The Cornflower di _Blanca_ (/viewuser.php?uid=593279)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una piccola randagia ***
Capitolo 2: *** Visite inaspettate ***
Capitolo 3: *** Il ragazzo Mohawk ***
Capitolo 4: *** Confidenze tra la neve ***
Capitolo 5: *** Sulla strada per Boston ***
Capitolo 6: *** Attesa ***
Capitolo 7: *** Veglia notturna ***
Capitolo 8: *** L'Aquila e il lupo ***
Capitolo 9: *** Il primo passo ***
Capitolo 10: *** Chi lascia la via vecchia ***
Capitolo 11: *** Per la via nuova ─「fine prima parte」 ***
Capitolo 12: *** Dopo il ricevimento ***
Capitolo 13: *** Lettere, matrimoni ed eredità ***
Capitolo 14: *** La famiglia Waxen e il dottor Warren ***
Capitolo 15: *** Il cuore ha le sue ragioni ***
Capitolo 16: *** Guai a Wheeler's Inn ***
Capitolo 17: *** La legge del taglione ***
Capitolo 18: *** «The house is in good hands» ***
Capitolo 19: *** Fuochi nella baia ***
Capitolo 1 *** Una piccola randagia ***
THE CORNFLOWER CAP 1
Questa
storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro;
ad eccezione di Cecilia Carter e della sua storyline, tutti i
personaggi e gli intrecci presenti nella fan fiction sono
proprietà della Ubisoft, dei suoi autori e sviluppatori.
Note introduttive:
La mia familiarità con Assassin's Creed e
i suoi fascinosi e interessanti personaggi è recente, dei
romanzi ho letto Rinascimento e conosco le vicende di Assassin's Creed
III solo attraverso il videogioco. Rimpolpando la conoscenza con
letture sul web, ho scoperto che Connor è l'Assassino meno
amato in generale. Peccato, sarà anche una macchina omicida
di un metro e novanta, però a me ispira nomignoli che
offenderebbero pure l'orgoglio di un cucciolo di Beagle. Fatto sta che,
letteralmente da un giorno all'altro, vengo colta dall'ispirazione. Non
volevo cedere e invece l'ho fatto. Mi sono persino decisa a pubblicare,
perché ho pensato: male che vada riceverò un
caloroso invito a lasciar perdere ma almeno mi son fatta una cultura
sulla vita delle donne nell'America coloniale del Settecento e ho
ripassato gli eventi della Rivoluzione Americana. Perché,
sì, la Storia è un terreno che non mi ero mai
azzardata a toccare e ho piegato l'immaginazione alle ricerche,
tentando di costruire personaggio e situazioni che fossero realistiche
dal punto di vista storico e plausibili sul fronte dell'opera
originale. Magari ho toppato comunque, eh. Però posso dire
di averlo fatto in buona fede. Il progettino è strutturato
in una serie di 'episodi', quasi dei flash, narrati in terza persona e
dal punto di vista dell'OC. Non ho intenzione di cambiare
eccessivamente la trama, solo di mostrare quei momenti in cui la vita
di Cecila sfiora e/o si intreccia con quella di
Ratonhnhaké:ton e con gli eventi della Rivoluzione.
Naturalmente, eventuali commenti, consigli e critiche costruttive (lo
ripeto: Assassin's Creed per me è un campo minato .__.)
saranno gentilezze di cui vi sarò profondamente grata.
I
Una
piccola randagia
Colonia
di Massachussets Bay. 20 settembre
1769
Cecilia
alzò lo sguardo verso la grande casa di
mattoni scuri. Attorno alle finestre buie, gli infissi bianchi emanavano
una luce spettrale, riverberando il chiarore
della luna piena appesa nel terso cielo settembrino. La ragazza si
strinse
nella mantella. Ignorò il dolore ai piedi e riprese ad
arrancare per il viottolo, pur sapendo che gli abitanti della casa
avrebbero
potuto presentare ottime ragioni per scacciarla via. Una donna
sconosciuta bussava
alla loro porta a tarda notte e chiedeva ospitalità: nella
migliore delle ipotesi, potevano scambiarla per una mendicante; nella
peggiore, per una ladra, una fuggitiva, persino una strega.
Ma lei
doveva almeno tentare. Le salivano le lacrime agli occhi al solo pensiero
di
trascorrere un'altra notte abbarbicata ai rami di un albero, con il
terrore di scivolare giù durante il sonno, rompersi il collo
e finire in pasto ai lupi.
Cecilia affrontò quattro lisci gradoni di pietra e
bussò alla porta, mentre da qualche parte, tra gli alberi,
un gufo turbava il silenzio notturno con un lugubre bubolare.
Nessuno
venne ad aprire.
Cecilia bussò altre due volte. Ogni volta
con un po' di foga in più.
Lentamente, la porta venne socchiusa. Al morbido bagliore di una
candela comparve il viso, contratto in
un'espressione
accigliata e sospettosa, di un vecchio dalla pelle scura.
***
L'anziano, sorretto da un corto bastone, guidò Cecilia lungo
un androne immerso nell'oscurità. L'eco dei loro passi si
fondeva con i sinistri rumori della casa: sinfonie di scricchiolii
dolenti come i gemiti di un malato sul letto di morte. Entrati in una
spartana cucina, il vecchio sistemò la candela sulla mensola
del camino, si accomodò su di uno sgabello e disse a Cecila
di farsi più vicina. Aveva la voce arrochita
dall'età, ma il tono era fermo, autoritario, sottilmente
spazientito.
Cecilia obbedì, lieta di poter almeno godere
del tepore della brace, che brillava rossa tra la cenere.
In piedi, con
la mantella sulle spalle, la bisaccia a tracolla, le mani pallide e
infreddolite strette l'una nell'altra, la ragazza si lasciò
esaminare. Era trascorsa almeno una settimana da quando aveva avuto
occasione di guardarsi allo specchio, ma non le serviva consultare il
proprio riflesso. Si rendeva conto di essere in pessime condizioni.
Durante il viaggio, ogni mattina, si era lavata il viso e le braccia
nelle acque fredde dei ruscelli, ma non aveva potuto far nulla per i
capelli, che adesso le ricadevano sulle spalle, lisci, sporchi e
spettinati. E poi il freddo e la stanchezza, il poco sonno e il poco
cibo, gli abiti dal taglio modesto macchiati di terra: tutto
contribuiva a darle l'aspetto randagio di un gatto malato e
spelacchiato.
«E dunque, come ti chiami?»
domandò il vecchio.
«Cecilia. Cecilia
Carter.» La voce le uscì debole, quasi afona.
«E che stai facendo nella mia proprietà in piena
notte?»
Cecila capì: il vecchio non era un domestico, tanto-meno uno
schiavo. Era il padrone.
«Sono in viaggio,
signore.»
Dell'incredulità sostituì il
cruccio, sul volto del suo interlocutore: «Da
sola?»
Cecila annuì.
«In viaggio per dove?»
«Boston.»
«E da dove vieni?»
«Gloucester.»
«Chi ti ha mandato da sola ad
affrontare un viaggio simile? Non hai dei genitori?»
Cecilia si limitò a un fiacco cenno di diniego.
«Parenti? Un tutore?»
«No, signore.»
Il vecchio restò in pensoso silenzio per una lunga manciata
di secondi, senza distogliere gli occhi dal viso di Cecilia.
La stava
studiando attentamente. Lei lo capì ed evitò di
incrociarne lo sguardo. Mantenne il proprio all'altezza del monile al
collo dell'uomo: era adagiato sulle gonfie pieghe della cravatta
bianca, che spuntava da sotto il panciotto cremisi dell'uomo.
«Quanti anni hai?» riprese il vecchio.
«Quattordici.»
«Non starai mica scappando da un marito, vero? Non voglio
rogne per aver aperto la porta a una ladra». [1]
«Non ho nessun marito, signore. Non sto scappando. Nessuno mi
cerca.»
«Ma qualcuno ti attende, a Boston?»
«No.»
«E allora cosa diamine ci vai a fare
laggiù?»
Cecilia esitò, persa nella sconfortante vaghezza delle sue
stesse prospettive.
«Cerco... cerco un posto dove stare. So
che è una città grande. Piena di gente. Spero di
trovare una famiglia che abbia bisogno di una domestica.»
Il
vecchio la fissò con aria poco convinta.
Cecilia
inghiottì un grumo di saliva amara e tentò di
camuffare la supplica dietro un tono tranquillo: «Io non ho
soldi con me. Non posso pagarvi... ma... se mi lasciaste dormire al
chiuso, solo per questa notte... prometto di andarmene
all'alba.»
Ricevette in risposta un verso contrariato che
interpretò come un: Bah!
«I letti sono di sopra e la legna eccola
lì.» Il vecchio si
levò piedi, puntando il bastone
verso un basso mucchio di ciocchi accatastati a lato del grande camino.
«Non ci sono servitori in questa casa. Ci sono solo io. Se
vuoi un fuoco, dovrai accendertelo da sola».
Accennò a un tegame abbandonato su un angolo del lungo
tavolo, al centro della stanza: «C'è rimasto
qualche cucchiaio di stufato. Coniglio e fungh. Ma ormai
sarà freddo.»
***
Un'ora più tardi, Cecilia dormiva nel buio di una spoglia e
austera camera da letto. Il materasso era molle, le lenzuola ruvide, il
fuoco nel caminetto presto spento, ma per la ragazza fu come riposare
sotto il baldacchino di seta di re Giorgio in persona.
La notte scivolò via in un soffio e, al suo risveglio,
Cecilia venne sopraffatta dalla disperazione. Doveva lasciare la casa.
L'aveva promesso. L'aspettavano giorni di cammino, notti all'addiaccio,
pasti a base di pane raffermo consumato in fretta e furia. Boston era
lontana come un miraggio fumoso, perennemente oscurato dalle
più deprimenti congetture: e se una volta lì,
nessuno volesse prendermi a lavorare? Come farò quando
arriverà l'inverno? Finirò a vivere per strada e
morirò di freddo? No, morirò prima di fame...
Maledisse ancora una volta quelle persone avide e troppo potenti che
erano le dirette responsabili della sua situazione, che l'avevano
costretta a una vita da vagabonda, senza un tetto sulla testa, senza
una sola figura amica alla quale rivolgersi.
Oltre la finestra
piombata, il cielo era di un azzurro vivo e immacolato; a giudicare
dall'intensità della luce, l'alba doveva essere passata da
un pezzo. Cecilia represse la voglia di affondare il viso nel cuscino e
lasciarsi andare al pianto, gettò via le lenzuola e
sopportò i pizzichi dell'aria fredda, riparata solo dal
cotone della lunga camicia. Lavato il
viso nella catinella di ceramica, si vestì in fretta,
soffermandosi pochi istanti sul proprio rifelsso, davanti allo
specchio,
appoggiato sulla cassettiera impolverata. Ebbe la conferma dei propri
timori:
bella non lo era mai stata, ma adesso era in uno stato pietoso. La
stanchezza rovinava l'unico tratto del suo volto che reputava
degno di nota: larghe occhiaie violacee le segnavano gli occhi
–
ed erano occhi grandi, con ciglia lunghe e l'iride dipinta di verde
dalla fredda sfumatura grigia. Per il resto, non aveva molto da
vantarsi: il viso era squadrato, quasi mascolino, il naso corto e
schiacciato, le labbra grosse e screpolate, i capelli di una slavata
tonalità tra il biondo e il rosso.
Cecilia si stava stringendo il nodo della mantella sul petto quando il
padrone di casa – le aveva detto di chiamasi Davenport
– entrò in camera.
«Buongiorno!
» disse subito Cecilia. «Mi dispiace essermi alzata
così tardi, ma–»
«Metti via la mantella» ordinò
il
signor Davenport. «Andare a Boston! Da sola! Che sciocchezza!
È un miracolo che tu sia arrivata fin qui senza imbatterti
in un lupo. O, peggio, in un uomo. Non sfidare la sorte due volte,
bambina. Che cosa sai fare?»
Cecilia era troppo confusa per capire la domanda.
«Insomma, sai badare a una casa, oppure no?»
«Oh, be', sì. Certo.»
«Bene. Se riesci a tenere pulito quel poco che non
è ancora andato in malora». L'uomo
rifilò un colpetto di bastone alle gambe del letto, come a
testarne
la solidità. «E a non starmi troppo tra i piedi,
puoi restare. Solo per l'inverno, s'intende. Sempre che il tuo bel
faccino bianco non si senta offeso dalla sistemazione».
Sto ancora dormendo,
si disse Cecilia.
«E allora? Hai perso
la lingua?»
La ragazza mormorò un
«Grazie» con un filo di voce. Sentiva uno strano
tepore espandersi dal suo petto e una velata umidità agli
occhi. «Mmh. Bene. Ma bada di star lontana dai miei
candelabri.»
A Cecilia l'avvertimento non parve strano: pensò che il
signor Davenport stesse ancora mettendo in conto l'ipotesi di aver
appena concesso ospitalità a una ladruncola, una che se la
sarebbe potuta svignare dopo aver infilato un paio di candelabri
d'argento nella bisaccia.
Il signor Davenport stava per uscire, quando
Cecila esclamò: «Non volete sapere
perché ho lasciato Gloucester?»
L'uomo le scoccò un'occhiata da sopra la spalla.
«Che ognuno si tenga i propri segreti» disse.
NOTE
STORICHE
[1] Nell'America del diciottesimo secolo, in generale, le ragazze tra i
tredici e i quattordici anni potevano
già considerarsi in
età da matrimonio. Una volta sposata, la donna diventava
proprietà legale del marito e se una fuggiva da lui, era
considerata una ladra perché stava rubando i vestiti che
indossava e sé stessa.
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Capitolo 2 *** Visite inaspettate ***
THE CORNFLOWER CAP 2
II
Visite inaspettate
Tenuta
Davenport. 28 settembre 1769
A
Davenport Manor non si ricevevano mai visite. Così, quel
tardo pomeriggio d'autunno, Cecilia, china sul focolare, quasi
trasalì udendo un irruente bussare all'ingresso.
Lasciò gli avanzi del pranzo a riscaldare nel tegame, appeso
sul fuoco, e attraversò di corsa la cucina. Era l'ora del
tramonto e rettangoli di luce si stiracchiavano pigramente sopra i
porosi mattoni color tabacco del pavimento.
Messo piede nell'androne d'ingresso, Cecilia realizzò di
esser stata preceduta.
Ebbe appena il tempo di sentire il signor Davenport elargire un
«No» a chiunque si trovasse sulla soglia, prima di
vederlo richiudere la porta con sufficiente veemenza da far tremare
stipiti e architrave.
Bussarono di nuovo.
«Vattene via» abbaiò il padrone. E
voltate le spalle alla porta, puntò verso il salone da
pranzo, i passi scanditi dal sordo toc del bastone contro le vecchie
assi sotto il loro piedi. All'esterno, scoppiò una voce
maschile: «No! Non me ne andrò!»
«Chi è?» chiese Cecilia, ferma accanto
alle scale.
