Hyperversum IV: Il Falco e l'Usignolo

di Agapanto Blu
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Falchi come lui ***
Capitolo 2: *** Un'incredibile rivelazione ***
Capitolo 3: *** Un nuovo viaggio ***
Capitolo 4: *** Ritardo ***
Capitolo 5: *** Il ritorno del Cavaliere Del Tempo ***
Capitolo 6: *** La storia di Alexandra ***
Capitolo 7: *** Consapevolezze ***
Capitolo 8: *** Incongruenza ***
Capitolo 9: *** Luigi IX, Re di Francia ***
Capitolo 10: *** Una stella bellissima ***
Capitolo 11: *** Tra dubbi e paranoie... ***
Capitolo 12: *** Musica e consigli ***
Capitolo 13: *** Il traditore ***
Capitolo 14: *** A cosa porta la disperazione... ***
Capitolo 15: *** Diversi tipi di fedeltà ***
Capitolo 16: *** Esecuzione ***
Capitolo 17: *** Non è tempo di Game Over ***
Capitolo 18: *** Fantasmi dal passato ***
Capitolo 19: *** Sgomento ***
Capitolo 20: *** Sotto assedio ***
Capitolo 21: *** Liberi e prigionieri ***
Capitolo 22: *** Cani e leoni ***
Capitolo 23: *** Un aiuto misterioso ***
Capitolo 24: *** Jhoannes e altri sconosciuti ***
Capitolo 25: *** "HYP ends thus" ***
Capitolo 26: *** Dietro tutto quanto... ***
Capitolo 27: *** "Donna di Troia" versus "The Continuum" ***
Capitolo 28: *** Prigioniera ***
Capitolo 29: *** Diversi obiettivi ***
Capitolo 30: *** Un incontro fortuito ***
Capitolo 31: *** Troppa familiarità? ***
Capitolo 32: *** Ian Maayrkas ***
Capitolo 33: *** Addio, logica ***
Capitolo 34: *** Attaccare battaglia ***
Capitolo 35: *** Le guerre di Daniel ***
Capitolo 36: *** Verità ***
Capitolo 37: *** Il racconto di una vecchia storia ***
Capitolo 38: *** È tutto chiaro? ***



Capitolo 1
*** Falchi come lui ***


 
 



Allora, questa storia non pretende di essere al pari della Randall, ma è solo un'ipotetica quarta parte che io ho immaginato...
Vi lascio al capitolo e ci leggiamo sotto...
Agapanto Blu
 
 






1. Falchi come lui
 
 

“Pochi sono gli uomini che possono vantarsi d’aver volato in alto come un falco…”
(Anonimo, secolo XIII)

 
 
Il giovane salì l’ultimo gradino e si ritrovò sulla torre più alta del castello…
Già, il castello…
Casa sua da anni, ormai…
Si avvicinò con lentezza ai merli e lasciò vagare lo sguardo su tutta la sua terra…
I campi erano stati arati da poco con l’aiuto dei soldati e dei tre conti di Ponthieu: padre e figli…
“Fare il cavaliere” diceva sempre l'uomo, “Non è pesante quanto fare il bracciante, nemmeno in guerra!”
Di solito era a quel punto che il cavaliere si avvicinava alla moglie, dama Isabeau de Montmayeur, per baciarla aggiungendo: “Ma forse dipende da chi si ha al proprio fianco...”
Anni prima i figli avrebbero storto la bocca a una scena così “sdolcinata”…
Ora, adulti, non potevano che immaginare se la propria moglie sarebbe stata come la loro madre…
L’uomo si sedette e si spostò i capelli scuri dagli occhi.
Occhi azzurri come i cieli nei quali i falchi volavano.
Parecchi scalini più in basso si stava svolgendo una riunione tra i feudatari maggiori: Guillaume ed Etienne de Sancerre, Henri de Bar, Henri de Grandprè, Pierre de Courtenay e perfino sua maestà Luigi IX con la madre Bianca di Castiglia che esercitava la reggenza al posto del figlio.
Tutta la corte francese era riunita nel salone a discutere dell’andamento del paese e del fatto che Luigi IX fosse ormai pronto a prendere le redini del regno senza bisogno dell’aiuto della madre…
E lui stava lassù…
Sospirò tristemente.
Il Falco d’Argento era irraggiungibile: era lo stratega, il grande cavaliere, il predatore preferito del passato Re Filippo Augusto II, il fedele del conte Guillaume de Ponthieu…
Chi poteva eguagliarlo?
“Nessuno…” sussurrò il ragazzo con amarezza.
Sorrise vedendo le guardie che lo scrutavano per capire se stessero vedendo il conte cadetto Jean Marc de Ponthieu o suo figlio il conte Marc de Ponthieu.
Marc le osservò poi sorrise e fece un piccolo inchino per farsi riconoscere.
Le guardie restituirono il cenno e poi tornarono a scrutare il dintorni del castello.
Il giovane sospirò.
Diciannove anni compiuti ma in pochi avrebbero scommesso su di lui quando, pochi mesi prima, si era gravemente ammalato di polmonite.
I rimedi di madame Donna de Sancerre e l’aiuto tempestivo di madame Jodie, tornata appositamente dalle sue terre, avevano permesso la sua guarigione.
Michel, che in molti avevano già dato come successore del padre, era stato felicissimo di rivederlo in piedi e gli aveva restituito con piacere l’onere di essere il principale ereditiere.
Presto la riunione sarebbe terminata e a lui e a suo fratello sarebbe toccata la parte dei nuovi puledri, quelli su cui tutti danno la loro opinione.
Di norma suo padre inventava qualsiasi scusa per risparmiare loro la parte ma, con il re presente e dopo la malattia, non poteva proprio nasconderli.
“Ancora poco… Non è che hai qualcosa da mettere nelle orecchie per evitare di sentire?” borbottò una voce alle spalle di Marc.
Il giovane si voltò per vedere il fratello Michel, di due anni più piccolo.
Se il suo nome veniva dal secondo nome di suo padre quello di suo fratello veniva dal nome del monastero nel quale molte volte i loro genitori avevano trovato ospitalità in momenti difficili.
I due giovani si assomigliavano notevolmente ad eccezione degli occhi: Marc era la copia esatta di suo padre e aveva gli occhi azzurri mentre Michel li aveva dello stesso castano della madre.
“Spiacente…” ammise Marc, “Quanto dici che durerà?”
“Troppo, in ogni caso! Non mi piace fare l’oggetto esposto!” rispose Michel.
Marc ridacchiò.
“Neanche a me!”
Michel si avvicinò al fratello e si sedette tra due merli.
Sembrava agitato.
“Che c’è?” chiese Marc.
“C’è che certe persone non hanno un minimo di rispetto!” bofonchiò Michel, “Giù di sotto c’è qualcuno che sostiene che a me dispiaccia che tu ti sia salvato!”
Marc sgranò gli occhi e spalancò la bocca.
“Scherzi? E perché dovresti esserne dispiaciuto, scusa?” chiese.
Il fratello alzò le braccia al cielo.
“Perché se tu fossi morto, io sarei diventato il futuro signore di Chatel-Argent!”
Marc sorrise.
“Papà non ha fatto sapere a nessuno che lui e lo zio si sono accordati per farci ereditare entrambi, visto che Guillaume non ha figli maschi…” commentò.
Michel annuì.
“Solo Sua Maestà la Regina Madre e Re Luigi lo sanno… Lo zio e papà hanno avvertito il Re mesi fa e questa mattina la Regina…”
“Come l’ha presa?” chiese Marc.
“E che vuoi che ne sappia?! Hanno convocato gli altri nobili subito dopo…” borbottò Michel.
Marc scosse la testa.
“Difficile convivere con il Falco…” commentò.
“Per chi non è un suo simile, sì… Guarda lo zio, per esempio! Quanti guai gli ha combinato papà?”
Marc ridacchiò.
“Un bel po’… La mamma non la conti?” chiese.
“La mamma è un Falco tanto quanto lui… Per lei non è un problema…” disse Michel con un sorriso.
Ripensarono a quanto la loro madre fosse cocciuta: testarda nel suo amore quanto docile in tutto il resto.
I due conti rimasero per un po’ a osservare le terre. Sapevano già che Chatel-Argent e il feudo dei Montmayeur sarebbero andati a Marc ma per il momento erano ancora di entrambi.
“Fammi una promessa Marc…” disse all’improvviso Michel.
“Quale?” chiese il fratello stupito.
“Che, indipendentemente dalle terre, faremo il possibile per stare sempre dalla stessa parte!”
Marc lo guardò è capì di cosa stava parlando: Giovanni Senza Terra e Riccardo Cuor di Leone, storia a loro raccontata dal padre per fargli capire l’importanza di un legame forte in quell’epoca dove i tradimenti erano frequenti anche nella stessa famiglia.
“Promesso…” sussurrò serio.
I due si fissarono negli occhi per un po’.
Pensavano al loro compito, a ciò che poteva accadere e si chiedevano se mai qualcosa o qualcuno avrebbe potuto dividerli e renderli nemici.
Il loro legame era forte e saldo, basato su una famiglia unita nonostante le difficoltà e sulla sincerità anche nei casi più difficili.
Ripensò a quando, ancora piccolo, era stato privato del padre dallo zio: non sapeva il motivo del litigio e, in realtà, non ricordava nemmeno tanto bene gli avvenimenti ma aveva sentito il racconto di sua madre anche se non sapeva quale fosse il motivo della contesa.
Sapeva solo che suo padre aveva un profondo segreto che non poteva raccontare nemmeno a loro ma che voleva sapessero esistere.
Qualcosa che dipendeva dalla sua fedeltà a suo fratello.
Si sorrisero, certi che nessuno sarebbe mai venuto meno al proprio dovere: la fedeltà era un tratto dominante della loro famiglia.
Da lontano le loro tuniche dei colori del casato brillavano rendendoli visibili a chiunque nel castello.
Azzurro e argento.
Due Falchi sulla cima della torre.
“Vi aspettano di sotto…” fece una voce.
I due ragazzi si voltarono e scattarono in piedi, sorpresi.
Jean Marc de Ponthieu li osservava sorridente.
“Dobbiamo proprio?” gemette Michel.
Jean scoppiò a ridere.
“Temo proprio di sì…” disse poi indicò loro le scale che portavano giù dalla torre, “Sua Maestà vuole parlarvi…”
“Cosa ne pensa della spartizione dei feudi?” chiese Marc avvicinandosi al padre.
L’uomo gli mise una mano sulla spalla.
“Ve lo dirà lei…” disse enigmatico.
Marc e Michel si scambiarono uno sguardo confuso poi obbedirono al padre e scesero le scale verso il salone principale del castello.
Jean indugiò un istante sulla torre: dopo ore passate rinchiuso in una stanza a discutere di politica e a fare la super-spia per suo fratello Guillaume e per la regina Bianca, starsene un po’ a contatto con il cielo era bellissimo.
Ma il momento era critico: in quell’anno, il 1234, la regina Bianca avrebbe lasciato la reggenza e al trono sarebbe salito suo figlio quartogenito, Luigi IX detto il Santo… In quegli anni la regina si era trovata contro quasi tutta la corte ma, con l’ascesa del figlio, la situazione si sarebbe tranquillizzata.
Il conte cadetto si voltò e scese le scale dietro ai figli.
Michel fu il primo ad entrare nel salone e la cosa stupì i molti presenti che si aspettavano di veder comparire prima il conte Jean e poi i figli in ordine d’età.
Invece il signore del castello entrò per ultimo suscitando mormorii nella sala.
Marc scorse con la coda dell’occhio lo zio Guillaume, accanto alla regina nel centro della sala, scuotere leggermente la testa e sospirare per l’ennesimo colpo di testa del fratello minore.
Michel si affiancò in fretta al fratello lanciando uno sguardo in tralice ad un gruppo di conti inglesi.
“Chi sono?” gli chiese Marc.
“I famosi ‘qualcuno’ di cui ti ho parlato prima…” sbottò Michel.
I due più giovani Ponthieu si scambiarono due sguardi sconsolati prima di avvicinarsi alla regina e al principe.
Sua maestà era affiancata dal conte Guillaume de Ponthieu, i conti Henri de Bar e de Grandprè, i conti fratelli Sancerre e il barone inglese Geoffrey Martewall.
Filippo Augusto II Capeto, Re di Francia, era morto nel 1226 e da allora, al suo posto, era salita al trono la nuora Bianca di Castiglia poiché il principe Luigi il Delfino era morto prematuramente.
La regina li aspettava con il sorriso sulle labbra ma lo sguardo vigile di chi sa di non avere molti alleati fedeli.
I due ragazzi si inchinarono profondamente e nel rialzarsi notarono che il loro caro papà aveva affiancato il fratello.
È un esame vero e proprio!, pensò Marc con un po’ di paura.
“Ecco gli eredi del Falco!” commentò Bianca, “Pensavamo che l’indistruttibilità del conte Jean Marc fosse unica e invece l’ha trasmessa ai suoi figli direi… Siamo tutti felici che vi siate ripreso, Marc…”
“Vi ringrazio di cuore, Maestà, ma dubito che senza l’aiuto della contessa de Sancerre e di madame Freeland, sarei sopravvissuto…” rispose il ragazzo con garbo facendo un piccolo inchino.
La regina annuì.
“Hanno fatto un ottimo lavoro…” concesse, “Peccato che Madame Jodie e suo marito non siano rimasti…”
Ian si intromise.
“Purtroppo la figlia di monsieur Daniel e madame Jodie è stata molto male di recente, le sue condizioni erano piuttosto gravi a detta del padre…” commentò.
“Sapevo che monsieur Daniel si avviava alla paternità ma non ho più avuto notizie…” disse il conte Henri de Grandprè con stupore.
“Daniel e Jodie non sono potuti tornare molto spesso… Comunque l’erede è una femmina… Ormai una giovane donna… Ha l’età di Michel e le è stato messo nome Alexandra…” rispose Ian con gentilezza.
La regina ascoltava attenta.
“Peccato che non siano più venuti… Mi sarebbe piaciuto conoscerli viste le meraviglie che raccontava mio suocero sul coraggio e l’abilità con l’arco di monsieur Daniel…” commentò la donna.
“Magari in futuro, se le condizioni della giovane lo permetteranno, torneranno in Francia…” azzardò il conte Guillaume.
“Forse…” concesse la regina.
Le porte si aprirono e le dame fecero il loro ingresso.
Davanti a tutte camminava Isabeau de Montmayeur, in quanto moglie del signore del castello, la cui bellezza non era stata scalfita dal tempo.
Dietro di lei entrarono Alinor de Dreux, la figlia Elodie –nata dal matrimonio con Guillaume de Ponthieu-, Donna de Sancerre e la figlia Matilde, Lucrecia de Bar –che aveva dato al marito un figlio solo-, Cécile de Grandprè –la sposa del conte Henri a cui aveva dato ben cinque figli: due maschi e tre femmine- e Brianna Martewall.
Brianna era stata alla fine sposata dal barone Geoffrey Martewall, nonostante la lieve differenza d’età, e gli aveva dato due figli, gemelli dizigoti, un maschio chiamato Harald e una femmina chiamata Petra.
La dame entrarono con la consueta grazia e tutte le conversazioni si zittirono in segno di rispetto e ammirazione per la loro bellezza.
Michel lasciò lo sguardo fisso sulla madre per evitare di incontrare quello della giovane Matilde. La ragazza aveva un anno meno di lui ma in molti la ritenevano la sposa perfetta per suo fratello Marc.
Il primogenito del cadetto Ponthieu però non provava nulla per lei e continuava a sperare di trovare una donna che fosse per lui ciò che sua madre era per suo padre: il vero amore.
Ma il passare del tempo continuava a togliergli le possibilità e i nobili si aspettavano di vedere entrambi i giovani conti sposati entro breve tempo.
Certo, Jean non aveva mai messo fretta sull’argomento a nessuno dei due né aveva organizzato matrimoni combinati in accordo con altri conti, ma le tradizioni premevano.
Le donne, intanto, avevano affiancato mariti e padri e si stavano inserendo garbatamente nelle discussioni.
Isabeau raggiunse il marito con la consueta leggiadria lasciandolo, per l’ennesima volta, stupito dalla sua bellezza.
Donna e Matilde affiancarono Etienne senza fretta e con sorrisi soddisfatti per l’impazienza dell’uomo.
“Avrei gradito che mia figlia non prendesse il temperamento da te, moglie…” sussurrò con ironia il cadetto Sancerre all’orecchio della moglie.
“Ma non è stato così… Rassegnati, marito…” rispose lei con altrettanto sarcasmo.
Ian li osservò per un istante, stupito, poi tornò alla regina Bianca che ancora fissava i due giovani con aria pensosa.
“Siete sempre al di fuori del normale, vero conte Jean?” disse all’improvviso.
Marc sobbalzò ma Ian sorrise.
“Mi conoscete ormai…” disse con calma.
I nobili presenti si scambiarono sguardi stupiti.
“È così, entrambi i vostri figli erediteranno… Certo, la famiglia dei Ponthieu è sempre stata molto unita ma non avrei mai immaginato che vostro figlio Michel avrebbe ereditato il feudo di vostro fratello…” commentò ancora la regina.
Marc e Michel si scambiarono uno sguardo ansioso.
“Guillaume ed io riteniamo che sia la soluzione migliore: non intendiamo fare preferenze tra i miei figli…” rispose Jean con la consueta tranquillità dietro alla quale solo sua moglie sapeva vedere.
Non vuole che accada una seconda volta…, pensava infatti la dama mentre la sua mente tornava a Cairs, a Couronne e alla partenza del marito da Chatel-Argent per Bouvines.
“E quindi i feudi sotto la giurisdizione dei Ponthieu resteranno due… Ne sono lieta: la vostra famiglia è sempre stata fedele alla corona francese…” continuò Bianca di Castiglia.
Se solo sapeste come vi sbagliate!, pensò Ian e condivise il pensiero con il suo signore, il conte Guillaume de Ponthieu, scoccandogli un’occhiata.
Lui annuì impercettibilmente e Ian nascose un sospiro.
Il suo gioco di maschere era stato tirato ancora per le lunghe e la cosa che più lo faceva soffrire era che nemmeno i suoi figli erano ancora a conoscenza della verità.
“E ditemi…” disse la donna riprendendo a sorridere e interrompendo i pensieri cupi dell’uomo, “C’è già qualche dama che potrebbe un giorno portare il nome Ponthieu?”
I due ragazzi chiamati in causa si irrigidirono ma prima che potessero dire qualcosa fu il conte Guillaume a intromettersi.
“Non dubito che mio fratello avrà da stupirci anche su questo argomento…” commentò un pochino acido.
Ian sorrise.
La regina annuì.
“Immaginavo una risposta simile da parte vostra e sono convinta di conoscere anche quella di vostro fratello, conte Guillaume, ma, in realtà, mi stavo rivolgendo a questi giovani conti per sapere se qualcuna di queste bellezze è stata in grado di rapire il loro cuore come dama Isabeau ha fatto con quello del loro padre…”
Marc rimase sbalordito mentre Michel arrossì.
“Allora?” incalzò la regina sorridente.
Marc, conscio della cotta del fratello, si decise a parlare per primo.
“Per ora non ho ancora trovato la donna giusta…” disse, cauto.
“E voi?” chiese Bianca rivolgendosi al minore.
Il giovane si rese degno del padre e, con un’espressione tranquilla in contrasto con il suo cuore, rispose: “Forse… Ma non vorrei fosse questo il modo per legare il nome della giovane al mio…”
La regina sorrise, evidentemente soddisfatta.
Era chiaro che sperasse che i due Ponthieu trovassero moglie in Francia assicurandosi ancora più potere e consolidando l’appoggio che fornivano alla corona.
“Bene… Allora non vi chiederò altro… Godiamoci questo banchetto dopo le difficili questioni che abbiamo trattato prima…” disse.
Marc e Michel dissimularono il sollievo: l’esame era finito.





Allora, questo capitolo mi serve solo da prologo per farvi capire che aria tira alla corte di Francia...
Molti dei fatti che uso sono reali ma mi sono permessa di stravolgere alcune cose...
Non so se Etienne de Sancerre, Henri de Bar e Henri de Grandpré fossero ancora vivi nel 1234, probabilmente no, ma non ho voluto 'ucciderli' perché necessari alla mia trama...
Altra cosa che mi sento in dovere di dirvi è che stravolgerò un po' la storia per quanto riguarda morti etc ma questo credo l'abbiate capito già dall'introduzione...
La citazione all'inizio del capitolo è vera ed è proprio di un Anonimo vissuto nel XIII secolo, ovvero nel 1200: quando l'ho trovata, per puro caso, ho subito pensato a Hyperversum e mi sono detta che era davvero incredibile... Questa storia era nata già da un po' ma questa frase era quella che cercavo per poter far iniziare davvero questa nuova avventura...
Che altro: se vi va di lasciarmi una recensione, sarò felice di ascoltare i vostri pareri e consigli...
La mia idea, per ora, è di pubblicare un capitolo ogni quindici giorni ma tutto dipende da se la storia piacerà e dal ritmo con cui riuscirò a scrivere perciò è solo una decisione temporanea...
A presto!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 2
*** Un'incredibile rivelazione ***







Buongiorno a tutti...
Allora, questo è il secondo capitolo...
Mi scuso per gli errori del precedente e ringrazio di cuore le persone che me li hanno fatti notare: ho corretto e spero che vada tutto bene...
Questo secondo capitolo è ambientato nel presente...
Vi lascio ad esso!
A sotto!
Agapanto Blu






2. Una difficile prova

 
Daniel Freeland si prese la testa tra le mani con disperazione.
Era seduto su una sedia di plastica blu dell’ospedale di Phoenix e aspettava fuori dallo studio medico dello specialista in ottica.
Nello studio stava sua figlia.
La sua unica figlia, la sua adorata Alexandra.
Jodie, sua moglie, aspettava appoggiata alla finestra e si sforzava di non piangere.
Pregava.
Daniel la guardò: una volta era stata una donna fragile, poi il primo viaggio nel Medioevo li aveva segnati tutti, insegnando loro ad andare avanti anche nei momenti più bui.
Tornò a guardare a terra.
Non so più cosa fare!, pensò supplicando il Cielo di aiutarlo.
La porta si aprì lentamente e Alexandra ne uscì con calma seguita dal medico che le teneva una mano sulla spalla per guidarla.
Daniel saltò in piedi e si mise davanti alla ragazza, fissandola negli occhi ma quelli ricambiarono solo con uno sguardo vitreo.
Alexandra, diciotto anni appena compiuti, studentessa al conservatorio, miglior pianista della sua scuola, capelli biondi lunghi fino alle spalle, un po’ di lentiggini sul viso dalla pelle color porcellana e dagli occhi verdi, era cieca.
Daniel strinse la figlia al petto senza dirle nulla e le posò un bacio sul capo prima di voltarsi verso Jodie e di farle cenno di stare accanto alla ragazza.
Alexandra stava immobile e non reagiva, il suo volto era un maschera di gelo e pareva che niente la potesse scalfire.
La madre l’abbracciò piangendo in silenzio.
“Andrà tutto bene…” sussurrò alla figlia ma la giovane non reagì nemmeno a questo.
Intanto, Daniel e il dottore si allontanarono dalle due.
“Non ha funzionato.” mormorò a bassa voce Freeland con un dolore che gli opprimeva il petto.
Il medico annuì.
“Mi spiace… Gliel’avevo detto che c’era il rischio che non bastasse: le condizioni di sua figlia quando è arrivata qui erano…”
“Gravi!” sibilò Daniel con rabbia, “Lo so! Me l’ha già detto! Voglio che mi dica qualcosa che non so! Resterà cieca per tutta la vita?”
“Non è detto… Potrebbe sottoporsi ad un altro trapianto di cornea e…”
“Mia figlia non può sopportare un’altra speranza vana! Lei aveva detto che con questo trapianto avrebbe potuto ricominciare a vedere!”
“Se la parte danneggiata fosse stata solo la cornea, con buone probabilità avrebbe ripreso la vista ma a quanto pare le lesioni sono state troppo profonde perciò…”
“Con buone probabilità?!” sibilò Daniel poi sospirò, “E allora un altro trapianto a cosa servirebbe?”
“Forse a nulla…” ammise il medico, “Però a volte gli organi sono incompatibili e non legano anche se i danni sarebbero riparabili…”
Daniel sospirò.
“Lei pensa che sia uno di quei casi?” chiese.
“Non saprei…”
“Allora non ha senso continuare...”
Daniel diede le spalle al medico e si avviò verso la sua famiglia.
“Aspetti…” tentò il dottore.
“No! Mi ascolti, non sarò un luminare come lei ma so che ne ammazza di più una falsa speranza che un incidente! Alexandra non ha bisogno di salti mortali sotto i ferri di un ospedale! Ha bisogno di normalità e di trovare una ragione per andare avanti!” rispose brusco lui prima di voltarsi e andarsene.
Mise un braccio intorno alle spalle della figlia e prese per mano Jodie, poi tirò entrambe via da quel posto che li aveva illusi e poi distrutti.
 
***
 
Daniel guidava con calma nel traffico cittadino diretto a casa sua.
Alexandra, sul sedile davanti, teneva la testa voltata verso il finestrino come se potesse vedere.
Jodie stava seduta dietro con ancora le lacrime agli occhi e alternava sguardi alla ragazza e al marito ma nessuno dei due la considerava.
“Voglio andarmene…” annunciò all’improvviso la ragazza.
Daniel si voltò di scatto verso di lei.
“Come?!” chiese scioccato.
“Non posso stare qui. Non posso continuare a pesarvi addosso.” ripeté la ragazza con decisione poi si voltò, furiosa, e gridò, “Voglio andare via!”
Daniel accostò sul ciglio della strada, troppo agitato per continuare a guidare.
“Alexandra…” tentò di dire ma le parole gli vennero meno.
Fu Jodie a parlare.
“Cara, tu non sei un peso…” iniziò ma la ragazza la interruppe bruscamente.
“Ah, no?!” chiese, acida, “Hai lasciato il lavoro per stare a casa con me! Papà ha fatto i salti mortali per guadagnare i soldi per mantenerci e per questa maledetta operazione che non è servita a niente! Questo non lo chiami ‘pesare’?!”
“No!” le rispose secco Daniel prima di prendere un respiro profondo, “Tua madre ha ragione. Non è stato un problema fare tutto questo e poco importa se non ha funzionato. Sono due anni che andiamo avanti in questo modo e tu ormai hai imparato a muoverti e fare tutto da sola…”
L’uomo piantò i suoi occhi verdi in quelli ciechi della figlia che rabbrividì come se avesse potuto sentire lo sguardo su di lei.
“Tu vivi come se ci vedessi, il vero problema è che non vuoi farlo! Preferiresti continuare nel rancore ma non è così che si va avanti. Ascoltami, io lo so…”
“Come puoi dire di saperlo, papà?!” scoppiò la ragazza, “Cosa credi di saperne, tu, che hai passato la tua vita in questa città del cavolo a fare il topo da laboratorio dietro una scrivania?! Con che coraggio vieni a dirmi che sai cosa sto provando?! Tu non sai cosa sia la rabbia e il desiderio di uccidere qualcuno che ti ha tolto tutto! Non c’eri tu su quella strada, non puoi capire quanto lo odio!” gridò.
L’ultima frase ferì Daniel come una coltellata e l’uomo sgrano gli occhi.
Nella testa iniziò a risuonare una frase simile.
Non c’eri tu sotto la frusta, non puoi capire quanto lo odio!
Era stata una frase che l’aveva annientato e ferito al cuore per ciò che significava, per i sensi di colpa che l’accompagnavano e perché a dirgliela era stato il suo migliore amico.
Ian Maayrkas, suo fratello adottivo.
Jodie sobbalzò, forse colpita dallo stesso pensiero di Daniel: la rabbia di Alexandra era quella di Ian.
E se lui l’aveva superata, forse avrebbe potuto aiutare la loro figlia a superare ciò che la stava distruggendo dentro.
Daniel guardò la moglie che ricambiò mentre le loro menti correvano al computer di casa e al gioco sopra installatovi.
Alexandra ansimò un po’ per lo sfogo poi si accorse del silenzio e capì che qualcosa non andava.
“Che succede?” chiese angosciata spostando automaticamente gli occhi davanti a sé, verso il parabrezza.
“C’è che dobbiamo fare un viaggio…” rispose il padre rimettendo in moto e ripartendo.
“Daniel!” esclamò Jodie sgomenta, “Non puoi pensare davvero di portarla da Ian! È pericoloso per chiunque! Figurati per lei!”
“Io sono una persona normalissima!” strillò Alexandra prima di voltarsi verso il padre, “Ian è l’archeologo, il tuo amico che viene qui raramente perché è sempre in giro per il mondo, vero?” chiese.
Daniel disse di sì.
“Ian è sempre lontanissimo e non è raggiungibile con il cellulare, mi spieghi come potremmo andare da lui?” chiese la ragazza imbronciata.
“Tutte balle!” replicò Daniel con uno sbuffo.
Alexandra sgranò gli occhi e spalancò la bocca.
“Come, scusa?!”
“Hai capito benissimo!” disse suo padre parcheggiando davanti a casa.
“Che vuol dire?” insistette la giovane, “E le storie sui ritrovamenti e tutto il resto?”
Suo padre si voltò verso di lei.
“Balle!” ripeté prima di scendere dalla macchina e andare spedito verso casa.
Alexandra non attese la madre ma rincorse l’uomo verso la porta senza incertezze: conosceva a memoria ogni filo d’erba di casa sua.
“Come sarebbe?! I nonni sono convinti che…” disse ancora entrando in casa ma, non appena Jodie fu dentro, Daniel chiuse la porta e la interruppe.
“Balle, Alexandra! Balle! Sono tutte fandonie! Bugie inventate perché i tuoi nonni non ficchino il naso in cose che non devono conoscere!” esclamò prima di correre al telefono e comporre il numero che gli serviva.
Alexandra ascoltò i suoni dei tasti.
“Perché chiami lo zio Martin?” chiese stupita.
Lei non aveva solo imparato a compensare la vista con gli altri sensi, come tutti i ciechi, ma li aveva allenati al punto da fare cose incredibili.
L’aveva fatto suonando e praticando la scrima, l’unica cosa che le piaceva davvero: la vista non serviva ma, anzi, traeva in inganno, i suoni erano ciò che contava davvero.
Una volta faceva scherma ed era brava ma poi, su consiglio di Daniel e Ian quando era venuto al ringraziamento di sette anni prima, aveva provato anche la scrima medioevale… E ne era rimasta affascinata.
Ora le sue armi preferite erano i pugnali.
“Perché ho bisogno di un sorvegliante!” le rispose il padre, “Jodie, chiama il laboratorio con il cellulare e di’ che sono malato e non andrò per qualche giorno.” ordinò.
Incredibilmente per la giovane, abituata a sentire sua madre infuriarsi se le veniva imposto qualcosa, la donna eseguì senza fiatare.
Intanto Martin rispose.
“Daniel, sto andando agli allenamenti,” rispose la voce del minore dei fratelli Freeland dall’altro capo del telefono, “non puoi chiamarmi dopo?”
Martin era un giocatore di baseball professionista ed era Pitcher negli Arizona Diamonbacks.
“No, vado da Ian.” rispose laconico il maggiore.
Martin non rispose per un po’.
“Ora?” chiese.
“Sì!”
“Jodie?”
“Lei e Alexandra vengono con me.”
“Faccio manovra: dieci minuti al massimo e sono lì…” rispose Martin prima di riattaccare.
Alexandra era scioccata.
Suo zio non aveva mai perso un allenamento in vita sua e invece mandava all’aria quello prima di un’importante partita per una telefonata su Ian sapendo certamente che tutto quello che lei sapeva su quell’uomo era una bugia.
“Alexandra… Vai in camera tua mentre noi sistemiamo qui…” le sussurrò sua madre all’orecchio con gentilezza, “Io e tuo padre dobbiamo parlare…”
La ragazza salì le scale che portavano al piano di sopra a passo di marcia ed entrò nella sua stanza sbattendo la porta.
Attese un attimo poi la riaprì con delicatezza.
“Ma che credi di fare, eh?” stava strillando sua madre, “Di portarla con te nel Medioevo?! A far cosa?!”
Nel Medioevo?, pensò Alexandra sbigottita.
“A parlare con Ian! Jodie, lui ci è passato! Anche lui ha dovuto imparare a convivere con i segni che qualcuno gli aveva inflitto!”
“NON È LA STESSA COSA!” gridò la donna, “IAN NON È CIECO! Lui vede benissimo! Lui le vede le spade che gli puntano contro o le frecce che gli tirano! ALEXANDRA POTREBBE MORIRE!”
“È PER QUESTO CHE ANDIAMO CON LEI! PENSI CHE NON SAPPIA DIFENDERLA?!” gridò Daniel.
Calò un silenzio glaciale per un po’.
Daniel non aveva mai gridato contro Jodie.
“Cara…” iniziò l’uomo con voce più bassa, “Ti capisco e anch’io ho paura… Ma Alexandra deve andare nel passato! Deve vedere che può farcela, deve capire che ci sono ancora centinaia di cose che deve scoprire e che può farlo anche senza vedere!”
La ragazza sentì la madre singhiozzare.
“Non voglio che succeda di nuovo qualcosa come a Cairs!” pianse Jodie.
“Nemmeno io…” sussurrò Daniel.
Alexandra chiuse la porta.
Spade?! Frecce?! E cosa diavolo è Cairs?!, pensò aggrottando le sopracciglia con confusione.
Un motore si fermò davanti a casa loro e la ragazza capì che Martin era arrivato.
La porta si aprì e si richiuse senza che nessuno parlasse.
Il silenzio durò un minuto buono.
“Alexandra… Per favore scendi…” la chiamò la voce di suo padre.
La ragazza uscì dalla stanza, scese le scale senza indecisione e rimase in silenzio nel salotto.
Daniel la prese con delicatezza per mano e la fece sedere sul divano.
“Alexandra…” iniziò ma poi gli mancò il coraggio.
Si voltò verso Jodie che lo guardava con la decisione negli occhi, e Martin che se ne stava a braccia incrociate lasciando che fosse il fratello a fare ciò che riteneva più opportuno.
“C’è qualcosa che dobbiamo dirti… Qualcosa di molto importante…” disse alla fine.
Seduti sul divano di una piccola casa di Phoenix, Sir Daniel Freeland, Lady Jodie Freeland e Martin Freeland raccontarono all’erede del cavaliere delle terre libere le vicissitudini del Conte cadetto Jean Marc de Ponthieu e del suo compagno d’armi, il Cavaliere del Tempo.




Forse mi sono lasciata prendere un po' la mano con i vari titoli nell'ultima frase ;)
Be', che dire... Spero che vi sia piaciuto...
Nel prossimo capitolo, si riparte alla volta dell'anno 1234...
Titolo: Un nuovo viaggio
Sì, lo so, ditelo pure: che fantasia, eh?
Grazie mille a tutti!
A presto!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 3
*** Un nuovo viaggio ***







3. Un nuovo viaggio

 
Daniel prese fiato e smise di parlare.
Alexandra rimase zitta.
Le aveva detto tutto, dal primo viaggio all’ultimo, ma lei non aveva reagito in nessun modo.
Jodie e Martin si scambiarono uno sguardo, preoccupati.
Il silenzio si fece pesante.
“Alexandra,” sussurrò Jodie, “di’ qualcosa…”
Alexandra strinse le labbra con rabbia.
“D’accordo. Sapete che vi dico? Che sono cieca, non scema!” strillò alzandosi e correndo via.
“Alexandra!” la chiamò Daniel ma lei non si fermò.
“Lasciami stare! Mi fidavo di te e invece tu te la spassavi alle mie spalle!” gridò la giovane iniziando piangere.
Entrò nella sua stanza, sbatté la porta, prese la chiave e chiuse poi si lanciò sul letto e si mise a singhiozzare.
Non era giusto: l’avevano illusa, tradita, presa in giro, umiliata! Non dovevano azzardarsi a parlarle mai più!
Non li voglio più vedere!, pensò con rabbia.
L’orologio sulla parete del muro segnò il trascorrere di un’ora, poi di due. Di tre.
Alle sei e mezza, Alexandra alzò la testa dal cuscino e si mise a pancia in su.
La storia che le avevano raccontato era inverosimile ma se fosse stato tutto uno scherzo non avrebbero litigato.
Le cicatrici su Ian non le aveva mai viste ma una volta aveva sentito John accennare al figlioccio di un guaio in Francia del quale non voleva più parlare.
E i segni su suo padre, l’attentato alla centrale elettrica che era accaduto davvero, il codice miniato che suo padre le aveva fatto sentire sotto le dita…
Troppe cose combaciavano con il racconto.
C’era solo un modo per capire qual era la verità.
Alexandra si alzò piano dal letto e camminò senza fare il minimo rumore.
Aprì la porta della sua stanza e sentì la voce di suo padre provenire dal piano di sotto.
“Ma cosa pensavo di fare? L’ho solo sconvolta! Sono un’idiota!”
“Ma no, Daniel.” disse Jodie, “Tu volevi solo il suo bene! Lasciala un po’ tranquilla e le passerà.”
La ragazza scivolò piano fino a raggiungere lo studio di suo padre.
Si guardò indietro per un istante, indecisa, poi aprì la porta: il computer era lì  e ronzava tranquillo, apparentemente innocuo.
Da sotto arrivò la voce di suo padre ancora una volta e suonò carica di un’angoscia tale che Alexandra si fermò.
“Io non posso vederla così, Jodie! Mi fa troppo male…”
La ragazza tornò indietro e scese piano le scale cercando di non farsi vedere.
“Se solo fossi stato con lei quella sera… Ci sarei dovuto essere, sarei dovuto finire sotto quell’auto al posto suo, dannazione!”
Alexandra si fermò un istante.
Nemmeno all’apice della sua rabbia e della sua disperazione aveva mai desiderato che uno dei suoi genitori rimanesse coinvolto nell’incidente al posto suo, mai nemmeno per un istante.
Scese le scale di corsa senza preoccuparsi di non farsi sentire.
Qualcuno si voltò e altre due persone si alzarono in piedi, una delle due mormorò: “Alexandra!”
Era Daniel.
La ragazza gli si lanciò contro guidata dalla sua voce e l’abbracciò con forza.
“No!” singhiozzò contro il suo petto, “Papà, no!”
Daniel strinse la figlia e chiuse gli occhi. Le accarezzò i capelli con calma e la tranquillizzò cercando di non farle capire quanto avesse sofferto.
I singulti di Alexandra si calmarono ma padre e figlia rimasero abbracciati.
“Ti credo…” sussurrò all’improvviso la giovane.
“Ascolta, non serve che ti sforzi: capisco che…”
“No.” l’interruppe lei, “Ascolta tu: ti credo. Non menti, l’ho capito solo ora. Scusa, papà…”
Daniel rimase sbigottito per un po’ poi sospirò di sollievo.
“Grazie.”
“Allora cosa fate?” chiese Martin.
Daniel e Jodie si guardarono per un attimo.
“Sceglie Alex.” disse Jodie sorridendo.
La figlia le sorrise e si slacciò dal padre per abbracciarla.
“Grazie mamma.” le disse all’orecchio prima di alzarsi e rivolgersi allo zio, “Andiamo!”
Martin le sorrise.
“Frena i cavalli: prima è meglio studiare un po’ di Storia per capire dove andrete a finire!” le tarpò le ali.
 

***

 
Daniel accese internet e iniziò una ricerca a tappeto sull’anno 1234 –l’anno in cui sarebbero entrati in gioco per non destare sospetti sull’età di Alexandra-, Jodie si buttò nell’Atlante Storico di Ian e Martin insegnò ad Alex gli usi e i costumi che doveva sapere: come si mangiava, come si parlava, come ci si vestiva eccetera…
Fortunatamente, la ragazza aveva studiato Francese come corso opzionale a scuola. Non era molto, ma era certamente più di quanto non avessero avuto i suoi al loro primo viaggio.
Due ore dopo unirono i risultati.
“Allora!” cominciò Daniel, “Innanzitutto, Filippo Augusto e suo figlio Luigi sono morti, così nel 1226 sale al trono Luigi IX e la madre, la regina Bianca di Castiglia, esercita la reggenza al suo posto perché lui è ancora un bambino. Ma le cose cambiano proprio nel 1234: Luigi IX prende posto sul trono di Francia e sua madre si ‘eclissa’, anche se continuerà ad aiutare il figlio fino al 1236. Bianca in realtà non ha mai goduto del favore di molti nobili finché è stata sul trono perché è ancora considerata la straniera in quanto di origine spagnola. L’ascesa del principe mette fine alle ostilità interne tra feudatari e corona…” spiegò.
Jodie annuì.
“Se non sbaglio tentarono di rapire il principe.” ricordò.
Daniel annuì.
“Accadde nel 1227, però.” disse, “Siccome il re d’Inghilterra, Enrico III, aveva possedimenti nel Sud-Ovest della Francia ed era originario di essa, avrebbe dovuto sottomettersi a Luigi. Non volendo farlo, fece organizzare l’agguato dal conte di Bretagna ma il colpo non andò a buon fine: i parigini difesero il re ragazzo e lo scortarono in città, al sicuro: fu senz’altro un brutto colpo per Enrico III.”
“Cosa c’entra tutto questo?” chiese Alexandra, “Noi entreremo nel gioco nel 1234!”
“Ed è adesso che le cose si complicano: nel 1234, non solo Luigi prende il trono di Francia, ma si sposa anche! Con Margherita di Provenza, ovviamente per ragioni politiche. Stiamo per finire in un momento delicato della Storia: dal 1227 le cose sono state molto difficili perché il re, sebbene tredicenne, è stato impegnato fino al 1230 in molte campagne militari.”
Jodie sgranò gli occhi.
“Ma era un bambino!” protestò.
“No.” la interruppe Alexandra con gelida obiettività, “Era l’erede al trono.” la corresse.
“Posso continuare?” chiese Daniel, “Nel 1229, il re concordò di far sposare al fratello minore, Alfonso de Poitiers, una figlia di Raimondo VII di Tolosa che all’epoca era uno dei baroni più pericolosi e riottosi nei confronti della corona: facendo così, non solo il re si toglie un bel problema dalle scatole, ma si garantisce anche il controllo su terre meridionali molto importanti.”
“Furbo! Degno erede della sua famiglia, visti la madre, il padre e il nonno!” fece Martin.
“Una famiglia di volpi!” concordò Jodie.
“E non è finita: dopo una tale dimostrazione d’astuzia, nel 1230, l’intera nobiltà francese si è riunita per omaggiare il giovane re.”
Alexandra storse la bocca.
“Della serie: hai dimostrato di essere pericoloso e quindi non ti prendo come nemico!” disse.
Jodie annuì.
“Era quasi sempre così.” ammise.
“Quindi il matrimonio è molto importante per assicurare la discendenza e così tenere in mano tutto il bottino…” disse Martin invitando il fratello a continuare.
“Sì,” rispose Daniel, “Margherita era la figlia del conte Raimondo Beringhieri V, all’epoca un uomo importante della società francese. La loro era una famiglia famosa soprattutto per motivi culturali e un’unione tra loro e il re rendeva la corona ancora più intoccabile. Si sposeranno a Sens, il 27 maggio 1234, appunto.”
“Io ho scoperto qualcosa in più: in questo momento, Luigi è alle prese con un problema di tipo religioso!” disse Jodie.
“Scherzi? Pochissimi hanno il coraggio di opporsi alla Chiesa in quel periodo!” obbiettò Martin.
“Beh, Luigi è tra quelli!” rispose Jodie piccata, “La Chiesa all’epoca si intrometteva anche nella politica, come sappiamo, ma Luigi la fermò: ci furono un bel po’ di ‘discussioni’, diciamo, tra il re e il clero, in particolare con un vescovo. Nel 1232, il vescovo di Beauvais mise i bastoni tra le ruote del nostro Luigi. Qui non si capisce bene ciò che accadde, resta il fatto che i problemi finiranno solo quando, nel 1240, la diocesi verrà passata ad un altro vescovo. Fino ad allora quei due si faranno guerra.”
“Eccone uno a cui stare attenti…” commentò Alexandra.
“In realtà, fino a matrimonio celebrato dovremo stare attenti anche ai signori di Flandre, di Bretagna e di Marche.” la corresse Daniel, “A quanto pare i signori di queste zone proprio non sopportano i re francesi!” commentò alludendo a Ferrand de Flandre e, soprattutto, al suo sceriffo Jerome Derangale.
“Altro?” chiese la ragazza.
“Uno di cui non dovremo aver paura però è il Papa.” disse Jodie, “Il re, pur essendo molto religioso, impedirà alla Chiesa di influire nella politica frenando i vescovi.”
“Come il nonno e il padre, la scomunica non lo spaventava.” disse Martin sorridendo.
“Direi di no, ed è strano se si pensa che poi verrà ricordato come Il Santo!” disse Alexandra ad alta voce.
“Qualcos’altro a cui non abbiamo pensato?” chiese Jodie.
“La discendenza!” disse Martin, “Io e Alexandra abbiamo indagato: Luigi e Margherita avranno ben undici figli, la cosa può non sembrare interessante visto che il primo nascerà solo nel 1240. Però il quinto, sentite bene, verrà chiamato Jean, nel 1248. Dite che è una coincidenza?” chiese sorridente.
“Chiediamolo al nostro storico di fiducia!” gli rispose allegro Daniel.
 

***

 
Alexandra indossò il visore e i guanti con un po’ di timore: in fondo, lei non c’entrava nulla, non c’era nell’altro viaggio.
Al contempo sentiva una strana adrenalina, una sensazione che gli diceva che era la cosa giusta da fare per salvarsi dall’autodistruzione che aveva innescato.
“Pronta?” le chiese sua madre.
Daniel era al solito posto di fronte alla scrivania, Jodie stava seduta su una sedia dietro di lui mentre Alexandra aveva scelto di starsene seduta in terra.
Martin era accanto al fratello e osservava con attenzione la schermata di gioco.
“Allora… Io starò qui fino a che sarà necessario. State attenti e, appena arrivate, provate i comandi per vedere se rispondono: se lo farete io vi vedrò per un istante sul monitor, se non funzionano io non vedrò niente di strano, capirò che c’è un problema e attiverò la disconnessione dei personaggi da qui. Tutto chiaro?” chiese quando fu tutto sistemato.
“Tranquillo Martin! Stai solo attento a mamma e papà!” gli disse Daniel.
Il gioco iniziò con la solita musichetta e la visuale del globo terrestre che ruotava e si ingrandiva fino a che i giocatori non videro distintamente la Francia e il monastero di Saint Michel.
Daniel aveva impostato la data e l’ora dell’incontro fissato con Ian: 1 Maggio 1234, tre del mattino.
L’uomo si chiese che scusa avesse accampato Ian per spiegare un simile viaggio a una simile ora.
Quando il gioco iniziò, si ritrovarono tutti e tre nel bosco accanto al monastero. Era buio e si sentivano scricchiolii ovunque ma nessuno dei tre ci fece caso perché tutto aveva ancora l’artificiosità del gioco.
“Beh? Tutto qui?” chiese Alexandra.
Come se le sue parole avessero innescato qualcosa un rombo scosse la terra e fece perdere l’equilibrio ai tre che finirono per piombare a terra.
Daniel e Jodie non batterono ciglio mentre Alexandra iniziò a massaggiarsi il fondoschiena.
“Mamma mia! Cos’ha combinato Martin? Mi ha fatto cadere sul serio!” borbottò.
Daniel fece un sorrisetto furbo.
“E come avresti fatto a cadere visto che eri seduta per terra?” le chiese con nonchalance.
Alexandra si paralizzò stupefatta.
Spostò lentamente la mano sulla testa alla ricerca del visore ma la sua mano si infilò delicatamente tra i suoi morbidi capelli.
“Oddio!” esclamò saltando in piedi.
Daniel e Jodie scoppiarono a ridere.
“Tranquilla, cara… È sempre uno shock la prima volta…” sussurrò la donna.
“Non è possibile! Non è possibile! Non è possibile!” cominciò a ripetere Alexandra senza fermarsi, “Non ha senso!”
“Cavoli! Non siamo in Francia nemmeno da un minuto e già ti lamenti?!” esclamò Daniel fingendosi sorpreso.
Jodie sorrise.
“Adesso che facciamo?” chiese la ragazza.
Faceva freddo, c’erano un sacco di rumori e fruscii che non riusciva a riconoscere e la sua cecità la faceva sentire vulnerabile come mai prima.
“Cerchiamo Ian!” le rispose Daniel, “Dovrebbe essere qui da qualche parte. Ma prima…”
L’uomo chiamò la mela virtuale e controllò i comandi poi la fece sparire.
“Ora Martin starà tranquillo.” commentò a operazione terminata.
 

***

 
Martin vide l’immagine del bosco accanto a Chatel-Argent e sorrise.
Erano arrivati ed era tutto a posto: per una volta, sembrava che Hyperversum non volesse far loro qualche brutto tiro.
“Buona fortuna.” disse il ragazzo, “Spero che tu riesca a trovare la tua strada, nipote, in qualunque secolo essa sia…”





Et voilà!
Allora, non so come sia venuto ma mi serviva l'intermezzo del viaggio e la scusa per spiegare la situazione storica (decisamente movimentata) nella quale i nostri cari americani andranno a finire...
Nel prossimo capitolo salterò un po' da Ian a Daniel e da Daniel a Ian...
Ci saranno un paio di capitoli di assestamento, vi avverto, prima che la storia vera e propria cominci ma spero capiate che mi servono...
Sono a buon punto con la stesura della trama ma un capitolo particolarmente ostico mi rende insicura all'idea di pubblicare più rapidamente quindi per ora restiamo a un capitolo ogni 15 giorni, ok? Però per ora ho già 15 capitoli pronti quindi non dovrei correre troppi rischi :)
Fatemi sapere, ok?
A presto!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 4
*** Ritardo ***







4. Ritardo

 
Daniel si guardò un po’ attorno sorpreso.
“Dov’è Ian?” chiese Jodie dando voce ai suoi dubbi.
Eh già, dov’è?, pensò l’uomo.
“Forse è al monastero…” azzardò Alexandra.
Daniel la guardò: non tremava né per il freddo né per la paura, la sua voce era controllata e sul viso c’era la solita maschera di ghiaccio. Ripensò a Isabeau: anche lei aveva sempre il totale controllo di sé.
“Andiamo…” suggerì prendendo piano la figlia per mano e tirandola lentamente con sé per guidarla nel bosco.
Jodie li precedeva con le orecchie tese.
“Eppure deve essere per qui, no? È lui che fa scattare il meccanismo…” borbottò.
Daniel le sorrise e proseguirono a tentoni nel bosco buio. Dopo qualche minuto gli alberi si interruppero rivelando la strada sterrata che portava a Saint Michel ma non fu il monastero ad attirare i ragazzi quanto il convoglio nobiliare che si stava allontanando verso Lunes.
“No!” borbottò Daniel riconoscendo, nonostante il buio, lo stendardo del Falco d’argento che scintillava alla luce della luna.
“Perché se ne va?” chiese Jodie.
“Papà?” chiamò Alexandra alzando un sopracciglio, “Sei sicuro di aver impostato l’ora giusta?”
“Sì!” le rispose secco Daniel.
 
“Daniel, io resterò al monastero di Saint Michel fino alle tre del mattino, Guillaume vuole partire presto: se verrai, dovrai farlo prima di quell’ora…”
 
“No…” mormorò di nuovo l’uomo.
“Vuoi dire che abbiamo mancato Ian e che ora dobbiamo farcela a piedi fino a Chatel-Argent?!” esclamò Jodie arrabbiata.
“Adesso stiamo calmi!” disse Daniel alzando le mani come un vigile, “Andiamo al monastero e chiediamo ai frati: l’ultima volta avevano un cavallo…”
“Già! Uno!” sbraitò Jodie.
“Credo di sapere chi se la farà a piedi…!” commentò sarcastica Alexandra.
“Zitta tu!” borbottò Daniel.
I tre si recarono in fretta al monastero e bussarono con energia.
Il frate che aprì loro riconobbe senza esitare Sir Daniel e li fece entrare con calore per poi chiamare l’abate che arrivò subito.
Daniel rimase sorpreso nello scoprire che l’anziano padre che controllava il monastero era venuto a mancare ed era quindi stato sostituito da un suo confratello, di poco più giovane in verità.
“Ma cosa fate qui?” chiese l’uomo, comunque a conoscenza dell’identità dell’americano.
“Padre, permettetemi di presentarvi mia moglie Jodie e mia figlia Alexandra.” rispose Daniel facendo le presentazioni.
La ragazza si inchinò con deferenza ma scoccò un’occhiata all’abate che vide i suoi occhi.
“Cercavamo il mio signore ma siamo arrivati in ritardo e abbiamo solo potuto vedere il suo convoglio che partiva…” continuò l’americano ignorando la figlia.
L’abate non fece una piega ma annuì.
“Siete fortunato: il vostro signore era venuto qui per la donazione che ci fa sempre ma si trovava a Parigi fino a pochi giorni fa. Ha lasciato due cavalli e delle armi…”
Daniel lo guardò confuso.
“Visto cosa vi è già capitato in passato è stata una saggia precauzione in più…” spiegò l’abate.
“Che altre notizie mi sapete dare?” chiese lui.
“Beh, il vostro signore e suo fratello sono impegnati a corte per sostenere la nostra regina fino al matrimonio del figlio, mentre Dama Isabeau si sta dedicando anima e corpo a mandare avanti il castello: il conte Jean Marc le ha lasciato la reggenza del feudo in sua assenza…”
“La cosa non è piaciuta a qualcuno?” chiese Jodie sorpresa dal tono amaro del frate.
“All’inizio erano in molti a dubitare ma la contessa si è rivelata abile tanto quanto il marito. Sono i ‘vicini’ che non sembrano molto contenti di avere a che fare con una donna…”
“E i figli del mio signore?” chiese Daniel, “Marc dovrebbe avere ormai diciannove anni.”
“E Michel de Ponthieu diciassette. Sì, sono stati introdotti alla corte proprio poche settimane fa: Sua Maestà la regina conta molto sul loro appoggio in futuro…”
Daniel annuì. Era ovvio che la regina contasse su di loro: Ian era sempre stato un suo sostenitore sin da quando sul trono c’era Filippo Augusto.
“Vorremmo partire subito allora.” disse, “Con un po’ di fortuna dovremmo poterli raggiungere…”
“Ma… Siete sicuro?” chiese l’abate apprensivo, “Il conte sta viaggiando con una scorta che comprende i suoi soldati e quelli di suo fratello, che gli è assieme, mentre voi siete solo, non mi pare una buona idea. Sono diretti a Chatel-Argent, se anche partite all’alba conoscete la strada…”
Daniel e Jodie si guardarono, un conto era viaggiare soli loro due, che erano abituati, ma con Alexandra…
“Avete ragione, padre.” ammise quindi la donna, “Aspetteremo che sorga il sole per partire.”
Il frate annuì e fece approntare una stanza dove i tre potessero riposare in attesa dell’alba.
Come ci fu abbastanza luce i tre raggiunsero l’abate all’uscita del monastero.
L’uomo porse a Daniel una cotta di maglia e un arco con una faretra piena di frecce.
“Il vostro signore le ha fatte lasciare qui.” disse mentre un altro frate portava due cavalli per le briglie.
Jodie venne fatta montare su una delle due bestie mentre Daniel faceva salire Alexandra all’amazzone sull’altra e le si sedeva dietro dopo aver indossato le armi.
“Non so come ringraziarvi!” disse all’abate con sincera gratitudine.
“Non mettetevi nei guai!” si raccomandò l’uomo.
Daniel sorrise, sperando davvero di poter mantenere la promessa, poi spronò il cavallo. Alexandra lanciò un gridolino di sorpresa ma poi si calmò, era andata a cavallo per un po’ di tempo prima dell’incidente e ci mise poco a riabituarsi al movimento dei muscoli della bestia sotto la sella.
Si fermarono a Lunes per pranzare con le poche monete che l’abate aveva dato loro ma Daniel evitò accuratamente la locanda fuori città dove si erano fermati lui e Ian anni prima*.
Jodie sorrise ma non disse nulla.
Ripartirono in fretta, decisi a raggiungere il castello di Ian prima che facesse buio.
 
***
 
“Jean?” chiamò Guillaume de Ponthieu sporgendosi sulla sella per osservare meglio il viso di suo fratello.
Ian sobbalzò e si voltò.
“Perdonami, stavo riflettendo.” rispose, imbarazzato, sotto lo sguardo indagatore dell’altro uomo.
Il conte annuì.
“Mi era parso.” commentò, “Cosa turba il Falco? Filippo Augusto, che riposi in pace, sosteneva che la tua agitazione era dovuta alla vicinanza di nemici. Spero che non si tratti nuovamente di questo!”
E invece sì!, pensò amaro Ian tornando con la mente ai ricordi sulla Storia.
“Sono preoccupato, Guillaume.” ammise, “Mi pare, ma non vorrei sbagliarmi, che qualcuno non sia felice dell’ascesa al trono del giovane principe Luigi…”
L’uomo si rabbuiò.
“Non ti smentisci mai, il tuo occhio di falco è sempre vigile. Anche quando gli si consiglia di chiudersi per un po’.” replicò l’uomo fulminando il fratello minore al quale aveva ordinato di star fuori per un po’ dagli intrighi politici.
“Perdonami.” rispose Ian tentando un lieve sorriso a cui Guillaume rispose.
“Non è colpa tua se hai un dono che può essere una maledizione, ma ti ripeto che preferirei che tu te ne stessi fuori dalla politica. Almeno finché non sarò spiritualmente pronto a sostenere un’altra delle tue rivelazioni!” commentò il conte.
Ian sorrise poi tornò a guardare avanti e passarono, in quel momento, nella porta della cinta esterna di Chatel-Argent. Le guardie salutarono festosamente i fratelli feudatari di ritorno da Parigi e la gente fece gesti amichevoli nei confronti del piccolo convoglio in entrata. Il conte cadetto Jean Marc de Ponthieu sorrise a tutti ma si sentiva triste: Daniel non si era presentato al loro appuntamento e la prossima data concordata sarebbe stata solo due mesi dopo.
L’uomo sospirò ma poi il profilo del castello argentato lo distrasse dai pensieri più cupi.
Stava per rivedere Isabeau e i suoi figli, chissà se era andato tutto bene durante la sua assenza. Una volta dentro la corte interna, Ian scese da cavallo con un sospiro di sollievo che non sfuggì a Ponthieu.
Il conte aggrottò un sopracciglio.
“Tua moglie non sarebbe felicissima del tuo sollievo nel vedere il castello ancora integro!” commentò acido.
Ian arrossì ma scosse la testa.
“Ero preoccupato per lei.” chiarì con un sorriso poi spostò lo sguardo al castello, “Dove sarà? Non l’ho vista alla finestra…”
Guillaume seguì il suo sguardo e annuì.
“Non l’ho vista nemmeno io ma sarà occupata: le hai lasciato un grosso fardello, per una donna.”
“Credimi, fratello: Isabeau è molto più brava di me!” replicò Ian cercando di non prendersela per quella mentalità Medioevale che non riconosceva la parità tra i sessi.
Prima che il conte Guillaume de Ponthieu potesse replicare, la voce dolce della signora De Montmayeur li interruppe.
“Jean!” chiamava festosa.
Isabeau stava arrivando quasi di corsa con un sorriso splendente sulle labbra e negli occhi da cerbiatta, i capelli d’oro le rimbalzavano in boccoli sulle spalle e sulla schiena mentre il corpo alto e snello, senza residui delle due maternità passate, stava fasciato in un morbido abito azzurro trapuntato d’argento: i colori del suo feudo.
La donna si lanciò al collo del marito abbracciandolo e strappandogli una risata.
“Isabeau!” scherzò Ian, “Ma cosa fai? Ti sembra il comportamento adatto alla moglie di un feudatario?”
La donna gli sorrise maliziosa stando al gioco.
“Certo che no ma, a quanto pare, è il comportamento tipico di un feudatario.” replicò pungente e Guillaume de Ponthieu alzò gli occhi al cielo.
“Di alcuni feudatari, purtroppo, sì.”
“Vi siete alleati contro di me?” chiese Ian sgranando gli occhi con finta offesa.
Isabeau scoppiò a ridere e lo abbracciò di nuovo.
“Mi sei mancato.” gli sussurrò all’orecchio, “Grazie…”
Ian annuì ma rispose solo alla prima affermazione, certo che Guillaume avrebbe preferito dimenticare al più presto l’ultimo colpo di testa del fratellino cadetto: affidare il feudo a una donna.
“Anche tu mi sei mancata.” le disse prendendole le mani tra le sue e portandosele al petto mentre posava con delicatezza la fronte su quella della moglie.
Entrambi chiusero gli occhi per un istante assaporando il contatto poi li riaprirono, si sorrisero e Ian prese la moglie per mano e si voltò verso Guillaume che, di nuovo, storse il naso a quelle effusioni pubbliche ma non commentò.
“Beh?” chiese l’uomo voltandosi, “Dove sono i miei nipoti?”
Isabeau rise.
“Si stavano allenando! Non si saranno nemmeno accorti dell’agitazione del castello.”
Ian alzò gli occhi al cielo.
“Non si accorgerebbero nemmeno del crollo del castello! Quando combattono sono in un altro mondo!” bofonchiò.
“Chissà da chi avranno preso.” insinuò il conte un po’ scocciato facendo abbassare il capo a Ian.
Isabeau scosse la testa.
“Vado a chiamarli…” disse ma Guillaume la fermò.
“Vengo anche io: voglio controllare che quel testone del mio figlioccio stia continuando ad addestrarsi come si deve anche ora che è un cavaliere.”
Ian annuì.
Marc, figlio maggiore del conte cadetto, aveva svolto l’apprendistato da cavaliere in famiglia, ovvero ad Auxi-Le Chatêau in Piccardia, sotto lo sguardo attento di Guillaume de Ponthieu, suo padrino d’investitura, al quale il ragazzo aveva fatto da scudiero per anni; Michel, invece, in quanto figlio minore, aveva avuto una scelta più ampia e aveva seguito il barone Geoffrey Martewall in Inghilterra. La scelta del giovane aveva causato l’ira del capofamiglia Ponthieu ma Ian era riuscito a calmarlo e a ribadire che il barone inglese era un fedele alleato della corona francese. Era sembrato uno schema che si ripeteva ma, al ritorno dall’Angleterre, il giovane era ancor più legato alla sua patria per via della lontananza.
Comunque, Guillaume era deciso ad osservare i progressi di entrambi i nipoti.
 
***
 
I due cavalieri si squadrarono per un istante mentre riprendevano fiato dopo l’ultimo assalto.
Fu un istante poi il cavaliere di destra si lanciò contro l’altro che parò a stento il colpo a sorpresa ma riprese l’assetto con calma senza scomporsi. Nemmeno il primo mostrò sorpresa o fatica ma, silenziosamente, riprese a scambiar stoccate con l’avversario.
I due erano alti, sul metro e ottanta uno e l’altro sul metro e settantacinque, ed entrambi muscolosi e dalle spalle larghe. Con gli elmi e le armature era impossibile distinguere i tratti del viso ma erano necessari per allenarsi sul serio.
All’ennesimo colpo parato ma non restituito entrambi i contendenti si stufarono. Si allenavano quasi perennemente assieme da quando avevano ricevuto l’investitura e conoscevano alla perfezione l’uno le mosse dell’altro.
“Non c’è più gusto!” sbottò il più basso togliendosi l’elmo e abbassando il camaglio.
Marc rise all’espressione di disappunto sul volto del fratello mentre lo imitava.
“Non è colpa mia!” scherzò.
Michel fece un sorrisetto furbo.
“Se ti decidessi a migliorare, forse…” insinuò.
Marc lo fulminò con un’occhiataccia.
“Bada a quel che dici!” bofonchiò.
“Tuo fratello ha ragione!” si intromise una voce dal bordo della piccola arena.
I due giovani si votarono giusto in tempo per trovarsi davanti lo zio Guillaume affiancato dai loro genitori.
“Zio!” escalmò sorridente Michel raggiungendolo e poi si voltò ad abbracciare anche il padre.
“Sei mancato, qui.” gli sussurrò all’orecchio cercando di non farsi sentire dallo zio che non apprezzava le dimostrazioni pubbliche d’affetto.
Ian rise e rispose al figlio minore con un occhiolino.
Marc li raggiunse subito dopo e abbracciò e salutò lo zio con più calore rispetto al fratellino. Si era sinceramente legato a Guillaume durante il suo apprendistato e capiva perfettamente la fedeltà di suo padre.
Si staccò e raggiunse Jean che, però, lo tenne un istante a distanza mettendogli le mani sulle spalle.
“Cosa c’è?” chiese Marc sorpreso.
“Sei cresciuto ancora in queste due settimane!” bofonchiò Ian notando che ormai il figlio lo aveva eguagliato sia in altezza che in misura di spalle.
Il ragazzo rise.
“Ma non è vero! È già un po’ che ti ho raggiunto!” insinuò.
“Ma va’!” replicò Ian ridendo e stringendolo a sé in un abbraccio.
Da lontano, era impossibile distinguere il padre dal figlio.
I due si staccarono e si osservarono negli occhi: occhi dello stesso medesimo azzurro cielo. La tonalità esatta della casa dei Falchi.


*La locanda in questione, per chi non lo ricordasse, è quella in cui Daniel e Ian furono fatti prigionieri da Martewall nel secondo libro 'Il Falco e il Leone': possiamo capire perché Daniel voglia evitarla, no? ;P





Ed eccomi qui a implorare perdono... Già al quarto capitolo... -.-
Mi dispiace, mi dispiace davvero per questo ritardo ma ieri Internet non funzionava a causa di un temporale perciò non ho potuto aggiornare...
Mi scuso con tutti quanti, anche se ammetto che la motivazione che vi do per perdonarmi è davvero stupida e mi sento in colpa da morire!
Detto questo, attenti! Questo capitolo è uno di quelli che sembrano totalmente inutili ma non lo sono assolutamente! Tenete conto di ciò che succede perché più avanti servirà!
Inoltre, (lo so che detto da una in ritardo fa proprio ridere) posso finalmente permettermi di aggiornare una volta ogni dieci giorni!
Ho un nutrito gruppo di capitoli di vantaggio sulla pubblicazione e spero quindi di farcela...
Ah, mi scuso per i '...': temo ce ne siano troppi ma non saprei dove sostituirli e con cosa... Ancora scuse da parte mia!
A presto!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 5
*** Il ritorno del Cavaliere Del Tempo ***






5. Il ritorno del Cavaliere del Tempo

 
Ian sospirò guardando fuori dalle finestre del salone di Chatel-Argent.
Guardava i campi del feudo e ripensava alla frase detta da suo figlio Michel durante il pranzo quando, per scherzo, Marc gli aveva detto che non si ricordava nemmeno il suo nome: Molto divertente! Io mi chiamo Michel, mio padre si chiama Jean Marc e mia madre Isabeau, mio zio fa Guillaume di nome e, purtroppo, ho un fratello che fa nome Marc!
Suo padre si chiama Jean Marc…, pensò per l’ennesima volta Ian, triste.
Aveva fatto tutto ciò che era in suo potere per proteggere la sua famiglia ma ora si sentiva stranamente escluso.
Non si era mai accorto quanto pesasse la sua menzogna perché un tempo sua moglie sapeva tutto e per lui quella era la sua famiglia, poi era arrivato Marc e si era auto-convinto che gli avrebbe raccontato tutto una volta diventato adulto. Aveva fatto lo stesso ragionamento per Michel che sapeva stare per arrivare ma poi la lite con Guillaume e l’esilio venuto subito dopo gli avevano fatto capire quanto precario fosse il suo equilibrio.
I suoi figli erano cresciuti senza che lui avesse avuto il coraggio di dirglielo.
“Cosa turba il mio signore?” sussurrò con dolcezza la voce di una donna al suo orecchio.
Ian si lasciò scappare un sorriso mesto mentre Isabeau gli portava le braccia attorno il collo da dietro e gli si appoggiava alla spalla con il mento.
“Tante cose…” rispose piano stringendo le mani della moglie tra le sue.
“Magari posso aiutarti…” azzardò la donna a bassa voce, pronta a ritirarsi per non immischiarsi in cose in cui il marito non la voleva.
“Michel e Marc mi chiamano Jean.” esordì Ian senza preamboli ma senza avere il coraggio di voltarsi verso di lei.
Isabeau rimase il silenzio per un istante, sorpresa.
“Oh!” mormorò infine rabbuiandosi.
“Loro sono convinti che io sia qualcosa che in realtà non sono.” continuò Ian ora che poteva sfogarsi con qualcuno che l’avrebbe capito, “Mi vedono come un grande condottiero, nobile e invincibile, e invece non sono altro che un vagabondo cui è toccato in sorte di dover prendere il posto di un conte!”
“In sorte?!” lo interruppe Isabeau indignata, “Non mi pare che le cose siano andate proprio così!”
“Sarebbe potuto essere chiunque a prendere il posto di Jean de Ponthieu…” ribadì mesto Ian ma la donna si staccò violentemente da lui e lo costrinse a voltarsi e a guardarla negli occhi.
Chiunque” sibilò, “non si sarebbe offerto alla frusta per una popolana qualsiasi della quale non conosceva neanche il nome! Chiunque non avrebbe rischiato la vita più volte per salvarla, né avrebbe giurato fedeltà ad un uomo che non conosceva, se non di fama, per tenere al sicuro la propria famiglia! Non sono molti quelli che sarebbero stati pronti a combattere da soli contro molti nemici per salvare una donna promessa ad un altro e, se volessi, potrei continuare l’elenco all’infinito! Ian, tu hai fatto cose che molti non avrebbero mai fatto nemmeno per un proprio familiare!” concluse.
L’uomo la guardò e le accarezzò una guancia con il dorso delle dita, addolcito dalle parole della moglie e dal suo vero nome pronunciato nella sfuriata con nonchalance. Sua moglie era un Falco come lui e sapeva sempre come e cosa dire per farlo stare meglio.
“Che farei se non ci fossi tu?” chiese retoricamente con dolcezza ma le sue parole ebbero il potere di rattristare Isabeau.
“Saresti a casa tua, con la tua famiglia, libero di portare il tuo vero nome senza rischiare il patibolo! Ecco dove saresti…” mormorò la donna in un sospiro.
Ian scosse la testa.
“Non mi pento di aver fatto ciò che ho fatto, Isabeau. Nemmeno nei momenti peggiori l’ho mai fatto.” chiarì prima di girare di nuovo il viso verso la finestra, “Dico solo che a volte mi fa male pensare di avere dei segreti anche per i miei figli: non dovrebbe essere così.”
La donna attese in silenzio che il marito continuasse poi abbassò la testa e sospirò.
“Perché non dici loro nulla?” chiese arrivando al nocciolo della questione.
Ian non si voltò verso di lei, non ne aveva il coraggio, e non rispose.
Una mano morbida gli carezzò una guancia senza cercare di portarlo con sé, solo per consolarlo. Ian sapeva che, se non avesse parlato, Isabeau non avrebbe più chiesto nulla e lo avrebbe lasciato in pace pur soffrendo per la sua tristezza. La donna infatti abbassò la mano e si voltò per allontanarsi e lasciare solo il marito.
Ma Ian non voleva stare solo. La afferrò per un polso con delicatezza e la fermò.
Isabeau si voltò verso di lui.
“Aspetta…” mormorò Ian, “Non andartene…”
La donna sorrise e tornò indietro, gli si mise al fianco e lasciò che lui le cingesse le spalle con un braccio mentre si voltava di nuovo verso la finestra.
“A volte ho paura di non essere all’altezza delle loro aspettative.” sussurrò l’uomo all’improvviso, aveva un disperato bisogno di un consiglio, dell’appoggio della moglie, “Loro pensano che io sia nobile, addirittura un conte, e io sono un poveraccio saltato fuori dal futuro! Ammettilo, nemmeno tu hai creduto subito a tutta questa storia! Se non mi credessero, li perderei, capisci?”
La donna annuì al marito e si strinse sotto il suo braccio cingendogli la vita.
“Tu e loro siete tutto ciò che ho. Non posso permettermi di perdervi.” mormorò Ian con un dolore immenso nella voce mentre voltava la testa per nascondere il volto nella chioma di Isabeau.
“Oh, Ian…” fu tutto ciò che lei riuscì a dire e, per un po’, scese il silenzio.
Rimasero immobili.
La moglie e il marito alla finestra di casa, la Dama e il viandante, la contessa e il conte. Nessuna contraddizione, solo parti da recitare agli occhi del mondo intero e un amore da difendere con le unghie e con i denti.
“Io credo che ti capirebbero.” sussurrò Isabeau all’improvviso, “Ti vogliono bene e sono i tuoi figli. Lo abbiamo accettato io e Guillaume che non siamo nemmeno tuoi parenti! Cosa ti aveva detto il mio tutore a Bearne?”
Ian sorrise ammirando al memoria della moglie riguardo a ciò che lui le raccontava.
Le azioni di un uomo non valgono forse più delle sue origini?” citò.
La moglie annuì.
“Esatto: ha ragione, Ian, e Marc e Michel lo capirebbero. Se mai deciderai di dirglielo…” concluse con dolcezza.
Ian sospirò.
“Tu cosa faresti?” chiese.
Isabeau rimase zitta per un lungo momento, a pensare.
“Non lo so… Ma se ti fa così soffrire, non può essere una buona cosa continuare a mantenere il segreto.” concluse guardando anche lei fuori dalla finestra, “Hai provato a parlarne con Guillaume? Forse lui saprebbe consigliarti.”
Isabeau attese una risposta dal marito ma questi rimase zitto.
Guillaume era sempre stato abile a consigliarlo nel modo migliore per proteggere la sua famiglia, ma avrebbe capito? Avrebbe compreso il suo dolore? Avrebbe accettato di far entrare Marc e Michel nel gioco di maschere?
La cosa che più terrorizzava Ian era l’idea di costringere i suoi figli a prendere parte all’enorme intrigo creato da Ponthieu e re Filippo Augusto che, tra l’altro, era ormai morto e non poteva quindi né proteggerli, né garantire per le sue parole.
Ian aprì bocca per dire qualcosa ma un discreto bussare alla porta lo distrasse. Un piccolo paggio dall’aria intimorita entrò nella sala con un inchino. Ian scosse la testa con un sorriso magnanimo, doveva appena aver preso servizio quindi doveva essere terrorizzato dall’idea di servire un conte.
“Mio signore, un cavaliere straniero si è presentato al portone con due dame e chiede udienza…”
Ian aggrottò le sopracciglia.
“Ha detto chi è?” chiese.
“Sì e no, mio signore, dice di essere il vostro James Bond*…”
Ian sgranò gli occhi poi scoppiò a ridere.
“Che testone!” esclamò sorprendendo il paggio, “Fatelo entrare: è Monsieur Daniel!”
Isabeau sorrise.
“Credevo non si fosse presentato a questo appuntamento quando siete tornati soli.” commentò.
“Lo credevo anch’io.” ammise Ian, “Deve aver fatto tardi…”
“Signore,” sussurrò discretamente il paggio, “e le dame che porta con sé? Come devo annunciarle a vostro fratello?”
Ian rimase zitto.
Chi diavolo si è portato dietro?, si chiese sorpreso.
“Credo che una sia la moglie, non so dell’altra.” ammise, “Dite a mio fratello di raggiungerci nel cortile: andrò incontro personalmente al cavaliere e mi accerterò delle identità delle dame al suo seguito.”
Il paggio si inchinò e si voltò per andare a riferire al fratello maggiore del conte l’arrivo dei nuovi ospiti.
“Non credevo che Madame Jodie sarebbe tornata.” sussurrò Isabeau leggermente preoccupata, “Credevo che sarebbe rimasta a casa a curare la salute della figlia.”
Ian annuì.
“Lo pensavo anch’io.” considerò.
“Forse è proprio la figlia la seconda dama?” azzardò Dama de Montmayeur aggiustandosi la gonna e seguendo il marito fuori dalla sala.
“C’è solo un modo per saperlo…” le rispose Ian prendendola per mano e avviandosi con lei giù per le scale.
 
***
 
Daniel abbassò con un senso di liberazione il cappuccio dal viso e assaporò il calore tiepido dei raggi di sole sul viso.
“Siamo arrivati!” disse poi voltandosi verso Alexandra, ancora in groppa al cavallo e con il cappuccio del lungo mantello che le copriva il viso.
Jodie scese di sella con maestria e sorrise al marito mentre gli si accostava.
“Questo castello è sempre più bello ogni volta che lo vedo!” commentò.
Daniel annuì.
Attorno a lui stava il fermento tipico della prima cinta muraria, quella più interna, dove i servi correvano da una parte all’altra per garantire al loro signore tutte le comodità possibili e dove i soldati si allenavano. L’uomo adocchiò subito una piccola squadra di soldati allenarsi con l’arco poco più avanti mentre, nella piccola arena esterna al maniero, decine di coppie di armigeri si battevano per allenamento con le spade o con i bastoni. Sulle mura, le sentinella osservavano il via vai fuori con attenzione ma senza la rigidità dei momenti di pericolo, salutavano chi li osservava da fuori e si scambiavano commenti.
Molti uomini avevano notato i tre viaggiatori fatti prontamente entrare dopo l’ordine esplicito del signore del castello.
“Una bella fortuna conoscere il padrone di casa!” scherzò Daniel poi il suo sguardo cadde su Alexandra che girava la testa a destra e a sinistra seguendo ora un suono, ora l’altro.
“Caspita che fermento!” esclamò dopo essersi confusa per l’ennesima volta.
“Dovrai abituartici, e pensa che né siamo in guerra né aspettiamo il re!” rise Jodie ma la ragazza si era già sporta sul padre dalla sella.
“Descrivimelo!” implorò e Daniel le lesse negli occhi l’eccitazione e la sorpresa che una volta erano stati i suoi tratti dominanti.
Sorrise e iniziò a tracciarle a parole la forma del torrione centrale, il colore argenteo delle pietre che dava il nome all’intera struttura, l’aspetto degli stendardi del Falco che garrivano al vento sulle punte delle torri e pendenti da alcune finestre, le armature scintillanti e l’erba verde, l’agitazione dei servi e i loro abiti… Continuò facendosi prendere la mano perché, ormai, quella era anche un po’ casa sua.
Alexandra rise, interrompendolo, dopo alcuni minuti.
“Sei proprio un appassionato, eh?” scherzò.
“Lo è sempre stato!” commentò Jodie alzando gli occhi al cielo ma puntandoli poi sulle due figure in arrivo.
Sorrise.
“Jean! Isabeau!” urlòsalutandoli.
La dama si staccò leggermente dal marito per andare incontro alla sua cara amica.
“Jodie!” esclamò stringendola con calore.
Daniel si inchinò alla dama con maestria strappandole un sorriso.
“Monsieur, siete diventato un provetto uomo di corte!” scherzò Isabeau prima che Jean abbracciasse Daniel.
“Ti avevo detto chiaramente che…” iniziò poi l’uomo staccandosi dal fratello adottivo con un sopracciglio alzato in segno di disapprovazione ma Daniel lo fermò alzando le mani.
“Lo so!” esclamò troncando ogni ramanzina.
Ian scosse la testa e Daniel prese un profondo respiro, pronto ad arrivare al nocciolo della questione, ma altri tre uomini si aggiunsero al gruppo facendo ricominciare i saluti.
Come sempre, Daniel si sentì un po’ a disagio davanti al conte Guillaume de Ponthieu che, però, l’aveva perdonato per l’equivoco della stregoneria.
“Mio signore…” salutò l’uomo cordialmente inchinandosi al conte che fece un cenno con la mano.
“State tranquillo, Monsieur, piuttosto preoccupatevi di mio fratello: lo avete fatto stare in ansia.” rispose affabile l’uomo ma Daniel vide chiaramente che aveva già spostato la sua attenzione su l’unica persona che ancora non si era fatta riconoscere. Al gruppo si erano aggiunti anche Marc e Michel, avvisati dallo zio, che salutarono il gruppo con calore.
Terminati i convenevoli, Daniel si sentiva ancora più in ansia di prima: parlare dell’accaduto davanti a Ian e Isabeau era un conto, ma davanti a tutti era un altro paio di maniche! Come avrebbe preso Ponthieu la sua richiesta di ospitalità per sé e per la figlia che, di fatto, non aveva mai visto?
“Suvvia, vi abbiamo tenuto fuori così a lungo!” esclamò Guillaume, “Chi è mai questa dama al vostro seguito che ancora non è scesa di sella né ha mostrato il proprio viso?”
Daniel si voltò piano verso Alexandra e perse il sorriso.
Via il dente, via il dolore., pensò cercando di convincersi.
“Monsieur,” mormorò, “Permettetemi di presentarvi mia figlia, Alexandra…”
La ragazza, rimasta rigida e in silenzio dall’arrivo del conte e dei due giovani Ponthieu, alzò le spalle sentendosi chiamare in causa e, con lentezza, portò le mani ai bordi laterali del cappuccio per abbassarlo e adagiarlo con calma sulle spalle.
La sua bellezza, affatto scalfita dall’incidente, fece rimanere in silenzio il giovane Marc che la fissò sconvolto.
Pare un Angelo…, fu tutto ciò che il ragazzo riuscì a pensare.
Ma, ben presto, il fatto che la giovane non abbassasse lo sguardo a guardare nessuno insospettì i presenti.
Daniel si fece coraggio e prese con delicatezza la figlia per la vita e la aiutò a scendere da cavallo. Durante tutta l’operazione gli occhi di Alexandra rimasero puntati dritti davanti a lei.
“Oh…” sussurrò Isabeau quando comprese che la giovane era cieca.
Marc e Michel si scambiarono un’occhiata triste mentre Guillaume perse il sorriso e abbassò un poco le spalle. Ian scambiò uno sguardo carico di domande con Daniel che gli rispose con uno carico di tristezza. Jodie sorrise a Isabeau e si affiancò alla figlia prendendola per mano per guidarla ma Alexandra non ebbe bisogno di aiuto.
Fece un piccolo passo in avanti e fece una perfetta riverenza a Ian e Guillaume.
“C’est un honneur de vous rencontrer, enfin!**” salutò con un perfetto accento.
Ian si inchinò rispondendo al saluto.
“Pour moi aussi, mademoiselle.***”
Alexandra però piegò la testa di lato alla risposta, evidentemente confusa.
“Ha detto che lo è anche per lui e ti ha chiamato signorina.” le sussurrò Jodie all’orecchio in inglese.
La ragazza sorrise arrossendo un pochino poi si voltò sentendo avvicinarsi Guillaume.
“Perdonate i miei modi di prima, mademoiselle.” si scusò l’uomo in inglese, “Non immaginavo la situazione.”
Alexandra spalancò la bocca nel sentire il conte francese parlare la sua lingua con disinvoltura poi si riprese e accennò un inchino con il capo.
“Non potevate certo saperlo, anzi: voi perdonate me per la mia scortesia nel non essermi presentata ma immaginavo non avreste comunque capito chi fossi.” replicò sperando di usare le parole giuste.
Daniel sorrise nel vedere la figlia tanto immedesimata nella parte.
“Non avete certo preso da vostro padre nel parlare.” commentò Guillaume, “Lui ha rischiato di finire nei guai almeno un paio di volte per la sua spigliatezza nell’esprimersi…”
L’uomo arrossì immediatamente mentre la figlia sorrideva.
“Ah sì?” chiese, “Di questo non mi è stata fatta parola.”
“E di altro?” chiese il conte mascherando il suo esame sotto un falso tono da conversazione.
Davvero è una volpe astuta!, pensò Alexandra accorgendosi tardi della trappola.
“Mi è stato raccontato ciò che era giusto sapessi.” replicò comunque sorridente.
Guillaume annuì più per evitare il discorso davanti a Marc e Michel che per vera rassicurazione.
“Allora spero entrerete con noi e sarete nostri ospiti.” invitò con gentilezza.

 
 

*Nel terzo libro di Hyperversum (Il Cavaliere del Tempo), Daniel finge di essere la spia di Ian che, perciò, lo chiama James Bond come il celebre agente segreto.
**È un onore incontrarvi, infine…
***Anche per me, signorina…
****Come rifiutare?




