Girl next door.

di Alex Wolf
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** RUBYS e Sampson. ***
Capitolo 3: *** Ares & Scommesse. ***
Capitolo 4: *** Cene & Birre. ***
Capitolo 5: *** Lentiggini & Arance. ***
Capitolo 6: *** Cadute & Discussioni. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Girl next door.
 
 

“La vita che volevi non è questa.”
 
— Salmo

 

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Mi chiamavo Chloe Valerie King, e non ero mai stata una ragazza cattiva, aggressiva o arrogante. Non ero mai stata notata; non da chi avrei voluto almeno. Ero invisibile per tutti, in realtà. Non avevo mai la battuta, o la risposta pronta. Non ero ricercata dai ragazzi e stavo bene nella mia tranquillità. Stavo bene con i miei capelli corti e castani, il poco trucco sul viso e le unghie mangiucchiate. Io stavo bene con me stessa. Certo, molto spesso mi sentivo giù di morale perché sentivo cosa la gente diceva di me alle mie spalle quando passavo. Mi chiamavano anoressica, troia, masochista, stupida, bamboccia. Erano parole pesanti da sentirsi rivolgere per una ragazzina di quindici anni. E poi, io non avevo mai fatto nulla di male a quella gente. Allora perché si comportavano così?  Sinceramente, mi domandavo spesso perché non cambiavo scuola, i soldi non mi mancavano di certo, ma la risposta che mi davo sempre era: “perché sei più forte di loro. Migliore di loro.” E tentavo di resistere per un altro giorno, per quanto difficile fosse. In particolare, era alquanto faticoso evitare Charlotte Simpson una ragazza pomposa e frivola del quinto anno a cui, a quanto pare, piaceva disturbare i “novellini” come me. Spinte, derisioni, scherzi di cattivo giusto erano all’ordine del giorno quando la incontravo per i corridoi. Ma andavo avanti, finché un giorno, in mensa,  successe una cosa che mi avrebbe segnato per tutta la vita scolastica che avevo avanti a me: Charlotte mi rovesciò contro il proprio piatto di proposito. Le risate di tutti i presenti mi rimbombarono nelle orecchie, così imbarazzanti e distruttive da far correre il mio cuore veloce come le ali di un colibrì. Sperai in un miracolo, un aiuto. Implorai che smettessero di ridere e che qualcuno corresse in mia difesa e le facesse quello che lei aveva fatto a me. Ma i miracoli non accadono da soli e nessuno sarebbe corso in mio aiuto. Così, mi alzai facendo grattare le gambe della sedia a terra, un suono lungo e stridulo che zittì l’intera mensa, mi avvicinai a Charlotte senza mai distogliere lo sguardo dai suoi glaciali occhi celesti e presi lo slancio. Il mio pugno la colpì in pieno viso, spedendola a terra con un sono  crack! d’accompagnamento. Le avevo rotto la mascella probabilmente. Ma poco m’importava, avevo appena cominciato. Mentre lei arrancava all’indietro alzandosi sui suoi tacchi neri e lucidi, io avevo recuperato il mio vassoio privo di tutto e la stavo raggiungendo. Mi abbattei su di lei come un mastino rabbioso: le scaraventai il vassoio sulla schiena, facendola gemere di dolore e inginocchiarsi a terra sotto lo sguardo allibito di tutti gli studenti, poi glielo premetti contro la parte destra del viso. Un altro crak! si unì al precedente, e due denti le saltarono fuori dalle gengive. Mi beccai una sospensione, una bella lavata di capo dai miei genitori, il divieto di uscire con quei pochi amici che avevo ma, acquistai una certa fama a scuola. Non una delle migliori, ovviamente, ma è grazie a questa che me la cavo da tre anni a questa parte.
 
Mi chiamo Chloe Valerie King, e sono la bulla della scuola. 


N.d.a

Ciao ragazze, 
è la mia prima ff sui ragazzi qui e spero di avervi incuriosita. Anyway, se la storia vi interessa don't worry se non aggiorno costantemente, ne ho molte altre da aggiornare (se vi va date uno sguardo nel mio profilo). 
Ora vado.
Baci,

Isil.


 

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Capitolo 2
*** RUBYS e Sampson. ***


Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=1VyXZiAEvd4
 


Girl next door. 
 


“Sono la voce di chi ne ha abbastanza.
Di chi cade a terra, sputa sangue, ma poi si rialza.”
 
— Mostro.

 
 

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Parcheggiai la macchina con tranquillità, mi passai una mano fra i capelli tinti di biondo e passai per un ultima volta il lucidalabbra sulla bocca. Sorrisi d’istinto al mio riflesso e gettai il para sole verso l’alto, dove si scontrò con il tettuccio della Rang Rover, nera, nuova. Papà aveva deciso, siccome i miei voti a scuola avevano avuto un ascesa impressionante, di regalarmela. Gli ero stata grata, e molto anche. Non capita tutti i giorni che il proprio padre arrivi a casa e ti regali una macchina, specialmente una che costa così tanto. La fortuna è che a noi i soldi non mancano.
Tolsi le chiavi dal cruscotto e le gettai nella borsa, poi aprii la portiera e alzai leggermente l’angolo sinistro della bocca.
I miei tacchi vertiginosi toccarono prima lo scalino dell’auto, poi l’asfalto. Era una tortura portare quei trampoli, ma dopo due anni ci avevo fatto l’abitudine. “Chi bella vuole apparire un poco deve soffrire”, diceva sempre mia nonna. E per mia sfortuna, aveva ragione. Quando la portiera dell’auto si chiuse alle mie spalle, avevo gli occhi di tutti puntati contro. Era normale, tutto normale ed era giusto che andasse così. Era giusto che la gente che mi guardava pensasse: “è una stronza di prima categoria. Ma, meglio non farla arrabbiare.” Dopo l’incontro con Charlotte Simpson di tre anni fa, la gente aveva iniziato a portarmi più rispetto di quello che mi aspettassi, e avevo persino trovato un piccolo fan club di ragazze che aspiravano a diventare come me, o ci provavano. Avevo subito bloccato il loro tentativo di divenire così, a mia immagine e somiglianza, ma avevo dato il mio ok al fatto che continuassero a pensare che io fossi una bulla solo con i bulli. Sono felice di averle conosciute, loro sono la causa dei miei voti alti.
Raddrizzai la schiena e passai una mano fra i capelli, affilai lo sguardo e presi a camminare verso l’entrata della scuola. L’aria frizzantina di metà maggio mi accarezzava il viso, facendomi venire la pelle d’oca ma poco m’importava. Mi piaceva quella sensazione di freschezza mattutina, dolce come una carezza. Mi era sempre piaciuta. Il sole brillava nel cielo senza nubi, scaraventando la mia ombra nera –“come la mia coscienza” dicevano alcuni-  al mio fianco. Salii i gradini di pietra con facilità, stando attenta a non perdere l’equilibrio sui tacchi sebbene negli anni avessi acquisito un portamento tale da riuscire persino a correrci. Presi un respiro veloce, invisibile e silenzioso, poi poggiai i palmi sulle maniglie delle porte ad anta e spinsi. Le grandi porte grigie si aprirono davanti a me e il corridoio si presentò gremito di gente. Sulle pareti bianche erano appesi i manifesti della festa a tema hawaiano che si sarebbe svolta sabato sera in spiaggia; in una angolo accanto all’entrata stavano due ragazze del terzo anno intente a vendere i biglietti, con due vistose corone di fiori appese al collo; gli sportelli degli armadietti verdi e bianchi –i colori della scuola- addossati contro i muri sbattevano di tanto in tanto. Al centro della piccola piazza, a terra, stava lo stemma dello squalo bianco che rappresentava la scuola. Alcuni dicevano che portava sfortuna calpestarlo, io non ci credevo a quelle cavolate ma per quanto mi ostinassi a ritenerle tali non l’avevo mai calpestato. Altri, come il ragazzino col capello rosso che vi stava passando ora, non ci credevano. Scrocchiai le nocche e voltai la testa quando sentii una voce chiamarmi. Luise era alta poco meno di me, aveva profondi occhi grigi cangianti e labbra piene e rosse. Era una bella ragazza del secondo anno, ma i corti capelli biondi, naturali, che le arrivavano sotto il mento e i grandi occhiali rotondi alla Harry Potter non avevano mai attratto i ragazzi più di tanto. Inoltre, Lu frequentava ragazze che a detta della scuola erano pazze, nerd, sfigate, adoratrici della sottoscritta. Gli stessi aggettivi con cui venivo definita io prima che tutti iniziassero ad avere paura di me. Prima che tutti cominciassero a rispettarmi, prima che io iniziassi a far rispettare le regole. Le mie regole, se così si può dire.
« Ciao Chloe », sussurrò piano. La sua voce era un altro problema, parlava con un tono troppo basso.
« Buon giorno Lu. » Le rivolsi un’occhiata di sfuggita e tornai a osservare il ragazzo che prima, e ora, stava fermo sullo stemma. Parlava tranquillamente con dei coetanei, rideva e scherzava senza accorgersi che dietro di lui stava arrivando una tempesta:
Christine Bill; una ragazza alta e mora con la pelle scura simile al carbone, labbra piene e rosse di rossetto e abiti troppo succinti, persino per i miei gusti. Chi ero io per giudicare? Vi chiederete voi, come tutti. Io li, ero la legge. Se Christine avesse toccato quel ragazzino le avrei probabilmente rotto una mano. Per tutto l’anno ero riuscita a tenere i corridoi e il parcheggio sgombri da risse, intervenendo anche in modi drastici; non avrei permesso a quella ragazzina di rovinare il mio primato.
Continuai a tenerla d’occhio finché non la vidi aggirare il cerchio e iniziare a parlare col ragazzo… Magari erano amici, mi dissi e tornai a guardare Luise. Lei era rimasta silenziosa tutto il tempo a osservare la stessa mia identica scena; magari con la mia stessa idea in mente. La bionda era una ragazza tranquilla, all’apparenza, ma quando si trattava di tirare fuori gli artigli diventava un leone. Più volte l’avevo vista rimanere delusa quando intervenivo a fermare una rissa, o chiedermi perché non avessi rotto qualcosa a qualcuno. A volte, iniziavo a pensare che fosse davvero strana.
« Allora, novità per me? » Domandai, incrociando le braccia al petto.
Lei si passò una mano fra i capelli, scompigliandoli e facendoci riflettere sopra la luce bianca delle lampade a neon. Con le dita passò su tutti  i punti della lista che aveva compilato, adorava programmare cose e prendere appunti, e scosse il capo. « Mh, no. Non direi. Oggi ti mancheranno l’insegnate della prima e seconda ora, tutto qui. » Mi confermò, chiudendo con un colpo secco le cartellina.
Ticchettai il piede a terra, stretto in quei tacchi neri dalla suola rossa, e arricciai le labbra. Cosa avrei potuto fare in queste due ore senza professore? Probabilmente avrei preso la macchina e sarei andata in spiaggia a mangiare un gelato, oppure al canile a curiosare e aiutare. Ogni settimana detraevo dal mio stipendio duecento dollari e li donavo al canile della città; se noi non vogliamo essere abbandonati e vivere male, perché i cani vorrebbero lo stesso? Purtroppo, per via dell’allergia che mio padre aveva io e le mie due sorelle –Leigh e Jesy- non avevamo mai potuto avere un cucciolo, solo un orrendo gatto senza pelo di nome Ares che apparteneva a mia madre e odiava tutti e tutto, lei compresa. Ma mamma continuava a dire che ormai quella creatura crudele faceva parte della famiglia e che si comportava così solo perché era vecchio, e noi dovevamo subircelo. Lo sopportavamo da tredici lunghissimi anni.
« Stando alle condizioni del tempo, direi che sarebbe meglio se tu andassi in spiaggia piuttosto che al canile. », Luise ripose il telefono in tasca e mi sorrise, piegando leggermente la testa a destra. Il colletto della sua camicia bianca a fragoline rosa –avrei dovuto portarla a fare shopping, presto- brillò chiaro contro la luce proveniente dal soffitto, e mi accecò per qualche secondo.
Scossi il capo irritata, non capendo come facesse lei a indossare roba così. Io non ero mai andata oltre i vestiti neri, i legghins, i pantaloni stretti di jeans o di pelle e qualche camicia bianca, si; ma mai mi sarei sognata di mettere quella roba.
« Si, grazie Luise. » Mi passai una mano fra i capelli, spostando il piede da una gamba all’altra. Il mio occhio cadde per caso sul banchetto dei biglietti dove, quella che mi ricordava un’appartenente al “mio club privato” di nome Lydia, forse la era, era intenta a comprare dei biglietti. Subito mi si illuminò il cervello: avrei portato Luise e le altre ragazze a fare shopping, come gesto di “amicizia” –più che altro carità- nei loro confronti. « Allora, andrai alla festa in spiaggia organizzata dalla scuola? »
« Ecco… a dire la verità no. Non ho un accompagnatore. » Mormorò, guardando a terra. Ecco un’altra cosa che la ragazza avrebbe dovuto dimenticare: smettere di fissare il pavimento, come se fosse un’ancora di salvezza a cui aggrapparsi.
Alzai gli occhi al cielo. « E’ una festa in spiaggia, ci si va per fare il bagno a mezzanotte. Ci si va da soli, o in gruppo, ma non accompagnati da un ragazzo. Non è un ballo, è un festino Luise e c’è una bella differenza. » La mia voce uscì un po’ più acida di quanto mi aspettassi. Vidi un’ombra di delusione passare negli occhi della ragazza e provai un certo rimorso. Non avrei voluto ferirla, ma lei era così… Luise. Appunto. Chiusi gli occhi per qualche secondo, poi li riaprii: « Ascolta, non volevo trattarti così mi dispiace. » Un sorrisetto aleggiò sulla sua pelle già baciata dal sole. « Ora, se ti va bene venerdì pom… » un grido irruppe fra le mie parole.
Voltai la testa verso il centro dell’atrio e trovai una buona fetta della scuola in cerchio, mentre sbracciavano, battevano le mani e fischiavano divertiti. Una rissa. Christine me l’avrebbe pagata cara. 
 « Ne parliamo dopo. Ciao Luise. »
« Ciao Val », pigolò lei prima di scomparire, e correre verso quella che, era realmente, Lydia.
Nel frattempo, gettai la mia borsa in un angolo e scrocchiai le nocche, indirizzandomi verso la rissa. Quando arrivai ai margini fischiai forte, e tutto calò nel silenzio. Volti e occhi mi si puntarono addosso, scavando la mia pelle curiosi della mia reazione. Dove prima c’era stata una valanga di persone, ora si era magicamente creato un corridoio per farmi passare. Tenni le spalle dritte mentre camminavo, per sembrare più alta e sicura. Il suono dei tacchi che rimbombavano nel corridoio muto.
« Allora? » Domandai, incrociando le braccia al petto. Terry Mason, un ragazzone del quarto anno che frequentava il mio stesso corso di chimica, si alzò. Mi superava di due teste buone, e anche come muscolatura, ma non mi feci intimidire. Bloccai i suoi occhi neri nei miei e socchiusi le palpebre. Lo vidi ingoiare un fiotto di saliva e abbassare la testa in segno di resa. « Allora? » Chiesi nuovamente, ancora in attesa di una risposta. Tutti i presenti erano muti e curiosi di scoprire cosa sarebbe successo. C’era chi fremeva dall’entusiasmo, chi tremava dalla paura e chi, i più saggi, voltano le spalle e se ne andavano.
« Il ragazzino ha calpestato lo Squalo. » Si giustificò Terry, facendo un passo di lato. Steso a terra, dietro la sua mole, era rimasto disteso fino a quel momento il ragazzino dal capello rosso di poco prima. I corti capelli castani erano disordinati, un rivolo di sangue gli colava dal naso e il lato della bocca, e il capello era volato sull’emblema della scuola.
Feci volare il mio sguardo dal ragazzino del secondo anno, che doveva ancora mettere su muscoli e imparare a difendersi, a Terry, grande e grosso col cervello da gallina. Scossi il capo e feci schioccare la lingua, avvicinandomi al mio compagno di classe; gli accarezzai una guancia lievemente e poi, caricando indietro, gli rifilai uno schiaffo.  Lo schiocco rimbombò per i corridoi per qualche minuto, mentre la folla restava inattesa.
« Il ragazzino ha sedici anni, tu diciotto e sei il doppio di lui. » Sibilai. « Ora andrai da lui, lo aiuterai ad alzarsi e ti scuserai, ok? » Terry annuì, senza ribattere. « Bravo ragazzo. In quanto allo stemma, è solo una stupida credenza del cazzo. » Alzai di poco la voce, in modo che tutti mi sentissero e mentre Terry aiutava il ragazzino ad alzarsi, io mi avvicinai allo stemma, lo scavalcai e raccolsi il capello. Mi accertai di pestare per bene i denti dello squalo prima di tornare dal quindicenne.« Se ti becco ancora a fare il gradasso con quelli di prima, ti spacco le gambe. » Affermai a Terry, e lui annuì con un sommesso « scusa » di sottofondo. « E voi cosa ci fate ancora qui? Sparite, oggi non è giornata! » La gente si disperse come vento, rimase solo il ragazzo che avevano picchiato. Mi passai una mano fra i capelli, tirandoli indietro, e mi voltai verso di lui. I suoi occhi azzurri erano puntati su di me. « Come ti chiami? »
« Keaton. » Rispose velocemente, rimettendosi il capello. Aveva un qualcosa di famigliare, che però non riuscivo a riconoscere. Qualcosa, nei suoi movimenti mi ricordava qualcuno che non riuscivo a far riemergere dai miei ricordi.
« Come ti senti? Terry ha la mano pesante, eh? » Sdrammatizzai, prendendogli il mento fra l’indice e il pollice della mia mano destra. Aveva una brutta macchia giallastra che gli si stava formando sotto la mascella, e che presto sarebbe diventato un bel ematoma. E, anche se il sangue aveva smesso di scendere, quello secco era rimasto appiccicato al mento e alle labbra.
« Si. Bene grazie. » Ogni risposta era come quella di un computer. Secca e decisa, già impostata.
« Sei ridotto male. » Gli dissi, prima di tornare a recuperare la mia borsa. Quando l’ebbi fra le mani, tornai a osservarlo. « Muoviti Keaton, oggi è il tuo giorno fortunato. Ti do un passaggio. » Lui rimase muto, intimorito dalle mie parole. Sembrava un pesce fuor d’acqua. « Ho le prima due ore libere, perciò ti porto a casa e poi me ne vado per i fatti miei. » Gli spiegai e, senza lasciargli il tempo di rispondere, mi avviai verso l’uscita e l’aprii, venendo investita dalla calura primaverile ormai ricca d’estate. Ripercorsi i miei passi, tornando nel parcheggio e passando davanti a quelle poche persone che erano rimaste fuori. I grandi alberi a lato della strada che costeggiavano il parcheggio riflettevano ombre delicate a terra, tagliate da qualche lama di luce. Frugai nella borsa e ne estratti le chiavi, poggiandomi poi al cofano in attesa di Keaton. Per essere in seconda, il ragazzo, dimostrava più anni di quel che aveva. Diciassette, diciotto al massimo. Proprio quando iniziavo a stufarmi di aspettarlo, lo vidi scendere le scale di corsa e raggiungermi con lo skateboard. Evitò qualche ragazzo che aveva deciso di entrare e si fermò davanti a me, facendo saltare la tavola fra le sue mani. Gli sorrisi e aprii lo sportello della macchina, infilandomici dentro. Lui rimase fuori qualche secondo, allora abbassai il finestrino e mi sporsi un poco. « Non ho tutto il giorno, pivello. »
« Si, scusa. » Scivolò davanti alla macchina con velocità e s’intrufolò all’interno, chiudendo la portiera con attenzione.
 Inarcai un sopracciglio, scossi il capo e misi in moto. Il motore ruggì silenzioso mentre facevo manovra e uscivo dalla proprietà scolastica. 
 
