Cara Prudence

di Nadie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Legge del Resto ***
Capitolo 2: *** Una storia semplice ***
Capitolo 3: *** Non come Lei ***
Capitolo 4: *** Oltre la carne ***
Capitolo 5: *** Parole armate ***
Capitolo 6: *** Mai ***
Capitolo 7: *** Distratto ***
Capitolo 8: *** Aspettare ***
Capitolo 9: *** Verità nascoste ***
Capitolo 10: *** Padre ***
Capitolo 11: *** Pugni, specchi e parole ***
Capitolo 12: *** Avanti ***
Capitolo 13: *** Le buie solitudini ***
Capitolo 14: *** Ogni giorno. Ogni cosa. ***
Capitolo 15: *** L'arte di riempirsi ***
Capitolo 16: *** Coniglio ***
Capitolo 17: *** Prudence e ciò che sentì ***
Capitolo 18: *** Dear Prudence ***
Capitolo 19: *** Cose che non si possono dire ***
Capitolo 20: *** Farfalle sporche ***
Capitolo 21: *** Sirene ***
Capitolo 22: *** Raccogliersi ***
Capitolo 23: *** Sii forte ***
Capitolo 24: *** La superficie delle cose ***
Capitolo 25: *** Occhi Bui ***



Capitolo 1
*** La Legge del Resto ***


Cara Prudence




 

La prima volta che parlò a sua figlia - ancora nascosta nel suo ventre spazioso - le disse che «le persone si riempiono a vicenda.»
Seduta a gambe incrociate davanti ad una finestra, si passò le mani sulla pancia, cresciuta per far spazio a quella piccola creaturina accucciata nel suo profondo, e pensò che quello fosse il momento perfetto per parlarle, pensò che in quella notte scura avrebbe potuto raccontare qualcosa del mondo a quell’esserino piovuto dentro lei da chissà dove.
Le persone si riempiono a vicenda.
Era così, era questo lo scopo universale di tutti e tutto: riempirsi.
Spiegò a sua figlia che quello scambio astratto e invisibile stava avvenendo anche in quel momento, tra loro due.
«Tu mi stai riempiendo della tua essenza fragile e io ti sto dando parte di me, ti sto regalando un grosso pezzo del mio ‘io’.»
Le disse che l’amore, i desideri, le passioni ed ogni altro sentimento e componente della nostra anima, era come l’acqua e poteva essere versato di corpo in corpo in continuazione.
Le spiegò che il mondo non era così grande e che niente succedeva per caso e che, una volta versato qualcosa dentro qualcuno, nasceva un filo sottile che teneva legate due persone per sempre.
«E non importa se le vostre strade si divideranno, non importa quanto sarete distanti: quel filo resisterà a tutto e a tutti.»
Chissà se quella creaturina la stava ascoltando, lei ne era certa «perché ormai ti sono arrivate anche le orecchie, e allora ascoltami bene, piccolina, prenditi tutte le mie parole e quando verrai al mondo sarai già quasi piena.»
E così, notte dopo notte, Prudence versava la sua vita e le sue parole in quell’esserino nascosto, e lo sentiva nascere dentro di lei, quel filo, lo sentiva legarsi stretto tra il suo corpo e sua figlia e cresceva nel suo petto la consapevolezza che quel legame ancora all’inizio, quella vita nuova non ancora arrivata, l’avrebbe riempita fino all’orlo della sua esistenza e che mai, mai e per nulla al mondo, lei e sua figlia si sarebbero perse.
Una notte, dopo tante altre notti, Prudence giurò a sua figlia che le avrebbe dato tutto ciò che aveva, le avrebbe dato il meglio di lei, e la creaturina accovacciata nel suo ventre si sentì pronta, decise che quello era il momento giusto.
Scelse quella notte scura per arrivare, per incontrare finalmente quella donna che se la teneva stretta nella pancia e la riempiva di parole e d’infinito.
Scivolò fuori dal quel ventre caldo e spazioso e pianse come mai avrebbe poi pianto in tutta la sua vita.
Smise di dimenarsi solo dopo che un paio di mani sconosciute la posarono tra delle braccia calde e lei, la piccola creaturina appena venuta al mondo, sentì di essere in un bel posto.
Prudence la chiamò Leila. Notte.
 
 
 
 
 
Nessuno.
Nes-su-no.
Non la trovi una bella parola?
Nessuno.
Secondo me è ciò che siamo, che tutti noi siamo.
Perché tu, per caso, sai già chi sei? Pensi che il destino abbia già scritto la tua vita? Che tutto abbia un magico senso?
Cazzate.
Noi non siamo niente, non siamo nessuno e non capiremo mai chi siamo fino alla fine.
E non lo dico mica io, ma la Legge del Resto.
Il resto, già, proprio così.
Ma tu ci pensi mai al resto?
Ma te le fai mai due domande sul resto?
Sai cos’è?
Te lo spiego io, allora.
Il resto è ciò che sta intorno alle nostre vite, è lo spazio, il tempo, sono le domande esistenziali, io chi sono? Ma l’amore esiste? E Dio? Dio esiste? E come fa ad ascoltarci tutti quanti? Cosa c’è dopo la morte?
Domande che si fanno tutti, immagino, ma la risposta? Tu te la sei mai data una risposta?
Ti sei mai seduto da qualche parte in silenzio a chiederti chi sei, se sei soddisfatto delle tua vita, se quello che fai era davvero ciò che volevi fare, se sai almeno cos’è quello che vuoi fare?
Scommetto che hai lasciato la domanda con il punto interrogativo e non ti sei azzardato mai a rispondere.
Fa paura la risposta, vero? O, ancora peggio, non riuscire nemmeno a trovarla, la dannata risposta.
Comunque, andando con ordine, la Legge del Resto dice che noi, tutti noi, io, tu, il tuo vicino di casa, il tuo migliore amico e il Papa, nasciamo nessuno e, man mano che viviamo la nostra vita ci costruiamo un’identità, ma non si smette mai di essere nessuno perché tutto può sempre cambiare.
Io ora posso di dire che sono un attore.
Ma se domani mi sveglio e mi metto a fare lo scrittore cambio ogni cosa, capito?
Sai qual è la cosa più importante nella vita, secondo la Legge del Resto?
L’amore? No.
La salute? Nemmeno quella.
Il tempo.
Questa è la cosa più importante.
Quale dannata magnifica invenzione!
Chissà chi l’ha inventato, il tempo, sarà stato Dio? E come l’avrà fatto? Che materiale avrà usato?
Sai, secondo me il tempo non è esterno a noi ma è dentro di noi, oltre la carne, dentro le vene, è forse una delle nostre componenti più importanti.
Il tempo, perché il tempo una volta che passa non torna più indietro, se lo perdi, basta, non puoi più farci nulla, non lo recupererai mai, e il problema è che il tempo è un grandissimo bastardo e ti rendi conto di quanto prezioso sia, solo quando è tardi.
Io l’ho capito oggi.
L’ho capito mentre salivo sull’aereo per Dublino.
L’ho capito quando ho preso la metropolitana.
L’ho capito appena ho incrociato un maledetto paio di occhi verdi.
E adesso ne ho la certezza: io di tempo ne ho perso troppo.
Secondo la Legge del Resto, quando perdi del tempo non c’è più modo di recuperarlo.
Allora sai cosa? ‘Fanculo alla Legge del Resto, io il tempo lo farò tornare indietro, lo recupererò fosse l’ultima cosa che faccio in vita mia, e se è vero che Dio esiste allora gli dirò di ridarmi gli anni che si è preso, lo obbligherò se devo, ma riavrò il tempo, il mio tempo, il nostro tempo.
Perché  stavolta, cascassero dal cielo le stelle, non andrò via senza Lei.
 
 




Ebbene sì, alla fine la long è nata! (non so se è proprio una buona notizia, ma vabbé)
Dunque, dunque, avrei voluto postare molto più avanti, solo che mi sono resa conto che, se non postavo subito, avrei continuato a rimandare la stesura degli altri capitoli e quindi probabilmente chissà quando mi sarei data 'na mossa!
Cosa dirvi e anticiparvi? Allora, il prologo è in terza persona, ma come vedete già da subito tutta la storia sarà scritta dal punto di vista di Ben, ma stavolta in prima persona(volevo provare qualcosa di nuovo) vediamo cosa ne esce fuori...
Niente, ringrazio come sempre tutti i lettori dei due sfigatozzi, silenziosi e non e, tranquilli, a 'sto giro sarò meno sadica e cattiva ;)
Grazie mille per il vostro tempo,
C.

P.S: Sì, lo ammetto, la fagiolina l'ho chiamata Leila non solo perché in arabo vuol dire 'notte'(me l'ha detto un'amica che conosce la lingua), ma anche perché è il nome della protagonista femminile di 'Star Wars', la Principessa Leila, e siccome sono leggermente nerd volevo farle un tributo.
Ora smammo per davvero!

 

 
 

 
 

 

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Capitolo 2
*** Una storia semplice ***



2. Una storia semplice



Lui alla vita non aveva mai chiesto molto.
Gli bastava del cibo e da bere, un buon libro ogni giorno, qualche parola buona da dire e da ricevere, una sigaretta sotto un cielo buio e un posto caldo in cui sognare qualcosa da dimenticare la mattina dopo.
Mai aveva pensato di chiedere alla vita di dargli tappeti rossi da calpestare e vestiti eleganti da indossare solo una volta e poi via; mai avrebbe voluto prendere aerei ogni due giorni e girare il mondo senza mai vederlo davvero; mai avrebbe voluto modelle e attrici perfette con il loro profumo attorno a lui.
Forse non avrebbe neanche mai voluto l’amore, ma se proprio quel gran bastardo avesse dovuto raggiungere anche lui, gli sarebbe bastata una storia semplice.
Un bacio rubato al mattino e un corpo caldo la notte, silenzi leggeri riempiti da pelle e carne, parole semplici e sorrisi ogni giorno, litigi per il colore dei muri da dipingere, sogni troppo alti per il soffitto e ritardi al lavoro solo per fare l’amore, e poi ancora serate sul divano a guardare la partita e lei che sbuffa perché non capisce nemmeno cos'è un fuorigioco, e mangiare pizza al lume di candela, guardare fuori dalla finestra e pensare di essere altrove, via, lontano, lontano, oltre il mare e tutti gli oceani, dimmi dove vorresti essere e ti prometto che trasformerò il salotto nella città che vuoi, farò del divano la nostra gondola e del pavimento il Rio de la Plata, poi faremo la fila per vedere gli Uffizi dentro la nostra vetrina piena di servizi da tè mai usati e salteremo in piedi sul tappeto, sul nostro Vallo di Adriano e guarderemo il mondo tutto intorno che è troppo piccolo per noi due.
Ecco cosa avrebbe voluto, adesso che è tardi lo ha capito.
Appoggia i gomiti al parapetto del ponte e osserva il fiume Liffey che scorre sotto di lui con il suo rumore di acqua presa e trascinata via da altra acqua, ma dove scappi acqua? Dove vuoi arrivare? Quanto lontano vuoi andare? Stai correndo verso qualcuno anche tu? E che strada fai?
Anche lui dovrebbe prendere la strada buona e correre verso qualcuno, ma così tante domande ammassate nella sua testa!
E quella frase, quelle parole, quelle sillabe che si ripetono nella sua mente da ormai quasi più di tre anni.
Aspetto un bambino.               
As-pet-to un bam-bi-no.
Sarà già arrivato, e forse lei sarà impegnata, forse avrà trovato un altro e avrà scordato il ragazzo con gli occhi bui, i suoi occhi bui e tutto di lui, tutte le sue parole, la sua pelle, il suo odore e la sua paura delle farfalle.
Forse adesso lui e la loro storia andata a male sono nascosti in fondo alla sua mente e lei li tiene lontano.
La loro storia andata a male.
Se solo lui avesse potuto raccoglierla, se avesse potuto mettere parole, baci e sentimenti chiusi in un barattolo grande, grandissimo e tenerlo sempre con lui, aprirlo, respirarlo, riviverlo e richiuderlo a suo piacimento.
Se solo le storie non fossero astratte ed invisibili, se si potessero toccare, maneggiare, smontare e rimontare meglio di prima, stavolta più forti, siamo più forti e non ci smonteremo più, ma chissà dove vanno a finire le storie e ciò che è parte di loro, chissà di cosa sono fatte e dove finiscono.
Forse in acqua?
Dimmi un po’, fiume Liffey, lì sotto, nella tua acqua sporca, c’è per caso un pezzetto di me e della ragazza con gli verdi? E se sì, ti prego, allunga la tua mano bagnata e dammelo, perché è mio e solo mio e lo voglio tenere con me, lo voglio tenere per me.
As-pet-to un bam-bi-no.
Quanta rabbia che sente dentro, rabbia per ogni dannata sillaba.
Rabbia perché quel bambino non è il suo, perché se tu e i tuoi occhi verdi foste stati più sinceri ed io meno orgoglioso, quel bambino lo avremmo aspettato insieme ed ora io non sarei su un dannato ponte a maledire le tue dannate parole!
Ma al diavolo le parole!
Si nasconde dietro un paio di occhiali scuri e cammina tra le vie di una città che ha cercato disperatamente di dimenticare ma che è rimasta impressa, indelebile, incancellabile nella sua testa che ha fatto il giro del mondo, che ha camminato sulle strade di New York e Los Angeles e ha sentito l’odore e il rumore dell’oceano, ma che è sempre rimasta tra i vicoli grigi di Dublino
Svolta in una via piena di bar e di puzza di alcol, sigarette e di gente che ha voglia di dimenticare.
Si avvicina ad un locale anni Cinquanta che conosce bene, spinge la porta e si avvicina al bancone, un po’ affollato, dove una ragazza con i capelli rossi ed il suo amico con dei dreads biondi servono clienti poco pazienti e troppo esigenti.
Si immerge in quelle richieste, si infila tra un caffè ed un cocktail, sgomita tra una birra e un po’ d’acqua fredda.
Sì, prego, mi dica: cosa vuole?
Prudence, grazie.
Il ragazzo con i dreads biondi alza gli occhi su di lui e sembra incredulo.
«Ben?!»
Annuisce, sì, quello è il nome, sono proprio io anche se mi nascondo dietro ad un paio d’occhiali, come se due lenti grandi e scure bastassero a tenermi al sicuro dal mondo e dalla gente che ci vive sopra, ma io ci provo, resto nascosto, resto dietro i miei occhiali e me li toglierò solo quando tu mi avrai detto dov’è la ragazza con gli occhi verdi.
La ragazza con i capelli rossi si avvicina e quasi non ci crede che davanti a lei, come tre anni prima, c’è di nuovo il ragazzo con gli occhi bui.
«Ma dove sei andato a finire?» gli chiede il ragazzo.
Ma dove sono andato a finire?
Lontano, in un altro continente e poi indietro a casa mia, e poi su in cielo sopra un aereo ed un altro ancora, e ho visto tutto e ho visto niente, ed ora non lo so neanche io dove sono andato a finire.
«Enoch, ti prego, devi dirmi dov’è! Devo vederla!»
«Ben, guarda che Prue…»
«So tutto, mi ha detto tutto l’ultima volta ma ormai non mi importa più niente.»
Un uomo corpulento sbraita perché nessuno gli ha ancora dato la sua sacrosanta birra, Angie si volta e gli regala un’occhiataccia, poi gli intima di aspettare, che sta facendo una cosa importante.
Una cosa importante.
«Senti, non lavora più qui con noi, ma possiamo darti l’indirizzo di casa… però non dirle che siamo stati noi.»
«Non lo farò.» ho altro da dirle, ho di più da dirle, ho il mondo da dirle, ho l’Oltre da dirle.
Angie ed Enoch si scambiano un’occhiata d’intesa, poi lei prende un foglietto ed una penna e ci scrive sopra qualcosa e poi lascia cadere il foglietto nella mano tesa del ragazzo con gli occhi bui.
«Grazie!» e gli rispondono con un sorriso che ha dentro qualche goccia di compassione e forse anche pena.
Ma ormai non mi importa più niente.
Ritorna in strada e cammina, cammina, cammina tra le strade che conosce alla perfezione e fissa il foglietto macchiato d’inchiostro blu e lo tiene in mano stando attento a non stropicciarlo o strapparlo, perché al momento quel foglietto gli sembra ciò che di più importante ha al mondo.
Cammina, cammina, cammina e smette di camminare solo quando i suoi passi incrociano quelli di una ragazza alta, snella e bionda che è perfettamente perfetta e così tanto perfetta che gli fa quasi venire il nervoso.
«Ben, eccoti! Avevi detto che tornavi subito ma è tardissimo, sono uscita a cercarti!»
«Franziska…»
Ma qualsiasi parola abbia in mente di dire, resta bloccata dentro lui, perché Franziska si avvicina e posa le labbra sulle sue e lui resta immobile, interdetto, bloccato e poi lei si allontana e gli fa un bel sorriso che lui si sforza di ricambiare.
«Dai, andiamo a casa a prepararci per la cena.»
 
 
 

Cara la mia ciurma, come state? Come è iniziato il vostro Settembrozzo?
Il mio dimmerda, spero il vostro meglio!
Cooomunque, torniamo agli sfigatozzi, c'è una cosetta che la sottoscritta autrice svampita ha scordato di dirvi: questa storia è ambientata nel 2014, e voi direte: ma come? L'ultima volta non eravamo nel 2011 ai tempi di Killing Bono?
Ebbene è giusto che sciolga questo intreccio temporale un po' incasinato: la storia di Ben e Prue comincia a fine 2006, poi tutti sapete che io sono acida e perfida e quindi li faccio mollare e loro si rivedono otto anni dopo, cioè nel 2014, cioè in questa storia, per quanto riguarda le tre OS ambientate nel periodo Killing Bono('Dove va a finire tutto l'amore di una storia d'amore?'; 'Il tempo dell'acqua' e 'Fino a Domani), sono delle Missing Moments che non erano presenti né ne 'I difetti della memoria' né nella 'Statica' e che sono state scritte e pubblicate dopo, perciò gli sfigatozzi adesso si sono visti l'ultima volta nel 2011, tre anni fa, perciò Leila, la fagiolina di Prue, ha già tre anni :)
Perdonate questi sbalzi temporali, ma la storia è strutturata apposta così perché ci sono sempre riferimenti alla memoria e al tempo che passa e perché a me piace giocarci sopra, scusate se vi ho mandato in confusione, in caso abbiate bisogno di ulteriori chiarimenti chiedete pure!
Per il resto... ah non dico più nulla, lo so che Franziska è una presenza sgradita al momento, però sapete che se io non complico le cose ai due sfigatozzi non sono contenta!
Ah, tra l'altro, come potete vedere, sono ritornata alla terza persona con i pensieri diretti di Ben mischiati, e questo perché ho provato a scrivere con la prima dal suo punto di vista, ma credo che appiattisca troppo il suo personaggio, perciò ritorno al vecchio stile: squadra che vince non si cambia!
Ed ora, come sempre, ringrazio tutti i lettori, silenziosi e non!

hasta luego,
C.

P.S: Ma quel servizio fotografico di Ben? Cioè, PARLIAMONE! Mamma mia, Barny, ma statte bono!

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 3
*** Non come Lei ***


3.Non come Lei


Franziska - e questa era la principale ragione per cui aveva lasciato che le loro vite si avvicinassero - era completamente diversa da Prudence.
Lui l’aveva capito appena l’aveva incontrata a Berlino, in un parco dal nome impronunciabile e con piante e prati curati e perfetti.
Anche Franziska era perfetta, con i capelli perfettamente lisci, le gambe perfettamente dritte e il sorriso perfettamente vuoto.
Erano capitati per sbaglio sulla stessa panchina di quello stesso parco, lui aveva sentito la puzza del fumo di un sigaretta vicina, aveva voltato il capo ed ecco due occhi di ghiaccio che lo guardavano con un’invadenza ed un'insistenza quasi intollerabili.
E poi le solite parole ordinarie che si trascinano nelle solite conversazioni ordinarie.
Che bella giornata.
Che bel parco.
Hai una sigaretta anche per me?
Ma certo!
Che ne pensi della morte?
Ecco la domanda giusta per togliere l’ordinario a quel momento troppo ordinario.
Che ne pensi della morte?
Io non penso mai alla morte! Non bisogna pensare a queste cose complicate e lontane!
Tu sei diversa da Prudence.
Sei diversa dai suoi occhi verdi e dalle sue labbra carnose, sei diversa dalle sue parole, tu non sai nemmeno come usarle le parole, quelle giuste, non sei come Lei, non sei Lei.
E allora se non sei come Lei non farai ciò che ha fatto Lei, non mi innamorerò di te e tu non te ne andrai, non mi lascerai solo.
Perché tu non sei come Lei.
Lui se lo ripete sempre, di continuo, lo fa quando al mattino incontra un paio d’occhi di ghiaccio senza nemmeno un po’ di verde, tu non sei come Lei, capelli biondi tra le sue dita, tu non sei come Lei, labbra sottili sulle sue, tu non sei come Lei, poche parole e niente di importante da dire, tu non sei come Lei, niente acqua, niente spiagge, niente parchi tenuti male, tu non sei come Lei, niente canzoni francesi, niente se continui a fumare morirai, niente metropolitane, tu non sei come Lei, niente signore con abiti coi fiori, niente Rolling Stones o Beatles, niente alberi grandi, tu non sei come Lei, niente acqua gelida dentro la carne, niente pioggia sulla pelle, niente Amore invidiaci perché noi siamo l’Oltre, tu non sei come Lei, niente corpi soli in letti troppo grandi con accanto solo una lettera cattiva, tu non sei come Lei e a me va bene così.
Ma no, in realtà non gli va bene così e lo sa, ne ha la certezza, io non voglio tutto questo e non voglio te e i tuoi occhi di ghiaccio e tutta la perfezione che hai addosso, lo sa, lo sa molto bene.
Altrimenti non le avrebbe chiesto di venire a festeggiare il suo compleanno a Dublino.
Altrimenti il suo cuore non avrebbe perso battiti preziosi dopo lo sguardo di due occhi verdi che è caduto proprio su di lui in una metropolitana affollata.
Altrimenti non sentirebbe quel foglietto sporco d’inchiostro blu bruciare nella sua tasca.
Altrimenti, altrimenti, altrimenti… altrimenti niente.
Franziska gli sta dicendo qualcosa anche se lui non capisce, la guarda: una bella ragazza tedesca dentro un abito da sera scuro e con un profumo forte sulla pelle, cosa vuoi di più, ragazzo con gli occhi bui?
«La cena era squisita, possiamo cenare di nuovo in quel ristorante Giovedì prossimo, che ne dici?» gli chiede Franziska, mentre infila la chiave nella serratura della porta di una camera di un hotel schifosamente lussuoso.
Lui annuisce e si infila la mano in tasca, stringe forte il foglietto e gli sembra di stringere Prudence, adesso ti tengo stretta e non provare nemmeno a pensare di poter scivolare via dalla mie dita, dovranno tagliarmi le mani per farmi mollare la presa.
«Ben? Giovedì prossimo, ti ricordi?» la porta si apre con un gentile pack ed entrambi entrano dentro quella stanza che ha l’odore del nulla, di niente e di nessuno.
Franziska si sfila le scarpe alte e si scioglie i capelli.
«Cosa?»
«Ma come cosa?! Il tuo compleanno!»
«Ah già…»
Franziska sorride e gli si avvicina, posa le mani sulle sue spalle e lo bacia.
Labbra sottili che scivolano con un’insistenza velata tra le sue e poi si arrendono con finta indifferenza a quella barriera invisibile che blocca la loro avanzata.
«Sei stanco?»
«Con una doccia e una bella dormita andrà meglio.» sorride e lei ricambia annuendo, anche se sa che niente andrà meglio, che lui non cambierà perché è così distante e distratto da quando l’ha incontrato.
Lui prende dei vestiti puliti, si toglie gli anfibi e si chiude in bagno, cadono sul pavimento vestiti troppo eleganti per lui e poi uno specchio che lo riflette per quello che è e poi acqua fredda, freddissima sulla pelle.
E come ti permetti di pensare ancora al passato?
Acqua freddissima sulla schiena.
Come ti permetti di farti schiacciare da due occhi verdi?
Acqua freddissima lungo le scapole.
Come ti permetti di chiedere di Lei?
Acqua freddissima tra le costole.
Come ti permetti di ricordati ancora di Lei, di voi?
Acqua freddissima sugli occhi chiusi.
Come ti permetti? Come ti permetti?
E vorrei ucciderti, vorrei baciarti, vorrei solo che tu fossi acqua sulla mia pelle sporca, sporca di ricordi da non ricordare, di amori mai esisti eppure andati a male, di parole cattive, sillabe letali e di bambini da aspettare nascosti oltre la carne.
L’acqua fredda smette di cadergli addosso, si asciuga alla svelta, indossa i vestiti puliti ed esce dal bagno.
La camera è buia e Franziska sembra dormire, lui getta un’ultima occhiata su Dublino al di là della finestra e poi si infila sotto le lenzuola, dentro un letto freddo che profuma del niente che gli sta attorno.
Volta le spalle a Franziska, chiude gli occhi e sogna una folla spaventosa che calpesta Dublino, lui sta correndo, corre e sgomita in mezzo a quelle voci e quei corpi ammassati, sta inseguendo qualcuno con una giacca nera, accelera ma Giacca Nera sembra irraggiungibile, scusatemi devo passare!, si crea un varco tra la folla e accelera sempre di più, c’è quasi, Giacca Nera è vicino, le afferra un braccio e la fa voltare ed un paio di occhi verdi lo guardano allegri.
Prudence, Prudence! Finalmente ti ho trovata!
Scusami, chi sei? Io non ti conosco.
Ma come chi sono?! Prudence, sono io!
Ma all’improvviso scompaiono gli occhi dal volto di Prudence.
Chi è Prudence? Gli chiedono le labbra sopra quel viso vuoto.
Chi sei tu?
Si sveglia spaventato e sudato e il cuore batte forte dentro al suo petto.
Tum tum tum.
Guarda l’orologio sul tavolino, segna le sei e ventisei minuti.
Si alza, attento a non svegliare Franziska, poi va in bagno e si lava di nuovo, manda via con l’acqua tutto il sudore di quel brutto sogno, infila un jeans ed una felpa e poi prende il biglietto dalla tasca del pantalone che è rimasto sul pavimento del bagno dalla sera prima.
Fissa l’inchiostro blu che lo macchia, lo accarezza con il pollice, ti prometto che vengo a prenderti e stavolta potrai sputarmi in faccia tutte le sillabe velenose che vorrai, non me ne andrò, lo giuro.
Esce in fretta dalla camera, dall'hotel e da tutto quel lusso che gli pesa sulle spalle.
Il cielo di Dublino è ancora scuro ed ingoia le strade, i locali e la poca gente riversata sui marciapiedi, lui si infila le mani in tasca e va dritto verso la metropolitana, non ha bisogno di guardarsi intorno o di fare sforzi di memoria perché la strada per arrivarci se la ricorda fin troppo bene.
Scale, poche persone, macchinette per timbrare, click e il biglietto è timbrato, altre scale, vento, porte che gli si aprono proprio davanti al naso ed un vagone vuoto.
Resta in piedi, appoggiato ad un palo grigio, qualcosa di buio ed indefinito sfreccia attraverso il vetro ed un rumore stridulo gli riempie le orecchie, quando la metro frena perde per un attimo l’equilibrio poi le porte si aprono e lui esce fuori di fretta.
Gira tra i vicoli di Dublino e cerca di orientarsi, rilegge le scritte blu sul suo biglietto, dove andare? Dove diavolo devo andare?
Si siede ai bordi di un marciapiede e fissa quel blu, lo fissa a lungo, si rigira il biglietto tra le mani, non è possibile, non è possibile che non riesca a trovarti!
Una vecchina gli passa lentamente davanti, lui non sta a pensarci troppo e si alza, le va incontro e le chiede la strada, lei strizza gli occhi piccoli e legge il suo biglietto poi alza il capo, gli sorride e gli indica la via.
«Sei piuttosto vicino, devi solo proseguire altri cinque metri e poi girare a destra e sei arrivato.»
La ringrazia sorridendo e segue le sue indicazione, conta i passi ed ogni metro d’asfalto che calpesta ed è sempre più vicino, ancora più vicino, vicino, vicino, gira a destra e resta sorpreso, perché davanti ai suoi occhi compare una biblioteca.
La porta è spalancata, lui entra dentro titubante e vede poche persone in piedi vicino agli scaffali, perse tra le pagine dei libri che tengono tra le mani. 
Avanza ancora un po’, alla sua destra ci sono tavoli rotondi e di vetro mentre alla sua sinistra libri e libri e ancora libri si appoggiano l’uno all’altro sopra gli scaffali disposti in ordine.
Riguarda il foglietto, ma come è possibile? Cosa significa?
Poi alza il capo e vede una ragazza con i capelli lunghi e disordinati che le ricadono su una spalla e due grandi occhi verdi, lui alza il cappuccio della felpa e si nasconde veloce dietro lo scaffale dedicato alla Letteratura Spagnola, si siede sui talloni e la osserva attraverso gli spiragli lasciati dai libri.
E pensa solo che è ancora più bella dell’ultima volta che l’ha incontrata.
 
 



Hola!
Allora, ciurma, come va?
A Barny non così bene, ma provvederò presto a migliorare il suo umore, si è già un po' ripreso dopo aver rivisto Prue!
Dunque, non so proprio cosa dirvi/anticiparvi perché sto ancora scrivendo/distruggendo/riscrivendo il loro incontro perciò non posso proprio dire nulla, e allora smammo ma non prima di avervi ringraziati tutti, lettori silenziosi e non!
Buona serata,
C. 

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Capitolo 4
*** Oltre la carne ***


4. Oltre la carne





Incastrato tra Letteratura Spagnola e Latino Americana.
Occhi bui nascosti bene e libri che fanno da scusa, da scudo.
Pagine vecchie ed ingiallite ed un naso piccolo coperto da qualche lentiggine; titoli illeggibili per lui e delle labbra carnose da baciare, baciare, baciare; copertine strappate, spezzate e sporche ed un paio di occhi verdi visti, presi, rubati e mai dimenticati.
La ragazza con gli occhi verdi è seduta sui talloni tra la Letteratura Italiana e quella Francese, accanto a lei una pila di libri da ordinare.
Li prende tra le mani uno alla volta e li sistema al posto giusto: morsi alla labbra, sopracciglia incurvate, un’espressione concentrata e tu, vecchio mio, devi andare proprio qui! e il libro si incastra alla perfezione tra altri libri e resta dritto, fiero, in attesa di occhi attenti che lo vengano a cercare, che lo riconoscano, lo prendano tra le mani e lo portino a casa loro, al caldo, per rubargli ogni parola.
Occhi Bui prende un libro a sorte dall’ultimo ripiano dello scaffale, lo apre esattamente a metà e ci nasconde dentro il viso, poi si alza in piedi e si avvicina un poco ad Occhi Verdi.
Un anziano signore posa una mano sulla spalla di Occhi Verdi, lei alza il capo e sorride e poi fa leva sulle gambe e si rimette in piedi.
«Mi scusi, signorina, conosce un bel libro di poesie d’amore?»
«Ma certo! Venga con me.»
Occhi Verdi si intrufola tra libri silenziosi e pronti ad essere raccolti dai loro ripiani di polvere, con mani abili cerca tra titoli messi rigorosamente in ordine in base all’autore: L… no, non è qui… M… non ancora, non ancora… N, ecco, eccolo qui!
Porge un libro sottile all’anziano signore e lui la osserva con un sorriso gentile.
«Dia un’occhiata qui.»
«Molte grazie, vorrei trovare qualcosa da dedicare a mia moglie… a lei hanno mai dedicato una bella poesia?»
Occhi Verdi scuote il capo e no, non le hanno mai dedicato una bella poesia, Dio le ha dato solo madri piene di whisky e lacrime; case piene di candele; fratellini da crescere e da perdere; padri usciti di casa una mattina, mai più tornati e ritrovati troppo tardi; e un bambino da aspettare da sola.
Ma di poesie non le ne ha mai dedicate, di parole buone da mangiare Dio non le ne ha mai donate, ma sai che c’è? Che importa di lui e di ciò che non le ha dato? Ci penso io, ci penso io a Lei e le darò tutto, le griderò poesie d’amore e le scriverò io stesso se dovrò, masticherò le parole più belle per Lei e ne inventerò di nuove, di parole, ci saranno parole nuove che farò nascere solo per Lei e saranno solo Sue, parole private, parole fatte solo per le nostre labbra: le mie e le Sue; parole, parole, parole, parole nascoste sotto le rotaie e calpestate da metropolitane, parole salate come il mare e piccole come granelli di sabbia, parole come la pioggia che cadranno su Dublino, pioveranno parole su tutta Dublino e saranno le parole che io dedico a te, che farò nascere solo per te e che il resto del mondo non potrà pronunciare mai.
«Se non fossi che un povero vecchio gliene dedicherei una io stesso!»
Occhi Verdi sorride radiosa e abbandona una carezza delicata sulle mani dell’anziano signore.
«Grazie mille, signor Joyce.»
Il signor Joyce si allontana felice, con il suo libro sottile tra le mani vecchie e raggrinzite, ed Occhi Verdi torna a riordinare la sua pila di libri, non sembra fare caso ad Occhi Bui, nascosto sotto un cappuccio scuro e dietro pagine che non sta affatto leggendo.
Passi leggeri si avvicinano.
Tumtumtum.
Passi leggeri si avvicinano.
Tumtumtum.
Una bambina mingherlina compare alle spalle di Occhi Verdi, anche la bambina ha gli occhi verdi, e capelli castani che cadono come onde sulle sue spalle esili; stringe tra le braccia il peluche di una piccola alce con un maglione verde e tamburella con una manina sulle spalle di Occhi Verdi.
«Mamma.» dice con voce sommessa.
«Ehi, pulce, cosa c’è?»
«Orecchio.»
«Dimmi tutto.»  
Occhi Verdi tende l’orecchio alla bambina e l’ascolta con attenzione, annuisce, poi sorride e le dà un bacio sulle fronte e la piccolina corre da qualche parte felice.
As-pet-to un bam-bi-no.
È arrivata.
Aspettava una bambina, e non un bambino, ed è arrivata, è sgusciata fuori dal suo nascondiglio di carne ed ora eccola là: una bambina mingherlina con grandi occhi verdi ed una piccola alce di peluche tra le braccia.
Nascondiglio di carne.
La carne.
La carne, la carne, la carne, mentre guarda Occhi Verdi attraverso le pagine del libro pensa solo che vorrebbe la sua carne tra le dita, sotto il palmo delle mani e voglio che mi aspetti, che aspetti me come hai aspettato metropolitane e bambine che ti hanno rubato gli occhi; voglio caderti dentro, giù, giù nello stomaco e poi in fondo, nel tuo ventre caldo, voglio restarti bloccato tra le viscere e non lasciare mai più la tua carne che è fatta di pioggia sporca, di sangue, di parchi malridotti, vene, città buie, pelle e di me, anche di me: tu sei fatta anche di me.
Ed io non voglio mai più andarmene dalla tua carne, dall’Oltre della tua carne, voglio scorrerti tra le vene, voglio essere presente, visibile, concreto in ogni goccia di sangue; voglio far parte di te e di ogni tua minuscola cellula, essere appiattito dentro ad invisibili particelle di te e voglio che tu mi senta, che tu lo senta che io dentro te ci sto a meraviglia e che non me ne andrò, non andrò via perché son parte di te, perché se non potessi restare dentro la tua carne scivolerei giù, giù, giù e sempre più giù, fino ai bordi del mondo, dell’universo e di ogni pianeta esistente e tu mi verresti a riprendere?
Nessuno mi verrebbe a riprendere, nessuno mi donerebbe mani salde a cui aggrapparmi per portarmi in salvo, in salvo, io mi salvo da solo, mi salvo e dentro la tua carne sarò salvo, nascosto Oltre la tua carne sarò salvo e lì, lì nel tuo ventre caldo io coprirò il vuoto che ti ha lasciato una bambina ormai arrivata e da non aspettare più.
E allora aspetta me e nascondimi, ti prego, nascondimi dal mondo stretto e vasto che sta fuori dalla tua carne, nascondimi dallo stesso ruolo recitato ogni giorno e da tappeti rossi e lunghi da calpestare e nascondimi dalla perfetta perfezione che è così pesante, così pesante sulle mie spalle fragili!
Fragili per colpa tua e delle tue parole mai dette in faccia ma scritte al buio e abbandonate di fianco al mio corpo nudo; colpa della tua assenza presente, costante in ogni istante e colpa dei tuoi occhi verdi che sono rimasti incastrati nel mio non-Amore per te e battono, battono, battono dentro di me.
Occhi Verdi sembra aver finito di sistemare i libri, si rialza in piedi e si avvicina alla grossa scrivania rotonda al centro della biblioteca, è china e sta scrivendo qualcosa sopra un foglio di carta.
Lui prende un bel respiro, poi abbassa il cappuccio della felpa, chiude il libro mai letto e si avvicina piano, da dietro.
Ed è tutto così ordinario e piatto, e le parole gli mancano, e dirle ‘ciao, Prudence, sono tornato’ è così ordinario e piatto.
Ma noi due non siamo ordinari e piatti, noi siamo l’Oltre e facciamo dell’ordinario lo straordinario.
Prende un altro bel respiro e parole famose, parole conosciute ed imparate a memoria troppo tempo fa gli ritornano in mente, scivolano nella sua testa come a dire ‘se ti mancano le parole, usa noi, usa noi!’
E lui le usa, le ruba e le usa.
«T’amo senza sapere come né quando né da dove/ t’amo direttamente senza problemi né orgoglio/ così ti amo perché non so come amare altrimenti/ che così, in questo modo in cui non sono e non sei/ così vicino che la tua mano sul mio petto è mia/ così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno//»
Lei smette di scrivere e resta un attimo interdetta e chissà cosa sta pensando, chissà cosa succede dentro la sua carne, chissà se quella voce alla sue spalle se la ricorda ancora.
Occhi Verdi si volta lentamente e si copre la bocca con una mano.
«Così non potrai più dire che nessuno ti ha mai dedicato una poesia.»
«Benjamin… cosa… cosa ci fai qui?»
«Non lo so. Sono qui e basta.»
 