Lo so!
Vi fermo, lo so che è un capitolo orrendo e che fa più schifo dei precedenti (che pure in quanto a schifume non erano messi male)!
Non lo so, non riuscivo a scrivere questo capitolo, mi è stato ostico sin dall'inizio...
Detto questo, mi scuso per il ritardo ma ieri una serie di problemi di corrente e black-out mi hanno impedito la pubblicazione di questo capitolo...
Tuttavia lo posto ora con mille scuse...
Comunque: Ian inizia a soffrire per il proprio segreto, Marc ha tirato una facciata contro L'Amour, Alex inizia a lasciarsi andare e Michel ridacchia alle spalle del fratello (non che tutte queste cose sorprendessero, a dire il vero)...
Ma nel prossimo capitolo? Non so, cosa pensate accadrà?
Il Titolo sarà: La storia di Alexandra
Parliamo un po' di lei, vi va?
Chiedo scusa, soprattutto per il Guillaume de Ponthieu molto poco Guillaume, non sono riuscita a fare di meglio e chiedo venia!
Che dire, abbiate pietà e a presto!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 6
*** La storia di Alexandra ***





6. La storia di Alexandra

 
Daniel bevve con lentezza il vino che gli era stato servito e fissava il tavolo di legno come se avesse potuto trovarvi le parole giuste per spiegarsi.
Nel salone di Chatel-Argent erano in otto: Guillaume de Ponthieu, Ian e Isabeau con i loro figli Marc e Michel e lui, Jodie e Alexandra.
La ragazza era stata aiutata dal giovane Marc a sedersi su uno scranno e conversava con calma con i due giovani Ponthieu chiedendo di tutto e di più.
Michel sembrava decisamente divertito dalla curiosità della giovane mentre Marc era solerte nel risponderle.
Ian aspettava con calma che l’amico fosse pronto a parlare e lanciava occhiate alla giovane Alexandra o alla moglie Isabeau.
La donna prese in mano la situazione e si alzò in piedi attirando su di sé l’attenzione.
“Con permesso, io e madame Jodie ci assenteremmo. Marc, Michel accompagnate mademoiselle Alexandra a visitare il castello così che ci si possa orientare.” ordinò ai figli seppur con voce dolce.
I due ragazzi capirono che non c’era da discutere e che i tre uomini dovevano chiaramente parlare di cose personali.
“Come desideri, madre.” bofonchiò Michel alzandosi.
Marc non fece una piega ma annuì, si alzò e porse il braccio alla giovane.
Alexandra però non si mosse e ammutolì prendendo un’espressione seria.
“Monsieur, io non vedo.” ricordò gentilmente al ragazzo accennando al fatto che, se non si faceva sentire, non poteva certo sapere dov’era né, tanto meno, trovare la mano che le tendeva.
Il ragazzo arrossì un secondo per l’imbarazzo poi le prese gentilmente la mano e la guidò al suo avambraccio avendo cura di farle sfiorare l’angolo del tavolo in modo da non rischiare di sbattervi alzandosi.
Alexandra sorrise e annuì piano mentre si rialzava con grazia.
“Merci…” sussurrò, “Vogliate perdonarmi.” concluse poi inchinandosi al padre e ai due conti prima di seguire il suo accompagnatore fuori dalla sala.
Come la porta si richiuse escludendo i tre giovani e le due dame, Daniel si lasciò andare contro lo scranno con un’espressione desolata.
“Vuoi spiegarmi?” chiese Ian dolcemente mentre il conte Guillaume si spostava davanti all’americano con un’espressione seria.
Daniel rise amaramente.
“Non c’è molto da spiegare: Alexandra è cieca.” rispose con dolore ma Ian non si fece scoraggiare.
“Non era cieca l’ultima volta che l’ho vista!” replicò duro prima di riprendere un tono gentile, “Se non ne vuoi parlare, è un altro discorso…”
Daniel rimase zitto per un attimo poi sospirò e iniziò a far girare la coppa, ancora sul tavolo, tra le mani.
“Alexandra non è cieca di nascita: vedeva benissimo fino a due anni fa…” sussurrò.
 
***
 
Dama Isabeau camminò in silenzio ancora per un po’, fino a raggiungere i giardini del palazzo dove lei e Jodie avrebbero potuto parlare in tranquillità.
L’altra donna camminava altrettanto silenziosa ma evidentemente smaniosa di liberarsi di un peso.
Le due raggiunsero una panchina di pietra argentea e Isabeau si sedette per prima facendo cenno all’altra di sedersi accanto a lei e, quando quella l’ebbe fatto, la abbracciò con complicità.
“Ti ho già vista piangere.” le sussurrò sentendola tirare su per ricacciare le lacrime, “Ora pensa solo a liberarti e raccontami cosa ti sta facendo soffrire.”
Jodie annuì.
“Direi che è una storia lunga…” sussurrò l’americana con dolore mentre iniziava a piangere.
 
***
 
“E, per finire, questa è l’arena.” dichiarò Marc spostando la mano di Alexandra dal suo braccio alla staccionata dello spiazzo per permetterle di farsi un’idea degli spazi.
La ragazza annuì ma Michel intervenne.
“Se non sapessi che vi conoscete da pochi minuti, potrei dire che mio fratello ha perso la testa per voi…” insinuò rivolto alla ragazza, “Visto che è così preso dal farvi da Cicerone che non si rende conto che questa sembra l’unica zona che vi abbia interessato. È forse perché non ne potete più di lui?”
Marc fulminò il fratellino ma Alexandra sorrise.
“Ma cosa dite, signor conte!” esclamò, “La vostra compagnia è molto piacevole!”
Michel sgranò gli occhi e il suo stupore fu palese perfino ad Alexandra dal tono di voce.
“Allora cosa vi attira di questo luogo?” chiese, curioso.
“Un gentiluomo non dovrebbe impicciarsi degli affari di una donna.” commentò Marc con l’intenzione di pungolare il fratello.
Alexandra non sentì la risposta di Michel. Con tristezza, si rese conto di non sapere affatto come fossero d’aspetto i suoi due nuovi amici.
Marc si accorse del suo disagio e intervenne.
“Mademoiselle, abbiamo detto qualcosa che vi ha turbata?” chiese con premura.
“Oh, no! Signor conte, i vostri modi e quelli di vostro fratello sono senz’altro impeccabili! Solo i miei occhi non sono all’altezza della situazione.” replicò la ragazza, “Vorrei poter conoscere il vostro aspetto come voi il mio…”
Marc e Michel si scambiarono uno sguardo all’insaputa della giovane.
“Mademoiselle, se ci fosse un modo per accontentarvi, saremmo felici di…” iniziò Marc ma Alexandra lo interruppe.
“Se mi permetteste di toccarvi il viso, potrei intuire i vostri tratti.” spiegò sentendosi sfacciata solo per quelle parole in un’epoca in cui ogni contatto fisico era regolato.
“Solo questo?” chiese Michel scioccato poi scoppiò a ridere, “Mademoiselle, avreste potuto chiederlo prima! Non avreste dovuto stare in compagnia di due sconosciuti per tutto questo tempo!”
Alexandra sorrise.
“Vi causerebbe dispiacere se fossi così ardita da chiedere ad entrambi il favore di toccare i vostri volti?” si arrischiò a chiedere incoraggiata.
“Certo che no!” fu la decisa risposta di Michel.
“Mademoiselle, mio fratello è senza dubbio più ardito di voi e causa certamente più disagio!” commentò sarcastico Marc facendola sorridere.
“Disagio a chi?” chiese Michel indispettito.
“A me!” replicò il fratello.
Prima che i due iniziassero a litigare, anche per scherzo, Alexandra si avvicinò a Marc.
Il ragazzo si paralizzò e rimase fermo mentre lei portava le mani sul suo petto.
La ragazza aggrottò la fronte.
“Oh!” esclamò risalendo fino alle spalle, “Siete molto alto!” commentò.
“Caratteristica di famiglia.” le spiegò Marc cercando di nasconderle il suo imbarazzo.
Michel gli fece un occhiolino silenzioso e pieno di malizia.
“Cosa vi ha mostrato vostro fratello?” chiese Alexandra innocentemente.
Marc e Michel rimasero sbalorditi e la ragazza lo percepì mentre saliva con le mani fino al mento del maggiore.
“Come…?” chiese Marc incapace di articolare una frase compiuta.
La ragazza sorrise.
“Il vostro cuore ha iniziato a battere più forte e il vostro viso si è scaldato.” spiegò, “Tipici segni di imbarazzo: siete arrossito, forse?”
“No!” rispose Marc troppo velocemente e lei sorrise.
Il giovane sospirò.
“Lasciate perdere mio fratello,” disse, “la sua qualità maggiore è la malizia.”
Michel scoppiò a ridere.
“E sono ben felice che sia così!” replicò piccato.
Alexandra non rispose, il suo sorriso scomparve sostituito da un’espressione assorta.
Le sue dita scivolavano delicate sul viso di Marc, ne esploravano ogni centimetro memorizzandolo e riunendo il tutto con concentrazione mentre i suoi occhi inutili si incatenavano a quelli azzurri del ragazzo come se, per un istante, potessero ancora vedere.
Il giovane si perse in quello sguardo chiaro fino a che la ragazza non lo riportò alla realtà.
“Di che colore sono i vostri occhi?” chiese senza smettere di esaminarlo.
“Come?” chiese Marc sorpreso e preso alla sprovvista.
La risatina soffocata di Michel alle sue spalle, senz’altro udita anche da Alexandra, gli disse che aveva compiuto un passo falso di cui avrebbe dovuto rispondere.
“Posso vedere la forma del vostro viso con le mani ma non i colori: che tonalità hanno i vostri occhi?”
“Azzurri come quelli di mio padre.” sussurrò il ragazzo.
Alexandra sorrise.
“Un cielo terso d’estate riflesso in un fiume limpido.” sussurrò, “Un colore bellissimo…”
“Scusate?” chiese Michel intervenendo per la prima volta.
“Conobbi vostro padre tempo fa e questa era la definizione che diedi per il colore delle sue iridi, è una tonalità particolare: gli altri azzurri non sono né così limpidi né così luminosi.” spiegò la giovane prima di riprendere, “E i vostri capelli?”
“Neri come la pece di notte.” rispose Marc cercando di essere più preciso poi aggiunse in un sospiro: “Identici a quelli di mio padre…”
Alexandra fece una strana espressione ma riprese il controllo di sé: aveva scoperto qualcosa di lui senza volerlo.
Annuì e si spostò verso Michel individuandolo a colpo sicuro.
“Mi avete trovato, mademoiselle!” scherzò il giovane.
“Respirate pesantemente, signor conte, a differenza di vostro fratello che pare un fantasma…” replicò sorridente la ragazza e alzò le mani verso il viso del giovane ma lui la fermò afferrandole i polsi.
“Sono identico a mio fratello, fatta eccezione per gli occhi.” disse cercando di capire se fosse possibile contraddire la giovane.
Lei si fermò ma storse la testa verso sinistra.
“Spesso a chi vede scappano differenze palesi a noi ciechi.” commentò.
“Il respiro, per esempio.” azzardò Marc e la ragazza annuì.
Michel sorrise.
“Allora vi permetterò di toccare anche me, ma ad un patto!” dichiarò ignorando l’occhiataccia del fratello maggiore, “Smettetela sin da ora di chiamarci ‘Signori conti’! I conti sono nostro padre e nostro zio e io sto bene a fare il ragazzo ancora per un po’, senza intrighi e robe varie!”
Alexandra arrossì.
“Sì, ma voi siete comunque un conte mentre io…” tentò ma Marc la interruppe.
“Voi siete la figlia di Sir Daniel Freeland, cavaliere delle terre libere e salvatore del defunto re Filippo Augusto.” disse serio, “Vostro padre ha dato prova del suo coraggio già più e più volte!”
“Come il vostro…” replicò Alexandra grata ma poi sorrise, “E sia! Farò questo sacrificio pur di vedere il bellissimo cavaliere Michel di cui si parla tanto!” scherzò.
Marc e Michel la seguirono a ruota poi la ragazza esplorò anche il viso di Michel e rimase sorpresa.
“Siete molto simili, lo ammetto.” dichiarò, “Ma non del tutto: l’altezza è praticamente la stessa ma la voce è leggermente diversa, la vostra mi ricorda più la melodia insita in quella di vostra madre mentre quella di vostro fratello è leggermente più roca… Però persino per me è difficile notare la differenza!”
“Sono colpito!” ammise Michel e Marc annuì.
“Gli occhi?” chiese Alexandra.
“Del color marrone di quelli dei cerbiatti.” rispose Michel deciso, “Sono l’eredità di mia madre.”
La ragazza sorrise poi sospirò.
“Vi devo qualcosa…” iniziò ma Marc la fermò.
“Mademoiselle, non è stato certo un peso permettervi di…” iniziò ma Alexandra lo fermò con un’occhiata obliata.
“Vorreste farmi credere di non essere curiosi del perché io abbia perso la vista?” chiese tagliente ma Marc le tenne testa.
“No, se questo non è vostro desiderio!” replicò altrettanto duro.
Alexandra sgranò gli occhi, sorpresa, poi si voltò verso Michel ma il ragazzo era pienamente concorde con il fratello.
La giovane fece un sorriso malizioso.
“Sono al cospetto di due veri cavalieri.” commentò, “Altro merito che mi spinge a pensare che dobbiate sapere chi è la disgraziata con cui siete costretti a passare il vostro tempo…”
Marc sospirò e Michel parlò: si completavano a vicenda.
“Vi abbiamo già detto e ripetuto che non è affatto un peso la vostra compagnia, mademoiselle Alexandra!”
La ragazza sorrise ma c’era un fondo di tristezza sia nel suo sorriso che nei suoi occhi spenti.
Alexandra si avvicinò alla staccionata e vi si appoggiò contro.
“Due anni fa uscii di casa e mi diressi fuori dal mio villaggio, nel bosco.” disse correggendo i veri dettagli come concordato, non a una festa quasi in periferia ma in un boschetto, “Verso le nove, aveva appena iniziato a fare buio, mi avviai per tornare a casa,” sorrise amaramente -non proprio alle nove ma verso mezzanotte-, “ero una ragazza giudiziosa, sapete? Volevo fare due passi così mi avviai, casa mia non distava più di dieci minuti a piedi…”
Marc e Michel la affiancarono, uno da un lato uno dall’altro, contro la staccionata e le strapparono un sorriso prima che riprendesse con amarezza.
“Non ricordo bene, la memoria mi tradisce riguardo a quei momenti ma sono certa che non ci fosse molta luce, comunque camminavo rasente ai muri però non mi aiutò. Dal buio sbucò una carrozza con i cavalli lanciati a un galoppo furioso…” Alexandra si interruppe ricordando l’auto grigia che l’aveva investita, “Mi travolse in pieno. So solo che faceva malissimo e mi pareva di aver tutte le ossa rotte poi il buio mi inghiottì e da allora in poi non ricordo nulla di ciò che accadde.”
“Non sapete di chi fosse la carrozza?” chiese Marc con dolcezza nascondendo l’indignazione.
Alexandra scosse la testa.
“Non ricordo nemmeno come fosse fatta, ve l’ho detto: era buio. L’unica cosa che so è che mi risvegliai in un letto con mia madre e mio padre al mio capezzale che piangevano di gioia per il miracolo che fossi ancora viva. Ma io non li vedevo più.” concluse con tristezza, “Mio padre mi disse che mi aveva ritrovato un uomo per caso e che aveva cercato aiuto: chiunque mi abbia travolta, non si fermò ad accertarsi delle mie condizioni ed io rimasi lì in strada a perdere sangue; i medici dissero che ero stato lasciata a terra più o meno per mezzora e che ero stata curata appena in tempo: un minuto di più e sarei potuta morire dissanguata.”
Michel si staccò con violenza dal legno, indignato.
“Non si può essere così vili da non soccorrere una ragazza!” esclamò ma fu fermato da Marc con un’occhiataccia.
“Mi spiace infinitamente.” sussurrò il maggiore cercando di rimediare al comportamento del fratello.
“E cosa me ne faccio del dispiacere degli altri?” chiese Alexandra mantenendo comunque la voce dolce poi sospirò e riprese, “Dall’incidente le cose sono peggiorate…”
 
***
 
Jodie prese un profondo respiro e riprese mentre Isabeau la guardava con tristezza.
“Lasciai il lavoro come medico per stare con Alexandra e Daniel rimase da solo a sostenere la famiglia; lui diceva sempre che non gli importava, che andava bene così e che bastava che nostra figlia mi avesse sempre vicina ma io non gli credevo. Era sempre stanco e pallido, lavorava come un pazzo per le cure speciali per lei e non si prendeva mai un giorno di riposo se non per accompagnarci a fare i controlli.” continuò a raccontare singhiozzando di tanto in tanto, “Siamo andati da ogni medico o guaritore possibile ma tutti ci dicevano che non si poteva far nulla. Poi, un giorno, un uomo ci ha proposto una cura difficile e costosa ma che forse le avrebbe ridato la vista…”
Isabeau scosse la testa.
“Vi ha raggirati?” chiese con serietà.
Jodie scosse la testa.
“Ci aveva detto che la cura poteva non funzionare: si trattava di scambiare il pezzo danneggiato degli occhi di Alexandra con dei pezzi funzionanti mi capisci?” chiese l’americana.
La donna Medioevale fece cenno di no ma la incitò a continuare con gli occhi.
“Qualche giorno fa abbiamo provato la cura, ci avevamo investito quasi tutti i nostri risparmi, però non ha dato i risultati sperati...” ammise l’altra donna riprendendo a piangere.
 
***
 
Daniel sospirò prendendosi la testa tra le mani dopo aver raccontate l’incidente e il disastro della tentata cura a Ian e Guillaume.
“Alexandra non ha retto il colpo.” si costrinse ad ammettere, “O forse non l’ho retto io, non lo so. So solo che, mentre tornavamo a casa, io e lei abbiamo litigato: Alexandra ha iniziato a dire che voleva andarsene, che era colpa sua se io lavoravo tanto e Jodie aveva lasciato il lavoro, che era un peso per noi però…”
Daniel si interruppe incapace di pronunciare altro ma Ian aveva capito.
“Però tu non avevi il coraggio di lasciarla andare.” sussurrò piano.
Daniel annuì.
“Non le ero vicino quando ci fu l’incidente! Se ci fossi stato, forse sarebbe andata diversamente!” esclamò con angoscia.
“Non dite così!” replicò duro Ponthieu, “Non potete darvi colpe a questo modo!”
“Ha ragione.” si intromise Ian più gentilmente, “Non puoi pensare che sia colpa tua solo perché non eri lì!”
Daniel non rispose ma non pareva convinto distolse lo sguardo con tristezza ma Ian vide chiaramente che aveva gli occhi umidi.
Poi, improvvisamente, l’americano iniziò a ridere piano.
Non un suono allegro, ma cupo e disperato.
Uno sberleffo.
“Sai cosa mi ha detto mentre litigavamo?” chiese a bruciapelo a Ian poi si ripose da solo senza lasciarlo intervenire, “Che non c’ero io lì e che quindi non potevo capire il suo odio.”
Ian rimase gelato sul posto da quelle parole.
“Come te.” precisò Daniel ma non per rigirare il coltello nella piaga.
“Perché l’hai portata qui?” gli chiese Ian dopo un lungo silenzio, non con astio ma con sincero stupore e un piccolo dubbio sulla risposta a quella domanda.
Daniel si voltò a guardarlo.
“Il suo odio, una volta, era il tuo.” sussurrò, “Ha ragione: non posso capirla; ma tu sì! Tu ci sei passato e ne sei uscito senza cedere alla vendetta.”
“Lei, invece?” chiese Ian preoccupato.
Daniel scosse la testa.
“Lei no. È furiosa, delusa, desiderosa di vendetta: non prova nemmeno a rifarsi una vita, non vuole rifarsela! Almeno non finché non avrà trovato e si sarà vendicata di chi le ha tolto la vista. E io ho paura di questo.” ammise infine.
Ian scambiò un’occhiata con Guillaume: una supplica.
Guillaume annuì tetro, capiva la ragazza.
È un bene, pensò Ian, mi potrebbe aiutare a farle capire che sta sbagliando.
Stava per rispondere a Daniel quando lui lo interruppe mormorando le parole che si teneva dentro dall’inizio di quel dialogo.
“È stato così improvviso.” mormorò, “Non ero preparato a una cosa simile.”
Ian gli mise una mano sulla spalla in gesto di conforto.
“Restate quanto volete.” gli disse, “Proverò a parlare con Alexandra e chissà che un po’ di lontananza da casa non la aiuti a farsi una ragione di ciò che le è accaduto. Però, Daniel: lei ha diritto alla verità.”
Daniel annuì.
“Verità, non vendetta.” precisò.
Ian annuì.
Guillaume bevve un po’ di vino a dichiarare chiusa la conversazione e i tre uomini si alzarono dal tavolo con facce cupe.




Lo so, lo so, finisce così ed è la cosa più orribile di questo mondo.
Ho voluto provare a saltare da una scena all'altra, lasciando intendere che tutti sanno di Alex.
Adesso, parlando seriamente: mi sono messa la sveglia sul cellulare alle ore 15:30 ogni dieci giorni, così sono sicura di aggiornare (a meno di catastrofi naturali ---> vedi famiglia ;)... ) con regolarità!
Allora, parliamo un secondo del prossimo capitolo?
Il titolo sarà: Consapevolezze
Mettiamo Marc da solo con Mcihel e Alex sola con Ian: i due ragazzi saranno messi di fronte ai fatti, cosa succederà?
Scusate il capitolo pietoso!
A presto!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 7
*** Consapevolezze ***







7. Consapevolezze

 
Marc entrò nella stanza a testa bassa e si sedette sul letto.
Non perse nemmeno tempo a chiudere la porta e, infatti, neanche dieci secondi dopo, suo fratello Michel fece la sua entrata nella stanza.
Entrambi i ragazzi indossavano abiti semplici ma raffinati: due casacche azzurre e argento su dei semplici pantaloni della stessa trama.
Michel aveva un’espressione indifferente e si guardava attorno come se non fosse mai stato nella stanza del fratello.
Marc attese un po’ ma poi, sapendo cosa l’avrebbe atteso, sbuffò.
“Sei l’essere più crudele che conosca!” borbottò facendo ridere il fratellino minore.
“Non ho ancora fatto nulla!” replicò il ragazzo, furbo.
“Ma lo farai! E ti diverti a vedermi in difficoltà!”
Michel scrollò le spalle dandogli atto dell’affermazione.
“E abbastanza raro trovarti in imbarazzo: di solito sei così irreprensibile!” scherzò.
Marc alzò gli occhi al cielo.
“Se non hai niente da fare, io vorrei studiare…” disse accampando la prima scusa che gli passò per la testa.
Michel lo fulminò con un’occhiata.
“E cosa dovresti studiare, di grazia?” chiese.
“Latino…” replicò Marc pronto, ben sapendo che il fratello provava una decisa avversione nei confronti della lingua antica.
“Certo! E tu, a neanche mezz’ora dal pranzo, vorresti studiare latino!” replicò acido il minore, “Guarda che non me la dai a bere!”
Marc sospirò e chinò il capo sconsolato.
Michel sorrise della sua resa e gli si sedette a fianco.
“Ti ha fatto perdere la testa, eh?” chiese sorridendo.
Marc non chiese di chi si stesse parlando né si sprecò a negare: era inutile.
Annuì.
Michel rise.
“Neanche l’avevi sentita parlare che già sembravi rimbambito!” esclamò.
Marc gemette.
“Non rigirare il dito nella piaga: lo so che sono un idiota!”
“E perché?” chiese Michel sinceramente stupito, “Pensi che monsieur Daniel non ti permetterebbe di corteggiarla?”
Marc gli lanciò un’occhiataccia.
“Mademoiselle Alexandra viene da un'esperienza terribile! Non ho intenzione di forzarla né di darle fastidio mentre ancora cerca di riprendersi!”
“Non pensi di poterle piacere?” chiese ancora Michel diventando serio.
“Penso che non sia il momento! Le è successa una cosa terribile e sono certo che abbia bisogno di tempo. Non posso arrivare io dal nulla e iniziare a farle la corte!” borbottò Marc.
Michel si grattò il mento in modo pensoso.
“Io credo che comunque, prima o poi, qualcuno spunterà e inizierà a farle la corte, come dici tu, in ogni caso… Perché quel qualcuno non potresti essere tu? Un giorno quel momento arriverà: perché non potrebbe essere adesso?”
Marc non rispose ma si lasciò cadere all’indietro sul letto.
“Non sono dell’umore per parlarne… Inoltre, ti ricordo che erediteremo un feudo entrambi quindi dell’amore ne faremo ben poco!”
“Nostro padre non ci farebbe mai una cosa simile!” mormorò Michel ma l’argomento ‘matrimonio’ era sempre stato troppo spinoso per loro.
“Lasciamo stare.” gli tarpò le ali il fratello alzando una mano, “Tanto non c’è tempo: ci tocca prepararci per il pranzo.”
Michel sbuffò.
“Lo zio non accetterebbe che il suo ex-scudiero arrivasse tardi?” borbottò ma, in realtà, l’idea di alterare Guillaume non allettava nemmeno lui.
Marc lo fulminò con un’occhiataccia.
“Fila!” gli ordinò rialzandosi di scattò e indicando perentorio la porta.
Michel rise ma obbedì.
“Io lo strozzo, prima o poi…” borbottò Marc una volta rimasto solo.
Si alzò dal letto con un sospiro e raggiunse la panca accanto al camino sulla quale erano stati disposti altri abiti per sostituire quelli dell’allenamento.
Iniziò a svestirsi lentamente e altrettanto piano indossò gli altri abiti.
Pensava.
Sua madre e suo padre erano la dimostrazione dell’esistenza dell’Amore ma né a lui né a suo fratello erano mai stati raccontati i dettagli che precedevano il matrimonio dei genitori.
Perché?Perché a loro non erano state raccontate le cose che invece i menestrelli erano soliti cantare a tutti alle fiere e alle giostre, storie che loro non avevano mai avuto occasione di udire?Cosa c’era di terribile nell’incontro di Jean Marc de Ponthieu e Isabeau de Montmayeur? Quale segreto?
In quel momento come non mai, il ragazzo si chiese perché suo padre lo tenesse all’oscuro di tutto: non poteva sapere come i suoi genitori si erano conosciuti e conquistati a vicenda?
Marc sospirò.
Pareva proprio di no.
 
***
 
Alexandra ridacchiò.
Michel era molto abile a parlare e mettere in imbarazzo il fratello e la cosa la faceva sorridere. Marc, invece, era decisamente più serio e responsabile e la ragazza non era riuscita a fare a meno di continuare a chiedersi perché.
Ripensando al tempo passato insieme ricordava bene la tristezza di Marc per la sua somiglianza fisica con il padre.
La ragazza indirizzò i suoi sensi a percepire Marc.
Cosa ti fa soffrire?, chiese al ragazzo in un ipotetico colloquio con lui ma poi la voce del padrone di casa la distrasse.
“Alexandra, spero tu sappia che qui sei la benvenuta…” le disse cortese Ian.
La ragazza sorrise.
“Vi ringrazio della premura, monsieur, spero di non darvi disturbo…”
Ian fece un cenno con la mano e sbuffò.
“Sciocchezze! Figurarsi se in un castello grande come questo non c’è spazio per una damigella!” bofonchiò.
Alexandra rise. La conversazione proseguì saltellando di argomento in argomento ma l’attenzione della giovane era sempre per Marc e Ian: quale problema si celava tra loro?
Avrebbe tanto voluto saperlo.
 
***
 
Jodie sospirò attirandosi il sorriso di Alexandra e un’occhiata divertita di Daniel.
“Non sei più abituata a questo sfarzo medioevale, eh?” la prese in giro il marito mentre i tre camminavano in giro per il maniero diretti alla biblioteca: Daniel e Jodie dovevano ripassare il francese mentre Alexandra non ne aveva bisogno perché nessuno le si rivolgeva direttamente, per rispetto al suo handicap.
“Parla lui che quasi si accascia sul tavolo!” borbottò Jodie.
All’improvviso la donna rallentò e Alexandra, al suo braccio, se ne sorprese.
“Cosa c’è?” chiese piano ma poi lo sentì: un respiro forte e regolare e un uomo che si alzava in piedi davanti a loro.
“Chi è?” chiese la ragazza alla madre.
“Ian!” esclamò Daniel, rispondendole, mentre andava incontro al fratello adottivo, “Cosa fai qui?”
Ian sbuffò e Alexandra capì che era solo.
“Questa è casa mia, se non ricordi.” scherzò, “Non credevo alle mie orecchie quando ho saputo che andavi in biblioteca e sono venuto a controllare se stavi bene o se il pranzo ti aveva rincitrullito…”
Daniel si finse offeso ma sorrise. Si trovavano sotto gli archi che davano sul cortile interno e Ian sembrava nato nel Medioevo con indosso la tunica con i colori del suo casato e i capelli tenuti lunghi fino alle spalle.
Daniel provò una fitta nel ricordare l’aspetto dell’amico quando li aveva tagliati corti come atto di penitenza per Ponthieu e sorrise nel rivederlo padrone della sua nuova vita.
Ian gli lesse negli occhi la gioia e sorrise a sua volta poi si rivolse a Jodie.
“In realtà, cercavo Alex. Se mi permetti, vorrei parlarti un momento…”
Alexandra rimase sbigottita per un secondo poi si riprese, annuì e si staccò leggiadra dalla madre per raggiungere il cavaliere. Sapeva dov’era perché l’aveva sentito parlare ma capì comunque di averlo sorpreso dal cambiamento momentaneo del respiro.
“Monsieur, sono un’abilissima giocatrice di mosca cieca!” scherzò.
Di solito, la gente non riusciva a ridere di battute simili fatte sulla sua cecità ma, anzi, si sentiva in imbarazzo, Ian invece rise.
“Non ne dubito, mademoiselle!” rispose gentile porgendole il braccio.
“Beh, noi andiamo…” si inserì Daniel, “Trattamela bene o vado a dire tutto a Isabeau!”
Jodie rise mentre Ian si finse offeso.
“Impertinente!” esclamò rivolto all’amico ma quello si stava già allontanando con la moglie.
Nel corridoio rimasero solo Alexandra e Ian. L’uomo sopirò e la ragazza percepì nel suo tono di voce una strana tristezza al di là del comportamento allegro e dedusse che davvero Ian aveva imparato ad indossare le maschere necessarie a far sentire le persone a loro agio.
“Camminiamo, ti va’?” le chiese lui con tenerezza.
Iniziarono a percorrere il corridoio nell’altro senso e Alexandra riconobbe, dalle svolte e dai suoni dalle sale che superavano, la strada che l’avrebbe portata all’arena. Il braccio del suo accompagnatore sembrava troppo rigido per una camminata tranquilla e una conversazione di cortesia.
“Qualcosa vi turba?” chiese aggrottando la fronte e Ian sbuffò.
“Alexandra, siamo soli e ci conosciamo già: non mi pare proprio il caso di usare il voi!” bofonchiò e lei sorrise.
“D’accordo: che succede?” chiese.
Ian si fermò e le fece toccare una panca di legno appoggiata davanti alla staccionata che circondava la lizza in modo che gli spettatori vi si sedessero. Entrambi si sedettero e Alexandra rimase ferma e dritta con il viso rivolto in avanti mentre l’uomo si passava una mano tra i capelli guardando intensamente il campo di terra battuta come se vi fosse un duello in corso.
“Daniel ti ha raccontato la storia?” le chiese a bruciapelo, “Dall’arrivo qui?”
Alexandra si rabbuiò e annuì.
“Tutto?” la incalzò Ian notando la sua reazione.
“Tutto…” ammise lei sentendosi in imbarazzo.
Ian ridacchiò.
“Sei strana.” ammise tornando a guardare davanti a sé, “Non ti senti a tuo agio nella tua condizione ma non vuoi che gli altri ti trattino in modo diverso…”
Alexandra si irrigidì.
Un occhio di Falco sul serio., pensò, Allora davvero si merita il suo titolo.
“Non ho mai detto questo…” replicò ma Ian la fermò.
“No, ma il tuo comportamento parla da sé: tu stessa prendi in giro la tua cecità ma non riesci ad accettarla, o non vuoi; non sopporti che la gente si senta a disagio parlando del tuo incidente però, a tua volta, ti senti in imbarazzo a parlare con me di ciò che mi fu fatto a Cairs…”
Alexandra non rispose, sbalordita.
Ian la guardò: immobile, rigida, che teneva il viso dritto avanti a sé con il collo rigido e gli occhi bene aperti. Sospirò.
“Tuo padre mi ha raccontato dell’operazione…” aggiunse, “E della litigata. Sai perché ti ha portato qui?”
Alexandra aggrottò la fronte: si era persa.
“Non capisco…” ammise.
Ian sorrise amaro all’insaputa della ragazza.
“Tu hai detto a Daniel una frase che lo ha fatto soffrire.” spiegò, “Gli hai detto che non poteva capirti perché non era lì, sotto quell’auto…”
Alexandra arrossì, imbarazzata.
“Mi sono pentita di quelle parole subito dopo averle dette!” sussurrò e Ian annuì.
“Tu sì. Io no.”
Alexandra sgranò gli occhi e si voltò automaticamente verso di lui.
“Come?!”
“Anch’io gli dissi quelle parole, quasi identiche… Fu prima del torneo contro Derangale: tuo padre stava cercando d farmi ragionare.” ammise con voce triste e smarrita nei ricordi più violenti del suo passato, “Mi arrabbiai perché volevo la mia vendetta: la pensavo come te ora, credevo che fosse una meritata giustizia a muovermi ma ero accecato dalla rabbia…”
Alexandra saltò in piedi e si mise davanti a Ian, che invece rimase immobile.
“Vendetta?!” esclamò, “Dovrei lasciare che quel maledetto la passi liscia?!”
“Non ho detto questo!” replicò Ian, duro, “Hai diritto ad avere giustizia, Alexandra, ma quella che stai cercando adesso è solo vendetta!”
“Non è vero!” urlò la ragazza fuori di sé ma l’uomo non si scompose né si mosse.
“Quel giorno, dissi a tuo padre che non c’era stato lui sotto la frusta e non poteva capire quando odiavo quel maledetto. Lo ferii, Alexandra, e ne ero consapevole, ma ero troppo furioso per preoccuparmene: se tuo padre fosse stato un amico un po’ meno leale, mi avrebbe abbandonato quel giorno senza più tornare indietro.”
Alexandra abbassò la testa, confusa.
Ian si rialzò piano e le si parò davanti mettendole le mani sulle spalle.
“So cosa stai provando… Il dolore, a differenza di ciò che molti pensano, è nulla in confronto all’umiliazione, vero?”
Alexandra si irrigidì mentre ogni parola le entrava dentro portando a galla consapevolezze che aveva cercato di seppellire ma Ian continuò.
“Mi hanno legato a una staccionata e frustato come se fossi solo un’animale recalcitrante, mi hanno trattato come fossi uno schiavo e mi hanno tolto la dignità, Alexandra! Ma tu… Tu la dignità l’hai ancora! Tu cammini a testa alta per la strada perché, anche se non vedi, sai muoverti senza una guida! Ti sei rialzata ma non te ne rendi conto”
“Non mi sono alzata…” sussurrò Alexandra ma un parte di lei si chiese se fosse vero.
Se fosse ancora a terra, come l’aveva lasciata chi l’aveva investita quella notte, o se fosse diversa.
“Sei in pedi da un bel po’, Alexandra, ma hai paura di rendertene conto perché sai che, una volta raggiunta la consapevolezza, non si può più far finta di nulla come prima.” la contraddisse Ian con dolcezza, “A volte ci aggrappiamo alla vendetta perché abbiamo paura di guardare in faccia cosa abbiamo perso. Io credevo di aver perso l’onore e invece guarda!”
Alexandra, per la prima volta, non se la prese per il verbo usato da Ian -guarda- ma capì a cosa si riferisse: il castello, Isabeau, Guillaume, Marc, Michel e tutto il resto. Ian aveva ottenuto tutto ciò che aveva affrontando ciò che gli era accaduto e, alle fine, si era costruito una nuova vita con una famiglia che amava.
Lei?
“Non lo so…” mormorò Alexandra a voce bassa rispondendo alla domanda che si era fatta da sola ma intanto sentiva le lacrime pronte a cadere.
“Non bisogna sapere, né vedere.” mormorò Ian sorridendo, “Devi solo sentire.”
In un gesto inutile ma significativo, Ian mise una mano a tappare gli occhi della ragazza e posò l’altra su una delle due orecchie.
La giovane chiuse gli occhi e si concentrò: allontanò da sé tutti i suoni e tutti i pensieri fino a rimanere sola nel buio e si rese conto di non averlo mai fatto prima. Istintivamente, cercò per paura Ian davanti a sé con le mani e si concentrò su un qualsiasi suono. Fu allora che trovò tutto: sentì i suoni delle armature delle guardie, i nitriti dei cavalli nella stalla vicina, i passi veloci dei servitori, le risate, le parole…
Non era buio: era percezione.
Ian la vide sorpresa e attenta e sorrise.
“Non sei mai sola, Alexandra, e gli occhi non sono tutto.” le sussurrò, poi, con lentezza, si allontanò da lei in silenzio, lasciandola.
Alexandra attese che Ian fosse troppo lontano per essere sentito da lei poi si alzò e riprese a concentrarsi. Seguì le voci di un paio di soldati che parlavano di allenamento con i bastoni e, con sua sorpresa, evitò davvero tutti gli ostacoli sul suo cammino usando tutti i suoi sensi. Raggiunse i due uomini e rimase in disparte a sentirli combattere: poteva vedere i loro movimenti da suono dell’aria, dal tintinnio delle armature, dai sibili dei bastoni e dal rumore dei passi.
Li vedeva.
Sorrise e si fece leggermente avanti quando uno dei due contendenti finì a terra.
“Messieurs,” chiese, “Je pourrais l'essayer aussi*?”
I due soldati si voltarono sorpresi verso di lei e poi si scambiarono sguardi incerti.
“Mademoiselle, vous étéz…” provò a dissuaderla uno dei due ma la ragazza gli fece un sorriso radioso e tese la mano per prendere il bastone.
“S’il vous plaît!” aggiunse e l’uomo capitolò passandole la sua arma.
“Soyez prudent, Mademoiselle...**” si raccomandò un’ultima volta prima di farsi da parte.
Alexandra, sempre sorridente, si mise di fronte all’avversario. Prese un respiro profondo e si mise in guardia continuando a tenere il bastone con entrambe le mani.
“A voi l’onore…” disse in francese all’uomo che si trovava davanti.
Lui esitò ma poi la prese in parola e, con uno scatto, si lanciò su di lei cercando di colpirla al retro delle ginocchia per farla cadere e concludere in fretta senza farle troppo male. La ragazza lo attese poi, all’ultimo secondo, saltò lasciando che il bastone le passasse sotto. Appena i suoi piedi furono di nuovo a terra, si scagliò in avanti puntando al lato della testa del soldato con una delle estremità dal bastone. Con un verso, l’uomo riuscì a indietreggiare e ad evitare l’attacco all’ultimo secondo e la punta dell’arma di Alexandra gli saettò a un soffio dagli occhi. La ragazza non attese e avanzò incalzandolo con colpi alternati diretti ai fianchi con entrambe le parti del legno. L’uomo, sorpreso e confuso, non riuscì a difendersi egregiamente e, all’ennesimo attacco, non riuscì a scansare il bastone e venne colpito al ventre. Alexandra fece una giravolta su se stessa e lo colpì una seconda volta al viso facendolo cadere a terra e vincendo al gara.
L’uomo finì sulla schiena, scosse la testa e, una volta ripresosi, la guardò con ammirazione.
“Incroyable!***” esclamò e tuttavia sorrise.
Alexandra arrossì leggermente e tese il bastone al soldato in piedi che glielo aveva portato e l’aveva osservata combattere. L’uomo esitò a prendere l’arma.
“Non è la prima volta che combattete, n'est-ce pas****?” chiese.
Alexandra annuì.
“Ho pratico la scherma del mio paese per nove anni ma da due ho iniziato la vostra…” ammise, “Prima facevo anche tiro con l’arco per continuare la tradizione di mio padre…”
Il soldato annuì.
“Ero presente al torneo di Béarne: fu incredibile! Vostro padre è il miglior arciere che si sia mai visto!” dichiarò.
La ragazza sorrise.
“Chissà, forse avreste potuto eguagliarlo…” continuò l’uomo e, sul momento, la giovane si rattristò poi decise di provare.
“Monsieur, vorreste aiutarmi a tentare di nuovo?” chiese.
L’uomo sgranò gli occhi stupito.
“Etes-vous sûr?*****” chiese dubbioso.
Alexandra sorrise e annuì. 
“Oui!” esclamò sorridente.
Era ora che Alexandra Freeland tornasse a vivere.

 



* Potrei provare anch’io?
** Siate prudente, signorina…
*** Incredibile!
**** Non è vero?
***** Siete sicura?







Credo che sia venuto così e così...
Non so, non era esattamente a questo modo che l'avevo immaginato però... Beh, poteva essere peggio...
Non ho altro da dire, mi pare...
Grazie mille a tutti!
A presto!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 8
*** Incongruenza ***







8. Incongruenza

 
Immobile.
Rigida.
Impassibile.
Cieca.
Erano i quattro aggettivi che rimbalzavano da un angolo all’altro della testa di Isabeau de Montmayeur mentre, dall’alto della finestra della sua camera, osservava la giovane Alexandra Freeland aspettare il momento giusto per lasciar andare la corda.
L’aveva vista incordare l’arco procuratole dal conestabile di Chatel-Argent sotto gli occhi attenti e sorpresi di molti soldati e poi, in silenzio, sfilare una freccia dalla faretra e incoccarla senza esitazione. La giovane aveva alzato l’arco a livello del viso e aspettava. Rimase immobile ancora pochi secondi poi la sua mano lasciò con grazia la corda e la sua freccia partì, diritta e implacabile, verso il centro del paglione.
Non fu un colpo perfetto, la punta si era conficcata mezzo pollice sotto il piccolo circolino bianco che indicava la perfezione di un arciere ma per una giovane che non poteva vedere era decisamente un ottimo risultato.
I soldati, sbalorditi in un primo momento, iniziarono ad avvicinarsi e, dopo aver spiegato ad Alexandra il suo risultato, a congratularsi.
Anche da lontano, la dama riusciva a scorgere il sorriso della giovane e ne rimase contagiata. Si scostò appena, lasciando il muro al quale si era appoggiata, e ritornò nel centro della sua stanza.
Era sola, come spesso d’altronde.
Non aveva mai voluto dame di compagnia, l’idea di obbligare qualcuno ad esserle amico le era sempre parsa ributtante.
Poi era arrivata Jodie, dolce, cara e gentile Jodie, che le era stata amica e le aveva fatto compagnia nel periodo terribile della guerra. Donna, poi, le era stata accanto durante la sua prima gravidanza quando suo marito era ancora imprigionato nel suo tempo. La seconda gravidanza, l’aveva portata avanti da sola, senza suo marito, ma, comunque, con Marc.
Isabeau sospirò.
Il tempo faceva il suo corso, i figli crescevano, lei invecchiava: era il normale scorrere delle cose, andava sempre così…
Quasi sempre…, si corresse mentalmente con un sorriso.
La Provvidenza, come era certa, aveva compiuto il miracolo portandole il suo Ian da un’epoca totalmente diversa dalla sua.
La donna raggiunse la porta e la aprì poi scese lentamente le scale, con quel suo incedere dignitoso e femminile che la rendeva, agli occhi degli uomini, come un angelo venuto dal Paradiso. Raggiunse la lizza che Alexandra era sola, i soldati erano tornati alle loro occupazioni o forse la giovane aveva voluto star un po’ sola.
La ragazza sembrava concentratissima ma, di colpo, sgranò gli occhi e abbassò l’arma.
La contessa di Chatel-Argent la vide corrugare la fronte e girarsi verso di lei, attirata dal suono dei suoi passi come una cerbiatta all’erta.
“Qui êtes-vous*?” chiese.
Isabeau sorrise avvicinandosi ancora.
“Rilassatevi, Alexandra.” le rispose dolcemente in inglese, “Sono Isabeau.”
“Oh!” esclamò la ragazza raddrizzando le spalle e abbassando ancora di più l’arma.
Isabeau vide gli occhi dell’americana puntarsi nei suoi e ne ebbe un brivido involontario, sorpresa dalla bravura della giovane.
“Spero che vorrete farmi la cortesia di parlare anche un po’ con me.” scherzò la contessa, “Finora, mi avete preferito i miei figli e mio marito.”
“Madame, non era mia intenzione farvi un torto ma…” iniziò a scusarsi la ragazza ma la risata melodiosa della donna la interruppe.
“Come mio marito e vostro padre ai loro primi momenti qui, anche voi siete spesso troppo sulle spine per comprendere le battute.” replicò dolcemente strappando ad Alexandra un sorriso, “Allora, volete seguirmi?”
La giovane posò con delicatezza l’arco contro lo steccato poi raggiunse la padrona del castello e si ingegnò in una riverenza.
“Senza dubbio.” rispose.
Isabeau annuì.
Non porse alla ragazza il braccio, in attesa di vedere quanto si fosse abituata a camminare nel castello, ma Alexandra la seguì senza esitazione.
Isabeau fece alla Freeland molte domande camminandole a fianco nei giardini del palazzo: cosa le piaceva, cosa no, che colore amava vestire, se sapeva danzare…
“Temo di dover ammettere,” rispose Alexandra leggermente imbarazzata, “Di non conoscere le vostre danze.”
Isabeau le sorrise.
“Come vostro padre e vostra madre prima di voi... Beh, sono certa che, se vorrete, non vi sarà difficile impararle.” rispose dolce, “Se volete, potrei aiutarvi, anche se dubito che faremo in tempo per il ballo di domani se vostra madre non ci aiuta...”
Alexandra si fermò di botto e si paralizzò sgranando gli occhi e spalancando al bocca.
“Domani?!” esclamò sgomenta, “Perché?!”
Solo dopo aver pronunciato quelle parole, la ragazza si accorse di poter essere suonata sgarbata con la padrona del castello ma Isabeau rise piano prima di spiegarle pazientemente.
“Sua maestà viene qui a palazzo.” annunciò, “Manca poco alle celebrazioni per il suo matrimonio con la principessa Margherita, ormai si tratta di una settimana…”
Alexandra mise temporaneamente da parte lo sbalordimento al pensiero di farsi vedere da tutta la corte di Francia perché il suo cervello registrò un’altra informazione: il matrimonio tra Luigi XI e Margherita di Provenza, sarebbe stato celebrato il 27 maggio, ovvero venticinque giorni dopo… Non una settimana!
“Isabeau, siete sicura che il matrimonio sarà celebrato tra una settimana?!” chiese con la voce strozzata dalla sorpresa.
La donna aggrottò la fronte, sorpresa, poi annuì.
“Certo. Il matrimonio avverrà qui, il nove maggio.” rispose stupita la nobildonna, “Qualcosa non va?”
“La Storia non va!” le rispose sottovoce Alexandra, sconvolta, “Dobbiamo parlare subito con mio padre e vostro marito!”
Isabeau sbiancò alla rivelazione ma riprese subito il contegno, prese Alexandra per un braccio e la tirò, pur con delicatezza, con sé.
 
***
 
Dieci minuti dopo, erano nella stanza da letto dei conti con Daniel, Jodie, Ian e Guillaume.
“Non è possibile!” replicò Daniel a bocca aperta.
“Isabeau ha ragione.” intervenne Ian cupo, “Il matrimonio sarà celebrato qui, un onore che ci riserverà il re per aver sempre sostenuto lui e sua madre.”
“Ma in ogni libro di Storia starà scritto che Luigi e Margherita si sposeranno il ventisette maggio a Sens!” replicò Jodie, “Abbiamo controllato!”
Ian si lasciò cadere contro lo schienale sul suo scranno e si passò una mano sul viso.
“Mai una volta che fili tutto liscio.” borbottò.
“Non è detto che accadrà qualcosa di grave.” intervenne Ponthieu a sorpresa massaggiandosi il mento con fare pensoso, “La principessa potrebbe essere in ritardo, non sarebbe così strano.”
Daniel lo guardò sbalordito.
“Un ritardo di quasi di venti giorni solo per venire sin qui? E non sarebbe strano?!” chiese confuso.
Guillaume annuì.
“Arriva dalla Spagna: il viaggio è pericoloso, i nemici tanti…” spiegò, “Le ragioni che potrebbero far rallentare il matrimonio sono moltissime!”
“Però diciotto giorni di posticipo per il matrimonio non sono pochi davvero…” si inserì Ian guardano il conte spaesato, “E poi perché spostarlo a Sens?”
“Degli attriti con il casato.” sussurrò piano Alexandra attirando tutti gli sguardi su di sé, “Sembra la spiegazione più logica visto che dovrebbe sposarsi qui per rendervi onore.”
Guillaume annuì cupo.
“Ma non vedo cosa potremmo fare per inimicarci la corona proprio adesso.” commentò.
“Forse accadrà qualcosa a Sens.” azzardò Isabeau, “Qualcosa che spingerà sua Maestà a sposare lì la principessa Margherita.”
Jodie annuì dando corda alla contessa.
“Insomma!” esclamò, “Non può sempre andar tutto male a noi!”
Mentre gli altri annuivano, Daniel non rispose a quell’affermazione: aveva fatto abbastanza esperienza di viaggi nel Medioevo da dire che, sì!, a loro andava sempre tutto male fino all’ultimo istante!
Alzò lo sguardo e condivise il pensiero con Ian che annuì senza farsi notare.
“Io credo che Dama de Montmayeur abbia ragione” dichiarò Alexandra, “anche perché sua Maestà chiamerà il quarto figlio Jean.”
Ian sgranò gli occhi ma poi scosse la testa.
“Il quarto figlio non vuol dire nulla, Alexandra.” chiarì, “Se fosse stato il primo, forse, ma il quarto no: passa troppo tempo… E, comunque, Jean è un nome molto diffuso in Francia.”
La ragazza alzò le spalle.
“Però è tutto ciò che abbiamo…” sussurrò.
“E cioè più di quanto dovremmo!” borbottò il conte de Ponthieu, “Non è nel corso delle cose sapere i fatti prima che avvengano: dobbiamo fare come tutti e affidarci alla Provvidenza che scriverà la Storia che conoscete. Qui, non possiamo fare altro.”
Ian annuì a quelle parole e si alzò.
“Non possiamo far nulla e forse ci stiamo preoccupando per nulla: calmiamoci e aspettiamo.” disse a tutti con un sospiro, “Se le cose devono andare in un certo modo, possiamo star certi che così andrà.”
Guillaume annuì e uscì dalla stanza.
Ian osservò la porta in silenzio.
Isabeau gli si avvicinò e gli mise le mani sulle spalle da dietro.
“Sai che non si è ancora del tutto abituato.” mormorò piano al marito, “Per lui è ancora difficile parlare della realtà a questo modo.”
Ian annuì e sospirò.
“Chissà se crederà mai davvero che non sono un demonio arrivato dall’Inferno.” sussurrò.
Isabeau sobbalzò, preoccupata.
“Non dire così!” esclamò, “Sai che ti vuole bene!”
Ian annuì di nuovo ma non pareva convinto.
“Voi cosa fate?” chiese quindi a Daniel.
L’uomo parve confuso.
“Intendo il ballo.” chiarì Ian, “Sei Sir Daniel Freeland, il salvatore di Filippo Augusto a Bouvines e la spia fidata che fece iniziare le trattative del Delfino con Salisbury: Luigi vorrà vederti di sicuro se sarai qui, e vorrà conoscere la tua erede dopo aver saputo che è venuta fin qui.”
Daniel sgranò gli occhi, preso alla sprovvista, e lanciò uno sguardo indeciso a Jodie.
“Non so.” ammise.
“Ci sarò.” si intromise Alexandra.
Ian la guardò, sorpreso, ma la giovane era decisa.
“Se mi vorranno vedere, ci sarò. Il problema è solo che non so affatto come comportarmi.”
Ian alzò le spalle.
“Nemmeno tuo padre lo sapeva e a corte si sono abituati alle stravaganze di chi viene dalle vostre terre.” commentò, “Ci sarà anche Bianca di Castiglia e lei ti proteggerà comunque: conobbe Daniel e ha sempre avuto attenzione per la nostra famiglia, vista la fedeltà che le abbiamo tributato negli anni. Ma tu te la senti?”
Alexandra annuì.
“Ehy!” si intromise Daniel saltando in piedi dallo sgabello su cui era stato seduto, “Non so se è una buona idea! Ti ricordo che finire nelle grazie della corte non è sempre una buona cosa!”
Ian gli lanciò un’occhiata esplicita a significare: E lo dici a me?; ma Isabeau intervenne.
“La regina ci teneva molto a rivedervi e parlare con Alexandra.” ricordò al marito pur rivolgendosi a Daniel, “Credo che, se venisse a sapere che siete stati qui, vorrà comunque vedervi; senza contare che Monsieur de Sancerre, Monsieur de Bar, Monsieur de Grandprè e Sir Martewall potrebbero prendersela a male per la vostra ennesima sparizione.”
Daniel rabbrividì al pensiero dell’inglese ma si costrinse a non mostrarlo.
“Tu e Martewall siete ancora buoni amici?” chiese a Ian.
L’uomo alzò gli occhi al cielo.
“Daniel, io e Geoffrey abbiamo chiarito tutto e lui è davvero un uomo fidato.” gli ricordò.
“Tutto il contrario del suo compare, allora!” bofonchiò l’americano ma poi sospirò, “D’accordo allora: ci saremo.”
Alexandra sorrise.
 
***
 
Guillaume camminò in silenzio, con le mani dietro la schiena e lo sguardo truce, fino alla torre di Chatel-Argent e lì si appoggiò ai merli. Non capiva la passione di suo fratello per quel posto: lui stava molto meglio in basso, dove poteva tenere i piedi per terra.
Però, lui non era un Falco.
Aveva sempre saputo che riaccogliere Ian nonostante la verità segreta che si portava dietro avrebbe voluto dire sconvolgere la propria vita ma, al contempo, aveva sempre saputo che era la cosa giusta da fare.
Sospirò.
Non gli piaceva perdere il controllo delle cose, non gli piaceva che le pedine andassero in giro per la scacchiera a sconvolgere i legami con gli altri pezzi e non gli piaceva trovarsi in balìa degli avvenimenti.
Tutte cose che si erano sistematicamente ripresentate da quando aveva accolto come famiglio quel naufrago che aveva salvato la sua pupilla.
Molte volte si era chiesto come si sarebbe comportato se, all’epoca, avesse saputo tutto ciò che quell’uomo avrebbe portato con sé.
L’avrebbe accolto sapendo che veniva da un’altra epoca? L’avrebbe sostituito a suo fratello sapendo che si sarebbe invaghito di Isabeau? L’avrebbe protetto anche da sé stesso e dal re se avesse saputo che da lì in poi avrebbe dovuto coesistere col sapere i fatti prima che fossero accaduti?
Spesso preferiva non rispondersi ma quel giorno voleva capire.
In fondo, non era da lui evitare i problemi.
Guillaume de Ponthieu, conte di Piccardia e signore di Auxi-Le Chateau, affrontava sempre tutto ciò che minacciava lui, la sua famiglia, il suo casato, le sue terre e il suo re.
Osservando il cielo, terso e senza nulla che potesse attirare la sua attenzione e distoglierlo dal suo rimuginare, capì che lì avrebbe potuto pensare davvero e, forse, chiarirsi con se stesso.
Ripensò al giorno in cui si era trovato davanti Ian per la prima volta: pallido, indebolito, rigido per le ferite sulla schiena dovute alla frusta ma pur sempre risoluto e pronto a tutto per difendere i suoi compagni, compreso il giurare fedeltà a un uomo che, come aveva lui stesso ammesso più tardi, all’epoca lo spaventava.
Ripensò a quando aveva scritto la cronologia del suo casato.
Ripensò a come lo aveva trovato nella prigione di Bearne, stremato per la marcia, confuso ma ancora fedele a lui, al punto da prendere il posto di suo fratello.
Ripensò a come si era allenato per il torneo, alla forza mista a rabbia che lo aveva mosso portandolo anche a opporsi a lui, e alla volontà ferrea che gli aveva permesso di battere l’inglese nella sfida a tre lance e nella spada trovando anche il coraggio di non vendicarsi e ucciderlo a sangue freddo.
Ripensò a come gli aveva salvato la vita in guerra, battendosi con un avversario a cavallo, da terra e disarmato.
Ripensò a quando era stato dato per morto, alle ricerche disperate, alla morte dei sicari e all’arrivo della notizia che era ancora vivo.
Ripensò al giorno in cui era ricomparso dall’Inghilterra, alla sua contrizione sotto la sua rabbia, alla gratitudine nei suoi occhi nel sentirgli dire anche quella sola, unica frase d’affetto.
Ripensò al suo ritorno dalla crociata, a quanto fosse sconvolto.
Ripensò alla sua furia verso Gant, alla sua disperazione quando lui lo aveva rinnegato, alla sua determinazione nel trovare l’assassino.
Ripensò alla sua tenacia quando si era ripresentato a Chatel-Argent nonostante la minaccia del boia, al suo tagliarsi i capelli davanti a tutto il borgo come atto di penitenza, ai sei mesi che aveva passato a fare il bracciante nel monastero di Saint-Michel.
Ripensò alla gioia nei suoi occhi quando lo aveva ripreso con sé.
Guillaume sospirò.
Aveva capito. Se avesse saputo cosa Ian Maayrkas avrebbe portato con sé nella sua vita perfettamente pianificata, lo avrebbe preso con sé comunque.
Sbuffò, seccato dalla rivelazione.
“Mio signore?” sussurrò piano una voce alle sue spalle.
Guillaume si voltò per trovarsi davanti Ian.
Era sempre vestito come si conviene ad un conte cadetto ma il tono di voce e la testa chinata rivelavano l’inferiorità nei confronti dell’uomo che aveva davanti.
“Spero di non disturbarvi…” continuò.
Ian aveva preso l’abitudine, dopo l’esilio forzato nel monastero, di riprendere a comportarsi con Guillaume come avrebbe fatto un qualsiasi famiglio quando non v’era nessuno che potesse sentirli.
Il conte di Ponthieu scosse la testa.
“Non mi disturbi.” rispose, “Come mai qui?”
Ian abbassò il capo.
“Vi cercavo.” sussurrò.
Il conte annuì.
“Di cosa volevi parlarmi?” chiese, “Ti ascolto.”
“Volevo solo scusarmi per l’ennesimo disastro che vi combino.” ammise Ian, “Questa storia del conoscere il futuro non vi ha fatto piacere.”
Il conte diede di nuovo le spalle al giovane per dedicarsi ad osservare il paesaggio.
Ian attese, in silenzio, una reazione qualunque.
“Non posso dire che mi piaccia sapere cosa mi accadrà domani o tra diciotto giorni...” dichiarò infine il conte, severo.
Ian abbassò ancor di più il capo con dispiacere ma Guillaume riprese.
“...però mentirei se ti dicessi che non sono un po’ sollevato all’idea che, se dovesse abbattersi una sciagura sulla nostra famiglia, potrei saperlo prima e così quantomeno tentare di salvare la nostra gente.”
Ian guardò sorpreso il fratello adottivo ma quello continuò a dargli le spalle.
“In un certo senso, sono più tranquillo… Anche se continua a sembrarmi irreale!”
Ian si lasciò sfuggire una risata amara.
“Non siete l’unico.” mormorò.
Il conte si voltò a guardarlo, indagandolo con gli occhi e Ian subì in silenzio quell’esame poi Guillaume si voltò di nuovo con un sospiro.
“Già.” commentò.
Ian guardò con gratitudine la schiena dell’uomo che era diventato suo fratello.
Grazie di tutto, pensò.




Lo so, lo so, questo excursus nei pensieri di Guillaume è parecchio surreale (e probabilmente sbagliatissimo) però perdonatemi perché mi serve per giustificare i futuri comportamenti di Ponthieu. Abbiate pietà di me, insomma...
Allora, so che lo scorso capitolo è sembrato un po' sbrigativo ma vorrei chiarire una cosa: Alexandra si è già ripresa dalla perdita della vista, da tempo ormai e grazie a qualcuno in particolare, ma non ha mai rinunciato a trovare chi l'aveva investita e ha avuto una notevole crisi di depressione dopo che l'operazione che le avrebbe dovuto restituire la vista è fallita...
Come si suol dire 'ne ammazza più una finta speranza che la lama di una spada' (o qualcosa di simile, più o meno)...
Ian vuole solo aiutare Alex a lasciar perdere l'idea di trucidare il pirata della strada.
Per il resto, direi che non c'è molto da dire...
A presto!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 9
*** Luigi IX, Re di Francia ***







9. Luigi IX, Re di Francia

 
Marc camminava piano a testa bassa lungo un corridoio, uno a caso. Non sapeva dove fosse né gli interessava, voleva solo fuggire. Fuggire un po’ da sé stesso, dall’essere il futuro conte di Chatel-Argent, dall’essere il figlio del Falco d’argento.
Il ragazzo sospirò.
“Non sarò mai alla sua altezza…” sussurrò, così piano da non poter essere udibile neanche dai pochi servitori che incrociava.
Faceva male essere il figlio di qualcuno che era conosciuto ovunque, faceva male avere delle responsabilità.
Marc continuava a fissarsi i piedi in attesa del ballo di quella sera e dell’arrivo della corte francese: tutti i nobili avevano raggiunto il re a Parigi e lo avrebbero seguito a Chatel-Argent dove suo padre e suo zio erano tornati con alcuni giorni di anticipo per organizzare l’arrivo della famiglia reale. Sospirò di nuovo: un altro esame da sostenere, un’altra serata da passare a stringere alleanze, un altro ballo in cui dover cercare una dama.
Per forza, era la maledizione dei figli che ereditano: la mancanza di libertà.
Marc sperò di riuscire a evitare la giovane Matilda de Sancerre, per il fratello. Michel era decisamente perso di lei ma non si decideva a far nulla perché non era certo di essere ricambiato.
Ma che aveva intenzione di fare? Aspettare che fosse lei a fare il primo passo?!
No…
Però il ragazzo non riusciva a decidersi, a trovare il coraggio, e la gente iniziava a farsi la propria opinione… Sbagliata, tra l’altro.
Marc sbuffò.
Un grido di donna seguito da uno strano suono, smorzato, lo distrasse dai suoi pensieri e lo fece preoccupare. Il ragazzo iniziò a correre verso la fine del corridoio dove si trovava sguainando la spada per essere pronto al peggio. Raggiunse la porta ma, purtroppo per lui, la aprì e piombò nel cortile prima che le risate iniziassero.
Il giovane conte guardò sorpreso Alexandra Freeland seduta a terra, a gambe larghe e con le braccia all’indietro che la sostenevano, sul viso un’espressione imbronciata.
“Dammit!*” esclamò la ragazza per l’ennesima volta prima di alzarsi e iniziare a rassettarsi la gonna imprecando a mezza voce.
“Mais…?**” provò a chiedere il ragazzo ma la confusione gli impedì di finire la frase.
Solo allora si decise a guardarsi attorno: sua madre Isabeau e dama Jodie lo guardavano ironiche con le mani sui fianchi, Alexandra non gli badava minimamente, forse perché non si era accorta di lui, e un gruppo di servi con strumenti musicali in mano lo guardavano sorpresi, preoccupati o divertiti.
Marc abbassò l’arma totalmente in imbarazzo: era finito nella lezione di danza di Mademoiselle Freeland.
Isabeau si mise ad applaudire ridendo.
“Complimenti: un’entrata in scena degna di nota!” lo prese in giro mentre anche Jodie iniziava a ridere e Alexandra le guardava confusa.
Il giovane conte arrossì e rinfoderò la spada con movimenti goffi i cui suoni spiegarono alla ragazza l’ilarità delle due donne.
Alexandra sorrise.
“Adesso capisco.” commentò, “Sono onorata che i miei piedi vi stiano tanto a cuore da precipitarvi così animatamente a salvarmi.”
“Vi prego!” supplicò Marc chinando il capo, “Non infierite…”
“Al contrario!” intervenne Isabeau avvicinandosi e afferrando per un braccio sia il figlio che la giovane, “Ci servi proprio!”
“A far cosa?” protestò lui spaventato.
“Alexandra ha bisogno di un cavaliere per imparare a ballare e tu sei stato così gentile da precipitarti in suo aiuto, no?” replicò la madre mettendoli in posizione, “Bene, allora aiutala e danza con lei!”
“Oh Cielo!” sussurrò Alex arrossendo.
Marc non aveva un colorito più chiaro del suo ma, senza far commenti, le fece un inchino e la prese per mano come la danza richiedeva.
“Vorreste concedermi questo onore almeno qui?” sussurrò pianissimo il conte in modo che nemmeno le due donne potessero udirlo.
“Con immenso piacere…” rispose la ragazza, “Qui e, se lo vorrete, anche stasera…”
“Non desideravo altro…” le confidò sincero il ragazzo.
Alexandra gli sorrise mentre, finalmente, iniziava a danzare senza pestare i piedi al compagno di ballo.
Marc e Alex iniziarono a danzare con calma con Isabeau e Jodie che correggevano entrambi perché il giovane conte assecondava i movimenti della ragazza.
“Così non sei di nessun aiuto!” lo rimproverò la madre esasperata, “Guarda che ti mando via e chiamo tuo fratello!”
Quelle parole bastarono, in modo assai inconsueto, a convincere il ragazzo a iniziare a ballare come si deve. La giovane Alexandra iniziò ad imparare ben presto i passi e le movenze e, alla fine, iniziò a divertirsi pienamente in quei balli complicati e coreografici.
All’improvviso, la ragazza inciampò nella gonna lunga e cadde all’indietro e finendo seduta nonostante il giovane Marc avesse tentato di salvarla. Il ragazzo si ritrovò piegato su di lei che, sorridente, piegò la testa all’indietro e scoppiò a ridere finendo per trovarsi con le labbra vicinissime a quelle di lui ma senza accorgersi affatto del rossore deciso che era divampato sul suo viso. 
Con imbarazzo, Marc si alzò e lanciò, preoccupato, un’occhiata alle due donne spettatrici che però fissavano la scena in un silenzio tale che il giovane capì subito di essere stato scoperto. Scuotendosi, si decise a chinarsi su Alexandra e a porgerle il braccio per aiutarla ad alzarsi.
Sorridente, la ragazza accettò il suo aiuto e si mise in piedi.
“Perdonatemi, monsieur!” esclamò senza usare il tu come, invece, avrebbe fatto se fossero stati soli e non sotto gli occhi vigili delle due madri, “Davvero sono una pessima ballerina!”
Marc le sorrise, incapace di ammettere una simile cosa.
“Ma cosa dite!” replicò imitando il suo tono formale, “Avete solo bisogno di un ballerino che conosca il vostro modo di muovervi…”
Appena ebbe pronunciato quelle parole, il ragazzo si rese conto di ciò che aveva detto e di come potesse essere inteso e arrossì.
Alexandra, per niente turbata da ciò che quelle parole potevano intendere, gli sorrise alzando un sopracciglio per metterlo ancor più in imbarazzo, e ci riuscì.
Isabeau si avvicinò ai due ma non sorrideva.
Marc si irrigidì, confuso, e Alexandra percepì la tensione tra i due.
“Cosa succede?” osò chiedere a bassa voce.
Gli occhi di Isabeau de Montmayeur non puntavano il volto del figlio ma qualcosa alle sue spalle: le guardie sulle mura che segnalavano a quelle del castello l’arrivo degli ospiti tanto attesi.
Marc si voltò e vide ciò che aveva impensierito la madre e spezzato il breve momento di pace.
“La corte di Francia è qui.” sussurrò per aggiornare Alex ma i suoi occhi non si staccarono dalle mura.
 
***

Jodie si avvicinò.
“Che facciamo?” chiese alla contessa del castello.
“Venite con noi.” dichiarò la donna, “Monsieur Daniel affiancherà di sicuro il suo signore e preferirei che restaste assieme, inoltre non mi pare il caso di farvi girare da sole per il castello con tutti gli ospiti che ci sono.”
“Vi preoccupate per noi o per loro?” scherzò Alexandra.
Isabeau sorrise, incapace di restare seria a quella domanda ironica che non era poi tanto banale date le circostanze.
“Per loro, ovviamente!” rispose ridendo.
Il gruppo sembrò sciogliersi un po’ dalla sua immobilità dovuta all’arrivo della famiglia reale poi si avviò lungo il corridoio dal quale Marc era spuntato a spada sguainata. Dopo poche svolte, raggiunsero il salone antecedente al portone e lì il gruppo trovò i due conti Guillaume e Jean Marc de Ponthieu, il giovane Michel de Ponthieu e Daniel, nuovamente abbigliato come il vassallo del conte Jean Marc.
L’uomo sorrise nel vedere la moglie e la figlia ma sembrava teso.
Alexandra e Jodie gli si fecero vicine per un istante.
“Si torna alla corte di Francia!” sussurrò loro lui prima di indicargli con il mento Dama Isabeau, “State dietro di lei: Jodie, sei ancora la sua dama di compagnia e, Alex, lo sei di riflesso. Non dite assolutamente nulla a meno che non sia per rispondere a un saluto o vi sia espressamente richiesto, d’accordo?”
Le due annuirono.
“Se chiedono perché siamo tornati?” chiese Alex iniziando a sentire un po’ d’ansia.
“Risponderà Jean a quello, tranquilla. Comunque, siccome i due giovanotti non sanno nulla del gioco di maschere, deve essere di quanto più vicino alla realtà si possa…”
Alexandra annuì nonostante la notizia che Marc fosse del tutto ignaro delle menzogne che lei stessa stava aiutando a tenere in piedi l’avesse scossa e raggiunse la madre dietro alla signora del castello.
Che stupida che sono!, pensò prendendo un respiro profondo, Perfino io ho finto con loro raccontandogli la mia storia: avrei dovuto capire che sono all’oscuro di ciò che il loro padre sta reggendo…
I due conti de Ponthieu però stavano già uscendo dal portone per ricevere la corte francese, ormai nel borgo di Chatel-Argent, e la giovane americana dovette prestare tutta la sua attenzione al seguire la madre riconoscendo i gradini in base al suono dei passi di lei sulla pietra.
Era ora di debuttare davanti a Luigi il Santo.
 
***
 
Con un respiro profondo, Ian si preparò a ricevere il re di Francia.
Il ponte levatoio era già stato abbassato e tutte le porte necessarie erano state aperte in modo che i cavalieri non avessero dovuto attendere davanti ad una soglia chiusa.
Quando i cavalieri sormontati da stendardi e accerchiati scorte iniziarono ad entrare, Ian iniziò ad agitarsi ma mantenne il sorriso: era una responsabilità occuparsi del matrimonio del re francese e il fatto che quello sarebbe senz’altro stato rallentato e posticipato non contribuiva a tenerlo tranquillo. Istintivamente, Jean Marc de Ponthieu cercò il suo sovrano tra la folla di ospiti e non faticò a trovarlo: in sella al baldanzoso palafreno, Luigi apriva il corteo davanti a tutti, compreso il suo stemma.
Un colpo di testa degno del Falco d’Argento.
Guillaume lanciò un’occhiata ammonitrice al fratello ansioso poi si dedicò ad accogliere i suoi ospiti.
Luigi il Santo, re di Francia, scese da cavallo con un sorriso affabile sul volto e si guardò attorno soddisfatto.
“Come sempre, i Ponthieu non deludono!” commentò mentre i servi efficacemente organizzati riuscivano a sistemare tutti i cavalieri rapidamente.
A dispetto del nome, Luigi IX di Francia aveva appena diciannove anni ed era coetaneo del giovane Marc de Ponthieu con il quale aveva un rapporto più d’amicizia che di superiorità, era abbastanza alto e aveva i capelli castani e gli occhi scuri del padre, il viso era leggermente scarno per via della vita sui campi di battaglia ma possedeva ancora la vivacità dell’adolescenza. Non sembrava affatto preoccupato dall’idea del matrimonio combinato, forse perché vi si era rassegnato o forse perché davvero provava interesse per la giovanissima Margherita.
Ian e Guillaume si inchinarono profondamente e gli altri li imitarono presto mentre Sua Maestà scendeva da cavallo.
Dietro il figlio, cavalcava la Regina Madre, Bianca di Castiglia.
“Monsieur de Ponthieu,” esclamò la donna notando il famiglio del suo ospite, “sono i miei occhi che m’ingannano oppure davvero vedo il cavaliere delle terre libere?”
Daniel si inchinò alla sovrana mentre Ian annuiva.
“Davvero è passato molto tempo dall’ultima volta che ci vedemmo, monsieur…” commentò la regina rimanendo in sella.
Daniel annuì e sorrise.
“Forse troppo, Vostra Maestà, ma davvero non mi è stato possibile far avere mie notizie.” rispose sentendosi sulle spine.
“La vostra patria vi reclamava?” si informò cortesemente Bianca.
Daniel si irrigidì appena ma nascose il suo disagio e scosse la testa.
“La mia famiglia mi reclamava, mia signora.” rispose chinando il capo e la sovrana si incupì appena.
Luigi osservava la scena ascoltando tutto e appuntandosi mentalmente tutto ciò che capiva e Ian provò un brivido involontario per ciò.
Un occhio di falco reale, forse?, si ritrovò a chiedersi, O una volpe astuta come i suoi predecessori?
Il re aiutò la madre a scendere da cavallo ed ella si avvicinò a Daniel con espressione dispiaciuta.
“Mi spiace.” mormorò, “Ho saputo che avete avuto gravi problemi. Spero che vostra figlia stia meglio.”
Daniel lanciò un’occhiata rapida ad Isabeau che sorrideva e la nobildonna, apparentemente in modo casuale, si spostò appena davanti a Jodie e Alexandra, indicando protezione, ma annuì appena.
Daniel tornò a rivolgere la sua attenzione alla sovrana.
“Sono onorato della vostra preoccupazione e vi ringrazio, mia figlia sta meglio... e mi ha accompagnato qui...”
Bianca di Castiglia sgranò gli occhi e lo stesso fecero molti cavalieri alle sue spalle, senz’altro stupiti della presenza della figlia di Monsieur Daniel al castello.
L’americano arrischiò un’occhiata a quei volti e vi riconobbe quelli di Henri de Bar, gelido come sempre; Henri de Grandprè, sorridente e placido; Etienne de Sancerre, leggermente imbronciato per l’attenzione smaniosa della moglie nei confronti dei compatrioti; e Geoffrey Martewall, imperscrutabile ma con un sopracciglio alzato a indicare che la situazione pareva inaspettata anche a lui.
“Mi prendete di sorpresa, monsieur!” esclamò la sovrana, “Non pensavo l’aveste portata con voi!”
Daniel si sentì insicuro nella risposta ed Ian intervenne.
“Vostra Maestà, voi stessa mia avevate detto che avreste gradito conoscerla e così, quando monsieur Daniel è tornato, ho insistito perché restassero miei ospiti.”
“Avete fatto benissimo!” intervenne Luigi con un sorriso prima di riferirsi a Daniel, “Ammetto di non aver capito subito chi foste pur avendo sentito spesso parlare di voi.”
Daniel sgranò gli occhi.
“Di me, mio sire?” osò chiedere sorpreso.
Luigi rise.
“Certo! Il cavaliere che salvò mio nonno a Bouvines! Di voi mi è stato detto che siete sempre stato uno dei vassalli più fedeli, sia nei confronti della corona sia del vostro signore.” replicò, “Allora, possiamo conoscere questa dama?”
Daniel allargò un braccio indicando Isabeau che si spostò per lasciar spazio a Jodie.
“Vostra Maestà, voi non conoscete mia moglie, madame Jodie.” disse al giovane presentando la donna che si inchinò.
Bianca si fece attenta.
“Neanche io ricordo d’aver mai conosciuto questa dama.” commentò.
Ian intervenne ancora.
“Quando Daniel iniziò a servire vostro suocero, madame Jodie era ancora la promessa sposa di Daniel e la dama di compagnia di mia moglie. Lei fu riportata in patria dopo la guerra e non tornò più qui: nemmeno vostro marito la conobbe.”
Bianca sembrò soddisfatta dalla spiegazione e continuò ad osservare la donna.
“Senz’altro avete scelto una bella sposa, monsieur Daniel.” disse poi, soddisfatta.
Daniel annuì e Jodie ringraziò la regina per il complimento, lieta in cuor suo di conoscere finalmente una donna influente nel medioevo.
Allora, silenziosa ma a testa alta, Alexandra fece un passetto in avanti portandosi quasi al fianco della madre e, fissando il vuoto davanti a sé, si aggrappò al suo braccio, leggermente confusa dalle voci nuove e dal rumore dei molti cavalli.
Bianca osservò confusa la ragazza e lanciò un’occhiata sorpresa ad Ian che si irrigidì e guardò, a sua volta, Daniel.
Prima però che l’americano potesse parlare, Alex fece un inchino profondo alla sovrana e si raddrizzò continuando a non guardarla.
“Perdonatemi se oso parlarvi prima che vi siate rivolta a me ma comprendo che mio padre sia in imbarazzo a causa mia…” azzardò esitando più volte, indecisa su come proseguire.
Bianca sembrava ancora confusa dal suo sguardo che la evitava ma le sorrise e le parlò con dolcezza.
“E cosa causerebbe l’imbarazzo di vostro padre?” chiese teneramente.
“Il dovervi spiegare la mia cecità.” rispose lapidaria la ragazza trovando la sovrana dopo averla sentita parlare e puntandole addosso i suoi occhi vitrei.
La donna sembrò sorpresa e si portò una mano al petto mentre, alle sue spalle, si sollevava un leggero brusio.
Alexandra si accorse dello sgomento dei presenti così sorrise alla regina e distolse il suo sguardo per puntarlo di nuovo sul nulla.
“Perdonatemi, mia signora. Spero di non avervi turbata…” azzardò.
La regina Bianca scosse la testa poi si accorse di quanto inutile fosse il suo gesto.
“Non preoccupatevi, Mademoiselle, mi avete soltanto sorpresa. E qual è il vostro nome?” chiese.
“Alexandra Freeland, Vostra Altezza.” rispose inchinandosi ancora.
“Uno splendido nome.” commentò Luigi riprendendosi dalla sorpresa, “Spero che il viaggio sin qui non sia stato troppo duro per voi.”
Alexandra non riconobbe il re e gli sorrise con calore.
“L’incidente che mi portò via la vista avvenne due anni or sono: non preoccupatevi per me.” rispose.
Luigi fece un sorrisetto notando che la giovane non aveva idea di con chi stesse parlando e fermò Daniel che stava per farlo notare alla figlia.
“Spero che questa sera sarete presente al banchetto.” continuò il sovrano.
“Sarò presente ma temo non danzerò: i vostri usi mi sono ancora sconosciuti in alcuni ambiti.” rispose la giovine sorridendo.
“Mademoiselle Freeland è molto umile.” intervenne Isabeau con un sorriso radioso, “Conosce alcune danze e si è subito affrettata a chiedere che le venissero insegnate le altre quindi sono certa che sarà una ballerina provetta, questa sera.”
“Bene!” rispose gioviale il re, “Ora scusatemi ma devo salutare anche gli amici di vecchia data!”
Alexandra fece un piccolo inchino e si ritirò con lentezza dietro la madre mentre il re salutava Marc e Michel ma il primo dei due fissava di sottecchi la giovane americana, imbarazzato dall’idea che lei non sapesse di aver parlato con il re.
Dopo i convenevoli, Luigi e Bianca furono scortati da Guillaume nelle loro stanze mentre il cadetto Jean Marc si occupava degli altri ospiti. Daniel si ritrovò ben presto reclamato: Donna lo abbracciò con forza prima di correre da Jodie e, uno dopo l’altro, anche i feudatari amici di Jean lo salutarono caldamente.
“Siete davvero abile nell’apparire quando me se lo si aspetti.” commentò Martewall sarcastico.
Alex sentì il padre rispondere ai saluti e assimilò le voci anche del conte Henri de Grandprè, Henri De Bar ed Etienne De Sancerre.
Ian si trattenne un istante a salutare Thibault De Chailly, rimasto a Parigi per poterlo aggiornare sugli avvenimenti, poi raggiunse gli amici.
“Jean!” esclamò Etienne, “Non ci avevi informato di questa sorpresa!”
“Non ne ero informato nemmeno io!” replicò ridendo il conte cadetto.
“Ma in fondo l’importante e che siano qui, no?” intervenne Isabeau affiancandosi al marito, ora che il confronto con i reali era terminato.
Marc e Michel si spostarono accanto ai figli dei feudatari che li accolsero sorridenti: Matilde de Sancerre li salutò riservando uno sguardo radioso al secondo dei due da sotto la lunga chioma rosso fuoco; Laurent de Bar, biondissimo e dagli occhi chiari come il padre, lanciò a Marc un’occhiata disperata per l’inizio della giornata mondana cui il giovane rispose altrettanto spaventato; Robert de Grandprè, unico presente dei cinque figli di Henri de Grandprè, il primogenito e ma anche, come il padre, il più giovane dei ragazzi presenti con i suoi diciassette anni, si guardava attorno con malcelata apprensione; Harald e Petra Martewall, entrambi dagli occhi verdi come la madre e con i capelli castani del padre, stavano l’uno accanto all’altra ma erano decisamente a loro agio essendo cresciuti come inglesi filofrancesi. I giovani restavano in gruppo e parlavano a bassa voce osservando attentamente il gruppo di adulti.
“Marc, non ci presenti la tua ospite?” chiese Laurent notando che Alexandra se ne stava dietro la madre ascoltando tutto ma non osava avvicinarsi al gruppetto dei giovani nobili.
La ragazza, a quelle parole, si voltò verso di lui con sorpresa.
“Parlate di me, monsieur De Bar?” chiese confusa.
Il giovane de Bar sgranò gli occhi per la rapidità con cui lei lo aveva trovato e riconosciuto e Marc rise.
“Ancora non hai visto nulla!” scherzò.
“Neanche tu, se è per questo!” si intromise Ian sorridendo sornione.
Marc arrossì, tra le risate generali.





*Dammit! / Dannazione!
**Mais...? / Ma...?

Lo so, lo so, fa schifo...
Bianca e Luigi saranno sovrani un po' così, purtroppo o per fortuna... Tra poco la Regina si eclisserà ma Luigi, che resterà quasi fino alla fine, sarà sempre un sovrano un po' particolare... Un po' OOC, devo dirlo subito...
Che dire? Perdonatemi!
A presto!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 10
*** Una stella bellissima ***







10. Una stella bellissima

 
“Aiuto!” esclamò Alex, “Stanno tentando di uccidermi!”
Jodie sbuffò e strinse ancora un po’ il corsetto.
“Non dire stupidaggini!” sbottò, “E trattieni il fiato! Pensa a Isabeau che se lo deve mettere ogni giorno!”
“Piuttosto all’Inferno!” decretò Alex ma poi trattenne il respiro e strinse con più forza il bordo della finestra alla quale si reggeva mentre la madre la aiutava a indossare il vestito medioevale.
A conti fatti, il corsetto non era nemmeno molto stretto, anzi era molto più largo di quanto avesse osato sperare e non aveva alcun rinforzo come invece aveva temuto, e la ragazza avrebbe potuto benissimo vestirsi da sola ma, in fondo, entrambe le Freeland si stavano divertendo troppo per tornare alla serietà.
Alex scoppiò a ridere non appena tutti i lacci furono chiusi.
Jodie sorrise.
Era felice che la figlia si stesse ambientando, che stesse ridendo e che fosse felice almeno per un po’.
“Pronta per il ballo alla corte di Francia?” disse seria.
Alex sorrise poi si accarezzò piano la gonna lunga e sospirò.
“Non sono più abituata ad abiti belli.” sussurrò, “Non ho più fatto tanto caso a cosa indossavo e come mi stava da quando sono diventata cieca, e l’ultima volta che ho indossato un vestito era la sera dell’incidente…”
Jodie tornò seria di colpo e fece per avvicinarsi alla figlia ma quella la fermò con una mano.
“Pensavo che sarebbe stata più dura, invece non mi dà fastidio.” commentò poi un sorriso le comparve sul viso, “Sono solo emozionatissima!”
Jodie rise e prese le mani della figlia tra le sue, la guardò un istante poi annuì.
“Beh, credimi: il tuo è un ritorno in grande stile!”
Se Alex si fosse potuta vedere, si sarebbe messa a piangere dalla commozione: i capelli biondi erano stati lasciati quasi del tutto sciolti con la sola eccezione di due piccole trecce che le partivano dalle tempie e si riunivano insieme dietro la nuca da dove poi si scioglievano e si confondevano con il resto della chioma, poco sopra la fronte erano state intrecciate perle e filamenti d’argento come fossero un piccolo diadema, l’abito che indossava era di un azzurro pallido, quasi gessato, con alamari argentati ricamati su tutto il corsetto e fili d’argento, pizzo bianco e addirittura perle lungo la gonna, le maniche lunghe le arrivavano fino ai polsi e la scollatura sul petto era casta e a forma di goccia, quel tanto che bastava per mostrare una piccola collana a filo sempre di candide perle che le davano un aspetto elegante.
Era bellissima.
Jodie si cancellò rapidamente le lacrime dal viso. Era anche lei vestita in modo elegante e indossava un abito quasi del tutto identico a quello che aveva al suo primo ballo nel medioevo: verde chiaro con decorazioni d’argento sul bustino e fili d’argento intrecciati in tutti i capelli.
Le due donne si sorrisero reciprocamente poi la madre prese a braccetto la figlia.
“Pronta?” le chiese.
“Neanche un po’!” rispose Alex sorridente e le due uscirono dai loro appartamenti.
 
