Regards from Hell

di Amaya Lee
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I, Sundown ***
Capitolo 3: *** II, Origin ***
Capitolo 4: *** III, Purple Shades ***
Capitolo 5: *** IV, Convulsion ***
Capitolo 6: *** V, Echo ***
Capitolo 7: *** VI, First Nightmare ***
Capitolo 8: *** VII, Closed Doors ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




Prologo

 




A me la vendetta e la retribuzione,
quando il loro piede vacillerà.
Poiché il giorno della sventura è vicino,
e ciò che li aspetta non tarderà.

Deuteronomio; Antico Testamento

 

 










 

La donna misurava ogni passo con estrema e controllata lentezza, lasciando dietro di sé una scia di impronte nella neve fresca. La cappa color inchiostro, abbottonata fino al collo, rimaneva inviolata dalla purezza dei fiocchi di neve, che neppure sfioravano il tessuto. Persino le lunghe ciocche di capelli scuri che sporgevano dal cappuccio, il quale copriva perfino gli occhi della dama che avanzava, emergevano nel paesaggio completamente bianco. Nemmeno l'ombra di un fiocco di neve osava adagiarsi sull'inquietante figura.

Essa procedeva sulla sua strada, imperturbabile, e senza esitazione.

Quel suo camminare, ricordava vagamente il movimento regolare del pendolo di un orologio. Nessuno può fermarlo, poiché nessuno è in grado di fermare il tempo.

Accade, di tanto in tanto, che gli eventi siano incerti e non vengano preannunciati, e che il cammino, ignoto al viandante, sia estremamente confuso, come lo era quella strada di campagna ricoperta da un manto indistinto di neve. Fortunatamente, quella candida notte, non passavano carrozze da quelle parti, altrimenti avrebbero di certo smarrito la via.
I lembi della strada non si distinguevano dal resto dei campi, e non c'era nulla a delineare il percorso. Eppure la donna proseguiva sicura, come se la via fosse lampante sotto i suoi occhi.
Chiunque l'avesse vista avrebbe pensato che fosse una strega, nonostante fosse risaputo da ormai molto tempo che le streghe non esistessero. Erano solo dicerie, leggende, baggianate plasmate dalla mente delle madri per spaventare i bambini e convincerli a mangiare la minestra.

La verità, in questo caso, non è una sola, ed attinge dalla menzogna.

Prima verità: la donna non era affatto una strega. Seconda verità: ogni leggenda, senza eccezione, nasconde una minuscola e indecifrabile parte di realtà. Terza verità, e forse la più importante: la parte riguardante la donna nella neve era, senza alcun dubbio, terribilmente oscura.

Nei dintorni non c'era nessuno a testimoniare la lenta avanzata di quella creatura, fonte delle più antiche voci, matrice dei temibili incubi che popolavano i sonni degli uomini fin da tempi remotissimi.

Il tempo trascorreva incessantemente, e il vento si liberò dalle membra dei monti. Non un solo refolo si azzardò a sfiorare la Dama, che era ormai giunta a destinazione.

Persino il vento portava rigorosamente rispetto per lei, come la neve.

La donna si fermò di fronte all'edificio in rovina. Le imposte erano tutte chiuse, e dei battenti avevano sbarrato la porta, che però con il passare delle stagioni, a causa del caldo e del freddo che spesso si alternavano nella valle, era marcita. Il complesso, che sorgeva solitario in quella vasta campagna, isolato dai paesi e dai borghi vicini, cadeva a pezzi.

Sforzando un po' gli occhi, e con un pizzico di intuito, si poteva ancora leggere l'insegna posizionata sopra il portone principale.

Istituto Psichiatrico Murakomi.

Quattro piani, in totale settantatré stanze. Robusti muri portanti, che racchiudevano gelosamente l'eco delle grida di centinaia di pazienti. Il personale era composto solamente da donne, per la maggior parte giovani, e provenivano tutte dalla parte emarginata e svantaggiata della popolazione, quella per cui i ricchi fingono di mostrare compassione.

Le famiglie della gran parte di quelle ragazze erano state importunate dall'egoismo dell'aristocrazia, che si riempiva le tasche grazie alla loro fame. Per quelle poverette non era rimasta altra possibilità che spostarsi in quel manicomio fuori dal mondo, sudando per guadagnare il minimo indispensabile per la sopravvivenza. Le visite dai familiari dei ricoverati erano ammesse solamente due volte l'anno, in estate e in inverno, ma solitamente non si presentava nessuno.

Poi l'ospedale fu chiuso per mancanza di fondi, i pazienti ricoverati erano stati cacciati, e la stessa cosa valeva per le infermiere. Chi aveva una casa alla quale fare ritorno poteva ritenersi molto fortunato. Chi non ce l'aveva diventava vagabondo, e viaggiava per il paese in cerca d'asilo. Oppure, più semplicemente, moriva.

L'istituto Murakomi aveva smesso di esistere da un giorno all'altro, ne rimaneva soltanto lo spettro. Un fragile scheletro, privato di tutto, che non valeva nemmeno la pena togliere di mezzo.

Nessuno lo ricordava con piacere, nei paesi vicini. Le terapie a cui i pazienti erano sottoposti venivano considerate brutalità immani, disumane, delle quali soltanto parlare era vietato. La vera tortura, alla quale nessuno faceva caso, era la mancanza di un tetto, l'improvvisa vulnerabilità a cui moltissime persone erano state esposte di punto in bianco.

Malcontento, sofferenza e subordinazione. Queste erano le basi del desiderio di vendetta, qualcosa di cui quell'edificio pericolante era pregno.

Sulle labbra della donna si disegnò un sorriso folle.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La piccola bionda scese velocemente i gradini della chiesa, le cui guglie svettavano nel cielo tinto d'azzurro, senza nemmeno una nuvola. Si apprestava ad essere una giornata meravigliosamente serena.

“Arashi-chan!” chiamò, rivolgendosi ad una bambina dai capelli color della notte, e incrociando i suoi occhi verde smeraldo, che brillavano come giada sul fondo di un fiume.

La mora era rimasta indietro, ostacolata dalle scarpine eleganti che calzavano i minuscoli piedini, e dal vestito svolazzante che i suoi genitori l'avevano obbligata con la forza ad indossare.

La bionda era stata più fortunata, quella domenica. Infilata comodamente nei suoi pantaloncini e nelle scarpe con i lacci, provava una punta di compassione per l'amica.

“Umiko-chan! Aspettami!” urlò la mora, agitando la folta chioma di riccioli e rovinando l'accurata acconciatura che la madre le aveva preparato.

Ma la celebrazione era terminata, perciò non c'era problema.

La bionda mostrò un sorriso sdentato, scuotendo i codini biondi. “Prendimi!”

Divertita da quel gioco, la piccola non si voltò verso la strada alla quale stava correndo incontro, e non si accorse dell'automobile proprio in quel momento svoltava la curva.

La mora non scordò mai gli istanti che seguirono, e le immagini che si impressero come un marchio nei suoi occhi verdi e nella sua giovane mente.
L'espressione di sorpresa dell'amica. Il suono esplosivo di un clacson. Il rumore di una frenata, di un urto violento, di una lacerazione. E poi la macchia rossa che si espandeva sull'asfalto, l'orrore sui volti dei passanti, lucenti capelli biondi sparsi qua e là. Le urla di una bambina.

Arashi Hisoka, più tardi, si rese conto che quelle grida agghiaccianti appartenevano a lei. 



















Nota Dell'Autrice:
Salve! Questa è la mia prima long (e il mio primo lavoro) nel fandom di Diabolik Lovers, perciò probabilmente non mi conoscete. Mi chiamo Nicole, e vi informo che ho visto solo l'anime, per ora, ma sicuramente mi informerò anche sul videogioco, perché mi ha preso davvero tanto :)
Detto questo, sono davvero contenta di scrivere in questa sezione, perché sono davvero ispirata per la storia e spero la apprezziate con il susseguirsi dei capitoli.
Vi ho già annoiati troppo con questo intervento, perciò concludo chiedendovi di lasciare una recensione, anche breve, per comunicarmi che ne pensate del Prologo. Infondo non fa male a nessuno♥
Un bacio e a presto, 
Nico

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Capitolo 2
*** I, Sundown ***


 

I

Sundown



 




 

Essere immortale è cosa da poco.
Tranne l'uomo, tutte le creature lo sono, giacché ignorano la morte:
la cosa divina, terribile, incomprensibile, è sapersi immortali.

Jorge Luis Borges

 












 

Nessuno può fermare il tempo. Riavvolgerlo ed immaginare ciò che sarebbe stato è possibile solo nella propria mente, tuttavia è inutile.

Rimpiangere l'immutabile scorrere degli eventi è facile, come starsene semplicemente a guardare.
In definitiva, partecipare attivamente alla propria vita è una delle imprese più ardue dell'uomo, ciò a cui tutti aspirano e che molti si convincono di fare, ingannando loro stessi. Ma il tempo, il tempo è il nostro vero padrone.

Esso non aspetta, non perdona, non giustifica, e sfibra le nostre vite una ad una, finché di noi non rimangono che le ossa.

Talvolta vorremmo che scorresse più lentamente, per permetterci di vivere appieno i momenti più felici, e che accelerasse durante quelli più dolorosi, per risparmiarci sofferenze fisiche e morali.

Alcuni di noi desiderano così tanto ardentemente che il tempo si arresti, che arrivano persino a porre fine alla propria vita. Si tratta, in fondo, di ricerca del potere, qualcosa a cui tutti aspiriamo, volontariamente o meno. Il potere su noi stessi.

Non tutti hanno il privilegio di possederlo.

Il momento in cui lo persi fu preciso, ma me ne resi conto soltanto molto tempo dopo. Le diciannove e due minuti di un pomeriggio piovoso, con tre semplici parole che risuonarono del soggiorno.

“Sei stata scelta.”

Colsi una tetra sfumatura in quell'affermazione, ma non ci feci subito caso.
Mia madre ripose l'ombrello gocciolante nell'apposito contenitore, con un gesto frettoloso e urgente. Sul suo volto c'era il solito cipiglio, che però gli conferiva un'espressione tormentata. L'uomo che la seguì all'interno dell'abitazione, mio padre, appariva preoccupato.