 
 
 
 

Buonsalve, ciurma!
I due sfigatozzissimi(?) se sò incontrati finalmente!
Non anticipo nada(anche perché non posso dal momento che sto ancora scrivendo/cambiando/distruggendo ogni riga che scrivo), comunque sapete già che in questa long non sarò cattiva ed acida come sono stata precedentemente!
E nulla, grazie, mille grazie a chi legge, anche chi lo fa in silenzio,
ora smammo,
hasta luego,
C.

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Capitolo 5
*** Parole armate ***


5. Parole armate

 




Non sa nemmeno bene perché, come e quando di preciso, ma ora lui e la ragazza con gli occhi verdi sono seduti ad un tavolo di un piccolo bar vicino alla biblioteca, e la luce scura del mattino illumina il viso di entrambi.
Lei si mangia le unghie e lui tamburella con le dita sulla superficie del tavolo.
Manca qualcosa, manca qualcosa a quel momento.
Le parole!
Mancano le parole!
Ma dove sono? Dove diavolo sono andate a finire?
Occhi Bui cerca, cerca a fondo dentro di sé ma quelle dannate, dannatissime parole devo essergli rimaste incastrate in gola e recuperarle sembra quasi impossibile.
Ed Occhi Verdi? Le parole di Occhi Verdi che fine avranno fatto? Sparite anche loro?
Ma da quando le parole possono sparire? E di cosa sono fatte, poi?
Occhi Bui ci pensa su… di cosa sono fatte le parole?
Non ho la più pallida idea di cosa siano fatte le parole, non so chi è stato a creare tutti quei suoni e queste lettere e a metterle insieme e a far nascere montagne di parole, mari di parole, continenti, città, case, un mondo intero pieno di parole, non lo so e credo mai lo scoprirò, ma so che ci sono.
So che le parole ci sono, sono qui, tra me e te, dentro me e te, in questo bar e fuori da questo bar.
Ci sono.
Dappertutto.
Ed io ora le mie non le trovo, non le trovo, ma lasciami cercare, dammi un po’ di tempo e ti riempirò di parole, delle mie parole, te le regalo se le vuoi e con le parole, grazie alle parole, sistemeremo tutto ciò che è successo.
Parola mia.
Occhi Verdi è nervosa e tesa, tesa come una corda di un violino, si guarda intorno agitata e sta attenta a non far incrociare i suoi grandi occhi verdi con gli occhi bui del ragazzo che le siede di fronte.
Dell’uomo che le siede di fronte.            
Perché è ciò che è diventato, perché non c’è più un ragazzo in cerca delle sua pace interiore davanti a lei, non c’è più un ragazzino con i jeans sgualciti e sogni troppo grandi in testa davanti a lei: c’è un uomo.
E non c’è ancora nessuna traccia delle parole.
Almeno non delle loro.
Perché in quel bar, di parole, nonostante sia solo prima mattina, ne scorrono a fiumi.
Caffè macchiato come al solito, signore?
Sì, grazie.
Hai sentito cosa dice il giornale di oggi?
Puah, il solito schifo, che vuoi che dica?!
Buongiorno, signorina, le offro la colazione?
Grazie, molto gentile!
Questa città sembra un labirinto e se non conosci le strade a memoria ti perdi dopo due minuti!
Sei tu che non sai cosa sia il senso dell’orientamento, Dublino non ha colpe!
Oggi che turno fai al lavoro?
Fino a stasera, non so se reggerò!
Parole, parole, parole, quante parole che gli scivolano in testa e vorrebbe cacciarle via, via che non mi servite a niente!
«Sei sicuro di non sapere perché sei qui?» Occhi Verdi deve averle trovate prima di lui.
«No.»
«No?»
«No. Cioè sì.»
«E perché?»
«Dovevo darti questo.»
Occhi Bui infila la mano nella tasca della felpa e tira fuori una bustina trasparente con dentro qualcosa di verde.
Allunga la bustina verso Occhi Verdi e Lei la prende in mano.
«Ma è… è un quadrifoglio!»
«Sì, è un quadrifoglio. L’ho raccolto quando sono andato ad Amsterdam.»
Lei lo guarda dritto negli occhi per la prima volta e gli sorride.
Gli sorride.
Ha sorriso e lo ha fatto solo per me, quel sorriso è solo per me e allora continua a sorridere, non smettere mai, e se non smetterai mai ti prometto che abbandonerò tra le tue mani tutti i quadrifogli del mondo.
«Tu… tu mi hai regalato un quadrifoglio di Amsterdam?»
«No. Cioè sì. Insomma… io sono andato ad Amsterdam e c’era questo prato assurdamente verde, più verde di quelli che ci sono qui, e pieno di fiori e mi ci sono sdraiato sopra e ti stavo pensando… Cioè, no, io non ti stavo pensando, sei tu che mi sei venuta in mente, e proprio in quell’istante ho visto questo quadrifoglio e allora io…»
Lei gli stringe la mano e gli sorride di nuovo.
«Grazie.»
«Di niente.»
La stretta sulla mano di Occhi Bui si allenta a poco a poco fino a che Occhi Verdi non allontana la mano dalla sua.
«Sei venuto fin qui solo per darmi un quadrifoglio?»
«No, veramente ci sarebbe anche questo…»
Occhi Bui si infila di nuovo la mano in tasca e porge un biglietto stropicciato ad Occhi Verdi.
Lei lo prende e lo avvicina agli occhi, perché le scritte sono un po’ sbiadite e fa fatica a capire cosa ci sia scritto sopra.
«Ma è un biglietto della metro di Dublino. Aspetta… ‘timbrato in data 16 Dicembre 2006’ ma è…»
«Il giorno in cui ci siamo conosciuti. Anzi, la notte in cui ci siamo conosciuti.»
Lei posa lo sguardo su di lui e quegli occhi, quei grandissimi occhi verdi lo fanno sentire piccolo e fragile e debole e non riesce a sopportarlo.
Non può.
Non vuole.
Non deve.
«Benjamin…»
«No, no, aspetta, fammi parlare… lo so che sembro patetico, probabilmente lo sono, ma la verità è che dovevo partire, mi stavo per trasferire a Los Angeles, per il mio lavoro, per… per me, anche per me. Mia madre mi ha praticamente urlato dietro dicendomi che dovevo sistemare casa, camera mia, il mio armadio, dare una ripulita insomma e stavo frugando nelle tasche dei vestiti vecchi e l’ho trovato. L’ho trovato. Sedici Dicembre Duemilasei. L’ho trovato! E ho fissato la data per… per ore! Era lì, quel biglietto bastardo era lì, e mi sono messo a ridere come un matto! Ho ripensato a quella sera, a come mi sentivo vuoto, inutile ed incapace e a te che facevi finta di leggere un libro e ad un tratto ti sei messa a parlarmi di attese, di ottimismo e di metropolitane guaste e… ma ci pensi? Un biglietto, un biglietto vecchio di otto anni!»
Non sa cosa sta dicendo né cosa vuole dire, non sa cosa sta succedendo, gli manca il fiato, niente più aria nei suoi polmoni e davanti ai suoi occhi bui solo una ragazza con uno sguardo indecifrabile ed un biglietto sbiadito tra le dita.
«Benjamin, ascoltami…»
«No, lo so già quello che vuoi dirmi, ma non è così! Prudence, non è così! Io ci ho provato, ci ho provato con tutto me stesso a non pensarti, non pensarci più, e a volte ci riuscivo o mi illudevo di riuscirci ma non va, così non va. Non funziona, non… non ci riesco, ci ho provato e non ci riesco e ti ho odiata, non sai quanto ti ho odiata per tutto quello che mi hai fatto, che mi hai detto, che mi hai scritto… non ci riesco!»
«Mi dispiace.»
«Ti dispiace? Dopo tutto questo, dopo ciò che ti ho detto, hai da offrirmi solo il tuo dispiacere appiccicoso? Non ne ho bisogno, Prudence, puoi tenertelo il tuo dispiacere, non sono qui per questo.»
«No, infatti, tu sei qui solo per ottenere qualcosa che non avrai mai!»
Le parole non si possono mangiare.
Non si possono respirare.
Non si possono abbracciare.
Non ci si può fare l’amore.
Ma le parole possono essere facilmente usate come armi, a volte sono anche più devastanti e sbattono dritto in faccia come uno schiaffo forte dato da mani che mai avresti immaginato.
Se qui solo per ottenere qualcosa che non avrai mai.
Mani invisibili si sollevano davanti a lui.
Qualcosa che non avrai mai.
Palmi inconsistenti si accostano alla sua guancia inconsapevole.
Mai.
Uno schiaffo preciso, veloce, efficace.
Parole armate.
«Benjamin, non puoi, non puoi tornare qui con un biglietto vecchio di otto anni e sperare che torni tutto magicamente come prima: non funziona così!»
«Oh, hai ragione, a te non piace il contatto fisico! Forse era meglio se ti lasciavo una lettera.»
Occhi Verdi si alza veloce in piedi e gli si avvicina, e sembra così ferita dal sarcasmo affilato di Occhi Bui che le taglia la pelle e le taglia le parole.
«Lo vedi! Dopo otto anni tu continui a rinfacciarmi quella stupida lettera! Se hai bisogno di questa soddisfazione per andartene allora te lo dirò: non volevo, sono stata una stupida e non vado fiera di ciò che ti ho fatto, non avrei dovuto nascondermi dietro un foglio di carta. Ma non pensare di non aver commesso anche tu degli sbagli!»
Anche Occhi Bui si alza in piedi e sono così vicini, così vicini e invece di sputarci addosso parole amare perché non mi baci subito, qui, ora?
«Infatti sono qui per rimediare a ciò che non ho fatto prima!»
«Tu ci hai già provato, tre anni fa, e pensavo che dopo quello che ti avevo detto, dopo aver saputo che aspettavo un bambino… pensavo non saresti più tornato.»
«Hai pensato male, allora.»
«Non vuoi proprio arrenderti?»
«No. Assolutamente no.»
Occhi Verdi china il capo e sospira, poi rimette il quadrifoglio e il biglietto tra le mani di Occhi Bui.
«Stai perdendo tempo.»
Lui avvicina le labbra all’orecchio di Occhi Verdi.
«Per te posso perdere tutto il tempo della mia vita.» le sussurra, prima di rimetterle in tasca sia biglietto che quadrifoglio e uscire dal bar.
Ha cominciato a piovere sopra Dublino.






Hola, chicas!
Lo so che avevo promesso un notevole abbassamento di acidità e cattiveria, ma abbiate fede, abbiate fede che gli sfigati verrano fuori da questa crisi e da questo circolo vizioso di sfortuna(sò sfigati mica a caso!)!
Daje!
Per il resto non posso anticipà nulla!
Grazie come sempre a tutti i lettori, silenziosi e non, ricordate che i send all my loving to you!(sì, sto ascoltando i Beatles a palla e mi sono già beccata le urla dei vicini ingrati!)
Buona serata,
C.







 

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Capitolo 6
*** Mai ***


6. Mai




Le parole della ragazza con gli occhi verdi risuonano nella testa distratta di Occhi Bui ed entrano appuntite, affilate nel suo stomaco.
C’è quel mai breve e veloce che sembra quasi un taglio netto, preciso, profondo, deciso nella sua carne bianca fragile, fragile, futile, esile, e ancora fragile e se sono così fragile perché sono ancora qui? Perché le Sue parole letali non mi hanno cancellato?
Maimaimai.
Lo ripete, lo ripete all’infinito nella sua testa.
Maimaimai.
E parole taglienti che si infilano tra pensieri morbidi e distruttibili, che si arrampicano alle pareti della sua mente con forza invincibile.
Maimaimai.
E carne che si lacera, tagli invisibili sulla sua pelle e sangue trasparente che scorre, scorre e scivola via, fuori da una carne inospitale.
Maimaimai.
E com'è che ti sei ferito?
Con le parole.
Maimaimai.
Da quando ha sentito quelle parole uscire dalle labbra perfettamente imperfette di Prudence sono già passati due giorni, e come avrà fatto il sole a continuare a sorgere e tramontare nonostante tutto davvero non se lo spiega.
Seduto su una panchina fredda e dura in una piccola piazza vuota, aspetta un suo amico, un amico fidato a cui non ha mai raccontato nulla della ragazza con gli occhi verdi.
A nessuno ha mai raccontato di Lei.
Non esiste, non esisti da quando sei scappata via e perché avrei dovuto sprecare parole per te? Perché avrei dovuto dire qualcosa di te che non esisti, che non vuoi esistere dentro di me?
Maimaimai.
Di te non ho parlato mai, a nessuno mai.
Solo a me.
Mi sono raccontato la tua storia e la mia storia un sacco di volte, mentre fissavo un soffitto alto e non riuscivo a dormire e allora pensavo alla pioggia che amo e che odio e a te che amo e che odio, e sul soffitto alto vedevo comparire labbra carnose e screpolate, e poi occhi verdi e grandi dietro il vetro della finestra chiusa, capelli umidi sulle lenzuola bianche e pezzetti di te dovunque, dovunque, sparsi attorno a me, dentro e fuori da me.
Maimaimai.
E finirà così?
E devo arrendermi qui?
Maimaimai.
E se mollo ora cosa rimane?
Di me e te cosa mi rimane?
Maimaimai.
Lettere stropicciate e piegate nelle tasche dei jeans; occhi verdi che non vogliono andarsene affanculo via, via dalla mia testa; parole taglienti e velenose che squarciano la mia carne debole, la mia carne che è sporca, sporca di te, macchiata della tua essenza sottile e poi dentro le mie orecchie tante stronzate che mi hai detto e a cui ho creduto e non ci sei, e te ne vai, e dove vai?
E come t’è venuto in mente di fare ciò che hai fatto? E poi di chiedermi di perdonarti?
Non ti capisco e non ti perdono, e non perché non hai rispettato me ma perché non hai rispettato noi, noi e ciò che c’era tra noi, tu ci hai voltato le spalle e sei scappata via, ma il percorso è troppo lungo e forse smetterò di correre.
Forse lo vorrei.
Vorrei fermarmi, farmi una doccia e lavarti via, perderti, scuoterti via dalla mia testa ma tu continui, continui a correre e io vorrei lasciarti andare, ma non ci riesco.
Non ci riesco e forse tu non lo meriti, no, perché ti sei dimenticata di me.
Perché hai saputo solo regalarmi parole appuntite che mi hanno rigato la pelle e se potessi ti farei leccare tutte le ferite invisibili che hai aperto.
Maimaimai.
Un colpetto sulla spalla lo fa sobbalzare.
Il suo amico è arrivato ed ha un sorriso allegro disegnato sulle labbra e due bottiglie di birra tra le mani.
«Ma guarda chi si rivede!»
«Ciao Robbie!»
Si siedono di nuovo sulla panchina e Robert gli tende una bottiglia.
Occhi Bui la stappa e manda subito giù un sorso che gli scivola gelido lungo la gola.
«Non ti sei più fatto vedere per un po’ da queste parti o sbaglio?»
«Non sbagli.»
«Non ti è ancora passato il vizio di bidonare, eh?»
Robert gli dà un pugno scherzoso sul braccio.
«Barnes l’asociale.»
«No, è ‘Barnes il solitario’.»
«’Solitario’ è il modo educato di dire ‘asociale’, dovresti saperlo, Ben!»
«Dio mio, quanto sei simpatico, Robbie! Muoio dal ridere!»
Robert sbuffa, poi manda giù un po’ di birra e si passa una mano tra i capelli ricci e spettinati.
«Sei così divertente perché Giovedì prossimo diventerai un trentatreenne? La vecchiaia ti rende irascibile?»
«Devo ridere per compatirti o posso astenermi ed ignorarti?»
«Guarda che puoi sempre mangiare per prima la glassa con cui scriveranno il numero dei tuoi anni sulla torta!»
«Robert…»
«E poi l’importante è restare giovani dentro, ecco, ad esempio: dentro al tuo cervello sei parecchio giovane… avrai non più di sei anni!»
«Hai finito?»
«Ora sì. Scusa ma non ho potuto resistere: non ti prendo in giro di persona da circa tre anni, come facevo a trattenermi?»
Robert gli dà una pacca sulla spalla e ride.
«Possiamo passare alla parte seria?»
«Perché tu hai anche un lato serio, Barnes? Sono sconvolto!»
«Robbie, ti ho chiamato perché avevo bisogno di un amico per parlare di una cosa… parecchio seria… per favore.»
L’amico riccioluto gli si avvicina.
«Che resti tra noi, Barnes: anche io ho un lato serio! Dai, spara.»
Occhi Bui prende un respiro profondo, butta giù un altro po’ di birra e gli racconta tutto, a partire da otto anni prima, da una notte di Dicembre in cui si sentiva un vuoto perfetto dentro una metropolitana che invece vuota non lo era per niente, ma che era piena, piena di ciò che lo ha riempito e poi svuotato.
Gli racconta di occhi verdi, di spiagge, di notti piovose e di hai già fatto tutto quello che volevi fare prima di morire? Gli racconta di metropolitane ed autobus con dentro canzoni francesi, e delle parole degli Oasis ascoltate con gli occhi chiusi.
Gli racconta di una ragazza che si chiama come una canzone dei Beatles e che gli è entrata in testa e sembra non volerlo lasciare più.
E gli racconta di bambine non sue che si sono nascoste dentro il ventre caldo di quella ragazza.
Non sa bene quanto tempo passi, quanti minuti si siano riempiti delle sue parole e di quella storia andata a male, ma quando sente che ha esaurito le parole smette di parlare ed il suo amico lo guarda quasi incredulo.
«Merda!» esclama e si porta subito le mani alla bocca.
«Sì, forse al momento è la parola che rappresenta meglio il mio stato d’animo. Merda.»
Robert si abbandona contro lo schienale della panchina e sospira.
«Ti ha preso, amico.»
«Che cosa?»
«L’amore.»
Lui si appoggia con i gomiti alle gambe.
«Cosa dovrei fare secondo te?»
«Secondo me dovresti dartela a gambe e non tornare mai più qui. Ma se dopo otto anni ti sogni ancora questa tizia e ti vengono gli occhi a cuoricino quando parli di lei, allora… insisti!»
«Devo insistere?»
«Certo che sì! Dai, muoviti: va’ da lei!»
Lui si alza in piedi con un’espressione felice e confusa allo stesso tempo.
«Dici sul serio?»
«Sei ancora qui? Muoviti! Ah, e comunque Giovedì notte al pub… nessuno dei tuoi bidonaggi all’inglese verrà accettato!»
Occhi Bui si volta e lo abbraccia.
«Grazie!» gli dice, prima di correre via.





Bonjour!
Allora, allora, volevo inserire Robert Sheehan da un bel po' e finalmente ce sò riuscita, e niente, ne sono assai contenta!
Per il resto non ho nulla da anticiparvi perché lo sapete che io scrivo e poi distruggo perciò magari vi dico una cosa e poi dopo ne faccio un'altra... meglio se non dico proprio nulla!
E allora nada, un grazie come sempre a tutti i lettori, silenziosi e non, e a presto!
C.


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Capitolo 7
*** Distratto ***


7. Distratto


«Ma perché sei così distratto?»
La voce cristallina di Franziska arriva precisa alle sue orecchie e spezza la lastra di pensieri sovrapposti che si rincorrono nella sua testa.
Occhi Bui alza lo sguardo dal piatto con ancora dentro una bistecca integra e ormai fredda e incontra un paio di occhi di ghiaccio che cercano risposte che non ha assolutamente voglia di dare.
«Non sono distratto.»
«Ti comporti così da sempre e a volte sembra quasi che tu sia… assente. Completamente assente.»
Lui scrolla le spalle e taglia un pezzo di bistecca, affonda il coltello nella carne con un gesto lento e meticoloso, poi afferra il pezzetto tagliato con la forchetta e se lo porta alla bocca.
«Puoi dirmi qual è il problema?»
«Nessun problema.» dice, mandando giù la carne con un sorso d’acqua.
«Davvero?»
«È tutto perfetto.» forse troppo perfetto. Dannatamente perfetto. Maledettamente perfetto. Schifosamente perfetto ed io odio tutto questo perfetto, perfetto, perfetto.
«Ben, spiegami perché stiamo insieme.» Franziska lascia cadere le posate nel suo piatto e si abbandona contro lo schienale della sedia, fissando Occhi Bui con un’espressione impaziente e tenendo le braccia conserte.
«Cosa vuoi che risponda?»
«’Per amore’, vorrei rispondessi così.»
«Va bene, allora: stiamo insieme per amore.»
«Stai mentendo.»
«Credi?»
Franziska appoggia le mani sul tavolo, ai lati del piatto, e si sporge in avanti tanto che Occhi Bui riesce a sentire il suo profumo forte e quasi vorrebbe allontanarsi.
«Questo non è amore.» gli dice, e la sua voce è così piatta che sembra una linea sottile e spessa e incancellabile.
«Perché secondo te cosa lo è? Qual è la definizione esatta di ‘amore’?»
«Come posso saperlo se tu non mi ami?»
«Vuoi sapere da me cos’è? Vuoi che ti dica cos’è? Bene: Amore è una merda, certamente la più bella merda del mondo, ma comunque una merda. E l’amore fa delirare la persone, fa scrivere stupide frasi in francese sui muri e fa spendere stipendi interi dal fioraio. Ma credimi, se ti capita di vederlo nei paraggi cambia strada, cambia immediatamente strada perché l’amore ti riempirà solo di stronzate e di domande esistenziali sul mondo, sull’acqua, la vita o chissà che altro ma poi alla fine ti dirà che è meglio se vai in Nuova Zelanda a fare il lavoro dei tuoi sogni e ti lascerà con solo una stupida lettera! E se per caso ti azzarderai a chiedere spiegazioni ti verrà detto che sprechi tempo per avere qualcosa che non otterrai mai!» sputa fuori le parole una ad una e poi riprende fiato, mentre Franziska lo guarda con un sorriso.
«Allora sei già innamorato?» gli chiede e lui alza lo sguardo e poi scuote la testa.
«No.» nonononono e vorrebbe che il suo no fosse tagliente come un mai.
«Ben...»
«Non mi va di parlare adesso.» e taglia la discussione e uccide parole che dovevano ancora essere pronunciate, ma non gli va di parlare, non vuole più nessuna parola ma solo un silenzio statico che gli piombi addosso, che gli entri in testa e tolga la voce anche ai suoi pensieri che strillano, strillano, e come strillano!
E lei lo guarda accigliata e sembra abbia capito tutto, sembra abbia sentito tutte le parole radicate nella sua testa o visto quei due occhi verdi e masticato quelle sillabe appuntite, as-pet-to un bam-bi-no maimaimai e labbra carnose come armi letali.
Franziska si alza in piedi ed indossa la sua giacca di jeans.
«Torno in hotel a domire un po’.» dice e lui annuisce senza nemmeno guardarla.
Franziska se ne va, lui finisce la sua carne e la sua acqua e poi si alza e paga il conto.
Grazie di aver pranzato da noi.
Grazie a lei.
Un sorriso.
Esce fuori.
Gira per Dublino illuminata da un sole debole, calpesta strade grigie, si siede su panchine fredde, cammina su ponti sospesi sopra fiumi scuri e pensa a cosa fare mentre metropolitane non troppo affollate lo portano da un punto all’altro della città.
Cosa fare? Cosa deve fare? Cosa può fare?
Smette di chiederselo quando i suoi piedi lo portano davanti ad una biblioteca.
Occhi chiusi.
Un respiro profondo.
Occhi aperti.
Spinge la porta e si fa avanti.
Ci sono poche persone che leggono libri di sfuggita o scrutano attenti tra gli scaffali, alla grande scrivania circolare posta al centro della stanza, siede una donna che ha capelli neri e dritti ed un paio di occhiali quadrati poggiato sul naso un po’ pronunciato.
Si avvicina alla donna e si schiarisce la voce, lei alza il capo e gli rivolge un sorriso cordiale.
«Ha bisogno di qualcosa?»
«Sì, di Prudence.»
La donna curva le sopracciglia e si sistema gli occhiali scivolati troppo in giù.
«Prudence?»
«Sì, ha presente? Capelli lunghi, labbra carnose, occhi verdi…»
«Sì, sì, certo che ho presente… venga.» si alza e gli fa cenno di seguirlo, attraversano una sala piena di libri e salgono una rampa di scale che scricchiolano ad ogni passo.
«Dovresti trovarla qui.»
«Grazie.» le dice prima che se ne vada.
La ragazza con gli occhi verdi sta sistemando altri libri, la luce fioca che entra dalla finestra aperta basta ad illuminare la sua pelle bianca, bianchissima che vorrebbe così tanto accarezzare.
Si avvicina deciso e spera soltanto che nessun’altra parola gli tagli la carne.
«Salve!»
Lei sobbalza spaventata e appena lo vede sbuffa.
«Non credi di stare un po’ esagerando, Benjamin?»
«Non è colpa mia.»
«Ah no?» dice, senza guardarlo, ma continuando a mettere i libri al loro posto.
«No, è il mio inconscio. Sono inconsciamente innamorato di te.»
Occhi Verdi cerca di trattenere un sorriso che riesce comunque ad affiorare, appena accennato, sulle sua labbra.
«Allora di’ al tuo inconscio di smetterla.»
«Perché non gli scrivi una lettera?»
«Perché ho cose più importanti da fare.»
«Tipo?»
«Tipo lavorare.»
«Posso fare qualcosa per aiutarti?»
«Andartene.»
«Non posso.»
«Perché?»
«Te l’ho detto: l’inconscio.»
Occhi Verdi scuote la testa e si avvicina con altri libri ad un altro scaffale, lui la segue rapido.
Lei sta per mettere un libro al suo posto, ma lui glielo toglie di mano e lo apre.
«Benjamin, davvero, ridammelo.»
«Aspetta, aspetta, vediamo un po’ che cosa ci dice…» legge la copertina per capire chi lo abbia scritto «che cosa ci dice Ortega y Gasset… dunque… “tutto ciò che amo perde metà del suo piacere se tu non sei là a dividerlo con me”.»
«Ben…»
«Poi qui dice…» Occhi Verdi gli chiude il libro con forza e fa per riprenderselo, ma lui lo butta per terra e la afferra per i polsi.
Lei china il capo ed Occhi Bui le bacia la fronte e le stringe i polsi sempre di più, sempre di più, fa risalire la mani sulle sue braccia, sopra le spalle, dietro, dietro la schiena, contro le scapole, la spinge verso di lui, la stringe in un abbraccio a metà e pensa che avrebbe dovuto farlo anche otto anni prima, pensa che non avrebbe dovuto lasciarla scivolare via così facilmente, ma non si può cancellare il passato, non possiamo tornare indietro ma adesso tu sei qui ed io sono qui, e la mia pelle e la tua pelle e le mie mani sulla tua carne ti terrò stretta, stretta e non proverai nemmeno a pensare di potertene andare, stretta sempre più stretta, e basta con le parole, non ne abbiamo neanche più di parole ma ci resta la pelle e solo la pelle e se potessi mi raggomitolerei sulla tua pelle, sarei un puntino invisibile sulla tua pelle e resterei trasparente e concreto su di te.
Passi scricchiolano sulle scale, Occhi Verdi si allontana bruscamente e si sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Mamma!» una voce argentina si avvicina, lui volta il capo e vede una bambina mingherlina che corre sulle scale tenendo stretta contro il petto una piccola alce di peluche.
Occhi Verdi sorride radiosa e le tende le braccia.
La bambina velocizza il passo ma inciampa sugli ultimi tre scalini, lui li scende celere e la afferra prima che perda l’equilibrio e cada.
Occhi Verdi si avvicina e prende la bambina in braccio.
«Ti sei fatta male, pulce?» e le dà un bacio sul naso.
La bambina scuote la testa e i suoi capelli ondeggiano.
«Come si dice?» le chiede ed indica Occhi Bui.
«Grazie.» farfuglia, mangiandosi qualche lettera.
Lui sorride e le fa l’occhiolino.
«Di niente! Come ti chiami?»
La bambina guarda la mamma con un’espressione confusa ed Occhi Verdi le fa un sorriso di incoraggiamento.
«Dai, diglielo.»
«Le.i.la.» scandisce per bene.
«Leila?» Occhi Verdi annuisce.
«Molto piacere Leila, io sono Benjamin ma puoi chiamarmi Ben.»
Le tende la mano e Leila gli stringe l’indice e ridacchia.




Bonsoir!
Daje che alla fine ce l'ho fatta ad aggiornare!
Dunque, non posso anticiparvi nulla comunque nel prossimo capitolo i due sfigatoni dovrebbero parlare per bene bene bene!
E nulla, ringrazio come sempre tutti i lettori, silenziosi e non, e smammo!
C.

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Capitolo 8
*** Aspettare ***


8. Aspettare



«La vuoi fare una pazzia?»
Su Dublino è calato un buio un po’ sbiadito, lui e Occhi Verdi sono quasi arrivati in stazione, lei ha appena finito di lavorare e tiene stretta tra le braccia sua figlia.
Quell’immagine gli stringe lo stomaco in una morsa dolorosa.
Non è mia figlia.
Braccia piccole ed esili attorno ad un collo bianco e profumato, non è mia figlia, un viso di bambina posato sulla spalla di una madre, non è mia figlia, occhi verdi che sono stati rubati e ora restano chiusi dal sonno, non è mia figlia, braccia abbastanza forti da sostenere il peso di chi ha messo piede da poco sopra ad un mondo imperfetto, non è mia figlia. Non è la mia famiglia.
Non è.
Non è.
Tu non sei.
Ma vorrei che tu fossi.
Che tu fossi un piccolo pezzo di me, della mia carne, del mio sangue.
Tu non sei.
Ma vorrei che tu fossi.
Che tu fossi qui anche grazie a me e al mio amore ammaccato per tua madre.
Tu non sei.
Ma vorrei che tu fossi.
Che tu fossi addormentata anche tra le mie braccia, il tuo capo sulla mia spalla, non ti lascerò cadere, non cadrai, te lo prometto.
Voi non siete.
Ma vorrei che voi foste.
Che voi foste la mia famiglia e casa mia.
Ma lei non è.
Loro non sono.
E quell’abbraccio madre-figlia è ciò che non ha avuto ma che avrebbe voluto avere, ed è davvero troppo tardi per ottenerlo? Sono così in ritardo, Prudence? Non puoi aspettare anche me, come se fossi un bambino? Fingi che lo sia, aspettami, ti prego!
«Che tipo di pazzia?»
«Se accetti, lo scoprirai da sola.»
«Benjamin, ascolta…»
Lui si ferma e le si para davanti.
«Fidati di me, Prudence, fidati di me.»
Lei lo guarda, come lo guarda? Non riesce a capirlo, poi la vede annuire e abbandonare un bacio tra i capelli della sua bambina.
«D’accordo, solo… torniamo presto, va bene?»
«Certo, torniamo presto.»
Riprendono a camminare, e strade grigie che scorrono sotto i loro piedi, un buio pallido calato sulle loro teste come un cappuccio scomodo, e gente che cammina destra-sinistra-avanti-indietro, continuano a camminare, Leila continua a dormire, Prudence continua a sorreggerla, lui continua a sentire rabbia e rimpianto, li cova sotto la pelle, sotto la pelle, là dove si nasconde anche il tempo perduto, dove restano ammassati otto anni uno sopra all’altro e dove parole e sillabe si accavallano e feriscono, e c’è un devo andare via schiacciato da un mi dispiace che resta sdraiato sotto un mai che tiene sopra di lui un aspetto un bambino, e lettere che si confondo, sillabe che si intrecciano e quell'abbraccio madre-figlia che sembra strillare: siamo ciò che non hai avuto!
Smettono di camminare e salgono sopra un autobus giallo con dentro nessuna canzone francese, nessun ‘non ti amo più tutti i giorni’ e solo un silenzio che non può essere e non vuole essere riempito, silenzio fatto di finestrini pieni di immagini di verde, e di un sedile con sopra una madre che bacia piano la fronte di sua figlia e le sussurra qualcosa a voce troppo bassa per poter essere compresa.
Le guarda, le fissa attentamente per tutto il tragitto e si ricorda di un parco, di una ragazza con gli occhi verdi, di un bacio, di una mano su una pancia e di un ‘aspetto un bambino. Avrei voluto dirtelo prima. Undici settimane.’ ed è stato allora che ha capito che le parole fanno male.
As-pet-to un bam-bi-no.
Aspettare.
Qualcuno quella parola deve averla tirata fuori dal latino, deve averla rubata al latino, ed in latino deve aver avuto quel suono solenne che solo le parole latine hanno.
Aspectare, a-s-p-e-c-t-a-r-e, che suono duro che hai, parola latina! E di chi sei figlia?
Di un’altra parola che ha un suono più dolce: aspicere, a-s-p-i-c-e-r-e, molto più dolce, la voce della sua mente scivola su quella parola così vecchia.
Aspicere. Guardare.
Aspicio: io guardo.
Io guardo.
Aspectare.
Aspettare.
Ti aspetto paziente senza muovermi, ti aspetto guardandoti finché non arriverai.
Aspecto. Aspicio. Io guardo.
La guarda, le guarda e le parole si ripetono nella sua testa.
Aspecto. Aspicio. Io guardo.
L’autobus si ferma, scendono con calma, passi prima tu? Io?
Un volta in strada Prudence si gira a guardarlo e sorride.
«Portrane?» gli chiede. Domanda retorica.
«Non ci vengo da otto anni.»
«Nemmeno io.»
Si scambiano un altro sorriso che vorrebbe dire qualcosa ma che resta zitto, allungato sulle loro labbra senza lasciar uscire alcuna parola.
Arrivano fino alla loro spiaggia fatta di erba e di sabbia e di mare troppo freddo per tuffarcisi dentro, lui si siede vicino alla riva e la invita con la mano a sederglisi accanto.
Leila si è svegliata.
«Ciao, pulce!»
La bambina si strofina gli occhi, ancora un po’ assonnata, poi si guarda intorno e resta quasi a bocca aperta.
«Posso raccogliere conchiglie?» chiede.
«Non credo ci siano…»
«Per favore!»
Prudence le sorride e scioglie l’abbraccio.
«Però qui davanti a me.»
Leila annuisce e comincia a scavare oltre la sabbia, con la testa china e gli occhi verdi attenti anche al più piccolo granello scivolato tra le sue piccole dita.
«Mi è mancato questo posto.» dice lui, per spezzare l’ennesimo silenzio caduto tra di loro.
«Davvero?»
«Mi sono mancate un sacco di cose.»
La semplicità, ad esempio.
La semplicità mi è mancata più di qualsiasi altra cosa mi sia mai mancata in tutta la vita, la semplicità dentro ai nostri jeans sgualciti, dentro a questo vento gentile e a volte anche crudele; semplicità dentro l’acqua fredda qui davanti ai miei occhi e quella volta che mi ci sono immerso fino alle ginocchia e mi si è quasi bloccata la circolazione; la semplicità dentro alle mie cuffie condivise con te che cantavano le parole degli Oasis e tu sei la mia ancora di salvezza e davvero ci sono molte cose che vorrei dirti ma non so come fare; la semplicità dentro la non-paura di essere bagnati dalla pioggia fredda e della sabbia che si appiccica addosso; la semplicità del mio e del tuo sorriso per cose da poco; la semplicità del ci-siamo-noi-due-e-solo-noi-due.
Ho perso tutto quando sei andata via ma ho continuato ad aspettare.
Aspecto. Aspicio. Io guardo.
«Ad esempio cosa ti è mancato?» gli chiede lei, che non stacca gli occhi verdi dalla bambina che cerca conchiglie a poca distanza.
«Tu. Noi.»
«Anche a me sei mancato.»
«Davvero?» le chiede e le si avvicina.
«Certo! Pensavi il contrario? Guarda che ti amavo anch’io.»
«Amavi? Ora hai smesso?»
«Ora non si può.»
«E chi l’ha detto?»
«Il corso delle cose.»
«E chi sarebbe, scusa? Qualcuno di importante?»
«Abbastanza importante.»
«Abbastanza è una parola che non vuol dire nulla.»
Lei volta il capo verso di lui e sospira.
«Benjamin…»
Non le lascia concludere la frase, parole che restano in sospeso, mai pronunciate, bloccate da labbra che premono le une contro le altre, non dire niente che non servono parole, basta con le parole, lascia che resti solo un silenzio riempito da me e te e le mie labbra e le tue labbra, le preme le mani contro la schiena, non andartene, lei non se ne va, non interrompe il bacio che continua, che cresce e si allontanano solo quando non resta più fiato.
 
 
 
 
 
 

Bonsoir!
Sì, lo so che sono in vergognoso ritardo ma tra studio, tempo che non c'è e blocco dello scrittore, per scrivere questo capitolo ci è voluto molto più di quanto immaginassi!
Ma finalmente è partito un bello sbaciucchiamento perciò direi che le cose stanno migliorando per gli sfigati... forse...
Non posso anticipare nulla causa capitoli ancora in corso, ma ringrazio di cuore tutti i lettori, silenziosi e non!
C.

P.S: Credo di essermi innamorata di quella foto di Astrid, cioè... è illegale!