«Nessuno». Senza aggiungere altro, gli occhi
nascosti sotto la molle falda del cappello, il signor Davenport si
ritirò nella penombra del salone.
«Nessuno? Allora abbiamo un fantasma cocciuto alla
porta» mormorò Cecilia.
Le avevano insegnato che il sarcasmo sulla bocca di una donna era
qualcosa di detestabile. Guai, poi, a burlarsi di spettri e demoni. Ma
Cecilia era fatta del genere di pasta che non si mallea nemmeno con le
bacchettate sulle mani e il soggiorno nella magione, oltre ad averle
gradualmente scrollato di dosso una malinconia che non le apparteneva,
aveva diminuito la sua già debole inclinazione a trattenere
la lingua: la ragazza si era accorta che, di qualsiasi genere fossero
le sue parole, il signor Davenport mostrava sempre e comunque
pochissimo interesse e nessuna preoccupazione.
Cecilia s'infilò nel salone da pranzo: una grande stanza con
le pareti di damasco scarlatto dove, però, non pranzava mai
nessuno. Il signor Davenport sedeva sulla sedia Windsor, vicino al
camino, in cupa contemplazione delle fiammelle, dietro i riccioli
anneriti del parascintille.
Cecilia non lo disturbò. Scostò qualche
centimetro dei pesanti tendaggi verdi, odorosi di polvere e legna
bruciata, e guardò oltre i pannelli di vetro della finestra.
Era stata una giornata fresca e serena, ma nel fremere degli aceri
gialli c'era un sentore di pioggia in arrivo. L'indesiderato visitatore
era ancora davanti alla porta.
Era solo un ragazzo.
Aveva la pelle scura come quella di un mulatto e i lisci capelli neri,
più corti di quelli dei coloni, non erano legati. Vestiva
con abiti fatti di pelle di cervo, portava arco e frecce sulla schiena
e un'accetta legata alla cintura: una striscia di stoffa rossa.
Era un nativo.
Il primo che Cecilia avesse mai visto da così breve
distanza.
Tra curiosità e ansia, lo osservò scendere i
quattro gradini d'ingresso e restarsene nei pressi delle colonne
bianche, ma non riuscì a scorgere i lineamenti. Il ragazzo
teneva il viso basso e le spalle chine in andatura un po' ciondolante;
a dispetto dell'armamentario, le sue movenze non sembravano minacciose,
dava piuttosto la genuina impressione di non saper bene cosa fare.
«Se gli apri la porta, vi butto fuori entrambi».
Nella frase del signor Davenport c'era calma, ma non ironia.
Cecilia richiuse la tenda e si voltò verso di lui, le mani
dietro la schiena e le dita mollemente aggrappate alla stoffa scura.
«Chi è quel ragazzo?»
Il signor Davenport mantenne lo sguardo sul fuoco.
«Non lo so.»
«Sembra un nativo.»
«Mmh.»
«Che cosa cerca qui?»
«Guai.»
«Pensate... pensate abbia cattive intenzioni?»
«Penso che tu finirai per bruciare la cena. Di
nuovo.»
Cecilia trattenne un sospiro tra le labbra.
Le risposte lapidarie non la offendevano.
Del padrone della tenuta si era fatta l'idea di una persona schietta e
disincantata, assuefatta all'isolamento e al lutto. Era capace di una
certa ruvida gentilezza, ma guardava il mondo con uno sguardo
amareggiato, come se l'umanità intera fosse responsabile di
un irreparabile torto nei suoi confronti. A Cecilia, però,
non era dato sapere la natura di tale torto: il signor Davenport si
mostrava perennemente restio alle conversazioni.
Compresa l'antifona, la ragazza se ne tornò in cucina,
camminando con le mani nelle tasche, nascoste tra le pieghe della
sottogonna, e il pensiero dello sconosciuto che le svolazzava per la
testa. La visita era stata una scossa nel quieto e lineare succedersi
delle ore. La vita, nella grande casa di mattoni rossi, era immobile e
terribilmente solitaria, ma Cecilia non avrebbe mai osato lamentarsi.
Non riusciva ad essere felice, perché ancora tormentata da
ricordi amari, però era tranquilla, libera e piena di
gratitudine.
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Capitolo 3 *** Il ragazzo Mohawk ***
THE CORNFLOWER CAP 3
III
Il ragazzo Mohawk
Tenuta
Davenport. 29 settembre 1769
Cecilia si fermò sulla soglia della camera.
«Io devo uscire. L'acqua in casa è finita»
avvertì, a un tempo placida e sbrigativa. Reggeva un secchio
sotto braccio e un tintinnante mazzo di chiavi tra le dita.
«Sta attenta al ragazzo» fu quanto rispose il vecchio,
senza prendersi il disturbo di interrompere la propria occupazione:
nella tenue luce del primo mattino, stava riordinando con cura le
pedine della faronora; alle sue spalle, l'aquila impagliata gettava sul
tappeto una pallida ombra delle ali spiegate.
Cecilia inclinò il capo di lato, trattenendosi dall'alzare gli
occhi al soffitto. «Pochi minuti fa, sulla terrazza, lo avete
quasi preso a bastonate. E lui non ha mosso un dito contro di voi.
Quanto potrà mai essere pericoloso?»
«Intendevo sta attenta a non farlo entrare.»
***
Dense nuvole grigie se ne stavano acquattate sopra le montagne.
Nell'aria c'era un eco del freddo notturno, e scendendo verso il pozzo,
Cecilia godette del profumo della terra bagnata, senza scorgere il
nativo da nessuna parte. La prospettiva di incappare nel ragazzo non la
turbava; al contrario, si persuase che incontrarlo avrebbe offerto la
possibilità di capire quale faccenda il vecchio Davenport stava
ostinatamente tenendo per sé. Giacché ogni tentativo di
parlare della presenza del nativo suscitava nel vecchio un crescendo di
fastidio, Cecilia si era sforzata di non fare domande e di limitare i
commenti. Era rimasta buona e zitta anche la sera precedente, quando
aveva scorto il selvaggio infilarsi nelle stalle, in cerca di riparo
dal temporale. Ma la discrezione di Cecilia era una maschera sottile,
tenuta in piedi dal rispetto dovuto al suo ospite, e nascondeva una
curiosità fattasi particolarmente acuta dopo quanto era riuscita
a carpire della discussione in terrazza.
«Tu vuoi diventare un eroe. Aiutare i deboli. Salvare il mondo.
Ma così andrai incontro solo alla morte» aveva detto il
signor Davenport. «Il mondo è andato avanti, ragazzo.
Fallo anche tu!»
Rimuginando su quelle parole, Cecilia arrivò a dieci passi dal pozzo tenendo lo sguardo sull'erba umidiccia.
Poi, udì uno scricchiolio.
Alzò gli occhi. Sobbalzò e si irrigidì.
Da uno degli alberi vicini – un robusto noce che non aveva ancora
perso la sua folta corona bionda – la stava osservando il nativo.
Il colore della casacca quasi si confondeva con quello delle foglie,
mentre lui se ne stava in piedi, in perfetto equilibrio, tra i rami
più grossi. Saltò giù, agile, silenzioso come un
gatto. «Scusa» disse lui. «Non
volevo spaventarti». Tenne la testa china, in una postura che
comunicava un che di schivo e riottoso, ma sotto le sopracciglia
aggrottate gli occhi marroni, dal taglio allungato, continuavano a
spiare la figura di Cecilia. Aveva spalle larghe come quelle di uomo,
il viso era ancora imberbe e i lineamenti meno marcati, meno selvaggi, di quanto si aspettava Cecilia.
«Non... non mi hai fatto paura» mentì. Era
indietreggiata senza accorgersene, stringendo il secchio contro il
fianco. «Solo... sorpresa. Non ti avevo visto».
Per un attimo, il cuore di Cecilia aveva palpitato per lo spavento.
Ora, stava subentrando una fastidiosa incertezza, come se si ritrovasse
a dover scegliere una direzione dal mezzo di un crocicchio. Quanto
capiva il nativo della sua lingua? Come doveva parlargli? Con lo stesso
pudore femminile che avrebbe dovuto simulare con un giovanotto bianco?
Con accondiscendenza, come davanti un bambino? Con cautela, come se
stesse provando ad avvicinare una bestiola selvatica?
Ma prima che potesse giungere a una decisione: «Tu chi
sei?» si sentì chiedere. «Sei uscita dalla
casa».
Cecilia era certa che il diritto di porre domande spettasse a
lei, se non altro perché non era lei quella appostata intorno
alle altrui abitazioni, ma il tono del nativo le era parso così
spontaneo che non poté a fare a meno di rilassare la schiena.
«Be', ci vivo, lassù» spiegò. «Insieme
al gentiluomo con cui hai già... ehm... discusso.»
«Sei sua moglie?»
«Oh–no! Non sono imparentata con lui in nessun modo. Io mi occupo della casa.»
«Puoi farmi entrare?»
«Se mi azzardassi a farlo, questa notte saremmo in due a dormire nelle stalle.»
«Puoi... puoi convincere il vecchio ad ascoltarmi?»
«Posso provarci» concesse Cecilia, pur dubitando di avere
il potere di influenzare le decisioni del signor Davenport. «Ma
solo perché sono molto sicura delle tue buone intenzioni.»
Il ragazzo le rivolse un'occhiata scura e interrogativa.
«Hai un'ascia» suggerì lei, con un sorriso paziente e un cenno del mento.
L'espressione dell'altro non mutò.
«Insomma... immagino che, se tu non fossi davvero qui per
parlare... uhm... pacificamente... l'avresti già usata per
introdurti in casa.» Così dicendo, si era avvicinata al
pozzo. Sistemò il secchio alla carrucola e si preparò a
far scendere la corda: movimenti che avrebbe potuto ripetere ad
occhi chiusi. «Il mio nome è Cecilia. Tu come ti
chiami?»
«Ratonhnhaké:ton.»
Cecilia sperò vivamente di essere riuscita a nascondere in tempo lo sguardo disorientato dietro al sorriso sottile.
«Be'... ha... un suono peculiare. Ehm... significa qualcosa?» buttò lì.
«Vita piena di graffi» sillabò il nativo, dopo un attimo di silenzio.
A Cecilia scappò un verso a metà tra uno sbuffo e una risata soffocata.
«Non è di buon auspicio».
E Ratonhnhaké:ton si mostrò talmente impassibile che
Cecilia, a disagio, dovette distogliere in fretta lo sguardo da lui.
«Ma chi sono io per giudicare? Il mio nome significa cieca»
concluse, iniziando a far calare il secchio. Un soffice splash
l'avvertì che il secchio aveva toccato l'acqua. Cecilia si
sporse in avanti, pru continuando ad osservare il nativo con la coda
dell'occhio: Ratonhnhaké:ton era rimasto vicino all'albero,
percorrendo sempre gli stessi tre o quattro passi, le braccia a
ciondoloni lungo il busto.
«Posso chiederti perché sei qui?».
«Mi è stato detto di trovare il vecchio della collina. E di chiedergli di addestrarmi.».
«Addestrarti? In cosa? Nell'arte di essere scontrosi? Chi ti ha detto di trovarlo?»
Di nuovo, la risposta del ragazzo si fece attendere.
«Io... io credo di dover parlare solo con il vecchio.»
«Oh. Naturalmente»
sillabò Cecilia, nello sforzo di poggiare a terra il secchio
colmo d'acqua. «Non puoi parlare con me. Io sono una donna.
Bianca, per di più. La mia gracile mente non potrebbe sopportare
il virile peso di certe faccende». [1]
Davanti al sardonico eloquio, i lineamenti del nativo si contrassero in
un'espressione di disarmante perplessità: socchiuse le palpebre,
fissando Cecilia come se, di punto e bianco e senza motivo, lei avesse
iniziato a discorrere in una lingua sconosciuta.
La ragazza nascose le mani dietro la schiena, appoggiandosi contro la vera del pozzo.
«Posso almeno sapere da dove vieni?»
Ratonhnhaké:ton indicò le montagne sopra le quali si stendevano le nuvole cariche di pioggia.
«Il mio villaggio è nella valle Mohawk. A tre settimane di cammino da qui.»
Le sopracciglia di Cecilia scattarono verso l'alto. Tre settimane! «Va bene. Parlerò con il signor Davenport, il tuo vecchio della collina» assicurò. Si chinò in avanti, per sollevare il secchio. Il
nativo si stava avvicinando, ma lei lo fermò, alzando una mano a
mo' di avvertimento. «Ma tu prometti di non seguirmi».
Ratonhnhaké:ton parve esitare. «Lo... prometto» disse, infine, riluttante.
***
Voltandosi, Cecilia trovò il signor Davenport all'altro capo del
lungo tavolo della cucina: la osservava in un modo assai poco benevolo.
La ragazza si morse l'interno della guancia, premendo forte le labbra
l'una contro l'altra, e rivolse lo sguardo colpevole sulla pagnotta tra
le proprie mani. Poi, gettò un'occhiata al cestino di paglia
appoggiato sul tavolo: l'aveva riempito con due mele rosse, una
focaccia di farina di mais, una tozza bottiglia di sidro e tre uova
sode.
«Ha fatto un lungo viaggio. Volevo solo essere gentile» si giustificò.
«Preparandogli una colazione, con le scorte della mia dispensa, affinché abbia le energie per iniziare il viaggio di ritorno, voglio sperare.»
Cecilia mise giù il pane, strofinò le mani sulla gonna e
avanzò con risoluta calma verso il signor Davenport. Una promessa è una promessa.
«So di essere solo un ospite» esordì, cauta.
«E non dovrei immischiarvi nei vostri affari, però... non
capisco cosa vi costa ascoltare quel ragazzo. Una conversazione non ha
mai ucciso nessuno. Fatelo entrare. Lasciatelo parlare per qualche
minuto. Almeno, non avrà fatto tanta strada completamente
invano».
Il signor Davenport la guardò con occhi che a Cecilia parvero improvvisamente spenti.
«Bambina» sospirò stancamente il vecchio, «ci
sono storie che non devono essere rivangate. Parlarne servirebbe solo a
risvegliare pensieri penosi nella mente di un vecchio. E a farne
nascere di pericolosi in quella di chi è troppo giovane».
Ritrovò in un attimo la solita, brusca energia: «Dì
al ragazzo di andarsene!»
***
«Dì al vecchio che non me ne andrò!»
Cecila esalò un sospiro di pazienza, gonfiando il petto sotto lo
scollo quadrato della caraco [2], e allungò il cestino al
ragazzo, reggendone il manico con entrambe le mani. Un panno bianco ne
copriva accuratamente il contenuto.
Ratonhnhaké:ton, seduto sotto la tettoia delle stalle,
fissò il cesto, ma non si mosse. «Che cos'è?»
chiese, tra il seccato e il sospettoso.
Cecilia azzardò un sorriso. «Cibo» disse.
«Nella mia esperienza, i boschi e i viaggi a piedi mettono
appetito. Ho pensato che... potessi aver fame...».