Doveva essere accaduto qualcosa di serio alla riunione della comunità.
Mi stupii, perché era insolito che sorgessero problemi nella nostra Chiesa. Non mi interessavo più del dovuto alle faccende dei miei genitori, ma, facendo parte di una delle famiglie più importanti del nostro gruppo religioso, ero tenuta a partecipare alle celebrazioni e ad ogni sorta di attività.
Non mi piaceva per niente questo aspetto della mia vita.
La causa di ciò non era l'obbligo di prendere parte alla vita di comunità, quanto il fatto che chiunque si aspettasse da me comportamenti che non mi appartenevano.

Quel giorno, fingendomi sovraccaricata di studio, mi ero rifiutata di accompagnare i miei genitori alla riunione mensile, alla quale partecipavano tutte le chiese dei dintorni. Il nostro era un piccolo e soffocante paese, sperduto nella campagna, ma il numero di fedeli era altissimo.

Le cerimonie di mio padre erano sempre molto seguite. Avrei dovuto andarne fiera, ma in verità non provavo alcun orgoglio. Non pensavo spesso a Dio, e raramente riflettevo davvero sui sermoni che i miei genitori mi offrivano quotidianamente su di Lui.

Non pensavo di aver bisogno di Dio.

Scelta?”ripetei, perplessa.

Mia madre si morse il labbro carnoso, atteggiamento che non rispecchiava il suo carattere. Questo mi insospettì.

Vedendo che lei non rispondeva, intervenne mio padre. “Sei stata scelta dalla Chiesa” sussurrò, con un tono di voce molto diverso di quello che usava durante le prediche. “Per ricevere una borsa di studio. La conservavamo da tempo.”

L'espressione seria e melanconica di entrambi non concordava con la notizia che mi era stata appena trasmessa.
Nella stanza si era instaurata un'atmosfera infelice, che mi fece accapponare la pelle. “Ho ricevuto una borsa di studio...” mormorai, incerta. Mia madre annuì, confermando le mie parole.
“Per dove?” chiesi, restando immobile al mio posto. Loro, fermi sulla porta, si scambiarono un'occhiata, ma non fecero un passo nella mia direzione.

“Una scuola prestigiosa. La frequentano generalmente i figli di politici e personalità di rilievo.” Fu mio padre a rispondere, ma lo fece come se dovesse strapparsi una spina dalla carne.

“D'accordo” asserii, scrollando le spalle. Raramente ero d'accordo con i miei genitori su qualcosa, e questo rafforzò la sensazione che quella situazione fosse estremamente strana, quasi surreale.

Di malavoglia, li aiutai a togliersi di dosso i cappotti bagnati, ma non appena appesi quello di mia madre questa mi avvolse con le braccia esili, stringendomi più forte di quanto avesse mai fatto. Rimasi allibita da quel gesto d'affetto, dal momento che quasi mai ce ne scambiavamo. Mi si arrossarono le guance per l'imbarazzo, ma trovai il coraggio di ricambiare l'abbraccio, cercando di ricordare l'ultima volta in cui mi fossi ritrovata in una circostanza simile con mia madre, invano.

Mio padre, fortunatamente, mi scompigliò dolcemente i capelli con la sua enorme mano, poi scomparve in cucina.

Mia madre lo seguì, riassumendo l'aspetto impenetrabile che aveva trasmesso a me. Sapevo che fosse solamente un atteggiamento, ma era comunque capace di mettermi a disagio.
Il silenzio che aleggiò durante tutta la cena fu un altro indizio che qualcosa turbava i miei genitori. Nessuno fece una parola sulla borsa di studio o sulla misteriosa scuola che avrei frequentato, ci limitammo a gustare il sushi in scatola che mia madre aveva acquistato sulla strada di ritorno.

Alzarmi per tornare in camera mia fu un sollievo.
“Buonanotte, Arashi-chan” mormorarono entrambi, mestamente.

Avrei presto lasciato quella casa e mi sarei trasferita lontano, questo era ovvio. Non c'erano scuole prestigiose nei pressi del mio paese, e come minimo avrei dovuto uscire dalla sterminata campagna che lo circondava, interrotta solamente dalle montagne a nord. Il motivo per cui sembravano così sconfortati doveva per forza essere questo, ma una parte di me non ne era del tutto certa.

Avrebbero almeno potuto mostrare un po' di entusiasmo per la borsa di studio.
Trascorsi quella sera sdraiata sul letto, leggendo i manga che nascondevo nel cassetto della scrivania, e che i miei mi proibivano severamente. Li trovavano “indecenti”.

Purtroppo nemmeno l'indecenza riuscì a distrarmi dal mio rimuginare.
Non mi dispiaceva per niente andarmene. Aspettavo da tutta la vita il momento in cui mi sarei allontanata da quella casa, andando a stare per conto mio. Certo, forse quindici anni erano pochi per essere indipendente, ma abbastanza perché potessi cavarmela lontana dalla famiglia.

Riposi i manga nel cassetto, chiudendolo a chiave, e mi rigirai questa tra le mani. Con una chiave avrei sigillato le porte del mio passato, avrei ricominciato.
Il buio aveva inghiottito la mia camera, ma i miei occhi delinearono ugualmente la figura di una bambina dai codini biondi, catturata da una foto sul mio comodino. Da troppi anni, ormai, mi imponevo di dimenticare, senza riuscirci. Ero consapevole che la cosa migliore da fare fosse lasciarmi la sua morte alle spalle.
Ma ogni volta che chiudevo gli occhi, e il nero mi si presentava davanti, non potevo fare a meno di vedere il sangue gocciolare dai suoi capelli, riempire un grosso cratere rosso nel suo cranio. Quel buio assomigliava terribilmente alla morte. Era un nero odioso, ne avevo paura, e nonostante questo mi incantava. Era come se, fin da quando i miei occhi avevano incontrato per la prima volta la luce, avessi sempre conosciuto l'oscurità, come se essa costituisse una parte di me, e la morte di Umiko l'avesse solo riportata a galla.

La morte era nata in me, e non mi aveva più abbandonata da quel giorno.





















Buon pomeriggio :)
Sono stata via qualche giorno, e purtroppo non ho avuto modo di aggiornare pur avendo il capitolo pronto nel pc, comunque eccomi tornata! Preciso che questo è un capitolo di avvio, e mi scuso se l'avete trovato noioso, ma i prossimi cercheranno di rivelarsi un po' più interessanti. Chi ha già visto l'anime o giocato al videogioco, saprà già di quale "scelta" si parla, ma non anticipo niente. 
Ringrazio UnaScuotitriceDiParole per essere stata la prima a recensire la storia, ti adoro, inoltre ringrazio Violys per aver aggiunto la storia alle seguite. ♥
Vi invito a lasciare una recensione, nel frattempo vi saluto
al prossimo capitolo :)
Nico 



 

 

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Capitolo 3
*** II, Origin ***


 

II

Origin

 






 

L'immaginazione non è uno stato mentale,
è l'esistenza umana stessa.

William Blake


 











La mia rovina ebbe ufficialmente inizio quando la portiera posteriore dell'utilitaria si chiuse con un colpo, secco e deciso.

Non c'era spazio per i bagagli se non sui sedili posteriori, accanto a me, ma nonostante lo spazio ristretto mi sentivo libera, svincolata da ogni legame con quel minuscolo paese. La Chiesa poteva permettersi veicoli migliori, tuttavia, non ne avevo a male. Ero grata quanto bastava per la borsa di studio, il mezzo di trasporto non rappresentava un fastidio.

L'importante era che finalmente potessi lasciare quella vita.

I miei genitori mi rivolsero un ultimo saluto, guardando scomparire l'auto nera oltre l'angolo. Non avvertii nessun vuoto nel petto, nessuna mancanza, nessuna traccia di nostalgia.

Così mi rilassai sul sedile, lasciandomi cullare dal movimento regolare dell'auto, la quale si lasciava alle spalle le montagne e attraversava la pianura. Un sorriso danzava sulle mie labbra, e lo rivolsi al paesaggio che scorreva sotto i miei occhi impazienti.

Quella notte avevo dormito poche ore, il minimo indispensabile, e mi ero alzata almeno cinque volte per controllare che tutti gli effetti personali che volevo portare con me fossero stati inseriti della valigia. In più avevo una borsa da viaggio blu elettrico e una valigetta più piccola, che conteneva libri e qualche manga clandestino.
E, naturalmente, c'era la foto. L'unica che avevo deciso di tenere.

Raffigurava una bambina dai codini biondi e dal sorriso vivace, al quale mancavano un incisivo superiore e alcuni molari. Queste piccole assenze erano colpa della temerarietà della piccola, che soleva arrampicarsi sugli alberi più alti, sul muretto della scuola elementare, e correre a perdifiato giù dalle gradinate.

Umiko andava fiera dei suoi denti mancanti. Li considerava autentici trofei, più che ferite di guerra.

Al tempo, io ero la sua compagna di spericolate avventure. Inutile dire che essere anche sua fedele amica mi riempiva d'orgoglio.
Scossi la testa, perché d'un tratto i miei occhi non vedevano più la sterminata campagna, bensì un tratto di asfalto già tiepido, sotto al sole mattutino, sul quale si allargava una macchia di sangue.

Immagini di un incidente, un incidente che poteva essere evitato. Una morte ingiustificata.

La vendetta era ciò che mancava a quel delitto, ma non c'era nessuno a cui farla pagare. E questo mi riempiva di rabbia.

Sospirai sconfortata, mentre i miei occhi si chiudevano placidamente, finestre sul mio nuovo mondo di libertà che, stanche, dovevano essere sbarrate.


Mi svegliai di colpo, e sbattei più volte le palpebre, in modo da far sfumare l'immagine del sangue. Appena in tempo per vedere un pesante cancello di ferro aprirsi, in modo da permettere l'accesso nell'enorme giardino della residenza.

