse dietro di sé la porta a vetri del bar, quando si accorse di un volantino che vi era attaccato. Cercasi cameriere/a. Non richiesta esperienza, tranne per macchina del caffè.
- Hannah, puoi aspettarmi qui un attimo? Voglio andare a sentire per il posto. – fece la bionda, rivolgendosi all’amica che si stava già incamminando. Hannah guardò il foglio che l’altra le stava indicando e si fermò. Irina rientrò al Net. Mentre si stava avvicinando al bancone, sperò che il gestore non avesse ancora assunto nessuno. Un lavoretto part-time le avrebbe fatto comodo: avrebbe avuto soldi in più per i viveri o qualsiasi altra necessità, senza dover più chiederli ai genitori. Dietro la cassa c’era il suo ammiratore, che fu piacevolmente sorpreso di rivederla così presto.
- Scusami, ho visto l’annuncio sulla porta. Volevo sapere se il posto è ancora libero. – iniziò Irina, mostrandosi sicura di sé, più di quanto lo fosse in realtà. Dopo tutto, sua madre le aveva sempre detto che, quando fai domanda per qualsiasi lavoro, bisognava apparire al meglio, fiduciosi delle proprie capacità e con il più grande sorriso possibile stampato in faccia, poiché è sempre la prima impressione che dai di te stesso che gioca un ruolo importante sull’assunzione.
- No, che io sappia, nessuno ha fatto domanda. Però io non sono il proprietario, quindi non te lo so dire. – si scusò il cameriere, alzando le spalle.
- Capisco. È possibile incontrare il proprietario o il responsabile per chiederglielo? – Irina appoggiò i gomiti sul lungo banco, anch’esso in legno come quasi tutti i mobili del locale, e cercò di fare gli occhi dolci al barista, sperando di impietosirlo.
- Sì, ma devi tornare più tardi. Stasera ci sarà sicuramente. Inizia il turno alle otto, ma lo avvertirò prima della tua richiesta.
- D’accordo, allora passerò dopo cena. Ci vediamo dopo, se sarai ancora di turno. – gli promise Irina, consapevole che quel poveretto si sarebbe presentato comunque, soltanto per vederla.
- Certo! Ah, giusto, io sono Eddy. – si presentò il castano all’improvviso, bloccando la ragazza, che stava per andarsene.
- Io sono Irina, piacere. – lo salutò lei, poco prima di uscire dal pub.
 
“Dove diamine sei?”. Il messaggio che era apparso sullo schermo del telefonino di Irina non rispecchiava al meglio la collera del mittente. Thomas era sempre il solito: si arrabbiava ogni qualvolta le cose non andavano come voleva lui. La ragazza scosse la testa, rassegnata. “Sto arrivando” gli rispose. Svoltò a destra, superò la prima abitazione e si ritrovò finalmente a casa. Immancabilmente, il suo vicino era appoggiato alla recinzione, le braccia incrociate e l’aria scocciata, che la stava aspettando.
- Si può sapere cos’hai fatto fino adesso? – attaccò subito lui. Aveva passato l’ultimo quarto d’ora di fronte alla porta dell’amica, suonando il campanello in continuazione, senza alcuna risposta. In realtà era più preoccupato di sapere dov’era stata, senza dirgli nulla, e soprattutto con chi.
- Tranquillo, papà, sono stata in giro con un’amica. – lo prese in giro lei. Irina estrasse le chiavi di casa dalla tracolla e aprì la porta. Si spostò di qualche passo, lasciando libero l’ingresso e fece una riverenza. – Dopo di lei. – Thomas le lanciò un’occhiataccia, ma non riuscì a trattenere un sorrisetto divertito. Si staccò dal cancello che divideva la proprietà dei suoi da quella di Irina ed entrò in casa. La ragazza lo seguì. Chiuse la porta alle sue spalle e si tolse le scarpe.
- Ti sei vista con un’amica? – chiese il vicino, curioso.
- Sì, l’ho appena conosciuta. È simpatica. – rispose Irina, andando in soggiorno, dove Thomas era già bellamente sdraiato sul divano. – Ma non te la presento. Non voglio che capiti sotto le tue grinfie da animale predatore, per non dire altro. Non è il tuo tipo: la distruggeresti. – aggiunse lei, immaginando cosa il ragazzo stesse pensando di chiederle. Si sedette poi sul sofà, più precisamente sulla pancia di Thomas, il quale aveva occupato completamente il mobile con la sua figura.
- Non m’interessa la tua amica, tienitela pure. – commentò il ragazzo, con voce incrinata per il peso della ragazza. Non che Irina fosse pesante, ma non era neanche una piuma e tutta la sua massa era concentrata proprio sul ventre del moro, togliendogli l’aria. – Cazzo, Irie, togliti, non respiro! – sbuffò alla fine lui, non riuscendo più a resistere. Con tutta la forza che aveva, spinse la ragazza giù dal suo stomaco, facendola cadere per terra. Il tonfo che si propagò per tutta la casa non era certo dei migliori da sentire.
- Ahia. - Thomas si sporse per vedere come stava l’amica. Il ghigno ironico sparì dal suo viso e lasciò spazio alla preoccupazione: Irina era inginocchiata per terra e si stava premendo il polso destro. Si vedeva che le faceva molto male. Evidentemente aveva frenato la caduta con le mani.
– Irie, scusa, non volevo. Fammi vedere. – Thomas scese velocemente dal divano e si catapultò accanto alla ragazza. Cercò di prenderle il polso ferito, ma lei ritrasse la mano prima che lui potesse toccarla.
- Tranquillo, sto bene. Non è rotto, perché riesco a muoverlo. – lo rassicurò lei, provando a sorridergli come se non fosse successo nulla. Però Thomas riuscì a scorgere il dolore che stava provando dietro quella smorfia.
- Ti prendo del ghiaccio, così non si gonfia. – e il ragazzo si affrettò in cucina. Sapeva che Irina teneva un sacchetto termico medico nel congelatore per casi come quello. Gli aveva raccontato che da piccola si era rotta il polso destro e che da allora era facile che s’infiammasse per ogni botta che subiva. Prese un canovaccio da un cassetto sotto il lavello e vi avvolse la busta ghiacciata. Tornò quindi in salotto, dove trovò l’amica seduta al suo posto sul divano, e le porse il fagotto. – Scusami. – le disse ancora una volta, sedendosi accanto a lei e guardandola negli occhi. Si sentiva terribilmente in colpa per il male che le aveva fatto, seppur involontario. Dopo tutto, come avrebbe potuto prevedere che sarebbe caduta sulle mani? Ma non importava, si sentiva lo stesso responsabile.
- Thomas, tranquillo, non è successo niente di grave. – provò a convincerlo lei. Le faceva davvero pena vedere l’amico così afflitto. Voleva tirargli su il morale, ma non sapeva come. Era certa che Thomas si sarebbe tormentato per almeno un mese intero per quell’incidente. – Ti va di uscire stasera? Voglio portarti in un pub. – propose lei, sperando che questa notizia potesse distrarlo.
- Un pub, tu? Sicura di non aver sbattuto la testa invece della mano? – scherzò il ragazzo. Da quando lei era entrata nella sua vita, non l’aveva mai vista frequentare posti simili e ogni volta che lui l’aveva invitata a bere qualcosa in questo o in quel locale, la ragazza aveva sempre rifiutato, convincendolo che non le piacessero quei luoghi di ritrovo.
- Sì, ci sono andata oggi con quest’amica. Cercavano una cameriera e mi sono offerta, soltanto che il proprietario non c’era e mi è stato detto di tornare più tardi, quando è di turno. Dai, mi accompagni? – lo implorò lei, assumendo un’espressione triste per intenerirlo e assecondarla. Thomas la squadrò per qualche minuto: già che non si aspettava che la vicina bazzicasse certi ambienti, figurarsi a servirci!
- Non può venire la tua nuova amica, visto che conosce già il posto? – s’informò lui. Avrebbe accontentato volentieri la sua amica, ma non voleva farle credere di essere così disponibile. La sua reputazione da duro e disinteressato nei suoi confronti sarebbe crollata se avesse ceduto immediatamente.
- Gliel’ho chiesto, ma non può. Probabilmente ha già un altro impegno.
- Quindi sono la seconda scelta? Bene, allora credo che non possa rifiutare a questo punto: vengo. – sbuffò lui, segretamente deluso per essere stato un ripiego, ma altrettanto contento di poter passare la serata con lei. Inoltre la gratitudine che esprimeva lo sguardo di Irina, che donava una sfumatura di verde più scintillante del solito alle sue iridi, era un premio sufficiente per esaudire la sua richiesta.
Irina si lasciò sfuggire uno strillo di esultazione e istintivamente abbracciò l’amico, dimenticandosi del dolore alla mano destra e della sacca di ghiaccio istantaneo, che cadde sui jeans del ragazzo. Thomas le diede qualche amichevole pacca sulla schiena per informarla che apprezzava quel gesto di tenerezza e che ora poteva benissimo staccarsi da lui, ma Irina non afferrò il messaggio e continuò a stringerlo.
- Irina, mi stai soffocando. – mentì lui. La ragazza lo fissò imbarazzata per qualche secondo, poi accennò a qualche scusa e sciolse l’abbraccio. Di colpo era arrossita, notò Thomas. Raccolse il sacchetto fasciato e glielo rimise al polso, quindi si alzò dal divano. – Ti passo a prendere alle otto e mezza. – l’avvertì il ragazzo e se ne andò.

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Capitolo 7
*** And all I can breathe is your life ***


 