Tentennò. Temette di aver sbagliato. Era mai possibile che per i
nativi, con i loro strani dei pagani, offrire del cibo fosse un'offesa?
Il nativo si levò in piedi: superava Cecilia in altezza di tutta
la testa. Prese il cestino, senza sfiorare le mani della ragazza.
«Grazie» mormorò.
Il sorriso di Cecilia ebbe il coraggio di aprirsi. «Mi hai
sorpresa.» Si stava alzando il vento, leggero ma pungente, e il
fruscio degli alberi si insinuò sotto la sua voce.
«Credevo mi avresti seguita lo stesso, per sgattaiolare in
casa.»
Ratonhnhaké:ton smise di sbirciare sotto al panno.
Aggrottò la fronte. «Perché non avrei dovuto
mantenere la promessa?»
La ragazza si strinse nelle spalle. «La gente lo fa di continuo».
***
Cecilia fissava le lacrime di cera colare con una lentezza esasperante
lungo la candela: sedeva a un tavolino, piccolo, tondo e un poco
traballante, in quella stessa camera da letto in cui aveva trascorso la
prima notte nella magione.
Il signor Davenport l'aveva lasciata libera di arredare la stanza con
le comodità necessarie: due di sedie, un basso mobile per lo
specchio, la brocca e la catinella, e quel tavolo da usare come
scrittoio, sistemato vicino alla finestra.
Cecilia, reggendosi il mento tra le mani, distolse l'attenzione dalla
candela e guardò fuori: attraverso il grigio e compatto velo di
pioggia poteva scorgere la bassa forma delle stalle e il fioco brillare
delle lanterne sotto la tettoia. I tentativi di convincere il padrone
della tenuta ad accogliere il nativo erano falliti, le richieste di
spiegazioni erano state ignorate e Cecilia cercava adesso di
districarsi tra una pruriginosa voglia di sapere e qualcosa di molto
simile al senso di colpa.
Provò a concentrarsi sulla lettura: aperto sul tavolo c'era un
erbario, ma quella sera in particolare lo studio dei pregi e
dell'utilità del chenopodium ambrosioides
peccava di fascino. Settimane prima, quando Cecilia aveva chiesto al
signor Davenport il permesso sfogliare i libri dello studio, lui non
aveva dissimulato una certa sorpresa: «Ah, sai leggere?»
aveva chiesto. Allora Cecilia aveva avuto la possibilità di
raccontare della propria vita a Gloucester, lasciando tacitamente
capire all'anziano per quale motivo vivere come una domestica in casa
di un nero era una situazione che non la disturbava.
«Facendo bollire tre pugni di foglie e sommità
fiorite» lesse pigramente, «si ottiene un decotto da
applicare ancora ben caldo in impacchi umidi al basso
ven—».
Cecilia ammutolì, voltandosi di scatto verso la finestra.
Aveva udito uno scoppio, ma era stato troppo breve, troppo vicino e troppo acuto per essere un tuono.
Era un colpo di moschetto.
NOTE
STORICHE
[1] La piccata ironia di Cecilia non nasce solo dal suo essere una
fastidiosa adolescente. In pieno diciottesimo secolo, l'idea
generale era che l'intelligenza delle donne fosse adatta a un solo
ambiente, quello domestico, e che fossero biologicamente 'programmate'
per offrire cura e piacere all'uomo. Persino uno come Rousseau, pur
avendo considerazione per la donna, nell'Emile del 1762 affermava:"Gli
uomini dipendono dalle donne per i loro desideri; le donne dipendono
dagli uomini sia per i loro desideri che per i loro bisogni; potremo
vivere meglio noi senza di loro che non loro senza di noi.
Perché abbiano il necessario, perché si
mantengano nella loro condizione di vita, occorre che gli uomini glielo
concedano, che vogliano concederlo e che le stimino degne di
ciò." La donna 'qualunque' del Settecento riceveva il minimo
di istruzione necessaria a mandare avanti la vita domestica, fin da
bambina si sentiva dire di mantenere un atteggiamento mite e passivo,
non si sognava di mettere il naso in campi come la politica, le leggi,
le arti, le scienze, etc. etc. Forse a Cecilia – come
moltissime sue contemporanee veramente esistite, alcune anche illustri!
– la situazione va stretta, ma se se ne lamenta con un povero
ragazzo Mohawk, una delle cinque tribù della Lega Irochese,
non può aspettarsi di venir capita. Gli Irochesi erano un
popolo matriarcale, dove "le donne erano proprietarie sia della capanna
che delle coltivazioni, e ogni eredità passava attraverso le
figlie femmine" e "partecipavano attivamente alle riunioni della
tribù, avevano diritto di parola e spesso le loro proposte
erano decisive, inoltre esse solo decidevano le questioni di famiglia."
[2] Il termine caraco indica una giacca da donna con le maniche
strette, che poteva essere lunga fino alla coscia.
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Capitolo 4 *** Confidenze tra la neve ***
THE CORNFLOWER CAP 4
IV
Confidenze tra la neve
Tenuta
Davenport. 24 dicembre 1769
Cecilia
era immobile, in attesa, le dita arrossate strette al manico del
cestino. Guardava verso l'alto, dove il cielo aveva lo stesso colore
delle perle, mentre attorno a lei, i fiocchi danzavano nell'aria, radi
e leggeri come pulviscolo, e i rami degli alberi si inchinavano sotto il
peso delle neve.
Erano passate cinque settimane dalla notte in cui un
gruppo di ladri aveva minacciato la tenuta. Cinque settimane da quando
Cecilia, dal sicuro di una finestra, aveva visto quegli stessi ladri
cadere sotto il tomahawk del giovane nativo. Cinque settimane da quando aveva
scoperto di aver trovato ospitalità in una casa nella quale
perfino le pareti e il pavimento nascondevano i segreti del padrone.
Cecilia conviveva con la sensazione che la propria esistenza
fosse stata attraversata da una scossa di terremoto. La scossa aveva
lasciato tutto intatto, tranne che per una sottile ma profonda crepa;
adesso, attraverso la crepa, Cecilia poteva sentire gli eventi
scorrerle accanto, simili alle acque di un torrente in piena, mentre
lei abitava il confine tra un mondo come le aveva conosciuto per
quattordici anni e un mondo nel quale si muovevano croci scarlatte e
lame silenziose. La nuova consapevolezza a tratti la eccitava. In altri
momenti, le faceva rimpiangere l'ignoranza perduta.
Quando interrompeva
le faccende domestiche per assistere agli allenamenti ai quali il
vecchio Davenport – Cecilia aveva pian piano imparato a
chiamarlo Achille – sottoponeva Ratonhnhaké:ton,
non si avvicinava mai troppo: restava affacciata alla finestra, seduta
sulle scale, all'ombra di un albero.
In quei frangenti
ripercorreva mentalmente l'intera storia.
Esistevano persone chiamate Templari. Esistevano persone che avevano
scelto il nome di Assassini. Esisteva una guerra che scorreva
sotterranea a tutte le altre guerre del passato e del presente. C'erano
stati morti. Tantissimi morti. C'erano dei sopravvissuti, come Achille.
E adesso c'era questo ragazzino, figlio di un Templare, deciso ad
abbracciare il credo degli Assassini.
Cecilia si era sorpresa di
sé stessa realizzando che, nel proprio subbuglio
di emozioni, c'era spazio persino per una sorta di gelosia nei confronti
di Ratonhnhaké:ton. Lui era un meticcio, cresciuto tra gente
da cui l'avevano sempre messa in guardia, ma sapeva da che parte
avrebbe combattuto e sapeva cosa voleva essere. Cecilia non invidiava
il suo passato e non agognava il futuro al quale si stava preparando.
Avrebbe solo voluto la stessa forza d'animo. E avrebbe voluto anche lei
che un qualche spirito le indicasse una via da percorrere. Incurante
delle parole di Achille, il quale declassava il coraggio dell'allievo a
un misto di testardaggine e ingenuità, Cecilia vedeva
Ratonhnhaké:ton come una pietra e sé stessa come
uno di quei fragili fiocchi di neve che turbinavano qua e
là, senza una meta, trascinati dal nulla.
Cecilia sollevò una mano. Rivolse il palmo verso l'alto,
accogliendo la neve. Ora sono qui. Tra qualche mese sarò a
Boston. Chissà con chi e chissà per quanto tempo.
Sapeva solo che una casa da chiamare sua non l'avrebbe mai avuta.
Un
lieve tonfo interruppe i suoi pensieri.
La ragazza si voltò.
Ratonhnhaké:ton, avvolto nei suoi abiti di pelle, era
balzato giù da un albero. Con la solita andatura un po'
ciondolante, venne verso di lei, aprendo la sacca che portava al
fianco. Ne cavò fuori quattro pigne. «Queste vanno
bene?» Il fiato del ragazzo si condensò in uno
sbuffo bianco.
Cecilia prese le pigne, le esaminò
– erano belle pigne color ruggine, grosse come il pugno di un
bambino – e distese in un sorriso le labbra spellate.
«Perfette. Grazie.» Adagiò le pigne nel
cestino, in un letto di rami di pino e rosse bacche di agrifoglio.
«Possiamo tornare indietro». Sistemò il
cappuccio della mantella sul capo e si mise in marcia, infagottata
dalla gonna e dai due palmi di neve fresca.
Ratonhnhaké:ton la seguì, restandosene indietro
di tre passi, e per un po' fu solo il crepito della neve sotto i loro
piedi ad accompagnarli nel bosco innevato.
Per Cecilia non era stato
facile abituarsi alla presenza di Ratonhnhaké:ton. Da
principio, pur facendo del suo meglio per mostrarsi allegra e cordiale,
aveva accuratamente evitato di rimanere da sola con lui. Oltre ad avere
un inconcepibile vizio di fissare, Ratonhnhaké:ton pareva
all'oscuro dell'esistenza dei giochi di parole, delle sottigliezze,
delle chiacchiere futili ma educate ed eccelleva nell'arte di
suddividere le proprie frasi tra domande esplicite e affermazioni
schiette.
«Mi è stato insegnato a dire sempre
chiaramente ciò che penso» si difendeva.
«Sembra che voi coloni preferiate nascondere. Ma cosa
può venire di buono dagli inganni?» [1]
E Cecilia, che non era avvezza né alle maniere dei nativi
né alla compagnia maschile, finiva sempre in un pruriginoso
imbarazzo. Ma il tempo aveva immancabilmente fatto il proprio lavoro e
ciò che all'inizio era strano iniziava ad acquistare una
parvenza di normalità, e quella mattina di dicembre, la voce
di Cecilia riverberò vivace nell'aria gelata: «Non
ti dà noia farmi da balia quando potresti
allenarti?»
«Achille mi ha detto di badare a te» si
sentì rispondere.
«Sì, questo lo
so.» Non aveva fatto in tempo a chiudersi la
porta alle spalle dell magione che le era arrivata la voce di Achille: «Va
con lei, ragazzo. O finirà in bocca a un lupo o sul fondo di
un crepaccio prima che sia mezzogiorno.»
«La
mancanza di fiducia del vecchio nelle mie capacità di
restare in vita non mi lusinga» cinguettò Cecilia.
«E non è colpa mia se l'agrifoglio non cresce
sulla collina. Però... Achille non ha tutti i torti. Non mi
va di farmi mangiare da un orso–»
«Siamo in inverno. Gli orsi dormono.»
«Non va di farmi mangiare
da una qualsiasi bestia affamata proprio ora. Vorrebbe dire aver
sprecato i miei ultimi giorni su questa terra nell'impresa di
convincere Achille a lasciarmi appendere una ghirlanda e preparare un
tortino per il pranzo di domani.» Si girò verso
Ratonhnhaké:ton, azzardandosi a camminare all'indietro.
«Comunque, quello che volevo sapere è se mi hai
accompagnata controvoglia.»
«No» disse
lui. E parve stringersi nelle spalle, mentre la neve si
fermava impalpabile tra i suoi capelli corvini.
Cecilia
tornò a voltarsi. Sorrise, sotto il cappuccio.
La voce di
Ratonhnhaké:ton la inseguì.
«Perché devi fare una ghirlanda?»
«È per il Natale. Te l'ho già spiegato,
il Natale.»
«No... voglio dire... perché hai insistito per
fare una ghirlanda?»
Il ragazzo l'affiancò mentre Cecilia, conscia dello sguardo di
lui, scrollava le spalle, saggiando tra i polpastrelli l'umida
morbidezza degli aghi di pino.
«Uhm... non lo so, ho sempre
fatto una ghirlanda per il Natale. La mia vita è cambiata...
ma sarebbe bello se qualcosa restasse uguale, tutto qua.»
«Achille mi ha detto che i tuoi genitori sono
morti» riprese Ratonhnhaké:ton.
«È questo ad essere cambiato?»
«No, loro sono morti quando ero piccola. Nel caso di mio
padre, prima ancora che venissi al mondo. Era un soldato. L'hanno
ucciso i cannoni dei francesi a Fort Oswego, durante la guerra. [2] E mia
madre s'ammalò di febbre pochi giorni dopo la mia
nascita.»
«E chi–?»
«Si è preso cura di me?» lo
anticipò Cecilia. «Il fratello maggiore di mio
padre. Patrick Carter. Era vedovo, non aveva figli suoi e fu l'unico a
farsi avanti. Mia madre... vedi, lei era irlandese. Si chiamava Norah.
Sposò mio padre, che era inglese, contro il volere della
famiglia e i suoi fratelli non l'hanno mai perdonata. Quando lei
morì, loro non ne vollero sapere di me e mio zio mi
portò a Gloucester che avevo appena due mesi. Charlotte, la
governante, mi raccontava sempre che le si presentò a casa
in un giorno di novembre... pioveva a dirotto... con me tra le braccia
e una nutrice raccattata in città al fianco. Poi,
ripartì di corsa. Era un avvocato. Sempre, sempre in
viaggio.»
«Ti lasciava sola» osservò
Ratonhnhaké:ton.
«C'era Charlotte! La gente
può dire quel che gli pare dei neri, sai, ma Charlotte era
più in gamba e intelligente di qualsiasi persona io abbia
mai incontrato. Era lei mia madre. Stavamo bene, per conto
nostro.» Cecilia non riuscì a tenere a freno la voglia di tradurre le
immagini, ancora così vivide e vive nella sua testa, in un ruscello di parole:
«Abitavamo in una casa appena fuori Gloucester. Non era
grande come Davenport Manor, ma io ho sempre pensato che fosse
elegante. La mia stanza preferita era la biblioteca, al secondo piano.
Da lì, si riusciva a vedere il mare. Oh, e in un angolo,
c'era una spinetta... ho imparato con quella a suonare... e vicino alla
spinetta, c'era un mobile. E sopra al mobile... il
modellino di un veliero. Da bambina, passavo le ore a immaginare le
avventure dei marinai, su quella nave. Avevo persino scelto un nome per
il capitano. E Charlotte stava sempre lì, ad ascoltarmi
blaterare. E poi, c'erano i libri. Charlotte non disse mai a mio zio
leggevo i libri di nascosto.»