L'utilitaria però si fermò all'esterno, e l'autista non diede segno di volersi spingere oltre. Mi esibii in uno sbuffo stizzito, uscendo dal veicolo. Dovetti anche trascinare fuori tutti i miei bagagli da sola, non senza fatica. Fortunatamente ero il tipo di persona che viaggia leggera.

La valigia aveva le rotelle, perciò la trascinai usando la maniglia estraibile, trasportando la ventiquattrore con la stessa mano. Mi caricai la borsa da viaggio in spalla, senza voltarmi ad osservare il mio mezzo che faceva retromarcia e se ne andava.

Fatti pochi passi oltre il cancello, questo cominciò a richiudersi, con un movimento estenuante e quasi sinistro.

Non mi permisi di provare alcun tipo di timore, e mi addentrai nel labirinto di rose che circondava la tenuta. Ero a dir poco stupefatta. Non immaginavo nemmeno che la mia residenza degli anni successivi sarebbe stata di tale grandezza e splendore, e dubitai persino che fosse il posto giusto. L'enorme villa gotica sorgeva accanto ad un lago, circondata da un bosco che sfumava in prati vastissimi. Doveva essere l'unico edificio nel raggio di miglia.

La Chiesa mi aveva informato, attraverso i miei genitori, che sarei andata ad alloggiare presso un'antica famiglia, i Sakamaki, i quali avevano un forte legame con la comunità del mio paese. Non mi era stato riferito che genere di legame, e nemmeno che fossero nobili.

Dedussi, guardando la loro dimora, che dovessero essere molto ricchi, e anche illustri.

Il nome Sakamaki non mi diceva nulla, ma probabilmente la colpa era della cupola di ignoranza che proteggeva il mio paese dal mondo esterno.

Notai che le rose fossero estremamente curate, e in cuor mio immaginai che il merito fosse delle amorevoli attenzioni di un giardiniere, il che era riconducibile ad amorevoli attenzioni dei padroni.

Il posto era splendido.
L'acqua che sgorgava da una fontana, al centro del giardino, brillava di mille riflessi alla luce del sole. Non mi lasciai incupire dalle nubi scure che circondavano l'astro, e che coprivano la maggior parte della volta celeste, e proseguii dritta.

Dopo aver visto quanta bellezza fosse contenuta in quel luogo, le mie domande sulle persone che mi avrebbero accolta si erano quietate, lasciando spazio alla meraviglia. Non ero una persona eccessivamente ottimista, ma mi sforzavo di contemplare ogni dettaglio sotto una luce fiduciosa. La prima cosa da fare era ambientarsi.

Solo quando giunsi sulla soglia mi colse una sensazione insolita.

Sollevai lo sguardo ai numerosi balconi, sulla facciata dell'edificio. Le imposte erano tutte chiuse.

Poi, con la coda dell'occhio, e solo per un battito di ciglia, mi parve di cogliere un movimento alla mia sinistra, vicino ad una delle tante ringhiere di pietra del secondo piano. Ebbi come l'impressione che qualcuno ci fosse seduto sopra. Un fruscio viola, che si volatilizzò un attimo dopo.

Mi scrollai di dosso quella che doveva essere stata un'illusione. Forse ero più nervosa di quanto pensassi.

Fissai titubante le maniglie che decoravano la porta d'ingresso. Nessuno era venuto ad aprirmi, e ne dedussi che il cancello fosse automatico. Doveva esserlo.

In assenza di campanelli, afferrai una delle maniglie di ferro. Mi accorsi che le mie dita tremavano, perciò non esitai oltre.

Il rumore metallico e sonoro si diffuse all'interno delle mura, ma non avvenne nulla. La porta rimase serrata.
“È permesso?” urlai, sperando che qualcuno sentisse. Di nuovo niente.

Questi Sakaquelcheè se la prendono un po' troppo comoda. Mi accigliai, battendo le nocche sul legno intagliato, con forza.

“Ehilà!” chiamai, continuando a bussare, mentre la mia pazienza a poco a poco si esauriva. Attesi ancora una manciata di secondi, ma non potevo starmene sulla soglia in eterno. Irritata, afferrai la maniglia del portone, spingendola. Non si apriva. Era sigillata dall'interno.

Eppure doveva esserci qualcuno in casa. L'autista era stato assunto dalla Chiesa, conosceva la destinazione e sapeva bene dove portarmi.
Tirai un calcio alla porta, maledicendo la borsa di studio, il lungo e inutile viaggio, e quella strana famiglia di cui non sapevo nulla.
Trasalii quando, subito dopo il mio sfogo di frustrazione, il battente si socchiuse.

Dapprima ne rimasi impressionata, ma poi mi decisi a spingerlo ulteriormente, creando un'apertura abbastanza larga da permettermi di passare.

Che serva perdere la pazienza per entrare in questa casa?

Ancora scossa, proseguii all'interno. La porta si richiuse con un cigolio lugubre alle mie spalle, mentre il mio cuore si spostava in gola, palpitando sempre più forte.

Era possibile che i miei ospiti non fossero a conoscenza del mio trasferimento? Eppure ero certa che la Chiesa li avesse avvertiti. Dovevano per forza sapere che sarei arrivata, almeno con qualche giorno di anticipo.

D'un tratto la risposta mi fu chiara: si trattava di uno scherzo.
Non mi aspettavo che i padroni di una famiglia di tale rilievo fosse in grado di escogitare simili burle, ma evidentemente erano più spiritosi e diabolici del previsto. Dovevano certo far parte del loro piano per spaventare i visitatori quei soffitti alti, ad arco, e quelle colonne di marmo, e anche quel lungo tappeto dello stesso colore del sangue, che ricopriva la lunga scalinata dell'ampio impresso.
Le candele di un lampadario appeso al soffitto gettavano una luce traballante sull'ambiente, ma costituivano l'unico bagliore. Il silenzio era tombale.

Ma ci voleva ben altro per turbarmi.

Certo, riconoscevo che il trucco della porta che si apriva da sola fosse una gran trovata, ma era successo prima che li smascherassi. Trascinai la valigia a rotelle accanto a me, guardandomi intorno come per ammirare la tetra ed elegante atmosfera, in cerca di spettatori. Non ne trovai.

“C'è nessuno?” chiamai, con voce candida e per nulla agitata. Avevo intenzione di stare al gioco, partecipare a quella farsa, in modo da chiarire fin da subito di essere quel genere di persona che non si fa impressionare dalle case di fantasmi.

La mano aveva smesso di tremare.

Non mi raggiunse nessuna risposta, ma non ero sicura di aspettarmene una. Mollai la presa sulla valigia più grande, e le depositai accanto la borsa da viaggio, con un tonfo che rimbombò tra le pareti. Misi la ventiquattrore in equilibrio tra le due, incerta su cosa fare in seguito. Fui sollevata di essermi tolta il peso dei bagagli.

Soppesai a lungo i gradini di marmo che conducevano al piano superiore, immaginando quali stanze potessero trovarcisi.

“Scusate...?” Al mio ennesimo, inutile richiamo, feci cadere le braccia lungo i fianchi, innervosita.

Prima che la mia curiosità avesse la meglio e, constatato che non ci fosse nessuno, mi mettessi a girovagare per casa, sentii dei passi leggeri provenire dal corridoio sinistro al primo piano.

Sollevai di scatto lo sguardo. Dall'oscurità emerse un ragazzo altissimo, con lisci capelli grigi a incorniciargli il volto bianco ed affilato. Era giovane, ma gli occhiali dalla montatura sottile ed elegante gli conferivano la maturità di un uomo, e qualche anno di più. Ma forse c'era dell'altro. La raffinatezza dei movimenti, l'espressione indecifrabile ma dura, tutto di lui lo faceva sembrare molto più vecchio. Eppure non poteva avere che qualche anno più di me. Portava alle mani dei distinti guanti bianchi.

Sembrava provenire da un'altra epoca, circondato da quell'atmosfera signorile, seppur inquietante. Mi sentii improvvisamente inadeguata, con i miei pantaloni attillati e la felpa azzurra con il cappuccio, fin troppo sbarazzina. Ringraziai di non essermi legata i capelli, che formavano delle composte onde nere ai lati del mio viso, dandomi un'aria un po' più adulta e risoluta. Li avevo tagliati poco tempo prima, perché lunghi avevano finito con il darmi fastidio, e mi arrivavano più o meno alle spalle.

Gli intensi occhi del ragazzo mi fissavano saccentemente. Ma io rimasi colpita dal fatto che fossero rossi.
“E tu saresti?” disse, la voce ferma e lievemente arrogante.

Aggrottai le sopracciglia, ma mi affrettai ad esibirmi in un inchino appena accennato. “Sono Arashi Hisoka. Questa è la residenza Sakamaki, giusto? La Chiesa dovrebbe avervi informati del mio arrivo, mi hanno mandata a stare qui per qualche tempo. Ho ricevuto una borsa di...”

“Capisco.” Il ragazzo mi interruppe con un cenno pedante della mano. “Vorresti fare il piacere di non parlare a voce così sfrontatamente alta?”

Arrossii di fronte alla sua arroganza, e provai vergogna.
“Hai svegliato tutta la casa” continuò, come se gli fosse piaciuto mettermi a disagio, e avesse deciso di calcare la mano.

“I-io...” farfugliai, chinando il capo. Nel mio profondo avrei voluto rispondere per le rime, ma cercai di salvare quel poco di immagine che, speravo, era rimasta indenne dalla figuraccia. Dovevo farmi apprezzare dal padrone di casa, nonostante costui fosse sgradevole.

Trattenermi mi costò fino all'ultimo briciolo della mia forza di volontà.

“Chiedo perdono.” Denti stretti, mascella rigida, abilmente nascosti da un inchino.

Portare rispetto per le persone presuntuose ed autoritarie non mi era mai riuscito molto bene. E, in secondo luogo, mi chiesi come avessi fatto a “svegliare tutta la casa” quand'era pomeriggio inoltrato.

Lui schioccò la lingua, poi si voltò, dandomi la schiena. “Si, eravamo a conoscenza della tua venuta. I tuoi effetti personali verranno portati nei tuoi alloggi. Tu seguimi.”

