Long Walk Home

di MagicRat
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Nello stesso istante in cui Patti si alzò dal letto, Bruce si svegliò. Lo faceva sempre, anche se poi, mentre sua moglie si lavava e vestiva, lui dormiva ancora per qualche minuto. Quando il bagno fu libero si alzò stiracchiandosi.
Alcuni istanti dopo stava attraversando il soggiorno in cui regnava un disordine che riusciva sempre a confortarlo. Il libro che sua figlia aveva abbandonato sul tappeto e su cui andò a sbattere con il piede lo confortò decisamente meno.
Zoppicando leggermente entrò in cucina, dove Patti stava preparando i caffè.
Sam, il suo figlio più piccolo, invece, era seduto davanti ad una tazza di latte. Era pallido e con lo sguardo fisso nel vuoto.
Bruce si avvicinò alla moglie “Sta male?”
“No. Ha la verifica di storia”.
L’uomo prese una tazza e si sedette davanti al figlio, cercando di catturare il suo sguardo.
“Hai paura per la verifica?” chiese poi.
Sam si limitò ad annuire.
“Posso consigliarti un modo per superarla, se vuoi. Un modo praticamente infallibile”
Il ragazzo si chinò in avanti, improvvisamente interessato a quello che il padre aveva da dirgli.
“Hai detto che piaci a una tua compagna di classe, vero?” continuò Bruce.
“Si, forse…”
“Ottimo. Adesso, quando arrivi a scuola, chiedile se vuole uscire con te questo pomeriggio. Vedrai che durante il compito ti farà copiare”
“Bruce!” Patti tirò una pacca sulla schiena del marito.
“Che c’è? Io ho superato un sacco di compiti, così”
“E si vedono i risultati. Sam non ascoltare tuo padre, è un idiota. Vai a prendere il giubbotto, è tardi”
Uscirono di casa lasciando Bruce a terminare la colazione da solo.
Iniziò a sfogliare il giornale, leggendo le notizie di attualità ed esaminando i risultati delle partite di baseball.
Ad un tratto si accorse che tra le pagine del quotidiano era stato sistemato un inserto per pubblicizzare le case in vendita. Diede un’occhiata anche a quello, senza un preciso motivo.
Riconobbe alcuni indirizzi che conosceva, ci passava spesso davanti in macchina, ma la sua attenzione venne attirata da un particolare annuncio. Lo rilesse più volte, per assicurarsi di non essersi sbagliato e alla fine ne fu sicuro: una volta, diversi anni prima, quella casa era stata sua.
Si grattò la tempia pensieroso. Aveva tutta la giornata a disposizione e niente da fare.
In meno di dieci minuti si era lavato e cambiato ed era salito in macchina.
Voleva andare là, voleva vederla ancora una volta.
Mentre usciva dal portone di casa ripensò alle numerose case (anche se, effettivamente, non tutte potevano essere definite tali) dove aveva abitato. Di alcune conservava solo una vaga memoria, appartamenti che aveva condiviso per brevi periodo con alcuni amici.
Ad altre invece era più affezionato e le collegava a particolari ricordi.
La prima che gli venne in mente fu la casa di Freehold dove aveva vissuto da bambino.
 

Bruce osservò alcuni bambini passarsi un pallone nel campetto dietro la chiesa. Stavano ridendo, probabilmente per qualche barzelletta o battuta.
Non si erano accorti di lui e lui non voleva farsi vedere. Restare da solo non gli dispiaceva, anzi. Così poteva perdersi nei suoi pensieri e nei suoi giochi senza essere disturbato da nessuno.
Si allontanò dall’edificio scolastico senza riuscire a trattenere una smorfia di disgusto e andò a rintanarsi in un piccolo boschetto. Aveva scoperto quel posto poco tempo prima e lo aveva subito eletto a suo rifugio preferito. Nessuno sarebbe andato a cercarlo lì e c’erano sassi, legni e un piccolo corso d’acqua. Tutto quello che gli serviva per giocare con i suoi soldatini.
Li lasciò cadere sulla sabbia per poi dedicarsi alla costruzione di un fortino.
Era appena iniziato settembre e faceva ancora abbastanza caldo per stare in braghe e maniche corte.
Giocò per diverse ore, simulando guerre tra soldati e indiani, oppure prendendo ispirazione dalle storie di Cowboy Bill, il protagonista del libro che la sua mamma gli leggeva quasi ogni sera quando era più piccolo.
Alla fine il sale iniziò a tramontare e Bruce infilò nuovamente tutti i suoi soldatini nelle tasche prima di tornare a casa.
La macchina di suo padre non c’era, ovviamente. Forse era andato da qualche amico o da qualche altra parte. In compenso, Bruce trovò la madre in compagnia della sorella.
Erano entrambe allegre ed eccitate per qualcosa. Mentre mangiava, Bruce capì che doveva trattarsi di un ospite dell’Ed Sullivan Show, ma non prestò molta attenzione a quello che dicevano, aveva la testa ancora piena di cowboy e indiani e quando terminò la cena preferì sedersi vicino a sua sorella Virginia e legere un giornalino piuttosto che seguire il programma.
Adele e la sorella continuarono a chiacchierare fino a quando il presentatore non introdusse l’ospite della serata.
“Signori e signore… Elvis Presley!”
“Oh, eccolo!” esclamò estasiata la zia di Bruce.
Lui ascoltava musica praticamente da sempre. A sua madre piaceva e spesso, quando cucinava o riordinava la casa, improvvisava qualche balletto sulle note delle canzoni che venivano trasmesse alla radio. Inoltre, ogni volta che andavano a casa della zia, Bruce e Virginia provavano a suonare qualche nota con la pianola che lei teneva in soggiorno.
La musica piaceva a Bruce, ma niente di quello che aveva sentito era minimamente paragonabile a ciò che stava sentendo in quel momento.
Presto si dimenticò del giornalino e la sua attenzione fu totalmente catturata dal ragazzo inquadrato dalla telecamera.
I sui capelli erano ricoperti di brillantina e un ciuffo continuava a ricadergli sulla fronte. Si muoveva con disinvoltura, con lo sguardo fisso sul pubblico.
L’esibizione finì troppo presto, Bruce avrebbe potuto continuare a guardarlo per ore e non pensò ad altro per il resto della serata. Quando si infilò nel letto e spense la luce cercò di ricreare nella sua testa i suoni che aveva sentito finché non si addormentò.
Il giorno seguente camminò fino al negozio di dischi. Osservò le copertine e le foto esposte sulle pareti dedicando maggiore attenzione a quelle di Elvis e lasciò scorrere il dito sul legno lucido di una chitarra.
Costava tutto troppo quanto per lui e alla fine si rintanò nel suo rifugio tra gli alberi. Questa volta però, non giocò con i suoi soldatini: i suoi pensieri erano fissi su chitarre e dischi e continuarono ad esserlo per le settimane successive.
“Voglio essere come lui” si disse un giorno. Di questo ormai era sicuro. Voleva saper cantare e muoversi come Elvis e tutti gli altri musicisti che sentiva per radio.
Aveva ancora dei piccoli dubbi su come avrebbe fatto a raggiungere il suo sogno, ma intanto sapeva come iniziare.
 
“Mi regali una chitarra?” Le aveva fatto la domanda senza nessun preambolo. Era entrato in cucina mentre lei stava preparando la cena e glielo aveva chiesto.
“Una chitarra? E perché?” chiese Adele leggermente stupita dalla richiesta del figlio.
Bruce fece spallucce “Per suonare”
“Tu non sai suonare la chitarra”
“Infatti. Me ne serve una per imparare”
Adele stese la tovaglia sul tavolo “E pensi di imparare da solo?”
“C’è un tizio che dà lezioni. Potrei studiare da lui…” fu interrotto dalle risate di sua madre.
Tu hai intenzione di studiare qualcosa di tua spontanea volontà?”
“Questo è diverso! Non è come a scuola, è musica!”
“Si deve studiare tanto comunque. E una chitarra costa troppo”
“Ma mamma! Io ho bisogno di una chitarra!” protestò Bruce
“Davvero? Perché è così indispensabile?”
Bruce aprì la bocca per spiegarle il motivo, ma capì che sua madre non avrebbe capito tutti i suoi progetti per diventare una rock star. Si sarebbe messa a ridere di nuovo.
“Perché mi piace…” si limitò a dire a bassa voce.
Adele gli scompigliò i capelli ritenendo chiusa la questione ed andò a chiamare la figlia e il marito per la cena.
“Non finisce qui” borbottò Bruce.
Visto che le sue motivazioni sarebbero state respinte dalla madre come una semplice mania momentanea – di questo Bruce era sicuro – decise di usufruire di una tecnica che aveva dato buoni risultati in passato. Una tecnica che Adele aveva ribattezzato ‘Lo Sfinimento’.
La mattina successiva, Bruce scese per fare colazione e come prima cosa, con un largo sorriso chiese alla madre “Allora, mi regali una chitarra?”
Come previsto, la risposta della donna fu nuovamente un ‘no’.
La scena si ripeté il giorno dopo e quello dopo ancora, fino a quando Adele non si limitò ad ignorare la domanda del figlio, che come risposta iniziò a fargliela anche quando tornava da scuola e prima di andare a dormire.
I giorni passavano e i tentativi di Bruce non davano segno di diminuire, nonostante i risultati fossero praticamente nulli, se si escludevano le espressioni esasperate della madre.
Una mattina, a scuola, Bruce si rese conto che non poteva continuare così. ‘Lo Sfinimento’ aveva fallito, o forse la sopportazione della madre era aumentata considerevolmente.
Quello che lo preoccupava maggiormente era il fatto che Natale si stava avvicinando e quella era l’occasione perfetta per ricevere il suo regalo.
Osservò il disegno che aveva fatto sul quaderno – una piccola chitarra lievemente sformata – e un’idea iniziò a farsi strada nella sua mente. Alla fine decise di seguire un nuovo piano.
Con grande sollievo di Adele non accennò più alla chitarra che voleva in regalo, tanto che la donna si convinse di averla avuta vinta.
La prima sera di vacanza Bruce e Virginia restarono svegli più del solito, come succedeva sempre e quando fu il momento di andare a dormire, Bruce si sistemò nel letto, aspettando finché in casa non ci fu più il minimo rumore. Poi si alzò e aprì il cassetto della scrivania.
Prese i cartoncini che aveva preparato quel pomeriggio insieme alle matite colorate e si mise a lavoro.
 
Adele si svegliò al primo squillo della sveglia, come ogni mattina.
Indossò la vestaglia e si diresse in bagno. La prima cosa che notò fu il cartoncino attaccato allo specchio. Capì subito di chi era stata l’idea non appena vide la chitarra disegnata sopra.
Scese le scale e trovò un cartoncino simile sullo schermo della televisione, sul vetro della credenza e sulla porta della cucina.
Doug, suo marito, era seduto al tavolo e stava leggendo il giornale.
“Dì, cos’è questa storia?” le domando appena la vide. In mano aveva un altro cartoncino.
“Dove l’hai trovato quello?” chiese Adele in risposta.
“In frigo. Era sul barattolo della marmellata. Ce ne sono altri in…” si interruppe quando la moglie depositò sul tavolo tutti i cartoncini che aveva raccolto per la casa “Ah, li hai già visti”
Adele aprì l’armadio per prendere la sua tazza, quella con la stampa a fiori. Ovviamente un cartoncino era stato attaccato anche lì.
“Oh, Cristo Santo!” Adele si lasciò cadere sulla sedia ridendo “Beh, se quel cocciuto di nostro figlio userà la stessa determinazione per imparare a suonare, forse otterrà qualche risultato”
 
La mattina di Natale Bruce e Virginia si svegliarono e per prima cosa si precipitarono in soggiorno.
Bruce la vide subito, posizionata sotto l’albero. La carta da regalo non poteva nascondere del tutto la sua forma.  La liberò dall’involucro delicatamente per paura di rovinarla.
Era di plastica e anche lui riusciva a capire che la qualità non era delle migliori, ma era la sua chitarra. La sua prima chitarra.
Se la posizionò in grembo e fece scorrere le dita sulle corde.
Sorrise, quando il suono riempì la stanza.