6. And all I can breathe is your life


- Bel posto. – esclamò Thomas non appena entrò al Net. Lui era sempre aggiornato sulle ultime inaugurazioni della città e dei locali più in voga del momento, ma quel pub gli era completamente sfuggito. Il luogo tranquillo che aveva trovato Irina nel tardo pomeriggio si era trasformato in un bar affollato che trasmetteva le ultime hit da discoteca a un volume tale da poter essere definito alto ma non assordante.
Irina si faceva largo tra la folla, cercando di raggiungere la cassa e stringendo nel frattempo la mano dell’amico per evitare di perderlo in tutta quella calca. Muovendosi tra i gruppetti di colleghi universitari, comprese perché il gestore stesse cercando altro personale. Sperò che, se avesse ottenuto il lavoro, non dovesse mettersi in tiro ad ogni turno. Si sentiva già troppo fuori posto con gli aderenti jeans grigio cenere e la camicetta bianca appena sbottonata che indossava al momento. Ai piedi gli immancabili stivali, che portava con disinvoltura sopra i pantaloni.
- Salve, volete ordinare? – chiese l’unico barista presente dietro il bancone.
- Per me una birra. – decretò Thomas, deciso. Irina indugiò per qualche secondo, non sapendo bene cosa prendere, ma infine ordinò anche lei una birra. Tanto non doveva guidare lei, però Thomas sì. Sperò che il ragazzo si fermasse a quell’unico boccale e che non decidesse di alzare troppo il gomito.
- Irina, eccoti! – gridò una voce maschile alle loro spalle. La bionda si girò e vide Eddy, che reggeva un enorme vassoio carico di bicchieri svuotati.
- Ciao, Eddy! Vuoi che ti aiuti? Mi sembra tanto pesante quel vassoio. – si offrì la ragazza, indicando il piatto.
- Non preoccuparti, ce la faccio. Non potrei comunque farmi aiutare, perché non sei una dipendente. Ma a questo possiamo rimediare subito: Joel è qui, da qualche parte. Basta solo trovarlo. – Eddy si portò a fatica dietro il bancone, dove lasciò il vassoio, e comunicò a gesti al barista che andava a farsi un giro. Questo gli arrivò accanto, confuso: non aveva capito cosa volesse il collega da lui.
- Vado a cercare Joel. – urlò Eddy nell’orecchio del barista. Il volume della musica e il vociare della folla rendevano impossibile ai due camerieri di sentirsi.
- È nel retro. – gridò l’altro di rimando, consegnando nel frattempo le due pinte agli ultimi arrivati. Eddy annuì e con l’indice fece cenno a Irina di seguirlo. La ragazza guardò frastornata il cameriere che era andato ad aprire lo sportello del bancone per lei, poi il suo migliore amico. Thomas aveva già afferrato il suo bicchiere e se lo stava portando alle labbra, quando si accorse dello sguardo intimorito dell’amico. Cosa voleva, che lui la seguisse? Era lei che voleva il lavoro, non lui. Irina voleva rendersi indipendente? Bene, il primo passo era affrontare il colloquio senza di lui. Con la mano libera, le fece segno di raggiungere Eddy. La seguì con gli occhi mentre se ne andava nel retro del locale con quel ragazzo. Non gli piaceva il modo in cui il cameriere la guardava: le stava facendo gli occhi dolci.
Irina seguì Eddy nella parte del bar preclusa ai clienti: andarono in cucina, dove tre cuochi stavano preparando la cena o gli stuzzichini per l’aperitivo, per prendere poi uno stretto corridoio che portava all’ufficio del capo e alla dispensa. Eddy bussò alla porta del proprietario del Net, ma non ottenne risposta. Joel non era lì. Si guardò rapidamente attorno e si accorse della luce accesa della dispensa. Si diresse in fondo al corridoio e sbirciò nella stanza.
- Bene, sei qui! Ti ho cercato dappertutto: c’è la ragazza che ha fatto domanda come cameriera. – Irina era rimasta in disparte. Aveva lasciato entrare il ragazzo prima di lei e ora aspettava di poter essere ricevuta. I secondi trascorsi le sembrarono ore: era troppo agitata. Che impressione avrebbe fatto al suo futuro capo se si fosse fatta vedere così inquieta? Avrebbe sicuramente balbettato, magari persino inciampato mentre andava a stringergli la mano. Avrebbe rovinato tutto il colloquio così!
– Irina, vieni pure! – Eddy era sulla porta, che la stava esortando a entrare nel magazzino. Un sorriso gli illuminava il viso. Era come se la stesse rassicurando sull’uomo che avrebbe incontrato di lì a poco. Maledizione, si era accorto della sua ansia! La ragazza annuì e, con le ginocchia che le tremavano, entrò nella stanza.
Mentre simulava il colloquio mentalmente, Irina aveva dipinto il proprietario del Net come un uomo sui quarant’anni, anzi oltre i quaranta e magari anche in sovrappeso, dai capelli castano scuro e con qualche ciuffo grigio. Rigorosamente con una folta barba. Gentile, ma bonaccione. Invece Joel era esattamente l’opposto di quel che lei si aspettava. Si aggirava sopra i trent’anni e non aveva nessun chilo di troppo. Al contrario, era perfettamente in forma: a giudicare dalle braccia muscolose, lasciate scoperte da una canottiera in stile “surfista californiano”, era un assiduo frequentatore della palestra. I capelli erano biondi, forse troppo biondi per il senso estetico della ragazza. Probabilmente erano tinti. Erano comunque folti e portati leggermente lunghi, ma nel complesso gli donavano. Gli davano un’aria da duro. Ma il particolare che colpì di più Irina furono gli occhi: erano dello stesso colore del mare della Costa Azzurra che aveva visto da bambina.
- Ciao, sono Joel Wesley. – il capo tese con grande slancio la mano e aspettò che la ragazza gliela strinse. Irina ci mise qualche istante per capire il gesto di presentazione: la voce profonda ma morbida dell’uomo l’aveva incantata. Scosse la testa per risvegliarsi, infine rispose.
- Irina Barnes.
- Dimmi Irina, hai qualche esperienza come cameriera?
- No.
- Esperienze lavorative in generale?
- No. – rispose lei, titubante. Non stava facendo una buona impressione al gestore del pub, se ne rese conto dal silenzio che era calato nella stanza. Joel la stava osservando, soppesando ogni singolo movimento che faceva: le unghie curate della mano destra che affondavano nel polso sinistro, il labbro morso, le pupille che scappavano in ogni direzione. Tutti i segni della tensione.
- Neanche la baby-sitter del figlio dei vicini? – Joel alzò un sopracciglio, incredulo che quella ragazza avesse un curriculum così scarso.
- Beh, sì, ho tenuto i miei cuginetti qualche volta e ogni tanto anche la bambina di un’amica di mia madre. – ammise infine la bionda, spiazzata. Guardare i figli degli altri non si poteva considerare un vero lavoro, giusto? Almeno, per lei non lo era mai stato, infatti non aveva mai chiesto soldi in cambio del servizio. – Ma questo cosa c’entra? – chiese dopo un attimo di esitazione.
- Trattare con i clienti è come fare la baby-sitter: se loro chiamano, tu devi correre. Se vogliono qualcosa, tu gliela devi portare nel più breve tempo possibile. Se ti tirano il cibo addosso, tu li sgridi. Se alzano il tono di voce con te, tu li sbatti fuori dal locale e se provano a metterti le mani addosso…
- Chiamo la polizia, ho capito – lo interruppe lei, completando il discorso.
- Sì, esatto! Vedo che ci intendiamo. – e sorrise. Bene, la ragazza aveva riguadagnato punti, però ancora non lo convinceva appieno. Joel strofinò la mano sotto il mento, accarezzandosi la barba lunga di qualche giorno. Doveva riflettere. – Va bene, voglio vedere come te la cavi in prima linea. Farai una settimana di prova, comincerai lunedì pomeriggio. Alle due, puntuale.
- Grazie, spero di non deluderla! – Irina cercò di contenere la sua felicità: aveva l’impulso di saltargli addosso e abbracciarlo, ma si trattenne. Non conosceva ancora bene quell’uomo per potersi lasciarsi andare a gesti simili, senza dimenticare che era appena diventato il suo capo temporaneo. Doveva assolutamente farsi assumere.
- Ora puoi andare. E portarti dietro anche Eddy: la pausa è durata abbastanza. – ironizzò il boss, tornando anche lui al lavoro: stava cercando una scatola di una particolare miscela di caffè, prima di venire interrotto. Chissà dov’era finita. Infine la trovò: qualcuno l’aveva sistemata dietro alcune confezioni di tonno. Joel scosse la testa: non doveva più consegnare le chiavi della dispensa a suo cugino Eddy.
Mentre Irina faceva la conoscenza del gestore del locale, Thomas aveva passato i primi dieci minuti al bancone, come un’idiota, sorseggiando la sua birra, da solo, come un’idiota, e reggendo la pinta della sua amica, come un’idiota alcolizzato. Quei due ci stavano mettendo troppo tempo, per i suoi gusti. Irina e quell’altro tizio di cui non si ricordava il nome erano spariti già da un bel pezzo e stavano facendo chissà cosa. Normalmente sarebbe già andato a cercarli, tuttavia il barman lo avrebbe sbattuto fuori se si fosse azzardato ad andare nel retro. Non c’era nulla che potesse fare, doveva restare lì, incollato alla sedia e aspettare, come un’idiota, accanto allo sgabello vuoto che aveva riservato per lei, come un’idiota disperato che aspetta una donna che non lo raggiungerà mai. Aveva anche pensato di andare a fare un giro per il locale, ma temeva che Irina non riuscisse più a trovarlo una volta tornata. Poi voleva anche essere sicuro che quel tipo non le avesse fatto alcun male. Gli avrebbe spaccato volentieri la faccia se avesse osato alzare anche un solo dito su di lei. Nessuno poteva ferire la sua Irina, o farle gli occhi dolci. Era così preso da queste macchinazioni che non si accorse di star bevendo la schiuma della birra, come un’idiota, e che una mano gli si era delicatamente appoggiata sulla spalla.
- Thomas, sono arrivata. – il ragazzo girò di scatto la testa quando udì la voce della vicina. Eccola lì, Irina, seduta alla sua sinistra, tutta intera.
- Com’è andata?
- Bene, da lunedì pomeriggio sono in prova. – esultò lei, festeggiando con la birra, che ormai era si era riscaldata.
- Son felice per te. Dimmi solo che orari hai, così mi assicuro di non venire al pub. – sebbene il tono di voce del ragazzo era incolore, Irina capì lo stesso che stava scherzando. Dopo un paio d’anni, pensava di conoscerlo abbastanza bene.
- Grazie, sei sempre così carino. – ribatté lei, fingendosi offesa.
- Sono semplicemente realista: non voglio essere presente quando inciamperai e farai cadere tutti i piatti, rompendoli. Non voglio essere etichettato come “l’amico della cameriera pasticciona”.
- Sei proprio un bell’amico. Non puoi essere più incoraggiante come tuo fratello? Matt sarebbe stato presente ad ogni mio turno. – continuò lei automaticamente, senza rendersi conto di ciò che aveva appena detto. Thomas non amava essere paragonato al fratellone, che era sempre risultato il migliore fra i due, sia caratterialmente sia scolasticamente. Matt era affidabile, gentile e carismatico. Frequentava una prestigiosa università della capitale e aveva un ottimo lavoro. Avrebbe avuto una splendida carriera, lo dicevano tutti. Thomas era invece l’arrogante asociale che viveva ancora con i genitori e che aveva deciso di studiare Informatica all’università più per “voglia di non fare niente” che per vocazione. Si sentiva la pecora nera della famiglia. Con quell’osservazione, Irina lo aveva ferito nel profondo, ammutolendolo. Il ragazzo fissava il bordo del bicchiere semivuoto e iniziò a giocherellarci, ruotando il calice, scuotendo così la schiuma annidata sul fondo. Passarono alcuni minuti di silenzio da parte dell’amico, prima che la ragazza ci fece caso.
– Scusami, Tom, non volevo. – chiese lei, sinceramente dispiaciuta. I primi tempi che lo frequentava, non capiva perché lui si rabbuiasse ogni volta che chiedeva notizie di Matt, finché un giorno non aveva assistito per caso ad una sua lite con i genitori. Era l’inizio di settembre e stranamente era una bella giornata afosa. Irina aveva deciso di passare la mattinata nel cortile posteriore a scrivere un po’: le era venuta l’ispirazione per un bel racconto romantico e il giardino ben curato le era sembrato un buon luogo dove poter liberare la creatività. Si era seduta sopra il dondolo, le gambe accavallate che reggevano il quaderno per gli appunti. Era nascosta dietro l’alta siepe che faceva da recinzione, quindi non si era accorta che dall’altro lato della barricata naturale c’erano i Johnson, che si stavano preparando per una grigliata in famiglia. All’improvviso la quiete era stata cancellata dalle grida di Thomas, seguite da quelle di Richard. Ci fu poi il boato della porta che veniva chiusa. Irina era scoppiata a piangere: aveva sentito chiaramente ogni parola.
- Tranquilla, nessun problema. Se hai finito, andrei a casa: sono un po’ stanco. – si giustificò lui, passandosi una mano sugli occhi. Irina annuì e prese dalla borsetta alcune sterline per pagare, ma Thomas la fermò. – Ho già pagato io. Non voglio i soldi indietro: consideralo il mio regalo anticipato per l’assunzione. – spiegò lui, alzandosi in piedi e dirigendosi verso l’uscita. Irina si mosse poco dopo di lui, rimanendo distante di qualche passo. Non riusciva a togliersi dalla testa la sua espressione delusa. L’aveva ferito, anche se lui non lo aveva voluto ammettere. Rifece le sue scuse una volta saliti in macchina, mentre Thomas stava guidando, ma il ragazzo continuava a sostenere che non c’era alcun problema. Irina non ci credeva, però lasciò cadere la questione. Il giorno dopo tutto sarebbe tornato come prima, era sempre così con Thomas: lui non riusciva a portarle rancore a lungo e questa era una certezza.
Dopo un quarto d’ora, la Ford Focus blu notte del ragazzo entrò nel vialetto di casa. Thomas spense la vettura e scese. Appoggiò le mani sopra il cofano dell’auto e si fermò ad osservare la proprietà confinante: Irina stava armeggiando con la chiave per aprire la porta di casa. Aveva una serratura dura, se ne lamentava sempre, tuttavia se ne vantava come fosse il perfetto antifurto. La contemplò spalancare il portone e quindi entrare. Solo quando la luce del soggiorno si accese, si staccò dalla sua postazione di guardia ed entrò in casa anche lui.
 