Intanto aveva cominciato a camminare, tornando ad immergersi nel buio. Salii i gradini di fretta, lanciando un'ultima occhiata ai miei bagagli. Ma, constatai con una nota di stupore, questi erano già scomparsi.






















Angolo Autrice:
Buonasera♥
non ho molto da dire su questo capitolo, inviterei voi a lasciarmi una recensione per farmi sapere che ne pensate :) ringrazio la Vale, UnaScuotitriceDiParole, per aver recensito i precedenti due capitoli, grazie di cuore♥
a presto!
Nico

 

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Capitolo 4
*** III, Purple Shades ***


 


III

Purple Shades

 





 

La mente è un suo proprio luogo,
e in se stessa può fare un paradiso dall'inferno
o un inferno dal paradiso.

John Milton

 














Seguii il ragazzo attraverso diversi corridoi e sale, finché non giungemmo in quello che doveva essere il cuore della tenuta. Era una stanza da salotto, con tre divani e altrettante poltrone, posizionati attorno ad un tavolino da caffè al centro della sala. C'erano poi dei cassettoni di legno e svariati quadri, oltre ad una breve scala che conduceva ad un pianerottolo sopraelevato.
L'arredamento rimandava all'ottocento, ed era decisamente nel mio stile. Purtroppo, la casa in cui vivevo nel mio paese era dotata di mobilia di stampo moderno, che trovavo estremamente noioso.

Notai però che tutte le tende scarlatte alle finestre fossero tirate, in modo che i pallidi raggi di luce che riuscivano a penetrare le nubi non illuminassero la stanza. A farlo, ci pensavano le candele di un lampadario appeso al soffitto, simile a quello dell'ingresso, ma più piccolo, oltre a numerose lanterne sulle pareti.

Non ero più molto sicura che quell'atmosfera macabra fosse artificiale, prodotta solamente per spaventare occasionali ospiti. Forse faceva davvero parte di quel luogo.

Il ragazzo dai capelli grigi, che durante il tragitto non aveva proferito parola, si sedette su una delle poltrone di tessuto verde, intrecciando le dita.

Io non fui invitata ad accomodarmi.

Passai qualche secondo sulla soglia, vacillante. Poi lui sbatté le palpebre e mi indicò con un gesto il divanetto.

“Vedo che le tue maniere non sono poi così disdicevoli. Prendi pure posto.” Lo disse con disinteresse, quasi le sue fossero battute di un copione, parti di una noiosa routine.

Solcai a grandi falcate la stanza, desiderosa di mettermi a sedere al più presto. Ne avevo bisogno per rilassare i nervi tesi. Il divano era insolitamente comodo, ma non osai lasciarmi andare del tutto, in presenza di quello sconosciuto.

“Ayato. Saresti così cortese da presentarti alla signorina?” Il suo sguardo saettò in un angolo della stanza, dove ad un tratto era comparso un ragazzo dai fiammeggianti capelli rossi e pungenti occhi verdi. Ne sarei rimasta incantata, se non avessero emesso quella luce sinistra che mi fece accapponare la pelle.

Non mi ero mai sentita attratta dai ragazzi in quel senso, ma lui era davvero bellissimo.

Ayato mostrò un sorrisetto arrogante, tenendo le braccia incrociate al petto. Non sembrava avere intenzione di fare come gli aveva implicitamente ordinato l'altro, che era senza dubbio più grande.

“Oh, chi abbiamo qui!” esclamò una voce molto più suadente, proveniente dal lato opposto della stanza. Si era materializzato un giovane dal colore di capelli molto simile a quello di Ayato, ma sui quali era adagiato elegantemente un cappello nero. Sul volto di costui emergevano due occhi verdi, che mi gettarono un'occhiata molto diversa dalle precedenti. Mi studiò, compiaciuto da ciò che vedeva, e il suo sguardo mi fece sentire sporca, impura, nonostante il ragazzo non mi avesse ancora sfiorata. Fu estremamente sgradevole, e mi sistemai a sedere sul sofà. “Cosa c'è, Bitch-chan?” La sua voce accattivante si era fatta più vicina, troppo vicina, come se in un nanosecondo lui avesse percorso la distanza che si separava, e ora si trovasse al mio fianco.

Bitch-chan?

Storsi leggermente il naso a quell'epiteto di stampo inglese, chiaramente offensivo e canzonatorio, senza voltarmi verso la voce.

“Ehi, guarda che mica mordo” disse, persuasivo, ma la sua affermazione sembrava una presa in giro.
Ben due risate scoppiarono nella sala, facendomi sobbalzare. Infastidita, scoprii che una delle due appartenesse al ragazzo col cappello, che aveva distorto i tratti delicati del suo viso in una smorfia di divertimento dovuto alla sua stessa battuta.

L'altra era più docile, suonò come quella di un bambino, ma guardandomi intorno non avrei saputo capire di chi fosse.

In compenso, mi accorsi che le persone presenti nel salottino erano aumentate. Un ragazzo decisamente slanciato era disteso su un altro divano, degli auricolari infilati nelle orecchie sotto i capelli dorati, e pareva sonnecchiare. La sua espressione era impassibile. Un altro era apparso su una poltrona relativamente isolata, e associai immediatamente la sua immagine ad un lupo bianco. Sembrava un tipo piuttosto solitario, e la sua espressione aggressiva mi ricordò la concentrazione che precede l'attacco. Una parte di me era tentata di alzarsi e fuggire via da quello sguardo, ma rimasi immobile al mio posto, sostenendolo. Non c'erano dubbi, lui aveva qualche problema con me. Pertanto era improbabile che avesse riso.

Il lupo bianco grugnì, facendo cadere un'occhiata che avrei definito “assassina” sul rosso seduto al mio fianco. “Laito, non giocare con la preda. Le tue moine mi danno il voltastomaco.”

Al termine “preda” la mia bocca si asciugò di colpo. Mi hanno presa per un giocattolo, pensai.

“Oh, Subaru, ma questo è un gioco. Dovresti provare a divertirti un po'...”
“Cosa?” sobbalzai. Ero stata beneducata fin troppo. “Perdonatemi, ma credo che la mia posizione non vi sia chiara. Sono solo una studentessa, non ho intenzione di recitare la parte del vostro svago personale.” Sguardi attoniti si concentrarono su di me, persino il ragazzo che poltriva sollevò le palpebre per fissarmi. Non ero intimidita. “Con permesso, vorrei ritirarmi nella mia stanza” dissi, alzandomi in piedi.
Nello stesso momento, avvertii una mano gravare con premura sulla mia spalla destra. Un brivido percorse la mia spina dorsale, e le mie gambe cedettero da sole. Mi ritrovai di nuovo seduta sul divano, a disagio. Trovato il coraggio di voltarmi, scoprii che alle mie spalle incombeva un giovane un po' più basso degli altri, con folti capelli viola e brillanti occhi pervinca, a inghiottirne il volto dolce. Sotto ad essi comparivano due occhiaie scure ed evidenti, come se quel ragazzo non dormisse da un sacco di tempo. Notai che il suo abbigliamento particolare richiamava un che di gotico, ed una delle bretelle gli cadeva lungo un braccio. Teneva stretto al petto un orsacchiotto di peluche dall'aspetto insolito. Alcune cuciture erano lievemente sghembe, ma ad attirare l'attenzione era una benda nera, che copriva uno dei due piccoli occhietti circolari.

Il ragazzo mi mostrava un sorriso vago, inarcando le sopracciglia.

Era diverso dagli altri. Non ricercava nulla di particolare nei miei occhi, non sembrava nemmeno vedermi davvero. Aveva quello sguardo innocente e spensierato da bambino, che però celava una sfumatura inquietante. Come se, quello sguardo, fosse solo una delle tantissime angolazioni di un prisma, che riflette la luce a seconda del senso in cui la incontra.






















 

Buonasera,
eccomi ad aggiornare con il terzo capitolo, Purple Shades. 
Spero davvero che lo appreziate, mi farebbe molto piacere se lasciaste una recensione, e come sempre ringrazio UnaScuotitriceDiParole per aver recensito i capitoli precedenti♥
See you soon,
Nicole

 

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Capitolo 5
*** IV, Convulsion ***


 

IV

Convulsion






 

Essere ciechi non è una sventura,
è una sventura essere incapaci di sopportare la cecità.

John Milton

 















“Mi sembra piuttosto che quella confusa sia tu” Laito, fortunatamente, interruppe il mio stato di rapimento con la sua voce seducente. “Bitch-chan.”
“Potresti smetterla di chiamarmi...”

“Pare ci sia un piccolo equivoco” mi interruppe il ragazzo con i guanti. Mi sentii sollevata, ma lui continuò, imperturbabile. “Hisoka-san, hai frainteso le intenzioni della Chiesa. Tu sei stata scelta...”
Esitai. “Si, per una borsa di studio.”
Ayato sbuffò, avvicinandosi. Ogni passo che riduceva la distanza tra di noi faceva aumentare la mia angoscia. “Certo che la Chiesa se le inventa tutte, per ingannare i propri fedeli.”
Pensai che non dicesse sul serio. Non poteva dire sul serio.

“Cercherò di spiegartelo nel modo più semplice possibile, in modo che non ci siano malintesi” intervenne nuovamente il grigio, annoiato. Attese pochi secondi, per accertarsi di avere la mia attenzione. “La comunità del tuo paese ti ha mandata da noi come sacrificio, necessario per mantenere la pace tra le nostre fazioni.”
Rimasi immobile. Non sentivo nient'altro che il battito del mio cuore, il quale palpitava con lentezza estenuante nel mio petto. “Di che fazioni stai parlando?” chiesi, ostentando un'austerità che non potevo permettermi.
Fu Ayato a rispondermi. “Quella umana...”
“E la nostra razza” sbottò il lupo bianco, Subaru.
Un intuizione cominciava a farsi largo nella mia mente, ma feci del mio meglio per allontanarla. Pelle diafana, occhi ipnotici, vitta notturna. Comparse improvvise. Non poteva essere, certe cose esistevano solo nei film. Dovevo separare la realtà dalla finzione.