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Salve!
Come prima cosa, vorrei chiedervi scusa per quello che ho appena pubblicato e per i prossimi capitoli (ma non saranno molti).
La mia idea era quella di raccontare alcuni episodi della vita di Bruce e ognuno di questi ricordi, come è scritto anche nel testo, sarà collegato ad una determinata casa.
Prima di scrivere ho riletto alcuni capitoli di "Bruce" di Peter Ames Carlin e "Come un killer sotto il sole" di Leonardo Colombati, ma non ho seguito alla lettera le informazioni riportate su questi libri, alcuni episodi li ho scritti prendendo ispirazione dalle canzoni di Bruce.
Ovviamente non ho ricontrollato molto bene il testo, se trovate errori ditemelo pure. E come al solito consigli/giudizi/pareri sono sempre ben accetti :)
Detto questo, spero di non aver fatto schifissimo.
Alla prossima ;)

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Bruce si massaggiò il collo, cercando una posizione più comoda sul sedile.
Ripensò a quando la sua famiglia si era trasferita in California e lui aveva dovuto trovare un’altra sistemazione. Erano seguite numerose notti trascorse su divani troppo piccoli e scomodi, sacchi a pelo, piccoli appartamenti condivisi con Steven ad Asbury Park e anche una fabbrica di tavole da surf.
In quel periodo condividere la casa con qualcuno era la norma, visto che l’unica cosa che faceva era suonare e i soldi a disposizione erano pochi. Vedeva ancora alcune delle persone con cui aveva all’epoca e, soprattutto, suonava ancora con loro.
Altri invece erano spariti, usciti per vari motivi dalla sua vita, ma se li ricordava molto bene.
Uno di questi era Sonny.
 
Stava aggiustando le corde della chitarra quando sentì il rumore. Era stato come un tonfo, proveniente dal soggiorno.
Posò la chitarra e facendo meno rumore possibile uscì dalla camera.
“Se è di nuovo quel gatto schifoso giuro che…” si bloccò di colpo, appena vide che il responsabile del rumore non era il gatto che già altre volte si era intrufolato nel suo soggiorno, ma una persona. Se ne stava accucciata sotto la finestra e sbirciava oltre la tenda.
Bruce agì d’istinto, senza farsi troppe domande sullo strano comportamento dell’intruso. Si avvicinò a passi svelti, lo afferrò e lo sbatté contro il muro tenendolo bloccato.
“Chi cazzo sei tu?” urlò.
L’altro alzò subito le mani in segno di resa “Shhh, ti prego non urlare! Se quelli mi beccano sono morto. Ti prego!” aveva parlato a voce bassa e concitata, sembrava realmente spaventato.
Bruce, comunque, non era ancora convito. Rinforzò la presa sulla maglietta del ragazzo. “Sei un ladro schifoso?”
“Ladro? Io?” l’intruso iniziò a gesticolare freneticamente “Ma no, no! Stavo solo scappando da qui tizi. Se non mi credi guarda fuori. Guarda!”
Effettivamente, nella strada davanti al cortile di casa c’erano due uomini con il fiatone. Si stavano guardando intorno, in cerca di qualcosa. O di qualcuno.
“Ho visto la finestra aperta e sono saltato dentro. Mi dispiace, ma non sapevo dove andare! Se quelli mi beccano…”
“Ok, basta così” Bruce cercò di zittire il ragazzo. Ormai era quasi sicuro che non si trattava di un ladro. Del resto, non c’era molto da rubare in quella casa.
L’altro però continuò a balbettare scuse “Davvero, mi dispiace! Non sono un ladro, io non…”
“Ho detto basta!” Bruce lasciò andare la maglietta del ragazzo. I due uomini erano spariti correndo lungo la strada.
“Non voglio sapere altro. Tu adesso esci da qui e non ti fai più vedere. Chiaro?”
“Io… ok, ok” aprì la porta e si assicurò di avere la via libera. Ringraziò velocemente Bruce e poi se ne andò correndo.
Bruce si abbandonò sulla poltrona e sospirò passandosi una mano sul volto barbuto.
“Cristo. Preferivo il gatto”.
 
Nei giorni seguenti il ragazzo non si fece più vedere. Bruce raccontò ciò che era successo a Steve e agli altri per farsi due risate, ma presto se ne dimenticarono tutti.
Erano troppo impegnati a suonare, ascoltare nuovi dischi e trovare posti in cui tenere concerti.
Bruce in particolare era così impegnato da quelle cose da lui ritenute di vitale importanza che finì per dimenticarsi del compleanno della sua ragazza. O forse era il loro anniversario. In ogni caso, doveva trattarsi di qualche avvenimento importante, perché Kathy non esitò a tirargli un sonoro ceffone.
Bruce aveva appena finito di suonare in un bar quando era andato da lei in cerca di complimenti e ammirazione, invece era stato accolto da un viso imbronciato e numerosi insulti. Seguire Kathy fuori dal locale cercando i calmarla non era servito a niente, se non, appunto, beccarsi una sberla.
“Ma Kathy, tesoro…” Bruce provò nuovamente a scusarsi e la ragazza si infuriò ancora di più.
“Tesoro un corno! Vuoi più bene a quella tua stupida chitarra che a me. È finita” Kathy se ne andò senza aggiungere altro e lasciò Bruce da solo a massaggiarsi la guancia dolorante.
“Certo che poteva colpirmi anche un po’ più piano”
Stava per rientrare nel bar quando una voce alle sue spalle lo chiamò.
“Hai… hai fatto arrabbiare la signora, eh?”
Non riuscì a capire subito chi era stato a parlare. Strizzò gli occhi e alla luce del lampione vide una sagoma scura accasciata contro il muro. Si avvicinò di qualche passo e riconobbe il ragazzo che tempo prima era entrato nel suo soggiorno. Aveva i capelli sudati appiccicati alla fronte, il naso sanguinante e le mani premute sulla pancia.
“Alla fine i tuoi amici ti hanno trovato, vedo” disse Bruce.
“Già. Erano così felici di vedermi” il ragazzo si mise seduto a fatica “Comunque prima di… conversare con loro ho visto un pezzo del tuo concerto. Sei bravo a suonare”
“Davvero? Beh, grazie” sbuffò scocciato per quello che era successo con la sua ragazza. Ex ragazza.
“Io mi sono rotto di stare qui. Ci si vede”
L’altro si limitò ad annuire e si asciugò il sangue con il dorso della mano. Vedendo quel gesto, Bruce si fermò.
“Senti… hai bisogno di un passaggio fino a casa? Ho la macchina”
“Grazie, ma non vorrei avere il piacere di incontrare ancora i miei amici, per oggi”
“E allora dove pensi di dormire?”
“Boh. In giro”
Bruce sospirò. Anche lui si era ritrovato in situazioni simili, a volte. “Ho un letto libero, se vuoi” propose alla fine.
“Io non vorrei disturbare…”
“Sei già entrato dalla finestra una volta. Adesso che ti invito io rifiuti?” lo aiutò ad alzarsi “Dai, sali in macchina. Vado a prendere la mai roba”
Una volta tornato a casa Bruce mise delle lenzuola sul letto e diede una scatola con cerotti e disinfettanti a Sonny. Il ragazzo aveva detto di chiamarsi così.
La mattina seguente Sonny fece il suo ingresso in cucina zoppicando. Il suo aspetto era leggermente migliore, ora che si era pulito le ferite e sistemato un po’ i capelli neri.
Si sedette a tavola e Bruce gli allungò una tazza di caffè.
“Giusto per curiosità, come mai ti hanno ridotto così?” chiese Bruce.
Sonny tossì imbarazzato “Ma niente, una sciocchezza. Avevo comprato delle… cose da questi tizi e dopo loro hanno aumentato il prezzo e… Sai come va a finire in questi casi”
Bruce sollevò un sopracciglio “Delle ‘cose’?”
“Si, io avevo preso delle, uh, pasticche, sai…” fece una risata nervosa. Del resto chi non prende delle pasticche ogni tanto?”
“Io” rispose serio Bruce.
“Ecco, appunto” Sonny si guardò intorno cercando disperatamente una via di fuga da quella conversazione sempre più pericolosa. Con suo grande sollievo, vide un disco appoggiato su un mobile.
“Oh, è degli Animals quello?” andò a prenderlo ed esaminò la copertina “Mi piacce We gotta get out of this place” borbottò poi.
Bruce perse, almeno temporaneamente, interesse per la storia delle pasticche “È una delle mie canzoni preferite! Ogni tanto la suono”
Ormai erano quasi le dieci. Sonny appoggiò il disco sul tavolo.
“Ti ho disturbato abbastanza. È meglio se vado. Grazie per l’ospitalità”
Bruce annuì e lo salutò con un cenno del capo, dispiaciuto di dover interrompere la conversazione proprio quando iniziava a farsi interessante.
 
Questa volta non passò molto tempo prima del loro successivo incontro. Solo due giorni dopo, Bruce entrò in un piccolo ristorante dove ogni tanto andava a mangiare e trovò Sonny seduto ad un tavolo con un grande zaino al suo fianco.
“Sei in partenza?” gli chiese Bruce sedendosi vicino a lui.
Sonny scosse la testa “La signora che mi affittava la stanza ha detto che ‘due signori molto loschi e poco raccomandabili’ dono venuti a cercarmi l’altra sera. Ha detto che non voleva rogne e mi ha chiesto se potevo gentilmente togliermi di torno”
“E dove andrai adesso?”
“Boh. In giro” rispose per la seconda volta Sonny. Il fatto di essere rimasto senza casa non sembrava turbarlo molto. O forse era solo bravo a nascondere la sua preoccupazione.
Da un po’ di tempo Bruce si era rassegnato all’idea che da solo non sarebbe riuscito a pagare l’affitto ancora a lungo. Sfortunatamente, nessuno dei suoi amici aveva la necessità di un alloggio in quel momento.
Rifletté ancora per qualche istante e poi chiese a Sonny “Hai un lavoro?”
Il ragazzo annuì “Sono meccanico” e alzò le mani con le unghie sporche di qualche sostanza scura come prova.
“Senti… il tizio che viveva con me è andato in Florida. O in California, non ricordo. Puoi stare da me, finché non trovi un altro posto”
Il volto di Sonny si illuminò con un sorriso “Davvero?”
“Però ti avviso che suono e faccio parecchio casino” aggiunse Bruce.
“Non è un problema. Grazie amico, mi hai salvato il culo”
Si strinsero la mano per rendere definitivo l’accordo e Bruce si alzò per andarsene.
Prima, però, si rivolse ancora una volta a Sonny “E neanche io voglio avere a che fare con signori loschi e poco raccomandabili”.
Il ragazzo alzò le mani in segno di resa.
 
Bruce e Sonny erano seduti sotto il portico di casa a bere una birra fresca.
Sonny aveva impiegato un solo pomeriggio a sistemare le sue poche cose nella sua nuova stanza e ora stava raccontando a Bruce di una moto che suo padre gli aveva regalato quando era più piccolo.
Si interruppe all’improvviso, appena il suo sguardo si posò su una macchina parcheggiata nel minuscolo garage. Era coperte da un telo e si vedevano solo le ruote.
“Cos’è quella?” chiese alzandosi.
Bruce lo seguì fino al garage “Una macchina. Un mio amico ha lasciato qui dicendo che sarebbe tornato a prenderla. Inizio  a perdere le speranze, visto che è passato più di un anno”
Sonny tolse il telo e rimase quasi estasiato da quello che vide.
 “È una Chevy del ’69!”
“Magnifico!” Bruce cercò di imitare l’entusuasmo di Sonny.
L’altro lo guardò come se avesse bestemmiato in chiesa e iniziò ad esaminare l’interno dell’auto. Aprì il cofano e vi sparì dentro per alcuni istanti.
Quando riemerse, si pulì le mani soddisfatto “Non è in condizioni ottime, ma so come aggiustarla. Ti dispiace se ci provo?”
“Fai pure” Bruce scrollò le spalle e tornò in casa.
 