Hannah era seduta alla scrivania, nella sua camera da letto. La matita scorreva veloce sulla pagina dell’eserciziario di francese. Era davvero triste fare i compiti il venerdì sera, ma non poteva fare nient’altro. Desiderava con tutta sé stessa essere fuori dal quell’appartamento e divertirsi come facevano tutti gli inquilini del dormitorio o chiunque altro studente. Irina l’aveva invitata a uscire, ma a malincuore aveva dovuto rifiutare. I compiti non si facevano da soli, Hannah lo sapeva bene. Chiuse il libro con violenza. Era stanca di quella situazione, ma non poteva ribellarsi. La sua aguzzina, Connie, era perfida. E poteva contare sull’aiuto del suo fidanzato, la prossima giovane promessa del rugby. Adesso chissà dov’erano quei due, ma sarebbero arrivati nel cuore della notte, svegliando Hannah di soprassalto, per reclamare quegli esercizi svolti e quella produzione che la ragazza stava iniziando. Connie li avrebbe controllati e, se fossero stati soddisfacenti, l’avrebbe lasciata in pace fino al prossimo venerdì, altrimenti…
Hannah si alzò di scatto, si sporse sopra il tavolo e aprì la finestra. Le mancava l’aria. Il vociare degli universitari mezzi ubriachi e i suoni delle auto su Oxford Street entravano con prepotenza, schiacciandola ancora di più. Lasciò cadere la matita sul quaderno e si portò le mani agli occhi. Non poteva piangere: Connie si sarebbe accorta della carta umida e allora sarebbero stati guai. Hannah non voleva guai e non li aveva mai voluti, però veniva sempre coinvolta in situazioni come quella. Aveva persino cambiato città per scappare dai bulli, ma non era riuscita a fuggire davvero. I guai l’avevano trovata comunque e adesso si chiamavano Connie.
Era a un buon punto, in anticipo sulla tabella di marcia. Poteva prendersi senza problemi una pausa, almeno quello lo poteva fare. Andò nel salottino. Dietro la porta aveva sistemato una cucina in miniatura: un mobile con due armadietti, uno in basso e l’altro in alto, con in mezzo un ripiano dove era collocato un forno a microonde. Accanto alla dispensa improvvisata, c’era un mini frigo. Lo aprì e prese una bottiglietta d’acqua e una tavoletta di cioccolata. Gli zuccheri erano essenziali al cervello durante lo studio, inoltre la cioccolata alleviava il dolore. Due piccioni con una fava. Scartò l’involucro della barretta e lo buttò nel cestino dall’altro lato del mobile-dispensa, poi andò a sedersi sul divano, a commiserarsi, quadratino di cioccolata dopo quadratino di cioccolata. Ora sì che poteva piangere. Si sfogò come poté, tra un morso e l’atro. Le lacrime le avevano lasciato un sapore salmastro sulle labbra, rendendo aspro il gusto dolce della cioccolata.
Finito lo spuntino, si diresse in bagno. Sciacquò con prepotenza il viso per rimuovere ogni traccia di cioccolata o pianto. Quella era ormai la routine del venerdì sera e Hannah non aveva così tanta forza per opporcisi. Doveva solo tener duro fino alla laurea. Se c’era riuscita per tutte le medie e le superiori, poteva riuscirci anche all’università. Con passo lento e demotivato, tornò in camera sua, alla sua scrivania. Riprese in mano quella dannata matita e continuò quel dannato tema per la sua dannata ex-coinquilina.

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Capitolo 8
*** When sooner or later is over ***


 

7. When sooner or later is over

Quella domenica mattina, il sole splendeva sulla città, sprigionando un lieve tepore che riscaldava gli alberi e le panchine e asciugava le pozzanghere createsi con l’acquazzone abbattutosi nei giorni precedenti. Qualche meteorologo aveva ottimisticamente ipotizzato che la primavera stesse finalmente giungendo in Inghilterra, ma Irina non ci credeva. Sapeva che le piogge sarebbero tornate, ma per il momento non le interessava più di tanto. Voleva soltanto godersi quella giornata di sole all’aria aperta, infatti aveva pulito il dondolo in giardino e lo aveva rivestito con dei cuscini per starci più comoda. La siepe che recintava il cortile posteriore aveva appena iniziato a fare le gemme, quindi non proiettava una grande ombra intorno a sé, lasciando così la ragazza completamente al sole. Neanche questo importava a Irina. I raggi del sole erano così deboli che non se ne avvertiva il calore. Ogni tanto spirava anche qualche scia di vento, non troppo fredda, ma abbastanza fastidiosa da dover indossare una giacca per proteggersi. Irina soffiò sui palmi delle mani per riscaldarle. Forse aveva bisogno di guanti, ma faticava ad impugnare la penna se aveva le mani coperte. Sì, stava scrivendo.
Quel giorno si era alzata con un’idea in mente per un nuovo brano e aveva deciso di stenderlo su carta in giardino, che era l’angolo della casa che la ispirava di più. Fece rimbalzare tra i suoi pensieri l’ambientazione della storia mentre si infilava un maglioncino blu slavato e un paio di vecchi pantaloni che usava per stare in casa. Durante la colazione delineò i personaggi e, nel frattempo che strofinava la plastica bianca del dondolo per rimuovere la sporcizia invernale, architettò i dialoghi. Finita la pulizia, corse in camera sua e recuperò dal primo cassetto della scrivania il suo quaderno delle bozze e la sua penna da scrittura. Mentre discendeva le scale, la scena era definita nei minimi particolari, pronta per essere trascritta.
Avrebbe fatto prima a battere direttamente a computer il racconto, ma trovava dispersivo scrivere direttamente sul foglio digitale di Word: si concentrava di più su quale tasto pigiare, invece che su ciò che voleva descrivere, rallentando così la sua fervida ispirazione, finché non le scompariva del tutto la voglia di scrivere. Invece il fruscio della biro sulla ruvida carta la trasportava nel mondo che si era appena immaginata, catturandola fino a quando non concludeva il pezzo con la parola “FINE”. Ovviamente ricopiava tutto a computer quando aveva il tempo e soprattutto la voglia di farlo, più che altro per tenere tutte le sue storie archiviate in un unico luogo. Nel corso degli anni aveva riempito due quaderni tascabili e alcune pagine di vari quaderni scolastici con i suoi racconti e li aveva riscritti tutti in digitale. In questo modo era più facile trovarne uno, rileggerlo e apportarne delle modifiche, se necessario. La maggior parte di queste storie brevi aveva come protagonista Raissa, una giovane segretaria del Cremlino durante la Guerra Fredda che passava informazioni al governo americano. Ogni racconto era lungo circa trenta pagine e descriveva una delle sue avventure, fatte di spie, inganni, pericolo e amore. Non era grande letteratura, ma un semplice e innocuo passatempo. Irina non aveva mai fatto leggere a nessuno i suoi scritti, perché se ne vergognava troppo. Aveva paura del giudizio degli altri.
Anche adesso si stava occupando della sua eroina russa. Raissa era finalmente stata contattata dal suo fidanzato, Aleksandr, scomparso nel nulla dopo l’ultima missione per conto degli Stati Uniti e in cui era quasi stato scoperto. Aveva passato giorni terribili in attesa di qualche comunicato interno del KGB riguardo a un giovane rivoluzionario catturato, ma quando aveva trovato il sassolino bianco (il loro segnale in codice) sul davanzale della finestra in cucina, tutte le sue preoccupazioni erano scomparse e, non riuscendo a controllarsi, pianse di gioia. Dovevano trascorrere due giorni dall’avvenuto contatto per l’incontro nel loro luogo sicuro al solito orario, questa era la procedura. Il meccanismo serviva per precauzione, in modo da poter verificare se il messaggio era stato manomesso o no, come non si sapeva: era il piccolo segreto dei due innamorati.
 
Accertatasi che la segnalazione era sicura, la ragazza si appostò nel vicolo sul retro della solita tavola calda alle cinque del pomeriggio e attese Aleksandr, impaziente. Il cuore le martellava nel petto, pronto a esplodere nel caso in cui lui si fosse fatto vedere oppure no. Ma sarebbe venuto, Raissa ne era convinta. Il suo istinto non sbagliava mai. Un leggero scalpiccio di passi attirò la sua attenzione e gli occhi corsero in quella direzione. Dalla zona in ombra della stradina emerse una gracile figura maschile dall’aspetto trasandato e sporco di fuliggine, ma Raissa non ci badò e corse dal suo amato. Con le lacrime agli occhi, lo strinse in un caloroso abbraccio e lo baciò teneramente.
“Dove sei stato?” gli chiese lei con voce tremante per il pianto e per l’emozione di averlo lì, tra le braccia, ancora vivo.
“Grazie a Dio, Mikhail ha dato il segnale d’emergenza in tempo, poco prima dell’arrivo delle guardie, così sono riuscito a fuggire prima che mi vedessero. Sono andato dal Rigattiere, che mi ha nascosto nel deposito illegale del carbone, ecco perché sono così impolverato. Mi dispiace essermi fatto vivo in queste condizioni: avrei preferito darmi una ripulita prima di incontrarti, ma non ne ho avuto il tempo, perdonami.”
“Non m’interessa il tuo aspetto, Aleksandr, ma che tu sia vivo. Ho temuto che il KGB ti avesse catturato.” gli rivelò in un sussurro. Una mano si staccò dal stretto fianco di lui e si posò sulla sua guancia, accarezzandola dolcemente.
“Non accadrà tanto presto e tanto facilmente, piccola, te lo prometto” rispose lui, stringendola più forte a sé, quasi si aspettasse che lei svenisse da un momento all’altro e che lui fosse pronto a sorreggerla. In fondo, stava facendo proprio questo: sorreggerla nell’abisso in cui l’aveva condotta. Se solo suo fratello non fosse stato incarcerato ingiustamente e poi giustiziato da Mosca, Aleksandr non avrebbe scoperto che era l’Unione la vera traditrice degli ideali che professava, decidendo così di passare dalla parte degli americani e lavorare nel loro controspionaggio. Raissa era una santa per averlo voluto seguire nella sua pazza crociata, nella speranza di costruire insieme un roseo futuro nella ricca America e vivere così il sogno promesso dai nuovi alleati.
“Oh, non promettere cose che non puoi mantenere, perché non dipendono da te. È come prendere in giro la morte: nessuno ci riesce mai. E so che morirei dal dolore se il tuo proposito non si avverasse.” lo rimproverò lei, con l’animo già provato dalle ultime settimane passate senza notizie del ragazzo.
“Non ti devi preoccupare, il Generale mi ha informato che i nostri passaporti sono pronti e che presto lasceremo questa terra dimenticata da Dio per una nuova vita. Insieme. Devo solo svolgere un’ultima missione, poi potremo finalmente andarcene in un Paese libero.” e le asciugò le lacrime colate sulle sue rosse guance. “Ora devo andare. Fatti forza ancora per qualche settimana e fai la tua parte. Se lavoriamo bene entrambi, finirà tutto in fretta. Ti contatterò io, d’accordo?” Raissa annuì, intristita per dover lasciarlo andare un’altra volta. Non le piaceva che lui si esponesse ai rischi che lo spionaggio sul campo comportava, ma non poteva certo ammettere che neanche il fotografare i documenti segreti del governo fosse privo di pericoli. Doveva solo tenere duro per ancora poco tempo, poi se ne sarebbero andati dall’URSS. Avrebbero vissuto in una tranquilla cittadina americana, magari in uno di quei villini dei quartieri raccomandabili che una volta il Generale le aveva mostrato in una foto per convincerla a continuare lo spionaggio. In quell’ambiente caldo e amorevole lei e Aleksandr avrebbero vissuto una vita piena e felice: si sarebbero sposati e avrebbero avuto dei figli. La vita che lei aveva sempre sognato.
Il ragazzo la salutò con un intenso bacio, carico di desiderio e speranza di rivederla ancora, poi si allontanò. Raissa rimase nel vicolo ancora per qualche minuto, sempre secondo le regole del loro protocollo, ma anche per riprendersi da quel turbinio di emozioni che l’avevano invasa. Inconsciamente si portò le mani al grembo e…
 