Qualcosa mi bloccava la gola.

“Hai capito, vero?” sussurrò una voce nel mio orecchio, una voce che non avevo ancora sentito, soffiando contro la mia pelle. Rabbrividii, ma non riuscii a negare.

Qualcosa di umido sfiorò il mio collo, e il mio cuore prese automaticamente a battere all'impazzata. Strinsi forte le palpebre, cercando disperatamente una via d'uscita, una soluzione logica.

Dovevo usare la logica, dovevo riflettere.
Laito racchiuse la pelle del mio collo tra le labbra, in un gesto che forse avrebbe dovuto essere stuzzicante, ma a percorrermi fu un tremito di disgusto.

Improvvisamente, la risposta si accese nel mio cervello come una lampadina. Scoppiai a ridere, costringendo il rosso ad allontanarsi di scatto. Mi tenevo la pancia dalle risate, che rimbombavano tra le pareti e sembravano fuori luogo, ma non riuscivo a trattenerle. Dopo uno spavento così clamoroso avevo bisogno di ridere.

“Voi...” Faticai a continuare la frase, che era continuamente interrotta dalla mia risata fragorosa e prolungata. “Questo... è uno scherzo, eh?”
Certo che lo era. E io ci ero cascata in pieno. Non c'era altra possibilità.

Piano, le mie risate sfumarono, e il sorriso sul mio volto fu fatto vacillare dagli sguardi interdetti e di disappunto rivolti a me.

“Volevate prendermi in giro? Bene, ammetto che mi sono presa una bella paura, complimenti, ma non ha più senso fingere” dissi, incrociando le braccia al petto. “Dico sul serio, non sono stupida. I vampiri non esistono.”

Ayato e Laito si scambiarono un'occhiata indecifrabile, mentre tutti gli altri restavano impassibili.
Io impugnavo la mia convinzione come un'arma di difesa, per niente intenzionata a lasciarla andare. I vampiri non esistono.

“Nessuna ha mai reagito in questo modo” constatò il biondo, senza aprire gli occhi.

Ayato annuì, in un modo che non mi piacque. “Shu ha ragione. Di solito, quando voi mortali lo venite a sapere, scappate via come dei conigli. Come se credeste davvero di poterci sfuggire.”

I vampiri non esistono.

“In effetti” intervenne Laito “Forse Bitch-chan ha bisogno di una piccola dimostrazione...”

Trasalii, e la paura ricominciò ad insinuarsi in me. I miei sensi si accesero, l'adrenalina affluiva velocemente nei condotti sanguigni.

Subaru si alzò all'improvviso, ergendosi in tutta la sua altezza. “Se è questo che serve per aprirti gli occhi, stupida mortale” mormorò. Un attimo dopo lui non c'era più.
Delle dita gelide si strinsero attorno al mio collo, bloccandomi la respirazione.

Annaspai, in cerca d'aria, ma questa non arrivava ai polmoni. Panico. Non riuscivo a pensare a nient'altro. Le mie mani si sollevarono di scatto, trovando quella che mi stava soffocando, graffiandola, cercando di strapparla via da me.

Ma quella era troppo forte, innaturalmente forte.

L'aria mi mancò per quella che mi sembrò un'eternità. Il viso mi pulsava, e delle macchioline nere mi annebbiavano la vista.

Sto morendo, pensai. Non volevo morire.

“Basta così, Subaru” disse una voce lontana, ovattata.
La presa sulla mia gola svanì, e mi ritrovai ad afferrarla con mani tremanti mentre tossivo violentemente. Cercavo di riassumere una respirazione regolare, ma tutto ciò che facevo era inciampare nell'aria.
Caddi in ginocchio sul pavimento, appoggiandomi ad esso con un braccio teso in avanti. Seguii con gli occhi il motivo rosso e nero del tappeto, e l'ossigeno ricominciò a fluire al cervello, permettendomi di formulare ragionamenti coerenti.

“Voglio divertirmi anch'io con lei” si lamentò Laito, evidentemente contrario al gesto del lupo bianco. Mi toccai il collo, risalii alla mascella e sfiorai la guancia, come per controllare che fosse tutto al suo posto. Ero intera, anche se mi mancava ancora un po' di sensibilità.
Sollevai di scatto la testa, incrociando lo sguardo neutro di un paio di occhi pervinca. Questi bastarono a farmi scattare.

“Siete pazzi” affermai, più a me stessa che a loro.
I vampiri non esistono.

Ne ero certa. Quei ragazzi erano semplicemente degli psicopatici che credevano di essere creature della notte, o lo facevano semplicemente credere agli altri. Erano completamente fuori di testa, e non mi sarei lasciata coinvolgere oltre.

Una volontà incontrollabile si impadronì di me, e in un paio di secondi fui davanti alla porta, impugnando il pomello dorato.

Con uno sforzo riuscii a sbloccare la serratura, consapevole degli sguardi puntati su di me, e mi lanciai fuori dalla stanza.

Percorsi tre corridoi correndo a perdifiato, cercando di raggiungere l'uscita.

Correvo veloce. In passato avevo fatto parte della squadra di atletica, ma ero stata espulsa per aver risposto in modo poco adeguato al mister durante una delle sessioni di allenamento, e lì era finita la mia carriera.
La mia resistenza ne risentiva, evidentemente, perché giunta al Salone d'Ingresso il petto mi bruciava. Dovevo solo scendere la scalinata, poi sarei finalmente stata fuori da lì.
Adocchiai il portone principale, ma scoprii con orrore che Ayato vi era appoggiato con nonchalance, le braccia incrociate al petto. Mi guardò come se avesse tagliato il traguardo di una maratona prima di me, e si stesse vantando senza parlare.

Mi voltai, senza sapere esattamente se tornare indietro fosse la scelta giusta, ma trovai Subaru alle mie spalle.
La sensazione della sua mano attorno alla mia gola era ancora vivida sulla mia carne e nella mia mente, e cambiai direzione. Mi diressi a sinistra, nel corridoio che conduceva all'ala destra dell'edificio.

“Siete tutti pazzi!” urlai, lasciandomi alle spalle il Salone. 
























Buonasera♥
Anche stasera aggiorno, visto che ho un po' di capitoli pronti nel pc. Tuttavia, mi sto impegnando per scriverne di nuovi per non ridurre eccessivamente in futuro la frequenza, e spero di riuscirci. 
Comunque, qui Arashi-chan comincia a comprendere quale sia la natura dei suoi ospiti, anche se non vuole crederci. Ho cercato di rendere le sue reazioni il più verosimili possibile, e di rispettare al meglio l'IC di ognuno. Scusate davvero se è breve, ma dovevo mantenere un po' di suspence per il capitolo successivo. Infondo non fa male, no? Spero lo apprezziate ugualmente, in tal caso mi farebbe davvero moltissimo piacere se lasciaste una recensione, per farmi sapere♥
Ah, ringrazio di cuore Alyx Evans e UnaScuotitriceDiParole per aver recensito il precedente capitolo, le tre persone che hanno aggiunto la storia alle seguite, e sempre Alyx Evans che l'ha messa addirittura tra le preferite! 
Al prossimo aggiornamento, un bacio
Nico-chan

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Capitolo 6
*** V, Echo ***


 

V

Echo

 




 

Tigre! Tigre!
Divampante fulgore
nelle foreste della notte,
quale fu l'immortale mano o occhio
che ebbe la forza di formare la tua
agghiacciante simmetria?

Tiger! Tiger!
Burning bright
in the forests of the night,
what immortal hand or eye
could frame thy
fearful simmetry?


William Blake

 












 

L'essere umano raramente riesce a svuotare completamente la propria mente. Pensare è un un'azione radicata in profondità in noi, fin da quando prendiamo coscienza di noi stessi.

Il nostro cervello invia continui impulsi, che ci permettono di formare idee, l'immaginazione, il giudizio, ogni nostra reazione, conscia ed inconscia.

La maggior parte dei nostri pensieri si plasma involontariamente, grazie ad un'identità che non controlliamo affatto. Eppure è parte di noi, per non dire che siamo noi stessi.

Pertanto, assai di rado accade che la nostra mente sia completamente vuota. Questo fatto può accadere quando, per esempio, si manca il gradino di una scala. O quando, per sbaglio, un bicchiere di vetro ci scivola di mano, andando a frantumarsi in mille schegge sul pavimento.

È un attimo confuso. Un frammento di istante, nel quale non pensiamo a nulla. C'è solo quella sensazione di vuoto, di stupore, di orrore.

Ma è solo un attimo. Poi torna tutto come prima.

Mentre correvo a perdifiato, avevo la sensazione di restare ferma all'interno del tempo, che questo avesse smesso di scorrere, e mi tenesse imprigionata all'interno di quell'attimo. Provavo la paura nello stato più puro ed orrendo, un perenne stato di panico che mi attanagliava perfino le ossa, e un dolore lancinante allo stomaco ad ogni minimo movimento.

La mia mente era completamente inglobata dal silenzio, interrotto solamente dallo scalpitio incessante ed ovattato del mio cuore.
Nel corridoio rimbombavano i miei passi veloci, ma ogni metro che percorrevo non serviva ad alleviare la sensazione di soffocare.
Mi scontrai di nuovo con il terrore quando, giunta ad un bivio, notai che Laito bloccava la strada di destra.

Non sentii ciò che mi disse, ma che sicuramente conteneva un “Bitch-chan”, il quale mi spronò ulteriormente a correre. Il corridoio di sinistra sboccava in una piccola stanza circolare, pavimentata con ampie piastrelle nere e bianche, come a formare una scacchiera a misura d'uomo. Sembrava emersa da un incubo.

Una scala a chiocciola conduceva al piano superiore, e corsi sui gradini senza esitazione.

I vampiri non esistono.

Ma allora come potevano avermi preceduta senza che me ne accorgessi?
Avrei voluto tirarmi uno schiaffo. Ma certo. Probabilmente quella casa era talmente antica da contenere dei passaggi segreti, magari cunicoli tra le pareti nascosti dietro le librerie. Era tutto ancora troppo strano, ma verosimile.