«Di
nascosto?» ripeté Ratonhnhaké:ton,
quasi sillabando le parole.
«Lo zio era un uomo severo. Non cattivo! Solo
molto... molto ligio alle regole e alla legge. Ma anche timorato di
Dio. E onesto. E non tollerava la schiavitù. Con noi,
Charlotte era una donna libera e in dodici anni non ricordo di averlo
mai sentito rivolgerle una parola sgarbata. Ma non era altrettanto
liberale con me. E con la mia educazione. Era convito che leggere
troppo non fosse un comportamento sano per una giovane donna. Quando lo
zio era a casa, io mi comportavo come desiderava. Quando lui era in
viaggio... be', tra noi coloni esiste un detto. Occhio non vede, cuore
non duole.»
Cecilia era sicura di non aver mai visto
Ratonhnhaké:ton sorridere. Ora, tuttavia, scorse una piega
sulla bocca del ragazzo e un guizzo di complicità negli
occhi scuri.
Passò subito.
«Parli di queste
persone al passato» disse lui. «Che ne è
stato di loro?»
Cecilia rallentò il passo. «Charlotte era
già avanti negli anni quando io arrivai a Gloucester. Se
n'è andata due anni fa. Nel sonno. Nel suo letto. E mio
zio... è una storia un po' lunga». Tacque. Nel
silenzio galleggiava l'attesa.
Anche se i suoi occhi erano fissi sul
bianco assoluto delle neve, la ragazza avvertiva che
Ratonhnhaké:ton la stava ancora guardando. Prese un respiro
e il freddo le riempì i polmoni. «A marzo di
questo anno» cominciò, «un cugino dello
zio, Richard Bardsley... faceva il mercante a Portsmouth... venne a
stare da noi insieme alla moglie Rebecca. Quando li vidi per la prima
volta, mi sembrarono persone raffinate. Erano scesi da una carrozza.
Erano vestiti bene. Avevano maniere educate. E lei, Rebecca, era bella.
E molto più giovane del marito. Ma la verità era
che gli affari di Bardsley andavano male e le giubbe rosse avevano
sequestrato la loro casa. Da quel che riuscii ad origliare sulla
faccenda... non mi era permesso restare nella stanza quando si
discuteva di affari... l'unico modo che aveva Bardsley per riempire il
suo borsello era vincere una qualche causa in tribunale.
Però, di denaro per pagare un avvocato non ne aveva e
immagino si fosse rivolto allo zio confidando nella parentela. Lo zio
si rifiutò di aiutarlo. Non ho mai saputo il motivo, ma non
riesco a credere che sia stato per i soldi. Lo zio non era avaro.
Comunque, dieci giorni dopo l'arrivo di Bardsley, lui e lo zio
partirono per Boston.» Cecilia captò la sfumatura
arrochita nella propria voce, ma continuò a raccontare, con
una tranquillità che reputò convincente:
«Per risolvere la questione, dissero. Sulla strada del
ritorno ci fu un incidente. Un serpente spaventò i cavalli.
Lo zio fu scaraventato giù dalla sella. Batté la
testa su una roccia. Morì sul colpo. Dopo il funerale, venne
fuori che non c'era un testamento – sai cos'è un
testamento?»
«Parole sulla carta» disse
Ratonhnhaké:ton. «Per
un'eredità.»
«Già. E senza una volontà scritta di
mio zio, tutto... la casa, i soldi, la mia futura dote...
andò al suo parente maschio più stretto.
Bardsley. Lui e Rebecca si stabilirono definitivamente in casa nostra e
io... io venni relegata ai lavori domestici.»
Cecilia aveva
smesso di camminare e Ratonhnhaké:ton era rimasto di fianco
a lei. Sempre in silenzio. Sempre fissandola.
«Ma, lo giuro,
non era il lavoro il problema!» Strinse le labbra l'una
contro l'altra, fino a farle illividire. «Era il modo in cui
mi parlavano! Era il loro incessante ripetermi che io adesso ero una
cosetta senza valore e senza importanza e che dovevo solo essere grata,
perché mi stavano permettendo di rimanere in quella casa. Li
ho sopportati per mesi. E... e... e poi, un bel giorno, li ho piantati
in asso.»
Magari lo avessi fatto davvero, pensò; e il pensiero le attraversò la mente insieme a un fiotto di
rabbia e di vergogna. Si riparò dietro l'imitazione di una
smorfia soddisfatta. «Non sono Cenerentola, io».
Sollevò il mento e voltò il capo verso
Ratonhnhaké:ton: lui aveva aggrottato la fronte, confuso da
una metafora alla quale non poteva dare un significato. «Se i
Bardsley vogliono una sguattera che sia disposta a farsi insultare e
tiranneggiare tutto il giorno» chiarì Cecilia,
«che paghino una domestica o si comprino uno
schiavo».
Ratonhnhaké:ton aveva disteso la fronte.
La guardava, attento, senza dire nulla.
Cecilia gonfiò le guance, tra fastidio e impazienza. Fece
scivolare il manico del cestino fino al gomito e raccolse l'orlo della
gonna. «Muoviamoci. Sto congelando!».
NOTE
STORICHE
[1] La battuta si trova in una scena tagliata dal videogioco.
[2] La battaglia di Fort Oswego, combattuta tra il 10 e il 14 agosto
1756, rappresentò una delle vittorie francesi durante la
Guerra Franco-Indiana.
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Capitolo 5 *** Sulla strada per Boston ***
THE CORNFLOWER CAP 5
V
Sulla strada per Boston
Nei
dintorni di Boston. 4 marzo 1770
L'Arabella
Inn era una grigia costruzione a graticcio che dava l'idea di starsene
lì, nella campagna sulla via per Boston, dai tempi di John
Winthrop [1] in persona. Quella sera, mentre la neve turbinava furiosa
contro le strette finestre delle locanda, al pian terreno le note di un
violino si perdevano tra risate e cozzare dei boccali. Nella sala non
c'era che una scarsa dozzina di persone, ma il baccano era degno di una
truppa di soldati ubriachi.
O tale era l'impressione di Cecilia.
Il busto dritto, le mani sul ventre e la cuffietta sopra i capelli
raccolti, la ragazza sostava a pochi passi dal grande camino di
mattoni, di fronte al quale il musicista — un uomo
allampanato, con capelli rossi e polpacci sottili infilati in linde
calze bianche — agitava l'archetto sulle corde dello
strumento.
Dopo i mesi trascorsi nell'isolamento di Davenport Manor, Cecilia si
era accorta di sentire la mancanza della musica. Fa che la famiglia di Boston
abbia uno strumento in casa, pregò. M a pur
concentrata sulla musica, non riusciva a ignorare
Ratonhnhaké:ton. Lo vedeva con la coda dell'occhio: spalla
contro la colonnina dietro di lei, braccia incrociate al petto, il capo
che si muoveva in continuazione. Non capiva se fosse nervoso o solo
incuriosito dall'agglomerato di rumorosi coloni, ma si limitava a
sperare che nessuno dei presenti desiderasse attaccar briga con un
nativo. Fino a quel momento, Ratonhnhaké:ton aveva attirato
solo sguardi perplessi e qualche innocuo bisbiglio.
Un uomo si avvicinò al violinista. Cecilia lo riconobbe. Era
il signor Jenkinson, il locandiere. Un tondo ometto di
mezz'età con il doppio mento, una sorta di maialino
costretto in un panciotto color oliva, la cui fronte sudaticcia celava
una mente squisitamente pratica. Aveva accolto l'arrivo della loro
carrozza un'occhiata in tralice, ma udito il tintinnio di un borsellino
pieno, era immediatamente diventato cieco davanti alla pelle nera di
Achille e agli abiti di Ratonhnhaké:ton.
Jenkinson fece segno al violinista di fermarsi, quello
ubbidì e il vociare nella sala si quietò.
L'uomo annunciò ai presenti l'intenzione di renderli
partecipi della propria felicità: offriva a tutti un
bicchiere di sherry perché anche la sua ultima figlia stava
per sposarsi. Agitò il braccio verso il bancone, dove una
ragazza si bloccò con un vassoio vuoto tra le mani,
abbassò lo sguardo e sorrise pudicamente. Aveva un visetto
spigoloso ma non brutto e riccioli bruni che spuntavano da sotto la
cuffietta. Cecilia pensò che potesse avere al massimo un
paio di anni più di lei. Fu quindi il momento di presentare
il futuro marito. Tale William Dooley, un giovanotto dall'aspetto
pallido — Cecilia lo giudicò anonimo —
che, pur sorridendo, dava l'idea di volersene soltanto tornare a
giocare a dama con il suo compagno di tavolo.
Esplose un applauso di felicitazioni.
Cecilia non mosse un dito.
Da un angolo, un uomo — che aveva ingurgitato sufficiente
birra da assumere la stessa sfumatura di rosso della propria giacca
— picchiò il pugno sul tavolino. «I Fiori di Edimburgo!»
urlò.
«Suonate
I Fiori di Edimburgo
per i promessi sposi!» [2]
A un cenno del locandiere, una nuova musica riempì la sala.
Cecilia aveva appena perso l'interesse per qualsiasi tipo di concerto.
La sala, da calda e festosa, era diventata un chiassoso stanzone,
ammorbato dal fumo delle candele e dal lezzo di corpi umani.
«Vado a dormire anche io» sussurrò,
girandosi verso Ratonhnhaké:ton.
«Tu non finire in una rissa. Ma se ne scoppia una, chiamami.
Sono divertenti. Da guardare».
Lasciò il giovane nativo alla colonna e
attraversò svelta la sala.
Per raggiungere le scale, dovette passare accanto al tavolo al quale
sedeva l'uomo che aveva chiesto I Fiori di Edimburgo.
Cecilia non ne incrociò lo sguardo. Né lo vide
allungare il braccio.
Fu la stretta al gomito ad immobilizzarla.
«Vai di corsa, bamboletta?»
L'uomo non era né particolarmente brutto né
particolarmente vecchio, ma lo stomaco di Cecilia ebbe uno spasmo di
nausea davanti agli occhietti grigi, annebbiati dall'alcol, e al ghigno
divertito in cui si aprivano le labbra sottili, circondate da una
cortissima barba. Spostò lo sguardo sulla mano dell'uomo
— il dorso gonfio era di vene bluastre e le unghie orlate di
nero — e si impose di restare calma.
«Lasciatemi. Per favore.»
Ottenne solo un violento strattone.
«Perché non ti siedi un po' qui con me? O magari
vengo io su con te. E mi fai compagnia, eh? Posso pure pagarti,
sai?»
«Io non sono qui per la vostra compagnia, signore.»
«E non stare a fare tanto la preziosa!» L'uomo le
passò il braccio attorno alla vita, tentando di farla sedere
sulle sue gambe. «T'ho vista, sai? Sei qui col selvaggio.
Scommetto che — »
«Lasciala stare.»
Era Ratonhnhaké:ton. Era accanto al tavolo. Tono e postura
emanavano il genere di tesa rabbia che Cecilia gli aveva visto addosso
ogni volta che litigava con Achille.
«Che vuoi, pellerossa? Roba tua? Te la sei
comprata?»
Barcollando, l'ubriaco si alzò in piedi.
E Cecilia ne approfittò per sgusciare via.
Il violinista aveva di nuovo smesso di suonare e gli occhi di tutti
erano su di loro.
«Signori!» Jenkinson li raggiunse.
«Signori! C'è qualche problema?»
«Ce l'ha la tua dannata locanda un problema!»
sbraitò l'uomo. «Quello»
indicò Ratonhnhaké:ton, il quale sembrava
pericolosamente sul punto di balzargli al collo, «dovrebbe
stare nelle stalle! Non qui! Tra la gente civile! Dico bene?»
Alzò la voce, allargò le braccia,
cercò gli sguardi degli altri clienti.
Non ricevette sostegno.
Solo qualche colpetto di tosse e un calmo avvertimento da
parte del locandiere, che si era frapposto tra l'uomo e
Ratonhnhaké:ton.
«Signore, via... per favore, rimettetevi seduto.»
Cecilia convenne che una rapida ritirata avrebbe limitato i danni.
Strinse il braccio di Ratonhnhaké:ton e lo sospinse verso le
scale, sforzandosi di ignorare il crescendo di mormorii.
***
La camera era ghiacciata, ma nel caminetto la legna era pronta.
Cecilia, tolta la cuffietta, vi si accovacciò davanti,
dandosi da fare per accendere il fuoco con l'aiuto della candela di
sego che faceva più fumo che luce.
Ratonhnhaké:ton rimase vicino alla porta, scuro in volto.
Non avevano parlato.
E a Cecilia andava bene così, perché nell'attimo
in cui avevano messo piede in corridoio, il principio di nausea era
diventato un groppo alla gola. Le bruciava la fronte e le pizzicavano
gli occhi. Vide le prime fiammelle guizzare tra i ciocchi attraverso un
velo di lacrime. Le ignorò, ma fu la sua voce, un suono
umidiccio, a tradirla quando si rivolse a Ratonhnhaké:ton:
«Grazie per essere intervenuto, di sotto. Ma non ho bisogno
di una sentinella. Puoi andare da Achille, adesso».
Ratonhnhaké:ton spostò il peso da una gamba
all'altra. Le sopracciglia scattarono verso l'alto, le palpebre
sembrano aprirsi di più, il futuro Assassino parve cedere il
passo al quattordicenne che non sapeva come e se dissimulare sorpresa e
preoccupazione.
«Stai piangendo.»
Era un'affermazione. Non una domanda. Cecilia non rispose.
«Quell'uomo ti ha spaventata? Ti... ha fatto male... al
braccio?»
Cecilia strofinò le dita sulla fronte.
«Mi ha fatto arrabbiare.»
Mi ha fatto ricordare.
Spostò la mano dalla fronte al gomito e si accorse che,
proprio all'altezza dell'incavo del braccio, la manica era macchiata.
Dovevano averla sporcata la dita dell'ubriaco. Le macchie era scure,
simili a quelle lasciate dall'acqua, ma Cecilia temeva fosse birra. O
sudore. O il grasso di qualche pietanza.
Strofinò la stoffa, spingendo il palmo contro l'incavo del
gomito. E strofinò. E strofinò ancora, in un
movimento goffo e infantile. Non che si illudesse di riuscire a
pulirsi, solo non riusciva a smettere di spingere, di strofinare, di
accanirsi contro i segni lasciati dall'uomo.
Era nuovo, quel vestito. Cecilia l'aveva confezionato da sé.
Si stavano recando a Boston perché Achille si era deciso a
rimettere in senso la tenuta, ma per Cecilia il viaggio aveva un
diverso fine: mancavano tre settimane alla fine dell'inverno e il
vecchio Davenport le aveva detto di conoscere qualcuno che non avrebbe
avuto difficoltà a trovarle un posto come domestica in una
rispettabile famiglia di Boston. Cecilia, che smaniava di presentarsi
al suo meglio, ordinata e pulita, degna di fiducia, aveva provato un
ulteriore moto di gratitudine nei confronti di Achille quando lui le
aveva lasciato usare della stoffa — buon cotone, di un
delicato blu fiordaliso — dimenticata per anni in un baule.