Sonny si rivelò il coinquilino perfetto per Bruce.
Apprezzava la musica a volumi assordanti più o meno quanto Bruce e non si lamentava delle sue interminabili prove con la chitarra. Trascorreva quasi tutto il suo tempo libero in cortile aggiustando l’auto, i pezzi di cui aveva bisogno se li procurava in officina. Ogni tanto Bruce gli dava una mano, iniziando ad apprezzare sempre di più le macchine e a volte Sonny andava a vedere i suoi concerti.
Presto smise di cercare un altro posto dove andare ad abitare e Bruce non se ne lamentò.
Nel giro di alcune settimane terminò i lavori alla Chevy. La lucidò e pulì fin nel più piccolo angolo, estremamente soddisfatto del risultato.
Purtroppo Bruce non poté godersi molto la nuova macchina: ormai trovare nuovi posti in cui suonare era sempre più facile  e spesso stava via anche interi weekend .
Una sera ritornò a casa dopo un concerto a New York. Era l’una passata, ma trovò Sonny sveglio, seduto in cucina. Quello che attirò la sua attenzione, però, fu il mazzetto di banconote appoggiato al tavolo.
“Cosa sono?” chiese senza neanche salutare il ragazzo.
“Buona sera anche a te. È l’incasso della serata. Duecento dollari”
Bruce era già pronto ad arrabbiarsi “E come cazzo hai fatto a guadagnarli?”
“Ho corso. Con la Chevy. Dovresti vedere che roba, è…”
“Cosa? Perché hai fatto un cosa del genere?” sentire che Sonny aveva vinto quei soldi partecipando a qualche gara clandestina lo fece infuriare del tutto.
“Perché mi piace. E se guadagno dei soldi tanto meglio”
“Soldi per cosa, per le tue pasticche?” Si pentì subito di quello che aveva appena detto. Sonny infatti, offeso da quella insinuazione, scattò in piedi e urlò a sua volta “Per l’affitto! Vaffanculo, sai benissimo che non prendo più quella roba!”
Bruce si lasciò cadere sulla sedia. Era stanco e litigare con Sonny era l’ultima cosa che voleva fare.
“Non voglio che rischi di schiantarti da qualche parte solo per uno stupido affitto” disse con voce normale. Sonny fece un gesto con la mano, come per ammettere che non era stato del tutto sincero.
“Si, beh, non lo faccio solo per quello. Anzi, in realtà è l’ultimo dei motivi”
“E allora perché?” chiese Bruce.
“Per lo stesso motivo che ti spinge a suonare davanti a tutte quelle persone, credo. Per la sensazione che mi da. Perché mi fa sentire bene” si interruppe un attimo cercando le parole più adatte “Non voglio essere come gli altri ragazzi, loro si rassegnano alla vita che gli è capitata, rinunciano a vivere. Io voglio più di questo”
Per un po’ restarono in silenzio seduti al tavolo della cucina. Poi a Sonny venne un’idea.
“Senti Bruce, perché non vieni anche tu?”
“Cosa? Dove?”
“A correre con me. Domani c’è un’altra gara. Circuito semplicissimo e un solo avversario. Cosa ne dici?”
Bruce tossì nervosamente “Non so, io dovrei…”
“Hai paura?” Sonny sapeva benissimo che quella domanda l’avrebbe fatto infuriare e infatti Bruce scattò nuovamente in piedi.
“No che non ho paura di una corsa in macchina!”
“Perfetto, allora. Domani alle undici. Non prendere impegni”
 
La sera seguente, alle undici, Bruce era seduto al posto del passeggero nella Chevy. Era talmente terrorizzato che si rendeva conto di quello che stava facendo. Sonny, al contrario, non sembrava particolarmente preoccupato. Al loro fianco c’era una Ford nera.
“Sai, un tizio mi ha detto che sono un bravo musicista. Che ho potenziale, ma che devo stare attento a non fare le cose sbagliate. E credo che le gare clandestine rientrino in questa categoria”.
“Tranquillo…” Sonny mise in moto la macchina e fece rombare il motore un paio di volte. Un tizio si era posizionato a lato della strada, pronto a dare il via alla corsa.
Il percorso consisteva  in un lungo rettilineo che alla fine si restringeva lasciando passare una sola macchina per poi terminare in un parcheggio vicino alla spiaggia. Bruce si stava chiedendo cosa sarebbe successo se le due auto fossero arrivate contemporaneamente alla strettoia quando Sonny premette l’acceleratore facendo scattare in avanti la Chevy.
“Signore Iddio Onnipotente!” Bruce si appiattì contro il sedile. Stava stritolando la maniglia della portiera.
I lampioni sfrecciavano assurda fuori dal finestrino. Con un sorpasso che sembrò durare secoli, mentre la strettoia si avvicinava sempre di più, Sonny passò in vantaggio. Imboccò la stradina, entrò nel parcheggio e fece compiere mezzo giro all’auto. Con gli occhi pieni di soddisfazione, spense il motore
“Brava” sussurrò alla macchina.
Bruce lo guardò con gli occhi sgranati “È finita?”
“Si, certo. E abbiamo vinto” sotto lo sguardo ancora incredulo di Bruce scese dall’auto per andare a riscuotere la vincita.
Quando furono rimasti soli, scese anche Bruce. I soli rumori che si sentivano erano quelli delle onde e della Ford che si allontanava. Non riuscì più a trattenersi. Prima iniziò a ridacchiare debolmente, poi così forte che si appoggiò alla macchina.
“Ti senti bene?” chiese Sonny preoccupato.
“Scusa, deve essere l’adrenalina” stava per dire altro, ma riusciva a parlare a stento “Mi stavo… pisciando sotto!” aveva le lacrime agli occhi e anche Sonny iniziò a ridere.
“Dio, era tutto così fottutamente veloce” disse quando si fu calmato un po’.
“Si. Ed era fottutamente bello” aggiunse Sonny.
 
 
A Bruce era tornato a ridere ripensando a quella sera.
Aveva corso altre volte con Sonny, ma poco a poco avevano iniziato a vedersi più raramente. Lui stava in giro con il gruppo sempre più a lungo e Sonny aveva trovato lavoro in un’altra città. L’ultima volta che si erano visti gestiva un’officina tutta sua e possedeva ancora la Chevy del ’69.
Bruce vide il cartello con l’indicazione che stava cercando.
Smise di pensare al suo vecchio amico e svoltò a destra.
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Sono consapevole di aver scritto un mattone... forse era meglio se lo dividevo in due parti. Comunque, visto che i capitoli di questa storia sono pochi, cercherò di compensare scrivendo episodi un po' più lunghi rispetto ai miei srandard (o almeno ci provo XD)
Ovviamente il risultato non è esattamente come lo volevo io, spero vi piaccia comunque ;)

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Bruce scese dalla macchina e si calcò il berretto scolorito sulla testa.
La casa era stata verniciata con un colore diverso e avevano sostituito la porta, per il resto era come se la ricordava, come l’aveva trovata quando vi era andato ad abitare nei primi anni Ottanta.
Non ripensava molto volentieri a quel periodo, ma almeno era servito a far nascere uno dei suoi dischi a cui era più affezionato.
Una signora di mezza età, piuttosto paffuta e con le guance arrossate uscì sotto il portico.
“È il Signor Anderson?” gli chiese.
Bruce scosse la testa.
“È qui per vedere la casa?” chiese ancora la donna.
“No…cioè, si. Ho visto l’annuncio sul giornale e sono venuto a dare un’occhiata. Abitavo qui, un volta”
“Capisco” la donna – evidentemente era lei che si occupava della vendita – guardò l’orologio che portava al polso  “Senta, se vuole può entrare un attimo. Finché non arriva il prossimo cliente”
“Davvero? Mi piacerebbe molto, grazie” Bruce si avvicinò per entrare e quando le passò vicino, la signora non diede segno di averlo riconosciuto. Il suo ego si sentì lievemente offeso
“Evidentemente ascolta altra musica” pensò.
La casa era spoglia. Erano presenti solo alcuni mobili, ma alle pareti non c’era nessun quadro o altre decorazioni. Percorse il corridoio ed aprì lentamente la porta d quella che era stata la sua camera da letto. Notò che i precedenti proprietari non avevano modificato la sua destinazione. A quanto pareva, però, loro non avevano avuto il bisogno di installare un registratore a quattro piste in quella stanza. Sorrise e tornò in soggiorno.
Stare in quella stanza gli riportò alla mente numerosi ricordi.
Decise di concentrarsi su una fredda giornata di inizio 1982.
 
Versò il caffè bollente nella tazza. Aveva aperto tutte le finestre della casa lasciando che il freddo invernale invadesse ogni stanza.
Bevve il liquido scuro e ingoiò alcune pastiglie nella speranza che il mal di testa che lo aveva tormentato per tutta la notte smettesse.
Fuori era tutto ricoperto da uno strato bianco. Da piccolo gli piaceva la neve. Era capace di giocare per ore con la sua sorellina.
Ora tutto quello a cui riusciva a pensare era che presto si sarebbe sciolta a avrebbe reso il terreno fangoso e sporco.
“L’importante è iniziare la giornata con un pensiero positivo” si disse amaramente.
Terminato il caffè lasciò la tazza nel lavandino e chiuse le finestre.
 Purtroppo quel giorno la biblioteca era chiusa, altrimenti si sarebbe seppellito tra i libri fino per riemergere solo nel tardo pomeriggio. Come alternativa, decise di andare a fare una passeggiata nella campagna vicino casa. Forse il freddo l’avrebbe aiutato a ragionare meglio.
Aveva litigato con gli altri ragazzi, il pomeriggio precedente. Non solo con Danny, come succedeva normalmente, ma con tutto il gruppo. Perfino Garry gli era sembrato piuttosto contrariato, anche se si era limitato a starsene in un angolo ad accordare il suo basso.
Era partito tutto da quelle dannate canzoni. Le aveva scritte e registrate a casa, solo con la chitarra e l’armonica e sembravano una buona base di partenza per il nuovo disco.
Invece appena le suonava con il gruppo perdevano tutto il loro “oscuro fascino”, come l’aveva definito Jon.
Dopo l’ennesima prova, esasperato, stanco e nervoso, Bruce aveva dato la colpa agli altri che, a loro volta, si erano infuriati con lui.
Ripensandoci, Bruce doveva ammettere che avevano tutte le ragioni del mondo, visto che si limitavano a suonare esattamente come voleva lui.
Era arrivato sulla sponda di un piccolo lago.
Il sottile strato di ghiaccio era ricoperto di neve, ma in alcuni punti si vedeva ancora l’acqua.
Quando era nervoso gli piaceva andare a camminare lungo i margini di un fiume. Non sapeva perché, ma l’idea che potevano guidarlo fino al mare lo tranquillizzava e lo faceva rilassare.
Se seguiva i margini di quello stupido laghetto fangoso, invece, cosa avrebbe ottenuto? Niente. Sarebbe tornato sempre al punto di partenza, sempre al solito schifosissimo punto.
Si sedette su una roccia e prese la testa fra le mani. Odiava quel lago. Odiava avere quei pensieri negativi. Odiava essersi comportato come uno stronzo con gli altri ragazzi e non essersi scusato. E odiava tornare nei posti dove aveva vissuto da bambino a inseguire vecchi, tristi fantasmi. Odiava…
Interruppe il flusso di pensieri, concentrando la sua attenzione selle nuvolette di vapore che si condensavano ad ogni suo respiro.
Appena si fu calmato si rimise in piedi. Faceva freddo e lui aveva solo la sua giacca di pelle. Mentre tornava verso casa pensò che poteva guardare un film e riposarsi, visto che la passeggiata non era servita a molto.
Con sorpresa, però, si accorse che c’era una macchina parcheggiata nel suo cortile.
Un ammasso di giubbotti e sciarpe scese dall’auto e iniziò a battere i piedi a terra per riscaldarsi.
“Maledizione, Bruce, dove eri finito? Mi si sta congelando il culo!”
“Steve?” Bruce si avvicinò all’amico “Cosa ci fai qui?”
“Sono venuto a trovarti. Possiamo entrare? Credo di avere un principio di congelamento”
Entrarono in casa e come prima cosa Bruce accese il fuoco nel camino in soggiorno.
“Ti va una Coca?” propose poi. Steve si era seduto il più vicino possibile al fuoco nel disperato tentativo di riacquistare un po’ di calore.
Annuì e Bruce andò a prendere due lattine di Coca Cola in cucina. Le posò su un tavolino e si sedette sul divano.
Poi non disse più niente.
Steve lo osservò mentre sorseggiava la sua Coca, ma lui non gli prestò la minima attenzione. In effetti,  non stava prestando la sua attenzione a nulla in particolare. Se ne stava semplicemente lì, seduto sul divano.
“Allora?” chiese Steve.
Bruce finalmente lo guardò “Allora cosa?”
“Voglio dire, ieri non è stata esattamente la miglior giornata in studio di registrazione del secolo”
“No, io… Senti, mi dispiace, ok? Adesso però vorrei stare da solo”
Steve appoggiò con un gesto rabbioso la lattina vuota sul tavolo “Porca miseria, Bruce! Vuoi spiegarmi cosa c’è che non va?”
“Niente. Non c’è assolutamente niente che non va”
“Allora perché ti sei comportato come un coglione ieri?”
“Ho detto che mi dispiace, va bene? Sono stato un po’ incasinato nell’ultimo periodo”
“Devo dire che hai trovato il modo migliore per risolverli, i tuoi casini. Chiuderti qui dentro a scrivere canzoni da depresso!”
Fu in quel preciso istante che Bruce lo colpì. Gli tirò un pugno in faccia e Steve cadde a terra.
Restarono immobili per alcuni istanti, Bruce ancora proteso in avanti con il pugno chiuso e Steve seduto sul pavimento con la mano sul naso. Entrambi si guardarono stupefatti.
Fu Steve a rompere il silenzio, appena si accorse che stava perdendo sangue dal naso.
Scattò in piedi “Il mio naso! Il mio naso!”
“Oh, cazzo. Scusami. Scusami! Ti ho rotto il naso, Steve?” chiese preoccupato Bruce.
“Ma no che non mi hai rotto il naso, coglione! Me lo hai solo fatto sanguinare. Brutto…” con la mano libera, Steve prese un giornale dal tavolino e lo usò per picchiare Bruce sulla schiena.
“Steve, smettila! Mi dispiace, smettila!” si rannicchiò e cercò di proteggersi la testa con le braccia. Aspettò che i colpi terminassero e guardò Steve da dietro il braccio.
“Hai finito?”
Steve brandì minacciosamente il giornale contro il viso dell’amico “E ringrazia che non sono Big Man. Altrimenti ti avrei ridotto a livello molecolare”
Bruce si raddrizzò “Vuoi… vuoi un tè caldo?” chiese timidamente.
Come risposta, Steve ricominciò a colpirlo sulla schiena “E credi che un tè caldo mi sistemerà il naso?”
“Va bene, va bene! Basta, ho capito!” dolorante, Bruce andò in bagno a prendere del cotone, quando tornò in soggiorno, vide con grande sollievo che Steve aveva posato il giornale sul tavolino. Era seduto  sul divano e si sistemò un po’ di cotone nella narice sanguinante.
“Ho fame” annunciò poi. Ormai era ora di pranzo.
“Vado a prendere qualcosa da mangiare. In casa non c’è niente” Bruce indossò il giubbotto e prima di uscire infilò ancora una volta la testa in soggiorno.
“Sicuro che non vuoi un tè caldo?”
Steve gli lanciò la lattina di Coca Cola vuota e lui uscì senza aggiungere altro.
 