La scala a chiocciola sbucava in un corridoio non molto lungo, che terminava con una parete. Una normalissima parete.

Il mio battito cardiaco non si era ancora calmato, e mi sembrava di poter vomitare da un momento all'altro. Si era attivato un istinto che non avevo mai avuto modo di conoscere; quello di sopravvivenza. Avevo bisogno di un rifugio. Un posto sicuro.

L'ultima cosa che volevo era essere aggredita di nuovo da uno di quei ragazzi, che presentavano chiaramente qualche disturbo sociale, della personalità, o qualcosa del genere.

Ascoltai attentamente se dalla scala provenivano rumori di passi, o suoni che potessero testimoniare l'avvicinamento di qualcuno. Le mie orecchie captarono soltanto il silenzio.

La situazione è troppo tranquilla.

Scacciai questo pensiero, cercando una via di scampo.

Nell'andito non c'era nulla con cui potessi bloccare definitivamente la scala, perciò non mi rimaneva che scegliere una delle due porte, perfettamente identiche, ai lati del corridoio.

Optai per quella a sinistra, anche se il dover decidere mi riempiva inspiegabilmente di tensione.

Afferrai quanto più saldamente potevo la maniglia, e la abbassai di scatto.
Non appena però socchiusi la porta, sbirciando all'interno, il mio sguardo si scontrò con un paio di occhi pervinca, nei quali vidi riflesso il mio sgomento.

“La tua stanza è la porta di fronte” mormorò una voce tranquilla, persino affettuosa.

Il cuore aveva smesso di battere, anche il mio respiro si era fermato di colpo. In preda al terrore più profondo e istintivo, sbattei la porta in faccia al ragazzo e mi precipitai oltre quella alle mie spalle.

Armeggiai con la serratura qualche secondo, ma alla fine questa scattò e mi ritrovai ad indietreggiare nella stanza con la chiave in mano. Ero chiusa dentro, ma almeno nessuno di loro poteva entrare.

Mi ero ritrovata ad un palmo dal naso il volto del giovane con le occhiaie, e ancora il respiro non era tornato regolare. Lui mi inquietava più di tutti, senza un'evidente ragione.

Forse, inconsciamente, sospettavo che il suo aspetto pacato e gentile nascondesse il peggiore dei mostri. Non era da escludere.

Impugnavo ancora la chiave quando caddi a sedere su qualcosa di morbido. Non mi ero ancora resa conto di ciò che mi circondava.

Quella in cui ero finita sembrava una normale camera da letto. Lui l'aveva definita la mia stanza.

Mi ritrovai ad apprezzare l'elegante letto a baldacchino, il grande armadio di cedro, il soffitto affrescato, i quadri alle pareti color lavanda e persino il caminetto di pietra. Era una stanza graziosa e ben arredata, molto più bella e comoda di quella nel mio paese d'origine. Odorava di pulito e, sorprendentemente, di nuovo.
Il cielo era stato coperto in breve tempo da pesanti nubi, che minacciavano pioggia. Il sole era sparito. Sobbalzai quando le porte di vetro che davano sul balcone si spalancarono, e una folata di vento gelido invase la stanza. Le tende nere erano sbattute qua e là dal vento, a plasmare figure sinuose ed agghiaccianti, dalle quali emergevano le mie paure più irrazionali.

Il nero. Ero terrorizzata dal nero.

Accanto alla porta erano stati sistemati i miei bagagli, e mi ricordai di avere il cellulare nella ventiquattrore. Lasciai la chiave sul materasso, lanciandomi ad aprire la valigetta.

Scostai i libri che avevo portato con me, uno ad uno, ma dell'oggetto che cercavo nessuna traccia.
Presi la ventiquattrore e la rovesciai completamente, disseminandone il contenuto sul pavimento. Lo sparsi poi con le mani, ma il cellulare non c'era.

Ero sull'orlo di una crisi isterica quando la sensazione di una presenza alle mie spalle mi fece voltare.

“Cerchi qualcosa?” chiese una voce divertita, persino beata.

Apparteneva al ragazzo che, nel salotto, si teneva l'orsacchiotto stretto al petto. Adesso invece esso penzolava sul suo fianco, tenuto solamente per il braccio destro.
Il ragazzo incombeva su di me, e mi fissava con espressione curiosa, come se si aspettasse una risposta.

Caddi a sedere, indietreggiando fino a ritrovarmi con il muro contro la parete. Le mie gambe, scalciando, avevano disperso ulteriormente gli oggetti prima contenuti nella valigetta.

“Come... come diavolo... sei entrato?” domandai in tono accusatorio, che non riuscì come avevo sperato, considerato che stavo boccheggiando.

Lui fece un passo verso di me, senza dare il minimo segno di turbamento. Il suo sorriso accrebbe la mia ansia.

“Sei spaventata” appurò con leggerezza. L'aria attorno a lui era in fibrillazione.

Si fece ancora più vicino, costringendomi a rannicchiarmi contro il muro.

“Stai lontano da me!” urlai, con la voce strozzata dalla paura.

Le mie iridi erano incatenate alle sue, viola, incorniciate da gravi occhiaie. Risplendevano di sadico piacere, e quel barlume assurdo si rafforzò quando le sue dita sfiorarono la mia guancia. Aveva in tutto e per tutto un'espressione ambigua, da psicopatico.

La sua mano tastò la mia pelle, nel preciso istante in cui la pioggia cominciò a cadere sul balcone, provocando un irregolare ed incessante ticchettio.

Feci per ritrarmi dal tocco del ragazzo, ma lui lasciò la presa sull'orsacchiotto e gremì saldamente il mio polso, costringendomi ad alzarmi in piedi.

Ero bloccata contro la parete, mentre le sue dita fredde e delicate come neve appena caduta carezzavano la pelle del mio collo, scendendo alla spalla.

“Emani un tepore delizioso” mormorò, appagato semplicemente dallo sfiorarmi.
D'impulso, la mia mano libera scattò ed afferrò la sua, interrompendo quel contatto sgradevolmente intimo.

“Basta, vattene” articolai, cercando di non far trasparire quando spaventata fossi, mostrando invece rabbia.

Lui inclinò leggermente la testa da un lato, e la sua espressione si illuminò. “Sei coraggiosa, Arashi-chan!”

Poi il suo sorriso si trasformò. Divenne dapprima un ridacchiare sommesso, di scherno, e poi una fragorosa, folle risata.

Dalle gengive sporgevano due canini acuminati, che si protendevano letali dall'arcata dentale superiore. Vidi il loro biancore, la loro purezza, e il solo guardarli mi diede l'impressione di sentirli trapassare la mia carne, senza pietà.

Rimasi a guardarlo, inorridita, pietrificata, mentre un lampo illuminava sinistramente la stanza.

Sbattei le palpebre, ma un attimo dopo la camera da letto era tornata normale, un tuono lambiva il cielo, le mie mani afferravano l'aria e il ragazzo era scomparso.

Ciononostante, l'eco della sua terrificante risata doveva ancora disperdersi. 

























 

Buonasera anche stasera c:
Non vedevo sinceramente l'ora di aggiornare, perché questo capitolo è decisamente uno dei miei preferiti, finora, anche se ancora non succede niente di che. Questi sono solo i capitoli di avvio, e mi scuso se sono brevi, ma altrimenti ho paura che si facciano troppo pesanti :(
Sotto al titolo ho riportato la mia poesia preferita, con tanto di testo in inglese, che secondo me rende molto di più. personalmente adoro William Blake, ma credo si capirà più avanti, se non si è già capito, perché sono una fanatica delle sue citazioni.
ma comunque, mi farebbe moltissimo piacere se lasciaste una recensione per farmi sapere la vostra opinione, che per me è molto importante. 
Ringrazio dal profondo del mio cuore Alyx Evans, UnaScuotitriceDiParole V i o l y per aver recensito il capitolo precedente, wow! siete grandiose, sul serio.
Bene, noi ci vediamo al prossimo aggiornamento, un bacio♥
Nico-chan


 

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Capitolo 7
*** VI, First Nightmare ***


 

VI

First Nightmare

 





 

La paura è quella piccola camera oscura
in cui si sviluppano i negativi.

Michael Pritchard

 















Dapprima vedo solamente, ed in modo confuso, una stanza buia. Sembra giorno, ma il cielo è oscurato da una grave coltre di nubi nere, perciò non ne sono del tutto certa.
Lentamente, come quando l'obbiettivo di una macchina fotografica mette a fuoco, l'opacità si tramuta in chiarezza.
La mia visuale è molto bizzarra. È come se mi trovassi sdraiata, perché osservo tutto dal basso verso l'altro.

L'ambiente è signorile ed elegante. Sospetto di trovarmi nella tenuta Sakamaki, ma scaccio subito questa supposizione. Ho come il presentimento di essermi già trovata in questo luogo, ma non di recente.

Molto, molto tempo fa, io sono già stata qui...

All'improvviso, d'innanzi a me compare una figura alta e slanciata, avvolta da un mantello scuro. Dalla corporatura sembra un uomo, ma non riesco a vederne bene il volto, coperto da una coltre confusa, come un ricordo che fatica a tornare a galla.

Riesco però a distinguerne i capelli biondi, che sembrano quasi fili aurei, splendenti anche senza sole. L'uomo li porta lunghi fino alle spalle. Sono belli, tutto di lui è bello.

Ho paura di costui, anche se non riesco a capire chi sia, e nemmeno per quale ragione. So che non dovrei fidarmi di lui, lui è... ecco, ora ricordo, lui è un nobile. Questo spiega perché siamo circondati da tanto lusso.

Mio malgrado, non riesco a rammentare altro. È come se non fossi realmente connessa con me stessa, ma mi trovassi nei panni di un'altra persona. Una persona che ha timore dei nobili. E non solo: li disprezza profondamente.