Irina alzò un attimo lo sguardo per osservare il cielo. Una parola le era sfuggita dalla punta a sfera della penna e stava cercando di acchiapparla prima che raggiungesse le nuvole, allora in quel caso sarebbe andata persa. Gli occhi vagarono per un po’ nell’immenso azzurro che si stagliava sopra di loro e, una volta trovata la parola fuggiasca, tornarono ad incollarsi sulle bianche pagine, impazienti di essere riempite, ma non fecero in tempo a raggiungere l’obiettivo che si accorsero di un’ombra poco distante.
- Accidenti, Thomas, mi hai fatto prendere un colpo! – sobbalzò Irina nell’aver individuato il vicino di casa, appoggiato alla siepe di confine, che la stava controllando.
- Scusa, non volevo spaventarti.
- Da quanto sei lì? – domandò la ragazza, sistemandosi una ciocca bionda dietro l’orecchio destro.
- Da un po’. – rispose lui, restando sul vago. Non intendeva spiegarle che l’aveva spiata dalla finestra del solaio mentre stava pulendo il dondolo e che, appena lei aveva attaccato a scrivere, lui era corso fuori per ammirarla. Era un atteggiamento da vero stalker, ma lo affascinava l’aria concentrata che Irina assumeva quando si perdeva nel suo mondo di fantasia. Nei primi tempo della loro conoscenza, lui le aveva domandato più volte l’argomento dei suoi testi, ma lei aveva sempre risposto troppo timidamente per avere un’idea chiara di cosa le passasse nella testa, quindi aveva smesso di insistere. Non era pronta a far conoscere al mondo le sue storie, lo capiva, anche se gli dispiaceva.
- E cosa sei venuto a fare in giardino? – continuò lei, insospettita dall’atteggiamento dell’amico: Thomas se ne stava tranquillamente appoggiato al cespuglio di rami e la osservava nella tipica “posa da rimorchio”, ovvero braccia incrociate e sguardo focoso. La ragazza lo aveva visto rimorchiare tante volte, perciò ormai aveva imparato a riconoscere ogni singolo gesto che lui faceva.
- Beh, è una bella giornata, quindi ho pensato di trascorrerla all’aria aperta, prima che ritorni il maltempo. – inventò immediatamente lui, colto alla sprovvista. Cavoli, non si aspettava un interrogatorio di terzo grado.
- Thomas, non mentire, che so che sei allergico al sole. – ribatté lei. Non fu difficile smascherare la bugia: in due anni e mezzo di vicinanza, Thomas era uscito in giardino solo per qualche evento all’aperto organizzato dai suoi genitori o perché Yuki lo aveva costretto a rastrellare le foglie cadute dai due tigli in fondo al cortile.
- Va bene, lo ammetto, mi hai scoperto. – e alzò le mani in segno di resa. – Mi stavo annoiando. Ho guardato fuori dalla finestra e ti ho visto qui sul retro, così sono venuto a chiederti se ti andava di fare qualcosa, tipo vedere un film. Una volta uscito, mi sono accorto che stavi scrivendo ed eri così presa, che non ho voluto disturbarti. – sì, insomma, neanche questa era la pura verità, però almeno era più credibile della prima balla.
- Grazie del pensiero, ma, come hai appena detto, sono abbastanza presa dalla scrittura al momento e vorrei finire il pezzo, se non ti dispiace. – la frase nella mente della ragazza era risuonata più dolce e meno stizzita di quanto risultò nel dirla, ma Irina se ne accorse ormai a cose fatte. Stava per chiedere d’impulso scusa, quando notò che l’espressione del ragazzo non era mutata. Forse Thomas non aveva dato peso al tono dell’amica, cosa abbastanza strana, perché lui si accorgeva sempre di dettagli simili. Pensandoci bene, poteva averlo notato, ma non voleva renderlo noto perché si era reso conto che l’aveva disturbata e gli dispiaceva o più probabilmente perché non aveva voglia di discutere. Avevano già mezzo litigato due sere prima e un’altra piccola offesa avrebbe scatenato uno scontro senza precedenti.
Il battibeccare era una prerogativa della loro amicizia, ma nell’ultimo periodo entrambi erano diventati meno tolleranti e se la prendevano per piccole cose, per esempio una frase detta con intonazione errata. Irina non capiva il perché di questo cambiamento, ma forse non voleva ammettere con sé stessa che ultimamente aveva iniziato ad essere più gelosa nei confronti dell’amico e che si era accorta di fissarlo più attentamente e più a lungo del necessario. Tutti questi comportamenti avevano fortemente messo in discussione il sentimento di semplice amicizia che credeva di provare e, per mascherare il disaccordo nella sua testa, aveva assunto un atteggiamento più offensivo del normale.
- Va bene, nessun problema. Se dovessi cambiare idea, mandami un sms o suona al campanello. – tagliò corto lui e se ne ritornò in casa, lasciandola interdetta in cortile.
Tipico di Thomas: fa tutto il contrario di quello che ci si aspetta da lui, rifletté lei mentre riapriva il quaderno, quel bellissimo quaderno dalle pagine bianche e dalla copertina in pelle in stile vintage che le aveva regalato Thomas per Natale. Rilesse l’ultima parte che aveva prodotto prima di essere stata fermata e ci fece qualche correzione. Posizionò la punta della penna vicino all’ultima parola scritta, pronta a continuare, quando si accorse che l’immagine mentale che si era fatta di Aleksandr corrispondeva in tutto e per tutto al suo migliore amico nella vita reale. Dannazione, lui era ovunque, ma almeno nella fiction aveva più cuore!

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Capitolo 9
*** I just don't wanna miss you tonight ***



8. I just don't wanna miss you tonight

 
Hannah non aveva mai dato molta importanza al suo aspetto esteriore. Non passava ore davanti allo specchio in cerca del trucco perfetto e men che meno rivoltava ogni giorno l’armadio per decidere cosa indossare. Lei amava la semplicità e la comodità. Quella mattina però era diversa, forse perché lei si sentiva diversa. Dopo anni che si alzava dal letto aspettandosi una triste giornata, oggi finalmente sorrideva. La sua immaginazione già correva verso l’incontro che la stava aspettando per colazione. Sognava il volto del ragazzo che avrebbe incontrato, la dolce melodia della sua voce, bassa e sensuale, e i suoi occhi intensi e profondi, ma che non erano in grado di mentirle.
Era una situazione nuova, quella, e anche il modo in cui si sentiva non le era familiare: era ipertesa e avvertiva uno strano formicolio allo stomaco. Sembravano gli stessi sintomi che avvertiva prima di un esame, ma in questi non c’era alcuna ansia negativa ma solo positività. Che fossero queste le cosiddette “farfalle”?
La ragazza non aveva mai dato una straordinaria importanza al suo aspetto esteriore, ma oggi lo stava facendo. Si sciolse freneticamente la crocchia in cui aveva raccolto i ricci e ci passò una mano per scompigliarli e donargli un po’ di volume. Era indecisa sul tipo di acconciatura col quale si sarebbe presentata: era meglio legarli, in modo che si vedesse bene la faccia, o tenerli sciolti e rischiare di sembrare un leone? Dopo svariati minuti passati a vagliare qualsiasi opzione, optò per tirare indietro soltanto le ciocche laterali: un valido compromesso.
Per quanto riguardava l’abbigliamento, invece, portava una gonna a balze e una maglia di lana dal collo alto. Ai piedi calzava un paio di stivali, da sotto i quali spuntavano delle lunghe calze bianche. Hannah temeva di apparire troppo civettuola vestita in quella maniera: non era abituata alle gonne o agli stivali con tacco, anche se di pochi centimetri. Soprattutto non era abituata ad uscire con i ragazzi. Thomas era il primo e voleva fargli una buona impressione, anche fisicamente. Si guardò un’ultima volta allo specchio del bagno, per controllare il trucco: il rossetto non era finito sui denti, il fard era stato sparso bene e l’ombretto si notava poco dietro le lenti degli occhiali, ma non era un dettaglio fondamentale, dato che aveva scelto un tono neutro, giusto di un grado di colorazione più intenso rispetto alla sua carnagione naturale. Per la prima volta si sentiva carina. Si fece un cenno d’assenso con il capo per prendere coraggio e, presa la borsa e abbottonatasi la giacca, chiuse la porta dell’appartamento e si diresse verso le scale.
Thomas era arrivato con circa dieci minuti di anticipo davanti al portone d’ingresso del dormitorio in cui alloggiava Hannah e stava lì, fermo, con le mani affondate nelle tasche del cappotto. Avrebbe potuto citofonarle e farle sapere che la stava aspettando, ma non voleva darle l’impressione di essere un tipo impaziente, così attese. Ingannò il tempo osservando le persone che passavano: universitari che stavano andando a lezione, festaioli che stavano tornando adesso a casa, signori in auto alla ricerca di un parcheggio o che si stavano dirigendo in ufficio. Era una mattina come tante altre, insomma, ma lui non l’avvertiva come tale.
Era il terzo appuntamento con Hannah, avvenimento alquanto incredibile, dato che normalmente non usciva con la stessa donna per più di due volte. Tuttavia Hannah era diversa: grazie al suo carattere dolce, si trovava bene in sua compagnia. Era vero, non era stato semplice farla parlare di sé, timida com’era, ma in poco tempo lei aveva cominciato ad aprirsi e si erano scoperti più affini di quanto Thomas sperasse: amavano entrambi la grande letteratura e il cinema in bianco e nero, i pittori espressionisti francesi e il caffè americano a colazione. Tutti interessi che né i suoi amici dell’università né Irina condividevano. Avevano anche una situazione famigliare simile: nessuno di loro due aveva il pieno appoggio dei parenti.
Erano capitati su quell’argomento spinoso per caso durante il loro secondo appuntamento. Era sabato e Thomas si stava domandando perché lei avesse deciso di restare in città, piuttosto che fare un salto a Stirling dai suoi genitori. Hannah rimase inizialmente scioccata dalla domanda, formulata apparentemente per portare avanti la conversazione, ma infine decise di essere sincera con il ragazzo e gli spiegò il difficile rapporto che aveva con la sua famiglia. Thomas la ascoltò attentamente, sinceramente interessato alla sua storia personale, che in un certo modo gli ricordava anche la sua. Convinto dall’onesto discorso, pure Thomas si confidò. Non aveva mai reso partecipe nessuno del dolore che lo attanagliava, nemmeno la sua migliore amica, ma con Hannah sembrò così semplice e naturale farlo. Lei lo capiva, così come lui capiva lei. Aveva finalmente trovato la sua “persona amica”, quella con cui poteva mostrarsi per chi era davvero. Perché con Hannah si sentiva così: con lei poteva essere sé stesso, senza riserve.
Thomas controllò l’orologio da polso. Erano passati soltanto cinque minuti, ma a lui erano parsi lunghi come l’eternità. Forse doveva mandare un messaggio alla ragazza, per avvertirla che era già sotto casa sua e che l’avrebbe aspettata per tutto il tempo necessario, ma non ce ne fu bisogno. La porta a vetri del condominio si aprì, lasciando uscire una graziosa fanciulla dai riccioli rossi.
- Sono in ritardo? – domandò Hannah, quasi sussurrando. Nonostante lei stesse imparando a fidarsi del ragazzo che la stava aspettando, aveva ancora il timore di fare qualcosa di sbagliato, compiere un passo falso che lo avrebbe definitivamente allontanato da lei e che avrebbe chiuso la loro storia prima ancora che essa fosse realmente iniziata.
- No, non sei affatto in ritardo. – la rassicurò lui, avvicinandosi al punto sotto la tettoia dell’edificio grigio in cui la ragazza si era fermata. – Stavo per inviarti un messaggio, dicendoti che sono arrivato con una decina di minuti di anticipo e di finire le tue cose con calma, che non abbiamo nessuna fretta. – continuò Thomas, prendendosi la libertà di appoggiare le mani sui fianchi di lei e di attirarla più vicina a sé. Fu un gesto inusuale, dato che avevano sempre mantenuto una certa distanza fisica: Thomas aveva intuito fin dal loro primo incontro l’imbarazzo e la poca confidenza con l’altro sesso che Hannah aveva e non voleva metterla a disagio in alcun modo, ecco perché nelle uscite precedenti non l’aveva mai presa per mano mentre camminavano fianco a fianco o abbracciata. Prima voleva essere certo che lei si sentisse al sicuro con lui. In quel momento però quella regola che si era dato venne infranta. La faccia turbata di Hannah e la sua voce insicura gli avevano mosso una tale tenerezza, che per il ragazzo sorse naturale tranquillizzarla con un gesto affettuoso. Quando si accorse di ciò che aveva fatto, ormai era troppo tardi per staccarsi da lei e chiederle scusa, ma per sua gran fortuna, non era necessario farlo: Hannah stava ricambiando l’abbraccio. Sul suo viso non c’era traccia di sorpresa o paura, ma un grande e caloroso sorriso che gli fece capire di non aver sbagliato niente e che molto probabilmente lei fantasticava da tempo un momento simile.
I due rimasero a guardarsi per un po’, senza dire una parola. A loro bastava essere lì, accoccolati l’uno tra le braccia dell’altra, a leggere la felicità traboccante negli occhi della persona di fronte per capire che tutto stava andando bene e che niente sarebbe potuto andare meglio.
Thomas si fece coraggio e lentamente avvicinò il suo viso a quello di Hannah, finché la punta del suo naso non sfiorò quella della ragazza.
 