 



 
 
 
 
 

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Capitolo 9
*** Verità nascoste ***


9. Verità nascoste
 



«Io abito qui.»
Su Dublino ha cominciato a piovere copiosamente.
La ragazza con gli occhi verdi tiene stretta la figlia sotto la giacca, tentando di ripararla dalla pioggia.
Tira fuori dalla tasca dei jeans un mazzo di chiavi che utilizza per aprire un cancelletto verniciato di scuro, fa cenno ad Occhi Bui di seguirla e si ritrovano a correre attraverso un giardino con prati incredibilmente verdi ed una strada grigia, raggiungono un portone ed entrano in un condominio che ha muri bianchi e ruvidi.
Salgono le scale e si fermano al primo piano, Occhi Verdi apre la porta di un appartamento piccolo e caldo che odora di biscotti.
«Togliti pure la giacca, puoi appenderla là.» gli dice, indicandogli l’attaccapanni appeso dietro la porta.
Anche Lei si toglie la giacca, e posa a terra la figlia che ha i capelli più arricciati del solito, le guance arrossate e guarda assorta le piccole conchiglie che è riuscita a raccogliere sulla spiaggia di Portrane e che ora tiene tra le mani piccole.
«Le faccio un bagnetto veloce e la metto a letto, tu puoi sederti sul divano o… fare quello… quello che vuoi.» Occhi Bui annuisce e la osserva attentamente mentre prende per mano la suo piccolina e scompare lungo il corridoio.
Lui si guarda intorno smarrito e poi si siede su un divano rossiccio, in un piccolo salotto pieno di foto.
Si avvicina al tavolino accanto al bracciolo del divano, e studia attento le tre fotografie ritte in piedi dentro le loro cornici argentate.
La foto che sta nel mezzo ritrae un neonato con due grandi occhi aperti e curiosi.
Leila, pensa.
Dentro la fotografia di destra ci sono Prudence e sua figlia che fanno la linguaccia, gli scappa un sorriso e scuote la testa divertito.
Nell’ultima foto, quella a sinistra, c’è un bambino biondo con due grandi occhi blu che sta ridendo in modo incontenibile e sembra felicissimo.
È Jude. Lo ha riconosciuto. Non se lo è mai dimenticato.
Un stretta inaspettata gli stringe lo stomaco.
Vorrebbe vederlo, parlargli, chiedergli come sta, se anche lui si ricorda di otto anni fa e se gli piacciono ancora i Rolling Stones; vorrebbe riavvolgere il tempo e impedire a quel legame di rompersi di nuovo, salvare il filo sottile che li lega e non ti preoccupare Jude, non romperemo mai questo filo e, se vorrai, andremo ad ascoltare i Rolling Stones che suoneranno solo e soltanto per noi.
La finestra del salotto è aperta e ad un tratto Occhi Bui sente una canzone lontana intrufolarsi in casa di Prudence.
I Beatles scivolano indisturbati in quella stanza, sente le dita di George Harrison accarezzare la sua chitarra, le bacchette di Ringo Starr battere il tempo della canzone e le voci di Paul McCartney e John Lennon che si intrecciano.
Roll over Beethoven! Roll over Beethoven!
Se solo lui potesse essere così chiaro, incisivo, forte e intenso come uno di quei quattro!
Vorrebbe poter mettere insieme tutte le loro parole più belle e cantarle a Prudence.
Cara Prudence,
prendi queste ali spezzate ed impara a volare.
Cara Prudence,
non essere pessimista! Prendi una canzone triste e rendila migliore, ricorda di lasciarla entrare nel tuo cuore, e dopo potrai iniziare a renderla migliore.
Cara Prudence,
ieri i miei problemi sembravano così lontani!
Cara Prudence,
chiudi gli occhi e ti bacerò, domani sentirò la tua mancanza, ricorda che sarò sempre sincero. E mentre sarò via, scriverò a casa ogni giorno e ti manderò tutto il mio amore.
Cara Prudence,
non mi interessa molto dei soldi, i soldi non possono comprare il mio amore!
Cara Prudence,
non ho bisogno di nessun’altra amante.
Cara Prudence,
tutto ciò di cui hai bisogno è amore.
Cara Prudence,
lascia che sia.
Cara Prudence,
ti prego dimmi che lascerai che io sia il tuo uomo, e ti prego dimmi che lascerai che io stringa la tua mano.
Cara Prudence,
il sole splende, il cielo è blu, è bellissimo e lo sei anche tu.

Cara Prudence,
Cara Prudence,
Cara Prudence.
E potrebbe continuare, andare avanti e sempre più avanti, ma Occhi Verdi compare all'improvviso e lo distrae da qualunque altro pensiero.
Ha i capelli gocciolanti ed indossa una canotta quasi completamente bagnata.
«A Leila piace schizzare l’acqua.. scusa.» gli dice, stringendo la canotta tra le dita.
«Figurati.»
Lei sorride, gli si avvicina e gli siede accanto.
«Aspetti qui finché non smette di piovere?» lui annuisce, e intanto la stretta allo stomaco continua a fargli male, sempre più male.
Non sa che fare né cosa dire.
Non gli bastano le parole dei Beatles, vorrebbe usarne di sue, dirle qualcosa, qualsiasi cosa e poter essere compreso, capito fino in fondo.
Vorrebbe poter dar vita a parole animate, parole come messaggeri alati dei suoi sentimenti più segreti ma niente, solo un ammasso di lettere nude sulla sua lingua impotente.
Vorrei tu potessi leggere nella mia mente, cara Prudence, così sapresti quanto mi stai dentro, giù, in fondo, oltre la carne ed io non so come dirtelo, non so come riuscire a farti comprendere che io sono soltanto se anche tu sei, ma mi hai respinto tante volte e mi hai raccontato verità a metà e forse è stata colpa mia, forse non sono riuscito a dirti quanto avrei voluto dirti.
E tu? Tu cosa mi hai detto?
Domande intrecciate, ammassate vorticano confuse nella sua testa, punti di domanda che premono per avere risposte.
Chi sei stata in questi otto anni? Ed ora sei diversa? E ci hai pensato a noi due, anche solo per caso, per sbaglio? E hai perso per sempre tuo fratello? E dov’è tuo padre? E il padre di Leila?
La ragazza con gli occhi verdi si stringe le ginocchia al petto e trema, deve avere freddo.
Lui si fa più vicino, le circonda le spalle con un braccio ed Occhi Verdi non lo respinge, ma poggia la guancia sul suo petto e si lascia stringere dal ragazzo-uomo che le siede accanto.
E allora lui sorride e chi se ne frega di tutte le parole, le domande, le risposte ed il resto che c’è da dire, chiudiamoci la bocca per una buona volta e parliamoci con la pelle e con le mani e con questi occhi, i miei occhi e i tuoi occhi e lascia pure che il silenzio ci avvolga!
Senti che bel suono ha, questo silenzio.
Lascialo parlare, lascialo intromettersi in questo mondo fatto sempre e solo di parole sbagliate e parole, parole, parole, ma le parole rovinano sempre tutto mentre il silenzio è così innocuo, calmo, piatto.
Silenzio spalmato sulla nostre labbra ed il resto del corpo che può parlare, sa parlare, lascialo parlare.
E con le dita intrecciate alle tue saprò dirti quanto ti ho amata, e con la guancia poggiata sul tuo capo ti farò capire quanto ti ho pensata, e con le braccia strette attorno a te saprai quanto mi sei mancata.
I suoi occhi cadono di nuovo sulla fotografia del bambino con gli occhi blu, e vorrebbe soffocare le domande ma non ci riesce, non può, non può lasciare appese ad un filo verità che vuole assolutamente conoscere.
«Quella foto di Jude è bellissima.» le dice, senza particolare inclinazione nella voce.
«Già.»
«Quanti anni aveva?»
«Sei. Lui… lui aveva sei anni quando è stata scattata.»
«Sembra piuttosto divertito.»
«Sì, mi ricordo che non voleva essere fotografato e continuava a tenere il broncio, allora, per farlo ridere, ho cominciato a fare le boccacce e non è più riuscito a trattenersi.»
Affiora un sorriso sulle labbra delle ragazza che stringe tra le braccia, ma ad un tratto il sorriso scompare e lei si copre il viso con una mano, tenta di nascondere lacrime che vengono ricacciate dentro brutalmente.
«Scusa.» gli dice.
 Lui rafforza la stretta e le scosta piano la mano dal viso.
«Perché non me lo racconti?»
«Cosa?»
«Tutto. Tutto, Prue, dall’inizio fino ad ora, tutto quello che è successo.»
«Perché sei così ostinato? Perché ti interessa tanto?»
«Perché ti amo.»
Le parole scivolano fuori dalle sue labbra, si muovono sole e silenziose e gli lasciano un sapore strano in bocca.
Mastica le sillabe di ciò che ha appena detto.
Perché ti amo.
Ti-a-mo.
Amo te.
Che verbo strano, che parole ridicole, le aveva pronunciate per finta qualche centinaia di volte, mentre vestiva i panni di qualcuno che non era lui.
Ma adesso è diverso, adesso non ci sono copioni da seguire o platee da impressionare, ci sono solo lui e Lei e un ti-amo-amo-te che ha un sapore mai assaggiato, che ha un suono diverso da qualunque altra parola lui abbia mai pronunciato prima in vita sua.
Vorrebbe ripeterlo.
Ti-amo-amo-te.
Un’altra volta.
Ti-amo-amo-te.
E poi ancora, ancora, ancora, riempire di ti-amo-amo-te gli otto anni che gli pesano sulle spalle, vorrebbe dire ti-amo-amo-te per altri otto anni e recuperare i giorni perduti e irrecuperabili di un passato troppo orgoglioso per essere salvato.
Ti-amo-amo-te.
Ed è la verità, e forse l’amore non esiste ma in questo mondo vogliono farci credere che sia così, e allora illudiamoci, e allora diciamocelo.
Ti-amo-amo-te
E se l’amore non esiste, lo inventeremo noi due.
Occhi Verdi alza il capo e lo guarda, sguardo indecifrabile di chi resta in silenzio anche se ha un fiume di parole da far straripare.
Ma Lei lo osserva silenziosa, sorride mentre intreccia le dita tra i suoi capelli, mentre segue con l’indice il profilo di quel viso di ragazzo diventato uomo, e quanto è cambiato!
E quanto è rimasto uguale!
Che cambiamento invisibile-evidente che c’è su quel viso!
«È una storia noiosa, la mia.»
«Raccontamela lo stesso.»
«Sei tornato per questo? Per le spiegazioni?»
«Esatto: spiegami tutto di te, aiutami a capire.»
«Magari non mi importa di essere capita da te.»
«Magari ti ho già capita e cerco solo una conferma.»
«Magari ti sopravvaluti.»
«Quanti ‘magari’. Che gran bella parola! Magari ritorneremo indietro nel tempo, magari salveremo questi otto anni, magari mi dirai la verità, magari mi ami, magari no.»
Lei sorride e abbassa lo sguardo sulle mani di Occhi Bui.
«È una storia lunga.»
«Non mi sta aspettando nessuno.»
Occhi Verdi annuisce, poi prende un bel respiro e comincia a raccontare.
Comincia a raccontare la storia di una donna che amava fotografare ogni più piccolo centimetro del mondo e che un giorno scivolò irrimediabilmente dentro a due occhi blu che la fecero affogare; racconta di una bambina che chiudeva fuori dalla porta di camera sua urla così forti da sovrastare anche i suoi pensieri e il rumore di oggetti fragili frantumati contro il pavimento, e anche quella bambina si sentiva spaccata in mille pezzetti sopra un pavimento troppo freddo ed era così piccola e troppo impaurita per intervenire, per salvare qualche piatto, per rimettere insieme i cocci di ciò che si era rotto irreparabilmente; racconta di una mattina grigia e fredda in cui la bambina ha sentito una porta chiudersi per sempre ed un padre correre via senza nemmeno voltarsi e quanto avrebbe voluto rincorrerlo, afferrarlo per un braccio, fermo! Per favore, non lasciarci così! Ma si ricordò delle urla e dei cocci sopra il pavimento che ancora le tagliavano la pelle e pensò che forse era meglio lasciare che quel padre continuasse a correre lontano; e poi racconta di un fretellino con gli stessi occhi blu del non-padre, una creaturina così fragile, appena arrivato da chissà dove e già con una madre piena di alcol, lacrime e amori malsani ed un padre neanche mai visto.
Lei avrebbe voluto scusarsi con lui. Scusami, piccolino, se il mondo non è un gran bel posto, ma che ci posso fare? Ho chiesto tante volte a Dio di renderlo migliore, ma è troppo occupato a costruire nuvole per ascoltarmi.
 
La voce si interrompe, riprende fiato, manda giù qualche lacrima da non far scappar via, e ricomincia a raccontare.
 
E c’era una volta un piccolo appartamento a cui mancava spesso la luce, e la bambina – che ormai era diventata una ragazza – doveva darsi da fare perché aveva un fratellino a cui dar da mangiare, e allora scivolava tra le strade grigio-verdi di Dublino e cambiava lavoro quasi ogni due giorni e, se le avanzava un po’ di tempo, prendeva in mano una rubrica mai usata e ci scriveva sopra tutte le parole che le passavano per la testa. Oggi voglio scrivere tra le pagine di una C, che lettera buffa, un sorriso al contrario! E giù parole e parole che cadevano sulla pagina bianca.
Poi un giorno trovò una lettera dentro alla posta, aveva un aspetto così solenne, era piegata in modo meticoloso dentro ad una busta perfettamente sigillata, la scartò curiosa, la tirò fuori, la lesse seduta sulla scale del suo condominio.
Che presto non sarebbe stato più il suo condominio.
Doveva andarsene.
O almeno, così diceva la lettera.
Se solo avesse avuto abbastanza soldi avrebbe potuto distruggerla, quella lettera.
Ma soldi non ce n’erano più.
E c’era una volta un piccolo appartamento a cui mancavano le persone, perché chi c’era prima fu costretto ad andarsene.
La ragazza avrebbe tanto voluto proteggere il suo fratellino, ma il mondo non è un gran bel posto e Dio non ascoltò mai le sue richieste d’aiuto.
Una mattina suonò al campanello di una villa elegante e con un giardino curato e rivide il non-padre, che quasi non riuscì a riconoscerla.
Ci conosciamo? le chiese e lei avrebbe voluto ridergli in faccia, avrebbe voluto lanciargli contro tutti i cocci caduti sul pavimento freddo, questi li riconosci, non-padre?  Li hai spaccati tu e hai spaccato anche me, e avrebbe voluto piangere ma pensò no, non te la meriti questa soddisfazione, caro non-padre.
Caro non-padre che urlava ogni giorno, caro non-padre che frantumava cose fragili, caro non-padre che sei andato via, caro non-padre che ‘caro’ non sei stato mai.
E affidò al non-padre il fratellino, perché lei non aveva più tempo per recuperare rapporti interrotti e quasi mai iniziati, ma lui sì, era così piccolo e aveva così tanto tempo per dimenticarsi di lei ed imparare a conoscere un padre fino ad allora mai esistito.
Lo affidò al non-padre perché era la cosa migliore, la cosa giusta, giusta, giusta, continuò a ripetersi quella parola senza fermarsi, giusta, e il fratellino le diceva ‘aspettami’, giusta, e il fratellino scomparì tra i corridoi di quella villa così ricca, giusta, e non lo aspettò ma corse via.
E non lo rivede più.
Mai più.
La ragazza cominciò a servire ai tavoli di un bar, lavorava a lungo, fino a notte fonda e le piaceva osservare i clienti ed ascoltarli parlare, guardarli vivere la loro vita e quanto avrebbe voluto sentirsi leggera come loro, quanto avrebbe voluto potersi sedere ad un tavolino a parlar del nulla con persone vuote, quanto avrebbe voluto non conoscere fino in fondo il mondo ma solo la parte più superficiale.
Ma il mondo non è un gran bel posto, e lei lo sapeva bene.
Un giorno una band si esibì nel bar, il bassista si chiamava Maxwell e sognava di diventare il nuovo Sid Vicious.
Le si avvicinò dopo la chiusura del locale e la accompagnò a casa, ma si fermò prima di oltrepassare il portone.
Il giorno dopo si fermò prima di salire le scale.
Quello dopo ancora si fermò prima di varcare la soglia del suo appartamento.
Il seguente non si fermò più, oltrepassò portoni, salì scale e varcò soglie che forse non avrebbe mai dovuto varcare.
Poco tempo dopo volò in America con il suo basso.
La ragazza restò incinta.
Non lo disse a nessuno, nemmeno alla madre partita per chissà dove.
Rimase un segreto, spesso persino lei, la quasi-madre, fingeva di non saper nulla di ciò che le stava accadendo.
Ma quando ritornava a casa, la notte, ed era consapevole di essere terribilmente sola, posava le mani sul ventre ancora piatto ed osservava Dublino dalla finestra.
E nel frattempo cresceva l’esserino nascosto, e cresceva l’impazienza di conoscerlo e lei provò a riempire quell’attesa lenta e silenziosa con le parole.
Raccontava a chi le stava dentro tutto ciò che sapeva sul mondo e si sentiva così viva e piena, con quella presenza invisibile al suo interno sentiva di poter fare qualunque cosa.
Cominciò a pensare al futuro, a come sarebbe stato il primo incontro con sua figlia.
Piacere, piccola creatura, io mi chiamo Prudence e da oggi fino a quando il mondo non crollerà e anche dopo, sarò la tua mamma, e non ci perderemo mai, io e te, mai.
Te lo prometto.
 
La voce smette di parlare.
La storia si interrompe.
Non ci sono più parole da dire, niente più da raccontare.
La ragazza con gli occhi verdi fissa il soffitto e tiene le mani premute contro la sua pancia vuota.
Lui non sa che dire, quali parole scegliere e quali frasi formulare.
Cosa può aggiungere a quella storia?
Mi dispiace, Prudence.
Così scontato, sbiadito ed inutile.
Mi dispiace.
Mi dispiace, Prudence, che il mondo non sia un gran bel posto, che Dio costruisca nuvole invece che ascoltarti, che tuo padre non sia stato un padre, che oggetti fragili si siano frantumati sul pavimento di casa tua, che casa tua non sia più casa tua, che tu non sia riuscita a tenerti stretta tuo fratello, che Maxwell abbia amato il suo basso più di te e di tua figlia, che tua figlia non abbia un padre.
Non lo dice, si tiene strette le sue parole di dispiacere, mai pronunciate e che cosa le dico a fare? Lei lo sa, Lei sa che le penso, sa che se potessi riavvolgerei il tempo e le darei ciò che non ha avuto e ciò che ha perso troppo presto e senza motivo.
No, lui non dice niente, basta solo il silenzio, un silenzio più forte di qualunque altra parola.
Silenzio e osserva la ragazza con gli occhi verdi che ha cominciato a piangere.
Lui le asciuga le lacrime con le mani, le passa un braccio attorno alla spalle e se la stringe forte al petto, baciandole la fronte.
L’ascolta piangere, piangere e piangere e gli sembra piccola e fragile come una bambina, bambina caduta da un’altalena troppo alta, bambina con le ginocchia sbucciate, bambina che fa brutti sogni, bambina che non sa che fare davanti ad una vita così grande, enorme, immensa.
L’aveva vista piangere solo un’altra volta, tre anni prima, quando era entrato come una furia dentro una metropolitana di Dublino e le aveva gridato addosso parole cattive e poi tirato uno schiaffo secco e rabbioso.
Rafforza la stretta attorno alle sue spalle.
Lei continua il suo pianto silenzioso e soffocato.
Non ti preoccupare, Prudence, io non posso ridarti il tempo perduto, un padre mai esistito ed un fratello lasciato andar via, ma posso rimanere.
Rimango io al posto di chi se n’è andato, resterò qui, in silenzio, ad asciugarti lacrime che aspettavano da troppo tempo di essere piante.
Rimango io al posto di chi se n’è andato.
E sarò padre, sarò fratello, sarò compagno e tutto ciò che ti è mancato.
 
 
 
 
 
 
Orcaloca quanto sono ritardataria!
Dovete perdonarmi, ma in questo ultimo periodo non ho avuto un attimo per scrivere!
Il prossimo capitolo è ancora in costruzione, perciò, come sempre, non posso anticiparvi nulla.
Grazie a chi legge, grazie di cuore!
A presto,
C.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 10
*** Padre ***


10. Padre
 





La bambina siede su un tappeto blu, sembra ancora un po’ assonnata mentre si strofina gli occhi con le dita delle piccole mani.
La guarda e la cerca, cerca la sua presenza piccola e giovane, prova ad avvicinarsi, a respirarla.
Bambina che sbadiglia; bambina che si strofina gli occhi; bambina che vorrebbe dormire ancora un po’; bambina che c’è, che vive, che è arrivata fino a qui, a questo momento e chissà da dove è partita.
Chissà quel è stato il suo punto di partenza.
Chissà dov’era.
Dov’eri, bambina assonnata? Eri con Dio? Lo hai conosciuto? Che tipo è?
Lui non ha mai avuto rapporti costanti con Dio, non ha mai rivelato i suoi peccati segreti a vecchi pieni di prediche in bocca, si è sempre fidato poco di ciò che non poteva vedere o toccare.
Ma, caro Dio, se io e te potessimo farci due chiacchiere io ti chiederei perché hai plasmato un modo simile, perché  hai creato padri che non hanno saputo fare i padri, perché hai dato forma alla lontananza, alla mancanza, perché ci hai fatti così fragili e piccoli e incapaci di bastarci.
Perché?
Aspetterò la risposta per i secoli dei secoli, amen.
Sente la voce cristallina della bambina parlare con la sua alce di peluche e vede la sua manina avvicinare al grosso muso del pupazzo una fogliolina di insalata.
Lui sorride. Poi il sorriso sparisce.
Vorrebbe alzarsi da quel divano che profuma di Prudence e della sua pelle bagnata, vorrebbe parlare con quella bambina, giocarci, essere divertente, farla ridere.
Vorrebbe, vorrebbe, vorrebbe fare così tante cose ma non può e non riesce.
Quella bambina gli fa così male!
Lo ferisce, lo taglia, la sua pelle si apre, ferite inconsistenti che si fanno spazio.
Bambina affilata.
Bambina che sei tutto ciò che io non sono. Tutto ciò che vorrei essere.
E sente una parola breve e veloce che si ripete-ripete-ripete nella sua testa.
Padre.
Padre.
Padre.
E lui vorrebbe essere padre.
Vorrebbe essere suo padre.
Vorrebbe essere come suo padre.
Come suo padre che gli raccontava storie fantastiche prima di andare a letto e gli rimboccava le coperte e, prima di spegnere la luce, abbandonava una carezza leggera sulla sua testa e lui la aspettava sempre, quella carezza, sin dal mattino, la desiderava, voleva sentire quella mano grande posarsi sul suo capo e ‘buonanotte, piccolo uomo, cerca di sognare solo cose belle’; come suo padre che ogni Domenica lo portava con sé al negozio di vecchi dischi vicino casa e gli raccontava di persone sconosciute che con la loro musica avevano dato un bel suono alla sua vita, ‘e ci saranno persone sconosciute che suoneranno anche per te, piccolo uomo, e daranno un bel suono anche alla tua, di vita, che saranno la tua colonna sonora unica e personale’; come suo padre che quando pioveva lo accompagnava in macchina a scuola e lo portava a fare colazione al bar più vicino, e lui si ricorda ancora del buon profumo di brioche appena sfornate; come suo padre e la sua mano grande che si posava sulla sua spalla, e la sua voce calda, ‘ce la farai. Io ci credo’; come suo padre che c’è, che c’è sempre stato, presenza costante al suo fianco, braccio forte a cui aggrapparsi.
E lui vorrebbe essere altrettanto per quella bambina.
Bambina che lo ferisce, che ferisce perché è tutto ciò che lui non è stato e tutto ciò che lui non ha avuto.
Tutto ciò che lui non ha avuto e riesce a vedere Prudence camminare sul pavimento della sua mente, è vestita di bianco, bianco che splende e sente parole pronunciate e ripronunciate da chissà quante persone vorticargli nella testa.
Vuoi tu prendere come sposo questo spirito libero che vorrebbe solo espandersi e riempirsi della parte migliore del mondo per poi donarla a te, e solo a te? Vuoi unirti a questo essere umano pieno di difetti e di domande troppo grandi per questo mondo? Prometti di amare ed onorare quest’anima che è fatta di te e solo di te finché morte non vi separi e anche dopo?
E Prudence dice sì, lo voglio.
Sì, lo voglio-lo voglio-lo voglio.
Ed ecco comparire tra le pareti della sua testa un piccolo appartamento vicino al centro di Amsterdam, che ha dentro un buon profumo di fiori e lui e Lei che condividono una pizza sul loro divano. E poi l’appartamento scompare e lui sente solo le parole di uno stupido litigio per il colore con cui verniciare i muri del soggiorno e gli viene da ridere, ridere, ridere, cosa vuoi che mi importi dei muri in soggiorno?!
Ed ecco un letto grande con dentro loro due nudi, soli, insieme, uniti, indivisibili: stessa pelle, stessa carne, stesso corpo.
E poi riesce a vedere il ventre di Prudence che cresce, che diventa il nido di suo figlio, nostro figlio, figlio di un amore che ha saputo inventarsi da solo ed esistere ed espandersi, allungarsi, arrivare lontano, oltre i confini dell’astratto. Amore che li ha rapiti, bagnati, riempiti. Amore che c’è, che c’è, che c’è, che esiste, concreto, tangibile. Amore che si sente, che gira intorno, presenza invisibile e inseparabile e figlio mio, figlio nostro, io prometto di raccontarti la mia storia che è anche la tua storia e partirò dall’inizio, da una fredda notte di Dicembre in cui ho incontrato una sirena in una metropolitana e sono annegato nei suoi occhi verdi.
Tutto ciò che non ha avuto.
Le immagini lo abbandonano, ci sono di nuovo solo lui, la bambina e il suo peluche.
Vorrebbe chiamare subito Prudence.
Perché ci hai lasciati qui da soli? Come dovrei comportarmi?
 
E la sua mente vaga lontana e ritorna a qualche ora prima, quando si è svegliato su un divano rossiccio stringendo tra le braccia Occhi Verdi e lei era così bella, così bella nei suoi capelli spettinati, nella sua pelle umida e nella sua espressione triste, triste anche mentre dormiva e che cosa sogni? Che cosa stai sognando? Ti prego, cerca di sognare solo cose belle.
E poi gli è ritornata in mente la notte in cui Lei è scivolata via silenziosamente e allora ha rafforzato la stretta sulla sua schiena, se l’è spinta contro il petto e lei si è svegliata.
Scusa, non volevo svegliarti.
No, io… è tardi!
Ed è scattata in piedi e ha corso avanti e indietro per tutto l’appartamento, si è lavata, vestita ed ha legato i capelli in una coda alta.
Ti prego, puoi restare tu con Leila?
Perché?
Devo andare al lavoro, ma mi spiace portarla con me perché si annoia.
Non sono bravo con i bambini.
Così farai pratica.
Non credo mi serva più, la pratica.
Perché?
Lo sai perché.
Dovresti smetterla.
Di fare cosa?
Di pensare al passato.
Il presente non mi piace.
Allora cambialo.
Ci sto provando.
Devo andare, ti prego resta con Leila.
Non sono suo padre.
Lo so.
Avrei voluto esserlo.
Lo so.
Avrei voluto essere tante cose.
Lo so.
E poi Lei ha abbassato lo sguardo, ha aperto la porta e se n’è andata.
 
Lui prende un bel respiro, si alza in piedi e si avvicina alla bambina.
«Leila, ti andrebbe di mangiare un bel gelato?»
Leila alza gli occhi e li punta su di lui.
«Un bel gelato!» ripete ed annuisce energeticamente.
Lui sorride, poi si guarda intorno e solleva dal tappeto vicino alla porta un paio di scarpine con i lacci.
«Sai fare il nodo?» lei scuote la testa.
Lui si inginocchia, le infila piano le scarpine e gliele allaccia.
Leila lo guarda fisso e segue con gli occhi ogni suo movimento, non stacca lo sguardo da quelle mani nuove, così diverse da quelle di sua madre, che sembrano così premurose, così delicate nei loro gesti semplici.
‘Grazie’ farfuglia quando capisce che il ragazzo sconosciuto ha terminato di armeggiare con i lacci.
Lui si rimette in piedi e le tende la mano, la bambina fissa lo sguardo su quella mano tesa e poi sul viso del ragazzo sconosciuto e arrossisce, raccoglie da terra la sua alce di peluche e se la stringe al petto.
«Non viene anche la mamma?» gli chiede, e fa due piccoli passi indietro, un po’ goffi.
«La mamma arriva dopo.»
«Allora… allora aspetto la mamma.»
Si rimette seduta sul tappeto blu e abbassa lo sguardo.
Lui ha capito.
Lo ha capito che non si fida, che forse è spaventata e non sa come comportarsi.
Ed è una sensazione così fastidiosa!
Lui cerca l’approvazione di quella piccola creatura, la vuole, la desidera intensamente e non riesce a spiegarsi perché.
Cosa potrebbe mai importargli della fiducia di una bambina di tre anni? Cosa potrebbe farsene?
E le immagini del tutto-ciò-che-non-ho-avuto gli ritornano in mente, esplodono, prendono vita, si susseguono veloci.
Prudence.
Vestito bianco.
Vuoi tu?
Sì, lo voglio.
Appartamento di Amsterdam.
Pizza condivisa.
Stupido litigio.
Letto grande.
Corpi nudi e carne.
Un figlio.
Suo figlio.
Scuote la testa, scaccia via i pensieri.
Si siede vicino alla bambina e la osserva mentre riprende in mano una fogliolina e l’avvicina al muso del suo peluche.
«Sei silenziosa?»
Leila annuisce senza guardarlo. Lui resta in silenzio, ha capito che parlare non serve a nulla.
Rimane seduto a guardare quella bambina che non si fida, che non sa cosa dirgli e lui continua a pensare al passato, a come era diverso otto anni fa e a come le cose sarebbero potute andare se non fosse successo ciò che è successo.
Se i legami non si fossero interrotti, se Dio non avesse creato le perdite e la mancanza, se lui avesse stretto un po’ più forte Prudence tra le sue braccia.
Se, se, se.
E quella bambina avrebbe potuto essere sua figlia, il frutto vivente di un amore grigio-verde come il cielo e i prati di Dublino.
Ma il passato è passato, ma le cose sono andate come sono andate ed ora restano solo lui, un tappeto blu, un peluche che mangia insalata e una bambina che non ha parole da dirgli.
 
Una chiave scivola nella serratura e Occhi Verdi fa capolino da dietro la porta.
Sembra stanca, delle ciocche ribelli sono sfuggite dalla stretta della sua coda alta e sulla sua maglietta rossa c’è una grossa macchia scura.
Leila scatta in piedi, un po’ impacciata e si lascia scappare un urletto.
«Ciao pulce!» e Prudence si inginocchia e stringe forte la sua bambina.
Lui si alza in piedi e si fa da parte, gli sembra d’essere un intruso in quel momento.
Non c’entro nulla, ma vorrebbe c’entrarci qualcosa, vorrebbe essere una minima parte di quella scena che si consuma sotto i suoi occhi, se solo potesse essere le braccia di Prudence che si stringono gentili attorno a quel corpicino di bambina che crescerà; se solo potesse essere le labbra di Prudence che si appoggiano delicate sulla fronte di sua figlia, o la sua voce felice che si abbraccia a quelle parole, ciao pulce!; se solo potesse.
«Sistema tutto questo bel disastrino, così poi preparo da mangiare, okay?»
La bambina annuisce e raccoglie da terra i ciuffetti di insalata e il suo peluche e scompare dietro una porta.
Occhi Verdi si alza in piedi e si avvicina ad Occhi Bui.
«Ciao.»
«Ciao. Che cosa ti è successo?» le chiede, ed indica con un dito la macchia scura sulla sua maglietta.
«Oh, niente! Un idiota mi ha praticamente rovesciato il caffè bollente addosso.»
«In biblioteca?»
«No, al bar dove lavoro.»
«Fai due lavori?»
Lei annuisce.
Poi silenzio.
«Grazie… per Leila.»
«Di niente.»
«Com’è andata?»
«Da schifo.»
Lei lo guarda accigliata.
«Come mai?»
«Credo non si fidi molto.»
«È perché non è abituata per via…»
«Per via di suo padre. Lo avevo capito.»
Occhi Verdi abbassa lo sguardo.
«Hai mai provato a chiamarlo? A parlargli?»
«Tanto è inutile: non muoverà un dito.»
«Portalo in tribunale.»
«Non ho soldi da regalare a giudici e avvocati.»
«Non puoi far finta di nulla.»
«Non faccio finta di nulla, e comunque è molto meglio così. Lui non è una persona granché responsabile.»
«Potevi pensarci prima di andarci a letto insieme.»
E non si pente nemmeno un po’ di quelle parole.
Le ripeterebbe volentieri.
Le urlerebbe, se potesse.
Perché è quello che pensa, perché non gli importa che quelle parole possano minimamente ferirla.
Non mi importa, non mi importa.
Perché tu potevi e dovevi pensarci prima.
«Cos’è, adesso vuoi farmi la predica? Risparmia il fiato.»
«Non ti faccio la predica, ma tua figlia non ha un padre.»
«Grazie per avermelo fatto notare, non me ne ero accorta.»
«La vuoi smettere?»
«E tu? Tu la vuoi smettere di giudicare? Pensi di potertelo permettere? Tu non sai niente, non hai la minima idea di come ci si senta in una situazione simile! Pensi sia facile? Pensi che basti una telefonata o un avvocato per risolvere tutti i problemi? Svegliati, non funziona così nella vita reale!»
«Cosa significa ‘non funziona così nella vita reale’? Cosa vorresti insinuare?»
«Che magari sei abituato in un altro modo nella tua scintillante vita, ma lontano dai tappeti rossi è tutta un’altra storia!»
E di nuovo le sue parole gli scavano la pelle, in fondo, lo tagliano, bruciano.
E come si permette, come si permette di dirgli una cosa simile? Forse non lo sa che se non fosse stato per lei e le sue lettere cattive, lui i tappeti rossi non li avrebbe mai nemmeno sfiorati.
«Invece di prendertela con me, dovresti chiamare quello stronzo di Maxwell e dirgli di comportarsi da uomo!»
Leila compare all’improvviso e si aggrappa alla gamba di sua madre, Occhi Verdi le rivolge un sorriso poco convinto e poi apre la porta di ingresso.
«Sei stato molto gentile, puoi andare.»
«Prudence…»
«Vattene.»
Lui abbassa lo sguardo, prende la sua giacca ed esce fuori e, prima di poter aggiungere qualsiasi altra parola, la porta si richiude con un rumore secco.
 
 
 
 
 
 
 
Salve, ciurma!
Com'è iniziato questo Dicembre? 
Io lo inauguro(ma mica tanto perché siamo già al 3) con un nuovo capitolo di Barny e Prue che, guarda un po', litigano! Purtroppo ci vuole ancora un pochino di tempo, ma abbiate fede!
Per il resto non posso anticipare nulla, ma comunque ne devono passare ancora delle belle!
E niente, grazie a chi legge, grazie di cuore!
A presto,
C.