***
 
Come di consueto, gli uomini già si trovavano nel salone così Alex e Jodie raggiunsero Isabeau e le altre dama dietro i portoni che portavano alla sala.
La contessa sorrise loro con calore e si avvicinò, fece i complimenti a Jodie ma, quando vide Alex, rimase senza parole.
“Mademoiselle, state attenta a non far invaghire di voi qualche cavaliere già questa sera!” scherzò.
Alex arrossì e, prima che potesse fermarlo, un piccolo pensiero, innocente, le si infilò nella testa.
La ragazza scosse la testa con forza e tornò a rivolgere la sua attenzione alle donne presenti.
Tra le altre, sentì i passi di due fanciulle venirle incontro.
Matilde de Sancerre vestiva uno splendido abito rosso fuoco con ricami in oro che richiamavano i colori araldici del suo casato e mettevano in risalto la chioma ramata ereditata dalla madre e decorata, per l’occasione, con filamenti d’oro e frammenti di pietre rosse che, probabilmente, erano veri rubini.
La seconda giovane era l’altera Petra Martewall: la ragazza mostrava una chioma castana racchiusa in una treccia folta che le arrivava ben fino alla vita e nella quale erano stati inseriti con maestria piccoli spilli con perle sulla sommità che richiamavano il colore dell’abito, bianco come la neve e decisamente in contrasto con il blasone nobiliare della giovane che, con gli occhi verdi della madre, si guardava intorno attentamente mentre tormentava la collana di anelli d’argento che portava al collo.
Le ragazze, ben strette l’una all’altra, si accostarono ad Alex e intavolarono con lei una conversazione mentre Jodie e Isabeau si intrattenevano con Lucrecia, Brianna e Cécile.
“Mademoiselle, siamo davvero felici di vedervi!” esordì caldamente Matilde de Sancerre, di temperamento uguale a quello del padre.
“Per me è un onore!” replicò Alex sorridendo.
Matilde scacciò la sua affermazione con un gesto della mano.
“Non ditelo nemmeno, mademoiselle!” replicò, “L’amicizia tra i nostri casati, può benissimo rivelarsi amicizia tra noi!”
“Le gesta di vostro padre sono ancora ricordate, al castello di mio padre…” intervenne la giovane Petra rivolgendosi ad Alex in inglese, con il perfetto accento che rivelava le sue origini di pura anglosassone, “Ancora non riesce a spiegarsi la sua abilità!”
Alex sorrise e fece un piccolo inchino.
“Vi ringrazio, baronessa…” commentò, “Anche mio padre mi ha parlato con rispetto della vostra famiglia…”
La ragazza inglese annuì.
Le due ragazze non si dissero altro ma si sorrisero, complici e, chissà perché, consapevoli di una strana affinità.
“I’m sure we’ll become great friends…*” commentò Alexandra accennando un inchino.
Petrasorrise.
“I hope it too!**” rispose ridendo.
“And I hope you’ll speak French***!” escalmò Matilde all’improvviso, “Conosco la lingua anglosassone ma non abbastanza da stare al passo con due madrelingua come voi!”
Alex sgranò gli occhi ma poi ricordò che la madre della ragazza era Donna e si aprì in un sorriso.
“Avete ragione, perdonateci…”
“Oh, lasciate perdere questa testona.” commentò Petra con il chiaro intento di stuzzicare l’amica francese, “Abbaia, abbaia ma poi non morde!”
“Vuoi provare?” commentò acida la giovane De Sancerre facendo scoppiare a ridere la giovane Alex, sorpresa dalla confidenza delle due.
Le porte, in quel momento, cigolarono rivelando alla giovane che il momento del debutto in società era ormai giunto.
Alex si irrigidì e la sua espressione fu di un terrore tale che le due ragazze davanti a lei non faticarono a comprenderla.
“State tranquilla…” sussurrò Petra mettendosi al suo fianco e posandole una mano sulla spalla, “Per noi ragazze non è mai molto difficile: all’inizio verrete guardata un po’, vi faranno qualche complimento ma poi l’unica cosa che vi verrà chiesta, in realtà, sarà se avete voglio di danzare… Sono i maschi che temono questo momento!”
“Perché?” osò chiedere lei.
“Il perché lo vedrete, loro sono davvero sotto esame…” commentò Petra con un sospiro.
“Ma voi non preoccupatevi!” esclamò Matilde mettendosi all’altro lato dell’americana, “Ci penseremo noi ad aiutarvi! E a far cadere tra le vostre braccia il vostro cavaliere…”
Alex arrossì.
“Mademoiselle!” esclamò ma poi non seppe dire altro e la giovane francese scoppiò a ridere.
“Allora davvero qualcuno vi ha fatta innamorare!” sussurrò la ragazza aiutando Alex a incrociare le mani davanti a sé e facendole vedere come sollevare la gonna per scendere la scala, “State tranquilla: il mio era solo uno scherzo. Ma sono contenta per voi!”
In quel momento fu il turno delle tre giovani di entrare e non ci fu più tempo per altri consigli: Alex si ritrovò all’improvviso davanti alla corte di Francia.
 
***
 
“Mademoiselle, l’azzurro vi dona particolarmente…”
Alex sorrise e chinò il capo.
“Vi ringrazio, lady Brianna…” rispose educata.
Sembrava essere cominciato un gioco, tra le dame, e Alex stesse tentando di indovinare l’identità di chi le si rivolgeva solo ascoltandone la voce.
Isabeau rise piano al suo fianco poi prese in mano la conversazione.
“Come sta Beau, Brianna?” chiese, “Ormai è passato molto tempo dall’ultima volta che l’ho visto…”
Brianna sospirò.
“Lo sai bene com’è fatto, Isabeau: è selvatico dentro… La corte e la vita al castello non facevano per lui…” spiegò, “È comandante di alcune truppe di ventura e adesso è con loro, nel sud del feudo, per controllare i confini…”
Alex era sorpresa ma rimase impassibile.
Dalla descrizione che le era stata fatta di Beau Foxworth, l’ultima cosa che si aspettava era che il ragazzo sarebbe diventato mercenario.
Il chiacchierare delle dame e quello degli uomini erano diversi ma, fortunatamente, nessuno parlava di pericoli e cose varie: l’argomento più affrontato era, ovviamente, il matrimonio reale.
Alex sorrideva, rideva, veniva richiesta ora qui e ora lì, parlava con cavalieri e dame e i giovani De Ponthieu si premuravano che non avesse nulla di cui preoccuparsi. Marc, ad esempio, era sempre accanto a lei e le porgeva il braccio ogni volta che doveva spostarsi, per aiutarla.
Alex lo ringraziava, lo ascoltava e rispondeva alle sue domande ma arrivava sempre qualcuno a reclamarla prima che lui si azzardasse a chiederle di ballare. E lei moriva dalla voglia di ballare!
Alla fine, si ritrovò al braccio di Marc che la accompagnava da suo padre.
Alex si spostò subito per reggersi a suo padre e non dare ai cavalieri un’idea sbagliata del suo rapporto con il giovane conte ma Etienne de Sancerre non si lasciò sfuggire l’occasione.
“E bravo il nostro Marc!” esclamò soddisfatto, “Guardate com’è solerte nell’aiutare dama Freeland!”
Marc non rispose ma tutti i presenti si misero a ridere.
Alex si protese verso l’orecchio di suo padre.
“Cos’è successo?” chiese in inglese.
“Niente, tranquilla…” rispose Daniel e avrebbe anche spiegato alla giovane figlia il rossore del conte Marc ma, quando fu sul punto di aggiungere quel dettaglio divertente, si ammutolì.
Alex lo sentì inchinarsi mentre qualcuno si avvicinava al gruppo, ascoltò la cadenza dei passi e sorrise poi si inchinò a sua volta.
Luigi sorrise nel vedere la ragazza ma prima si dedicò a salutare tutti i presenti. Quando ebbe scambiato convenevoli con i Messieurs De Ponthieu, i De Sancerre, De Bar e De Grandprè e con Sir Martewall, si rivolse a Sir Freeland.
“Monsieur,” esordì, “le danze stanno per iniziare e la mia promessa arriverà solo domani: visto il colore dell’abito di vostra figlia, vorrei chiedere il permesso di invitarla a danzare…”
Alex sentì la terra crollarle sotto i piedi.
Lei…lei doveva ballare con Marc! Gliel’aveva promesso! Lui le aveva anche insegnato a danzare! Non poteva abbandonarlo per ballare con un altro! Tanto più che Luigi e Marc erano grandi amici: sarebbe stato davvero orrendo!
Marc che era lì accanto a lei e che non parlava né si muoveva…
Marc, io…, Alex cercò di pensare a cosa dirgli ma non trovava niente.
Daniel percepì la presa della figlia sul braccio stringersi e ne rimase davvero sorpreso.
“Sire, non sono io a dovervi rispondere.” replicò cauto, “Chiedete a lei se lo desidera…”
Luigi annuì come se quella fosse esattamente la risposta che si aspettava.
“Avete ragione… Dunque, Mademoiselle, mi fareste l’onore di danzare con me?”
Alex si strinse ancora di più al padre ma sollevò la testa e rispose.
“Vostra Maestà, voi mi onorate, e ve lo dico dal profondo del cuore,…”
Mentre Alex parlava, Marc chiuse gli occhi cercando di trattenere un sospiro: ed ecco che Luigi, il suo amico Re di Francia, si prendeva anche l’unica ragazza che gli fosse mai interessata.
Aprì gli occhi e vide gli sguardi di suo zio e di suo padre fissi sul suo viso perciò rimase imperscrutabile e si costrinse a restare immobile mentre ringraziava mentalmente l’integrità insegnatagli da Guillaume: un po’ meno di forza di volontà e sarebbe scappato da lì di corsa.
Che figura: e lui aveva davvero pensato di invitare Alexandra Freeland?! Era ovvio che Luigi avrebbe chiesto lei come dama -una dama che non sarebbe rimasta sempre a corte ma che sarebbe partita dopo poco così da non alimentare dicerie visto il matrimonio imminente- specialmente con l’abito blu che ben si abbinava al colore del blasone del re, non solo al suo…
Come poteva Alexandra voler rinunciare all’occasione di danzare con Sua Maestà in persona? Come poteva rifiutare un invito da parte del re?
“… ma devo rifiutare.”
Così.
Marc guardò sbalordito il viso di Alexandra, imperturbabile accanto a lui, prima di potersi fermare ma il suo gesto passò inosservato perché tutti avevano reagito esattamente come lui.
La ragazza arrossì nel percepire gli sguardi puntati su di lei.
“Lasciatemi spiegare!” implorò con tono dolce, “Sarebbe un onore, e già ve l’ho detto, ma, davvero, la correttezza me lo impedisce.”
Luigi non si scompose né se la prese.
“E sarei sfacciato a chiedervi perché?” chiese soltanto, il sorriso di nuovo sulle labbra.
Alex, percependo il suo tono di voce di nuovo gioviale, sorrise pur arrossendo ancora.
“Mio signore, ho già accettato l’invito a danzare di un altro cavaliere: voi capite che sarebbe davvero scorretto, da parte mia, rimangiarmi la parola per danzare con voi. Spero mi comprendiate!” mormorò.
Luigi parve fiutare il suo imbarazzo.
“Mademoiselle,” esordì ghignando, “almeno ditemi il nome del fortunato che è entrato nelle vostre grazie così che possa complimentarmi con lui…”
Alex arrossì e chinò il capo ma aprì la bocca.
“…o sfidarlo a duello per voi!” rise Luigi.
Alex, presa dall’ansia, sollevò di scatto la testa, tutt’a un tratto pallida.
“Mio signore!” esclamò sconvolta ma prima che potesse dire altro fu Marc a fermarla.
“Mademoiselle, il re scherza.” le disse con voce calma, imponendosi il sorriso sulle labbra.
Alex si tranquillizzò e arrossì al pensiero della figura appena fatta.
“Il giovane De Ponthieu ha preso davvero a cuore le emozioni di Dama Freeland…” commentò Henri de Grandprè con finta innocenza.
“Marc!” esclamò Luigi all’improvviso, “Non mi dirai che sei tu ad aver conquistato Dama Alexandra per questa sera!”
Alex non disse niente ma attese, chiedendosi se non avesse messo Marc in una posizione difficile con il suo rifiuto al re.
Sarei dovuta stare zitta, forse…, si disse mordendosi la lingua.
Marc sorrise placido, assomigliando in modo inquietante a suo padre.
“Se è ciò che preferite, Maestà, non ve lo dirò…” replicò calmo, “Tuttavia, temo sia così: ho incontrato mademoiselle Alexandra questo pomeriggio mentre danzava con mia madre e madame Jodie e le ho chiesto di essere la mia dama per la serata.”
Non appena richiuse la bocca, Marc si chiese se fosse stato sgarbato ma la felicità per la scelta di Alexandra gli aveva fatto mettere da parte l’etichetta in favore della sincerità.
“Bene!” esclamò Luigi, assolutamente a suo agio, “Peggio per me che non sono stato così astuto! Sembra proprio che i Falchi ancora riescano a superare le volpi… Però, se tu me lo permetti amico mio, oserei chiedere a Dama Alexandra un ballo solo.”
Marc si inchinò.
“Non ho alcun diritto di decidere per mademoiselle Freeland!” replicò, “Se ella e suo padre saranno d’accordo, non sarò certo io ad oppormi.”
Luigi rivolse di nuovo la sua attenzione ad Alexandra.
“Allora, mademoiselle?” chiese, “Ora che abbiamo la benedizione del vostro cavaliere, posso sperare nella vostra approvazione?”
Alexandra sorrise.
“Come rifiutare?” chiese sorridente.
 
***
 
Tra le braccia del re, Alex scoprì di aver imparato a danzare meglio di quanto avesse creduto, soprattutto grazie a Marc.
“Mademoiselle Alexandra…”
Il re, fortunatamente, interruppe i suoi pensieri e Alex gli dedicò tutta la sua attenzione.
“Siete bellissima… Davvero invidio Marc che oggi avrà le vostre attenzioni.” continuò il sovrano.
Alex sorrise.
Luigi era solo un ragazzo, come tutti gli altri alla sua età: insicuro, confuso e incerto del proprio futuro. Era solo un diciannovenne spaventato dall’idea di dover sposare una donna mai vista prima.
“Mio sire, per quel poco che ho sentito, voi non mi fate sfigurare!” scherzò.
Le parve di sentire una mezza risata venire da Luigi ma era talmente bassa che non ne poté essere certa, con la musica e il parlare della gente. All’improvviso le parve che il sovrano si fosse irrigidito ma poi egli riprese a danzare come nulla fosse.
“Sta succedendo qualcosa?” chiese la ragazza, suo malgrado ansiosa.
Luigi si affrettò a tranquillizzarla.
“Non angosciatevi, mademoiselle: solo una guardia che mi ha ricordato di una questione politica.” ammise, cupo, “Domani dovrò dare udienza ad un traditore…”
Alex prese un’espressione sorpresa ma cercò di nascondere il turbamento.
Che abbia a che fare con il ritardo del matrimonio?
“Un traditore, mio sire?” chiese con sincera curiosità, “Credevo fossimo in tempo di pace.”
Luigi annuì, Alex lo sentì chiaramente.
“Sì, vedete si tratta di un uomo che tradì anni fa, prima ancora della mia e vostra nascita. Accadde sotto il regno di mio nonno quindi capite che non dovete preoccuparvi.” spiegò con calma.
Continuarono a danzare per un po’ poi, quando di nuovo dama e cavaliere poterono ballare lontano dalle altre coppie come previsto dalla danza, il re sospirò.
“Immagino vi vergogniate a danzare con me.” sussurrò, così piano che Alex si chiese se lo avesse detto davvero.
Il silenzio imbarazzato del sovrano fu un sì alla sua domanda.
“Sire!” esclamò Alex sconvolta, “Cosa vi porta a dire una cosa simile?!”
Luigi esitò prima di rispondere ma poi lo fece con un’altra domanda.
“Voi sapete che sto per sposarmi?” chiese, serio.
Alex annuì.
“E sapete chi sarà la mia sposa? Sapete com’è?” continuò il sovrano.
Alex scosse la testa, troppo confusa per rispondere.
“Ed ecco spiegato perché non provate ribrezzo nei miei confronti.” sospirò Luigi, “Credetemi, io stesso mi vergogno del gesto che sto per compiere.”
Alexandra rimase in silenzio per un attimo, dilaniata tra la curiosità e la decenza.
Alla fine prevalse l’ultima.
“Mio signore,” esordì esitante, cercando le parole migliori per spiegarsi, “io non sono di questa terra. Le vostre usanze, per la maggior parte, mi sono sconosciute e non posso dire di sapere da popolana come abbiate governato sin ora. Però, e vi avverto ch’io non ho peli sulla lingua, ho sentito la deferenza e il sincero rispetto che il vostro popolo vi tributa, ho sentito mio padre parlarmi con ammirazione dell’acume di vostro padre e descrivermi più e più volte la correttezza e l’integrità di vostro nonno in guerra e vi assicuro che tutti coloro che ho incontrato, dal primo all’ultimo, mi hanno detto che voi siete alla loro altezza. Non so di cosa parliate ma, francamente, nemmeno lo voglio sapere: il vostro matrimonio è combinato, quindi non penso che voi abbiate le colpe di qualsiasi sia il fatto orribile ad esso legato.”
Luigi rimase in silenzio ma Alexandra era sicura di non averlo convinto.
La danza finì e il sovrano si inchinò ma, nel rialzarsi, sussurrò all’orecchio di Alex: “Siete una donna speciale, Milady.”
Detto questo, il sovrano le prese con delicatezza il braccio e la condusse con maestria verso quello che lei dedusse essere un angolo del salone, accanto alla finestra.
“Marc, ti restituisco la tua dama.” esordì il sovrano e dal tono Alex intuì che avesse recuperato tutta la sua allegria.
La ragazza arrossì capendo che il sovrano l’aveva riportata dal suo cavaliere.
Marc si inchinò ma non riuscì a dire nulla: i suoi occhi erano fissi sul volto di Alexandra. In quell’angolo più scuro, con la notte ormai calata, la luce delle torce giocava con i tratti della ragazza mettendo in evidenza ora le piccole lentiggini dorate, ora gli occhi verdi come smeraldi, ora la pelle di porcellana, ora le labbra…
“Milady, permettetemi di parlare un secondo con il vostro cavaliere.” sentì dire da Luigi e sobbalzò.
Le labbra di Alex, dalle quali lui non era riuscito a togliere lo sguardo per molto tempo, si aprirono in un sorriso dolcissimo che gli fermò il cuore.
“Sire, non vi starete impegnando a impedirci di ballare, vero? Prima portate via me e ora prendete per voi il mio cavaliere!” scherzò la ragazza.
Marc osservò Luigi ridere. Nessuno osava parlare così al Re, non era permesso, e lui sapeva bene che il giovane sovrano avrebbe avuto da ridire con chiunque. Non con Alexandra però, a quanto pare.
“Vi prometto che ve lo renderò tra un istante!” assicurò il sovrano così Alex si inchinò e indietreggiò di un paio di passi per poi voltarsi verso la pista da ballo, come se la vedesse.
Marc la osservò iniziare a battere delicatamente le mani a tempo con la musica poi si voltò di scatto verso la finestra per guardare il cielo e cercare di calmarsi. Nessuna donna lo aveva mai ridotto così, nei confronti di nessuna si era sentito così inutile e inferiore. Cosa gli aveva fatto Dama Freeland? Perché al suo fianco tutti i dubbi tornavano ad aggredirlo?
Il giovane conte, dopo averla guardata ballare e ridere tra le braccia del re e dopo essersi reso conto della strana rabbia che sentiva nei confronti dell’amico, si era nascosto nell’angolo sperando di non essere notato da nessuno e di poter così trovare un po’ di pace per il cuore ma il cielo notturno non aveva fatto altro che ricordargli il brillare degli occhi di lei e la stoffa del suo abito, stranamente della stessa tonalità del suo anche se Sir Daniel Freeland e sua moglie avevano vestito di verde. Con un sospiro, tornò a fissare la notte fuori dal castello.
“Smettila di ammirare le stelle del cielo, che sono troppo lontane per essere afferrate!”
Marc sussultò e si voltò.
Luigi, al suo fianco, era serio come non l’aveva mai visto prima eppure il tono con cui aveva parlato lasciava intendere il profondo affetto che nutriva per l’amico d’infanzia.
“Ci sono stelle bellissime anche sulla Terra” continuò Luigi mettendogli una mano su una spalla e costringendolo a guardare verso Dama Alexandra, “ma tu, chiuso nel tuo bozzolo di domande, non ti rendi conto che una di loro non si è limitata a passare al tuo fianco ma si è fermata davanti a te e ora aspetta che tu faccia la tua mossa. E forse potrebbe dissipare alcuni dei tuoi dubbi.”
Marc deglutì.
“E da dove vengono queste belle parole?” chiese, esitante, ma sforzandosi di sorridere pur senza riuscire a girarsi verso l’amico.
Luigi sorrise, molto più sinceramente di lui.
“Ho danzato con lei e l’ho vista rifiutare il mio invito, l’invito del Re!, per te!” spiegò con calma, “Forse sei rimasto l’unico a non capire.”
Marc si voltò per chiedere che cosa non avesse capito che però era palese a tutti ma il sovrano si stava già allontanando verso la Regina Madre.
Il giovane conte di Ponthieu si voltò di nuovo verso Dama Freeland, sempre immobile nello stesso punto, e si diede dell’idiota per averla fatta aspettare così tanto. Le si accostò piano, indeciso su cosa dire e come farle capire di essere arrivato senza farla spaventare.
“Siete sempre così premuroso con tutti?” lo prevenne però lei, sorridendo ancora di più.
Marc si concesse un sorriso, e un istante per osservare i suoi occhi scintillare, prima di rispondere con la sincerità più assoluta.
“Non proprio.” disse piano osando prenderle la mano per guidarla al proprio braccio, “Solamente con voi.”
Alexandra non parve affatto turbata dal suo gesto così Marc lasciò la propria mano sinistra su quella della giovane, ora appoggiata al suo braccio destro, e la guidò verso la pista.
“Desiderate ballare?” le chiese, incerto.
“Non proprio. Solamente con voi.” rispose Alexandra, sempre più sorridente.
La risposta e la gioia palese della sua compagna, contagiarono il conte che sorrise a sua volta. Portò Alex al centro della pista e insieme danzarono senza riuscire a fermarsi. Risero e parlarono, sottovoce, durante le danze ed entrambi si dissero soddisfatti quando, a sorpresa, anche il giovane Michel si presentò alle danze accompagnato dalla giovane De Sancerre.
“Era ora!” commentò piano Alexandra.
Marc rimase sorpreso.
“Come fate a sapere che mio fratello ha simpatie per la giovane contessa?” chiese piano alla sua dama.
Alex parve ancora più sorpresa di lui.
“Ma io non lo so.” replicò poi sorrise entusiasta prima di spiegare, “Io so che Matilde ha simpatie per vostro fratello.”
Marc sorrise a sua volta.
“Forse uno dei due De Ponthieu si sposerà, finalmente.” commentò.
“E l’altro?” chiese Alex, “Proprio non esiste dama che attiri le sue simpatie? Deve pretendere proprio tanto!”
Sul momento, Marc arrossì ma poi vide lo sguardo malizioso che accompagnava il sorriso di Alexandra e capì che la giovane stava scherzando.
“Chissà…” rispose, evasivo.
Alexandra scoppiò a ridere e Marc non riuscì a trattenersi dal pensare che Luigi aveva ragione: era come una stella, bellissima e preziosa.
Ma anche effimera…, ricordò a se stesso.
Entro poco sarebbe tornata a casa sua, nelle isole oltre la Scozia, e lui non avrebbe più potuto vederla: aveva poco tempo da passare con lei.
Marc la osservò continuare a ridere, senza motivo, stringendolo più forte tra le sue mani, e si sentì invincibile come mai prima. Sentì che tutti i suoi dubbi e le ombre che stavano nel suo passato fuggivano tentando di nascondersi, a cospetto della luminosità di lei. Era una stella che brillava per mettere in fuga i fantasmi del suo passato sconosciuto. Era la sua stella, in un certo senso. Gli restava poco tempo per godere della sua compagnia, della sua dolcezza e della sua intelligenza.
O per convincerla a restare…, si disse mentre, a sua volta, la stringeva più forte a sé.
E gli parve quasi di vedere il sorriso di lei allargarsi ancora di più prima che, come previsto dalla danza, si allontanasse per ballare con le altre dame.

 
 
 
 
* = I’m sure we’ll became great friends… / Sono certa che diventeremo grandi amiche…
** = I hope it, too / Lo spero anch’io…
*** = And i hope you’ll speak French! / E io spero che parlerete francese!





Lo so, lo so, è parecchio strano...
Credo che dovrò aggiungere OOC agli avvertimenti :)
Tenete d'occhio le nuove amiche di Alex, Donna Junior e Geoffrey al femminile saranno importanti nel prosieguo della storia, più la seconda della prima...
Comunque, ringrazio in anticipo kaze_to_rai, perché so già che troveranno degli errori e mi avvertiranno: grazie mille!
Alla prossima!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 11
*** Tra dubbi e paranoie... ***







13. Tra dubbi e paranoie…

 
Alex prese un respiro profondo, assaporando l’aria fresca della notte, e sorrise.
“Vi ringrazio, ero più provata di quanto credessi.” ammise senza voltarsi verso il suo interlocutore.
Erano sul camminamento più alto del castello, quasi sul soffitto di esso, e lei stava con le mani appoggiate a uno dei merli del parapetto mentre lui la guardava da appoggiato al muro.
Alle sue spalle, alla rispettosa distanza di due passi e con le mani ostinatamente incrociate dietro la schiena, Marc non sorrise. Era ancora troppo preoccupato per farlo: mentre si fermavano un istante, per prendere una tregua dalle danze, Alexandra aveva avuto un giramento di testa, che lei aveva definito con somma disapprovazione del ragazzo lieve, e gli si era accasciata addosso. Lui l’aveva sorretta e in pochi secondi la giovane era stata di nuovo in grado di mantenersi in equilibrio da sé ma lui aveva preferito portarla a prendere un po’ d’aria, lontano dall’odore forte del vino e dal rumore.
“Vi sentite meglio?” chiese il ragazzo.
Alex si voltò esibendo un’espressione imbronciata.
“Chiedetemelo ancora una volta e me ne vado!” dichiarò, riprendendo però il sorriso, “Vi avverto: andrò a ballare con vostro fratello, se non la smettete, e gli racconterò tutte le premure che mi avete riservato!”
Alex sapeva che Michel stava travisando la natura dell’interesse di Marc nei suoi confronti: si conoscevano da due giorni! Quello strano legame tra loro, per quanto lei non riuscisse a capire cosa fosse, non poteva essere amore! Vero? Come poteva lui essersi innamorato di una ragazza qualsiasi come lei?
“No, per carità!” si finse allarmato Marc.
Alex rise e il conte la seguì poco dopo.
La giovane si fermò per godere della risata del suo interlocutore: era rarissimo sentirlo ridere così di cuore, se n’era accorta. Per quanto sempre sorridente e premuroso, Marc sembrava sempre…distante, come se si sentisse a disagio nei propri panni.
Peccato, perché ha una bella risata…, si sorprese a pensare la giovane.
Quando la parte razionale del suo cervello registrò coscientemente il pensiero appena formulato, Alex arrossì.
Marc la osservò, la vide cambiare e passare dalla gioia all’imbarazzo in pochissimo tempo e si chiese cosa l’avesse turbata. Si rese conto di quanto stupida fosse la distanza fisica che si ostinava a tenere tra loro perché da lontano non poteva certo aiutarla. Si avvicinò un po’ a lei e le sfiorò una spalla con la punta delle dita, incerto su come consolarla senza metterla in imbarazzo.
“Stai bene?” le chiese, un istante prima di arrossire.
Stava per scusarsi quando il sorriso di Alex gli mozzò il fiato.
“Mi chiedevo quando ti saresti deciso a darmi del tu, ora che siamo soli…” gli disse, a bassa voce.
La consapevolezza di quella sbagliata vicinanza gli crollò addosso come un macigno facendolo sospirare. Marc si allontanò di un paio di passi dalla ragazza e prese un profondo respiro cercando di calmarsi e ritrovare il sangue freddo ma l’odore di lei, una delicata essenza che gli ricordava l’erba appena tagliata dopo la pioggia, lo aggredì, quasi fisicamente.
“Qual è il vero problema, Marc?”
Il ragazzo sobbalzò, sorpreso, e si voltò di nuovo verso la ragazza.
“Non sono io.” continuò lei, seria, “Il problema è tuo padre.”
“Non c’è niente che non vada in mio padre.” replicò Marc automaticamente per poi pentirsi subito di essere stato sgarbato.
Alex però sorrise.
“Non volevo dire questo.” ribadì con dolcezza, “Voglio dire che c’è qualcosa di strano nel modo in cui parli di lui, solo questo.”
Marc rimase in silenzio a lungo, guardandola, poi gli tornarono in mente le parole di Luigi: E forse potrebbe dissipare alcuni dei tuoi dubbi.
Sospirò ma tornò vicino ad Alexandra.
La ragazza, appoggiata con la schiena ad un merlo, lo sentì posare i gomiti sullo spazio tra lei e la merlatura successiva e non si mosse.
Il silenzio durò a lungo, tanto che lei stava per scusarsi per aver introdotto l’argomento a quel modo, quando Marc parlò.
“Si nota tanto?” si sentì chiedere la ragazza e sorrise dolcemente.
“No.” lo rassicurò, “Ma io sono abituata ad ascoltare con più attenzione degli altri: in fondo, non posso leggere le espressioni dei mie interlocutori.”
Marc annuì, forse più a sé stesso che a lei, poi però iniziò a parlare, senza fermarsi.
“A volte mi chiedo se sia la mia vita, o solo una continuazione della sua.” si lasciò sfuggire, “Il Falco d’argento, l’eroe del re, il perfetto conte cadetto Jean Marc de Ponthieu!”
Alex sentì, nella voce del ragazzo, non tanto la rabbia quanto l’incertezza, la paura di non esaudire tutte le aspettative.
“Perfino il mio nome, è il suo secondo di battesimo.” continuò il conte, “Sono il primogenito, quello che ha studiato da suo fratello, quello che deve combattere per primo, sposarsi per primo, dare un erede per primo!... E io non so se sarò in grado di farlo.”
Alex allungò una mano fino a posarla sulla spalla di lui, a imitazione del suo gesto di prima, e gli rivolse un sorriso dolce.
“Hai mai detto queste cose a lui?” chiese a bruciapelo.
Marc sgranò gli occhi, sorpreso.
“Scherzi, spero!” esclamò, “Ci manca solo! Farei la figura del codardo!”
Alex rise.
“È tuo padre! Non un consesso d’esame!” si lasciò sfuggire per poi mordersi le labbra, conscia dell’errore.
“Non so cosa sia un consesso, ma conosco la sensazione di essere sotto esame.” ammise il ragazzo, senza però fare domande.
Alex gli sorrise, grata.
“Quello che voglio dire è che lui ti vuole bene: non ti ha mai imposto nulla e l’unica cosa che vuole è che tu sia felice.” spiegò, “Se questo è quello che pensi, devi dirglielo e spiegargli che ti senti soffocare nella sua ombra.”
Marc tornò a guardare oltre Chatel-Argent, insicuro: la soluzione di Alexandra gli sembrava troppo semplice per funzionare, e allo stesso tempo si sentiva un idiota per non averci pensato prima.
“Non so come intavolare l’argomento…” commentò.
“Senza giri di parole, sarebbe il modo migliore.” rispose Alex, “Va’ da lui e digli cosa pensi. Conosco tuo padre in modo diverso da come lo conosci tu e vedo quanto bene ti vuole: sta’ sicuro che andrà tutto a posto.”
Marc si raddrizzò per guardarla negli occhi, vitrei, e cercare di capire.
“Cosa c’è?” chiese la ragazza, arrossendo leggermente, nel sentire lo sguardo del conte su di sé.
“Mi chiedo se sei venuta qui per farti aiutare o se l’hai fatto per aiutare me.” rispose lui.
Mentre Alex sorrideva, radiosa, un vento fresco e giocherellone si alzò sul maniero e le scompigliò i capelli finemente acconciati riuscendo a farle sfuggire una ciocca dall’insieme e facendogliela cadere mollemente sul viso.
Marc non pensò, semplicemente quando la vide si raddrizzò, allungò una mano e la rimise dietro l’orecchio di Alex accarezzandole involontariamente la guancia con la punta delle dita. Marc arrossì decisamente più della ragazza ma lei gli fermò la mano con la sua, tenendola premuta sul proprio viso.
Lentamente, il palmo del ragazzo si scaldò a contatto con il viso tiepido di lei e le sue guance lasciarono defluire il sangue.
I due ragazzi rimasero immobili, senza coraggio sufficiente a dire qualcosa.
Marc continuò a fissare gli occhi di Alex, il suo viso sotto le sue dita era morbido e delicato ma anche estremamente fragile: sentiva prepotente il desiderio di proteggerla, da qualsiasi cosa.
Alex rimase immobile stringendo la mano di Marc con la sua, era calda e grande, dura in alcuni punti e temprata dalle armi ma morbida e delicata sul suo viso.
Il silenzio si fece pesante e Alex tornò, piano, in sé: cosa le era balzato in testa per fermarlo in quel gesto? Il valore di quel tocco, che lei aveva cercato per consolare sé stessa e lui, probabilmente aveva una valenza diversa in quel tempo: lui cos’avrebbe pensato di lei ora?, che era una ragazza facile o magari la versione medioevale di un’arrampicatrice sociale? E dire che l’unica cosa che lei stava cercando era la sua approvazione e, con un po’ di fortuna, un po’ d’affetto. Perché lei sapeva di non poter osare a qualcosa di più.
“È sbagliato…” le sfuggì dalle labbra all’improvviso, ma non riuscì a lasciare la mano di lui.
“Perché?” le chiese duramente Marc.
Il suo tono di voce era secco e deciso, come Alex ancora non l’aveva sentito.
“Per quello che ti ho detto di me?” continuò il conte, “Perché pensavi fossi diverso? Credevi fossi il degno figlio di mio padre, e invece no?”
Alex scosse la testa e lasciò la sua mano ma non potè riabbassare la propria perché il giovane fu più rapido e gliela afferrò tirandola fino a posarsela sul petto. Sotto le dita, Alex sentì i muscoli forti di lui e, più sotto ancora ma molto più importante, il suo cuore. La ragazza era sorpresa ma non poteva negare che nel petto di Marc quel muscoletto pestifero avesse aumentato i suoi battiti. Sentì le lacrime salirgli agli occhi ma scosse la testa, cercando di rimanere presente a sé stessa.
“Non è per te!” si lasciò scappare tentando di sfilare la mano da quella del giovane.
Marc la lasciò fare ma non si allontanò di un centimetro.
“E allora per cosa?” chiese, la voce apparentemente dura ma piena di confusione e smarrimento.
“Per me!” urlò la ragazza.
Per un istante tacquero entrambi, aguzzando le orecchie per capire se qualcuno li avesse uditi nonostante la musica e il rumore, ma nessuno venne a disturbarli.
“Per me…” ripeté Alex, “Per me…”
Marc non disse nulla: aveva sempre saputo che stava accelerando troppo i tempi, lo aveva anche detto a Michel, ma non si era saputo trattenere.
“Tu sei perfetto, Marc.” continuò Alex sorprendendolo, “Sono io che non vado bene.”
Il ragazzo sentì un piccolo moto di speranza crescergli nel petto e decise di lasciar perdere l’educazione.
Prese il volto di Alex tra le mani, costringendola a guardarlo, e le sorrise certo che lei avrebbe capito quanto bene le voleva. Un bene che già stava virando all’amore.
“Non è vero, Alexandra…” le sussurrò con dolcezza, “Non dirlo…”
La ragazza invece annuì con violenza tra le sue mani.
“Sì, io…io sono sbagliata…” singhiozzò.
Marc vide una lacrima scendere e la cancellò con un pollice.
“No…” cercò di dire ancora ma Alex disse qualcosa che lo interruppe.
“Non vado bene perché tu sei un conte, forte e gentile, e io sono solo la povera figlia cieca dello scudiero straniero di tuo padre!” pianse la ragazza.
Marc si immobilizzò.
“È questo che pensi?” le sussurrò in faccia, il suo respiro accarezzava dolcemente il viso di lei, “Pensi che mi importi qualcosa questo?”
“Io…” la ragazza esitò.
Marc non era il ragazzo che badava alle apparenze, lei lo sapeva perché lo aveva capito nel momento in cui le aveva chiesto di essere la sua dama quella sera. E in quello stesso momento aveva capito di essere una stupida perché il suo cuore aveva iniziato a fare le capriole al pensiero di poter stare tutta la sera tra le braccia di quel giovane, simpatico e forte eppure così triste e dolce, che era sempre così gentile e premuroso nei suoi confronti.
“Te lo dico io.” la fermò Marc, “Non mi importa. E ad esser sinceri non importa proprio a nessuno: il re in persona ha ballato con te, questo non dovrebbe farti capire che forse sei qualcosa di più della definizione che ti sei data? Che forse vali qualcosa di più, non per chi sei ma per come sei?”
Alex rimase basita dalle parole del conte e non capì più niente.
“Non so cosa dire.” sussurrò.
“Allora senti cosa ti dico io:” la avvertì Marc con tono serio, “sto per baciarti.”
Alex trattenne il fiato in modo istintivo, sconvolta, ma non si ritrasse in alcun modo e attese.
Le labbra di Marc erano secche e con le sue Alex riusciva a sentire alcune parti più lisce che indicavano spaccature rimarginate e segni dovuti ai combattimenti o ai tornei, erano le labbra di un guerriero e avevano il sapore del sangue e della gloria, ma erano anche morbide e delicate sulle sue. C’era qualcosa in quel bacio che faceva sciogliere Alex e al contempo la faceva sentire lusingata. Ci mise un po’ a capire, con la mente confusa, ma poi ci riuscì: erano labbra inesperte al loro primo bacio.
Lei era la prima, la prima di Marc.
Quella certezza mista alle parole che lui le aveva detto prima risvegliò in lei una parte che era stata nel gelo per troppo tempo, al calore del corpo di Marc quel pezzo si svegliò di nuovo e rivisse sotto le mani di lui. Strinse tra le dita le sue spalle, ampie, e poi fece scivolare le mani fra i suoi capelli e glieli afferrò, sentendoli morbidi. Fece aderire il suo corpo a quello di Marc e si beò della sensazione del suo petto solido e ampio contro il proprio minuto e morbido. Si sentì piccola quando le mani di lui, esitando, le si posarono sui fianchi ma poi apprezzò che lui avesse fatto a pezzi le convinzioni del suo tempo per lei.
Poi si accorsero di dov’erano, di chi erano e di quale tempo si trattasse.
Si ritrassero entrambi di scatto, quasi con paura di scoprire cosa sarebbe successo per punire quel loro abbandono momentaneo.
Alex aprì la bocca.
“Perdonami…”
Però fu Marc a parlare per primo. La fanciulla lo sentì e capì che era davvero sconvolto al pensiero del gesto appena compiuto.
Il giovane conte non riusciva a credere a ciò che aveva fatto: aveva profanato le labbra di Alexandra, le aveva rubato una parte della sua verginità, si era preso un pezzo di lei che non aveva il diritto di possedere.
“Io…” non sapeva cosa dire, come scusarsi.
Mentre cercava le parole, Alex gli sorrise ma non lo toccò per non sconvolgerlo di più.
“Nella mia terra si usa così.” sussurrò, decisa ad essere sincera, “Una donna non deve per forza rimanere vergine sino al matrimonio, né deve farlo un uomo. Nessuno è obbligato ad amare una persona sola nella sua vita: io posso innamorarmi di te adesso ma capire poi che tra noi non c’è futuro e andar via, un giorno incontrare un altro uomo e baciare lui e nessuno mi direbbe che sono una donna indegna. Noi siamo molto più libere delle donne di qui.”
Marc la guardò, insicuro.
“Quindi bacerai altri uomini?” chiese.
Alex arrossì.
“Non lo so.” ammise ridendo, “Forse capirò che tu non sei il mio vero amore, l’uomo con cui voglio passare la vita, e cercherò la persona giusta altrove. Ma per ora ti dico di no, perché sento che quella persona potresti essere tu davvero.”
Marc sorrise, un po’ perché si sentiva sollevato ma soprattutto perché Alex gli aveva appena detto che credeva che lui potesse essere l’amore della sua vita.
“Marc.” esordì Alex, tutt’un tratto seria e rossa come un peperone, “Voglio essere sincera con te…”
Il ragazzo, sorpreso, annuì.
“Tu non sei il primo ragazzo di cui credevo di essere innamorata.” buttò fuori Alex d’un soffio, “Noi siamo più liberi, è vero, ma questa libertà ci rende confusi: è difficile distinguere amore e amicizia e desiderio, molto difficile. Il nostro è un luogo dalle emozioni incerte e le nostre tradizioni raramente riescono a venirci in soccorso. Non sto dicendo che mi sono innamorata di ogni ragazzo che sia stato gentile con me: dico che c’è stato un ragazzo di cui credevo di essere innamorata, e che ho baciato. Non c’è stato nulla di più, te lo potrei giurare, ed è stato un errore clamoroso perché al nostro primo e unico bacio ci siamo staccati sputacchiando: eravamo convinti di essere innamorati, invece il nostro era solo un fortissimo affetto, paragonabile a quello tra fratello e sorella. Poi c’è stato l’incidente e non sono più riuscita a fidarmi di nessuno…”
Marc ascoltava, rapito. Un po’ era sorpreso dagli usi di quella terra, un po’ era arrabbiato con il ragazzo che era riuscito a precederlo con Alexandra e un po’ era triste per lei che, dopo l’incidente, per sua stessa ammissione non era più riuscita a credere in qualcuno.
“Lo so che è stupido.” continuò la giovane, “Però in ogni ragazzo o ragazza che mi parlava io sentivo compassione e senso di colpa e mi chiedevo se la persona che mi stava parlando non fosse stata sulla carrozza che mi ha travolta.”
Marc annuì, comprensivo, e rimase in silenzio.
Alex però aveva finito e non parlò più.
“Posso farti una domanda?” chiese allora il giovane conte.
La ragazza annuì.
“Perché vi siete allontanati sputacchiando?”
Alex scoppiò a ridere e Marc con lei. La ragazza sapeva che la mentalità del conte era diversa dalla sua, molto più semplice e ingenua in materia di sentimenti in un certo senso, ma quella domanda non era imbarazzante quanto divertente per il tono soddisfatto con cui Marc aveva ribadito che a lei quel bacio non era affatto piaciuto, come a ricordarle che non aveva nemmeno provato a ritrarsi da lui.
“Mettiamola così:” rise Alex, “come reagiresti se ti trovassi nella situazione di baciare Michel?”
Marc si esibì in un verso di disgusto che fece ridere Alex poi sorrise.
Niente più dubbi, quindi, tra loro: le paranoie che entrambi si erano fatti erano state chiarite. Restava una cosa che Marc doveva e voleva fare.
“Domattina andrò a parlare con mio padre.” promise ad Alex porgendole il braccio, “Ma ora è meglio rientrare o qualcuno potrebbe pensare male.”
“A torto, ovviamente!” precisò Alex senza trattenere una risata.
Marc si sforzò di mantenere un contegno e di lanciarle un’occhiataccia, inutile visto che non poteva vederla, ma poi scoppiò a ridere.
“Ovviamente!” replicò mentre si avvicinavano alla porta della sala da ballo.




Ehm, ehm, ehm...
Salve!
Allora: innanzitutto chiedo scusa per il ritardo ma ieri pomeriggio ho preso un virus e ci ho messo ore a sbarazzarmene (a proposito: attenzione, ce n'è uno che gira parecchio!).
Comunque, ecco l'improbabile capitolo: è un disastro storicamente parlando però...
Avverto che aggiungerò l'avvertimento OOC alla storia, perché a questo punto non posso farne a meno.
Detto questo, la trama si sta avvicinando alla svolta.
Ho voluto immaginare Marc come 'ingenuo' nelle questioni di cuore, vista l'epoca in cui vive, almeno a paragone di Alexandra... E a proposito, vi consiglio di ricordare certi dettagli di questa conversazione, in particolare il misterioso ex della nostra americana!
Beh, che dire: a presto!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 12
*** Musica e consigli ***







14. Musica e consigli

 
Tutto il salone era invaso dalla luce delle fiaccole e dalla musica dei suonatori, alcune coppie come quella di Donna ed Etienne danzavano ancora mentre altre, tra le quali Daniel e Jodie, avevano preferito sedersi e osservare i nobili, Ian e Isabeau compresi, che parlavano con i sovrani.
Proprio il Re Luigi fu il primo a scorgere la giovane coppia di ritorno.
“Marc!” chiamò, evidentemente sorpreso e preoccupato.
Qualcuno, più attento di altri, si voltò a controllare la coppia sparita senza spiegazioni per molti minuti e Alex si chiese se il sovrano fosse in ansia per via dell’assenza inaspettata dell’amico o per il pensiero di dover sanare una lite tra il giovane de Ponthieu e Sir Daniel a causa sua.
Marc, però, non si fece prendere di sorpresa e aiutò Alex ad accomodarsi accanto a suo padre mentre rispondeva.
“Mademoiselle Alexandra non si è sentita tanto bene.” spiegò, “Aveva bisogno di un po’ d’aria.”
Tutti gli occhi, alcuni preoccupati e altri solo avidi di pettegolezzi, si puntarono sulla giovane che sorrise alla stretta del padre sul suo braccio.
“Temo di non essere abituata a questo tipo di banchetto.” spiegò arrossendo un po’, “Ho avuto un lieve mancamento, ma ora sto meglio.”
Luigi sorrise, felice che niente avesse turbato la quiete prima della tempesta che si sarebbe scatenata al suo matrimonio, e si rivolse alla giovine.
“Stavamo parlando di voi, mademoiselle, e spero ci perdonerete per questo.” esordì cercando di far dimenticare la sparizione della ragazza e del conte de Ponthieu, “Ma mi è parso di capire che siate una musica? O che studiate la musica, comunque.”
Alexandra era sorpresa ma comunque annuì.
“Oui.” ammise, senza capire dove il giovane volesse andare a parare.
“Avremmo voluto sentirvi suonare o cantare, ma viste le vostre condizioni non è proprio il caso.” commentò la Regina Madre Bianca di Castiglia mettendo a tacere tutti i pettegolezzi con un tono di voce calmo ma imperioso.
Alexandra le rivolse un inchino che valeva più come un segno di riconoscenza che di rispetto e annuì.
“Sono certa vi sarà un’altra occasione.” rispose, cauta, senza perdere il sorriso.
La Regina annuì facendo oscillare i capelli neri come l’ebano.
Alex pensò alla favola di Biancaneve: Labbra rosse come sangue, pelle bianca come neve e chioma d’ebano…; era la descrizione della Regina.
La festa riprese e si protrasse fino a notte fonda.
 
***
 
Alex aprì gli occhi di scatto e saltò a sedere sul letto, ansimando.
Tastò l’ambiente attorno a sé: era nella camera da letto che Ian aveva messo a sua disposizione, proprio accanto a quella dei suoi genitori.
La ragazza prese un respiro profondo e si passò le mani tra i capelli chiudendo gli occhi.
“Era solo un sogno, Alex…” si ripeté, “Solo un sogno…”
Però non riusciva a toglierselo dalla testa. Non lo ricordava, in realtà, ma ricordava la sensazione di pericolo imminente che aveva provato.
Con un sospiro, si alzò.
Indossò un abito più semplice di quello della sera prima, di color verde mela con ricami dorati che ben s’intonava ai suoi occhi e ai suoi capelli, e uscì dalla porta.
Per i corridoi c’erano tanti servi in movimento che si sorpresero nel vederla già sveglia. La giovane scambiò con loro molte parole, rise e si fece dare indicazioni per il salone.
Le serve, che all’inizio la guardavano con sospetto, la presero subito in simpatia e le sorrisero grate; alcune guardie la salutarono con rispetto.
Alex si sentiva a casa più che mai.
 
***
 
Marc si rigirò nel letto, svegliandosi per l’ennesima volta.
Con un sospiro, si tirò a sedere e guardò alla finestra: l’alba era appena iniziata.
Con un gemito, il ragazzo si mise in piedi: gli girava un po’ la testa per il vino e per il pochissimo sonno ma si vestì e uscì dalla camera, deciso a concedersi una camminata in solitudine per schiarirsi le idee sul bacio di Alexandra, che lo aveva tormentato tutta la notte.
Di nuovo dopo molto tempo, sentì il prepotente desiderio di confidarsi con suo padre: lui avrebbe saputo spiegargli perché non riuscisse a smettere di pensare a lei, cos’era quel calore nel petto e il perché di quella sensazione d’inferiorità.
Se era già sveglio, di sicuro lo avrebbe trovato nel salone; in caso contrario, sarebbe andato lì subito dopo.
Marc, quindi, si diresse verso la sua meta notando, con sorpresa, che lungo quel tragitto i servi e le guardie sembravano stranamente più sereni.
 
***
 
Alex si concesse un sorrisetto.
La spinetta* era l’avo primigenio del pianoforte: non aveva gambe né pedali, e andava messo o su un ripiano o sulle gambe del musico per essere suonato.
La sera prima, mentre si recavano alle proprie stanze, Ian le aveva detto che, se lo desiderava, poteva esercitarsi con gli strumenti del castello senza alcun problema.
La ragazza sfiorò i tasti un’ultima volta prima di iniziare a suonare.
 
***
 
Marc si paralizzò con la mano sul portone quando le note iniziarono a riempire l’aria.
La musica si muoveva sinuosa nell’aria, senza incertezze o esitazioni, e pareva poter essere, già da sola, uno spettacolo dolcissimo; ma quando la voce di una fanciulla vi si unì, il suo cuore perse un battito.
Alexandra…, pensò, riconoscendola senza esitazione.
Un po’ incerto, aprì la porta.
E la vide.
Alex, seduta alla luce crescente del sole che pareva nascere solo per le sue note, schiuse le labbra morbide e cantò.
 
***
 
Cantava rapidamente ma non in francese né in Inglese, forse nella lingua del Regno d’Aragona o in quella d’oltralpe, però il giovane non ne era certo.
Marc rimase immobile e, sforzandosi, riuscì ad intuire alcune frasi in base all’assonanza con la sua lingua.
Inevitabile… Immobile… Colpevole… Domani…**, parole senza un preciso contesto ma che gli facevano sentire qualcosa allo stomaco: un po’ doveva essere senso di colpa, ma un po’ era come se una parte di lui sentisse che Alex stava cantando quella canzone per lui. Ripensando a quel bacio.
Senza riuscire a impedirselo, Marc si sfiorò le labbra con l’indice e il medio della mano destra.
Fu allora che Alex voltò la testa verso di lui, sorridente. Gli occhi puntati sul vuoto ma luminosi e attenti.
“Chi siete, voi che avete ascoltato in silenzio?” chiese la giovane, serena, “Permettetemi di riconoscervi…”
Marc rimase immobile, incapace di parlare.
Alex attese ancora un istante poi sorrise, furba.
“E ditemi, conte Marc,” continuò come se lui le avesse risposto, “vi è piaciuta questa canzone? È delle mie terre…”
Marc le si avvicinò, sorridendo perché lei lo aveva riconosciuto.
“È davvero molto bella, ma sono certo che nemmeno chi la compose potrebbe reggere il confronto con il modo in cui voi la cantate…” disse, sorridendo.
Era felice e tranquillo, specialmente perché aveva notato due serve intente a cucire in un angolo e la loro presenza lo faceva sentire meno sull’orlo di un precipizio: con degli spettatori, non avrebbe perso il controllo.
Alexandra sorrideva.
“Voi mi adulate…” disse mentre le sue mani riprendevano a correre sui tasti suonando ora una semplice scala, ora un pezzo di una melodia, ora semplicemente dei suoni a caso.
Marc la osservò ancora poco poi si congedò da lei.
“Perdonatemi, ma ho bisogno di parlare con mio padre…” le disse, ben sapendo che lei sola avrebbe capito quanto importante fosse per lui quel confronto.
“Buona fortuna!” gli sussurrò lei chinando la testa.
Mentre Marc usciva, sentì la musica di Alex riprendere a riempire il salone.
 
***
 
Ian ghignò poi bloccò la moglie sotto di sé facendola ridere e la baciò.
“Sei perfida!” le disse staccandosi, “Marc ti odierebbe a morte se lo venisse a sapere!”
Isabeau rise e alzò le spalle, per niente preoccupata dal fatto che il marito le avesse bloccato i polsi sopra la testa con una mano sola.
“Qualcuno deve far muovere quel povero ragazzo!” dichiarò sorridendo, “Ha preso dal padre!”
Ian sgranò gli occhi.
“Stai forse insinuando che io non ho preso l’iniziativa quando mi sono innamorato di te?!” chiese sorridendo, “Se non ricordo male, ti ho baciata nel giardino e non eravamo ancora sposati!”
Isabeau sorrise, maliziosa.
“Ma chi ti ci ha fatto venire, in quel giardino?” chiese, “Se non ti avessi fatto chiamare, chissà quando avresti trovato il coraggio di parlarmi del matrimonio!”
Ian mugugnò qualcosa, colpito nell’orgoglio, e la castellana rise di cuore piegando la testa all’indietro e mostrando l’incavo della gola. Il richiamo di quella pelle, ancora morbida e profumata, fu irresistibile e Ian baciò la moglie proprio in quel punto facendole emettere un suono simile ad uno squittio mentre si lamentava del solletico.
“Resta il fatto…” continuò l’uomo lasciando le mani della donna per tirarsi su da quasi sdraiato su di lei e guardarla negli occhi, “…che tu e Jodie siete due cospiratrici malefiche!”
“Esagerato!” ridacchiò Isabeau sollevandosi sui gomiti, “Solo per un vestito!”
Ian le sorrise mentre lei chiudeva gli occhi per sentire le labbra di lui di nuovo sul collo.
“Hai deliberatamente fatto portare ad Alexandra un vestito coi colori del nostro casato!” le ricordò, “Non è solo un vestito: con quei colori, era ovvio che avrebbero ballato insieme! Tu e Jodie siete già agli abiti per i bambini che avranno o siete solo all’organizzazione del loro matrimonio?”
Isabeau mugugnò qualcosa con disappunto quando sentì il marito rotolare sul letto per alzarsi ma sospirò e si tirò seduta.
“Però Alexandra ha detto che Marc l’aveva già invitata e lui ha ammesso che l’aveva fatto ieri pomeriggio: io non ho alcuna responsabilità!” dichiarò alzandosi.
Ian osservò il profilo della moglie in sottoveste e sospirò.
Isabeau si voltò, sorpresa.
“Cosa c’è?” chiese.
“Ti amo.” le disse Ian guardandola negli occhi, “Sarà anche banale da dire ma è la verità…”
Isabeau gli si accostò, prese il suo viso tra le proprie mani e poi lo baciò, con lentezza e delicatezza, sulle labbra.
“L’Amore non è mai banale.” dichiarò fissando i suoi occhi castani in quelli azzurri del marito, “E tantomeno lo è il nostro.”
Ian sorrise e annuì.
In quel momento bussarono alla porta.
Isabeau si ritirò quasi di corsa dietro la tenda che divideva in due la camera mentre Ian, terminato di vestirsi, aprì la porta.
“Marc!” esclamò sorpreso nel vedere il figlio, “Va tutto bene?”
Il ragazzo si morse le labbra, esitando per un istante prima di rispondere.
“Non lo so.” ammise, “Credo di aver bisogno di un consiglio…”
Ian sorrise poi lanciò un’occhiata all’interno della camera per assicurarsi che Isabeau non lo sentisse.
“Riguarda Dama Alexandra, vero?” chiese, ben sapendo che era così.
Marc arrossì e annuì.
“Allora meglio che ci allontaniamo.” sorrise Ian, “Tua madre sta già lavorando abbastanza di fantasia!”
Marc aggrottò la fronte, chiedendosi a cosa alludesse il padre, ma poi decise di preferire restare all’oscuro.
Lui e il padre si avviarono lungo il corridoio e poi sulla torre, una volta sulla cima di essa Ian si sedette con la schiena contro i merli e fece segno al figlio di andargli accanto.
“Allora… Qual è il problema?” chiese quando il ragazzo gli fu vicino.
Marc prese un respiro profondo.
“Non capisco più niente, papà,” ammise, “non davanti a lei…”
Ian sorrise.
“Le donne, ragazzo mio…” scherzò, ripetendo le parole che un tempo suo padre aveva detto a lui, “Loro sì che sono una battaglia persa in partenza!”
Marc rise e guardò il pavimento.
“Ti sei mai sentito inferiore alla mamma?” chiese, “Come se, qualsiasi cosa tu facessi, lei sarebbe sempre stata su un altro piano e tu non avresti mai potuto raggiungerla?”
Un sorriso mesto fiorì sulle labbra di Ian.
“Più volte di quante tu creda.” sussurrò, “Sin dalla prima volta in cui ho visto i suoi occhi.”
Marc sorrise: stava parlando con suo padre, senza esitazioni, come non faceva più da molto. E si sentiva capito, ed era felice di essere lì.
“E quella sensazione di…un peso sul cuore?” chiese.
“E la lingua che si blocca?” aggiunse suo padre ridendo.
“E la testa che non funziona più…” rise Marc.
Il ragazzo si interruppe quando sentì che il padre non rideva più con lui e si voltò a guardarlo trovandolo intento a fissarlo con serietà.
“Marc… Lo capisci che ti sei innamorato di lei, vero?” chiese Ian, serio, poi un sorriso quasi soddisfatto, molto sadico in realtà, gli salì alle labbra “E questo significa che dovrai dirlo a suo padre!”
Marc arrossì di botto.
“Non posso!” gemette.
Ian sgranò gli occhi, sorpreso.
“Perché?” chiese, “Guarda che Daniel non morde…”
“Mi ucciderà!” mormorò il ragazzo.
Ian scosse la testa.
“Marc, non è il caso di farsi prendere dal panico!” disse, “Se sei sicuro di quello che provi per lei, allora…”
“L’ho baciata!” gridò il ragazzo, di nuovo sconvolto.
Ian si immobilizzò, fissandolo a occhi sgranati.
“Ieri sera…” continuò il ragazzo, “Non so cosa mi sia preso: so che era lì e che non ho pensato… Sono stato un idiota, lo so, ed è tutta la notte che quel bacio mi torna alla mente per tormentarmi!”
A sorpresa, si sentì mettere le mani sulle spalle e alzò lo sguardo su suo padre. Ian lo stava fissando negli occhi, serio.
“L’hai baciata contro la sua volontà?” chiese.
Marc arrossì e scosse la testa.
“Le ho detto: sto per baciarti; e poi l’ho fatto…” ammise.
“E lei?” chiese Ian, palesemente rassicurato.
Marc era sconvolto: aveva baciato una ragazza che non era sua moglie! Come poteva suo padre prenderla così?!
“Lei cosa?!” esclamò, “Cosa vuoi che ti dica?! Non siamo sposati!”
L’uomo rise, sconvolgendo ancora di più il figlio.
“Marc: le usanze delle isole da dove vengono Alexandra e la sua famiglia sono molto diverse dalle nostre…” gli disse.
Marc annuì.
“Lo so… Alexandra me l’ha detto…”
“Quando te l’ha detto?” chiese Ian.
“Dopo che l’ho baciata…” mugugnò Marc.
“E allora dov’è il problema?” chiese Ian, “Lei si è ritratta mentre la baciavi?”
“No, ma…”
“Ti ha detto di starle alla larga?”
“No…”
“Ti ha tirato uno schiaffo o è scappata via?”
“No!”
“Ha risposto al bacio?”
“N…” Marc si fermò appena in tempo, “Sì…” ammise poi.
Ian rise.
“Allora è innamorata anche lei, Marc, e non devi sentirti affatto in colpa!” dichiarò poi lo guardò con aria complice, “A dire il vero, anche io ho baciato tua madre prima che fossimo sposati…”
Marc sgranò gli occhi.
“Davvero?!” chiese, sconvolto.
Ian annuì.
“Più di una volta!” ammise, “E ci davamo del tu di nascosto da tuo zio: lui non approvava una condotta così…esplicita!”
Marc rise. Forse aveva preso da suo padre più cose di quante credesse.
Ian si alzò e fece cenno al figlio di seguirlo per andare al piano di sotto a fare colazione.
Marc si alzò poi però un ricordo lo immobilizzò.
“Papà?”
“Sì, Marc?”
“È…normale che…” esitò, come dirlo?, “Quando… Beh, io e Alexandra… ecco… sì, insomma… diciamo che…”
“Cosa, Marc?” chiese Ian sorridente, “Stai tranquillo: sai che puoi dirmi tutto!”
Marc prese un respiro profondo, strinse i pugni e raddrizzò le spalle.
“È normale che abbiamo usato le lingue?!” buttò fuori.
Dopo un attimo di silenzio sgomento, Ian scoppiò a ridere.

 
 
 
 


*La spinetta, in realtà, risale all’inizio del XIV secolo e non del XIII, dov’è ambientata la vicenda: mi sono presa la libertà di anticiparle i natali perché mi piaceva troppo la scena di Alex che suona per Marc *-*, perdonatemi questo colpo di testa, va.
 
**Non c’è un’esatta canzone per questo punto della storia: io avevo pensato a “Il Cielo Può Attendere” perché la trovavo adatta ma immagino avrebbe sconvolto un giovane medioevale come Marc ;)





Allora, restate tutti calmi, ok?
Lo so, non è successo praticamente nulla, ma sto ancora assestando i personaggi: dal prossimo capitolo si fa sul serio...
Questo, è un'altro OOC, specialmente nell'inizio... Ho voluto mettere in fondo il dialogo tra Marc e Ian per marcare bene la differente mentalità, ricordate il pensiero di Marc perchè fra un po' farà anche lui le sue follie! ;)
Il prossimo capitolo si intitolerà: Il traditore
Qualcuno ha già avanzato delle ipotesi ma...chissà! XD
A presto!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 13
*** Il traditore ***







13. Il traditore

 
Marc e suo padre scesero dalla torre, dopo le opportune spiegazioni, per dirigersi al salone ma trovarono una situazione… insolita.
Tutti i nobili convocati per la riunione aspettavano fuori dalla stanza, vi erano anche alcune dame, ma del Re nessuno sapeva niente.
I due uomini si accostarono al gruppetto composto da Giullaume, Michel, i Freeland e Isabeau.
“Dev’essere per via del traditore.” commentò Alex attirandosi gli sguardi sorpresi degli altri, “Sua Maestà mi aveva detto che oggi avrebbe dovuto dare ascolto ad un uomo che aveva tradito anni fa…”
Ma Alex si sbagliava.
Il Re comparve, con espressione truce e abbaiando ordini alle guardie, e si accostò ai Ponthieu.
“Margherita di Provenza è stata rapita lungo la strada che l’avrebbe portata qui.” dichiarò cupo.
 
***
 
Quello che avvenne, da quel momento in poi, fu molto caotico.
I nobili, sconvolti da un affronto tale, iniziarono a lanciare accuse a mezza voce, il Re fece allontanare tutti e si rinchiuse nel salone di Chatel-Argent con i suoi feudatari e i suoi guerrieri più fidati ed esperti tra i quali Guillaume e Jean Marc de Ponthieu e Daniel Freeland.
Isabeau e Jodie, preoccupate, rimasero in attesa dei mariti fuori dalla porta mentre Michel si occupò di scortare Dama Matilde de Sancerre alle sue stanze poiché la di lei madre era determinata ad aspettare il consorte.
Marc porse il braccio ad Alex quasi senza dirle nulla e lei lo accettò in silenzio, neanche si aspettasse quel gesto.
“Vuoi andarti a riposare?” le chiese Marc mentre camminavano.
Alex scosse la testa.
“Non trovo che le brutte notizie concilino il sonno.” commentò, “Portami da qualche parte, parlami... Ho paura che questa storia non finirà in fretta.”
Alexandra, ormai, aveva capito che Margherita sarebbe stata comunque rilasciata e che il rapimento spiegava il ritardo del matrimonio con Luigi al 27 Maggio, a Sens, ma questo non voleva dire che non potesse accadere nulla nel frattempo. Per quanto la giovane si arrovellasse, non riusciva a capire chi potesse aver compiuto quell’agguato: innanzitutto, nelle cronache future non veniva menzionato affatto e, in secondo luogo, a nessuno conveniva fermare il matrimonio perché non avrebbe cambiato la situazione politica o costretto Luigi ad abdicare. Margherita era, tutto sommato, una preda sacrificabile: sarebbe bastato che morisse perché il neo-re di Francia potesse scegliere una nuova sposa quindi era davvero insensato un suo rapimento. Certo, portava una buona dote, ma niente di così eccezionale da spiegare quel gesto.
“Non preoccuparti.” le sussurrò Marc in quel momento, “Risolveranno la situazione…”
Alex annuì.
“Ne sono certa.” rispose, sicura.
“Allora a cosa pensi?”
Alex decise di non mentire.
“A chi potrebbe avere il coraggio di fare una cosa tanto ignobile…” sussurrò.
Marc non le rispose, ma la aiutò a sedersi su una panca e poi si accomodò al suo fianco.
Erano seduti in silenzio sulla panca da mezz’ora circa quando una guardia corse a chiamare il giovane Marc.
Nessuna spiegazione chiara e molte dicerie ma, a quanto pareva, il traditore pretendeva che gli venisse data udienza nonostante la situazione e diceva di avere informazioni importanti per l'intero Paese.
“Vostro padre vi cerca.” concluse il soldato.
Marc e Alex annuirono e si diressero quasi di corsa verso il salone.

***

Di nuovo, i nobili attendevano fuori dalle porte e il Re non si vedeva.
Ian era in ansia: ciò che Alex gli aveva detto, del matrimonio rimandato, ora lo preoccupava e si chiedeva se non avesse fatto male a sottovalutare la questione.
Guillaume, al suo fianco, era silenzioso e meditabondo e Isabeau, aggrappata al braccio del marito, manteneva a stento il suo contegno da castellana.
Ian aveva voluto i figli vicini a sé, nel disperato tentativo di controllare almeno la sua famiglia dopo un affronto tanto grande, ma sapeva bene che era inutile. Una parte di lui, si chiedeva anche se Luigi avrebbe messo da parte la rabbia personale e avrebbe accontentato il traditore.
La risposta arrivò con uno sferragliare di catene.
Ian si voltò per vedere chi fosse il traditore di cui aveva parlato Alex e impietrì.
Quasi trascinato da due guardie reali, con catene ai polsi e alle caviglie, arrancava lungo il corridoio Renaud de Dammartin.
Ian sbiancò.
Il padrino di Jean de Ponthieu era l’unico che potesse riconoscerlo come un impostore, ma lui non si aspettava certo di vederlo fuori da una cella dopo che aveva tradito la Francia nel 1214, alla battaglia di Bouvines. Renaud de Dammartin aveva tentato di suicidarsi nel 1217, ma, a quanto aveva saputo l'americano, era stato salvato per un soffio e rinchiuso con ancor più segretezza di prima, al punto che molti ancora credevano fosse morto allora e perfino i libri di Storia erano convinti che in quel tentativo egli avesse raggiunto il Creatore*.
L’uomo, per quanto non più vestito di armatura e blasone, incuteva ad Ian ancora più paura di quando lo aveva trovato sul campo di battaglia.
Proprio in quel momento, Renaud alzò lo sguardo dal pavimento e incrociò gli occhi azzurri di Ian. E ghignò.
“Sei finito, maledetto!” ringhiò Dammartin e Ian, seppur a fatica, distolse lo sguardo mentre le guardie facevano entrare il prigioniero nel salone, dove avrebbe parlato con il re.
Ian fissava il pavimento a occhi sgranati, sconvolto.
Non c’era dubbio che Dammartin fosse lì per tradirlo, ma come aveva fatto a sapere che lui non era il vero Jean senza mai vederlo?!
Devo trovare una soluzione!, capì al volo l’americano, ma la sua mente era vuota.
Isabeau, al suo fianco, si era fatta cinerea e lo guardava con terrore, pur cercando di mantenere un contegno.
Ian si accorse che molti nobili lo additavano quando Etienne gli si accostò.
“Che diamine voleva quel dannato traditore da te?” ringhiò fulminando la porta. Alle sue spalle, entrambi gli Henri erano indignati.
Ian non seppe cosa rispondere, spaventato all’idea di perdere tutto, ma capì che c’era qualcuno che avrebbe potuto mantenere la calma.
“Devo parlare con Guillaume, scusatemi…” sussurrò sbrigativamente prima di dirigersi con la moglie vicino al suo signore.
Guillaume, come molti, aveva visto la scena e attese che il fratello gli si avvicinasse per trascinarlo, sebbene con discrezione, con sé in una stanza abbastanza lontana dal corridoio io cui la nobiltà attendeva.
“Com’è possibile che sappia tutto?!” chiese Ian sconvolto.
“Sicuro che non ti abbia mai visto né a Bouvines né dopo?” chiese Ponthieu, serio.
Ian annuì.
“Mi ha visto una volta in battaglia ma avevo ancora l’elmo…” sussurrò, terreo.
Guillaume era palesemente furioso ma Ian ormai sapeva che, dietro alla rabbia, il conte nascondeva sempre la preoccupazione.
“Madame, vi prego di raggiungere i vostri figli e rassicurarli sul fatto che arriveremo presto…” sussurrò Ponthieu a Isabeau che, seppur spaventata, annuì e li lasciò soli.
Non appena la porta si fu chiusa alle sue spalle, Guillaume fissò il suo uomo di fiducia negli occhi.
“Il Re è furibondo.” disse serio, “Il rapimento della fidanzata lo ha reso furioso e se ora Dammartin gli riferisce e gli prova che tu non sei chi dici di essere, non avrà pietà per il nostro casato. Non si limiterà a uccidere me e te ma si rifarà su chiunque, forse anche su Marc e Michel e persino Elodie potrebbe rischiare le sue ire: dobbiamo trovare una soluzione in fretta!”
“Appena il Re verrà a sapere le accuse di Dammartin, vorrà capire: abbiamo sì e no quindici minuti.” calcolò Ian, sconvolto dalla prospettiva di vedere sua moglie e anche i suoi figli, che non c’entravano niente, pagare per le sue azioni.
“Ho bisogno del Falco, Jean!” ringhiò Ponthieu vedendo che non riusciva a ragionare e afferrandolo per la tunica sul petto, “Oppure moriranno anche persone che non hanno nulla a che fare con questa faccenda!”
Ian deglutì, pensando: era impossibile provare che era Jean de Ponthieu, fino a quel momento la sua parola era bastata perché nessuno a parte un inglese che non aveva mai visto l’originale aveva mai sospettato niente, ma Renaud de Dammartin era un caso a parte. Non solo conosceva il vero Jean ma era stato il suo padrino d’investitura: lui possedeva ritratti fatti al vero Jean de Ponthieu e per quanto poco accurati in essi, Ian ne era certo, alcune differenze si sarebbero viste. Prima fra tutte, gli occhi: Ian aveva occhi azzurri mentre il cadetto Ponthieu aveva occhi castani, seppur più chiari di quelli del fratello**. Nessuno si poteva ricordare quel dettaglio vista la prolungata assenza del giovane dalla corte ma i ritratti più vecchi avrebbero senz’altro mostrato la verità e a quel punto sarebbe bastato chiamare a testimoniare i frati del monastero dove Jean aveva passato la sua vita dai diciotto anni fino quasi alla morte…
Dammartin riuscirà a farmi cadere., comprese Ian in un lampo di lucidità, Non ho alcun modo per fermarlo.
Ma se Ian non poteva impedire la propria caduta, forse poteva ancora fare qualcosa… Doveva solo essere certo che gli altri gli reggessero il gioco.
“Guillaume, forse ho un modo per evitare che il Re stermini il casato,” ammise con voce bassa, “ma ho bisogno che mi giuri, davanti a Dio Onnipotente, che non contraddirai in alcun modo la mia versione dei fatti davanti al Re!”
Guillaume sgranò gli occhi ma annuì.
“Te lo giuro.” disse, “Cosa vuoi…?”
“Non c’è tempo, ora.” lo interruppe Ian uscendo dalla stanza, “Devo far giurare anche Isabeau, Daniel, Jodie e Alexandra!”
Guillaume andò dietro a suo fratello fingendo indifferenza a beneficio di chi li avrebbe visti ma, dentro di lui, qualcosa ribolliva allo spettacolo di quelle iridi azzurre così disperate, come le aveva viste solo quando le aveva ripudiate e quando quel gioco di maschere era iniziato.
Per la carità, Ian: non fare follie!, riuscì solo a pensare prima che raggiungessero la famiglia Freeland.
“Isabeau, ho bisogno di te e di Daniel.” disse Ian senza esitazione, “Jodie, Alexandra: anche voi, per favore.”
Marc e Michel guardarono il padre, sconvolti.
“Cosa succede?” chiese il primo afferrando il padre per un braccio nel vederlo allontanarsi.
“Niente, Marc. Niente.” rispose Ian fingendo indifferenza poi ricordò lo sguardo preoccupato del figlio e la promessa di spiegargli dell’incontro con sua madre e del suo segreto subito dopo la discussione con il re, “Però… Non so se potrò mantenere quello che ti ho detto sulla torre…”
Marc sgranò gli occhi.
“Perché?” chiese, confuso e preoccupato.
“Mi dispiace, mi dispiace davvero tanto, ragazzi.” sussurrò Ian, includendo nell’occhiata anche Michel, che guardava la scena attonito, “Forse fra un po’ non mi crederete più, ma sappiate che vi voglio molto bene e che sono davvero orgoglioso di entrambi.”
Senza aggiungere altro, Ian si allontanò dai figli e prese da parte le uniche persone che sapevano del viaggio nel medioevo.
“Ascoltate, forse so cosa fare ma voi dovete giurarmi davanti a Dio che non contraddirete la mia versione dei fatti davanti al Re, va bene?”
Isabeau gemette, sconvolta; Daniel e Jodie si lanciarono un’occhiata preoccupata e Alex aggrottò la fronte.
“Chi era?” chiese.
“Renaud de Dammartin.” rispose Guillaume, lapidario.
“Il padrino di Jean de Ponthieu!” sussurrò Daniel capendo la situazione.
Cinque minuti buoni ci vollero perché Ian convincesse i quattro a giurare ma alla fine estorse a tutti quella promessa vincolante dopodiché prese un respiro profondo.
“Isabeau?” chiese.
Lei sobbalzò, sorpresa, ma lo guardò.
“Sì?”
Ian le prese il volto tra le mani e la baciò.
“Perdonami, ti prego.” le sussurrò pianissimo, “Temo che mancherò di nuovo alla mia promessa.”
Isabeau si lasciò sfuggire un gemito strozzato, ma Ian non poté fermarsi a consolarla e uscì rapido dalla stanza sotto gli occhi sgomenti di tutti.

***
 
Geoffrey Martewall strinse più forte la mano sull’elsa della spada.
I mormorii sull’identità del prigioniero erano tutti concordi su Renaud de Dammartin ma le congetture sui motivi della sua sibillina quanto terribile promessa al conte Jean Marc de Ponthieu erano dei più svariati tipi. Nessuno, però, si era avvicinato alla verità come lui.
Dammartin poteva riconoscere il vero Jean de Ponthieu e il barone ormai era stato da tempo messo al corrente del fatto che il Falco non fosse chi diceva di essere.
In which trouble did you fly, Hawk?***, pensò preoccupato dalla piega della situazione.
Lo cercò con gli occhi per parlargli e chiedergli come essere d’aiuto ma trovò solo i suoi figli, preoccupati, che parlavano sottovoce, e i suoi amici, sconvolti.
Stava per andarlo a cercare quando lo vide comparire, seguito dalla moglie, dal fratello e dalla famiglia del suo compagno: tutti quelli che sapevano di certo la verità su di lui.
È così grave?, non riuscì a impedirsi di pensare mentre si avvicinava.
Jean lo vide, Geoffrey ne era certo perché i loro sguardi si erano incrociati e il Falco gli aveva sorriso mestamente, ma nonostante questo non si fermò e andò dritto dalle guardie ignorando l’inglese.
“Devo parlare con Sua Maestà.” dichiarò.
“Mio signore, il Re ha detto che…” tentò di obbiettare il soldato ma Ian lo fermò con un gesto.
“Vi assicuro che non appena avrà terminato di ascoltare il prigioniero, vorrà conferire con me.” disse.
Fu in quel momento che la porta si aprì e due guardie ne uscirono alla ricerca di Jean Marc de Ponthieu.
Ian annuì.
“C’est moi.” disse loro prima di seguirle nella sala.
I battenti furono richiusi alle sue spalle in un’aria densa di confusione e paura.
 
***
 
Per quattro ore non si seppe nulla di ciò che avveniva nel salone tra Sua Maestà, Renaud de Dammartin e Jean Marc de Ponthieu.
Quando i battenti furono aperti di nuovo, il Falco d’Argento non esisteva più e Ian Maayrkas veniva portato fuori dalla sala con i polsi incatenati dietro la schiena e due guardie ai fianchi.
Lo sgomento della corte francese fu totale.
“PADRE!” esclamò Marc, sconvolto, correndogli incontro ma il soldato reale lo fermò e continuò ad accompagnare il prigioniero verso le segrete del castello.
Non è possibile!, pensò il giovane sconvolto, Non è vero!
Cambiò direzione e corse verso Luigi, che usciva in quel momento dal salone con espressione truce.
“Che hai fatto?!” gli urlò sconvolto.
Le guardie reali e quelle del palazzo si mossero, a disagio, ma fortunatamente Luigi le fermò prima che dovessero arrestare anche il giovane.
“Marc, lui non è quello che sembra…” tentò il Re con diplomazia.
“Che hai fatto?!” ripeté Marc, furibondo, senza ascoltarlo e arrivando perfino ad afferrare l’amico d’infanzia, dimentico in ogni modo del suo titolo.
“Marc…!”
“Perché?! La parola di un traditore vale più di quella di mio padre dopo tutto quello che ha fatto?!”
“TUO PADRE NON È JEAN MARC DE PONTHIEU!” urlò il sovrano, esasperato, vedendo che l’amico non lo ascoltava.
Marc rimase paralizzato, un gelido silenzio cadde su tutta la corte.
“Non è Jean Marc de Ponthieu.” ripeté Luigi staccando le mani dell’amico dalla propria casacca e spostandole sulle sue spalle, “Si chiama Ian Maayrkas, viene da un’isola oltre la Scozia.”
Marc scosse la testa, incapace di ascoltare oltre.
“No!” cercò di opporsi istintivamente, scostandosi e sfuggendo alla presa del sovrano, “Come puoi credere a un traditore e non a…”
“Quel traditore era il padrino del vero Jean de Ponthieu.” lo fermò Luigi, “Lo ha riconosciuto come un impostore, volendo avrebbe anche le prove…”
“Ma…”
“Marc!” esclamò Luigi, incapace di girare ancora attorno alle cose.
Marc era suo amico, gli voleva molto bene e avrebbe voluto spigargli tutto con più tatto, in un altro luogo e senza occhi indiscreti, ma ormai aveva capito che non avrebbe potuto farlo perché il giovane de Ponthieu era troppo sconvolto per ragionare lucidamente. Il sovrano non vedeva altra scelta che spiegargli la verità.
“Ian Maayrkas si è dichiarato colpevole di tutto.” sussurrò, “Ha ammesso di essere un impostore.” esitò, solo per un attimo, “E ha dichiarato di aver ucciso il vero Jean de Ponthieu per sposare tua madre e prendere possesso del feudo dei Montmayeur.”

 



 
 
*Secondo le fonti storiche, Renaud de Dammartin è morto suicida nel 1217; io mi sono presa la libertà di tenerlo in vita ancora per un po’, più avanti però prometto che riporterò la Storia alla normalità ;)
**Nel libro, si dice solo che Jean de Ponthieu ha gli occhi chiari: io mi sono presa la libertà di interpretare quel ‘chiari’ con ‘castano chiaro’… Di nuovo, perdonatemi.
***In quali guai sei andato a volare, falco?




Ehm... Eh già...
"Finalmente" siamo arrivati alla svolta principale della storia: Ian è stato scoperto e arrestato...
Qualcuno ha già capito da tempo l'identità del traditore, ma spero che questo capitolo sia risultato comunque interessante...
Chiedo perdono in anticipo per qualsiasi errore io possa aver commesso: grazie mille a tutti!
A presto!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 14
*** A cosa porta la disperazione... ***







14. A cosa porta la disperazione…

 
Marc era paralizzato, l’intera corte di Francia gelata sul posto, Re Luigi immobile e furioso. Ci fu un attimo sgomento di paralisi, un secondo in cui nessuno seppe dove fosse la verità e dove la menzogna, un momento che occorse a tutti per realizzare davvero quella terribile rivelazione.
Luigi si spostò verso Isabeau de Montmayeur, sul viso un’espressione desolata.
“Madame, sono davvero dispiaciuto.” sussurrò credendo di farle cosa gradita nel spiegarle la situazione, “Nessuno di noi poteva immaginare che quell’uomo avesse preso posto del vostro promesso sposo.”
Isabeau aveva uno sguardo allucinato, le mani sospese a mezz’aria le tremavano vistosamente e sul viso stava un’espressione di ingenua confusione che la faceva sembrare quasi una bambina smarrita.
“C…cosa…?” voleva chiedere spiegazioni, farsi dire il perché di tutte quelle menzogne su suo marito che lo facevano passare per un brigante quale il vero Jean, ma la voce non le usciva d’in gola. Una parte di lei arrivò alla ben più plausibile conclusione che quello fosse tutto un sogno.
Il Re fraintese il suo sgomento.
“Quell’uomo non è Jean de Ponthieu. Ha ucciso il vostro promesso appena questi è uscito dal monastero e ne ha preso il posto come sosia già a Cairs.” le spiegò il sovrano, “L’uomo che avete sposato non è chi voi avete sempre creduto. Tuttavia…”
“No…”
No, non era possibile. Ian non poteva averle fatto una cosa del genere: non poteva essersi preso tutte le colpe… Però, ecco che il giuramento aveva senso: nessuno di loro poteva contestare la versione di Ian che lo vedeva come l’unico colpevole di quell’intrigo. Agli occhi di tutti: Guillaume era stato raggirato, lei era stata raggirata, Daniel e Etienne e i due Henri e Geoffrey erano stati raggirati… Tutti vittime di un solo uomo e, perciò, solo uno era il colpevole, solo uno era da punire.
Quale modo migliore per proteggere tutti dell’assumersi ogni colpa?
Tutte quelle consapevolezze erano piombate addosso a Isabeau in un solo istante: il re nemmeno aveva finito di parlare.
“…sono certo che il Papa vi dispenserà dal matrimonio con quell’uomo.” stava dicendo Luigi, “In fondo, non sapevate chi stavate sposando e…”
Quelle parole, la certezza che spezzassero anche quell’ultimo vincolo tra lei e Ian, fece scattare qualcosa dentro Isabeau. Una molla che lei aveva sempre tenuto ferma ma che ora la portava dritta alla follia.
“No.” mormorò sconvolta.
Luigi le si avvicinò vedendola barcollare e allungò una mano verso il suo braccio per sorreggerla ma lei si divincolò con la furia di un animale braccato.
“NO!” urlò con tutta la forza che aveva.
Prima che chiunque potesse anche solo sospettare cosa stesse passando per la mente di Dama de Montmayeur, questa sfuggì a tutti i cari che cercavano di avvicinarsi a lei e scappò, inseguendo le guardie che stavano portando via suo marito. Corse per i corridoi urtando servi e sguattere, sfuggendo ai richiami della nobiltà che la inseguiva e agli sguardi sconvolti dei suoi stessi soldati. Raggiunse Ian che i soldati stavano aprendo la porta che conduceva alle prigioni che si sviluppavano sotto il livello del terreno. Afferrò una delle guardie e la fece voltare poi spintonò anche l’altra e, a quel punto, iniziò a colpire Ian al petto con le mani strette a pugno e gli occhi chiusi anche se ormai le lacrime stavano scendendo copiose. Continuò ad aggredirlo a quel modo con una disperazione e una forza tali che Ian dovette indietreggiare di un passo. A quel punto, con un verso, Isabeau lo spintonò e poi lo fissò.
I capelli scarmigliati, il viso inondato di lacrime e sfatto dalla preoccupazione, il respiro affannato e l’aura di disperata certezza che la avvolgeva la rendevano una Isabeau diversa da quella che tutti avevano sempre visto.
“Dimmi che non è vero!” urlò al marito, “Dimmi che non l’hai fatto! Dimmi che non l’hai fatto! DIMMELO!”
Ian continuò a fissarla, in silenzio, per un lungo momento.
“Mi dispiace: è proprio ciò che ho fatto.” rispose, gelido e impassibile, mentre i nobili li raggiungevano poi si chinò portando il viso all’altezza della moglie, “Io ho ucciso Jean de Ponthieu.”
Isabeau rimase paralizzata: non poteva negarlo, neanche volendo, perché sapeva che Ian aveva effettivamente ucciso il vero conte cadetto. Lui l’aveva resa parte delle sue accuse con una sola frase.
Le guardie, indignate da un simile comportamento da parte dell’uomo nei confronti della contessa, afferrarono di nuovo il loro prigioniero e lo costrinsero a voltarsi per buttarlo malamente lungo le scale che lo avrebbero portato alla sua cella.
Isabeau rimase immobile, muta, anche mentre i soldati scendevano dietro di lui e si chiudevano la porta alle spalle lasciandola sola nel corridoio. Era finita. Il gioco di maschere non aveva retto a tanti spettatori. Cadde in ginocchio a terra, incredula, ma poi scoppiò in singhiozzi disperati prendendosi il viso tra le mani, senza curarsi delle numerose persone alle sue spalle che la fissavano.
Jodie fu la prima a riaversi: precedette senza volerlo il Re Luigi che stava per avvicinarsi alla signora e lo superò per gettarsi in ginocchio accanto a lei.
“Perché?!” pianse la donna nascondendo il viso nel suo petto.
Jodie si morse il labbro inferiore per un istante, esitando mentre la stringeva a sé.
“Non lo so, Isabeau…” ammise, “Non lo so…”
Ma, agli occhi di chi era esterno a quell’intricata vicenda, quei dialoghi e quei comportamenti rendevano Ian Maayrkas ancora più riprovevole.
 