Il sole californiano colpiva il parabrezza con forza, tanto da costringermi a tirare giù il para sole. Lo spostai finché non toccò il vetro e la sua piccola ombra stretta mi coprì gli occhi. Ora era tutto più chiaro. In lontananza potevo vedere la città, il suo molo con il lungo ponte e la banchina gremita di gente. Il mare di Huntington Beach scintillava come un cristallo, le con grandi onde pronte a essere cavalcate. Magari ci avrei fatto un salto dopo; c’era sempre tempo per il surf. Tutta via, dovevo riportare a casa quel ragazzino e perciò il mare avrebbe aspettato.
« Ce l’hai ancora la lingua, ragazzino? » Domandai all’improvviso, facendo terminare quei minuti di silenzio pesante e invadente che ci aveva abbracciato per tutti il viaggio.
Keaton sobbalzò sul sedile, distolse lo sguardo dalla spiaggia lontana e sbatté le palpebre. « Si. »
« Allora, ti dispiacerebbe darmi le indicazioni per andare a casa tua? Non credo di potermele inventare. »
« Certo. » Cominciò a indicarmi la strada, finché non mi ritrovai al parcheggio difronte alla spiaggia.
Chiusi gli occhi e poggiai la schiena al sedile. Fregata da un sedicenne, questa mi mancava proprio. Passai una mano fra i capelli tinti e gettai la testa nella direzione di Keaton, che sorrideva guardando le onde infrangersi contro la battigia.
« Mi pigli per il culo? » Domandai velocemente, spegnendo l’auto per non consumare. Avrei dovuto capirlo che, da come guardava la spiaggia, mi avrebbe trascinata li. Ok, ci sarei andata per conto mio più tardi ma…
« No. Questa è casa mia, una specie. » Rispose sorridendo. Un sorriso che mi ricordava quel qualcuno che ora mi sfuggiva. I suoi occhi azzurri, ornati da un cerchio nero mi sorrisero divertiti.  « Lo vedi quel chiosco la, in fondo al ponte? » Voltai la testa nella direzione della sua mano e affinai lo sguardo. In cima al ponte stava un chiosco abbastanza grande, dal tetto rosso e le pareti blu e bianche con un insegna dell’ennesimo colore che riportava la scritta “RUBYS”. « E’ del compagno di mia madre, e probabilmente ci sarà anche mio fratello, con i suoi amici visto che oggi non sono venuti a scuola. »
« Mhh… spero per te che sia vero, sennò non mi farò problemi a rifilarti uno schiaffo per la presa in giro. » Lo avvertii, estraendo le chiavi dal cruscotto per gettarle in borsa. Aprii la portiera e scesi, seguendo Keaton verso il molo. L’aria salina mi inebriò le narici, facendomi nascere un sorriso sulle labbra.
 I miei tacchi battevano sull’asfalto con un sonoro tic tac tic che, ammetto, iniziava a infastidirmi. Non andavo mai in spiaggia con i tacchi, mi sembrava di disonorare un luogo per me sacro. La sabbia, le onde, il surf erano come il riassunto di tutta la mia vita. Avevo iniziato a fare surf all’età di sei anni e da allora non avevo smesso, impegnandomi ogni anno per diventare sempre più brava. Quando stavo in acqua esistevano solo la tavola e l’onda; non esistevo io, non esisteva la rabbia o la paura. Quando stavo in piedi su quella tavola e accarezzavo le onde l’unica cosa che contava era divertirsi. Affrettai il passo per stare dietro Keaton, che con quel suo skateboard sfrecciava fra le persone dirette in spiaggia. Finalmente lo raggiunsi e assieme attraversammo la passerella di legno diretti al chiosco. Quando finalmente arrivammo da RUBYS, i miei piedi erano diventati insensibili; per fortuna ci ero abituata, sennò avrei iniziato a gridare parolacce a raffica e a lamentarmi. Keaton entrò davanti a me, lo skate stretto sotto il braccio destro, il passo dondolante e un leggero sorriso sulle labbra. Quando scomparì dietro la porta, mi sistemai velocemente i capelli e poi la spalancai con sicurezza. Entrai e i miei piedi scricchiolarono sul parquet del pavimento.
C’erano poche persone quel giorno da RUBYS, la maggior parte dei ragazzi a quest’ora erano a scuola e in spiaggia c’erano più che altro famiglie in vacanza che pensavano a non impazzire a causa dei figlioletti che  correvano verso le onde, oppure spargevano sabbia sui loro asciugamani. Un gruppo di tre ragazzi era appartato in un angolo, davanti ad ognuno un bicchiere di frappè vuoto, e un quarto probabilmente di qualcuno che se n’era andato; le tavole da surf addossate alla parete probabilmente erano le loro. Scossi le spalle e raggiunsi Keaton al bancone, dove si era seduto in attesa di qualcuno. Il rumore dei miei tacchi rimbombò per tutto il locale, facendo voltare il gruppetto nella nostra direzione. Finalmente mi accomodai, e osservai il ragazzino.
 « Allora, sei sicuro che questo posto sia quello giusto? »
« Certo. » Non c’era traccia di bugia nella sua voce, così simpatica e sicura in quel momento. Lo vidi lanciare uno sguardo veloce al gruppetto di tre ragazzi in fondo al locale e sorridere divertito. Loro gli rivolsero un saluto accennato e, quando il giovane tornò a guardare me, sostennero lo sguardo su di noi.
« Li conosci? Perché non vai a salutarli come si deve? » Chiesi, senza osservare nessuno. Eppure, sentivo i loro occhi perforarmi da parte a parte, tentare di scavarmi dentro e guardare cosa nascondevo. Mi dava davvero fastidio. Se avessero continuato a guardarmi come dei cani guardano un prosciutto, li avrei presi e spediti oltre il bancone… senza passare dall’entrata. Tutta via, dovevo ammettere che essere guardata in quel modo non mi dispiaceva neanche più di tanto.
« Sono gli amici di mio fratello », mi spiegò. « Quello la, con il ciuffo castano che va verso l’alto è Tyler.  Quell’altro, quello con il bulldog fra le gambe è Sebastian, mentre quello con i capelli castano-biondicci e gli occhi azzurri e Drew. Hanno tutti ventun'anni. Trattano Wesley come se fosse uno di loro, mentre lui ha solo diciotto anni -si, ne deve ancora fare diciannove- mentre io, che ho solo sedici anni, sono il "fratellino" del loro amico. »
« Capito. » Mi voltai a guardarli e memorizzai i loro volti. I tre ragazzi mi sorrisero, ma i miei occhi rimasero incollati su quello che, a detta di Keaton, era Drew. L’avevo visto gironzolare per scuola quando ancora la frequentava, qualche anno fa e l’avevo sempre trovato un bel ragazzo. Mi piacevano i suoi tatuaggi, che da qui riuscivo a intravedere poco. Lui mi sorrise, io ricambiai e poi tornai al sedicenne di fronte a me.
In quel momento da una tendina di perline colorate, che formavano l’immagine di un tramonto, uscì un ragazzo. I corti capelli castani erano schiacciati sotto un cappello nero con sopra disegnata una faccina inquietante che ti faceva l’occhiolino;  lo sguardo concentrato sul vassoio di frappè, attenti a scorgere il minimo movimento di caduta. Sul viso di Keaton si aprì un sorriso divertito, quindi si appoggiò al bancone e schioccò le dita. Quello che doveva essere suo fratello alzò il viso e i suoi occhi azzurri si piantarono prima sul ragazzo, poi su di me.  Socchiusi le labbra. Wesley Stromberg. Ma certo, mi dissi, come avevo potuto non riconoscere in Keaton gli occhi del fratello?  Wesley, con la sua camminata sicura, il fisico allenato e il viso dai tratti decisi era stato la mia prima cotta delle superiori. Mi era piaciuto quando io non ero ancora nessuno e lui era già qualcuno. Poi mi era passata, quando avevo capito che non sarebbe mai successo niente che mi avrebbe portata a conoscerlo e col tempo l’avevo dimenticato. E col tempo ero diventata qualcuno, ero cresciuta.
« Ciao Wes! » Lo salutò Keaton, aiutandolo a reggere due dei quattro frappè. Il fratello continuava a spostare lo sguardo da me a lui, e viceversa non capendo cosa stava succedendo. Poi si bloccò su Keaton e poggiò le bevande sul bancone, raccogliendo il mento del ragazzino fra le dita come avevo fatto io poco prima. Lo girò e lo rigirò, finché una smorfia di delusione non gli ruppe il sorriso leggero di poco prima.
« Ma guarda come se ridotto… Che ti è successo? » Chiese Wesley serio, mentre raccoglieva un panno pulito, lo passava sotto un getto d’acqua fredda e lo tirava al fratello. Vedendo che Keaton non rispondeva, si rivolse a me. Poggiò le mani sul bancone e irrigidì i muscoli. « Che gli è successo? »
« Tuo fratello ha pensato bene di calpestare lo squalo e Terry Mason gliel’ha date. » Raccontai in toni spicci, osservandomi distrattamente le unghie. Quindi, alzai gli occhi sul ragazzo dietro al bancone e alzai le spalle: « Sono arrivata un po’ tardi, tuo fratello era già ridotto così quando me la sono vista con Terry. » Ammisi.
Wesley chiuse gli occhi e respirò a fondo e scosse violentemente il capo, si tolse il capello per passarsi una mano fra i capelli e lo rimise. « Coglione. » Non capii se l’avesse detto al fratello oppure a Terry, o a entrambi. In ogni modo, mi alzai e sgranchii le ginocchia. Era ora di levare le tende e lasciare i fratelli Stromberg a sbrigarsela da soli.
« Si. Si, lo penso anche io. » Annuii, raccogliendo la borsa da terra.
Wesley uscì da dietro il bancone e tirò uno scappellotto al fratello dietro la nuca, poi si concentrò su di me: « Ti ringrazio per quello che hai fatto, Chloe. » Sa il mio nome? Oh, giusto lo sanno tutti. « Se non fossi intervenuta probabilmente mio fratello ora sarebbe in infermeria con qualcosa di rotto », rivolse a Keaton un’occhiata velenosa, poi tornò a me. I suoi occhi azzurri lasciarono per un momento i miei, percorrendo le curve del mio corpo fasciato da pantaloni di pelle nera e una camicia bianca borchiata che evidenziava il mio seno. Emisi un piccolo sbuffo che lo fece tornare sull’attenti, e ingoiare un fiotto di saliva per la brutta figura appena fatta.
« Fortunatamente sono intervenuta. » Guardai il ragazzo. I suoi occhi celesti mi sorrisero, mentre lui annuiva attento. « Ti verranno due bei lividi, Keaton. Ti consiglio di iniziarli a curare già ora che non li vedi. » Gli suggerii, spostando il peso da una gamba all’altra. « Ora devo andare, ci si vede a scuola. Ciao pivello. » Il sedicenne alzò una mano per salutarmi e poi si voltò, intento a specchiarsi in una vetrina e concentrato a cancellare le tracce di sangue.
Voltai i tacchi e mi diressi verso l’uscita, quando una voce mi raggiunse da lontano. « Ciao Chloe! » Era Wesley; mi ero dimenticata di lui. Sorrisi e voltai la testa, in modo che il mio mento toccasse la spalla.
« Ciao Wesley. » Uscii.
 
 
Decisi di andarmene dalla spiaggia e saltare scuola, per dirigermi al canile. Quando parcheggiai, nel parcheggio della grande struttura c’erano solo tre macchine. Lanciai un’occhiata al cielo e arricciai il naso: il cielo si era rannuvolato, stranamente, e grandi nubi grigie promettevano pioggia. Mi specchiai nello specchietto retrovisore e aggiustai il trucco, per poi scendere e attraversare il poco spazio che mi separava dalla porta d’entrata. Dentro al canile l’aria era meno pesante e elettrica di fuori, e chiacchiere di protesta arrivavano dalle gabbie. Avanzai decisa per la sala d’attesa, salutando Al quando arrivai al bancone. L’anziano signore ricambiò, allontanando lo sguardo dal monitor del computer; i suoi vispi occhietti scuri erano più stanchi del solito, notai.
« Che succede di la? » Sussurrai, indicando il corridoio con un cenno del capo.
« Le solite cose », rispose lui con quella vocina alterata di tanto in tanto dalla vecchiaia. Si grattò la pelata e mosse la bocca impastata. « Una coppia che cerca un cane per il loro figlio, e non riesce a decidersi. Ci pensi tu? Conosci questi animali persino meglio di Anne, e lei ci lavora qui. » Un piccolo sorrisetto mi affiorò sulle labbra.
Avrei potuto farlo? Certo, non sarebbe stata di certo la prima volta che convincevo qualcuno a prendere un cane. Però di una cosa ne ero certa, non li avrei mai convinti con il mio abbigliamento; dovevo cambiarmi e mettermi la divisa. Scoccando un’occhiata a Al, passai oltre il bancone e m’infilai nello spogliatoio; presi una camicia pulita di scorta, infilai un paio di scarpe e legai i capelli in una coda alta. Quando uscii dalla porta laterale, quella che spuntava tra due file di gabbie staccate, intravidi le sagome delle due persone di cui mi aveva parlato Al.  Salutai i cani e arrivai difronte alle due persone: la donna non era molto alta, aveva corti capelli biondi e non più di una quarantina d’anni; l’uomo invece era alto, aveva capelli grigiastri e vestiva molto elegantemente. Tutta via, non sembravano due persone che se la tiravano. Gli occhi scuri della donna mi squadrarono curiosi, poi lei sorrise.
« Salve, posso aiutarvi? » Domandai, con il sorriso sulle labbra.
La donna guardò l’uomo, gli sorrise e annuì alla mia domanda. « Cercavamo un cane, non molto grosso e facile da gestire. Ne abbiamo visti molti, non sappiamo deciderci. » Spiegò, con il sorriso sulle labbra. Aveva un bel sorriso, decisi. Un bel sorriso e un buon carattere.
« Credo di potervi aiutare. » Cominciammo a camminare fra le gabbie grigie, ma ben tenute. Fra le sbarre i cani di diverse razze erano tutti tranquilli; qualcuno si faceva la toletta, qualcun altro mangiava, altri giocavano con la loro coda e alcuni dormivano.
 Feci correre lo sguardo su tutte le cucce, finché in lontananza non individuai quella di Sampson, una piccolo batuffolo bianco latte, dalle orecchie a punta e il pelo dritto. Mi fermai difronte a lui, aprii la gabbia e raccolsi il piccoletto fra le braccia. Dietro di me sentii il sospiro trattenuto della donna, e quando girai su me stessa e uscii dalla gabbia –con Sampson che si agitava fra le mie braccia- vidi i suoi occhi illuminarsi.
« Lui è Sampson, l’hanno trovato abbandonato in un cassonetto della spazzatura assieme ai suoi tre quattro fratelli –tutti già adottati-. E’ l’ultimo della cucciolata, e a detta del nostro veterinario non crescerà molto e rimarrà un cane di piccola taglia. Ha un ottimo carattere con i bambini e le persone adulte, non ha bisogno di molta manutenzione e mangia due volte al giorno. » Gli accarezzai la piccola testa e lui scodinzolò, osservandomi con quegli occhi grandi e castani.
« E’ perfetto. » Sussurrò la donna, dando una leggera stretta al braccio del marito. L’uomo rivolse un’occhiata al cane e poi roteo gli occhi verso l’alto, sorridendo all’osservazione della moglie.
« E’ perfetto. » Ripeté, stringendo le dita della donna fra le sue.
Sorrisi, sistemai Sampson fra le mie braccia e lo strinsi un poco. La luce negli occhi della donna era qualcosa di fantastico, troppo dolce per essere descritto. Sembrava quella di una madre che vede suo figlio per la prima volta.
Chissà, pensai, magari i suoi figli erano partiti per andare a vivere da soli e a lei mancavano.
« I ragazzi l’adoreranno! » Esclamò.
Oppure no
Raggiungemmo Al nella sala d’aspetto; quando mi vide arrivare con Sampson in braccio, i suoi occhi si illuminarono. Scacciò via dal viso il broncio causato dalla noia e sorrise felice. Adorava quel cucciolo, se avesse potuto l’avrebbe portato a casa sua, ma purtroppo lui e sua moglie Anne avevano già tre gatti e un nipotino che valeva per  un cane. Non avrebbe potuto occuparsi di Sam come avrebbe voluto. Lasciai i due signori con Al, a registrare il cane e fare tutte le cose legali che la legge costringeva a fare mentre io mi occupavo del cucciolo e gli mettevo collare e medaglietta con tanto di nome. Quando lo lasciai fra le braccia della signora lei mi sorrise, e il mio cuore con lei. Strano a dirsi, ma sapevo che il piccoletto avrebbe avuto una famiglia che gli avrebbe voluto bene.
« Arrivederci. Ciao piccoletto. » Agitai la mano, mentre la coppia usciva dal negozio. Quando furono fuori dalla nostra visuale, mi accasciai contro il bancone.
« Hai un cuore d’oro, ragazza mia. » Si complimentò con me Al; si passò una mano sulla pelata e allungò le braccia verso la schiena, sedendosi poi sulla sua sedia girevole.
Se solo la pensassero tutti così, Al, a quest’ora nessuno righerebbe dritto a scuola, pensai. Se tutti la pensassero così io sarei ancora la vecchia Chloe. 


 


Sei hai perso tempo fino a questo punto, lascia una recensione.

L'associazione "rendere felice Isil" te ne sarà grata.

N.d.a

Eccomi nuovamente qui. Come state ragazze? Piaciuto il capitolo?
Allora, ammetto che il locale "RUBYS" esiste sul serio (sia benedetto Google Earth e le sue immagini), sebbene io non sappia se sia un chiosco oppure una struttra per noleggiare tavole da surf; nella fanfic. servirà per entrambe le cose, e sarà un lugo di ritrovo. Poi, che ne pensare dell'incotro di Chloe con i ragazzi? 
Anyway, io devo andare che è mezzanotte e domani mi alzo alle 6.00 T.T (Kill me). 
Notte :3
Baci,

Isil.

 

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Capitolo 3
*** Ares & Scommesse. ***


Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=1VyXZiAEvd4
 



Girl next door. 
 


Sii stronza e fredda, che a questo mondo se non lo sei, diventi una facile preda.”
 
— (via unincantevoleacida)

 


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Montai in macchina e infilai le chiavi nel cruscotto, tenendo gli occhi puntati su nessuna delle macchine in particolare parcheggiate davanti al canile, mentre pensavo a cosa fare. Probabilmente me ne sarei tornata a casa, quella giornata mi aveva già stufato. Il cielo si era rasserenato, ma dentro di me era come se la tempesta non fosse neppure iniziata. Uno strano senso di malessere mi pesava sul petto.
 