In cambio, Achille aveva strappato una solenne promessa: mantenere il
più assoluto segreto riguardo a quanto era venuta a
conoscenza riguardo ad Assassini e Templari. Ratonhnhaké:ton
entrò nell'alone di luce.
«Ma che stai facendo?»
Cecilia lasciò cadere la mano in grembo e rivolse uno
sguardo vacuo alla camera: era una stanzetta dal soffitto basso e
spiovente. Le pareti era coperte di pannelli di legno scuro e la neve
oscurava quasi completamente l'abbaino. I tre materassi erano troppo
sottili per lasciar sperare che fossero comodi, ma Cecilia si reputava
fortunata: non doveva condividere né la stanza né
il letto con delle sconosciute — sebbene vi fosse sempre la
possibilità che arrivassero altri clienti, anche nel cuore
di una gelida notte di neve.
Cecilia raccolse dal candela e si alzò in piedi, dando le
spalle a Ratonhnhaké:ton.
«Ho detto una bugia.» La confessione cadde breve e
asciutta, un suono non dissimile dal toc della candela sopra la mensola
del caminetto. «Ho mentito ad Achielle. E a te. Ma mi
vergognavo così tanto. Mi vergogno ancora».
Il silenzio fu riempito dalla confusione del pian terreno. Musica e
voci salivano dal basso, ovattati dalle assi di legno, mentre le fiamme
mandavano un suono cupo e costante, simile alle fusa di un gatto.
«Non ho lasciato i Bardsley di mia spontanea
volontà. Sono stata cacciata via.» Cecilia fissava
la fiamma della candela senza battere le ciglia, incurante del bruciore
agli occhi. «Negli ultimi tempi, ogni volta che mi capitava
di restare da sola con Bardsley, lui mi parlava in un modo che...
insomma, non erano esattamente le parole di un gentiluomo, le sue.
All'inizio, si limitò a qualche allusione. Se la rideva.
Diceva che dovevo sorridere, se lui mi faceva dei complimenti.
Così li chiamava. Complimenti. Poi... divenne più
esplicito. Mi trattava come... come quell'ubriaco al piano di
sotto.» Per ogni parola pronunciata a fatica, per ogni
ricordo riportato in superficie, la rabbia spingeva sotto lo sterno
mutando in un dolore era fisico, palpabile. «Rebecca,
naturalmente, non tardò a capirlo.»
***
Gloucester. Sei mesi
prima.
Cecilia
era seduta in cucina, accanto alla finestra, china sul lavoro:
riattaccare i bottoni a una delle marsine di Bardsley. Fuori, l'estate
resisteva nel tepore gentile del sole e nel verde del prato che
circondava la casa, ma nell'animo di Cecilia regnava la malinconia di
un'uggiosa serata invernale. In uno stato di angoscia e di stanchezza,
come dopo un pianto sfibrante, si trascinava da un giorno al successivo
e da una faccenda domestica all'altra.
Eppure, il lusso di versare lacrime se l'era permesso una sola volta:
alla notizia della morte dello zio Patrick.
«Cecilia!»
Rebecca Bardsley comparve sulla soglia della cucina, con il fazzoletto
di seta bianca appuntato sul petto del lucido abito nero. Una riccia
ciocca era fuggita alla corona di boccoli biondi e le ricadeva a lato
del viso ovale. Rebecca era una donna di quasi trent'anni —
quindici in meno del marito — alta e sottile come un giunco,
ma la sua magrezza era compensata dall'eleganza del portamento e
dall'armonia dei lineamenti. Tuttavia, da quando Carter era morto, la
piccola bocca si era fatta livida e gli occhi azzurri, sovrastati
dall'arco sottile delle chiarisse sopracciglia, erano diventati lo
specchio di una mente in prede all'inquietudine perenne.
La signora Bardsley passava la maggior parte del tempo chiusa in camera
da letto. Diceva che l'emicrania non le concedeva tregua. Un dottore,
fatto arrivare da Gloucester, aveva dichiarato che il male della
signora era di natura emotiva. L'avrebbero guarita il riposo e il
silenzio.
Le conseguenze di una simile diagnosi erano cadute sulle spalle di
Cecilia.
Se prima ogni zuppa troppo poco saporita e ogni piega mal stirata
rappresentavano la prova della svogliatezza e dell'ingratitudine di
Cecilia, adesso l'acqua per il bagno non abbastanza calda era un
dispetto e un uovo non bollito bene una cattiveria fatta di proposito.
Rebecca Bardsley sembrava sinceramente convinta che Cecilia vivesse e
respirasse solo per logorarle i nervi e, per espiare tale colpa,
Cecilia aveva dovuto sopportare più ceffoni e rimproveri in
quegli ultimi sette mesi che in quattordici anni di vita.
Rebecca veleggiò verso di lei, in un fruscio di gonna e
sottogonna.
Cecilia, riconosciuto il nervosismo sul volto cereo della donna,
incassò impercettibilmente il capo nelle spalle e
giudicò opportuno riportare lo sguardo su ago e filo.
«Perché le porte della stalla sono
aperte?» la interrogò Rebecca.
«Dov'è il signor Bardsley?»
«Ha preso il cavallo per andare in città. Doveva
incontrare qualcuno al porto. Hockins, credo abbia detto.»
Rebecca non disse nulla.
«Come... come va oggi il vostro mal di testa,
signora?» azzardò Cecilia, incapace di sopportare
il silenzio pesante e lo sguardo torvo.
«Smettila.»
L'ordine risuonò nell'aria come lo schiocco di una frusta.
Cecilia, non sapendo dove avesse sbagliato, tornò ad alzare
lo sguardo ma non osò fiatare.
«Smettila» ripeté Rebecca.
«Smettila di fingerti
gentile. Io
lo so che cosa vuoi. Credi che non ti abbia vista? Credi che io sia
stupida, sorda e cieca?» Mosse un passo in avanti,
sovrastando Cecilia e le sue parole si trasformarono in un sibilo
furente. «Dopo che ti abbiamo persino permesso di restare in
questa casa, ci ripaghi
così?»
«Signora, io non so di—»
Il braccio di Rebecca scattò in avanti e e le dita si
chiusero tra i capelli di Cecilia.
«Sgualdrina!»
soffiò. Costrinse la ragazza ad alzarsi e la marsina
scivolò sul pavimento di terracotta. «Una sporca
sgualdrina, ecco cosa sei! Ma non illuderti che dopo tutto quello che
ho fatto per sollevarmi dalla miseria, io sia disposta a farmi rovinare
da una piccola vipera avida di denaro!» Uno spintone
mandò Cecilia a sbattere contro il spalliera della sedia,
libera dalla presa. «Vattene! Vattene da questa casa!
Adesso!»
«Ma io non ho fatto nien—»
La protesta di Cecilia, sull'orlo delle lacrime, venne azzittita dalla
mano di Rebecca che calava sulla sua guancia.
«Ancora adesso hai il coraggio di negare? Tu... con la tua
faccia da ranocchia... neghi di aver tentato... di tentare
continuamente di sedurre mio marito per diventare la padrona di questa
casa?»
Cecilia, la mano sulla guancia dolorante e il cuore che pulsava in
gola, credette di essere sul punto di esplodere. Avrebbe voluto urlare,
insultare, piantare le unghie negli occhi della signora Bardsley. La
frenò solo un ricordo: il ricordo di Charlotte, che era
solita raccomndarle: «Quando vuoi che la gente ti ascolti,
Cecilia, non alzare la voce. Piuttosto, usa le parole giuste e
pronunciale forti e chiare.»
Davanti alla furia di Rebecca Bardsley, Cecilia raddrizzò la
schiena e ricacciò indietro le lacrime.
«Io non ho mai tentato sedurre vostro marito, signora. E non
credo che voi siate stupida. Al contrario, sono sicura che sappiate
benissimo come stanno le cose. Ma è più semplice
dare la colpa a me piuttosto che affrontare il signor Bardsley e
ricordargli il suo giuramento. Lui ha giurato... e ha giurato davanti a
Dio... di esservi fedele.»
***
«A quel punto, Rebecca prese le forbici dal cesto del cucito
e disse che se fossi sparita subito da Gloucester me le avrebbe
conficcate in gola. Il genere di argomento che non lascia spazio a
discussioni. In un certo senso, suppongo di doverle essere
riconoscente. Almeno mi ha allontanata da Bardsley.»
Cecilia sedeva sul bordo del letto, con le mani in grembo e l'animo
appena più leggero.
Ratonhnhaké:ton aveva preso posto sul letto di fronte.
Schiena curvata in avanti e gli avambracci sulle cosce, manteneva lo
sguardo incollato alla figura di Cecilia.
Gli occhi di lei invece, ora asciutti quanto la voce, restavano fissi
sul pavimento.
«No. Tutto questo è...» Nella
voce di Ratonhnhaké:ton si percepiva il sincero sforzo di
cercare la parola adatta. «Ingiusto. E nessuno dovrebbe
essere costretto a lasciare la propria casa.»
«Già. Comincio a capire perché tu e la
tua gente ci odiate.»
«Io non odio te.»
«Perché abbiamo entrambi sangue
inglese?» buttò lì Cecilia,
distrattamente.
«Perché tu non hai fatto niente di male»
ribatté Ratonhnhaké:ton, imperturbabile.
«Però, non capisco. Hai detto di vergognarti.
Perché vergogna? Quella parola... nella tua lingua... non
significa forse essere turbati per aver commesso un'azione...
cattiva... sbagliata.»
«Per la mia gente, come dici tu... essere una sgualdrina
è il marchio peggiore con il quale si può
infamare una donna. E se una donna sposata accusa una che non lo
è di sedurle il marito, nessuno crederà alla
seconda.»
«Io ti credo.»
Cecilia alzò lo sguardo su Ratonhnhaké:ton,
premendo le labbra in un sorriso dolce e mesto.
«Tu vedi tutto... in modo diverso»
sospirò. «Posso confidarti un'altra
cosa?»
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia e fece cenno di
sì con il capo.
Cecilia si sporse in avanti: «So che può sembrare
l'idea di un pazzo ma... io non riesco a togliermi dalla testa il
sospetto che mio zio sia stato ucciso. Bardsley disse che i cavalli si
imbizzarrirono, ma chi può confermarlo? Non c'era nessuno
con loro. E se l'avesse colpito lui alle testa con una pietra? Se lo
avesse ucciso perché sapeva che sarebbe stato lui a
ereditare i soldi dello zio? E poi, la storia del testamento. Io credo
che l'abbiamo fatto sparire il testamento!»
«Quindi c'era un testamento? Tu lo hai visto?»
«Ehm... no. Non l'ho visto. Lo zio non parlava mai con me del
suo lavoro. O di denaro. O di documenti. Ma era un avvocato e un uomo
timorato di Dio. Una persona come lui... insomma, sono sicura che
tenesse già un testamento. Da qualche parte.»
«Hai mai parlato di queste cose con qualcuno?»
«Nessuno mi ascolterebbe.»
«Perché no?»
«Perché sono una donna. E perché non ho
delle vere prove.»
«Dovresti farlo lo stesso. Quella è la tua casa. E
se davvero tuo zio fosse stato ucciso, come puoi non volere giustizia
per lui?»
Cecilia si alzò e le assi del letto si prodigarono uno
scricchiolio.
«Ma certo che la vorrei» sbottò.
Voltandosi verso il camino, premette una mano contro il corpetto. Il
cruccio sulla sua fronte poteva essere tanto di frustrazione per la
propria situazione quanto di improvviso fastidio per
l'ingenuità di Ratonhnhaké:ton. «E
vorrei tornare a casa. E vorrei poter aver i soldi che mi spettano e
non essere costretta a vivere contando solo sulla generosità
degli altri, come una mendicante. Ma sarei una stupida se credessi di
poter ottenere quello che desidero quando là fuori
c'è un mondo intero pronto a ignorarmi.»
«Le tue parole... sono come quelle di Achille»
disse Ratonhnhaké:ton.
Cecilia continuò a guardare ostinatamente il fuoco e dal suo
silenzio il ragazzo dovette intuire fosse giunto il momento di
lasciarla riposare.
Lei sentì i passi e il lieve aprirsi e richiudersi della
porta. E poi, rimasta sola, sentì qualcosa che somigliava al
rimorso.
NOTE
STORICHE
[1] Nel 1630 John Winthrop, a bordo della Arabella (o Arbella)
guidò in America il gruppo di puritani che in seguito fondarono
la città di Boston.
[2] Una ballata per violino, di tradizione irlandese e scozzese, composta attorno al 1740.
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Capitolo 6 *** Attesa ***
THE CORNFLOWER CAP 6
VI
Attesa
Tenuta
Davenport. 16 marzo 1770
La
scatola venne chiusa con risoluta delicatezza e la mano di
Achille, segnata dalla ragnatela di rughe, accarezzò con
una lentezza pregna di rimpianto il
simbolo della confraternita, inciso sul legno rossastro.
«Hai intenzione di startene lì a guardarmi in
cagnesco ancora per molto?» chiese alla figuretta impettita,
ferma alla fine della scala che conduceva laggiù, nelle
stanze sotterranee della magione.
«Ma come fate a essere così tranquillo?»
soffiò Cecilia. «Così
indifferente?»
Con estrema calma, Achille recuperò il capello dal tavolo,
se lo sistemò sul capo. Senza voltarsi, disse:
«Abbi fiducia nel ragazzo.»
«Ma sono passati più di dieci giorni!»
Achille portò entrambe le mani al pomo del bastone.
«Tornerà.»
«Non potete saperlo!»
«Se vuoi assicurartene di persona, sella un cavallo e corri a
Boston.»
«Non... non crediate che non sia capace di farlo!»
«Buon per te. Non potrà essere meno utile del
continuare a vagare per la casa come un'anima in pena.»
Cecilia premette le labbra l'una contro l'altra fino a sentire i denti
piantarsi nella carne. Poi, cedette una volta per tutta. «Oh.
Avete ragione!» esclamò, la voce spezzata da un
sibilo sarcastico. «Che sciocchezza, da parte mia,
preoccuparmi! Poiché la mia vita è piena di
persone amiche, non alcun senso star in pena all'idea che una di loro
possa essere stata arrestata. Per un crimine che non ha commesso. E
magari impiccata. E gettata in una fos—»
«Proprio quello di cui sentivo il bisogno, alla mia
età» la interruppe Achille. «Una
ragazzina incline al dramma.»
«Ma che razza di maestro è quello che volta le
spalle al proprio allievo?»
«Nel caso ti fosse sfuggito il particolare, bambina, io non
sono un maestro di ballo. Se Connor desidera andare fino a fondo alla
strada che ha scelto, dovrà imparare a sopravvivere. E
imparerà molto, da questa esperienza.»
Parlando, Achille aveva sollevato il viso e sembrava ora guardare i
quadri appesi alla parete, sopra il tavolo.
Cecilia lo imitò.