Al suo ritorno fu accolto dalla sua stessa voce.
Steve era ancora in soggiorno e stava ascoltando assorto la demo del disco.
Senza dire una parola, Bruce si sedette al suo fianco. Aveva riconosciuto subito lo sguardo dell’amico: era lo sguardo che assumeva ogni volta che lo aiutava ad uscire dai vicoli ciechi in cui spesso Bruce si infilava mentre registrava nuovi dischi.
“Mi piace l’armonica, qui” disse Steve, più a sé stesso che a Bruce.
Spense la musica e aggiunse “Queste canzoni non saranno mai così… così… non so come definirle, ma non saranno mai le stesse registrate con il gruppo”
“E quindi cosa dovrei fare?”
“Pubblicalo così com’è”
“Dici che è una buona idea?”
Steve sollevò le spalle “Pensaci un po’. Adesso voglio mangiare”
Bruce gli passò una confezione di lasagne già cucinate e iniziarono a mangiare.
“Senti Steve, mi dispiace per… per il tuo naso”  disse Bruce dopo alcuni istanti di silenzio.
“Cercherò di sopravvivere così orrendamente mutilato”
“Se ti può consolare non può diventare peggio di come era prima” Bruce si spostò appena in tempo per evitare la spinta di Steve.
“Ha parlato Mister Naso Perfetto”
 
“Signore?”
Bruce si riscosse dai suoi ricordi.
“Mi dispiace, ma è arrivato il prossimo cliente” la paffuta agente immobiliare era al suo fianco e lo stava gentilmente invitando ad uscire dalla casa.
Lui annuì, lanciò ancora un’occhiata al soggiorno e uscì sotto il portico, dove un uomo stava aspettando il suo turno.
Indossò gli occhiali da sole per ripararsi dalla luce e ringraziò la signora per averlo fatto entrare.
“Un’ultima cosa: lei sa se c’è un laghetto, qui vicino?” le domandò prima di salire in macchina.
“Laghetto? Oh, no. No, quel posto è stato bonificato alcuni anni fa”
Bruce la ringraziò ancora una volta e uscì soddisfatto dal cortile.
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'Sera :)
A causa di problemi vari e di quella bruttissima cosa chiamata "università" credo che per un po' non riuscirò a pubblicare altri capitoli. 
Però sto cercando disperatamente l'ispirazione per allungare (almeno un pochino) questa ff.
A presto!

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Bruce si chiese come avesse potuto dimenticarsene.
Il periodo che aveva trascorso ad Asbury Park era stato fondamentale per la sua vita e soprattutto per la sua carriera di musicista.
Eppure l’appartamento dove aveva abitato con Little Steven quando erano poco più che adolescenti gli era totalmente uscito di testa.
Era un vero buco, un forno in estate ed un frigo in inverno, dove l’unica cosa che non mancava mai erano gli spifferi. Ma a lui non era mai importato molto.
La cosa davvero importante era il posto in cui si trovava e la gente che si poteva incontrare.
 


Se qualcuno lo avesse visto in quel momento, avrebbe detto che se ne stava semplicemente seduto sul divano a fissare il muro.
Invece Bruce il muro non lo vedeva neanche.
Tutta la sua attenzione era rivolta ad una melodia che nella sua testa rimbalzava tra alcune strofe che aveva scritto la sera prima. Era infastidito, perché non riusciva a trovare il giusto ritmo e sentiva che mancava qualcosa, ma non riusciva a capire cosa.
Steve lo stava osservando dalla cucina.
“Bruce”
L’altro non diede segno di avere sentito.
“Bruce?”
Il ragazzo si batté il pugno sul ginocchio “Ma non sembra anche a te che manchi qualcosa?”
“Dove?” chiese Steve senza capire. Bruce impiegò qualche istante per comprendere che Steve non poteva sentire la musica che stava suonando solo nella sua testa. Liquidò la questione con un gesto della mano.
“Dobbiamo andare” disse ancora Steve.
“Andare?”
“Si. Sai, a suonare. Abbiamo un concerto questa sera”
Bruce fece un largo sorriso. Scattò in piedi, rinvigorito dalla prospettiva della serata che lo attendeva. Si vestì, prese la chitarra e dopo pochi minuti era in strada con Steve al suo fianco.
Gli altri ragazzi erano già al Student Prince, il locale dove suonavano, impegnati a montare gli strumenti.
“’Giorno! Freschi e riposati per questa sera?” chiese Bruce ancora sorridente.
“Stanchi e affamati, piuttosto” fu la risposta che ottenne.
“Ottimo. Ottimo! È questo lo spirito giusto” saltò sul palco e iniziò a preparare la sua chitarra per le prove.
In realtà, non avevano molto da provare. Suonavano quasi ogni sera, ed erano più bravi di gran parte dei gruppi che circolavano da quelle parti, ma Bruce continuava a sostenere che non si poteva mai smettere di migliorare e che quelle erano le situazioni migliori per sperimentare nuove cover o far nascere pezzi originali. E gli altri lo assecondavano, perché sapevano che era vero ma soprattutto perché era dannatamente divertente.
Il concerto filò via senza particolari intoppi, tranne qualche regolare rissa tra il pubblico. Come sempre ricevettero numerosi complimenti e, come sempre, nessuno si presentò offrendo loro un miracoloso contratto discografico.
Intascarono il magro incasso e si salutarono, alcuni di loro diretti in altri locali, Bruce  e Steve alla ricerca di un posto economico dove poter mangiare.
Si sedettero in un fast-food semi deserto, davanti ad un cheeseburger con patatine e Steve osservò l’amico divorare a grandi morsi la sua cena.
“Tu non perdi mai la speranza, vero?” gli chiese.
“Per cosa?” Bruce aveva parlato con la bocca piena, il mento lievemente sporco di ketchup.
“Per… per questo” Steve indicò le custodie delle chitarre, non sapendo spiegare in altro modo quello che voleva dire.
“Ah. Capito” il ragazzo si pulì con il tovagliolo “Ma abbiamo appena iniziato”
“E siamo già mezzi morti di fame”
“Non devi avere fretta. Altrimenti finisci solo per incazzarti. Devi avere pazienza e prima o poi arriverà quella cosa che ti renderà… ci renderà diversi dagli altri. Bisogna solo avere un po’ di pazienza” masticò l’ultimo boccone e con un ruttino dichiarò di aver gradito il pasto.
“Si va?” chiese a Steve.
Fuori aveva iniziato a piovere. Camminavano ingobbiti per cercare di ripararsi almeno un po’ dall’ acqua, con le custodie delle chitarre in mano.
Non stavano camminando da molto quando Steve lanciò numerose occhiate alle sue spalle, prima di accostarsi a Bruce.
“C’è un tizio che ci segue da un po’. Un tizio molto grosso”
Anche Bruce guardò e vide che effettivamente sotto la luce fioca dei lampioni e sotto l’acqua, un’ombra scura stava avanzando verso di loro.
Senza dirsi niente, affrettarono il passo. Dietro di loro però, l’ombra continuava ad avvicinarsi sempre di più.
La pioggia aumentò di intensità.
Con uno scatto, Bruce e Steve si ripararono sotto l’entrata di un palazzo.
“Ok. Ok” disse Bruce ansimando “Se viene qui…”
Sta venendo qui” lo corresse Steve.
“Ok. Quanto hai?”
“Tre dollari. Tu?”
“Due… tre dollari anche io. Se vuole…”
“Ehilà!” Era stata una voce profonda alle loro spalle ad aver parlato. E come risposta Bruce e Steve si rannicchiarono contro il muro, totalmente terrorizzati.
Sotto il loro sguardo incredulo, una specie di gigante stava avvolgendo con cura una custodia in una borsa di nylon, per proteggerla dall’acqua.
“Tempaccio, eh?” chiese il gigante prima di rituffarsi sotto la pioggia.
I due ragazzi restarono rannicchiati ancora per un po’ e poi, esitanti e sospettosi si affacciarono esitanti all’entrata e lo guardarono scomparire lungo la strada.
“Se mai qualcuno dovesse venire a sapere di questa storia” disse Steve “nessuno di noi ha urlato. Ci siamo comportati in modo coraggioso e…”
“Io quello lo conosco” lo interruppe Bruce.
“Cosa?”
“Ma si! È quello che suona il sax con i …come si chiamava il gruppo dell’altra sera?... I Joyful Noyze!”
“Ah. Mitico. Ce la siamo fatta sotto per un sassofonista” poi aggiunse “Un sassofonista molto grande”
Bruce non lo stava più ascoltando. Non lo capì subito neanche lui, ma da qualche parte, nella sua testa, stava iniziando a formulare l’idea che forse era proprio un sassofonista molto grande che gli mancava per fare la differenza.
 