 

Parcheggiai l’auto nel vialetto di casa. Le ruote della macchina stridettero leggermente sulla ghiaia del marciapiede, alla mia destra dalla grande fontana di marmo italiano circondata da fiori rosso sangue, una ninfa gettava acqua nella vasca sottostante da un’anfora; su una delle sue braccia correva un serpente, che le mordeva il polso; dai suoi piedi spuntavano delle radici che le abbracciavano le gambe. Era alquanto inquietante, ma bellissima.
Quando ero piccola papà, o meglio il mio patrigno, mi raccontava la storia di quella donna: era un’umana prima che Zeus s’innamorasse di lei e, in cambio del suo amore, la facesse divenire ninfa. Eva, accecata dalla gelosia e stufa delle continue scappatelle del marito, mandò un uccellino sulla spalla della giovane che poi si trasformò in serpente mordendole il polso. La donna morì e divenne un albero. Zeus rimase al suo fianco parlandone e ascoltando le risposte che le foglie facevano frusciare nel vento. La amò nonostante quelle sembianze finché l’albero non seccò e morì, e il ricordo della ragazza svanì con esso.
Era una storia triste, ma tanto bella che non ero mai riuscita a fare a meno di ascoltarla.
Chiusi la portiera dell’auto dietro di me, alzai il viso verso il cielo e mi beai dell’azzurro del cielo, del caldo del sole. Una leggera brezza frizzantina tirava da dietro la casa, dove a pochi metri di distanza si espandeva una spiaggia privata per i residenti del quartiere. Passai una mano fra i capelli, tolsi le scarpe e ressi i tacchi in una mano mentre i ciottoli mi arroventavano i piedi. Reprimendo una smorfia, presi a correre verso casa con i capelli che schioccavano nel vento. Le palme nel giardino muovevano le loro lunghe foglie sinuosamente, i piccoli fiori colorati e le siepi sibilavano come serpenti. Salii tutti i grandini che portavano al portico della villa, sostenuto da quattro colonne stile greco di un dolce color crema –come il resto della casa,  e finalmente infilai le chiavi nella toppa. Entrai e chiusi l’uscio alle mie spalle con forza. Il grande atrio della villa, vuoto, freddo e lucente allo stesso tempo, brillante dei soliti colori malinconici venati di nero e bianco del marmo mi accolsero in un abbraccio distante. Le colonne, che avevamo scelto io e mamma quando avevamo deciso di ristrutturare casa, si alzavano verso il soffitto della villa ed erano come grandi guardiani murati nei loro peccati; le venature bianche che circondavano i loro corpi di nero lucido parevano lacrime. Lacrime scese troppo tardi, che nessuno avrebbe più potuto asciugare. Quell’ingresso stonava così tanto con il resto della casa che era colorato e soleggiato. Cosa avevamo in mente quando ci eravamo puntate su quei colori? Difficile a dirsi.
 Salii di corsa le grandi scale che conducevano al paino di sopra, prendendo poi la divaricazione che procedeva a sinistra verso il corridoio dove stavano la mia camera, quelle delle mie sorelle e di Lucas e John – i figli del primo matrimonio di Marcus, il marito di mia madre e mio patrigno. I miei fratelli avevano tutti lo stesso padre, io avevo solo il suo cognome. Sangue italiano scorreva nelle mie vene, ma io dell’Italia non sapevo molto. Volavo al nord con mamma, Leigh e Jade ogni seconda settimana di luglio per andare a trovare i nonni, ma non c’avevo mai vissuto. Come non avevo mai saputo nulla di mio padre. Per me era come un fantasma, sfuggevole come l’aria. Non l’avevo mai visto, non avevo mai saputo il suo nome o che lavoro facesse. Lui e mamma si erano separati quando io dovevo ancora nascere e lei era volata a Miami, dove poi aveva conosciuto Marcus fresco fresco di divorzio. Era stato amore a prima svista, oserei dire visto che mia madre lo urtò nei corridoi del luogo in cui lavoravano. Ogni volta che raccontavano quella storia non smettevano di ridere. In ogni modo, Marcus non aveva abbandonato la mamma quando aveva saputo che mi aspettava, e da allora per me era stato mio padre anche se non avevo i suoi geni. Era un brav’uomo, amava la mamma e tutti i suoi figli, e me. Non potevamo desiderare di meglio.
 Il parquet del corridoio mi accompagnò scricchiolando leggermente fino alla porta bianca delle mia stanza, l’ultima infondo al corridoio, che si aprì mostrandomi il mio mondo. La mia camera era enorme, ottagonale e aveva quattro paia di lunghe e larghe finestre che puntavano una sul giardino, due sulla spiaggia e una su una delle stanze della casa accanto. In lontananza riuscivo a sentire le onde infrangersi sulla battigia color caramello, colorandola d’azzurro e bianco di schiuma. Mi infilai nella cabina-armadio, dove riposi le scarpe nell’apposito armadio e tornai in camera. Mi liberai alla svelta del giubbotto di pelle, della camicia e dei pantaloni neri –le mie gambe stavano gridando pietà da ore-  e infilai un paio di pantaloncini corti e una canottiera; legai i capelli in una coda alta e scesi al piano di sotto.
La luce proveniente dalle finestre illuminava la cucina di un giallo caldo e confortante; i banchi da lavoro splendevano così come ogni altra cosa li dentro, specialmente il frigorifero anche denominato da me e i miei fratelli “Terra Promessa”.  Era un grosso aggeggio di acciaio lucente, con ampie porte e una macchinetta per il ghiaccio incorporata; dentro, per la maggior parte delle volte, si potevano trovare barrette di cioccolata, gelati, frutta e panna. Avevo già stabilito il mio menù: fragole e panna, ne ero ghiotta.
Poggiai le mani sulla maniglia del frigo e curiosai al suo interno, rimanendo delusa. Il nulla più assoluto regnava in quelle porte. Mamma aveva fatto fuori la frutta, probabilmente Leigh e le sue amiche, che il giorno prima si erano rinchiuse nella mia camera a provarsi i miei vestiti, avevano preso tutto il gelato e Jade si era mangiata ogni grammo di panna. E io, come sempre, ero la sfigata a cui non capitava nulla. Sarei dovuta andare a fare la spesa, ancora una volta. Perciò, chiusi il frigo e voltai il capo verso la spiaggia in cerca di conforto; su uno dei banconi l’orrendo Ares miagolò, osservandomi con qui suoi grandi occhi verde acqua liquorosi. Ebbi un sussulto e mi portai una mano al cuore, ingoiando un fiotto di saliva. Odiavo quel felino, compariva dal nulla silenzioso come un fantasma e sembrava sempre sul punto di saltarti agli occhi. Era un demone. Ma mamma gli voleva bene, e io non potevo fargli del male. Dannato affetto! In fretta allungai un braccio e raccolsi fra le dita una bottiglietta d’acqua dimenticata probabilmente da Jade, evitando di striscio gli artigli affilati di Ares.
« Un giorno ti affogo, lo giuro. » Gli dissi indicando il mare, prima di dirigermi verso le scale per tornarmene in camera. Avevo ancora quello strano malessere dentro il petto, ma lo riposi in fondo al cuore quando sentii il rumore del campanello, che rimbombò fra le pareti silenziose della casa.
Sbuffando mi diressi all’ingresso, poggiai la bottiglietta d’acqua sul primo appoggio che trovai e girai la maniglia. Il sole che si riversava sulle pietre rosse del parcheggio mi accecò per qualche minuto, così come la jaguar grigia parcheggiata davanti alle scale del portico. L’auto aveva il baule aperto, che nascondeva le due persone intente a scaricare i bagagli. Eppure, non avevo dubbi a chi appartenesse quel mezzo. Infilai il primo paio di ciabatte che riuscii a trovare e mi incamminai fuori, pronta ad accogliere mio fratello. L’arietta fresca mi accarezzò la pelle, facendomi venire una leggera pelle d’oca e muovere i miei capelli legati sulle spalle. Come se avesse sentito la mia presenza, una figura alta e snella si scostò dal cofano e si accarezzò i capelli.
Luke era un ragazzo alto, moro, dagli occhi azzurri e qualche bel tatuaggio sparso un po’ per tutto il corpo. Aveva un pircing al labbro, molti orecchini e si vestiva per la maggior del tempo di nero. Sembrava uno di quei ragazzi belli e dannati che venivano descritti continuamente nei libri, che leggevo anche io. Beh, bello lo era sempre stato a dire la verità, e negli anni non aveva fatto altro che migliorare.
C’ero rimasta male quando l’anno scorso si era trasferito a Los Angeles con Katy, la sua ragazza, ma lui aveva fatto di tutto per restare in contatto con noi e gliene ero stata davvero grata. La sua mancanza mi aveva ridotto per un po’ di tempo alla solitudine… Insomma, lui era sempre stato li per me, era il mio porto sicuro nei giorni di tempesta e io ero sempre stata il suo. Mi aveva voluto bene, apprezzata, amata come solo un fratello poteva fare, e io mi ero messa in testa che non mi avrebbe mai lasciata. Ma quando era partito mi ero sentita tradita. Come aveva potuto preferire Katy a me, che ero sua sorella? Mi ero domandata per qualche settimana, prima che la fase da “sorellina gelosa” mi passasse. E, poi avevo capito: Lucas era cresciuto e anche io, ed era ora per tutti e due di riuscire a stare lontani. Eravamo diventati troppo dipendenti l’uno dall’altra negli anni, e col tempo questa cosa sarebbe potuta ritorcersi contro . Dovevamo crescere, riuscire ad andare avanti senza l’aiuto costante che potevamo darci. Ma eravamo fratelli, se non di sangue di dato e non avrei mai realmente rinunciato a lui. Mai.
 Incrociai le braccia al petto e rimasi a osservarlo mentre si avvicinava con le mani dentro le tasche dei jeans stretti, con gli occhi chiari puntati nei miei scuri. Aveva quel suo solito sorrisetto divertito sul volto, quell’atteggiamento, quella presenza che era scomparsa da casa assieme a lui.
« Non hai chiamato per due settimane », borbottai io non riuscendo a trattenermi. « Pensavo che Katy ti avesse fatto tagliare i capelli e che tu fossi finito in lutto temporaneo. »
« Ci ho provato! » Gridò divertita la ragazza, con ancora metà del corpo snello nascosto dal baule.
« Ma non ci è riuscita. » Rise divertito, una risata che inondò l’aria di famigliarità; poi salì velocemente le scale pronto a stringermi nella sua presa. Quando avvolse le grandi braccia attorno al mio corpo piccolo, molto piccolo rispetto al suo metro e novanta mi sentii nuovamente la piccola Chloe. Quella bambina che lui prendeva in braccio da piccoli, che accompagnava a fare il bagno al mare… Lo strinsi più forte che potevo, respirando il suo profumo di tabacco e menta. Dio, quanto mi era mancato mio fratello.
« Un anno che non ti vedo e guarda come sei cambiata! » Luke poggiò le sue mani sulle mie spalle e mi scosse un poco, facendomi ridere sommessamente. Non era mai stato uno dal tatto gentile, probabilmente l’aria che respirava lassù, nell’alto della sua statura gli aveva dato al cervello; ma adoravo le sue facce e i suoi toni di voce. « Sei dimagrita e sei bionda, anche se sei più pallida del solito… Dannazione sorellina sei splendida! »
« Anche io ti trovo bene », affermai ‘carezzandogli una guancia. 
Aveva la pelle liscia, segno che si doveva essere fatto la barba quella mattina, e profumata di buono.
 
 

« Per quale motivo avete lasciato L.A così presto, e siete tornati da noi poveri babbani? Pensavo, almeno Marus mi aveva detto che sareste venuti giù verso luglio. » Versai a Katy del succo d’ananas nel bicchiere, mentre i miei occhi restavano piantati su Luke, che si aggirava per la cucina come se fosse un luogo sconosciuto per lui.
Strano. Solitamente, quando viveva ancora qui, la cucina era il posto il cui passava più tempo. Lui e i suoi amici, avevo pensato più volte da bambina, avrebbero volentieri lasciato le loro stanza puzzolenti e disordinate per vivere nella nostra cucina moderna. I banconi, magari, erano persino comodi per dormire, e il cibo non mancava.
Luke si voltò nella mia direzione come se avesse sentito il mio sguardo penetrargli fra le spalle e sorrise rincuorante, facendo qualche passo verso di me. Un miagolio di protesta si riversò nell’aria quando Ares saltò su uno dei banconi, si sedette e rimase a fissarci tutti e tre. Stupido gatto, pensai tentando poi d’ignorarlo. Era impossibile. Ovunque Ares mettesse piede portava con se un senso di inquietudine che restava attaccata alla pelle della gente.
« Stupido gatto. » Ares parve capire le parole di Luke, perché rizzò il pelo che non aveva e soffiò forte verso di lui prima di correre in salotto, ad appollaiarsi nella sua fortezza sicura, una struttura composta da quattro torrette alte quanto Jade che mamma gli aveva preso  per il suo compleanno. Come diamine faceva a ricordarsi il compleanno del gatto quella donna? Bah.
« Mi ha sempre fatto un po’ di paura, quel dannato gatto. » Ammise Katy, portandosi il bicchiere di succo alle labbra piene e rosse, a contrario delle mie che erano sottili e rosee.
Katy e io non ci assomigliavamo moltissimo: lei aveva coti capelli rasati ai lati, alla moicana, di un castano chiaro, occhi verdi muschio e carnagione ambrata; non aveva tatuaggi, ma due pircing al sopracciglio sinistro, un septum e un central labret, senza contare i due dilatatori. Io invece ero pallida, tinta di biondo, con svariati orecchini e qualche tatuaggio sparso sul corpo –nascosto a mamma da quasi un anno-. Per non contare poi che Katy era leggermente più alta di me. Superava il mio metro e settantacinque di almeno… beh, era un metro e ottanta di ragazza. Odiavo sentirmi più bassa, perciò tendevo a evitare i discorsi sui tacchi con lei; tanto tacchi o no rimaneva sempre più alta. Uff…
Lei e Luke si erano conosciuti quattro anni fa, mentre lui era impegnato con i suoi primi lavori seri e lei pure. Lui era appena stato preso da Vogue come stilista apprendista e Katy era una modella affermata nel campo. Lei non aveva quell’aspetto prima di conoscere Lucas, e non era neppure etero.
E’ proprio vero che non si sceglie chi amare.
Luke le rivolse un sorriso divertito, per poi appoggiarsi al bancone dove io mi ero seduta. Le mie gambe si muovevano avanti e indietro, strette nelle grandi pantofole gialle e grigie che avevo trovato per caso. Stringevo fra le mani l’orlo della mia t-shirt quando una piccola lampadina si accese in quello spazio vuoto che osato chiamare “cervello”. « In ogni modo, torniamo noi piccioni, vi va? » “Piccioni” era il modo meno smielato che mi ero inventata per non vomitare a causa della troppa dolcezza. Odiavo le cose troppo dolci smielate… fatte. Forse è per questo motivo –e per quello che ero considerata una bulla- che non riuscivo a trovarmi un ragazzo. « Allora, come mai siete scesi giù così presto? »
« Sinceramente? » Katy osservò il succo nel suo bicchiere e sorrise, portandosi una mano alla pancia.
Il mio cuore parve fermarsi per qualche istante e sembrò metterci anni a riprendere a battere normalmente. Portai una mano al petto e sorrisi; un sorriso da orecchio a orecchio. « Oddio, sei incinta?! » Strillai entusiasta, saltando giù dal bancone e quasi rompendomi una caviglia.
La luce del sole sembrava più vivace che mai, brillante sulle borchie degli accessori di Luke quando lui mi fermò poggiando le mani sulle mie spalle. « Oddio, no. », rise sonoramente con la sua voce roca. « Io e Katy ci sposiamo. » I suoi occhi azzurri brillarono di felicità.
Rimasi leggermente delusa, avevo pensato che Katy si fosse toccata la pancia per farmi intuire di essere incinta ma, adesso che osservavo meglio lei e la sua mano sinistra potevo notare un bell’anello a fascia sottile con svariati diamanti.
« Oddio, è fantastico! » Battei le mani e abbracciai prima mio fratello, stringendolo come se dovessi perderlo, e poi corsi da Katy. Se proprio Lucas si doveva sposare ero felice che l’avrebbe fatto con Katerina. « Signore… immagina quando lo saprà la mamma! » Mi portai le mani ai capelli, tirandoli leggermente per l’emozione. Mio fratello si sposava.
Mio fratello si SPOSAVA!
« Ecco… tu stai zitta riguardo a tutto questo. » Luke mi accarezzò una guancia, « Vogliamo dirglielo noi. Abbiamo già organizzato tutto. » I suoi occhi celesti trovarono quelli della compagna mentre sorridevano.
Sembravano così uniti. Non potei fare a meno di domandarmi se un giorno anche io avrei avuto al mio fianco qualcuno che mi amasse come Luke amava Katy.
« Esattamente… La cerimonia si terrà a Los Angeles, il 16 Luglio. Abbiamo iniziato i preparativi cinque mesi fa. » Intervenne Katy, tornando poi al succo. I suoi occhi verdi scintillarono di felicità quando incontrarono quelli cangianti di Luke, per l’ennesima volta.
« Aspetta… gliel’hai chiesto cinque mesi fa!? »
 
 
Drew.
 
 
 

C’era una cosa che dovevo sapere, una cosa che mi frullava in testa da quella mattina. Gli occhi scuri di quella biondina, il suo modo di camminare così sexy i suoi movimenti… come aveva fatto Keaton a convincerla ad accompagnarlo al bar? Erano bastati due pugni e un po’ di sangue dal naso per attirare la sua attenzione? Dovevo scoprirlo.
Strinsi la birra fra le dita, fremendo un poco per il freddo che emanava il vetro verdognolo e, salutando un gruppetto di ragazze, mi avvicinai al bancone. Keaton stava servendo delle persone, la mascella viola a causa dei lividi era un colpo in un occhio. Quella macchia risaltava sulla sua pelle ancora pallida d’inverno.
« Ehi, Keapan. » Mi sedetti su uno sgabello e poggiai la birra al bancone dopo averne bevuto un sorso.
Gli occhi azzurri del ragazzo si posarono su di me. Kea finì di servire i ragazzi difronte a lui e, successivamente, venne verso di me. Lanciò la spugna per pulire nell’acquaio, poggiò i gomiti sul bancone e si sporse in avanti. « Ciao Drew. » La sua voce era annoiata, strascicata in basso da quella mattina.
« Come stai, ragazzone? » Sorrisi, girandomi fra le mani la bottiglia di birra.
« In piedi, dietro un bancone a parlare con te. » Rispose alzando un sopracciglio, scrocchiando le nocche. Sembrava più grande dei suoi sedici anni, più strafottente del solito. Cosa aveva oggi quel dannato ragazzino?
« Kea, stai bene? Oggi sembri abbastanza scocciato. » Borbottai, tornando a bere dalla bottiglia con avidità. La birra scese nella mia gola, bruciò per tutto il tragitto e poi mi lasciò un gusto amarognolo in bocca.
Il giovane Stromberg si passò una mano fra i capelli, alzandosi il capello nel mentre. « Certo che non sto bene! », sibilò avvicinandomisi. « Oggi sono stato menato da un gigante, perché ho calpestato lo stupido mosaico di uno squalo, e salvato da una ragazza. Mi sono reso lo zimbello di tutti e, in più, ho guadagnato qualche bel grande livido. » Con un gesto secco mi indicò l’occhio destro e la mascella, entrambi violacei. Poi, scosse con furia il capo: « Senti, Drew so dove vuoi arrivare e ti dico già che lei non fa per te. » Mi osservò con occhio critico e un sorriso a fior di labbra.
« Ehi, tutte fanno per me! » Ribattei velocemente, battendo una mano sul tavolo divertito. « Sono il tipo di ogni ragazza! »
« Si, ma non il suo. » Keaton si guardò attorno controllando che non ci fossero clienti da servire, poi riprese: « Lei non è una che si fa salvare, si salva da sola. »
« Cosa intendi dire, piccoletto? »
« Da quello che mi hanno raccontato, Chloe non era nemmeno considerata prima di spiaccicare la faccia di Charlotte Simpson contro il pavimento della mensa. Da quello che so, si è fatta quella reputazione da sola in pochi minuti. E’ arrivata dov’è con le sue forze, sebbene “dov’è” non è che sia proprio un bel posto. »
« Mamma mia, che poeta che sei Kea. » Risi io, prendendolo in giro.
« Ridi, ridi pure », mi riprese mettendosi a pulire il bancone, « tanto lei non te la da. Non è una facile come quelle con cui sei abituato a uscire tu », l’occhio gli cadde su un gruppo di ragazze poco lontane che ci stavano guardando. Sorrisi a una di loro che ricambiò, poi prese a sparlare con le amiche.  « Appunto » mormorò il sedicenne, scuotendo piano la testa.
« Staremo a vedere. Quella ragazza cadrà ai miei piedi entro la fine dell’estate. » Gli feci l’occhiolino, prima di mandare giù l’ultimo sorso di birra e alzarmi.
« Se ne sei così sicuro, perché non scommettiamo? » Keaton allungò la mano e sorrise sicuro di se.
Era giusto scommettere sulla felicità, sulla vita di una ragazza? Era giusto usarla per arrivare a vincere una stupida scommessa? Probabilmente no. Certamente no.
« Se vinco io mi regali il tuo skate nuovo; se vinci tu ti do il mio biglietto per andare a vedere i Maroon 5. »
Maroon 5, la parola magica che fece disciogliere nel vento tutte le domande che mi ero posto fino a quel momento. Al diavolo i mille problemi che mi ero fatto, quel biglietto doveva essere mio. E poi, nessuna ragazza riusciva era riuscita resistermi dalla terza superiore fino a oggi,  e  lei non sarebbe stata la prima. Io ero il tipo di tutte e tutte erano il mio tipo, basta che respirassero. « Andata! » Ci stringemmo la mano.
Quel biglietto sarebbe stato mio.
Mi stiracchiai un po’, controllai l’orologio e scrocchiai le nocche. Dannazione era tardi! « Ok, preparati a perdere. » Strizzai al piccolo Stromberg un occhio, sorridendo con la consapevolezza di aver già vinto. « Ora vado Kea, quando torna Wesley digli di chiamarmi ok? »
« Va bene. Ciao Drew », mi sorrise gettandosi un torcione sulla spalla. « Goditi il tuo skate, fratello, perché alla fine dell’estate sarà tutto mio! » Mi gridò dietro quando spalancai la porta e uscii.
Scossi il capo e indossai gli occhiali, cacciando dalla tasca le chiavi della mia Porsche 911 grigio metallizzata. Era ora che tornassi da mia madre, dovevo aiutarla con la casa nuova.
 