***
 
Ci vollero almeno tre ore prima che Isabeau mandasse via Jodie dalle sue stanze per rimanere sola. La donna americana si era rifiutata di abbandonarla in quel momento difficile fino a che aveva visto le lacrime solcare il suo viso ma ormai la contessa aveva ripreso il suo solito contegno e con gelida fermezza aveva ordinato che la si lasciasse sola.
Con delicatezza, quindi, Jodie si chiuse la porta alle spalle e si avvicinò a Guillaume e Daniel, in attesa di notizie sulla contessa.
“Come sta?” chiese subito Ponthieu.
Jodie lo fulminò con lo sguardo.
“Le hanno appena portato via suo marito e tra poco, con buone probabilità, lo condanneranno a morte per un tradimento che non ha affatto commesso: pensate che possa star bene?” chiese acida.
Daniel mise le mani sulle spalle della moglie per trattenerla.
“Siamo tutti in ansia per Ian, Jodie.” le ricordò, la voce malferma.
Il viso di Daniel mostrava ampi segni della sofferenza che stava tentando di trattenere e gli occhi erano cerchiati di un alone scuro simile all’effetto di una notte insonne.
Guillaume sospirò, si passò una mano tra i capelli e iniziò a fare avanti a indietro lungo lo stretto pianerottolo che stava davanti alla stanza di Dama Isabeau.
“Ma cosa gli è saltato in mente?!” ringhiò, apparentemente furioso.
“L’ha fatto per proteggerci tutti.” ribadì Daniel, irritato dal palese fastidio del conte pur consapevole che quello era il modo dell’uomo per sovrastare il dolore della perdita.
Guillaume si voltò verso di lui, palesemente seccato, ma Jodie alzò le mani tra i due per fermare il confronto verbale.
“Arriva qualcuno.” sussurrò.
Entrambi gli uomini presero un’espressione sbalordita e offesa, non difficile da simulare visto che per l’ennesima volta Ian aveva fatto di testa sua, e attesero che l’ospite, il cui suono di passi era accompagnato da uno strano ticchettio, li raggiungesse.
“Non dovreste parlare così forte.” commentò una voce dolce ancor prima di finire le scale, “Vi si sente fin nel corridoio: se qualcuno avesse origliato, avreste potuto passare grossi guai.”
I tre non fecero in tempo a farsi assalire dall’ansia che il viso triste di Alex fece capolino sulle scale.
La ragazza teneva una mano sul muro per orientarsi e aveva tra le mani un bastone alto più o meno quanto lei con il quale cercava a tentoni il pianerottolo.
Jodie tentò di andarle incontro ma Alex si fermò sui gradini e scosse la testa quando la sentì afferrarle un braccio.
“Credo sia meglio andare a parlare lontano da qui.” sussurrò indicando con il mento davanti a sé, oltre il muro dove immaginava fosse Isabeau.
Per quanto il gesto fosse stato fatto leggermente troppo a destra, il conte di Ponthieu annuì, rabbuiato.
Scesero le scale mantenendo un flebile silenzio che veniva periodicamente interrotto dal battere di Alex sui gradini. Arrivati al pianerottolo, si nascosero tutti nella camera di Daniel e Jodie.
“Il Re ormai ha deciso.” esordì Alex.
“Cosa?!” esclamò Ponthieu sconvolto, “Senza il parere dei nobili?!”
“Con il parere di tutti i nobili eccetto voi e dama Isabeau.” spiegò Alex, “Il Re pensava di farvi cosa gradita non costringendovi a presenziare al processo. Un processo ben rapido, se posso dirlo.”
“Pure troppo!” esclamò Daniel, irritato, ma poi la preoccupazione ebbe la meglio sull’indignazione, “Cosa gli succederà?”
Alex chinò il capo.
“La sentenza è ‘a morte’.” sussurrò.
Daniel sbiancò, Jodie indietreggiò portandosi una mano sulla bocca mentre le lacrime le salivano agli occhi, Guillaume de Ponthieu prese un respiro profondo passandosi una mano sul viso.
“Non vogliono che il popolo sappia dello scandalo, perciò verrà portato nella foresta fuori il castello e ucciso lì, poi lo faranno passare per un incidente di caccia.” spiegò Alex più dettagliatamente.
“Ne siete sicura, Alexandra?” chiese Guillaume, serio.
“Io ho presenziato al processo: il Re mi ha accordato questo permesso visto che mio padre e il suo signore erano troppo sconvolti dall’accaduto per presentarsi.”
“Si è fatto questa idea?” chiese Jodie.
Alex scosse la testa.
“Questo è quello che gli ho detto io” alzò una mano troncando le proteste sul nascere prima di continuare, “e farete meglio a continuare a sostenere questa tesi: nessuno ha difeso Jean Marc de Ponthieu. Giusto Geoffrey Martewall è riuscito ad ottenere una minuscola proroga: ha chiesto che fosse aspettato il parere di Isabeau de Montmayeur visto che è lei quella più danneggiata dallo scandalo; ma il Re non aspetterà ancora a lungo. Se domani Isabeau non darà il suo parere, procederà come stabilito.”
Daniel era sconvolto.
“Ma… Etienne?! E Henri ‘il grande’ e Henri ‘il piccolo’?!” chiese sconvolto.
“Si sono astenuti.” spiegò Alex cupa, “Mi sono parsi davvero sconvolti ma è comprensibile: Ian ha dipinto al Re un’immagine di sé tale che perfino io per un attimo stavo per pensare che fosse un essere spregevole.”
“Grandioso!” esclamò Daniel iniziando a fare avanti e indietro per la stanza, “E adesso?”
“E adesso dobbiamo parlare a Isabeau.” intervenne Jodie fermando il conte di Ponthieu prima che lui si dirigesse dal Re, “Lei è l’unica che può rallentare l’esecuzione di Ian il tempo necessario a noi per salvarlo.”
“E come pensi di salvarlo, di preciso?!” chiese Alex, angosciata.
“In…qualche modo.”
 
***
 
Isabeau osservò il sole morire, fuori dalla sua finestra, e pregò di poter tramontare come lui, quando e se suo marito fosse morto. Seduta su uno scranno, vestita con l’abito blu che era stato il suo abito da sposa, lasciò che gli ultimi raggi del giorno le si posassero addosso, facendo brillare i suoi occhi e i suoi capelli di una strana luminosità aranciata, quasi stesse bruciando di una fiamma viva.
Un bussare forte ma rispettoso alla porta le fece battere le palpebre, ma niente di più. Isabeau ascoltò come da fuori la sua stessa voce rispondere “Avanti” con tono apatico. Non si voltò a guardare il nuovo venuto, in fondo l’aveva fatto chiamare lei.
Il barone Thibault de Chailly si inchinò profondamente alla sua signora.
“Mia signora?” chiese, suo malgrado a disagio nel restare da solo con la propria castellana e preoccupato per le voci che avrebbero potuto circolare su di lei.
“Mio marito è stato incarcerato.” esordì la donna strappandolo alle sue elucubrazioni, “Si fidava di voi e io voglio fare lo stesso: il Re lo farà uccidere ben presto fingendo un incidente di caccia.”
Chailly sgranò gli occhi, preso di sorpresa dal discorso così diretto della contessa.
“Ma… Mia signora, il Re non vi dà ascolto? Su una cosa che riguarda voi così da vicino?”
“Il Re non mi darebbe ascolto, nessuno tra la nobiltà oserebbe sostenermi e ci sono cose che io stessa desidero non vengano ricordate, per il bene dei miei figli.” spiegò Isabeau alzandosi in piedi e iniziando a camminare per la stanza, con il suo incedere regale e con le mani strette l’una nell’altra.
Thibault capì che non era il caso di fare domande e attese che la sua signora gli spiegasse cosa fare.
“Le mie motivazioni non importano” continuò a parlare la donna, “e su di esse non voglio che si indaghi, ma ho intenzione di incaricarvi di una missione riguardante la morte di Ian Maayrkas.”
Solo a quel punto del suo discorso serio e deciso, Isabeau alzò gli occhi su Thibault.
“Monsieur de Chailly, già una volta siete andato contro persone ben più importanti di voi per mio marito: vi chiedo se per me provate la stessa fedeltà.”
L’uomo si inchinò.
“Servirò sempre fedelmente il feudo dei Montmayeur e i suoi signori.” rispose.
Isabeau annuì.
“Allora ascoltatemi: prendete sette uomini, sceglieteli voi personalmente, e assicuratevi che la loro fedeltà a me sia totale; dopodiché preparatevi con essi ad occuparvi come poi vi dirò della morte di Ian Maayrkas. Poi, subito dopo l’esecuzione, dovrete scortare un uomo in un posto dove la mia famiglia è sempre stata e sarà sempre al sicuro ma devo intimarvi di non farvi vedere da nessuno: andate quindi per le strade, o mandatevi qualcun altro, e cercate di capire quale via sarebbe meglio fare e di chi fidarvi.”
Thibault chinò il capo.
“Mia signora, la vostra famiglia è benvoluta dal popolo, il vostro sposo ha saputo farsi rispettare e amare dalla sua gente.” dichiarò poi si azzardò ad aggiungere, “Nessuno vi tradirà, ma penso sia segno di saggezza prendere qualche precauzione. Posso sapere chi è colui per il quale vi prodigate tanto?”
Isabeau si accostò alla finestra e guardò fuori.
“Di questo non preoccupatevi per ora, si tratta solo di uno servo che donerò al Monastero di Saint-Michel per liberarmi dal voto che mio marito fece di far loro una donazione ogni anno, in occasione del giorno in cui tornò.” liquidò, poi, accarezzando il corno della finestra, aggiunse, “La mia fiducia è riposta in voi, e con essa lo è anche la vita mia, ma badate: una donna con il cuore infranto è il nemico più pericoloso che un uomo possa farsi.”
Thibault de Chailly annuì.
“Non preoccupatevi.” assentì.
“Forse dovrete uccidere” gli disse la donna senza lasciarlo finire, “nel caso non trovaste uomini sufficientemente fedeli, ma potrete dare la colpa di quell’omicidio a mio marito.”
Thibault annuì.
Isabeau lo squadrò un’ultima volta poi tornò a guardar fuori dalla finestra.
“Andate.” lo congedò seccamente, “Ora voglio stare da sola.”
Il barone uscì dalla stanza senza dir nulla e, quando la porta fu chiusa, Isabeau chiuse gli occhi e si permise di piangere ancora.
“Ian, perché mi hai fatto questo?” chiese al sole che cadeva oltre l’orizzonte, “Perché ogni volta che mi prometti di restare, qualcuno ti porta via da me?”
 
***
 
“Oh, milady, vostro marito certo non ha colpe di questo.” commentò guardando oltre lo schermo del computer, “Sono molte altre le colpe che lo portano in simili situazioni.”
Sul monitor l’immagine di Isabeau scomparve per far posto ad una schermata di gioco.
 

 
HYPERVERSUM
Level one: completed
 
System is saving.
Please wait…




 

Eccoci qui...
Storicamente parlando la storia va sempre peggio, ma secondo la trama: ecco arrivato un nuovo personaggio, cruciale!!!
Attenti a questa persona, mi raccomando!
Non ho altro da dire, grazie a tutti per la pazienza! ;)
A presto!
Ciao ciao!

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Capitolo 15
*** Diversi tipi di fedeltà ***







15. Diversi tipi di fedeltà


Ian riaprì piano gli occhi ma il suo incubo si rivelò la realtà.
Chatel-Argent era un castello splendido e molto più accogliente di quello di Dunchester ma, per quanto riguardava le segrete, non aveva nulla da invidiare al maniero inglese: la cella era piccola e quadrata, senza finestre a parte una piccola feritoia in alto, sopra la testa del prigioniero, e alle pareti di pietra scura stavano attaccate delle pesanti catene di ferro; il giaciglio del prigioniero non era che un tavolaccio di legno con un po’ di paglia attaccato al muro e quindi sospeso dal terreno.
Ian aprì e chiuse le mani più volte cercando di stimolare la circolazione, quasi bloccata dalle cinghie che gli bloccavano i polsi ad una catena sopra la testa.
Traditore.
Dopo tutto quello che aveva fatto per difendere la sua famiglia, il suo Re e quella che era diventata a tutti gli effetti la sua patria, sarebbe morto così: da traditore. Non che si fosse aspettato nulla di diverso quando aveva iniziato la sua confessione.
Ian non aveva mai lottato, né contro le guardie né contro il carceriere. Aveva chinato la testa sotto le accuse di Dammartin, si era dichiarato l’unico colpevole di un intrigo nel quale, a dirla tutta, si era ritrovato invischiato contro la sua volontà, almeno all’inizio, e nessuno avrebbe preso le sue difese: chi avrebbe voluto farlo erano coloro cui Ian aveva fatto giurare di tacere; chi avrebbe potuto erano coloro cui lui aveva mentito e che si sentivano traditi.
Etienne e i due Henri lo avrebbero probabilmente odiato.
Martewall no, lui sapeva da tempo parte della verità: Ian se lo immaginò facilmente che lottava, solo contro tutti, perché gli fosse almeno risparmiata la vita in nome di ciò che aveva fatto per il paese. Però sperava che il barone non facesse nulla, almeno non sapendo che era suo preciso volere chiudere le indagini prima che qualcuno si rendesse conto di come fosse impossibile che Ponthieu e forse anche altri fossero all’oscuro dell’intrigo.
No, Guillaume doveva uscire immacolato da quella storia e con lui Isabeau, Marc e Michel. Con un po’ di fortuna, anche Daniel, Jodie e Alex sarebbero rimasti al sicuro dallo scandalo ma, comunque, per loro c’era Hyperversum: l’indispensabile era mettere al sicuro i Medioevali. Donna invece non era per nulla collegabile a lui, perciò sarebbe rimasta al sicuro, e anche se non aveva giurato,  Ian era quasi del tutto certo che avrebbe capito le sue motivazioni vista
 la giovane figlia da proteggere.
La porta della cella si aprì e Ian sollevò la testa, sorpreso.
“Che ora è?” chiese, quasi intontito: non poteva essere già l’alba, o sì?
“È notte fonda.”
Solo allora, sentendo la sua voce, Ian riconobbe il suo ospite.
“Sir Martewall?” chiese, sorpreso, tornando ad usare istintivamente i modi di un famiglio.
Martewall sollevò un sopracciglio, scrutandolo.
“Mi sono forse dimostrato indegno della tua amicizia?” chiese, scontroso.
Ian fu molto sorpreso di sentirsi chiamare ancora con modi familiari, ma rispose.
“No, mio signore…”
“Allora perché mi tratti così?” chiese acido il barone avvicinandosi a lui, in mano una ciotola di qualcosa.
Ian rimase in silenzio e Martewall lanciò un’occhiataccia alla catena che gli costringeva i polsi sopra la testa. Il barone si sfilò dalla cintura un mazzo di chiavi che di certo non avrebbe dovuto possedere e posò la ciotola sulla panca per allungarsi verso i lucchetti delle cinghie.
Ian si oppose.
“No, Sir!” cercò di dire, pur tenendo la voce bassa per non farsi sentire, “Sono già abbastanza nei guai io, non mettete a rischio anche la vostra posizione!”
“Non penso che le guardie se la prenderanno, visto che me le hanno date loro.” commentò Martewall ignorandolo e infilando le chiavi nel lucchetto.
Ian tentò di dimenarsi e di convincerlo a non fare follie, ma il barone inglese lo bloccò, rinunciando per un attimo a liberarlo, e lo fulminò con un’occhiataccia.
“Non ho intenzione neanche di ascoltarti finché continuerai a chiamarmi ‘Sir’, sono stato chiaro?” sibilò.
Ian contrappose uno sguardo confuso.
“Già sapevo chi fossi, ricordi?” gli disse l’inglese lasciandolo andare per rimettersi ad armeggiare con i lucchetti.
Ian chinò il capo.
“Sì, ma ora sai la storia.” commentò, “Se prima pensavi che fossi un famiglio, ora sai che ero solo un viandante.”
In quel momento Geoffrey finì il suo lavoro e si sedette al suo fianco mentre lui si massaggiava i polsi indolenziti.
“Come stai?” chiese il barone.
Ian, lasciatesi cadere le braccia in grembo, scrollò le spalle e appoggiò la nuca contro il muro.
“Aspetto.” rispose sincero, “La mia unica certezza, ora, è che dopo la mia morte le indagini smetteranno.”
Martewall gli porse la ciotola che aveva portato con sé. Ian la prese, confuso.
“È solo acqua.” sbottò l’inglese, “Purtroppo è il massimo che abbia potuto portarti.”
Ian bevve piano, godendosi la sensazione di frescura sulla gola secca, poi guardò l’amico negli occhi.
“Ho scatenato un putiferio, vero?” chiese, serio ma con un sorriso mesto.
Geoffrey sorrise a sua volta.
“Credo proprio che saresti sorpreso nel vedere come la corte si é ammutolita: perfino Etienne parla solo se chiamato in causa direttamente, e anche in quei momenti è così sgarbato che la gente preferisce farlo tacere.” commentò, “Il tuo nome, entrambi i tuoi nomi, viene evitato con cura maniacale da tutti e gli unici Ponthieu che si vedono in giro sono i tuoi figli, per ordine del Re credo perché dalle loro facce mi è parso di capire che non ne sono entusiasti. Di tuo fratello e tua moglie non so dirti: se ne stanno ostinatamente rinchiusi nei loro appartamenti e non vogliono vedere nessuno se non Daniel e Jodie.”
Ian chiuse gli occhi e, mentalmente, ringraziò il suo signore e il suo amore per il loro affetto fedele poi annuì.
“Ne sono contento…” e avrebbe anche concluso la frase se il suo interlocutore non fosse saltato in piedi, sconvolto.
Ian si rese conto troppo tardi di essersi lasciato scappare le parole sbagliate con Geoffrey Martewall: lui aveva visto Guillaume minacciarlo di sbatterlo in una segreta e poi ripudiarlo dopo un dissapore, probabilmente non credeva più nel sincero affetto fraterno che legava i due uomini, il servo e il padrone.
“Ne sei felice?!” esclamò infatti l’inglese con rabbia, “Quell’uomo tira un sospiro di sollievo consegnandoti al boia!”
Ian scosse la testa.
“No, Geoffrey.” rispose, placido eppure determinato, “Il mio signore sta solo facendo ciò che è meglio per tutti.”
“Tranne che per te!” ribadì ancora Martewall.
Ian sorrise, in un certo senso lusingato dalla determinazione dell’amico a trovare un colpevole con il quale prendersela per togliere a lui le responsabilità dei fatti.
“Anche per me.” lo corresse poi, vedendo l’amico ancora pronto a ribattere, lo interruppe, “Guillaume sta facendo solo ciò che gli ho chiesto di fare io.”
Martewall sgranò gli occhi ma Ian continuò.
“Ho fatto giurare a lui, Isabeau, Daniel, Jodie e Alexandra di non raccontare la verità: io devo apparire come l’unico colpevole di questa storia.” spiegò.
Martewall non riuscì a rispondere per un lungo momento.
Alla fine, scattò.
“Perché?!” esclamò, sgomento, e avrebbe aggiunto ancora qualcosa se Ian non lo avesse fermato.
“Per mia moglie, per i miei figli, per i miei fratelli e per i miei amici!” ribadì duramente alzando un po’ il tono di voce, Geoffrey rimase paralizzato ma Ian lo incalzò, “Non permetterò a nessuno di far del male alla mia famiglia e il Re, ora come ora, non risparmierebbe né i miei figli né mia moglie, figurarsi mio fratello che è l’ideatore di questo piano! No, Martewall: a costo di morire, proteggerò i miei cari e coloro che mi hanno aiutato quando ero in difficoltà.”
Geoffrey, poco propenso a cedere, provò di nuovo a ribattere ma Ian lo fermò ancora.
“Se tu fossi al mio posto, faresti lo stesso!” dichiarò, sicuro.
Martewall rimase in silenzio per un minuto buono fissando il terreno, incapace di replicare, ma poi rialzò gli occhi, incrociò lo sguardo chiaro dell’amico e capì cosa gli sarebbe stato chiesto.
“No!” esclamò, rabbioso, “Non avrò parte in questa storia, se non per aiutarti! Non mi unirò a quelli che vogliono la tua testa! Non puoi chiedermi di inventarmi menzogne che ti facciano passare per un bastardo traditore! Non io! Non puoi chiedermi di…”
“Posso ed è esattamente quello che sto facendo!” si impuntò Ian.
Dannazione, Geoffrey: perché non ti sforzi neanche di capirmi?!, pensò ma non riuscì a dirlo ad alta voce perché sapeva che, in realtà, l’amico doveva aver pensato al padre e agli amici morti nell’assedio di Dunchester avvenuto anni prima.
“Se davvero provi amicizia per me,” tentò allora sentendosi meschino solo per quel colpo basso, “allora, fuori da qui, odiami e compatisci i miei familiari.”
Martewall lasciò cadere le spalle, sconfitto, capendo che Ian non avrebbe accettato un ‘no’.
A sua volta, però, era deciso a riportare l’amico sulla strada della ragione.
“Marc sembra odiarti.” sussurrò, “E Michel pare non sapere nemmeno di essere al mondo: si guarda attorno come se stesse vivendo in un incubo e non parla nemmeno con me.”
Ian sospirò e chinò il capo.
“Ho rovinato la vita ad entrambi.” mormorò, “Adesso si porteranno dietro per sempre la vergogna di essere figli miei.”
Dopo un attimo di silenzio, Martewall parlò scegliendo accuratamente le parole da dire.
“Il Re vuole loro molto bene, sono cresciuti insieme in fondo, quindi non penso che gli farà del male o permetterà ad altri di farlo.” esordì, “Il problema sei tu: cosa intendi fare?”
Ian rialzò la testa lentamente e lo fissò con decisione.
“Giurami che manterrai il mio segreto, che non dirai a nessuno ciò che sai su di me.” implorò.
Martewall alzò le mani e indietreggiò, quasi si fosse trovato davanti, di colpo, una belva feroce.
“Ian, ti ho già detto che non voglio farlo!” esclamò.
“Ti prego!” lo incalzò l’altro, “Siete rimasti tu e Donna: lei so che non parlerà, ma tu faresti di tutto per tirarmi fuori dai guai, lo so, e, se non giuri, io non avrò mai la certezza di aver messo al sicuro la mia famiglia!”
“E tu?!” esclamò Geoffrey tentando di non cedere, “Che amico sarei se lasciassi che ti ammazzassero così?!”
“E che amico saresti se contribuissi a condannare a morte i miei cari?!” replicò Ian, “Isabeau ha sempre saputo tutto, Guillaume ha ideato questa storia e Daniel, Jodie, Alex e Donna recitano una parte tanto quanto me! Il Re li ucciderebbe tutti!”
Martewall indietreggiò, incapace di accettare, ma alla fine, dopo un tempo apparentemente infinito, lasciò cadere ogni resistenza e crollò.
“Ti giuro che non denuncerò la tua famiglia.” sussurrò sentendo le parole bruciargli in gola come carboni ardenti, farlo star male come veleno, “Su ciò che mi è più caro, farò sempre il possibile per difenderla.”
Un sorriso stanco affiorò alle labbra di Ian.
“Grazie…” disse, sincero.
Martewall gli tornò vicino e si sedette al suo fianco, sconfitto.
“Davvero non hai intenzione di lottare?” chiese piano guardandolo in viso, “Jean Marc de Ponthieu si arrende così?”
Ian sospirò ma riprese subito il suo sorriso tranquillo, a beneficio dell’amico che altrimenti avrebbe capito il suo tormento.
“È finita, Geoffrey.” ammise poi i suoi occhi, come tante volte in passato, si illuminarono della luce minuscola che li accendeva sempre quando scherzava o faceva una battuta, “Non ho più assi nella manica.”
Martewall, come previsto, aggrottò la fronte non potendo capire quel modo di dire.
“Tu non farai mai niente di normale, vero?” chiese all’amico a bruciapelo.
Ian sorrise un po’ più sinceramente poi scosse la testa.
“Probabilmente no.” ammise tranquillamente.
 
***
 
Quando la porta della cella si aprì di nuovo, era l’alba.
Ian aspettava, aveva passato la notte a rivangare per sé tutti i ricordi più belli del suo passato ed era arrivato alla conclusione di dover fare ancora una cosa.
Quando il carceriere entrò con una ciotola d’acqua, Ian gli sorrise mestamente.
L’uomo esitò ma poi gli si avvicinò.
“Per quello che può valere, siete stato un ottimo feudatario: la popolazione vi è grata.” sussurrò poi si voltò e fece per andarsene.
“Vi prego!” lo chiamò Ian, “Vi prego, devo chiedervi un favore.”
L’uomo si voltò, evidentemente spaventato e incerto.
Ian si alzò in piedi e si portò le mani dietro il collo.
Piano, sentendo qualcosa spezzarsi anche dentro di sé, Ian si tolse la collana regalatagli al suo matrimonio da Isabeau.
La prese in mano e osservò ancora un istante i diaspri verdi e l’argento scintillante che simboleggiavano la fedeltà eterna di sua moglie poi porse il gioiello al carceriere.
“Vi prego, consegnatelo a mia moglie e ditele…” esitò.
“Signore?” chiese l’uomo incerto prendendo la collana.
“Ditele che…”
 
***
 
“…la libero da ogni vincolo, morale o materiale, che ella può sentire nei miei confronti, augurandole ogni bene possibile e un nuovo matrimonio migliore del primo.
Isabeau era impietrita.
Fissò la collana di diaspro che il carceriere le porgeva, incapace di prenderla.
Stava entrando nel salone per l’udienza con il Re riguardo Ian quando l’uomo l’aveva raggiunta portandole il messaggio del suo sposo.
Ora gli occhi di tutti erano puntati su di lei e nella sala regnava il silenzio più assoluto.
Contegno, Isabeau, o andrà tutto a monte!, si disse.
Poi, con un gesto fulmineo, afferrò la collana e la lanciò contro il muro del corridoio fuori dalla stanza.
“Quando uscirò da qui non voglio doverla vedere più!” ordinò e Chailly, chinando la testa, uscì dal salone prima che le porte venissero chiuse.
A quel punto, Isabeau prese un respiro profondo e si voltò verso Luigi, in piedi ad attenderla accanto alla finestra.
“Madame, sono davvero dispiaciuto di dovervi disturbare in questo momento difficile ma, come mi è stato giustamente fatto notare da Sir Martewall, sarebbe molto più corretto chiedere il vostro parere sulla questione, visto che siete la più danneggiata, e ascoltare il vostro volere per limitare i danni di questa terribile vicenda.” le spiegò il giovane sovrano con un’espressione sinceramente contrita cui Isabeau contrappose una gelida e algida.
Nella sala, il silenzio di chi osservava era totale.
“Desidero da voi solo una concessione, mio sire, per risanare il mio onore ferito.” esordì la dama, seria e implacabile, con un tono deciso, “Lasciate a me la possibilità di organizzare la sua morte.”




Dunque, io per prima trovo questo capitolo particolarmente terrificante.
Lo odio, non è venuto come speravo ma le altre prove che ho fatto per questa scena erano ancora peggiori perciò...
Non so che dirvi, Geoffrey Martewall è un personaggio per me difficile da "replicare" e spero solo di non aizzarmi contro una folla inferocita e urlante "All'eretica!" o qualcosa di simile :)
Boh, nonostante tutto vi consiglio di stare attenti a questo capitolo: un paio di cose dette e fatte da Ian potrebbero rivelarsi importanti nel futuro! ;)
A presto!
Ciao ciao!

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Capitolo 16
*** Esecuzione ***







16. Esecuzione

 
Nel primo pomeriggio, alle quattro.
Da lì a un’ora.
Isabeau strinse convulsamente tra le mani i ciondoli della collana regalatale da Ian al loro matrimonio.
Non poteva più indossarla, ovviamente, ma non riusciva a farne a meno. La teneva nascosta, allacciata all’avambraccio così che nessuno la vedesse, ma continuava a portarla e, quando era sola, la staccava per tenerla in mano e godere dei riflessi sanguigni che il sole creava sui rubini. Una prova dell’amore di Ian, ma anche della sua determinazione a morire per lei.
Un bussare delicato alla porta fece raddrizzare di scatto il capo di Isabeau.
 
Avevano bussato.
“Avanti…”
Jodie era entrata, confusa e sconvolta. Per la prima volta, veramente spaventata dal suo potere politico.
“Isabeau, per l’amor di Dio, dimmi che non lo farai!” aveva esclamato l’americana, sconvolta.
“Fare cosa?” aveva risposto lei, apatica.
“Non puoi voler uccidere Ian! Dimmi che hai un piano, ti prego!”
“Ho un piano…”
Jodie aveva tirato un sospiro di sollievo.
“Prima il mio marito traditore morirà, prima i miei figli saranno al sicuro.” aveva continuato lei, sconvolgendo l’amica.
“Non puoi pensarlo davvero! Ian ti ama, lo sai!”
“E io amo lui!” aveva urlato, in preda alla disperazione, “Ma sapevamo cosa stavamo rischiando quando ci siamo sposati e la possibilità che il gioco saltasse era tutt’altro che remota! Ian sapeva cosa sarebbe potuto succedere e l’ha accettato! E questo è quello che sto cercando di fare anch’io!”
Jodie aveva pianto, l’aveva implorata di rinsavire e alla fine le aveva anche urlato contro che Ian non avrebbe mai sacrificato lei per le apparenze ma poi era corsa via in lacrime, cedendo alla spietata logica per la quale ‘chi rompe, paga’.
 
Isabeau si riprese e si voltò.
“Entrate.” ordinò, già sapendo chi era.
Thibault de Chailly entrò e si inchinò profondamente, molto più tranquillo che al loro primo incontro. Non disse niente ma mostrò una pergamena stranamente macchiata di vino lungo un bordo.
“Posso permettermi di elogiare la vostra astuzia, madame?” chiese soltanto per far capire alla dama che aveva ricevuto le istruzioni riguardo l’esecuzione di Ian Maayrkas e il trasferimento del servo alla sua nuova dimora.
Era rimasto molto sorpreso quando lady Alexandra gli aveva portato una coppa di vino ‘da parte della contessa Isabeau de Montmayeur’, ma ancora di più si era stupito di trovare, infilato nel calice e avvolto in un piccolo quadrato di pelle conciata, un minuscolo biglietto con sopra ogni indicazione per organizzare i sette uomini che avrebbe portato con sé.
“Starete via a lungo.” replicò la dama camminando aggraziatamente avanti e indietro nella stanza, “Per permettervi di portare il servitore dove serve, ho detto al re che ucciderete mio marito in modo lento.”
Chailly annuì.
“La notizia si è già sparsa per il palazzo: la corte è rimasta sconvolta dalla vostra decisione di condannare vostro marito alla morte per frusta.” azzardò, “In molti non capiscono e in molti approvano ma…”
Isabeau si fermò fissando dritto avanti a sé.
“Ma?” chiese sollevando un sopracciglio.
“Sir Martewall chiede di voi, insistentemente.” ammise l’uomo, “E lo stesso fanno i vostri figli, monsieur Guillaume e i compagni d’arme di vostro marito.”
“Ian Maayrkas non è più mio marito!” ricordò dura la donna, “Abituatevi o non sarete d’aiuto!”
Chailly chinò il capo, chiedendo perdono, e Isabeau tornò a guardare fuori dalla finestra appoggiandovisi con rabbia.
“I compagni d’arme di Ian non hanno mosso un dito per aiutarlo?!” sussurrò stringendo forte il cornicione, “Adesso è troppo tardi! Martewall ha preferito scaricare i pesi su di me?! Che adesso sia contento! Quanto al conte Guillaume: voleva proteggere la famiglia, quindi ora può essere contento di sé!”
Thibault chinò il capo.
“Penso che fossero solo tutti molto sorpresi dalla notizia della confessione di vostro marito.” disse cercando di blandire la sua signora.
“Voi non avete reagito così!”
“Io non ero un parigrado di Jean Marc de Ponthieu, e da suo suddito posso dire di aver apprezzato il suo modo di essere e le sue scelte.”
Isabeau non rispose.
Rimase ferma a lungo a guardare fuori.
Thibault de Chailly si congedò e uscì silenziosamente, lasciando sola la donna a fissare l’astro più luminoso in attesa di vederlo sparire.
“È ora.” sussurrò semplicemente quando il sole indicò le quattro di pomeriggio.
Signore, fa che tutto vada bene!, pregò chiudendo gli occhi e lasciandosi sfuggire una lacrima.
 
***
 
Marc alzò il viso e si ritrovò a fissare gli occhi castani di Michel, appena spuntato dalla porta opposta a quella dalla quale era uscito lui.
Erano entrambi su un camminamento i cui merli davano sul cortile interno dove si stava allestendo il necessario per la finta battuta di caccia. Si rivolsero un sorriso tirato ed entrambi, quasi istintivamente, si osservano cercando i segni l’uno sull’altro di quei due giorni infernali.
Era cambiato tutto e lo sapevano.
Si appoggiarono a due merli e continuarono a guardare giù, in silenzio, l’uno accanto all’altro. Osservarono Thibault de Chailly portare con sé sette uomini veterani che erano andati con lui in guerra addirittura a Bouvines e poi osservarono il radunarsi apparentemente casuale della corte.
“Cosa pensi?” chiese Michel a bruciapelo.
“C’è qualcosa di sbagliato!” rispose Marc senza pensare poi chiuse gli occhi e sospirò prima di correggersi, “Lo so che parlo così solo perché è nostro padre ma… è come se mancasse qualcosa, capisci?”
“Una tessera del mosaico che non si incastra con le altre…” assentì Michel, “Secondo te è possibile che abbia finto a quel modo? Che non sia mai stato innamorato di mamma?”
Marc scosse la testa, categorico.
“No, qualsiasi fosse il suo piano iniziale, alla fine si è innamorato di lei, ne sono certo.”
Michel annuì.
“Non voglio che muoia…” sussurrò chiudendo gli occhi per non mostrare al fratello la sua debolezza.
Perché Michel de Ponthieu si stava trattenendo dal piangere.
Marc deglutì, conscio di essere ormai l’elemento portante della famiglia, e mise una mano sulla spalla di Michel.
“Neanche io, fratellino.”
In quel momento, la porta delle segrete si aprì.
 
***
 
Ian socchiuse gli occhi quando si ritrovò investito dalla luce ma continuò a camminare verso il centro del cortile, dove già un cavallo lo aspettava. Gli avevano portato abiti aristocratici, a beneficio di chi l’avrebbe visto cavalcare per il borgo o nel caso qualcuno avesse mai trovato il suo corpo, ma le occhiate di tutti lo facevano sentire come fosse vestito di stracci.
In quell’atmosfera ostile, scorse però lo sguardo addolorato di Etienne de Sancerre e di Henri de Grandprè accanto agli algidi, ma troppo rigidi per apparire incolleriti, Henri de Bar e Geoffrey Martewall; sul camminamento delle mura intermedie, Ian scorse anche Guillaume de Ponthieu.
Si voltò per un istante a guardare il castello e incrociò gli occhi smarriti dei suoi figli sui bastioni e, poco più in alto, l’espressione fiera e dura di Isabeau affacciata alla finestra. All’americano bastò un secondo per verificare che, effettivamente, la moglie non indossava più la sua collana di diaspro rosso.
È giusto, è così che deve andare: senza quella collana, lei è più al sicuro…, si disse ma una parte di lui continuava a sentirsi male, strappata a forza dall’unico porto sicuro che avesse trovato in quel tempo.
Di colpo, si sentì di nuovo come appena naufragato nel medioevo: come un uccellino sperduto, cieco e incapace di volare, troppo piccolo per affrontare il mondo che gli era attorno.
Era un falco senza più nido.
Guardò i figli e incrociò gli occhi di Marc. Sperando di non farsi notare, fece al figlio un cenno verso l’alto.
Marc si voltò e vide la madre alla finestra. Quando tornò a fissare il padre, annuì impercettibilmente.
Nonostante tutto, Ian sorrise per un attimo poi si voltò e salì a cavallo con Thibault de Chailly e gli uomini della scorta.
Notò un cavaliere a volto coperto, con indosso un mantello scuro che non permetteva di intendere nulla del suo portatore, né età o sesso figurarsi la sua identità. Ian non faticò a capire chi fosse.
Il boia…
Stranamente, la vista del suo carnefice lo calmò: aveva preso la sua decisione e se lasciarsi uccidere era l’unico modo per mettere al riparo da ogni rischio la sua famiglia, allora lui l’avrebbe fatto.
Ian spronò il cavallo sotto gli occhi attenti di tutti e, disarmato, uscì con la sua scorta nel borgo.
Gli occhi di Geoffrey Martewall e quelli di Henri de Bar non lo lasciarono un istante, nemmeno quando anche Etienne de Sancerre e Henri de Grandprè tornarono nel castello per dare sostegno ai giovani conti.
I due nobili, senza parlare, salirono sulle mura seguendo con lo sguardo il gruppo di cavalieri. Si appoggiarono ai merli e osservarono la scena fino a che i dieci uomini non furono scomparsi nel bosco.
“Dama Isabeau è preda della disperazione, altrimenti non mi spiego un comportamento simile!” commentò De Bar, ritto in piedi con una mano sull’elsa della spada, senza guardare il suo interlocutore.
“Credo sia comprensibile.” rispose Martewall circospetto, rimanendo appoggiato con i gomiti al muro.
Rimasero in silenzio ancora a lungo poi Martewall si raddrizzò e puntò gli occhi grigi in quelli dell’interlocutore.
“Finiamo questa farsa, ti va?” chiese all’altro uomo.
De Bar sollevò un sopracciglio ma poi annuì.
“Ti fidi ancora di lui.” non era una domanda quella del francese, Henri ‘il grande’ era certo di ciò che diceva, “Ti ho visto scendere nelle segrete.”
Martewall non si scompose.
“Io sono fedele all’uomo, non al suo nome.” replicò gelido.
“Perché non hai detto questo, davanti al Re?”
“Perché tu ti sei astenuto, davanti al Re?” chiese a sua volta Martewall acido.
“Non è la stessa cosa!” dichiarò de Bar raddrizzandosi.
“Davvero?”
“Io non posso espormi, non qui!” dichiarò il conte francese, “Tu sei inglese, non sei sotto la giurisdizione del nostro Re, almeno per ora: io devo sottostare al suo volere se non voglio che anche altri ne facciano le spese!”
Martewall rimase immobile, irrigidito dalla stizza, ancora un attimo poi però sospirò e abbassò le spalle.
“Cosa pensano Grandprè e Sancerre?” chiese, cupo.
De Bar tornò a guardare la boscaglia dove Ian era sparito con i suoi carnefici.
“Si sentono in colpa, ma nemmeno loro potevano opporsi apertamente al Re in questo frangente.” spiegò.
Per un attimo, gli uomini rimasero in silenzio, incapaci di dire qualcosa.
“Ancora non vi ho fatto i complimenti.” esordì De Bar all’improvviso.
Martewall aggrottò la fronte.
“Monsieur?” chiese.
“A Béarne.” spiegò il francese voltandosi verso l’interlocutore, “Siete un vero campione nel giostrare.”
Martewall rispose allo sguardo di De Bar sondandone gli occhi, come il conte stava facendo con lui.
Dietro al discorso apparentemente sciocco, il barone inglese lesse l’implicita proposta d’amicizia del francese. Le motivazioni potevano essere molte, dal rispetto per Ian e il suo occhio di Falco al semplice desiderio di tenerlo al sicuro ora che non aveva più un garante francese affidabile.
“Anche voi avete giostrato bene.” rispose quindi azzardando un sorriso stanco.
Henri de Bar annuì.
I due uomini rimasero in silenzio ad osservare, ben oltre il paesaggio, il sole che si abbassava inesorabilmente.
Nonostante l’aria ancora fresca, attesero fino a che il sole non fu calato.
Fu solo allora che, dalla boscaglia, riemerse il finto gruppo di battitori partito nel pomeriggio, suonando l’allarme.
Thibault de Chailly e i suoi compagni continuarono a gridare che il signore de Montmayeur era scomparso all’improvviso durante la caccia fino a che non furono dentro il castello.
Re Luigi era in piedi sulle gradinate che conducevano nel maschio, a braccia conserte e sguardo truce. Alla sua destra stava la Regina Madre Bianca di Castiglia; alla sua sinistra, Isabeau de Montmayeur scendeva le scale per apprendere le ultime notizie.
Il barone francese si inchinò al sovrano e gli porse una frusta insanguinata.
Geoffrey Martewall non riuscì a trattenere un pensiero accusatorio nei propri confronti ma rimase impassibile come De Bar mentre Ponthieu annuiva cupo e Sancerre, Grandprè e Daniel si lasciavano sfuggire espressioni desolate e distoglievano lo sguardo.
Thibault de Chailly si raddrizzò, impassibile, poi fece un cenno del capo alla sua signora, prima di rivolgersi di nuovo al Re.
“Come avete ordinato, mio signore.” disse soltanto.




Lo so, è di passaggio e praticamente inutile ma serve, no?
Chiarisco una cosa che più persone mi hanno chiesto: Perché i nobili si danno tanta pena a tener tutto nascosto?
Allora, le risposte sono due: la prima è che, nonostante ciò che si crede, nel 1200 iniziano delle piccole "rivolte popolari", diciamo, per esempio è nel 1229 che all'Università di Parigi viene indetto il primo sciopero di alunni e insegnanti (la scuola resterà chiusa per i due anni successivi) e siccome l'accentramento del potere nelle mani del sovrano sarà completato solo con la Guerra dei Cent'anni, il sovrano tende a tenere il popolo il più all'oscuro possibile della situazione; la seconda ragione, invece, è prettamente legata alla trama poiché non è mai esistito, storicamente parlando, il rapimento di Margherita di Provenza, l'ho inventato io e perciò dovevo trovare un modo per spiegare il fatto che questo non fosse menzionato in alcun documento storico.
Chiarito questo e sperando di non divenire oggetto delle ire di nessuno, vi rivelo il titolo del prossimo capitolo: Non è tempo di Game Over
Speriamo bene ;)
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 17
*** Non è tempo di Game Over ***







17. Non è tempo di Game Over

 
Fece girare piano tra le dita una pietra di silicio e sorrise.
Nello schermo cui stava di fronte, Isabeau de Montmayeur fissava gelida la frusta con la quale era stato ucciso suo marito.
Avrebbe preferito godersi la scena della morte di Ian ma non avrebbe potuto impostare la visuale di quel personaggio, un personaggio giocante, senza che qualcuno si accorgesse della sua intromissione nella partita così aveva dovuto ripiegare sulla contessa, l’unica comparsa non giocante che gli avrebbe dato soddisfazione con il suo dolore.
Il gioco gli mostrò per un attimo in primo piano i volti di Daniel, Jodie, alcuni nobili i cui nomi lui non avrebbe ricordato e alcuni che nemmeno aveva mai visto. Infine comparve il viso smunto e dall’espressione colpevole di Donna Barrat ‘de Sancerre’ che osservava la scena da dietro una finestra del torrione centrale.
Il gioco si fermò su quel viso, l’ultimo dei presenti all’esecuzione, e vi fece comparire sopra delle scritte.
 

HYPERVERSUM
Level two: completed
 
System is saving.
Please wait.

 
Solo per un attimo, si chiese dove fosse Alexandra Freeland.
 
***
 
“Annulla” ordinò Alex e la mela verde dell’Help scomparve da sopra il suo palmo.
La ragazza sospirò di sollievo.
Era stato un rischio richiamare Hyperversum in quella situazione, con la corte francese al castello e il Re furioso. Certo, molti dei nobili erano partiti per organizzare le ricerche di Margherita di Provenza subito dopo che Ian era stato condotto nella foresta e solo i suoi compagni d’arme con Martewall e Ponthieu erano rimasti a palazzo ma il Re era rimasto e la sua rabbia non avrebbe lasciato posto alla compassione né le avrebbe donato il tempo di provare ad inventare una scusa.
Fosse stato anche l’uomo più felice della terra, il rogo non me lo avrebbe evitato nessuno!, si disse Alexandra ma non riuscì a pentirsi del gesto che aveva fatto.
Doveva tentare, anche per Isabeau che stava orchestrando il tutto con tanta cura, e così, dopo aver ottenuto da suo padre il controllo della partita con suppliche di ogni genere e con la promessa di una spiegazione, aveva chiamato l’Help e poi le statistiche dei giocatori.
Aveva aspettato, nascosta dietro il letto nella sua camera, per tutto il pomeriggio e, dopo decine di tentativi, era riuscita a ottenere lo status del personaggio Ian Maayrkas.
Nelle caratteristiche di Ian si poteva ben notare tutte le volte in cui l’uomo aveva rischiato di morire o era stato ferito perché la linea precipitava verso il basso con pendenza diversa in base alla gravità delle sue condizioni. Alex aveva controllato e aveva trovato il periodo di Cairs con un picco dalla notevole pendenza verso il basso.
Ma in quel momento il grafico procedeva lineare senza interrompersi.
A quanto pareva, non era ancora ‘Game Over’ per il cavaliere errante Ian Maayrkas.
 
***
 
Quel pomeriggio…
 
Ian cavalcava senza badare a ciò che stava per capitargli.
Semplicemente osservava ora i riflessi del sole sul manto del suo palafreno, ora le foglie che questo schiacciava ora solo le sue mani strette sulle briglie.
Quanto sarebbe durato? Come sarebbe morto? Cosa sarebbe successo dopo alla sua famiglia?
Questi erano gli unici pensieri che riuscivano a far breccia nello stato di estraneità che lo aveva pervaso da quando avevano lasciato il castello, ormai una ventina di minuti prima.
Stava ancora chiedendosi se Isabeau avrebbe ceduto ad un nuovo matrimonio quando una mano che afferrò le briglie del suo cavallo e numerosi incitamenti alle cavalcature lo riscossero.
Ian sollevò lo sguardo appena in tempo per scoprire che erano appena entrati nella foresta, dove nessuno potevi più vederli, e notò che Thibault de Chailly gli stava lanciando il cavallo al galoppo fuori dal sentiero.
Ian fece in tempo ad aggrapparsi alla criniera dell’animale per non essere disarcionato ma non riuscì a dire niente, troppo sorpreso per articolare le parole.
Era giunto il momento?
Dopo poco, gli uomini si fermarono di botto in una minuscola radura, grande a malapena a sufficienza per contenere loro e le cavalcature, e balzarono a terra con foga.
“Scendete, mio signore!” gli intimò Thibault de Chailly in quel momento e Ian obbedì, confuso dal tono preoccupato dell’uomo.
Con un istante di ritardo, metabolizzò l’espressione e l’assoluto rispetto che il suo ex-vassallo gli aveva tributato.
“Monsieur, io…” tentò ma l’uomo gli fece cenno di tacere.
Ian lo osservò aprire una sacca appesa alla sella del suo destriero e tirarne fuori degli umili abiti da contadino.
Era sorpreso perché certo non si aspettava quel gesto, ma rimase ancor più sorpreso quando si vide lanciare quegli abiti.
Li afferrò al volo solo per riflesso ma la sua mente ancora non riusciva a raccapezzarsi tra tutte le novità che registrava: certo era che la sua esecuzione non si sarebbe dovuta svolgere così.
Rialzò la testa, sorpreso, e osservò i soldati per cercare di capire se essi fossero sorpresi come lui, ma i sei della scorta si stavano allontanando in diverse direzioni per confondere le tracce e Thibault de Chailly stava parlando fitto fitto con l’uomo incappucciato che ora annuiva deciso e ora scuoteva il capo.
Ian non osò interrompere il discorso ma, nel frattempo, si chiese se si fossero resi conto di averlo lasciato senza alcuna sorveglianza.
Ma, insomma, che diavolo succede?!, pensò, furioso e disperato in cuor suo perché l’ansia per se stesso e per i suoi cari cominciava a salire.
Non se ne dovette preoccupare ancora a lungo perché Chailly gli lanciò un’occhiata in quell’istante e notò che non si cambiava così lui e l’uomo lo raggiunsero in fretta.
“Monsieur, ve ne prego!” esclamò il barone guardandosi attorno e poi spiando il cielo per accertarsi dell’ora, “Non abbiamo molto tempo!”
“Cosa succede?” si osò a dire finalmente Ian.
Il barone lo osservò, palesemente sorpreso.
“Vi facciamo fuggire, mio signore!” rispose, come fosse una cosa ovvia, poi allungò una mano verso il ‘boia’ che gli porse la frusta che teneva in cinta.
Ian lo osservò, imbambolato, sfilarsi il guanto ma riuscì ad abbozzare una reazione solo quando lo vide prendere il proprio pugnale e premersi la lama sul palmo facendolo sanguinare.
“Monsieur, no!” esclamò ma fu prontamente fermato dall’uomo incappucciato.
“Andiamo!” esclamò questi con una pronuncia francese appena lievemente viziata dall’inflessione sassone, “Non vorrete renderci le cose più difficili, non è vero, ‘Sir Ian’?”
Ian sgranò gli occhi e si voltò di scatto verso l’uomo.
“Beau?” chiese, sorpreso.
Questi tolse il cappuccio e rivelò la corta zazzera rossa, disordinata come sempre, e gli occhi verdi sopra ad un volto dai tratti felini.
Certo, era cresciuto e si era fatto un uomo, portava anche addosso qualche cicatrice in più, ma l’aria selvatica che aveva preso da bambino, scorrazzando per l’Inghilterra, e che gli aveva fruttato il soprannome Coda di Volpe era sempre al suo posto.
“In persona!” commentò il ragazzo, “Voi mi perdonerete, ma non potevo lasciare che vi uccidessero, specie sapendo che a me avevate detto la verità!”
Sempre sorridendo, apparentemente per nulla sfiorato dalla prospettiva di disobbedire al Re, Beau prese la frusta, ora sporca di sangue, che Thibault gli stava porgendo.
“Dopo dovrete aiutarmi a medicare la ferita o qualcuno potrebbe insospettirsi…” ricordò il francese al giovane che annuì prima di andare a legare l’arma alla sella del suo interlocutore.
Ian guardò Thibault, deciso a farsi dare finalmente le spiegazioni che pretendeva, ma il nobile prese dalla propria scarsella qualcosa che troncò all’americano ogni protesta proprio sul nascere.
Chailly gli porse la collana di diaspro verde e argento.
“Madame è rimasta davvero delusa quando gliel’avete fatto recapitare!” commentò fingendo di non notare l’espressione sorpresa e commossa del suo precedente signore, “Ella porta ancora la sua, anche se legata al braccio.”
Ian lo guardò e lui alzò le spalle.
“Mi è stato chiesto di riferirvelo.” spiegò poi avvicinò ancora di più il gioiello al suo signore.
Esitante, Ian lo prese.
Nel momento in cui sentì le gemme lisce e il metallo freddo a contatto con la sua pelle si sentì rinascere, come se una ferita sanguinante fosse guarita all’improvviso.
“Ha organizzato tutto lei?” chiese, pur sapendo che era così.
Thibault de Chailly annuì.
“Ora non vorrete rovinare i piani di vostra moglie, vero?” gli chiese, assumendo in modo quasi inquietante le ‘sembianze’ di quella che Ian immaginava essere davvero la voce di una coscienza.
“Potrei almeno sapere quali sono?” chiese, appena un po’ acido.
Era stufo, dannatamente stufo del fatto che qualsiasi cosa lui programmasse venisse mandata in fumo in qualche modo. Non che gli dispiacesse di essere ancora vivo ma avrebbe gradito che, anche solo una piccola volta, Hyperversum permettesse alle cose di seguire il loro corso.
Gioco maledetto!, pensò rabbioso, Mai una volta che tu faccia il tuo dovere!
Thibault de Chailly annuì, ignaro dei pensieri del suo interlocutore, e gli indicò gli abiti che aveva in mano.
“Monsieur, con questi abiti dovrete andare al monastero di Saint Michel, Sir Beau Foxworth vi accompagnerà, e lì prenderete l’identità un servo che vostra moglie dona al monastero…” spiegò.
Ian si prese mentalmente l’appunto di torchiare Beau per capire come mai fosse in Francia poi si azzardò a ribattere.
“Al monastero mi riconosceranno: ho passato lì molto tempo!” ribadì, cercando una scusa per non assecondare quel piano folle.
Il barone però scosse la testa.
“Il vecchio abate, pace all’anima sua, è morto, voi dovreste saperlo, e il suo successore attuale non vi ha mai visto in faccia, inoltre vi camufferemo un po’.” spiegò tranquillo poi, però, quasi all’improvviso fece una smorfia un po’ imbarazzata e un po’ seccata.
“Cosa succede?” chiese Ian guardandosi istintivamente attorno.
“Monsieur,” azzardò il barone, “temo dovremo tagliarvi i capelli…”
 
***
 
Ian sbuffò.
“Non mi riconoscerei nemmeno io!” sbottò.
Si rialzò da inginocchiato ma non si trattenne dal lanciare ancora un’occhiata scettica all’armadio con corti capelli castani e occhi azzurri ma arrossati dalla polvere che lo fissava sospettoso dalla superficie di una polla d’acqua.
Beau, alle sue spalle, rise.
“Allora è perfetto!” commentò.
“Quando la terra sui capelli sarà andata via?” chiese Ian, scettico.
“Quella dietro gli alloggi dei servi, al monastero, è molto fine e andrà benissimo!” lo rassicurò il giovane inglese, “E poi, tempo qualche settimana, e il sole da solo schiarirà i vostri capelli. Certo, non abbastanza da farli diventare castani, ma un po’ più chiari di sicuro e allora potrete evitare di camuffarvi. L’importante è che non vi facciate ricrescere i capelli o vi riconoscerebbe chiunque! E se riuscite ad arrossarvi spesso gli occhi, sarebbe ancora meglio.”
Ian annuì poi raggiunse il suo cavallo e vi salì in groppa. Lui e Beau avevano percorso metà del tragitto verso il monastero e ormai al castello doveva essere arrivata la notizia della sua morte-esecuzione. Fino ad allora, temendo di essere fermati durante il cammino, i due non avevano parlato di nulla ma, essendo ormai certi che nessuno stesse sospettando nulla, si erano azzardati a fermarsi per permettere a Ian di controllare che il travestimento reggesse e per riposare un po’ le cavalcature affaticate.
Adesso però era tempo delle domande e, capendo ciò dallo sguardo carico d’aspettativa del suo compagno di viaggio, Ian decise di prevenirlo.
“Tu cosa ci fai qui?” chiese squadrando il ragazzo, “Tua madre diceva che eri ancora Inghilterra!”
Beau annuì.
“Infatti ero lì fino a pochi giorni fa” ammise, “ma dovevo portare notizie e i miei uomini al mio signore e ne ho approfittato per venire qui, per pura combinazione ho incontrato monsieur Thibault mentre perlustrava la strada fuori dalle mura. Lui mi ha riconosciuto, mi ha spiegato la situazione e io mi sono detto disponibile a fingermi il fantomatico boia che lui avrebbe trovato. Quando voi sarete al sicuro nel monastero, io tornerò indietro, andrò a prendere i miei uomini e fingerò di arrivare direttamente dall’Inghilterra così da giustificare il mio ritardo con il dover spostare le truppe!”
Ian sgranò gli occhi.
E tutto questo è un’idea di Isabeau?, si chiese sorpreso.
Beau annuì, probabilmente intuendo la sorpresa dell’uomo dalla sua espressione.
“Vostra moglie era davvero determinata, a quanto mi ha detto monsieur Chailly, e pare che il suo contegno abbia ingannato perfino monsieur Daniel e sua moglie, che la credono sostenitrice del vostro omicidio, e…”
Probabilmente Beau aveva altre notizie importanti da dare ma Ian lo interruppe, scioccato.
“Daniel e gli altri non ne sanno nulla?!” chiese, sconvolto.
Beau parve sorpreso ma annuì.
“Il vostro compagno d’arme e vostro fratello non sono molto ben disposti verso di voi, ora come ora…” spiegò il giovane.
Ian si ritrovò ad annuire senza nemmeno capire bene perché visto che la sua mente era altrove.
Era ovvio che Beau pensasse che Guillaume e Daniel lo odiassero e fossero sconvolti dalla notizia ma lui e Isabeau sapevano benissimo che entrambi erano al corrente di tutto.
Perché tenere il segreto anche con loro?, si chiese l’americano ma la risposta arrivò subito dopo, Perché se l’avessero scoperta e qualcun altro avesse saputo, sarebbe stata una carneficina!
D’improvviso, Ian e Beau si trovarono alla curva che precedeva il monastero di Saint Michel.
“Monsieur,” esordì Beau fermando il cavallo, “noi ci separiamo qui.”
Ian annuì.
“Ti ringrazio Beau…” cercò di dire ma il ragazzo fece un cenno con la mano a fermare le sue proteste.
“Tra mezzi criminali ci s’intende!” scherzò strappando a Ian un mezzo sorriso, poi però tornò serio, “Seriamente: sono davvero in debito con voi e questa è ben poca cosa per ripagarvi di ciò che avete fatto per me e mia madre.”
L’americano rimase colpito dal discorso, serio e deciso, ma alla fine annuì.
Dopo pochi e composti saluti, Ian proseguì da solo verso il monastero mentre Beau tornava verso Chatel-Argent.
Il giovane inglese fece fermare il cavallo dopo pochi passi e si voltò indietro.
Abbiate cura di voi…, pensò un’ultima volta, diretto col pensiero all’uomo che stava varcando in quell’istante la soglia del monastero.
Poi, senza più fermarsi, ripartì al galoppo.




Chiedo umilmente perdono! Qui sta nevicando che Dio la manda, la connessione continua ad andarsene perciò pubblico di fretta e senza rileggere!
Perdonate gli errori, davvero: metterò tutto a posto il prima possibile!
A presto!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 18
*** Fantasmi dal passato ***







18. Fantasmi dal passato

 
“E ora: si aprano le danze!”
 

HYPERVERSUM
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***
 
Isabeau si richiuse la porta alle spalle, vi si appoggiò con la schiena e sospirò di sollievo.
Signore, ti ringrazio!, pensò poi prese ancora un respiro e si diresse al proprio armadio.
Sorrise pensando che nemmeno suo marito era mai arrivato al punto di dover recitare una così complessa e difficile: lei doveva fingere di stare fingendo di portare il lutto.
Indossò la fascia nera al braccio e il velo scuro preparati dalle damigelle e poi prese un profondo respiro.
Non posso sbagliare!, ricordò a sé stessa, Un errore può bastare a mandarci tutti al patibolo!
Poi, con calma, scese le scale diretta al salone per cenare.
 
***
 
Nel salone centrale di Chatel-Argent restavano solo i compagni d’arme del precedente signore, sir Martewall e monsieur de Ponthieu. Dei figli di questi, soltanto le dame e Marc e Michel erano rimasti a palazzo mentre gli altri si erano aggregati alle ricerche della principessa Margherita.
Ovviamente, il Re, con il suo seguito e la Regina Madre, era partito subito dopo l’arrivo della notizia che accertava la morte del traditore.
Isabeau de Montmayeur fu l’ultima ad aggiungersi alla tavolata funerea e silenziosa.
“Vogliate perdonarmi per il ritardo.” disse solo prima di sedersi al proprio posto, quello che una volta era appartenuto al marito.
Nessuno commentò in alcun modo per lungo tempo e la tavolata rimase in silenzio.
Alla fine, quando ormai i commensali stavano terminando il pasto, Donna de Sancerre saltò in piedi.
“Come?!” chiese solo, rabbiosa e incapace di trattenersi ancora.
Intendeva: come puoi fare così?, come puoi restare così calma dopo averlo fatto uccidere sapendo che non aveva fatto niente?
Isabeau, però, la prevenne dando alla sua domanda un senso totalmente diverso.
“Non lo so: è stato molto abile a imbrogliarci tutti.” disse, fingendo offesa, “Pensavo fosse un brav’uomo, soprattutto quando l’ho visto tirarti fuori da quel convento…”
Donna esitò un istante ma, davanti all’evidente allusione al legame tra lei e Ian, dovette sedersi di nuovo. Sapeva che l’amica stava solo cercando di proteggerla dallo stesso destino che aveva colpito il di lei marito, ma non riuscì a non risentirsi per quel colpo basso.
Isabeau bevette un po’ di vino dal proprio calice poi guardò Daniel.
“Mi ha detto vostra figlia che avete intenzione di tornare nella vostra terra.” mentì, “Partirete domani?”
Daniel cercò di non mostrare la propria ansia e assecondò il gioco della contessa, sapendo che ormai la situazione era sfuggita dalle loro mani.
“Sì, domattina presto…” rispose sperando di usare le parole adatte.
Sapeva che avrebbe potuto aggiungere una qualche frase di spiegazione, come: il tradimento di colui che consideravo un fratello è troppo forte; ma non ebbe cuore di farlo.
Isabeau annuì.
“Mi perdonerete se non vi faccio assegnare una scorta,” spiegò, “ma purtroppo al momento la situazione mi impone di mantenere le truppe al castello in attesa di verificarne la fedeltà a me e non a mio marito.”
Daniel annuì capendo che la dama gli stava permettendo di sparire nel nulla senza dover dare spiegazioni ad alcun testimone.
“Non preoccupatevi, mia signora: anzi, se ci fosse qualcosa che possiamo fare per voi, vi prego di non esitare a dirmelo.” replicò.
I cavalieri alla tavola si dichiararono concordi alla dichiarazione di Daniel ma Isabeau troncò ogni possibilità di collaborazione.
“Non ve ne sarà bisogno.” replicò, lapidaria, “I miei figli sono sufficienti a riprendere il controllo del feudo e io ho intenzione di trascorrere in tranquillità gli anni che mi restano…da sola.”
Le ultime due parole fecero capire all’americano quando dura fosse stata per Isabeau l’idea di rinunciare a Ian, con quanto sacrificio l’avesse condannato a morte sapendo che non lo meritava. Non riusciva a giustificarla, ma poteva compatirla.
Il mattino dopo, i tre americani lasciarono Chatel-Argent.
 
***
 
“Non posso credere che l’abbia fatto davvero!” si lasciò scappare Jodie con un singhiozzo.
Erano usciti dalla cerchia delle mura più esterne da appena una ventina di minuti e non erano neanche a metà strada per il monastero di Saint-Michel, superato il quale sarebbero spariti nel nulla, ma ormai la donna aveva raggiunto il limite di sopportazione.
“Jodie…” tentò di dirle Daniel allungando una mano per carezzarle una spalla ma fu interrotto da Alex.
Viaggiavano come all’andata, perciò abbassò gli occhi di scatto davanti a sé quando sentì la figlia replicare: “E non l’ha fatto.”
Alexandra, cavalcando all’amazzone davanti al padre, continuò a fingere di fissare la strada ma schiuse le labbra per spiegare ai genitori ciò che la castellana le aveva raccontato.
Non aveva capito subito perché Isabeau si fosse rivolta a lei anziché a qualcun altro ma poi aveva percepito la tensione dei genitori, della madre in particolare, e aveva capito che loro erano troppo legati ad Ian per riuscire a fingere abbastanza da reggere quell’ennesimo gioco di sosia: non avrebbero simulato sufficiente rabbia o dolore se avessero saputo che Ian non rischiava di morire e avrebbero potuto far insospettire qualcuno. Lei invece, suo malgrado, era fin troppo brava a nascondere le proprie emozioni.
La turbava l’idea di lasciare Marc, con il quale sentiva crescere prepotente l’emozione che l’aveva spinta ad approfondire il bacio quella notte, e si chiedeva come avrebbe preso il giovane tutte quelle rivelazioni. Stava, comunque, per aggiornare i genitori sulla nuova vita di Ian, temporanea si sperava, quando si sentì colpire al petto da qualcosa di duro e crollò all’indietro, precipitando dal cavallo e sbattendo la testa sul selciato con tanta violenza da perdere i sensi per alcuni istanti.
 
***
 
Daniel stava fissando sbalordito la figlia quando, all’improvviso, qualcosa era partito dagli alberi e, con mira precisa, aveva abbattuto lui, Jodie e Alexandra, facendoli cadere di sella e spaventando i cavalli.
Era stato l’ultimo ad essere centrato: aveva fatto in tempo a vedere la figlia essere colpita al petto, mentre si voltava verso di lui, e la moglie essere presa sulla tempia da una seconda di quelle che parevano frecce con la punta avvolta in molti strati di stoffa contenente qualcosa di pesante, poi una terza lo aveva colpito sul collo. Il colpo era stato tremendo e, senza niente ad attutirlo, era crollato a terra a sua volta, intontito.
Cercò di rialzarsi facendo forza sulle braccia ma riuscì solo a portarsi carponi. Sollevò lo sguardo e vide Alex, supina a braccia spalancate come un uccellino, priva di sensi sul bordo della strada. Si voltò freneticamente alla ricerca di Jodie per chiederle aiuto per la figlia, ma trovò la moglie sdraiata su un fianco con un braccio sotto il capo e l’altro con il polso malamente schiacciato dal resto del corpo, anche lei svenuta.
Capì che la moglie doveva aver subìto un colpo molto forte subito, quando era stata abbattuta, mentre la figlia doveva essere crollata per colpa dell’impatto con il suolo. Istintivamente cercò di voltarsi verso la direzione da dove erano arrivati i colpi nemici ma, nel farlo, puntò gli occhi avanti a sé, lungo la strada, e si paralizzò.
Daniel non voleva crederci, non riusciva a crederci.
Eppure davanti a lui, terribili nelle loro armature, l’una con un leone d’oro rampante in campo rosso e l’altra bianca con una croce nera centrale, stavano gli incubi più tremendi che Hyperversum gli avesse mai fatto incontrare.
Jerome Derangale sorrise.
“Chi abbiamo qui?” chiese retorico.
Al suo fianco, il barone Adolphe de Gant rise.
“Una spia senza signore!”
Daniel si costrinse a mettersi in piedi e, pur consapevole dell’inutilità del gesto, sguainò la spada.
Gli girava la testa per la botta e il sangue pareva pulsargli nel collo, lì dove il proiettile lo aveva colpito, ma cercò di non barcollare e tenne gli occhi sui due nemici.
“Però!” lo derise Sans-pitié, “Siamo diventati combattivi!”
Daniel strinse i denti e sollevò la spada puntandola contro i due uomini.
Mentalmente maledì Hyperversum e chiunque gli avesse consegnato una spada anziché un arco poi si ricordò di un piccolo quanto importante dettaglio.
“Voi siete morti!” esclamò in un verso strozzato.
Era impossibile: aveva visto Ian trafiggere Derangale a Bouvines e Martewall aveva confermato che era morto, inoltre era stato lui stesso ad uccidere Gant! Come potevano essere lì?!
“Ma davvero?” gli chiese Derangale.
L’istante dopo, l’inglese stava incrociando la lama con quella dell’americano che, sebbene un po’ più esperto di combattimenti rispetto al suo primo viaggio, riuscì a contrastarlo per appena qualche secondo poi, sopraffatto dalla sorpresa e dal precedente colpo, perse l’istante e si fece disarmare.
“Ti sembra opera di un morto questa, straccione?!” gli chiese ridendo lo sceriffo nell’assestargli un colpo al viso con il pomolo della propria lama.
Daniel cadde a terra, sulla schiena, e si ritrovò la spada nemica alla gola prima di poter anche solo pensare di provare a reagire in qualche modo.
“Allora? Vuoi dimenarti ancora un po’ o fai il bravo?” lo provocò l’inglese, “Al nostro primo incontro, il tuo amico era molto più saggio di quanto non lo sia stato poi in futuro però chissà che tu non ti ammansisca con il passare del tempo!”
Daniel fulminò l’inglese, ma non osò replicare dopo aver notato con la coda dell’occhio che Alex si era discretamente sdraiata su un fianco e ora tendeva le orecchie cercando di capire la situazione.
“Va bene!” esclamò avendo cura di farsi sentire, “Getto via il pugnale!”
Sfilò rapidamente la lama dalla cintura, ma ebbe cura di lanciarla accanto alla mano della figlia e quella gli rivolse un rapidissimo cenno con il capo.
Pregando di aver fatto la cosa giusta e promettendo a se stesso che non si sarebbe mai più lamentato dello sport pericoloso praticato da Alex se questa fosse riuscita a salvarsi con la madre grazie a ciò che aveva appreso, spostò di nuovo lo sguardo sull’uomo che lo fissava stupito dal suo gesto.
Daniel tentò di approfittare dell’istante e colpì la spada dell’avversario con un calcio, ma Derangale lo rimise subito al suo posto colpendolo con un pugno al volto dato con la mano libera.
“Non provarci, serpe maledetta!” ringhiò andando a recuperare la spada, finita più vicina ad Alexandra che a Daniel, il quale si portò una mano al viso sentendo il sapore del sangue sul labbro inferiore.
L’americano dedusse che doveva essersi spaccato e intanto Gant gli si avvicinò, convinto che fosse la minaccia più urgente.
L’anglo-francese si sbagliava.
Alexandra, fulminea, afferrò il pugnale e girò su se stessa ferendo lo sceriffo, chinatosi sulla propria arma, ad un braccio.
Gant tirò fuori la spada, sgomento, per ferire il prigioniero e metterlo fuori combattimento, ma la ragazza lanciò il pugnale verso di lui.
“Eh no, che cavolo!” si lasciò sfuggire, “Quello è mio padre, per la miseria!”
La lama penetrò nella cotta di maglia all’altezza del bicipite e si piantò nel braccio dell’uomo che lasciò cadere la propria arma.
Gant strinse velocemente la ferita con la mano sana piegandosi leggermente su se stesso con un’imprecazione.
Daniel si rialzò velocemente e corse verso la figlia appena in tempo per trascinarla lontano dal fendente di un Derangale furioso.
“L’avevo sentito!” protestò a mezza voce la ragazza ma poi non osò continuare.
“Trova tua madre!” le ordinò Daniel, “È per terra svenuta!”
Derangale, furibondo, iniziò a sventolare la lama verso l’americano che si ingegnò ad evitarne il filo piegandosi e scartando.
Gant, imprecando costantemente, afferrò il pugnale con la mano che prima teneva premuta sul taglio ancora sanguinante e lo svelse con un gesto secco gettandola poi in terra.
“Smettila di perdere tempo!” ordinò il crociato allo sceriffo, quando lo vide indugiare sulla prospettiva di lasciar perdere Daniel per aggredire la colpevole della sua ferita, “Lascia perdere quelle due, non ci servono! Ammazzalo!”
Daniel si chiese, sorpreso, come mai il barone non lo attaccasse di persona ma, anzi, stesse sempre più indietreggiando verso il bosco dal quale era arrivato e da dove provenivano chiaramente i nitriti di un paio di cavalli.
“Mi serve morto!” ringhiò ancora Gant, “Muoviti!”
Derangale, a sorpresa, obbedì all’ordine e ricominciò ad accanirsi su Daniel.
Nonostante l’ansia del momento, all’americano non sfuggì che l’inglese non era abile quanto ricordasse. Sembrava diverso, quasi che la sua bravura andasse a scatti: ogni tanto tirava fuori dei colpi che lui riusciva a scansare a malapena, ma ogni tanto sembrava calare di precisione e mira.
Daniel sentì chiaro il galoppo di un cavallo che si allontanava e capì che Gant aveva lasciato il compagno da solo.
Derangale ebbe uno dei suoi guizzi d’abilità e la sua lama saettò a un soffio dalla gola dell’americano, fermata però all’ultimo momento proprio dalla spada che prima era della sua vittima.
Derangale si voltò, sgomento, e si ritrovò a fronteggiare un’avversaria che non vedeva affatto.
Alex indietreggiò subito, cercando di mantenere la calma che gli avrebbe consentito di provare a combattere, e Daniel vide che la giovane aveva spostato la madre, ancora priva di sensi, sul bordo della strada.
Derangale alzò l’arma, pronto a gettarsi all’attacco della ragazza, ma poi si paralizzò, sembrò tremare per un istante e poi si riprese.
Guardò Daniel con odio e iniziò ad indietreggiare.
“Portate pure ai signori di Ponthieu questo messaggio: l’era dei Falchi è finita!” ringhiò prima di rifoderare la spada e sparire, a sua volta, tra gli alberi.
Daniel attese di non sentire più il nitrito del cavallo e il suono degli zoccoli contro il terreno prima di tirare un sospiro di sollievo.
Corse verso Alexandra, si assicurò con un’occhiata delle sue condizioni e poi la portò con sé accanto alla moglie.
“Jodie!” esclamò scrollandola ma quella non diede cenno di riprendere i sensi.
Su un lato della fronte faceva mostra di sé una ferita non molto profonda né ampia ma che continuava a perdere sangue.
Daniel ricordava che, a Béarne, Donna aveva detto che le ferite alla testa sanguinavano sempre molto, anche se non erano gravi, ma non riuscì a sentirsene rincuorato. Prese la moglie in braccio e si assicurò di avere accanto la figlia.
“Andiamo: dobbiamo tornare a casa! Subito!”
Alexandra sobbalzò ma annuì. Stese la mano davanti a sé e, a voce chiara, esclamò: “Uscita d’emergenza”.
Non accadde niente.




Che dire, spero solo che sia piaciuto!
Sono un po' di fretta, scusatemi davvero, ma non dovrebbero esserci errori nel capitolo...
A presto e grazie a tutti!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 19
*** Sgomento ***







19. Sgomento
 
“No!” esclamò Daniel sentendo un brivido freddo percorrergli la schiena, “No, no, no!”
Alex continuava a chiamare le icone di Hyperversum ma nessuna di queste rispondeva.
La giovane era in panico.
“Guarda meglio, papà!” implorò, “Deve essere qui! Da qualche parte!”
“Non c’è!” replicò Daniel prima di abbassare lo sguardo sulla moglie.
Jodie era ancora priva di sensi e la ferita sulla sua tempia non accennava a smettere di sanguinare. 
“Legale qualcosa sulla testa!” ordinò Alex dopo aver sentito con le dita il sangue della madre bagnare il di lei viso.
Daniel obbedì stracciando delle strisce dal proprio mantello e improvvisò una fasciatura per la moglie.
Esitò un attimo poi la avvolse nella stoffa rimanente e la prese in braccio.
“Che vuoi fare?!” chiese Alex, sconvolta.
“Dobbiamo tornare al castello!” dichiarò l’uomo, “A questo punto, è l’unica cosa che ci resta da fare!”
Dannazione Martin, che cavolo stai combinando?!, pensò con rabbia prima di incamminarsi il più velocemente possibile verso Chatel-Argent.
 
***
 
Imbecilli!, pensò con rabbia sbattendo un pugno accanto alla tastiera, Ho servito loro quell’imitazione malriuscita di Robin Hood su un piatto d’argento e se lo sono fatti scappare!
Il computer, diffondendo nella stanza le note allegre del motivetto di sottofondo al videogioco, gli mostrò placidamente le statistiche dei suoi personaggi, le ferite riportate e i punti esperienza persi.
 
HYPERVERSUM
Level 3: Failed
 
Try again? Y/N
 
“Quando ti metterò le mani addosso, Daniel, ti pentirai di non esserti lasciato ammazzare da loro!” ringhiò contro il computer.
Poi riprese a digitare febbrilmente.
 
***
 
Isabeau spalancò la porta della stanza con impeto e si guardò attorno.
Trovò Daniel seduto su uno sgabello intento a stringere una mano della moglie mentre Alex continuava a far correre le dita tra le pietre del muro davanti al quale stava seduta, con la stessa tenacia che vi avrebbe riservato se facendolo avesse potuto salvare il mondo intero.
Daniel si voltò verso di lei.
“Madonna, io…” cercò di spiegare ma la donna lo interruppe.
“Come sta?!” chiese, ansiosa, lanciando un’occhiata all’amica.
Daniel accennò un sorriso mesto.
“Donna dice che non è nulla di grave: avrà solo un bel mal di testa quando si sveglierà.” spiegò e la contessa non faticò a comprendere che stava riferendo le parole precise di Madame de Sancerre.
“Meglio così…” sospirò poi, con espressione preoccupata ma dolce, si sedette accanto al cavaliere, “Cosa vi è successo?”
Daniel deglutì un paio di volte e si passò una mano sul viso.
Stava per rispondere quando, dalla porta rimasta aperta, entrò anche il conte Guillaume de Ponthieu.
“Monsieur Daniel!” esclamò vedendo di nuovo gli Americani a palazzo.
Dopo che anche al conte fu spiegata la situazione di Jodie, lui stesso fece di nuovo la domanda di Isabeau.
Daniel fece volare lo sguardo dalla contessa a Ponthieu per un paio di volte poi però fissò gli occhi in quelli dell’uomo.
“Vi giuro…” esordì, “Non so come sia possibile, ma erano davvero loro!”
Guillaume aggrottò la fronte.
“Ma di cosa parlate?” chiese, sorpreso.
“Derangale, mio signore!” esclamò Daniel, sconvolto a sua volta dalla terribile apparizione, “E il barone di Gant!”
Quei due nomi parvero gelare l’atmosfera della stanza per un lunghissimo momento. Poi, Guillaume scattò.
“Siete impazzito?!” esclamò, “Hanno colpito anche voi alla testa, non c’è altra spiegazione!”
“No, ve l’assicuro!” replicò Daniel, “Erano loro, ne sono certo! Lo hanno ammesso a loro volta!”
Guillaume ascoltò, sconvolto, il racconto che Daniel gli fece dell’incontro con i due uomini e della brevissima colluttazione senza omettere alcun particolare, specialmente dello strano comportamento dei due uomini. A sorpresa, però, Guillaume de Ponthieu lo interruppe quando seppe che Alexandra aveva ferito prima Derangale e poi Gant.
Il nobile si alzò in piedi e raggiunse Alex poi le si inginocchiò davanti osando prenderle una mano per farle alzare lo sguardo cieco su di lui e le si rivolse con ansia.
“Mademoiselle, avete preso in mano il pugnale?!” gli chiese con ansia, “L’avete usato?!”
Alexandra era talmente sorpresa da non riuscire ad articolare le parole perciò annuì.
“E li avete feriti davvero? È uscito del sangue? Ne siete certa?!” continuò a incalzarla l’uomo, la preoccupazione nella voce che saliva sempre più.
“Io…” la ragazza non sapeva cosa dire, “A…a me sembra di sì… Insomma… Li ho sentiti imprecare e…”
“No!” si lasciò sfuggire Guillaume rialzandosi e iniziando a fare avanti e indietro per la stanza.
“Mio signore?” chiese Daniel, colto di sorpresa, “Cosa…?”
“Mademoiselle Alexandra ha preso lezioni di combattimento, vero?” ringhiò il conte all’americano, interrompendolo.
Daniel annuì.
“Sì, lei…”
“Maledizione!” lo interruppe ancora Guillaume riprendendo il suo nervoso camminare. Isabeau, accanto a Daniel si portò una mano alla bocca con preoccupazione evidente e si lasciò sfuggire un gemito.
Alexandra era sgomenta ma osò parlare.
“Volevo…volevo solo aiutare…” cercò di dire, insicura, ma ciò che le uscì fu a malapena un soffio.
“Mio signore, non possiamo lasciare che trapeli!” intervenne la castellana rivolgendosi direttamente al nobile, “Se succedesse…”
Ma non osò finire la frase e, nonostante i recenti scatti d’ira, Alex sentì il conte di Ponthieu sospirare e tornare davanti a lei, posando un ginocchio a terra per essere alla sua altezza e metterle le mani sulle spalle.
“Mademoiselle, di questo voi non dovete fare parola con nessuno, è chiaro?” le disse, serio, “Mai e per nessun motivo, mi capite?”
“No…” si lasciò sfuggire la giovane americana, “Io non capisco!”
Il conte prese un respiro profondo e le spiegò.
“A nessuna donna, e dico nessuna, è permesso portare armi o maneggiarne una!” spiegò il conte, “Se poi con essa ella osa ferire un uomo, verrà condannata a morte senza processo.”
Daniel saltò in piedi, gli occhi sgranati, e Alexandra si portò una mano a sigillare la bocca per soffocare un urlo di paura. 
“Ora capite la situazione in cui vi trovate?” le disse il nobile, la voce ancora calma ma tesa, “Il Re è ancora furioso e lo resterà fino a che il rapimento della sua promessa non sarà effettivamente chiarito! Se venisse a sapere che voi avete usato un’arma, ferito due uomini e che avete addirittura preso lezioni di scherma nella vostra terra, vi manderebbe al rogo senza pensarci due volte: la corte è sconvolta ed egli non oserà dare prova di debolezza in un momento così critico, potete starne certa!”
Alex sentiva brividi correrle lungo la schiena mentre la sua mente si arrovellava su quelle ultime parole: sapeva di rischiare il rogo per stregoneria ma, in un certo senso, non se ne era mai preoccupata perché la sua non era stregoneria; ma la condanna a morte per aver ferito quei due cavalieri era reale, molto più dell’altra, perché vera e, soprattutto, perché supportata da prove molto più concrete della visione confusa di una mela galleggiante.
“Mi sono battuta con le guardie…” soffiò, ricordando il momento, “Lo sanno tutti…”
“No, tutti sanno che siete stata addestrata dal miglior arciere di Francia a tirare con l’arco, un’attività che tutti hanno immaginato praticaste per sopravvivenza, per caccia! Del vostro duello con i bastoni sono informati solo i vostri avversari che, ringraziando il cielo, hanno avuto il buonsenso di non farne parola con nessuno, per rispetto alla vostra persona e alla vostra abilità!” replicò il nobile stringendo un po’ la presa sulle sue spalle nel sentirla tremare sempre più, “Inoltre, quello era un gioco, Alexandra: un innocuo divertimento compiuto con bastoni, che non sono armi, e in cui non avete ferito nessuno! Adesso, questa storia deve rimanere segreta! Direte che vi hanno lasciati andare, va bene? Che vi hanno solo storditi perché riportaste qui il loro messaggio d’odio nei confronti dell’impostore che si spacciava per mio fratello…”
Alexandra annuì, deglutendo vistosamente.
“Cosa possiamo fare per il loro problema?” chiese Isabeau, angosciata, “Non possono tornare nel loro tempo e dobbiamo capire come sia possibile che Derangale e Gant siano ancora vivi!”
“Preghiamo, madonna…” replicò Guillaume rialzandosi e raggiungendo la porta, “Ora come ora, è l’unica possibilità che abbiamo…”
 
***
 
Marc oltrepassò le guardie che suo zio aveva messo a presidio della stanza di dama Alexandra Freeland senza dir loro nulla né ascoltare i loro deboli tentativi di dissuaderlo dal suo proposito e bussò alla porta con ansia.
“Chi è?” si sentì rispondere.
Il cuore gli balzò in gola.
Era lì. Era tornata. Non era mai partita.
Scosse la testa, cancellando quei pensieri: sarebbe stato meglio che avesse lasciato la Francia piuttosto che subire l’aggressione di due cavalieri.
“C’est moi!” rispose, “Marc! S’il vous plait, ouvrez la porte!”
La porta della camera si aprì dopo pochi istanti e il volto pallido e sconvolto di Alexandra fece capolino dalla essa.
“Monsieur…”
“Come state?” la interruppe lui, “Siete stata ferita?”
La ragazza scosse la testa.
“Vostra madre?” chiese allora il ragazzo cercando di reprimere un sospiro di sollievo.
La ragazza aprì la porta e fece cenno al giovane conte di entrare.
Lui esitò.
“Mademoiselle, non c’è nessuno con voi: non vorrei che qualcuno dubitasse de…”
La ragazza sospirò.
“Ci sono due guardie fuori dalla mia porta.” ricordò con durezza, “Potete stare tranquillo: nessuno dubiterà della vostra buona fede e della mia virtù!”
Il ragazzo non osò replicare, comprendendo che qualcosa doveva essere successo, ed obbedì alla ragazza entrando nella camera.
Si voltò sentendola chiudere la porta ma non riuscì a dire nulla perché Alex premette le labbra sulle sue.
Solo un istante poi si ritrasse, lasciando il giovane conte sorpreso e confuso.
Marc guardò Alex che teneva la testa bassa e non lo guardava.
“Cosa sta succedendo?” le chiese posandole le mani sulle spalle mentre un brivido spiacevole gli saliva lungo la schiena.
La ragazza scosse la testa.
“Non chiedermelo!” implorò, non riuscendo più a trattenere le lacrime, “Non chiedermelo!”
Marc strinse la ragazza a sé e le permise di nascondere il viso nel suo petto.
“Va bene, non te lo chiedo.” cedette, “Ma ora non piangere, d’accordo? Non piangere.”
Alex annuì e si strinse al conte pensando che poter stare ancora con lui fosse l’unico lato positivo di quella storia ormai impossibile.
 