Era scesa nella sala tante di quelle di volte da aver inconsciamente
imparato a memoria i volti dei Templari, i loro nomi, il loro posto
nell'Ordine. Ma solo dopo Boston aveva preso coscienza della loro
pericolosa tangibilità. I Templari non erano gli ammonimenti
del vecchio Davenport. Non erano quelle eleganti effigi. Erano uomini
in carne e ossa, che pensavo, ordivano e agivano.
Cecilia distolse lo sguardo dal ritratto del Gran Maestro e lo
fissò su Achille. «Non si chiama Connor. Il suo
nome è Ratonhnhaké:ton»
sentenziò, brusca, non sapendo come altro sfogarsi.
Girò i tacchi e risalì su per le scale. In un
attimo, fu all'ingresso. Uscì, richiudendo la porta alle sua
spalle, ma non andò oltre il portico: non aveva una reale
idea di cosa fare, dove andare. Se ne rimase lì, in piedi,
le braccia lungo in busto e un broncio sulla bocca. Il sole di marzo
non poteva nulla contro la coltre di neve che ammantava la collina, ma
il freddo era l'ultimo dei pensieri di Cecilia. Scivolò a
sedere sul gradino di pietra e incrociò gli avambracci,
pallidi e scoperti, sopra le ginocchia. Nel silenzio innevato, il cupo
ronzio del vento riempiva l'aria e le orecchie di Cecilia. Avrei dovuto fare qualcosa.
Dovrei fare qualcosa, si spronò. L'incitamento
venne azzittito dalla caustica e incontestabile voce del raziocinio: ma che cosa vuoi fare tu, che a
mala pena sai sostenere te stessa e non sei stata nemmeno capace di
tenere testa a una donnicciola malata? In fondo, lo diceva
sempre lo zio Patrick: «Guarda la fortuna della tua
condizione, Cecilia. L'unica virtù che ti si chiede di
coltivare è l'obbedienza. Nessuno pretenderà
altro da te». Ma il pensiero non le diede alcun conforto e
venne soffocato dai ricordi più recenti.
***
Boston. 5 marzo 1770
Il sole era già basso sopra i tetti innevati,
mentre Ratonhnhaké:ton — munito di nuovo nome e
incoraggiato dal bastone di Achille piantato contro le costole
— imboccava la strada affollata.
Cecilia lo guardò allontanarsi.
Durante il viaggio in carrozza, tra balzi e scossoni, era stata lei,
lasciato il cattivo umore all'Arabella Inn, a rompere il silenzio:
«Potresti venire a farmi visita, ogni tanto» aveva
detto. «A Boston, intendo. E con visita intendo a nasconderti
dai Templari.»
Ratonhnhaké:ton, fino a quel momento intento a guardar
fuori, aveva voltato lentamente il capo verso Cecilia. Come al solito,
l'ironia gli era passata davanti al naso ed era balzata oltre la sua
testa, per gettarsi dal finestrino e perdersi nel nevischio.
Cecilia aveva preso a rimirarsi le mani. «Ma puoi anche
passare per una visita...» Scelse con attenzione la parola
giusta: «Amichevole.»
«Cercherò di ricordarlo» aveva riposto
il ragazzo, serio ma non scostante.
Cecilia gli aveva sorriso. Lui era tornato a guardare fuori.
Achille picchiettò il bastone sul braccio di Cecilia.
«Tu vieni con me, invece. Da questa parte.»
Imboccarono una via che sembrava salire verso il nord della
città, chiassosamente viva anche in quel rigido pomeriggio.
Boston era un alveare umano in cui serpeggiavano mal contento e
frustrazione. In ogni crocicchio e in ogni angolo di strada, qualcuno
sparlava del Re e imprecava contro i Ministri e il Parlamento, mentre
dall'altra parte dell'oceano l'Inghilterra emanava atti, aumentava le
tasse e riversava nelle colonie truppe di soldati. «Quelle
dannate aragoste!» sentì gridare Cecilia, davanti
a una stamperia. E, appena pochi metri più avanti,
incrociarono un primo drappello di soldati: marciavano al ritmo di un
tamburello, con i tricorni calcati in testa, i moschetti in spalla e lo
scricchiolio della neve, che copriva il selciato, sotto gli stivali
neri.
La meta di Achille si rivelò una taverna: un massiccio
edificio a due piani fatto di mattoni marroni. Non si distingueva
particolarmente dalle altre costruzioni di Boston, ma dal frontone
triangolare sopra la porta, si affacciava una strana insegna in ferro
battuto: la sagoma di un flessuoso drago con le ali spiegate.
All'interno, la taverna era semideserta: c'erano delle botti
accatastate in un angolo, un fuoco nel camino e un uomo e una donna
intenti a parlottareaccanto al bancone.
Si interruppero subito e Cecilia capì dai loro sorrisi e
dalle loro parole di bentornato che entrambi conoscevano il vecchio
Davenport.
La donna — una matrona di mezz'età, dal viso
bruttino ma l'espressione allegra — gestiva la taverna,
mentre l'uomo le venne presentato come Samuel Adams. Il cognome accese
in Cecilia un campanello di familiarità, ma non disse nulla.
Si limitò a un sorriso e a una svelta riverenza, mentre ne
studiava l'aspetto di sottecchi. Adams indossava una linda marsina blu
e calze bianche, ma non aveva l'aria di un gentry. [1] Non era
né bello né giovane, sebbene a prima vista i
capelli scuri, raccolti in un codino, non portassero traccia di fili
bianchi. I suoi modi avevano un qualcosa di schietto e insieme educato
che spinse Cecilia a sospettare di avere davanti qualcuno abituato a
convincere il mondo delle proprie idee a suon di chiacchiere. Sarebbe
stato lui ad affidarla a una buona famiglia, le dissero.
«Ma di questo parleremo più
tardi» concluse il signor Adams e Achille
incoraggiò Cecilia a una passeggiata nei paraggi.
Lei, consapevole del sottinteso invito a levarsi di mezzo,
perché i due uomini dovevano discutere in privato,
ubbidì non senza chiedersi quale fosse il legame tra
quell'Adams e il vecchio Achille: che
sia anche lui coinvolto nelle faccende degli Assassini?
Mentre sulla città calava un fumoso grigiore, nel quale il
nevischio si agitava senza sosta, Cecilia passeggiò in su e
in giù per la Green Dragon Lane. La strada, di per
sé, le offrì uno spettacolo non dissimile da
qualsiasi strada di Gloucester. Chi a piedi, chi a cavallo, la gente
andava per i fatti propri. Passarono un paio di carrette, altri
soldati, una banda di ragazzini schiamazzanti. I commercianti non
avevano ancora ritirato la merce dai banchi e nelle botteghe si
continuava a lavorare. Cecilia gironzolò con insistenza
davanti alla vetrina di una modisteria. Confrontò i suoi
guanti senza dita, ricavati da una rozza lana marrone, con quelli
dietro al vetro: eleganti, di cotone bianco, guarniti di merletto.
Alla fine, scrollò le spalle, chinò il capo e se ne
tornò verso taverna. Camminava contemplando l'orlo inzuppato
della gonna, quando un uomo le passò accanto di corsa. Lei
lo seguì con lo sguardo e lo vide avvicinarsi, agitato, a un
gruppetto di altri uomini seduti su di una panchina. Tutto quello che
riuscì a carpire delle sue parole fu: radunando e King Street.
L'agitazione parve contagiare l'intero gruppo. Gli uomini si alzarono e
sparirono oltre l'angolo della strada.
Cecilia, nel contempo, aveva raggiunto l'ingresso della taverna. La
porta si aprì in quello stesso momento. Ne uscirono Achille
e il signor Adams.
«Ah, eccoti qua. Bene» disse il vecchio.
«Va dentro. E restaci. Manderò Connor a
prenderti.»
«Perché? Dove andate?»
«Va dentro» ripeté Achille.
«E se avessi bisogno di qualcosa, chiedi alla signorina Kerr,
la locandiera» aggiunse Adams. «Le ho chiesto di
tenerti d'occhio.»
***
Tolta la mantella e sfilati i guanti, Cecilia sedette a un tavolo
vicino alla finestra, tentando come meglio poté di non pensare a
sé stessa come a un dispaccio di cui nessuno aveva voglia e
tempo di occuparsi. Passarono i minuti. Cecilia tracciò
arabeschi invisibili sul tavolo con la punta dell'indice, si
soffiò via dalla bocca una ciocca di capelli,
guardò fuori: le sembrava che il via vai, in
strada, fosse aumentato.
Alla fine, la signorina Kerr si affacciò dalla stanza dietro al bancone, strofinando le mani nel grembiule.
«Ti porto qualcosa, bambina? Offre la casa.»
Cecilia
chiese del sidro di mela e poco dopo la locandiera le mise il boccole sotto il naso.
«Dì un po', è
la prima volta che vieni a Boston?» domandò la
donna.
Cecilia disse di no. C'era
già stata, una volta, da piccola. Aveva sei anni, o poco
più.
«La trovi cambiata?»
«Non
saprei» ammise Cecilia. «Da piccoli, tutto sembra
diverso. Però, la puzza nelle strade mi pare la
stessa.»
La signorina Kerr ridacchiò e Cecilia evitò di specificare la serietà della propria affermazione.
La risata della locandiera sfumò in un debole
cipiglio di perplessità: giungeva dall'esterno, distinto
seppur lontano, un feroce scampanio.
«C'è una
chiesa, qui vicino?» domandò Cecilia,
distrattamente. Osservò la signorina Kerr piantasi le mani
sui fianchi e avvicinarsi alla finestra.
«No... queste non
sono le campane di una funzione.»
In capo a quello che le
sembrò un quarto d'ora, Cecilia scoprì che la
locandiera aveva intuito giusto.
Mentre fuori calava il buio e la
signorina Kerr accendeva le candele nella sala, si erano
riversati nella locanda una ventina di persone: molti uomini, qualche
donna, chi infuriato e chi incredulo, avevano tutti sulla bocca lo
stesso argomento. Cogliendo frasi qui e là, senza muoversi
dal tavolo, Cecilia riuscì a capire che qualcosa di grosso
era successo dalle parti della State House. [2]
«Le giubbe rosse ci hanno aperto il fuoco contro! L'ho
sentito io, quel dannato di Montgomery! Ha gridato 'fuoco'!»
«Ho visto che lo portavano via... un ragazzino... pallido
come già morto.»
«Il povero Maverick!»
«Non ha che diciassette anni!»
«Ma dicono
che sia stato uno della folla a sparare per primo...»
«Ho sentito dire che se ne stava appostato su un
tetto...»
«Al diavolo gli inglesi, ecco cosa dico io!»
A Cecilia era rimasto tra le mani un filo tirato via dai guanti.
Adesso, continuava ad arrotolarselo attorno le dita, mentre il suo
sguardo
saltava da uno all'altro degli avventori e sempre più spesso
finiva sulla porta della taverna. Aspettava di vederla aprirsi.
Aspettava di veder comparire Ratonhnhaké:ton sull'uscio.
Oppure Achille. O il signor Adams. Qualcuno, insomma.
Allentò il filo — il polpastrello stava diventando
bianco — e rivolse di nuovo gli occhi alla finestra: i lampionai
aveva acceso le luci e un campanello di persone si era riunito sotto un
portico, dall'altra parte della strada; un uomo, in piedi su di una
cassa, sbracciava mentre si rivolgeva alla piccola folla.
Poiché non vide la signorina Kerr
da nessuna parte, Cecilia , rapida ma composta, indossò
i guanti, allacciò la mantella e uscì dalla
taverna.
Attraversò di corsa la strada e sgusciò
tra le persone, fino a guadagnarsi un posto in prima fila, pur
restandosene all'estremità del gruppetto.
«Ripeto!» disse il banditore, scandendo la parola
con una voce piena. «C'è un criminale che cammina
per le strade di Boston. È un ricercato, in relazione al
massacro davanti alla State House. Si sospetta che sia un uomo di
origini native».
Il cuore di Cecilia fece una capriola.
«Tutti i cittadini sono invitati ad avvisare le guardie nel
caso dovessero avvistarlo» continuò il banditore.
«Dieci sterline a chiunque consegnarà questo pazzo
pericoloso alla giustizia». La gente mormorava commenti e
poneva domande. E Cecilia cercava di non allarmarsi. Con scarso
successo. Ci saranno altri nativi in città. E poi,
nella taverna parlavano di spari. Lui non l'ha nemmeno una pistola. Ah,
ma potrebbe sempre averne rubata una. Sì, ma
perché mai—
«Cecilia».
La ragazza si voltò con uno scatto.
Era Achille. Ed era solo.
NOTE
STORICHE
[1] Nell'America Coloniale i gentry erano in cima alla scala sociale.
Potevano essere grandi proprietari terrieri, mercanti molto ricchi o
finanzieri. Occupavano posti come magistrati locali, figure di chiesa e
consiglieri comunali. Subito sotto c'erano i middling: la classe media,
impegnata nel commercio (fabbri, oreficerie, la stampa, etc.) o in
professioni 'libere', come gli avvocati, i medici o commercianti
proprietari dei loro stessi negozi. Prima della morte dello zio, che
era un avvocato, Cecilia rientrava in questa classe sociale. Dopo la
classe media, c'erano gli agricoltori che possedevano fattorie
più o meno grandi; poi i neri liberi, che non godevano degli
stessi diritti dei bianchi, ma potevano comunque essere proprietari di
case e terreni; e infine gli schiavi.
[2] Il 5 marzo 1770 è passato alla storia come il massacro
di Boston. Davanti alla Old State House si riunì una folla in
protesta, alcuni soldati inglesi fecero fuoco e uccisero cinque
civili. Tre sul posto, mentre altri due morirono poco dopo. Uno
di questi ultimi, si chiamava Samuel Maverick e aveva appunto
diciassette anni: colpito da un proiettile di rimbalzo, morì
dopo qualche ora. Le
reazioni all'incidente contribuirono ad accendere la scintilla della
ribellione in varie colonie britanniche in America. Tra
i soldati, Hugh Montgomery che ammise con uno dei suoi
avvocati di aver gridato: "Dannazione a te, fuoco!" perché fu
colpito con una mazza e gettato a terra da uno dei civili. Nel
videogioco, l'ordine viene dato dopo che Charles Lee spara un colpo in
aria dal tetto di un edificio vicino alla Old State House.
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Capitolo 7 *** Veglia notturna ***
THE CORNFLOWER CAP 7
VII
Veglia notturna
Tenuta Davenport. 19 marzo 1770
Cecilia
si era assopita. Uscì dal torpore, sbattendo piano le palpebre.
Intorno a lei, i mobili affiorarono poco a poco dalla penombra: sagome
basse, nere, addossate alle pareti spoglie della camera da letto. La
ragazza spostò una mano sul bracciolo e si alzò in piedi,
abbandonandosi a un muto sbadiglio. Non avrebbe saputo dire per quanto
tempo fosse rimasta davanti al caminetto, con le gambe piegate sulla
sedia, ma dal formicolio ai piedi intuì che la veglia notturna
si era protratta più del previsto. Il rumore dei suoi passi
leggeri intaccò il silenzio, mentre raggiungeva il letto,
coronato dai drappi del baldacchino, per fermarsi a lato del grande
materasso.