 
« Ciao ma’. » Infilai le chiavi dell’auto nella tasca posteriore dei jeans e saltai i tre gradini antecedenti il portico. Evitai due uomini dei traslochi, che stavano trasportavano uno dei grandi divani a penisola di mia madre ed entrai.
Lei, una donna non troppo alta dai capelli biondi e gli occhi grigi, mi venne incontro sorridendo. Le sue braccia cinsero le mie spalle in un abbraccio materno caldo e confortante, e il suo profumo dolce di miele e mele m’invase il naso. Ricambiai la stretta e poi mi allontanai, osservando in giro.
La casa era grande, soleggiata e ariosa. I muri bianchi erano pronti per accogliere i quadri colorati di mia madre, le camere per essere riempite con i suoi mobili alti e moderni e la cucina per accogliere tutti i cibi deliziosi che mamma preparava. Dalle pareti a vetrata che davano sulla spiaggia potevo vedere la grande piscina e il mare, e alcuni dei residenti che si stavano godendo la bella giornata di sole; si sentivano le grida divertite dei bambini e qualche abbaio da parte dei cani nel vicinato.
Mi passai una mano fra i capelli corti, lanciando un’occhiata a mamma. Sorrideva, ma non seppi spiegarmi se per la felicità di essere venuta a vivere dove mi ero trasferito io l’anno prima, oppure perché aveva qualcosa in mente.
« Mamma? » Chiesi osservandola, socchiudendo leggermente le palpebre.
Poggiò una mano sul mio braccio  e sorrise. « Drew, tesoro, penso di aver bisogno di un po’ di farina. Potresti andare a prendermela? »
« Mh, si certo. Ma, che vuoi fare? » La curiosità e la gola per i suoi dolci mi stava lentamente facendo crescere la fame. Il mio stomaco, difatti, brontolò.
« Qualcosa, per passare il tempo. Sai, stasera ho invitato una mia vecchia amica a cena e mi aspetto che ci sia anche tu. » Sorrise ancora, ‘carezzandomi la pelle già abbronzata. « Non avevi impegni, vero tesoro? »
Pensai a Wesley, Sebastian e Tayler e al fatto che ci eravamo dati appuntamento per andare a casa di quest’ultimo. Magari, li avrei potuti raggiungere dopo cena usando una scusa banale; non potevo dire di “no” a mia madre, almeno non la prima sera che era appena arrivata. Sapevo quanto lei tenesse a queste stupide cose e odiavo tremendamente deluderla. Avrei raggiunto Wes e gli altri più tardi.
« No, mamma ci sarò. » Le lasciai un bacio sulla guancia, ripescando le chiavi dell’auto dalla tasca posteriore dei jeans. « Ci vediamo dopo. » Uscii in fretta da casa, senza evitare i traslocatori stavolta e puntai le chiavi verso l’auto.
I fanali fremettero luminosi e poi si spensero, e un leggero cinguettio li accompagnò salutandomi. Poggiai una mano sulla portiera e l’aprii, guardandomi nuovamente attorno. Sotti i miei piedi delle piastrelle rosse creavano il viottolo, che finiva in un cerchio con al centro una grande fontana sormontata da una cavallo che usciva dalle acque; siepi costeggiavano la via, dividendola dal prato all’inglese e da alcuni alberi. Dalla casa affianco, una bella costruzione color sabbia biancastra, una risata fluttuò fino a me. Ci feci poco caso e montai in macchina, uscendo dal vialetto.
Mentre le ruote dell’auto toccavano l’asfalto e io ingranavo la prima, uno strano essere rosa si fermò in mezzo alla strada. Solo quando mi fermai capii che si trattava di un gatto; un orrendo gatto egiziano, dagli occhi acquosi e viperini che mi scrutavano con circospezione. La coda rosa si muoveva sull’asfalto grigio, apparentemente rovente. Alzai il capo verso l’alto, suonando più volte il clacson  per farlo andare via ma sembrava non avesse paura. Spazientito, aprii la portiera e mi diressi verso il felino; lo presi in braccio e lo poggiai sul marciapiede stando attento a non farmi graffiare. Stranamente non parve avere paura, di nuovo. Quando rimisi piede in macchina e accesi il motore, il gatto era tornato dove prima.
Imprecai svariate volte, scesi ancora dall’auto e caricai quella cosa fra le braccia. La pelle calda e rugosa entrò in contatto con la mia, facendomi uno strano effetto ripugnante. Lessi il numero dell’abitazione che aveva marchiato sopra il collare e m’incamminai. Percorsi un viottolo con le stesse pietre rosse di quello di mamma, aggirai una fontana con una musa che versava dell’acqua da un’anfora e salii i gradini fino ad arrivare alla porta dell’abitazione. Bussai ripetute volte, sempre col gatto in mano, finché non mi aprirono.
Pantofole gialle, gambe lunghe e magre, fisico perfetto e grandi occhi scuri mi si pararono davanti. I lunghi capelli biondi erano legati in una coda alta, e la canottiera che indossava era aderente e molto provocante.
« Ciao », mi salutò lei incrociando le braccia al petto.
« Ehi… E’ tuo il gatto? » Chiesi, lanciando un’occhiata a quello strano essere rosa fra le mie braccia.
Lei lanciò un’occhiata stranita all’animale e arricciò le labbra, accarezzandosi una guancia. Tutto nel suo corpo, nei suoi movimenti pareva accendere qualcosa dentro di me. La volevo, dovevo averla e non solo perché averla avrebbe voluto dire tenere tra le mani il biglietto per il concerto dei Maroon 5 in prima fila e con tanto di pass per il dietro le quinte. Era dannatamente sexy ed era il mio tipo. Me lo sentivo.
« Si.» Si limitò a rispondere, scostandosi leggermente dalla porta. « Buttalo pure dentro. » Accompagnò la frase con un gesto, senza sorrisi o formule di cortesia.
Poggiai il gatto a terra, sulle tegole della veranda e lui corse dentro. Uno strano rumore di pentole mi arrivò alle orecchie, mettendomi in allerta.
« Chi è? » Sentii gridare da una voce roca e maschile.
« Scusa, come ti chiami? » Domandò. I suoi occhi castani mi sorrisero per un istante, o almeno pensai l’avessero fatto.
« Drew Chadwick e sono una specie di nuovo vicino…  Già che sono qui, potrei chiederti se hai della farina da pr… »
Chloe si voltò verso l’interno della porta e portò una mano a lato della bocca. « Drew! » Rispose senza lasciarmi finire. « Ha bisogno di un po’ di farina! »
« Drew? E chi è? » Altro rumore di pentole e poi dei passi accompagnarono le domande. Un ragazzo alto cinque centimetri buoni più di me si parò dietro la bionda, poggiandole una mano sulla spalla con fare protettivo; i suoi occhi azzurri ghiaccio mi studiarono attentamente, mentre i miei corsero sui suoi muscoli e sui tatuaggi. Con la mano libera reggeva un pacco di farina intatto, ben stretto fra le lunghe dita.
Era fidanzata, constatai. Farla cadere ai miei piedi sarebbe stata un’impresa, ma nulla è impossibile per.
« Sono il figlio della vostra nuova vicina. Drew, piacere. » Allungai una mano e il moro, dopo avermi dato la farina, la strinse sorridendomi.
« Sono Luke, lei è Chloe ed è un piacere conoscerti. »
 I miei occhi incontrarono Chloe, e la mia bocca le sorrise. Probabilmente avrei dovuto stare attento a tutti i segnali che le mandavo, specialmente con il suo ragazzo difronte a noi ma non ero riuscito a controllarmi.
« Grazie per averci… riportato Ares. » Sospirò la bionda, grattandosi il collo.
« Non c’è di che. » Ammiccai, facendo volare il pacco da una mano all’altra.
« La prossima volta che lo vedi buttalo sotto. Non è un consiglio, ma un ordine. » Affermò Luke, prima di scomparire.
Mi morsi un labbro e aspettai di vederlo scomparire, prima di poggiarmi allo stipite della porta. « Allora, ti ho vista prima al bar sulla spiaggia con Kea… »
« Si, anche io ti ho visto e non sono interessata. Ciao Drew. » Ancora una volta non mi lasciò finire e mi chiuse la porta in faccia.
Restai a guardare il legno davanti ai miei occhi, mentre la luce del sole iniziava a scemare a poco a poco. Mi massaggiai il viso e tornai sui miei passi, con un sorriso misto tra divertimento e incredulità.
Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare” mi dissi e adesso sapevo che con Chloe sarebbe stata proprio una bella partita. 

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Capitolo 4
*** Cene & Birre. ***


Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=1VyXZiAEvd4
 

Girl next door. 
 

“Tutti abbiamo una sorta di demone dentro. Il Tao Te Ching dice che esistono lo Ying e lo Yang, due forze opposte presenti in ognuno di noi. L’oscurità e la Luce. L’assassino e l’Eroe”
 
— Arrow

 

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« Mamma, dai! Non posso perdermi questo film, ci sarà anche Nicolas a vederlo! » Leigh si afflosciò su uno degli sgabelli della cucina e osservò mia madre, che tranquillamente stava mangiando. Gli occhi azzurri di mia sorella non lasciarono mai il viso già abbronzato di mia madre, mentre quest’ultima si alzava e poneva nell’acquaio il piatto sgombro da cibo.
« Non voglio sentire scuse, signorina. Tu verrai, fine della storia. » Si limitò a risponderle mamma, infilando il piatto nella lavastoviglie. Poi, con naturalezza si asciugò le mani bagnate con uno straccio e tornò a guardare Leigh: « Anne ci ha invitate stasera a cena, e io le ho detto che saremmo andati tutti. »
« Ma Luke non viene! » Protestò la quattordicenne, passandosi una mano fra i capelli castani. La luce che entrava dalla porta finestra di vetro in casa illuminava la pelle pallida di Annabeth –il secondo nome di Leigh-, mentre le sue labbra rosee si piegavano in una smorfia scocciata. « Chloe, dille qualcosa! » Mi scongiurò.
Alzai gli occhi dalla ciotola di cereali che stavo mangiando e ingoiai il contenuto nella mia bocca. « Qualcosa », sorrisi a Leigh, mentre la sua faccia diventava rossa di rabbia. 
« Sei inutile! » Esclamò e mi parve di vedere una specie di scintilla d’odio nei suoi occhi, una luce lontana che mi portò a ridere divertita finché Luke non entrò in cucina.
 Leigh parve risorgere dallo stato d’odio in cui si trovava e i suoi occhi, questa volta, s’illuminarono a causa di una strana idea. Potevo leggerle in viso che il suo cervellino bacato stava elaborando qualche idea contorta, in modo da evitare la cena con quella Anne di cui aveva parlato mamma. A quanto ne sapevamo, Anne e mia madre si erano conosciute il quarto anno delle superiori mentre frequentavano lo stesso corso di chimica, prima di far esplodere una provetta. Mamma ci aveva raccontato che avevano frequentato lo stesso college  e che poi si erano dovute allontanare, quando nonno aveva deciso di tornare in Italia. Si, perché mio nonno aveva viaggiato molto per lavoro e aveva vissuto con mamma e nonna per parecchi anni in America; e mamma non gliel’aveva mai perdonata del tutto. Lei aveva sempre amato l’America, per questo ci era tornata dopo aver divorziato con il mio sconosciuto padre.
« Perché Luke non viene? » Leigh lanciò a nostra madre un sorriso vittorioso, mentre nostro fratello si bloccava in mezzo alla cucina e inarcava, colto alla sprovvista, le sopracciglia.
Con gli occhi azzurri ancora storditi dall’inaspettata domanda, il moro si diresse verso di me scrocchiando le nocche. Il rumore delle ossa si disperse per tutta la cucina, facendomi tremare le braccia per la poca sopportazione. Era come la quando il semaforo diventava arancione e la gente si fermava, quando ancora poteva andare! Io non lo sopportavo, sinceramente, come non sopportavo il rumore delle ossa che scrocchiavano di qualcun altro.
« Perché Luke ha ventuno anni e può fare quello che vuole. » Rispose semplicemente mia madre, apprestandosi a incrociare le braccia al petto. « Tu, invece, ne hai quattordici e fai quello che dico io signorina. » Stefania le sorrise, passandosi poi una mano fra i capelli scuri, che raccolse in una coda alta. « E poi, Anne ha un figlio; scommetto che potrete divertirvi assieme, se non erro ha più o meno la tua età tesoro. » Mamma aggirò il tavolo e scomparve al piano di sopra, dove si sentiva Jade cantare a squarciagola. « E non voglio sentire altri discorsi, Leigh Elisabeth King. »
Quando nessuno di noi udì più i suoi passi sulle scale, Leigh saltò in piedi e uscì fuori col viso rosso di rabbia e il cellulare fra le mani. Probabilmente stava scrivendo a una delle sue amiche che non andava al cinema, di tenere d’occhio il suo Nicolas –un ragazzino biondiccio, dagli occhi neri- e, conoscendola, ne avrebbe chiamata una e si sarebbe sfogata con una lunga chiamata.  Mi domandai se a quell’età anche io ero stata così polemica, aggressiva e cocciuta. In ogni modo, alla fine, non potevo darle torto: anche io avrei preferito andare al cinema con i miei amici piuttosto che a una noiosissima cena con persone che neppure conoscevamo.
« Qual è il suo problema, oggi? » Mi chiese Luke, dirigendosi verso il frigo.
Ingoiai una cucchiaiata di cereali e alzai le spalle, poi iniziando a gesticolare con il cucchiaio dissi: « E’ arrabbiata. Non vuole andare a cena da quell’amica di mamma, stasera. Sinceramente la capisco, ma il grande capo ha dettato le regole e non intende revocarle. » Infilai il cucchiaio nella tazza di latte e cereali, e presi a girarlo. Il latte creò un vortice che inghiottì il cibo per qualche secondo, prima di risputarlo fuori.
Lasciai andare il manico dell’utensile e mi grattai una guancia indecisa. Forse, se avessi fatto in tempo a mangiare… Ma ero così veloce? Magari Elisabeth avrebbe potuto farsi un giro con i suoi amici dopo il film, senza tornare a casa subito, dandomi il tempo di finire la cena. Sospirai e abbondonai il mento fra i palmi, gettando un’occhiata a mia sorella, che stava gesticolando animatamente al telefono a bordo piscina.
« Beh, io potrei anche portarla, ma poi non riuscirei a tornare a prenderla prima delle tre di notte. » Sussurrò Luke, gettando poi la testa nel frigorifero.
L’osservai e sorrisi. Quei piccoli gesti mi erano mancati durante la sua assenza, e mi sarebbero mancati alla sua partenza. Ancora stentavo a crederci, mio fratello si sarebbe sposato a Luglio, fra due mesi! Avrebbe avuto una famiglia, e meno della metà del tempo che aveva per dedicarsi a me, Leigh e Jade. Tutta via, accompagnare Annabeth al cinema non era una brutta idea. Sapevo che lo faceva perché le voleva bene, e io sarei andata a riprenderla per lo stesso motivo.
« Beh, per quello potrei tornare a prenderla io. » Ammisi, legando i capelli in una coda alta. I miei occhi scuri caddero oltre i vetri della porta finestra, e si fermarono su mia sorella che stava con i piedi immersi in piscina e il telefono all’orecchio.
« Allora siamo d’accordo. Io la porto e tu la prendi, perfetto. » Lucas morse la mela verde che teneva in mano e sorrise, lanciando una zolletta di zucchero, trovata per caso sul bancone, contro il vetro della finestra. Gli assestai una gomitata divertita nel costato, di conseguenza lui mi rivolse una strizzata di guancia alla “nonna”.
Leigh voltò il capo repentinamente, una smorfia arrabbia ancora sul viso, e chiuse la chiamata. Levò i piedi dall’acqua della piscina e corse dentro, senza preoccuparsi di asciugarseli. Quando ci raggiunse Luke era intendo ad addentare la mela, ed io a girare il cucchiaio nella ciotola di latte e cereali. Il loro giro era come ipnotico, aveva un non-so-che di rilassante.
Respirai a fondo e puntai le iridi in quelle di mia sorella, che ci osservava con cattiveria accurata e che, sicuramente, stava escogitando un piano per farcela pagare.
« Chiama le tue amiche, ti ci portiamo noi al cinema. » Le sorrise Luke, e nel viso di Leigh nacque un sorriso.
 