***
 
“Derangale e Gant! Voi siete impazziti!” esclamò Etienne de Sancerre saltando in piedi, gli occhi sgranati fissi su Daniel e Guillaume.
“Etienne ha ragione:” assentì de Bar, “quei due sono morti da anni! Lo sappiamo tutti! Eravamo anche presenti alla morte del barone Adolphe, non è possibile che siano ancora vivi!”
“Non penso si tratti di loro,” ammise Guillaume, pensoso, “forse è qualcuno che si spaccia per quei due sperando di portare scompiglio…”
“Beh, ci sta riuscendo!” si lasciò sfuggire Daniel stringendo i pugni, “Erano loro, lo so che sembra una follia ma erano perfettamente identici! Perfino le voci erano quelle di quei due maledetti, le riconoscerei ovunque anche tra mille anni!”
“Indipendentemente da chi siano,” intervenne Grandprè, “la domanda è: cosa vogliono? Se sono davvero chi dicono di essere, scampati alla morte chissà come, allora è probabile che cerchino vendetta contro il comune avversario, ossia Jean, ma sapendo della sua morte abbiano deciso di prendersela con il suo uomo di fiducia…”
“…se però sono degli impostori, che motivo avrebbero di assalire un cavaliere straniero di ritorno alla sua patria, senza ricchezze con sé?” completò Geoffrey Martewall, rigorosamente in piedi accanto alla finestra con lo sguardo perso verso l’esterno, “E perché mascherarsi?”
Alla riunione, presenziavano anche Isabeau de Montmayeur, Donna de Sancerre e Jodie Freeland, ripresasi da poco ma decisa a comprendere la situazione per il bene della figlia, ovvero le uniche tre donne con le quali i due inglesi potevano avere motivo di prendersela.
“Non ha senso!” si lasciò sfuggire Donna ravvivandosi i capelli, “Sir Martewall era presente alla morte di Derangale e tutti voi avete visto Gant perire: non possono essere davvero loro, si tratta senza dubbio di sosia!”
“Penso sia meglio aspettare ad avvertire il Re della situazione,” si intromise Isabeau, “la situazione è già precaria così e io non voglio dar inizio ad una caccia serrata nelle mie terre dopo i recenti avvenimenti!”
Dentro sé, la dama tremava: un rastrellamento alla ricerca di due uomini avrebbe portato alla luce la mancanza di un cadavere per Ian Maayrkas e forse avrebbe perfino fatto scoprire il suo nascondiglio al monastero di Saint Michel. Per quanto desiderasse la morte di quei due aguzzini, copie o reali che fossero, la vita di suo marito era molto più importante.
“Sono d’accordo con dama de Montmayeur.” ammise Guillaume de Ponthieu, “Sarebbe un’inutile spreco di forze, ora che la ricerca della principessa Margherita è la cosa più urgente. Inoltre disponiamo di elementi sufficienti per trovarli e il Re ha esonerato ciascuno di noi dalle ricerche, visto il lutto e il tradimento recenti.”
Nessuno rispose all’ultima frase e il silenzio calò prepotente. Passarono momenti estenuanti ed eterni ma poi Geoffrey Martewall si staccò dalla finestra per accostarsi al tavolo dove i nobili si erano seduti.
“Se voi siete d’accordo, vorrei mettermi al vostro servizio per risolvere la faccenda.” dichiarò, cupo.
Uno per uno, tutti i presenti si dichiararono disposti a dare tutto l’aiuto possibile per far luce sulla situazione incerta.
Guillaume annuì e ringraziò tutti ma la sua mente era altrove.
Se già una volta Ian è stato dato per morto quando non lo era, è davvero impossibile che anche loro siano sopravvissuti?, si chiese bevendo distrattamente dalla propria coppa.
In quel momento, il portone si spalancò per lasciar entrare un servo affannato.
“Monsieur!” esclamò accostandosi a Guillaume de Ponthieu, “Il Re! È qui! È ferito!”




Lo so, sembra una stupidaggine, però fidatevi!
Innanzitutto, è vera la storia della condanna a morte senza processo per qualsiasi donna osasse ferire un uomo per qualche motivo (il maschilismo era molto in voga all'epoca -.-); in secondo luogo, non prendetemi per matta per aver fatto tornare in vita quei due: so come gestire la faccenda (o almeno spero ;)... ) perciò tranquilli...
Prossimo capitolo: Sotto assedio
Grazie mille a tutti!
A presto!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 20
*** Sotto assedio ***







20. Sotto assedio

 
“È ferito!”
I nobili nella sala saltarono in piedi.
“Dov’è?” chiese il conte de Ponthieu avviandosi verso il corridoio.
“Alcuni servi lo stanno accompagnando in una stanza, monsieur, e il medico è con loro!” rispose il servo, spaventato.
Guillaume lo lasciò indietro per dirigersi a passo rapido verso la stanza degli ospiti più grande del palazzo. Dietro di lui, Donna e Jodie, cui i cavalieri lasciarono strada per permetter loro di usare le proprie conoscenze in medicina per aiutare, correvano incerte.
Isabeau, dietro di tutti, cercava di mettere a tacere l’ansia che le ricordava, prepotente, che non sarebbe più stato possibile nascondere l’aggressione alla famiglia Freeland né, forse, impedire la caccia all’uomo.
Guillaume de Ponthieu e le due dame guaritrici entrarono nella stanza del Re lasciando gli altri fuori. Passò quasi mezz’ora prima che Donna aprisse la porta e permettesse agli uomini di entrare, su ordine del Re.
Isabeau entrò con un groppo in gola ma cercò di dissimularlo e osservò il sovrano: Luigi era seduto su uno scranno, sul viso un’espressione furiosa, e portava il braccio destro fasciato fino alla spalla appeso al collo. In quel momento, un servo uscì portando via un catino contenete acqua e una freccia spezzata.
“Che il diavolo se li porti!” esordì il sovrano, “Hanno sterminato gli uomini della mia scorta!”
Geoffrey aggrottò la fronte.
“Tutti i venti soldati che erano con voi, vostra maestà?” chiese, sorpreso, “Chi erano?”
“Erano due figli del demonio!” ringhiò il sovrano in risposta, “Un crociato e un inglese, non so chi fossero! Sembrava che niente li ferisse!”
Isabeau si paralizzò e lanciò un’occhiata sgomenta a Guillaume de Ponthieu.
“Gant e Derangale…” si lasciò sfuggire.
Il re la fissò.
“Sapete chi sono, madame?” chiese, serio, “Se sì, vi prego di spiegarmi la situazione!”
La contessa deglutì ma raccontò la storia dei due uomini e l’aggressione a sir Daniel, sorvolando sull’intervento di Alexandra e riportando la versione stabilita da Ponthieu.
Luigi rimase in silenzio pensoso per un po’ poi si rivolse direttamente all’americano.
“Monsieur, voi siete assolutamente certo di cosa dite?” chiese serio, “Siete sicuro di non esservi confuso, magari per via della caduta da cavallo?”
Daniel annuì.
“Sire, ho ricordi indelebili di quei due uomini: non potrei mai sbagliarmi.”
“Inoltre, voi stesso avete descritto lo scudo di Derangale, il leone d’oro in campo rosso,” intervenne Martewall, “eppure non eravate ancora nato alla morte, o presunta tale, di Derangale: non è possibile che vi siate sbagliato e abbiate immaginato quei paramenti con tale precisione solo per caso!”
Luigi annuì seccamente, ancora furioso.
“Com’è possibile che in due giorni la Francia sia stata sconvolta a questi punti!” ringhiò, “Sotto il regno di mio nonno e di mio padre nessuno osava tanto!”
Nessuno rispose per lungo tempo poi fu Guillaume de Ponthieu a prendere la parola.
“Sire, non penso che vi sarà permesso lasciare questo castello: Derangale e Gant vogliono qualcosa, da voi e da monsieur Daniel, anche se non sappiamo cosa. Temo vi attendano al varco.” esordì serio poi aggiunse, “Forse sono addirittura coinvolti nel rapimento della vostra futura sposa.”
“Se è così, allora significa che hanno un piano” intervenne Henri de Bar con serietà, “e che puntano a qualcosa che non è più la vendetta.”
Daniel smise di ascoltare le ipotesi e cercò di pensare per conto suo: Luigi aveva ragione, in due giorni era successo di tutto, dal crollo del gioco di maschere al ritorno dei due nemici più terribili che si fossero fatti in Hyperversum passando per l’esecuzione di Ian.
Se non fosse stato abituato a finire nei guai ogni volta che calcava il suolo medioevale, avrebbe detto che era una strana coincidenza…
“Non lo è!” esclamò saltando in piedi, sgomento, e attirando quindi su di sé gli occhi di tutti.
Luigi lo stava uccidendo con lo sguardo.
“Illuminateci, monsieur!” ordinò il sovrano, “Cose cosa ‘non lo è’?”
Daniel deglutì, imbarazzato, e non poté impedirsi di pensare che, per quanto tempo stesse nel medioevo, alla fine non riusciva mai a imparare quando stare zitto e quando parlare. Arrossì ma rispose.
“Non è un po’ strana come coincidenza” provò a dire, “che le due persone che più odiavano Jean Marc de Ponthieu siano apparse proprio nel momento in cui, sempre per caso, compare un uomo che lo riconosce come impostore? E che porta le prove di questo tradimento?”
Luigi sgranò gli occhi.
“Continuate.” ordinò fermando con un gesto della mano sana le domande che stavano sorgendo dalle labbra dei presenti.
“Derangale ha sempre sostenuto che Jean Marc de Ponthieu non fosse chi diceva di essere!” ricordò l’americano mentre, mentalmente, chiedeva scusa a Ian per ciò che stava per dire e per come avrebbe rivoltato per l’ennesima volta tutta la faccenda, “I dubbi gli erano sorti dopo averlo visto alla corte di Francia nonostante lo avesse fatto fustigare a Cairs: i suoi sospetti erano nati da una deduzione sbagliata ma adesso sappiamo che non erano infondati! Fingiamo che non sia morto a Bouvines, che in qualche modo si sia salvato: ha capito che non può affrontare Ian direttamente, non finché lui è protetto dalla corte Francese e dal nome che porta, così decide di trovare il modo per smascherarlo. Gli servono delle prove consistenti, che abbiano senso, e allora inizia a cercare qualcosa nel passato di Jean de Ponthieu, forse arriva al monastero ma non vi trova niente e allora va ancora più indietro e scopre il nome di Dammartin, che aveva addestrato il vero Jean, e lo cerca per avere delle risposte. Lo trova, riesce a parlargli, gli descrive il carattere e l’aspetto del suo avversario e questi, pieno d’odio nei confronti del protetto che ha contribuito a farlo finire in catene, si accorge che l’uomo descrittogli non combatte, non pensa, non agisce e soprattutto non è fisicamente come quello che aveva addestrato lui.”
“E monsieur de Gant?” chiese Henri de Grandprè, incerto. 
Daniel ragionò un momento ma ormai le parole venivano da sole, sull’onda di un presentimento che diventava certezza.
“Derangale è dato per morto,” commenta, “non può tornare a casa né contare su quelli che prima della guerra lo avrebbero aiutato perché ormai Re Filippo Augusto ha vinto. È solo e da solo non ha molte speranze, lui lo sa. Per un anno va avanti come riesce, nascondendosi, poi scopre che Ian è in crociata e che ha degli attriti con un barone per metà inglese. Derangale immagina che succederà qualcosa tra i due, probabilmente ci spera anche, e allora tiene sott’occhio la situazione. Succede di tutto e lui si accosta in qualche modo al crociato e gli propone un’alleanza, lo mette in guardia sull’avversario che si troverà davanti ma Gant, per un qualche motivo o forse solo per orgoglio, rifiuta il suo aiuto. Però compaiono gli occitani che accusano il crociato di stare rubando i soldi dalle razzie, Ian li spalleggia ed ecco che Gant si ritrova ad essere inseguito da Martewall e i suoi uomini. All’improvviso si ritrova davanti Ian, che pure era convinto di aver avvelenato probabilmente spinto dalle parole di Derangale che gli avevano dipinto il nobile come una volpe pericolosa. È sconvolto, capisce che l’inglese aveva ragione ma si scontra lo stesso con il nemico. Alla fine viene colpito da una freccia ma, chissà come, non muore. Forse proprio Derangale gli aveva suggerito di indossare un’armatura un po’ diversa e più resistente, chissà. Fatto sta che sopravvive ma, come il suo degno compare, si finge morto. Nessuno di noi all’epoca, me lo ricordo bene, ha controllato che davvero il suo cuore non battesse più e poi il cadavere è stato affidato ad alcuni soldati del Re che lo hanno seppellito: loro non lo avevano mai visto, potrebbe benissimo aver messo i suoi abiti a qualcuno che gli somigliava. Forse lo stesso ha fatto Derangale a Bouvines, così da ripagare il nemico che l’ha fatto passare per visionario con la stessa moneta: Monsieur de Ponthieu lo aveva beffato con una finta Isabeau de Montmayeur e lui beffa tutta la Francia con un finto sé stesso e un finto crociato. Una specie di malato ‘occhio per occhio, dente per dente’, insomma. A questo punto i due organizzano insieme il modo per sbarazzarsi del comune nemico e per farlo chiedono l’aiuto di Dammartin. Renaud accetta e Ian viene ucciso per ordine del Re di Francia, senza che loro debbano intromettersi o rischiare in prima persona.”
“Però” intervenne Etienne de Sancerre, “se è così, hanno ottenuto ciò che volevano: perché attaccare voi e il Re?”
“Perché io ho tirato la freccia che ha ferito Gant.” rispose Daniel, cupo, mentre ancora seguiva quell’intuizione improvvisa, “E io ero con Ian a Bouvines. Perché io ero la sua spia di fiducia e io ho avuto scontri sia con l’uno che con l’altro. Inoltre, loro hanno sempre combattuto per l’Inghilterra: sono stati i Re di Francia a togliergli ricchezze, titoli e onori. Si stanno vendicando e vogliono farlo con clamore, come sono caduti.”
Daniel trattenne il fiato non appena ebbe finito di parlare. Non aveva idea di cosa stava per dire, lasciava che le parole uscissero seguendo il ragionamento della sua mente ma a mano a mano che queste si depositavano nella stanza la sua mente non riusciva più a cancellarle, come fossero diventate reali tutt’a un tratto.
Derangale e Dammartin erano d’accordo con il vero Jean per rapire Isabeau, concluse mentalmente senza però poter aggiungere quelle parole ad alta voce, e quando Ian ha preso il posto del conte cadetto e ha iniziato a combattere per Guillaume, loro hanno capito subito che era un impostore da come ha cambiato bandiera all’improvviso! Quella è stata una loro prova in più e Derangale ha imparato a servirsi dei sosia proprio dall’esempio che, senza volere, gli ha dato Ponthieu.
L’americano alzò lo sguardo sul conte francese che, seppur impercettibilmente, annuì, cupo, probabilmente intuendo i suoi pensieri inespressi.
“Se è così” continuò quindi l’americano con un groppo in gola, “sono appena all’inizio.”
“Tutta la corte francese è partita a cercare Margherita.”
Gli occhi di tutti si spostarono su Donna, autrice del commento a mezza voce, la quale fissava, pallida in volto, le bende che teneva tra le mani.
“Al castello siamo rimasti noi, i ‘colpevoli’ della sconfitta di Derangale e Gant.” mormorò la donna alzando gli occhi spaventati sui presenti, “Nemmeno questa potrebbe essere una coincidenza…”
Daniel sentì una cascata gelida corrergli nelle vene diretta al cuore e paralizzarlo.
Alex.
Alex, Alex, Alex.
“Alexandra!”
Alexandra dov’era? Dov’era Alexandra? Era sola o qualcuno la stava proteggendo? Perché lui non era con lei?
La sua bambina…
Daniel scattò verso la porta e la spalancò, deciso a raggiungere sua figlia e assicurarsi che stesse bene, ma si paralizzò sulla soglia.
Derangale sorrise, sadico, e sguainò lentamente la propria spada.
“Siamo venuti ad assicurarci delle condizioni di sua maestà!” rise Gant, al suo fianco.
Daniel non fece in tempo a portare la mano alla spada che Sans-Pitié lo colpì al viso con l’elsa della propria e lo buttò a terra, stordito.
I nobili saltarono in piedi e sguainarono le armi, perfino Luigi afferrò la propria spada dal tavolo con la mano sinistra e si mise in guardia, anche se ferito.
Alle spalle dei due inglesi, però, comparve almeno una decina di soldati con le uniformi di Chatel-Argent ma i volti decisamente poco amichevoli.
 
***
 
Marc e Alex si voltarono di scatto, attirati da un improvviso clangore.
“Cosa succede?!” chiese la ragazza, spaventata.
“Non lo so.” Marc strinse appena la presa sulle spalle della giovane poi la lasciò per aprire la porta e guardare fuori.
Le due guardie che controllavano la porta della stanza di Alex erano a terra, due frecce che spuntavano dai loro corpi e gli occhi spalancati sul vuoto. Il giovane conte alzò lo sguardo in tempo per vedere un arciere con i colori araldici del suo casato ritirarsi da una finestra per correre verso di loro.
Ci attaccano!, pensò e in un istante si voltò ad afferrare Alexandra per un polso.
“Fuori da qui!” le urlò trascinandola con sé.
“Ma cosa…?!” esclamò lei ma lui la interruppe.
“Non parlare: corri!” le ordinò dandole l’esempio senza però mollarla.
Raggiunsero l’angolo del corridoio appena in tempo per schivare due frecce provenienti dall’arciere nemico che ora li inseguiva. Alex si lasciò sfuggire un grido strozzato.
“Siamo sotto assedio!” le spiegò il ragazzo in fretta e furia mentre spalancava una porta di legno, nascosta tra le ombre di una nicchia nel muro, e la aiutava a scendere di corsa una ripida scalinata di pietra, “Sono vestiti come i nostri uomini: qualcuno ci ha traditi!”
“Ma chi?!” osò chiedere Alex mentre lui iniziava a tirarla lungo un corridoio buio.
Non conosco questa strada!, pensò la ragazza angosciata, Non conosco questo mondo!
“Non ne ho idea!” replicò il ragazzo fermandosi bruscamente.
Alex si ritrovò la mano che prima la guidava sulla bocca e lo sentì sguainare lentamente la spada con l’altra.
“Alexandra…”
La ragazza sobbalzò nel sentire quel sussurro appena accennato e Marc le tolse la mano dalla bocca. Lei avrebbe voluto chiedere spiegazioni però le labbra del giovane bloccarono le sue, togliendole il fiato.
“Quando te lo dico,” le chiese lui staccandosi, il suo soffio che lambiva la pelle della ragazza ad ogni respiro, “tu corri, dritto davanti a te, va bene? Non fermarti mai, per nessun motivo, nemmeno per aspettarmi e…”
“Ma…!”
“Nemmeno per aspettarmi, ho detto!” ribadì lui, duro, “Michel stava scortando Petra e Matilde in una cavalcata e questo vuol dire che potrebbero non averli ancora presi. Se vai dritta, ti ritroverai all’esterno del maschio e loro dovrebbero arrivare più o meno ora: trovali e avvertili, va bene? Mio fratello saprà cosa fare.”
Alexandra scosse la testa, decisa.
“E tu?! E i miei genitori, tua madre e tutti gli altri?!” chiese, ansiosa.
Marc deglutì ma non ebbe cuore di dirle che potevano benissimo essere già tutti morti, se quello era l’obiettivo dei misteriosi assedianti.
“Di loro mi occuperò io, te lo prometto.” si risolse a dirle, “Tu non preoccuparti, va bene? Tu sei qui con me e quindi sei la mia priorità.”
Alex sentì lo scalpiccio nervoso di un paio di cavalli e i passi ovattati dal fieno di alcuni soldati che camminavano, lenti e circospetti, sulla paglia così dedusse che dovevano essere dietro una porta nascosta nelle stalle.
“Perché?” chiese, incapace di seguire un altro pensiero coerente mentre il cuore le batteva nelle orecchie e desiderosa, al contempo, di rimandare in qualche modo l’imminente separazione.
“Non lo so,” le rispose serio il ragazzo e lei lo sentì armeggiare con qualcosa di metallico che probabilmente era un chiavistello, “ma sento che sei troppo importante per metterti dopo qualcun altro.”
Alex aprì le labbra, provò a replicare e a dirgli che c’erano altre persone cui lui teneva da proteggere ma non fece in tempo.
Marc aprì la porta e si lanciò fuori, abbattendo di slancio uno dei due soldati venuti a cercarli nelle stalle e ingaggiando battaglia con il secondo.
“VAI!”
Alex chiuse gli occhi, saltò fuori dal nascondiglio e corse via, dritta nella direzione indicatale da Marc e con le braccia allungate avanti a sé per sentire eventuali ostacoli.
Nella sua mente c’era una sola concatenazione di pensieri che avesse un minimo di senso.
Trovo Michel, salvo Marc e gli altri. Trovo Michel, salvo Marc e gli altri. Trovo Michel, salvo Marc e gli altri.
Senza fermarsi, uscì dalla porta spalancata delle stalle.




Chiedo umilmente scusa per il ritardo ma un lutto familiare mi ha impedito di aggiornare.
Ancora scusatemi.
A presto.
Ciao ciao.
Agapanto Blu

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Capitolo 21
*** Liberi e prigionieri ***







21. Liberi e prigionieri

 
Michel alzò lo sguardo, attirato da una voce sconvolta che chiamava il suo nome, e vide dama Alexandra Freeland corrergli incontro senza accennare a fermarsi nemmeno quando rischiava di inciampare.
Il ragazzo era appena tornato dalla cavalcata con le due dame, passeggiata che lui sapeva essere solo una scusa per allontanarli dal palazzo mentre si trattavano questioni molto delicate, e sia lui che le ragazze erano ancora in sella.
Saltò giù e afferrò Alexandra per le braccia, costringendola a fermarsi. Con sua sorpresa, la giovane tentò di divincolarsi e colpirlo, urlando spaventata.
“Madameioselle, sono io!” tentò di calmarla, “C’est Michel!”
Alex si fermò e lui le ripeté le frasi, per permetterle di ascoltare la voce e riconoscerla. La giovane si calmò appena.
“Vi hanno tradito, monsieur!” urlò, “Guardie che portano le vostre divise ci hanno attaccato! Vostro fratello mi ha detto di correre da voi e…!”
Michel non ascoltò il resto del discorso perché vide, sgomento, un arciere di Chatel Argent prendere la mira sulla schiena della giovane tra le sue braccia.
“Giù!” le urlò spingendola a terra e cingendole la schiena con un braccio.
Sentì un dolore acuto e bruciante al braccio destro e gridò; con sgomento, scoprì che la freccia si era piantata nell’arto, senza trovare alcun ostacolo se non quello irrilevante degli abiti.
Alexandra si lasciò sfuggire un verso spezzato ma Michel non le permise neanche un attimo per comprendere la situazione. Strappò con violenza la freccia dalla ferita, sperando di riuscire a combattere, e spinse la ragazza verso il proprio cavallo.
“Salite!” le ordinò poi fissò anche Petra e Matilde, ancora in sella che cercavano di calmare le proprie giumente spaventate, “Galoppate via! Il più lontano possibile da qui! Se superate le cinte di mura, dovreste avere un po’ di tempo di vantaggio!”
E voi?!” gli urlò, sgomenta, Matilde, “Siete ferito!”
“Non importa, riuscirò a trattenerli quanto basta: voi dovete trovare aiuto!” le ordinò il ragazzo afferrando le briglie dei cavalli e facendoli voltare, nonostante fossero recalcitranti, verso il ponte levatoio che ancora nessuno aveva pensato ad abbassare, approfittando del fatto che l’arciere avesse finito le frecce e dovesse avvicinarsi, “Serve un esercito!”
Il ragazzo non poté dire altro perché alcuni dardi piovvero loro addosso dall’alto, senza ferirli ma solo con l’intento di spaventare le bestie. Michel strinse i denti e, ignorando il dolore del braccio ferito, iniziò a spronare i cavalli che, terrorizzati, partirono al galoppo verso il ponte.
Il ragazzo non rimase a guardare le tre giovani partire, spaventate, ma si voltò e sguainò la spada per mettersi a combattere con due guardie che lo stavano attaccando. Una delle due, però, cadde sotto un pugnale in arrivo dall’alto e Michel ebbe facilmente ragione dell’altra, sorpresa.
Il ragazzo alzò lo sguardo e incontrò per un istante gli occhi azzurri del fratello, intento a combattere sul camminamento di ronda con le guardie che avevano cercato di colpire lui e le tre giovani con le frecce.
Un istante e poi i due tornarono a lottare per guadagnarsi qualche istante in più di libertà.
 
***
 
Marc schivò l’affondo di un soldato e piantò la propria lama nel ventre dell’avversario. Svelse l’arma lasciando che l’uomo cadesse a terra e si mise in guardia ma scoprì di essere riuscito ad ottenere un inatteso quanto necessario momento di pausa. Sentiva i passi di un nutrito gruppo di guardie che arrivavano a prendere il posto dei compagni e si sporse per guardare oltre il parapetto, nel borgo sconvolto dal passaggio di tre cavalli al galoppo.
Si era fatto strada con la spada fino al camminamento delle guardie sulle mura più interne, le più vicine al maschio, combattendo nella speranza di vedere il fratello e fermarlo prima che varcasse il ponte levatoio e cadesse nella trappola, per avvertirlo di prendere con sé Alexandra e portarla via, ma era arrivato tardi: Michel aveva già oltrepassato il ponte levatoio con Petra Martewall e Matilde De Sancerre ed era stato subito assalito, sebbene fosse riuscito a far fuggire le tre giovani.
Marc sapeva che sia lui che il fratello erano ormai condannati a cadere, era impensabile che soli e divisi potessero riconquistare il castello o anche solo guadagnarsi una via di fuga, ma aveva visto Alexandra e le altre due ragazze fuggire senza fermarsi verso l’ultima cinta di mura e, almeno fino a quel momento, nessuno le aveva ancora riportate indietro.
Signore, fa’ che non le prendano!, fu l’ultimo desiderio del ragazzo prima che sul camminamento si riversassero altri soldati.
 
***
 
Alexandra, Petra e Matilde galoppavano a rotta di collo per le campagne.
Avevano superato tutte le cinte di mura e senza rallentare poi avevano travolto i pochi soldati e gabellieri all’uscita senza che questi riuscissero a fermarle, troppo sorpresi dalla situazione. Il loro galoppo forsennato era continuato fino ad allora, senza sosta, nelle campagne subito all’esterno del castello, con continui cambi di direzione e uscite sporadiche dalla strada per cercare di confondere le tracce, ma ormai era giugno al termine perché i cavalli erano esausti e incapaci di continuare.
Si fermarono in mezzo ad una strada deserta e Alex saltò giù dal proprio cavallo, si portò sul ciglio pieno d’alberi...e urlò con tutto il fiato che aveva.
Urlò di nuovo, senza parole, mentre si lasciava cadere in ginocchio. Nascose il viso tra le mani e scoppiò a piangere, disperata, urlando ogni tanto i nomi di coloro che aveva lasciato in mano ai nemici.
Petra si lasciò cadere accanto a lei e le strinse le spalle con le mani mentre, a sua volta, piangeva compostamente i genitori prigionieri e il fratello lontano e ignaro, alla ricerca della principessa Margherita di Provenza.
Matilde rimase ferma, in piedi, a fissare il nulla con espressione svanita come se ancora non fosse riuscita a rendersi conto di ciò che era accaduto.
“Non glielo permetto!”
Petra guardò con preoccupazione Alexandra, saltata in piedi all’improvviso.
“Non possiamo fare niente…” tentò di dire ma l’Americana prese a camminare avanti e indietro e la interrupe con un verso.
“C’è la mia famiglia, là dentro!” dichiarò la ragazza, liberatasi dell’angoscia con il pianto e piena ora solo della rabbia, che era ormai passata ad essere sul piede di guerra, “Farò il possibile per tirarli fuori, costi quel che costi!”
Petra si morse il labbro inferiore, esitante. Alexandra era palesemente fuori di sé e senza dubbio non era lucida a sufficienza per capire la situazione in cui versavano: parlarle con calma poteva non servire a nulla.
La ragazza inglese stava valutando l’ipotesi di legare l’americana fino a quando non si fosse calmata per impedirle di fare follie quando la voce, rotta ma determinata, della giovane francese la sorprese.
“Io sono d’accordo con Alexandra.” dichiarava Matilde, seria.
La giovane aveva i capelli rossi scarmigliati e sciolti dall’acconciatura in cui erano stati raccolti per la cavalcata e portava la gonna strappata in più punti dai rovi e dai rami bassi, ma teneva le spalle dritte, il mento alto e i pugni chiusi lungo i fianchi, come a sfidare chiunque a fermarla.
“Ci uccideranno.” replicò Petra rialzandosi, gli occhi chiusi per cercare di lottare contro l’ansia che la pervadeva, “Se davvero vogliamo essere d’aiuto, dobbiamo fare quello che ci hanno detto: cercare soccorsi.”
“Petra, la mia famiglia…!” cercò di replicare Matilde ma l’inglese la fermò, riaprendo gli occhi e avvicinandosi a lei con rabbia.
“C’è anche la mia famiglia, laggiù, Matilde!” gridò la ragazza, “Ed è proprio per questo che non asseconderò le vostre follie: tre donne non possono riconquistare un castello da sole!”
“Su questo Petra ha ragione.” ammise, a sorpresa, Alexandra attirando su di sé gli sguardi delle altre due.
L’americana teneva lo sguardo cieco fisso a terra e aveva un’espressione pensosa sul bel viso.
Petra non era una codarda, ma anzi era una ragazza saggia e senza dubbio accorta, Alexandra se n’era accorta parlando con lei durante gli ultimi travagliati giorni e non se ne stupiva visto il padre che l’aveva cresciuta: un assalto al palazzo non solo era un suicidio, ma era proprio impossibile. Le avrebbero prese subito, non avrebbero neanche raggiunto le segrete.
Un ricordo la colpì: Marc l’aveva portata via sfruttando quello che, molto probabilmente, era un passaggio segreto e poi era incredibilmente passato dalle stalle al camminamento di ronda in pochi istanti. Dovevano esserci dei passaggi che collegavano alcune zone del castello in caso di necessità, forse risalenti alla costruzione del palazzo o forse aggiunti dopo l’esperienza a Dunchester di Ian, che aveva conquistato il porto della cittadella proprio con quello stratagemma del sostituire le guardie.
Se solo ce ne fosse uno che porta alle segrete!, pensava la ragazza.
Certo, se anche ci fosse stato, cosa probabile immaginando che in caso di caduta del palazzo i signori sarebbero stati rinchiusi proprio nelle prigioni, lei non poteva saperlo né trovarlo: non conosceva il castello, non vi aveva abitato sufficientemente a lungo per indovinarne i meandri. Aveva bisogno di qualcuno che lo conoscesse come le sue tasche e che sapesse come e dove muoversi, qualcuno che avesse ricoperto una carica abbastanza importante da essere messo a conoscenza di quei passaggi. O forse era inutile anche quello: magari solo i membri della famiglia proprietaria erano a conoscenza di essi…
Alex sgranò gli occhi.
Lei aveva qualcuno così!
Alzò il viso mentre i suoi pensieri volavano con la velocità di un treno, cosa non da nulla in un’epoca di cavalli e carretti.
“Il Re sta facendo cercare la principessa” ricapitolò ad alta voce, “quindi i suoi uomini e i suoi feudatari saranno ovunque per la Francia, no? Quanto potrà essere difficile incrociarne un gruppo e spiegare la situazione?”
Petra e Matilde si lanciarono un’occhiata dubbiosa poi la prima tossì, discretamente.
“Il mio fratellastro, Beau, sta venendo qui con le sue truppe per parlare con mio padre, abbiamo ricevuto un suo piccione viaggiatore.” ammise, “Ormai non dovrebbe essere lontano da qui.”
“Allora possiamo chiedergli aiuto: se ha con sé abbastanza uomini, potrebbe iniziare ad assediare il palazzo per impedire ai nemici di uccidere i prigionieri.” commentò Alexandra.
“Dimenticate un dettaglio...” sospirò ancora l’inglese, “Siamo tre ragazze! Da sole, solamente il Signore sa cosa potrebbe capitarci!”
Alex la fissò, come potesse vederla, e si raddrizzò.
“Io non ho intenzione di restare ferma senza far niente.” scandì piano, seria, “E sono perfettamente in grado di raggiungere un monastero senza essere accompagnata da nessuno!”
Matilde aggrottò la fronte.
“Monastero?” chiese.
“Il monastero di Saint Michel” spiegò l’americana, “si trova poco lontano da qui e mio padre mi ha detto che i monaci sono molto fedeli a dama Isabeau: loro potranno certo trovare un messaggero che sappia individuare almeno un nobile, no? E inoltre è probabile che Beau e le sue truppe passino da lì, visto che è la strada principale verso Chatel-Argent.”
“Voi conoscete, però, la strada per arrivarci?” chiese a tradimento Petra, “Io non vi sono mai stata.”
“Nemmeno io.” dovette ammettere Matilde, seppur di malavoglia.
Alexandra annuì, seria.
“Abbiamo seguito la strada, seppur con molte deviazioni.” considerò la giovane, “Il monastero dista due giorni a piedi dal palazzo. Noi disponiamo di tre cavalli e abbiamo fatto un notevole tratto di strada, nonostante tutto, però temo che le nostre cavalcature siano troppo stanche per proseguire ancora a lungo, e di certo non sono in grado di reggere un galoppo. Se consideriamo che lungo la strada vi è un piccolo villaggio, nel quale è certo meglio non farci vedere…”
“Perché?” la interruppe Matilde, sinceramente stupita, “Potremmo trovare aiuto!”
“Tre ragazze vestite con abiti nobili ma stracciati come se avessero visto chissà quale disgrazia, sole e senza un solo uomo che le scorti, Matilde?” chiese acida Petra, “Pensi davvero che ci aiuterebbero o che ci esporremmo soltanto ad altri rischi?”
La francese chinò il capo con un sospiro cedendo davanti alla logica delle compagne.
“Continua.” implorò rivolta ad Alexandra che annuì.
“Dicevo, visto che abbiamo stabilito di passare fuori dal villaggio di Lunes, perderemo ancora del tempo perciò credo che finiremo per dover passare una notte per strada. Non è prudente chiedere aiuto a qualcuno e se necessario penso potremmo cavarcela da sole, ma per il momento penso che la cosa migliore sia smettere di parlare e metterci in marcia sin d’ora per provare a raggiungere la nostra meta prima del tramonto. Se non dovessimo farcela, troveremo una soluzione al momento.”
Petra lanciò uno sguardo preoccupato a Matilde ma lei stava già dirigendosi verso il proprio cavallo e così la giovane inglese, in netta minoranza, fu costretta a cedere con un sospiro.
Le tre montarono a cavallo e proseguirono la propria strada.
Ian, ti prego, dimmi che non ti sei spostato da lì!, pensava Alexandra, un po’ ansiosa e un po’ irritata dalla quasi totalmente mancante tecnologia dell’epoca.
 
***
 
Marc tossì ancora un paio di volte poi smise ma Isabeau non si concesse la speranza di vederlo rialzarsi in piedi.
Il ragazzo giaceva in posizione fetale sul pavimento della propria cella, di fronte a quella della madre, e Michel cercava, dalla sua a destra di quella del fratello, di capire le sue condizioni di salute mentre teneva una mano premuta sulla stoffa che si era legato attorno all’avambraccio ferito.
Nella cella a sinistra di quella di Isabeau, che era la più vicina alle scale che portavano all’uscita dei sotterranei, stavano Jodie e Donna con Brianna mentre i sei cavalieri –il Re, Guillaume, i due Henri, Etienne e Martewall- stavano alla loro sinistra, in quella più in fondo. Davanti a loro, in una singola come Isabeau, Marc e Michel, era stato messo Daniel Freeland.
Isabeau continuava a rimuginare sui motivi di quell’inconsueta disposizione da quando l’avevano rinchiusa là dentro.
Derangale e Gant avevano avuto gioco facile a stanarli dalla stanza nella quale erano rimasti bloccati dal loro assalto: era bastato loro minacciare di non far arrivare più né cibo né acqua e tentare un paio di sortite, sufficienti a ferire anche se leggermente molti dei combattenti, e così Re Luigi si era, seppur di malavoglia e pieno di rabbia, dichiarato prigioniero ma non sconfitto. I due inglesi non si erano presentati a rilevare il loro premio ma avevano lasciato ai soldati il compito di condurre i prigionieri nei sotterranei mentre loro raggiungevano i guerrieri intenti a combattere con i due giovani Ponthieu, decisamente resistenti e cocciuti come il padre.
Isabeau aveva sperato che i due figli riuscissero a guadagnare la libertà ma erano bastati pochi minuti e la porta dei sotterranei si era aperta ancora per farvi entrare Marc e Michel catturati. Il primo era stato gettato nella prigione di fronte alla sua mentre l’altro in quella accanto al fratello. Poco dopo il maggiore era riuscito, con gesti silenziosi, a far intendere che le tre fanciulle mancanti all’appello erano riuscite a sfuggire all’agguato e a scappare dal palazzo tuttavia una delle due guardie che camminavano tra le due ali di prigioni per controllarli si era resa conto della comunicazione, era entrata nella cella e aveva messo a tacere il giovane con una serie di calci al ventre, lasciandolo poi ansimante nella stessa posizione che teneva anche in quel momento.
Isabeau conosceva la forza fisica del figlio e l’intransigenza che Ponthieu aveva tenuto nell’addestrarlo a cavaliere ma non riusciva a fare a meno, dopo la recente terribile esperienza della polmonite, di sobbalzare e tendere le orecchie ad ogni colpo di tosse del figlio.
La dama sospirò e riprese a pensare camminando come un’anima in pena nel proprio spazio.
Non riusciva a comprendere il comportamento degli inglesi.
I cavalieri più forti e più esperti erano stati messi insieme ma così era di certo più facile che organizzassero un piano mentre lei, i suoi due figli che erano troppo giovani per avere esperienza di una prigionia e le altre dame erano stati separati dagli altri seppure fossero, nominalmente, gli elementi meno pericolosi, senza contare che avevano lasciato solamente due soldati a sorvegliare tutti: errori simili non erano da guerrieri navigati come Derangale e Gant e l’unica possibilità era che le scelte fossero motivate da qualcosa che pure continuava a sfuggirle.
Era possibile che avessero separato Marc e Michel nel notare il loro affiatamento nel duellare, perché se erano caduti assieme era anche quasi del tutto certo che assieme avessero lottato, e il tenere lontane le mogli dai mariti poteva essere un modo per minacciare i guerrieri di rappresaglie sulle famiglie in caso di rivolte…ma allora perché mettere Sir Daniel lontano da tutti? E lei? Che valore aveva se i due si sprecavano a tenerla lontana da tutti gli altri?
L’unica ipotesi che le veniva in mente era che Derangale e Gant avessero paura, in un certo senso, di Daniel e della sua reputazione di spia e di abilissimo evasore visti i precedenti che aveva accanto al conte Jean Marc e che volessero tenerlo pronto per il momento in cui si sarebbero vendicati di lui.
Ma, di nuovo, lei?
Isabeau sapeva per certo solo una cosa: lei era la donna per la quale tutto era cominciato.
Certo, più per i suoi possedimenti che per la sua bellezza era stata contesa e reclamata da ambo le parti della guerra ma era comunque per colpa sua che le strade di Ian e Derangale si erano così brutalmente intersecate; lei era quasi l’anello che aveva messo in comunicazione i due rivali e dato il via ad una reazione a catena che aveva portato nella rovina anche il crociato Gant. Non che non se lo meritassero, ovviamente, ma -sebbene tutto ciò risalisse a tempo prima- se lei non era mai riuscita a mettere a tacere il senso di colpa che le cicatrici del marito le procuravano, allora non c’era da sorprendersi che nemmeno l’inglese avesse dimenticato il suo coinvolgimento nella storia.
Se aveva ragione, Isabeau era in una cella a sé per un motivo: se non addirittura la prima, era una delle vittime sacrificali più in alto della lista.
Sentì la porta dei sotterranei aprirsi cigolando e comprese che non avrebbe dovuto attendere ancora molto per sapere cosa sarebbe capitato.
Raddrizzò le spalle, si costrinse ad assumere un’espressione dura e si voltò per fronteggiare i due cavalieri che stavano scendendo le scale.




Vi chiedo scusa, davvero!
Un virus b******o mi ha messo k.o. il computer e così l'ho dovuto portare a riparare: me lo hanno restituito solo oggi e perciò aggiorno adesso...
Scusate ancora, ma adesso passiamo al capitolo.
So che sembra inutile, lo so, ma adesso sapete le intenzioni delle ragazze: Petra e Matilde sono convinte di stare andando a cercare un esercito (perché spuntano come funghi, ovviamente XD) ma Alex ha piani e progetti tutti suoi :)
Ian sarà di aiuto alle tre fanciulle? E Derangale e Gant, scesi nelle segrete, cosa vogliono da Isabeau? Perché l'hanno separata dagli altri?
Domande a cui troverete risposta nel prossimo capitolo! XD
Prometto che sarò puntuale, lo giuro! ;)
A presto!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 22
*** Cani e leoni ***







22. Cani e leoni

 
Derangale e Gant scesero nelle segrete preceduti da un servo tremante che portava con sé una fiaccola accesa.
Sia il crociato che lo sceriffo indossavano abiti aristocratici e Isabeau fremette d’indignazione nel riconoscere le vesti che una volta erano di suo marito.
I due inglesi si fermarono proprio davanti alla cella della castellana che, in piedi e con lo sguardo gelido, li fissava duramente.
“Spero non ci abbiate atteso troppo, milady!” ghignò Derangale, sarcastico.
“Noto che voi, invece, non avete atteso neanche un istante ad appropriarvi di tutto.” replicò lei, gelida, indicando con la bella mano il servo spaurito e poi gli abiti addosso agli inglesi.
Gant rise.
“Madonna, non siate così inospitale! Siamo pur sempre vecchi amici del vostro defunto marito!”
Isabeau ebbe uno spasmo e strinse i denti combattendo contro l’impulso di rivelare a quei due mascalzoni che, no, suo marito non era affatto defunto e sarebbe tornato a fargliela pagare come già aveva fatto una volta.
“Non ricordo che il termine che usasse parlando di voi fosse ‘amici’,” sentenziò invece, “anzi, mi par proprio che usasse qualcosa di simile a ‘cani’, ‘codardi’, ‘vigliacchi’ e altro che non sta bene che io ripeta.”
Il sorriso scomparve dal volto di Gant che fissò la donna con furia e fece un passo verso di lei, al di là delle sbarre di ferro della sua cella, ma Derangale lo fermò.
L’inglese, che spaventava la contessa molto più del crociato, continuava a guardarla dritta negli occhi, come alla ricerca di qualcosa.
“Tutto ciò è molto strano, sapete, dama Isabeau?” disse prendendo il mazzo di chiavi che teneva legato alla cinta e avvicinandosi alla porta della prigione, “Quando vi vidi al torneo di Béarne, parteggiante per quello che poi divenne vostro marito, avrei giurato di vedere i vostri occhi animati da sincero affetto nei suoi confronti, e lui stesso mi pareva armato di tutto l’amore che Iddio gli aveva dato la facoltà di provare quando combatteva in vostro nome a Bouvines… Ditemi, è possibile che entrambi mentiste così bene oppure c’è un motivo che giustifica l’inaspettata piega presa dagli ultimi eventi?”
Isabeau tremò.
Ha capito!, pensò, ansiosa.
Derangale doveva aver sempre contato su una sua reazione in difesa di Ian, così da liberarsi di entrambi, e forse proprio per la mancanza di essa la teneva separata dagli altri: per poterla interrogare senza intromissioni.
La castellana deglutì ma non rispose.
“Immaginavo sarebbe stato più difficile piegarvi ad uccidere vostro marito…” continuò l’inglese aprendo la porta e avvicinandosi pericolosamente alla donna.
La contessa represse l’istinto di provare a scappare e rimase ferma ad attendere il nemico.
“…visto tutto ciò che si racconta di voi e del vostro amore!” Derangale concluse la frase afferrando con una mano il viso di Isabeau, il pollice su una guancia e le restanti dita sull’altra mentre con il palmo le sosteneva la mandibola e le faceva alzare la gola.
La fissava negli occhi con l’espressione divertita di un gatto che gioca con il topo, senza nemmeno adombrarsi nel notare che la donna non sembrasse terrorizzata.
“Devo ammettere” continuò, piegandole leggermente la testa da un lato e dal’altro come a esaminare una bestia da comprare, “che davvero il tempo è stato clemente con voi, madonna: siete bella oggi come allora!”
Isabeau stava per rispondere che il tempo era stato clemente anche con lui e gli aveva permesso di rimanere sempre lo stesso dannato ma poi si rese conto che, davvero, sembrava che per l’inglese non fosse passata un’ora dalla battaglia di Bouvines: non una ruga, non un segno, non un solo dettaglio che facesse intendere il passare degli anni. Derangale era esattamente lo stesso uomo più o meno ventiseienne che aveva fatto frustare suo marito a Cairs.
Non è possibile!, pensò la donna, sgomenta, ma in quell’istante Sans-pitié la baciò. Con violenza e possessività, quasi fosse una cosa sua.
Isabeau posò le mani sulle spalle del cavaliere e riuscì a staccarsi da lui, indietreggiando di due passi. Si portò una mano alla bocca mentre un “No!” disgustato le usciva dalle labbra.
“Madre!” si sentì chiamare e riconobbe le voci dei propri figli un attimo prima che il sibilo e poi lo schioccare di una frusta contro sbarre di ferro le facessero tacere.
“Maledetto!” si lasciò sfuggire alzando lo sguardo furioso sull’inglese, “Figlio di meretrice! Cane dannato!”
Riuscì a scorgere il lampo d’un sorriso sadico sul volto dello sceriffo poi questi alzò una mano guantata di cuoio e la schiaffeggiò in viso gettandola a terra.
Isabeau sentì il dolore bruciante sulla guancia sinistra e poi la gelida compattezza della pietra del pavimento sotto quella destra. La testa le rimbombava e ritornava prepotente all’unica altra volta in cui un uomo l’avesse schiaffeggiata in vita sua, a Cairs il giorno in cui aveva incontrato Ian per la prima volta. Disperata, pregò che fosse un segno che preannunciava il ritorno del suo amato, in arrivo per salvarla come allora, e trovò la forza di sollevarsi sulle braccia e alzare lo sguardo su Derangale.
“Lo sapevo!” rise l’inglese guardandola dall’alto, “Stupida come lui, hai ricambiato il suo amore! Scommetto che c’è qualcosa che ci tieni nascosto su tuo marito!”
Isabeau lo vide chinarsi su di lei e sentì la nuca bruciare quando lui le afferrò i capelli per costringerla ad alzare la testa e guardarlo in viso.
“Dimmi la verità!” ringhiò.
Lei si morse la lingua per non gemere ma poi non riuscì a trattenersi.
“Da quando un cane come te ricerca la verità?” chiese, acida.
Derangale alzò ancora la mano e Isabeau chiuse gli occhi in attesa del secondo schiaffo ma questo non arrivò, fermato da una voce dura.
“Non osare toccarla ancora!”
Isabeau riaprì gli occhi sgomenta e incrociò due iridi azzurrissime che, oltre due linee di sbarre, fissavano l’inglese con determinazione nonostante la sofferenza.
Marc, sebbene a fatica, era riuscito a tirarsi in piedi e, tenendo una mano sul fianco sinistro, stava fissando con odio Derangale senza curarsi delle minacce che Gant gli stava rivolgendo.
Sans-pitié lasciò andare malamente la presa sulla donna e la rigettò a terra per dirigersi, con espressione un po’ incredula e un po’ divertita, verso la cella del ragazzo.
Guardò con superiorità il giovane malridotto che sembrava tanto determinato ad attaccarlo e un sorrisetto crudele gli salì alle labbra mentre sentiva Gant richiudere la cella di Isabeau per impedire alla donna di provare ad intervenire.
“Il conte Marc!” rise, avvicinandosi alle sbarre, “Sei davvero identico a tuo padre come dicono, e non solo nell’aspetto… Sei anche un idiota come lui: nemmeno quel bifolco sapeva quando tenere la bocca chiusa!”
“Mio padre era un diplomatico!” replicò Marc, stizzito, “Le parole uscite dalla sua bocca hanno avuto un’importanza assoluta nelle questioni politiche della Francia!”
Derangale rise sguaiatamente, sorprendendo il giovane.
“Oh, non c’è dubbio! Ogni volta che tuo padre parlava, diceva cose straordinarie!” ammise poi, “Peccato che la maggior parte fossero menzogne!”
“Rimangiatevelo!” ringhiò Marc, difendendo istintivamente il padre.
“Altrimenti?”
Marc si morse la lingua, incassando il colpo: cosa poteva fare per difendere l’onore del padre da prigioniero com’era?
“Voi non sapete niente di lui!” replicò allora, incapace di dire altro ma di nuovo Derangale rise.
“Oh! Forse so più io di te su di lui, caro ragazzo!” commentò l’inglese accostandosi alle sbarre fino ad arrivarvi ad un soffio senza perdere il proprio ghigno, “Per esempio, io so cosa serviva a domarlo e chissà che una dose di frustate non calmi anche il figlio come fece con il padre straccione!”
Marc sgranò gli occhi, colto di sorpresa.
“Cosa…?” boccheggiò.
L’inglese rise mentre Gant, alle sue spalle, ghignava arrotolandosi l’arma in questione attorno alle mani.
“Povero ingenuo!” Derangale si divertiva, sadicamente, a rinfacciare al ragazzo ciò di cui i genitori non lo avevano messo al corrente, “Tuo padre arrivò nel mio villaggio da mendicante e da mendicante io lo feci frustare sulla pubblica piazza!”
“No!” gridò il giovane, incapace di assimilare l’idea che il padre che tanto aveva stimato fosse stato sottoposto ad una tale umiliazione.
“Sì!” ringhiò l’inglese interrompendolo con furia, “Diciassette colpi ci vollero perché quel maledetto si decidesse a mollare, che Dio lo fulmini! E poi da brigante quale era evase dalle segrete e, guarda caso, ricomparve qualche mese dopo con il nome di conte cadetto Jean Marc de Ponthieu! Quando lui aveva sempre sostenuto di venire da oltre la Scozia!”
Marc scuoteva la testa, come se così facendo potesse negare le parole dell’inglese, ma si fermò sentendosi chiamare dalla madre.
“Non credergli, Marc!” gridava la donna aggrappata alle sbarre con le mani, “Non andò così! Tuo padre ed io stavamo fuggendo mascherati da popolani dagli inglesi che ci avevano teso un agguato lungo la strada! Stava cercando di proteggere tutti noi nascondendo la propria identità e gli fu comminata la frusta perché questo maledetto non poteva sopportare l’idea che un contadino gli si fosse ribellato per proteggere una donna!”
“Silenzio!” le intimò Gant colpendo con la frusta le sbarre di ferro, un soffio sotto le dita della contessa che si ritrasse, spaventata.
“Lasciatela stare!” ripeté il ragazzo poi fissò gli occhi in quelli dell’inglese, “Non crederò mai ad un uomo così vile da picchiare una donna indifesa! Siete soltanto un codardo e la vostra parola non ha più valore di quella di un demonio!”
Solo allora Marc si accorse del vociare e delle numerose frasi che venivano urlate dalle altre celle, a difesa sua e di sua madre, perché la voce di Geoffrey Martewall sovrastò le altre.
“Mentivi a coloro che chiamavi amici!” ringhiava, “Di certo non ha credibilità la tua parola presso i tuoi nemici!”
Derangale sembrò attirato da questo commento e si avvicinò al vecchio commilitone. Si fermò davanti alla cella ma ignorò tutti gli altri presenti per fissare solo Martewall.
“L’ultima cosa che mi sarei mai immaginato era di ritrovarti presso i francesi, Geoffrey.” commentò, sorridendo sprezzante, “Sei stato pressoché inutile a Béarne ma a Bouvines mi hai reso un buon servizio, portandomi via dal campo di battaglia... Dunque, in nome della nostra vecchia amicizia, ti faccio una proposta: unisciti a noi, ora.”
Martewall sembrò irrigidirsi appena ma l’espressione di gelida furia restò al suo posto, sul viso dell’inglese.
“Hai una strana idea di amicizia, Jerome.” replicò, “Almeno a giudicare da tutto ciò che nascondevi ai tuoi ‘amici’.”
Derangale scacciò il commento con un gesto della mano.
“Suvvia, non farmi la paternale adesso!” rise, “Eravamo in guerra e in guerra si fa ciò che si può, non c’è spazio per le amicizie o per altro!”
“E intanto avete perso.”
Il commento in arrivo da Daniel ebbe il potere di gelare sul posto l’inglese per un lunghissimo minuto poi, però, lo sceriffo si riprese e fissò Geoffrey.
“Rispondi, ora.” ordinò, secco.
Geoffrey Martewall sollevò un sopracciglio con evidente disprezzo.
“Non siamo più in guerra: adesso c’è posto per le amicizie.” fece notare al compagno, “E io so di chi posso fidarmi. Certamente, non di te.”
Derangale divenne paonazzo, evidentemente sorpreso dal rifiuto del suo vecchio alleato.
“Hai sbagliato fazione, Geoffrey,” ringhiò stringendo i pugni, “e te ne farò pentire al più presto!”
Detto questo, seguito dal compagno rimasto stranamente silenzioso durante il colloquio, lo sceriffo di Flandre prese le scale spingendo malamente avanti il servo con la fiaccola e uscì dalle segrete sbattendosi la porta delle scale alle spalle con forza.
Isabeau si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo e cadde a terra in ginocchio, il viso che iniziava a solcarsi di lacrime.
“Madre…” provò a chiamarla Michel vedendola pulirsi ossessivamente la bocca con le mani, con tanta violenza da arrossarsi labbra e pelle.
Ma Isabeau non lo ascoltava.
Piangeva.
 
***
 
Con il buio, la macchia intorno al borgo di Lunes sembrava molto più minacciosa del solito e versi degli uccelli notturni squarciavano l’aria ritmicamente facendo sobbalzare le ragazze che camminavano tra gli alberi.
Alexandra si reggeva con una mano alla spalla sinistra di Petra, poco davanti a lei, e con l’altra teneva le briglie del proprio cavallo affaticato come anche l’inglese e Matilde che camminava subito dietro di loro.
Petra alzò gli occhi verso il cielo.
“Ormai è mezzanotte…” dichiarò, “Cosa facciamo?”
Alexandra si morse la lingua, incerta.
“Siamo lontane dal villaggio?” chiese a Matilde che si voltò indietro per controllare.
“Non vedo più le mura ma forse sono solo gli alberi.” ammise, “Temo che siamo ancora abbastanza vicine.”
“Ma da qui non possono vederci.” commentò Petra, “Possiamo fermarci e ripartire domani presto prima che qualcuno ci raggiunga…”
“Ci stanno cercando.” ricordò loro Alexandra, “Dovremo partire prima che il sole sorga. E organizzare dei turni di guardia non sarebbe una brutta idea.”
Petra e Matilde annuirono e così le tre giovani si fermarono sotto i rami di un albero particolarmente grosso, legarono i cavalli ad un ramo e si affaccendarono per organizzare una specie di accampamento.
Le due nobili fanciulle avevano i loro mantelli addosso mentre Alexandra, essendo fuggita in tutta fretta, ne era sprovvista ma stabilirono che le due addormentate si sarebbero strette sotto un mantello solo mentre quella che avrebbe fatto la guardia avrebbe indossato l’altro. Matilde riuscì a trovare, aiutata dalla luce della luna piena, un po’ di bacche commestibili e Petra qualche erba che sua madre le aveva insegnato essere curativa.
“Non si sa mai,” aveva detto l’inglese alle compagne, “magari ci potrebbero servire…”
Alexandra aveva ammesso che era una buona precauzione, fermo restando che sperava non dovessero mai risultare necessarie, poi  era tornata a dedicarsi all’accensione del fuoco con dei legni secchi e un paio di pietre.
Dopo vari tentativi, le ragazze erano ancora allo stesso punto: sole e infreddolite, senza fiamma.
Alexandra lasciò cadere i suoi arnesi con un verso di disappunto.
“Sembrava più facile nella teoria!” sbottò, contrariata, strappando un sorriso mesto alle compagne di sventura.
“Possiamo farne a meno.” disse allora Matilde.
“Davvero?”
“Dobbiamo.”
Stabilirono che Alexandra avrebbe fatto il primo turno di guardia, poi sarebbe toccato a Petra e infine a Matilde così le due nobili si strinsero l’una all’altra e si addormentarono mentre l’americana si sedette, si appoggiò con la schiena al tronco dell’albero e rimase in allerta tendendo le orecchie ad ogni minimo suono.
Siamo in mezzo ad un sacco di nobili con soprannomi di animale e potremmo finire sbranate da una bestia vera!, pensò con amaro sarcasmo ringraziando il fatto che, almeno, non fosse inverno.
 
***
 
Petra spalancò gli occhi.
Fino ad un attimo prima dormiva profondamente ma in quel momento era sveglia e lucida, la mente preda di mille pensieri. Le preoccupazioni tornarono ad aggredirla e non riuscì a fare a meno di chiedersi chi avesse potuto assalire il castello con tale efficacia e prontezza.
Istintivamente, cercò con lo sguardo Alexandra e la trovò seduta contro l’albero, la schiena dritta e le orecchie tese. Sorrise.
“È presto per darmi il cambio.” si sentì sussurrare e sobbalzò.
Alexandra sorrise.
“Non volevo spaventarti.” sussurrò.
Petra sospirò e annuì.
“Lo so, sono io che sono in ansia.” ammise, “Non so proprio cosa succederà domani.”
Alexandra rimase seria, a lungo, e quando parlò aveva scelto accuratamente le parole da usare.
“Perché di solito sai cosa ti succederà il giorno successivo?” chiese, seria.
Petra la fissò, sorpresa.
“Non sto dicendo che tutto questo è fantastico” chiarì Alexandra prevenendo l’inglese, “ma dico che sono contenta di poter essere d’aiuto. Ormai è successo e non possiamo cambiarlo. Possiamo dare una mano, ed è quello che stiamo facendo. Sempre meglio che restarsene chiuse in una stanza a strapparsi i capelli piagnucolando perché non si sa cosa fare, non pensi?”
Petra abbassò lo sguardo, incerta.
Ha ragione…, pensava ma la sua mente tornava anche al padre.
Non che Geoffrey Martewall fosse stato un cattivo genitore ma solo, come suo padre prima di lui, era stato intransigente e Petra era cresciuta come una donna di rango, come la tradizione voleva che fosse. Ma dentro la sua vita, la ragazza si sentiva soffocare. Era come indossare costantemente un abito troppo stretto e alla fine si era quasi abituata a respirare con esso.
Quasi.
“So sempre cosa mi aspetta.” ammise mesta, “Sempre la stessa cosa, sempre la stessa vita. Ho sempre saputo cosa mi aspettava nei miei domani. Ci sarà un domani in cui mi presenteranno un promesso sposo che non ho mai visto, un domani in cui sposerò un uomo che potrei amare come no ma con il quale dovrò comunque passare la vita e condividere il letto, e infine ci sarà un domani in cui, quando probabilmente mi sarò affezionata a quest’uomo, mio marito partirà per l’ennesima guerra. Ah, forse ci sarà anche il domani in cui il mio sposo tornerà cadavere da una battaglia, ma di questo non sono certa.”
Alexandra accolse in silenzio il pacato sfogo della baronessa, senza distogliere gli occhi ciechi dalle fronde dell’albero.
“Perché non vieni qui?” chiese allargando il mantello che portava sulle spalle, “Così non rischieremo di svegliare Matilde.”
Petra lanciò un’occhiata all’amica contessa che, con i capelli rossi tutti sparsi attorno al viso, pareva dormire un sonno tutt’altro che pacifico.
Alla fine, con un sospiro, scivolò fuori dall’improvvisata coperta per rifugiarsi accanto all’americana.
Le due ragazze si strinsero e poi rimasero un momento in silenzio ad ascoltare i rumori della notte.
“Non dovresti essere così cinica.” sussurrò Alexandra all’improvviso, “Non so come sia la tua famiglia, o come sarà il tuo futuro, ma penso che dovresti provare a dire la tua. Insomma, Dama Isabeau ha sposato l’uomo del quale si era innamorata…”
“E guarda cos’è successo!” non poté impedirsi di aggiungere la baronessa inglese.
Alex si morse il labbro poi sospirò.
“Non è così semplice, Petra.” spiegò, “Isabeau e Ian si amavano, io non ne dubito. Quell’uomo forse era anche un fuorilegge ma quello che ha fatto sotto il nome di Jean Marc de Ponthieu è davvero lodevole.”
Petra spiò l’amica, il suo sguardo placido rivolto ad un cielo che non poteva vedere e le labbra leggermente arricciate in un sorriso mesto.
“Pensi che il Re abbia sbagliato?” osò chiedere, in un sussurro così fievole che Alexandra a malapena udì.
L’americana rise piano.
“Hai paura che ti sentano, Petra?” chiese ironica poi sospirò, “Sì, penso di sì. Per quello che mi hanno raccontato e per tutto ciò che quell’uomo ha fatto per me, penso che il Re abbia agito senza pensare davvero, spinto dalla rabbia per il rapimento della fidanzata.”
Petra abbassò lo sguardo, confusa.
Chi aveva ragione? Dove stavano il giusto e lo sbagliato? In quel momento, si sentiva davvero inutile.
Era una leonessa sperduta ma che non aveva ancora il coraggio di usare gli artigli.
Alla fine, le tre ragazze ripartirono un’ora prima dell’alba.




Allora, grazie a tutti i Santi, oggi sono in orario *coro di ovazioni di vittoria in sottofondo, grazie*!
Ho provato a immaginare una reazione di Geoffrey alla vista di Jerome e ho pensato che il barone, sempre così gelido, non si sarebbe permesso un cedimento davanti al nuovo nemico... Quanto a Petra, state attenti ai suoi pensieri: senza dubbio, non sono cose che una donna medioevale dovrebbe pensare, giusto?
Per il prossimo capitolo, prevedo un colpo di scena! (in realtà ve lo aspettate tutti, mi sa, ma fa niente ;)...)
Beh, non ho altro da dire se non che sono abbastanza soddisfatta del capitolo...
A presto!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 23
*** Un aiuto misterioso ***







23. Un aiuto misterioso

 
Il giorno dopo, Derangale e Gant non si fecero vedere e i prigionieri vennero lasciati da soli senza alcun riguardo, se non quello di sostituire le guardie che li tenevano d’occhio.
Nel sentire la porta delle prigioni aprirsi, Isabeau alzò subito il viso, terrorizzata come sempre dall’idea che Derangale fosse tornato per mettere in pratica la propria minaccia di ‘domare’ Marc con la frusta, ma tirò un sospiro di sollievo quando si accorse che si trattava dei due soldati venuti come sempre per il cambio di guardia. Uno di loro portava il vassoio con delle ciotole contenenti una zuppa dall’odore nauseabondo.
Le due guardie rimaste con loro fino a quel momento risalirono le scale e se andarono; una delle due appena arrivate –entrambe, come le precedenti, sconosciute alla castellana- rimase in corridoio mentre l’altra apriva la porta della cella di Isabeau.
La donna, seduta sul tavolaccio di legno che le faceva da letto, si vide porgere una ciotola ma rimase a fissarla senza allungare una mano.
Non ce la faceva. Per quanto si rendesse conto di stare solo complicando le cose e mettendo a repentaglio la vita di tutti gli altri, non riusciva a trovare un briciolo di forza per allungare la mano. Era disgustata, le pareva di sentire ancora le labbra di Derangale sulle sue e, se chiudeva gli occhi, rivedeva Ian steso su una panca del tutto simile a quella dove stava lei ma ferito e sanguinante. Cairs era ovunque attorno a lei.
“Mangia, stupida.” la riprese seccamente il soldato afferrandola per un braccio.
Lei si divincolò.
“Lasciami!”
Con la coda dell’occhio notò che il soldato nel corridoio aveva la fronte aggrottata e, con una mano sull’elsa della spada, si stava dirigendo verso le ultime celle. Pensò che forse i cavalieri avevano trovato un modo di evadere e si costrinse a trattenere l’uomo davanti a lei.
“Non potete obbligarmi!” dichiarò, “Né voi né quei cani dei vostri signori!”
L’uomo rise.
“Ma davvero?” chiese ghignando.
Isabeau stava per rispondere ma uno strano suono, soffocato, misto ad un rumore metallico la interruppe.
Il soldato, sorpreso, si voltò verso il corridoio.
“Che succede, lì?” urlò, probabilmente al suo compagno, ma non ottenne risposta.
L’uomo lasciò la contessa con malagrazia e sfoderò la spada lentamente, gli occhi fissi sul corridoio mentre si avvicinava all’uscita della cella. Una volta oltrepassata la soglia di un passo, dovette vedere qualcosa perché parve stupito e aprì la bocca ma prima che potesse gridare l’allarme un pugno lo prese al viso facendolo barcollare all’indietro.
Isabeau rimase sgomenta: un uomo con indosso un mantello scuro il cui cappuccio gli copriva il viso aveva appena aggredito la guardia spuntando dall’estremità cieca del corridoio.
Il nuovo venuto aveva in mano una spada e si gettò sul soldato che, preso alla sprovvista, non riuscì a reagire in modo corretto così che il misterioso individuo riuscì a colpirlo al volto una seconda volta e con più forza e questi cadde a terra privo di sensi, lasciando all’avversario strada libera per raggiungere Isabeau.
La donna fissò quel guerriero che le veniva incontro con sorpresa incertezza e un briciolo di sospetto: era grande e grosso, addirittura quanto Ian forse, ma era l’unica cosa che lei poteva intuire perché l’abbigliamento lo nascondeva praticamente del tutto.
“Madonna? State bene?”
Isabeau sgranò gli occhi. La voce che le aveva parlato aveva una forte inflessione inglese, forse addirittura troppo marcata per essere vera, ma soprattutto era gentile e preoccupata. La contessa ci mise un istante per rendersi conto di dover rispondere.
Un “Oil”* molto incerto e dal tono più simile a quello di una domanda che a quello di un’affermazione fu tutto ciò che le uscì dalle labbra.
Non ne era certa, ma le parve di sentire il suo interlocutore sospirare di sollievo e le parve di intuire un sorriso che fioriva sotto il cappuccio.
“Allora alzatevi, dobbiamo fare in fretta.” le ordinò lui porgendole una mano per aiutarla.
Per un attimo, la donna esitò ma poi accettò la premura e si rialzò in piedi per seguire l’uomo fuori dalla cella. Aveva una strana sensazione al riguardo di quello sconosciuto…come una scossa sottopelle.
Lui però non diede segno di essere altrettanto empatico o quantomeno interessato perché lasciò la presa per chinarsi sul soldato e sfilargli le chiavi.
Isabeau lo osservò aprire la cella di Marc ma non fece in tempo a decifrare quella sensazione perché il figlio, appena libero, le corse incontro e le mise le mani sulle spalle per chiederle, ansioso, come stesse. La contessa si lasciò distrarre dal sollievo e abbracciò il figlio maggiore. Ben presto, anche Michel poté stringersi per un attimo alla madre e al fratello poi tutti e tre si voltarono.
Il loro misterioso aiutante stava liberando i cavalieri dall’ultima cella, Jodie e Daniel già si stringevano e Brianna e Donna smaniavano per poter fare altrettanto con i propri cavalieri.
Isabeau puntò ancora gli occhi sull’uomo, che si faceva ora rispettosamente da parte per permettere ai cavalieri di uscire dalla cella.
“Hai idea di chi possa essere?”
Isabeau sobbalzò nel sentirsi chiamare, si voltò e incrociò lo sguardo concentrato e serio di Marc. Scosse la testa.
“Come può essere entrato?” ragionò Michel in quel momento, “Non ci sono altre vie, se non le scale, no?”
“No.” sussurrò Isabeau, colta da un flash, “C’è un passaggio segreto in fondo al corridoio, però era bloccato dall’esterno…”
“Beh, allora direi che è proprio dall’esterno che è arrivato sin qui.” commentò Marc aggrottando la fronte, “Ma com’è possibile che sapesse della sua esistenza?”
“I frati del monastero di Saint Michel lo sanno.” mormorò Isabeau, sgomenta dall’idea che stava prendendo piede nella sua mente, “Visto che va aperto da fuori, i miei genitori lo raccontarono all’abate sotto il vincolo della Confessione ed egli lo disse al suo successore solo in punto di morte e sotto lo stesso giuramento. Forse lo hanno mandato i monaci…”
“Derangale e Gant hanno tenuto nascosto la loro presa di potere sul castello.” la interruppe però Marc, “Nessuno sa che sono qui dentro, perciò nessuno può aver…”
“Alexandra, Matilde e Petra!” esclamò Michel interrompendo, a sua volta, il fratello, “Loro lo sanno!”
Isabeau annuì.
Alexandra sapeva perciò era plausibile che fosse andata al monastero a cercare aiuto. E se davvero le cose stavano così, allora quell’uomo non poteva essere che…
“Scusate il disturbo, messieurs!” sentirono dire in quel momento dall’energumeno incappucciato, “Non vorrei mettervi fretta, ma ci sarebbero un paio di guardie svenute e un po’ più di un paio d’altre che tra poco si accorgeranno della vostra fuga: non vorrei essere qui, in quel momento, perciò consiglierei di sbrigarci, se non vi è di troppo disturbo!”
Isabeau sgranò gli occhi nel sentire l’uomo apostrofare a quel modo dei nobili di Francia, ma poi faticò a nascondere un sorriso.
E chi ti saprebbe riconoscere, così mutato nel carattere?, immaginò di chiedergli nel vedere l’espressione stizzita di Daniel.
“Chi siete?” chiese in quel momento Guillaume de Ponthieu, palesemente sospettoso.
“Ha importanza?” replicò acido l’uomo incamminandosi verso il fondo del corridoio, “Perché se è così, possiamo aspettare i due inglesi e dirlo anche a loro, se volete!”
Isabeau notò il viso di Etienne de Sancerre imporporarsi e decise di intervenire.
“Ha ragione.” azzardò allora, interrompendo più o meno involontariamente Geoffrey Martewall e il suo onore, “Dobbiamo sbrigarci o ci prenderanno.”
Re Luigi annuì e si voltò verso l’uomo, che si era fermato per fissarli.
“Da dove siete entrato?” chiese al misterioso salvatore.
“Se mi seguiste,…!” si limitò a sbottare l’uomo dandogli le spalle per tornare al suo armeggiare contro il muro di pietra.
Solo allora, Isabeau si accorse della prima guardia, sdraiata a terra e palesemente intontita. Aveva il viso sporco di sangue e la contessa si concesse il poco femminile pensiero di sperare che il pugno gli avesse spaccato il naso poi si incamminò dietro agli altri.
Il guerriero sotto il mantello si piegò su un ginocchio e sfilò con attenzione una pietra tra tutte quelle del muro e questa venne via placidamente, allora infilò la mano nel buco e tirò.
Una sezione rettangolare del muro si mosse su due cardini nascosti e rivelò un corridoio, a terra stava una trave che doveva aver bloccato il passaggio da fuori e in un anello al muro una fiaccola scoppiettava allegramente.
L’uomo entrò, prese la torcia dal suo supporto e si voltò un secondo verso i compagni di fuga.
“Non rimanete indietro. Non parlate. L’ultimo richiuda la porta.” ordinò, lapidario, prima di iniziare a camminare.
A sorpresa, i presenti obbedirono e Michel si prese un attimo per ricontrollare due volte di aver chiuso bene il passaggio alle proprie spalle.
 
***
 
Sorrideva, con tranquillità.
Bevve un sorso del liquore ambrato nel proprio bicchiere, pregustando la plurima esecuzione che aveva fatto organizzare per i prigionieri. Certo, quelle tre ragazzine erano ancora a piede libero ma non se ne preoccupava: appena la notizia del ‘rogo di eretici’ che avrebbe acceso da lì a poco le avesse raggiunte, quelle tre sciocche sarebbero tornate di corsa pur di provare a salvare i loro cari. E sarebbero finite sul barbecue anche loro.
Sorrise e bevve di nuovo.
In quel momento, Hyperversum impazzì.
Risputò nel bicchiere il liquido che era già nella sua gola e osservò con sgomento la schermata. Il video, con l’inquadratura su Derangale e Gant che ridevano, si era fermato e mostrava una scritta lampeggiante.
 

HYPERVERSUM
Level 3: Failed (2nd time)
 
Try again? Y/N

 

      “Cosa diavolo…?” ringhiò iniziando a digitare.
 

This is the replay of your defeat…
 

Sparito l’annuncio del gioco, con la mela che compariva ad intermittenza quasi a ridere della sua disfatta, sullo schermo apparve un uomo incappucciato che stordiva entrambe le guardie nei sotterranei, l’una dopo l’altra, e poi liberava i prigionieri e li portava via in un passaggio segreto.
Per un attimo, rimase immobile, sgomento… Poi scattò.
“Imbecilli!” ringhiò, “Stanno scappando!”
Iniziò a lavorare con la tastiera, maledicendo l’idiozia dei suoi alleati e la sfacciata fortuna dei suoi nemici.
 
***

“Tre ore sotto terra come talpe!” ringhiò, lamentandosi per l’ennesima volta, Etienne de Sancerre, furioso, “Fra quanto potremo uscire?!”
“Adesso.” si degnò di rispondergli finalmente il capofila, ossia l’incappucciato, fermandosi nel bel mezzo del corridoio.
“Qui?” chiese Re Luigi, sorpreso e a sua volta davvero irritato, “Non c’è nulla!”
“Cosa dovrebbe essere?! Uno scherzo di cattivo gusto?!” sibilò Geoffrey Martewall scoccando un’occhiataccia all’uomo che però ignorò tutti e prese ad armeggiare con il soffitto.
“Attenzione.” disse solo, dopo un poco, poi fece scattare un qualche chiavistello.
Una botola si abbassò dal soffitto lasciando cadere della polvere e facendo entrare la luce del sole nel cunicolo.
Gli uomini si guardarono tra loro, sorpresi e incerti.
“Dove siamo?” chiese Marc fissando, dubbioso, la botola.
“Lunes, una casa abbandonata fuori dal paese: nessuno vi troverà, potrete fare quel che vi pare.” spiegò l’uomo.
“E voi?” chiese Guillaume, un sopracciglio sollevato in segno di scetticismo.
“Io me ne vado.” replicò quello, “La mia parte l’ho fatta, adesso arrangiatevi.”
Luigi osservò la scena per un attimo, pensoso: l’uomo non lo convinceva, erano successe troppe cose strane negli ultimi giorni perché concedesse la sua fiducia al primo incappucciato di passaggio.
“Nessuno ci garantisce che questa non sia solo un’altra trappola.” dichiarò all’improvviso, attirando su di sé tutti gli sguardi ma lasciando il suo fisso sul misterioso guerriero, “Voi adesso salirete lassù e ci dimostrerete che nessuno, né un cavaliere né una dama, correrà rischi.”
L’uomo sembrò esitare.
“Non ne vedo la necessità.” replicò, “Perché avrei dovuto farvi fuggire dalle segrete, se il mio intento fosse stato quello di farvi tornare là di nuovo?”
“Per guadagnarvi la nostra fiducia e far rivelare a dama Isabeau le verità che presumete lei conosca sul suo defunto marito!” espose Geoffrey Martewall, “Oppure per altro!”
A sorpresa, l’inglese incappucciato rise.
“Cosa c’è?” ringhiò Sancerre, sempre più furioso ad ogni momento che passava.
“Non ha senso!” spiegò l’uomo, “E io non vedo perché dovrei dimostrare la mia buona fede dopo avervi liberati dalle prigioni!”
“Se la vostra è davvero buona fede,” si intromise Luigi con durezza, “allora non dovete preoccuparvi, no?”
L’uomo non rispose.
“Salite.” ordinò il sovrano troncando ogni altra possibile contestazione.
A sorpresa, dopo un attimo di incertezza, l’uomo sospirò ma si aggrappò ai bordi della botola. Nel eseguire il movimento, lasciò intravedere abiti lisi e sporchi, più adatti ad un contadino che ad un soldato, ma fu un istante e questo si issò fuori sparendo alla vista.
I nobili rimasero un attimo fermi, in attesa, e ascoltarono l’uomo fare due passi sul pavimento, fatto di legno anziché di terra battuta probabilmente proprio per nascondere la botola, della casa.
“Allora?!” gli sentirono dire dall’alto, con tono palesemente seccato, “È sufficiente oppure no?!”
“Saliamo anche noi, prima che lui scenda di nuovo.” ordinò il sovrano accostandosi alla botola per dare l’esempio per primo.
Gli uomini salirono tutti, uno per volta, e poi porsero le mani alle dame per aiutarle. Qualche minuto e furono tutti nella casa, che altro non era se non una grossa stanza senza nulla e con il tetto pieno di buchi.
L’uomo incappucciato aveva le braccia incrociate e sbuffava, sembrava quasi nervoso.
“Allora?!” chiese ancora, “Posso andare, o no?!”
Luigi lanciò un’occhiata ai suoi uomini ma incrociò solo lo sguardo di Geoffrey Martewall. Questi comprese subito le sue intenzioni e così, apparentemente solo curiosando nella casa, si spostò alle spalle dell’uomo misterioso.
Luigi fissò l’uomo.
“No.” gli rispose.
Questi non doveva aspettarselo, perché reagì con un attimo di ritardo e Geoffrey Martewall riuscì ad afferrarlo per il collo da dietro. Provò a divincolarsi e riuscì a staccarsi l’inglese dalle spalle ma questi riuscì ad aggirarlo e farlo cadere a terra, sulla schiena.
Il barone rubò la spada che l’avversario aveva tenuto in cintura e non aveva usato e gliela puntò alla gola, il respiro solo leggermente affannato. L’uomo a terra non parlava.
“Che cosa fate?!” esclamò Isabeau, sgomenta, “Ci ha aiutati!”
“Madame, non preoccupatevi.” la rassicurò Luigi senza però guardarla, “Voglio solo sapere perché quest’uomo non voleva mostrare il volto. Se non è un criminale, non ha nulla da temere. Sir Martewall…”
Il barone, con un gesto secco della punta della spada, gettò all’indietro il cappuccio dell’uomo.




* "Oil" significa "Sì" nella Langue D'Oil in uso nella Francia Settentrionale all'epoca...



Ecco qui...
Allora, premettendo che è un capitolo fatto di persone con fette di prosciutto sugli occhi, direi che finalmente, se non altro, Ian ha smesso di zappare la terra al monastero *ovazioni di vittoria*
Chiedersi chi l'ha avvertito, è superfluo, ma chiedersi le ragazzine dove siano finite è tutta un'altra cosa, giusto?
Bho, sperando di non aver scritto nuovamente delle schifezze, direi...
A presto!
Ciao ciao!