La porta si staccò come un pezzo di cartone.
Bruce dovette fare un notevole sforzo per continuare a cantare senza restare imbambolato a fissare la scena.
Aveva continuato a piovere per giorni e quella sera era scoppiato anche un temporale, così quando la porta venne via nel locale entrò una ventata di aria fredda mista a spruzzi di acqua.
Un uomo alto e scuro – Bruce lo riconobbe subito e a giudicare dalla faccia di Steve capì di non essere l’unico – restò  fermo sulla soglia indeciso sul da farsi, prima di sistemarsi in uno dei tavolini in fondo con una scrollata di spalle.
Restò  a guardarli perfettamente immobile fino alla prima pausa, quando si avvicinò al gruppo.
“Suonate bene” fu la prima cosa che disse a Bruce.
Il ragazzo scese dal palco e al cospetto di quel gigante si sentì ancora più basso del solito.
“Uh. Grazie”
“Sono Clarence” l’uomo allungò una mano e Bruce la strinse.
“Bruce”
Clarence si chinò su di lui per osservarlo meglio “Ci siamo già visti, noi due?”
“Si! Si, noi due ci…” da qualche parte sul palco, Steve tossicchiò un paio di volte per ricordare a Bruce di fare molta attenzione a quello che avrebbe detto “Ero al concerto della tua band, poco tempo fa”
L’altro annuì poco convinto “Beh, mi hanno detto che valeva la pena passare a sentirvi. Ho portato il mio sax. Vi andrebbe di suonare un po’ insieme?”
Gli altri non avevano nulla in contrario e Bruce non aspettava altro d quando si erano incontrati qualche sera prima.
Furono sufficienti solo pochi minuti.
Pochi minuti e Bruce capì che quello che cercava per completare la canzone che aveva in testa, per rendere completa la sua musica era in piedi al suo fianco, proprio in quel momento. Era come se suonare insieme fosse una cosa normalissima che facevano da sempre e avrebbero sempre continuato a fare.
Alla fine della serata andarono nell’appartamento di Bruce e Steven. C’era anche Danny con loro.
Entrò in casa saltellando e si diresse verso il divano con l’idea di occuparlo tutto come suo solito.
“Il divano è mi…” si interruppe appena vide che Clarence vi si era già seduto “…iiitico! Il divano è proprio mitico!” poi si sistemò facendo molta attenzione a non dare nessun fastidio al nuovo ospite. Steve ridacchiò soddisfatto di non essere il solo intimorito dalla presenza di Clarence, che, con la sua mole, faceva sembrare l’appartamento ancora più piccolo.
Trascorsero gran parte della notte a parlare di musica e dei concerti che avevano fatto.
Bruce e Clarence continuarono a parlare anche quando gli altri si addormentarono, con lo stesso luccichio negli occhi di quando avevano suonato insieme poche ora prima.
Quando il sole iniziò a sorgere, si scambiarono i numeri di telefono e Clarence se ne andò via.
Bruce lo guardò allontanarsi lungo la strada con la custodia del sax sottobraccio.
“Quello” disse mentre Danny  e Steve si risvegliarono stiracchiandosi “Quello deve suonare con noi”
“Certo. E pensi di attirarlo con la straordinaria paga o con la promessa di gloria eterna?” chiese Danny.
“Voi non capite. Clarence è… è il nostro Ringo Starr”
“Scusa, Bruce” questa volta fu Steve a parlare “ma dove la vedi al somiglianza tra quel tizio grande e grosso e un batterista di Liverpool con l’aria malaticcia  e la barbetta da topo? Senza offesa per Ringo”
“Ecco, ecco! Ho trovato!” disse ancora Danny “ Vai da lui e gli dici ‘sai mi ricordi tanto quello che gran parte della popolazione mondiale ritiene il più sfigato dei Beatles. Ti va di suonare con noi?’ Vedrai che non saprà dirti di no”
Bruce fece una smorfia “Non intendevo che sarà letteralmente il nostro Ringo. Volevo dire che… non so come spiegarlo bene, però sento che con lui saremmo completi”
“Mah, un sax non starebbe male. Avete qualcosa da mangiare?” chiese Danny più interessato a fare colazione.
“No. Mi sa che dobbiamo andare fuori. Vieni anche tu Bruce?” domandò Steve
Lui però non rispose. Stava ancora guardando fuori dalla finestra.
Guardò fino a quando Clarence non svoltò in una laterale scomparendo dalla sia vista.
“Bruce, vieni?”
“”Uh? Si, si arrivo”
Prese la giacca e raggiunse gli altri.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Dopo aver ottenuto un certo successo, Bruce aveva deciso che era arrivato il momento di mettere fine a quella sorta di eterno vagabondaggio e comprare finalmente una casa vera e propria, dove sistemarsi definitivamente e potersi rifugiare tra un concerto e l’altro, quando era troppo stanco di quel mondo frenetico – e in parte falso – in cui era precipitato.
Lasciò che una macchina sportiva lo superasse per poi sparire lungo la strada e bevve un sorso del caffè che si era fermato a comprare poco prima. Schioccò le labbra godendosi il gusto amaro della bevanda.
All’epoca non poteva immaginare che scegliere una casa sarebbe stato così dannatamente difficile.
 
 
Si alzò in piedi sui pedali e sforzando i muscoli delle gambe prese un po’ di rincorsa per affrontare meglio la salita che vedeva davanti a sé.
Bruce aveva passato l’intera mattina a sfogliare le proposte di varie agenzie immobiliari, visitare tre case in tre diverse cittadine del New Jersey senza concludere niente. Di nuovo. Inizialmente il suo progetto per il pomeriggio consisteva in un giro con la moto, ma si era accorto che per rilassarsi meglio aveva bisogno di fare attività fisica e la bicicletta gli era sembrata un’alternativa migliore di chiudersi in qualche palestra durante quella bella giornata.
Arrivato in cima alla salita, tornò a sedersi e si godette l’aria che gli gonfiava la maglietta mentre percorreva la discesa.
Era giunto alla conclusione che si doveva trattare di qualche contorto motivo psicologico se non era ancora riuscito ad acquistare una casa. Tutte quelle che aveva visto fino a quel momento avevano almeno un dettaglio che non gli piaceva: erano troppo grandi, o troppo piccole, si trovavano in una zona trafficata o troppo deserta, la disposizione delle stanze non lo convinceva del tutto…
Probabilmente, però, aveva solo paura che sistemarsi in modo definitivo avrebbe influenzato in modo negativo la sua musica. Avrebbe aperto la strada a tutta una serie di cose che avrebbero finito per distoglierlo da ciò che voleva fare veramente. L’idea che in caso di bisogno non avrebbe più potuto mettere tutto ciò che possedeva in valigia, pagare quel che rimaneva dell’affitto ed andarsene via lo impauriva e inquietava. Oppure, come gli aveva detto sua madre durante la loro ultima chiacchierata, era semplicemente incontentabile. Anche quella era una possibilità che non andava scartata.
Si accorse che stava acquistando sempre maggiore velocità, e che la strada terminava in quello che sembrava il cortile di una piccola villa, così iniziò a frenare.
Solo che la bicicletta non diede segno di voler rallentare.
“Che cazzo…”
Premette ripetutamente il freno che agiva sulla ruota posteriore senza ottenere nessun risultato e si rese conto che doveva esseri rotto o bloccato in qualche modo a lui sconosciuto.
“Merda!” Molto delicatamente, usò il freno anteriore e mise un piede a terra per cercare di rallentare ulteriormente.
Non si accorse minimamente della cunetta in cui andò a finire, semplicemente si ritrovò a rotolare nell’erba che fiancheggiava la strada, fino a quando non si fermò disteso a pancia in su.
Riaprì gli occhi sospettoso, aspettandosi di provare da un momento all’altro un dolore fortissimo e vedere macchie di sangue sulla maglietta.
Invece, l’unica cosa inaspettata che attirò la sua attenzione fu un signore anziano vestito con un abito elegante che gli stava venendo incontro dalla villa.
“Ha fatto un bel volo, giovanotto”
“Già. Qui freni schifosi mi hanno tradito nel momento del bisogno”
“Tutto bene? Si è fatto male?”
“No, solo un graffio sul gomito…”
“Aspetti!” il signore lo interruppe e si chinò su di lui per osservarlo meglio “Ma lei è la stessa persona che mia nipote ha appeso in camera! Cioè, intendo dire che ha un suo manifesto. Cos’è, un attore?”
“Musicista” Bruce si rialzò togliendosi l’erba dai vestiti.
“Ah già, musicista. Bruce… Bruce qualcosa…” il signore schioccò le dita come se quel gesto avesse potuto aiutarlo a ricordare il cognome di Bruce.
“Springsteen. Senta, signor…”
“Fincher. James Fincher” Lui e Bruce si strinsero la mano.
“Signor Fincher. Mi dispiace di aver invaso il questo modo il suo giardino”
“Oh, non si preoccupi. Tanto, sto traslocando”
“Davvero?” Bruce non riuscì a trattenere una risata “Pensi che ho passato la mattina a cercare una casa dove poter traslocare. Ho passato l’ultimo mese a cercarla, in effetti”
“Compri questa” disse il signor Fincher senza una particolare espressione o intonazione di voce. Stava dicendo seriamente, però.
“Come, scusi?”
“Ho detto: compri questa casa. Io sto traslocando – è troppo grande per me, ormai, ma a qualcuno dovrò pur venderla”
“Davvero?” Bruce non riusciva a crederci. Era uscito con l’idea di distrarsi esattamente da quel genere di cose e adesso aveva incontrato un vecchietto che gli stava proponendo di comprare la sua casa.
“Ma si! Anzi, venga. Venga a vederla dentro”
Il signor Fincher lo guidò fino all’ingresso e poi attraverso le varie stanze della villa continuando a parlare.
“Ci sono ancora delle cose da portare via, ma mi ci vorrà poco tempo. E poi è isolata. Immagino che voi musicisti facciate parecchia confusione mentre suonate”
“Abbastanza” Bruce guardava tutto con curiosità, cercando un dettaglio che non gli sarebbe piaciuto, facendogli eliminare anche quella casa dalla lista.
“Però è anche vicina al centro abitato. Ci si può arrivare tranquillamente a piedi. Ecco, questa è la seconda camera da letto. Con questa abbiamo finito”
Bruce si affacciò alla finestra. Da lì si vedevano i grandi alberi del cortile “È… è bella”
“Allora la vuole?”
Bruce spalancò gli occhi “Cioè adesso? Subito?” era ancora frastornato dalla caduta e dalla carica di quel vecchietto.
“No, certo che no. Le lascio il tempo per decidere”
“Ma ci conosciamo da neanche dieci minuti”
“Io ho una casa da vendere e lei ne cerca una. Inoltre, molto probabilmente ha anche i soldi per pagarla. È tutto quello che serve sapere” aveva tirato fuori una piccola agenda dalla tasca della giacca. Scrisse un numero telefonico su una pagina che strappò e diede a Bruce.
“Tenga il mio numero. Mi chiami quando ha deciso”
 