 
« Mamma, io voglio andare a casa! » Jade strinse fra le manine il vestito di nostra madre e lo tirò con forza; la stoffa rossa della lunga gonna frusciò e io mi trovai a immaginare uno strappo su di essa.
Mia sorella Jade, otto anni compiuti la settimana scorsa, era un vero tesoro. Aveva lunghi capelli biondo cenere, occhi grigi e carnagione olivastra. Non dava mai molta noia in casa, le piaceva prendere possesso della tv e faceva quasi ogni cosa che le veniva detta senza discutere ma quando si metteva in testa qualcosa nessuno poteva farla tornare indietro. Era cocciuta, sicura di se e un po’ vanitosa.  Specialmente cocciuta.
« Jade, ho detto “basta”. » La rimproverò mia madre, fermandosi nel vialetto della casa accanto alla nostra. Si inginocchiò davanti a mia sorella e puntò i suoi occhi verdi nei suoi grigi, accigliandosi. « Noi andremo da Anne, e basta discussioni. Ora, dammi la mano e fai la brava bambina, sennò non ti lascerò vedere la tv per due mesi. » Mamma, al contrario di Jade, aveva un carattere tenero ma pericoloso. Era sempre calma e sapeva come rivolgersi alle persone, ma quando perdeva il controllo poteva diventare molto aggressiva. Fortunatamente non avevamo mai avuto l’occasione di constatare la cosa, e di certo non avrei mai voluto farlo.
Con una smorfia contrariata in viso, Jade afferrò la mano di mamma e la seguì verso la porta bianca della casa. Il suo vestito verde acqua, perfettamente in tinta con i fermagli nei capelli che si era voluta mettere, le svolazzò contro le ginocchia facendola apparire come una nuvola. Sorrisi inconsciamente e piegai leggermente la testa di lato, pensando a quanto sarebbe stata bella da grande e a quanto amore avrebbe ricevuto. Dopo tutto si riceve amore dagli altri solo se si è belli, questa è la triste verità della scuola e sinceramente preferivo così. Jade non avrebbe mai passato quello che avevo passato io, non avrebbe mai sofferto delle prese in giro da parte degli altri e avrebbe vissuto in serenità nel suo mondo delle meraviglie. Scuotendo il capo mi sveglia da quella trans momentanea e mi concentrai sul suono dei miei tacchi, sul venticello caldo che s’infrangeva sulle mie gambe, sul rumore lontano del mare. Alzai per qualche secondo il viso al cielo e osservai le stelle, così luminose e lontane. Avevo sempre amato guardarle, immaginarmi che, chissà dove, qualcuno di qualche altro pianeta stesse facendo la stessa cosa e pensando come me: “chissà come ci si sente a stare lassù? Chissà se si prendono gioco di noi poveri mortali, quelle creature etere?”  Più le guardavo, più mi convincevo che un giorno le avrei toccate con un dito. Ma non avevo mai raccontato a nessuno di questa cosa, di questo mio piccolo pensiero. Era una cosa mia, e mia soltanto.
Sospirando, tornai a guardare davanti a me. La figura di Marcus, un uomo dalle spalle larghe, i capelli biondicci e gli occhi di vetro, sovrastava quella di mia madre e mia sorella. Io me ne stavo leggermente più indietro, imprecando contro i tacchi alti, il vestito che si alzava ad ogni passo a osservare una splendida fontana che rappresentava una cavallo nell’intento di uscire dalle onde. Era così bella, ma nessuno avrebbe mai superato la musa di casa mia, che era diventata come un’amica sempre presente. Quando mi annoiavo e la voglia di scrivere scemava del tutto, mi affacciavo a una delle tante finestre a specchio della mia camera e la osservavo. Lei era sempre li, complice di un destino crudele, che ricambiava il mio sguardo. A volte, non so perché, mi veniva da sorriderle mentre altre la trovavo alquanto inquietante. Ma lei c’era sempre, custode lontana di quelle poche lacrime che avevo versato da tre anni a questa parte.
« Chloe, tesoro muoviti. » La voce di Marcus mi risvegliò dai miei demoni, costringendomi a distogliere lo sguardo dal cavalle nelle onde e dall’acqua nera scurita dalla notte.
Presi un bel respiro e percorsi i pochi metri che mi dividevano dall’entrata. La mia famiglia era già entrata e aveva già salutato la padrona di casa , quando varcai la soglia. Una donna abbastanza alta dai capelli biondi mi venne davanti, un sorriso smagliante sul volto simpatico. Con gli occhi grigi fece un rapido esame del mio vestito nero, con le spalline borchiate, e lasciando perdere i convenevoli mi abbracciò. Socchiusi le labbra sorpresa, poi mi abbassai leggermente per arrivare alla sua altezza e ricambiai. Quella Anne profumava di spiaggia e abbronzante, e mi sembrava una brava persona. Quando ci staccammo mi raccolse il viso fra le mani e mi voltò il capo a destra e sinistra, esaminandomi.
« L’ultima volta che ti ho vista eri solo una neonata. Santo cielo, guarda come sei cresciuta bene. » Nei suoi occhi parve brillare una scintilla d’ammirazione, quasi fossi figlia sua. « Sei così bella. Non c’è da stupirsi che tua madre mi abbia mandato una tua foto ogni anno. Splendida, e questo vestito ti dona molto. » Allontanò le mani dal mio viso e le poggiò sui fianchi. Ridacchiando leggermente disse: «Ma guarda che pettegola sono, ora sembrerò una stolker! »
« Oh, no. Si figuri. » Una risata sussurrata salpò dalle mie labbra, disperdendosi nel corridoio dalle pareti bianche  e il pavimento di marmo.
Non avevo ancora avuto l’occasione di dare un’occhiata alla casa, Anne mi aveva assalita all’improvviso, ma ora che la vedevo bene non potevo certo dire che fosse brutta. Un corridoio intervallato da colonne greche di marmo, bianco e rosa, ci divideva dalla grande cucina con zona pranzo da una parte, e da un grande salone dall’altra. Più avanti, si poteva accedere al piano superiore tramite una scala che si divideva in due come quella di casa mia. Davvero una gran bella casa, non c’era che dire. Presi a seguire Anne, che con il suo vestito lungo e nero appariva, non la padrona ma, l’imperatrice della casa. I suoi capelli raccolti, poi, erano impreziositi da piccola fiori candidi, che riprendevano il colore delle perle della sua colla e degli orecchini. Ci insinuammo fra due colonne e comparimmo nella sala da pranzo, dove un grande tavolo di mogano apparecchiato lussuosamente ci aspettava. Mamma, Marcus e Jade ci aspettavano da qualche minuto. Sorridendo, mi accomodai accanto ad una sedia vuota e lanciai un’occhiata a quella vicino a mamma. Avrebbe dovuto esserci Leigh alla sua destra, ma quel piccolo scricciolo aveva fatto crollare me e Luke e adesso era al cinema.
« Spero che sia tutto di vostro gradimento. » Sorrise Anne, mettendo in tavolo un grande vassoio di cibo.
« Scommetto che lo sarà sicuramente Anne, ma perché non attendiamo tuo figlio? Fremo dalla voglia di conoscerlo, è ancora di sopra? » Chiese mamma, con quella sua bocca larga. Ammetto che a volte le avrei volentieri cucito le labbra, ma poi chi mi avrebbe più fatto i complimenti per i bei voti? E, questo lo sapevamo tutti, quando si trattava di voti diventavo vanitosa tanto quanto Jade lo era di se stessa. Nessuno era bravo nei complimenti come nostra madre.
La mamma era sempre la mamma dopo tutto, sebbene aveva una parlantina esagerata e non sapesse tenersi le cose per se. Pettegola.
« Dimmi, tesoro, quanti anni ha adesso? 14? » Stefania congiunse le mani sotto il mento e rimase a guardare Anne. Nei loro occhi c’era come una specie di connessione remota che solo loro due potevano capire. Amicizia: più forte di qualsiasi amore del mondo. Questa era la mia teoria.
Dopo tutto, l’amore era una cosa passeggiera –io non ci avevo mai creduto davvero, nell’amore- mentre l’amicizia era eterna.
« Ne ha quasi venti, Ste. Sei rimasta indietro di sei anni. » Una risata irruppe dalle loro labbra. Era bello vedere mia madre sorridere così, la faceva apparire più giovane di qualche anno. « In ogni modo, dovrebbe arrivare fra qualche minuto. Sai, scommetto che ti piacerà, secondo me avete molto in comune. » Concluse la donna rivolgendosi a me.
Ricambiai annuendo. Quante volte le avevo già sorriso nell’arco di dieci minuti? Troppe. Ora invidiavo Leigh; ci sarei andata volentieri io al cinema al suo posto perché, per quanto fosse affabile e simpatica, Anne era una con troppe energie in corpo. Dopo aver atteso che mamma, Marcus e Anne tornassero a parlare fra loro, lanciai un’occhiata a Jade. La bimba se ne stava seduta vicina a mamma, e osservava il suo riflesso nella coppa dell’acqua. Le piccole mani che giocavano con i capelli, gli occhi stanchi che tenevano il conto di tutte le ore passate in piedi. Sicuramente, Jade avrebbe voluto trovarsi a letto ora e non a una noiosa cena… Detto fra noi, lo volevo anche io e speravo che tutto quel ciarlare durasse poco, che la proiezione del film di Leigh durasse ancora meno. Purtroppo però, controllai l’orologio e capii che avrei dovuto aspettare, molto. Alzai gli occhi al cielo e pregai che qualcosa di inaspettato accadesse, in modo da migliorarmi la serata.
Le chiacchiere dei miei genitori parevano infinite, incessabili e noiose. Poi, finalmente il campanello suonò. Anne, tutta sorridente col suo rossetto rosso, si alzò veloce e ticchettò via verso la porta continuando ad asserire sul fatto che “il suo bambino” fosse arrivato. In un certo senso, da come ne aveva parlato, il figlio di Anne aveva suscitato in me curiosità. Ero ansiosa, se così si può dire, di vedere che aspetto avesse, con che mentalità ragionava e se al posto degli occhi avesse sul serio due pietre azzurre come l’acqua di un ruscello.  A sentir parlar lei il figlio era una specie di modello. Lo speravo. In una serata così noiosa rifarmi gli occhi non mi avrebbe fatto altro che del bene. Mentre pesavo a tutto questo, le voci nl corridoio si facevano più vicine. Riconoscevo quella alta e squittente di Anne, e una più bassa e melodiosa. Le ombre li precedevano, rendendo l’attesta un agonia. La curiosità mi stava uccidendo. Quando Anne ritornò nella sala da pranzo, dietro di lei c’era suo figlio. Drew.
Imprecai mentalmente, maledicendo Anne e la sua bocca troppo larga che mi aveva fatto immaginare chissà quale bellezza dei miei sogni, ma sorrisi ugualmente. Gli occhi di Drew fecero il giro della stanza, così come il suo saluto echeggiò fra le mura. Poi, si avvicinò a me e scostò la sedia di fianco alla mia sedendosi sulla pelle bianca. Non potevo crederci: l’avevo visto quella mattina al bar, dopo aver portato Keaton da suo fratello, il pomeriggio me l’ero ritrovato sulla porta di casa e ora ci mangiavo assieme. Ma allora era vero il detto: non c’è due senza tre. Speravo di non dover conoscere “e il quarto vien da se”.
« Drew, lei è Chloe la prima figlia di Stefania. » Fece le presentazioni Anne.
Io e il ragazzo ci guardammo negli occhi –infondo i suoi non erano così brutti… Avevano un colore simile a quello del ghiaccio- e finsi un sorriso. Piegai un po’ la testa verso destra, stando attenda a non lasciar cadere i capelli nel piatto, e lasciai che Drew mi stringesse la mano leggermente. Aveva la pelle calda e liscia, tranne sui polpastrelli; probabilmente suonava la chitarra.
« Ho avuto modo di conoscerla questa mattina, mamma. »
« Oh, davvero? » Marcus scattò sull’attenti, congiungendo le mani fra loro. Ingoiai un fiotto di saliva e guardai papà, impaurita dalla reazione che avrebbe avuto nel sapere che avevo saltato le lezioni. Per lui l’apprendimento era tutto, la conoscenza era l’essenza stessa della vita. « Come? »
Non dire nulla, stupido idiota. Non dire nulla!” implorai mentalmente, mentre mi torturavo le mani sotto il tavolo e non staccavo i miei occhi dal ragazzo.
« Ha accompagnato il fratello di un mio amico al suo bar dopo che l’avevano picchiato, è stata molto gentile con lui. Tutta via, si può dire che ci siamo parlati meglio questo pomeriggio, quando sono andato a riportarle il gatto. »
Stupido idiota!” Perfetto, mi avrebbero rinchiusa in casa fino alla fine della scuola e addio festa in spiaggia di venerdì sera. Mi passai le mani fra i capelli, tirandoli, e tentando di evitare lo sguardo dei miei genitori puntai gli occhi sul piatto. Ma cos’era Drew: un cancro?
« Oh, ma che brava ragazza! » Esclamò Anne, battendo le mani velocemente per allentare la tensione appena creatasi. « Beh, direi che ora che ci siamo tutti, possiamo iniziare a mangiare.»
Il resto della cena continuò silenzioso, per me e Jade che interferivamo con gli altri solo in caso di bisogno. Ogni tanto controllavo il telefono, magari Leigh mi aveva scritto… o magari no. Quanto durava quel dannatissimo film? Quella cena non sembrava finire più e, come se non bastasse, mi sentivo gli occhi di Marcus costantemente addosso. Ero consapevole di ogni cosa: le sue occhiate, le risate di mia madre e Anne, le smorfie causate dalla noia di Jade e i veloci sguardi che mi rivolgeva Drew. Se prima avevo pensato che fosse carino, ora lo detestavo e nemmeno l’aspetto fisico avrebbe aiutato a farmi cambiare idea. Lui con i suoi muscoli, quei capelli biondicci e gli occhi azzurri più chiari del ghiaccio potevano andare a farsi fottere! La sua bocca poteva andare a farsi fottere! Dannazione.
Proprio quando pensavo che sarei impazzita, il mio telefono trillò. Lasciai andare la forchetta, con la quale avevo pizzicato il cibo, e raccolsi fra le dita l’I-Phone. Sullo schermo brillava il nome “Leigh”, e sotto il cerchio verde nona spettava altro che essere premuto. Mi scusai con i commensali e, in fretta e furia, mi alzai dal tavolino correndo in veranda. Il vento mi schiaffeggiò rinchiudendomi in una morsa gelida, improvvisamente mi pentii di non aver messo i pantaloni.
« Leigh? Tesoro, ti vengo a prendere? » Nella mia voce riposi molta speranza, quella speranza che riponevo negli occhi all’età di sei anni quando chiedevo a mamma delle barbie. Non funzionava mai, o quasi, ma questa volta sperai che quella palla al piede di mia sorella mi desse una speranza.
« Si. » La voce mi arrivò rotta, quasi stesse… piangendo.
Il mio cuore batté veloce e nel mio cervello si formarono miliardi di brutte immagini. Cosa poteva essergli successo? Paura, solo questo era il sentimento che provavo ora.
« Tesoro, dimmi dove sei che arrivo. »
« Sono in spiaggia. Su un pontile. » Si, stava piangendo e molto. Singhiozzava come una papera di gomma.
« Ci fosse un solo pontile ad Huntington Beach, Leigh. Riesci a vedere qualcosa che potrebbe aiutarmi a trovarti? »
« C-c’è un… un chiosco. » Tirò su col naso, riuscii a sentire i suoi passi sulle assi di legno della passerella; probabilmente si stava avvicinando per leggere il nome sull’insegna. « S-si chiama RUBYS.  »
« Che cosa?! » Per poco non mi strozzai con la mia stessa saliva. « Come hai fatto ad arrivare fin li? E’ dall’altra parte della città. Vabbè, non importa. Resta dove sei Leigh, vengo a prenderti. » Attaccai e ripercorsi i miei passi, comparendo in sala da pranzo. I miei tacchi smisero di fare rumore quando raccolsi fra le braccia borsa e giubbino, sorridendo benevolmente a tutti. « Mi spiace dovervi lasciare così, ma ha appena chiamato Leigh e vuole che la vada a prendere. Grazie mille Anne, è stata un cena strepitosa. »
 
 
 
« Dai cazzo! Parti stupido catorcio! » Girai ancora una volta la chiave, nel tentativo di accendere l’auto ma l’unico segno di vita durò appena tre secondi, poi il motore mi abbandonò. Ma perché non mi ero fermata a fare benzina quella mattina? Perché? Sbattei le mani sul volante, accasciandomi contro il seggiolino di pelle nera e maledicendomi. Fuori dai finestrini, le stelle sembravano prendersi gioco di me.
« Ehi, tutto ok? » Mi voltai verso la portiera, attratta da un bussare continuo e incessante sul vetro. Drew se ne stava li, la camicia elegante sbottonata leggermente, in modo da far vedere i pettorali, e la giacca elegante gettata su una spalla. Alzando gli occhi al cielo aprii la portiera, ritrovandomelo davanti simile a una stata. Lo vidi esaminare il mio corpo con gli occhi, prima di tornare alle mie iridi. Classico uomo tutto fumo e niente arrosto. In base alle lezioni che mi aveva impartito Eric –il mio insegnate di MMA- avrei potuto stenderlo con un colpo solo dritto al petto. Ma ora non potevo pensare a come gettarlo a terra per fargliela pagare, dovevo pensare a Leigh, da sola su un dannato pontile dall’altra parte della città.
Le labbra di Drew ebbero un guizzo verso l’alto, poi tutto tacque e il vento occupò il silenzio pesante.
« Non mi funziona la macchina, e devo andare a prendere mia sorella. » Ammisi, giocando con le chiavi dell’auto. Il loro rumore mi aveva sempre tranquillizzata; era come ascoltare lo scorrere del tempo a tuo piacimento. Tic tic tic, decidevi tu la velocità.
 « Dove si trova? » Domandò curioso, poggiandosi con una spalla alla portiera del passeggiero al mio fianco. Gli lanciai un’occhiata di traverso e arricciai le labbra. « RUBYS. »
Fischiò sorpreso, lanciando in alto le sue chiavi per poi riprenderle al volo. « Molto lontano, è? »
« Già. » Asserii, prendendo a torturarmi le mani. Stavo solo perdendo tempo, avrei dovuto prendere un’altra auto ma la mia bloccava tutte le altre, e Luke era fuori con Katy.  Ero costretta li, senza auto e con un peso sul cuore che mi gridava di andare da mia sorella.
« Nessun’altro può andare a prenderla? »
« No. »
« E sei senza auto. »
« Si. »
« Beh, angelo, questa è la tua sera fortunata: il grande Drew è qui per salvarti il culo. » Mi si piazzò davanti, aprendo le braccia per farsi più grosso.
Sospirai delusa e scossi il capo, recuperando la borsa dall’auto e dirigendomi verso la sua macchina. Drew era una cozza, averlo incontrato tre volte in meno di ventiquattro ore era già troppo, ma era l’unico disponibile ad aiutarmi nei dintorni.  E, come diceva sempre mia nonna: « Amali estremi, estremi rimedi. »
« Stai per salire sulla spasso mobile, angelo. Vedrai che ci divertiremo. » Asserì, aprendo la sua portiera.
Io mi appoggiai alla mia e alzai le sopracciglia, senza curarmi di reprimere la smorfia che stava nascendo sulle mie labbra. « Sarò schietta con te, Drew: tu non mi piaci. Non ti conosco, ma tu e la tua bocca larga siete riusciti a procurarmi un invito speciale per il “resta a casa venerdì sera e non andare alla festa in spiaggia day”, in meno di tre secondi. » Aprii la mia portiera e infilai una gamba nell’auto, senza distogliere gli occhi da quelli del diciottenne. « Tutta via, sei l’unico nei paraggi che può aiutarmi ad andare da mia sorella e, nonostante tutto, te ne sono grata. Ma abbiamo perso abbastanza tempo, metti in moto questo catorcio. » Entrai senza aspettare una risposta, chiudendomi dietro lo sportello.
Drew fece il suo ingresso dopo di me, un sorrisetto gli aleggiava in viso mentre accendeva il motore. « Allora, oltre agli artigli hai anche le zanne, angelo. »
« Se mi chiami “angelo” ancora una volta, ti farò male Drew. » Lo avvertii, allacciando la cintura di sicurezza.
Il viaggio in auto fu uno strazio, con Drew che tentava di dare vita a una conversazione e io che rispondevo a monosillabi o di rado lo stavo a sentire. Il mio cuore batteva veloce per Leigh, mentre i miei occhi osservavano le ville e successivamente la città che ci passavano affianco. Il ragazzo guidava veloce, nulla che mi spaventasse. Non ero una che aveva paura della velocità, o di fare cose spericolate in genere, ma la cosa che mi terrorizzava davvero erano le altezze. Potevo andare a caccia e sparare a un povero animale senza provare rimorso, fare corse in moto e surfare su onde altre anche tre metri ma chiedermi di salire su una ruota panoramica mi avrebbe paralizzata all’istante. E’ proprio vero che la vita è ingiusta. Avrei dato di tutto per non aver paura di niente a questo mondo, ma non per me ma per le mie sorelle. Avrei venduta l’anima sapendo che non avendo paura avrei potuto aiutarle in tutto. Ma purtroppo una paura ce l’avevo, e mi sentivo così in colpa con me stessa per questo. Fuori dai finestrini la luna splendeva raggiante, una perla incastonata in un velo di notte blu. Le stelle erano diamanti, brillavano fredde nelle loro sfere di gas a migliaia di chilometri da noi. E ancora, non pensavo ad altro che a Leigh, a come avesse fatto ad arrivare da RUBYS, a dove fossero i suoi amici.
« Angelo, siamo arrivati. » Drew non fece in tempo a parcheggiare che avevo già messo piede a terra. Per poco non mi ruppi un piede, storcendomi la caviglia in una corsa sfrenata verso il pontile buio.
Da dov’ero riuscivo a vedere il chiosco della famiglia Stromberg, e una piccola sagoma che correva verso di me. Con quei suoi capelli lunghi e scuri, e la siluette magra Leigh era riconoscibile ovunque. Il rumore dei miei tacchi parevano rimbombare sulle assi di legno del ponte, mentre l’aria mi schiaffeggiava il viso e le gambe. Ancora qualche metro e mia sorella mi gettò le braccia al busto, stringendosi alla stoffa del mio vestito e affondando il viso nella mia pancia. Le accarezzai i capelli e la baciai in fronte, poi tornammo verso l’auto.
« Puoi dirmi come sei arrivata qui? » Le chiesi, mentre il mio cuore rallentava il ritmo e la mano presa di mia sorella si alleviava.
« Sono venuta qui con degli amici. » Mi riferì lei, passandosi una mano fra i capelli castani.
« Mhh… he tipo di amici, Leigh? » M’incuriosii. Per un attimo, nel buio della notte limpida vidi passare una scintilla di paura nei suoi occhi. Che mi stava nascondendo?
« Amici. » Si limitò a dirmi, aumentando il passo. Quel gesto non fece altro che accendere un campanello d’allarme dentro. Feci qualche lunga falcata, afferrai il braccio di mia sorella facendola voltare e mi inginocchiai davanti a lei per arrivare alla sua altezza. Si, ci avevo visto giusto. Qualcosa nel suo sguardo tradiva le parole appena dette.
« Leigh, te lo ripeto: che tipo di amici? » La voce che lasciò le mie labbra non sembrava neppure la mia tanto era seria. Era fredda, lontana e graffiante… Era quella della Chloe che esisteva a scuola, non a casa.
« Amici più grandi. Ma non preoccuparti, non mi hanno fatto nulla siamo solo stati in compagnia. » Si affrettò a spiegarmi, muovendo le mani davanti a se per farmi lasciare la presa sul suo braccio.
« Più grandi di quanto, Leigh? Dimmelo, avanti. E dimmi anche perché piangi. » Non era una domanda o una richiesta, era un ordine ben preciso. La rabbia ribolliva in me, nascendo nel bel mezzo del petto. Avevo fatto di tutto per Leigh: avevo riposto la mia fiducia nel suo buon senso –così come Luke-, mi ero fatta avanti per farla venire a prendere, avevo saltato una cena squisita (sebbene noiosa) alla quale sarei potuta stare ora, senza dover chiedere aiuto a Mr. Sonoilsalvaculodellasituazione che ci aspettava poco lontano nel parcheggio.
« Qualche anno. E non piango per colpa loro, o meglio si. M-ma non mi hanno fatto nulla, solo volevano andare a ballare ma io ho detto no e loro mi hanno lasciata qui e…e… »
« Grande Leigh. Davvero una bella mossa. » Mi rialzai, passando le mani sulla gonna del vestito e prendendola per una spalla. Forse strinsi un po’ troppo perché lei non represse la smorfia di dolore sul suo viso.
« Non dirai nulla a mamma, vero? » Si preoccupò solo di chiedere. La fulminai con il mio sguardo scuro e schioccai la lingua, lasciandola andare. Una folata di vento fece ondeggiare i suoi capelli e l’orlo della sua camicia grigia.
« Non lo so, ma di sicuro lo dirò a Luke. » Presi a incamminarmi. Il vento come una carezza, ora.
« Val, mi dispiace così tanto, scusa. » Corse verso di me, tentando di restarmi affianco. Ma avevo le gambe più lunghe di lei, e faticava a starmi dietro. « Non volevo farti preoccupare così tanto, ma mi sono spaventata e… »
« Tu ti sei spaventata, Leigh? E io cosa dovrei dire, allora? Mi hai chiamato piangendo e ho avuto paura che ti fosse capitato qualcosa! » La mia voce si alzò di qualche ottava, prima di scomparire nell’aria. Più guardavo mia sorella negli occhi più mi sentivo tradita, delusa. « Mi hai fatto prendere un colpo! Mi era morta la macchina e ho dovuto chiedere aiuto al figlio di Anne, che per giunta mi sta pure antipatico. Ma l’ho fatto per te, perché sapevo che avevi bisogno di me e che eri rimasta sola. E poi mi vieni a dire che hai pianto perché, giustamente, a dei ragazzi più grandi di te non frega nulla se tu non puoi andare a ballare?! » Mi passai una mano fra i capelli e scossi il capo. « Sei ridicola, sorellina. D’ora in poi non chiedermi più nulla, ho perso la fiducia in te. »
« Chloe, io non volevo… » Iniziò a piangere.
« Zitta e muoviti, Drew non può aspettare i nostri comodi per sempre. » La rimbeccai, riprendendo a camminare. Ero così delusa! Maledetta me quando mi ero fidata di lei. Non avrei potuto fare di peggio.
Arrivammo alla macchina e Leigh si asciugò velocemente le lacrime, sorridendo a Drew ed entrando in auto. Aspettai che chiudesse la portiera per alzare gli occhi al cielo e sbuffare, sfinita. Gli occhi del ragazzo caddero sulla bambina nell’auto, poi su di me. Fece girare il mazzo di chiavi sulle dita, appoggiando il corpo alla carrozzeria dell’auto, incrociando le braccia sul tetto. Lo guardai per un secondo, lui ricambiò.
« Asco… »
« Non. Dire. Niente. » Lo bloccai, facendo scivolare la mano sulla maniglia dell’auto. « Portami solo a casa, ti prego. »
 