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Capitolo 24
*** Jhoannes e altri sconosciuti ***







24. Jhoannes e altri sconosciuti

 
A terra, sotto la minaccia della spada di Geoffrey Martewall, stava un uomo dai tratti marcati. Aveva occhi azzurri ma arrossati, forse dal buio prolungato nel tunnel, e capelli castani molto corti e sporchi. Su una guancia si allargava un ematoma violaceo ma la cosa che attirò gli occhi di tutti fu il collare di ferro che indossava.
“Un servo!” esclamò Henri de Bar, palesemente sorpreso.
Come poteva un servo –uno schiavo medioevale- avere una tale abilità nel combattere? Inoltre, l’anello di ferro ancora al collo significava che non era stato liberato dal suo padrone e perciò doveva essere fuggito da qualche parte, cosa che poteva spiegare il suo desiderio di rimanere nascosto ma non certo il suo possedere una spada –notevolmente costosa-.
L’uomo taceva, fissava i nobili da sdraiato sulla schiena con gli occhi azzurri immobili che sembravano decisi a non cedere sotto gli sguardi altrui eppure, per un attimo, a Guillaume de Ponthieu parve di vedervi un lampo di rassegnazione e Marc, nonostante sapesse che era impossibile, non riuscì a togliersi di dosso l’impressione di averlo già visto da qualche parte.
“Chi sei?” chiese Luigi, dando del tu all’interlocutore cui ora poteva dare un volto ed un’appartenenza sociale.
L’uomo sollevò un sopracciglio, scettico.
“Non avete sentito il vostro vassallo?” chiese, “Vi ha risposto lui.”
Luigi ignorò il sarcasmo del servo.
“Qual è il tuo nome?” incalzò.
L’energumeno esitò un istante ma poi cedette.
“Jhoannes.” rispose ma, chissà perché, a Michel parve che stesse mentendo. Era troppo deciso, aveva risposto troppo in fretta, per essere un uomo che fino ad un attimo prima non voleva nemmeno mostrare il volto.
“Da dove vieni?” chiese ancora il re.
Jhoannes non rispose ma si limitò a fissarlo, Geoffrey Martewall rinsaldò la presa sull’elsa della spada e pressò leggermente la gola del suo prigioniero con la punta della lama ma questi non reagì comunque, seppure fosse impallidito.
“Sei fuggito dal tuo signore, vero?” incalzò il sovrano fingendo disgusto nel tentativo di spingere l’uomo a non rinchiudersi nel mutismo.
“No, sto facendo una pausa, non è ovvio?” chiese l’uomo, sarcastico.
Luigi strinse i pugni ma si trattenne dal rispondere in qualche modo.
Non riusciva a capire: perché uno schiavo in fuga avrebbe dovuto rischiare la libertà appena ottenuta e la vita nel tentativo di liberare un sovrano e dei nobili che, come dimostrava perennemente, disprezzava per chissà quale motivo? E poi…
“Come sapevate che il castello non era più in mano a Dama Isabeau?” chiese, sospettoso.
Lo sguardo di Jhoannes ebbe un lampo e il sovrano capì di aver comunque trovato una pecca nella determinazione dell’uomo e se ne compiacque. A suo modo, quel servo gli stava simpatico: aveva coraggio ed era determinato, non si faceva intimidire. Era un avversario particolare da trovarsi davanti in confronto di logica e retorica.
“Non lo sapevo.” replicò Jhoannes, “Sapevo del passaggio e sono andato per liberare i prigionieri perché so quanto sia dura agognare la libertà.”
“Menti!” replicò il sovrano, “Quando avete liberato Dama Isabeau vi siete premurato di chiederle come stava dandole l’appellativo di ‘Madonna’ perciò l’avete riconosciuta e sapevate bene chi fosse. Inoltre avete detto, parole vostre: ‘Se volete possiamo aspettare i due inglesi’; però nessuno vi aveva detto che a prendere possesso del castello sono stati quei due uomini.”
Jhoannes rimase immobile per un lungo momento, tanto che Luigi temette di non ricevere risposta.
“Magari lo sapevo…” ammise però il servo alla fine, “Ma non vedo dove stia il reato.”
“Siete un fuggitivo?” chiese Luigi dando di nuovo all’uomo del ‘Voi’ quasi senza accorgersene. Stimava il suo avversario, in un certo senso, perché era senza dubbio fedele ai propri principi.
A Jhoannes sfuggì un sorriso.
“Sì e no.” disse solo, “La fuga non è il mio obiettivo.”
“O almeno non la vostra.” aggiunse Henri de Grandprè fissandolo, “Vi rendete conto che come storia è un po’ incredibile, vero?”
Il servo sollevò le spalle, pur essendo ancora a terra.
“La verità è sempre tale, indipendentemente da quel che credono gli uomini.” si limitò a dire.
Luigi osservò ancora l’uomo per un attimo: Jhoannes aveva senza dubbio omesso molte cose e mentito su alcune delle altre però li aveva liberati dalle segrete ben sapendo la situazione interna del castello ed era solo un servo.
“Lasciate che si rialzi, Sir Martewall.” ordinò, “Sarò pazzo, ma voglio sdebitarmi con quest’uomo per il suo gesto.”
Il barone inglese, seppur palesemente di malavoglia, obbedì e Jhoannes poté rialzarsi in piedi. In posa eretta era molto più alto del suo avversario e, a ben vedersi, anche di tutti gli altri.
“Per essere un servo, combattete molto bene.” commentò Etienne de Sancerre, ancora sospettoso.
Di nuovo, il servo sollevò le spalle.
“Posso andarmene?” chiese al sovrano.
“Temo di no.” ammise questi, “Fino a che non saprò esattamente cosa fare, preferisco tenere voi, che sapete dove siamo, sotto controllo: spero mi perdonerete.”
Chissà perché, però, il tono di Luigi sembrava tutto meno che dispiaciuto, al contrario quasi soddisfatto d’aver avuto l’ultima parola.
Jhoannes strinse i pugni, l’espressione pensosa come se stesse valutando attentamente la situazione. Alla fine, annuì.
“Come desidera Sua Maestà.” cedette però poi non rinunciò a riprendere a dare consigli che parevano in tutto e per tutto ordini, “Bisogna accendere un fuoco. È tardi e non avrebbe senso andare da qualche parte adesso: di certo non vi cercano fuori dal palazzo, penseranno che siete ancora nel castello e bloccheranno le uscite a tutti, soldati compresi. Avete un po’ di tempo per decidere cosa fare ma domattina dovrete avere un’idea precisa di come muovervi o vi prenderanno.”
Dopo una lieve discussione fra l’esuberante Etienne e il nervoso Martewall sulle priorità, il Re stabilì che tre guerrieri avrebbero procurato la legna mentre gli altri avrebbero organizzato i turni di guardia e difeso le dame. I tre scelti furono Jhoannes -che si offrì volontario-, Sir Martewall e Henri de Bar.
La casupola nella quale erano spuntati era senza dubbio isolata e si trovava nel mezzo del bosco, tanto che per raggiungere la strada principale bisognava raggiungere un sentiero appena accennato e palesemente in disuso. De Bar si spostò a cercar legna sul lato destro della costruzione mentre Jhoannes si diresse a sinistra e Martewall gli andò dietro in silenzio.
Il servo iniziò a raccogliere la legna secca che trovava e il barone inglese lo imitò tenendolo sempre nella propria visuale.
“Avete paura che vi aggredisca, se mi date le spalle?” chiese all’improvviso, sarcastico, Jhoannes dopo molti minuti di lavoro.
Martewall non si scompose.
“Non so se fidarmi di te.” dichiarò, “Qualcosa, nel tuo modo di fare e nei tuoi movimenti, mi pare familiare però non riesco a decifrare questa sensazione. Ho come l’impressione di averti già incontrato da qualche parte eppure non riesco a ricordare dove…”
L’uomo non rispose, non crollò né ammise nulla ma neppure negò. Martewall sentiva l’irritazione crescere: dove aveva già visto quell’uomo?, cosa nascondeva, visto che lui era ormai certo che non avesse detto tutto? Con un verso, il barone inglese si caricò sulle spalle la propria fascina di rami secchi e alzò gli occhi sul servo che stava legando assieme due fascine.
“Ti sbrighi?” ringhiò l’inglese, già irritato di suo, dalla situazione e dalle domande nella sua testa senza che il suo sgradito compagno andasse piano appositamente per innervosirlo.
Martewall non poteva esserne certo, perché Jhoannes gli dava le spalle, ma gli parve di sentirlo ridacchiare e, chissà perché, le sue mani rallentarono ancora di più il lavoro. Irritato, l’inglese si diresse all’entrata della capanna a passo di marcia, brontolando un “Di sicuro, dovunque ti abbia visto, ti detestavo!”
Henri de Bar, che arrivava in quel momento, lo fissò sorpreso.
“Il servo?” chiese.
“Lo so!” ringhiò l’inglese e lasciò il suo carico fuori dalla porta per tornare indietro di corsa.
Troppo tardi: di Jhoannes era rimasta solo la sua fascina accuratamente accatastata.
 
***
 
“Non posso crederci!” sbottò Alexandra, furiosa, “Niente asilo a tre ragazze sole?! Ne andrebbe del buon nome del monastero?! La gente penserebbe male, provate in una taverna?! Ma chi l’ha nominato quell’abate?!”
Matilde e Petra tacevano alle spalle dell’amica e non osavano intervenire per blandirla dopo aver notato l’accrescersi della sua rabbia ad ogni tentativo di placarla. Erano entrambe altrettanto sdegnate dalla risposta dell’abate ma erano molto più curiose di sapere chi fosse il servo con il quale Alexandra aveva voluto parlare prima di vedere il monaco –tanto che aveva preteso di passare dai campi del monastero- ma anche cosa fosse a lui capitato era una domanda abbastanza pressante visto che il sorvegliante ingaggiato dall’abate per controllare i braccianti li aveva visti e, furioso, li aveva raggiunti e lo aveva allontanato con un colpo di bastone in viso dall’alto del cavallo cui era in groppa.
Da allora, Alexandra era parsa molto più ansiosa per quell’uomo che per le famiglie ancora nel castello.
“Cosa facciamo, quindi?” chiese Matilde.
“Torniamo indietro!” ringhiò Alexandra, “Andiamo verso Lunes e aspettiamo lì l’arrivo di Beau, sperando che si sbrighi!”
 
***
 
“Fuggito?!” esclamò Luigi, più sorpreso che arrabbiato, “Non ha senso!”
“Con il vostro permesso, Sire, nulla di quell’uomo aveva senso.” commentò Ponthieu, “Potremmo trovarlo, comunque, quando avremo risolto il problema di Derangale e Gant, se è ciò che desiderate…”
“No, lasciate perdere, Guillaume.” ordinò il sovrano, “Forse ci ha davvero detto la verità quando intendeva che la sua fuga non era ciò che cercava. Non mi sorprenderebbe se un giorno lo trovassimo al lavoro da qualche signore senza che questi sappia nulla dei fatti di oggi… Adesso pensiamo ai problemi più urgenti.”
Luigi continuava a camminare avanti e indietro nella piccola casa, pensando e ripensando a tutte le stranezze avvenute negli ultimi tempi.
“Proseguiremo verso il monastero di Saint-Michel.” decise, “Da lì dovremmo riuscire a mandare un dispaccio a qualcuno dei miei uomini…”
“Il mio figliastro dovrebbe essere diretto a Chatel-Argent, credo anche con le sue truppe.” commentò Martewall, “Forse potremmo incrociarlo…”
“…e se ha abbastanza uomini con sé anche riprendere il castello senza clamori.” concluse de Bar, “Sarebbe il modo migliore per non attirare l’attenzione sulla corte ulteriormente: i vostri nemici, maestà, potrebbero approfittare della situazione.”
Il sovrano annuì ancora.
“E sia, per ora cerchiamo di mettere in pratica questo piano.” sospirò, “Se non dovesse funzionare per qualche motivo, decideremo cosa fare sul momento.”
 
***
 
Gant lanciò una coppa contro un muro con furia mal trattenuta.
“Com’è possibile?!” urlò, “Erano sorvegliati e nessuno ha visto niente!”
Derangale era, se possibile, ancora più furibondo e la ciotola di legno fra le sue mani scricchiolava in modo preoccupante.
“Dev’esserci un modo, non possono essere scomparsi per magia!” ringhiò.
Gant ansimava, appoggiato al tavolo del salone con entrambe le mani.
“E ora?!” chiese al suo compagno fulminandolo con un’occhiataccia, “Se tu avessi ammazzato quella spia da quattro soldi adesso potrei muovermi più liberamente!”
Derangale rispose al gesto con uno sguardo altrettanto furioso.
“Se quella strega non si fosse messa in mezzo, lo avrei ucciso!” replicò, “Ma non mi sembra che nemmeno tu abbia reagito molto prontamente al suo attacco!”
“Una donna!” urlò Gant raddrizzandosi, “Come potevo immaginare che una donna sapesse combattere, eh?! Maledetta strega!”
Derangale sostenne lo sguardo del crociato diventando sempre più calmo.
Pensava, ragionava, progettava. Le parole del suo alleato gli avevano aperto una prospettiva tutta nuova: una donna che combatteva, una strega…
Come avrebbe reagito quell’arcierucolo da nulla se sua figlia fosse stata condannata al rogo dal sovrano, dopo che già questi aveva fatto uccidere il suo migliore amico? Forse non sarebbe bastato a portarlo dalla loro parte, ma lo avrebbe indebolito abbastanza da spingerlo ad allontanarsi dagli altri e restare solo, solo e vulnerabile… Gant sarebbe stato al sicuro come lo era lui e avrebbero potuto divertirsi ad eliminare gli altri con tutta tranquillità.
“Stai calmo.” sibilò all’amico, “Forse ci hanno servito la soluzione su di un piatto d’argento…”
Gant sollevò un sopracciglio.
“Sbarazzati di quel Freeland.” si limitò a replicare, “Al resto, penseremo dopo.”
Derangale sorrise, maligno.
“Oh, non ti preoccupare…” dichiarò tornando ad osservare e stringere la ciotola tra le sue mani.
Il legno gemette e scricchiolò sempre di più finché, all’improvviso, si ruppe tra le mani dello sceriffo inglese. Questi non reagì ma strinse la presa sui pezzi e, voltandosi, li gettò nel fuoco di uno dei camini.
“Ma per arrivare al padre” concluse, spietato, guardando i frammenti bruciare, “ci servirà la figlia…”
 
***
 
Si massaggiò il mento, pensando.
L’idea di quei due bruti medioevali non era poi così male. In effetti, ci aveva già pensato di persona ma arrivare a quei punti era senza dubbio un colpo di stile.
Daniel, come Ian, sarebbe caduto per colpa del sovrano di Francia e poi tutti gli altri li avrebbero seguiti. Purtroppo la giovane Freeland sarebbe dovuta morire prima del padre e non avrebbe quindi assistito al colpo di scena finale.
“Peccato.” commentò tra sé e sé accarezzando il bordo del proprio bicchiere ancora mezzo pieno, “Sarebbe stato divertente.”
Cosa sarebbe stato divertente?”
Si voltò.
Sulla soglia stava un ragazzo sui vent’anni anni che osservava la scena con espressione disgustata. Aveva i capelli neri corti e gli occhi di un verde molto intenso, i tratti del viso -così come quelli del corpo- erano marcati e levigati dalla fatica di un allenamento continuo e sempre in crescendo, ma restavano quelli di un giovane ragazzo che ancora stava cercando la sua strada.
Un idiota, per come la vedeva l’uomo davanti al computer.
“Ti ho già detto migliaia di volte di non ficcare il naso nei miei affari!” ringhiò, “Adesso sparisci!”
Il ragazzo non si mosse ma continuò a fissare lo schermo con attenzione, probabilmente per capire cosa stesse succedendo.
“Ho detto vattene!” urlò l’altro quindi saltando in piedi e raggiungendolo per bloccargli la visuale.
Il ragazzo sostenne il suo sguardo ma non poté proseguire perché vide il suo ‘avversario’ prepararsi a chiudergli la porta in faccia.
“Sei un codardo.” dichiarò, serio.
“Fuori!”
Il ragazzo si allontanò, senza dire una parola, ma le sue iridi continuarono a scrutare la stanza fino a che non fu entrato nella sua.
Sul video era comparsa una nuova schermata.
 

HYPERVERSUM
Code: ******
Accepted.
 
Transition from level 3 to 4 ongoing.
Please wait.

 
Tornò a sedersi, prese il bicchiere e buttò giù una sorsata con rabbia.
È sempre tra i piedi, dannazione!, pensò.
Ma questa volta avrebbe fatto in modo che anche lui la piantasse di intervenire, si era stufato di trovarselo sempre davanti che gli remava contro.
Hyperversum finì di caricare.
 

Are you ready to play? Y/N



 

Lasciamo perdere: fa altamente schifo. Mi vergogno di me stessa ma dovevo introdurre questo (ennesimo ma importantissimo) nuovo personaggio e mi sono ritrovata a dover far sparire Jhoannes/Ian dalle mani dei francesi senza però trovare un pretesto valido. -.-
Detto questo, prestate attenzione a questo nuovo venuto perché è una delle colonne della mia storia.
Pazienza, scusate il ritardo e a presto!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 25
*** "HYP ends thus" ***







25. "HYP ends thus"

 
Era davvero una cosa rara che lasciasse il suo ‘antro’ incustodito, il ragazzo ormai lo sapeva, ma sapeva anche che si trattava pur sempre di un essere umano che quindi ogni tanto doveva scendere a mangiare o ad espletare altre funzioni. E in quei casi lui aveva campo libero almeno per una decina di minuti.
Il giovane, con il labbro inferiore spaccato durante l’allenamento di poche ore prima a malapena rimarginato, socchiuse la porta dello studio alle proprie spalle e si diresse a colpo sicuro verso il computer.
“Non so cosa tu abbia in mente,” disse immaginando di farlo in faccia al proprietario della macchina, “ma io lo manderò all’aria.”
Digitò febbrilmente sulla tastiera, sentendo i secondi scorrergli sulla pelle e inciderla metodicamente mentre il tempo a sua disposizione diminuiva sempre di più.
Infilò una chiavetta USB nella porta e iniziò a passare i file dal computer ad essa. Prese il gioco e tutto ciò che lo riguardava, ossia tutto quello che iniziava con la scritta ‘HYP ends thus*’.
Disconnesse il collegamento e infilò l’oggetto incriminato in una tasca dei jeans poi tornò alla porta. Sbirciò fuori per assicurarsi che non ci fosse nessuno poi uscì ed entrò nella propria stanza dove si permise di tirare finalmente un sospiro di sollievo.
Fino ad alcuni anni prima, ogni tanto quel maledetto alzava la voce e minacciava di colpirlo o gli tirava contro qualcosa, di solito quando beveva troppo, ma da quando il ragazzo era diventato tanto grosso da potergli fare da custodia non si azzardava più a farlo per paura di pagarne le conseguenze: se aveva perso il controllo a quel modo, voleva dire che davvero era importante ciò che stava facendo. E ‘importante’ per lui, di solito voleva dire ‘folle’ per gli altri.
Il ragazzo raggiunse il proprio portatile e cliccò il tasto di avvio poi, mentre aspettava che si accendesse e si rigirava la chiavetta in una mano, prese il cellulare e cliccò il tasto 2 attivando una chiamata rapida.
“Avanti, rispondi!” si ritrovò a dire dopo cinque squilli a vuoto ma tutto ciò che ottenne fu il partire della segreteria telefonica.
Quando sentì il ‘BIP’ sospirò.
“Ciao, sono io. Ho bisogno del tuo aiuto. Sto bene, non preoccuparti, ma forse ho scoperto qualcosa di strano. Richiamami appena puoi, per favore.” disse poi si morse il labbro inferiore e cedette, “Scusa per ieri, ok? Mi sono comportato come un idiota, lo so, però ti voglio bene. È solo che non voglio che tu stia male… A dopo.”
Chiuse la chiamata senza menzionare affatto il motivo della litigata, anche se quello era fisso nella sua mente, e infilò la chiavetta nell’apposita porta, pronto a sezionare quei file da cima a fondo pur di trovarci una qualsiasi anomalia.
 
***
 
Alexandra si voltò di scatto facendo fermare anche le altre due.
Erano in viaggio dal mattino quindi dovevano essere per forza vicine a Lunes ma in quel tratto il bosco era tanto fitto da non permettere loro di esserne certe.
“Che succede?” chiese Matilde, confusa.
Alex le fece cenno di tacere e si concentrò ancora ma il suono non si ripeté.
“Niente.” sussurrò dopo un minuto buono, “Devo essermi sbagliata.”
Eppure…
Fecero ripartire i cavalli, sempre al passo perché le bestie non si stancassero troppo, ma l’americana continuava a voltarsi, come se avesse potuto vedere, perché non riusciva a togliersi di dosso la sensazione di essere osservata e seguita e…
Alexandra si irrigidì: questa volta era reale, uno scricchiolio sospetto nel bosco un poco alle sue spalle. Peccato che Petra e Matilde fossero entrambe davanti a lei per guidare il suo animale.
Sentì un altro scricchiolio seguito da un lieve tintinnio di metallo provenire da un ramo sopra la sua testa e capì.
“Un’imboscata!” urlò alle compagne prima di spronare il proprio animale.
Un gruppo di uomini, vestiti con le divise dei Montmayeur, scesero dai rami o saltarono fuori da dietro gli alberi, alcuni iniziarono a scoccare frecce verso le zampe dei cavalli, facendoli imbizzarrire.
Petra riuscì ad afferrare le redini della giumenta di Alexandra per impedire che scappasse o disarcionasse l’amica ma non riuscì a fare lo stesso con quelle di Matilde.
L’animale della giovane francese iniziò a sgroppare e la ragazza perse la presa sulle briglie scivolando di lato ma rimanendo impigliata alla sella con un piede nella staffa. L’animale iniziò a correre, trascinando la giovane che, urlando, tentava di liberarsi. Chissà come, il piede riuscì a sciogliersi dai lacci di cuoio ma la ragazza cadde a terra di testa e perse i sensi, un braccio piegato in un’angolazione innaturale sotto di lei.
“Matilde!” urlò l’inglese ma a nulla valsero i richiami.
Un soldato afferrò Petra per un braccio e glielo torse riuscendo a tirarla giù dalla sella con violenza, tanto che la gonna della ragazza si impigliò nel pomolo e si strappò lungo il fianco mentre la pelle della gamba si lacerava sfregando contro il cuoio della sella. L’uomo la rimise in piedi in malomodo e la strinse da dietro bloccandola con un braccio all’altezza del petto e tappandole la bocca con la mano libera.
Alexandra sentì qualcuno stapparle le briglie di mano e poi la cavalla che si calmava sotto di lei. La ragazza capiva che la situazione era precipitata e perciò rimase immobile, i sensi all’erta per cercare di capire come agire. Aveva sentito Matilde urlare e le pareva di aver capito che uno dei cavalli era fuggito, ma anche Petra aveva strillato mentre qualcuno la apostrofava dicendole ‘Vieni giù!’ però adesso non sentiva più niente da nessuna delle due. I soldati ridacchiavano o commentavano ma solo uno si rivolse a lei.
“Avanti, fa’ la brava e scendi senza che debba farti male!” le ordinò.
“Grazie, preferisco andare a cavallo con le mie amiche.” replicò, secca, “Per chiedermi un incontro galante devi prima parlare con mio padre.”
Ma che sto dicendo?!, si chiese mentalmente, Petra, Matilde dove siete?!
Una serie di risate seguì il suo commento sarcastico.
“Ma sentitela!” continuò l’uomo di prima e Alex lo sentì avvicinarsi al suo fianco destro, “La signorina è consapevole della propria bellezza!”
Trattenne a fatica i conati quando questo le posò una mano sulla coscia, molto vicino all’inguine, ma si costrinse a rimanere immobile.
Pessima scelta, amico…
“In effetti, hai tutto il diritto di crederti bella.” continuò, “Magari con tuo padre ci parlo davvero, quando catturiamo anche lui, va bene?”
“No.” replicò Alex.
Alzò la gamba sinistra, riuscendo a farle superare la testa del cavallo nonostante la gonna lunga e strappata, e trovandosi così seduta praticamente di fronte all’uomo, si lanciò in avanti su di lui e gli strinse le ginocchia ai fianchi mentre con le mani cercava appigli sulla testa dell’uomo. Riuscì a immobilizzarlo poi, reprimendo il disgusto, cercò di ricordare gli esercizi che le aveva fatto fare Jas, il suo molto ansioso insegnante di scrima che all’occorrenza le dava qualche consiglio di autodifesa.
Un suono secco e l’uomo crollò a terra come un sacco vuoto, l’osso del collo spezzato.
Alexandra pensò di essere sul punto di vomitare ma si costrinse a fingere che fosse un manichino e si inginocchiò a rubargli la spada appena in tempo per schivare il pugno di un secondo soldato.
Riuscì a sentire la lama di questi in arrivo, un’ascia a giudicare dal sibilo dell’aria tagliata e dai grugniti del combattente, così la evitò indietreggiando, saltando il cadavere che aveva già lasciato sul terreno e facendo scappare la propria cavalla. Evitò allo stesso modo ancora due colpi poi approfittò di un terzo uomo che cercava di colpirla alle spalle e si piegò lasciando che i due si ferissero a vicenda. Sperando che i nemici si fossero messi fuori combattimento, la ragazza cercò di fare mente locale.
Uno, due, forse…sì, tre! Tre combattenti e un paio di persone in disparte…, dedusse ascoltando i passi circospetti di tre soldati che le venivano incontro e di altre due persone che, invece, si allontanavano nel bosco. Ascoltò ancora un momento quelle due e sentì che una imprecava e una che sembrava…mugolare.
Una delle due trascina l’altra…, stabilì.
Secondo il processo per cui ‘il nemico del mio nemico è mio amico’, Alexandra si appuntò di liberare quella trascinata immaginando che fosse una delle sue compagne poi dovette concentrarsi sul duello perché uno dei tre, alla sua destra, si era fatto più sicuro vedendola ferma e le si era avvicinato parecchio.
Sperando che non fosse armato di due lame e che non fosse mancino, Alexandra si azzardò ad attaccarlo puntando alla sua mano destra e fu quasi con sollievo che accolse il rumore della sua arma che cozzava contro un’altra. Incalzò l’avversario spingendolo verso gli altri due e poi, approfittando del fatto che questi gli impedivano una ritirata efficiente, lo trafisse al ventre. L’uomo cadde a terra con un grido e poi non si mosse più.
Alexandra non indietreggiò ma sfruttò la caduta del cadavere per colpire uno dei due uomini al viso con il pomolo della spada poi, ripetendo a sé stessa di fingere che fossero tutti sacchi pieni di lattine vuote come quelli che usava negli allenamenti, mosse la spada verso sinistra tenendola però alla stessa altezza. La punta della lama non perforò la testa del secondo uomo ma scivolò sulla tempia, forse perché per paura Alexandra non aveva colpito con decisione, ma comunque lasciò una lunga ferita che fece crollare l’uomo a terra, privo di sensi.
La giovane tese le orecchie ma l’unico suono che restava era quello del soldato con una prigioniera e così cercò un modo per liberarla.
Si chinò sul primo cadavere che trovò davanti a sé e allungò una mano a tastarne la cintura finché le sue dita non strinsero l’elsa di un pugnale. Cercò di saggiarne rapidamente il peso e la forma mentre si rialzava poi puntò la spada verso l’uomo, decisa a farlo parlare per capire la situazione.
“Lasciala andare!” azzardò, sperando di non sbagliare.
“Posa quella spada o taglio la gola alla tua amica!” si sentì rispondere.
Si trattenne a malapena dal tirare un sospiro di sollievo poi si preparò mentalmente al gesto folle che stava per fare.
“Colpiscilo al viso con una testata!” ordinò alla ragazza, sperando che chiunque essa fosse avesse la prontezza di riflessi per obbedirle prima che l'uomo reagisse.
Petra sgranò gli occhi per un istante ma poi li richiuse, si morse la lingua e si costrinse a colpire il viso dell’uomo preso alla sprovvista con la nuca usando tutta la forza che aveva.
Il soldato imprecò e lasciò andare la prigioniera malamente per prendersi il viso tra le mani ma, nel momento in cui Petra gemette cadendo a terra, Alexandra lanciò il pugnale che prese fodero preciso nel petto del soldato.
La ragazza non lo sentì urlare né cadere perché i passi concitati di altri uomini in arrivo la costrinsero a concentrarsi su altro.
Strinse la spada, incerta su come fare a combattere da sola contro i soldati in arrivo, ma non fece in tempo a muovere un muscolo che la voce di Petra la assordò.
“ATTENTA!”
Ad Alex parve di sentire qualcosa di freddo sfiorarle la pelle sulla schiena poi fu tutto buio.
 
***
 
Petra guardò, sgomenta, il soldato che Alexandra aveva colpito al viso con l’elsa della spada rialzarsi da terra barcollando, prendere il proprio pugnale e lanciarlo verso la ragazza.
“ATTENTA!” urlò, terrorizzata, pur sapendo che era troppo tardi.
Vide Alexandra sgranare gli occhi e poi inarcare la schiena all’indietro mentre la lama le si conficcava nella carne e poi…poi si fermò tutto.
Lei, il soldato e il corpo di Alexandra sospeso a mezz’aria: tutto fermo e silenzioso.
L’inglese vide l’amica perdere connotati e diventare una strana macchia verde acceso che iniziò a sparire come polvere disgregandosi dai piedi verso la testa. Quando fu sparita del tutto, apparve per un istante una mela rossa che fece un giro su se stessa e poi, così come era arrivata, scomparve.
Per qualche strano motivo, Petra era sicura di aver sentito una voce di donna mormorare una strana frase priva di senso.
 
***
 

HYPERVERSUM
Level 4.
Giocatore: Alexandra Freeland.
1st Game Over.

 
***
 
Petra non riusciva a credere che davvero Alexandra fosse morta. Non era possibile.
Quando il tempo riprese a correre, si accorse dello sguardo sgomento del soldato che, come lei, aveva appena visto una ragazza sparire nel nulla. Vide le sue labbra e seppe quale parola stavano per pronunciare perché era la stessa che per un attimo aveva sfiorato la sua mente: stregoneria.
Non sapeva perché lo stesse facendo ma prima ancora che potesse rendersene conto si era gettata su soldato afferrando il pugnale che il suo assalitore le aveva puntato alla gola quando aveva visto Alexandra avere la meglio sugli altri. L’uomo tentò di reagire ma lei gli tappò la bocca e senza neanche sapere come se lo ritrovò tra le braccia, morto per tre pugnalate al petto.
Petra guardò, sgomenta, l’arma sporca di sangue tra le proprie mani e la gettò via saltando in piedi. Si guardò attorno. Corse da Matilde, ancora riversa a terra e le sollevò la testa poi iniziò a tastarle il polso. Sospirò di sollievo rendendosi conto che l’amica era viva e si dedicò ad osservare il braccio rotto.
In quel momento, un secondo gruppo di uomini iniziò a correre verso la radura.
 
***
 
Alexandra strinse gli occhi e si morse la lingua mentre una forte vertigine la scuoteva.
Era così morire? Facile e indolore?
Tutto quello che sentiva era…un formicolio alla schiena, ecco.
La ragazza si concesse di pensare per un attimo a suo padre e al suo parlare isterico quando avrebbe scoperto che la figlia era morta ma poi aggrottò la fronte.
Perché sentiva davvero un parlare isterico accanto a sé? Perché le pareva di sentire una voce arrivarle ovattata? E come mai sentiva qualcosa pesarle sulla testa e avvolgerle le mani?
Non è possibile!, pensò e, esitante, Alexandra allungò le mani verso la propria testa e provò a toccarsi i capelli.
Non ci riuscì perché le sue dita, fasciate nei guanti di fibra ottica, si scontrarono contro il visore per le realtà virtuali di Hyperversum.
In quel momento, suo zio Martin la stritolò in un abbraccio.
 
 
 
 
 
*’HYP ends thus’ = ‘Hyperversum finisce così’




Lo so, sono un mostro -.-
Vi chiedo perdono per non aver aggiornato ieri, a volte mi chiedo perché mi dia una scadenza se tanto succede sempre qualcosa che mi impedisce di aggiornare -.-
Vi prego davvero di perdonarmi!
Detto questo, il capitolo appena postato è parecchio importante per me e per la storia: Alex è stata colpita ed è tornata all'epoca attuale ma perché?, e il ragazzo ha deciso di rovinare i piani del nostro uomo dietro lo schiermo, ancora perché? e chi avrà chiamato?
Ultima questione è il comportamento di Petra: una medioevale dovrebbe aver paura della stregoneria, perché lei l'ha coperta?
Chiedo scusa a coloro cui non ho risposto negli scorsi capitoli, purtroppo questo è un periodo un po' così, vi chiedo ancora scusa :(
A presto!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 26
*** Dietro tutto quanto... ***






26. Dietro tutto quanto…

 
Alexandra si tolse il visore e si strappò via i guanti dalle mani mentre saltava in piedi, poi prese a tastarsi la schiena ossessivamente.
Niente. Niente di niente. La maglietta era stracciata sulla schiena come se il pugnale l’avesse raggiunta ma lei non era ferita.
“Alex!” si sentì chiamare.
Allungò le mani davanti a sé e suo zio gliele strinse forte mentre si protendeva a baciarle la fronte continuando a ringraziare il cielo e tutti i santi perché la sua nipotina era viva.
“Cosa…?”
Alexandra non capiva. Cosa stava succedendo? Hyperversum aveva ripreso a funzionare e li aveva catapultati fuori visti gli ordini precedenti?!
“Mamma e papà!” esclamò, sgomenta, “Dove sono?!”
Martin si passò una mano tra i capelli e si asciugò la fronte imperlata dal sudore mentre si lasciava cadere su una sedia.
Alexandra, in piedi davanti a lui, fissava il vuoto con ansia.
“Sono rimasti dentro…” sussurrò Martin, gli occhi lucidi, “Nel gioco… E io non lo controllo più… Nessuno lo controlla più…”
Alex cadde in ginocchio.
“Non è possibile.”
 
***
 
Petra saltò in piedi afferrando un ramo da terra e sollevandolo sopra la testa come una rudimentale arma.
Era spaventata ma pronta a tutto e quando vide un uomo spuntarle da dietro si voltò di scatto e fece per calare il ciocco.
“Petra!”
La ragazza si fermò appena in tempo e il legno si fermò a pochi centimetri dal volto di Geoffrey Martewall.
“Padre!”
La giovane non perse tempo a chiedersi come fossero scappati o come le avessero trovate ma lasciò la propria arma e si gettò fra le braccia del genitore scoppiando a piangere. L’uomo esitò solo per un attimo poi la cinse con le braccia e la strinse a sé.
“È finita, Petra.” le sussurrò all’orecchio con una determinazione che fece parere la frase una promessa, “Sei al sicuro, adesso. Ci sono io con te.”
La baronessa continuò a piangere per ancora pochi istanti ma poi si riprese, nella mente le cose che doveva fare le si ripresentarono in ordine d’urgenza.
“Matilde ha sbattuto la testa!” esclamò staccandosi dal genitore per fissarlo negli occhi, “Credo stia bene ma ha un braccio rotto ed è priva di conoscenza!”
“Shhh!” le sussurrò il padre, “Lo so, guarda.”
Petra si voltò e con stupore riconobbe tutti coloro che credeva prigionieri a Chatel-Argent: gli uomini esaminavano i corpi mentre Donna ed Etienne si stringevano alla figlia e la dama la esaminava. Solo allora Petra si accorse di essere stretta anche dalla madre ma non ci fece caso più di tanto perché i suoi occhi trovarono Sir Daniel, con la moglie in lacrime stretta fra le braccia.
Petra sentì di dover fare qualcosa e si divincolò dalle braccia del padre per andare da loro.
“Alexandra era con noi!” esclamò, di nuovo in lacrime.
Daniel le andò incontro.
“Dov’è ora?!” chiese, ansioso.
“È… Lei è…”
Petra era in difficoltà: non poteva dire a quell’uomo che sua figlia era una strega! Aveva ucciso un uomo per infangare quella verità, anche se non sapeva bene perché. Doveva trovare una scusa, in fretta! Qualcosa che giustificasse anche una sparizione permanente, una morte o almeno che le facesse guadagnare tempo.
“Il suo cavallo…” sussurrò, notando che tutte e tre le cavalcature erano fuggite via, chissà dove, “Si…Si è imbizzarrito e lei…lei è rimasta bloccata sulla sella! Dobbiamo trovarla, potrebbe essere ovunque!”
I nobili le si erano fatti intorno e si sbrigarono ad organizzarsi nell’apprendere la notizia.
“Passa un fiume, qui vicino!” esclamò Marc, ansioso, “Dobbiamo trovarla, se ci scivolasse dentro o il cavallo ci cadesse, lei potrebbe morire!”
Petra si morse la lingua per non scoppiargli a ridere istericamente in faccia e tutti si affrettarono ad organizzare la ricerca.
 
***
 
“Zio, adesso…con calma… Perché il gioco non risponde ai comandi?”
Alexandra era di nuovo in piedi, con una maglietta integra addosso e stava sulla sedia di sua madre, accanto a quella del padre della quale si era appropriato Martin che era davanti al computer.
L’uomo esitò un attimo.
“Credo…che si tratti di un virus.” ammise alla fine per poi decidere di spiegarsi sotto l’espressione sgomenta di Alex, “Non posso esserne certo perché il gioco non risponde in alcun modo e non mi lascia fare una scansione ma sono quasi certo che sia un virus arrivato dalla connessione internet della partita…”
“Ma la partita non era su internet.” considerò Alex aggrottando la fronte, “Dopo quello che è successo con Thierry, papà ha smesso di giocare on-line, no?”
Martin annuì.
“Sì, infatti” ammise, “e la partita non era su internet ma all’improvviso, quasi un’ora fa, il computer ha segnalato il passaggio alla modalità web del gioco e poi…basta! In un attimo non andava più niente!”
Alex era confusa.
“Ma è possibile che abbia fatto da solo?” chiese.
“No, assolutamente!”
“Magari hai toccato qualcosa per sbaglio?”
“Alex!” la riprese Martin, indignato, “So benissimo che rischi si corrono con questo aggeggio: non mi sognerei mai di modificare qualcosa con mio fratello, mia cognata e mia nipote in gioco!”
Alex arrossì e si scusò.
Martin sbuffò e tornò a provare a digitare comandi mentre la ragazza si perdeva nei suoi ragionamenti.
All’improvviso un tintinnio fece sobbalzare entrambi.
Martin imprecò.
“Cos’era?!”
“Il mio cellulare.” replicò Alexandra prendendo l’apparecchio con apatia dalla scrivania dove lo aveva sentito, ancora pensosa, “Segnala la batteria scarica.”
“Ha suonato anche prima, per un bel po’. Non la smetteva più.” ricordò Martin ma era talmente preso dal computer che la sua voce era priva di una qualsivoglia intonazione.
Alex annuì e, meccanicamente, sbloccò la tastiera per sentire chi fosse stato.
Il telefonino la avvisò, con una metallica voce femminile, che aveva una chiamata senza risposta e un nuovo messaggio in segreteria. La ragazza aggrottò la fronte ma premette il tasto centrale.
Hai una chiamata senza risposta da ‘Jas’.
Alex sgranò gli occhi: avevano litigato solo il giorno prima e lui la richiamava già?! Ma se di solito doveva faticare una settimana per ottenere da lui delle scuse, nonostante riprendessero a parlare molto prima! Anche se, per amor di verità, doveva ammettere che di solito la più difficile da piegare era lei, e di solito lui era dalla parte della ragione e lei del torto. Come in quel caso.
Sospirò e ascoltò il messaggio, sperando che almeno quello portasse buone notizie.
La voce gentile del suo insegnante di scrima uscì leggermente distorta dall’apparecchio ma nitida nella sua ferma urgenza.
Ciao, sono io. Ho bisogno del tuo aiuto. Sto bene, non preoccuparti, ma forse ho scoperto qualcosa di strano. Richiamami appena puoi, per favore. … Scusa per ieri, ok? Mi sono comportato come un idiota, lo so, però ti voglio bene. È solo che non voglio che tu stia male… A dopo.
Alex rimase ferma, il bip della fine del messaggio che continuava imperterrito.
Quasi non aveva ascoltato le scuse dell’amico, la sua mente era troppo presa da un ragionare febbrile che escludeva tutto il resto.
Un piccolo, minuscolo, insignificante dettaglio in un racconto. Una cosa tanto scontata da non attirare l’attenzione su di sé. Due cose che combaciavano e lei, idiota, che ci stava in mezzo e non le aveva viste.
“Alex? Alexandra?!” la chiamò Martin, preoccupato.
“Devo richiamarlo.” disse solo la ragazza alzandosi per spostarsi in corridoio mentre continuava a cliccare il tasto ‘Giù’ del cellulare e ascoltava l’apparecchio riferirle i nomi della rubrica sui quali era arrivato.
“Ti prego, ti prego, dimmi che non è come penso!” sussurrò solo una volta poi il telefonino la avvisò di essere su ‘Jas’ e la ragazza premette il centrale.
Nemmeno due squilli –uno e mezzo, forse- e il giovane rispose.
Alex?! Ascoltami, tu non crederai mai a quello che ho trovato nel computer di mio padre!” le disse subito, ansioso.
“Un virus trasmissibile sul forum di un gioco on-line di nome Hyperversum, e un numero di telefono fisso e la password di accensione di un computer, entrambi di casa mia.” elencò lei.
Jas tacque un attimo.
Cosa sta succedendo, Alex?” chiese, serio.
“Qual è il nome di battesimo di tuo padre?” replicò lei.
Lui le rispose.
Perché?” chiese poi.
Alexandra lo ignorò.
“Jas, mi serve un antivirus -o un virus buono o che ne so io!-, ma che sia il più forte che riesci a crearmi in dieci minuti. E che sappia distruggere il virus che tuo padre ha spedito nel computer di casa mia tramite il collegamento alla linea telefonica.”
Caschi bene, tesoro!” replicò lui e la ragazza se lo immaginò ghignare, “Sai che adoro rompere le uova nel paniere a mio padre perciò ci sto lavorando da quando ti ho chiamata: dammi cinque minuti per arrivare a casa tua e avrai il tuo virus-antivirus!
La ragazza si concesse un mezzo sorriso.
“Jas?” lo chiamò.
Sì?
“Avevi ragione, su tutto… Anche ieri… E adesso tu non hai neanche la minima idea di ciò che stai davvero facendo per me. Non posso spiegarti, però…”
Ehi!” la interruppe lui, “Non dirlo nemmeno! Mi spiace, lo sai che avrei preferito sbagliarmi… E niente spiegazioni, se non ti va: questo e altro per la mia piccolina!
Alex chiuse la chiamata tirando un sospiro di sollievo poi corse di nuovo nello studio.
“Il virus è un sabotaggio!” dichiarò, “Derangale e Gant non sono sopravvissuti e quelli che abbiamo visto non sono quelli reali! Sono due sosia, due proiezioni, inseriti dal virus: il gioco è andato in palla e non è più stato in grado di riconoscere un personaggio morto da uno vivo!”
Martin sgranò gli occhi.
“Ne sei sicura?!”
“Al cento per cento!”
“Ma chi…?”
“Conosci il mio insegnante di scrima?” lo interruppe lei.
L’uomo aggrottò la fronte.
“Di vista, forse… Quel ragazzo ti accompagna sempre a casa in macchina, vero? Perché?”
“Perché ha trovato la stringa di programmazione, o come cavolo si chiama, del virus nel computer di suo padre assieme a delle informazioni che bastano, ad un bravo hacker, per inserirsi in un computer qualsiasi dell’intero globo e infilarvi dentro tutto quello che gli pare, che sia una buona o una cattiva cosa.”
Martin sgranò gli occhi.
“Fammi capire: il padre del tuo amico ha infilato nel nostro computer un virus che inibisse le regole del gioco, permettendogli di infilare in partita chi cavolo gli pareva?!” chiese.
Alexandra annuì.
“Ma perché?!” esclamò l’uomo, “Non ha senso! Tutto questo solo per rovinare alla famiglia di un’amica di suo figlio una partita ad un videogioco?!”
“Jas di cognome fa White.”
“E allora?”
“Suo padre si chiama Carl.” specificò la ragazza.
Martin si gelò sul posto.
“Oh mio Dio…” mormorò.
“Sapeva che non era solo una partitella!” considerò la ragazza, “Forse ha aspettato apposta che ci entrassimo tutti o forse doveva racimolare le informazioni! Studiava fisica dei materiali ma ha cambiato Università dopo la prima missione, me l’ha detto papà. Beh, notizia del giorno: si è laureato in ingegneria informatica! Ci sono dieci college diversi solo a Phoenix, papà non poteva saperlo! Carl ha lavorato per anni come programmatore di videogiochi, Jas me ne ha parlato un paio di volte! Deve aver capito che Hyperversum non era replicabile senza papà, probabilmente non ha pensato a Ian, e così ha preparato il suo piano!”
“Vi ha bloccati dentro, ha ricreato le condizioni necessarie e ha immesso i dati di Derangale e Gant così poi il resto è venuto da sé: Ian è stato condannato a morte e tu, Daniel e Jodie sareste dovuti morire nell’attentato sulla strada!” comprese Martin saltando in piedi nella foga della discussione.
“Però poi è passato alla corte di Francia!” continuò Alex, “Perché?! Se gli interessava la vendetta, come mai prendersela con i francesi?!”
“Forse è solo un’idea dei suoi personaggi.” azzardò Martin, “Magari hanno mente loro. E così si spiegherebbero quegli sbalzi di corrente che ci sono stati qui: era Carl che faceva interferenza!”
“E anche per questo Derangale e Gant non erano coerenti e a volte perdevano abilità!” continuò Alex, “Papà ha installato un sacco di antivirus per paura che Hyperversum venisse danneggiato! Probabilmente questi stavano cercando di espellere il file infetto e ogni tanto hanno avuto la meglio, costringendo i due inglesi e indietreggiare.”
“Probabilmente è per questo che sei tornata qui e non sei morta di là!” esclamò Martin, “Il virus ha sconvolto il modo del gioco di considerare la sopravvivenza dei personaggi, non giocanti ma anche attivi…”
“…e come ha dato una seconda vita a Derangle e Gant, così l’ha data a me!” concluse Alex, euforica per quelle scoperte, “Due vite prima del Game Over!”
I due Freeland rimasero immobili per un momento.
“Non si fermerà facilmente, vero?” chiese la ragazza mordendosi il labbro inferiore, “Quando Jas avrà fatto funzionare il suo anti-virus, la minaccia non sarà sventata: potrebbe riprovarci…”
Martin si morse il labbro inferiore.
“Ci penseremo dopo, ok?” stabilì, “Appena avremo risolto il problema del virus, faremo uscire tua madre e tuo padre e io e Daniel andremo a risolvere la situazione…a monte.”
Alex si morse la lingua.
“Jas odia suo padre.” sussurrò, “Fra loro non è mai corso buon sangue: Carl non voleva un figlio e non è mai stato sposato ma il tribunale glielo ha affidato da bambino perché la madre era tossicodipendente, o qualcosa del genere. Lui vi aiuterà anche se poi ci starà male. Lo so, lo conosco. Forse può trovare un modo per risolvere tutto senza clamori.”
Martin esitava. Si fidava del giudizio della nipote e sapeva bene che praticamente a quel ragazzo si doveva la salute mentale di Alex dopo l’incidente però…
“È suo padre comunque, indipendentemente da…” osò dire.
“Stava già creando un programma per fermare il virus.” replicò Alex, seria.
Martin stava per obiettare che un conto era creare un antivirus e un conto era trovare un modo per sbarazzarsi di una persona, ma non fece in tempo perché il campanello suonò.
Alex si alzò, un sorriso speranzoso sulle labbra.
“Spacca il minuto, come sempre!” sussurrò prima di correre giù per le scale per andare ad aprire.
Martin si passò una mano sul viso con un sospiro.
“Peggio di così non potrebbe andare comunque…” si disse, mesto.





Buondì!
Inizio finalmente a darvi qualche rispostina, contenti? ;)
Allora, Jas è l'allenatore e amico di Alex ma è anche il figlio di Carl che è l'uomo dietro allo schermo e il creatore dei nuovi Derangale e Gant... Ora, che si fa?
Mi scuso se sono di fretta e non ho risposto alle ultime recensioni ma sta succedendo di tutto e adesso mi manca proprio il tempo :(
Beh, a presto!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 27
*** "Donna di Troia" versus "The Continuum" ***






27. ‘Donna di Troia’ versus ‘The Continuum’

 
Quando Alex lo aveva richiamato, Jas aveva sentito un peso scendergli dal cuore. Voleva tanto bene a quella nanerottola bionda che credeva di poter spaccare le montagne, e con il passare del tempo si era pure convinto che se lei avesse voluto le Rocky Mountains non sarebbero state altro che un ricordo!
Ma sentire la sua voce così gelida lo aveva spaventato: non la sentiva così da due anni e di colpo lei tornava a fare l’indifferente per due volte in due giorni. La prima, quando il giorno prima avevano litigato perché lei fantasticava di tutto ciò che avrebbe potuto fare quando le avessero tolto le bende dell’operazione agli occhi e lui le aveva consigliato non troppo gentilmente di non farsi illusioni per non spezzarsi di nuovo il cuore –inutile dire che Alex non l’aveva presa bene, ma lui avrebbe dovuto immaginarlo e andarci più piano–; la seconda, quando aveva elencato con precisione assoluta i documenti che lui aveva trovato nel computer del padre.
Di qualsiasi cosa si trattasse, quindi, non era una bella cosa.
Jas parcheggiò sotto casa di Alexandra e scese dall’auto quasi di corsa.
Era più grande di lei di tre anni, era ventunenne, e stava per dare l’esame di laurea magistrale in Scienze Storiche, Archivistiche e Librarie. Contro il volere di suo padre, chiaramente. Probabilmente lui nemmeno sapeva che il figlio stava frequentando l’Università.
Jas sorrise all’idea di rovinargli tutto poi suonò il campanello.
Contò mentalmente fino a tredici e Alexandra gli aprì la porta, sorridente ma palesemente in ansia.
“Ehi?” le chiese entrando in casa e prendendole il viso minuto fra le mani.
Non gli ci volle molto per confermare la brutta notizia che Alex gli aveva dato per telefono tra le righe: non aveva funzionato e lei era ancora cieca, come dimostrava il suo sguardo vitreo e fisso sul nulla.
Diavolo, quant’è piccola!, si ritrovò a pensare, irritato. Sì, le voleva un mare di bene e ogni volta che la vedeva in ansia non poteva fare a meno di preoccuparsi.
“Che è successo?”
“Hai l’antivirus?” chiese lei.
Jas scosse la testa.
“Il virus di mio padre è progettato per abbattere le barriere di qualunque antivirus.” ammise, “Ho dovuto preparare un virus, ‘The Continuum’, capace di scovare il suo e farlo a pezzi: ringrazia il Cielo che Josh mi abbia mandato il modello base di un virus simile giusto tre settimane fa per farmelo studiare!”
Alex aggrottò la fronte.
“Studiate i virus?” chiese, confusa.
Jas scrollò le spalle –larghe il doppio se non di più rispetto a quelle di Alexandra–.
“Roba da cervelloni, non puoi capire!” la prese in giro poi, prima che lei potesse replicare, tornò all’argomento principale, “Dov’è il paziente?”
“Di sopra, la strada la sai…” gli disse, sorridendo forzatamente.
Lui annuì, ma mise comunque la mano sul gomito della ragazza per accompagnarla di sopra: sì, era protettivo, e allora?!
Nello studio di Daniel, Martin si era alzato in piedi e fissava il nuovo venuto con malcelato sospetto.
“Jas, mio zio Martin; zio Martin, Jas.” fece rapidamente le presentazioni Alex poi, senza neanche permettere ai due di stringersi la mano, afferrò il polso dell’amico e lo trascinò davanti al computer.
“Jas,” gli sussurrò mentre lo costringeva a sedersi, “ti prego, è davvero importantissimo per me. Fai conto che ne vada della vita della mia famiglia, d’accordo?”
Il ragazzo annuì poi puntò gli occhi verdi sul computer e non li spostò più da lì per un bel po’.
 
***
 
“Non è possibile che sia sparita nel nulla!” esclamò Daniel, ansioso, quando anche Martewall e Sancerre tornarono al campo, che consisteva in un fuoco in una piccola radura vicina alla strada, a mani vuote, “Dobbiamo trovarla! Potrebbe essere ferita!”
Luigi scambiò un’occhiata con il conte Guillaume poi si decise ad affrontare l’americano.
“Sir Daniel, sono ore che la cerchiamo.” esordì, “Io non credo che, a questo punto…”
“Non è morta!” urlò l’americano comprendendo al volo il pensiero, del sovrano ma anche di tutti gli altri ormai, e dimenticando totalmente l’etichetta e il rispetto.
A sorpresa, il conte Marc annuì e intervenne in suo aiuto.
“Se fosse caduta nel fiume, avremmo perlomeno dovuto trovare le orme del suo cavallo accanto al corso dell’acqua visto che il terreno è morbido” si intromise il ragazzo, serio, “ma invece non abbiamo trovato nulla. Anzi, a dire il vero tutte le tracce sono sparite… Forse si è semplicemente nascosta quando è riuscita a calmare l’animale: è cieca perciò non può capire chi la sta cercando. Forse le siamo anche passati vicini ma non si è fatta vedere per paura che fossimo ancora i soldati che l’avevano aggredita.”
Luigi sospirò. Cosa fare?
“Proviamo ancora, ma possiamo permetterci un’ora soltanto: sta per calare il sole, ormai, e non sarebbe prudente continuare con il buio.” ordinò, “Domattina, però, partiremo in ogni caso.”
 
***
 
“Allora?!”
“Alex, sono allo stesso punto di cinque secondi fa, quando me l’hai chiesto l’ultima volta: calmati!” esclamò Jas, esasperato, voltandosi verso di lei, che continuava a fare avanti e indietro sotto lo sguardo preoccupato di Martin.
“Avevi detto che c’eri quasi!” replicò lei.
Il ragazzo aprì la bocca per spiegarle, ma fu fermato da una voce metallica proveniente dal computer.
Caricamento ultimato.
Il ragazzo tornò a digitare un paio di cose, ignorando gli insistenti ‘Che succede?!’ di Alexandra, poi sorrise e si voltò ancora verso l’amica.
“Sono dentro!” annunciò, soddisfatto.
Alex gli si gettò al collo.
“Sei un genio!” esclamò schioccandogli un bacio su una tempia e facendolo ridere, “Allora? Hai vinto?”
Jas sorrise per un attimo a quella terminologia, ma poi sospirò e scosse la testa.
“Sono solo riuscito ad infilare il mio virus, adesso dobbiamo vedere che effetto ha…” spiegò, paziente, prima di controllare lo schermo.
Una lucina rossa si accese all’improvviso sulla mappa della terra.
“Cos’è?” chiese Martin, sorpreso.
Jas aggrottò la fronte.
“Un personaggio non giocante.” spiegò continuando a digitare, “Mio padre lo aveva bloccato sotto la dicitura: prigioniero. È la prima cosa che il mio virus ha disinfettato perché era poco protetto.”
“Ha un nome?” chiese Alexandra, confusa.
Jas cliccò con il mouse sulla figura rossa.
Principessa Margherita di Provenza.” lesse Jas, “Rinchiusa in una casa di boscaioli nei pressi di Amiens…”
Però la schermata del computer divenne improvvisamente nera.
“Che hai fatto?!” esclamò Martin saltando in piedi.
Jas imprecò.
“È l’altro virus!” spiegò quasi ringhiando, “Questa è praticamente la sua schermata d’inizio, la sua copertina quasi! Mi dà pure il benvenuto, il maledetto!”
Al centro dello schermo iniziò a lampeggiare una scritta rossa in caratteri gotici.
Donna di Troia?” chiese Martin, confuso.
“A quanto pare anche lui gli ha dato un nome!” bofonchiò Jas continuando a digitare.
Alex si irrigidì.
“Come si chiama il virus?” chiese, sorpresa.
Donna di Troia.” ripeté Martin, “Perché?”
“Niente…” sussurrò la ragazza, con scarsa convinzione.
“Se non vuoi che ti senta, potete parlare in corridoio.” le disse Jas, apparentemente a suo agio, “Non c’è problema, però io devo restare qui a controllare cosa succede.”
Alex annuì, si alzò e afferrò lo zio per trascinarlo fuori dallo studio.
“Che hai?” le chiese lui, irritato all’idea di lasciare solo il ragazzo con il computer dentro il quale stava suo fratello.
“È per questo che ha attaccato anche la corte francese!” sibilò Alex, “Non sono Derangale e Gant, è Carl!”
Martin aggrottò la fronte, confuso.
Donna di Troia, zio!” ribadì Alex, seccata, “Non Elena! DONNA! Carl vuole Donna!”
Martin sbiancò ma Alexandra continuò ad incalzarlo.
“Ce l’ha voluto dire esplicitamente: Elena di Troia causò una guerra perché invece di restare con il suo uomo fuggì con un altro di cui si era innamorata! Donna ha ‘lasciato’ Carl per Etienne! E lui la sta andando a riprendere come fecero i greci con Elena!... E al contempo si toglie la soddisfazione di darle della prostituta, perché ha avuto una figlia con un altro uomo!”
“Ma… L’ha lasciata sola e poi non erano fidanzati…” provò ad obiettare l’uomo, “Non sono mai stati insieme e le persone si lasciano ogni tanto… Non è una cosa logica che…”
“Carl non è più lucido da un bel pezzo, zio!” lo interruppe Alexandra, “Hyperversum l’ha sconvolto, anche papà l’ha detto, e non possiamo sapere quali effetti abbia avuto sulla sua mente! Ai suoi occhi, Etienne gli ha rubato la ragazza con la quale voleva uscire! E non sarebbe mai successo se papà e Ian non avessero voluto giocare a Hyperversum e soprattutto se non l’avessero portata a corte facendole conoscere il conte di Sancerre!”
“Donna era a palazzo, quando Derangale e Gant sono entrati?” chiese all’improvviso Martin, serio.
Alex si gelò ma, dopo un attimo, annuì.
“Allora il tuo amico farà bene a darsi una mossa!” sussurrò l’uomo tornando di corsa verso lo studio per rivolgersi direttamente al ragazzo in questione, “Abbiamo il tempo agli sgoccioli, perciò dovresti sbrigarti!”
“Già fatto, signore.” replicò lui, “Il mio virus sta smantellando quello di mio padre pezzo per pezzo.”
Alex tirò un sospiro di sollievo.
“Fra quanto potremo entrare di nuovo nel gioco?” chiese.
“Potete entrare anche subito a dire il vero.” le spiegò Jas continuando a cliccare con il mouse su varie schermate di numeri che apparivano, “L’accesso al gioco non è mai stato fermato, è l’uscita che è stata bloccata.”
Martin sgranò gli occhi.
“EH?!”
“È strano.” ammise Jas in quel momento, ignorandolo, “Qui segna due giocatori in partita che si muovono…”
Il ragazzo abbassò lo sguardo sulla porta USB: tre visori con i rispettivi guanti di fibra ottica giacevano per terra, attivi sì ma inutilizzati.
Aggrottò la fronte: perché il gioco segnalava due personaggi in movimento se nessuno stava toccando nulla? Tornò alla schermata: Daniel Freeland e Jodie Freeland stavano interagendo con lo scenario e con alcuni personaggi non giocanti, tra i quali però svettava anche un avatar costruito dai giocatori e usato come comparsa dal videogame, una certa Donna Barrat.
Jas aggrottò la fronte, ma poi fu costretto a pensare ad altro: una schermata con l’inquietante sfondo nero con la scritta rossa del nome del virus era apparsa davanti ai suoi occhi.
 

HYPERVERSUM
‘Donna di Troia’ vs ‘The Continuum’
 
Challenge is starting.
Please wait.

 

“Dannazione!” escalmò, furioso, “Non puoi farmi questo!”
“Che succede?” chiese Alexandra, confusa.
“Mi ha fregato!” esclamò Jas, “Ha previsto che qualcuno provasse a fermarlo e ha messo un blocco: il mio virus non può eliminare alcune cose create dal suo!”
“Cosa?!” continuò la ragazza, accostandosi a lui istintivamente.
“Ha protetto alcuni personaggi in modo che io non possa eliminarli dal gioco senza cancellare la partita…” spiegò il ragazzo ma Alex lo interruppe.
“NO!” urlò, “Non cancellarla!”
Jas sgranò gli occhi ma annuì.
“Non lo faccio!” la rassicurò, “Sono riuscito a creare uno spiraglio, ma davvero è minuscolo!”
Alex prese un respiro profondo e tacque per un attimo ma alla fine fece cenno a Martin di avvicinarsi, si sedette sulla sedia di sua madre accanto a Jas e poi attese che suo zio si mettesse dietro di loro.
“In cosa consisterebbe?” chiese, quindi.
“Mio padre ha reso praticamente inattaccabili alcune comparse che il suo virus ha aggiunto nel gioco.” spiegò il ragazzo digitando, “Vediamo… Ah, ecco!”
Sullo schermo si aprirono due immagini di uomini che giravano pigramente su se stessi sopra ad una serie di dati.
“Uno sceriffo inglese, Jerome Derangale, e un crociato mezzo inglese e mezzo francese, un certo Adolphe de Gant.” lesse ancora il ragazzo, “E poi una quindicina di soldati senza nome. Per farla breve: il mio virus non può eliminarli ma può indebolirli e dare loro un punto debole, tanto per restare in tema una specie di ‘tallone d’Achille’.”
Alex annuì, esortandolo a continuare.
“Si tratta di una vera e propria missione di gioco creata per Hyperversum, obiettivo della quale è eliminare questi due e i loro seguaci.” spiegò allora Jas, gesticolando, “Il problema è che sono personaggi realmente esistiti e quindi, perché questo avvenga, devi ucciderli nello stesso modo in cui sono morti nella storia.”
Martin si irrigidì, ma Jas parve non accorgersene, troppo intento a digitare per fornire ad Alex le informazioni che le servivano.
“I quindici soldati sono relativamente più semplici da sconfiggere perché non sono mai esistiti, sono come dei mostriciattoli sparsi per il livello.” continuò, “Sono solo questi due che sono i boss di fine gioco, i più difficili… Allora, ecco, a quanto pare Hyperversum è davvero accurato nel suo archivio di informazioni storiche perché spiega tutto nei minimi dettagli! Dunque: Derangle è stato ucciso in battaglia con una ferita di spada al ventre dal conte cadetto Jean Marc de Ponthieu… Mmm?! Come fa a saperlo con certezza?!”
Alex sentì nella voce dell’amico quella nota che indicava che si stava insospettendo e iniziava a farsi delle domande e decise di sviarlo il prima possibile.
“Ma se lo sarà inventato per rendere tutto più realistico!” mentì, “Oppure l’ha immesso tuo padre! Ti prego, possiamo andare avanti?!”
Jas annuì, ma Alex era certa di non averlo convinto.
“Il barone Adolphe de Gant invece è stato ucciso da una freccia al cuore scoccata da…”
Silenzio.
Alex ne fu sorpresa e allungò una mano per posarla sulla spalla dell’amico.
“Cosa c’è? Una freccia scoccata da…?”
“Daniel Freeland?!” soffiò il ragazzo, sgomento, “Il cavaliere Daniel Freeland, scudiero sassone del conte cadetto?!”
Alex si irrigidì.
Maledizione!, pensò: Jas era il suo angelo custode, ma aveva anche l’indole da storico! Se si era già posto tante domande prima, a quel punto era chiaro che il suo cervello avrebbe cercato delle risposte e che fossero ben più che esaurienti!
E adesso?!, si chiese la ragazza mordendosi il labbro inferiore ma non dovette darsi risposta perché Jas riprese a parlare, fingendo di non aver notato il nome del padre dell’amica tra le informazioni storiche di un personaggio milleduecentesco.
“Se entri nel gioco e riesci a portare dalla tua parte i due personaggi che ti servono, loro dovranno uccidere i due ‘mostri’ come c’è scritto qui. Allora il virus verrà espulso automaticamente.”
Alex annuì e si alzò, prese il visore e se lo mise in testa nella fretta di allontanarsi da Jas e dai suoi sospetti, ma stava infilandosi i guanti in fibra ottica quando Martin la fermò.
“Che c’è?!” sibilò lei, “Devo dirlo a papà!”
“Non puoi, zuccona!” la bloccò lui accennando al ragazzo con il capo, “Non vorrai sparire nel nulla sotto i suoi occhi?!”
Alexandra esitò. Come poteva sbarazzarsi di Jas in quel momento?! E se fosse accaduto qualcosa al gioco mentre lei era dentro?! Se il Donna di Troia avesse ripreso a funzionare?! Doveva trovare una scusa!
Ma cosa gli racconto?! Ehi, Jas, io adesso sparirò nel nulla ma sta’ tranquillo: vado solo indietro nel tempo di ottocento anni con un videogioco per salvare mia madre e mio padre che ci sono rimasti bloccati dentro a causa del virus di tuo padre che…
“Figlio di…!” la voce furibonda di Jas che imprecava fermò il suo sarcastico monologo mentale e la fece voltare verso di lui.
“Che succede?!” chiese.
Ma possibile che i guai non finiscano mai con quest’affare?!, pensò invece.
“Si è accorto di me!” ringhiò il ragazzo alzando gli occhi sul viso dell’amica, “Si è accorto di stare perdendo il controllo e…”
“Cosa?!”
“…è entrato in partita.” soffiò Jas, “È dentro. Come personaggio giocante.”




Lo so, lo so, sono incorreggibile: appena mi fanno i complimenti perché aggiorno regolarmente, ecco che perdo un giorno di pubblicazione :( Scusatemi...
Comunque, lo so che come capitolo sembra abbastanza inutile ma vi assicuro che mi serve!
Adesso si inizia davvero a giocare, Carl è entrato in partita!
Alla prossima!
Ciao ciao!

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Capitolo 28
*** Prigioniera ***







28. Prigioniera

 
“È dentro. Come personaggio giocante.”
Alex continuava a risentire le parole di Jas nella mente, cercava di dar loro un significato diverso da quello che le si proponeva davanti agli occhi ma non ci riusciva.
Carl. In gioco. Con sua madre e suo padre.
Carl, che voleva Donna. Carl, che cercava vendetta. Carl, che non si sarebbe fermato davanti a niente questa volta.
“Jas…” mormorò, incerta, “Non…non c’è modo di…?”
“C’è un modo solo per buttarlo fuori” sbottò il ragazzo alzandosi e voltandosi verso la porta, “ed è fermarlo fisicamente.”
Alex si irrigidì.
“Dove vai?” chiese sentendolo andare verso la porta dello studio.
“A casa.” rispose lui, serio, “A fermarlo.”
Martin osservava la scena, confuso, ma Alexandra non era molto meno sorpresa di lui.
Jas sbuffò platealmente e alzò gli occhi al cielo, sapendo che lei non poteva vederlo ma avrebbe indovinato il suo gesto per il semplice fatto che lo conosceva come le proprie tasche.
“Alex, non sono un idiota. Posso non aver capito tutto, ma di certo non sono così stupido da pensare che si tratti del semplice punteggio di un videogioco.” disse solo poi, salutando educatamente Martin, scese le scale e uscì dalla casa.
Alex aspettò solo un attimo, il tempo di sentire la macchina dell’amico passare sotto la sua finestra e suonare due volte il clacson, come sempre, poi finì di indossare il visore e si alzò in piedi.
“Mandami di là, zio.” ordinò, seria.
Martin sospirò.
“Non riuscirei a fermarti nemmeno se provassi, vero?” tentò comunque di chiedere.
La ragazza sorrise, mesta, e scosse la testa.
“Non ci riuscirebbe nemmeno l’intero esercito americano capitanato dal nonno!” dichiarò.
Martin si avvicinò al computer e, nel farlo, posò una mano sulla spalla della nipote.
“Vorrei poter venire…” mormorò ma si dovette interrompere quando vide che Alex stava per ribattere, “Lo so, lo so! Devo restare qui, se per caso il virus combinasse qualche nuovo scherzo. Tu però fa’ attenzione, d’accordo?”
Alexandra annuì.
“Se succede qualcosa, il numero di Jas è nel mio cellulare.” sussurrò.
Martin annuì poi si voltò verso lo schermo e iniziò ad armeggiare con tastiera e mouse.
Alex prese un respiro profondo.
La musichetta di Hyperversum malamente modificata dal virus le entrò nelle orecchie, la voce metallica femminile ora distorta disse parole senza senso poi un passo e una scossa rovente lungo la colonna vertebrale.
La ragazza cadde a terra in ginocchio con un grido strozzato.
Era già nel passato?! Allora Ian era vicino?!
La ragazza si alzò, si passò una mano sul viso e si tastò la pelle poi si toccò la schiena e trovò il proprio abito squarciato, infine controllò le gambe e le trovò avvolte nella lunga gonna dell’abito che indossava al momento della sua sparizione da Hyperversum.
“ALEXANDRA!”
Sgomenta, l’americana sobbalzò.
 
***
 
Petra non riusciva a crederci, non poteva crederci.
Un attimo prima camminava nel bosco approfittando della luce dell’alba e della scusa di raccogliere bacche per cercare una soluzione al problema della sparizione di Alexandra, e quello dopo aveva proprio Alexandra in carne ed ossa davanti agli occhi.
La sua amica non sembrava essersi accorta di lei, si era tastata addosso come se non fosse certa di essere viva e poi si era rialzata in piedi.
Vederla viva e apparentemente anche sana aveva abbattuto la rigidità della baronessa inglese che, senza riuscire a trattenersi, aveva urlato il nome dell’amica prima di saltarle al collo.
Alexandra esitò un momento poi riconobbe la voce della sua ‘assalitrice’ e sorrise.
“Petra!”
Le due ragazze si strinsero forte mentre attorno a loro cresceva il tumulto e gli altri si affannavano a raggiungerle dopo l’urlo della ragazza inglese.
Petra si staccò dall’amica per guardarsi alle spalle poi la strinse di nuovo, questa volta alla ricerca di una scusa per parlarle senza che nessuno se ne accorgesse.
“Ho detto loro che sei…” ma non poté terminare perché Daniel Freeland apparve in quel momento e corse verso la figlia.
“Alex!” chiamava e, sebbene Petra non capisse a chi si stesse riferendo, l’uomo strinse la figlia al petto.
Arrivarono anche gli altri, uno per uno, e all’alba del sei Maggio Alexandra Freeland fu ritrovata, sana e salva, dopo un assalto di briganti.
 
***
 
“Papà, sto bene…” mormorò Alex, per l’ennesima volta, con un sorriso paziente mentre il padre continuava a stringerle le spalle e non smetteva di fissarla, come se avesse paura che potesse sparire da un momento all’altro.
“Dannazione, Alexandra!” sbottò Daniel, “Sai da quant’è che ti cerchiamo?! Eh?! Ho pensato che ti fosse successo di tutto!”
“Lo so, scusa.”
Alexandra stava seduta per terra, stretta tra il padre e la madre. Gli altri presenti avevano formato un cerchio, chi in piedi e chi seduto, e adesso fissavano la ragazza con confusione crescente: le domande che la sparizione di Alex aveva spostato in secondo piano stavano tornando a galla.
Luigi sospirò ma si avvicinò alla famiglia Freeland.
“Vi prego di perdonarmi, mademoiselle, ma devo davvero chiedervi dove eravate: vi abbiamo cercata per tutta la notte senza risultati eppure ora siete qui, perfettamente in salute.”
Daniel guardò Alex, incerto. Conosceva sua figlia, da bravo padre era andato spesso ad assistere ai suoi allenamenti e ai suoi duelli e l’aveva vista con Derangale e Gant: per quanto le parole di Guillaume lo spingessero a pregare di sbagliarsi, era assolutamente certo che fosse opera della sua piccola tutto quel massacro.
“Non dovete scusarvi, mio sire.” sussurrò Alexandra in quel momento, abbassando gli occhi, “Ero nascosta nel bosco, vi ho sentiti ma non sono venuta allo scoperto.”
Il sovrano annuì, pensando che la giovane intendesse dire che li aveva scambiati per i suoi assalitori.
“Non preoccupatevi, gli uomini che vi hanno aggredite non saranno più un pericolo per voi.” disse e si voltò verso Petra, “E questo ci riporta alla domanda più importante: ora che dama Alexandra è stata ritrovata, resta da chiarire chi ha ucciso quei soldati per difendervi e, poiché mademoiselle Matilde era svenuta, rimanete solo voi come testimone dell’accaduto, mademoiselle Petra.”
La ragazza si irrigidì.
Cosa posso dire?!, pensò, sgomenta, ma non fece in tempo a mentire.
“Sono stata io, vostra maestà.” intervenne Alexandra con calma, precedendo l’amica, “È per questo che ho avuto paura quando vi ho sentiti cercarmi.”
Luigi si voltò, sconvolto, verso Alexandra ma quella rimase calma, almeno in apparenza.
Ho bisogno di libertà di movimento, ora o mai più!, si disse cercando il coraggio di continuare ad accusarsi.
“Mademoiselle, con tutto il dovuto rispetto, si trattava di cinque uomini!” la corresse Luigi, anche se sorpreso, “Come avreste potuto, voi…?”
“Li ho uccisi, vostra maestà, per pura difesa personale.” lo interruppe la giovane, “Siamo state aggredite e Matilde è caduta da cavallo, Petra è stata fatta prigioniera e io mi sono trovata sola: ho lottato solamente per difendere me e le mie amiche.”
Tutti i nobili, e Guillaume in particolar modo, guardavano la ragazza con sgomento ma fu Geoffrey Martewall a riprendersi per primo.
“Ma voi siete una donna!” esclamò, apparentemente sconvolto.
“Una donna che, da due anni a questa parte, è stata addestrata a questo.” replicò Alexandra e tuttavia voltò la testa, imbarazzata, mentre si tormentava le mani, “Non credevo che le mie conoscenze mi sarebbero servite, qui, e poi ho saputo che la vostra legge proibiva alle donne di portare armi, figurarsi cosa avreste fatto a me che avevo ucciso cinque uomini!”
Luigi si voltò verso Petra, che fissava con sgomento l’amica.
“Voi avevate detto che il cavallo imbizzarrito l’aveva portata via!” esclamò, ancora più confuso.
“Petra ha mentito, mio signore,” intervenne ancora Alexandra, “solo per proteggermi e ripagare il debito che ha contratto con me quando le ho salvato la vita.”
Luigi continuò a fissare la ragazza.
“Dice la verità, milady?” chiese, serio, “Voi l’avete vista combattere?”
Petra non spostava lo sguardo da Alexandra e così colse il rapido cenno d’assenso che l’americana le rivolse. Sperando che l’amica sapesse ciò che stava facendo, Petra chiuse gli occhi e annuì.
Luigi si passò una mano sul viso, esausto. Rimase in silenzio a lungo e quando parlò, lo fece come se gli costasse tutte le energie rimastegli.
“Non vi credo.” esordì, serio, “Per il suo bene, legate mademoiselle Freeland: deve aver battuto la testa e penso che le emozioni violente abbiano confuso anche mademoiselle Petra.” ordinò, con un sospiro.
Daniel fece per saltare in piedi ma fu prontamente trattenuto da Guillaume de Ponthieu, che gli era accanto.
“Non adesso!” sussurrò il nobile fingendo di essere semplicemente impegnato a trattenere l’americano perché non intervenisse, “Sua maestà non è intenzionato ad uccidere vostra figlia, lo vedete voi stesso! La terrà prigioniera, è vero, ma almeno sapremo che lei non farà follie e alla fine di questa storia potremo liberarla, visto che non le crede! Ora come ora, rischiate solo di finire prigioniero anche voi e vostra figlia ha bisogno di avervi libero!”
Daniel ascoltò, sgomento, le parole del conte ma non staccò un istante gli occhi da Alexandra che si era alzata in piedi.
Luigi era ancora scettico all’idea che lei avesse ucciso quegli uomini, Alex se ne rendeva conto, e, se non voleva che il prima possibile facesse indagini e rischiasse di trovare Ian, lei doveva dimostrargli che si sbagliava.
Quando Etienne de Sancerre le si avvicinò, disarmato, e la afferrò per un braccio, la ragazza sorrise. Immaginava che lui l’avrebbe sottovalutata, era quasi ovvio che non l’avrebbe temuta nonostante le prove, focoso e impulsivo com’era.
Alexandra afferrò il polso del francese e gli sollevò il braccio in modo da passarci sotto, fece una mezza giravolta su se stessa e torse l’arto dietro la schiena dell’uomo che si lasciò sfuggire un’imprecazione di sorpresa.
“Pardonnez-moi.” gli sussurrò lei all’orecchio mentre la mano libera correva all’elsa della spada di lui.
L’americana spinse Sancerre in avanti con malagrazia e con lo slanciò sfilò la lama dal fodero. In una quindicina di secondi, la giovane si era armata.
I francesi reagirono d’istinto sguainando le spade, più preoccupati che la ragazza si facesse male da sola piuttosto che ferisse qualcun altro.
Maschilisti!, pensò Alexandra con uno sbuffo mentale ma rimase ferma.
Non voleva farsi ammazzare, voleva solo che Luigi si rendesse conto che era pericolosa perché era l’unico modo per assicurarsi che, se fosse fuggita, l’avrebbe fatta cercare immediatamente. Se voleva fare quello che aveva in mente, non sarebbe riuscita da sola ma se avesse detto di avere delle informazioni avrebbe dovuto anche spiegare come le aveva ottenute.
E io come gli spiego che d’improvviso so dov’è la sua fidanzata?!, si chiese, irritata, la giovane.
No, l’unica possibilità era far capire che era abile con la spada, fuggire, trovare Margherita e sperare di essere raggiunta dai soldati nel momento in cui i rapitori di lei l’avessero vista. Un piano molto sicuro, ovviamente.
Alex prese un respiro profondo e lanciò la spada in aria per riprenderla dalla parte della lama e porgerne l’impugnatura ad Etienne che si era rialzato.
“Non sottovalutatemi, sire.” disse, seria, rivolgendosi al sovrano, “Posso sopportare molte cose, ma io ho lavorato sodo per guadagnarmi il mio diritto di portare un’arma e non permetterò che mi si derida solo perché sono una donna.”
 
***
 
Alex non riusciva a smettere di ridacchiare. Ci provava, davvero, ma ogni volta che riusciva a calmarsi le tornava in mente il silenzio sgomento che era durato per almeno una decina di minuti dopo la sua frase ad effetto e riprendeva a ridacchiare. Alla fine, per spezzare la tensione si era seduta e aveva iniziato a legarsi i polsi da sola, aiutandosi con i denti, e a quel punto i francesi si erano riscossi abbastanza da rendersi conto della situazione.
Luigi non aveva infierito su di lei e si era limitato e far legare al laccio che le legava le mani una corda, presa nella casupola, il cui secondo capo era attaccato saldamente ad un albero, la stessa pianta alla quale ora la giovane poggiava la schiena.
Alex scosse la testa ma divenne seria nel sentire dei passi avvicinarsi.
“Papà?” chiese.
Daniel sospirò.
“Alex, ti prego, dimmi che hai una spiegazione ragionevole per tutto questo!” supplicò, inginocchiandosi accanto alla figlia e aiutandola a mangiare la carne che le aveva portato –presa sempre dal luogo dove Johannes li aveva lasciati–.
“Sì, purtroppo…” mormorò la ragazza, seria.
Con calma, Alexandra spiegò al genitore tutto quello che era successo e che aveva scoperto.
Daniel sgranò gli occhi e impallidì ma rimase silenzioso per una decina di minuti anche dopo la fine del discorso.
“Ian è morto…” sussurrò, sgomento, “Lui aveva ucciso Derangale. Questo vuol dire che lo sceriffo è…?”
Alex scosse la testa con forza.
“Papà, per favore!” sussurrò, “Parla con Isabeau, lei sa cosa fare.”
Daniel sgranò gli occhi ma non poté chiedere altro perché Luigi si stava innervosendo nel sentire il complottare silenzioso di padre e figlia e gli chiese di sbrigarsi.
“Vai.” annuì Alexandra, “So cosa sto facendo.”
Daniel fissò la figlia, legata eppure determinata e sicura, ed esitò ma alla fine si alzò in piedi.
“Lo spero, Alex. Lo spero davvero.” mormorò prima di voltarsi e unirsi agli altri.





Lo so, sembra inutile...
Mi sento in dovere di dirvi che l'ispirazione mi ha un po' abbandonata ma farò il possibile per non fare lo stesso con questo racconto.
Allora, Alex è in una posizione parecchio precaria, Ian è gentilmente tornato a zappare la terra (no, vabbé... più o meno XD) e Jas sta cercando di fermare Carl, ma noi sappiamo che lui non è certo alla sua scrivania...
Titolo prossimo capitolo: Diversi obiettivi
Grazie di cuore a tutti!
A presto, 
ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 29
*** Diversi obiettivi ***







29. Diversi obiettivi


Le luci arancio, gialle e rosse guizzavano sulle tuniche dei tre uomini.
Uno, affacciato alla finestra, indossava abiti semplici e aveva la barba incolta, era appena arrivato al palazzo ma non si era nemmeno preso il tempo di cambiarsi e si era rinchiuso con gli altri due a parlare in privato. Il secondo, indossava una casacca e delle brache scure, quasi neri, ma non aveva rinunciato ad una croce bianca cucita sulla spalla destra. Il terzo indossava una tunica rossa su di una camicia bianca e torturava l’elsa della spada stringendola con tutta la forza.
Derangale fissò con un misto di ribrezzo e timore l’uomo che in quel momento osservava il paesaggio oltre il corno levigato delle finestre del salone di Chatel-Argent.
“Non era necessario il vostro intervento.” ringhiò tuttavia, “Potevamo benissimo…”
“…lasciarli scappare un’altra volta.” lo interruppe l’altro, lapidario, “Spiacente, ma da adesso non posso più tollerare i vostri errori: avete perso i Freeland due volte e non avrete un’altra possibilità in caso di fallimento.”
“Sono soli e senza armi.” sbuffò il barone di Gant, appoggiato al muro accanto al camino e con le braccia incrociate davanti al petto, “Li prenderemo.”
L’uomo scacciò le sue parole con un gesto della mano.
“Non c’è tempo per i vostri giochetti: avete perso le occasioni per vendicarvi e ora dovrete accontentarvi.” sibilò, “Per quanto ancora non sappia come abbia fatto, la giovane Freeland ha rivelato di avere…un asso nella manica, che io non avevo previsto, e ora rappresenta una concreta minaccia nei nostri confronti.”
Derangale e Gant si scambiarono un’occhiata, confusi.
“Avevate detto che senza quei bifolchi tra i piedi, saremmo stati invincibili!” esclamò Derangale, pronto a sguainare la spada.
“Ma voi non li avete messi fuori gioco.” replicò l’uomo, “Adesso ho perso la possibilità di creare qualsiasi occasione propizia per eliminarli e dovremmo fare alla vecchia maniera…”
Derangale fu sul punto di tagliare la testa a quel tipo che gli dava le spalle quando lo sentì sospirare pesantemente, quasi avesse a che fare con dei bambini incapaci. Si trattenne solo grazie all’occhiata eloquente del barone Gant.
Quando sarò certo di essere invincibile, ti sgozzerò con le mie mani!, pensò furioso, ignaro del fatto che lo stesso piano si stesse aggirando nella mente del ‘barbaro’ già da tempo.
“Sa dov’è la principessa” disse ancora l’uomo, interrompendo i pensieri maligni dei suoi due compari e attirando tutta la loro attenzione, “e credo sia inutile che vi avverta che se Margherita di Provenza arriva sana e salva nelle mani del rampollo del Delfino, allora il caro e lungimirante Re Santo potrebbe farsi venire in mente di graziare Ian Maayrkas, come suo nonno prima di lui.”
“Maayrkas è morto!” urlò Derangale, al di fuori di sé della rabbia.
“No.” dichiarò secco l’uomo misterioso voltandosi e incrociando lo sguardo dell’inglese con il proprio.
Derangale sentì un brivido corrergli lungo la schiena.
È un pazzo!, pensò fissando quegli occhi accessi dal delirio, Un mago pazzo e dannato!
“Ian Maayrkas è vivo.” spiegò il ‘pazzo’, “Milords, abbiamo sottovalutato dama de Montmayeur e la sua amorosa follia: non so come, ma ha salvato il marito. Era questo il segreto che cercava di nascondervi. E che voi non siete stati in grado di farvi dire.
Derangale sgranò gli occhi ma non si concentrò sull’ultima frase quanto sul concetto del discorso: Maayrkas era vivo e, con lui, la possibilità di una nuova sconfitta.
 
***
 
Alex aprì gli occhi di scatto, consapevole dell’importanza di ogni suo gesto.
Lenta, sfilò le mani dalle corde e mentalmente ringraziò lo sgomento dei francesi che le aveva dato la possibilità di sabotare il nodo mentre fingeva di starsi legando.
Posò i palmi per terra e si concesse un istante per ascoltare i respiri dei compagni addormentati e cercare di sentire i passi della ronda che, se ben ricordava, doveva essere suo padre assieme a Grandprè. Si alzò lentamente sulle punte dei piedi…e si irrigidì nel sentire qualcuno avvicinarsi a lei. Non fece alcun movimento perché sentì che il suo ospite, seppur venisse dal gruppo dei suoi compagni, si stava evidentemente sforzando di non farsi sentire.
Con sgomento, si rese conto che portava una gonna lunga, la quale strusciava pesantemente contro il terreno.
“Petra?!” azzardò, sperando di non sbagliare persona.
La ragazza le rispose con un mugolio d’assenso mentre si protendeva a liberarle le mani dalle corde.
La baronessa non parve sorpresa di scoprire che l’americana era già libera e la fissò negli occhi ciechi.
“Dove vuoi andare?” le chiese seria, “Ti farai solo ammazzare…”
“Dovresti aver notato che ammazzarmi non è poi così facile.” replicò Alexandra poi però sospirò, “Petra, io so dov’è Margherita di Provenza.”
L’inglese non batté ciglio.
“Sei sparita nel nulla.” mormorò, la voce dura, “Ho pensato che fossi…”
“Una strega? Non lo sono.” concluse Alex per lei, “Ti prego, devi credermi: non posso spiegarti, ma adesso io devo andarmene.”
Petra esitò ancora un momento, ma alla fine espose i suoi dubbi.
“Qui nessuno sa la verità, vero?” chiese, “Ci sono tante versioni e ognuno crede alla propria e parla per enigmi confondendo gli altri. Tu però sai cosa sta succedendo. Lo sai davvero e forse sei l’unica.”
Alexandra rimase per un attimo stupita dalla prova d’acume della baronessa, ma poi annuì.
“Dama de Montmayeur non sembra più se stessa da quando le hanno portato via il marito, ma non sembra sconvolta.” continuò Petra, “Anche lei sa. Forse meno di te, ma comunque è a conoscenza di una buona parte della verità… Sembra tutto un gioco di maschere, tutti a portare una pelle diversa sopra la propria. Volenti o nolenti, consapevoli o no. E quell’uomo che noi abbiamo incontrato al monastero…è uguale alla descrizione di quello che ha fatto fuggire i nostri dalle prigioni, persino il livido sulla guancia che a quel contadino è stata colpita. Sono la stessa persona e l’hai mandato tu, vero?”
Alexandra non rispose.
“Sai, ci ho ripensato.” continuò allora la baronessa inglese, “Così alto, accondiscendente con noi tre quasi ci conoscesse, tanto esperto del castello da conoscerne i passaggi… E a pensarci bene, non è strana la rapidità con cui Monsieur Ian o Jean Marc è morto? E che il suo corpo non sia stato ritrovato anche se sono giorni che siamo nei dintorni del castello? E anche tutta la storia di anni fa: com’è possibile che dama Isabeau e Monsieur Guillaume abbiano confuso un viandante qualsiasi con un Ponthieu?, che il conte non si sia accorto che quell’uomo non era suo fratello ma un sosia?”
L’americana era impietrita. Tutto si sarebbe aspettata, ma non che Petra arrivasse così vicina all’intero intrigo.
La baronessa fissava l’amica, ma il viso di lei era impassibile e non le permetteva di capire quante delle follie appena uscite dalle sue labbra avessero colpito nel segno. Alla fine, sospirò.
“Che cosa…?” sbottò Alexandra, ancora più sconvolta, quando si sentì aiutare a rialzarsi in piedi e a nascondersi nell’ombra per sfuggire agli occhi dei due guardiani, con l’attenzione distratta da degli scricchiolii dalla parte opposta del minuscolo campo.
Un lampo di comprensione afferrò Alex.
“Matilde!” mormorò.
Petra annuì.
“Non può venire con noi, il suo braccio glielo impedisce.” spiegò, “Ci aiuterà come le sarà possibile restando qui.”
Alex si voltò sgomenta verso la compagna.
Ci?” chiese.
“Ho origliato la conversazione con tuo padre.” ammise Petra, arrossendo vistosamente, ma costringendosi a non mostrarlo con la voce, “Non ho capito quasi nulla, se non che tu sai cosa sta succedendo e dov’è la principessa: forse è una follia, ma se riprendere Margherita potrà calmare Sua Maestà e aiutare a fermare tutto questo, allora io ti darò una mano.”
Alex aprì la bocca per protestare, ma Petra la precedette.
“Sono l’unica disposta a crederti e aiutarti nel viaggio. Mio fratello e mio padre mi ucciderebbero, ma gli uomini di mio padre mi aiuterebbero senza far troppe domande in caso di bisogno e io conosco la geografia della Francia certo meglio di te, no?”
L’americana richiuse la bocca, pensò, sorrise.
“Allora muoviamoci prima che Matilde finisca i sassi!” ordinò.
Lei e Petra si mossero furtive tra gli alberi, l’inglese condusse l’americana al punto dove erano legati due cavalli abbastanza freschi e le due salirono in sella.
Fecero fare ai destrieri una decina di metri prima di spronarli al galoppo.
Nessuno corse loro dietro.
Petra tirò un sospiro di sollievo.
“Dove siamo dirette?” chiese.
“Amiens!” le disse l’altra, urlando per sovrastare il vento.
“Lo conosco!” replicò Petra annuendo, “Si trova tre giorni oltre Auxi-le-Chateau, in Piccardia! Considerando dove siamo, ci vorranno almeno sei giorni!”
Alexandra annuì ma mentalmente stava imprecando: non era certa che avessero tutto quel tempo.
 