Ratonhnhaké:ton dormiva con il capo affondato nel cuscino e le
lenzuola tirate fino al petto, che si alzava e si abbassava, seguendo
il respiro pesante e regolare. Sul mobile vicino, un mozzicone di
candela si consumava accanto a una brocca d'acqua, a un bicchiere di
peltro e a una ciotola di legno, dalla quale pendeva una pezza
inumidita.
«E ti stupisci che abbia la febbre?» aveva commentato
Achille, placidamente, quella mattina. «Ma salvare quel
tagliaboschi è stato coraggioso. Questo te lo concedo». E
aveva spedito l'allievo in camera da letto, a riposare, e Cecilia in
cucina, a bollire corteccia di betulla sbriciolata.
Incapace di soffocare la scintilla di contentezza accesa dal ritorno
del nativo, Cecilia aveva trascurato i lavori domestici pur di passare
con il giovane nativo molto più tempo del necessario. Il pudore,
però, le imponeva di dissimulare e il mattino precedente, quando
Ratonhnhaké:ton — sano, salvo e incollerito — si era
ripresentato alla tenuta, lei gli aveva comunicato il sollievo e il
piacere di rivederlo con un atteggiamento tanto compito quanto goffo.
Adesso, illanguidita dalla stanchezza, la ragazza sedette sul bordo del
letto e per una volta, non vista, fu lei a concedersi di fissare. Le
sembrava che neppure il sonno riuscisse ad addolcire l'espressione
seria sul viso del nativo. Al soffuso chiarore della candela, ne
contemplò i dettagli: le minuscole macchie sugli zigomi
sporgenti e sul naso aquilino, le ciglia corte e nerissime, il disegno
pieno delle labbra, la rotondità ancora infantile del mento
liscio. L'attenzione scivolò sui solchi di ombre tra i muscoli
del collo, e poi sul triangolo di petto, che spariva oltre i bordi
della grezza camicia bianca. Osservò le mani: la destra
abbandonata sopra lo stomaco, la sinistra lungo il fianco. Lì
non c'era più nulla di infantile. Non erano le mani di un
ragazzino. Erano le mani di un uomo, incallite dalla corda dell'arco,
spellate dal freddo, graffiate dalle cortecce e dalle pietre.
Cecilia coprì la mano sinistra del ragazzo con la propria.
Lasciò scivolare le dita sotto al palmo e accarezzò il
dorso con il pollice, seguendo la linea delle ossa, che spingevano
contro la carne. Si era sempre rammaricata di non possedere mani
affusolate e dita sottili, ma accanto a quelle di
Ratonhnhaké:ton, le proprie mani rivelavano il loro un aspetto
munito, pallido e gracile. Troppo gracile, notò. Quanto sarebbe stato facile per lui farle del male. Ma tu non lo faresti mai, dovette rassicurarsi. Vero? Né a me né a nessun altro come me. Tu non sei... crudele.
Crudeltà. Era naturale accostare tale parola ai nativi. Cecilia
li ricordava bene i sermoni del reverendo Callthorpe: gli indigeni
erano pagani, selvaggi e avversi ai modi degli industriosi inglesi, si
macchiavano del peccato della pigrizia e indulgevano nel vizio
dell'alcol. Nelle malattie che li stavano decimando — asseriva il
reverendo, dall'alto del pulpito — c'era l'imperscrutabile ma
giusta volontà di Dio. Così come la presenza dei
cristiani nel Nuovo Mondo era nei piani della Provvidenza. Era diritto
e dovere di ogni cristiano prendere quei territori poiché Dio,
nel momento della Creazione, aveva ordinato all'uomo e alla donna di
riempire la terra; soggiogarla, dominare sui pesci del mare e sugli
uccelli del cielo e su ogni essere vivente. Gli indigeni, invece,
trasgredivano all'ordine divino e vivevano della terra non diversamente dalle bestie.
Non appena la mente di Cecilia aveva iniziato a emergere dalla
distratta apatia dell'infanzia, non appena era stata in grado di
assistere alle funzioni del reverendo Callthorpe senza appisolarsi con
la testolina sul braccio di Charlotte, si era chiesta se non fosse
stata una scemenza, da parte di Dio, prendersi la briga di creare tutta
quella gente per poi sterminarla. Però, se gli adulti attorno a
lei, seduti seri e composti sulle panche, erano d'accordo con l'uomo
con le facciole bianche, allora probabilmente era lei a non capirci
molto.
Ma c'erano voci che le erano rimaste molto più impresse dei
forbiti discorsi del reverendo Callthorpe: le voci della gente.
Parlavano di scalpi, di crani fracassati, di prigionieri di guerra arsi
vivi. Dicevano che offendere un indigeno equivaleva a una condanna a
morte. Si sarebbero vendicati sulla pelle del primo bianco che fossero
riusciti a catturare, uomo, donna o bambino. Non conoscevano la
pietà e il perdono. Una volta, al porto di Gloucester, aveva
sentito un marinaio raccontare che giù nel sud, nella Florida
degli spagnoli, c'era una tribù che mangiava i prigionieri.
Aveva otto anni Cecilia, allora, e il racconto l'aveva impressionata a
tal punto da spingerla chiedere a Charlotte se la storia fosse vera.
«Tutte frottole» aveva dichiarato Charlotte, ricordandole
di non prestare mai fede alle chiacchiere della gente di mare.
Cecilia accarezzò di nuovo la mano di Ratonhnhaké:ton.
Lo vide corrugare le sopracciglia in una smorfia di fastidio — o di sofferenza.
Ritrasse subito il braccio.
Lui schiuse le labbra, voltò il capo verso la candela e
parlò, con una voce più debole dello sfrigolio morente
del fuoco nel caminetto. Mormorò qualcosa nelle propria lingua.
Parole che Cecilia non poteva comprendere. Quel che capì,
invece, fu che Ratonhnhaké:ton non si stava svegliando. Dormiva
e sognava. E forse la febbre insidiava i suoi sogni.
Rassicurata, Cecilia avvicinò la mano alla fronte del ragazzo.
Infilò le dita tra le ciocche pesanti, scure e lisce come le
penne di un corvo, e qualcosa le fluttuò nel petto, tra il cuore
e la gola, lieve come un piuma e tiepido come un mattino estivo.
Sfiorò la treccia sottile e accostò il dorso delle dita
alla guancia: la pelle era meno calda, la febbre si stava abbassando.
Chissà cosa sogna, si chiese.
Si rese conto di quante cose non conosceva di Ratonhnhaké:ton.
Sapeva che, nove anni prima, la madre era morta nell'incendio che aveva
devastato il villaggio, ma ignorava quali ricordi lui conservasse della
donna. Ne ricordava il volto o il sorriso? Il modo di incedere o quello
di parlare? Ricordava come si ci sentiva ad essere piccoli e stretti
tra le braccia materne? Li abbracciavano gli indigeni, i propri figli?
Lo aveva sentito affermare di essere pronto ad uccidere tutti i
Templari, da quel Charles Lee responsabile dell'incendio fino al suo
stesso padre — un padre con il quale condivideva solo il sangue.
Ora Cecilia si domandava se il cuore del ragazzo fosse davvero
irremovibile come le parole. Possibile che non avesse mai paura? Che
non conoscesse il dubbio? Che non si sentisse schiacciato dai suoi
obbiettivi? Proteggere la sua gente. Seguire un Credo di cui era il
solo adepto. Abbattere un'organizzazione radicata nelle Colonie come
una pianta infestante. Quella notte, prima di spegnere la candela e
lasciare la camera, Cecilia promise a sé stessa che, fin quando
fosse rimasta alla tenuta, avrebbe tentato di capire cosa si agitava in
quello stoico e strano ragazzo.
NOTE
STORICHE
In merito alla percezione delle popolazioni indigene ci tengo a
specificare che non ho inventato né esagerato nulla. Le
informazioni provengono da resoconti di esploratori e da libelli
scritti da uomini di chiesa, datati tra il 1700 e il 1750 circa.
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Capitolo 8 *** L'Aquila e il lupo ***
THE CORNFLOWER CAP 8
VIII
L'Aquila e il lupo
Tenuta
Davenport. 3o marzo 1770
Trascinato
fuori dall'acqua, il relitto ricordava il torace di una gigantesca
bestia marina, con una parte delle enormi costole di legno marcio
esposte alla vista. Ma la prua era ancora intatta e, sotto al
bompresso, la testa di aquila puntava lo sguardo verso l'apertura della
baia. Cecilia immaginò di vedere il rapace scuotersi ed
emergere dal legno, rivelando il resto del corpo con un maestoso
frullio di ali e un'esplosione di schegge, per poi librarsi in volo
sopra il mare aperto.
Il guizzo di fantasia venne bruscamente troncato
dal faccione che le si parò davanti.
Un marinaio dalla testa
calva, che per forma e colore ricordava in modo straordinario un uovo
di tacchino, portava in spalla una piccola botte. Sorrise. Aveva un
buco al posto dell'incisivo destro. «Trovato qualcosa da
ammirare?» Allungò la mano libera per sollevare il
mento di Cecilia.
Lei tirò indietro il capo, riassunse una risposta nella
linea dura e diritta delle labbra e si
voltò, piantando l'uomo lì, sulla spiaggia: il
nugolo di marinai che ronzavano attorno alla nave, assoldati dal
vecchio Davenport per rimettere in sesto l'Aquila, era il motivo per il
quale Cecilia preferiva tenersi alla larga dalla baia.
Quella mattina
stava facendo un'eccezione.
Raggiunse la baracca alla fine del pontile,
rifilò due colpetti leggeri alla porta socchiusa ed
entrò senza attendere inviti.
Il signor Faulkner era in
piedi — abbastanza fermo sulle gambe da lasciar sperare in
una discreta sobrietà — con i pugni premuti sul
tavolino
cosparso di carte: i progetti di ricostruzione del veliero. In un
angolo del tavolo, tra un compasso e un calamio, stava una bottiglia
color ambra.
«Buong—»
«Ah!» Faulkner l'azzittì, puntandole
l'indice contro, come se avesse sorpreso un terrazzano a fischiettare
sul ponte di una nave, in mare aperto. Socchiuse l'occhio destro.
«Conosci la regola, miss» gracchiò.
Cecilia si morse il labbro — Buon Dio, tutte le
volte la stessa storia — imponendosi il
silenzio, mentre
Faulkner circumnavigava metà del tavolo per avanzare verso
di lei, scandendo il saluto per primo:
«Buon-gior-no.»
«Ma non vi sembra di
esagerare un tantino?» azzardò Cecilia.
«Chiaramente nessuno salperà oggi. E i miei
capelli non sono poi così rossi.»
«Sono rossi abbastanza»
ribatté
Faulkner. «La malasorte s'infila ovunque, di questi
tempi!» [1] Sulla sua faccia cotta da sole, e circondata di
barba grigia, si dipinse un'espressione bonaria. «Ma veniamo
a noi... a che devo la visita?»
«Achille vi manda questi.»
Cecilia aprì
la piccola sacca che portava legata alla vita. Ne tirò fuori
due fogli piegati a metà e li porse a Faulkner.
«Credo siano nuove disposizioni per i tipi di
cannoni con
cui—»
«—equipaggiare la mia splendida signora.»
«Già. La nave.»
Faulkner tornò al tavolo e scambiò la presa sui
fogli con una sul collo della bottiglia. «Come mai il vecchio
ha mandato te e non il ragazzo?» Fece saltare il tappo della
bottiglia.
«Connor non è alla magione.»
Cecilia aveva preso l'abitudine di usare il nome scelto da Achille,
almeno quando si parlava di Ratonhnhaké:ton in presenza degli altri abitanti
della tenuta.
«Credo sia uscito all'alba, perché non l'ho
incrociato a colazione. Sarà da qualche parte. Ad
allenarsi». Aggrottò la fronte. «Non
s'è fatto vedere quaggiù, vero?»
Faulkner disse di no, aggiungendo che non vedeva il ragazzo da almeno
un paio di giorni.
A quel punto, sbrigata la commissione, Cecilia
augurò buona giornata e si affrettò a lasciare la
baracca. Non che avesse antipatia per Faulkner: il vecchio era stato un
lupo di mare, al comando dell'Aquila e nei ranghi dell'ordine degli
Assassini, e si comportava esattamente come ci sarebbe aspettato da un
vecchio lupo di mare. Era il lezzo della baracca a essere poco
invitante: sembrava che l'odore di alcol e di rum avesse impregnato
pareti e mobilio.
Allontanandosi dalla baia, Cecilia non prese la
direzione della casa.
Era una bella giornata. Le montagne restavano
imbiancate, ma sulla collina, e tra i boschi, iniziava a riaffiorare il
verde, mentre il vento, che per settimane aveva sibilato tra gli alberi
spogli
e gli abeti sempreverdi, aveva ceduto il posto a una brezza fresca e
quieta.
Mancando più di tre ore al mezzogiorno, Cecilia
soppesò l'idea di una visita a Diana. Magari per rifornirsi
di piante medicinali. Insieme al cantiere nella baia, l'arrivo delle
famiglie dei taglialegna, e di O'Donnell, il falegname di Boston, aveva
portato alla tenuta una parvenza di vita. Achille aveva dato il
permesso agli affittuari di costruire sui suoi terreni: abitazioni,
botteghe, perfino un mulino; anche Cecilia era rimasta coinvolta nel
cambiamento di rotta del padrone. Ora che la magione stava tornando
quella di un tempo, aveva dichiarato Achille una settimana prima,
mentre la ragazza gli serviva la colazione, poteva far comodo un aiuto
per governare la casa. Non vedeva motivo di mandarla a lavorare
altrove, tanto più che dalle strade Boston, tra rivoltosi e
Templari, sarebbe stato saggio tenersi alla larga. Fu così
che Cecilia ottenne un lavoro autentico e la promessa di otto
sterline l'anno.
***
Un cumulo di neve ghiacciata circondava una roccia larga
e piatta. Un tappetino di violette spuntava tra i cristalli della neve.
Cecilia, scendendo lungo il lieve pendio, vide i fiori e si
fermò, per inginocchiarsi accanto alla roccia. Liberò i
fiori, scavando con
le dita nude — indossava i lunghi guanti di lana, che
lasciavano scoperte le mani, e uno scialle per tenere al caldo il petto
e
la gola.
Raccolse una violetta. Poi, un'altra. E altre due.
Alla
quinta, si bloccò.
Al placido fruscio del vento, e agli
ininterrotti cinguettii tra la vegetazione, si era appena aggiunto un rumore nuovo.
Un
suono basso e continuo. E minaccioso. Un ringhio.
Cecilia alzò la testa di scatto. Scivolò
all'indietro per lo spavento, finendo con il sedere sull'erba bagnata.
C'era un lupo davanti a lei.