- Ti prego, spiegamelo un’altra volta. – supplicò Irina, ancora più confusa dopo la terza dimostrazione di come far funzionare la macchina per l’espresso. Era il suo primo giorno di lavoro al pub Net e il capo, Joel, l’aveva fatta arrivare un’ora prima dell’apertura pomeridiana per aiutare l’altro cameriere di turno, Eddy, ad organizzare il locale e ricevere le prime istruzioni su come svolgere bene il lavoro. Dopo aver scoperto il settore in cui operava e aver esplorato ogni zona del bancone, adesso i due si stavano occupando della teoretica preparazione delle bevande elencate nel menu, in particolare del caffè. Irina aveva una macchinetta a casa, ma non era minimamente paragonabile a quel mostro da sei beccucci che aveva davanti. Oltretutto, era un modello straniero, italiano per la precisione ed era risaputo che gli italiani avevano un concetto differente di “caffè” rispetto al resto del mondo.
- D’accordo, ma sia chiaro che questa è l’ultima volta. – rispose secco Eddy, ammonendola con un gesto dell’indice, puntato verso di lei. Il ragazzo inserì il portafiltro con l’immaginario caffè macinato nell’apposito scomparto, lo spinse con forza per incastrarlo per bene e infine finse di premere il terzo bottone dall’alto, quello con il disegnino di una tazza fumante a lato. – Quando la bevanda arriva a circa un terzo dal bordo, spegni la macchina premendo questo. – e indicò il pulsante successivo – E servi il caffè. Stai attenta quando è in erogazione: il caffè potrebbe annacquarsi troppo se non spegni la macchina al momento giusto.
- Quindi posso capire quando è pronto guardando il livello della brodaglia nella tazza?
- Esattamente. Dai, studi italiano: non credo che ti sia sconosciuto il loro caffè espresso!
- C’è una bella differenza tra conoscerlo e saperlo fare. Nei lettorati ci insegnano la lingua e un po’ di cultura, mica la dose perfetta per un ristretto decente.
- Invece dovrebbero. – s’intromise Joel, apparso dal retro con in mano una grossa cesta di plastica bianca contenente le stoviglie appena lavate. – Fare un buon caffè all’italiana è un’arte. Dovrebbero promuoverlo Patrimonio dell’Umanità.
- A me non sembra un caffè così eccezionale. – dichiarò la ragazza, voltandosi verso il suo capo. Joel aveva appoggiato il cesto sopra il tavolo da lavoro del bancone e stava per sistemare un piatto da aperitivo nella rastrelliera lì sotto, quando udì l’enorme eresia.
- Un caffè non così eccezionale? – ripeté lui, sbracciandosi platealmente con ancora il piatto in pugno. – È un capolavoro! Devi assaporarlo in Italia per poter capire la sua eccezionalità. Non so come facciano gli italiani a fare un caffè così buono, ma ti giuro che è la fine del mondo! – e finalmente posizionò il piatto nello scolapiatti.
- Va bene, allora cercherò di convincere la lettrice ad insegnarci i segreti per fare un buon espresso. – concluse Irina, cercando di sembrare seria, anche se in realtà aveva solo voglia di ridere, più per lo sguardo e il tono da discorso importante che aveva assunto Joel nel suo elogio.
- Fallo e ti assumo. – le rispose il capo, dandole una pacca d’incoraggiamento sulla spalla sinistra prima di tornare in cucina per un altro carico di stoviglie pulite.
- Ma era davvero serio o stava scherzando? – Irina tornò a rivolgersi a Eddy, il quale era rimasto muto e in disparte durante tutta la conversazione.
- Stava scherzando… Almeno spero che stesse scherzando. Se non fosse così, sarebbe spionaggio industriale, non trovi? – fece il ragazzo di rimando, cercando di infilare una battuta vagamente divertente nella frase. Era quasi del tutto convinto che Irina non avrebbe capito lo scherzo, dopotutto lui non era capace di raccontare barzellette né tantomeno storielle buffe. Non gli veniva naturale essere la persona carismatica della propria compagnia di amici, tuttavia si ostinava ancora a fare giochi di parole che nessuno capiva, sperando sempre che qualche pazzo ci arrivasse. Perché bisognava per forza essere dei pazzi, per poter capire cosa gli passasse per la testa. Finché teneva le sue battute solo ed esclusivamente per i suoi amici, andava bene: prima lo guardavano male, poi cambiavano discorso, dimenticandosi della gaffe. I guai veri arrivavano quando corteggiava le ragazze: l’aspetto fisico non bastava per conquistare una donna, quindi puntava tutto sul suo carattere dinamico e simpatico. Inevitabilmente ogni volta arrivava il momento giusto per fare una battuta e inevitabilmente la morosa di turno non l’afferrava. D’accordo, questo suo piccolo difetto non era il solo fattore che gli mandasse a monte le uscite romantiche, però cercava di subissare le altre valide ragioni con la mancanza del senso dell’humor. Aveva pur sempre un’autostima da difendere.
- Già. – annuì lei, ridacchiando. Eddy sorrise, fiero che il tentativo di essere spiritoso fosse riuscito per una volta con una ragazza che le piaceva, ma per sua sfortuna, Irina era già tornata a pensare ad altro.
Lei guardava vacuamente la porta che conduceva al retro del pub, rimuginando sull’ordine del suo giovane capo e la sua conseguente uscita alquanto raccapricciante. Irina aveva capito al primo incontro che Joel era un tipo strano, ma non si aspettava che lo fosse così tanto!
- Fa sempre così? – chiese infine la ragazza, indicando l’uscio e alludendo così al boss.
- Sì, è il suo carattere tipicamente californiano che esplode. Ammetto che all’inizio sembra abbastanza particolare, ma vedrai che col tempo ti ci abituerai. – la rassicurò Eddy e le passò uno straccio di stoffa per asciugare il servizio fresco di lavastoviglie.
- Non sapevo venisse dalla California. – esordì lei, colmando il silenzio che era calato tra di loro. Ripensandoci bene, la provenienza del trentenne era evidente. Innanzitutto, il suo modo di vestire costituiva un grande indizio: indossava una camicia beige di cotone con le maniche arrotolate fino ai gomiti e la teneva sbottonata, in modo da mostrare una canottiera bianca, e larghi jeans scuri. Poi veniva il suo taglio di capelli: tenuti abbastanza lunghi e pettinati in una specie di ciuffo-cresta grazie a quantità industriali di gel. Sicuramente erano tinti, o comunque schiariti, perché erano di un biondo troppo pallido e spento per essere naturale. L’ultimo dettaglio che lo tradiva era la pronuncia, più lenta e dolce rispetto all’inglese britannico, anche se lui cercava di mascherarla il meglio che poteva.
- Sì, è di Santa Monica. – confermò l’altro, mentre stava lucidando il bancone.
- Lo conosci da molto? – chiese la ragazza, sinceramente incuriosita dalla storia personale del suo capo. Non si vedevano molti americani gironzolare per Liverpool, soprattutto gestori di pub e questa novità la stuzzicava. Joel la stuzzicava. Voleva sapere tutto su di lui e il suo sesto senso femminile le diceva che le notizie che desiderava le aveva in mano Eddy.
- Da tutta la vita, direi: è mio cugino. – confessò il barista, senza neanche un attimo di esitazione.
- Tuo cugino? – ripeté lei, incredula. Di tutte le risposte che la bionda si aspettava, quella era sicuramente la meno probabile, anzi una parentela tra i due ragazzi non l’aveva nemmeno considerata. Joel era alto, bello, biondo e americano, mentre Eddy… Eddy era un tipico ragazzo inglese con nessuna caratteristica speciale.
- Esattamente: sua madre è la sorella minore di mio padre. Entrambi sono nati e cresciuti qui, ma la zia Judy si è dovuta trasferire negli Stati Uniti per lavoro quando aveva circa ventisei anni, mentre mio padre è rimasto nella buona e vecchia Inghilterra. Zia Judy ha fatto carriera in fretta e si è trovata un uomo in fretta con cui creare una bella famigliola. – spiegò il cameriere con naturalezza, come se la storia della sua famiglia non fosse una faccenda privata. Evidentemente decine di persone gli avevano già fatto la stessa domanda altrettante volte, tanto da ritenere quell’interesse normale e raccontare la verità senza imbarazzo, pensò Irina.
- Come mai adesso è qui? Sua madre si è ritrasferita ed è tornata a vivere nel Regno Unito? – ipotizzò la ragazza, sempre più affascinata dalle vicende dei cugini.
- No, nulla del genere: la zia vive ancora nella calda e soleggiata Santa Monica con il marito. Ci sta troppo bene per voler tornare nella grigia e umida Liverpool. Se fossi in loro, anche io non mi muoverei da lì! Joel è diverso, sotto questo aspetto: a lui piace viaggiare e non sa stare nello stesso luogo per più di un anno. Gli piace cambiare, ecco perché è qui.
- È uno spirito libero. – concluse Irina, annuendo. Sì, quella definizione gli calzava proprio a pennello: Joel era un concentrato di energia. Lo si vedeva bene dal modo che aveva di porsi con la gente, così spigliato e accomodante, abituato a trattare in continuazione con persone sempre diverse. Quella era un’abilità che non si poteva apprendere restando seduti tutto il giorno dietro una scrivania, ma con l’immersione costante in culture diverse. Irina si chiese in quanti Paesi stranieri aveva vissuto, tuttavia non pose la domanda ad alta voce: probabilmente Eddy non se li ricordava tutti e poi avrebbe oltrepassato la linea di confine tra la semplice curiosità e l’interesse morboso. Non voleva dare l’idea di essere una stalker del suo capo, tra l’altro appena incontrato. Avrebbe ottenuto maggiori informazioni, ne era certa, ma dopo un periodo di ulteriore conoscenza e una futura amicizia. Lei non era aggressiva con le persone, come era invece un certo vicino di casa di sua conoscenza.
Eddy fece un cenno d’assenso con la testa, sollevato per la fine della conversazione. Forse era solo una sua impressione, ma aveva intuito nel tono di voce della ragazza che dietro quella chiacchierata non c’era soltanto cortesia. Adesso però non aveva tempo di preoccuparsene: l’orario di apertura era giunto. Controllò per l’ennesima volta che tutti i bicchieri, le tazze, i piattini e le posate fossero al loro posto e, deciso che non mancava niente all’appello, si precipitò alla porta per girare il cartellino che annunciava che il pub era aperto.
- Ora non ci resta altro da fare che aspettare i clienti. – spiegò il ragazzo alla sua compagna, una volta tornato dietro al bancone. – Nel frattempo, che ne dici se ingannassimo il tempo con queste? – propose lui, afferrando un mazzetto da poker dal fondo di un cassetto pieno di penne, blocchi per le ordinazioni e persino qualche elastico, e iniziando a mescolarlo.
Fecero un paio di partite, tutte quante vinte da Eddy, finché le lancette dell’orologio da parete dietro di loro segnarono le quattro e un quarto, momento in cui entrarono i primi avventori del pomeriggio. Si trattava di un gruppetto di tre studenti di Ingegneria, appena usciti da una devastante lezione di Fisica e che volevano farsi una birra per rimpiazzare la noia abissale calata durante la spiegazione del professore. Eddy eseguì la comanda in presenza di Irina, in modo che la ragazza potesse avere un esempio pratico di cosa avrebbe dovuto fare coi prossimi clienti. Dopo alcuni servizi, il ragazzo lasciò che fosse lei a occuparsi delle ordinazioni, ovviamente sotto il suo controllo, e infine decise di lasciarla lavorare da sola.
Dentro al locale, il riscaldamento era tenuto alto, così chiunque ci entrava poteva abbandonare la sensazione di freddo che lo attanagliava. Infatti all’esterno il clima non era dei migliori. Oltre alla consueta pioggia e alla terribile umidità che portava con sé, quel pomeriggio tirava anche del vento. Hannah ne era stupita, considerando la piacevole mattina che aveva trascorso all’aria aperta, nonostante le temperature basse e il cielo nuvoloso che ci furono. Adesso era impensabile poter passeggiare per strada tranquillamente: non bastavano le gocce che cadevano dalle nubi e le macchine che schizzavano acqua dalle pozzanghere, ma c’era anche vento. La corrente d’aria era talmente forte da far rivoltare gli ombrelli, rendendoli un inutile riparo dalla pioggia, e inoltre deviava la traiettoria delle gocce d’acqua, infradiciando i poveri pedoni. Fortunatamente non doveva fare molta strada per raggiungere il bar nel quale una sua amica stava affrontando il primo turno di lavoro.
Il campanello che sovrastava la porta d’entrata del Net tintinnò non appena la rossa l’aprì. La ragazza fu subito accolta da un’ondata di caldo e dal cameriere, lo stesso presente la prima volta che era venuta in quel pub. La maggior parte dei tavoli era vuota, così lui la fece accomodare dove voleva lei. Hannah si guardò intorno, cercando la sua amica. Voleva parlare con lei, era venuta lì apposta, ma non sapeva se le era concesso intrattenersi con i clienti durante il turno. Però non c’erano molti avventori, quindi era possibile che il suo supervisore chiudesse un occhio per dieci minuti di pausa, giusto il tempo per dirle la grande notizia del giorno. Hannah avrebbe potuto telefonarle dopo il lavoro per raccontare cosa le era successo, ma non ce la faceva ad aspettare ancora per molto, ecco perché aveva sfidato le intemperie ed era giunta al bar. Era euforica, bastava osservare il grande sorriso che le spuntava in faccia per capirlo. La sua mente non faceva altro che ripensare a quella mattina, a quel ragazzo e a quel…
- Benvenuta al Net! Sei pronta per ordinare? – il tono allegro della nuova cameriera la riportò all’interno del pub. Hannah non si era accorta dell’arrivo di Irina: era troppo occupata a rivivere la scena da sogno accaduta qualche ora prima. Aveva paura che era tutto frutto della sua immaginazione e, parlandone con l’amica, magari si sarebbe convinta della sua realtà.
- Un the, per favore. – rispose la cliente, allungando all’altra ragazza il menu che il suo collega le aveva portato precedentemente. Irina segnò tutto diligentemente: aveva un’aria molto professionale, si disse Hannah. Da come sembrava serena, il suo primo giorno da cameriera stava andando alla grande e la rossa cominciava a dubitare della scelta di venir fin lì a disturbarla per una sciocchezzuola, infatti temeva di metterla nei guai se l’avesse fermata a chiacchierare. La verità era che non aveva il coraggio di raccontarle tutto. Mentre era nel suo appartamento, si era immaginata mentre entrava nel locale, chiedeva all’amica di prendersi una pausa perché aveva una cosa sensazionale da dirle, come iniziava il discorso e tutti i commenti che le due ragazze si sarebbero scambiate. Ma quando quel momento stava per diventare realtà, Hannah si bloccò e lasciò che l’amica se ne tornasse in cucina. Ancora una volta quella maledetta timidezza aveva rovinato i suoi piani.
- Scusa, va tutto bene? – Irina tornò al tavolo della rossa dopo alcuni minuti con una teiera colma di the bollente in infusione e una tazza vuota e si accorse dello stato emotivo in cui versava l’amica: Hannah era turbata da qualcosa, Irina lo aveva capito dallo sguardo perso nel vuoto dell’altra e che prometteva lacrime imminenti e dal labbro livido, morso quasi a sangue. Le due ragazze si conoscevano da poco, ma Irina aveva una spiccata sensibilità nel riconoscere l’infelicità degli altri: aveva consolato innumerevoli volte le sue migliori amiche del liceo per questo o quel problema, ormai si considerava un’esperta nell’individuare i segnali fisici del malumore.
Hannah si ridestò dal rimprovero che si stava facendo mentalmente quando udì la voce allarmata dell’amica. Irina la stava guardando con un’espressione attonita, ma preoccupata: qualcosa nel suo comportamento l’aveva spaventata.
- S-sì, va… Va tutto bene, ecco… - Hannah balbettò qualche breve parola, giusto per rassicurare l’altra. Non capiva bene cosa stesse succedendo, ma a giudicare dalla velocità con cui Irina era sgusciata nella panca imbottita di fronte a lei e dal mondo in cui le aveva preso una mano doveva essere qualcosa di grave.
- Hannah, se hai qualche problema, puoi dirmelo. Non bisogna tenersi tutto dentro. Puoi dirmi quello che vuoi, sono tua amica: puoi contare su di me.
- Ma veramente… Non è successo niente di male, anzi! – precisò l’altra, appena intuì la piega melodrammatica che stava prendendo il discorso. Evidentemente Irina aveva frainteso qualcosa.
- Come è possibile? Avevi una faccia da funerale quando sono tornata con il the, non puoi venirmi a dire che non è successo niente di orribile. Coraggio, cosa c’è non va? – la spronò a parlare la bionda, incredula nei confronti dell’affermazione dell’amica.
Se Irina si era sorpresa a trovare Hannah in uno stato pietoso, ora invece era Hannah che si stava preoccupando del comportamento dell’altro. Le sfuggiva il dettaglio fondamentale per capire quello strano malinteso. Ripensò a ciò che era accaduto dal suo arrivo nel pub, compresi i suoi viaggi mentali. Ecco, la chiave doveva essere sicuramente l’attimo in cui aveva esitato ad accennare al suo momento meraviglioso e a come si era colpevolizzata per averlo lasciato sfumare. Presa dalla foga, aveva assunto un’aria triste e Irina, vedendola, si era immaginata che le fosse capitato qualcosa di terribile.
- No, ero solo sovrappensiero. È vero che sono venuta per parlarti, ma non di qualcosa di brutto. – spiegò la rossa, aggiustandosi gli occhiali. – Sono qui per parlarti, non ce la facevo ad aspettare fino a stasera. È successo qualcosa di veramente bello e ho voglia di raccontarlo ad un’amica, così sono venuta qui a dirtelo, ma avevo paura che al tuo capo non piacesse il fatto che ti prendessi una paura per parlare con me, così mi sono tirata giù di morale. – continuò lei di getto. Disse questo senza prendere fiato, arrossendo addirittura per l’imbarazzo di rivelare pensieri così intimi. Date le circostanze, la cosa giusta da fare al momento era essere sincera, così Hannah non tralasciò alcuna riflessione che aveva fatto.
Irina seguì il chiarimento fino alla fine e poi scoppiò a ridere. Non rideva per Hannah, ma per sé stessa: stava morendo di vergogna per aver malinteso il comportamento dell’amica. Si sentiva proprio una stupida. Forse non era così brava a capire le persone come lei credeva: la prossima volta non avrebbe giudicato così in fretta il comportamento di Hannah.
Dopo aver lasciato alla nuova cameriera il compito di prendere le ordinazioni e servirle ai clienti, Eddy si era occupato principalmente della sorveglianza della preparazione delle comande, della sistemazione delle stoviglie pulite, della pulizia dei tavoli e della supervisione degli altri dipendenti. Voleva dimostrare a Joel che sapeva gestire quel posto anche senza di lui, ecco perché stava controllando tutto e tutti. Stava tornando alla sua postazione dietro il bancone dopo aver raccolto i boccali da birra usati dagli studenti di Ingegneria, quando sentì una forte risata calorosa provenire dai tavoli con panche accanto alla vetrata laterale. Lui non era un impiccione, ma quel riso aveva così attirato la sua attenzione, che si voltò verso la direzione da cui proveniva e vide Irina, la sua nuova collega, seduta a chiacchierare con un’amica. Se fosse stato un capo più intransigente e se fosse stato il servizio serale, non si sarebbe fatto tanti problemi nello sgridarla, ma il bar era praticamente deserto e nessuno aveva bisogno dei camerieri in quel preciso istante. Una pausa non avrebbe creato danni, tuttavia non poteva lasciare l’apprendista lì.
- Ragazze, se avete voglia di chiacchiere, vi consiglio di spostarvi al bancone. Non è etico che una cameriera in servizio sieda con una cliente. – le rimproverò Eddy nel modo più amichevole possibile, che nel frattempo si era avvicinato al tavolo. Hannah cercò di prendersi la colpa, ma Irina non glielo lasciò fare, assumendosi tutta la colpa e scusandosi un milione di volte col suo supervisore. Quando il ragazzo fece capire loro che non era adirato, le due seguirono il suo ordine e si sistemarono al bancone: Hannah sedeva sugli alti sgabelli dalla parte degli avventori, mentre Irina stava dal lato dei dipendenti, asciugando i bicchieri appena lavati per farsi perdonare l’errore e contemporaneamente ascoltando l’eccezionale vicenda dell’amica.
Eddy invece stava passando lo straccio sul legno di uno sei tavoli e sorrideva: mentre le due ragazze se ne stavano andando aveva udito chiaramente quella dai ricci rossi dire alla compagna: “Secondo me, tu gli piaci.”
 