 


Drew.
 
 



« Allora Drew, come va con la nostra scommessa? » Keaton mi si avvicinò silenzioso, tenendo una birra in mano. Lo squadrai da capo a piedi, mentre mi apprestavo ad aprire il frigorifero. Quella sera indossava una canottiera larga con sopra scritto  “F**K LOVE”, un paio di jeans larghi cachi  e delle Jordan nere. I capelli castani li aveva tagliati quel pomeriggio, dopo che Wes l’aveva aiutato a curare le ferite che quel bulletto gli aveva procurato a scuola. Ora, sulla sua mascella risaltava un vistoso livido viola che prendeva anche una piccola parte del collo, e sotto un occhio c’era un livido nero. Le aveva prese proprio bene, il ragazzino.
Alzai le spalle, infilando una mano nel ripiano del frigo dove sapevo esserci le birre e ne estrassi una. La poggiai al bancone, levai il tappo e la portai alle labbra. Il liquido amaro scese velocemente nella mia gola, raschiandola e inondandomi la birra di sapore amaro. Faceva schifo. Mi piaceva.
« Allora? » Le sopracciglia di Keapan ballarono, mentre lui si sporgeva sul bancone di casa di Tyler.
« Beh, è un osso duro. » Ammisi, grattandomi distrattamente una guancia. La barba mi stava crescendo, avrei dovuto farmela perché a lavoro non la volevano. Era incredibile come il padre di Wes e Kea prendesse sul serio queste cose. Lavoravo per lui da due anni, quasi tre, e ancora non si era deciso a dirmi: « Certo Drew, tieni pure la barba se ti va! » Ma sapevo non sarebbe mai accaduto. E più tentavo di convincerlo che la barba mi avrebbe reso più attraente, permettendomi di conquistare più ragazze, più lui mi rideva dietro e batteva la mano sulla spalla.
« Te l’avevo detto », rise Kea portandosi la birra alla bocca. Ne bevve un lungo, lungo sorso prima di allontanare la bottiglia dalle labbra e pulirsele con il dorso della mano.
« Ehi, vacci piano tu, hai solo sedici anni. » Lo ripresi. Perché, per quanto fosse una testa calda gli volevo bene come al fratello minore che non avevo mai avuto.
« Fra poco ne avrò diciassette! » Protestò, allontanando la bottiglia dalla mia presa.
« Siamo solo al ventiquattro maggio, genio. Prima di arrivare al diciotto luglio ce n’è di tempo, Kea. »
« Oh, ma sta’ zitto bello. Alla mia età bevevi come una spugna. »
« Si, e guarda come mi sono ridotto: a inseguire una donna che non mi vuole, ha sempre la risposta pronta ed è fidanzata! » Lui rise, tornando ad attaccarsi alla bottiglia. Sospirai sorridente, e mi aggregai a lui nel bere. Dopo tutto, chi non beve in compagnia o è un ladro o è una spia.
Mentre ci avviavamo a raggiungere gli altri, le cui urla si estendevano dal piano superiore a quello terra, il campanello della porta suonò. Alzai il volto verso il soffitto e mi morsi le guance per non gridare. CHI DIAMINE POTEVA DISTURBARCI DI LUNEDI’ SERA?! Mi avviai verso l’uscio, con la bottiglia ben stretta in mano.
 « Vado io gente, tranquilli non scomodatevi mica! » Strillai, nel mentre la mia mano si posava sul pomello della porta. Applicai una leggera pressione e l’uscio si spalancò, presentandomi davanti il ragazzo di Chloe con una bella, ma bella, tipa dietro. Cosa ci faceva lui qui? Con quella poi? Ma non si vergognava a tradire così la sua ragazza?... Io non avrei dovuto parlare, visto che volevo usare Chloe per vincere una scommessa. Ma, in ogni modo, che diamine ci faceva lui qui?!
« Drew! » Un sorriso si aprì sulle sue labbra rosee, mentre ci stringevamo una mano.
« Ehi Luke. » Ricambiai, sorridendogli ancora stupito dalla sua presenza. Luke era un bel ragazzo, colpiva a prima vista con quei suoi tatuaggi e percings, ma tutta via non potevo non pensare che avesse qualcosa di strano. Non avevo mai avuto nulla contro i tatoo, io stesso ne avevo molti, o i percings ma quegli occhi di ghiaccio che si ritrovava erano come quelli del serpente ne “Il libro della giungla”, freddi e ipnotici.
Dei passi mi arrivarono alle spalle, facendomi voltare. Wesley e Tyler, seguiti da Sebastian dagli occhi rossi di canne, sorrisero. « Ma guarda chi ha deciso di tornare alle origini! Lucas King, quanto tempo! » Ty aprì le braccia e vi avvolse il ragazzo dei tatuaggi.
King? L’aveva davvero chiamato così? Sorpreso lanciai un’occhiata a Keaton e, mordendomi il labbro, alzai uno dei pollici verso l’alto con aria vincente. King era il cognome di Chloe, quindi significava che quei due erano fratelli e non fidanzati. Dio grazie! La scommessa l’avrei vinta, ne ero sicuro.
 
 
N.d.a
 
Ehy girls,
ciao! Allora come va? Vi sono piaciute queste 12 pagine di capitolo? Sinceramente spero proprio di si, visto che ci ho messo del tempo a scriverlo. Chiedo venia per gli errori gente, ma ho poco tempo e passo solo per pubblicare; domani ho un casino di cose da fare (poor me).
Vabbè, ora vi metto i presta volto e poi me ne vado a nanna :3
 
Demi Lovato is Chloe Valerie King (perchè la trovo proprio perfetta per questo personaggio, e ho sempre visto Demi come un modello da seguire per tutte. Una donna che nonostante tutto quello che ha dovuto passare non si è mai arresa)
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Emily Rudd is Leigh Elisabeth King.
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Kristina Pimenova is Jade Hope King.
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Cameron "ehitifaccioscoppiareleovaie" Dallas is Trevor Alexander "Alex" King. (Comparirà presto)
Image and video hosting by TinyPic Andy "sonofigoetulosai" Biersack is Lucas "Luke" King,
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Wesley and Keaton Stromberg, Drew Chadiwick.
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Presto cercherò dei presta volto anche per Marcus, Stefania e Katy –magari anche Luise che sarà importante per la FanFic.-
Now, i give you a kiss.
Love you all,
 
Isil.

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Capitolo 5
*** Lentiggini & Arance. ***


Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=1VyXZiAEvd4
 

Girl next door.
 


"Mostriamo sempre la parte peggiore di noi, tenendo dentro i nostri veri caratteri per paura di essere deriso.”
 
— vento-gelido

 
 



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Martedì mattina la giornata iniziò malissimo.  Mi svegliai sudata, con il fiato corto e il battito cardiaco accelerato. Passandomi più volte le mani fra i capelli, avevo tentato di dimenticare i brutti sogni che, come non accadeva da qualche mese, mi avevano tormentata. Ma era inutile. Continuavo a vedere quell’ombra di un fantasma passato allungarsi verso di me, tentare di afferrarmi, far passare la mano nel mio busto ed estrarmi il cuore dal petto. Mi vedevo cadere a terra, gridare aiuto e poi morire sola, con gli occhi vitrei di quell’essere senza volto puntati nei miei. Dannati brutti sogni. Dannato passato senza risposte. Avevo sempre associato quell’unica ombra a mio padre, quell’uomo che aveva lasciato la mamma e non aveva voluto saperne nulla di me. Avevo associato la perdita del mio cuore a una mancanza che non ero mai riuscita a colmare, e così aveva fatto lo psicologo da cui ero andata per svariati anni. Ma la mamma non aveva voluto sentire ragioni: di quell’uomo che sarebbe dovuto essere mio padre non voleva parlare. Per lei era ancora come una ferita aperta, una cicatrice che guarisce piano piano senza essere disinfettata. E per me, anche se la curiosità mi uccideva, l’unico padre che restava tale era Marcus.
 Quando spinsi via le coperte dal mio corpo, avevo i crampi allo stomaco e dei capelli disastrosi; e se si contava persino che c’era brutto tempo, la mia voglia di vivere andava a puttane. In lontananza potevo udire il rombo del mare mosso, le onde si stavano schiantando contro gli scogli in un tripudio di schiume bianche e acque torbide. Mi alzai senza fare troppe storie, comunque, e la prima cosa che i miei piedi toccarono fu la coda di Ares. Dannato gattaccio! Come il dolore gli arrivò al cervello, l’animale si voltò adirato, soffiò e tentò di graffirmi con quei suoi artigli retrattili. Li odiavo, sia lui che quelle armi improprie.
« Mamma, tieni a bada quel tuo stramaledetto animale! » Strillai, trattenendomi dal tirare un calcio a quella palla senza pelo. Con gli occhi acquosi, Ares mi osservò per parecchi secondi prima di scomparire oltre la porta socchiusa. Sospirando, gettai la fronte contro la testiera del letto e chiusi gli occhi. Sarebbe stata una lunga giornata. Uff.
Era martedì e già sapevo che mi aspettava una lavata di capo da Marcus per via della spifferata da parte di Drew, due intense ore di educazione fisica e un compito di chimica –su cui di certo non morivo dalla voglia di mettere mano. Fantastico. Martedì da oggi sarebbe stato classificato come “secondo lunedì”. Perciò: maledetto secondo lunedì!
 Mettendo un piede avanti all’altro mi diressi in bagno, dove tentai di rendermi presentabile.
 
 
Entrai in cucina ancora mezza addormentata. Lo scricchiolio delle mie Vans sul pavimento veniva amplificato dal silenzio che regnava in quella stanza. Strano, di solito la cucina era il luogo preferito di famiglia, quello più vitale–se non contiamo il salotto con la nostra amata tv durante le partite di campionato.  Mi accarezzai i capelli a disagio e con passo lento mi afflosciai su uno degli sgabelli, accanto a Jade. La bambina aveva leggere occhiaie sotto i verdi occhi –quasi grigi quel giorno, a causa del tempo-, teneva i lunghi capelli biondi legati in una treccia e sembrava pronta a cadere con la faccia dentro la sua ciotola di cereali. Mamma e Marcus dovevano essere rimasti da Anne per molto tempo dopo la mia partenza e Jade, ancora troppo piccola per restare a casa da sola, non aveva potuto fare altro che rimanere a subirsi le loro chiacchiere.  Sinceramente mi dispiaceva per lei, ma avevo avuto altro a cui pensare. Come Leigh.
Quando eravamo rincasate, la sera prima, avevo aspettato che lei entrasse in casa e avevo ringraziato Drew del passaggio. « Nessun problema », mi aveva detto sorridente. Poi, passandosi una mano sul suo ciuffo ormai spettinato aveva aggiunto: « Magari una di queste sere potremmo uscire insieme. Insomma, io, te e gli altri. » Non avevo nemmeno ragionato sulla sua proposta che già avevo dichiarato con solennità uno splendido, acido e impassibile NO.
Iniziai a mangiare senza rivolgere un saluto a nessuno e, quando ebbi finito, mi alzai e tornai sui miei passi. « Aspetta Chloe. » La voce di Marcus mi richiamò, proprio mentre sorpassavo la volta che divideva la cucina dal grande corridoio. Alzando gli occhi al cielo mi voltai, stringendomi nelle mie stesse braccia. « Possiamo parlare? » Ora tutti, Luke appena apparso compreso, sembravano essere interessati a quel “possiamo parlare?”
Annuii e seguii Marcus nel suo studio. Sorpassammo la grande scalinata alla “Bella & la Bestia” del corridoio, svoltammo prima di raggiungere l’uscita per la piscina e giungemmo in prossimità della porta a vetri scorrevole che introduceva al suo paradiso privato. Mi  ero sempre detta che Marcus aveva una definizione tutta sua per la parola paradiso. Insomma, la mia (di definizione) si accendeva quando qualcuno nominava dei libri, una bella spiaggia e tavole da surf; la sua era più una cosa composta da documenti, scartoffie e roba del genere. Essendo un avvocato di rinomato successo non riuscivo a immaginarmi altro che quello. Il suo luogo di privacy, il luogo in cui poteva essere se stesso – quel luogo tuo che tutti dovrebbero avere- era quello: una grande stanza dal pavimento di legno lucido, le pareti bianche tappezzate di quadri e diplomi, e una grande scrivania di mogano scuro ricca di fogli. Un libreria piena di blocchi rossi, blu e grigi con dentro casi risolti e un’altra con blocchi verdi, gialli e neri con i casi in corso. Mi accomodai su una delle sobrie sedie di pelle marrone, mentre lui fece il giro e si sedette sulla sua grande sedia di pelle nera. I suoi occhi verdi caddero, come abitudine, sulle scartoffie che aveva davanti ma poi tornarono su di me. Nel grigio che li sfumava potevo vedere curiosità, rabbia e un pizzico di tristezza. Tutti sentimenti molto contrastanti, difficili da gestire in una volta sola. Fui tentata di dirgli: « Puoi fare in fretta? Sai, ho la scuola e non vorrei arrivare tardi. » ma mi trattenni. Alla fine, non avevo tutta questa voglia sfrenata di solcare i pavimenti piastrellati della Huntington Beach High School, o di sentire l’odore penetrante di detersivo al limone per pavimenti o, ancora meglio, vedere la faccia di certe persone. Quel giorno avrei voluto solo andarmene al mare.
« Se vuoi parlare di quello che ha detto ieri sera Drew, papà giuro che non era mia intenzione saltare le lezioni. Ho solo accompagnato un ragazzo a casa, dopo che l’avevano pestato. » Odiavo fare quella con la scusa sempre pronta, ma odiavo ancora di più rimanere chiusa in casa per tutto maggio e giugno –quando le spiagge ancora non brulicavano di turisti accaldati e si poteva fare surf tranquillamente.
Marcus, inaspettatamente, scosse la testa e intrecciò le mani sulla scrivania. Arricciai leggermente le labbra e accavallai le gambe, rizzando la schiena per spormi in avanti incuriosita.
« Poco fa ha chiamato il tuo datore di lavoro », disse, senza mai distogliere lo sguardo chiaro dai miei occhi scuri. « Ha detto che sei licenziata perché non può più permettersi tanto personale. Ha anche aggiunto che puoi andare a ritirare il tuo ultimo stipendio questo pomeriggio. » Dopo di che, serrò le labbra e poggiò la schiena contro lo schienale imbottito della sua sedia, accarezzandosi una tempia.
Sbattei più volte le palpebre, sorpresa e delusa da quella notizia. Perché proprio io? Perché licenziare me? Ero sempre stata brava con i clienti al negozio, nessuno si era mai lamentato di me e tutte le donne che avevano usufruito dei miei consigli erano sempre tornate a ringraziarmi. A lavoro ero sempre stata la migliore e ora mi cacciavano così, come se fossi spazzatura. Con un sospiro carico d’angoscia, mi alzai silenziosa e uscii dallo studio dirigendomi in camera, dove recuperai la roba prima di lanciarmi in una corsa sfrenata verso scuola.
 