La mattina seguente Bruce fece il suo ingresso in un bar alle otto e mezza del mattino. La sua camicia era tutta stropicciata e i capelli disordinati. Diede una rapida occhiata ai clienti del locale e individuò subito la persona che stava cercando. Era seduta in fondo al bar e dava le spalle all’ingrasso, ma la massa di ricci rossi era più che sufficiente per riconoscerla. Bruce raggiunse il tavolo e si lasciò cadere pesantemente sulla sedia di fronte a Patti.
“ ’Giorno”
Lei smise di leggere un giornale e vedendo l’aspetto dell’amico sorrise “Ciao Bruce, come stai?”
“Sono le otto e mezza del mattino”
Facendo finta di non capire, Patti chiese ancora “E quindi?”
“Le otto e mezza del mattino! Come può andare alle otto e mazza del mattino?”
“Detta così, sembra che ti sei alzato nel cuore della notte”
“Quasi. E poi perché abbiamo deciso di incontrarci a quest’ora?”
“Di solito è il momento in cui la gente normale fa colazione” Patti si voltò appena sentì una mano posarsi sulla sua spalla.
“Allora lui è giustificato: non è decisamente normale” Clarence salutò la ragazza e si sedette vicino a Bruce.
Una cameriera passò a riempire le loro tazze con del caffè caldo.
“Ho trovato una casa” annunciò Bruce.
“Di già? Sei stato velocissimo!” Clarence sorrise ironico e i denti bianchi risaltarono sul volto scuro.
“Dai, C, non prenderlo in giro” intervenne Patti, ma in realtà anche lei aveva riso alla battuta “E dov’è?”
“A Rumson. L’ho trovata per puro caso, ieri, mentre ero a fare un giro in bicicletta..” fu interrotto dalla risata di Clarence “Sentiamo, cosa ho detto di tanto divertente questa volta?”
“Niente, è solo l’idea di te che vai in bici ad essere divertente”
Patti nascose le labbra contratte in una smorfia con la mano e continuò a seguire lo scambio di battute fra i due.
“Perché tu invece hai un aspetto serio e che incute rispetto quando vai in bici”
“Io sono elegante” Clarence si tolse della polvere inesistente dalla spalla “come sempre”
In quel momento Patti non riuscì più a trattenersi e scoppiò a ridere “Scusate, ma immaginarvi in bicicletta è…” non terminò la frase e continuò a ridere.
Bruce indicò Clarence e rivolgendosi alla ragazza disse “Avresti dovuto vederlo alcuni anni fa: una montagna umana in pantaloncini corti e sandali su due ruote che si aggirava per Asbury Park”
“Allora, questa casa?” Clarence richiamò l’attenzione sull’argomento principale.
“Se la finisci di interrompermi! Insomma, ho incontrato questo tizio che stava traslocando e ha detto che è disposto a vendermi la sua villa, se sono interessato”
“Aspetta, ma quindi non l’hai ancora comprata?” chiese Patti. Si stava ancora asciugando le lacrime dalla risata.
“No”
“E perché no? Non ti piace?”
Bruce si strinse nelle spalle “No, mi piace, è quella che mi piace di più tra quelle che ho visto. E ne ho viste un bel po’. È solo che, non so…”
Clarence borboyyò qualcosa sull’indecisione di Bruce ma questa volta lui non lo ascoltò.
“Se ti piace ed è in un bel posto, io la prenderei. E poi se l’hai trovata per caso magari è un segno” disse Patti e Clarence le diede ragione sull’ultima frase.
“Ma soprattutto, noi – e per noi intendo tutto il gruppo – ci siamo lievemente – e per lievemente intendo l’esatto contrario – stufati di sentirti parlare di queste benedette case” aggiunse poi.
Bruce sospirò. Estrasse il foglietto con il numero del signor Fincher dalla tasca della camicia e chiese “Beh, allora lo chiamo?”
Gli altri due annuirono convinti. Si alzò e andò al telefono a pagamento del bar, compose il numero e aspettò. Al quinto squillo il signor Fincher rispose. Dopo un breve scambio di convenevoli, l’uomo arrivò subito al dunque.
“Ha deciso? Vuole comprare la casa?”
Bruce non rispose subito. Lanciò un’occhiata ai volti sorridenti dei suoi amici e si rese conto che non aveva proprio voglia di girare tutte le case del New Jersey un’altra volta.
“Si, la prendo”
Parlo al telefono ancora qualche minuto e tornò al tavolo.
“Fatto”
“Bene! Ti sei meritato un altro caffè” Clarence gli diede alcune forti pacche sulla schiena e si alzò, lasciando Patti e Bruce da soli. Quest’ultimo, quando sistemandosi meglio sulla sedia sentì la pressione di una piccola scatolina che teneva nella tasca dei jeans e di cui  si era dimenticato, nonostante fosse la causa di un altro dubbio che l’aveva tormentato in qui giorni. Pensò che forse Patti avrebbe potuto aiutarlo a risolvere anche quella questione. Lei era decisamente la migliore quando si trattava di consigli.
“Patti, posso chiederti una cosa?”
Lei sollevò lo sguardo dal giornale che aveva ripreso a leggere “Certo”
“Io…” si pentì subito di aver parlato. Era qualcosa di troppo personale. Questa volta avrebbe dovuto compiere la sua scelta da solo. E in un certo senso sentiva che chiederlo proprio a lei, a Patti, fosse per qualche ragione sbagliato.
Fece un gesto con la mano per liquidare la faccenda “No, lascia stare. Non era niente di importante”
Clarence ritornò con tre tazze fumanti e ricominciarono a chiacchierare.
 
Dopo che il signor Fincher terminò del tutto di sgomberare la casa e le trattative per l’acquisto furono concluse (insieme ai soldi, il signor Fincher chiese a Bruce anche una copia autografata del suo ultimo disco per la nipote), Bruce poté finalmente trasferirsi nella sua nuova villa.
Le prime cose che aveva sistemato, ovviamente, erano stati i suoi vinili, il giradischi e le chitarre, poi aveva comprato alcuni mobili nuovi. Gli aveva scelto Julianne, approfittando di uno dei rari attimi in cui entrambi erano riusciti a prendere una pausa dai rispettivi lavori. Adesso erano distesi sul letto acquistato il giorno prima a godersi le ultime ore di quell’attimo di pausa. Poi Julianne avrebbe dovuto prendere un aereo e tornare a qualche impegno di lavoro.
“Grazie per avermi aiutato con i mobili e tutto il resto. Questo posto rischiava di diventare un deposito di dischi e chitarre, altrimenti” Bruce prese la mano della ragazza e vi intrecciò le dita.
“La prossima volta andiamo in una galleria a comprare qualche quadro. Alcuni sono molto belli”
“Quadri?” Bruce fece una piccola smorfia “Io pensavo di più ad un mega poster di Elvis”
Julianne rise “Chissà perché non sono sorpresa”
“Dai, un poster gigante di Elvis da mettere… ecco, “ indicò la parete di fronte al letto “da mettere lì”
“Non voglio dormire con Elvis che mi fissa!”
“Oh, ma tesoro” sulla faccia di Bruce era apparso un ghigno “non ti fisserà solo mentre dormi”
“Bruce!”
“Va bene, va bene. Niente poster gigante. Devi andare via subito?” aveva iniziato a baciarle delicatamente il collo.
“Non proprio subito…”
“Ottimo” continuò a baciarle il collo fino a risalire alle sue labbra. Si bloccò e la fissò negli occhi.
Lei sorrise e gli scostò un ciuffo di capelli dalla fronte “Che cosa c’è?”
Bruce deglutì e abbassò lo sguardo scuotendo debolmente la testa “Niente” La baciò delicatamente.
“Bruce?”
“Mmh…”
“Non vuoi proprio dirmi cosa hai combinato al gomito?”
“Bruce sollevò la testa fingendosi offeso “Te l’ho detto: mi sono fatto male mentre mi allenavo” Osservò l’espressione divertita di Julianne e aggiunse “Non mi credi?” lei scosse la testa “Vedrò di farti cambiare idea”
 
Più tardi, quel pomeriggio, dopo che Julianne se ne fu andata, Bruce percorse nuovamente tutte le stanze della casa, sentendosi soddisfatto del suo acquisto.
Era fermo al centro di una stanza che aveva pensato di trasformare in un piccolo studio di registrazione e con la mano stava accarezzando il profilo della piccola scatolina che aveva in tasca, la sua testa persa in pensieri che poco avevano a che fare con la musica.
Tornò alla realtà quando sentì suonare alla porta. Andò ad aprire e si ritrovò davanti il signor Fincher, accompagnato da un bambino piccolo e grassottello.
“Buongiorno! Sono venuto a vedere come si è sistemato. Non la disturbo, vero?”
Bruce sfoderò il sorriso più cordiale che sapeva fare e invitò i due ospiti ad entrare. Mentalmente, però, stava controllando di non aver lasciato nulla di importante alla portata di quel bambino. La sua moto era al sicuro in garage, i dischi su mensole sufficientemente alte… la Telecaster! Il suo cuore mancò un colpo. La Telecaster era su un basso tavolino in soggiorno.
Mentre il signor Fincher si complimentava con lui per il nuovo arredamento, Bruce vide con orrore il bambino trotterellare con le braccia tese in avanti verso la sua chitarra. Lo afferrò appena in tempo e lo prese in braccio scompigliandogli i capelli biondi per mascherare almeno in parte la reale intenzione di quel gesto. Il bambino rise pensando di essere stato coinvolto in qualche gioco.
“Mi scusi, non l’ho neanche presentato. Lui è David, un altro mio nipote” si affrettò a dire il signor Fincher.
“Che bambino… adorabile” Bruce continuava a tenerlo in braccio per proteggere la chitarra “Andiamo in cucina, vuole? Così le offro qualcosa”
Uscirono dal soggiorno e Bruce si chiuse la porta alle spalle per evitare altre incursioni di David.
Una volta in cucina, Bruce controllò le sue scorte di cibo “Ho dei biscotti Oreo e dei crackers Ritz” dopo aver visto la reazione del signor Fincher aggiunse “Ma forse lei preferisce un caffè”
Stava ancora tenendo David in braccio e il bambino aveva allungato le mani verso i biscotti
“Ne vuoi un pochi?” Bruce gli sventolò un pacchetto davanti al naso. David lo afferrò e appena Bruce lo rimise a terra andò a mangiarli seduto vicino al nonno.
Così tu e quelle tue manine unte state lontani dalla mia chitarra aggiunse mentalmente Bruce.
Il signor Fincher aveva osservato divertito la scena “Ci sa proprio fare con i bambini, eh?”
“Ho una sorella più piccola…” Bruce sorrise imbarazzato
“Piacciono anche alla sua compagna?”
“La mia compagna?” Bruce non ricordava di aver parlato di Julianne al signor Fincher e i due non si erano mai incontrati.
“Credo che una persona con dei gusti così… particolari in fatto di cibo si debba essere fatto aiutare per arredare in modo così elegante una casa. E c’è come un lieve tocco femminile”
“In effetti, si. La maggior parte del lavora l’ha fatto Julianne, la mia ragazza”
Il signor Fincher sorrise cordiale “Bene. Avere una famiglia le farà apprezzare ancora di più questa casa. Vedrà che sarà un posto dove tornerà sempre volentieri e dove si sentirà… beh, a casa. Al sicuro”
 
Quando fu nuovamente solo, quella sera, Bruce si sedete sotto il portico. Aveva pensato di invitare qualcuno dei ragazzi della E Street Band, ma preferiva conservare l’ordine e la pulizia della villa ancora per qualche giorno.
Con la mano, stava accarezzando nuovamente il profilo della scatolina che aveva in tasca.
Questo sarà un posto dove tornerò sempre volentieri e dove mi sentirò al sicuro. Continuando a ripetersi le parole del signor Fincher, estrasse la scatolina e la aprì. Dentro c’era un sottile anello d’argento con un piccolo diamante. Non aveva avuto il coraggio di darlo a Julianne  quella mattina, ma l’avrebbe fatto appena si sarebbero rivisti.
Questo sarà un posto dove tornerò sempre volentieri e dove mi sentirò al sicuro.
Questo sarà un posto dove tornerò sempre volentieri e dove mi sentirò al sicuro.
Continuò a ripeterselo finché non ne fu convinto. O forse solo fino a quando non si fu semplicemente stufato e rientrò in casa.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


A ripensarci adesso era quasi ironico. Quasi. Aveva trascorso gran parte delle sue notti in camere d’albergo, e anche all’inizio della sua carriera, quando la qualità delle stanze che si poteva permettere era molto bassa, gli era sempre bastato suonare qualche nota con la sua chitarra per rendere tutto più accogliente*. Poi aveva finalmente trovato il coraggio di comprare quella casa, giusto in tempo per rendersi conto di aver sbagliato tutto il resto e quindi ricominciare ad evitarla. Strinse più forte il volante ed alzò il volume della radio, come a voler reprimere la strana sensazione - un misto di imbarazzo ed eccitazione -  che provava ogni volta che pensava che in fondo passare tutto quel tempo in alberghi lontani da casa era stato di grande aiuto per lui e Patti.
 