Irina si accasciò sul letto, distrutta. A parte il piccolo incidente con Hannah, pensava di non essersela cavata male come primo giorno di lavoro e Eddy le aveva promesso che non avrebbe detto nulla di quel rimprovero a Joel, il vero boss dell’attività, perché lo considerava come l’errore che tutti i dipendenti avevano fatto appena arrivati. Lei non ne era così sicura e forse aveva ragione Hannah in quel caso: Eddy aveva chiuso un occhio, perché era interessato a lei. Ripensandoci, era un’assurdità, ma che altra spiegazione poteva esserci? Sbuffò, scontenta di quella conclusione così azzardata. Aveva bisogno di un’opinione maschile, ma il vicino di casa non era nei paraggi.
Già, prima di rincasare aveva bussato alla sua porta, ma non lo aveva trovato. Yuki, sua madre, non sapeva dove fosse, come al solito. Thomas non diceva mai ai suoi genitori dove andava quando usciva. Gli piaceva fare il misterioso.
Irina aveva addirittura sperato di incontrarlo al Net mentre era di turno, ma lui non si era presentato, proprio come aveva affermato quando lei lo aveva informato del lavoro. Se lei credeva che Thomas la sostenesse in qualche maniera, forse si stava confondendo con un Thomas che esisteva soltanto nei suoi sogni. A volte si chiedeva il perché dell’atteggiamento così scostante che il ragazzo aveva nei confronti di lei, ma Irina si era sempre ripetuta che lo faceva perché era un uomo, quindi un essere impossibile da capire. Eppure adesso aveva bisogno di lui, ma lui non c’era.
Dopo attimi di controversie tra la parte di lei che voleva vederlo e quella che lo voleva snobbare per ripicca, giunse alla conclusione di inviargli un messaggio sul cellulare per vedere se era troppo impegnato per risponderle o no: “Il primo giorno è andato. Non ho rotto niente, quindi sentiti tranquillo di venire nei prossimi turni.”.
Come si era immaginata, lui non rispose.