 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 11
*** Pugni, specchi e parole ***


11. Pugni, specchi e parole



Alza il capo verso il soffitto, appoggiandosi con la schiena al bordo della vasca e chiude gli occhi.
L’acqua è bollente contro la sua pelle e lui quasi non la sente, non la percepisce, i pensieri nella sua testa non gli concedono distrazione.
Ripensa agli otto anni appena passati e al suo compleanno così maledettamente vicino, e se solo il tempo avesse un corpo, se solo il tempo fosse concreto e tangibile allora lui lo prenderebbe a calci e pugni.
Il tempo che lo fa sentire così vuoto, così solo e lontano, lontano persino da se stesso.
Dal se stesso che era otto anni fa. Quanto gli manca quel se stesso!
Nella sua memoria vuota ricompare l’immagine di un ragazzo dall’aspetto trasandato, con jeans sgualciti e felpe troppo grandi e gli occhi di chi vorrebbe cambiare il mondo.
E quanto lo invidia, quel ragazzo!
Quanto invidia la sua completa, assoluta libertà e la sua anonima presenza che cammina tra le strade di un mondo che vorrebbe fosse migliore.
Quanto invidia la sincerità del suo sguardo e delle sue parole e la sua indecisione sul cosa fare in quella vita, cosa essere in quella vita.
E quanto invidia la sua relazione con la ragazza con gli occhi verdi, le loro mani intrecciate e la semplicità di ogni loro gesto ed ecco, ecco cosa vorrebbe: la semplicità.
Sta’ attento, me stesso di otto anni fa! Sta’ attento a non perdere niente e nessuno, tieniti stretto tutto ciò che hai!
Riapre gli occhi e la luce della lampada sul soffitto lo acceca per qualche istante.
Si mette seduto e nasconde il viso tra le mani.
E quanto sono complicati i legami!
Il legame.
Il legame con quei due occhi verdi.
Legame sottile e fragile, troppo sottile e fragile e così instabile, bastano poche parole per farlo crollare.
Ripensa a qualche ora fa quando ha sputato addosso ad Occhi Verdi parole brutalmente sincere.
Potevi pensarci prima di andarci a letto insieme.
E le pensa ancora, quelle parole.
E gliele ripeterebbe.
Fanno male, vero? Fanno male le parole, io lo so, lo so perché le tue mi hanno ferito, tagliato, bruciato e mi hanno rubato otto anni ingiustamente.
Mi hai rubato otto anni ingiustamente. Ma io li rivoglio, questi otto anni, li rivoglio e non me ne andrò finché non li avrò avuti indietro.
Si alza in piedi, infila il suo accappatoio nero ed esce dalla vasca.
Lo specchio sopra al lavandino è completamente appannato. Allunga una mano e la strofina sulla superficie del vetro, ed ecco comparire il riflesso di un ragazzo diventato uomo che ha il volto bagnato e i capelli scuri gocciolanti.
Avvicina il suo viso al viso dell’uomo nello specchio e ci riesce. Riesce a rivedersi. Se stesso di otto anni fa.
E gli sembra di rivedere tutto, tutto di quei mesi irlandesi finiti troppo presto.
Dublino prende forma in fondo alla specchio e compaiono lui e Lei dentro a quei vicoli grigi, sdraiati sulle loro spiagge bagnate di pioggia e seduti nei loro parchi abbandonati, ma non importa, non importa se sono abbandonati, non importa se ci hanno abbandonati.
Non importa. Non importa niente. Importiamo noi due.
E riesce a rivedere, rivedere ogni cosa, ogni istante, ogni momento.
Ed eccolo, se stesso di otto anni fa addormentato nel letto del suo tetto sopra la testa in affitto insieme ad Occhi Verdi, il braccio stretto attorno al suo corpo caldo.
Ma Lei si sveglia e si riveste alla svelta, poi prende carta e penna e pensa a cosa scrivere, a quali parole usare e che parole vuoi usare? Cosa vuoi dirmi? Non dirmelo che te ne vai, non raccontarmi verità a metà, non scrivermi di smetterla di fare scelte sbagliate. Non scrivermi. Piuttosto lascia il foglio bianco.
Ma invece il foglio si colora, si colora di nero, quanto nero! Quante parole! C’è anche qualche cancellatura, qualche indecisione, qualche parola sbagliata coperta da una linea poco delicata.
La ragazza con gli occhi verdi piega il foglio.
Se stesso di otto anni fa continua a dormire.
Svegliati! Svegliati, non lasciarla andare!
Occhi Verdi mette il foglio dal suo lato del letto, al posto del suo corpo caldo.
Svegliati! Svegliati! Svegliati!
Lei si protende verso di lui e gli dà un bacio sulla fronte.
Se stesso di otto anni fa lo ha sentito, quel bacio; ha avvertito quella labbra posarsi piano sulla sua fronte ma non l’ha capito, non l’ha capito che era un bacio-a-mai-più-rivederci.
Prova a capirlo ora! Prova a capirlo ora e svegliati! Svegliati e fermala, brutto idiota!
Ma lui continua a dormire, povero illuso che spera ancora nel tempo!
Svegliati e fermala prima che sia troppo tardi! Falla restare, ti prego, falla restare!
Ma la ragazza con gli occhi verdi esce fuori dalla stanza.
Esce fuori dalla sua vita.
Con la mano destra tira un pugno contro lo specchio e il vetro si frantuma, schegge sottili gli tagliano la pelle e la sua mano prende a sanguinare copiosamente.
Si lascia sfuggire un gemito di dolore, mette svelto la mano ferita sotto l’acqua fredda del lavandino e tiene gli occhi serrati.
Tum tum tum.
Sente qualcuno bussare alla porta del bagno.
«Ben, che succede lì dentro?» la voce di Franziska sembra preoccupata. La sente bussare di nuovo e chiamarlo agitata.
«Tutto a posto, non preoccuparti!» le dice, ed intanto impreca a bassa voce tentando di fermare il sangue con un asciugamano bianco.
Siede stancamente a terra, appoggiandosi con la schiena contro la vasca.
La mano gli fa dannatamente male, non riesce quasi più a muovere le dita, qualche scheggia deve essergli rimasta dentro la carne.
Ma adesso non ha tempo di stare a togliere i frantumi di uno stupido specchio dalla sua mano, non ha tempo e non ne sarebbe nemmeno capace. Si rialza in piedi e afferra i suoi pantaloni abbandonati sul pavimento, tira fuori dalle tasche un fazzoletto di stoffa bianco ancora pulito e lo bagna con l’acqua fredda del lavandino, poi lo strizza e lo lega attorno alla mano ferita.
Alza lo sguardo e lo specchio è ancora lì. Frantumato. Rotto. Spaccato.
E dentro a quello specchio non c’è più traccia di lui, di Lei o di Dublino, ma lui non ha bisogno dello specchio, lui sa perfettamente cos’è successo dopo che Occhi Verdi è uscita da quella porta.
Se stesso di otto anni fa ha continuato a dormire e quando si è svegliato e ha letto quella lettera è rimasto così ferito, frantumato, rotto e spaccato come uno specchio preso a pugni e quelle parole erano come schegge di vetro nella sua carne e avrebbe voluto correre fuori dalla stanza, raggiungerla, ma che cazzo hai combinato, Prudence! e se solo l’avesse fatto il legame, il loro legame, forse a quest’ora sarebbe ancora intatto, integro e più forte, più forte di un pugno, più forte di uno specchio, più forte delle parole.
Ma il tempo è passato e non tornerà.
Il tempo non torna mai, lo dice anche la Legge del Resto e lui non può fare niente, non può farci niente.
Ma se solo il tempo avesse un corpo allora lui lo prenderebbe a calci e pugni.
Si riveste lentamente, usando solo la mano sinistra e quando esce fuori dal bagno Franziska è là davanti, in piedi con la schiena ben eretta e le braccia conserte.
I suoi occhi di ghiaccio lo fissano preoccupati e cadono subito sulla mano fasciata.
«Che cosa hai fatto?»
«Niente, io…» ci pensa su prima di rispondere «ho tirato un pugno allo specchio del bagno.» le dice ridendo.
«E perché avresti fatto una cosa simile?»
«Non lo so.»
«Ben, ti senti bene?»
«No. Per niente.»
Spegne la luce del bagno, supera Franziska e si sdraia sul letto.
«Dove sei stato in questi ultimi due giorni?»
«In così tanti posti che non saprei risponderti.»
«Perché non me lo dici subito e basta?»
«Che cosa?»
«Che c’è un’altra.»
Lui sorride, e non sa perché sorride ma eccolo, un sorriso sulle sue labbra comparso senza motivo.
Quanto vorrebbe dirglielo.
Franziska, mi dispiace, c’è un’altra.
Ma Prudence non è un’altra, Prudence non vuole essere un’altra, Prudence non è mai stata un’altra.
Prudence è la sola, l’unica in mezzo al resto e lui si odia così tanto per il sentimento ammaccato che prova.
Se potesse scegliere e decidere, si dimenticherebbe di Lei, lo farebbe volentieri. Cancellerebbe ogni istante e ucciderebbe ciò che prova.
Io non sono un ragazzino, io non mi faccio buttare giù da questa roba astratta, invisibile, inspiegabile, raccontata nei libri e cantata nelle canzoni.
Io non sono un ragazzino e Prudence, cara Prudence, posso benissimo fare a meno di te.
«Non c’è un’altra.»
Franziska scuote la testa decisa.
«Lo voglio anche io.» gli dice.
«Cosa?»
«Quello che provi tu, Ben. Lo voglio provare anche io.»
«Basta tirare un pugno ad uno specchio.»
«Hai deciso di venire qui solo per lei, non è vero?» gli dice, ignorando la sua finta indifferenza.
«Lei non esiste.»
Franziska rimane a fissarlo per qualche minuto, poi prende la sua giacca di jeans e fa per uscire.
«Dove vai?» le chiede.
«Ti lascio solo.»
E la porta si apre e si richiude delicatamente.
Lui osserva il soffitto bianco e luminoso di quella stanza pesantemente lussuosa e si sente perso, vuoto, incompleto, fuori luogo e perché, perché devo fare così? Perché devo essere così?
Vorrebbe poter voltare pagina e andare avanti. Vorrebbe poter essere felice dei suoi abiti eleganti, dei tappeti rossi, dei jet privati e delle continue feste inutili e vuote. Vorrebbe poter essere felice della perfetta ragazza tedesca che ha accanto ma non riesce, non ci riesce.
Questa parte lui non sa recitarla.
Stringe la mano destra a pugno e subito impreca per il dolore. Non la sopporta più, quella mano ferita.
Si rialza in piedi barcollando, afferra il portatile poggiato sul tavolino di vetro al centro della stanza e poi torna a sedersi sul letto.
Non sa bene perché, non riesce a spiegarsi il motivo ma ad un tratto le sue dita digitano un nome che lui non ha neanche mai pronunciato a voce alta.
Ma le dita battono sui tasti, le lettere si avvicinano e il nome prende forma. Senza un perché.
Finbar Gallagher.
Clicca sul primo risultato e vede comparire l’immagine di un uomo di bell’aspetto, con capelli biondi ed occhi blu.
Gli ritorna subito in mente il volto di Jude e capisce che è lui. Che lo ha trovato. Ha trovato il non-padre.
Legge attento le informazione accanto alla foto perché vuole capire se, oltre che un non-padre, quell’uomo è anche qualcos’altro.
Brillante pittore irlandese, noto per i suoi paesaggi e ritratti.
Le nuove opere verranno presto esposte in Russia, ma i fortunati che si trovano a Dublino potranno già dare uno sguardo all'anteprima che si svolgerà in data 14 Agosto proprio presso l’elegante villa del pittore.
14 Agosto.
È oggi.
Chiude gli occhi e pensa.
Cosa spero di fare? Cosa voglio ottenere? Ma la voce di Prudence gli riempie le orecchie.
Non-padre, non-padre, non-padre.
Urla.
Cose fragili frantumate su un pavimento freddo.
Fratelli perduti.
Parole che fanno male.
E le mani di Prudence che le coprono il viso bagnato di pianto.
Prende svelto carta e penna e si segna l’indirizzo di casa del non-padre, poi si infila il biglietto in tasca, afferra la giacca ed esce di fretta.
Adesso sa cosa deve fare.
 
 
 
 
 
Ed eccoci qui, con un nuovo capitolo!
A dir la verità questo capitolo era già pronto da una settimana buona, ma ho scelto di pubblicare oggi perché è il mio compleanno.
In questi ultimi anni me ne sono capitate di ogni ed ho incontrato persone che vi auguro di non incontrare mai, ed è stato proprio per sfogarmi che, un po’ di tempo fa, ho cominciato a scrivere di Ben e Prue.
Mi sembra quindi giusto pubblicare proprio oggi, oggi che Ben e Prue hanno dato vita a ben sei storie – e pensare che non avrei scommesso sarebbero arrivati interi alla fine della prima!- oggi che non è solo il mio compleanno ma la chiusura ufficiale e definitiva di un pessimo periodo.
Prometto di dare a Ben e Prue il lieto fine che meritano, e spero di averlo anche io, un bel lieto fine.
E grazie, grazie a voi che leggete anche solo in silenzio: grazie dal più profondo del cuore.
E un grazie particolare a Joy e Clairy, ormai diventate amiche preziose, che mi hanno sempre incoraggiata con tutto il loro affetto.
Un grande abbraccio e buone feste a tutti,
C.

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Capitolo 12
*** Avanti ***


12. Avanti




Un vento gentile gli soffia sul viso e gli scompiglia i capelli.
Alza lo sguardo e guarda verso il bar alla sua sinistra, la porta è spalancata e fuori ci sono una decina di tavolini disposti in modo ordinato sotto un pallido gazebo.
Occhi Verdi indossa dei jeans e una canotta grigia e ha i capelli sciolti che le arrivano fino alla vita.
Sono cresciuti. Non lo aveva notato.
Ecco un altro segno di quegli otto anni passati senza averla accanto. Ecco un altro segno del tempo che non si ferma, che non aspetta, che se ne infischia degli addii, delle lettere, delle rotture.
Al Tempo non importa niente.
Ti sono cresciuti i capelli. Non lo avevo notato. E, dimmi, sei cresciuta anche tu?
Occhi Verdi sembra stanca, terribilmente stanca. Si muove agile tra i tavolini e stringe tra le mani un vassoio che viene presto riempito dalle tazzine vuote di chi se n’è ormai andato.
Lui la osserva un altro po’, ancora un po’, per un po’, solo un po’. Vorrebbe essere capace di abbassare lo sguardo, di essere impassibile e indifferente. Vorrebbe sapersi mostrare arrabbiato e furioso. Vorrebbe essere così tante cose ma alla fine è solo qualcuno che ha perso del tempo, tempo prezioso, ed ora vuole disperatamente recuperarlo.
Si avvicina deciso al bar, si fa strada tra i tavolini tentando di ignorare le occhiate curiose della gente, e la raggiunge.
«Ciao.» dice e Occhi Verdi sobbalza e si volta spaventata.
Appena incrocia lo sguardo con quello di Occhi Bui sospira e scuote la testa, poi abbassa il capo e mette le ultime due tazzine vuote sul vassoio.
«Possiamo parlare?» le chiede.
Nessuna risposta.          
«Possiamo parlare?» alza la voce.
Nessuna risposta.
Si sente ignorato, umiliato, debole e patetico.
Ma come puoi, come ti permetti di trattarmi così?
E vorrei urlarti addosso, prenderti a schiaffi, andarmene via ed essere felice, contento di questa vita, della mia vita e contento della tua assenza.
E vorrei farti sentire ferita-tagliata-bruciata-spaccata-incompleta-spezzata-vuota.
Vuota vuota vuota.
Ti senti vuota, Prudence? Brutta sensazione, vero? Io lo so, lo so.
Sono esperto nel sentirsi vuoti.
«Prudence?»
Nessuna risposta.
E prima che lei possa sollevare il vassoio dal tavolino, lui la afferra per un braccio con la mano ferita e stringe i denti per sopportare il dolore.
Ma serra la stretta, serra la stretta e non le permette di allontanarsi.
«Smettila di fare la stronza, non ti si addice.»
La mano comincia a bruciargli, quelle dannate schegge di vetro gli fanno un gran male! Il nodo al fazzoletto si scioglie e lui è costretto a mollare la presa.
Fa un passo indietro e osserva la ferita sulla mano.
Una linea spessa terribilmente rossa e irregolare gli ricopre il dorso e le nocche della mano destra, tenta di distendere le dita e serra gli occhi per il dolore.
Lei lo osserva e sembra arrabbiata e confusa, stringe le mani a pugno e i suoi grandi occhi verdi diventano lucidi.
Occhi Bui sospira e, a denti stretti, riavvolge la mano ferita con il fazzoletto ormai sporco e spiegazzato.
«Possiamo parlare?» chiede di nuovo.
«Io non ho più niente da dirti.»
«Io invece sì.»
«Non ho più voglia di ascoltarti.»
«E invece mi ascolterai, mi ascolterai eccome, perché me lo devi. Tu mi devi un sacco di cose.»
«Non ti devo proprio niente!»
«Tanto per cominciare mi devi delle scuse.»
«Scusa per cosa?»
«Per tutto quello che mi hai fatto e per il modo squallido in cui l’hai fatto!» alza la voce e sente addosso le occhiate attente della gente ai tavolini.
Occhi Verdi resta in silenzio, forse non sa più come rispondere. Forse non può più rispondere.
«Tu sei solo un ragazzino che non si decide a crescere e parlare con te sarebbe uno spreco inutile di energie.» abbassa lo sguardo e fa per prendere tra le mani il vassoio.
«Ma certo, quando le cose si fanno complicate Prudence scappa, vero? È la sua specialità.» le sorride sornione.
Occhi Verdi afferra saldamente il vassoio, poi alza il capo e lo fissa avvilita «Vaffanculo!» quasi sputa le parole, e poi rientra nel bar senza voltarsi indietro.
Lui resta interdetto, immobile, non sa cosa dire né cosa fare.
Ha addosso gli occhi curiosi dei clienti del bar che fingono di sorseggiare indifferenti il loro caffè, e quanto vorrebbe sparire, scomparire, diventare invisibile, potersi disperdere nell’aria.
Ma non può, non è possibile, è fatto di ossa e di carne e carne e ossa non possono scomparire, non possono essere nascoste.
«Lo spettacolo è finito, potete tornare alla vostra fottuta colazione!» grida e si allontana in fretta.
Il sole splende alto nel cielo terso e limpido di una Dublino strana, nuova, senza pioggia o nuvole grigie.
Cammina svelto, lo sguardo basso e gli occhi di Prudence ancora nella sua testa, e le parole di Prudence ancora nelle sue orecchie.
Vorrebbe poterle raccogliere, le parole. Le Sue parole.
Le parole che gli sono rimaste dentro, che si sono arrampicate agili alle pareti della sua mente senza volersi far dimenticare e adesso lui sa, lui sa che potrebbe prenderle, estrarle dai cassetti segreti della sua memoria e rimetterle in ordine, inizio e fine.
Potrebbe ripercorrere con le sole parole quella storia che ora gli sembra un peso, un fastidio, un macigno ingombrante dentro al suo petto.
La metro è guasta.
Aspetto qualcosa o qualcuno, non lo so di preciso. Prima o poi succederà qualcosa, no?
Ma come fai a sapere già che non hai passato quel provino?
Hai già fatto tutto quello che volevi fare prima di morire?
Carpe diem!
Se continui a fumare morirai.
Je ne t’aime plus, mon amour. Je ne t’aime plus tous les jours.
Le farfalle non potranno mai baciarsi.
Ho paura della fine.
Che cosa siamo noi due?
Devi tornare a casa, vero?
Cos’è la verità?
Perché non mi hai detto che hai passato quel provino?
Non mi fare domande. Ti prego, niente domande.
L’ho fatto perché volevo tu fossi felice!
Aspetto un bambino.
Sei qui solo per ottenere qualcosa che non avrai mai.
Vaffanculo!
Fine.
Vorrebbe metterci sotto la parola ‘fine’, aggiungerla a tutte le altre parole, schiacciarla sotto a quel ‘vaffanculo’.
Fine.
Ma è troppo orgoglioso, è troppo testardo, è troppo incompleto.
Ha bisogno di qualcosa in più, gli mancano troppi pezzetti, gli manca la completa e assoluta verità.
Gli manca la consapevolezza di aver provato a rimettere insieme ciò che si è spaccato anni e anni fa.
“Caro Benjamin, niente si rompe irreparabilmente. Niente si perde per sempre.” Sua madre gli diceva sempre così e lui le credeva, lui era piccolo e le credeva, ci credeva a quell’ottimismo, a quella sicurezza di poter sempre trovare la soluzione.
Niente si rompe irreparabilmente. Niente si perde per sempre.
La voce di sua madre riecheggia nella sua testa, il suo tono sicuro e deciso mette a tacere ogni altro pensiero.
Niente si rompe irreparabilmente. Niente si perde per sempre.
Lo diceva come fosse una legge assoluta della fisica, una regola di grammatica incontestabile. È così perché è così, tu non puoi farci nulla.
Niente si rompe irreparabilmente. Niente si perde per sempre.
Vuole crederci, vuole credere che sia così.
Alza il capo e riesce a scorgere la figura bianca e curva del ponte Ha’penny, sospeso sulle acque scure e languide del fiume Liffey.
Si avvicina e siede su una panchina a lato del fiume. Resta in silenzio. Osserva.
Non c’è molta gente da guardare e non ci sono molte parole da ascoltare.
Due ragazzi che si trovano sul ponte si stringono in un abbraccio e si scattano una foto.
Ragazzo fa una boccaccia.
Ragazza sembra infastidita.
Ragazzo la bacia.
Ridono.
Scompaiono sulla sponda opposta.
Un nonno sistema il cappello al nipotino.
«Lo vuoi un gelato, piccoletto?»
«Ma la mamma ha detto che non posso mangiare dolci.»
«La mamma non deve saperlo per forza.»
«Allora sarà un segreto segretissimo?»
«Un segreto segretissimo.»
Si sorridono complici, si prendono per mano ed entrano in una gelateria vicina.
Lui tira fuori una sigaretta dalla tasca dei jeans e la accende a fatica, la mano continua a bruciare anche nascosta da quel fazzoletto ormai sudicio.
Chiude gli occhi e tenta di concentrarsi sulla sua sigaretta, sul fumo che sembra riempirlo, sembra riempirlo e invece lo lascia vuoto, lo abbandona. Anche lui.
Vorrebbe poter riposare, non si ricorda nemmeno più quand’è stata l’ultima volta che ha dormito.
Ma forse non ci riuscirebbe nemmeno, a dormire.
Forse resterebbe sdraiato su un letto vuoto, con gli occhi al soffitto e la testa troppo piena di pensieri.
Ispira.
Espira.
Fumo che entra.
Fumo che esce.
Occhi chiusi, occhi ben chiusi e riesce a vedere Prudence con il capo chino su un vassoio pieno di tazzine, possiamo parlare? ma lei lo sta ignorando, Prudence stringe le mani a pugno e ha gli occhi lucidi, sei arrabbiata? non glielo chiede, non gli interessa, vuole solo affondare il coltello nella piaga e farla sentire tagliata e rotta e vuota come si sente lui, a Prudence piace scappare vero? e due grandi occhi verdi lo guardano stanchi e confusi e furiosi, vaffanculo! e Prudence se ne va, se ne va con disegnato sul viso lo sguardo del non-puoi-aggiustarci.
Non-puoi-aggiustarci.
Ma come si permette? Ma come può trattarlo così? Dopo tutto quello che Lui ha fatto per Lei, dopo tutto quello che Io ho fatto per Te e solo per Te.
 

Tutto-quello-che-Io-ho-fatto-per-Te, ad esempio incontrare un non-padre, parlare con lui, io non avrei voluto ma è successo, ma è accaduto, ma i miei piedi mi hanno portato davanti ad una villa bianca, bianca come foglio di carta e grande, grande, grande da potercisi perdere dentro.
E che giardino curato e perfetto, così perfetto da darmi quasi sui nervi! C’erano metri e metri di aiuole piene di fiori, fiori di tutti i colori e sembrava di essere ad Amsterdam, ti ricordi di Amsterdam? La tua città preferita, sembrava proprio che il tuo non-padre se ne fosse portato via un pezzetto.
Ho suonato il campanello e la porta si è aperta immediatamente.
Finbar Gallagher?
Un signore con gli occhiali a mezzaluna, i capelli radi ed un bicchiere di vino in mano mi ha sorriso e mi ha invitato ad entrare.
Poi è scomparso.
Sono rimasto solo in una casa grande, piena di persone, quante persone! Quanti volti da ogni parte, così tanti volti ma non sembravano bastare, non bastavano, e c’erano volti enormi appesi anche alle pareti e io li ho guardati, li ho studiati.
Non ci ho mai capito nulla di arte, artisti e pittura ma li ho guardati, quei volti, li ho fissati con attenzione.
Ho percorso lentamente i corridoi larghi e affollati e ho studiato i visi appesi alle pareti e ce n’era uno, ce n’era uno che aveva la pelle chiara, le labbra carnose, i capelli scuri lunghi e ondulati e due grandi, grandi occhi verdi.
Mi sono fermato.
L’ho guardato intensamente e mi ci sono spinto dentro, mi sono arrampicato sulle guance rosee e poi su, su fino a quegli occhi grandi, grandi, grandi e mi sono raggomitolato dentro a quel verde, mi sono nascosto in quelle sfumature che sapevano di erba, di albero, di fiume, di pianta che germoglia, che cresce, cresce ed io c’ero, ero lì, aggrappato a quella pianta magica, immerso dentro a quegli occhi grandi, galleggiando nel più bel verde che esista al mondo.
E mi sono sentito pieno, profondo, immenso, grande, infinito e avrei potuto espandermi dentro a quella stanza, rompermi e disperdermi in milioni di piccolissime particelle, avrei potuto non esistere neanche più e restare intrappolato dentro a quel quadro, dentro a quel viso, dentro a quegli occhi.
«Le piace?» mi ha chiesto qualcuno.
Mi sono voltato ed era là, accanto a me, un non-padre con un bicchiere di vino rosso tra le mani.
«Mi piace in modo tremendo.»
Ho sorriso.
Ha sorriso.
«La ragazza in carne ed ossa è ancora più bella.» ha detto e ha sorriso.
Ha sorriso, un sorriso largo e pieno, un sorriso schifosamente fiero ed orgoglioso.
Avrei voluto prenderlo a pugni e togliergli quel dannato sorriso dalle labbra.
Cosa diavolo hai da sorridere?
«Lo so bene.» ho detto.
Gli è caduto di mano il bicchiere e il vino si è rovesciato a terra e ha colorato di rosso le pareti bianche.
Ho sorriso di nuovo.
Mi ha costretto a voltarmi e mi ha guardato dritto negli occhi.
«Chi sei?»
«Non so se le basterà un quadro per cavarsela con Prudence.»
«Chi sei?» ha quasi gridato.
Qualcuno si è voltato e ci ha guardato, una giovane donna con i capelli biondi e gli occhi scuri si è precipitata accanto al non-padre, seguita da una ragazzina e una bambina che si somigliavano in modo impressionante.
E gli occhi blu del non-padre erano così furiosi, così spaventati.
«Ti piace la tua vita, Finbar? Sei felice di te stesso? Scommetto di sì, hai una bella casa, un bel conto in banca, una bella famiglia… » ho fatto un cenno con il capo alla donna bionda e alle sue figlie, non avrei voluto metterle in mezzo ma erano lì, erano lì e sembravano gridare lui-ormai-ha-scelto-noi-e-di-Lei-si-è-dimenticato «è importante la famiglia, non credi? Sono importanti i figli. Tu ci tieni, ai tuoi figli?»
Mi ha fissato e sembrava arrabbiato e ferito e umiliato e impaurito.
«Certo che tengo ai miei figli, non è nemmeno una domanda da porre ad un padre!»
«Un padre non lascia sua figlia nella merda senza farsi più sentire.»
«Non è andata così!»
«Ah no? E com’è che andata? Racconta, ti ascolto.»
«A te non sono tenuto a raccontare nulla!»
Mi ha afferrato per un braccio e mi ha trascinato fuori, fuori di casa, lontano da tutti quei volti, lontano dalla sua famiglia, dalla sua bolla di felicità.
Ha spalancato la porta e mi ha quasi sbattuto per terra.
«Non farti più rivedere o chiamerò la polizia!»
Stava per rientrare in casa.
«Ha una figlia.»
Si è fermato.
Mi ha guardato.
«Che cosa?»
Mi sono rimesso in piedi e ho tentato di scuoter via la terra dai vestiti.
«Che cosa hai detto?» ha chiesto di nuovo.
L’ho guardato e ho provato a cercarti dentro ai suoi occhi, cara Prudence, ci ho provato ma non c’eri.
Non c’eri su quel viso, non eri su quelle labbra sottili o in mezzo a quei capelli biondi, e nemmeno dentro a quegli occhi blu.
Non c’eri.
«Ho detto che sei diventato nonno. Congratulazioni, stronzo.»
Me ne sono andato, ma prima di allontanarmi ho visto un ragazzo alto, biondo, con gli occhi blu e un sorriso contagioso.
Era seduto sull’erba e parlava animatamente con una ragazza.
Indossava una maglietta con sopra la linguaccia dei Rolling Stones.
Ho sorriso e sono corso via.
 
 
 
Sono passati tre giorni da quella sera, tre giorni senza mangiare e dormire e lui avrebbe solo voluto parlarLe, avrebbe solo voluto stringerla forte tra le braccia e mi dispiace Prudence, mi dispiace per tuo padre, mi dispiace per la solitudine e mi dispiace se sei arrabbiata, ma non ne vale più la pena.
Ma non pensarci, non pensarci, tanto ormai se n’è andato.
Ma resto io, resto io anche dopo le lettere cattive e gli abbandoni senza spiegazioni.
Resto io.
Ma Lei non vuole che resti, ma Lei non ha più nulla da dirgli e lui resta seduto su una panchina, solo e con lo stomaco vuoto, una sigaretta tra le mani e davanti a lui tante vite che vanno avanti, che continuano, proseguono come se nulla fosse.
Tutto va avanti, avanti, avanti e cosa c’è lì davanti?
E lui vorrebbe ci fossero Prudence e i suoi occhi verdi.
E lui vorrebbe restare.
Ma Lei non vuole che resti.
E quindi è così? E quindi ci siamo rotti irreparabilmente, persi per sempre?
Non lo sa più con certezza.
Non sa niente con certezza.
Non sa cosa sia la certezza.
La sigaretta è finita, bruciata, caduta, schiacciata.
Alza gli occhi e pensa avanti, avanti, avanti e non lo sa, non lo sa se riuscirà ad andare avanti, così avanti, lì davanti.
Vorrebbe restare.
Ma Lei non vuole che resti.
 
 
 
 
Salve bella gente!
E mentre Ben si scatta le foto in mezzo alle piante grasse(il disagio di quest'uomo è un qualcosa di meraviglioso), io ritorno, dopo un mese di assenza, con un nuovo capitolo dei due sfigati che hanno proprio raggiunto il picco massimo di sfiga!
Anzitutto chiedo venia per il ritardone improponibilmente improponibile ma è un periodaccio, comunque spero l'attesa sia valsa la pena!
Il capitolo in questione ha subito numerose distruzioni e ricomposizioni e alla fine ho deciso di impostare l'incontro Barny/suocero(mi sa che un po' di disagio ce l'ho anche io, eh) in questo modo perché... perché sì, ecco.
E niente, ringrazio come sempre tutti i lettori(silenziosi e non) ed evaporo.
Hasta luego,
C.


 P.S: Ho deciso di togliere le foto e di non metterle più perché mi facevano un po' tribulare con l'editor ed alcune, a volte, scomparivano misteriosamente... verrà il giorno in cui andrò d'accordo con l'editor di efp.
Ma non è questo il giorno.
 

 

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Capitolo 13
*** Le buie solitudini ***


 
13. Le buie solitudini




Non sa quanto tempo possa essere passato, quante persone possa aver osservato, quante parole possa aver ascoltato o quante sigarette possa aver fumato.
Sa soltanto che nessuno verrà a sederglisi accanto, nessuno gli chiederà scusa per aver usato parole taglienti e nessuno medicherà la sua mano ferita e allora chi sta aspettando? E allora cosa ci fa ancora là?
Scuote la testa e si alza.
Non ha senso. Non ha più senso.
Cammina svelto verso la fermata della metro più vicina.
Biglietto-macchinetta-timbro-scale-un minuto di attesa-porte che si aprono svelte.
Si siede accanto ad un uomo brizzolato e con due occhi incredibilmente piccoli ed incredibilmente scuri.
Sospira, c’è parecchia gente ma nemmeno una parola, solo lo stridere delle ruote sulle rotaie e il buio indefinito che si muove fuori dai finestrini.
Il buio, il buio, il buio. Ancora buio, di nuovo buio.
Una signora con una cascata di capelli bianchi si appoggia stanca al suo bastone.
«Si sieda pure.» le dice alzandosi in piedi ed appoggiandosi ad un palo grigio.
La signora gli sorride gentile e si siede al suo posto.
«Grazie, giovanotto!»
«Di niente.»
Fissa la cascata di capelli bianchi e pensa che sia così perfetto, così giusto.
Capelli bianchi e chissà, chissà cosa c’era al posto del bianco tanti anni fa, chissà quale colore il tempo ha fatto sbiadire e chissà se anche lui sbiadirà, piano piano.
Chissà quando e chissà come sbiadirà.
Forse perderà ogni colore, diventerà bianco, bianco e così bianco da sparire.
Forse è questo che succede, alla fine. Forse non si muore ma si sbiadisce e basta.
E lui vorrebbe sbiadire con Prudence, vorrebbe sbiadire guardando gli occhi verdi di Prudence che non sbiadiranno mai e vorrebbe poter vedere i Suoi capelli troppo cresciuti diventare una cascata bianchissima, una cascata bianchissima che illuminerà i suoi bui veloci e indefiniti.
Ma forse sbiadirà da solo.
Scuote la testa, tenta di scacciare quel pensiero.
Ma forse sbiadirà da solo.
Non ci riesce, non si può scacciare un pensiero, non quando ormai è entrato silenzioso tra le fessure sottili della mente e resta in bilico tra mille altri pensieri.
Forse sbiadirà da solo. Forse io sbiadirò da solo.
Ha raggiunto la sua fermata, sorride alla signora e ai suoi capelli sbiaditi ed esce in fretta, si fa strada tra la calca, raggiunge le scale e riemerge.
Da sottoterra in superficie.
Chiude gli occhi e respira l’aria di Dublino e dei suoi prati verdi e dei suoi cieli grigi.
Dublino, Dublino, Dublino città maledetta, Dublino città dei sogni e quanto la odia, e quanto la ama; quanto vorrebbe non esserci mai andato, e quanto vorrebbe viverci il resto dei suoi giorni.
Vorrebbe sbiadire a Dublino e guardare i prati verdi sbiadire insieme a lui, vedere il lungo fiume venire risucchiato dalla terra e dal fango e sbiadire, sbiadire insieme a quella città.
Dublino città maledetta, Dublino città dei sogni.
L’hotel è a poco più di dieci metri di distanza, li percorre veloce ed entra dentro tentando di passare inosservato.
Prende le chiavi della sua stanza e sorride al receptionist.
Ha bisogno di qualcosa?
No, grazie, è già tutto perfetto.
Calca, accentua il tono sulla parola ‘perfetto’, vorrebbe pronunciarla con tutto il disprezzo possibile ma riesce ad usare solo un tono neutro, noncurante, indifferente, bianco.
Perfetto.
Sorriso.
Sale al piano superiore e raggiunge la sua camera, apre la porta e dà una rapida occhiata alla stanza.
«Franziska?»
Franziska non c’è, non è tornata.
Oppure è tornata ed è andata via di nuovo e forse ritornerà ancora, e lui non vuole che torni, lui non vuole sentire le sue domande, non vuole darle nessuna risposta. E devi sapere, Franziska, che a me non piacciono le parole, che io odio le parole e se potessi le prenderei tutte, una per una, e le spezzerei. E allora Franziska, sai cosa c’è? Usiamo il silenzio, il silenzio non fa danni, il silenzio non offende, non ferisce, non taglia, non manda affanculo nessuno. Il silenzio è perfetto-perfetto-perfetto.
Allora restiamo in silenzio, ti va?
Ma Franziska non è tipo da restare in silenzio, Franziska vuole parole e cene; anelli e fiori; abiti eleganti, candele e champagne.
E amore, vuole anche l’amore.
E lui non può dargliene, non potrebbe nemmeno volendo.
Lo ha già usato, forse sprecato, una ragazza con gli occhi verdi ha saputo solo maltrattarlo, ammaccarlo, tagliarlo e ferirlo con parole scritte e dette che lui non avrebbe mai voluto né leggere né sentire.
E quindi mi dispiace, Franziska, mi dispiace ma non si può, non posso darti l’amore che cerchi o le risposte di cui hai bisogno e quindi cosa ci facciamo insieme io e te? Cos’abbiamo da condividere? Cos’hai tu darmi e cos’ho io da darti? Mi è rimasto il nulla, niente, vuoto.
Ed è questo che vuoi? Il vuoto?
Mi dispiace, Franziska, mi dispiace.
Afferra dall’armadio il suo borsone nero e ci infila dentro un po’ dei suoi vestiti e delle sue cose, si muove svelto per la stanza, sembra quasi cerchi di scappare da non sa nemmeno lui chi o che cosa.
Quando gli sembra di avere tutto il necessario, tira un sospiro, poi prende carta e penna e lascia un biglietto sul letto.
‘Un paio di giorni, solo un paio di giorni. Ho bisogno della solitudine’
Assapora la parola.
Solitudine.
So-li-tu-di-ne.
La pronuncia a bassa voce, l’assaggia ad occhi chiusi.
Solitudine.
So-li-tu-di-ne.
Certe volte, durante quegli otto anni, ha dovuto nascondercisi dentro, ha sentito il bisogno di rifugiarsi nella parola, so-li-tu-di-ne, e in ciò che stava dietro la parola, pensava l’avrebbe fatto sentire meglio.
Lui c’era abituato, alla solitudine.
Da bambino ci passava insieme i pomeriggi in cameretta; da ragazzo ci leggeva insieme i libri o passavano la serata sul divano a guardare un gran bel film e lui pensava ma cosa posso volere di più? Ma c’è qualcosa che potrebbe mai farmi stare meglio? Io, la solitudine, una pizza e un bel film: di cos’altro ho bisogno?
Dopo aver letto quella lettera cattiva otto anni fa, dopo aver pronunciato l’ultima parola nera in fondo al foglio bianco – perdonami – lui avrebbe voluto ridurre in minuscoli pezzetti ogni parola, ogni centimetro di carta e no, non ti perdono, Prudence, non ti perdono ed ora mi alzo, mi rivesto e, cascassero le stelle dal cielo, vengo a riprenderti!
Invece no.
Invece aveva ripiegato con cura la lettera, se l’era infilata in tasca e si era seduto sul divano a leggere un buon libro.
Aveva pensato va bene così, non importa, non mi importa. Non voglio spiegazioni, non voglio scuse, non voglio niente perché a me di Lei non importa niente.
Tanto ho la solitudine.
So-li-tu-di-ne.
Ma mentre leggeva di Heathcliff e del suo amore martoriato, del suo cuore tradito e inaridito, sentiva le parole di Prudence bruciare nella tasca dei suoi jeans, e si era sentito proprio come Heathcliff, tanto che avrebbe voluto farci due chiacchiere.
Heathcliff, amico mio, siamo nella stessa merda. E mi spiace, mi spiace ma la colpa non è tua, non è mia e forse nemmeno di Catherine o Prudence. La colpa è dell’amore – se esiste – dell’amore e basta.
So-li-tu-di-ne.
Esce svelto dalla camera e si chiude la porta alle spalle, poi ritorna al piano terra, sorride di nuovo al receptionist, e si mischia alle gente di Dublino, alle strade di Dublino, ai prati, al grigio, al sole debole, al vento fresco e al verde, al verde, al verde.
C’è verde dappertutto.
Si blocca improvvisamente davanti alla fermata della metro.
Lui sa dove deve andare, sa dove può andare ma quel posto è un cimitero di ricordi che forse dovrebbe evitare accuratamente.
Ma c’è qualcosa che lo spinge, lo spinge giù per le scale, lo spinge oltre le macchinette e fino a dentro la metropolitana; qualcosa che lo spinge, lo spinge, lo spinge fino alla fermata per Merrion Square, a sud, sud della città; lì dove c’è pieno di verde, lì dove abitò anche Oscar Wilde, buon Dio, quell’uomo sapeva dire sempre la cosa giusta! Vorrebbe chiedergli qualcosa, Oscar, caro Oscar, hai niente da dire su questa situazione di merda? Non ce l’hai un aforisma anche per me?
E lì, lì tra il verde ed Oscar Wilde, c’era – e ci dev’essere ancora – il suo tetto sopra la testa in affitto.
Percorre con facilità tutta la strada, sarebbe capace di arrivare dove deve arrivare anche bendato, si ricorda di quando quel tragitto lo percorreva insieme a Prudence e lei parlava, parlava, parlava di cose grandi, cose astratte, cose inspiegabili e lui voleva starla ad ascoltare perché era così interessato, così affascinato, ma voleva anche baciarla, così, all'improvviso, lasciarla senza parole.
Alza il capo da terra ed eccolo lì, il suo tetto-sopra-la-testa-in-affitto, eccolo lì: l’arancione sui muri non è ancora sbiadito e, anzi, sembra essere stato riverniciato a dovere.
Si avvicina al portone.
Sa che non dovrebbe, sa che sta infrangendo delle regole ma il sole comincia ad essere così debole, il cielo così grigio e la pioggia, è sicuro che la pioggia stia arrivando.
Attraversa la strada e cammina fino al parco lì di fronte, si avvicina ad un grosso vaso di pietra con dentro dei pallidi ciclamini che lui ricorda bene.
 