***
 
Jas sbatté la portiera della macchina malamente e corse verso casa. Aprì la porta senza tante cerimonie e lanciò giusto un paio d’occhiate alla cucina e al salotto per essere certo che il padre non fosse lì poi salì le scale.
Non era proprio certo di cosa stesse succedendo, anche se qualche inquietante idea gli stava venendo, ma era quasi del tutto certo che quando Alexandra gli aveva detto ‘Fai conto che ne vada della vita della mia famiglia’ non stesse affatto esagerando.
Spalancò di scatto la porta dello studio del padre: vuoto. Il computer: acceso. Il videogioco: in corso.
Jas si gettò sulla tastiera e aprì la schermata dei personaggi. Nonostante i guanti di fibra ottica e il visore 3D fossero per terra, inutilizzati, il gioco segnalava suo padre come giocante.
“Maledizione!” ringhiò sbattendo un pugno sui tasti.
Si raddrizzò e si concesse di tirare un calcio alla sedia imbottita, ottenendo come unico risultato di farla spostare un po’ sulle sue ruote, poi si infilò le mani nei capelli.
Respira, Jas, e cerca di stare calmo!, si impose.
Provò a fingere che fosse solo un allenamento di scrima, che l’unica cosa in ballo fosse l’onore e il rispetto che si era guadagnato ai tornei.
Solo un allenamento, solo una gara come mille altre: è semplicemente un po’ di ansia…, si disse ben sapendo che se si fosse agitato e avesse perso la concentrazione sarebbe stato tutto inutile, Tu sai gestire l’ansia, Jas. La tua e anche quella degli altri, quella di una lotta e quella di un esame… Sta’ calmo, è come la gara di un torneo…
Respirò profondamente e si tolse le mani dai capelli.
Bene: per essere d’aiuto doveva capire e per capire aveva un solo punto di partenza.
Corse nella propria camera e afferrò i libri di storia che aveva preso in biblioteca per scrivere la tesi.
Daniel Freeland… Jean Marc de Ponthieu…
Non ci mise poi molto a trovare ciò che gli serviva: i due uomini venivano citati solo in un testo, la cronaca del casato Ponthieu, ma se il primo era quasi sconosciuto, il secondo poteva vantare una lunga storia. Ovviamente, il codice miniato era un libro rarissimo e, anche se molte erano le citazioni estrapolate da quel testo, poter maneggiare una copia del volume era una vera e propria impresa per pochi.
Jas fece rapidamente mente locale: una copia di quel volume era in città, lo sapeva perché l’aveva cercata per portare a termine la tesi sull’uso delle miniature nei codici milleduecenteschi, ma era proprietà di uno storico che ormai nessuno sapeva più rintracciare, partito per il mondo alla volta di chissà cosa. Dare un’occhiata al testo, quindi, era assolutamente fuori dalle possibilità.
Il ragazzo stava ancora seguendo i propri astrusi quanto incredibili ragionamenti quando il computer del padre, nell’altra stanza, iniziò a suonare.
Jas raggiunse la macchina con la fronte aggrottata dal sospetto, ma quella continuò con il suo scampanellio fino a che il ragazzo non aprì la schermata del controllo giocatori.
Una grossa mela blu apparve al centro dello schermo, si aprì in due e mostrò un avviso per i giocatori.
 

ATTENZIONE:
un giocatore si sta allontanando
dal vostro campo d’azione.
Continuando, la missione sarà divisa e
a lui sarà affidato un nuovo obiettivo.
Inviargli le vostre posizioni o continuare?
A(dvert Him)/C(ontinue)

 

Jas aggrottò la fronte, ma rimpicciolì la schermata e aprì la mappa per individuare tutti i giocatori.
Suo padre si stava spostando all’esterno del borgo di Chatel-Argent, apparentemente per spostarsi verso il confine con il feudo di Flandre; Daniel e Jodie Freeland si stavano invece spostando verso un monastero anche se in modo confuso perché i personaggi con loro si erano dispersi, come alla ricerca di qualcosa.
Alexandra, invece, si stava spostando in tutt’altra direzione: si dirigeva a ovest con decisione, veloce e accompagnata da una sola comparsa non giocante.
Sul momento, Jas si chiese cosa stesse facendo e pensò di mandarle l’avviso ma poi capì: Alex era diretta dal personaggio che suo padre aveva bloccato, la principessa Margherita di Provenza.
“Ci metterai una vita, Alex!” la rimproverò, senza curarsi del fatto di non poter essere udito.
Si grattò la testa, alla ricerca di una soluzione, e alla fine decise di fare una pazzia. Chiuse la schermata di avviso cliccando su ‘Continue’, infilò la chiavetta USB con il suo virus e poi cliccò sul personaggio precedentemente bloccato dal padre.
Dovette combattere molto di più che con il computer dei Freeland, ma alla fine il suo ‘The Continuum’ riuscì ad attaccare il ‘Donna di Troia’ e a prendere possesso di alcune comparse non giocanti tra quelle che custodivano la Principessa.
Jas pensò di spostare direttamente in blocco la ragazza più vicina ad Alex, ma capì subito che sarebbe stato impossibile e pericoloso se davvero la follia che stava assecondando la sua mente si fosse rivelata vera. Si concesse un verso di disapprovazione poi sbuffò.
Esitò solo un attimo prima di decidere per la strada più moderata e inviò ai personaggi l’ordine di spostare la prigioniera più vicina a Chatel-Argent, dando loro la convinzione che gli uomini del conte di Tolosa fossero vicini allo scovarli e pronti a far pagare loro il ratto della preziosa figlia del loro signore.
A lavoro ultimato, Jas si alzò, infilò la giacca e si diresse svelto in biblioteca.
Forse non avevano l’intero volume, ma lì avrebbe avuto molte più speranze di trovare una rappresentazione dello scudiero sassone di Jean Marc de Ponthieu.
Tutto questo è impossibile e tu sei un idiota ad assecondare queste follie!, si rimproverò mentalmente mentre guidava, È roba da fantascienza, altro che Medioevo!
Eppure continuò a guidare fino alla biblioteca.





Lo so, non è granché, però ci avviciniamo alla battaglia: Jas sospetta qualcosa, Petra sospetta qualcosa, Carl sospetta qualcosa...sospettano tutti, insomma! XD
Nel prossimo capitolo sappiate che ci sarà un incontro...particolare ;)
Mi dispiace essere di corsa, comunque c'è una cosa che devo dirvi:

AVVISO AI LETTORI: Per le prossime 3 settimane avrò il computer solo di Mercoledì. Di conseguenza, Chess Academy non subirà cambiamenti di pubblicazione; HYP Il Falco e l'Usignolo sarà pubblicato in orario per i prossimi due capitoli ma il terzo potrebbe slittare di uno o due giorni; mentre Sulle Ali dei Violati vedrà i soliti due aggiornamenti ma uno la mattina del Mercoledì e uno o il Mercoledì sera o il Giovedì mattina presto, ancora non lo so. Solo per avvisarvi che non ho intenzione di mollarvi ma ritardo per questioni tecniche, ok?
Spero di essere stata chiara... Quindi per i prossimi due capitoli voi siete a posto! XD
Grazie a tutti, come sempre :)
A presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 30
*** Un incontro fortuito ***







30. Un incontro fortuito

 
Luis sbuffò e gettò di nuovo i dadi ottenendo però solo un uno e un due assieme alle risate soddisfatte di Philippe, suo compagno di gioco. Non che avesse sperato di vincere, visto che con la solita fortuna sfacciata il suo avversario era riuscito a fare due sei.
“Hai perso ancora, Luis!” lo sbeffeggiò Philippe, attirando gli sguardi esasperati e nervosi degli altri commilitoni.
“Sei impossibile!” sbottò questi recuperando i dadi con espressione stizzita.
Philippe rise.
“Rivincita?” propose.
“Altrimenti che vorresti fare?” sbottò l’altro, sempre più nervoso, “Sono giorni che ce ne stiamo qui a far niente! E la ragazza mi sta facendo saltare i nervi con il suo caratterino!”
Philippe scrollò le spalle.
“Le resta solo quello.” si limitò a commentare prendendo i dadi dalle mani di Luis, “Lasciale graffiare il muro: prima o poi si consumerà gli artigli!”
Luis fissò Philippe con espressione scettica.
“Che diamine stai dicendo? Quella non graffia mica il muro! Al massimo me quando le porto il cibo!”
Philippe alzò gli occhi al cielo: era inutile provare a parlare con Luis, per lui ogni cosa andava presa alla lettera e di certo la sua mente non aveva spazio per figure retoriche o perle poetiche.
Stava per ribattere quando la porta del capanno si aprì.
Charles, il capo del loro gruppo, entrò a passo di marcia con espressione truce.
“Che succede?” chiese uno degli uomini portando d’istinto la mano alla spada.
“Ci muoviamo.” ordinò l’uomo seccamente, “Luis, Philippe: prendete la ragazza, se urla imbavagliatela e se scalcia legatela.”
“Credevo dovessimo restare qui…” commentò Luis alzandosi.
“Gli uomini di Raimondo di Tolosa ci sono alle costole, sono a un soffio dal prenderci: non possiamo restare fermi, è troppo pericoloso.” spiegò Charles, “Ci muoviamo verso i nostri signori: li raggiungiamo a Bouvines, feudo di Flandre.”
 
***
 
Alexandra era nervosa. Molto nervosa. Sempre più nervosa.
Non avrebbe raggiunto Margherita in tempo per far sì che la Storia avesse il suo corso: ne era certa.
Era il nove Maggio, erano in viaggio da tre giorni e la loro destinazione non sembrava essere poi molto più vicina di prima. Avevano avuto quantomeno la fortuna di non ritrovarsi con il tempo a sfavore e Petra era stata abbastanza accorta da portare con sé abbastanza denaro per pagare delle provviste, fiduciosa che il padre si sarebbe potuto arrangiare con la caccia.
“Non possiamo andare più in fretta.”
Alex si riscosse e si voltò, pur inutilmente, verso Petra.
La baronessa, cavalcando al suo fianco, cincischiò con la corda che legava insieme il pomolo della sella del cavallo dell’americana a quello del suo.
“Non possiamo muoverci più in fretta.” ripeté tuttavia, “I cavalli sono sempre gli stessi e sono affaticati, perfino noi siamo stanche, e tuttavia stiamo continuando un miglio dopo l’altro: non possiamo andare più in fretta, è inutile che continui ad agitarti.”
Alex si morse la lingua, ma dovette ammettere che l’inglese aveva ragione. Poteva consolarsi solo con il fatto che almeno suo padre e gli altri non le avevano inseguite. Era quasi certa che Matilde avesse fatto un ottimo lavoro nel nascondere le loro tracce, forse addirittura nello spostarle verso Chatel-Argent.
“Non avremmo ormai dovuto incontrare tuo fratello?” chiese ad un certo punto, irritata.
Se solo avessero incrociato Beau, avrebbero potuto ottenere da lui aiuto per i parenti in difficoltà presso Chatel-Argent e quantomeno un paio di pugnali per la propria difesa personale. In effetti, non aveva esattamente un’idea chiara di cosa fare disarmata quando e se avesse trovato i rapitori di Margherita di Provenza.
“Non lo so…” sospirò Petra, “Sarebbe dovuto arrivare già da tempo!”
Alexandra stava per chiedere alla compagna ancora qualcosa, ma si immobilizzò nel sentire il rumore di parecchi cavalli che trottavano verso di loro.
“Petra…” mormorò solo, alzandosi sulla testa il cappuccio del mantello.
Petra la imitò, fece spostare il proprio cavallo e quello dell’amica sul lato della strada e scrutò ansiosa il nutrito gruppo di armati che stava andando loro incontro, ma non rispose.
Strinse gli occhi quando vide che uno degli armati stava innalzando un vessillo sulla propria lancia, probabilmente dopo aver notato le due figure incappucciate che cavalcavano sul ciglio della strada.
In campo nero, un leone d’oro scintillò alla luce del sole.
Petra si irrigidì sentendo tutto il sangue defluirle dal viso per lasciarla pallida, ma ebbe la prontezza di non far alcun movimento.
“Alex…” mormorò, approfittando del fatto che gli armati fossero ancora lontani.
“Che succede?” chiese questa, sorpresa dal tono quasi disperato nella voce dell’amica.
“È mio fratello…”
“Beau?” chiese Alex sgranando gli occhi, “Beh, era ora!”
“No.” la smontò Petra.
Alexandra sbiancò a sua volta, sperando di non aver capito.
“No?” chiese comunque, “Non è Beau?”
Petra deglutì, sentendo la fine della missione avvicinarsi repentinamente.
“È Harald…” mormorò in un soffio.
E quando i soldati del suo gemello di aprirono a ventaglio per impedir loro di proseguire mantenendo l’anonimato, Petra seppe che lei e Alex non avrebbero fatto un altro passo in quella direzione. Suo fratello le avrebbe come minimo strappato il cuore per essersi esposta a tutti quei pericoli.
 
***
 
Matilde si lasciò sfuggire una smorfia quando sua madre strinse il nodo della nuova fasciatura ma riuscì, stoicamente, a non farsi sfuggire un gemito.
“Se oltre al temperamento di tuo padre, avessi preso la sua abilità nel tenere un segreto adesso io saprei cosa mi nascondi!” la rimproverò Donna in quel momento, ma la ragazza finse di non sentirla perché troppo presa dal provare a infilare il braccio steccato e fasciato alla bell’e meglio nella specie di foulard che portava al collo e che altro non era, come la stessa benda, se non strisce di stoffa ricavate da un mantello.
Donna stava torchiando la figlia da tre giorni, dalla sparizione misteriosa di Alexandra e Petra, ma lei ignorava le domande, fingeva di distrarsi o semplicemente sfruttava la vicinanza di qualcun altro per interrompere l’interrogatorio e prendere tempo. Sua madre non aveva mai insistito troppo, forse perché aveva intuito l’importanza della cosa o forse semplicemente perché aveva capito benissimo cosa la figlia stesse facendo.
Matilde non lo sapeva e non voleva scoprirlo.
Per due giorni avevano atteso l’arrivo delle truppe di Beau, riparati nella capanna che Jhoannes aveva mostrato loro, ma ora il Re aveva dato ordine di spostarsi verso Saint-Michel.
In quel momento, l’avvicinarsi dell’omonimo de Ponthieu del luogo sacro diede alla giovane De Sancerre il pretesto per sfuggire alla madre e al contempo cercare di capire cosa avesse in mente il sovrano: due piccioni con una fava.
Tre, se contiamo il fatto che potrai parlargli un po’…, insinuò una vocina fastidiosa nella mente della contessina che però ignorò anche questa.
“Monsieur!” chiamò.
Michel sentì e le si avvicinò, un po’ sorpreso e un po’ sollevato all’idea di poter finalmente chiedere direttamente alla ragazza delle sue condizioni.
“Madonna, come vi sentite oggi?” chiese, premuroso.
Matilde gli sorrise ma era ben conscia di essere leggermente arrossita e ringraziò il cielo quando si rese conto che la madre era troppo distratta –o fingeva di esserlo- dal rimettere in una bisaccia le strisce di stoffa avanzate.
“Meglio, anche se il braccio mi duole ancora…” ammise, sincera.
Michel si inginocchiò per arrivarle al livello della ragazza, seduta su un masso.
“Vi porteremo presto da un medico, ve lo prometto. Al monastero sapranno curarvi.” sussurrò.
Matilde, ricacciando il senso di colpa in fondo allo stomaco, sorrise al ragazzo e colse l’occasione per carpirgli le informazioni che le servivano.
“Ne siete certo?” chiese, “È lì che siamo diretti, quindi?”
“Sì.” le rispose il giovane, “Sembra che Derangale e Gant se ne siano andati da Chatel-Argent perciò vi lasceremo al monastero prima di proseguire verso il castello a controllare.”
Matilde sgranò gli occhi, sorpresa.
“Se ne sono andati così?” chiese, “Senza motivo?”
Michel annuì scrollando le spalle.
“Nessuno sa perché, ma volevano farci sapere che hanno lasciato il castello perché sono usciti dalle mura con gli stendardi aperti: uno dei contadini che abbiamo incrociato ieri ha riferito tutto questo a Monsieur Guillaume perciò sono stati attenti a farsi ben notare.”
Matilde annuì, ma non rispose più, intenta ad inseguire i propri ragionamenti.
Quella storia si stava facendo sempre più complicata e lei non era certa di riuscire a seguirne tutti i risvolti.
Michel interpretò male la sua espressione pensosa perché osò anche allungare una mano a stringere quella non contusa della giovane.
“State tranquilla, madonna.” le sussurrò con gentilezza, “Andrà tutto bene.”
Matilde, comunque, si guardò bene dal chiarire l’equivoco.
 
***
 
Petra sospirò e chinò il capo.
Lei e Alex si erano dovute fermare, ovviamente, di fronte agli uomini di suo fratello. Avevano provato a temporeggiare, sperando che le loro voci di donne sarebbero bastate a far svanire il sospetto dei soldati e a dissuaderli dal costringerle a mostrare il viso, ma l’assenza di un uomo che le accompagnasse e le sporadiche indicazioni delle giovani sulla loro provenienza e meta avevano solo acuito il nervosismo degli uomini e alla fine era stato proprio il giovane Harald Martewall a farsi avanti e intimare loro, con voce ferma seppur ancora non minacciosa, di scoprirsi il capo senza costringerlo a dover utilizzare metodi più bruschi.
Petra doveva dire che l’espressione del giovane era stata sbalordita per un solo istante quando si era trovato davanti la sorella, ma poi era stata sostituita da uno sguardo gelido che lo aveva reso simile in modo inquietante al padre. Non si poteva dire la stessa cosa dei soldati che l’avevano riconosciuta, i quali erano rimasti basiti per parecchi minuti prima di riprendersi.
Poi...basta. Harald aveva ordinato agli uomini di fermarsi, a loro due di scendere e poi le aveva condotte con sé fuori dalla strada, nel campo aperto che la marginava, ma non aveva detto nulla e si era messo a camminare avanti e indietro nell’erba lasciando le due giovani in piedi ad attendere con il cuore in gola di capire quante speranze avessero di portare a termine la loro ‘missione’.
Saranno ormai dieci minuti che fa così senza dire una parola…, valutò Alexandra, I casi sono due: o è furioso, oppure è assolutamente furioso.
Harald sembrò essere arrivato ad una conclusione perché ruppe il suo itinerario ossessivo per voltarsi verso la sorella, rivolgendole un’espressione furente. I capelli castani erano spettinati e gli ricadevano sul viso senza però arrivare a nascondere gli occhi verdi, che lampeggiavano di rabbia. Aveva l’espressione affaticata, quasi che dalla sua partenza da Chatel-Argent non fosse mai sceso da cavallo per riposare, e un colorito pallido che lo faceva sembrare più giovane e debole di quanto non fosse in realtà: Petra non sarebbe stata sorpresa dallo scoprire che Harald non aveva smesso un istante le ricerche della giovane principessa.
Ancora, però, il ragazzo non disse nulla, ma la baronessa inglese sapeva che stava tacendo per non lasciarsi prendere dalla foga davanti ad un’estranea.
“Harald, ti prego, fammi spiegare…” tentò comunque, seppur quasi del tutto certa che lui si sarebbe messo ad urlare.
“È esattamente ciò che voglio.” la sorprese però lui, “Voglio, anzi pretendo, una motivazione valida che spieghi il tuo essere qui, adesso, sola con un’altra ragazza e lontana quattro giorni a cavallo dal castello dove ti avevo lasciata!”
Ad ognuna delle parole, il ragazzo si era avvicinato ancora di più alla sorella fino ad arrivarle esattamente davanti in modo da far valere anche la superiorità fisica.
Petra deglutì, ma non indietreggiò.
Aprì la bocca per parlare, ma Alexandra la precedette.
“Sua Maestà è stato attaccato con la sua scorta mentre andava alla ricerca della principessa” disse, seria, “e poco dopo gli stessi uomini sono riusciti ad entrare a Chatel-Argent e a far prigionieri coloro che erano all’interno.”
La rabbia di Harald sembrò sfumare all’improvviso, rapida com’era arrivata, per lasciar posto alla sorpresa e alla preoccupazione.
Petra si ritrovò le mani del fratello ai lati del viso e gli occhi ansiosi di lui davanti a sé.
“Ti hanno fatto del male?” fu la prima cosa che chiese e Petra si sentì sollevata nel sapere che, nonostante tutto ciò che poteva aver fatto, il fratello era ancora preoccupato per lei.
Scosse la testa.
“Io e Matilde eravamo uscite nel borgo con Michel de Ponthieu, ma quando siamo rientrate Alexandra ci stava venendo incontro tentando di avvisarci dell’imboscata: Michel ha fatto fuggire noi tre, ma è rimasto indietro con il fratello a coprirci la fuga.” spiegò e poi si gettò nella descrizione degli avvenimenti successivi.
Alexandra intervenne sporadicamente, giusto per farle capire ciò che poteva e non poteva raccontare: evitò di spiegare la lotta con i briganti e il quasi arresto di Alex, ma poi esitò quando si ritrovò a dover spiegare il perché fossero rimaste sole e per di più fossero in viaggio in direzione opposta a quella del padre.
Decise di prendere tempo.
“Dov’è Beau?” chiese.
Harald sospirò passandosi una mano tra i capelli.
“Beau è tornato in Inghilterra: ci sono stati dei problemi, i baroni fedeli a Re Enrico III si rifiutano di sostenerlo in una nuova guerra contro il Galles e la situazione è precaria, specialmente per le terre di chi come noi è più fedele alla Francia che all’Inghilterra. Lui è dovuto tornare indietro con i suoi uomini per organizzare una difesa del feudo in caso di ritrosie, visto che ha più esperienza, e io sono rimasto qui con il compito di continuare le ricerche.” spiegò, “Beau ha mandato un messaggero a Chatel-Argent, ma non ricevendo notizie da nostro padre o da lui ho immaginato che non fosse arrivato a destinazione per qualche motivo e mi sono messo in viaggio per raggiungervi. Ora credo di sapere cosa ne è stato di lui…”
Alexandra aveva ascoltato solo con un orecchio le spiegazioni del ragazzo perché la sua testa era assolutamente altrove: Jas aveva detto che Carl poteva contare su quindici uomini oltre a Gant e Derangale. Se Harald e i suoi uomini avessero raggiunto il re e gli altri, avrebbero potuto ribaltare la situazione dando ai francesi una speranza di risolvere la situazione senza farlo sapere a nessuno.
“Quanti uomini avete con voi?” chiese, interrompendo Petra e attirando su di sé gli sguardi di entrambi i gemelli.
Harald aggrottò la fronte, ma uno sguardo della sorella che lo supplicava di rispondere lo piegò alla richiesta.
“Pochi, ho lasciato gli altri a continuare le ricerche.” ammise, “Contando anche me, siamo sette.”
Alexandra fece un rapido conto. O aveva un fortuna sfacciata o qualcuno, là sopra ai piani alti, aveva intenzione di riportare la Storia alla sua strada originale.
Harald e i suoi uomini più i nobili francesi, contando anche Ian e Daniel, formavano un gruppo di diciassette combattenti. Esattamente abbastanza da contrapporsi a Derangale e Gant.
“Monsieur, ascoltatemi.” dichiarò l’americana, decisa a seguire quello che, a parer suo, era assolutamente un segno del Destino, “I nemici di Sua Maestà possono contare su quindici uomini: se voi raggiungete vostro padre, porterete la nostra fazione a pari numero di guerrieri!”
Harald sgranò gli occhi, sorpreso dalle informazioni della giovane, poi però le rivolse uno sguardo sospettoso.
“E voi come lo sapreste?” chiese.
“Mio padre è la spia migliore di Francia!” mentì la giovane gonfiando il petto con finto orgoglio, “Ciò che so, me lo ha detto lui. E sempre per lui e per Sua Maestà io e Petra dobbiamo proseguire il nostro viaggio.”
Harald era palesemente pronto ad obiettare e aprì la bocca per contestare ma Petra lo afferrò per un braccio.
“Harald, ascoltami: noi dobbiamo proseguire.” disse, seria, “E lo faremo, in un modo o nell’altro. Dovrai metterci in catene per riportarci indietro e anche così faremo il possibile per scappare! Ma se ci lasci proseguire, potrai aiutarci, rassicurare sulla mia salute nostro padre e quello di Alexandra sulla sua e ribalterai una situazione che, altrimenti, potrebbe costare le vite di molte persone!”
Harald era uno dei cavalieri migliori del regno. Frutto compiuto degli insegnamenti del padre e della memoria del nonno, quasi senza i difetti dei due… ma era anche figlio di Brianna e da lei aveva ereditato insegnamenti sulle erbe, determinazione, lo sguardo ferino che lo contraddistingueva e la capacità di farsi beffa delle convenzioni all’occorrenza. Amava la sorella, più della propria vita, e a lei era legato dall’affetto e da un legame più profondo che si era creato quando erano ancora in grembo alla madre; però sapeva leggerle negli occhi e nelle sue iridi, in quell’istante, c’era una determinazione che tirava fuori raramente e solo quando veramente credeva in qualcosa.
“Siete sole e disarmate.” commentò, “Sono sicuro che un uomo in meno con me non sarebbe poi una gran differenza: piuttosto posso occuparmi io di due nemici…”
“No, Harald.” lo fermò la sorella, “Portali con te: non sai cosa sono in grado di fare quelle persone. Noi non abbiamo bisogno di un uomo che ci scorti, devi credermi: se vuoi aiutarci, procuraci una spada e due pugnali.”
Harald sgranò gli occhi.
“Armi!” esclamò, “Petra, questa è una follia!”
“Tutto questo è una follia, sir Martewall…” intervenne Alexandra, “Voi volete aiutarci a rimettere le cose a posto, o no?”
Harald esitò. Lanciò uno sguardo alla sorella che però non distolse gli occhi.
Il giovane inglese aveva ceduto prima ancora di rendersene conto.
Si sfilò la spada e un pugnale dalla cintura poi chiamò uno dei propri uomini e se ne fece consegnare da lui un secondo. Porse tutto a Petra che porse ad Alexandra la spada e un pugnale ma l’americana scosse la testa e prese per sé le due lame più corte e indicando all’inglese come nascondere la lama più lunga sotto il mantello.
Petra guardò il fratello: disarmato per armare lei, aveva rinunciato volontariamente al tenere la propria spada e la ragazza sapeva cosa significasse per lui.
“Se dovesse succederti qualcosa,” dichiarò serio Harald, “non potrei perdonarmelo, lo sai.”
Petra annuì e il ragazzo iniziò a tornare verso la strada con le due fanciulle al seguito.
“Di’ a nostro padre che mi dispiace, ma non ho avuto altra scelta.” sussurrò Petra, a bassa voce, mentre si accostava alla propria cavalcatura, “Spero solo che possa perdonarmi.”
Si sentì afferrare per una spalla e fermare, il momento dopo era stretta tra le braccia del gemello.
“Lo farà, lo sai…” le mormorò Harald all’orecchio, la voce colma di dolcezza e priva della rabbia e della preoccupazione di prima, “Ma tu devi stare attenta, va bene?”
Petra sorrise staccandosi e salì a cavallo.
Alexandra fece fare un paio di passi al proprio animale perché si accostasse al barone inglese.
“Per quanto la mia parola possa contare, mio signore, sappiate che la difenderò.” intervenne chinando il capo con umiltà.
Petra sorrise: Harald non poteva saperlo, ma quelle parole erano la rassicurazione migliore che avrebbe potuto ricevere.
 
***
 
Harald osservò sua sorella e la ragazza americana sparire lungo la strada e solo quando furono troppo lontane per essere viste fece voltare il cavallo nella direzione che l’avrebbe condotto a Chatel-Argent.
Un soldato gli si avvicinò e gli porse una spada ed un pugnale da quelli che stavano nelle bisacce dei cavalli, per qualsiasi evenienza, ed egli li prese rivolgendogli un cenno del capo.
“Signori,” esordì rivolto ai propri uomini dopo essersi armato, “mia sorella mi ha portato terribili notizie: Sua Maestà, mio padre e altri uomini sono stati fatti prigionieri.” un coro di esclamazioni accolse la rivelazione ma il giovane le sedò con un gesto della mano, “Sono riusciti ad evadere ma ora sono in inferiorità numerica nei confronti di chi dà loro la caccia: raggiungiamoli ed eviteremo il peggio, indugiamo e potremo avere sulla coscienza molte vite! So che siete stanchi, io stesso lo sono, ma questo è uno sforzo che dobbiamo compiere assolutamente. In marcia!”
Gli inglesi non se lo fecero ripetere e spronarono al galoppo le proprie cavalcature verso Est.
Spero solo che sappiate a cosa state andando incontro…, pensò Harald, per un’ultima volta, rivolto alle due giovani lontane poi condusse la sua mente sul proprio obiettivo: Chatel-Argent.




Lo so, come capitolo è un pochino scarno, ma almeno sapete che ne è di Beau, no? E Harald, piccolo lui, sarà molto importante nel continuum della storia! XD
Mi spiace essere di corsa, lo giuro!
A presto, però!
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 31
*** Troppa familiarità? ***







31. Troppa familiarità?


“Buongiorno, ragazzo! Di nuovo a cercar libri per la tesi?”
Jas sorrise a Winfred, il vecchio guardiano della biblioteca, e gli si accostò tranquillo. Ormai, aveva passato talmente tanto tempo in quel luogo che era quasi casa sua e Winfred era anziano e solo perciò tendeva a vedere in lui un figlio…e Jas non poteva che esserne felice: quel custode gli aveva fatto da genitore cento volte più di quanto non avesse fatto il suo vero padre.
“Sì, una curiosità dell’ultimo minuto, ma temo di non poterla trovare in biblioteca perciò vorrei chiedere a te…”
Winfred sgranò gli occhi, sorpreso.
“Ah sì? Beh, Jas lo sai che io ai libri faccio la guardia, ma niente di più!” commentò, ma il ragazzo scosse la testa.
“Vedi, il libro che mi serve ce l’ha il professore di Storia Medievale dell’Università e visto che so che tu hai fatto per un po’ l’uomo delle pulizie là mi chiedevo se sapessi il suo nome completo…” dichiarò, tranquillo e innocente come un angioletto.
Winfred ci pensò un po’ su.
“Maayrkas!” esclamò all’improvviso, “Sì, sì: si chiamava Maayrkas, me lo ricordo perché era un tipo tutto particolare, sai? Non è stato qui che pochi mesi da quando gli hanno dato la cattedra: era sempre in giro ovunque, sempre a far lezioni! Eh, già, ma chissà che fine ha fatto: ormai potrebbe essere ovunque… Insomma, ti parlo di quasi vent’anni fa!”
Jas annuì, pensoso, poi sorrise all’uomo.
“Cerco ancora una cosa al computer, poi me ne vado: promesso!” giurò ridendo.
“Eh! Quante volte l’ho sentita questa frase da te!” borbottò l’anziano custode ma poi fece cenno al ragazzo di stare tranquillo.
L’orario della biblioteca dava a Jas ancora mezz’ora per cercare notizie sul professor Maayrkas.
Il ragazzo si sedette davanti ad un computer e aprì la pagina di Google.
 
***
 
Isabeau si sedette sullo scranno approntatole dai servi del monastero e sospirò pesantemente. Con l’alba erano arrivati a Saint Michel ma ora le girava la testa e il corpo le doleva per la fatica ma l’ansia per la situazione precaria in cui si trovava era senza dubbio maggiore.
Riaprì gli occhi e si guardò attorno: si trovavano nel refettorio di Saint-Michel, l’abate aveva acconsentito, sotto l’ordine del Re e lo sguardo furente di Etienne de Sancerre, ad ospitare le dame del loro corteo fino a quando loro non fossero tornati ed ora erano tutti riuniti nello stesso posto, forti dell’aiuto ricevuto dai monaci.
Gli uomini, cui Michel si era unito dopo aver ricevuto cure al proprio avambraccio, discutevano della strategia migliore da tenere –andare a Chatel-Argent? Non andare per non rischiare di finire in trappola? Cercare di capire dove fosse Beau?–; le donne cercavano di riprendersi e di non mostrare l’ansia per la separazione imminente; Matilde stava ricevendo cure adeguate al suo braccio e un monaco glielo stava steccando con attenzione rivolgendo qualche complimento al lavoro che Donna era stata in grado di compiere nonostante i mezzi scarsi. Lei si sentiva dilaniata, sul filo di una lama, tra la gioia per il fatto di trovarsi a pochissimi passi dal suo sposo e la paura per la stessa ragione. Se si fossero accorti di Jhoannes? Se lo avessero riconosciuto come Ian?
Si passò una mano sul viso tentando di rimanere calma e aggiustò l’abito ormai strappato e sporco.
“Madonna…”
Isabeau rialzò lo sguardo quando si sentì chiamare e rimase sorpresa di trovarsi davanti Daniel, palesemente preoccupato.
“Monsieur?” chiese, “Che succede?”
“Devo parlarvi: mia figlia mi ha detto di riferire a voi ma fino ad ora non vi ho potuto parlare senza che nessuno ci ascoltasse.” le spiegò.
La nobildonna si sforzò di alzarsi e si accostò all’americano con espressione ansiosa.
“Cosa vi ha detto?” Alexandra sapeva di Ian: lo riguardava?
“Ecco, lo so che è impossibile, madonna, credetemi!” premise l’uomo sospirando e passandosi una mano sul viso stanco, “Mi ha detto che…solo vostro marito può uccidere Derangale, non so perché, e solo io posso uccidere Gant: qualcosa riguardo il fatto che hanno paura di noi o altro del genere… Le ho detto che Ian ormai è…morto…però lei ha insistito a dire che dovevo avvertirvi perché voi avreste saputo cosa fare.”
Isabeau si irrigidì per un attimo, un lunghissimo attimo.
Daniel la fissò, in ansia, chiedendosi cosa stesse succedendo ma alla fine Isabeau quasi ricadde seduta sullo scranno con espressione esausta.
“Tutto inutile…” mormorò solo, “È stato tutto inutile…”
“Isabeau, che dite?!” mormorò, sgomento, senza capire.
Isabeau gli annuì, rialzandosi di nuovo, e avviandosi verso gli uomini a riunione.
“Vostra figlia vi ha ben consigliato, monsieur Daniel.” gli disse sorridendogli mesta, poi si diresse senza una parola verso l’uscita del chiostro.
 
***
 
Alexandra prese il pezzo di pane e formaggio che le porgeva Petra e sorrise all’amica prima di iniziare a mangiare.
Con il senno di poi, doveva ammettere che incontrare Harald Martewall era stata una vera fortuna. Inquietante, ma pur sempre una fortuna.
Mangiarono in fretta e altrettanto rapidamente ripresero la loro marcia.
Era passato da poco il mezzogiorno, aveva detto l’inglese, e continuando di quella lena…non avevano comunque idea di quanto tempo avrebbero impiegato ad arrivare ad Amiens da Margherita, in teoria erano ormai nei press di Auxi-Le-Chateau ma farsi prendere dai soldati di Guillaume de Ponthieu non era nei loro piani.
Ancora chissà quanto e poi almeno tre giorni per tornare indietro!, pensò in ansia l’americana, Non possiamo aspettare così tanto!
Camminavano, portando i cavalli per le briglie per non affaticarli in vista della fuga per il ritorno, e le gambe ormai facevano male. Nessuna delle due ne parlava, ma entrambe alla sera avevano le piante dei piedi coperte di vesciche. L’intervento di Harald era stato provvidenziale, vero, e ogni tanto le due cedevano e salivano a cavallo ma il viaggio era comunque difficile e ad ogni passo la meta sembrava più incerta.
Come liberare Margherita, una volta trovatala? Come riconoscerla? Come evitare i suoi carcerieri? Combatterli tutti era un po’ un’idea suicida, anche Alexandra doveva ammetterlo.
“Esattamente…” esordì Petra in quel momento portando una mano sulla fronte a schermare gli occhi dalla luce del sole, “Quale sarebbe il piano?”
Alex si morse il labbro inferiore.
“Io credo molto nell’improvvisazione…” le sfuggì dalle labbra, rispondendo come era solita fare con le amiche.
Petra si voltò, sconvolta, verso di lei.
“COSA?!” esclamò.
Alex aprì la bocca per dire qualcosa ma la voce le morì in gola nel sentire il suono di parecchie voci miste agli zoccoli di cavalli che battevano sul selciato.
“Via dalla strada!” ordinò a Petra dando l’esempio spostando il cavallo tra gli alberi per essere invisibile agli uomini in arrivo.
Alexandra, tesa, posò una mano sulla spalla di Petra.
“Dimmi cosa vedi…” le chiese, sussurrando.
L’inglese deglutì ma si sporse un po’ e cercò di vedere cosa stesse accadendo sulla strada.
Un gruppo di soldati apparve dopo poco, circa cinque persone, ma la ragazza capì subito che qualcosa non andava.
“Indossano armature” sussurrò all’amica, “però non hanno insegne sulla cotta.”
Alex aggrottò la fronte.
“Nient’altro?” chiese piano.
Petra aggrottò la vista.
L’uomo davanti a tutti era corrucciato e sembrava nervoso, quelli dietro di lui tenevano le mani sull’elsa delle lame e in mezzo a tutti un soldato teneva stretta una figura accuratamente coperta da un mantello. Quest’ultima sembrava agitarsi spesso e ogni volta la guardia fletteva il braccio in un modo che lasciava intendere il suo stringere la presa, forse sulle braccia o su una corda.
“Mi sembra portino un prigioniero.” si sbilanciò con l’amica, “E sembrano tutti parecchio nervosi.”
Alex si irrigidì.
“Uomo o donna, il prigioniero?” chiese.
Petra scrollò le spalle.
“Non riesco a capirlo: è tutto coperto con un mantello, non vedo neanche i capelli.” ammise.
“Concentrati.” la incoraggiò Alex, “È grosso come i soldati o meno?”
“Molto meno.” dichiarò sicura l’inglese, “Arriva a malapena al petto dell’uomo che cavalca con... Aspetta!”
“Cosa c’è?” chiese Alex, confusa.
“Cavalca con un soldato?!” commentò Petra, scettica, “Un uomo solo lo trattiene e lo fa cavalcare avanti a sé?!”
Alex aggrottò la fronte: così era molto più alto il rischio che riuscisse a liberarsi e a fuggire, perché non prendere qualche precauzione in più?
“Che idiota che sono!” sibilò Petra all’improvviso, “Alexandra!”
“Che c’è?”
“Il prigioniero: cavalca all’amazzone!”
Alex sgranò gli occhi e voltò il viso verso l’inglese.
Petra guardò la compagna negli occhi ciechi.
“È una donna.” sussurrò Petra, sicura.
Alex annuì.
“Petra,” mormorò, “dobbiamo seguirli: può essere solo una follia ma stanno arrivando senza insegne dalla strada verso Amiens, con una prigioniera donna attentamente incappucciata!”
La baronessa inglese annuì.
“Ultimamente,” mormorò mentre salivano a cavallo e iniziavano a muoversi cautamente tra i rami e le piante, “non esistono più le coincidenze.”

***
 
Marc si guardò attorno irrequieto.
Ormai era parecchio che cercava sua madre ma nessuno sapeva dove fosse andata: il Re aveva deciso che, visto che Gant e Derangale sembravano aver lasciato Chatel-Argent, era meglio spostarsi a palazzo e lì tentare di capire dove si fossero diretti.
Il ragazzo sospirò, stanco di sentirsi una trottola lanciata a folle velocità, senza discernimento.
“Marc?”
Il ragazzo si voltò nel sentire la voce del fratello, sperando che almeno lui avesse avuto più fortuna.
Michel lo guardava con una leggera ansia negli occhi castani.
“L’hanno vista andare verso i campi del monastero.” rivelò il ragazzo.
Marc aggrottò la fronte, confuso.
“Andiamola a cercare.” si limitò a dire al fratello incamminandosi con lui nella direzione della donna ma i due furono fermati dallo zio che, in piedi con gli altri nobili nel cortile del monastero, li chiamò.
“Nostra madre è sparita da un po’ di tempo, zio.” esordì serio Marc, “Ci stiamo preoccupando…”
Ponthieu si guardò attorno e annuì, calmando con una mano il cavallo che lo avrebbe portato in sella da lì a poco.
“Effettivamente, non è da lei…” ammise.
Sua Maestà, presente al colloquio, aggrottò la fronte.
“Ogni comportamento strano, in questi giorni, ha mostrato nascondere segreti terribili.” commentò, cupo.
Marc e Michel non replicarono, seppur entrambi si sentissero punti nel vivo all’insinuazione sulla madre.
“Ha chiesto ad alcuni monaci la strada per i campi.” dovette ammettere il minore dei due giovani sotto lo sguardo dello zio.
Luigi si incupì ulteriormente ma per primo si mosse in direzione dei campi, lasciando intendere che avrebbe controllato la situazione indipendentemente dalle lamentele del suo seguito, e Marc comprese che anche lui si stava chiedendo il perché di un simile comportamento perciò lo seguì sospirando impercettibilmente.
Camminarono per pochi minuti, in un silenzio teso che innervosiva il maggiore dei due falchetti. Avrebbe voluto dire qualcosa per difendere la madre e lo avrebbe anche fatto se, nell’istante in cui trovava le parole esatte per giustificarla senza mancare di rispetto al sovrano, non fossero arrivati sulla strada sterrata tra i campi e lui non avesse visto Isabeau, metri più avanti, uscire da una piccola cappella.
Stava per chiamarla, ma lei, senza averlo visto gli diede le spalle per rivolgersi di nuovo verso l’edificio.
“Madre!” provò a chiamare Michel ma la voce gli rimase bassa perché fu fermato.
“Silenzio.” ordinò Luigi.
Marc lo guardò, sorpreso, ma il sovrano scrutava la scena con la fronte aggrottata.
Guillaume deglutì nel riconoscere il luogo dove aveva perdonato Ian e credette di sapere cosa la donna fosse andata a fare.
Ma le sue consapevolezze crollarono quando vide un uomo uscire a sua volta dalla piccola chiesa. Un uomo che non era un religioso.
“Chi è?” mormorò Luigi ad alta voce senza smettere di seguire le mosse della donna.
Alto e robusto, con i capelli corti castani e sporchi e un livido quasi nero con i bordi tendenti al giallo su una guancia. Al collo, il collare di ferro dei servi.
“Jhoannes?!” esclamò, sgomento, Michel, “Ma cosa ci fa qui?!”
Poiché il piccolo gruppo si trovava leggermente sopraelevato e a qualche metro di distanza dalla cappella, gli uomini poterono ben vedere che l’uomo fissava negli occhi la dama e che sorrideva senza mostrare la devozione di un servo ad un padrone. Le sue labbra mossero a mormorare qualcosa, che però loro non poterono sentire, mentre si avvicinava ancora alla dama.
“Deve essere un servo del monastero, per questo conosceva il passaggio segreto.” commentò Marc, “Ma non capisco: se lei lo conosceva, perché non…?”
Non finì mai la frase perché la voce gli si strozzò in gola quando vide la madre lasciarsi prendere tra le braccia dal servo e posare il viso sul petto di lui mentre con le mani gli si ancorava alle braccia.
Jhoannes la strinse con un sorriso dolce, quasi si fosse ritrovato davanti ad un miracolo, e le carezzò piano i capelli ma dopo un attimo chiuse gli occhi e rafforzò la presa sulla vita della nobildonna per poi nascondere il viso nell’incavo del collo di lei. Isabeau si staccò ma non per allontanarsi. Prese il viso del servo tra le mani e, sotto sguardi stupiti di cui era totalmente ignara, lo baciò con tutto l’amore e la disperazione che poteva.
Jhoannes, occhi chiusi, rispose al bacio con altrettanta familiarità.




Chi era che parlava di 'pericolo Ian'? Perché ci ha preso in pieno XD
Beh, adesso resta da vedere la reazione di Sua Maestà e compagnia bella alla ricomparsa miracolosa di Ian Maayrkas
Scusate il ritardo, da ora in poi temo gli aggiornamenti non saranno più regolari. Come ho già scritto in altre mie storie, la mia priorità al momento va alla serie Commedie di Amore e Violenza almeno fino a che non avrò completato la stesura di Sulle Ali dei Violati...
Scusatemi, ma quella storia è in assoluto la mia priorità :)
Però non ho intenzione di abbandonare proprio nulla, non è da me, solo che dovrete avere un po' di pazienza in più :P
Beh, a presto, allora!
Ciao ciao!
Agapanyo Blu

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Capitolo 32
*** Ian Maayrkas ***







32. Ian Maayrkas

 
“Non è possibile…” Michel non si rendeva nemmeno conto di stare parlando ad alta voce, la sua mente era come i suoi occhi: fissa sull’immagine di sua madre che si baciava con un servo, le mani di lei sulle sue spalle e quelle di lui sulla sua vita, “Non è possibile, non può essere…”
Era sconvolto e confuso perciò, assecondando l’istinto del fratello minore, si voltò verso Marc alla ricerca di una spiegazione che pure sapeva lui non avrebbe potuto dargli. Quello che vide, però, fu un Marc furioso che si avvicinava a passo di marcia verso la coppia appena sorpresa.
Michel conosceva il fratello, sapeva che era raro che si arrabbiasse e che a muovere le sue azioni, in quel momento, era la tristezza più che la logica perciò reagì d’impulso, conscio che poi l’altro si sarebbe potuto pentire dei propri gesti.
“Marc, no!” gli urlò dietro ma la sua voce alta, più che riprendere il fratello, rese i due innamorati consci di non essere soli.
Isabeau si voltò di scatto mentre Jhoannes sgranò gli occhi e li puntò sul ragazzo in arrivo.
“Toglile le mani di dosso!” ringhiò questi frapponendosi tra i due e spintonando indietro l’uomo. Aveva gli occhi annebbiati da lacrime di rabbia che era determinato a non versare e così non riusciva a vedere bene il viso di Jhoannes o la sua espressione, ma tanto non gli interessava.
“Marc, smettila!” esclamò Isabeau prevenendo il compagno, “Non è come sembra!”
Il ragazzo si voltò di scatto verso di lei e si sentì afferrare per le braccia: i nobili e il re li avevano raggiunti e Michel aveva ritenuto più prudente trattenerlo dal fare qualcosa prima di capire esattamente la situazione e di aver dato ad Isabeau la possibilità di spiegarsi.
Marc però continuava a non essere favorevole alla comprensione.
“Come hai potuto?!” si lamentò rivolto alla madre, non urlava ma il tono di voce lasciava intendere che lo avrebbe fatto volentieri, “Tuo marito è morto a malapena da una settimana e tu ti fai trovare con un servo?! È per questo che conosce i passaggi del castello?! Glieli hai detti tu?!”
Isabeau si premette le mani sulle tempie per un attimo, ma poi si morse la lingua e si decise a dire ciò che doveva.
“Tuo padre NON è morto!” dichiarò ad alta voce, interrompendo lo sproloquio di Marc e sconvolgendo tutti i presenti.
Luigi sollevò un sopracciglio, sorpreso ma evidentemente quasi in attesa del colpo di scena, però tacque lasciando che la donna si giustificasse prima davanti ai figli: con loro si sarebbe aperta molto più di quanto avrebbe fatto davanti al suo re.
Marc, immobilizzato tra le mani del fratello, sgranò gli occhi.
“Cosa?” chiese, certo di aver capito male.
Isabeau sospirò ma si avvicinò ai figli e sorrise loro prima di superarli per affiancarsi al servo, rimasto indietro a braccia incrociate in attesa di capire come fosse meglio muoversi e per lasciare libertà alla donna sulla versione da dare agli altri. Lo sfiorò cercando di fargli capire con gli occhi quanto fosse determinata. Jhoannes sospirò e allungò un braccio a cingerle le spalle prima di alzare gli occhi ad incrociare quelli del figlio.
Il ragazzo aggrottò la fronte ma non disse nulla perciò lui sospirò.
È vero allora che le persone vedono spesso solo ciò che vogliono vedere…, si sorprese a pensare poi però tornò a guardare la moglie, incerto.
Ian o Jhoannes? Cosa voleva che fosse? Cosa pensava di dire, di fare, di rivelare e di nascondere? Ian era diventato bravo nei confronti di logica ma aveva sempre tratto vantaggio dalla propria conoscenza del futuro: ora si trovava assolutamente incapace di scegliere perché non era tra le sue mani la palla e la Storia non poteva corrergli in aiuto.
Isabeau sembrò capire perché sorrise mesta e scosse la testa.
“Basta menzogne.” disse solo, “So ciò che ho fatto e me ne prendo le responsabilità perché so che era la cosa giusta.”
Ian annuì, conscio che probabilmente il re avrebbe fatto preparare due cappi anziché uno, e lasciò un bacio sulla guancia della moglie prima di staccarsi da lei per avvicinarsi ad un trogolo pieno d’acqua.
“Madonna, cosa significa tutto questo?!” sentì dire, alle sue spalle, da Guillaume e un sorriso mesto gli sorse sulle labbra mentre riempiva un secchio.
Chissà come potrebbe prenderla…, si ritrovò a pensare, Speriamo solo di non farlo morire d’infarto anzitempo.
Sospirò ma infilò la testa nell’acqua per togliere la terra e l’impiastro di erbe di Beau dai capelli, restituendo loro il color ossidiana.
Non sapeva perché non si fosse limitato a dire chi fosse: forse una parte di lui sperava che bastasse riavere i propri capelli per essere riconosciuto dai compagni e gli amici di quell’epoca che era ormai la sua, o forse più semplicemente gli veniva difficile immaginarsi dire: “Messieurs, sono io! Sono Ian!”.
Strizzò i capelli mentre una vocina fastidiosa gli faceva notare che forse stava solo cercando di prendere tempo e si voltò verso i nobili che si erano resi conto del travestimento e che, dopo aver scrutato per un po’ l’uomo, erano arrivati all’unica soluzione, che pure credevano impossibile.
Guillaume de Ponthieu era palesemente sconvolto e se non boccheggiava poco ci mancava che lo facesse; i due Henri erano pallidissimi mentre Etienne stava diventando paonazzo e Martewall sembrava sulla strada per imitarlo visto che la sorpresa nei suoi occhi stava lasciando spazio alla consapevolezza che il suo amico fosse vivo mentre lui si disperava per non aver potuto impedire la sua morte; re Luigi sembrava ormai aver superato la soglia di sorpresa che per un uomo fosse possibile provare, infatti fissava Ian con la fronte aggrottata come se si aspettasse di vederlo farsi spuntare due corna sulla testa o chissà cos’altro; Michel era terreo, tanto che Ian temette di vederlo stramazzare al suolo, mentre Marc aveva gli occhi sgranati e la bocca spalancata.
Fu quest’ultimo, però, il primo a riprendersi.
“Papà?” chiese, quasi non fosse sicuro di ciò che vedeva.
Ian sorrise mesto ma annuì.
Isabeau, a disagio per il silenzio quasi totale, si strinse di nuovo al fianco del marito e Ian la cinse con le braccia, come per proteggerla.
“Forse non è prudente parlarne qui…” azzardò quindi, a sua volta sorpreso dalla gelida immobilità che lo circondava.
Credeva di essersi aspettato di tutto: che gridassero ‘un demone!’, che sguainassero le spade, che lo insultassero o altro; ma comunque immaginava che avrebbero reagito in qualche modo. Quella mancanza di gesti lo preoccupava molto.
“Non puoi essere tu!” esclamò Etienne all’improvviso, attirando su di sé gli occhi degli altri, “Ian è morto!”
Nonostante tutto, l’americano sentì una nota di disperazione nell’ultima frase e sorrise nel constatare che, in un certo senso, ancora Etienne gli era affezionato.
Sospirò, comunque, e lasciò la moglie per sollevare la casacca e mostrare la cicatrice poco sopra l’ombelico.
“I sicari del monastero di Saint-Michel” disse, poi si voltò a mostrare la schiena, “e la frusta di Derangale.”
Riabbassò la casacca e si voltò di nuovo verso il gruppo ma a metà del gesto si ritrovò soffocato.
Etienne gli stava mettendo le mani al collo e gridava imprecazioni che Ian a stento seguiva. Dopo un attimo di sorpresa, però, Martewall si riscosse e agguantò il francese, staccandolo dall’americano.
“Tu!” ringhiò ancora Etienne, “Ti credevo morto, maledizione a te! Pensavo ti avessero ammazzato! Hai la minima idea di come ci siamo sentiti tutti?!”
Ian lo guardò, confuso. Ecco, quello lo aveva parecchio sorpreso.
“Io…” esitò. Cosa poteva dire, in fondo, ad Etienne che scalpitava tra le braccia di Martewall, all’inglese che lo fissava come se volesse ucciderlo con lo sguardo, ai due Henri che sembravano incerti se seguire le orme di Etienne o se limitarsi a sospirare di sollievo, oppure a Guillaume che se ne stava fermo con le mani a mezz’aria come se volesse andargli incontro ma non osasse farlo?
Non finì comunque la propria frase perché di nuovo si ritrovò soffocato, questa volta in modo più amichevole: Daniel, ignorando gli altri, lo stava abbracciando.
“Oddio, oddio, oddio…” continuava a ripetergli nell’orecchio e Ian sorrise mesto ricambiando la stretta fraterna.
“Perdonami…” mormorò piano e sentì l’amico annuirgli sulla spalla.
“Poi ti farò una lavata di testa che ricorderai per tutta la vita, ma adesso sono troppo felice di sapere che sei vivo!”
Ian sorrise ma lo staccò da sé per guardare il sovrano.
Con sua somma sorpresa, però, scoprì Donna e Jodie impalate dietro tutti: dovevano essere venute a cercare i mariti da salutare e avevano trovato…lui.
Jodie stava piangendo palesemente mentre Donna lottava a fatica per trattenersi dal farlo, entrambe però per la contentezza.
Ian sorrise ancora, sempre mestamente, poi si decise a guardare Luigi, divenuto impassibile.
“Non è prudente parlare qui.” ripeté, questa volta con tono più serio e deciso.
A sorpresa, Luigi annuì ma non si voltò per tornare indietro bensì indicò un capanno di granaglie.
“Lì dentro.” ordinò.
Ian era sorpreso, ma annuì e obbedì, come tutti gli altri.
Marc e Michel ancora esitavano ad accostarsi a lui, sul viso espressioni confuse e incerte.
Dentro il deposito del monastero Luigi fece bloccare la porta e iniziò a fare avanti e indietro per parecchi minuti, nel silenzio generale.
All’improvviso scattò e si pose davanti ad Ian.
“Io inizio a pentirmi di aver scoperchiato questo vaso di Pandora!” ringhiò, “Era tutto molto più semplice, prima!”
Ian annuì, chinando il capo.
“Posso comprendervi.” rispose solo.
Luigi lo fulminò ma poi passò a guardare Isabeau.
“Madame de Montmayeur, voi siete l’ultima di cui avrei sospettato e adesso vi scopro invischiata in tutto ciò più di molti altri!” la rimproverò ma la nobildonna sollevò il capo e si accostò al marito.
“Sono consapevole delle mie azioni, mio sire, ma anche della loro bontà.” replicò solo.
Luigi sembrò sorpreso da queste parole ma si calmò e fissò la coppia riunita.
“Benissimo!” ringhiò con un tono che lasciava intendere che le cose non andassero affatto benissimo, “Allora, forza: spiegatemi perché questo morto respira ancora!”
Isabeau sospirò ma mise una mano sul petto di Ian per fargli capire che doveva lasciar parlare lei, quindi guardò il sovrano.
“Io sapevo della vera identità di mio marito.” dichiarò, lanciando il primo sasso nella piccionaia, “Lo sapevo e lo amavo. Egli ha mentito a voi per proteggere me e i nostri figli, che di questa storia non sapevano nulla, perciò quando me ne è stata data l’occasione ho organizzato la fuga di mio marito per salvarlo da un’esecuzione ingiusta.”
Luigi la fissò con rabbia evidente.
“Sapevate che quest’uomo non era il vostro promesso e lo avete sposato lo stesso?!” esclamò, sconvolto.
Isabeau sollevò il mento e annuì seccamente una volta sola.
Luigi sgranò gli occhi ma non poté aggiungere altro perché Isabeau osò parlare.
“Sono venuta a parlare con mio marito per via della ricomparsa di Derangale e Gant.” spiegò la nobildonna, “Gli Inglesi hanno capito, o quantomeno sospettano, che lui sia ancora vivo perciò ho ritenuto giusto che sapesse per prepararsi a combatterli.”
Luigi aggrottò la fronte, sorpreso dal fatto che la contessa gli stesse rivelando tutto senza esitazione, ma fu Ian a continuare.
“Sire, vi chiedo il permesso di unirmi a voi nel combattere Derangale e Gant: dopo potrete assicurarvi la mia condanna sia eseguita, ma prima permettetemi di fermare chi ha tentato di far strage della mia famiglia e ha picchiato i miei figli e mia moglie.” disse, serio e armato di sincerità.
 
***
 
Alexandra accarezzava distrattamente il collo del proprio cavallo, che Petra aveva legato ad un tronco, e intanto pensava.
Si trattava di un numero abbastanza folto di soldati, effettivamente, e lei era sola. Beh, sì, c’era Petra ma l’americana dubitava che potesse combattere attivamente in uno scontro aperto, le aveva lasciato la spada perché preferiva combattere con i pugnali ma non pensava davvero che l’avrebbe usata se non per guadagnare un po’ di tempo in sua attesa. La baronessa aveva dimostrato molto coraggio anche poco prima, scivolando lungo l’esterno della locanda e origliando qualche parola smozzicata dalla conversazione degli uomini; una conversazione proficua che verteva su: ‘Raimondo di Tolosa’, ‘prigioniera’, ‘caratterino’, e soprattutto ‘Margherita di Provenza’.
Sospirò.
La situazione non era delle migliori, ne era consapevole, perciò le serviva un piano serio cui attenersi oppure sarebbero finite presto a far compagnia alla principessa. Le guardie della ragazza si erano fermate in una locanda ma avevano portato la prigioniera con sé e, senza conoscere l’interno del luogo, era impossibile per le due sperare di liberarla, così avevano deciso di attendere il calar della notte: per Alex non faceva differenza che ci fosse o no luce, ma per quegli uomini doveva farne parecchia.
Petra la raggiunse e le pose una mano sulla spalla. Stava per dire qualcosa quando la porta della locanda si aprì e, accompagnato da imprecazioni ed insulti, qualcosa fu gettato pesantemente tra gli alberi.
Le due ragazze si acquattarono e attesero che gli uomini fossero tornati dentro prima di azzardarsi ad aggirare lo spiazzo e avvicinarsi all’oggetto misterioso.
“Oh mio Dio!” esclamò Petra mantenendo a stento la voce bassa.
Alex si irrigidì.
“Che è successo?” chiese piano, “Cos’è?”
“È uno degli uomini della scorta…” mormorò Petra piano, “È morto…”





Innanzitutto, vi chiedo subito scusa per questo capitolo che fa davvero schifo. Ma proprio tanto.
Forse riuscirò a pubblicare bene anche il prossimo, quelli successivi però sono tutti in 'forse', per adesso...
Boh, non so che altro dire...
A presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 33
*** Addio, logica ***







33. Addio, logica

 
“Morto?!” esclamò Alexandra, sgomenta.
Petra deglutì ma non staccò gli occhi dal cadavere: era senza dubbio uno degli uomini che scortavano la giovane Margherita di Provenza, ne riconosceva gli abiti e il viso che aveva scorto durante il pedinamento. Una grossa lacerazione al ventre faceva capire che certo non era morto di cause naturali e un rivolo di sangue gli scivolava dalla bocca. I suoi compagni gli avevano sputato addosso con spregio e avevano gettato qualcosa accanto a lui.
Petra raccolse i due oggettini e li osservò, confusa.
“Dadi…” mormorò, poi si voltò a spiegare alla compagna, “L’hanno ucciso e gli hanno gettato addosso due dadi…”
Alex sollevò un sopracciglio, scettica, ma poi ebbe un’idea.
“Tirali.” ordinò a Petra.
La baronessa, seppur sorpresa, lanciò.
“Sette.” mormorò, vedendo due e cinque.
“Tirali ancora.” la invitò Alexandra.
Petra obbedì.
“Sette…” notò, sorpresa, contando sei e uno.
Di sua iniziativa, la ragazza tirò i dadi ancora due volte e due volte essi diedero sette.
“Un baro.” capì.
“Se non altro adesso sappiamo perché è morto…” commentò Alex, cinica, “Ha delle armi?”
“No…” sospirò Petra scuotendo la testa.
Alex sbuffò ma dentro di sé non aveva certo sperato di ottenere nulla dal cadavere.
Uno in meno, se non altro…, si disse poi però ebbe un lampo di genio.
“Petra, aiutami a spogliarlo!” ordinò.
“Che cosa?!” nonostante si fosse sforzata, Petra non riuscì a tenere il tono di voce basso.
“Zitta!” la rimproverò Alexandra pur continuando a slacciare il mantello e la casacca al morto, “Vuoi salvare la principessa o no?!”
“Sì, ma è un morto! Un minimo di rispetto…” borbottò la baronessa, arrossendo all’idea di dover togliere i vestiti all’uomo.
“Al rispetto penseremo in un altro momento, va bene?” la interruppe Alex, “Se quegli uomini si vedono arrivare incontro un uomo è più probabile che lo fermino e lo facciano avvicinare per chiedere informazioni o per rapinarlo, ma di certo non lo aggrediranno allo scopo di disonorarlo, no? Inoltre la gonna non è il massimo per combattere perciò adesso dammi una mano!”
Petra esitò ancora un momento ma aveva ormai capito che, contro la cocciutaggine di Alexandra, c’era ben poco da fare.
 
***
 
Ian non era del tutto sicuro di cosa fosse realmente accaduto, ma sapeva per certo che dopo la strigliata di Daniel –più che meritata– i cavalieri avevano preso ad ignorarlo abilmente, senza una palese reazione a mostrare cosa pensassero degli avvenimenti delle ultime ore. Marc e Michel, dal canto loro, sembravano più offesi con la madre che felici di rivederlo, parlottavano tra loro cercando di capire e Ian era sicuro che almeno loro avessero iniziato a sospettare l’impossibilità per il complotto di svolgersi senza il patrocinio di qualche autorità, nella fattispecie Guillaume de Ponthieu.
Ian sospirò.
Non era assolutamente così che sperava sarebbero andate le cose, ma ormai era tardi. A ben pensarci, era da quando quella commedia era iniziata che più lui ripeteva di non voler prendervi parte e più questa gli stringeva il cappio attorno al collo. Letteralmente.
Ian era a cavallo lungo la strada per Chatel-Argent e il gruppo era composto dai soli uomini di cui disponevano, mentre le dame erano rimaste al monastero con la precisa istruzione che, se fosse capitato loro qualcosa, i frati avrebbero avuto ben poco da stare allegri. Di loro, Etienne, Geoffrey e Daniel erano già furibondi per il soccorso negato alle figlie e Ian non poteva certo biasimarli. Rivedeva bene l’espressione saccente dell’abate all’inizio del colloquio, quando era ancora certo che la sua posizione nel clero lo avrebbe difeso dalle ire del braccio secolare, e quella con cui poi si era congedato, pallido ed emaciato neanche avesse visto in faccia la morte. Senza dubbio, Sancerre e Martewall sapevano come spaventare un uomo, indipendentemente dalla sua posizione sociale.
Il re cavalcava davanti ai suoi feudatari ed era rimasto in silenzio sin dalla partenza, aveva lasciato che fossero i conti a sbrigare la faccenda dell’alloggio delle dame e non era minimamente intervenuto per frenarne le minacce, ma nemmeno aveva fatto rinchiudere Isabeau, come sarebbe stato ovvio per assicurarsi che Ian non fuggisse. Sembrava molto concentrato su qualcosa e l’americano temeva fosse ormai vicino a comprendere quantomeno la maggior parte dell’intrigo: se così fosse stato, i due cappi che Ian immaginava si sarebbero rapidamente moltiplicati.
Luigi, in realtà, aveva nella mentre molti dubbi e poche prove. Il coinvolgimento di dama Isabeau dava una nuova luce all’intera faccenda: era possibile che la dama avesse scoperto l’inganno e il fratello del conte sostituito no?, e se Guillaume aveva notato lo scambio, perché tacere?
Nonostante la rabbia per la situazione precaria, Luigi stava ragionando: si rendeva conto che il proprio primo giudizio fosse stato senza dubbio affrettato. Aveva creduto a Ian senza riserve, solo per il fatto che questi si accusava, ma con la mente più lucida si rendeva conto che il racconto aveva parecchie incongruenze. Ma se anche fosse stato vero, Maayrkas aveva dato più volte prova di assoluta fedeltà alla Francia e si era messo in pericolo per difendere il regno, la famiglia reale e il popolo. Probabilmente avrebbe meritato una seconda opportunità, ma se adesso Luigi si fosse rimangiato la condanna chiunque a corte avrebbe pensato di poterlo manipolare.
La situazione non era certo delle migliori e i pensieri foschi creavano quasi una nube palpabile sopra il gruppo quando questo giunse alle mura di Chatel-Argent.
Entrando nel borgo, il re contò che era probabile che i due inglesi se ne fossero andati prima che qualcuno si accorgesse della loro presenza al castello e chiamasse aiuto, forse avevano intenzione di continuare a sfruttare la loro presunta morte, ma restava il dubbio di come fossero entrati e come avessero fatto a sostituire i soldati di guardia. L’unica idea che l’uomo riusciva a raggiungere era che qualcuno nel castello li avesse aiutati, ma il dubbio su chi fosse rimaneva.
Attraversarono il borgo a cavallo, fingendo che nulla fosse successo e ignorando gli sguardi sorpresi di alcuni popolani, fino a che non entrarono nell’ultima cinta muraria del castello.
Hugues corse da loro, ansante vista l’età che ormai aveva raggiunto, e il re gli chiese se mancavano dei soldati dalla guarnigione. L’uomo parve stupito ma disse di no.
Luigi aggrottò il sopracciglio ma non disse nulla e si limitò a recarsi, seguito dai nobili, nel salone principale del castello. Ian aveva suggerito che Derangale e Gant avrebbero potuto lasciare lì o nelle stanze che avevano occupato una qualche prova sulla loro direzione.
La sorpresa del sovrano però fu comunque enorme quando, sulla tavola, trovò un messaggio con due stemmi di ceralacca, quello dello sceriffo e quello del barone, indirizzato proprio a lui.
Il messaggio non era altro che due righe vergate con mano sicura: Piana di Bouvines, vi attendiamo. Au revoir, messieurs.
Luigi fissò le scritte digrignando i denti per un attimo poi gettò la lettera nel fuoco.
“Cosa intendete fare, sire?” chiese Guillaume de Ponthieu, a nome di tutti.
“Andiamo a chiudere questa faccenda, una volta per tutte!” dichiarò il sovrano, “Quanti uomini può fornire Chatel-Argent?”
“Nessuno.”
Sbalordito, il sovrano si voltò verso Ian che esitò per un attimo, sotto gli sguardi di tutti, ma poi parlò.
“Qualcuno ha fatto entrare gli uomini con le divise del casato nel castello, qualcuno che li ha anche fatti uscire visto che sembra che nessuno li abbia visti attraversare il borgo assieme a Gant e Derangale.” spiegò, “Qualcuno che può essere ancora qui e che noi non sappiamo chi sia. Rischieremmo di portarci appresso la serpe senza saperlo fino a quando non sarà troppo tardi per fermarla.”
Luigi lo fissò a lungo, senza dire niente, ma quando parlò Ian divenne cinereo.
“Anche voi siete stato fatto entrare a corte senza che nessuno vi vedesse vestito di stracci.” commentò e l’allusione metaforica alla possibilità che Ian fosse stato aiutato da qualcuno era palese e inquietante.
L’americano deglutì ma rispose.
“Non capisco cosa intendiate dire.” mentì.
“Non serve.” replicò Luigi oltrepassando lui e gli altri uomini per dirigersi alla porta, “Ho già letto sul vostro volto le risposte che cercavo.”
Ian si irrigidì, terreo, e intercettò uno sguardo controllato da Ponthieu. Nonostante tutto, si sforzò di mantenere la calma e di non replicare.
Luigi si fermò sulla porta della stanza, irritato che il suo gioco non avesse ottenuto i risultati sperati ma comunque soddisfatto di aver messo sulle spine Ian Maayrkas e speranzoso che così avrebbe ceduto e raccontato l’intera vicenda in modo da dissipare i dubbi che lo facevano esitare. Quindi, si voltò indietro per un momento.
“Fate preparare cavalli freschi, monsieur Guillaume.” ordinò, “Andremo soli. Almeno di voi mi potrò fidare, non è vero?”
Ponthieu annuì e rispose un “Sì, mio sire” ma sapeva che il re era sempre più vicino alla verità.
E se non ci fosse arrivato da solo, l’avrebbe pretesa da altri.
 
***
 
Petra boccheggiò per un istante, incerta, fissando la lunga chioma sciolta di Alexandra.
“Sei sicura?” chiese, per l’ennesima volta, e Alex sbuffò.
La baronessa inglese era inginocchiata alle spalle dell’americana, seduta a terra, e stringeva incerta un pugnale tra le mani.
“Petra, sono capelli, Santo Cielo: ricresceranno!” si lamentò la bionda scuotendo appena la testa per ribadire il concetto.
“Dici che basterà?” chiese Petra, esitante.
Non era l’idea di tagliare i capelli dell’amica a spaventarla, ma tutto ciò che lei aveva intenzione di fare subito dopo. Certo, con indosso gli abiti dell’uomo e i seni stretti in una fascia fatta dalla stoffa del proprio vestito, Alex poteva passare per un ragazzo giovane dai tratti ancora infantili e tolti i capelli che ancora la tradivano sarebbe forse potuta passare per uomo, almeno il tempo necessario per avvicinarsi al gruppo d’uomini abbastanza per coglierne almeno uno se non due di sorpresa però…
Petra sospirò ma afferrò le ciocche bionde dell’amica e iniziò a tagliare all’altezza della nuca.
Alex sorrise quando l’amica iniziò il proprio lavoro con risolutezza. Era contenta che Petra stesse iniziando ad agire in modo un po’ più impulsivo.
Sei una rovina per le fanciulle di buona famiglia, Alex., si disse da sola, Guarda come la stai traviando!
E tuttavia sorrise maligna a quel pensiero.
 
***
 
Jas chiuse l’archivio della biblioteca e spense il computer poi si lasciò andare contro lo schienale della sedia e chiuse gli occhi.
Adesso tu apri gli occhi, Jas, e ti risvegli nel tuo letto, con un mal di testa atroce perché hai preso una botta alla testa in allenamento. Sì, è così. Non vorrai mica pensare davvero che il padre di Alexandra si sia fatto un viaggetto nel Medioevo assieme al suo fratello adottivo, lo storico Maayrkas, che ha deciso di restare là, no? D’accordo che non si trova, d’accordo che il conte cadetto Jean Maarcus è tornato dalla vita monastica proprio nel periodo della comparsa di Daniel, d’accordo che questo Maayrkas ha scritto libri dettagliatissimi sul periodo in questione ma, dannazione, sono tutte coincidenze! No?!
Jas sospirò poi guardò l’ora. Sorrise mesto quando si accorse che la mezz’ora promessa a Winfred era diventata un’ora, ma poi tornò subito serio.
Vero o no, restava la sparizione di suo padre e quella di Daniel Freeland e di sua moglie mentre i loro personaggi continuavano a muoversi. Poteva essere un effetto del virus, sì, ma perché allora Alexandra avrebbe dovuto avere una reazione così esagerata? Alex non era il tipo da videogiochi e la sua scala delle priorità metteva in cima a tutto solo la sua spada e la sua famiglia, a pari merito.
Ma Jas, tutto questo non può essere vero!, gli urlava una vocina nella testa, Ti rendi conto che stai seriamente pensando che un videogioco possa trasportare delle persone in carne ed ossa ottocento anni nel passato?!
“Dannazione, Alex!” borbottò, sbattendo la testa contro la scrivania nel tentativo di far tacere la voce della ragione, “Mai una volta che le cose siano normali, quando ci sei tu in giro!”
Si alzò in piedi e prese il telefono. Premette 2. Segreteria telefonica.
Jas, c’è una spiegazione anche a questo…, tentò ancora la vocina ma lui la ignorò, Anche se il suo personaggio si muove, magari ha spento il telefono per giocare meglio!
Jas ignorò l’ultimo commento.
Certo che c’era una spiegazione, solo che era tutto fuorché logica.
 



Salve a tutti!
Sto facendo del mio meglio per aggiornare abbastanza regolarmente anche se mi mancano i capitoli, il tempo e l'ispirazione. Ci saranno dei ritardi, ve lo dico subito, ma non lascerò questa storia.
Grazie mille per la pazienza.
Agapanto Blu

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Capitolo 34
*** Attaccare battaglia ***







34. Attaccare battaglia
 
Petra esaminò Alexandra ancora una volta, con attenzione, prima di annuire con riluttanza. Doveva ammettere che, tutto sommato, Alex poteva passare per un uomo.
Sempre se tiene il cappuccio alto. E se la fascia che le stringe il seno non si scioglie. E se la guardano da lontano, non con attenzione. E se non…
Va bene, Petra doveva ammettere che il loro piano aveva parecchie lacune e non era perfetto, ma era l’unico che avessero, perciò tanto valeva tentare. Sospirando, la baronessa aiutò l’amica a tornare in sella, salì a cavallo a sua volta e poi spronò gli animali al galoppo per raggiungere i loro obiettivi.
Speriamo solo che vada tutto bene…, pensò.
Poco tempo dopo, raggiunsero il gruppo che custodiva la prigioniera.
Alex si irrigidì appena sulla sella poi però si costrinse a calmarsi.
Erano ancora fuori dalla visuale dei soldati, o almeno così sussurrava Petra, perciò sciolse con attenzione la corda che legava il suo animale a quello della ragazza inglese e lasciò al cavallo le redini morbide in modo che si muovesse da solo e assecondasse la strada per avvicinarsi alle cavalcature del gruppo davanti a lei.
“Buona fortuna…” sentì sussurrare da Petra un attimo prima che il frusciare delle foglie indicasse la sparizione dell’amica tra le piante a lato del sentiero.
Alexandra prese un respiro profondo e, pregando che il cavallo non venisse distratto da nulla, spronò l’animale ad un’andatura appena un po’ più veloce.
Docile, il palafreno accelerò e dopo poco la giovane fu apostrofata dalla voce secca di un uomo.
“Chi è là?!” chiedeva, sospettoso.
Alex si costrinse a non fermarsi e finse un’espressione sorpresa.
Una mano guantata di cuoio afferrò le redini del suo cavallo, che aveva continuato a muoversi, e lo costrinse a fermarsi.
“Chi siete?” chiese l’uomo che l’aveva fermata.
Alex scosse la testa, fingendosi confusa, e un secondo uomo le si accostò ma dall’altra parte.
Petra, dove cavolo sei?!, pensò, irritata, per un attimo, ma poi sentì un fischiare acuto.
Gli uomini si distrassero e lei, rapida, sfilò i pugnali dagli stivali e colpì quelli che le si erano affiancati. I due caddero a terra gridando ma poi tacquero e non si rialzarono.
Alex si preparò a saltare giù dalla sella: non poteva combattere a cavallo, avrebbe avuto troppi punti di riferimento in meno rispetto agli avversari. Due erano fuori uso, ne restavano tre ma lei sapeva di doversi preoccupare solo di due: quello che portava Margherita doveva tenere alta l’attenzione su di lei, questo era l’importante.
Un cavallo le si avvicinò al galoppo, nitrendo, e lei sollevò entrambi i pugnali alle due altezze in cui era più probabile il nemico avrebbe tentato di colpirla, ventre e petto.
“Se vuoi combattere da cieca, allora rassegnati al fatto che sarà come una partita a dadi: probabilità e basta, nessuna certezza; calcoli e ragionamenti per provare a indovinare le mosse del tuo avversario, ma lui sarà sempre in vantaggio su di te. Lo sai, vero Alex?” Quando Jas le aveva detto quelle parole, lei aveva risposto subito 'sì', senza pensare, ma un conto era giocare a fare la piccola scienziata con le probabilità in combattimenti simulati e un altro era farlo scommettendoci la propria vita.
Fu per questo che Alex tirò un sospiro di sollievo quando sentì il proprio pugnale sinistro, quello messo a difesa del ventre, trattenere la lama di una spada. Non si fermò a pensare ma abbassò la mano destra e, senza mollare il secondo pugnale, afferrò il polso del nemico. Rapida, saltò via dal proprio cavallo e si sedette su quello del nemico, proprio alle spalle dell’uomo. L’animale si mise a girare in tondo, confuso dalla situazione, e lei allungò un braccio davanti a sé poi tagliò la gola del nemico con un gesto secco. L’uomo gorgogliò prima di cadere da cavallo e a quel punto la giovane tirò le briglie per fermarlo.
Era una fortuna che gli animali, spaventati dalla situazione, nitrissero quando venivano spronati perché così Alex poté sentire l’altro cavaliere in arrivo e far scartare il proprio animale appena in tempo. Non poteva permettersi una seconda carica, perciò si voltò, ascoltò attentamente il nitrito del cavallo per individuarne la testa e poi, anche se con ragionevole dubbio, lanciò uno dei due pugnali.
Udì un mezzo grido soffocato e poi un tonfo e osò sperare. Fece voltare l’animale indietro ma sentì i rumori lievi di una debole zuffa.
“Petra?!” esclamò.
 
***
 
Petra scese da cavallo in fretta e osservò un po’ intimorita Alexandra che pugnalava due uomini e, rapida, ne sgozzava un terzo ma poi si costrinse a tornare al suo obiettivo.
L’uomo che stringeva Margherita fece subito indietreggiare il cavallo, tentando di capire cosa fosse meglio fare, se fuggire o restare, e la ragazza ne approfittò. Corse verso di lui e, evitando per un soffio uno zoccolo, recise i tendini delle zampe posteriori dell’animale che tentò di impennarsi immediatamente prima di crollare a terra seduto.
L’uomo e la prigioniera rotolarono giù: lui mancò Petra di poco e la baronessa si slanciò ad afferrare la principessa, dopodiché si voltò, sgomenta, agitando la spada per tenere a distanza l’uomo il tempo necessario all’intervento di Alex ma scoprì con orrore che non ve n’era bisogno: caduto a terra, il soldato aveva battuto la testa su un masso e una delle cavalcature imbizzarrite l’aveva poi travolto.
Petra ansimava, per la paura e per l’adrenalina, e strinse d’istinto il fagotto che sentiva avvolto nel suo braccio.
Il fagotto, però, tentò di liberarsi, ma una voce fermò entrambe.
“Petra?!” stava chiamando Alexandra.
“Qui!” esclamò la baronessa, prima di rivolgersi di nuovo alla sovrana, “Votre Majesté, n’ayez pas peur! Nous sommes ici pour vous aidez!”
“Laissez-moi!” ordinò la giovane ma la voce con cui lo disse fece sgranare gli occhi ad Alex, scesa da cavallo.
Ma cosa…?, si chiese, avvicinandosi rapida.
Le bastò accostarsi alla ragazza, irrigiditasi nel vedere il guerriero armato che le si avvicinava, e sentirne il respiro ad altezza ventre per ottenere conferma a quanto avesse intuito.
Margherita di Provenza era una bambina.
 
***
 
Petra osservava con un sorriso mesto la futura regina di Francia che mangiava pane e formaggio seduta all’amazzone davanti ad Alexandra.
C’era voluto parecchio per convincere la principessa che fossero dalla sua parte ma poi la collana di Petra con impresso lo stemma della sua famiglia l’aveva fatta vacillare e la parlantina di Alex aveva completato l’opera. Proprio l’americana aveva poi deciso di ripartire, dicendo che non potevano permettersi una perdita di tempo, e così la sovrana mangiava in sella.
Petra non era rimasta sgomenta quanto Alex nell’apprendere che Margherita aveva appena dodici anni (quasi tredici) ma era rimasta sconvolta quanto lei nel comprendere che la giovane ancora non era divenuta matura. L’età non contava nei matrimoni combinati, era normale, ma far sposare una bambina prima che avesse sanguinato era davvero sconvolgente: non era ancora una donna.
Alex, dal canto suo, aveva iniziato a sospettare che proprio il non sviluppo della piccola fosse motivo della ritrosia del sovrano e, sebbene trovasse ancora inconcepibile l’idea di un matrimonio a quattordici o quindici anni, stava cominciando a provare pietà per Luigi che certo non poteva tirarsi indietro.
“Ma cosa…?!”
Alex fece fermare il cavallo, sorpresa dalla voce di Petra, e si voltò verso di lei pur non vedendola, stringendo appena la presa sulla vita della principessa. Margherita non reagì e tacque, si era rapidamente tranquillizzata dopo aver scoperto che il cavaliere biondo era in realtà una donna.
Petra si guardò attorno, sorpresa, ma poi scosse la testa.
Doveva essere solo un’allucinazione, non poteva riconoscere la strada per il monastero di Saint-Michel: avevano davanti un viaggio di tre giorni, non di poche ore; era impossibile che lo riconoscesse.
Era impossibile, vero?
 