 
“No.”
Mettere la sveglia alle 9.00 di mattina per cercare di recuperare un ritmo di vita più umano era sembrata una buona idea a tutti e due. Ora, invece, con poche ore di sonno e una considerevole dose di alcol alle spalle, sembrava solo una trovata molto stupida.
“No.” Patti allungò un braccio per mettere fine a quel suono fastidioso, mentre al suo fianco Bruce borbottava la sua approvazione e sprofondava ancora di più sotto le coperte. Richiuse gli occhi con l’intenzione di dormire ancora per qualche minuto, ma poi si ricordò dell’aereo che avrebbero dovuto prendere entro poche ore per tornare a casa, per una delle pause tra un concerto e l’altro. Restò a fissare il soffitto, indecisa fra il morbido letto e l’acqua della doccia. Il mal di testa che iniziava a farsi insistente le fece scegliere l’ultima delle due. Si alzò e in bagno si infilò sotto il getto d’acqua fresca.
Intanto Bruce riemerse stiracchiandosi dalle lenzuola. Con gli occhi ancora chiusi tastò il materasso alla sua sinistra e lo trovò tiepido ma vuoto. Socchiuse gli occhi e cercò Patti nella stanza, senza trovarla. Si sollevò sui gomiti e in quel momento sentì lo scroscio dell’acqua provenire dal bagno. Ricadde sulla schiena e massaggiò gli occhi stanchi. Come aveva fatti Patti pochi minuti prima anche lui, appena fu in grado di concentrarsi su qualcosa, pensò che quel pomeriggio dovevano tornare a casa e ricordò con sorprendente chiarezza quello che successo l’ultima volta che vi aveva fatto ritorno. Rivide sé stesso fermo nel soggiorno ad ascoltare con cura ogni più piccolo rumore per essere sicuro di essere solo. Era andato a rifugiarsi nella stanza adibita a piccolo studio di registrazione, ma non aveva toccato né le chitarre né i dischi sparpagliati sui vari scaffali. Si era seduto nel silenzio con tantissimi pensieri che gli correvano in testa, senza riuscire a svilupparli in modo chiaro e compiuto. Gli afferrava per un attimo e li perdeva subito dopo. Per un po’ era stato come camminare su una superficie molto instabile, che minacciava di spezzarsi da un momento all’altro e lui si arrabbiava con tutti, perché aveva fatto fatica a renderla sicura, cazzo, aveva fatto davvero tanta fatica. Poi si era spezzata definitivamente e lui era rimasto a guardarla andare in frantumi senza provare più rabbia, solo uno stranissimo senso di sollievo. Quando aveva sentito l’auto entrare in garage si era alzato ed era uscito dalla stanza per andarle incontro, rendendosi conto che non si ricordava più una singola parola del discorso che si era preparato, ma in fondo non era importante perché non avevano più molto da dirsi.
Ora , disteso sul letto, pensò che quella volta non avevano neanche litigato. E pensò che entro poche ore doveva prendere un aereo per tornare a casa, ma lui una casa dove andare in realtà non ce l’aveva.
Patti uscì dal bagno strofinandosi i capelli con un asciugamano bianco. Restò ferma sulla porta a guardarlo.
“Che visione affascinante.”
“Vero?” Bruce sbadigliò “Vieni qui” con la mano picchiettò il bordo del materasso.
“Solo se prima ti lavi.”
“Non credo di avere la forza di arrivare fino al bagno.” Continuava a battere ritmicamente la mano.
“Lo sai che questa è la mia camera? Potrei chiamare la reception e dire che c’è un tizio nudo nel mio letto e non mi vuole lasciare in pace.”
Lui corrugò la fronte e sporse in fuori le labbra, fingendosi offeso. “Però questa notte non ti sei lamentata della mia presenza.”
“No?” Patti si avvicino al letto.
“No. Per niente. E quelli della reception ti direbbero che sei fortunata ad avere me, nudo, nel tuo letto. Dovresti approfittarne.”
“Hai ragione. Sono una donna molto fortunata.”
Bruce si stava sporgendo verso di lei per abbracciarla, ma Patti non gli lasciò il tempo. Prese il bicchiere di acqua appoggiato sul comodino e glielo svuotò in faccia. Lui si bloccò con un’espressione di puro stupore sul viso, come se non riuscisse a capire quello che era appena successo e Patti rideva con una mano davanti alla bocca. Si sentì afferrare i fianchi e trascinare sul letto, dove Bruce la bloccò con il peso del suo corpo. Lasciò gocciolare un po’ d’acqua dai suoi capelli sul viso della donna.
“Sono abbastanza pulito adesso?”
Lei circondo i suoi fianchi con le gambe “No. E sai di Tequila.”
“È una fortuna. Ieri mi è sembrato di capire che apprezzi molto questa bevanda.” Iniziò ad armeggiare con la cintura dell’accappatoio che indossava Patti. “Come si toglie questo affare?” finalmente riuscì a disfare il nodo, si chinò per baciarle la spalla e mentre risaliva verso il collo le accarezzava fianchi a gambe. Aspettò fino a quando sentì le dita di Patti fra i suoi capelli sulla nuca, allora si divincolò dalle gambe della donna e si alzò dal letto.
“Bruce!”
“Si?” cercò di simulare lo sguardo più innocente di cui era capace.
“Cosa hai intenzione di fare?”
“La doccia, tesoro. Hai appena detto che non sono pulito.”
“Torna qui.” Aveva ricominciato a ridere.
“Sei sicura?”
“Si.” Lo circondò nuovamente con le gambe, in una presa più salda questa volta, anche se non ce ne fu bisogno.
 
Nell’aereo regnava il silenzio. Ogni tanto passava una hostess per riempire le tazze e i bicchieri di chi era rimasto sveglio, ma in molti si erano addormentati, ancora stanchi a causa della festa fatta la sera precedente. Bruce era tra quelli che si erano arresi al sonno. Aveva appoggiato la testa alla spalla di Patti e non si era più mosso, limitandosi a mormorare qualcosa durante una lieve turbolenza senza neanche aprire gli occhi. A causa del peso del corpo le impediva qualsiasi movimento del braccio destro, così una delle poche cose che riusciva a fare era guardare le nuvole scorrere sotto l’aereo.
Dall’altra parte del corridoio Clarence dormiva con le mani intrecciate sullo stomaco. Riusciva a mantenere un aspetto in qualche modo regale anche nel sonno, al contrario di Bruce che le aveva appena abbracciato il braccio.
Patti sospirò e pensò a quello che era successo l’ultima volta che avevano fatto ritorno a casa. Si erano salutati in aeroporto e Bruce non si era più fatto sentire per giorni interi, lasciandola da sola a cercare di formulare tutte le spiegazioni possibili per quell’insolito silenzio. Un pomeriggio era seduta a guardare un film di cui non ricordava il titolo e a mangiare gelato direttamente dal barattolo quando era squillato il telefono.
“Sei a casa?” le aveva chiesto Bruce. Nessun saluto, nessun “sono io”, niente di niente. Ovviamente lei aveva risposto di si, certo che era a casa, ma non era riuscita ad aggiungere altro. Lui aveva solo detto “Aspettami, arrivo.” Per poi riattaccare. Così lei si era rassegnata a quello strano comportamento e aveva iniziato ad aspettare, facendo la stima approssimativa del tempo che avrebbe impiegato Bruce ad arrivare. Solo che il campanello aveva suonato dopo neanche dieci minuti e quando era andata ad aprire se l’era ritrovato davanti.
“Ciao.” Si comportava come se il teletrasporto fosse ormai di uso comune.
“Come hai fatto…?” Lui non l’aveva neanche sentita.
“È gelato quello? Crema e cioccolato?” aveva chiesto invece di rispondere alla sua domanda.
“Nocciola e fragola.” Era rimasta a guardarlo mentre le prendeva di mano il barattolo e si riempiva la bocca con due generose cucchiaiate. Sentiva la pazienza abbandonarla poco a poco.
“Bruce, al telefono ti sei forse dimenticato di dirmi qualcosa? Ad esempio che stavi chiamando dal bar qui vicino?”
“Potrei essermi dimenticato di dirtelo, si. Hai ragione.” Si era pulito la bocca sul dorso della mano e le aveva restituito il gelato.
“Sei stato giorni interi senza farti sentire e adesso ti presenti qui di colpo?” aveva alzato la voce e se ne era pentita non appena si era accorta che sul viso di Bruce era scomparsa qualsiasi traccia di quella falsa allegria. Aveva iniziato a capire quello che era successo e lui, a conferma delle sue ipotesi, aveva detto solo “Io e Julianne abbiamo parlato. Non mi andava di stare in quella casa.”
L’hostess la riportò alla realtà, per dirle che le manovre di atterraggio erano iniziate e lei doveva allacciarsi la cintura. Indicò divertita Bruce e sparì lungo il corridoio.
Diversi minuti dopo scesero nel parcheggio dell’aeroporto, dove si trovava l’auto di Bruce. Nessuno degli altri ragazzi aveva fatto commenti o battute vedendoli andare via insieme. Ormai erano abituati e la cosa non creava fastidio a nessuno.
“New York o le meraviglie del Jersey?” chiese Bruce mettendo in moto.
“Serve chiederlo?” rispose Patti.
Percorsero alcuni chilometri della New Jersey Turnpike, lasciandosi alle spalle fabbriche e acque fangose, finché non raggiunsero l’uscita che portava a una delle tante cittadine sulla costa. La stagione estiva non era ancora iniziata e trovare un albergo libero risultò molto facile. Ne scelsero uno vicino alla spiaggia, con la camera che si affacciava sull’oceano. Non c’era nessuno sulla sabbia gialla, solo un vecchio signore con il suo cane.
Si sistemarono sulle poltroncine che trovarono in terrazza e Bruce pensò che non era poi tanto diverso da quando evitava di ritornare a casa dopo aver suonato per giorni interi quando era ancora ragazzo. Si girò verso Patti e lei gli sorrise, riavviandosi all’indietro una ciocca di capelli, un gesto che per qualche motivo lo faceva stare bene. Non avevano niente da fare, così restarono a guardare il ritmo ipnotico delle onde.
 
 
Il traffico era scarso e Bruce si concesse la piccola distrazione di continuare a pensare ancora un po’ a quel pomeriggio, fino a quando non si accorse che era più tardi di quanto pensasse. Patti ormai doveva essere tornata a casa. Schiacciò l’acceleratore e l’auto schizzò in avanti.
 
*Questa frase è una citazione del libro “Nativo americano, la voce folk di Bruce Springsteen” di Marina Petrillo.
 