Luke, ho deciso di tornare a Londra. Dove ti lascio le chiavi di casa?
Nel solito vaso.
Sei sicuro che non le troverà nessuno?
Nessuno cerca chiavi nei vasi, è così scontato che non lo fa nessuno.
 
Affonda le dita nella terra ancora umida di pioggia, scava a fondo, non riesce a trovarle.
Sbuffa e lascia cadere il borsone, infila anche la mano ferita nella terra. Dannazione, non le trova e dannazione quanto brucia!
Sta attento a non far sporcare la ferita e poi prova dall’altro lato del vaso, scava, scava e sente la terra infilarsi sotto le unghie, ma non possono non esserci, nessuno può averle prese, nessuno cerca chiavi nei vasi.
Affonda per bene le dita e sente qualcosa di freddo e duro contro le falangi, allunga la mano sinistra e afferra l’oggetto misterioso.
Ritira la mano ed eccole, le sue chiavi, forse un po’ sporche e malridotte, ma ci sono.
Sorride, ha le mani infangate ma non importa: adesso ha quello che voleva.
Afferra il borsone e ritorna davanti al portone, senza esitazione infila nella serratura la prima chiave, lunga e spessa.
Pack.
Entra titubante nell’atrio che odora di limoni, sale svelto le due rampe di scale ed arriva al secondo piano.
Porta scura a destra.
Adesso c’è, l’esitazione. Adesso ha paura di infilare la seconda chiave, di scoprire se qualcun altro è entrato in quel dannato posto o se è rimasto tutto come prima, se nulla è cambiato e forse c’è ancora il letto mai rifatto, lasciato così com’era; forse c’è ancora la persiana aperta dall’ultima notte in cui ha bevuto un po’ della sua birra preferita e ha guardato i tetti di Dublino pensando Prudence, Prudence, Prudence.
Chiude gli occhi, prende un bel respiro e infila la chiave.
La serratura fa un po’ di resistenza, tiene gli occhi chiusi e gira la chiave con decisione.
Un rumore secco. La porta è aperta.
Sospira, riapre gli occhi ed entra, non ha scelta, è arrivato fino a lì e deve entrare, deve affrontare il passato, i ricordi e il tempo che non lo ha aspettato.
Non c’è più l’odore di pulito che c’era di solito, c’è polvere sparsa sul pavimento e sulle mensole.
Avanza di qualche passo e riecco la piccola cucina con le sedie colorate e scomode, sposta lo sguardo e riecco il salottino con il suo divano bianco e il tappeto pieno di polvere, alza gli occhi verso la persiana ed è aperta, è ancora aperta.
Lascia cadere a terra il borsone e si precipita nel corridoio dietro al salotto, c’è una porta chiusa, ci appoggia contro una guancia e chiude gli occhi, oh se lo ricorda, se lo ricorda com’era prima, se lo ricorda chi era prima.
Gli sembra di essere tornato quel ragazzo e gli scappa un sorriso.
Appoggia la mano sulla maniglia e spinge, e un’altra porta si apre.
Ci sono ancora le finestre sbarrate e la stanza è buia e fredda, riesce comunque a vedere il letto che è esattamente come lo ha lasciato, come lo hanno lasciato.
Si avvicina lentamente, si siede e prende le lenzuola tra le mani sporche di terra e di sangue secco, annusa. Nessun odore.
Non c’è più nessun odore.
Nasconde il viso tra le lenzuola e, non vorrebbe, ma si sente così piccolo e perduto e pieno, pieno di solitudine e piange, non può fare altro che piangere.
Piange, piange, piange e poi, dopo tre giorni senza mangiare e dormire, con le mani sporche, troppi ricordi in testa, una ferita da curare ed un vuoto dentro da riempire, si addormenta su quel letto che ha visto passare otto anni in un buio veloce e indefinito, su quel letto che ha perso il suo odore, il loro odore.
 
 
 


Salve, mia belle ciurma!
Ho fatto ancora un(bel) po' di ritardo ma è un periodaccio e in più non riesco mai ad essere totalmente soddisfatta di ciò che scrivo e quindi spesso, pur avendo capitoli già pronti, non mi regge il cuore di pubblicarli!
Questo è un capitolo di passaggio che spero non vi abbia annoiati troppo, in tal caso perdonatemi! Posso già anticiparvi che nel prossimo capitolo Ben si farà finalmente due chiacchiere con Prudence(a questo punto speriamo che lei non lo mandi di nuovo a quel bel paese!)(ma alla fine non è nemmeno colpa di Prudence ma mia, che sono l'autrice, però vabbé)
Cooomunque, la storia ha cambiato titolo ed è diventata 'Cara Prudence' perché lo trovo molto più adatto, spero di non aver generato confusione!
E niente, siccome il mio disagio ultimamente è stato amplificato dalla visione della seconda stagione di Sherlock(?!?!?!?!) e sto chiaramente comiciando a disagiare improponibilmente(?), forse è meglio se sloggio.
Un grazie come sempre a chi spende un po' del suo tempo per leggermi, grazie davvero!
A presto leggerci,
C.


P.S: Per i lettori che mi sopportano anche fuori dallo splendido fandom di Barny, sappiate che presto pubblicherò una storia a quattro mani su questo account--------> 
http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=794585 che ho il piacere di condividere con la splendida Duvrangrgata Efp.
Hasta luego!

               
 
 
 

 

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Capitolo 14
*** Ogni giorno. Ogni cosa. ***


14. Ogni giorno. Ogni cosa.


Quando riapre gli occhi il buio è ancora calato su di lui, nessuna luce oltre le finestre sbarrate.
Si mette a sedere, ancora intorpidito dal non-sonno da cui si è appena risvegliato.
Non riesce a vedere nulla ma sente, e sa, che le sue mani sono ancora sporche e impastate di terra e di sangue rappreso.
Si guarda attorno, la stanza ingoiata dal buio, profumo di nulla e sembra quasi che ci sia, nascosto in qualche angolo oscuro, un groviglio rumoroso di ricordi a cui lui non è ancora pronto ad andare incontro.
Si alza ed esce svelto dalla stanza, richiudendosi la porta alle spalle.
Ritorna in salotto, illuminato dalla tipica luce fioca del mattino, si avvicina alla persiana aperta con occhi socchiusi e si sporge per osservare.
Dalla sua finestra – se lo ricorda bene – si riuscivano a scorgere i tetti e le case di Dublino, tetti e case dai colori insoliti; ce n’erano di arancioni, bianco panna, gialle, azzurre e verdi, ce n’erano anche di verdi e lo facevano sorridere, e gli piacevano, gli piacevano da matti.
Otto anni fa, se non era con Prudence, gli piaceva appoggiare i gomiti al davanzale, fumarsi la sua sacrosanta sigaretta e guardare quelle case e pensare, chissà, forse un giorno vivrò anche io in una casa verde, insieme a Prudence, e qualcuno, dal suo davanzale, mi guarderà domandandosi come sarà il futuro.
Appoggia ancora i gomiti al davanzale e si sporge, si sporge e le case ci sono ancora, non sono sbiadite, non si sono fermate quando lui se ne è andato; la gente ha continuato a viverci dentro e chi se ne importa se quel ragazzo non ci fissa più con la sua sigaretta!
Abbassa lo sguardo sulla strada, ci sono solo due o tre passeggiatori solitari e un bar con l’insegna al neon ancora accesa.
Otto anni fa, se non poteva passare la notte con Prudence perché Lei doveva lavorare, si affacciava alla finestra, digitava il Suo numero al telefono e La chiamava, restava ad aspettare appeso a quella linea telefonica dal suono un po’ arrugginito.
 
Tututu.
                                                     
Pronto?
Stavo pensando che… i Beatles.
I Beatles?
Ti conoscevano.
Mi conoscevano?
Direi anche molto bene.
E come fai a dirlo?
Perché sei tu.
Io?
Dear Prudence, sei tu. Non puoi che essere tu! I Beatles ti conoscevano.
Come fai ad esserne sicuro?
Perché è così, cara Prudence, è così.
E se invece si riferissero ad un’altra Prudence?
Non esistono altre Prudence.
Davvero?
Davvero.
Quindi sono l’unica Prudence al mondo?
L’unica Prudence nell’intera galassia e l’unica Prudence di questa e di tutte le dimensioni esistenti.
Sicuro?
Ho controllato personalmente!
Cavolo!
Cosa c’è?
Allora i Beatles mi conoscevano.
Te l’ho detto.
Scusami, Benjamin.
Per cosa?
Se lo avessi scoperto prima, ti avrei portato ad un concerto di George Harrison.
 
Tututu.
 
Sorride mentre alza lo sguardo verso il cielo ancora scuro e inspira l’odore di un giorno nuovo, un giorno che può cambiare la cose, può migliorarle o peggiorarle.
Raddrizza la schiena mentre ripensa alle parole di suo padre, ogni giorno può cambiare ogni cosa.
Ogni giorno.
Ogni cosa.
Ogni giorno.
Ogni cosa.
Infila la mano nella tasca del jeans ed estrae il cellulare.
Lo accende.
Sono le cinque e cinquantatré del mattino, forse è troppo presto ma è sicuro che Lei sia sveglia, che Lei sia da qualche parte a mettere in ordine dei libri al posto giusto, oppure a raccogliere le tazzine vuote delle gente di Dublino. Oppure nel suo letto con gli occhi verdi fissi al soffitto.
Prudence fa fatica ad addormentarsi, se lo ricorda; si ricorda di quando passavano la notte insieme e Lei si raggomitolava sul suo petto e respirava affannosamente e allora lui le accarezzava i capelli.
Cara Prudence.
Cara Prudence.
Cara Prudence.
Digita un numero che conosce a memoria e resta appeso alla linea telefonica arrugginita.
Uno squillo.
Due squilli.
Tre squilli.
Tututu.
«Pronto?» la voce di Occhi Verdi si infila delicata nel suo orecchio, vorrebbe parlare di nuovo dei Beatles e ridere con Lei, ma sa che non può.
Resta in silenzio.
«Pronto?»
Resta in silenzio.
«Chi c’è dall’altra parte? Avanti, dì qualcosa!»
«Prue.» sussurra, il silenzio si infiltra anche dall’altro lato della linea telefonica.
Tututu.
«Prudence, ascolta…» ma Prudence non ascolta. Prudence riattacca.
Sospira, seccato.
Digita di nuovo il numero, è certo che Lei non risponderà ma vuole riprovarci, vuole farle sapere che lui c’è, lì a qualche chilometro di distanza lui c’è, è sveglio e la sta pensando.
Tututu.
«Pronto.» stavolta non è una domanda, stavolta il tono ha perso un po’ di delicatezza e sembra più duro e fermo e impenetrabile.
«Stai lavorando?»
«No.»
«Non riesci a dormire?»
Nessuna riposta.
«Nemmeno io.»
«Interessante.»
«Parliamo un po’?» le propone, titubante.
«Di cosa?»
«Non so. Sai che le comete sono come le lucertole?»
«Le lucertole?»
«Per via della coda.»
«Cioè?»
«Hanno una coda fata di ioni e, quando si avvicinano al sole, se c’è un vento solare molto forte la perdono. Come delle lucertole.»
Silenzio.
Occhi Verdi non gli risponde, ma dev’essere ancora là, appesa anche Lei a quel gracchiare telefonico che li tiene uniti.
«Sei ancora lì?» le chiede.
«Sì.» la sente farfugliare.
Forse Lei vorrebbe riattaccare ma si sente in colpa, si sente in colpa per quel ‘vaffanculo’ e prova tanta pena per lui.
Forse Lei adesso sì, adesso riesce a dormire senza alcun problema, non ha più incubi o pensieri troppo grandi a tenerla sveglia; forse adesso non ha più bisogno né del suo petto né delle sue carezze né delle sue parole.
E magari è stanca e vorrebbe che lui la lasciasse stare, che la smettesse di insistere.
Ma probabilmente non ha più nemmeno la forza di mandarlo al diavolo.
«Scusa, ti lascio in pace.» sospira, e fa per chiudere la chiamata.
«Aspetta, resta!»
Rimane appeso alla linea telefonica, la speranza che gli cresce improvvisamente nel petto.
«Cosa c’è?»
«Parla ancora un po’.»
«Perché?»
«Non riesco a dormire, lo sai.»
Sorride.
Ogni giorno può cambiare ogni cosa.
«Di cosa dovrei parlare adesso?»
«Non lo so, dimmi qualcosa.»
«Che cosa?»
«Le prime parole che ti vengono in mente.»
«Cara Prudence.»
Nessuna risposta ma è sicuro che Lei sia ancora lì e vorrebbe vederla, vorrebbe sapere quale espressione c’è adesso sul suo viso, se i suoi occhi verdi si sono illuminati; se le sue labbra carnose si sono curvate in un sorriso.
La sente respirare, ascolta ogni respiro e sorride, sorride perché, a qualche chilometro di distanza, Lei c’è, Lei non ha riattaccato, Lei è rimasta appesa ad un filo gracchiante e arrugginito che li lega, li lega e gli ha chiesto di parlarle, di dirle qualcosa, come se fossero tornati indietro di otto anni, come se il tempo non avesse cambiato le cose.
E allora c’è, c’è una possibilità. C’è uno spiraglio in cui lui può e vuole infilarsi.
«Quindi mi hai mandato affanculo.»
«Sembrerebbe di sì.»
«Ma non volevi farlo.»
«Non volevo?»
«No. Hai lasciato che la rabbia prendesse il sopravvento.»
«Cosa?»
«Si chiama lapsus freudiano
«Ah, il buon Freud!»
«Freud sapeva un sacco di cose.»
«Ne sei sicuro?»
«Certamente.»
«E se invece avessi davvero voluto mandarti affanculo?»
«Non saremmo qui a parlare di Freud.»
Lui sa, sa che dall’altra parte di quel telefono, è appena nato un sorriso.
Smette di parlare.
Lei non gli chiede di continuare a parlare.
Nessuno riattacca.
Il gricgric della linea invisibile che li unisce riempie gli spazi vuoti lasciati dal silenzio.
«Benjamin, sei ancora lì?»
«Sì.»
«Dovresti andare.»
«Dove?»
«Via.»
«Non posso.»
«Perché?»
«L’inconscio.»
La sente sbuffare rumorosamente.
«Il tuo inconscio ti ucciderà.»
«Forse. Ma tu puoi salvarmi, dopotutto: non sei forse la mia ancora di salvezza?»
«La vita è più complicata di una canzone degli Oasis, Benjamin.»
«Dici?»
«Te lo assicuro.»
«Bé, cara Prudence, nessuno sa cosa accadrà domani, cerchiamo di non mostrare quanto siamo spaventati. Se mi ami, ti proteggerò come posso. Devi credere che alla fine andrà tutto bene.»
«Questi sono i Duran Duran, What Happens Tomorrow, giusto?»
«Precisamente!»
Silenzio.
Si sente stranamente leggero, quel grosso masso nel suo petto deve aver cominciato a sgretolarsi parola dopo parola. Vorrebbe ridere, ma resta zitto e ascolta il respiro regolare di Occhi Verdi che lì, da qualche parte, chissà cosa starà pensando.
«Devo chiudere, Ben.»
«Aspetta!»
Nessuna risposta, ma sa che Lei è ancora lì.
«Perché stasera non ci vediamo?»
«Benjamin…» non conclude la frase, le parole – chissà quali parole – restano appese al gracchiare telefonico.
«Stasera per l’ultima volta. E se siamo davvero senza speranze, prometto di scomparire.»
Il silenzio dall’altra parte del filo persiste, ma Lei c’è, è ancora attaccata alla linea e lui può sentirla respirare.
«Prue?»
«Dove?»
«A casa mia.»
«E dov’è casa tua?»
«Ma come, non ti ricordi?»
 
 
 
Quando si abbandona una cosa, nella maggior parte dei casi, questa smette di funzionare.
Basta prendere come esempio questa casa piena di polvere, in cui le luci non sanno più accendersi e l’acqua non sa più scaldarsi.
Il getto gelido della doccia lo fa sussultare, chiude gli occhi e appoggia la fronte contro le piastrelle bianche e umide.
Si sente estremamente vicino alla casa in cui si è infiltrato, gli sembra di nuotare in un lago di fango che ha mangiato ciò che prima era pulito e stabile.
Le rovine di una casa. Le rovine di una storia.
Gran bella simmetria!
Mentre lava via i suoi giorni senza cibo e senza sonno, pensa che forse sua madre aveva ragione, che forse è vero che niente si rompe irreparabilmente e nessuno si perde per sempre.
Sì, il suo tetto sopra la testa in affitto non è certo splendido come un tempo, ma basterebbe pagare qualche bolletta per riavere indietro luce e calore; basterebbe pulire per cacciar via la polvere e le ragnatele e l’odore di abbandono e allora, allora se si può aggiustare una casa, perché non si può aggiustare una storia?
Si stringe nel suo accappatoio blu ed esce fuori dalla doccia e Prudence, cara Prudence, allora anche per noi sarà così semplice, non sempre tutto è difficile, ci basterà illuminare i nostri bui, scaldarci un po’ e spolverarci e poi vedrai, vedrai se non ritorneremo in piedi e forse sarà anche meglio di prima!
Fissa l’uomo nello specchio un po’ appannato.
Non ha un bell’aspetto, i capelli avrebbero bisogno di una bella sistemata e la barba andrebbe decisamente spuntata; sotto ai suoi occhi arrossati ci sono due occhiaie che lo fanno sembrare così stanco e disperato.
Si guarda le mani: almeno adesso sono pulite e niente più terra sporca tra le dita.
Sulla mano destra c’è ancora una grossa ferita sanguinante, se la fascia con una garza sottile e bianca che fa in fretta a sporcarsi.
Sbuffa. Non ha proprio tempo per occuparsi di quel dannato squarcio e dei suoi residui di vetro che bruciano, e come bruciano!
Afferra svelto il suo rasoio e la schiuma da barba dal borsone e cerca di rendersi presentabile, ma la mano gli trema e non può, non riesce a farla star ferma e ogni minimo gesto lo fa sussultare.
Alla fine la barba non c’è più, ma sulle sue guance restano due o tre taglietti che bruciano in modo insopportabile.
Si asciuga e si riveste in fretta, lascia la porta del bagno aperta e si mette all’opera.
Il cielo di Dublino, dopo una giornata di sole, sta scurendosi a poco a poco e lui non ha l’elettricità, ma ha le candele, le candele nel secondo cassetto a destra del mobile in cucina e se lo ricorda, lo ricorda come se avesse continuato ad abitare lì anche in quei lunghi, lunghissimi otto anni.
Ne prende una decina e le posiziona in punti sparsi del salotto, sulle mensole o sul tavolino di fronte al divano bianco, candele dappertutto che illuminano una casa abbandonata.
Si guarda intorno soddisfatto e sorride, poi si siede sul divano e stappa una delle birre che ha comprato nel pomeriggio.
Conta i minuti, non sa se è un bene sentirsi ottimisti o se non dovrebbe dar forma ad alcuna illusione.
Lui sa che basta poco per cadere dal filo che tiene in equilibrio la sua storia interrotta, sa che basta anche solo una parola sbagliata per crollare, sbattuto per terra.
Ma forse oggi sarà diverso, basta un giorno per cambiare tutto.
Ogni giorno può cambiare ogni cosa.
Ogni giorno.
Ogni cosa.
Ogni giorno.
Ogni cosa.
Continua a ripeterselo nella mente, la voce calda e rassicurante di suo padre che si espande nella sua testa, stavolta aggiusterà tutto.
Se si può aggiustare una casa abbandonata, si può aggiustare una storia abbandonata.
Chiude gli occhi e si abbandona contro lo schienale del divano.
Si addormenta.
Cade in un buio ampio e sconfinato, una voragine senza fondo e si sente come una goccia di pioggia troppo lontana dal suolo.
Precipita, precipita senza mai precipitare davvero e quando gli sembra di essersi infranto a terra sente un rumore di unghie che grattano sulla porta di casa sua.
Riapre immediatamente gli occhi e fissa la porta nera.
Ogni giorno.
Ogni cosa.
Si passa una mano tra i capelli ancora umidi e sospira.
«È aperto.» dice.
Ogni giorno.
Ogni cosa.
 
 
 



Ave o ciurma(?)!
Come ve la passate?
Daje, a 'sto giro il ritardo non è stato così improponibile!
Comunque, vi dirò la verità: io avrei voluto mettere subito il pezzo dell'incontro Ben/Prue a casa di Barny, ma dato che se lo avessi fatto il capitolo sarebbe stato lungo all'incirca ventordici pagine, ho dovuto mollare sul più bello!
Ma il prossimo capitolo è già quasi pronto e quindi settimana prossima sarà già pubblicabile ;)
Per il resto... mah, non posso far spoiler su ciò che sarà(maperché?), ma intanto spero che queste conversazioni telefoniche non vi abbiano annoiato troppo e... niente, smammo!
Grazie come sempre a chi legge, grazie di cuore!
C.

 
 
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 15
*** L'arte di riempirsi ***


15. L'arte di riempirsi




Occhi Verdi indossa dei pantaloncini neri e una maglia grigia troppo lunga e troppo larga che le lascia scoperta una spalla.
«Buonasera.» le dice.
«Non dirmi ‘buonasera’.»
«Perché?»
«Perché non mi piace.»
«Perché non ti piace?»
«Tu non dirmelo e basta.»
«Buonasera.»
Lei lo fissa, come lo fissa? Lui non lo sa, non sa decifrare gli sguardi, i Suoi sguardi, ma poi come si fa a decifrare uno sguardo?
Lei lo fissa. Lo fissa punto e basta.
«Buonasera.» ripete «Non vuoi sederti?» le chiede e fa un cenno con il capo al posto accanto al suo, così vuoto e freddo, vieni a riempirlo, Prudence, vieni a scaldarlo.
Lei si avvicina, sembra a disagio, si guarda intorno e sembra voglia scappare, correre via, lontano.
Ma lo ha già fatto, è già scappata, corsa via, lontano.
Troppo lontano.
Si siede, cerca di mantenere quanta più distanza possibile tra il suo corpo e quello di Occhi Bui, ma che divano stretto! Non può allontanarsi tanto quanto vorrebbe, non può scivolare ai bordi, i bordi di un divano, i bordi di una casa, i bordi di un parco, i bordi di una spiaggia, i bordi di una città, i bordi di un mondo.
I bordi di una storia.
E i loro bordi, i bordi della loro storia, sono troppo vicini, ancora troppo vicini e così tanto vicini che Lei riesce a sentire odore di dopobarba, borotalco e un soffio di alcol e vorrebbe chiudere gli occhi, avvicinarsi solo qualche centimetro in più ed annusare, annusare quel buon profumo che sa di otto anni fa, che sa di quando le bastava solo un istante con Occhi Bui per scordarsi dei problemi.
Dopobarba, borotalco, alcol.
Madri che piangono, fratellini a cui badare, padri che scappano, case che scivolano via.
Dopobarba, borotalco, alcol.
Ma che importa? Che importa?
«Bevi qualcosa?» le chiede Occhi Bui, e manda giù un sorso di birra.
«Non mi piace…»
«… l’alcol. E le bottiglie piene di alcol e le persone piene di alcol. Me lo ricordo.»
«Allora non dovresti chiedermelo.»
«Magari sei cambiata. Si dice che il tempo cambi le persone.»
«A me non piacciono né il tempo né i cambiamenti.»
«Né le persone che ti dicono ‘buonasera’.» le sorride. Un altro sorso di birra e punta gli occhi bui sul pavimento.
Silenzio.
E quanto pesa il silenzio!
Se avessero chilometri di distanza tra loro e solo un filo gracchiante a tenerli uniti, allora sì che saprebbero riempire facilmente il silenzio: parlare è molto più semplice senza guardarsi negli occhi.
Ma adesso non c’è niente che li divida, niente che li nasconda e nessuno dei due sa più cosa dire.
Occhi Verdi armeggia con le maniche della sua maglietta troppo lunga, sembra così tesa e quasi spaventata, Lui vorrebbe poggiare una mano sulla sua spalla nuda e Prudence, cara Prudence, non avere paura, ormai non c’è più niente di cui avere paura.
Le si avvicina, dopobarba-borotalco-alcol, allunga una mano, dopobarba-borotalco-alcol, le sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio, dopobarba-borotalco-alcol, Occhi Verdi si scosta velocemente, si fa più vicina al bordo del divano e abbassa lo sguardo.
Occhi Bui sospira. Un altro sorso di birra e ormai la bottiglia è vuota, andata, bevuta, finita.
Si alza, butta la bottiglia vuota nel cestino in cucina, poi torna a sedersi e ne prende un’altra dalla confezione appoggiata sul tavolino, proprio accanto a due candele.
Le candele!
Potrebbe parlarle di candele, di quando Lei gli diceva che a casa Sua non c’era elettricità ma, niente panico, Lei sapeva ritrovare la luce usando le candele; sapeva svuotare il buio con le candele e non le importava più nulla, della mancanza di elettricità, della mancanza di un padre o di una madre.
Prudence sa sopravvivere alle mancanze.
«Un’altra?» gli chiede Occhi Verdi, indicando la bottiglia di birra tra le sue mani.
«Un’altra.»
Fa per stapparla ma Lei gliela toglie di mano, poi afferra la confezione sul tavolo, va in cucina e butta tutto nel cestino.
Torna a sedersi.
Lui la osserva, le sopracciglia curve in un’espressione perplessa.
«Che cosa… ?»
«Il tuo fegato mi ringrazierà.»
«Che t’importa del mio fegato?»
«Non m’importa niente del tuo fegato, mi fa solo pena.»
«Il mio fegato ti fa pena? Perché, ci hai parlato?»
«No, ma se ci parlassi mi direbbe che è intrappolato nel corpo di un idiota.»
Silenzio. Un altro.
Lui se lo terrebbe volentieri, il silenzio. Gli piace, ha imparato a farselo piacere perché sa, adesso sa, che le parole hanno poteri troppo grandi, troppo spaventosi. Le parole sanno rovinare tutto e tutti.
Ma Occhi Verdi non ama i silenzi, Lei vuole parlare, anche del nulla; Lei vuole riempire i silenzi, cancellarli perché le pesano sulle spalle, la mettono a disagio, la fanno sentire nuda e piccola e fragile. Ma le parole no, le parole sono diverse, le parole sanno circondarla e stringerla e ripararla e Lei ne ha bisogno, ha bisogno delle parole.
«Come stai?» gli chiede, e spezza il silenzio.
«Mi chiedi come sto?» la guarda, seccato.
«Sì, perché?»
«Me lo stai chiedendo sul serio?»
«Perché, c’è qualcosa di sbagliato?»
«No.»
«E allora?»
«E allora non dovresti farmi domande a cui puoi rispondere da sola.»
Lei non replica: sa che Occhi Bui ha ragione.
Basta guardarlo in faccia per capire come sta, basta osservare i suoi occhi neri-neri-neri così arrossati e stanchi, le occhiaie fin troppo evidenti; i capelli troppo cresciuti e la barba appena fatta che ha lasciato al suo posto qualche piccolo taglio.
E quella mano avvolta in una garza sporca di sangue.
Vorrebbe avvicinarglisi e lasciargli poggiare il capo sulla sua spalla nuda e dirgli che le dispiace, le dispiace per la sua mano ferita, per i taglietti sulle sue guance, per le occhiaie di chi non dorme più da troppo tempo e per quegli occhi neri e stanchi.
Ma resta lontana, vicino al suo bordo, aggrappata con le unghie al bracciolo del divano, e non può, non riesce a spostarsi neanche di mezzo centimetro.
«Benjamin, perché siamo qui? Cosa vuoi?»
«Anche a questa domanda puoi facilmente trovare una risposta da sola.»
«Bé, allora mi spiace» Occhi Verdi si alza in piedi «ma io e te non finiremo per sempre felici e contenti. E tu non puoi farci nulla, fattene una ragione.»
«Per farmene una ragione mi serve una spiegazione.»
«Una spiegazione a che cosa?»
«Al fatto che non possiamo aggiustarci. Dammi una spiegazione, dimmi perché e poi, te lo giuro, sparisco dalla tua vita per sempre.»
«A volte non c’è una spiegazione.»
«Invece c’è, c’è sempre una spiegazione. C’è una spiegazione per i buchi neri, c’è una spiegazione al riflesso condizionato; una spiegazione su come montare bene un tavolo o preparare un buon piatto di pasta. E allora c’è, ci deve essere una spiegazione, un perché anche per noi due.»
Lei scuote la testa e non riesce a guardarlo, non riesce a guardare occhiaie-taglietti-occhi stanchi-mano ferita, non può.
Gli volta le spalle e punta gli occhi verdi contro la parete di fronte illuminata dalle candele; e resta a guardare il bianco sporco del muro, la polvere sulle mensole e tra i DVD appoggiati uno all’altro e le ragnatele che pendono dal soffitto.
Vorrebbe poter aggiustare quella parete, le dà fastidio vederla così ridotta.
Vorrebbe riverniciala di un bianco luminoso, togliere la polvere dalle mensole e rimettere in ordine i DVD, e raccogliere, raccogliere tutte le ragnatele e gettarle via.
Parete nuova, pulita, spolverata e ancora in piedi, mai crollata e le piacerebbe, le piacerebbe poter essere una parete spessa e solida, nascosta in una casa calda e profumata; ritta in piedi di fronte ad un divano su cui due innamorati si abbracciano stretti senza bisogno di parole.
Sente il fiato di Occhi Bui sulla sua pelle, le sue dita gentili che si stringono attorno alla Sua spalla nuda e le labbra che si accostano piano al Suo orecchio.
«Non andare via.»
Vorrebbe trovare la forza di voltarsi e abbracciarlo stretto e devi sapere, caro Occhi Bui, che le persone si riempiono a vicenda, che il mondo non è poi così grande e che niente succede per caso.
Devi sapere, caro Occhi Bui, che le persone non sono altro che vasi di carne destinati a riempire e riempirsi e non sai quanti scambi astratti e invisibili che accadono ogni minuto, ogni istante in questo mondo!
Devi sapere, caro Occhi Bui, che le persone possono, le persone sanno legarsi strette come nodi su una fune spessa; che esistono fili fatti apposta per legare gli esseri umani e che tra me e te c’è un filo stretto, un laccio ben legato che non ci permette, che non mi permette di andare via.
E queste verità assolute – fidati che sono assolute e incontrastabili – le ho scoperte in questi otto anni e le ho raccontate a mia figlia, quando ancora non sapevo che forma avesse, quando ancora non sapevo come potesse essere il suo viso; quando ancora non potevo immaginare quanto sarebbe stato bello guardarla aprire gli occhi per la prima volta, sentirla piangere perché ha bisogno di me e del mio latte; guardarla camminare con la sua andatura da papera e inciampare ogni due passi.
«Non andare via.» ripete Occhi Bui e Lei si volta, occhi neri e stanchi-occhiaie-taglietti sulle guance-mano ferita sulla sua spalla nuda, chiude gli occhi, dopobarba-borotalco-alcol, avvicina il viso a suo e non può fare altro che baciarlo.
Lo bacia, lo bacia come se potesse ricucire i tagli, lenire il bruciore, cancellare le occhiaie e la stanchezza e la tristezza; lo bacia come se potesse far risplendere la parete e l’intera casa; come se potesse riavvolgere il lungo filo del tempo e rimettere le lancette indietro di otto anni e forse ci riusciranno, un giorno.
Si dice che esistano dimensioni spaziotemporali in cui il tempo può essere ripercorso, mandato avanti e indietro secondo leggi precise della fisica e chissà che non sia possibile anche per loro!
Ma adesso importa poco.
Adesso il tempo potrebbe anche non esistere ed esistono solo Occhi Bui ed Occhi Verdi e le loro labbra che sanno riparare tagli e squarci che sembravano insanabili.
Esistono solo vestiti inutili che cadono a terra, mani che si intrecciano e un pavimento troppo freddo contro la loro pelle; e lui vorrebbe essere delicato, vorrebbe saper usare un tocco lieve e leggero sulla pelle di Occhi Verdi ma c’è un gran bisogno di stringerla che pulsa sotto la sua carne, e si spinge, si spinge dentro al corpo della ragazza che ha tra le braccia, stringe forte le Sue mani e non la sente neanche più, la ferita di vetro nella carne, adesso va bene, va tutto bene
Adesso non ci sono più vuoti incolmabili dentro al suo petto, adesso non ci sono più mancanze che non lo fanno dormire la notte, adesso c’è tutto, adesso è completo e pieno, così pieno da poter scoppiare.
Nasconde il viso nell’incavo del Suo collo e resta ad aspettare che i respiri ritornino regolari e che i cuori si calmino e sorride, sorride nascosto tra la pelle e i capelli cresciuti di Occhi Verdi perché ora sì, ora sì che sta bene.
 
 
 
 
Il freddo duro del pavimento lo costringe a svegliarsi, apre gli occhi nella luce di cera che illumina la stanza ed Occhi Verdi è lì, girata verso di lui ed ancora addormentata.
Si alza in piedi e recupera i pantaloni, poi prende Prudence tra le braccia e la porta in camera sua, camera loro.
La adagia piano sul letto e la copre con le lenzuola, poi le si stende accanto e le bacia la fronte.
Lei apre gli occhi e si guarda attorno, il ricordo di quella stanza le toglie quasi il fiato. Si mette a sedere e si stringe le ginocchia al petto.
«Tutto bene?» le chiede.
«Assolutamente no.»
«Perché?»
«Non so cosa dire.»
«Non sai cosa dire?»
«Proprio no.» scuote la testa e lo fissa con i suoi grandi occhi verdi.
«Magari non c’è niente da dire.» con la mano ferita le sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio, Lei lo afferra per le dita, toglie la garza sporca dalla sua mano e studia la ferita irregolare che gli taglia la pelle.
«Magari dovresti curare questa ferita, che ne dici?»
«È un graffio.»
«E com’è che ti sei graffiato
«È una storia troppo cruenta, meglio se non te la racconto… magari ne resti impressionata.»
«Sono una donna forte, posso sopravvivere.»
«Sicura?»
«Sicurissima.»
«Okay, allora: ho tirato un pugno ad uno specchio.»
Si mette a sedere e Lei lo osserva, perplessa.
«Cosa ti aveva fatto quel povero specchio?»
«C’era un tizio dentro che continuava a fissarmi.»
«Ti fissava?» gli chiede e sorride.
«E con che insistenza!»
«Ah, io non sopporto la gente che fissa altra gente!»
«Nemmeno io.»
«Hai fatto bene a tirargli un pugno.»
«Lo so.»
La bacia, posa le mani sulla Sua schiena e la bacia, la bacia, la bacia finché Lei non lo ferma e abbassa lo sguardo.
«Adesso devo andare.»
«Perché?»
«Devo andare.»
Si alza, avvolta nel lenzuolo bianco, e torna in salotto a recuperare i suoi vestiti.
Lui la segue e resta a guardarla mentre si riveste, poi i loro occhi si incontrano e Lei accenna un sorriso.
«Quando ci rivediamo?»
«Non lo so, oggi lavoro fino a dopo mezzanotte.»
Lui annuisce e abbassa lo sguardo, poi la sente avvicinarsi e prendergli il viso tra le mani.
«Guarda che non sto scappando.»
«Lo so, altrimenti avrei già messo un bel lucchetto alla porta.»
Gli sorride, poi avvicina le labbra al suo orecchio e «Buon Compleanno, Ben» sussurra, gli schiocca un bacio sulla guancia e se ne va.
 