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Capitolo 10
*** And I don't want the world to see me ***


 

9. And I don't want the world to see me


La signora Johnson era una casalinga e, come la maggior parte delle donne che avevano scelto di non lavorare per occuparsi della famiglia, il suo hobby era cucinare. Nei vent’anni trascorsi in casa aveva sperimentato le ricette culinarie più comuni, strane e ricercate del mondo, trovate un po’ a caso su delle riviste oppure passate dalle amiche del quartiere. Erano istruzioni che a volte aveva seguito alla lettera, mentre altre le aveva modificate in base al suo gusto personale o a quello di suo marito e dei figli. Anche se in ogni pietanza trasmetteva un carattere particolare sviluppato con l’esperienza e la passione, niente raccontava di più di un piatto della tradizione del Sol Levante. Erano già trascorsi più di trent’anni da quando Yuki Sasaki, questo era il suo cognome da ragazza, aveva ufficializzato Liverpool come residenza e aveva appreso le basi della cucina britannica e occidentale, tuttavia quei nuovi sapori non erano in minima parte paragonabili a quelli della sua terra natia.
Quando il senso di nostalgia diventava troppo pesante da sopportare, Yuki compensava quella mancanza con le pietanze della sua infanzia, quindi saccheggiava la dispensa del reparto nipponico dell’alimentare asiatico più vicino e per quattro o cinque giorni in casa Johnson si mangiava esclusivamente con le bacchette, anche a colazione. Era un regime alimentare difficile per gli uomini della sua vita, troppo abituati al palato europeo, ma loro non le avevano mai impedito quel tuffo nel passato. Sapevano quanto le mancasse il Giappone, dunque la lasciavano fare e sopportavano quell’immersione totale trimestrale fino al mese di vacanza a Osaka che ogni anno facevano.
La signora Johnson si passò una mano sulla fronte sudata. La piastra per i takoyaki era rovente e, a giudicare dallo sfrigolio della pastella e dal vapore che si levava dalla griglia, era venuto il momento di girare quei mezzi dischetti di cibo che sarebbero presto diventati delle polpettine. Dopo aver versato dell’altra pastella per ricoprire i pezzi di verdura e polipo, con due spilloni iniziò a girare le palline, una alla volta, assicurandosi che non fuoriuscisse nessun ingrediente dallo stampino.
Quello era il quarto stampo che faceva. Ormai aveva preparato takoyaki a sufficienza per tutta la famiglia e magari anche qualche ospite, non proprio inatteso. Erano settimane che Irina non consumava più un pasto in casa loro e Yuki cominciava a sentirne la mancanza. Quella ragazza era stata una ventata di aria fresca nella loro quotidianità sin dal suo arrivo, soprattutto perché era diventata in poco tempo amica del figlio più piccolo e l’aveva tirato fuori dall’isolamento in cui Thomas si era costretto, i kami soltanto sapevano il perché. In ogni caso, tutti in famiglia stravedevano per Irina e, visto che era passato troppo tempo dall’ultima volta che era stata da loro a cena, urgeva invitarla quella sera stessa.
Prima, però, doveva chiedere il parere ai due uomini della casa, anche se sapeva che non avrebbero mai detto di no alla vicina. E caso volle che ne incrociò uno scendere le scale non appena lei mise la testa fuori dalla cucina.
- Tesoro, eccoti, avevo giusto bisogno di te! – salutò lei il marito, lanciandogli uno di quegli sguardi che preannunciavano una strana richiesta, ma che non poteva essere rifiutata.
- Cosa c’è? – domandò Richard, massaggiandosi la fronte. Sinceramente, non si era accorto dell’espressione furbetta che aveva assunto Yuki: quel gesto era dovuto alla stanchezza della giornata di lavoro. Doveva consegnare un progetto a breve e, per finirlo in tempo, ci stava lavorando anche a casa. Aveva il cervello fuso, ma doveva andare avanti. Sperava soltanto che la richiesta di sua moglie fosse di aiutarla a rimettere la piastra nell’armadietto in alto della cucina o di aprire un barattolo di sottaceti, insomma qualcosa che avrebbe speso poco tempo a fare, in modo da poter tornare nel suo studio al piano superiore e continuare il lavoro.
- Ho preparato abbastanza takoyaki da poter sfamare la Marina Britannica, quindi ci serve qualcuno che ci aiuti a finirli. Possiamo invitare Irina a cena? – e Yuki passò alla faccia supplicante, quella che assume di solito un bambino quando chiede ai genitori un cucciolo in regalo per Natale.
- Irina a cena? Ma certo, tesoro, non c’è neanche da chiederlo. In effetti, è da tanto che non viene a trovarci… - rifletté Richard ad alta voce.
- Ottimo, allora la vado a chiamare adesso, prima che i takoyaki si raffreddino. Nel frattempo, potresti apparecchiare?
- Come, io, apparecchiare? Ma tesoro, ho un progetto da finire e… Non potrebbe occuparsene Thomas? – il marito cercò di opporsi alla decisione della moglie, ma vide crollare ogni sua speranza quando la donna incrociò le braccia, chiuse gli occhi e scosse la testa.
- No, il nostro ragazzo è via da questo pomeriggio e non so a che ora torna. Ma appena gli dico che ci sarà Irina a cena, vedrai che si catapulterà a casa.
- Forse sei troppo fiduciosa nei confronti di nostro figlio.
- Sarà, ma vedrai che andrà così. Thomas non si lascerebbe mai scappare un’occasione per stare in compagnia di Irina. – spiegò Yuki. – Io credo che tra loro due ci sia del tenero. Dovrebbero solo smetterla di essere così testardi e ammetterlo. Sarebbero una bella coppia, non trovi?
- Non lo so, ho seri dubbi che potrebbe funzionare. – ammise Richard, uccidendo all’istante ogni fantasticheria sentimentale della moglie su di una eventuale relazione tra loro figlio e la sua migliore amica.
- Vedremo chi ha ragione. – concluse la donna, piccata dalla rivelazione del marito, e con fare indignato uscì dalla porta d’ingresso per andare a invitare a cena la vicina.
 

Anche se il ristorante Red Wine era situato nella zona del porto, aveva comunque un’atmosfera elegante ed intima, l’ideale per un primo appuntamento o una cenetta romantica. Le pareti rosso fuoco erano debolmente illuminate da basse lampade a stelo che sormontavano i singoli tavoli, creando un’atmosfera da sogno per le coppiette, le quali si stringevano sui divanetti in similpelle attorno ai muri, gustando i piatti ordinati e sussurrando allegramente nell’orecchio del compagno.
Hannah si sentiva a disagio in mezzo a tutto quell’amore: ogni gruppetto sprigionava calore e complicità, tuttavia lei e il suo accompagnatore non si stavano dimostrando così affiatati come tutti gli altri frequentatori del locale. Da un lato preferiva che andasse così, perché si sarebbe imbarazzata troppo se le distanze tra lei e Thomas si fossero accorciate, ma dall’altra parte non le sarebbe dispiaciuto un po’ di sano romanticismo. Benché il ragazzo le aveva mostrato il suo lato tenero fino all’entrata nel ristorante, adesso era ritornato schivo come durante le prime uscite. Si domandò se anche lui si trovasse inadeguato in pubblico.
- Forse dovevamo venire più tardi. – disse il ragazzo, interrompendo il silenzio che si creato al loro tavolo.
- No, va bene come orario. Anzi, è perfetto, così non finiamo di mangiare tardi e possiamo rincasare presto, visto che domani mattina abbiamo lezione tutti e due. – giustificò Hannah, parlando in fretta per l’emozione. Era tesa, si capiva benissimo.
- Sì, hai ragione. – concordò il moro, quindi chiuse il menu che stava leggendo e lo appoggiò sulla tovaglia. La ragazza si stupì della velocità con cui il suo cavaliere aveva scelto cosa mangiare, al contrario di lei, che non sapeva neanche dove guardare. Era la loro prima vera cena in pubblico come coppia e non voleva sfigurare ordinando piatti troppo elaborati o troppo semplici. C’era poi la questione se prendere carne o pesce. Hannah non aveva una preferenza, però al suo accompagnatore poteva piacere più la carne che il pesce o l’incontrario. Oppure era uno di quei vegetariani o vegani incalliti. Poteva anche avere intolleranze alimentari, per esempio ai crostacei o ai pomodori, per quello che ne sapeva lei. In effetti, non avevano discusso questo tema, che considerava di notevole importanza per un’uscita a cena. Insomma, cosa avrebbe dovuto preparargli se una sera lo avesse invitato nel suo appartamentino nello studentato?
- Qualcosa non va? – Hannah sussultò quando udì la sua calda voce mascolina, infrangendo i suoi pensieri. Abbassò la carta e scorse un bel ragazzo (il suo bel ragazzo, ancora non ci credeva) che la scrutava. Non poté fare a meno di arrossire.
- Ecco, mi stavo chiedendo se tu avessi qualche allergia alimentare. – aveva le guance che le bruciavano, da quanto era imbarazzata. Le allergie erano un dettaglio estremamente personale: esserne a conoscenza era come sapere il punto debole di una persona.
- No, nessuna. Non sono nemmeno un tipo schizzinoso: mangio di tutto. – rispose lui, come se niente fosse. La ragazza sbatté le ciglia un paio di volte, giusto per rendersi conto che Thomas non si era fatto problemi ad essere sincero con lei e che soprattutto non era stato sgarbato nei suoi confronti. Le venne in mente quella volta in prima elementare che aveva offerto un biscotto fatto in casa ad una bambina con la quale voleva fare amicizia e alla scenata che aveva fatto perché era intollerante al glutine. La piccola Hannah ci era rimasta così male che da quel momento si tenne sempre a debita distanza dalla bambina.
- Adesso a cosa stai pensando? – le chiese lui, notando che la ragazza era sprofondata nel silenzio ancora una volta. Di solito apprezzava le compagnie silenziose, ma c’era qualcosa nell’atteggiamento di Hannah che lo agitava. Poteva essere il fatto che stringeva con tutte le forze la copertina del menu fino a sbianchirsi le dita, lo sguardo abbassato e velato di tristezza, oppure il labbro che si stava mordendo a sangue. Indubbiamente qualcosa la turbava.
- Niente di importante, soltanto ad una cosa successa anni fa. – e iniziò a raccontare per filo e per segno la sua disavventura delle elementari. Non omise nessun particolare, nemmeno cosa aveva provato quando quella bambina l’aveva attaccata. Non aveva mai detto a nessuno di quell’aneddoto, però le fu semplice aprirsi con Thomas. Lui non la stava guardando come se fosse pazza, come si sarebbe aspettata facesse una persona come Connie, ma era sinceramente interessato. La stava ascoltando.
- Che bambina odiosa! Hai fatto bene a non rivolgerle più la parola. – commentò il ragazzo, quando lei terminò di parlare. Allungò una mano sul tavolo e afferrò una delle sue. – Non aver mai paura di dirmi qualcosa, qualunque cosa. Io non ti tratterei mai così.
 