______________
 
Ehilà, gente!
Is there anybody alive out there?(chiese quella che non aggiornava da secoli :D). Comunque ecco qui l’ennesimo capitolo Bruce / Patti, spero di non avervi annoiato troppo. Inutile dire che come mio solito ho ricontrollato molto velocemente, quindi se trovarete qualche errore e me lo segnalate mi fate un favore.
E spero di leggere presto qualche nuovo capitolo delle altre storie, che sono decisamente meglio di questa roba qua.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Patti lo osservava già da alcuni minuti. Era seduto con un blocco di fogli sulla gamba destra e il gomito appoggiato su quella sinistra, chinato in avanti. La punta della penna era immobile a pochi centimetri dal foglio e gli occhi fissi su un punto nel vuoto. Ogni tanto mormorava qualche parola, come se volesse controllare il suo suono, per assicurarsi che fosse adatto alla canzone che aveva in mente.
Uno dei primi consigli che gli altri le avevano dato quando aveva iniziato a far parte del gruppo era stato di non disturbarlo mai quando era così. Si rischiava di farlo diventare molto nervoso, in modo particolare se per una pura, sfortunata coincidenza si interrompeva qualche passaggio cruciale. Un'esperienza davvero poco gradevole. Fortunatamente in quel momento fu lui ad accorgersi della sua presenza. Si alzò e le andò incontro stiracchiandosi.
“Ehi. Non ti ho sentita entrare.”
“La porta era aperta...” Patti cercò inutilmente di stendere con la mano alcune pieghe della maglietta di Bruce.
“Il piccolo mostriciattolo dov'è?”
“A dormire.”
“A dormire?” Bruce abbassò lo sguardo sul polso in cerca dell'orologio e quando si accorse di averlo nuovamente dimenticato da qualche parte tornò a guardare Patti. “Da quanto tempo sono chiuso qui dentro?”
“Tutto il pomeriggio. Andiamo a mangiare?”
Uscirono dalla stanza che Bruce aveva trasformato in un piccolo studio di registrazione casalingo e si trasferirono in cucina per la cena. Non avevano ancora finito di mangiare quando Patti gli domandò ancora una volta “Allora sei sicuro?”
“Sicuro?”
“Per domani” precisò lei.
Bruce iniziò ad annuire mentre stava ancora bevendo un sorso d'acqua, ricordando a cosa si stava riferendo Patti. “Si, certo. Sicuro. Vai tranquilla.” Un'amica le aveva proposto di passare una giornata insieme in città, cosa che non facevano da molto tempo e Bruce sarebbe rimasto da solo con Evan, il loro primo figlio.
“Sicuro sicuro?”
“Si. E poi non sarò da solo. Forse passano anche Roy e Steve.”
“Steve?” Patti spalancò gli occhi. “Sto per lasciare Evan con te e Steve?”
“E Roy...”
“Con te e Steve?”
Tutto d'un tratto Bruce assunse un'espressione triste. Tagliuzzò con la forchetta il cibo che gli era rimasto nel piatto. “Lo sai che gli altri non mi parlano molto volentieri in questo periodo.”
“Non ci provare” Patti gli puntò contro l'indice “sei stato tu a farti venire in mente l'idea di suonare da solo. Adesso non provare a fare la vittima. E non provare a cambiare discorso.”
Lui scoppiò a ridere. Quel sistema ormai non funzionava più. “Dai, stai tranquilla. Vedrai che si divertirà con noi.”
Più tardi, quella sera, Bruce era disteso sul letto, con gli occhi fissi sul soffitto. Fuori aveva iniziato a piovere e si sentivano alcuni tuoni in lontananza.
Prima di andare a dormire era rimasto qualche minuto a guardare suo figlio addormentato nel suo piccolo letto, con il pollice stretto nel pugno. Ogni tanto emetteva qualche piccolo verso, sospirava e continuava a dormire. Non si stufava mai di guardarlo.
Anche Patti era sveglia, lo capiva dal ritmo del suo respiro. Rotolò su un fianco e le si avvicinò.
“Era una notte buia e tempestosa...” cercò di rendere la sua voce più profonda e minacciosa, facendo sorridere Patti.
“E Bruce decise di fare un massaggio a sua moglie” aggiunse lei.
“Non era esattamente quello che Bruce aveva in mente.” Continuò a parlare con il tono di voce alterato. Fece appena in tempo a baciarla solleticandole il collo con la barba che si era lasciato crescere , che un tuono scoppiò facendo tremare i vetri delle finestre. Pochi istanti dopo sentirono Evan piangere nella sua stanza.
“Sarà meglio portarlo a dormire qui.”
Bruce annuì e uscì dalla camera per andare a prendere il bambino.
“Ehi, piccolo mostriciattolo.” Lo sollevò dal lettino fino a portarlo all'altezza del suo viso. “Hai paura del temporale? Vorresti venire a dormire con noi?” Il pianto del bambino si ridusse a qualche debole singhiozzo, rassicurato dalla voce del padre. Allungò le braccia verso Bruce per farsi prendere in braccio in un modo più comodo. Lui gli solleticò la pancia per farlo ridere. “E se invece ti lasciassi qui? E se tornassi da solo dalla mamma?”
“Ti ho sentito” gridò Patti dalla stanza da letto. “E ricordati che c'è sempre il divano disponibile.”
“Okay, okay. Come sei suscettibile, donna.” Bruce ritornò in camera con Evan che sorrideva, ignaro di quello che i genitori si stavano dicendo ma divertito dalle loro voci. Passò il bambino a Patti e prima di riuscire a stendersi, lei lo fermò.
“Forse è meglio fare entrare Sparky. Lui ha paura del temporale.”
“Lui ha paura di tutto.” Sbuffando, Bruce scese al piano inferiore e uscì sotto il portico, dove si chinò davanti ad una cuccia per cani.
Qualche mese prima Patti aveva proposto di prendere un paio di cani da guardia e a lui era sembrata una buona idea, pensando a due pastori tedeschi, o magari due Dobermann che sorvegliavano attenti il loro giardino. Invece Patti non aveva saputo resistere a Sparky, un cane dal pelo di un colore indefinibile tra il bianco e il grigio che ben presto si era rivelato un pessimo cane da guardia. Bruce lo trovò rannicchiato sul fondo della cuccia, terrorizzato dagli scoppi dei tuoni. Lo guardò scuotendo debolmente la testa. “Dai, cane. Vieni dentro.”
Sparky lo seguì veloce in cucina e poi gli si sedette di fronte in attesa, con la lingua penzoloni. Bruce prese un biscotto a forma di osso da un barattolo e glielo fece vedere. Lo nascose dietro la schiena e allungò una mano.
“Dammi la zampa, Sparky” disse con voce ferma e decisa. Sparky, come sempre, si gettò a pancia in su. Eseguiva ogni comando in quel modo. Bruce rise e gli diede comunque il biscotto, oltre a delle pacche sulla schiena. “Bravo cane.” Sparky scodinzolò soddisfatto e lo seguì trotterellando fino al soggiorno, dove si acciambellò nella sua cuccia.
Quando tornò finalmente a letto, Evan era già addormentato vicino alla madre.
“Tutto okay?” chiese lei.
“Si. Nessun ladro oserà mai entrare in questa casa.” Spense la luce e chiuse gli occhi.
Mentre scivolava lentamente nel sonno riuscì a sentire ancora qualche rumore. La pioggia che batteva contro il vetro. I respiri leggeri di Evan e Patti. La porta che si socchiudeva e un lieve ticchettio sul pavimento. Il cigolio delle molle del letto seguito da uno strano ansimare. Bruce alzò la testa stordito dal dormiveglia e vide Sparky che gli rivolgeva un'occhiata stanca mentre si sistemava ai piedi del letto. Si lasciò ricadere pesantemente sul cuscino. Aveva troppo sonno per alzarsi di nuovo e riportarlo nella sua cuccia.

“Secondo voi perché li trovano così divertenti? I piedi, intendo.”
Roy aveva spostato la sua sedie in modo da osservare Evan giocare prendendosi i piccoli piedi fra le mani. Non si aspettava di ricevere un risposta e infatti non la ottenne. Bruce e Steve stavano discutendo animatamente riguardo alcune canzoni, una scena a cui Roy aveva assistito molte volte nel corso degli anni. Sapeva che cercare di inserirsi nella discussione era un'impresa quasi impossibile. Almeno questa volta, grazie alla presenza di Evan evitavano di urlare.
Prese uno dei giochi del bambino dal tavolo cosparso di cd e fogli con strofe scritte e cancellate usandolo per attirare la sua attenzione. Evan gattonò barcollando fino a lui, si lasciò prendere in braccio e Roy lo sistemò sulle sue ginocchia. “Hai visto che noiosi che sono?” gli disse a bassa voce.
In quel momento Steve si accasciò contro lo schienale della sedia con le braccia incrociate sul petto. “Tanto discutere con te è impossibile” sbottò rivolto a Bruce, che si limitò a replicare con un gesto spazientito della mano.
“Hai detto qualcosa, Roy?”
L'altro cercò di liberare gli occhiali dalla presa di Evan. “Si. Dicevo, chissà perché trovano così divertenti i piedi.”
“Non saprei. Forse è la forma. Sono strani, no? Soprattutto quando sono così piccoli.” Percorse con la punta del dito i bordi del piedino di Evan e poi si girò verso Steve, fingendosi meravigliato. “Nessuna battuta sul fatto che diventerà un feticista? Mi sorprendi.”
“Ti sei offeso per quello che ho detto sulle tue canzoni? Scusa tanto, non volevo ferire il tuo animo sensibile.”
“Dio, non di nuovo.” Roy sospirò passandosi una mano sul volto stanco.
“Comunque mi sembra più portato per i furti” aggiunse Steve indicando il bambino. Aveva notato il luccichio dei braccialetti di Roy e stava cercando di prenderne uno, così lui lo slacciò e glielo fece oscillare davanti al viso. “Ti piace? Vuoi prenderlo?”
Bruce osservava con un sorriso la scena. “Cerca sempre di prendere anche gli orecchini di Patti” disse, prima di correggersi. “In realtà rischia di strapparglieli via.”
Anche Steve seguiva attentamente i movimenti di Evan, ma le sue labbra erano contratte in un'espressione a metà fra il disgusto e la preoccupazione. “Roy, stai attento. Credo che lui voglia...” si interruppe, perché il bambino aveva afferrato il braccialetto e prima che Roy riuscisse a fermarlo se l'era portato alla bocca per assaggiarlo, confermando i suoi sospetti.

Roy e Steve se ne andarono a metà pomeriggio. Il tempo era troppo brutto per poter uscire a fare una passeggiata e Bruce decise che era ancora presto per dare da mangiare ad Evan. Si distese insieme a lui sul divano, con Sparky acciambellato nella sua cuccia. Fece zapping fra i canali cercando di bloccare in qualche modo la visuale al piccolo.
“Se tua mamma ci scopre mentre guardi la tv mi uccide. Tu invece te la cavi con qualche sorriso o versetto divertente. Vediamo de c'è qualcosa di – oh!” Smise di cambiare canale appena vide Robert de Niro urlare “Sei solo chiacchiere e distintivo!”. Si grattò la fronte dubbioso. “In realtà non credo sia tanto adatto a te. Evan?”
Il bambino aveva chiuso gli occhi e si era addormentato. Gli accarezzò la testa e presto anche lui iniziò a sentire le palpebre farsi pesanti. Spezzoni confusi di un sogno si sovrapposero alle scene del film.
Quando Patti tornò a casa stavano dormendo tutti e due.


Bruce parcheggiò la macchina in garage.
Tra tutte le cose che erano successe nella casa dove lui e Patti erano andati a vivere insieme – era lì che aveva visto la sua famiglia nascere ed era in quell'atmosfera calda che aveva sentito finalmente prendere forma e diventare a poco a poco sempre più stabile l'equilibrio che aveva cercato per tanto tempo – gli era tornato in mente quella semplice giornata.
Spense il motore ed entrò in casa, chiudendo piano la porta. Dentro era buio, sentiva solo il suono della radio coperto dallo scroscio dell'acqua provenire dalla cucina. Cercando di fare meno rumore possibile attraversò il corridoio e il soggiorno. Sbirciò in cucina e vide che il tavolo era vuoto. Patti doveva essere in piedi davanti al lavandino. Bruce deglutì e con un piccolo salto entrò in cucina.

“A-ah!
Solo, in cucina non c'era nessuno. Fissò disorientato e deluso il punto in cui aveva ipotizzato di trovare la moglie e il rubinetto aperto. “Cosa...”
Improvvisamente sentì due mani afferrarlo per i fianchi e pizzicarlo. “Signore Iddio Onnipotente!”
Buce fece un scatto in avanti, proteggendosi i fianchi e contemporaneamente cercando di girarsi per vedere da chi era stato attaccato. Vide Patti che rideva e si asciugava le lacrime dagli occhi.

Patti! Vuoi farmi venire un infarto?” Lei si limitò a rispondere con un gesto della mano, continuando a ridere.
Bruce si sedette al suo fianco, massaggiandosi i fianchi. “Credevo di non aver fatto rumore.”

Ho sentito la macchina. Dio, dovevi vedere la tua faccia.” Si asciugò ancora gli occhi e aggiunse “Dove sei stato tutto il giorno?”
In un sacco di posti. Cioè, no. Solo a fare un giro, in realtà. Sam?”
E' uscito con la sua compagna di classe.”
Allora la verifica è andata bene” commentò Bruce con un sorriso.
E noi siamo soli a casa.”
Vuoi andare a cena fuori o...”
Voglio scaldare qualcosa per cena e poi diventare un tutt'uno con il divano” fu la risposta secca di Patti e il volto di Bruce si illuminò.
Ottimo. Vado a cambiarmi.” Prima di uscire pizzicò i fianchi della donna facendola saltare e scappò via ridendo prima che Patti potesse trovare il tempo di reagire.

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Bene, e per finire questa storia, quattro pagine di OpenOffice in cui non succede preticamente niente. Spero solo che cani e bambini siano di vostro gradimento. Almeno sono riuscita a dedicare un minimo spazio a Roy, uno dei miei preferiti.
Il film con Robert de Niro che ho citato è "Gli intoccabili".
Grazie per chi ha letto/recensito e un grazie grande come una casa (una casa molto grande, enorme) a 33nocidicocco per le recensioni ma soprattutto per gli incoraggiamenti. Mi sei stata davvero di grande aiuto, anche questa volta (detto questo, se non ti decidi a pubblicare il tuo nuovo capitolo riceverai un invito a cena da parte mia. E il mio chef di riferimento è Hannibal Lecter :P)
Spero di non avervi annoiato troppo.
Alla prossima!

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