 
 
 


...
Ciao, ciurma di lettori!
Mi trovo nell'insolita situazione di non sapere proprio cosa dire, non mi viene nemmeno da sparare una delle mie solite boiate, sarà colpa del capitolo? Sarà colpa della serie tv di Sherlock che mi sta facendo disagiare alla stragrande? Chissà!
Però ho ancora qualche parola per poter ringraziare, come sempre, chi legge.
A presto,
C.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 16
*** Coniglio ***


16. Coniglio



Da quando ha cominciato a fare il suo lavoro, i compleanni gli sono diventati tremendamente antipatici.
Un miscuglio disordinato di chiamate, gente che a distanza di un oceano gli ripete le solite parole;  sua madre e la sua voce un po’ soffocata mentre gli chiede di raccontarle tutto ciò che ha fatto e che farà in quel giorno che è speciale, tesoro, è un giorno speciale; suo padre che gli parla come se i chilometri di distanza tra di loro non esistessero e l’hai vista ieri la partita? Questo campionato è un bello schifo!
Suo fratello e le sue solite battute che coprono, tentano di coprire una mancanza fastidiosa e si comincia a sentire la vecchiaia, eh? Hai già trovato qualche capello bianco?
E sulla sua lingua sempre un ‘mi dispiace’ un po’ annacquato che non ha il coraggio di dire, mi dispiace per cosa, poi? Che colpa ne ho se il mondo è tanto grande?
Ma gli dispiace, gli dispiace che il suo compleanno gli sia diventato così antipatico, gli dispiace che abbia perso quell’alone speciale che lo macchiava tanti anni fa, quando era ancora un bambino e si svegliava sempre all’alba di quel 20 Agosto correndo per casa e svegliando tutti.
Oggi è il Mio compleanno, il Mio giorno, un grande giorno!
E sembrava dovesse accadergli qualcosa di speciale e pretendeva gli auguri persino dalla Regina d’Inghilterra!
Sarebbe stato capace di svegliare anche lei di prima mattina, toglierle di dosso le coperte e Cara Regina d’Inghilterra, oggi è il Mio compleanno, il Mio giorno e lei deve farmi gli auguri, cosa aspetta?
Sorride e come siamo buffi – pensa – quando siamo bambini.
È tardo pomeriggio e ha appena smesso di piovere, le strade e i marciapiedi di Dublino sono bagnati e nell’aria resta sospeso un familiare odore di umidità e pioggia.
Cammina sotto il pallore del cielo appeso ai tetti delle case irlandesi e arriva fino al bar in cui lavora Occhi Verdi; attraversa il gazebo e i tavolini ed entra dalla porta spalancata, i suoi occhi la cercano e la trovano poco dopo, china sul bancone con uno straccio stretto in una mano.
Ha i capelli che le ricadono sulle spalle e la faccia di chi è stanco della giornataccia che ha avuto.
«Buonasera, signorina barista!» dice. Occhi Verdi sobbalza, poi incontra il suo sguardo e accenna un sorriso.
«Che ci fai qui?»
«Festeggio il mio compleanno.»
«E ti diverti?»
«Non lo so, sono arrivato da un minuto e mezzo ed è presto per dirlo.»
Lei sorride di nuovo e abbassa lo sguardo sul bancone che sta pulendo, sembra un po’ a disagio e sta attenta a non guardarlo e lui sa, sa che è per la notte passata insieme, sa che è per la loro pelle troppo vicina e i loro corpi troppo avvinghiati ma Lei ora non può, non può più tirarsi indietro, lui non glielo permetterà.
Sono andati oltre, sono diventati l’Oltre e adesso lui sente, nascosta tra le pareti di carne del suo petto, una scintillante, luminosa speranza che nutre, lo nutre e lo spinge con forza a continuare la sua missione, a non ritirare quelle mani tese a cui Prudence, cara Prudence, prima o poi ti aggrapperai di nuovo.
«Tutto bene?» chiede, Occhi Verdi alza per un istante lo sguardo su di lui e annuisce quasi automaticamente.
«Sicura?»
«Sono solo… solo un po’ stanca.»
Lui resta a guardarla ancora per un po’, lo sguardo fisso sul Suo volto diafano e sulla sua espressione così concentrata.
Vorrebbe che non fosse così, così strano e scomodo; vorrebbe che fosse come otto anni fa quando passavano la notte insieme e Lei non scivolava via di nascosto da sotto le lenzuola; come otto anni fa quando poteva baciarla, abbracciarla, stringerla e Prudence, cara Prudence, non preoccuparti perché io e te siamo l’Oltre e facciamo dell’ordinario lo straordinario.
Resta ad osservarla ancora per un po’, poi fa il giro del bancone, le si avvicina e la stringe forte baciandole la fronte; Lei non lo respinge e posa una guancia sulla sua spalla.
«È a posto, Prudence, è tutto a posto.» sussurra al suo orecchio e la sente annuire, la sente annuire e vorrebbe dargliene un po’, di speranza.
La speranza, che cosa meravigliosa!
Un cuore pulsante e splendente che fa andare avanti le cose e vorrebbe ne avesse un po’ anche Lei: dove ce l’hai la speranza, Prudence?
Gliene infilerebbe un pezzetto sotto la pelle e tieni, un a piccola dose di speranza, usala bene e credici un po’ di più nelle cose che si aggiustano, non pensare che non esista mai una soluzione ai problemi, cerca di capire che niente si rompe irreparabilmente, nessuno si perde per sempre.
Scioglie l’abbraccio, si china sul suo viso e la bacia; bacio normale, naturale, come i baci di otto anni fa dati nei posti più ordinari possibili: nelle metropolitane, su una spiaggia abbandonata, sotto ad un albero troppo alto per poter toccare le foglie, su un divano di fronte alla TV, sotto le lenzuola, in un bar.
Un bacio resta sempre un bacio, dovunque e comunque.
«È a posto, d’accordo?» le dice, dopo che le loro labbra si sono separate e Lei non risponde, non parla, ma si aggrappa stretta alla sua schiena e chiude gli occhi.
«Prue? Prudence?»
Nessuna risposta.
«Ehi?»
Nessuna risposta.
«Terra chiama Prudence.»
«Benjamin.» dice Occhi Verdi, ma non accenna ad alzare il capo e resta nascosta in quell’abbraccio-dona-speranza, raggomitolata contro il suo petto.
«Sì?»
«Abbiamo due nomi assurdi.»
Non le risponde subito, assapora mentalmente i nomi, i loro due nomi accostati uno accanto all’altro.
BenjaminPrudenceBenjaminPrudenceBenjaminPrudence e sarebbe capace di ripeterselo nella testa senza smettere mai, continuando a pronunciare quei due nomi che possono, che sanno fondersi in un unico suono, una sola parola, lettere che si tengono per mano senza mai lasciarsi.
BenjaminPrudenceBenjaminPrudence.
«Dici?»
«Dico.»
«Secondo me sono originali.»
«Secondo me non si possono sentire.»
«Secondo me hai paura.»
Lei non risponde, non alza il capo, il volto nascosto contro il petto di Occhi Bui, contro la sua maglietta scura e il suo odore che sa circondarla, stringerla, bagnarla e non vuole guardarlo, non vuole rispondere e desidera solo restare accucciata all’interno di quell’abbraccio senza dover parlare, sentendo sotto le sue mani l’inconfondibile presenza di quel ragazzo-uomo che non ha paura di sfidare il tempo.
«Hai paura.» ripete e la costringe ad alzare il capo, ad uscire dal suo nascondiglio inventato.
Lei lo guarda negli occhi ma non può, non sa rispondergli e fatica a reggere il suo sguardo, si sente circondata e trafitta da quegli occhi bui che cercano, cercano, cercano risposte e spiegazioni rimaste in sospeso, perché esistono ancora tanti punti di domanda silenziosi frapposti tra loro che danno fastidio, gli danno tremendamente fastidio.
Occhi Verdi volta il capo e abbassa lo sguardo sul bancone.
«Devo… devo lavorare.» sussurra, ma le braccia di Occhi Bui continuano a cingerle la vita in una stretta che fa quasi male.
«Ben, ti prego. Devo lavorare.» dice, mentre tenta di divincolarsi e allora lui allenta la presa e La lascia scivolare via, Lei si sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio e gli volta le spalle, tornando al suo bancone, ai suoi piatti e ai suoi bicchieri.
«Sei cambiata.» asserisce, senza particolare inclinazione nella voce, e rimane a fissare le spalle esili di Occhi Verdi nascoste dai Suoi lunghi capelli.
«Non sono cambiata.»
«Sì, invece: prima non eri un coniglio.»
«Non sono un coniglio.»
«Sì, invece! Un maledetto coniglio!»
Lei non si volta, lui non aggiunge altre parole ma si limita a sospirare, stanco e infastidito, poi scuote la testa e si allontana e gli brucia, brucia, brucia la pelle, lì dove lo hanno toccato le mani di Occhi Verdi; gli brucia la schiena, lì dove le Sue unghie lo hanno graffiato e si sono aggrappate strette e vorrebbe, vorrebbe con tutto se stesso che aggiustare qualcosa fosse più facile che romperla.
Si avvicina all’uscita e scorge la gente ai tavoli che parla e ride spensierata e che nervi, che nervi gli dà!
Volta distrattamente il capo e resta sorpreso quando vede, seduta ad un tavolo all’interno del bar, una bambina con due grandi occhi verdi che tenta di far mangiare ad un alce di peluche dell’insalata.
Non le si avvicina subito ma resta fermo a fissarla, sorride mentre la guarda discutere animatamente con il suo peluche, chissà quali discussioni staranno affrontando; lui non vuole intromettersi nel loro colloquio privato e rimane a guardarla, è giusto così: i bambini e i loro discorsi segreti meritano un certo rispetto, ne è consapevole.
La bambina allunga una fogliolina verso il muso dell’alce, l’alce la fissa con i suoi finti occhi scuri e non si muove. La bambina sbuffa.
Sorride e le si avvicina, attento a non spaventarla, lui sa che la sua giovane presenza è più fragile di tutte le altre; sa che ci sono mancanze che i bambini non possono capire e non sanno sopportare e lui non è suo padre, lui è uno sconosciuto e deve prendere delle misure ben precise prima di avvicinarsi troppo.
«Posso sedermi?» le chiede, e indica la sedia accanto alla sua
La bambina alza il capo e, per qualche istante, resta a fissarlo con i suoi grandi occhi verdi, poi distoglie lo sguardo ed annuisce.
Lui le siede vicino e resta in silenzio.
Adesso cosa potrebbe dirle?
Sente addosso la pressione di quei confini che non può superare, dei limiti da rispettare e delle distanze che deve mantenere; mantenere perché tu, piccola ladra di occhi verdi, non sei mia figlia e noi non ci conosciamo ma non sai, non sai cosa darei per sapere tutto di te.
Vorrebbe conoscere i suoi sogni segreti, sogni di bambina che ha appena messo piede al mondo e che si guarda attorno con quell’ottimismo, quell’immensa gioia che solo i bambini possono avere e che cosa vorresti essere da grande?
Io da piccolo avrei voluto fare l’astronauta, camminare sulla testa del mondo, conoscere i segreti dello spazio, sapere cosa c’è dentro le stelle, accarezzare le guance ruvide della luna e tu, bambina col nome di una principessa spaziale, tu la faresti l’astronauta?
E poi ancora, vorrebbe sapere di cosa ha paura: forse del buio, magari dei ragni.
Gli piacerebbe dirle Leila, Principessa Leila, io ho una gran paura delle farfalle e delle loro ali colorate e silenziose!
Maledette farfalle che sanno volar via da ciò che è sbagliato, che sanno sbattere le ali ed andarsene lontano!
A te piacciono, le farfalle? Magari potresti aiutarmi a non averne più paura, a smettere di invidiarle tanto.
E vorrebbe sapere quand’è stata la prima volta che detto ‘mamma’ e, se nella sua vita appena agli inizi, ancora tutta da scrivere e costruire, è mai riuscita a pronunciare la parola ‘papà’.
Vorrebbe sapere quante sono le parole che conosce, se sa cosa sono un alce o una foglia di insalata; se riesce a pronunciare bene ogni parola, ogni sillaba, ogni lettera o se si dimentica per le strade astratte delle lingua una doppia, se scambia una elle con una erre; se si ricorda di dire ogni vocale o consonante e lui vorrebbe accucciarsi nelle sue parole a metà, dette male, pronunciate da quella lingua di bambino che le parole sa mangiarsele, inventarsele, cambiarle, dare loro una nuova vita, un nuovo suono, una nuova forma.
Se solo potesse, se solo lui potesse si spaccherebbe, diventerebbe granello di polvere, particella piccola e invisibile dell’aria e si aggrapperebbe alla sua pelle bambina e resterebbe zitto, immobile ad accompagnarla, a seguirla in quel viavai caotico che è la vita.
Perché lui vuole esserci, nella sua vita.
Perché tu, piccola ladra di occhi verdi, non sei mia figlia ma non sai, non sai quanto è profondo l’amore che mi lega a tua madre; così profondo da saper arrivare sotto la pelle, sotto la carne e fino a te, fino a te che sei rimasta nascosta per giorni e giorni dentro una sirena con gli occhi verdi che ha perso un padre, una madre, un fratello e adesso anche la speranza.
«Mangia solo insalata?» le chiede, facendosi coraggio e puntando un dito verso l’alce e i suoi occhi di bottone.
La bambina lo guarda fisso ma non gli risponde.
«A me l’insalata non piace per niente, e a te?»
Lei scuote la testa, e no che non le piace l’insalata.
«Allora non piacerà di sicuro nemmeno a quest’alce. Com’è che si chiama?»
«Molly.» farfuglia, e arrossisce.
«Secondo me a Molly piace il gelato.»
La bambina non risponde, non lo guarda.
Lui capisce che è giusto così, che non può pretendere niente di più.
«Bé, ora devo andare, ho un’astronave da guidare.»
Leila alza lo sguardo su di lui e lo osserva, magari vorrebbe chiedergli qualcosa ma arrossisce di nuovo e torna a fissare Molly.
«A-stro… a-stro… astronave?» dice, ma non lo guarda.
«Già, astronave. Si chiama Millennium Falcon ed è enorme, a bordo c’è persino una gelatiera che fa i gelati al cioccolato migliori del mondo!»
La bambina gli sorride, lui ricambia.
«Mi dai la mano?» le chiede, lei lo fissa curiosa, poi annuisce e gli tende la manina e lui gliela stringe in una stretta delicata, facendole l’occhiolino.
«Prometto di portarti a fare un giro sulla mia astronave.» Leila gli sorride di nuovo, poi lui le lascia la mano e si alza in piedi.
«Arrivederci, Principessa Leila!» dice, accenna un inchino e se ne va.
 
 
 
 
 
 
E niente, ritardo imbarazzante anche stavolta!
Me ne scuso sinceramente, ma non ero nemmeno a casa, non avevo accesso all'Internet e son stati giorni da incubo!
Comunque alla fin fine, arrivo anche io con i miei sfigatoni!
Mi spiace che anche questo capitolo non sia rose e fiori ma, onestamente, credo ci voglia ancora un po' di tempo per rimettere bene le cose a posto tra Ben e Prue.
Annuncio che il prossimo capitolo(che conto di postare in tempi civili) sarà concentrato su Prudence, credo sia il caso di dare un pochino di spazio anche ai suoi pensieri.
E nulla, tutto qui!
Grazie come sempre a chi legge, grazie di cuore!
C.

P.S: Gli amanti di Star Wars avranno notato il riferimento sul finale alla Principessa Leila, Han Solo e la sua mitica astronave(tra l'altro lui aveva le sembianze di Harrison Ford... se semo capiti!)
 

 
 
 
 
 

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Capitolo 17
*** Prudence e ciò che sentì ***


17. Prudence e ciò che sentì

          
 

Adesso è giusto che si racconti anche un’altra storia, che si spenda qualche parola anche per Prudence e ciò che sentì.
 
Le era sempre piaciuto scrivere, era sempre stata attratta dalle parole e dal loro misterioso e affascinante potere.
Prudence sapeva, aveva letto e studiato, che le parole erano capaci di grandi cose; di cose splendide oppure terribili; di pace e di guerra.
Le parole avevano mani che sapevano raggiungere posti fisicamente irraggiungibili e ne fu più che mai certa quando quelle mani d’inchiostro si infilarono, silenziose e letali, tra lei e Benjamin e spaccarono a metà la loro storia.
Lei non avrebbe voluto, non avrebbe mai voluto scrivere certe cose al ragazzo che dormiva nudo accanto al suo corpo, con gli occhi scuri chiusi dal sonno.
No, no che non avrebbe voluto ma pensò che fosse la cosa giusta, pensò che gli avrebbe fatto male, ma uno di quei mali che ti bagnano per un poco, poi si asciugano e scompaiono.
Pensò che sarebbe stata solo lei ad uscire irrimediabilmente scheggiata e frantumata da quella storia ormai scaduta e consumata, quindi si convinse di star facendo la cosa giusta e lasciò un foglio accuratamente piegato accanto al corpo caldo del ragazzo addormentato.
‘Verrà a riprendermi’ pensò all’inizio, ‘non mi lascerà andare via tanto facilmente’ ma, non seppe ammetterlo nemmeno a se stessa, sentì un’amara fitta al petto quando capì che, invece, Benjamin era andato per la sua strada.
Una strada ben più rosea di quella che la attendeva, una strada in cui non c’era il pensiero di fratellini mancanti a tenerlo sveglio la notte o case che sarebbero presto scivolate via, soffitti che non gli avrebbero più protetto la testa nei giorni di pioggia.
Ma Prudence se ne sarebbe andata prima, non avrebbe aspettato che degli sconosciuti la buttassero fuori da quella che era stata casa sua; non avrebbe aiutato sua madre a raccogliere ciò che restava di una famiglia irrimediabilmente spezzata.
No, Prudence e la sua schiena dritta avevano bisogno di rinascere, bisogno di staccarsi dal buio guscio del passato e in quel momento, in bilico su quella corda tanto sottile che lega il ciò-che-è-stato al ciò-che-sarà, lei si sentì come una farfalla.
Una farfalla-non-ancora-farfalla in attesa di sgranchirsi le ali, di sbocciare, spingersi fuori dalla pupa, di librarsi in aria staccandosi dal pensiero lontano di una vita passata ad essere solo un bruco.
Decise di cominciare a riscriversi in un piccolo appartamento lontano dal centro, che aveva un affitto poco caro ed un letto ed un bagno e lei, la donna-bruco, poteva sopravvivere, poteva essere forte, poteva essere nuova e diversa e rinascere dentro la sua stessa pelle.
Fu brava, fu così brava a reinventarsi che seppe chiudere la vecchia se stessa in cassetti remoti del suo io inafferrabile e si ripromise di stare attenta a non riaprirli mai più, quei cassetti.
E così si dimenticò di chi era stata, di chi fu Prudence Gallagher e di ciò che il suo cuore-di-bruco aveva sentito, adesso lei era una farfalla e non aveva tempo per pensare agli occhi scuri di un ragazzo-con-un-nome-da-dimenticare.
Concentrò ogni sua energia sul lavoro, non era facile trovarlo ma quando ci riusciva lei era grata, era grata anche se la paga faceva schifo, anche se le sue mani erano stanche di lavare piatti o servire  facce sconosciute ma era grata, era grata alla stanchezza che sapeva non farla pensare, sapeva trasformarla in un guscio vuoto e senza pensieri, senza passato.
E cadde giù, spingendosi lontana dall’ombra di se stessa e si sentì spazzata via, scivolata troppo in là, bisognosa di aggrapparsi a qualcosa o qualcuno.
Ma lei era una farfalla e le farfalle si salvano da sole.
Si raccontò di potercela fare, camminò per la strada a testa alta convinta che ci sarebbe riuscita, a ricominciare, ricostruirsi, rimettere ogni suo pezzo al posto giusto e volare, volare, volare.
Ma la sera, quando si ritrovava sola e nuda sotto il getto gelido della doccia, chiudeva gli occhi e ripeteva a bassa voce: ‘Benjamin. Benjamin’, con la guancia poggiata contro una piastrella umida.
BenjaminBenjamin.
Si aggrappò stretta a quel nome, al suo nome, un nome che sapeva raccogliere e sottointendere un’intera esistenza, esiste il nome, esiste Lui, lui che a chissà quanti chilometri di distanza forse stava pensando ad una ragazza-bruco che lo aveva lasciato e abbandonato senza nemmeno guardarlo negli occhi.
E magari adesso lui la odiava, il ricordo della loro storia era macchiato dall’odio.
Anche lei lo odiò, lo odiò con ogni centimetro della sua carne per averle permesso di scrivere quella lettera, per essere andato avanti, oltre, quanto lo odiava!
E quanto odiava se stessa, se stessa che sentiva il logorante bisogno di aggrapparsi ad un nome, se stessa che la notte fingeva che il cuscino fosse il petto caldo del ragazzo con gli occhi scuri e ci si raggomitolava contro e ‘scusa, scusa’, diceva, ‘non essere arrabbiato. Non odiarmi’.
Ma lei lo odiò, lo odiò quando capì di non saperlo e di non poterlo buttar fuori dalla sua memoria perché tutto intorno c’era un mondo intero che le urlava la sua esistenza e la sua fastidiosa, insopportabile mancanza.
Ma in fondo se lo meritava, se lo meritava perché lei sapeva cosa gli aveva fatto, sapeva quanto fosse grande l’alone di colpa che le pesava addosso.
Provò a darsi giustificazioni, a proteggere il pensiero delle sue scelte ma non c’erano scuse abbastanza forti da sorreggere il peso di ciò che aveva fatto.
Ciò che gli aveva fatto.              
Perché quando litigarono per l’ennesima ed ultima volta, lei si sporcò e non seppe più lavar via lo sporco dalla sua pelle.
 
Se lo ricordava bene, quel litigio.
Benjamin era così stanco, stanco di cosa? gli aveva chiesto.
«Di essere un fallimento.»
Povero ragazzo-senza-futuro, ragazzo-fallimento e la sua stanchezza, il suo futuro incerto, i giorni in cui si svegliava arrabbiato col mondo, facevano sentire Prudence un peso opprimente, una grossa macchia-avvolgi-speranze, ma lei non voleva rubare il futuro a nessuno.
Lui le disse: ‘la scelta è mia, tu non c’entri nulla’.
Ma lei c’entrava, era più dentro che mai. Si sentiva la scelta sbagliata e Lui la faceva sentire la scelta sbagliata.
Un giorno Benjamin usò qualche parola di troppo che scottò Prudence e la tagliò, un taglio netto, preciso, letale.
«Sono stanco! Dopo tutto quello che ho sacrificato per te, hai anche il coraggio di lamentarti!»
E quello fu il primo passo di una danza che Prudence conosceva fin troppo bene, ma non esitò: fece la sua mossa, rispose a tempo e presto si passò dal parlare al gridare e lei non pensò, non pensò di fermarsi e si fece trascinare dal ritmo oscillante di una danza che si concluse con il suono di una bottiglia di birra scagliata a terra.
Corse fuori da casa di Benjamin, avvolta dalla notte buia di Dublino, entrò nel primo bar che capitò sulla sua strada e andò a sedersi davanti al bancone.
Il buio del locale era interrotto a tempo da esplosioni di luci artificiali e la musica era banale e insopportabile, di certo non il suo genere.
Stava sorseggiando agitata la sua Coca-Cola quando le si mise accanto un ragazzo biondo e riccioluto, con gli occhi di un marrone chiaro e due fossette che comparivano sulle sue guance, appena accennate, ogni volta che sorrideva.
Si chiamava Alex e lei non impiegò troppo tempo a capire cosa volesse, cosa cercasse, i suoi sguardi insistenti non lasciavano spazio ad alcun dubbio.
Sapeva, era certa di star facendo la cosa sbagliata, ma la sua mente continuava a ritornare su quelle parole affilate, su quelle voci che avevano alzato troppo il tono e su quella bottiglia spaccata, ridotta in pezzetti su un pavimento freddo.
Lasciò che Alex la portasse a casa sua ed era così arrabbiata, arrabbiata con la se stessa che continuava a pensare a quel ragazzo con gli occhi scuri che sapeva solo farla sentire un peso.
E quella notte, mentre il tocco fastidioso di Alex le bruciava la pelle, lei pensò: ‘hai visto, Prudence? Adesso sai che puoi bastarti da sola, che non hai bisogno di rubare il futuro a nessuno’.
E si sentì sporca, tremendamente sporca.
 
 
Non lo scrisse nella lettera, avrebbe voluto ma non ci riuscì, non trovò le parole adatte e quali avrebbero mai potuto essere, le parole adatte?
‘Benjamin, mi sono sporcata’
‘Benjamin, sono caduta, ho fatto una sbaglio ed ora sono troppo sporca per poter stare con te’
‘Benjamin, ti devo chiedere una cosa: puoi non odiarmi? Ci riesci a non odiarmi?’
‘Benjamin, secondo te perché gli uomini sbagliano?’
‘Benjamin, sono una farfalla che è caduta nel fango ed ha le ali troppo impastate per poter volare’
Cancellò ogni tentativo, non esistevano parole per poter raccontare un simile sbaglio.
Non gli disse nulla, lui non seppe nulla e lei scivolò via da quella storia, silenziosa e sporca, come se non fosse mai successo nulla.
 
 
 
 
Salve ciurma!
Stavolta il ritardo non è di durata epica, dai!
Alura, scrivere questo capitolo è stato particolarmente piacevole perché: anzitutto c'è stato un cambio di stile, ed avevo un po' di voglia di far qualcosa di diverso; e poi perché mi è mancato molto scrivere dal punto di vista di Prudence, è stato bello tornare alle origini tanto che, per qualche altro capitolo, continuerò a scrivere della punto di vista di Occhi Verdi(nonsoperché).
E... nulla.
Grazie come sempre a chi legge, di cuore.
A presto,
C.

P.S: Sì, nel caso non si fosse capito io adoro le farfalle.

 
 
 
 
 
 

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Capitolo 18
*** Dear Prudence ***


18. Dear Prudence



C’era una volta una ragazza di nome Prudence che decise di chiudersi a chiave in una stanza e cercare, scavare dentro se stessa per afferrare il suo io, la sua vera essenza.
Prudence non mangiava, non beveva, non parlava.
Chiusa nella sua stanza, ascoltava ciò che aveva sotto la pelle.
Un giorno un certo John Lennon le scrisse una canzone per convincerla ad uscire fuori e, insieme al suo amico Paul McCartney, si mise dietro la porta con la sua chitarra e cantò.
 
Cara Prudence, non uscirai a giocare?
Cara Prudence, saluta il nuovo giorno!
Il sole splende, il cielo è blu, è bellissimo e lo sei anche tu.
Cara Prudence, non uscirai a giocare?
 
Purtroppo non erano più gli anni Sessanta e nessuno dei Beatles avrebbe mai chiesto a Prudence Gallagher di uscire fuori a giocare.
Nascosta tra le pareti ammuffite del suo piccolo appartamento, Prudence guardava distratta la televisione.
Era una calda giornata di Agosto, anche su Dublino splendeva un sole quasi soffocante e lei, accaldata ed annoiata, si stringeva nel suo asciugamano bianco dopo una doccia fredda.
Non aveva voglia di ascoltare le notizie di crisi al telegiornale, sapeva già che le cose non andavano affatto bene: lo sperimentava ogni giorno sulla sua pelle.
Cambiò canale: un uomo in giacca e cravatta e con una faccia rugosa presentava un talk show.
Prudence sbuffò e cominciò a frizionarsi i capelli bagnati.
La voce del presentatore le dava un gran fastidio, continuava a blaterare ininterrottamente e lei, se solo lo avesse avuto davanti, gli avrebbe intimato di smetterla di sprecare parole.
Ma sentì qualcosa incrinarsi nel suo petto quando quel fastidioso conduttore disse: ‘Ben Barnes’ e all’improvviso partì un caloroso applauso.
Lasciò che i capelli gocciolanti le ricadessero sul seno e alzò immediatamente gli occhi verso il piccolo televisore.
Non sorrise né pianse, restò ferma a fissare un ragazzo con gli occhi scuri entrare nello studio televisivo e sedersi su una poltrona, accanto al presentatore.
Un vuoto brutale sembrò quasi ingoiarle lo stomaco mentre, perfettamente immobile, Prudence osservava quel volto così diverso, così cambiato.
Si ricordava di un ragazzo con capelli corti e spettinati, sempre un filo di barba sulle guance e uno sguardo furbo malcelato dentro a due occhi neri-neri-neri; un ragazzo che indossava jeans sgualciti e felpe in cui lei amava stringersi, avvolgersi e che buon odore che hai, quanto calore che dai.
Forse, se non avesse sentito pronunciare il suo nome, Prudence non sarebbe nemmeno stata capace di riconoscere quel ragazzo con i capelli cresciuti, nessuna traccia di barba ed un abito elegante addosso.
Ascoltò attenta l’intervista, ne cavò fuori ogni informazione, registrò le cose importanti ed è il mio primo, grosso film e sono piuttosto emozionato; mi piace un sacco New York; abbiamo girato molte scene in Nuova Zelanda ed il paesaggio è semplicemente magnifico; no, non sono mai stato innamorato.
Prudence si guardò attorno e vide un piccolo appartamento spoglio, con le pareti ammuffite e piccoli ragni che calpestavano il soffitto con le loro zampette silenziose.
E invece, a chilometri e chilometri di distanza, c’era un giovane e promettente attore con la faccia pulita e le spalle alleggerite da qualsiasi fallimento, da qualsiasi problema.
Lo osservò e no, no che non aveva più bisogno di una birra e di un davanzale da cui guardare stupidi ed insignificanti tetti irlandesi: adesso c’erano aerei, hotel ed eleganti terrazze sul mare.
E di certo non si sarebbe sdraiato sulla sabbia sporca di una spiaggia anonima per ascoltare qualche canzone, per canticchiare le parole degli Oasis e a lui non serviva proprio nessuna ancora di salvezza, nessun muro delle meraviglie.
Prudence si sentì definitivamente spezzata, spaccata esattamente a metà di se stessa e non avrebbe mai, mai voluto rivederlo.
A lei piaceva vivere avvolta dal dubbio, dal-chi-e-come-sarà-diventato? e ripetere il suo nome a bassa voce, aggrapparsi stretta alle lettere; a lei piaceva aprire il barattolo di borotalco, intingere le dita nella polvere e ricordarsi del suo buon odore; a lei piaceva nascondersi sotto l’ombra del loro albero grande, chiudere gli occhi, immaginarlo accanto a lei e raccontargli dello schifo di giornata appena passata e a te invece com’è andata? Ma ci pensi mai a quanto le cose possano cambiare solo per colpa di uno sbaglio?
Ma quel ragazzo, quell’attore sorridente che rispondeva alle stupide domande di un presentatore, di certo non avrebbe avuto tempo da perdere con lei e con le sue inutili parole, cosa vuoi che m’importi della tua giornata? E lo sai che la tua lettera l’ho fatta a pezzetti così piccoli che non la si potrebbe mai più rimettere insieme? E sei sparita, non ci sei più nella mia memoria, non hai lasciato traccia.
Prudence serrò le dita attorno al telecomando e lo scagliò contro lo schermo, un colpo preciso che scheggiò e fece cadere a terra il piccolo televisore.
Non pulì né raccolse i cocci, lasciò ogni cosa sul pavimento e finì di asciugarsi.
Si vestì svelta e rimirò la sua figura nello specchio.
Le bruciava la pelle il solo pensiero che lui, dannatamente realizzato e felice, potesse essersi scordato di lei.
Avrebbe voluto essere contenta per la sua promettente carriera, ma il suo sorriso sfacciato e pulito la tagliava a metà.
Lei voleva esserci, voleva egoisticamente essere presente sul suo viso, dentro ai suoi occhi, sulle sue labbra perché io e te siamo stati insieme e tu non puoi, non puoi dimenticarti tutto così.
La loro rottura non risaliva nemmeno ad un anno fa e lei non poteva sopportare quella leggerezza, quel suo rimuovere le cose, ma del resto lei cosa gli aveva fatto?
Tradito e lasciato solo e nudo in un letto vuoto.
‘Sei troppo sporca per avanzare pretese, Prudence. Sporca!’
Ma lei non avanzava pretese, lei voleva solo poter avere la consapevolezza di aver lasciato traccia, ma si sentiva invisibile, fatta di nulla.
Nessuno. Non sei nessuno.
Invisibile.
Eppure c’era, c’era al di là dello specchio una donna nascosta in una paio di jeans e una canotta blu, c’erano un paio di labbra rosso fuoco che sapevano lasciarsi baciare, e mani che sapeva aggrapparsi strette ad una schiena.
C’era.
Poteva non aver lasciato traccia, ma lei c’era.
Infilò le chiavi in tasca e, con i capelli ancora umidi, uscì di casa.
Dublino, sotto tutto quel sole, aveva perso un po’ del fascino che solo la pioggia o un cielo nuvoloso sapevano darle.
Prudence passeggiò per le strade assolate, la gente felice sui marciapiedi che la spintonava per sbaglio, osservò i turisti con le loro macchine fotografiche alla mano e si chiese quale potesse essere la loro visione di Dublino.
Si sarebbe avvicinata volentieri a domandare.
Che cosa ne pensi di questa città? Che cosa vedi? Come la vedi? Come ti sembrano i prati, a me ricordano un disegno verde pennarello fatto dalle mani sognanti di un bambino. E il sole? Non passa spesso sopra questo cielo, ma oggi somiglia ad una gelatina di frutta.
Ti piacciono gli U2? Perché devi sapere che, vicino agli ormai vecchi studi in cui erano soliti registrare, c’è un muro a loro dedicato su cui, chiunque abbia qualcosa da dire, può scrivere.
E cos’è, cos’è che ti ha spinto ad arrivare fin qui, a fotografare gli angoli di Dublino?
Le sarebbe piaciuto chiedere, provare a guardare Dublino con gli occhi dei turisti stranieri, ma tirò dritta per la sua strada e si infilò in un bar.
Comprò delle sigarette e prese un caffè, si sentiva stanca e sudata, ma non aveva voglia di ritornare già nel suo appartamento freddo, e ripulire il pavimento da ciò che restava del televisore.
Era da settimane che non usciva di casa, ed ora voleva restare sotto tutto quel sole, farsi vedere e lasciare traccia.
Esserci.
 
Restò a lungo seduta in quel bar, l’odore di birra e l’odore di caffè si confondevano, e lei fissava silenziosa l’ombra del rossetto sulla tazzina bianca e lo smalto nero sulle sue unghie, ormai visibilmente mangiucchiato.
Sentiva un lancinante fastidio dentro sé, mentre le parole di Benjamin si ripetevano confuse nella sua mente.
Nonostante il suo numero fosse ancora in cima alla rubrica del telefono, non lo avrebbe chiamato: era troppo orgogliosa per farlo.
Ci aveva provato, c’erano state notti in cui non riusciva a dormire, in cui aveva avuto bisogno di ascoltarlo parlare e si era ritrovata a fissare il suo stupido numero sullo schermo del cellulare.
Ma non era riuscita a schiacciare il tasto verde, lo aveva sfiorato appena.
«Tutto bene?» la voce del barista si intrufolò tra i suoi pensieri.
Alzò lo sguardo ed incontrò un paio di occhi azzurri che la guardavano curiosi.
«Certo.» rispose, accennando un sorriso.
Ma quella curiosità e quell’interesse la infastidirono.
Si ricordò di una notte non troppo lontana, di un altro bar e di un altro ragazzo troppo interessato, e della sua rabbia e la sua vergogna, il suo sentirsi un peso opprimente e mani fastidiose che l’avevano sporcata.
Salutò freddamente il barista e uscì di fretta.
Passeggiò per una buona mezz’ora, guardando a terra senza prestare troppa attenzione al paesaggio già fin troppo conosciuto.
Si addentrò tra le aiuole fiorite di St. Stephen’s Green, uno dei parchi più grandi di Dublino, particolarmente amato da abitanti e turisti per l’atmosfera pacifica e per il lago, dimora di oche e cigni.
Quel giorno era particolarmente affollato, Prudence si sdraiò sull’erba incredibilmente verde e accese una sigaretta.
A pochi passi da lei, una band cominciò ad improvvisare alcune canzoni dei Beatles.
Lei riconobbe subito quel riff di chitarra, riconobbe subito quella canzone che portava il suo stesso nome.
 
Cara Prudence, non uscirai a giocare?
Cara Prudence, saluta il nuovo giorno!
Il sole splende, il cielo è blu, è bellissimo e lo sei anche tu.
Cara Prudence, non uscirai a giocare?
 
 
Sorrise, tra un tiro di sigaretta ed una boccata d’aria, ascoltò quella band suonare e si aggrappò alle loro parole.
Alle parole dei Beatles.
E lei non voleva restar chiusa in una stanza, non aveva bisogno di scavare oltre se stessa per scoprire chi fosse; non aveva più tempo da perdere a pensare, nascosta tra pareti ammuffite, ad un ragazzo con gli occhi neri che ormai non ci pensava più, alla loro storia.
Stavolta avrebbe dimostrato a se stessa di saper lasciare traccia, di non essere invisibile, di potercela fare benissimo da sola.
Stavolta - e rimpiangeva di non averlo fatto prima- sarebbe uscita a giocare.
 
 
 
 
 
 
Mi vergogno assaissimo di questo ritardo, ma è un periodo un po' incasinato!
Chiedo venia!
Dunque, l'intero capitolo è un grosso missing moment dal punto di vista di Prue, ambientato poco meno un anno dopo la sfigatissima rottura con Barny.
Spero non vi abbia annoiati, comunque dal prossimo capitolo si ritorna al presente(non so ancora se dal punto di vista di Prue o di Ben)
Bene, me ne vado, ma prima ringrazio tutti voi lettori di cuore!
A presto,
C.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 19
*** Cose che non si possono dire ***


 
19. Cose che non si possono dire

 





Bisogna ammetterlo: certe cose non le sappiamo dire.
Ci si può far spiegare i movimenti giusti per lavarsi bene i denti; si possono studiare le proprietà delle potenze per fare bene i conti in matematica; si possono leggere le istruzioni per montare per bene un tavolo, ma nessuno, nessuno mai al mondo, è riuscito a creare il Modo Giusto Di Dire Le Cose.
Oggi non sono stato un bravo bambino.
Il nonno non c’è più.
Mamma, ho preso 3 in Latino.
Papà, ho distrutto la macchina.
Prof, non ho studiato.
Tesoro, sono incinta.
Benjamin, ti ho tradito.
E come si fa a dirle, certe cose? Se solo esistesse un modo pulito e meccanico per raccontare, per parlare, per tirar fuori anche ciò che si vorrebbe lasciar nascosto, allora sarebbe tutto più facile.
Seduta di fronte ad uno specchio, Prudence cercava di trovare un modo per riuscire a dire ciò che non sapeva dire.
 