 
Luise quel giorno faticava a restarmi dietro. Io e il mio malcontento andavamo talmente veloce che, lo ammetto, temetti di lasciarmi una scia di fuoco alle spalle. Il grigiore del cielo entrava dal lucernario posto sopra il mosaico dello squalo. Mi fermai a fissarlo. Non c’era niente di diverso in quel dannato dipinto su mattonella: aveva la stessa posa, gli stessi denti bianchi e aguzzi, gli stessi occhi neri rabbiosi.
Mi passai una mano fra i capelli e digrignai i denti. « E’ proprio vero che porti sfiga, è? » Sussurrai silenziosa, mentre tentavo di calmare il respiro. Finalmente Luise mi raggiunse. Aveva il fiatone. La guardai per bene, osservai il suo vestito bianco a fiori rossi, e le ballerine pallide che indossava. Scossi il capo.  « Sei lenta, Luise. » Affermai, con più acidità di quando volessi realmente far uscire dalle mie labbra.
« Lo so, mi dispiace, ma le ballerine… » Balbettò un poco, prima di tacere definitivamente. Si sistemò gli occhiali rotondi sul naso piccolo e si portò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. Era così innocente, mi ritrovai a pensare, e l’innocenza è una bella cosa. Non capivo perché volesse diventare come me. Lei era così spontanea, solare e dolce, e riusciva a farsi amare da tutti; io ero solo acida e stronza, e stavo bene per conto mio. Cosa c’era di tanto bello in questo? Perché voleva diventare questo?
« Si si, come ti pare. » Declassai i suoi tentativi di scusarsi con un gesto della mano. « E’ tardi, dobbiamo andare a ginnastica. Su, muovi le chiappe. » E  riprendemmo a camminare.
La palestra era una gande costruzione dalle pareti pallide, su cui correvano i tubi verdi dell’aria condizionata e l’acqua, il pavimento di legno pallido e le gradinate pericolanti. Inoltre, la puzza di piedi che c’era li non si poteva trovare da nessun’altra parte. Era impossibile ricrearla… Grazie a Dio. Non so cosa avrei fatto nel caso l’avessi trovata altrove, probabilmente mi sarei chiusa in casa a vita per paura di risentirla ancora. Gli spogliatoi, almeno quelli femminili, al contrario erano profumati grazie agli sforzi delle ragazze che portavano quantità industriali di profumo. Camminando sicura di me, passai accanto a delle ragazze di quinta, che non avevo mai visto, e raggiunsi il mio armadietto. Inserii la combinazione e l’aprii, gettandoci all’interno il borsone con la roba.
Oggi nulla sembrava potesse prendere una piega positiva. Nemmeno la ginnastica, che di solito utilizzavo come mezzo di sfogo, mi arrecava un po’ di gioia.
« Oggi ci hanno cambiato la classe di compresenza », mi informò Luise, mentre si infilava un paio di pantaloncini azzurri. « Ma dai, non l’avevo notato! »  Sarebbe stata la mia risposta, ma non gliela dissi. Per quanto mi volessi sfogare, volessi disperdere la mia rabbia, non era con lei che dovevo farlo. Luise non c’entrava nulla, era solo una ragazza che voleva stare al mio fianco al momento sbagliato, nelle condizione sbagliate.
« Capito. La cosa non mi cambia la giornata. » Ammisi, infilandomi una canottiera bianca per poi richiudere con forza l’armadietto. Luise chiuse gli occhi al momento dell’impatto, e quando li riaprì io ero già lontana.
Poverina, tanto buona ed era amica di una come me.
« Ok. Ti… ti dispiacerebbe colpire meno forte il sacco da box? Sai, io non ho tutta la tua forza. » Lanciai un’occhiata a Lydia, i cui capelli castani erano ormai incollati alle tempie dal sudore causato dalla sforzo di reggere il sacco.
« Scusami. Scusa. » Mi allontanai dal sacco e mi passai un braccio sulla fronte. Dovevo darmi una calmata e, se proprio volevo sfogarmi, dovevo rompere qualcosa. « Vado a bere. » Annunciai a Lydia, togliendomi i guantoni da box e gettandoli sul materassino. Lei sorrise e si fiondò lontano da me, mentre io mi dirigevo verso le macchinette. L’acqua mi scese giù per la gola, fresca e dissetante mentre tornavo in palestra. Una goccia di sudore mi colò giù dalla tempia, mi affrettai ad asciugarla prima do poggiare la bottiglietta a terra e rinfilarmi i guantoni. Quando alzai lo sguardo, due occhi chiari mi sorrisero divertiti.
Dio no, pensai.
« Stromberg », sibilai sorpresa, « e tu cosa ci fai qui? » Gli occhi di Wesley mi osservarono, avevano questa certa luce divertita che vi brillava dentro e sembrava risplendere che pensai avrebbero preso vita. Così, dal nulla. 
« Guarda che sei tu che sei venuta qui, al sacco da box. Io c’ero già. » Si appoggiò al sacco con un sorrisetto strafottente sulle labbra piene… poi cadde. Il sacco si era spostato sotto il suo peso e lui, con la sua corporatura ben allenata, era crollato a terra velocemente e con un tonfo non indifferente.
Risi. Il suono uscì dalla mia gola divertito mentre mi infilavo i guantoni e fermavo il sacco, sempre tenendo gli occhi puntati contro di lui, che ricambiava lo sguardo. Mi aspettavo dicesse qualunque cosa di ironico, sul fatto che l’avesse fatta a posta e blablabla, e invece ne uscì fuori con una risata cristallina che gli rimbombò nel petto ampio.
« Presumo che la maledizione che mi hai gettato contro si sia appena avverata. » Si issò in piedi, accarezzandosi la schiena e successivamente si posizionò di fianco al sacco.  Le sue mani si poggiarono sull’oggetto davanti a me e vi si ancorarono in una stretta d’acciaio.
« Avevi qualche dubbio? » Un ghigno divertito si disegnò sulle mie labbra, mentre colpivo con forza il bersaglio. L’urto si riversò sulle mie braccia, facendomi fremere leggermente. Gli occhi di Wes si spostarono per qualche minuto su di esse, prima di tornare al mio viso.
« Nessun dubbio, Sunshine. A proposito, volevo ringraziarti ancora per aver tolto Kea dai guai e… »
« Sunshine? » Domandai colta alla sprovvista, senza fermare i colpi. Sunshine. Mi domandai da dove l’avesse tirato fuori, quel soprannome che sapeva di qualcosa di dolce.
Nei suoi occhi colsi un guizzo d’imbarazzo, ma le sue labbra si limitarono ad alzarsi verso l’alto in un sorriso simpatico. Le sue guance si alzarono verso l’alto, dandogli un’aria da bambino. « Non ti piace? »
« E’… strano. » Mi bloccai quando mi accorsi che le sue labbra erano troppo rivolte verso l’altro. « Smettila. »
« Smettila, cosa? » Rise, attirando alcuni sguardi su di noi. Mi passai una mano sulla fronte, per asciugare il sudore che minacciava di colarmi sul volto,  e intanto lanciai occhiatacce a tutti quelli che non intendevano distogliere il loro sguardo da noi.
Poco lontano notai Luise intenta a saltare la corda, più che altro a inciamparci, che mi sorrideva e cadeva; e Lydia alle prese con la pallavolo subito dopo. Lei se la cavava meglio. Luise cadde nuovamente, attirando la mia attenzione. Poverina, la ginnastica non faceva per lei. Scossi il capo tornando a Wes.
« Di starmi intorno. Sgambetta dal tuo amico rovina vite e andatevi a bere qualcosa. Su, pussa via. » Mi voltai dandogli le spalle. Tra pochi minuti mi sarei rintanata nelle docce e avrei iniziato a pensare a tutti i modi possibili per uscire di casa venerdì sera. Dovevo assolutamente andare a quella festa in spiaggia, non perché ne andasse della mia vita ma perché non mi andava di restare a casa.
Sarei sembrata una sfigata, e io non lo ero. Non più.
Senza accorgermene mi ero avviata in corridoio, dove le luci al neon soffuse davano un senso di quiete. Dalla porta alle mie spalle si sentivano le chiacchiere della gente, i colpi sui materassini e le risate. Sospirai senza accorgermene e mi infilai negli spogliatoi per prendere il cambio. Mi diressi verso la doccia.
Il getto tiepido d’acqua mi accarezzava la pelle accaldata, mentre mi insaponavo a dovere i capelli. C’era profumo di arancia nell’aria, che mi saliva al cervello ogni volta che inspiravo. Mi piaceva l’odore degli agrumi, mi rilassava. Chiusi gli occhi mentre mi gettavo del tutto sotto l’acqua e mi appoggiavo alla parete fredda alle mie spalle. Ero rientrata dalla lezione molto prima di quello che pensavo, poco male. Tanto ginnastica era la materia in cui andavo meglio. Sotto le palpebre mi passò davanti l’immagine di Marcus, quella stessa mattina mentre mi diceva che ero licenziata.  Nel mio petto si aprì come una voragine d’odio: ora non sarei stata più autonoma! Non avrei potuto spendere i miei soldi come volevo e avrei dovuto chiederli a mamma e papà – non che ci mancassero- e la cosa m’infastidiva. Avevo sempre preso molto in considerazione il fatto di essere indipendente, come se ne andasse della mia vita. Perché quando sei indipendente puoi spendere i tuoi soldi senza dover dar conto a nessuno, mentre se non lo sei i conti li devi fare.
Spensi il getto d’acqua quando sentii le voci di alcune ragazze che si avvicinavano, strizzai i capelli e mi avvolsi in un accappatoio caldo e soffice di spugna. Incrociai le ragazze mentre uscivo dalle docce; entrambe non erano molto alte, una aveva lunghi capelli neri mentre l’altra rossi ma entrambe possedevano due occhi azzurri come l’oceano e una spruzzata di lentiggini sul naso. Era belle. Ne carine, ne perfette. Belle. Ecco che una strana presa tornava ad aprirmi lo stomaco, con forza e cattiveria. Le sorpassai veloce e mi andai a cambiare mentre ancora pensavo alle due ragazze. Basse, con un bel corpo e un bel viso, e due splendidi occhi.
Oh, smettila! Tu sei bellissima. Intervenne la mia voce interiore. Bella, simpatica, spiritosa e semplice.
Già, semplicemente ferita dentro. Scossi il capo con forza, usando come scusa i capelli bagnati. No. Niente autocommiserazione. Smettila. Hai finito di autocommiserarti quando sei diventata Chloe e hai smesso di essere Valerie.
 
Drew.
 


« Esiste una parola per descrivere quelli come te: coglioni. » Mi gridò dietro Sebastian, mentre con una mano si reggeva il ciuffo di capelli neri che gli era ricaduto sulla fronte e con l’altra mi puntava contro la canna dell’acqua.
Risi, facendo un balzo indietro quando venni colpito in pieno da un getto freddo, che mi fece correre brividi sulla pancia e le gambe. Sebastian continuò a gettarmi occhiate di fuoco, mentre lasciava andare la canna e si toglieva la maglia zuppa gettandola sul portico di casa di mia madre. Feci lo stesso e mi ritrovai a torso nudo, con l’aria calda della costa che mi si abbatteva contro asciugando l’acqua che mi era finita contro. Mi passai una mano fra i capelli, sbadigliando.
Era tutta la mattina che lavoravamo nel giardino di mamma per farlo risplendere di una luce nuova. Ieri mi aveva detto per telefono che le sue siepi non le piacevano e, dopo svariati minuti di chiacchiere e dopo un accurato raggiro mi aveva convinto a sistemargliele. Non che la odiassi, era mia madre, ma ogni tanto mi capitava di domandarmi dove diavolo se la tirasse fuori tutta quella cattiveria. Raggirare il proprio figlio, che nella vita fa il giardiniere, per farlo lavorare gratis nel proprio giardino era malefico.
« Ne esiste una anche per quelli come te, di parola: pignoli. » Commentai, mentre raccoglievo da terra un paio di cesoie e mi dirigevo verso le siepi che confinavano con la casa di Luke.
Era stata una bella sorpresa ritrovarselo a casa di Ty per scoprire che era il fratello maggiore di Chloe. Non sapevo nemmeno io se quello era un colpo di fortuna o meno. Ci speravo. Iniziai a tagliare via i rami di troppo, proprio quando una grossa Renger Rover si intrufolò nel vialetto d’entrata dei King.
Chloe parcheggiò con disinvoltura e scese dall’auto con altrettanta tranquillità. La prima cosa che notai fu che quel giorno portava delle semplici Vans, che la rendevano più bassa di quindici centimetri buoni rispetto a ieri. La seconda, di cosa, fu che si stava legando i capelli in uno chignon poco curato e che la cosa la rendeva, in un certo senso, più carina del solito. Sembrava a proprio agio, quando non aveva nessuno intorno.
« Ehi, perché ti sei fermato? » Sebastian comparve al mio fianco, con quel suo passo da felino mancato non l’avevo neppure sentito arrivare.
Sobbalzai colto alla sprovvista e mi girai a guardarlo. La prima cosa che vidi fu il suo tatuaggio maori, che copriva tutto il bicipite destro e buona parte della spalla adiacente. Dannazione, dovevo averne uno anche io!
« Mi sono un attimo confuso. » Borbottai, mentre mi tradivo da solo e gettavo un’occhiata nel vialetto accanto sperando che Chloe fosse ancora li. E c’era, intenta a scaricare delle cose simili a buste della spesa.
Seguì il mio sguardo e sorrise. « Si, certo, confuso con la bionda della casa accanto. » Mi spinse di lato e si fece un piccolo spioncino allontanandosi le foglie dal viso con le mani. La luce lo colpì in piena faccia, facendo brillare il pircing che portava al naso. Sobbalzammo, e prima di pensare ad altro ci buttammo a terra.
Se Chloe avesse visto il luccichio, avrebbe capito che qualcuno la stava guardando e saremmo finiti in una situazione di merda. Letteralmente.
Sebastian si sporse verso la siepe, allargandola un pochino le fronde per vedere meglio il vialetto accanto. Il septum gli pendeva dal naso, ancora illuminato da qualche raggio di sole traditore.
« Maledetto il tuo pircing! Allora, ci ha visti? » Il ragazzo scosse la testa, e qualche goccia d’acqua si staccò dai suoi capelli per cadermi in faccia. Sbuffai, asciugandomi velocemente il viso. Sebstian scosse il capo e si alzò, seguito da me.
Quando ci voltammo, il sole ci abbagliò per qualche istante rivelando subito dopo la figura snella di una ragazza che se ne stava davanti a noi, con le braccia incrociate al petto e un piede che batteva sulle mattonelle del vialetto. Merda.
« Beccati. » Chloe sorrise, e pur facendolo mi sembrò restare seria. Il sangue si gelò nelle mie vene, mi girò la testa. « Che stavate facendo? »
« Ti abbiamo sentita arrivare e poi vista con le buste della spesa. Stavamo pensando di aiutarti. » Rispose velocemente Sebastian, senza darmi il tempo di ragionare una scusa migliore. Mi morsi l’interno della guancia per non urlargli contro.
« Volevate aiutarmi nascondendovi dietro una siepe? » Ecco un altro sorriso micidiale. Mi piaceva l’aria che quella ragazza si portava dietro, così dura ma al tempo stesso quasi infantile. Ma allora, se aveva quest’aria infantile come pensavo, perché non riuscivo a conquistarla?
« Beh… diciamo che. » La lingua di Sebastian stava per combinare un disastro, perciò intervenni con disinvoltura, facendo qualche passo in avanti per raggiungerla.
Lei mi osservò stranita e, sebbene i suoi occhi erano freddi, riuscii a notare che lo sguardo le era caduto sul mio fisico. « Pensavamo che ti saresti spaventata vedendo i nostri fisici, così abbiamo pensato di rimetterci le maglie prima di venire da te. » Non ne ero sicuro, ma mi sembrò di sentire Seb alle mie spalle sospirare.
Di sicuro Chloe lo fece e alzò persino gli occhi al cielo. « Dio, come sei stupido. » Mi posò una mano sul petto per spostarmi e rabbrividii: era fredda e mi sembrò che centinaia di aghi sottili mi trapassassero la pelle.  « Comunque grazie per il pensiero… come ti chiami? » La bionda mi ignorò completamente, rivolgendosi al mio amico che si era tenuto in disparte dai nostri punzecchiamenti.
« Sebastian. Ci siamo visti al bar di Wes, se non sbaglio. » Le sorrise, prima che lei si congedasse dicendoci che la spesa non si scaricava da sola.
Questa volta fui io ad alzare gli occhi al cielo, quando Sebastian si propose realmente di aiutarla. Non potevo lasciare che ci provasse con lei, la scommessa con Keaton dovevo vincerla io.  Sebastian nemmeno l’aveva fatta quella scommessa! Perciò, corsi dietro di loro e mi fiondai accanto a Chloe che stava per passare al ragazzo una busta. Gliela rubai di mano come un bambino viziato e mi diressi verso casa sua.
Quando entrai l’aria fresca che si aggirava fra le mura mi colpì, abbassò la mia temperatura corporea e mi sentii sollevato. Avanzai incerto in quell’ingresso ampio e marmoreo, mentre mi osservavo attorno. Inquietante, questa è la parola che avrei potuto usare per descriverlo.
« Oddio, ma sei reale? » Una ragazzina dai capelli castani stava scendendo l’ampia scalinata che avevo davanti. Probabilmente non si era accorta di averlo chiesto ad alta voce, così decisi di sorriderle e basta. Aveva due profondi occhi azzurri e la pelle abbronzata che risaltava contro il bianco della stoffa del suo vestito. La riconobbi poco dopo, quando ormai mi era davanti con un sorriso stampato in viso. Era la sorella di Chloe, quella che ieri sera eravamo andati a recuperare in spiaggia. Di giorno sembrava più carina di quanto fosse ieri sera, senza tutto il trucco colato per il pianto, il viso rosso e il buio.
« Si, è reale e non fa per te. » Intervenne Chloe, comparsa dal nulla. « Evapora, Leigh. »
 
Il profumo d’arance che aleggiava attorno a Chloe era una cosa incredibile. Ti ipnotizzava e costringeva a volerne di più, sempre di più. Avrei persino potuto divorare quella ragazza perla curiosità di sapere se aveva lo stesso sapore, ma era troppo carina. Adesso, si aggirava per la cucina con tranquillità mentre io mi rigiravo fra le dita il telefono. Sebastian se n’era dovuto andare prima, problemi famigliari, e così ero rimasto solo ad aiutarla con la spesa. Poco male, per me. Per lei non credo, sembrava gradire poco la mia presenza. Come se fossi una specie di zecca attaccata al suo gatto senza pelo. Tzé.
« Grazie per l’aiuto. » La voce le uscì flebile dalla gola, evidentemente non era abituata a scusarsi.
« Cosa? » Le sorrisi strafottente, ricevendo in cambio un’occhiataccia feroce.
« Grazie per l’aiuto. » Ripeté per la seconda volta, con la voce un po’ più alta. Fece per andare dietro al bancone ma le bloccai la strada. Senza tacchi mi arrivava alla spalla.
« E’? Non penso di aver capito bene… »
« Cavati dal cazzo Drew. Non lo ripeterò più. » Ok, me l’ero meritata quella risposta. A scherzare col fuoco ci si brucia e io mi ero ustionato. Risi leggermente per smascherare il mio imbarazzo momentaneo e mi diressi verso l’uscita della cucina.
Da li, quando mi voltai, riuscii a distinguere le varie tonalità chiare che assumevano i capelli di Chloe quando erano contro sole. Sembravano una cascata di onde bionde e lucenti perfetti.
« Beh, te ne vai già? » Una voce mi fece voltare, e i miei occhi si scontrarono contro due ghiacciai.  Fu come ricevere un secchio d’acqua ghiacciata dopo aver nuotato nel cioccolato tiepido e profumato.
Sbattei le palpebre e sorrisi alla ragazzina, che sembrava più interessata a me della sorella. « Si. » Mi limitai a rispondere. Con uno sguardo fuggente riuscii a scorgere Chloe che ci osservava alzando gli occhi al cielo. Mi ritrovai a sorridere. « Sai, tua sorella si rifiuta di dirmi “grazie, per l’aiuto” così levo le tende. »
« Oh, sta zitto Drew. » Risi divertito quando la bionda si avvicinò a me e cominciò a spingermi vero l’uscita di casa. Sua sorella che ancora ci osservava stranita.
 

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Capitolo 6
*** Cadute & Discussioni. ***


Girl next door.
 


Ma se lei sa farti ridere, farti pensare due volte, farti ammettere di essere umano e commettere errori, tienitela stretta e dalle tutto quello che puoi.
 