Ti aspettavo.” Una voce maschile rimbomba nella mia mente come l'eco di uno sparo, violento e insostenibile. Vorrei prendermi la testa tra le mani, ma nulla di me mi appartiene davvero.
Rimango immobile.
Allora lo sconosciuto prende la mia mano, terribilmente pallida, e se la porta al viso, come se la baciasse. Non avverto però alcun contatto, né le sue dita, né le sue labbra.
Sono semplicemente una spettatrice della scena. Non posso agire, non posso cambiare i fatti: come se tutto fosse già stato deciso.
“E non vedevo l'ora...” Continua la stessa voce, sebbene stavolta suoni più roca e profonda.
Un attimo dopo, lo sconosciuto si è spostato. Il suo volto è a poche decine di centimetri dal mio, e il suo corpo incombe su di me. Io non posso muovermi, ogni parte di lui mi blocca.

La paura si insinua nelle mie viscere, la sento reale e palpabile, tanto che potrei toccarla se solo avessi la facoltà di allungare un braccio.

Ti ho notata subito...” Una roca risata rimbomba tra le pareti della mia mente, e mi viene voglia di urlare.
“So che mi hai notato anche tu” prosegue, prima di sogghignare.

Io, o meglio, il corpo che mi ospita cerca di divincolarsi, ma l'uomo è troppo forte. Inumanamente forte. Mi tiene sotto il suo controllo senza il minimo sforzo.

Tu non sai quanto ho atteso...” Rafforza la presa, e il dolore mi stringe lo stomaco, accompagnato dal terrore. So che nessuno verrà ad aiutarmi. “...il momento in cui ti avrei assaggiata.”
Subito dopo, nell'attimo in cui l'uomo spalanca la bocca, alle mille sensazioni che artigliano il mio cuore si aggiunge una tenebrosa, orrida sorpresa.

Un paio di canini bianchi e marmorei si protendono verso di me, stagliandosi contro il buio cupo e profondo della trachea.

Sento delle urla, ma non appartengono a me, bensì a questa gola, questa gola che è stata violata e lacerata senza esitazione o clemenza.
Nero. Un doloroso, bruciante nero cala sui miei occhi, trascinandomi nell'agonia.

 

Mi svegliai di soprassalto, tirandomi immediatamente a sedere. Forse urlai, ma la pioggia battente e il temporale burrascoso che infuriavano al di là delle finestre e del balcone coprirono senz'altro il rumore.

La notte aveva avvolto il cielo ed ogni altra cosa, ma non avrei saputo dire che ore fossero.
Ansimai ripetutamente, prendendomi finalmente la testa fra le mani, constatando di essere tornata nel mio corpo. Era una gioia incontenibile poter finalmente usare le mie mani, poter muovere a mio piacimento le dita, ogni singola falange.
L'incubo era impresso a fuoco nella mia memoria, vivido e ardente.
Un'immagine in particolare. Le zanne.

Chiusi gli occhi, e una goccia di sudore prese a percorrere la mia tempia, arrivando allo zigomo. Rivissi con orrore il momento in cui, poche ore prima, quel ragazzo aveva riso proprio di fronte a me, mostrando i canini bianchissimi e aguzzi. Erano troppo simili a quelli dell'uomo nel mio sogno.

I vampiri non esistono.

No, queste parole suonavano false persino nei miei pensieri.
Ogni volta che tentavo di riacquistare questa certezza, mi ricordavo di quelle zanne, del loro fascino, della loro mortalità, e un brivido mi percorrevo.

Non era facile arrivare all'improvviso a credere ai vampiri. Perché ci credevo, ormai.

Loro erano reali, e si confondevano con noi esseri umani. Creature più forti, più potenti, e più crudeli dell'uomo.

Io avevo invaso la loro casa, loro avevano invaso la mia vita e i miei incubi. Feci scivolare le mani sul mio collo, setacciando ogni singolo centimetro di pelle, alla ricerca di qualcosa di preciso. Qualcosa che non trovai.
Incredula, mi sfilai velocemente la maglietta, mentre scendevo dal letto, lasciando alle mie spalle una montagna caotica di lenzuola.
Nulla illuminava la stanza, ad eccezione di un debole spicchio di luna. Armeggiai con la sagoma di un candelabro sul mio comodino, e ci trovai accanto una scatolina di fiammiferi. Ne ruppi sei per la troppa foga, ma il settimo sprigionò una fievolissima scintilla, che si trasformò in una piccola fiammella.

Accese le tre candele, come per effetto di un incantesimo, una serie di lampade brillarono nella stanza, gettando una luce diffusa e gradevole su essa.

Uno specchio rifletté l'immagine di una ragazza che non avevo mai visto prima, dalla testa ai piedi. I capelli neri, spettinati, erano i miei. Il verde di quegli occhi mi era familiare, ma questi riflettevano una preoccupazione ed un'angoscia che non mi era mai appartenuta. Anche i lineamenti assomigliavano ai miei, ma in quel momento mi parvero più scarni che mai, e la carnagione eccessivamente pallida, come quella di un malato.

Una mano smunta reggeva un candelabro, tre fiammelle divampavano alle estremità. Quella figura sembrava quasi il mio fantasma.

La mia concentrazione, però, non cadde sul miserabile spettro in carne ed ossa di me stessa. Ispezionai con lo sguardo la carne del mio petto, dalle quali sporgeva una serie di ossa, e del mio ventre, e poggiai il candelabro sul cassettone per osservare anche le braccia.

Non c'erano segni di morsi.
Quasi mi stupii, perché quel sogno mi era parso talmente vivido che avrei giurato di riportarne i segni. Scossi la testa, rendendomi conto dell'assurdità delle mie preoccupazioni

In secondo luogo, però, mi meravigliai che nessuno dei miei “ospiti” fosse venuto ad azzannarmi durante il sonno. Ne fui estremamente sollevata. Forse non nutrivano poi molto interesse per me.

Sposa sacrificale. Cosa significava?
Non intendevo scoprirlo.

Mi spogliai anche dei pantaloni con cui avevo dormito, gli stessi con cui ero arrivata alla villa. Avevo pochi ricordi, confusi, dopo l'incontro con il ragazzo con le occhiaie. Non avevo avuto il coraggio di cambiarmi, prima di distendermi sul materasso, completamente sfinita e troppo spossata.

Forse il sonno sarebbe riuscito a calmarmi, forse dopo avrei riacquistato lucidità. Non aveva funzionato, ma non potevo farci niente.

Mentre cercavo nella borsa da viaggio qualcosa da indossare, voltavo istintivamente il capo a guardarmi intorno. Vista la mia condizione in quel momento, non avrei affatto gradito la comparsa improvvisa di uno di quei pazzi.

Vampiri.

Dovevo ancora abituarmi al termine.

Scostai alcuni vestiti estivi inseriti in superficie, che avevo deciso all'ultimo minuto di portare per le giornate più calde, pur essendo una persona freddolosa. Essendo agli sgoccioli dell'autunno, il guardaroba che avevo con me era per lo più invernale, e ringraziai il cielo per questo.

Mi infilai in un caldo maglione di lana color lampone, che copriva abbastanza bene il collo, e avvolgeva le mie mani fino alle dita. Forse avevo esagerato con le taglie, alle quali non prestavo mai molta attenzione durante le spese stagionali, ma in quella situazione mi tornò utile.

Non ero certa che un capo di abbigliamento ingombrante avrebbe fermato quei ragazzi dai loro scopi, ma era sempre meglio di una canottiera scollata, che fondamentalmente era un cartello luminoso urlante “MORDERE QUI”.

Una volta vestita, il che mi mise un po' più a mio agio, cercai di capire che ore fossero. Il mio cellulare era scomparso, e tutto ciò che avevo era un piccolo orologio dorato, che fungeva da soprammobile, bene in vista sulla mensola sopra al camino di pietra.

Purtroppo, le lancette erano immobili.

Anche se ero certa che fosse ormai notte, non avevo la concezione del tempo. Per quanto avevo dormito? Qualche ora? Un giorno intero?
Nessuno era venuto a svegliarmi o a disturbarmi, perciò non potevo essere stata addormentata per molto tempo.

Era necessario mettere ordine alle idee e agire in modo logico, ma la paura, supportata dall'incubo, bussava incessantemente alle porte della mia mente.

Ero bloccata in quella casa, in compagnia di sei vampiri.

Naturalmente si sarebbero aspettati una mia fuga improvvisata, del tutto guidata dall'impulso.

Erano più veloci e più forti di me. Se agivo in modo prevedibile, mi avrebbero fermata subito. Forse mi avrebbero fatto del male. Nella peggiore delle ipotesi, mi avrebbero uccisa.

Ero un bersaglio, un bersaglio debole. L'unica arma che avevo era la sorpresa. L'unico modo per scappare era farlo come non se lo sarebbero aspettati.
Riflettere su ogni minimo dettaglio era essenziale, la mia sola possibilità.

Erano più veloci e più forti, ma io sarei stata più furba.

Una volta spostati tutti i miei abiti nell'armadio e negli svariati cassetti, sistemai i bagagli vuoti in un angolo della stanza, uno sopra l'altro. Impilai i libri sulle mensole, ma non ci stavano tutti, così ne impilai alcuni sopra al camino. Feci sparire l'orologio non funzionante.

Per fare il mio letto ci misi più del previsto, data la quantità esagerata di lenzuola.
Non mi definivo una persona ordinata, tuttavia, la chiave con cui avevo bloccato la porta della camera era da qualche parte in mezzo a quel caos.

Quando finalmente riuscii a trovarla, immersa sotto strati di piumone, qualcos'altro catturò completamente la mia attenzione.

Più precisamente, un suono. Il rintocco rimbombante di un campanile.

No, non di un campanile, mi corressi, bensì di un grande orologio.

Contai sottovoce, com'ero solita fare fin da bambina. Dieci rintocchi precisi.

Subito dopo, una serie di rapidi, secchi colpi provenienti dalla porta mi costrinse a trattenere il fiato. 