Benjamin, ti ricordi quando abbiamo litigato l’ultima volta? Abbiamo cominciato a gridare e gridare, chissà che avranno pensato i vicini… ma non è questo che importa.
Benjamin, per favore cerca di ascoltarmi fino in fondo, di capirmi fino in fondo.
Benjamin, so già che ti arrabbierai però spero comunque che mi ascolterai.
Benjamin, ti devo dire una cosa ma non so come dirtela.
Benjamin, se tu dovessi dirmi che hai commesso uno sbaglio terribile, come me lo diresti?
Benjamin, le persone sbagliano, d’accordo? Sbagliano a scegliere il colore dei vestiti, sbagliano a mettere troppo sale nella pasta, sbagliano strada mentre sono in macchina, sbagliano la fermata della metropolitana, sbagliano a scrivere una parola, e sbagliano anche con le persone che amano.
Benjamin, ti ho tradito.
 
Scosse la testa e pensò che non c’era modo, non c’era modo in cui raccontargli una cosa simile, non c’erano parole che potessero sorreggere uno sbaglio tanto grande.
Ma lei aveva l’obbligo morale di dire la verità, aveva già nascosto troppe cose troppo a lungo e c’era, radicato nel fondo della sua carne, un lancinante senso di colpa che riemergeva, riemergeva sempre più ogni volta che Benjamin le stava accanto, si scusava, le parlava, la chiamava, la cercava e restava sempre ferito, tagliato, scottato dal suo scivolare via.
Con il viso vicino alla superficie dello specchio, Prudence osservò con attenzione il suo riflesso e si sentì un grosso, ingombrante contenitore di segreti sporchi.
Avrebbe voluto aprirsi in una giornata di vento e veder soffiate via dall’aria tutte le fastidiose verità nascoste, ma la sua carne era troppo spessa e di certo il vento non l’avrebbe spaccata a metà.
«Prudence, sei una stupida.» disse, e seguì con gli occhi le labbra di vetro dentro allo specchio che si avvolgevano attorno alle parole.
Sbuffò e si alzò in piedi. Aveva altro da fare, aveva una bambina a cui dar da mangiare.
Tornò in cucina a controllare la carne sul fuoco: era ben cotta.
«Pulce, è pronto da mangiare!» chiamò, e con gesti studiati e meticolosi posò la sottile fetta di carne nel piatto.
Sua figlia, i capelli arruffati e gli occhi assonnati, arrivò dopo pochi minuti con la sua andatura da papera, si arrampicò con facilità sulla sedia e si mise seduta sul cuscino di rialzo.
Prudence si voltò e posò il piatto sul tavolo.
«Stavi dormendo?» chiese, e Leila annuì sbadigliando.
«Che figlia dormigliona che ho!» rise e le schioccò un bacio sulla fronte.
Tagliò a pezzetti sottili la carne e aiutò la figlia a mangiare.
La guardò e pensò a Maxwell – le capitava spesso di pensarlo, a dire il vero – e la rabbia compressa sotto la pelle, sembrò pulsarle nel petto.
Delle parole sussurrate per telefono bussarono alle porte della sua memoria e sgomitarono tra i pensieri affollati nella sua testa.
 
Max, sono incinta.
Io invece sono in America e non tornerò.
Ma sono incinta.
Ma non tornerò.
 
Max, è nata tua figlia: si chiama Leila.
Sono impegnato.
Ma sei suo padre.
Ma sono impegnato.
 
Non la sopportava quell’assenza volontaria, non l’aveva mai sopportata nemmeno quando suo padre se n’era andato senza neanche salutare.
Neanche una parola ed ecco l’Uomo Con La Carne Di Aria che sa scivolare fuori dalle porte senza farsi sentire, che sa andare via senza farsi notare.
E lei era una bambina brava a far sparire le cose cattive e fece sparire anche suo padre, padre che non c’è, non esiste, sono figlia del fango, sono una pianta con delle radici spesse che sa sfamarsi e vivere senza bisogno di nessuno.
Ma crescersi da soli non è semplice, e ci sono bambini sulle altalene che si spingono da soli, ginocchia sbucciate che si curano da sole, lacrime che si asciugano da sole.
E lei non voleva questo per sua figlia: sua figlia doveva averlo, un padre.
Sua figlia non doveva pensare di essere stata lasciata scivolare via, di essere una bambina indesiderata, perché per Prudence lei era l’essenza della vita, dell’andare avanti, del tutto-questo-fa-male-ma-ne-vale-la-pena.
Tu ne vali la pena, bambina mia.
Se solo fosse stata abbastanza grande da capire, glielo avrebbe detto: tu vali la pena, bambina mia.
Leila finì la sua carne e si lasciò sbucciare una mela dalle mani gentili della mamma.
Che donna misteriosa che era!
Diversa da tutte le altre mamme che aveva visto, che portavano i figli al parco e si sedevano su una panchina a controllarli.
No, la sua mamma si sporcava di terra insieme a lei, si sdraiava ad occhi chiusi in mezzo alle margherite e puntava il dito contro le nuvole e quella a me sembra un drago, tu invece come la vedi?
E la notte la sentiva alzarsi e sgusciare via, nel piccolo soggiorno.
Una volta l’aveva seguita cercando di non farsi sentire, ed era rimasta alzata a guardarla, a guardare la Donna-Che-Vive-In-Castelli-Di-Carta, seduta su un tappeto ricoperto da fogli pieni di parole, le sue parole.
Poi la Donna si era alzata dal suo castello d’inchiostro, aveva aperto una finestra e si era affacciata a fumare una sigaretta.
A Leila piaceva la mamma, le piaceva quella donna con la pelle che odorava di pesca e i capelli lunghi impregnati dal profumo di caffè che ristagnava tra le pareti del bar in cui lavorava;  le piacevano le sue mani delicate che le allacciavano le scarpe, le pettinavano i capelli, l’aiutavano a mangiare e le accarezzavano il viso; le piaceva la sua voce argentina che la chiamava quand'era pronto da mangiare o la rimproverava se faceva qualcosa di sbagliato.
A Leila piaceva la mamma e le piaceva anche l’amico della mamma, l’Uomo-Con-Gli-Occhi-Scivolosi, due voragini buie in cui – se non si faceva attenzione – si poteva scivolare.
La faceva sentire abbracciata, tenuta stretta, legata ad una corda che non l’avrebbe mai lasciata cadere giù per il Pozzo-Della-Vita, e le sembrava che sulle sue labbra ci fosse sempre un ‘ti voglio bene’ che non era abbastanza coraggioso da dire.
Ma lei era una bambina intelligente e sapeva sentire anche le parole non dette, rimaste incastrate sulla lingua.
«Guardiamo un film?» chiese Prudence.
Leila annuì energicamente.
«Allora vai a sceglierlo, intanto io sparecchio e faccio una chiamata, d’accordo?»
La bambina scivolò agilmente giù dalla sedia e corse nel piccolo soggiorno.
Prudence sparecchiò velocemente, mentre le parole di Benjamin si ripetevano nella sua mente.
Prima non eri un coniglio. Un maledetto coniglio!
E c’erano dei contorni da ridefinire in quella storia, e lei non era un coniglio ma la sua pelle sporca conteneva un ingombrante senso di colpa e lui era così ostinato, così ostinato!
L’uomo che aggiusta l’inaggiustabile, l’uomo che rimette insieme i pezzi, l’uomo che cuce e che rattoppa con un filo spesso; ma lei sapeva che, dopo aver scoperto la verità, si sarebbe aperto uno squarcio così grosso da non poter essere ricucito, riallacciato.
Prese il telefono e compose il numero a memoria.
Tututu.
«Pronto?»
«Non sono un coniglio.»
«Prudence?»
«Non sono un coniglio.»
«Ah no?»
«Se pensi che io sia un coniglio, vuol dire che non mi conosci.»
«Non ti conosco?»
«Nemmeno un po’.»
«Se non sei un coniglio, perché ti nascondi dietro ad un telefono?»
«Non mi nascondo.»
«Hai paura.»
«Non ho paura.»
«Invece sì, te la fai sotto.»
«E tu?»
«Io?»
«Tu perché sei ancora qui, se pensi che io sia un coniglio?»
«Chiedilo al mio inconscio.»
«Sei fastidiosamente lapidario.»
«Davvero?»
«Sì! E devi sempre avere l’ultima parola! Saresti capace di avere l’ultima parola anche con la Regina d’Inghilterra, con il Papa o… o addirittura con Dio!»
«Addirittura?»
«Sì, sei insopportabile!»
«Mi dispiace, tesoro, ma neanche tu hai un carattere tanto facile.»
«Allora lasciami sola con il mio brutto carattere.»
«Proprio adesso che sono abituato a sopportarvi? Non se ne parla.»
«Lo vedi?»
«Che cosa?»
«Che sei l’Uomo dell’Ultima Parola.»
«E a te andrebbe di bere qualcosa con l’Uomo dell’Ultima Parola?»
«Oggi non posso.»
«Domani?»
«Non lo so.»
«Coniglio!»
«Perfetto: domani pomeriggio.»
«Finalmente!»
«Finalmente cosa?»
«Esci dalla tana!»
 
 
 


Salve salvino!
In ritardo come sempre, ma puntuale per Pasqua!
Dunque, dunque, non ho molto da dire se non che nel prossimo capitolo Prue dirà a Barny ciò che è successo.... mannaggia!
Ringrazio come sempre tutti i lettori che spendono un po' del loro tempo per questa storia: grazie di cuore!
E buona Pasqua! Magnate tanti dolci!
A presto,
C.

P.S: Ho messo le foto di Astrid/Prue e Ben perché.. bé perché sono assurdamente belli, perché è Pasqua e perché spero efp non le faccia scomparire magicamente!
P.P.S: So che 'inaggiustabile' non è proprio italiano però... mannaggia alla licenza poetica!
 
 
 
 

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Capitolo 20
*** Farfalle sporche ***


20. Farfalle sporche
 



Prudence era sempre stata grata di aver visto la luce a Dublino, di essere sbocciata in quella città ventosa e dal profumo salmastro.
Non era di certo la più bella città che esistesse al mondo, ma era una città-serpente, con la sua lunga lingua verde che sibilava nella notte, e le squame fatte di case semplici e castelli medievali; città spigolosa e tagliente come uno scoglio, come la sua costa scura modellata dalle mani forti del vento.
Città da cui bisogna scappare per imparare a sentirne la mancanza.
Con la fronte poggiata contro il vetro spesso dell’autobus, Prudence osservava le strade assolate di Dublino, bagnate dal calore di un Agosto insolitamente afoso.
Si sentiva sudata ed accaldata dentro al suo prendisole rosso porpora, e i capelli, ormai fin troppo lunghi, erano più arricciati del solito.
Si abbandonò contro lo schienale del sedile e chiuse gli occhi.
C’era un ragazzo, un uomo, che la aspettava seduto su una spiaggia deserta, con tante speranze fragili tra le mani: forse una casa, un appartamento tutto per loro in un bel posto; una famiglia perfetta, solida, senza scomparse silenziose, senza litigi che lasciano frantumi taglienti sul pavimento.
Benjamin, senza troppo giri di parole, io ti ho tradito.
La casa si spezza sotto il peso del soffitto e delle pareti crollate, la famiglia perfetta-solida-presente si spacca come un piatto gettato a terra.
E che grandi cose che sanno fare, le parole!
Che grandi cose che sa fare, la pelle!
La sua pelle sporca, bruciata, tagliata, infangata e come ti sei permessa? Come hai potuto?
Benjamin, senza troppi giri di parole, io ti ho tradito.
L’autobus frenò piano, delicatamente, silenzioso e Prudence, ridestatasi dai suoi pensieri-rimpianti, si affrettò a scendere.
Voleva arrivarci in fretta, su quella spiaggia, dire quello che doveva dire e andarsene alla svelta: uno strappo veloce, preciso e letale, perché sua madre le aveva insegnato che le cose veloci fanno meno male.
Camminò a passo svelto su un marciapiede accidentato di Portrane, pensando alla sua povera, fragile, misera storia.
Che fine indegna!
Una storia che aveva saputo andare oltre le barriere del Concreto, spingersi fino ai limiti dell’Astratto; storia nata, cullata, cresciuta e ammazzata in una città spigolosa e bagnata, umida e salata, così salata da poter bruciare la pelle; storia che aveva saputo legare strette due persone con molto poco in tasca ma con il petto che sapeva contenere e racchiudere il peso di anime troppo affamate, troppo affamate per un mondo come quello qua fuori.
E poi finita, interrotta, pugnalata alle spalle da una pelle sporca, bagnata di fango, caduta a terra, spaccatasi come una bottiglia di vetro svuotata di ogni cosa.
Che fine indegna!
Da lontano, la spiaggia cominciò a prendere forma e comparvero a poco a poco la vecchia torre abbandonata, la sabbia scura e il mare che sapeva farsi vedere, sapeva farsi sentire anche a chilometri e chilometri di distanza, mare che era e che sarebbe sempre stato una presenza fidata: il mare non sarebbe mai scappato via come i non-padri troppo impegnati a fare i non-padri.
Prudence si affrettò, velocizzò il passo e, una volta arrivata in prossimità degli insabbiati gradini di pietra, si tolse le ballerine, si armò dell’Appuntito Coltello Della Verità e fu pronta, pronta a ferire, strappare, distruggere con la sola, disarmante forza delle parole.
Benjamin era già arrivato, la stava già aspettando da chissà quanto, e aveva cercato di ingannare il tempo camminando a piedi nudi sulla riva gelida, con una maglietta scura e spiegazzata stretta in una mano.
Prudence lasciò che le ballerine affondassero nella sabbia scura e gli si avvicinò, attenta a non farsi sentire.
Studiò la sua schiena bianca e sudata, i piccoli nei scuri disseminati sopra la sua pelle chiara, riusciva a distinguere perfettamente alcuni piccoli graffi nati dalle sue unghie non troppe notti fa.
Il solo ricordo, il solo pensiero bastò ad imporporarle le guance.
Arrossiva così anche otto anni fa, quando carne e sudore si incontravano nel buio di una piccola stanza e lei chiudeva gli occhi e si aggrappava a quella schiena, come fosse lo spiraglio di un mondo un po’ meno bastardo di quello calpestato ogni giorno; e poi restavano solo promesse pronunciate con il fiato corto e la voce piena d’affanno.
 
Prue?
Sì?                         
Heathcliff.
Chi?
Nostro figlio. Nostro figlio si chiamerà Heathcliff.
Heathcliff?
È perfetto. Senti qui: Heathcliff, giù dall’altalena!
Heathcliff, non fare i capricci!
Heathcliff, lo vuoi prendere un gelato col papà?
Heathcliff, com’è andata oggi a scuola?
Heathcliff, vuoi che ti racconti una storia?
Heathcliff, riordina la cameretta!
Heathcliff, questa casa non è un albergo!
Sì, direi che suona bene.
Allora è deciso: Heathcliff, Heathcliff Barnes.
 
Prudence scosse la testa, tentando di scacciare i ricordi, e si affrettò a raggiungere Benjamin. Quando gli fu accanto lo prese per mano guadagnando un sorriso sorpreso e, allo stesso tempo, sollevato: forse non aveva sperato più di tanto di vederla arrivare.
«Alla buonora!»
«Scusa, ho dovuto aspettare che arrivasse Angie per lasciarle Leila.»
«Meglio tardi che mai.»
Le sorrise, e Prudence fu lieta di notare che il suo aspetto era migliorato dall’ultima volta che si erano visti: i capelli erano stati finalmente tagliati, le occhiaie erano quasi scomparse e, cosa più importante, si era deciso a farsi curare e fasciare la mano ferita.
«Benjamin, senti… devo dirti una cosa.»
Aveva provato e riprovato più volte a trovare le parole giuste, a confessare le sue colpe davanti ad uno specchio e pensava che al momento giusto ce l’avrebbe fatta, pensava che sarebbe riuscita a dire tutto senza girarci troppo attorno; pensava che le parole sarebbero scivolate da sole fuori dalle sue labbra mentre lei avrebbe retto, senza alcun timore, lo sguardo buio di Benjamin.
Ma si sa: le cose non vanno mai come volevi, mai come pensavi.
E adesso, sopra ad una spiaggia irlandese bagnata da un sole sbagliato, c’era una donna con lo sguardo basso e parole cadute giù nel fondo del petto e mai più riaffiorate sulla superficie della lingua.
«Ti devo dire una cosa.» ripeté per darsi forza, per incoraggiarsi e forse sperava di non doverla dire, quella cosa, sperava che lui ci arrivasse da solo e Prudence, cara Prudence, la tua pelle mi sembra sporca-sporca-sporca: non è che mi hai tradito?
«Me la dici dopo, d’accordo?»
Lei alzò il capo e incontrò un volto sorridente, un volto ancora ignaro e felice, felice nel suo non-sapere la verità.
Prudence annuì, incapace di parlare.
«Ho portato questo.» disse Benjamin, facendo cadere a terra la maglietta e tirando fuori dalla tasca dei jeans un iPod datato e un paio di auricolari.
«Una cuffia a testa, come ai vecchi tempi.»
Prudence afferrò una cuffietta dalla mano tesa di Ben e la infilò in un orecchio, lui la imitò e poi si mise ad armeggiare per trovare la canzone giusta nella playlist giusta.
«Eccola: ci siamo!»
Prudence aspettò, nascosta dal silenzio che precede ogni canzone, aspettò di sentire qualche nota; aspettò guardando negli occhi Benjamin, senza staccare lo sguardo, sentendosi protetta da quel silenzio buio.
Le bastò sentire il primo accordo per capire di che canzone si trattasse, probabilmente se l’aspettava: era stata La Canzone del loro tempo insieme.
«Nonostante le mie inesistenti doti di ballerino, mi concederesti un ballo?» chiese Ben, dopo aver accuratamente sistemato l’iPod in una tasca dei jeans.
Prudence accettò con un sorriso l’invito e si ritrovò presto stretta contro il suo petto, con le unghie saldamente aggrappate alle sue spalle sudate; chiuse gli occhi e sentì mani gentili correrle lungo il corpo, risalire lente sotto al suo prendisole e poi posarsi decise sulla sua schiena nuda, e mentre  quel vortice di carne e pelle accaldata li teneva uniti in un abbraccio poco amichevole, gli Oasis finirono presto la loro canzone.
Prudence non fece in tempo a riaprire gli occhi che si ritrovò a terra, sotto il peso di un bacio preteso da labbra voraci, labbra stanche di aspettare, stanche di essere respinte e lei, nonostante la sabbia fastidiosa a graffiarle la pelle e aggrovigliarle i capelli, non si tirò indietro, non pensò a ciò che avrebbe presto dovuto confessare, si spinse con tutta se stessa dentro a quel bacio che non aveva nulla di romantico.
C’era una pretesa velata, dentro a quelle labbra, c’era uno smettila-di-correre gridato in silenzio e lei, sudata e sporca di sabbia, intrecciò le dita nei capelli scuri di Benjamin e lo abbracciò stretto: carne che si stringe contro altra carne, pelle che brucia sopra a sabbia schiacciata, appiattita sotto il peso di corpi che cercano qualcosa di più, che sanno fare di quella loro pelle un rifugio contro la realtà che è dura, che è appuntita, che taglia, che squarcia, che svuota.
«Dopo questo, dovrò imparare di nuovo a respirare.» sussurrò Benjamin, la voce affannata contro il collo di Prudence.
Lei non si mosse, non rispose, non voleva parlare perché quello era un momento che non richiedeva la presenza di parole, non ce n’era il bisogno e le andava bene così, e avrebbe voluto poter fermare il tempo, poter maneggiare il tempo a suo piacimento e poter cambiare le cose sbagliate; avrebbe voluto ritornare La Giovane Ragazza Che Aspetta, con il suo libro non letto tra le mani, una metropolitana buia tutto intorno a lei ed un ragazzo che si è perso, che ha bisogno di indicazioni, che ha bisogno di qualcuno che gli dia labbra da mordere, pelle da stringere e un cuore da far battere e adesso andrà meglio, vorrebbe dirgli, adesso che il tempo ci ha dato una seconda possibilità starò attenta a ricordare gli errori da non fare e le ferite da non aprire.
Ma il tempo non dà seconde possibilità a nessuno, figuriamoci a due come loro!
«Benjamin, devo dirti una cosa.»
«Sì?»
Prudence riaprì gli occhi e, spingendo Ben di lato, si alzò barcollando un poco.
«Ti ho tradito.»
Lui si rimise in piedi, uno sguardo confuso dipinto sul viso.
«Cosa?»
«Ti ho tradito.»
Nessuno aggiunse altro, restarono per qualche minuto a guardarsi, probabilmente nessuno dei due avrebbe voluto andare oltre quella frase, oltre quelle parole che sembravano saper avvolgere una verità inaccettabile, una verità capace di tagliare il filo sottile che li teneva uniti.
Ma Prudence non li aveva mai sopportati, i sensi di colpa, e ora che le parole erano cadute fuori dalla sua bocca, non le restava che tentare di dare una spiegazione, di darsi una spiegazione.
Per quanto patetica potesse risultare.
Provò a raccontargli di quella notte, di quell’ennesimo litigio e del suono della bottiglia scagliata a terra che lei riusciva ancora a sentire, così nitido da far battere i denti; gli spiegò che lei non voleva rubargli il futuro, non voleva avvolgere le sue speranze e trattenerlo a forza dentro ad una vita senz’altro difficile.
Gli disse: ‘ti amo, Benjamin, ma’ e dopo quel ‘ma’ seguirono parole che sembrarono trafiggerlo come frecce appuntite, e quel senso di colpa scorreva via da lei come un fiume in piena, svuotandola, liberandole i polmoni.
Lo osservò, mentre parlava, e quando gli disse che aveva voluto ferirlo, che aveva voluto dimostrargli di sapersi bastare, si sentì quasi scivolare giù per il pozzo buio dei suoi occhi delusi.
‘Mi dispiace’ disse alla fine, dopo avergli ripetuto che per lei non aveva avuto importanza, che quella notte era stata un grosso sbaglio di cui si sarebbe pentita per sempre.
‘Mi dispiace’ disse alla fine, e si sentì come un frutto appena sbucciato, nudo e al freddo, pronto ad essere triturato da denti affamati.
«Mi dispiace. Scusa.»
Benjamin scosse la testa, raccolse da terra la maglietta e la indossò, si infilò le scarpe senza allacciare le stringhe e rivolse un ultimo sguardo a Prudence.
«È che a volte le scuse non bastano, Prue.»
«Ti giuro che per me non ha significato niente!»
«Per me sì, invece.»
«Ben…»
«Avevi ragione: noi due non siamo destinati a vivere per sempre felici e contenti.»
Le diede le spalle e si allontanò.
Lei lo guardò andar via, incapace di muoversi, di fermarlo, di salvarsi, come una farfalla con le ali troppo sporche per volare.
 
 
 
 
 

Ciao a voi, lettori pazientissimi!
Purtroppo è stato(ed è) un periodo un po' dimmerda(tra l'altro ieri è pure finita la prima stagione di Poldark e adesso dovrò fare a meno di Aidan Turner per i prossimi 10 mesi, poteva andare più dimmerda? Io credo di no!) in cui ho avuto un bel po' di roba da fare, e quindi per scrivere questo capitolo ho impiegato quasi un mese(quando si dice 'autrici organizzate'!)
E poi vi confesso che ho dovuto riscriverlo uno quarantina di volte perché non mi convinceva e questa, oggi pubblicata, è la versione più accettabile che ne è venuta fuori.
Dunque, dunquerrrimo... Barny l'ha presa malaccio(nel prossimo capitolo ritorno a scrivere dal suo punto di vista e chissà cosa gli combinerò!), ma io ho pur sempre promesso un lieto fine perciò abbiate fede!
E nulla, io ringrazio di cuore chi legge e chi sopporta pazientemente questi ritardi(GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE!) e smammo!
A presto(detta da me fa popo ride)
peace(perché Ringo Starr docet),
C.

P.S: Io mi smaterializzerei volentieri a Portrane, non so voi...




 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 21
*** Sirene ***


21. Sirene



Occhi Bui ha due mani arrabbiate che spazzano via ogni cosa, che ricoprono il pavimento con i cocci di una casa che nemmeno gli appartiene.
Occhi Bui ha due piedi che spezzano i vetri a terra, che calpestano quello che resta, tutto quello che resta.
Non pensava di esserne capace, non pensava di averne la forza, di averne la rabbia eppure adesso sa, adesso sa che anche lui può distruggere le Cose Dolorose, sbatterle per terra, schiacciarle; adesso sa che può piangere di rabbia e non solo di tristezza, che è un uomo duro anche lui.
E i suoi compagni di scuola a volte gli spaccavano la pelle e gli dicevano non hai le palle! non hai le palle!
Buon Dio, se solo potessero vederlo adesso!
Adesso che è furioso, che è sudato, che è tradito, che è spezzato.
Ma il suono delle cose rotte non è abbastanza forte, la sua rabbia non fa abbastanza rumore e c’è una voce, una voce che pulsa nella sua mente cancellando tutto il resto.
Ci sono labbra che gli mordono la coscienza, occhi che lo feriscono e che gli scorticano l’anima, e mani che gli spaccano la pelle peggio dei bulli nei bagni di scuola.
Chiude gli occhi, cade in ginocchio sulla sua casa rotta ed è esausto, esausto, esausto, ma continua a sentirLa, continua a vederLa e Lei gli mangia la forza, gli mangia la speranza, gli mangia tutto l’amore che ha in corpo.
È la sirena.                    
Le sirene, si sa, sono sempre affamate e stringono tra le dita una bellezza che può far male, male come nient’altro.
Le sirene, si sa, si prendono l’amore e non danno niente indietro.
Le sirene, si sa, non ti lasciano vivo.
E allora annega nel buio di una notte irlandese, affoga tra i resti di una storia ammazzata senza pietà, chiude gli occhi e crolla sul fondale di casa sua, dove i vetri di ciò che è stato buttato a terra danno più fastidio della sabbia umida.
Chiude gli occhi, chiude gli occhi e il buio gli cade addosso, il buio lo ingoia come il mare ingoia le navi affondate, nascondendole nel profondo della sua pancia bagnata e salata.
 
 
Riemerge dal buio del suo sonno, si alza dal suo letto di vetri taglienti e si guarda attorno dove non c’è più una casa ma il Ciò Che Rimane di una casa, e d’altronde anche lui sente d’essere diventato solo il Ciò Che Rimane di un uomo.
Prova a prendere fiato, a respirare ma il suo petto non funziona più come prima, c’è una furia compressa sotto la sua carne che gli sgocciola via dagli occhi, e ha mani non abbastanza ferite per smetterla di distruggere ciò che non è distrutto, ciò per cui esiste ancora una speranza.
Ma infila le mani in tasca, va ad affacciarsi al davanzale sporco e impolverato e si fuma la sua sacrosantissima sigaretta, come se niente fosse.
E infatti non è niente, lui è un uomo adulto che può sopravvivere a viaggi fin troppo lunghi, mancanze, sbronze, bollette da pagare, interviste insistenti e invadenti, piatti da lavare, critiche che a volte gli sputano addosso veleno, partite di calcio da guardare da solo, compleanni da passare al telefono e sirene. Lui può sopravvivere anche alle sirene.
Anche se lo sbranano, anche se hanno gli occhi verdi che brillano più di ogni stella nel cielo e le labbra che potrebbero addentare il mondo come fosse un frutto maturo.
Lui può sopravvivere, lui sa sopravvivere e sopravviverà.
Ma è arrabbiato, c’è poco da fare.
Ma è furioso, e non lo può ignorare.
Non sa cosa lo ferisca di più, se il tradimento o la muta bugia che Lei ha saputo conservare così a lungo, anche davanti a lui, davanti ai suoi occhi neri e stanchi.
Prova a ripensare a otto anni fa, alla notte in cui ha alzato troppo la voce e Lei è scappata via, scivolata troppo lontano dalle sue mani, e ha commesso una sbaglio che, nonostante tutto l’amore che gli scorre nelle vene, lui non può perdonarle.
Neanche dopo otto anni.
Soprattutto dopo otto anni.
Fuori dalla sua finestra c’è un sole fastidioso che illumina una città già sveglia, già al lavoro, con persone rovesciate sui marciapiedi, negozi che alzano la saracinesca, bar che si riempiono di risate e metropolitane pronte ad accompagnare chiunque dovunque; e c’è chi cammina in silenzio e pensa ai fatti suoi, chi si è svegliato col piede sbagliato e ha negli occhi l’espressione del che-giornataccia-che-mi-aspetta!; e poi chi sorride, sorride, sorride e saluta anche gli sconosciuti, chi si specchia nelle vetrine e sbuffa, che capelli questa mattina!; e chi parla al telefono con qualcuno di importante e pensare che, dannazione, avrebbe voluto fermarsi al bar a fare colazione! Ma la vita non ti aspetta, neanche se sono solo le sette di mattina.
Neanche se hai il cuore spaccato a metà.
La vita non ti aspetta. Dublino non ti aspetta.
Dublino va avanti nonostante i cuori traditi affacciati alle finestre e i padri che volano via dai figli.
E lui non sa, non sa cosa lo trattenga dal fare la valigie e prendere il primo aereo per Los Angeles come ha già fatto Franziska solo pochi giorni prima.
 
 
Il ricordo è ancora vivido, nella sua mente può ancora vedere i capelli d’oro di Franziska stretti in uno chignon dall’aspetto severo, gli occhi di ghiaccio nascosti dietro a lenti grandi e scure, le mani strette ai bagagli e le labbra sottili che danno voce a parole dette con elegante freddezza.
 
Il mio posto non è con te.
Hai ragione.
Ho bisogno di un uomo innamorato.
È giusto.
Tu sei un uomo innamorato.
Davvero?
Sì. Ma non di me.
 
Un sorriso e Franziska sparisce, vola via come una farfalla.
 
 
La sigaretta gli muore tra le dita mentre assapora l’ultima boccata di fumo come se potesse mangiarselo, come se potesse distinguerne il gusto, ma il fumo sa del nulla e non può certo sfamare la sua lingua secca.
Si allontana dalla finestra, vaga per l’appartamento mentre Chissà Cosa continua a frantumarsi sotto ai suoi piedi poco attenti, il suo sguardo cade sul borsone scuro abbandonato vicino al muro sporco.
Si avvicina svelto e fruga tra i vestiti spiegazzati, affonda le mani tra una maglietta ed un jeans finché le sue dita non si scontrano con la copertina di un libro.
Lo afferra e lo tira fuori.
Ha l’aspetto ingiallito e logoro tipico dei buoni libri, quelli che si rileggono non importa quante volte, quelli che invecchiano con te, che hanno il loro posto fisso nella libreria o sul comodino e, se qualcuno li sposta anche solo di mezzo centimetro, te ne accorgi alla prima occhiata.
Si siede sul divano e apre il suo libro, che in realtà non è il suo libro.
È di Prudence, anzi, è di una biblioteca di Dublino che sta ancora aspettando di vederselo restituito e sì, lo so che è come se l’avessi rubato, ma in realtà è stato Lui a rubare il mio cuore! aveva detto Occhi Verdi durante un pomeriggio grigio e freddo, mentre restavano riparati nell’abbraccio di legno del loro albero grande.
 
Anche questo ricordo è ancora incredibilmente nitido, tanto che riesce a ricordarne le parole.
 
Benjamin, devi sapere che Cime Tempestose è il mio libro-nascondiglio.
Libro-nascondiglio?
Un bel posto in cui puoi nasconderti quando la realtà ti morde.
E come mai hai scelto di nasconderti proprio dentro a Cime Tempestose?
Perché Heathcliff mi lascia la porta aperta.
Davvero?
Se vuoi posso chiedergli di lasciarla aperta anche per te, che ne dici?
Mi farebbe davvero piacere.
 
Un sorriso riaffiora sulle sue labbra, ma scompare appena il ricordo si dissolve.
Ora è tornato ad essere da solo, solo contro la realtà che lo morde coi suoi denti aguzzi, lo sbrana peggio di una sirena affamata e lui non sa a cosa appigliarsi per sfuggirle, come fai a rimanere vivo in mezzo alla realtà?
Il temporale dei brutti ricordi lo bagna da capo a piedi, diluviano attimi infelici sulla sua testa e lui corre, smarrito e confuso, tra le strade scure della periferia della sua memoria, dove l’unica luce sono i lampi che spezzano il cielo buio della sua mente, e le parole-coi-denti-appuntiti si abbattono a terra, si perdono tra i suoi capelli, inciampano nei suoi vestiti e piove, piove, piove perché anche le Cose Dolorose sanno piovere.
La realtà lo sta mordendo, lo sta spaccando e, francamente, a lui non va più di correre. Ma ci sarà un maledetto posto in cui nascondersi!
Volta la prima pagina, la lingua muta del pensiero assapora le parole, si perde tra le parole, parole che sanno far smettere di piovere, che sanno alzare abbastanza la voce per cancellare ogni altro suono esistente.
E allora la realtà molla la presa, lo lascia ferito ma ancora vivo perché i suoi denti non possono nulla contro quelle parole.
Sorride. Heathcliff gli ha lasciato la porta aperta.
 
 
 
Anche se lui resta fermo il tempo passa e non lo aspetta.
I giorni diventano inconsistenti, un miscuglio disordinato di sigarette, vetri che si rompono sotto il peso dei suoi passi, una finestra che si apre quando è buio e si chiude appena la luce illumina le strade, e ancora sigarette e poi alcol, decisamente troppo.
Il telefono urla nella tasca dei suoi jeans, lo sente strillare il Suo nome – Prudence!Prudence!Prudence! – ma non riesce a rispondere, la rabbia e l’umiliazione gli battono nel petto come un pugno.
Appena si sdraia sul divano il telefono riprende a squillare, frenetico e bisognoso di una risposta, e vorrebbe pigiare sul tasto verde ed essere tagliente come la lama di un coltello, sentirla restare senza fiato per il dolore, ma chiude gli occhi.
Lascia che il telefono continui a gridare.
 
Il terzo giorno è uguale ai due che lo hanno preceduto soltanto che, dannazione, ha finito le sigarette.
 
Il quarto giorno il cielo di Dublino sputa acqua sulle strade e gli alberi si muovono agitati dalle mani barbare del vento.
Lui ha dimenticato la finestra aperta e gli piove in casa.
Pazienza.
 
Il quinto giorno finisce anche la birra, la testa gli scoppia e la nausea lo sfianca.
 
Il sesto giorno si risveglia sul pavimento freddo del bagno.
Ha toccato il fondo.
Ma è scaduto il tempo, ma deve avere un po’ di rispetto per se stesso e quindi basta, che non è più il caso di restare.
Basta, che quella città fuori dalla finestra lo ha lasciato nudo e affamato, è una città che ti divora, con dentro sirene che ti divorano e lui non è abbastanza forte per restare.
E allora basta, basta, che ha toccato il fondo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ciao a te, pazientissimo lettore.
Io, a quest'ora, dovrei star studiando e invece sto aggiornando Ben e Prue... non è eccitante? Infrangere le regole!(okay, okay, la smetto di rubare le frasi di Hermione Granger)
Comunque, caro lettore, dal momento che non aggiornavo da quasi un'intera era geologica, eccomi qui, con un nuovo divertentissimo capitolo!
Che dirti? Io lo so che sono una gran ritardataria, e per questo ti chiedo scusa e, se sei ancora qui a leggermi nonostante tutto, ti ringrazio con tutto il mio cuore.
GRAZIE!
C.

P.S: Lo so che avete anche voi un libro-nascondiglio... tutti ne hanno uno!
P.P.S: Ben Barnes riesce a essere faigo anche con una camicia da boscaiolo... mi spiegate come fa? Voglio saperlo!
P.P.P.S: La smetto con i 'P.S'!
 
 
 
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 22
*** Raccogliersi ***


 22. Raccogliersi

  





Le nuvole si mangiano una Dublino troppo piccola, troppo bassa per poterlo raggiungere, per poterlo sfiorare.
E mentre l’aereo si innalza tra le coltri bianche di un cielo sereno, lui si sente tirato a forza fuori da una baia buia, fuori da acque scure in cui le sirene fanno quello che devono fare e lui è soltanto l’ennesimo pezzo di carne, carne che ha dentro un cuore scalpitante sommerso da acqua salata e che ci vuoi fare, vecchio mio?  È questo ciò che spetta a chi si tuffa dove l’acqua è troppo profonda e non sa, non ha idea di cosa si nasconda sotto la superficie scura.
Osserva la Città-Salata dal suo finestrino e si sente un sopravvissuto, uno che è riuscito a salvarsi la pelle e deve ancora farci l’abitudine al fatto di essere rimasto vivo, vivo in mezzo alla vita.
Ha fame, non mangia da giorni e del resto è cosa nota che alcol e sigarette non bastino a saziare le pance vuote.
Ha anche la schiena dolorante, dev’essere colpa del pavimento freddo e duro del bagno su cui ha passato le ultime tre notti, in preda ad una sbronza da cui non avrebbe mai più voluto uscire perché – e questo lo ha provato sulla pelle – le cose fanno meno male quando non sei abbastanza cosciente da capirle, da ricordarle.
Eppure si è saputo raccogliere da terra e, nonostante il vomito e la rabbia, ha preso le sue cose, ha fatto le valigie ed è salito sul primo aereo per Londra, per la sua città, il suo porto sicuro.
E Londra non è come Dublino, Londra non è così spigolosa e tagliente e non ha acque scure in cui nascondere sirene affamate; Londra è una città in cui puoi restare a riva, in cui non servono le branchie, in cui lui può e sa vivere, sopravvivere.
Il pensiero della sua fresca città lo consola, lo nutre di speranza, speranza però flebile e pallida perché – altro taglio sulla pelle – anche a riva la vita è dura.
Chiude gli occhi e cerca di addormentare ciò che ha saputo raccogliere di se stesso, ciò che è rimasto di se stesso.
Dovrà rimettersi a posto una volta raggiunta la riva.
 