Irina aprì lo sportello del frigo, poco fiduciosa di trovarci all’interno qualcosa di ancora commestibile che potesse preparare per cena. Infatti la prima occhiata di perlustrazione non diede buoni frutti. Di solito teneva un paio di scatole di prodotti surgelati da consumare nei casi di emergenza, ad esempio quando non aveva tempo di fare la spesa o non le andava di cucinare, però tra gli scomparti non ne trovò nessuna. Sconsolata, richiuse l’elettrodomestico. Non era troppo tardi per correre al discount più vicino, ma ormai si era già messa le pantofole e non aveva voglia di rimettersi le scarpe per uscire e inzupparsi un’altra volta sotto la pioggia. Sicuramente l’opzione “morire di fame” non era contemplata, quindi vedeva come unica soluzione il cibo da asporto.
Si diresse dunque nell’ingresso. Aprì il cassetto sotto il mobiletto del telefono, dove aveva raccolto tutti i menu take-away della zona, ed esaminò accuratamente i pieghevoli che conteneva. Non aveva voglia di cucina etnica né di fish and chips, magari di una pizza, però da sola non ne riusciva a finire una intera. Avrebbe potuto mangiare gli avanzi il giorno dopo, ma la pasta riscaldata non le piaceva. Se non aveva voglia di mangiare niente, forse era il caso di saltare la cena. Però sua mamma le aveva sempre detto di non andare a letto a stomaco vuoto…
Stava ancora discutendo con se stessa su cosa fare e su dove ordinare, quando il campanello trillò. La ragazza alzò gli occhi dai volantini per fissare la porta, alquanto confusa. Erano le sei e mezza di mercoledì sera, nessuno sano di mente o con buone intenzioni l’avrebbe disturbata a casa sua a quell’ora! Una persona sana di mente avrebbe prima avvisato con un messaggio sul cellulare o una chiamata veloce. Ma a ben pensarci, c’era un ragazzo capace di fare una cosa del genere: il vicino, Thomas. Irina già se lo immaginava, appoggiato allo stipite della porta, che aspettava impaziente sotto la pioggia per chiederle, anzi ordinarle in tono scocciato, di cenare a casa sua e poi andarsene senza aspettare risposta. Al solo pensarci, le passò la voglia di aprirgli la porta. Però stava morendo di fame e l’idea di scroccare un’ottima cena dai vicini l’allettava. Afferrò dunque il pomello della porta.
- Si può sapere che diavolo vuo… Oh, signora Johnson, che piacere vederla! – la ragazza strabuzzò gli occhi. Era già pronta a prendere a male parole il suo giovane vicino, considerato l’alto livello di educazione che lui le aveva riservato nei giorni precedenti, invece davanti si ritrovò sua madre. Che cosa insolita.
- È un piacere anche per me, cara. Come stai? È da tanto tempo che non ci vediamo, immagino tu sia stata molto impegnata con l’università. Ti va di venire a cena da noi stasera? Ho cucinato i takoyaki.
- A cena? Sì, certo, vengo molto volentieri. – Irina era confusa: questa era la prima volta che la signora Johnson si scomodava di persona per invitarla a casa sua. Solitamente era Thomas il messaggero. Forse quel lunatico si era rifiutato di adempiere al suo solito compito. La cosa non la soprese più di tanto: erano già alcuni giorni che lui la stava evitando, per quale motivo non lo sapeva. Sapeva solo che avrebbe dovuto affrontarlo dopo il pasto e chiarire qualunque offesa lei gli avesse involontariamente arrecato. Dopo la serata al Net, infatti, non erano successi altri casini tra loro due e la ragazza non si spiegava cosa gli avesse fatto di male per meritare il suo silenzio.
- Benissimo, allora ti aspettiamo. – Yuki si inchinò, da vera giapponese qual era, e tornò nella sua villetta.
Irina osservò la donna allontanarsi verso il cancello. Era ancora incredula per ciò che era appena capitato. Era un sogno, sì, sicuramente. Non c’era altra spiegazione possibile. Ancora sotto shock prese il cappotto e, senza infilarselo, chiuse la porta di casa dietro di sé. Fece qualche passo nella notte e, appena avvertì le gocce di pioggia bagnarle i capelli, si ricordò che aveva ancora la giacca in mano. In tutta fretta la indossò e si coprì la testa col cappuccio, ma ormai era fradicia. Non le restava altro da fare che pregare di non ammalarsi.
 

- Prego, entra. – Yuki la invitò cortesemente a portarsi nell’ingresso dell’abitazione dei Johnson prima di lei, la padrona di casa. Irina la fissò sbalordita, ringraziò e con fare titubante fece ciò che le era stato detto. Non era abituata a ricevere un simile trattamento: era colpa di Thomas che non l’aveva mai trattata con galanteria, però quei modi spicci di fare l’avevano sempre fatta sentire parte di quella famiglia. Vedendo la gentilezza della signora Johnson, quell’atmosfera era sparita, dandole l’idea di essere un’ospite.
- Oh, hai tutti i capelli bagnati! Aspetta un attimo qui, per favore, che ti porto un fono per asciugarli. – Irina accennò un sorriso di ringraziando e osservò la donna sparire al piano di sopra. Si guardò intorno a disagio. La casa era troppo silenziosa per i suoi gusti. Dannazione, dov’era finito il suo amico?
- Eccomi! Mi sono presa la libertà di portarti una vecchia tuta di Thomas, così non starai con i vestiti bagnati per tutta la sera. Usa pure il bagno di questo piano per asciugarti e cambiarti. – e Yuki la condusse verso la porta che collegava la residenza al garage. Nell’anticamera di intermezzo alle due stanze, era stato ricavato un bagno con lavanderia. – Lascia i tuoi vestiti nel cestello dell’asciugatrice: li farò scaldare subito, così saranno pronti per quando avremo finito di mangiare. – la signora Johnson le diede le ultime istruzione, per poi andarsene in cucina.
Irina chiuse la porta a chiave, nel caso qualcuno di sua conoscenza non avesse mostrato alcun pudore nell’aprire l’uscio senza bussare, e si svestì. Prese in mano la felpa che le era stata data e la studiò. Aveva timore ad indossarla, per la reazione che il suo proprietario avrebbe avuto nel vedere un suo indumento addosso a lei. Tremò, ma dal freddo. Non era un buon momento per pensare al vicino: stava congelando. Si sarebbe di sicuro ammalata se non si fosse messa quella felpa. La signora Johnson era inoltre d’accordo che lei la indossasse, dopo tutto era stata proprio la donna a dargliela. Se Thomas avesse sbuffato, lo avrebbe fatto con sua madre, non con lei. Autoconvintasi, si infilò la tuta e si asciugò i capelli. Una volta pronta, uscì dal bagno e raggiunse la sala da pranzo.
Il signor Johnson era già seduto a tavola, al suo solito posto, e leggeva il giornale locale, come tutte le sere. Irina sapeva che quello era il segnale che lui aveva provato ad aiutare la moglie in cucina, ma che lei non aveva accettato e lo aveva spedito in sala da pranzo ad aspettare che la cena fosse pronta. La ragazza trovava che fosse una tenera abitudine e in qualche modo le ricordava i suoi genitori.
- Ciao, Irina. Accomodati pure! – la salutò Richard, non appena si accorse di lei.
- Buona sera, signor Johnson. Come sta? – chiese lei, mentre si sedeva al suo solito posto.
- Va tutto bene, grazie. Sono solo un po’ stanco per la progettazione di una nuova nave, ma è normale: è il lavoro. Tu, invece, come stai?
- Sto bene anch’io. Un po’ stanca per lo studio, ma è normale quando si è all’università. – finite le cordialità, il signor Johnson ritornò al giornale. Irina si guardò brevemente intorno, agitata. Era strano che in sala ci fosse solo il padre e non anche il figlio. Che il ragazzo non fosse in casa in quel momento? - Signor Johnson, dov’è Thomas? Da quando sono arrivata, non l’ho ancora visto.
- Thomas non cenerà con noi stasera. – rispose la signora Johnson, entrando in sala da pranzo con un vassoio carico di takoyaki. Appoggiò il cibo sulla tavola, poi si sistemò a sedere. Il suo sguardo sembrava chiedere scusa alla ragazza.
Ad Irina sembrò che il suo cuore avesse cessato di battere per un istante. Thomas non c’era e non ci sarebbe stato quella sera. Questo spiegava tutte le stranezze. Però non ne capiva il motivo. Thomas non cenava mai fuori, non gli piaceva. Dava l’impressione di non essere legato alla famiglia, ma in realtà ci era profondamente attaccato. Per nessuna ragione al mondo avrebbe saltato un pasto preparato da sua madre, soprattutto se era tipico della sua terra d’origine. Allora cosa lo aveva spinto a non essere presente? Era davvero per colpa sua, di Irina? Che cosa gli aveva fatto lei di così grave da volerla evitare a tutti costi?
Irina voleva piangere. Sentiva gli occhi umidi, pronti a rilasciare lacrime. Ma quello non era né il luogo né il momento giusto per lasciarsi andare al tumulto di sentimenti che la stava invadendo. Si fece forza e cercò di affrontare la serata più normalmente che poté. Si sarebbe sfogata più tardi, quando sarebbe stata sola, nella sua camera.








Writer's Corner:
Ciao a tutti! Finalmente sono tornata ad aggiornare ^^ Scusate se ci ho messo tanto, ma la vita aveva preso il sopravvento e, complice anche un lungo blocco dello scrittore, non è stato facile completare questo capitolo.
Da qui comincia una parte importante della storia: qualcosa si sta muovendo tra i due protagonisti e io non vi dico cosa XD Vi suggerisco solo di prepararvi al peggio! Non è vero, sto scherzando... o forse no. Vabbè, qualcosa sta arrivando.
Non prometto regolarità nei prossimi aggiornamenti, anche se il prossimo capitolo è in elaborazione. La vita sta prendendo il sopravvento un'altra volta e, finchè non passa la tempesta, altresì detta "università", non prevedo di avere il tempo e soprattutto le forze per la scrittura creativa nell'immediato futuro. Comunque non ho intenzione di abbandonare questa storia: è molto importante per me e ci penso sempre. Vi chiedo solo di portare un po' di pazienza.
Vi ringrazio con tutto il cuore per aver letto.
Spero di sentirvi presto.
Alla prossima ^^

 

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