- Bob Marley

 
 


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« Sai, l’unica cosa che non capisco è il perché di questo compito. » Lydia aveva cominciato a parlare e nessuno era più riuscita a fermarla. La sua bocca continuava ad aprirsi e chiudersi alla velocità del suono, mentre con le dita si arricciava i capelli castani. Luise, dal canto suo, continuava ad annuire come se tutto quello che l’amica diceva fosse vero.
Alzai gli occhi al cielo dopo l’ennesima curva in corridoio e mi guardai attorno. Tutto sembrava tranquillo, nessuno pareva aver intenzione di iniziare una rissa o attaccare a litigare. Per cui, per quel giorno, potevo rilassarmi. A dire la verità, era da qualche giorno che tutto andava fin troppo bene. Christine Bill, la ragazza del rossetto rosso che pensavo avesse voglia di picchiare Keaton il primo giorno, se ne stava buona attaccata contro un armadietto a parlare con delle amiche; Terry Mason, quello che aveva realmente picchiato Keaton, era tutto intento a studiare le nuove forme di vita che popolavano il suo armadietto. Gli altri, gente sconosciuta ai miei occhi da predatore, parlavano o ridevano stando ben attenti a non sfiorarmi neppure.
« Secondo te ho ragione, Valer… »
« Mi chiamo Chloe » sibilai a Lydia, voltandomi veloce come una vipera verso di lei.
Odiavo il nome Valerie, tutti mi chiamavano così quando nessuno sapeva della mia esistenza e, in ogni caso, Luise era l’unica a poter usare quell’appellativo. Forse perché lei era l’unica di cui mi fidassi veramente.
« S-scusa. » Lydia strinse la cartella al petto e abbassò lo sguardo, mentre ci fermavamo davanti a una delle tante classi della scuola.
Quel giorno avrei dovuto fare da Tutor, cosa che mi avrebbe fatto guadagnare punti durante l’anno e alzare la media. Quindi, anche se mi portava via un’ora preziosa durante la quale sarei potuta andarmene a casa lo facevo volentieri.
Poggiai la mano sulla porta della classe e attesi un qualche commento da parte loro, ma nessuna delle due sembrava intenzionata a parlare. Scossi il capo e abbassai la maniglia, dandogli le spalle. Prima di entrare, persi un bel respiro e voltai la testa in modo che il mento toccasse la spalla destra. Gli occhi grigi di Luise asserirono un “si” silenzioso, mentre Lydia mi osservava con i suoi colmi di quella che sembrava… paura. O forse era delusione?
Abbassai le palpebre per un momento, conscia del fatto che mi ero comportata male e sospirai. « Non so se hai ragione, Lydia. Non stavo minimamente ascoltando il vostro discorso. » Gli occhi azzurri della ragazza mi osservarono stupiti. « Più tardi potremmo parlarne, se avrai ancor qualcosa da dire. Che ne dici? » A me non fregava nulla di quell’argomento, ma volevo comunque rimediare al mio errore.
« Si, certo. » Un sorriso si aprì nel suo viso leggermente rotondo, mentre la sua testa si piegava verso sinistra in un cenno d’assenso.
« Bene, a dopo ragazze » sussurrai, tornando alla classe.
 
« Tu saresti il mio Tutor? » Wesley sbatté le palpebre e gettò i libri sul banco che avevo di fianco, appoggiandocisi poi con un braccio per sorreggersi la testa.
Alzai gli occhi al cielo e sospirai, annuendo. Avevo preso atto di quella schiacciante verità quando entrata in classe la professoressa mi aveva affidato la sua scheda didattica. All’inizio mi ero sorpresa, insomma non che mi dispiacesse fare da tutor a Wesley Stromberg, ma come avrei fatto? Lui era un anno avanti a me. In  cosa avrei dovuto aiutarlo? Poi, però leggendo gli argomenti mi ero accorta che le cose non erano difficili e che le potevo imparare velocemente anche da sola. E, infine, ero arrivata alla conclusione che i professori mi stavano mettendo alla prova; di certo non mi sarei fatta fregare da loro.
« Mh. Almeno sei carina » se ne uscì fuori, sorridendomi con i suoi occhi chiari come il cielo quella mattina.
Lo ignorai volutamente, mentre con velocità recuperavo il libro che aveva letteralmente lanciato verso di me. Era un bel tomo, dalla copertina rigida color sabbia. Sopra di essa, a lettere cubitali, spiccava la scritta “STORIA ANTICA.”
Wesley Stromberg aveva bisogno di un Tutor per studiare… storia. Storia, sul serio? La materia più facile di questo universo. Mi chiesi che problemi avesse quel ragazzo, ma poi ci passai sopra.
« Sul serio Wesley, non sai storia? » La domanda uscì dalle mie labbra con una carica di acidità troppo elevata. Ma che ci potevo fare io? Storia era la mia materia preferita ed era inaccettabile che qualcuno non la sapesse.
« Sul serio Chloe, sei il mio Tutor? » Si sporse in avanti sorridendomi. Stava tentando davvero di cambiare argomento? Patetico.
Questa volta fui io a sbattere le palpebre sorpresa, imitandolo, continuando a rigirami il libro fra le mani . « Restando seri, Stromberg ti vogliono davvero bocciare di storia? » La domanda mi uscì spontanea, mentre spostavo lo sguardo verso di lui.
Alzò le spalle, poi si accarezzò i capelli a disagio. « A quanto pare » sussurrò imbarazzato.
Wesley Stromberg imbarazzato. Non avrei mai pensato di vederlo così. Insomma, avrebbero dovuto esserci più probabilità che io finissi per imbarazzarmi al suo posto, visto che avevo avuto una cotta per lui. In ogni modo, dovevo metterlo a suo agio in modo che le lezioni procedessero tranquillamente e non nell’imbarazzo più totale.
« Bene. Che ne dici se ti faccio qualche domanda per vedere quanto sai? » Chiesi, aprendo il libro a una pagina qualsiasi.
Lui sospirò asserendo con il capo, per poi puntare gli occhi su di me.
« Bene bene, vediamo… »
 
 
Qualche giorno dopo eravamo punto e a capo. Wesley Stromberg mi camminava accanto nel corridoio, mentre le mie vans nere scricchiolavano sul pavimento appena lucidato dai bidelli. C’era poca gente in giro quel giorno, forse perché la maggior parte aveva deciso di saltare i corsi per andare a prepararsi per la festa di quella sera in spiaggia. Oh, come ci sarei andata volentieri anche io, se un certo signor-ti-rovino-la-festa non mi avesse fatta mettere in punizione. Stupido Drew, prima o poi me l’avrebbe pagata.
« Esiste un nome per quelli come te, lo sai? » Aggiustai meglio la borsa sulla mia spalla e lanciai un’occhiata a Wesley, che se ne stava al mio fianco a fissarmi.
Un lampo attraversò i suoi occhi chiari. « Cause perse? » Domandò di rimando, gettandosi la cartella sulle spalle e, successivamente, aprendomi la porta per uscire all’esterno.
Il sole mi accecò per qualche istante, mentre cercavo con lo sguardo la mia auto. Quando la trovai, iniziai a frugare nella borsa alla ricerca delle chiavi.
« No, non “cause perse” » chiarii al ragazzo che avevo di fronte, « ma “svogliati”. »
« Se lo dici tu. » Wesley scosse il capo e si spettinò i capelli.
« Guarda che è vero » borbottai alzando gli occhi verso l’alto, verso i suoi che però trovai serrati dietro le palpebre. Vedendolo così, contro luce, le sue spalle sembravano più larghe e lui pareva più imponente di quanto non fosse. Mi sembrava di poter vedere i suoi occhi chiari nascosti sotto le palpebre luccicare.
Era davvero bello, Wesley Stromberg. Era proprio… Ehhh?! Ma cosa andavo a pensare? Scossi velocemente il capo, tornando in me e strinsi le mani attorno alle chiavi dell’auto. Era ora di andare a casa, lo dicevo io e lo reclamava il mio stomaco.
« Bene. Ci si vede lunedì Stromberg » lo salutai, iniziando a scendere i gradini verso il parcheggio.
Mi lasciai alle spalle il ragazzo e sorrisi al sole che mi accarezzava la pelle riscaldandola. Probabilmente oggi andrò a fare surf, mi dissi mentre una gioia infinita si faceva largo dentro di me. Mare, spiaggia e tavole da surf –e magari un buon libro- erano tutto quello che avevo bisogno in giorni come quelli. Anche se era solo Maggio le onde erano perfette, sebbene il tempo si divertisse a fare ancora i capricci.
Feci ancora un gradino, le chiavi che giravano attorno al mio dito guidate dalla forza del mio polso e…GAF! Una colossale, autentica e imbarazzante gaf. Scivolai all’indietro, andando praticamente a schiantarmi su uno dei gradini. Con l’intento di proteggermi il viso avevo portato in avanti il braccio destro che adesso pulsava di dolore. Strinsi i denti e mi misi a sedere, guardandomi attorno alla ricerca di qualche paia d’occhi. Ok, nessuno era nelle vicinanze perciò non avevano visto la mia gaf. Ero salva, per stavolta.
« Chloe, stai bene? Ti sei fatta male? » Stavo dicendo?
Un paio d’occhi che mi aveva vista cadere c’era stato. Non dovetti neppure alzare lo sguardo, perché Wesley mi si era inginocchiato davanti in modo da arrivare alla mia attuale altezza per soccorrermi. Se fossi stata la vecchia me, quella con gli occhiali e la personalità timida, quella ignorata da tutti a quest’ora sarei morta d’imbarazzo. Anche perché la vecchia me era innamorata del ragazzo che avevo difronte. Invece non sarei morta d’imbarazzo, questa volta. Magari arrivata a casa mi sarei sotterrata sotto le lenzuola a rimuginare della mia figuraccia ma nulla di più.
« Se tocco qui, ti fa male? » Le dita di Wesley si poggiarono con leggerezza sul mio avambraccio e premettero un poco.
Sbattei le palpebre sorpresa. Che stava facendo?
« No » sussurrai.
« Menomale » sospirò, abbandonando il peso del corpo non più sulle ginocchia ma sulla pianta del piede. Poi si alzò, ergendosi davanti a me con la sua statura che, adesso, mi sembrava troppo alta e mi porse una mano in segno d’aiuto.
Come odiavo sentirmi bisognosa d’aiuto! Tutta via, accettai e strinsi le mie dita attorno al palmo della mano di Stromberg, che mi tirò verso l’alto come se non pesassi nulla. Mi sembrò di spiccare il volo, prima che un intensa fitta di dolore non mi attanagliasse il sedere. Mi lamentai un poco, accarezzando l’aria dolorante poi aprii la mano con la quale avevo stretto le chiavi fino ad allora e feci la scoperta più traumatica. L’unica chiave che avrebbe potuto condurmi a casa si era rotta. Spaccata in due. Aveva finito di vivere la sua vita.
Socchiusi le labbra in preda a un urlo muto.
« Cazzo » sibilai, girandomi fra le dita il pezzetto di chiave che si era staccato.
« Che c’è? » Stromberg tornò ad abbassarsi, poggiando le dita sulle chiavi per esaminarle. « Mh, ecco che c’è. »
« Sei proprio un genio, è Stromberg? Sono spacciata, dannazione! » pigolai intenta a guardare il pezzo di chiave che si era staccato dall’alto.
Wesley rise e mi scompigliò i capelli. Aveva un bella risata, constatai. Era cristallina e guizzava divertimento da tutti i pori. Se non fossi stata io, la causa di quel divertimento, magari avrei potuto anche ammettere che non mi dispiaceva affatto. « Beh, non c’è problema ti riaccompagno a casa io; tanto abiti vicino alla madre di Drew, no? »
« Eh? » Prima mi aiutava a rialzarmi e adesso mi offriva un passaggio a casa: avrei dovuto ergere una statua in suo onore, un giorno di questi.« Dici sul serio? Mi salveresti la vita, Stromberg » ammisi, accarezzandomi le natiche doloranti.
« Figurati. Puoi anche chiamarmi: il tuo cavaliere dall’armatura splendente. »  Scherzò alzando le spalle.
« Col cavalo! Al massimo ti posso chiamare per nome. » Lo raggiunsi correndo e quando finalmente si decise a fermarsi per aspettarmi, rideva ancora.
« Ah, sei proprio una causa persa Chloe. »
« Disse quello. »
 
Il paesaggio correva indistinto da dietro il finestrino a cui ero pigramente appoggiata. Tutto passava veloce, come un pensiero passeggiero. Mi dimenticavo subito delle cose che avevo visto qualche secondo prima, quasi fossero inesistenti.
Alzando il viso dal pugno a cui era appoggiato, lanciai uno sguardo a Wesley. Guidava sicuro, con un sorriso sulle labbra mentre con le dita picchiettava il volante, tenendo il tempo della canzone che stava passando alla radio.  Probabilmente una volta, mi ritrovai a pensare, se mai il “famoso” Wesley Stromberg mi avesse notato e si fosse offerto di aiutarmi sarei morta sul posto. La vecchia Chloe sarebbe morta dall’imbarazzo. Ma adesso, in questo momento, la Chloe attuale non provava nulla di ciò. Mi sentivo solo stanca e annoiata.
Tornai a guardare furi dal finestrino.
« Mh? Qualcosa non va? » La voce del ragazzo mi fece voltare velocemente.
I suoi occhi si scontrarono con i miei, così azzurri da farmi quasi gelare il sangue nelle vene. Sbattei le palpebre, come se mi fossi appena svegliata da una specie di trans, e scossi il capo per poi tornare a osservare il paesaggio fuori dal finestrino. Mi domandai quanto ancora mancasse a casa mia, ma a giudicare dalla zona in cui ci trovavamo dovevano essere parecchi chilometri. In più, quel giorno c’era parecchio traffico.
Wesley non mi chiese più nulla, limitandosi ad alzare il volume della musica. Poggiai la fronte al finestrino e chiusi gli occhi, beandomi del fresco che avvolgeva quella superfice. Intanto, il ragazzo aveva iniziato a canticchiare le parole di una canzone che non conoscevo. Non era male, la sua voce.
 « Neh, King, perché non canti con me? »
Mi stupii così tanto di quella domanda che, nell’intento di alzarmi e gridargli contro, presi una testata contro il finestrino. Il ragazzo proruppe in una grossa risata, mentre il mio sguardo tentava di tagliarlo velocemente e con cattiveria in due.
« Perché dovrei? » Sibilai in risposta, continuando ad accarezzarmi la testa dolorante. Che gli Stromberg mi portassero sfortuna? Insomma, avevo salvato Keaton e mi ero ritrovata a conoscere Drew; ora aiutavo Wesley con i corsi di recupero e mi ritrovavo con testa e sedere doloranti.
« Perché hai una bella voce » constatò lui, staccando per qualche secondo gli occhi dalla strada per rivolgermi a me, con tanto di un sorriso incorporato.
« E quando mai mi avresti sentito cantare? Io non canto. Non l’ho mai fatto » borbottai scettica incrociando le braccia al petto. Negli occhi di Wesley, illuminati dai raggi del sole ormai pomeridiano, mi sembrò calare un certo velo nostalgico. 
« Una volta lo facevi. » Mi accigliai confusa. « Quando avevi appena iniziato la scuola e aiutavi il professore di musica a rimettere a posto la classe ogni tanto cantavi. Non so se ti ricordi. Una volta mi mettevano spesso in punizione, ed ero sempre costretto a pulire la classe con te », ridacchiò leggermente, mentre svoltava a un incrocio. « Ti sentivo cantare, sebbene lo facessi sotto voce. Forse ti sei dimenticata, dopotutto passato così tanto tempo. »
“Non so se ti ricordi ” “ Forse ti sei dimenticata”, e come potrei dimenticare?
D’istinto, le mie mani strinsero un po’ di più le mie braccia, tirando il tessuto della t-shirt che avevo indosso. E come potevo dimenticarli, quei giorni? Li ricordavo ancora perfettamente; ricordavo ogni cosa. Tutto quello che era successo in quegli anni era come impresso nella mia mente a fuoco. Non li avrei mai dimenticati. Purtroppo, quei giorni erano rimasti immutati nella mia memoria; così come tutte le cose che la gente diceva di me.
« Lo ricordo bene » mi limitai a rispondere, poi tornai a guardare fuori dal finestrino.
« Allora perché non canti con me? » Propose nuovamente lui, alzando il volume della musica.
Lo ignorai completamente e mi concentrai sul paesaggio. Wesley non parlò per il resto del viaggio, limitandosi a cantare di tanto in tanto qualche canzone che gli piaceva. Stupido Stromberg, perché aveva voluto farmi ricordare quei giorni?
« Eh dai King, canta un po’ con me » Con una gomitata Wesley mi distolse nuovamente dai miei pensieri.
« Ho detto di no. E ora lasciami stare. » Mi strinsi silenziosamente nelle braccia e non lo degnai di uno sguardo.
« Mi dispiace » mormorò a un tratto lui, accostando la macchina a lato della strada.
Staccai il viso dal finestrino per l’ennesima volta e sbattei le palpebre disorientata da quella mossa, da quella frase. Mi voltai a osservarlo e lo trovai intento a fare lo stesso. Era dispiaciuto per cosa, esattamente?
Lui staccò le mani dal volante e si lasciò andare contro il seggiolino della sua auto, battendo la testa con forza. « Sul serio, mi dispiace. »
« Mh? » Inarcai un sopracciglio e piegai leggermente il volto da una parte, lasciando che qualche ciocca bionda scivolasse oltre le spalle. Wesley Stromberg si stava scusando con me di una cosa che neppure io sapevo. Che cosa strana.
« Sul serio, mi dispiace » ripeté, osservandomi con gli occhi ora grigi come le nubi che si stavano addensando in cielo.
« Non capisco, Stromberg. Potresti spiegarti meglio? Mi stai spaventando » ammisi, staccandomi la cintura e allungandomi verso di lui. Il ragazzo scosse il capo e fece quello che mai mi sarei aspettata: strinse le braccia dietro la mia schiena e mi attirò a se stringendomi forte.
Mi paralizzai nella sua stretta mentre sentivo i suoi muscoli gonfiarsi e contrarsi,  e il suo profumo di mare penetrarmi nelle narici. Che diavolo stava facendo, quel ragazzo? Che avesse qualche problema con la sua ultima ragazza e stesse riversando le sue insicurezze con me? se così fosse stato non l’avrei accusato di nulla. Ma la cosa restava comunque imbarazzante.
« Mi dispiace che tu abbia passato tutti quei momenti in passato. » Mi immobilizzai più di quanto già non fossi e sentii il sangue gelarmisi nelle vene. « Avrei voluto aiutarti. Avrei voluto parlarti quando dovevo aiutarti a pulire quella classe, ma non ci riuscivo mai. E mi dispiace ma… ma avevo una reputazione e non potevo rovinarla. Non potevo, neppure se volevo aiutarti perché poi gli altri avrebbero preso di mira e… »
 « Lasciami andare » sussurrai. Quelle parole, perché le aveva dette? Perché voleva farmi stare male, ancora? « Lasciami andare Stromberg, ti prego. » Alzai le braccia e posai le mani sul suo petto, sentii il calore dei muscoli irradiarsi oltre la stoffa della t-shirt. Chiusi gli occhi e lo spinsi indietro, voltandomi alla ricerca del mio zaino.
« King » mormorò.
Gli rivolsi uno sguardo glaciale, poi aprii lo sportello della sua auto e feci per scendere.
Una delle sue mani strinse con delicatezza la mia spalla, fermandomi. « Chloe, mi dispi… »
« Sta zitto! Sta zitto! » mi ritrovai a intimargli, staccando con cattiveria la sua mano dal mio corpo. « Non… non avevi alcun diritto di dirmi quelle cose, Stromberg! Non ne avevi alcun diritto! Come ti sei solo permesso di pensarle? » Sentii la mia voce incrinarsi, fino a diventare come cartavetra. Gli occhi grigi del ragazzo mi osservavano stupiti, desolati. « E se ci tieni proprio a saperlo, anche a me dispiace aver dovuto vivere quei momenti; ma li ho superati e non certo grazie a gente come te! » aggiunsi  saltando giù dalla macchina e caricandomi lo zaino in spalla.
E così finiva un’amicizia appena nata con Stromberg. Poco male, meglio allontanarsi da chi ti può ferire. 

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