 
 
 
C’è un sole freddo sopra i tetti della sua città-salvatrice e un vento fresco lo fa rabbrividire.
Mentre si mischia al traffico e ai milioni di cuori sparsi per le strade, prova a pensare al suo passato, quello in cui gli Occhi Verdi non l’avevano ancora divorato.
È stato un bambino felice, pieno di storie della buona notte e passeggiate della Domenica mattina con la mano ben stretta a quella della mamma.
Sua madre e suo padre gli hanno raccontato quel poco che si può raccontare sul mondo e sulla vita, gli hanno parlato di continenti ed oceani, mari e montagne, soldati e guerre, alleati e nemici.
Gli hanno spiegato che il sole non muore mai, ma deve pur lasciare un po’ di spazio alla luna!
E non vedrai mai notti buie, piccolo nostro, perché c’è sempre una stella che brilla da qualche parte lassù.
Un giorno ha chiesto cosa fosse quell’amore ripetuto dai dischi in vinile di papà.
«Una cosa che aggiusta tutto.» gli hanno risposto.
«Come una super colla?»
«Proprio come una super colla.»
Adesso che il bambino che è stato lo ha abbandonato, capisce che gli hanno mentito.
Vaga verso casa sua, stanco e sudato, mentre calpesta noncurante le strade che lo hanno cresciuto, richiamato a casa dopo una giornata di scuola, spiato mentre dava il suo primo bacio, ascoltato quando aveva da dire cose che non avrebbe potuto e saputo dire a nessun altro.
Che cosa magnifica, la strada!
Il ricordo traslucido della sua giovinezza resta impigliato all’asfalto umido, ed ogni passo gli ricorda ciò che era, ciò che è diventato.
E allora respira.
Dentro ai confini astratti della sua città può tornare a respirare, Londra gli libera i polmoni, gli alleggerisce le spalle.
Londra è casa sua e a casa sua lui può essere quello che è.
Respira.
 
 
 
L’acqua che scivola sul suo corpo lava via il sudore e la delusione, la sua pelle torna a respirare ma tra le sue costole si agita una furia che quasi gli toglie il fiato, quasi lo sfianca.
Mentre il suo amore ammazzato sgocciola via dalla sua carne, sente parole con denti aguzzi strisciare nel bel mezzo dei suoi pensieri urlanti.
Parole che mordono e avvelenano peggio dei serpenti infastiditi.
Ti ho tradito.
Non sopporta la freddezza con cui quelle parole sono uscite fuori dalla Sua bocca, come fossero niente di grave, nulla di importante.
Non sopporta gli umidi ‘ti amo’ pianti fuori dalle labbra per tamponare ferite che resteranno aperte finché avrà pelle.
Non sopporta neanche più il suo cuore straripante d’amore per chi dell’amore non merita nemmeno le briciole.
E adesso che è nudo, solo e grondante d’acqua gelida, si sente debole e patetico.
Il getto freddo della doccia lo fa sussultare, batte un pugno su una mattonella bagnata e pensa solo che vorrebbe averLa accanto, contro la sua pelle, sotto l’acqua così fredda da saper aprire tagli invisibili sul suo corpo stanco.
Vorrebbe litigare con Lei, alzare la voce, urlarLe addosso tutta la sua rabbia appiccicosa e non importa ciò che penseranno i vicini.
Ma se n’è andato senza aggiungere niente: nessuna virgola speranzosa, nessun punto e a capo, nessuna pagina voltata. Solo frasi in sospeso, storie in sospeso.
Quando, gocciolante e infreddolito, esce dalla doccia e si scontra con lo specchio, capisce che l’amore non aggiusta proprio un bel niente ma si limita soltanto a lasciare occhiaie, fame, cuori feriti, notti insonni, rabbie trattenute a stento e sul viso l’espressione di chi non ha più niente da perdere.
E così l’uomo sfuggito alle onde salate si rimette a posto come può, ora che è salvo sulla sua isola troppo povera rispetto a ciò che freme sotto la sua pelle; si rende presentabile più per se stesso che per gli altri, per gli specchi in cui il suo sguardo cadrà, per gli specchi in cui vuole vedere il riflesso di uomo che non crede neanche che esistano, le sirene.
 
 
Casa sua è una piccola barca in quel grande porto che è Londra.
Una barca che condivide con un fratello momentaneamente assente, ma presto di ritorno col suo sorriso gentile, le battute così pessime da suscitare infallibilmente il riso e i suoi abbracci, gli abbracci stretti del finalmente-sei-tornato.
Occhi Bui sorride distrattamente mentre pensa al fratello più piccolo e spesso più coraggioso, si ricorda dei suoi occhi vispi e delle guance sempre asciutte, anche dopo le cadute e le ginocchia sbucciate, e quasi invidia quella forza d’animo che lui sente di aver perso per colpa del tempo e delle porte in faccia, dei fallimenti e delle delusioni.
Ma nonostante suo fratello sia sempre stato il faro splendente anche nelle tempeste peggiori, stavolta non gli racconterà niente, né a lui né a nessun altro.
Si chiude alle spalle la porta del bagno e, con i capelli ancora gocciolanti, si trascina stanco fino in camera.
Si abbandona sul letto, gli occhi allacciati al bianco luminoso del soffitto e i ricordi che gli scorticano il petto.
Li sente agitarsi oltre le barriere della sua mente con una forza quasi barbara, sono ricordi che gli ricordano che certe cose non le può dimenticare neanche volendo.
E in mezzo alla foschia accecante dei suoi pensieri striscia il ragazzo ventenne che è stato, striscia il suo amore maltrattato e strisciano le lettere e le confessioni che hanno ferito per sempre la sua fiducia.
Chiude gli occhi e il giorno si spegne nel suo sonno buio e statico, ma Lei resta accesa in mezzo alle sue ossa, brilla sotto la sua carne e gli brucia la pelle; il Suo tocco incandescente scotta il suo io ammaccato ricordandogli che no, non La può dimenticare neanche volendo.
 
 
 
 
 

Il ritardo questa volta è di proporzioni che sforano le ere geologiche, e vi chiedo venia! 
Sono stati due mesi parecchio impegnativi e la connessione ha anche deciso di dare il suo contributo... sparendo simpaticamente! 
E me sò pure beccata la febbre e ho passato gli ultimi due giorni a guardare videocassette di film di Robert De Niro(si può avere una cotta per un ultrasettantenne?) e a revisionare questo capitolo(di cui non sono ancora completamente soddisfatta)
Mi spiace aver fatto passare così tanto tempo e mi spiace che il capitolo non sia granché(anche perché accade poco), spero di non avere altri intoppi in futuro!
Grazie, mille grazie a chi legge, anche a chi lo fa in silenzio.
Un abbraccio,
C.


 

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Capitolo 23
*** Sii forte ***


23. Sii forte




«Alla mamma farebbe piacere vederti.»
Occhi Bui non stacca lo sguardo dallo schermo del televisore, dove un film ormai conosciuto a memoria si trascina lentamente avanti.
Ma lui segue la pellicola con l’attenzione di uno spettatore ingenuo, come se non sapesse che alla fine, come tutte le altre volte, Robert De Niro perderà i soldi, gli amici e la donna amata.
«Ben, sai quanto le manchi.»
Una delle sue scene preferite ruzzola davanti ai suoi occhi, quasi fosse capita per sbaglio in quel posto, in quel momento.
Elizabeth McGovern è di una bellezza quasi dolorosa mentre ascolta ad occhi bassi una dichiarazione d’amore che, come fosse una noce di cocco, finirà spaccata a metà da poche parole, taglienti al punto giusto.
Ma la scena muore nel buio del televisore appena spento, appena oscurato dal gesto secco e deciso di suo fratello Jack.
Occhi Bui non si muove, non apre bocca perché conosce suo fratello e la sua invidiabile, sconfinata perseveranza.
Spesso, in passato, avrebbe voluto chiedere a sua madre e al Dio un po’ annacquato dalla sua poca fede perché non ne avessero donata un pizzico anche a lui, di perseveranza, per vincere le partite della vita che invece lo hanno sempre lasciato col fiato corto e la sconfitta tra le dita.
Ma stavolta non vincerà nessuno dei due.
«Sai già come va a finire. Lui perde, perde tutto.» gli dice Jack, indicando il vuoto rimasto al posto del film.
«Secondo te se lo merita?»
«Non si tratta di meritarselo, è il corso delle cose.»
«Il corso delle cose?»
«Niente va mai come vorresti.»
«Vorrei che ti sbagliassi.»
Suo fratello rimane in silenzio, stavolta ha perso ogni parola e gli resta solo lo sguardo di chi non sa come aggiustare le cose rotte.
Ma Occhi Bui si alza svelto e scivola lontano, oltre la porta di camera sua, dove spera di non essere più raggiunto dagli ormai insopportabili ‘Ben, bevi troppo. Ben, smettila di rovinarti il fegato. Ben, basta alcol. Ben, dimmi qual è il problema’.
Ma Ben non ha niente da dire, nessun problema da raccontare, nessuna giustificazione da dare – e da darsi – per le troppe bottiglie abbandonate sul pavimento. E non ci sono spiegazioni neanche per le notti passate sveglio a fumare sigarette sul balcone di camera sua, mentre sotto ai suoi occhi di spettatore della vita i passanti passano, gli innamorati si amano e i disperati si disperano.
Si tiene stretta sotto la pelle una storia da cui non sa scappare via, di cui non sa scordarsi.
 
 
                                              
«Ben, tu hai un problema.»
Mentre affonda il cucchiaio tra i cereali che galleggiano nella sua ciotola colma di latte, Occhi Bui non può fare a meno di sorridere.
«Già, questi cereali diventano subito mollicci.»
Seduto di fronte a lui, Jack lo osserva preoccupato e sembra non avere alcuna voglia di ridere.
Jack vorrebbe solo andare al lavoro, fare quello che deve fare, commentare a bassa voce la partita di calcio insieme ai suoi colleghi, lamentarsi della dannata pausa pranzo che non gli basta neanche per bere uno schifo di caffè, tornare a casa stanco da morire e trovare suo fratello sobrio e felice, così come dovrebbe essere.
Invece ha di fronte un uomo che passa le sue giornate a rovinarsi fegato e polmoni quasi stoicamente, come se fosse un dovere e non un vizio nato dalla disperazione.
E Dio solo sa quanto deve fargli male la mano destra, bendata da una garza ormai sudicia di sangue rinsecchito.
Dio solo sa cosa sogna di notte e a cosa pensa di giorno. Dio solo sa come e perché si è ridotto così.
«Spiegami cosa c’è che non va.»
«Non c’è niente che non va.»
I cereali non gli vanno più e non gli va neanche di parlare, lo sguardo compassionevole di suo fratello gli fa passare l’appetito e gli toglie le parole di bocca.
Non sopporta l’idea di impietosirlo e vorrebbe urlargli in faccia che non ha capito nulla, che non ne sa niente di lui e dell’amore deturpato che continua a provare, con una lancinante intensità, per Prudence. Non sa che da qualche parte sotto la sua pelle si agita una rabbia che a volte gli frantuma le costole e gli toglie il respiro.
Non capisce che l’alcol gli serve a cancellare Prudence dalla sua testa, oscurarne il ricordo perché quasi gli viene da impazzire quando La vede dove non dovrebbe vederLa e Prudence tra le pieghe del cielo nel tardo pomeriggio; Prudence negli angoli più remoti della notte; Prudence in mezzo alle sue ossa doloranti; Prudence impigliata tra le nubi durante i temporali; Prudence nascosta nelle fresche estati inglesi; Prudence addormentata tra le pagine di un libro; Prudence nelle curve delle strade e sulle panchine dei parchi.
Prudence dovunque, dovunque, dovunque.
«Fanculo questi cereali, mi è passata la fame.»
Allontana la ciotola e si alza, mentre gli occhi di suo fratello lo seguono attenti e potrebbero sventrarlo come un pesce per andare alla ricerca, là sotto la carne, della radice del problema.
Ma suo fratello e la sua dannata perseveranza non sanno aggiustare i cuori spaccati.
Spaccati.
 
 
 
E venne la notte e venne il giorno, fu buio e fu luce e i giorni si trascinarono avanti strisciando i loro piedi sulla terra umida del tempo, ma Occhi Bui sembrava non sapersi cavare via dal petto l’abisso scuro in cui era annegato il suo cuore.
Quando si svegliava riverso sul pavimento di camera sua si rendeva conto del pozzo in cui stava scivolando, ma quasi gli spiaceva fermare la caduta.
E la rabbia gli stringeva il respiro, gli esplodeva tra le costole e non sapeva come fare per strizzarsela via di dosso.
Fu solo allora che capì.
Quando incontrò il suo sguardo spento nello specchio, quando scoprì la ferita sporca sulla mano e il viso sudato e stanco capì che l’amore era fuori dalla sua portata.
Si ricordò di sua madre, della tenacia spropositata con la quale affrontava i problemi che si annidavano in casa loro.
Si ricordò dei litigi disseminati nella storia della loro famiglia, i litigi scoppiati la mattina e risolti sempre la sera prima di andare a dormire.
E nonostante la stanchezza e la monotonia della vita sempre uguale, sempre faticosa e senza sconti, l’amore di suo padre e di sua madre era sopravvissuto, immutato, per quasi quarant'anni, radicato da qualche parte dentro di loro. Più vecchio delle rughe e dei capelli bianchi.
Lui non ce la faceva, ad amare così.
Con calma, con pazienza e tolleranza che chi va piano va lontano. Lui aveva una foga, una fretta quasi disperata, doveva dare tutto subito e con un’intensità che a volte quasi lo spaventava.
Quasi lo sfiniva.
E così si era perso nel pantano fangoso degli amori senza speranza, perché l’aveva capito subito che lui e Prudence erano senza speranza.
Benché  avesse compreso che entrambi facevano da guardia a certe verità come cani ben addestrati, e benché avesse capito sin dall’inizio che, malconci com’erano, non sarebbero arrivati lontano, aveva lasciato germogliare un amore con la data di scadenza.
E quell’insopportabile, sfiancante sentimento avvelenato rimase, chissà dove, a ferirlo, e la colpa – stavolta l’aveva capito – era solo sua.
Prudence c’entrava poco e niente con le sue occhiaie e le sue sbronze, lui s’era sbranato da solo, aveva insistito per salvare qualcosa che era perduto. E che andava lasciato perduto.
Gli ritornò in mente un carme latino letto chissà quanti anni prima, e chissà perché rimastogli ficcato da qualche parte nella testa.
Lavò via il sangue secco dalla sua mano ormai immune al dolore e le parole quasi gli strisciarono di fronte agli occhi.
Quod vides perisse perditum ducas.
‘Ciò che vedi essere morto, consideralo morto.’
Lasciò cadere lo sguardo oltre lo specchio e ingoiò riluttante l’immagine stravolta di sé.
Nec quae fugit sectare, nec miser vive, sed obstinata mente perfer, obdura.
‘Non inseguire colei che fugge, non vivere infelice, ma, con animo fermo, resisti, sii forte.’
Tirò fuori dal pacchetto l’ultima sigaretta e andò, come sua abitudine, ad affacciarsi alla finestra di camera sua.
Obdura. Obdura. Obdura.
Sii forte. Sii forte. Sii forte.
 
 
 
 
Ciao a voi, ciurma!
Come state? Spero le vacanze siano andate/vadano per il meglio!
Mi scuso, come sempre, di questo ritardo... purtroppo il tempo a disposizione per scrivere è quello che è, e il momento attuale non è dei migliori. Mi scuso davvero, cercherò di migliorare.
L'ultima parte del capitolo è scritta al passato perché segna la chiusura di questa triste parentesi della vita di Barny. Dal prossimo capitolo tenterà di rimettersi in carreggiata, con qualche acciacco, ma pur sempre in carreggiata.
Mille grazie del tempo che mi dedicate e del grande incoraggiamento,
a presto(spero per davvero!),
C.

P.S: A fine capitolo ho citato l'ottavo carme di Catullo... nel caso vi andasse di cercarlo e leggerlo per intero, ne vale la pena!
 
 
 
 
 

 
 
 
 
 

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Capitolo 24
*** La superficie delle cose ***


 24. La superficie delle cose
 
 
 
 
 
 
 
 
 
«Vado a fumarmi una sigaretta, torno subito.»
Occhi Bui si appresta a raggiungere l’uscita del ristorante, mentre le candele sui tavoli apparecchiati per due e i sorrisi di chi sa amarsi solo alle cene eleganti, gli fanno venire il voltastomaco.
Ed è grato agli Agosti freschi della sua Londra perché sono colmi di un’aria appuntita che sa cavargli via di dosso ogni pensiero. La stessa aria che, una volta fuggito via dalla sua finta bella serata, gli riempie i polmoni e gli soffia sul viso col suo fiato di brina.
Si merita quella seconda sigaretta quotidiana, soprattutto perché la disperata voglia alcolica si è aggrappata alla sua schiena con gli artigli e sono già tre giorni che chiude gli occhi e finge che l’acqua sia birra.
E allora si appoggia con la schiena ad un lampione e si fuma via la faticosa giornata e la squallida serata.
E non è fiero di se stesso.
Anche se ha spuntato un po’ la barba.
Anche se ha tagliato i capelli.
Anche se ha fasciato di nuovo la mano ferita.
Anche se si è vestito bene.
Non è fiero di se stesso.
Vorrebbe avere la freddezza utile a salvarlo dai ricordi, la stessa freddezza necessaria per voltare la pagina.
E invece è solo andato punto e capo senza sapere più quale storia scrivere.
«Tutto bene?»
Una voce femminile lo costringe a riemergere dall’abisso soffocante dei suoi pensieri, e il rumore ritmato dei tacchi alti sul marciapiede sembra pungergli insopportabilmente il cervello.
«Tutto bene, Ben?»
Occhi Bui alza per un momento lo sguardo e si ritrova di fronte una bella ragazza coi capelli corvini, la pelle bronzea ed un nome dal sapore importante, Isabella.
Isabella parla tanto e ascolta poco, le piacciono i tacchi alti e lo champagne ma non conosce, non immagina che, al di sotto della sua luccicante superficie, il mondo nasconda una periferia buia e sporca in cui niente va mai come vorresti, in cui si perde perché si deve perdere e non importa quanto buono o cattivo tu sia.
E gli piacerebbe sapere e potere ignorare quell’abisso sporco e disperato, ma il puzzo dei futuri bruciati e degli amori annegati gli è rimasto attaccato alla pelle, sotto ai vestiti.
Ed è un puzzo che non si può coprire, che non si lava via.
«Ben?»
«Sì?»
«C’è qualche problema?»
«Sì.»
«E quale?»
«Odio le sirene.»
Isabella lo guarda confusa. Isabella non capisce e non capirà perché ci sono certe cose che non si spiegano e non si capiscono.
Isabella non capirà perché nemmeno ci crede, alla sirene.
Ma c’è stato un ragazzo che se n’è ritrovata una accanto, seduta sulla panchina di una metropolitana buia come lo sono tutti i posti del mondo alle tre del mattino; buia come lo sono gli abissi sporchi dove le case restano senza luce e i figli senza padre.
E lui avrebbe dovuto voltarLe le spalle e tornare ad occupare il suo posto garantito in superficie, ma Lei aveva il nome di una canzone dei Beatles e due occhi che avrebbero potuto spegnere la luna e lui non poté farci nulla, quella sera. Non riuscì a non innamorarsene.
S’era innamorato dei suoi occhi verdi e delle sue labbra carnose e purpuree.
S’era innamorato del suo sorriso malinconico e della sua curiosità consumata.
E s’era innamorato del suo sguardo stanco, di chi non è abbastanza coraggioso da prendere un treno per un posto lontano e si ferma sulla panchina, a guardare chi parte e chi torna.
Il suo amore è sempre stato come un fiume in piena e l’immagine imprescindibile di Lei gli è rimasta ficcata in testa, a fargli male.
Ma non è più un male furioso: è un male disperato.
Lo stesso male disperato appiccicatoglisi addosso otto anni prima, lo stesso male disperato con cui si è svegliato ogni mattina ed è andato a letto ogni sera per quasi un decennio di tempo perduto.
Ha aspettato a lungo che il dolore si richiudesse nel suo guscio ma sa, sa perfettamente che le delusioni restano sempre da qualche parte in fondo alle tasche.
«Le sirene non esistono, Ben.»
Guarda Isabella, guarda Isabella e i suoi capelli scuri come la notte mentre il ricordo del passato inasprisce la sua concezione del presente, del futuro.
Guarda Isabella e vorrebbe poter vedere solo la superficie delle cose, poter credere alle verità assolute che la gente si mette in bocca e andrà tutto bene, Ben.
Ogni giorno può cambiare ogni cosa, Ben.
Niente si rompe irreparabilmente e nessuno si perde per sempre, Ben.
L’amore è una colla, Ben.
Le sirene non esistono, Ben.
Ma lui non è più un bambino che si fida delle parole, ormai è troppo grande per prestare ascolto alle rassicurazioni di chi non sa, non conosce, non ha visto ciò che ha visto lui.
E non ha sentito l’amore che ha sentito lui.
Ma del resto, nessuno è tanto stupido da innamorarsi di una sirena.
 
 
 
«Mi racconti qualcosa di te?»
La luce si infiltra con la forza del giorno che sorge tra le fessure della persiana, e il volto di Isabella appare trasognato in quell’oscurità violata.
«Sono una persona noiosa, Isabella.»
«Davvero?»
«Tremendamente noiosa.»
Non vuole raccontarsi perché di lui non è rimasto più nulla, sente d’essere diventato il torsolo di un uomo e la presenza, accanto a lui, di quella ragazza quasi lo infastidisce.
Sembra essersi stesa apposta al suo fianco, a ricordargli quello che non ha potuto avere, quello che ha perduto.
Pertanto si alza intorpidito dal letto e si riveste, con la lentezza di chi non si preoccupa affatto del tempo.
Di chi non percepisce affatto il tempo.
«A me non sembri noioso, ma annoiato.»
«Sono entrambe le cose.»
«E come mai?»
Occhi Bui allaccia la cintura del pantalone, mentre gli occhi di Isabella lo osservano attenti, desiderosi di decifrare il suo sguardo stanco, di comprendere il suo sguardo stanco.
Ha l’espressione di una gatta affamata, Isabella.
Affamata di cosa lui ancora non lo sa, ma spera non sia dell’amore che cercava anche Franziska.
L’amore di cui lui ha bruciato ogni scorta.
Dopo aver abbottonato la camicia, raccoglie da terra la giacca, mentre una sensazione di sporco gli intacca la coscienza. Ma dentro lui non è rimasto spazio per il senso di colpa, quindi muove qualche passo in direzione della porta mentre continua a percepire quegli occhi fastidiosi sulla pelle.
«Ci rivediamo?»
«Non lo so, Isabella. Non lo so.»
E se ne va.
 
 
 
È il primo pranzo della Domenica che passa in famiglia, la prima volta dopo quasi un mese in cui deve guardare sua madre negli occhi.
Ci aveva fatto l’abitudine, alle telefonate.
Si era quasi affezionato al gracchiare della linea e alle voci distorte, era stato per lungo tempo grato al filo invisibile del telefono che poteva, e sapeva celare il suo viso dallo sguardo di sua madre.
Lui conosce gli occhi di sua madre e sa che niente sfugge al suo sguardo, perché mentire di fronte a milioni di sconosciuti è semplice ma mentire a sua madre, che Dio lo salvi!
Già all’età di otto anni aveva rinunciato a raccontarle anche la più insignificante delle bugie, quando lei aveva scoperto che non esistevano partite di calcio pomeridiane insieme agli amici di scuola, ma lunghi pomeriggi di solitudine in paesini di campagna troppo lontani da casa, raggiunti con l’aiuto di un’instancabile bicicletta.
«Com’è stata la vacanza a Dublino?»
La cucina è avvolta da un tepore fastidioso, mentre sua madre controlla con occhio vigile il frutto della sua fatica mattutina, lasciato a cuocere nel forno.
Sono soli e lui vorrebbe tornare ad essere il bambino che è stato tanti anni prima, seduto al tavolo della cucina mentre leggeva ad alta voce una storia con il sottofondo di padelle e piatti, e dei ‘bravo’ e degli ‘attento alle virgole’ di sua madre, mai troppo stanca di ascoltarlo. Neanche dopo una lunga giornata di lavoro.
«Poteva andare meglio.»
«Tu e Franziska vi siete trovati male?»
«Io e Franziska ci siamo lasciati.»
Butta già l’ultimo sorso d’acqua rimasto nel bicchiere, mentre sua madre si volta a guardarlo con un’espressione che però non rivela affatto sorpresa.
«E tu stai bene?»
«Alla grande.»
Sua madre fa spallucce e sospira.
Occhi Bui sa che non è un buon segno, sa che lei sta pensando e riflettendo ma lui è così stanco, così stanco che prega lei capisca che non gli va di parlare.
Non gli va di spiegare.
«Che strano.»
«Cosa?»
«Hai lo sguardo innamorato.»
«Perché sono innamorato.»
«E chi è la fortunata?»
«La tua torta alle carote.»
Lei sorride. Lo stesso sorriso sfoderato ogni volta che, da bambino, lui le raccontava di incredibili goal mai segnati durante partite di calcio mai giocate.
 
 
 
 
Ti confesso, gentile lettore, che sono tremendamente imbarazzata per il ritardo con cui aggiorno.
Mai, mai prima d’ora avevo lasciato passare così tanto tempo.
Spero però che potrai perdonarmi, e che la mia totale disorganizzazione non ti abbia tolto il piacere di leggere di Ben e Prue.
Mi spiace moltissimo, davvero, ma il periodo attuale è più incasinato del solito e non posso neanche promettere un nuovo aggiornamento fulmineo.
Farò però del mio meglio per riuscire a pubblicare un nuovo capitolo in tempi civili.
Grazie, gentile lettore, del tempo che mi dedichi.
Grazie di cuore.
C.
 
P.S: Spero le foto di Astrid/Prudence e di Barny non scompaiano.
P.P.S: Oh Astrid! Come farà a venire così bene in ogni foto? 

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Capitolo 25
*** Occhi Bui ***


25 Occhi Bui



Londra ha il sapore amaro della tua pelle oggi che piove, ed ogni goccia mi osserva appesa al vetro della mia finestra mentre io rimango qui immobile, guardo l’acqua sgretolarsi al suolo alla fine della caduta e non salvo nemmeno una goccia, così come non ho salvato la nostra storia.                                                            
Rimango a guardare finché non smette di piovere e la tua pelle svanisce nel sole.                                              
Ho gli occhi più bui del solito e tu non appari, eppure io ti penso: perché non appari?

Stamattina ho fumato una sigaretta di nascosto, però ho smesso. Fumo ma ho smesso, ti amo ma ho smesso.

Ieri sera ho fatto l’amore ma tu non c’eri, e come faccio a fare l’amore se non ci sei? Ho sbagliato: ieri sera non ho fatto l’amore.

Stanotte è pieno di stelle ma a me non va mai di fissare il cielo perché ci perdo dentro gli occhi, è troppo grande per me. Sei troppo bella per me.

Domani dicono farà molto caldo, sarà una fatica tenere addosso i vestiti e allora perché non vieni qui a toglierteli insieme a me? Lascia stare, me li
tengo addosso e tu rimani lontana e perduta, nella tua città di vento e di pioggia e di farfalle che mordono.

Occhi Bui si frantuma oltre il confine dei suoi pensieri che non sa tradurre nella realtà, rimane ancorato a ciò che non dice mai ma che ripete sempre, in ogni istante. E se l’amore è una magia allora Prudence sei una strega, altro che sirena, ma adesso io non rido più quindi vieni qui e spezza l’incantesimo. Maledetto sia il giorno che ti ho incontrato!                                                                                                                                    
Sembra assurdo anche a lui eppure ha scordato che persona era prima di incontrarla.                
Era la stessa persona che è adesso? Tifava la stessa squadra e ordinava gli stessi gusti in gelateria? Ascoltava i Beatles o li ha scoperti dopo? Gli piaceva l’Irlanda, voleva fare l’attore, andava d’accordo con suo fratello, avrebbe voluto un cane anche prima e si chiamava sempre Ben? Quante domande a cui non trova più risposta e tu hai spazzato via il passato, strega che finge d’essere sirena, con un colpo di coda hai cancellato tutto ciò che sono stato prima d’incontrati e adesso sento che sono nato quella notte, in quella metropolitana, dentro ai tuoi occhi verdi.                                                                                                                                                       
Che occhi tremendi, incastrati negli angoli nascosti della sua mente buia, pronti a farlo inciampare.                                                           
A volte li vede comparire tra i sedili del treno, o sotto i cornicioni dei palazzi quando piove tanto e lui abita troppo lontano, e ai margini della pagine dei libri che parlano di gente che si ama, che si vuole, che non sa lasciarsi, che non sa tradirsi e tu come hai potuto? Ma pensi che ti perdono? Tieni per te quei dannati occhi che non voglio più vederli e vederti!

Anzi no, vorrei vederti per prenderti a schiaffi, per spogliarti e vedere se sei sporca della mia pelle o di quella di un altro. Sì, di un altro che hai incontrato per la strada, una notte, dentro un bar e lo hai lasciato fare. Non hai pensato a me.

Anzi no, vorrei vederti per sputarti in faccia tutta la rabbia che provo per te e perché non sparisci, mi lasci in pace, dammi la pace, fammi respirare, vieni qui e fatti respirare.

Anzi no, vorrei vederti per chiederti ti va una tazza di tè? Ti va un film sul divano? Ti va di cenare insieme? Ti va se ti accompagno a casa? Ti va il mio letto?
Ti va se ti amo?

Ma se poi non ti va io capisco, sparisco, svanisco.

Vorrei raccontarti quanto è bella Londra oggi che piove e il cielo è malato e grigio e spento ma qui tutto splende, splende nell’oscurità di questa brutta giornata che è tanto brutta da lasciarmi incantato di fronte a questa città che sa di vento, che sa di metropolitane puntuali, che sa di immenso e che sa anche di me. Vorrei raccontarti quanto è bella Londra anche oggi che è l’ennesimo giorno in cui non ti amo e non mi ami e non ci amiamo, ma la bellezza non si racconta: si guarda. Allora fammi un favore e guardati allo specchio, segui il contorno dei tuoi occhi grandi e verdi dove nasce il sole freddo che suda sopra la mia città, e scendi giù fino alle labbra carnose e purpuree che ti ha dipinto Dio, là dove tieni tra i denti il mio Tamigi segreto che ti scorre nelle vene, oltre la pelle, la tua pelle, la mia pelle, la pelle di questa città che ha mille strade, mille mani e le tue mani? Non dimenticarti delle tue mani dove tieni strette le luci di ogni quartiere quando qui cala la gonna scura della Notte ma nessuno ha sonno, e forse è perché tu non riesci mai a dormire.                                               
Vorrei raccontarti quanto è bella Londra ma ti basterà incontrare te stessa nel riflesso dello specchio per vederla.

Bam.                                                                    
La persiana di camera sua sta combattendo una battaglia dura contro il vento, ma si ferisce irrimediabilmente sbattendo contro il muro ed interrompe i suoi pensieri.                                 
Vorrebbe chiuderla, vorrebbe davvero ma rimane impotente a fissarla, spietato e distratto, per poi abbandonare la stanza come niente fosse.                                                 
Bam.                                                                        
Che suono fastidioso che fanno le cose che sbattono, che si rompono. Ma il dolore fa così rumore? Occhi Bui sbuffa e si accende una sigaretta, in piedi al centro esatto del suo soggiorno.                                                         
Non pensa a niente di particolare, ha allenato la mente ad ignorare il sottofondo fastidioso dei suoi ricordi. Ha da fare. Ha del lavoro da fare. Si trasferisce in America.                                                                                                       
Giusto ieri ha comprato un biglietto per Los Angeles, solo andata senza ritorno perché ormai ha firmato un contratto importante, uno di quei lavori che se fai l’attore non ci pensi due volte a metterci una firma!                                              
Lo aspettava da una vita un momento del genere, eppure eccolo in piedi, nel bel mezzo di quel tappeto beige così vecchio e rovinato, che si fuma una sigaretta e pensa che come Londra non c’è nessuno e scusa, scusa mia amata città se vado via, se ti tradisco col sole della California ma d’altronde lo sai che il nostro era un amore troppo intenso: ormai ci siamo consumati.                                                               
Ha brindato. La sera in cui ha firmato il contratto ha brindato di fronte agli occhi scuri e luminosi di Isabella, e il suo sorriso così regolare e di marmo non aveva nemmeno un difetto e a lui le cose senza difetti non convincono per niente.                                                                     
Però l’ha baciata, e a lungo, davanti alla sua famiglia e ai suoi amici, ed ha persino sorriso.                                                                 
Anzi, ha riso, riso di gusto, riso come chi si sente la felicità rannicchiata in mezzo al petto.          

Ma poi è tornato a casa, con Isabella.                                                                   
Si è spogliato nudo, con Isabella.                                                                  
Ha fatto l’amore, con Isabella.                                                                   
Non si è addormentato, con Isabella.                                                                   
Ha bevuto un birra, senza Isabella. Senza nessuno, coi gomiti poggiati al parapetto in ferro del suo balcone, un vento freddo aggrappato alle sue spalle ed una notte buia più dei suoi occhi calata sul suo capo.                                                 

Se lo sente dentro e addosso, che non finisce così. Che non può finire qui, qui su questo balcone dove il mio fegato piange rinchiuso da qualche parte dentro questa carne e nemmeno so dov’è, il fegato, ma so dove sei tu, strega che finge d’essere sirena, e non ti chiedo di amarmi ma almeno di curarmi il fegato, se puoi, se ti va, se hai tempo.                                                                      
A proposito: cosa fai col tuo tempo? Io ti penso. Tutto il tempo. A volte penso che per quanto ti penso dovresti sapere che ti penso, e allora perché non compari qua sotto il mio balcone, sotto questa notte, sotto questo vento, sotto al mio fegato?                                                            
Quanto è bella Londra di notte e quanto sei bella tu di notte. E anche di giorno, e a mezzogiorno, ma pure alle cinque del pomeriggio e alle otto di sera, e anche quando sono le sei del mattino e le sveglie suonano impazzite e impazienti.                                                              
Io sono nato impaziente, impaziente di vederti e di capirti e di capire che ci faccio sopra questo balcone, col fegato che piange mentre tu, strega strega strega, fatichi ad addormentarti nell’oscurità della tua stanza dove dormi sola, dormi sola, dormi solamente qualche ora. E spero che mi pensi e che pensarmi ti ferisca, spero che il mio pensiero ti faccia male perché tu non sai che male fai, tu che mi spacchi le costole al solo ricordarti.                                                                
Però la birra finisce ed i suoi occhi bui si stancano di rimanere aperti.                                                                      
Si concede un ultimo sospiro prima di rientrare in casa con la sua birra vuota, presto abbandonata sopra il tavolo della cucina.                                                                     
L’orologio digitale del forno segna le tre del mattino e a lui quel silenzio, quella luce fioca del lampadario e quei numeri simmetrici piacciono come gli piacciono poche cose nella vita.  Le tre del mattino gli piacciono come la birra, le sigarette, l’Inghilterra ai Mondiali, Prudence Gallagher, i film di Rossellini, il formaggio che si scioglie sulla griglia, il mare, Prudence Gallagher, la torta alle carote, il profumo di sua madre, i jeans scuri, Prudence Gallagher, Prudence Gallagher, Prudence Gallagher…                                                            
Apre il frigo e con quello che ci trova dentro si prepara un panino, poi si siede al tavolo e lo addenta tenendo gli occhi fissi sulle tre del mattino, le tre di questo mattino, le tre di questa città, le tre del mio mattino e le tre del tuo mattino e vorrei condividere le mie tre del mattino con le tue, cara Prudence, ma me le tengo per me e mangio un panino. E vado in America. E sono felice.                                                                      
Sorride e poi si addormenta a metà panino, a metà tre del mattino.                                                                                                                                                                     







Che strano tornare qui, dopo anni, adesso che sono cresciuta, ed aggiungere un altro pezzetto a questa storia.
Non seguo più Ben Barnes da anni(si è sposato? Si è trasferito ad Honolulu? Le mangia le verdure?), ma ricordo con tenerezza quando stavo super attenta ai suoi progetti, ed è strano che quindi io sia qui.
Il punto è che mi mancava Occhi Bui, forse perchè siamo sulla stessa barca, forse perchè ormai non è nemmeno Ben Barnes ma è il mio Occhi Bui, o forse semplicemente perchè è bello scrivere di lui, non lo so ma eccoci qua.
Spero la lunghissima assenza non abbia rovinato questa storia, sappiate che non ho dimenticato nulla e che so che ho promesso un finale.
Un grazie grazie grazie a chi legge, ed il più grande degli abbracci!
Una C un po' cresciuta

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