Buonasera, eccomi qua come al solito :)
Non vedevo veramente l'ora di aggiornare! Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento, se è così vi sarei molto grata se lasciaste una recensione, anche molto breve. non fa male a nessuno, no? inoltre ringrazio di cuore Alyx Evans UnaScuotitriceDiParole per aver recensito i capitoli precedenti, ho apprezzato molto ♥ ah, naturalmente anche tutti voi meravigliosi lettori silenziosi.
Beh, ci vediamo al prossimo aggiornamento, che avverrà molto presto!
Hasta pronto, 

Nico-chan

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Capitolo 8
*** VII, Closed Doors ***


 

VII

Closed Doors

 




 

Ora vedo che la pace corrompe,
non meno di quanto la guerra devasti.

Jhon Milton

 















Deglutii, rigirandomi la chiave di ferro tra le mani. Entrambe le estremità erano molto elaborate, impossibili da replicare. Probabilmente tutte le chiavi della Casa erano simili a quella, in quanto a particolarità.

Il mio respiro si fermò per ben otto secondi, finché un altra serie di colpi, stavolta più insistenti, ma pur sempre contenuti, percosse la porta.
Mi chiesi come mai uno di loro stesse bussando, quando poteva semplicemente apparire alle mie spalle.

“Hisoka-san” mi chiamò una voce fredda, distaccata. Quella del ragazzo alto, dai capelli grigi e i capelli rossi. Non sapevo esattamente cosa pensare di lui, poiché mi era parso il più imparziale del gruppo. La sua aria rigida, tuttavia, aveva un che di inquietante, capace di mettere in soggezione. “Ti consiglio di aprire immediatamente.”

Pressai tra loro le labbra, stringendomi al petto la chiave fino a che i miei polpastrelli divennero bianchi.
Nemmeno io riuscivo a comprendere la mia esitazione, quando sapevo benissimo che una porta chiusa a chiave non li avrebbe fermati. Forse, nel profondo, intendevo ritardare il più possibile il momento in cui avrei rivisto uno di quei volti bianchi e distanti.

“Non vorrai costringerci ad entrare senza il tuo permesso, Bitch-chan.” A quell'appellativo inconfondibile, raccolsi il coraggio.

Con pochi passi raggiunsi la porta, e percepii persino la loro presenza oltre il legno scuro. Era tiepida, tutt'altro che raccapricciante.

Avrei dovuto sentire il bisogno di indietreggiare, di correre via da quelle creature, ma non era così.

L'energia che propagavano mi attraeva.

Girai velocemente la chiave nella serratura. Dopodiché, senza indugiare, dischiusi il l'uscio, inquadrando subito due figure slanciate ferme sulla soglia.

Il ragazzo coi capelli rossi era appoggiato con disinvoltura allo stipite, a una manciata di centimetri dal mio viso, e provai l'impulso di ritrarmi.
Riuscii a rimanere imperterrita al mio posto, spostando lo sguardo sull'altro giovane. Gli occhi scarlatti di quest'ultimo mi trafissero senza esitazione, più gelidi di quanto ricordassi.

“Siamo venuti per verificare che ti fossi sistemata adeguatamente” affermò il grigio, sistemandosi la giacca con un gesto distaccato.

“A cosa devo la cordialità?” chiesi, aprendo completamente la porta.

I due setacciarono la stanza con un'occhiata, per poi tornare a me. Nessuno dei due rispose alla mia domanda sarcastica, che evidentemente non meritava di essere considerata.

“Vedo che ti sei adattata alla perfezione. Naturalmente, se stupidamente ti venisse in mente di scappare...” proseguì lui, accrescendo l'aria minacciosa nelle pupille rosse, ma lo interruppi.

“Non ne ho intenzione.” Tirai un sorriso amaro, che risultò piuttosto credibile. “Dove potrei andare?”

Laito inarcò le sopracciglia, stupito dalle mie parole, ma il grigio non si scompose.

“A quanto pare, almeno tu hai un minimo di cervello” commentò. Poi, in un gesto totalmente imprevedibile, si sporse eccessivamente verso di me. Il fiato mi morì in gola.
“Solo per essere chiari – sussurrò – non ti servirà a nulla, qui.”
Se il rosso sentì le sue parole, le ignorò beatamente. Indossava ancora il suo suadente sorriso quando mi chiese “Dormito bene?”
Non capii se la domanda nascondesse un senso provocante, ma probabilmente era così.

Incrociai le braccia al petto, sulla difensiva. “Benissimo, Laito-kun” mentii.

Lui ridacchiò. “Ne sono lieto. Spero tu abbia detto addio alla luce del giorno.”
Dapprima non compresi il senso della sua affermazione. Dopo pochi secondi, però, la mia mente giunse alla soluzione.

D'allora in avanti, ovviamente, avrei dovuto vivere di notte. Ebbi un fremito, comprendendo di non poter più vedere il sole, né ogni cosa appartenesse al giorno.

L'oscurità, che da allora divenne la mia più cara amica, abbracciò affettuosamente il mio cuore, accogliendomi nel mondo delle ombre. Nel mondo governato dalle creature delle tenebre.

Mentre accettavo questo cambiamento, annuii.
“Non era necessario che facessi il tuo letto. Ci pensano già i domestici” mi riprese con severità il ragazzo dagli occhi rossi.

Io corrugai le sopracciglia, sorpresa. Com'era possibile che non si fossero ancora licenziati, lavorando in una casa da brivido per dei padroni così sgradevoli?

Preferii non replicare, rischiando di irritarli.
Il grigio tossicchiò fintamente, prima di cimentarsi in un altro discorso. “Ad ogni modo, è necessario che tu venga a sapere alcune cose riguardanti la tua condizione attuale. Inoltre non hai ancora appreso completamente le nostre identità, il che è tremendamente disdicevole. Devi conoscere i tuoi padroni.”
“Non siete i miei padroni” replicai di slancio, senza riflettere.
Ciò mi costò un'occhiataccia da parte del grigio, mentre Laito sorrideva bonariamente.
Trascorsero pochi, estremamente lunghi secondi, interrotti bruscamente dal maggiore dei due.

“Sei attesa nella Sala da Pranzo. E ti conviene non parlare troppo, se non vuoi essere punita.”

 

Il portone si richiuse alle mie spalle con un cigolio acuto e sinistro. D'altronde, non avrei potuto aspettarmi nulla di diverso.

Quel terrificante incubo aveva irreparabilmente condizionato il mio modo di guardarmi attorno. Ogni ombra sembrava tendermi un agguato, in attesa del momento più adatto per aggredirmi. Di tanto in tanto, durante il percorso, mi sembrava di avvertire un'insolita pressione in due precisi punti del collo, coperti dai capelli.

Allora tastavo la pelle con la mano, e quella sensazione si faceva più debole, quasi nulla, ma non completamente.

Non c'era nessuna concreta traccia di un morso, ma quell'orrenda impressione non svaniva. Era come se avessi già subito qualcosa del genere sulla mia carne. Eppure il mio corpo non riportava alcun segno che potesse essere stato inferto da un paio di canini.

Non volevo più ripensare a quell'incubo, ma non era semplice allontanarlo, dal momento che ben sei vampiri mi circondavano.

Quando avanzai qualche passo nella Sala da Pranzo, non attirai l'attenzione. Ne fui sottilmente sorpresa.

A prima vista, quella che mi si presentò di fronte poteva sembrare una comunissima scena quotidiana.

Ayato era seduto di fronte al ragazzo biondo, del quale avevo a malapena afferrato il nome. Mi sembrava si chiamasse Shu, o qualcosa del genere. Delle cuffiette erano infilate nelle orecchie di quest'ultimo, appoggiato con disinteresse allo schienale della sedia.
Il rosso, invece, concentrava tutta la propria attenzione su una scacchiera, posta sul tavolo in mezzo ai due. Il ragazzo teneva le sopracciglia corrugate, la bocca nulla più che una linea pallida.

Era evidente che ci mettesse molto più impegno del biondo, che invece non si curava per niente del gioco in corso. Pareva totalmente perso nella propria apatia.

Mi chiesi quanto dovesse aver insistito Ayato, per convincere una persona del genere ad accettare una sfida a scacchi. Shu non sembrava esattamente il tipo che si mette in gioco.
Notai che Subaru si era isolato dal lato opposto del tavolo, con le braccia incrociate sopra il ripiano di legno, e trafisse con un gelido sguardo prima il ragazzo con i capelli grigi, e poi Laito, il quale si sedette indisturbato a pochi posti di distanza da lui.

“Ti stai chiedendo come la nostra piccola sgualdrina sia arrivata incolume fin qui?” lo riprese il rosso, mentre le sue labbra si allargavano leggermente.

Il lupo bianco ringhiò. “Con te nei paraggi, mi sembra più che ovvio.”

L'altro rispose con un'alzata di spalle, ma non sembrava contrariato. Le sue iridi smeraldine si impiantarono nelle mie, così attraenti che a stento riuscii a ricordarmi chi fossi e dove fossi.

Chissà di cos'era fatta l'anima di quelle creature per emanare un'energia così potente, poiché mai avevo percepito qualcosa di lontanamente simile tra gli esseri umani.

D'un tratto, però, i miei pensieri presero un'altra direzione, del tutto inaspettata.

Interruppi immediatamente il contatto visivo, cercando il colpevole del mio incubo. Volevo essere sicura di averlo a distanza. Se non lo vedevo, significava che poteva essere dovunque.
E il concetto di dovunque non mi piaceva. 























Buonasera♥
Come al solito, eccomi qui. Spero davvero tanto che il capitolo vi sia piaciuto, e sarei felicissima se decideste di lasciarmi una piiiiccola recensione per farmi sapere. 
Comunque, abbiamo una seconda visione dei fratelli Sakamaki ma, ahimè, ne manca uno. Inoltre, Arashi si rende conto che comincia la sua vita "notturna" insieme ai 6 vampiri. Mi scuso come al solito se i capitoli sono molto brevi, ma ho paura di risultare pesante altrimenti. 
Ah, volevo anche informarvi che presto cambierò nome in Amaya Mai, e non sarò più novegiugnoduemilatredici, solo perché non vi sorgano dubbi :)
Ringrazio UnaScuotitriceDiParole Alyx Evans per aver recensito i capitoli precedenti, e anche chi ha inserito la storia tra le preferite e le seguite, grazie♥
A presto!
Nico-chan

 

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