***
 
Jas si irrigidì quando notò il padre di Alex allontanarsi ulteriormente dalla figlia, muovendosi assieme alle comparse non giocanti.
Ci deve essere qualcosa che posso fare, maledizione!, si disse, per l’ennesima volta, digitando febbrilmente sul computer del padre.
Una parte di lui aveva sempre saputo che quell’uomo sarebbe diventato pericoloso. Sapeva da sempre che l’unico motivo per cui Carl aveva accettato di adottarlo era che avrebbe ricevuto un assegno mensile per gli alimenti –assegno che aveva usato per le attrezzature che ora gli riempivano lo studio- e dopo gli avvenimenti del suo diciannovesimo compleanno lo attendeva da un momento all’altro. All’epoca, aveva tentato di andarsene di casa, aveva trovato un lavoro e preso un minuscolo appartamento ma tempo due giorni e la polizia gli aveva telefonato avvertendolo che il padre aveva dato fuoco alla sua camera, a casa, e che si era messo ad urlare che rivoleva suo figlio. Carl era stato ricoverato e poi le autorità avevano stabilito un’inversione di ruoli per cui Jas avrebbe dovuto badare a che il genitore non facesse follie. Era bastato rientrare a casa perché suo padre smettesse la recita del pazzo: gli aveva detto che ci era vicino e che non gli avrebbe permesso di andarsene perché lui era ‘il ponte’ con qualcosa. Per quanto Jas avesse provato, non aveva mai scoperto di che cosa fosse il collegamento con suo padre.
E se fosse…
Jas si fermò.
Non ci aveva mai pensato perché non ne aveva motivo, credeva che suo padre non conoscesse i Freeland, ma a questo punto, quanto poteva essere vero? Se a Carl interessavano loro, lui era il collegamento perfetto con Alexandra.
L’ho portato io da lei?
Deglutì. No, non aveva senso… Niente aveva senso! Il gioco, il virus, le coincidenze, la Storia!
Jas esitò un attimo ma poi rimpicciolì il gioco ed esaminò il desktop.
Suo padre aveva messo decine di password all’accensione e all’avvio internet del suo computer, perciò non aveva ritenuto necessario usarne altre per le cartelle. Fu probabilmente per questo che Jas notò subito l’unica con una password, nominata solo con un asterisco.
La aprì e gli bastò un tentativo per indovinare le parole. Dopo aver digitato ‘HYP ends thus’, si ritrovò davanti qualcosa che non avrebbe mai immaginato.
Fotografie di Alexandra.
“Non è possibile…” mormorò, facendole scorrere.
Erano tutte immagini rubate, qualcuna anche sfocata, e di tempo prima. Jas si fermò su un’immagine in cui Alex si stava aggiustando i capelli davanti ad una vetrina: si specchiava, guardava il suo riflesso. Vedeva.
Prima che perdesse la vista?, si chiese Jas, sorpreso, Deve essere stato più di due anni fa, quindi, ma io non la conoscevo ancora: come è arrivato a lei?, se voleva suo padre, perché seguirla?
Jas si irrigidì. Sentì tutto nel suo corpo fermarsi, come un orologio cui vengono tolte di colpo le batterie, e le sue dita rimasero sospese sopra i tasti per alcuni secondi.
“No, ti prego no!” esclamò all’improvviso, saltando in piedi.
Non spense, non salvò né chiuse niente, ma corse giù dalle scale fino in garage. Suo padre non guidava, non gli serviva visto che lavorava da casa e passava tutto il suo tempo in quella stanza-laboratorio che si era creato, ma aveva un macchina. Jas cercava di ricordare l’ultima volta che aveva visto il padre prendere l’auto ma non era certo: tre anni fa?, uno?, due?
Il garage era piccolo e perciò interamente occupato da un oggetto voluminoso coperto da un vecchio telo. Jas si diresse verso il cofano della macchina e lo scoprì.
“No, cazzo!” urlò subito dopo, tirando un calcio alla ruota anteriore.
Sul paraurti anteriore c’era una grossa ammaccatura, ma anche graffi notevoli e piccole macchie di un rosso rugginoso, quasi marrone.
Jas si appoggiò al muro, la testa tra le mani, cercando di pensare. Dopo un lungo momento, tirò fuori il cellulare dalla tasca e digitò un numero a memoria.
Un uomo gli rispose, professionale, e lui prese un respiro profondo.
“Vorrei sporgere denuncia.” disse, serio, “Per lesioni gravi e omissione di soccorso in incidente automobilistico.”
 
***
 
“Non è possibile.” Petra era immobile, pallidissima, e fissava la sagoma di Chatel-Argent davanti ai suoi occhi.
Aveva detto la stessa cosa quando si erano trovate davanti al monastero di Saint-Michel, ma allora anche Alex aveva reagito così. Invece in quel momento Alex, ancora seduta sul cavallo legato a quello della baronessa, si limitava a parlottare a bassa voce con la madre, sporgendosi dalla sella verso di lei.
Arrivate al monastero, le ragazze erano corse dentro per fermare i genitori e riconsegnare Margherita al re ma avevano trovato solo le dame, in procinto di recarsi al castello per fingere che tutto andasse bene e per capire chi avesse tradito Isabeau. In mancanza di altre possibilità, le avevano seguite fino al palazzo ma Petra, sebbene avesse mantenuto il segreto come richiesto da Alex, continuava a non riuscire a credere ai suoi occhi: avrebbero dovuto impiegare tre giorni per tornare al monastero, perché erano lì dopo neanche uno intero?!
L’americana, di suo, stava cercando di costringersi a non pensare allo strano viaggio di ritorno per concentrarsi sulla certezza che qualcosa ancora non andava. Isabeau aveva ragione, qualcuno all’interno del castello doveva aver aiutato i due inglesi, ma per quanto ne sapeva lei poteva anche essersi trattato di una comparsa aggiunta da Carl White. Carl White che si sarebbe presentato allo scontro con Derangale e Gant, e a cui non importava proprio niente del rispettare lo svolgersi della Storia. Dio, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa! Già una volta aveva rischiato di stravolgere tutto per errore, figurarsi ora che desiderava farlo di proposito!
Alexandra si trattenne a malapena dal far voltare il cavallo e correre, ancora non sapeva come, verso suo padre e gli altri francesi, per la maggior parte ignari di ciò che avrebbero realmente affrontato.
 
***
 
Daniel e Ian si guardavano attorno con ansia.
La piana di Bouvines rievocava ad entrambi ricordi particolari, di sangue e morte ma anche di speranza e gioia perché quel giorno di tanti anni prima si erano comportati con onore proteggendosi a vicenda e difendendo i propri cari. Tornare a dove tutto, in un certo senso, era iniziato lasciava entrambi con uno strano gusto in bocca.
Passarono il piccolo ponte che collegava Béarne alla Fiandra e si fermarono quasi subito oltre esso, riconoscendo le sagome di alcuni cavalieri schierati.
Non erano molti, vero, ma era senza dubbio erano più di loro.
Luigi esaminò la situazione solo un attimo, ma poi proseguì, facendo cavalcare il proprio cavallo verso i nemici in attesa.
Daniel non ci mise molto a riconoscere Carl White, tra Derangale e Gant.
Bastardo…, pensò, stringendo forte le briglie del cavallo tra le mani, tanto che questo sbuffò infastidito.
Carl incrociò il suo sguardo e il suo ghigno si fece più ampio.
“Benvenuti.” li schernì, ridendo.
Come ad un segnale, i suoi uomini sguainarono le armi e, gridando, si gettarono sui francesi.




Ehm... Chi non muore si rivede, no? *faccina imbarazzata*
A parte le scemenze, devo dire che mi vergogno profondamente per non aver aggiornato fino ad ora, dopo più di un mese, se questo può farvi sentire meglio. Ho avuto questo capitolo scritto per cinque pagine per...settimane!, ma proprio non riuscivo a finirlo!
Non è venuto fantastico, devo dirlo, ma almeno è venuto -.-
Non so quando potrò aggiornare il prossimo, mi dispiace davvero, ma giuro che prima o poi lo posterò.
A presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 35
*** Le guerre di Daniel ***







35. Le guerre di Daniel
 
In quel preciso momento, Daniel ricordò perché avesse deciso che il Medioevo non era decisamente il suo tempo.
Non importavano le dimensioni dello scontro, poteva essere Bouvines come una tafferuglio da taverna, ma a lui saliva comunque il vomito ogni volta che si ritrovava nel bel mezzo di una battaglia.
In quel momento, i Francesi combattevano con i nemici di dubbia nazionalità e tra i nitriti dei cavalli, le grida degli uomini e i suoni delle spade che cozzavano l’una con l’altra, l’Americano perse per un momento coscienza della situazione. Quel rimasuglio di istinto che aveva gli urlava di scoccare la freccia che già teneva nell’arco contro il primo nemico che avesse visto, ma Daniel si costrinse a trattenersi. Avevano un piano, lui ed Ian, e doveva rispettarlo se volevano avere una qualche possibilità: il suo caro fratello adottivo si sarebbe occupato di Derangale e lui si sarebbe dovuto limitare a cercare di aiutare i Francesi restando indietro fino a quando non avesse potuto tirare a Gant. Secondo Ian, era probabile che anche il crociato, come lo sceriffo inglese, mirasse a lui, perciò per Daniel sarebbe dovuto essere relativamente facile colpirlo, ma avrebbe comunque dovuto fare in fretta perché entrambi gli americani dubitavano che l'ex-Jean avrebbe potuto reggere a lungo un duello con entrambi i nemici.
Daniel strinse i denti quando delle gocce di sangue lo colpirono al viso, ma si costrinse a concentrarsi quando capì che erano arrivate da una ferita solo superficiale sul braccio di Etienne de Sancerre.
Erano troppo pochi, l’Americano lo sapeva, ma in fondo i nobili francesi sembravano abbastanza pronti a vedersela con più nemici contemporaneamente.
Tese la corda vedendo un uomo tentare di colpire Geoffrey Martewall alle spalle ma qualcuno scoccò prima di lui e il nemico cadde a terra con una freccia nel petto. Daniel si voltò, confuso, ma riuscì solo a vedere un gruppetto d’armati unirsi a loro e gli occorse un attimo per riconoscere nel blasone nero con leone d’oro e lambello rosso le insegne del giovane Harald Martewall.
Da dove diavolo è saltato fuori?!, pensò, in parte irritato perché la sua situazione andava a complicarsi dovendo riconoscere i nuovi arrivati a lui ignari dai nemici, ma in parte rassicurato dagli aiuti in arrivo.
La calca si spostò più vicina al fiume, evidentemente Gant e Derangale volevano spingere in acqua i loro avversari, così Daniel fece indietreggiare di qualche passo il proprio animale per guardarsi attorno e, nel farlo, si accostò un po’ al punto dove Ian stava lottando contro Derangale, entrambi a cavallo e con le lame incrociate che tremavano per la forza impressa da entrambi.
Daniel non riuscì a capire cosa Derangale avesse detto ad Ian, ma sentì l’amico replicare: “Ti ho ammazzato una volta, vedrai che lo faccio ancora!”. Nonostante la situazione, all’Americano sfuggì un sorriso: Ian pareva non rendersi conto di quanto melodrammatico e teatrale diventasse durante le battaglie, sembrava uscito direttamente da una cronaca medioevale, o anche da un film se solo quelli non fossero stati troppo ‘storicamente imprecisi’ per il signor professorone di storia. Era quello il suo tempo…
Ma questa è una battaglia e ci sono anche io in mezzo.
Daniel scrollò la testa, ammonendosi da solo per la distrazione, e riprese a guardarsi attorno nella calca ora più confusa. Aveva aspettato che Gant attaccasse Ian, ma quello ancora non si era fatto vedere e la cosa lo faceva preoccupare.
Dove diavolo sei?!, insultò mentalmente, ringhiando e voltando la testa a destra e sinistra, ma senza riuscire ad individuare il crociato. Con calma, fingendo che tutto fosse solo il gioco di ruolo che sarebbe dovuto essere, si ritrovò a chiedersi lui cosa avrebbe fatto se avesse dovuto eliminare l’unico nemico con la possibilità di ucciderlo. Gant non brillava per onore, certo, quindi non lo avrebbe mai sfidato a duello, era più il tipo che colpiva alle… Cavolo!
Quando Daniel sentì un fischio sottile già udito una volta a Pienne, agì d’istinto: si piegò in avanti, abbassando la testa, e spronò il cavallo.
La sfera chiodata del mazzafrusto passò ad appena qualche centimetro dalla sua testa.
Mi avrebbe distrutto il cranio!, pensò Daniel, sudando freddo, mentre faceva voltare il cavallo.
Gant gli regalò un ghigno perfido da sotto l'elmo normanno che gli lasciava scoperto il viso prima di spronare il proprio cavallo verso di lui per ritentare il colpo.
Daniel provò a tendere l’arco e prendere la mira, ma era troppo vicino al crociato per avere il tempo di farlo e perciò, a metà dell’opera, fu costretto a rinunciare per far scartare di lato il suo cavallo ed evitare l’ennesimo colpo. Gant, di nuovo, fermò in fretta il proprio animale per non allontanarsi abbastanza da consentire a Daniel di tirare, si voltò e lo incalzò di nuovo.
Siamo troppo vicini!, comprese l’Americano, schivando l’ennesimo affondo. Di malavoglia, si infilò l’arco a tracolla e lasciò cadere a terra la freccia per poter sfilare la spada. Sapeva che non avrebbe retto che pochi minuti contro l’inglese, ma forse sarebbero stati abbastanza perché Ian si sbarazzasse di Derangale e andasse ad aiutarlo.
Gant tentò di nuovo di colpirlo, ma questa volta Daniel tentò la classica manovra cinematografica di far arrotolare la catena dell’arma nemica alla propria lama. Ci riuscì, ma Gant fece avvicinare il proprio cavallo a quello dell’avversario fino a farli scontrare e piantò uno sperone della gamba di Daniel prima di dare uno strattone tanto forte da portargli via la spada.
L’Americano sibilò per il dolore al polpaccio lacerato, ma poi si costrinse a prendere un pugnale, l’ultima arma che avesse. Si pentì amaramente di non aver provato ad allenarsi con Alex neanche una volta, lei avrebbe potuto fare miracoli con quella lametta da dieci centimetri. Gant liberò il mazzafrusto dalla spada di Daniel, sorridendo soddisfatto, e l’Americano cercò disperatamente una soluzione.
Che cosa farebbe Alex ora? tentò di chiedersi, mettendo da parte quell’ultimo barlume d’orgoglio e supplicando di conoscere sua figlia abbastanza bene e di aver ascoltato a sufficienza tutti i suoi sproloqui entusiastici ogni volta che imparava un nuovo movimento o raggiungeva un nuovo obiettivo.
Avrebbe lanciato. Daniel capì subito che era così: Alex doveva tenere una distanza che la aiutasse perché troppo vicina non avrebbe avuto tempo di studiare la situazione senza la vista e quindi in un piccolo spazio come quello lei avrebbe tirato, anche solo per guadagnare un po’ di tempo e cercare di individuare il suo avversario. Daniel, però, vedeva benissimo.
Sperando di non fare danni, afferrò saldamente il pugnale con una mano e lo tirò a casaccio. Il pugnale prese a ruotare su sé stesso e colpì il bersaglio con il pomolo dell’elsa e non con la lama, ma arrivò comunque nell’occhio del crociato che imprecò e indietreggiò con il busto, perse l’equilibrio e cadde nella polvere perdendo l’elmo normanno che rotolò sul campo. Il suo cavallo imbizzarrito si alzò su due zampe, quasi travolgendo quello dell’Americano che a sua volta si impennò e disarcionò il suo cavaliere.
Daniel cadde di petto a terra, riuscendo a malapena a portare le mani avanti per proteggersi il viso, e l’impatto gli strappò il respiro e causò una protesta notevole da parte delle sue costole. Gemette, ma riaprì gli occhi e lo fece appena in tempo per vedere Gant andargli addosso di corsa, un occhio chiuso e lacrimante, urlando e agitando la propria spada sopra la testa. L'Americano non trovò nulla di meglio da fare che rotolare quando vide la lama cercare di abbattersi sul suo petto, ma aveva dimenticato la presenza del fiume e si ritrovò a rotolare giù per la riva, sbattendo contro massi che, per quanto dolorosi, lo bloccarono prima che arrivasse all’acqua e vi sprofondasse. Non aveva certo una grande armatura, ma era sicuro che la sua cotta di maglia fosse sufficiente ad affogarlo. Una parte di lui, lo avvisò dell’urlo di Ian che lo chiamava e di un indistinto “Monsieur Daniel” che poteva essere arrivato da chiunque, ma che ugualmente avvertiva che almeno qualcuno tra i Francesi si era accorto della sua manovra inconsulta e magari lo avrebbe, quando avesse avuto un momento libero ovviamente, aiutato ad uscirne. Certo, se fosse stato ancora vivo. Paradossalmente, il suo cervello gli disse che Jodie l’avrebbe ammazzato se avesse osato farsi uccidere da Gant: non era certo un’impresa facile, ma non dubitava che sua moglie sarebbe stata in grado di portarla a termine.
A fatica e contro il volere del suo corpo, si sollevò sulle braccia cercando di rialzarsi, ma qualcosa gli cadde da dosso e lo fece immobilizzare.
Daniel ignorò tutte le frecce rovesciatesi nella caduta fuori dalla faretra e invece boccheggiò vedendo il proprio arco spezzato in due.
No, no, no!, pensò e d’istinto alzò gli occhi su Gant, ma sbiancò trovandolo intento, sempre con il suo ghigno sulle labbra, a scendere lungo la riva con la spada in mano. L’unico lato positivo era che doveva aver perso il mazzafrusto nella caduta o magari il manico di legno si era spezzato, il punto era che non aveva più con sé la sfera chiodata e questo diede un attimo di sollievo a Daniel. Prima che quello ricordasse che, senza arco, Gant era invincibile anche per lui.
Vengo a prenderti, spiucola da quattro soldi!” ringhiò il crociato in quel momento.
Al diavolo Hyperversum!, pensò, furioso con se stesso, con i massi, con il gioco, con la Storia e decisamente tanto, ma tanto, con Carl.
Senza ragionare, si gettò di peso su Gant prima che quello potesse arrivare a mettere piede sulla piccola striscia di terra che costeggiava il fiume. Il crociato imprecò perdendo l’equilibrio e ritrovandosi a rotolare nel fango.
Bastardo, se devo morire, mi toglierò la soddisfazione di romperti quel becco che hai al posto del naso!, pensò Daniel, furibondo, mettendo in atto tutte le tecniche sviluppate in anni di lotte contro una sottospecie di fratello maggiore grosso il doppio di lui. Mentre stringeva le ginocchia sui fianchi di Gant, si ritrovò a ringraziare il cielo che lui ed Ian non fossero mai stati esattamente degli angioletti, da ragazzi, poi alzò un pugno e colpì Gant in faccia. Lo fece con forza, più mosso dall’istinto di sopravvivenza che dalla voglia reale di far del male, e poi colpì ancora, parecchie volte, fino a che non sentì davvero uno scricchiolare inquietante e il naso di Gant non prese un’angolazione innaturale. Daniel ebbe un conato ed esitò così il crociato sfruttò l’attimo per afferrarlo per la cotta sul petto e cercare di rotolargli addosso.
No! Daniel cercò di fare resistenza cercando di convincersi che non ci fosse differenza tra quella lotta sulla riva del Marq e quelle che fatte da ragazzo con Ian e Martin quando le loro famiglie andavano in campagna per passare qualche giorno d’estate lontani dalla città, ma un’insieme di puntini colorati e un dolore allucinante alla nuca lo intontirono abbastanza perché Gant riuscisse a bloccarlo sotto di sé.
Sassi dei miei stivali…!, pensò la parte di Daniel che lui ancora non aveva avuto il piacere di conoscere, un attimo prima che Gant afferrasse l’Americano per i capelli che formavano l’attaccatura sulla fronte e gli tirasse la testa in avanti per poi sbatterla di nuovo contro la pietra che Daniel aveva impattato poco prima.
La mente dell’
Americano si ridusse di nuovo ad un insieme di puntini colorati e dolore atroce alla nuca e così si lasciò sfuggire un grido di dolore.
Gant rise, il cappuccio della cotta di maglia caduto all’indietro nella lotta e il sangue che dal naso era arrivato ad inzuppargli tutta la bocca tanto che ad ogni movimento di essa il crociato sputacchiava gocce rosse a destra e a manca.
Daniel allungò le braccia, d’istinto alla ricerca di qualsiasi cosa potesse usare per difendersi, anche solo uno di quei sassi che odiava dal profondo del cuore, ma le sue dita affondarono nel fango molle impedendogli di distinguere bene le forme di ciò che afferrava. Non fece in tempo a riconoscere nulla perché Gant mollò la presa sui suoi capelli solo per tirargli un pugno che gli fece voltare la testa.
“Che ne dici, spia, la finiamo qui?” lo schernì il crociato, schizzandolo in viso di liquido rosso e del fango che ormai ricopriva entrambi.
Daniel lo ascoltò con un orecchio solo perché, al di là del dolore alla mascella, la sua mente gli aveva mostrato, eccitata, l’insieme sparso di oggetti familiari accanto alla sua mano. Non era la stessa cosa, ma forse alla Storia sarebbe andato bene lo stesso.
“Fa’ un favore a tutto il mondo” ringhiò quindi, afferrando una delle frecce, “e va’ al diavolo!”
Daniel non seppe mai dove trovò il coraggio, forse fece tutto il suo istinto, ma riuscì a rialzare il braccio e, con forza, piantò la freccia nel collo scoperto del crociato. Gant ululò di dolore e tentò di alzarsi, ma il biondo si avvinghiò al suo corpo e spinse la punta acuminata ancora più in profondità. Aveva le lacrime agli occhi perché quello che stava facendo gli urlava nella testa ‘Omicidio!’ ben più di quanto non avessero fatto le sue frecce tirate a caso nella massa della guerra.
Gant continuò ad urlare, ma ben presto la sua voce si ridusse ad un gorgoglio inquietante e dopo poco il sangue iniziò a sgorgare dalla sua bocca e, come quello dalla ferita, si riversò su Daniel come a ribadirne la colpevolezza. Infine, il crociato si accasciò, senza forze, sull’Americano.
 
***
 
Ian non avrebbe saputo dire come si fossero svolti i fatti nel suo duello con Derangale, ma una parte di lui dovette ammettere che dopo gli anni di combattimenti e soprattutto dopo essersi trovato di fronte come avversario Martewall, che ogni volta che lo incontrava pretendeva di combattere con lui, il confronto con lo sceriffo gli era parso molto più semplice da affrontare rispetto alla prima volta. Forse era stata una questione di esperienza, forse solo di mentalità perché se allora era stato terrorizzato dall’idea che Guillaume potesse morire e Derangale ammazzare poi anche lui e Daniel, in quel momento tutto ciò a cui Ian pensava era ammazzare il bastardo che aveva osato baciare e picchiare sua moglie. L’idea che Derangale avesse messo le mani su Isabeau gli aveva dato alla testa e quando riuscì a calmarsi l’Inglese non era altro che un cadavere con gli occhi vitrei puntati al cielo.
Però c’era una cosa che Ian ricordava bene essere successa, nel bel mezzo dello scontro.
“Daniel!” gridò, voltandosi e correndo verso la riva del fiume.
Si accorse solo marginalmente del fatto che anche gli altri sembravano star avendo la meglio sui loro nemici, che sembravano essere stati indeboliti dalla morte di Derangale, e si gettò in ginocchio sul bordo della riva. Qualcuno, al suo fianco, fece lo stesso, ma Ian non vi badò perché i suoi occhi erano rimasti calamitati dai due corpi avvinghiati pochi metri più in basso. Non riusciva a vedere le condizioni di Gant, ma vedeva bene il viso di Daniel letteralmente coperto di sangue e gli occhi aperti puntati al cielo ma fissi sul vuoto.
Ian sentì qualcosa incrinarsi pericolosamente dentro di sé, ma non volle dargli ascolto.
“Daniel!” chiamò.
Fu quasi sorpreso quando il suo amico sbatté le palpebre e tirò un po’ su la testa per capire chi lo stesse chiamando.
Dio, ti ringrazio…, pensò Ian con un sospiro nel momento in cui Etienne, al suo fianco, chiedeva a Daniel come si sentisse.
 
***
 
“Monsieur Daniel, come state?” chiese Sancerre, all’apparenza davvero preoccupato.
“Male, grazie.” borbottò l’Americano sforzandosi di togliersi di dosso il pesante cadavere ma con scarsi risultati, vuoi per il peso della corazza che portava o vuoi per la debolezza dello scontro appena sostenuto e dei colpi alla testa.
Quando vide che Ian e l’altro conte stavano iniziando a scendere per raggiungerlo, decise di lasciar perdere e cercò di concentrarsi solo sul proprio respiro, reso difficoltoso più dal peso sulla coscienza che da quello sulla cassa toracica. Il viso di Gant, sporco e dagli occhi spalancati, era ancora vicinissimo al suo e di certo non lo aiutava a riprendere aria per cui fu dannatamente grato ai due amici quando glielo tolsero di dosso.
“Ehi…” disse piano Ian, inginocchiandosi vicino a lui, “Come ti senti?”
“Come uno che è caduto da cavallo, rotolato giù da una riva, pestato da un crociato e schiacciato da un cadavere.” bofonchiò, ma nel farlo si costrinse a sorridere al fratello adottivo parecchio preoccupato.
“Normale amministrazione, allora.” ribatté Ian sorridendo mesto e aiutandolo a tirarsi seduto.
Daniel fece ancora un po’ di conoscenza con i pallini colorati della sua vista, ma poi riuscì a tirarsi in piedi quasi da solo e si scoprì in grado di tenersi in equilibrio così, con notevole sforzo, riuscì a risalire il dislivello con l’aiuto di Ian ed Etienne, che pure continuavano a lanciarsi occhiate preoccupate alle spalle dell’amico. Quando arrivò a tirarsi in piedi sulla piana, c’era ancora qualche scontro in corso, ma ben poca roba, però i suoi occhi furono calamitati da un’altra cosa.
“CARL!” urlò, furibondo, nel vedere l’altro Americano stringere i pugni dalla sua posizione a cavallo ben lontano dal luogo dello scontro e poi far voltare l’animale per correre verso il bosco.
Eh no, bastardo, non così facilmente! Daniel vedeva rosso per la rabbia così salì in groppa al proprio cavallo senza pensarci due volte e diede di sprone per inseguire l’altro.
Carl non era mai stato bravo a cavalcare, barcollava parecchio, e Daniel lo raggiunse in fretta proprio dove gli alberi fitti li nascondevano alla vista dei medioevali. Convinto che tanto una o due cadute da una sella non facessero poi quella gran differenza, Daniel si lanciò su Carl e i due rotolarono rovinosamente nel sottobosco.
“Sta’ fermo!” ringhiò Daniel quando si fermarono guadagnando la posizione dominante e afferrando le mani di Carl che tentava di colpirlo e di toglierselo di dosso. Alla fine, con fatica, Daniel riuscì a stringere la gola di Carl con le dita e l’altro si irrigidì immediatamente. “Hai finito di correre, bastardo!”
Daniel sentiva un odio viscerale per Carl, niente a che fare con la rabbia mista a pena dell’ultima volta, e perciò si concesse di stringere un po’ la presa, non tanto da soffocarlo ma abbastanza da fargli capire che l’avrebbe fatto se avesse osato fare qualche danno in attesa di Ian o di un qualsiasi altro cavaliere che si fosse degnato di andarli a prendere.
Carl, a sorpresa, sorrise.
“Quanto tempo, eh, Daniel?” chiese.
“Fottiti.” ringhiò l’altro, ben poco propenso alla collaborazione, “Hai distrutto la vita di Ian!”
“Ma come?” chiese Carl, sorridendo come…un pazzo, Daniel non avrebbe saputo descriverlo in altro modo, “Non era certo a Ian che volevo rovinare la vita…beh, non troppo.”
Daniel represse a fatica una smorfia di disgusto. Poi decise che non ne valeva la pena e lasciò che affiorasse sui suoi lineamenti.
“Sei un pazzo.” sibilò, “Hai già fatto abbastanza male a Donna una volta!”
Carl scosse la testa, serio.
“Oh, ma io non voglio farle male.” dichiarò, “Io voglio fare ciò che non hai fatto tu, voglio riportarla a casa, dove sarà felice. E voglio ammazzare quel bastardo che l’ha tenuta qui.”
Daniel sgranò gli occhi, sgomento, e sbatté le palpebre un paio di volte per assicurarsi che Carl non scoppiasse a ridere dicendogli che era tutto uno scherzo. Non può crederci davvero!
“Donna resta qui perché vuole stare con Etienne.” ribadì, senza neanche sapere perché perdesse tempo a cercare di spiegare la verità all’altro Americano.
Questi divenne fuorioso.
“Bugiardo!” ringhiò, iniziando a dimenarsi, “Lei vuole me! Quello è un bastardo e tu sei in combutta con lui!”
“Ma che diavolo stai…?!”
“Sei in combutta con lui! Non hai riportato Donna di là, sei in combutta con lui! L’hai imprigionata qui!” urlava, era in pieno delirio, e Daniel non seppe più bene cosa fare.
“Sei pazzo…” mormorò solo, limitandosi a tenerlo fermo.
All’improvviso, Carl tacque e si immobilizzò. Sorrise, come se avesse ricordato qualcosa, e poi puntò gli occhi in quelli di Daniel e il sorriso mutò in ghigno.
“Ma basta parlare di me.” disse, come se fino ad ora non avessero fatto altro che conversare amabilmente, come se non fosse stato sdraiato sulla schiena con l’altro americano addosso a tenergli le mani attorno alla gola, “Parliamo di te. Dimmi, come sta tua figlia?”
Daniel sentì un brivido spiacevole scendergli lungo la schiena.
“Non osare parlare di lei!” sibilò. Carl aveva un’espressione strana, folle e felice, e la sola idea che parlasse di Alex con quello strano tono di voce, come di uno che insinua qualcosa, lo atterriva.
Carl scoppiò a ridere.
“Dev’essere una bella responsabilità, una spadaccina donna nel tredicesimo secolo, vero?” continuò, ignorandolo, “Immagino sia anche diventata più grande dall’ultima volta che l’ho vista.”
Daniel si irrigidì. Carl non aveva mai visto Alex, di certo lui non l’aveva portata a trovarlo per una visita di cortesia.
“Sta’ zitto!” ringhiò, sempre più a disagio, la gola che andava seccandosi.
“Beh, è passato un po’, in effetti.” Carl continuò, apparentemente per nulla preoccupato dalla piega degli eventi.
“Daniel, che diavolo succede?”
Ma Daniel non ascoltò la voce di Ian, appena sceso da cavallo alle loro spalle, e invece strinse un po’ la presa sulla gola di Carl.
“Ti ho detto di non parlare di mia figlia!” ringhiò, sentendosi un pazzo a sua volta.
Stava tremando e sudando freddo, qualcosa nella voce di Carl e nelle sue parole lo stava mandando in confusione. Era come se ci fosse qualcosa che continuava a sfuggirgli eppure che la sua mente aveva già capito ma che non voleva formulare, quasi avesse paura di elaborarlo come un pensiero reale.
“Daniel, dimmi:” la voce di Carl era quella di un uomo che avesse appena vinto una guerra, “tua figlia ha imparato a stare attenta prima di attraversare? Ci sono così tanti pericoli per una ragazzina che torni a casa a tarda sera, oggigiorno…”




Lo so, davvero, lo so, e se volete odiarmi per questo ritardo nell'aggiornare, siete assolutamente giustificati. Giuro, vi capisco e me lo merito. :( 
Scusate, prima di...dieci minuti fa non ho avuto tempo di scrivere. Però ringraziate la cara _LaDisegnatrice_XD perché ieri sera, chiacchierando, mi ha risolto tutti i più grossi problemi che avevo per il continuum (questo capitolo praticamente lo abbiamo scritto insieme mangiando pizza xD) e mi ha permesso di superare la più grossa impasse che avessi per questo racconto :)
Grazie, quindi, cara! Cosa farei senza di te? :D
Detto questo, a presto spero! :)
Ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 36
*** Verità ***







36. Verità
 

A Daniel occorsero parecchi secondi per elaborare il sottinteso della frase di Carl, ma prima che fosse scoccato il minuto esplose.
“FIGLIO DI PUTTANA!” urlò, schiacciando una mano sulla gola dell’altro fino a farsi male a sua volta, premendogli la trachea, mentre alzava l’altra per prendergli a pugni il viso, determinato a strappargli il sorriso dalla faccia.
“Daniel, no!” esclamò Ian afferrando l’amico per strapparlo da Carl prima che lo colpisse.
Sentiva a sua volta un dolore forte nel petto all’idea che per colpa di qualcosa che lui e gli altri avevano fatto, ben cinque anni prima che Alex nascesse, quest’ultima avesse dovuto pagare un prezzo tanto alto, ma conosceva Daniel e sapeva bene che non si sarebbe mai perdonato se avesse ammazzato qualcuno a quel modo, aveva una mentalità troppo moderna per far pace con l’omicidio di un uomo disarmato che non stava tentando di aggredirlo fisicamente.
“Bastardo! Ti ammazzo!” urlava Daniel, fuori di sé, gli occhi appannati dalle lacrime, mentre si dimenava tra le braccia di Ian che cercava di staccarlo da Carl.
Alex, la sua Alex, la sua bambina dai boccoli biondi, la piccolina a cui aveva letto le favole per anni e per la quale si sarebbe fatto strappare il cuore dal petto… E quel bastardo l’aveva investita! L’aveva travolta senza pietà e l’aveva lasciata in mezzo alla strada come un rifiuto! Per colpa sua lei non ci vedeva più! Non ci vedeva più!
“Ti ammazzo!” continuò ad urlare scalciando e cercando di sgusciare via dalle mani di Ian, “Ti strappo quei fottuti occhi che non ti meriti, bastardo! Maledetto stronzo! Mia figlia!”
Ian faticò a contenere Daniel quando Carl scoppiò a ridere di fronte al suo dolore e alle sue minacce, non tanto perché l’Americano avesse iniziato a dimenarsi ancora di più quanto perché la tentazione di permettere a Daniel di massacrare quel bastardo era davvero molto ma molto forte. Lo trattenne solo l’idea del dolore in più che l’amico avrebbe provato se si fosse lasciato andare ad una cosa del genere.
“Daniel, ci penseremo noi!” cercò di dirgli, “Ti giuro che non la passerà liscia, te lo prometto!”
Daniel si irrigidì, ma continuò a fissare Carl con la voglia furiosa di ammazzarlo.
“Ti uccido.” sibilò, “Non me ne frega niente di dove, come e quando: se ti metto le mani addosso, ti uccido.”
Carl passò il dorso della mano a pulirsi il viso sporco di terra e si tirò seduto poi guardò gli altri due Americani e sorrise.
“Per questa volta è andata così,” disse, scrollando le spalle, “ma il bello di questo gioco è che puoi avere la rivincita.”
Ian aggrottò la fronte confuso e anche Daniel si irrigidì, ma prima che potessero fare qualcosa Carl allungò la mano e chiamò Hyperversum.
Una mela nera con un teschio rosso sopra iniziò a girare pigramente sul palmo della sua mano.
“NO!” urlò Daniel scattando in avanti fuori dalla presa di Ian.
Carl non poteva andarsene, non poteva farla franca a quel modo! Aveva accecato sua figlia!
“Uscita d’emergenza.” chiamò Carl, sorridente.
Daniel allungò la mano per afferrarlo, ma tutto ciò che gli rimase tra le dita fu l’aria appena riscaldata dal corpo dell’Americano, ormai troppo lontano per essere preso.
“No!” urlò di nuovo, allungano la mano, “Uscita d’emergenza! Uscita d’emergenza!”
Hyperversum, però, restò indifferente alle sue richieste.
 
***
 
Quando Luigi vide tornare monsieur Ian e monsieur Daniel dal bosco, ne fu sorpreso. Aveva creduto, forse in parte sperato, che avessero approfittato della confusione per fuggire, ma a quanto pareva non era andata così. Monsieur Daniel aveva un’espressione distrutta, con gli occhi sgranati e arrossati, sotto lo strato di sangue e fango che gli ricopriva il viso. Sembrava un uomo cui fosse stato strappato via un arto. E il traditore Carl non era con loro.
“Che cosa è successo?” chiese, aggrottando la fronte, mentre gli altri nobili si affiancavano a lui, confusi dal comportamento dei due.
“Carl è riuscito a fuggire.” rispose Ian, mesto, scoccando un’occhiata preoccupata all’amico d’infanzia.
“E si è portato via il senno di monsieur Daniel?” chiese Martewall padre fissando l’Americano con lo sguardo imbambolato diretto al suolo.
Prima che Ian potesse spiegare in qualche modo, cercando di arginare il dolore dell’amico, questi rispose direttamente, ma senza alzare gli occhi da terra.
“Si è portato via la vista di mia figlia.” mormorò, la voce che sembrava sul punto di crollare così come il corpo, stranamente inclinato in avanti come schiacciato da un peso.
 
***
 
Alexandra si fermò nel mezzo del corridoio e si aggrappò con forza al muro con una mano quando una sofferenza improvvisa la assalì.
Era un dolore atroce, come lava versata nella sua testa, una fitta violenta che le attraversava tutta la calotta cranica poco sopra la metà del viso. Sentiva come qualcosa che tentasse di scavare nella sua carne e di strappare via brandelli di membra come una bestia affamata.
Il bastone che reggeva per intuire gli ostacoli sul proprio cammino cadde pesantemente a terra quando lei si accasciò con una spalla contro la parete del corridoio di pietra del castello.
“Mademoiselle?” la chiamò una guardia, sorpresa, ma lei non risposte.
Portò entrambe le mani alle tempie, stringendole con forza nel tentativo di sfuggire a quel dolore inaspettato che la faceva stare così male da impedirle di formulare anche solo un semplice pensiero, mentre le labbra si serravano d’istinto in una linea dura.
“Mademoiselle?!” chiese il soldato, sempre più spaventato.
Alex piegò le mani come fossero artigli e le portò agli occhi, come ad aiutare l’invisibile creatura chiamata dolore che stava cercando di cavarglieli dalle orbite, poi aprì la bocca e urlò con tutto il fiato che aveva in gola.
 
***
 
Daniel aveva già percorso la strada dal castello alla piana e viceversa, fin troppe volte per i suoi gusti, e ogni volta che tornava aveva l’anima appesantita da sangue nuovo, eppure gli parve che quel ritorno fosse il peggiore di tutti perché, più che l’omicidio di Gant, sentiva gravargli sulla coscienza l’incidente della figlia.
Come aveva potuto non rendersi conto della follia di Carl?! Semplice, dopo il primo viaggio aveva preferito fingere che non fosse successo niente, per rabbia nei confronti dell’amico che li aveva vigliaccamente pugnalati alle spalle più volte e per senso di colpa per Ian che all’epoca ancora soffriva la perdita di Isabeau, e così non aveva potuto vedere il rancore crescere e consumare l’altro americano. Una parte di lui gli ripeteva che non poteva immaginare una simile reazione, ma un’altra gli ricordava che avrebbe dovuto pensare comunque a controllare Carl almeno una volta, che sapeva che un’esperienza come quella che Hyperversum aveva fatto vivere loro non poteva essere dimenticata così, dal nulla, semplicemente smettendo di vedere i propri amici e cambiando Università.
Il ponte levatoio di Chatel-Argent apparve davanti a loro e mise a tacere tutti i pensieri del biondo Americano lacerandogli l’anima con una semplice e silenziosa sentenza: Adesso devi dirlo a lei.
Come faccio?!, si chiese per l’ennesima volta, passandosi una mano sul viso e fermandola sulla bocca.
Non aveva idea di come avrebbe potuto raccontare tutto ad Alex, era terrorizzato dall’idea di ciò che quella scoperta avrebbe potuto fare al loro rapporto già reso precario dalle difficoltà della cecità di lei e l’idea che sua figlia potesse rivolgere l’odio feroce che sempre l’aveva divorata verso di lui… Non avrebbe mai potuto sopportare di vederla detestarlo. Non avrebbe retto, sarebbe stato oltre ciò che poteva accettare. La sua bambina che lo accusava, che gli gettava contro tutto il veleno che la sofferenza le aveva istillato dentro in quei due anni…
Daniel scosse la testa, cercando di scacciare quell’immagine dalla propria mente, e cercò di concentrarsi sul mondo attorno a lui, ormai diventato il cortile interno di Chatel-Argent, per metterla a tacere.
Non dovette faticare molto perché tutti i suoi sensi si fissarono sui tre servi che correvano loro incontro, gli occhi puntati proprio su di lui.
Che cosa succede, ora?!, si chiese, sgomento. Che Carl fosse già tornato? Impossibile, non era così idiota da presentarsi sulla sua strada ora che era ancora furibondo. Avrebbe atteso che la stessa Alex lo ferisse prima di arrivare a dare il colpo di grazia, Daniel lo sapeva, era quello lo stile di quel vigliacco, ma allora cosa?
“Monsieur,” esclamò un uomo, afferrando le briglie del suo cavallo per permettergli di scendere dalla sella, “Vostra figlia, monsieur! Si è sentita male alcune ore fa!”
Daniel si sentì morire. Ogni organo all’interno del suo corpo si immobilizzò per un attimo prima di afflosciarsi dolorosamente, come avesse perso l’unico obiettivo che aveva per lavorare, e per un attimo l’Americano credette che sarebbe caduto lì, sotto gli occhi silenziosi di tutti, ma poi la parte più combattiva di lui riuscì ad emergere.
“Dov’è?!” esclamò, incapace di pensare a qualsiasi cosa non fosse una corsa forsennata verso la sua piccola.
L’uomo indicò il palazzo.
“Nelle stanze della castellana, monsieur: era il posto più vicino dove portarla!”
Daniel sarebbe scattato subito se non avesse sentito la domanda di Ian, che lo spinse a fermarsi per ascoltare la risposta.
“Che cosa le è successo?” chiedeva il suo fratello adottivo.
Il servo scosse la testa, ansante.
“Nessuno lo sa!” disse, spaventato, “All’improvviso ha urlato e ha iniziato a piangere sangue!”
A Daniel bastarono quelle parole per intuire cosa stesse succedendo.
Gli occhi…
Flash dell’operazione gli sfarfallarono nel campo visivo mentre si catapultava, correndo come un disperato, verso le stanze di Isabeau.
 
***
 
Alexandra urlò fino a sentire la propria gola lacerarsi e poi continuò. Strinse i pugni sulle lenzuola del letto, stritolandole per impedire alle proprie mani di cavarle gli occhi dalle orbite. La testa le esplodeva, era piena e gonfia di un dolore rovente e le pareva che tutti i nervi collegati agli occhi si stessero tendendo allo spasmo, sul punto di spezzarsi, per quel calore.
Il suo corpo si contorse quando singhiozzò.
Sentiva delle voci attorno a lei, ma non riusciva a concentrarvisi abbastanza da capire quello che stessero dicendo. Delle mani la toccavano, la tenevano ferma per evitare che si facesse male o le accarezzavano la testa per calmarla, ma lei non voleva e continuava a muoversi. L’unica cosa che le importava era scappare da quel dolore allucinante.
Portatemi via!, pensò, disperata, Portatemi via!
Qualcuno urlò il suo nome, qualcuno che ricordava e conosceva, e il suo corpo si tese d’istinto verso la voce di suo padre, anelando la protezione che lui le aveva sempre dato.
“Papà!” singhiozzò Alex, ma poi il dolore si acuì e lei strillò ancora.
Uno spasmo le scosse lo stomaco facendola vomitare per l’ennesima volta. E l’unica cosa che Alex riuscì a fare subito dopo fu urlare ancora.
 
***
 
Daniel spostò i capelli dal viso della figlia continuando a chiamarla ma lei non diede segno di averlo sentito e continuò a singhiozzare e urlare.
Qualcuno le aveva applicato delle bende attorno agli occhi, ma in prossimità dei bulbi oculari si erano già macchiate di sangue e delle linee rosse si erano seccate sulle guance della ragazza, giù fino al mento e poi sulle coperte del letto.
Daniel non riuscì a reggere.
“Cos’è?” urlò guardandosi attorno alla ricerca di qualcuno che potesse rispondergli.
Quando vide l’espressione cinerea di Donna, capì che qualsiasi cosa fosse, era sconosciuta al Medioevo.
Baciò rapidamente la tempia di Alex poi corse, ignorando i servi, verso l’attuale castellana di Sèour.
Donna, spostatasi accanto il muro all’arrivo di Daniel, aspettò che lui le fosse abbastanza vicino per sussurrare.
Isabeau lanciò un’occhiata ai due e comprese che il miracolo che le aveva portato Ian stava per colpire ancora, in qualche modo, per cui si voltò verso i servi e, con una scusa o con l’altra, li fece uscire tutti fino a che nella stanza non rimasero solo lei, Donna, Daniel e Jodie.
La rossa contessa le fece un cenno con il capo per ringraziarla e poi lasciò che fossero Jodie e la castellana di Montmayeur ad occuparsi di Alex poter concentrarsi solo su Daniel.
“Rigetto acuto.” disse, “Il suo sistema immunitario non riconosce gli occhi come parte di sé, ma li crede virus pericolosi e perciò li attacca tentando di distruggerli.”
“Non è possibile, sono passati giorni dall’operazione!” mormorò lui ma Donna scosse la testa.
“Un rigetto iperacuto avviene a poche ore dall’operazione, ma il rigetto acuto può avvenire anche dopo più di dieci giorni.” spiegò poi aggrottò la fronte, “Jodie ed io siamo sicure che sia così, Daniel. Alex deve tornare a casa e andare in ospedale. Subito.”
Daniel sbiancò, costringendosi a deglutire, e Donna fraintese.
“Inventerò io una scusa qui, posso farlo, tu pensa solo…” iniziò ma Daniel le afferrò un braccio per farla tacere.
“Donna, Hyperversum non risponde.” sussurrò, “Siamo bloccati qui.”
Non l’avesse mai detto…
 
***
 
Carl si sfilò i guanti e il visore con lentezza.
Era molto…irritato. Aveva pianificato tutto con attenzione, era sicuro di aver controllato tutto, ma qualcosa che non aveva previsto era intervenuto. La domanda era: cosa?
Chiuse la schermata del gioco e guardò il desktop, pensoso.
Qualcuno aveva interferito con il suo virus, era quella la variabile che lui non aveva considerato. Aveva ipotizzato che Martin Freeland potesse intervenire, ma da quanto aveva scoperto su di lui non lo aveva reputato in grado di trovare un modo per mettergli i bastoni tra le ruote.
Una cartella era rimpicciolita sulla barra e Carl aggrottò la fronte, non ricordando di averla aperta. Beh, certo, per lui erano passati giorni dall’ultima volta che aveva usato il computer, però quando la ripristinò si sentì nervoso. Era la cartella con le foto che aveva fatto ad Alexandra durante i suoi pedinamenti. Non la apriva da mesi, di questo era certo, quindi…che diavolo stava succedendo?
La porta alle sue spalle che si apriva lo fece voltare lentamente. Nel farlo, notò molti documenti per terra, come scagliati da qualcuno arrabbiato, ma tutti i pezzi combaciarono quando incrociò lo sguardo cupo di suo figlio.
Senza volerlo, iniziò a ridere e scosse la testa.
“Avrei dovuto immaginarlo…” commentò tra sé e sé poi rialzò gli occhi di Jas, “Beh? Che c’è?”
Jas non si mosse, rimase fermo con una mano sulla maniglia e l’altra attaccata allo stipite.
“Ci sono delle persone che ti cercano.” disse, apatico, ma Carl si accigliò lo stesso.
Nessuno lo cercava mai, era stato attento a che fosse così per evitare che qualcuno si accorgesse della sua sparizione mentre era nel medioevo e magari spegnesse il computer.
“Chi sono?” chiese, alzandosi in piedi con circospezione.
Jas scosse le spalle, riprendendo quel suo atteggiamento ostile che Carl detestava con tutto sé stesso.
“E io cosa ne so? Vogliono te, non me.” borbottò, raddrizzandosi appena.
Carl notò che la stazza di suo figlio gli occludeva la vista del corridoio, ma non se ne curò più di tanto. Il ragazzo era un armadio, copriva sempre la visuale di qualsiasi cosa.
Nonostante questo, percepì che c’era qualcosa di strano quando suo figlio non si mosse dalla porta finché lui non vi fu vicino. Sembrava che lo stesse controllando per impedirgli di fare retromarcia.
Carl si immobilizzò ad un passo dalla porta e guardò il volto del figlio con sospetto. In quel momento si accorse che lui era davvero l’unica incognita che non sapesse prevedere o intuire. Cosa c’era che non andava, in tutto quello?
“Cosa succede?” chiese di nuovo, sulla difensiva.
Jas sollevò un sopracciglio con superiorità.
“Succede che c’è gente, che io non conosco, che ti aspetta in cucina e tu ti sei appena pietrificato in mezzo alla tua cameretta dei giochi: devo preoccuparmi?”
Carl dovette trattenere l’impulso di tirargli un pugno. Quel ragazzo aveva la capacità di fargli sempre perdere la lucidità. Ed era anche più grosso di lui.
Irritato, Carl riprese a camminare e spintonò via Jas in malomodo per oltrepassarlo.
Ma si bloccò in mezzo al corridoio di fronte agli agenti che gli intimavano di alzare la mani e di rimanere fermo.
Era così sorpreso che li ignorò per voltarsi verso il figlio.
Jas non fece una piega, ma lo sostenne il suo sguardo.
“Figlio di puttana…” mormorò Carl, sconvolto dalla realtà della situazione che gli si parò davanti all’improvviso.
Jas fece un sorriso mesto.
“Sta’ tranquillo,” rispose mentre Carl sentiva gli agenti piegargli le braccia dietro la schiena per ammanettarlo, “lo sapevo già.”
 
***
 
Jas rimase a guardare la strada fino a che l’auto della polizia che lo aveva appena riportato a casa non fu sparita oltre l’angolo. Aveva messo in pausa il gioco, sia quello di suo padre che quello di Alex tramite suo zio Martin, e aveva passato parecchie ore a parlare con gli agenti e a dare la sua deposizione un migliaio di volte. Si erano decisi a lasciarlo tornare a casa solo quando suo padre aveva iniziato a sbraitare di Hyperversum, cercando di convincere gli agenti che un videogioco potesse portare le persone indietro di ottocento anni.
“Impossibile…” mormorò Jas tra sé e sé, sospirando, prima di voltarsi e decidersi a tornare dentro e a provare l’ultima carta.
Salì le scale lentamente e si sedette al computer di suo padre poi prese un respiro profondo. Dal momento in cui avesse tolto il gioco dalla modalità ‘Pausa’ il tempo avrebbe ripreso a scorrere per i giocatori e quindi doveva sbrigarsi a eliminare il virus ma essere assolutamente certo di averlo debellato prima di permettere a chiunque di correre rischi. Non aveva un’idea molto precisa di cosa stesse succedendo, ma Alex aveva parlato di ‘una questione di vita o di morte’ perciò si riteneva in diritto di presupporre il peggio.
Iniziò a lavorare al virus e ci rimase a combattere per ore prima di riuscire, finalmente, a renderlo inoffensivo. Tramite la connessione internet, cancellò il virus dal computer del signor Freeland quindi mandò a Martin Freeland un messaggio all’interno della Chat del gioco.
Alla fine, cliccò ‘Play’ sapendo che lo zio di Alex avrebbe fatto lo stesso.




Lo so, lo so, lo so, vi supplico, perdonatemi!
Se penso che io sono la prima a non sopportare chi aggiorna così quando capita -.- Va bene, ok, chiedo scusa ancora, però vi do una buona notizia: avendo io terminato entrambe le altre storie che sto pubblicando, potrò occuparmi molto più di questa storia e magari riuscire a finirla o quantomento a guadagnare tempo... Detto questo, vi lascio dopo questo capitolo che mi piace perché dà inizio a quella che io chiamo 'la seconda parte' ;)
A presto,
ciao ciao!
Agapanto Blu

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Capitolo 37
*** Il racconto di una vecchia storia ***







37. Il racconto di una vecchia storia

“Donna, Hyperversum non risponde.” sussurrò, “Siamo bloccati qui.”
Non l’avesse mai detto…
 
Nell’istante in cui Daniel terminò la frase, ci fu un flash luminoso che strappò un urlo spaventato ad Isabeau e Jodie. Daniel si voltò, sconvolto, per ritrovarsi davanti al viso una piccola, innocente, innocua mela rossa intenta a girare pigramente su se stessa.
Ma mi prendi per i fondelli?!
Daniel faticò a sopprimere l’impulso di aggredire la mela e ci riuscì solo perché ricordò che era impalpabile e non avrebbe toccato nulla. Meglio attendere di essere di nuovo a casa, controllare la custodia del gioco e poi andare ad fare un salutino all’ideatore di Hyperversum. Con una delle mazze di Martin.
“Credevo…” iniziò Donna ma Daniel le ringhiò contro.
“Sì, anche io!” sibilò, offeso, poi però fece correre lo sguardo verso Alex, “Non so cosa stia succedendo, Donna: se perdiamo questa occasione, potremmo non…”
“Non dirlo nemmeno!” Donna era così presa dal piano che stava progettando mentalmente per giustificare la sparizione degli altri che non ragionò e tirò una sberla a Daniel. Oh beh, pazienza, aveva la testa dura e sarebbe sopravvissuto. “Prendi Alex e Jodie e andate via da qui! Io ed Isabeau penseremo a tutto…” …in qualche modo.
Daniel corse al fianco della figlia e le prese una mano mentre lei ancora urlava per il dolore, la staccò a fatica dal lenzuolo e la portò verso la mela che lo aveva docilmente seguito verso il letto. Jodie si mise accanto a lui e allungò la mano a sua volta.
Quando incrociò lo sguardo di Isabeau, la donna annuì.
“Spiegherò io ad Ian la situazione.” lo rassicurò, “Andate.”
Daniel annuì e iniziò a scandire il codice per il salvataggio e l’uscita d’emergenza. A mano a mano che pronunciava cifre e lettere però notò che Isabeau stava sempre più sbiancando, il suo contegno che ancora veniva meno di fronte alla ‘magia’ straniera, e mentre ordinava al gioco di chiudersi non riuscì a fare a meno di chiedersi come la loro sparizione avrebbe peggiorato la situazione di Ian.
Poi fu la solita sensazione e i guanti sulle mani e il visore sulla testa.
Senza pensare ad altro, Daniel si strappò via gli arnesi di dosso e afferrò la figlia.
“Jodie, guidi tu.” ordinò sollevando la piccola Alex in agonia e ignorando totalmente suo fratello che li fissava sconvolto.
 
***
 
Martin avrebbe preferito vedere un esercito medioevale spuntare dal computer, piuttosto che ritrovarsi davanti sua nipote con il viso coperto di sangue. Stava per chiedere spiegazioni, ma la furia e la disperazione sul volto di suo fratello lo fecero tacere. Senza contare che Daniel permise a Jodie di guidare, cosa che non avrebbe mai fatto in una situazione normale che non comprendesse macchine da rally e una strada più che dritta e più che deserta.
“Fatemi sapere.” disse piano a Jodie mentre lei prendeva le chiavi dell’auto dal mobile accanto alla porta.
Lei annuì, gli gridò un mezzo ringraziamento e corse fuori.
Martin rimase a guardare, incerto, e per un po’ rimase fermo sulla porta a passarsi le mani tra i capelli, in ansia, fino a che non sentì qualcosa squillare in casa. Gli ci volle un attimo per capire che era il cellulare di Alex nello studio, ma quando lo prese e l’occhio gli cadde sul mittente non poté fare a meno di sospirare.
“Jas?” chiese, rispondendo.
Per un attimo il ragazzo non rispose, sorpreso, ma poi imprecò.
Non ha funzionato?!” chiese, “Com’è possibile?! Qui funziona!
“Ha funzionato, Jas. Sono tornati.” ammise Martin, cauto.
… Che cosa non ha funzionato, allora?” chiese il ragazzo dopo un secondo, “Perché qualcosa non ha funzionato per forza, altrimenti Alex mi avrebbe risposto.
“Non so cosa sia successo, ma quando sono arrivati qui Alex stava sanguinando. Daniel la sta portando all’ospedale dove l’hanno operata.” Attese un attimo, sperando di ricevere una qualsiasi risposta, ma sentì solo silenzio. “Jas? Jas mi senti?”
Tolse il cellulare dall’orecchio per controllare e scoprì, con sorpresa, che il ragazzo gli aveva riagganciato in faccia mentre parlava.
Forse non era stata poi così una bella idea avvisarlo…
 
***
 
Daniel si passò una mano sul viso e si lasciò cadere pesantemente su una delle sedie di plastica messe in fila contro un muro. Aveva la sensazione che il corridoio dove li avevano lasciati ad aspettare si stesse rinchiudendo su di loro, soffocandoli. Anzi, soffocando lui, perché Jodie non sembrava presa dalla sua stessa smania di fare avanti e indietro come un ossesso. Si prese la testa tra le mani e strinse i propri capelli con le dita fino a farsi male.
Signore, ti prego, non di nuovo… Non avrebbe retto un’altra volta l’angoscia dell’incidente, il sentirsi ripetere in continuazione che ci sarebbero volute ancora alcune ore prima che potessero dare un verdetto, prima che potessero dirgli se sua figlia sarebbe sopravvissuta. Passare la notte, all’epoca era stato quello il mantra che si era sentito ripetere fino alla nausea: deve passare la notte, se passa la notte allora è salva, bisogna vedere se passerà la notte… Dio, quanto aveva detestato quella notte. E anche dopo, per tre settimane si era svegliato dai suoi incubi per correre nella camera della figlia e controllare silenziosamente che respirasse ancora.
Rialzò la testa e si voltò verso Jodie, per chiederle…qualcosa, qualsiasi cosa che potesse spezzare il silenzio, ma prima che potesse aprire bocca lei, giratasi verso di lui in attesa della sua domanda, alzò gli occhi su qualcosa alle spalle di Daniel e la sua espressione apatica si trasformò in una di enorme sorpresa.
“Jas?” chiese, saltando in piedi, “Cosa ci fai qui?”
Daniel si voltò in tempo per vedere il migliore amico di Alex percorrere a grandi falcate il corridoio fino a raggiungerli. L’espressione sul suo viso era di totale angoscia.
“Come sta?” chiese.
Niente ‘cos’è successo?’, niente ‘dov’è?’. Jas non se ne rendeva nemmeno conto, ma aveva l’istinto di mettere sempre il bene di Alex al di sopra del resto. Cosa di cui Daniel era maledettamente grato.
Tuttavia, scrollò le spalle alla domanda del ragazzo, poi sospirò.
“È ancora in sala operatoria. Devono toglierle le cornee e impiantargliene delle altre, sperando che queste non causino di nuovo un rigetto.” spiegò, apatico.
Jas impallidì per un attimo, ma poi ritornò in sé. Annuì come se non fosse nulla poi incrociò lo sguardo di Daniel.
“Le dispiace se aspetto che finiscano?” chiese.
A Daniel scappò un piccolo e molto mesto sorriso mentre annuiva e si sedeva di nuovo, questa volta con Jas che lo imitava al suo fianco.
Sapeva bene che, anche una volta che i dottori avessero finito, Jas non si sarebbe mosso fino a che non avesse visto Alex di nuovo sveglia.
 
***
 
Donna de Sancerre si era sempre ritenuta una donna forte, cocciuta e tenace. Anche se l’esperienza del monastero aveva fatto vacillare le sue convinzioni, si era poi ripresa e aveva scelto di vivere per amore nel posto che le aveva portato tanti incubi. Ai suoi occhi, sebbene ancora non si fosse liberata di certi brutti sogni, era la prova che era ancora la stessa testarda capace di tutto, se convinta della necessità di questo. L’unica differenza: adesso era un po’ più saggia e un po’ meno frivola, ma non le dispiaceva più di tanto.
Pertanto, non si fermò nemmeno un istante di fronte alla porta del salone di Chatel-Argent, ma ne spalancò le porte prima ancora che le guardie potessero pensare di fermarla.
Luigi il Santo alzò su di lei uno sguardo confuso e forse anche seccato, prima di riportare i propri occhi ai documenti che aveva fatto posare sul tavolo del salone. Accanto a lui, Guillaume de Ponthieu sembrava rigido e teso mentre tutti gli altri nobili circondavano la tavolata sebbene ora fossero voltati verso la nuova arrivata.
Un’occhiata bastò a Donna per scoprire che Ian non era tra loro e dedurre, dall’espressione di Isabeau e dei suoi figli, che era stato nuovamente arrestato.
Ehi, HYP: ma lasciarlo un po’ in pace?, inviò sarcasticamente al gioco mentre continuava ad avvicinarsi ai nobili.
Si inchinò rapidamente, salutando il sovrano, poi attese che quello le desse la parola. Il re continuò a leggere le pergamene, apparentemente senza intenzione di ascoltarla. Donna si costrinse ad attendere però, quando Luigi spostò un foglio e lei riuscì a intravedere una figura disegnata e il nome Jean de Ponthieu, un brivido le corse lungo la schiena. Dovevano essere le prove della colpevolezza di Ian portate da Dammartin.
“Monsieur Daniel e la sua famiglia hanno lasciato il palazzo.” disse, gettando fuori l’unica notizia che sperava attirasse Luigi più del ‘caso Ian’.
Il sovrano, in effetti, sollevò la testa di scatto.
“Che cosa?!” chiese.
“La giovane Alexandra ha contratto un morbo molto raro, probabilmente prima di venire qui.” spiegò Donna, sforzandosi di mentire con tranquillità, “La malattia ha iniziato a consumarla solo ora, ma nelle isole di Monsieur Daniel cresce una pianta che può curarla. Essendo l’unico farmaco conosciuto che possa salvare la vita di madmoiselle Freeland, sono partiti nella speranza di raggiungere casa prima che per lei sia troppo tardi.”
Non erano tutte bugie e Donna non si sentì in colpa nel riferirle. Luigi, tuttavia, aggrottò la fronte.
“Credevo il viaggio fosse molto lungo.” commentò.
“Per questo ho pensato fosse meglio farli partire e occuparmi io di riferire a vostra maestà la situazione.” replicò, al limite della maleducazione, Donna, con un piccolo inchino.
Luigi la fissò in modo strano, tanto che lei non era sicura non stesse semplicemente pensando di sbatterla in una cella, ma poi tornò ai suoi fogli annuendo tra sé e sé.
“Pregherò perché si salvi.” rispose solo, asciutto, senza più guardarla.
Donna sentì il forte impulso di tirare uno schiaffo al ragazzino, ma si trattenne.
“Sire, se posso, credo…”
“Madame,” la interruppe lui, “ci sono questioni che richiedono la precedenza su altre.”
Quello fu il pungolo che fece imbizzarrire il carattere fremente di Donna, la quale perse ogni remora e sollevò il mento.
“Monsieur Daniel è il fratello di Monsieur Ian.” sibilò, prima di dare le spalle alla tavolata di nobili che in quel momento le stavano sull’anima e avviarsi alla porta senza preoccuparsi dell’effetto della bomba che aveva appena gettato.
Non fece nemmeno metà corridoio prima che Luigi si riprendesse abbastanza da richiamarla.
Donna si concesse un mezzo sorriso prima di voltarsi di nuovo verso il sovrano.
“Sire?” chiese, apparentemente calma.
Sentiva l’occhiata ansiosa di Guillaume perforarle la testa e quella arrabbiata, chissà perché, di Etienne incenerirla dalla punta dei piedi a quella dei capelli. Oh, pace, sarebbe sopravvissuta.
Luigi sembrava seccato, ma le fece gesto con il braccio di avvicinarsi alla tavola e di sedere su uno scranno. Chissà perché, mentre obbediva Donna ebbe un flash di una moderna sala interrogatori, di quelle che vedeva nei telefilm gialli.
“Voi come lo sapreste?” chiese Luigi sollevando un sopracciglio con fare scettico.
Donna, però, non era intenzionata a giocare con regole che non fossero le sue.
“Vi faccio una richiesta, Sire.” disse, seria, “Ascoltate il mio racconto fino alla fine, permettetemi di mostrarvi come realmente siano andate le cose e dopo decidete cosa fare. Tanti nomi sono più o meno legati a quello di Ian Maayrkas: promettetemi che non ci saranno conseguenze per coloro di cui vi parlerò. Se deciderete che ci sono dei colpevoli, vi rifarete solo ed esclusivamente su me ed Ian, nessun altro.”
Luigi sembrò sgomento dal fatto che una donna gli stesse dettando delle condizioni, ma la cara vecchia Barrat era tornata e decisa a mettere sotto le proprie splendide scarpe con tacco a spillo i pregiudizi medioevali. Non avrebbe deciso lei della vita di Ponthieu, Isabeau o Martewall, ma non sarebbe rimasta a guardare mentre Ian veniva ammazzato per qualcosa che non aveva fatto.
“Per quale motivo dovrei risparmiare chi manda avanti una donna?” ribatté Luigi, fissandola torvo.
Ragazzino: corona o no, sono molto più vecchia di te quindi non provarci.
“Perché Ian ha fatto giurare loro di non dirvi la verità” rivelò, tranquilla, scrollando le spalle, “e per tanto essi non hanno colpe. Dunque?”
Poteva vedere la lotta nelle iridi di Luigi, la rabbia del doversi piegare e la smania di sapere la verità. Alla fine, sospirò.
“Ebbene, davanti ai miei nobili, avete la mia parola.” cedette.
Nonostante il momento, Donna sorrise mentre chinava il capo in segno di ringraziamento, un attimo prima di rialzarlo e fissare il sovrano dritto negli occhi.
“Innanzitutto, Sire, dovete sapere che io, Daniel, Ian, Jodie e Martin veniamo da alcune isole oltre la Scozia.” Donna si contrò, cercò di ricordare ogni singola menzogna usata e di aggiustare quanti più dettagli possibili: quella era la loro ultima versione e non avrebbero mai più potuto cambiarla. “I genitori di Ian morirono che lui era un ragazzino” sedici anni nel medioevo non sarebbero corrisposti ad ‘un ragazzino’, ma in fondo nessuno la obbligava a specificare, “e il padre di Daniel e Martin scelse di prenderlo con sé. Dunque dovete perdonarmi se non sono stata totalmente onesta: più che fratelli, sono fratellastri.” Luigi le fece un cenno che significava il suo disinteresse nei dettagli e la incitò a continuare. “Anni fa, conobbi Jodie e Daniel e, per motivi di studio, partii con loro e Ian e Martin per un viaggio in mare che ci avrebbe dovuto portare nel Mediterraneo, sulle coste greche.” Tanto, menzogna più, menzogna meno. “Purtroppo una tormenta distrusse la nostra nave, ci divise e ci lasciò sulle coste di Fiandra. Ian, Daniel, Jodie e Martin vi arrivarono prima di me… e di Carl, all’epoca un compagno.” Si aspettava di tutto dopo quella rivelazione, invece Luigi rimase silenzioso, a dispetto dello sguardo acceso dei suoi occhi, e le permise di continuare.
Da quel punto in poi, Donna mentì assai poco. Raccontò con serietà di come gli altri fossero arrivati a Cairs, del supplizio di Ian per proteggere una popolana sconosciuta, della loro fuga nei boschi e poi della rivelazione: la contadina era Isabeau. Luigi guardò con sgomento la castellana, ma quella sostenne lo sguardo con serietà e ostinazione, costringendo il sovrano a far proseguire Donna. Un po’ più dura fu la sua reazione allo scoprire che Guillaume era stato preso in un tale gioco di maschere, ma anche il nobile non si mostrò imbarazzato dalla menzogna.
“Ho mentito al mondo, sire,” disse serio, “ma non al mio re.”
Aggrappandosi all’appoggio del conte, Donna raccontò di come si fosse svolto l’agguato a Couronne, del tradimento del vero Jean e della fuga fino a Béarne solo per scoprire che lo stratagemma usato per scappare si era stretto alla gola di Ian come un cappio, senza lasciargli via di scampo. La rivelazione della complicità di Filippo Augusto nel gioco di maschere scioccò l’intera corte.
“Mentite!” esclamò Luigi, sconvolto, ma Donna gli lesse negli occhi che stava pensando seriamente alla possibilità e lo incalzò.
“Pensate davvero che queste bugie avrebbero retto davanti a qualcuno se vostro nonno non ne fosse stato a conoscenza?” lo mise a tacere, “Sua fu l’idea di far sposare Ian ed Isabeau per mettere al sicuro il casato!”
Donna non si fermò più. Continuò a raccontare ciò che era successo, a Ian o a lei, ed esitò solo un attimo nell’assestare le bugie riguardanti Dunchester e la sparizione di Daniel, ma poi riprese a raccontare della storia dietro Pienne e Gant, senza tacere la lite tra Guillaume e Ian, ma adducendo come scusa di essa un litigio sul defunto Jean de Ponthieu.
Quando ebbe finito, si sentì stranamente vuota. Quel segreto da custodire non c’era più e ora tutto stava nelle mani di un ragazzino di diciannove anni con un regno sulle spalle.
HYP, se metti le mani anche qui e ci tiri addosso anche solo un minuscolo problema, troverò il modo per tornare nel presente e dare fuoco ai circuiti del tuo computer, sciogliere i tuoi CD e distruggere a mazzate i tuoi visori, chiaro il concetto?
Chissà perché, non si sentiva comunque tranquilla.




Avete presente Pena e Panico di Hercules, il cartone della Disney? Ecco, anche io mi sento un "verme verminoso" perché vi faccio aspettare così alla cieca. Scusatemi!
Sono un po' di corsa quindi scappo, ma spero vi continui a piacere questa storia!
A presto,
ciao ciao! ;)
Agapanto Blu

 

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Capitolo 38
*** È tutto chiaro? ***







38. È tutto chiaro?
 

Nel momento in cui Daniel si avvicinò a Jas, seppe che qualsiasi cosa ne avrebbe cavato fuori non sarebbe stata buona. Innanzitutto, Alex lo avrebbe fatto a pezzi per aver messo sotto torchio il suo migliore amico; poi Ian lo avrebbe sminuzzato per aver rischiato di rivelare (o direttamente rivelato) la verità su HYP a qualcun altro.
Ovviamente, se entrambi sopravvivranno abbastanza a lungo da farlo., si ritrovò a pensare, ma poi scosse la testa.
Raddrizzò lo sguardo e incrociò quello verde e maledettamente consapevole dell’amico di sua figlia.
Jas annuì, come se si fosse aspettato la chiacchierata che stava per avvenire, quindi scoccò un’occhiata alla porta della stanza dove avevano portato Alex a termine dell’operazione e sospirò.
“Tanto ci vorranno ancora un paio d’ore prima che l’anestesia finisca il suo effetto…” mormorò Daniel, ripetendo a pappagallo le parole del chirurgo, ma omettendo l’ultima parte, perché non necessaria.
Le parole “…solo allora potremo dire quali saranno le conseguenze della crisi.” aspettavano con loro sin da quando erano state pronunciate la prima volta.
Jas si alzò e, silenzioso, seguì Daniel nel corridoio che collegava il reparto di chirurgia con quello di pediatria. Corridoio rosa, come attestavano le pareti. Daniel si sentiva soffocare, in quel cemento mascherato da confetto, ma si costrinse a non farlo vedere e si voltò. Lui e Jas rimasero l’uno di fronte all’altro per un attimo, studiandosi, ognuno chiedendosi come iniziare e cosa l’altro sapesse. Alla fine, Jas decise che non era nella condizione di pretendere troppo.
“Signor Freeland, seriamente:” esordì, sul viso un’espressione cupa, “mio padre sta venendo internato o arrestato proprio in questo momento, mia madre era una drogata. Se anche non ci fossero questi presupposti e io andassi in giro a raccontare che la mia migliore amica se ne va a fare delle grandi scampagnate di famiglia ottocento anni nel passato per andare a salutare allegramente uno zio archeologo che per un motivo a me sconosciuto è rimasto di là, non penso mi crederebbero in molti, non è d’accordo?”
Daniel tacque per un attimo. Il ragazzo sapeva più di quanto lui avesse immaginato.
“Ho trovato per pura combinazione il nome del personaggio del dottor Maayrkas nei dati della partita mentre svisceravo il virus di mio padre,” ammise il ragazzo, forse leggendogli in faccia la realtà, “poi ho visto i personaggi di lei e sua moglie muoversi nonostante i visori fossero inutilizzati e infine l’avatar di sua figlia iniziare a fare lo stesso. Ho fatto alcune ricerche e per il resto credo che mio padre mi abbia fatto sbattere la testa contro qualcosa quando ero piccolo, è l’unica spiegazione che riesco a darmi per il fatto che credo realmente a questa favoletta inquietante.”
Un sorriso mesto riuscì a prendere possesso delle labbra di Daniel, che annuì mesto.
“Già, probabilmente l’ha fatto anche il mio.” mormorò.
Jas lo fissò, come chiedendosi cosa fare, ma alla fine prese coraggio.
“Alex le ha detto chi è mio padre, vero?” chiese piano.
Daniel annuì, il petto strattonato in due direzioni diverse dalla propria rabbia e dalla consapevolezza che Jas non c’entrava nulla.
“Per quello che vale,” mormorò il ragazzo, “credo riusciranno ad incastrarlo per l’incidente stradale. Non è molto, ma meglio di niente. Non credo convenga a qualcuno provare a farlo accusare di tentato omicidio plurimo su suolo francese…”
“…e in età monarchica.” completò Daniel con un sospiro. Alla fine annuì e guardò Jas, ma il ragazzo si limitò ad annuire, tra sé e sé come perso dietro a qualche pensiero tutto suo, e poi a voltarsi per tornare a fare buona guardia alla sua amica.
Non ho idea di cosa vi abbia legati così tanto, pensò Daniel guardandolo andarsene, ma Alex si è aggrappata a te tante volte, perciò grazie.
 
***
 
Ian sbatté le palpebre un paio di volte, sgomento, quindi provò a dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma si ritrovò a boccheggiare silenziosamente.
Donna, che cosa hai fatto?!
Lanciò un’occhiata sgomenta alla nobildonna in questione, ma questa sbuffò piano, le braccia incrociate al petto e il mento sollevato mentre, dalla sua posizione alla destra del marito, sosteneva le occhiate di fuoco del sovrano senza scomporsi minimamente.
“Dunque, Monsieur Ian?” incalzò Luigi, palesemente irritato, “Siete sempre stato un ottimo diplomatico e ora avete perso la lingua?”
“Non…” Ian si fermò, incapace di continuare.
Si era aspettato i due soldati che lo erano andati a prendere nella sua cella, così come si era aspettato di venire portato in catene nel salone di fronte alla corte, ma non si era certo aspettato che Donna avesse letteralmente raccontato tutto e che il sovrano lo avesse fatto chiamare solo per sentire la sua versione e vedere se questa combaciasse con quella della contessa de Sancerre.
“Badate” aveva detto Luigi, “se un solo particolare non combacerà, manderò entrambi sulla forca senza rimorsi di coscienza.”
E io adesso cosa faccio?!
Ian guardò di nuovo Donna sperando in un indizio, un aiuto, un qualcosa, ma lei se ne stava ferma, tranquilla, e con lo sguardo lo incoraggiava a parlare.
Ma non poteva aver detto la verità, avrebbe dovuto tirare in mezzo anche Guillaume, Isabeau, Martewall, Filippo Augusto! Non lo aveva fatto, vero? Vero?
“La verità, Ian.” mormorò Isabeau in quel momento, attirando gli sguardi su di sé, “Solo quella.”
L’americano sostenne per un minuto lungo una vita gli occhi da cerbiatto della moglie, di un castano liquido e morbido che scaldava più del fuoco di un camino.
Quindi sospirò e si decise.
“Eravamo su una nave, io con monsieur Daniel, madame Jodie, Martin, madame Donna e Carl White…” esordì, serio.
 
***
 
Quando Alex aprì gli occhi e vide solo nero, non si sorprese più di tanto. La sorpresero, invece, i suoni di macchinari alla sua destra, il respiro pesante e cadenzato -come l’eco di un russare- che somigliava moltissimo a quello di suo padre quando si addormentava in una posizione scomoda e la voce bassa di sua madre in lontananza. Poi quell’odore che la portava con la mente alle ore seduta nell’auto di Jas, la sera tardi quando tornava a casa dall’allenamento di scrima ma non aveva voglia di rientrare e allora rimaneva lì, accoccolata sul sedile del passeggero, ad ascoltare la voce del suo amico, a rivelargli quei piccoli segreti che non avrebbe affidato neppure ad un diario ma che sapeva erano al sicuro in quell’abitacolo. Era un misto di libri vecchi, quelli che Jas andava a scovare nelle biblioteche per le sue ricerche, e del caffè nero di lui e del cappuccino al caramello di lei presi dallo Starbucks accanto alla palestra, tutto con quella strana nota di limone e cannella che era di una pelle sola.
“Jas…?” cercò di parlare piano, per non svegliare l’addormentato che probabilmente era suo padre, ma la sua voce uscì tanto bassa che lei stessa la udì e riconobbe a malapena, visti i tremori.
“Qui.”
Una parola che cambiò tutto. Alex sorrise appena perché i muscoli del viso le facevano male, ma piegò la testa sul lato del cuscino, verso la voce dell’amico, e mosse un po’ le dita perché questi capisse che voleva sentirsele stringere. Jas le prese subito gentilmente la mano tra le sue, quindi iniziò a muovere il pollice sul suo dorso, facendola sorridere perché era il suo modo inconscio di ammettere quanto si fosse preoccupato. Non l’avrebbe mai detto a voce, ma senza volerlo le teneva sempre la mano a quel modo dopo che lei aveva fatto una delle sue sciocchezze o aveva terminato un incontro. Alex non aveva bisogno di vederlo per conoscerlo come le proprie tasche.
“Dove sono?” gli sussurrò.
“In ospedale, zuccona.” La voce di Jas era calda, ma tradiva un po’ di irritazione per la sconsideratezza dell’amica. “Hai avuto una crisi di rigetto, le cornee che ti avevano messo si sono rivelate incompatibili, perciò ti hanno operata di nuovo. Come ti senti?”
“Cieca” rispose Alex, poi però sorrise, “ma ancora viva. Immagino di doverne essere felice, eh?”
“Non scherzare. Ti sei messa deliberatamente in pericolo, lo sai, vero? Se mio padre non fosse tornato nel presente, avrebbe potuto farti succedere qualsiasi cosa mentre eri in quel videogioco! Una volta capito che c’era qualcosa che non andava, non saresti dovuta rientrare!”
Alex sbuffò. Non la sorprendeva più di tanto sapere che il suo amico aveva messo insieme un po’ di pezzi, anche se forse non tutti, ma ancora meno la sorprendeva quella ramanzina. Ormai aveva fatto il callo alle strigliate del suo maestro.
Sentì chiaramente l’aria entrare rapida nella bocca di Jas mentre questi si preparava a ricominciare a sgridarla, ma prima che questi potesse farlo il respiro di Daniel cambiò il proprio ritmo, divenne più silenzioso, e Alex sentì suo padre borbottare qualcosa mentre si tirava a sedere facendo cigolare la sedia di plastica su cui doveva essere seduto.
“C’è qualche novità?” lo sentì chiedere a Jas, ma prima che il suo amico rispondesse, Alex lo precedette.
“Papà…” La sua voce tremò pericolosamente e non solo per la debolezza dell’operazione appena affrontata. Per alcuni terribili momenti, al castello, aveva avuto paura di non rivederlo più, che qualcosa andasse storto e che quei Derangale e Gant oppure Carl gli facessero del male. Aveva avuto paura che per colpa di quel viaggio improvvisato per lei suo padre non tornasse più e ora invece era lì…, “Papà…”
Non sarebbe riuscita ad aggiungere altro neppure se le parole ci fossero state. Daniel si gettò a stringerla senza lasciarla finire e la abbracciò e baciò senza sosta, continuando a ripetere il suo nome, fino a quando anche Jodie, di ritorno dalla sua litigata di sfogo con il chirurgo, non pretese la sua parte di figlia.
 
***
 
Jas aspettò che Daniel e Jodie avessero chiuso la porta, diretti l’uno a parlare con un medico per ottenere altri antidolorifici per la figlia e l’altra a chiamare i parenti per avvisare dello scampato pericolo, quindi prese di nuovo la mano di Alex.
“Sicura di stare bene?” le chiese.
Alex fece una smorfia.
“Gli occhi mi stanno uccidendo, ma credo che sia normale…” ammise.
Jas annuì, continuando a muovere il pollice sul dorso della mano dell’amica, quindi sospirò.
“Lo sai che sei praticamente la mia sorellina adottiva, vero?” le chiese a bruciapelo. Alex sembrò sorpresa, ma dopo un attimo annuì. “E allora non farmi mai più una cosa del genere: se c’è qualcosa che non va, mi chiami e me lo dici prima di infilarti in un casino medioevale dal quale non ho idea di come tirarti fuori, ok?!”
Alex non poté trattenere un sorriso, però giurò solennemente di fare la brava e questo sembrò tranquillizzare un po’ Jas. Dopo un attimo, alla ragazza tornò in mente una cosa.
“Jas, tu sei esperto di Medioevo?” chiese.
Il ragazzo emise un verso di disappunto, probabilmente irritato dalla sola idea del periodo storico che per poco non si era inghiottito la sua amica, ma borbottò un ‘sì’.
“Jas?” chiese Alex a tradimento.
“Sì?”
“Se…” Alex esitò, ma ormai era dentro quindi decise di giocarsela. Suo padre ed Ian l’avrebbero uccisa, ma ormai aveva scelto. “Se io ti procurassi un codice medievale, abbastanza antico, tu potresti tradurlo per me?”
Jas aggrottò la fronte per la domanda inattesa. Dopo un attimo, comunque, scrollò le spalle: con Alex nulla era mai scontato.
“Non so. Se parli del periodo dove sei stata tu, allora potrei farcela, ma mi ci vorrebbe un po’… E poi bisogna vedere le condizioni della pergamena… Comunque posso dare un’occhiata, se ci tieni.”
Alex sorrise e annuì.
“Sì, per favore…”mormorò solo, poi rimase in silenzio per un lungo momento, cosa che da sola bastò a mettere Jas sul chi vive -Alex non taceva mai-. Dopo parecchi secondi, gli chiese di andarle a prendere dell’acqua.
Jas esitò. Si alzò in piedi, raggiunse la porta e uscì, ma poi si fermò per un attimo a controllare dal vetro di cui era fatta la parte alta di questa.
Alex aspettò un secondo, poi però iniziò a singhiozzare sommessamente.
Perché, nonostante non condividesse con lui neanche un gene, aveva finito per fare lo stesso errore di suo zio Ian: innamorarsi di un medioevale.
 
***
 
Luigi puntò lo sguardo sui suoi uomini che portavano i prigionieri in catene nelle segrete. Hugues, vecchio conestabile di Chatel-Argent, era stato scoperto complice di Derangale e Gant e ora stava indicando tutti gli uomini che aveva coinvolto nel piano.
La sala alle spalle del sovrano era silenziosa. Il racconto di Ian Maayrkas, per quanto esitante e pieno di occhiate dubbiose rivolte ai complici del gioco di maschere, si era rivelato maledettamente uguale a quello di Donna.
“Monsieur Ian” disse, apatico, “voi avete scoperto che uno dei vostri uomini vi tradiva e che dei nemici della Francia stavano organizzando una congiura per rapire sua Maestà la principessa Margherita.” Ian sobbalzò, ma il sovrano continuò a parlare. “Questi criminali hanno tentato di far ricadere su di voi la colpa di un tradimento, ma voi mi avete portato prove della vostra innocenza. Con il consiglio di pochi uomini fidati, è stata una mia decisione fingere di credere ai vostri accusatori per far uscire allo scoperto i veri colpevoli, mentre il figlio maggiore di Sir Martewall si occupava dei rapitori della principessa Margherita. Ora che tutti i responsabili sono stati catturati, non è più necessario che voi fingiate di essere colpevole di una storia così assurda come quella che vi accusa di essere un qualche bandito. È tutto chiaro?”
Isabeau si lasciò sfuggire un singulto e si voltò a fissare il marito, ma nemmeno Ian era sicuro di aver compreso bene.
Luigi si voltò verso l’interno della sala, dando le spalle alla finestra, e fissò l’americano con espressione gelida.
“È tutto chiaro,” ripeté, “Monsieur Jean Marc de Ponthieu?”
Per un attimo le labbra di Ian si schiusero a vuoto, senza che una parola riuscisse ad uscire, ma gli occhi del sovrano erano più espliciti di qualsiasi altro ordine e così l’uomo deglutì e annuì.
“Certo, vostra maestà.” rispose, serio.
“Bene,” disse Luigi poi sospirò sedendosi sullo scranno e massaggiandosi la fronte con una mano, “e ora qualcuno mi porti del vino.”
 
***
 
“Sì, sì, sì, è sveglia, sì!” ripeté Martin per l’ennesima volta, sbuffando mentre si infilava il giacchetto con una mano sola, l’altra saldamente aggrappata al cellulare, “Sì, mamma, ti dico che sta bene! No, papà non può guidare e tu lo sai benissimo che non ci vede niente! Sto andando in ospedale io, tu non ti preoccupare!”
Mentre usciva dallo studio di Daniel, Martin Freeland afferrò la propria sciarpa senza badare troppo al fatto che su questa fosse appoggiato il portamatite di suo fratello.
Il bicchiere si rovesciò mentre il ragazzo usciva dalla stanza e si chiudeva la porta alle spalle, lasciando il computer acceso per essere certi che non capitasse nulla ad Ian al di là dello schermo.
Una penna nera rimbalzò pigramente sul tasto Y della tastiera e poi cadde sul pavimento, beatamente ignara di ciò che aveva appena commesso.
Hyperversum emise un contento ‘bling!’ prima di mostrare una mela blu di caricamento.
 
***
 
Hyperversum
“HYP Multiplayer Week Festival”
 
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Non ho scuse e lo so, quindi non ne userò. Ho avuto problemi di recente, ma se non ho scritto è stata tutta colpa mia.
Se nessuno sta più seguendo questa storia, lo capisco perfettamente e purtroppo non sono qui per dire che d'ora in poi aggiornerò più spesso o con regolarità. La verità è che non lo so.
Quello che so e che continuo a dire è che non abbandono questa storia. Non lo farò.
Grazie per quelli che hanno aspettato, scusate voi che non l'avete fatto.
A presto,
Agapanto Blu

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