La sovrastava dalla roccia, sulla quale
era balzato, silenzioso come uno spettro, ed era pronto al secondo
balzo. Le orecchie puntate in avanti, il muso arricciato e il ringhio
che vibrava tra le zanne. Spuntavano come coltelli di avorio dal rosso
sanguigno delle gengive.
Cecilia non si mosse. Non ci riusciva. Le sembrò di aver perso
il controllo delle proprio corpo, schiacciata a terra come una calamita
contro il ferro.
Poi,
udì un sibilo. E un guaito. Infine, un tonfo.
Il lupo era
caduto giù dalla roccia e giaceva adesso riverso su un fianco,
con una freccia dall'impennaggio bianco e nero conficcata tra le
costole. La punta doveva essersi fatta largo tra la carne fino a
trafiggere il cuore, perché la sventurata bestia smise
subito di respirare.
Cecilia sbatté le palpebre, come un
cieco miracolato, raccapezzando un briciolo di padronanza di
sé, e voltò la testa di lato: Connor, a
venti passi di distanza, stava abbassando l'arco. La guardava
con la sua solita espressione che — se Cecilia non lo avesse
conosciuto — sarebbe parsa di noia mista a
sopportazione.
Il ragazzo la raggiunse e le tese una mano, ma non si
sprecò in parole.
Cecilia si lasciò aiutare.
«Te... te l'ho mai detto il tuo tempismo è pari
solo alla tua... piuttosto inquietante... capacità di
avvicinarti di soppiatto?» Aveva ancora il mazzolino di
violette nel pugno serrato.
Connor rilassò la mano lungo il
fianco, indietreggiando di mezzo passo. «Dovresti portare un
pugnale con te».
«Oh... n-non... credo servirebbe a un
granché» balbettò Cecilia, che non
aveva ancora ripreso colore. Scosse la sottogonna. «E poi...
non so usarlo, un pugnale».
«E allora impara.»
Non c'era asprezza o cattiveria
nel tono di Connor, solo la ferma calma con la quale si sottolinea
l'ovvietà di un fatto. Ciononostante, Cecilia
annaspò tra sorpresa e dispetto, come se lui le avesse
appena dato un pizzicotto. Tirò fuori un sorrisetto forzato.
«Ma le mie ti sembrano le mani o le braccia di un
combattente?»
Connor arretrò di un altro mezzo
passo. Fissò Cecilia da capo a piedi, inclinando appena la
testa di lato e sollevando il mento, come faceva sempre quando sembrava
intento a ponderare qualcosa.
«Prova a colpirmi»
disse.
«Come prego?»
«Colpiscimi. Con un pugno.»
Cecilia aveva ancora il
batticuore, un eco di paura che le rimbombava per tutto il corpo e
pochissima voglia di interpretare il comportamento del nativo.
«Se... se stai cercando di capire chi, tra noi due,
è il più forte... una dimostrazione pratica
è superflua. Tu hai più muscoli. Sei
più grosso. Sei più alto. E ti alleni ogni santo
giorno. Vinci tu.»
«Il lupo è
più forte e veloce di me. E l'orso è
più grosso. Eppure, posso batterli entrambi.»
«Quelli sono animali. Tu sei una persona. Hai le armi... e
l'intelligenza... dalla tua.»
«Sono anche dalla
tua.»
«Ma stai parlando di fronteggiare uomini o
animali?»
«Sto dicendo che se la sola cosa che riesci a pensare,
davanti a un nemico, è a quanto sia più forte,
grosso e alto di te, allora hai perso prima ancora di provare a
combattere.»
«Facile per te parlare così. Vorrei vedere se
fossi bloccato in... in un corpo come il mio.»
«Sano e intero?»
«Debole.»
«La tua volontà lo è molto di
più.»
A quell'ultima frase, la risposta salì alla lingua di
Cecilia come una scintilla tra due pietre focaie.
«Lieta di
sapere che mi consideri una persona senza spina dorsale.»
«Io penso solo che tu scelga di essere debole.»
La scintilla divampò in una fiammata: «Io non
posso scegliere un bel niente!» sibilò Cecilia.
Superò Connor, sfilandogli accanto, senza guardarlo in
faccia. Lui non la seguì, se non lo con lo sguardo. Forse.
Cecilia non si prese la briga di controllare, ma immaginò
si fosse fermato a recuperare carne e pelliccia dalla carcassa del
lupo. Lei, dal canto suo, abbandonò il proposito delle
visita a Diana e tornò in fretta alla magione.
***
Le setole di saggina frusciavano sopra i mattoni, il tegame
scoperchiato borbottava nel camino e la voce di Achille arrivava
all'orecchio di Cecilia, intenta a spazzare il pavimento del cucina.
La porta tra la cucina e il salone da pranzo era socchiusa. Nell'altra
stanza, Achille parlava con Connor di un certo trattato dal titolo
pomposo — De Principatibus — scritto da un
Assassino italiano, ai tempi della famiglia Auditore. Un tale
Macchiavelli. Gli insegnamenti di storia, di politica, di filosofia e
di arte erano parte dell'addestramento di Connor e Cecilia faceva
sempre in modo di trovarsi nei paraggi, durante le lezioni. A volte, se
le faccende domestiche erano state sbrigate, sedeva nella stanza con
Connor e il vecchio mentore.
Lei ascoltava. Ascoltava, stipava nozioni
e riflessioni nella propria testa, con l'instancabile costanza di una
laboriosa formichina, e capiva molto più di quanto lo zio
Patrick, o Charlotte, o lo stesso Achille avrebbero mai potuto credere.
Quel pomeriggio, tuttavia, Cecilia ascoltava una parola sì e
dieci no.
Fermandosi davanti a una finestra, appoggiò il mento alla
scopa e dedicò un'occhiata imbronciata al mazzolino di
violette. Le aveva riposte in vasetto dal collo lungo e sottile,
sistemato sull'incavo del davanzale. I petali gialli e viola, lambiti
dalla luce del tramonto, iniziavano ad appassire.
Cecilia aveva
superato lo spavento dell'incontro con il lupo relativamente in fretta,
ma non riusciva a scrollarsi di dosso le parole di Connor. Non era mai
stato difficile andare contro i dettami dello zio Patrick riguardo ai
molteplici limiti di una mente femminile. Capirò da sola
quando avrò raggiunto il limite, si era sempre segretamente detta
Cecilia, quando troverò un libro o un'idea da cui non
riuscirò a cavare niente nemmeno al centesimo tentativo. Ma
con il corpo era tutta un'altra faccenda. Cecilia li portava scritti
addosso i segni della debolezza del suo sesso. Erano proprio sotto i
suoi occhi, nelle mani piccoli, nelle carni morbide, nelle ossa gracili
come quelle di un uccellino. Le donne erano vittime, non guerrieri. Le
donne non potevano nulla davanti alla forza bruta. Era così,
e basta. Lo diceva perfino Charlotte, che aveva uno spirito di ferro ma
portava sulla schiena le cicatrici di quella metà della sua
vita trascorsa alla mercé di una frusta mossa da un vigoroso
braccio maschile.
Eppure... rifletteva adesso Cecilia. Eppure era stata
proprio Charlotte a raccontarle le gesta di Grace O'Malley [2] e le
imprese di Giovanna D'Arco. E il capitano Johnson, in quella sua Storia
generale dei pirati [3] — sesto libro sul terzo ripiano della
biblioteca, nella casa della sua infanzia — non aveva forse
raccontato le avventure di due donne pirata? E Achille aveva forse mai
fatto mistero del fatto che tanto sia gli Assassini quanto i Templari
avessero sempre compreso le donne nelle loro fila? Non era stata la
sorella di Ezio Auditore, Claudia, a guidare la Fratellanza per due
anni? E se Connor si aspettava che lei andasse in giro con un pugnale,
allora una simile attitudine doveva essere la normalità tra
le donne irochesi.
Cecila stava sbucciando le patate quando
sentì Achille lasciare la sala da pranzo, passando dalla
porta principale. L'attimo dopo, udì il toc del bastone
su per le scale. Mise giù coltello e tubero, pelato per
metà, e si affacciò sulla soglia del salone.
Connor era rimasto nella stanza, seduto a un capo del lungo tavolo, lo
sguardo chino su quello che doveva essere una versione in lingua
inglese del trattato di Macchiavelli.
Cecilia strofinò le mani umidicce sul grembiule e si fece
avanti.
Connor la udì. Si girò a guardarla.
«Posso... parlarti?» domandò la ragazza,
fermandosi di fianco alla sedia.
«Lo stai già
facendo» fece notare lui, con una logica a suo modo
inattaccabile.
Cecilia sorvolò. Era in affannosa ricerca delle parole
giuste per esprimere la sua richiesta. «Stavo pensando a
quello che mi hai detto questa mattina» esordì.
«E... uhm... a come... la paura mi abbia pietrificata,
davanti al lupo. Il che mi ha fatto realizzare che forse tu... non hai
tutti i torti. Riguardo alla mia volontà,
intendo».
Connor la osservava dal basso della sedia e lei lo
vide far salire un poco le sopracciglia sulla fronte, ma non lesse
nulla di beffardo nel suo sguardo.
«Ti andrebbe
di...» Cecilia lanciò un'occhiata alla porta,
sebbene il rumore del bastone di Achille giungesse, fiaccamente ma
inequivocabilmente, dal piano superiore. «Insegnarmi
qualcosa? Non che mi sia messa in testa chissà quale strana
idea. Non voglio andare in cerca di guai. Vorrei solo... solo non
sentirmi sempre... costantemente... inerme.»
«Va
bene.»
Cecilia battè le palpebre, più e più volte. «
Va... bene? Sul serio?»
«Sì.
Va bene» ripeté Connor, con l'aria perplessa di chi si sta
chiedendo quale bisogno c'è di dire le cose due volte.
«Ti insegnerò. Quello che vuoi.»
A
Cecilia sfuggirono un sospiro e un sorriso. Agì senza
pensare, giacché in qualche modo sapeva che, se avesse
riflettuto, la ragione l'avrebbe immobilizzata: si
chinò verso il nativo e il silenzio del salone accolse lo
schiocco di
un bacio sulla guancia.
Quando lei si tirò indietro, Connor, rigido sulla sedia, abbassò gli occhi sul libro.
Cecilia non disse nulla. Tornò in cucina, pizzicandosi il
labbro inferiore, ancora arricciato in un sorriso.
NOTE
STORICHE
[1] Nella scena, si fa riferimento a due superstizioni di mari: il
fischiare in mare aperto che attira le tempeste e le persone dai
capelli rossi portano sfortuna, sopratutto se incontrate prima di
salpare. L'unico modo per scongiurare la sfortuna è
rivolgere per primi la parola alla suddetta persona. Cecilia, oltre ad
essere una donna, è anche una biondina dai riflessi rossi e
tanto dovrebbe bastare a Faulkner per preoccuparsi di vederla al
cantiere.
[2] Grace O'Malley fu una famosa donna pirata irlandese, vissuta tra il
XVI e XVII secolo.
[3] Storia generale dei pirati, scritto nel 1712,
racconta le vite di pirati diventati famosi durante l'Età
d'Oro della pirateria (dal 1650 al 1730). Le donne citate sono, come
è facile immaginare, proprio Anne Bonny e Mary Read.
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Capitolo 9 *** Il primo passo ***
THE CORNFLOWER CAP 9
IX
Il primo passo
Tenuta
Davenport. 4 aprile 1770
Cecilia
trovò Connor all'ombra della pensilina delle
stalle. Sedeva sopra una botte, intento ad armeggiare con un paio di
bastoni e un robusto pezzo di spago. «Iniziavo a credere che
non desiderassi più provare» disse il ragazzo,
quando Cecilia gli comparve accanto.
«Dovevo finire di rassettare la cucina» si
giustificò lei. Torturava senza tregua l'anulare sinistro,
come se cercasse di tirar via un invisibile e fastidioso anello.
L'ottimismo vacillava. Dopo il picco di fermezza di qualche giorno
prima, adesso doveva tenere a bada i mormorii malevoli che le nascevano
dentro. Che idea
stupida! Finirai solo per farti male. Tornatene ai libri e al cucito,
prima di fare la figura dell'inetta.
Connor scivolò giù dalla botte, stringendo un
bastone in ciascuna mano. Uno era poco più corto di un
avambraccio, spesso un pollice, arrotondato su entrambe le
estremità. L'altro, più lungo e più
robusto, aveva incastrato sulla sommità un secondo pezzo di
legno, piatto e smussato, tenuto fermo con la corda. Cecilia vi
riconobbe la sagoma di un'ascia.
Il nativo lanciò il bastone corto verso Cecilia. E lei... si
scansò di scatto, tirando le braccia al petto, nemmeno
avesse appena schivato una palla incendiata.
Il bastone rimbalzò due volte sulle assi del portico e
lì rimase, abbandonato.
Cecilia vide Connor alzare gli occhi al cielo. E giunse
l'illuminazione.
«Ah. Volevi che lo prendessi al volo.»
Stiracchiò un sorrisetto e raccolse il bastone, pregando
ingenuamente che il pizzicore alle guance non si stesse traducendo in
una vampata di rosso. «Quello sarà il
pugnale» spiegò Connor. «E
questo.» Fece roteare la finta ascia, con un movimento del
polso, prima di lasciarla tra le mani di Cecilia. «Il
tomahawk.»
Cecilia inarcò un sopracciglio. Il suo sguardo interrogativo
andò dalla schiena di Connor, che stava uscendo dal riparo
della tettoia, alle armi posticce. Ma
ha intenzione di insegnarmi a combattere come... come uno della sua
tribù? Il sopracciglio tornò al suo
posto. Meglio di niente.
E seguì Connor al centro dello spiazzo.
Sopra le loro teste, il cielo era coperto da un velo cenerino. Sotto i
loro piedi, la terra bruna e umidiccia mostrava uno scombussolato
arabesco di orme. Una cincia bigia, nascosta chissà dove tra
il tenero fogliame dei primi alberi rinverditi, fece sentire il suo
fischio acuto e melodioso.
«Non tenere le armi in quel modo» esordì
Connor. «Sembra che tu ne abbia paura. Devi fare affidamento
su di loro. La tua presa deve essere ferma. Sicura. Non
tesa.» Nel dirlo, chiuse entrambe le sue mani, scure e
callose, sulla mancina della ragazza, stretta attorno all'impugnatura
dell'accetta. Fu un contatto rapido, un gesto meramente istruttivo,
eppure Cecilia avvertì un delicato brivido accarezzarle il
braccio. Le guance tornarono a pizzicare e, come la sera in cui era
rimasta accanto al letto del nativo, a vegliarlo di nascosto, un
qualcosa di lieve, piacevole, privo di nome sbatté le ali
nel suo petto.
Cecilia si scrollò di dosso quella sensazione. Fece del suo
meglio per seguire le istruzioni di Connor.
Lui le spiegò come impugnare il coltello: con la lama
rivolta verso il basso, così da sfruttarlo come scudo per
l'avambraccio. «E in questa posizione, potrai mettere
più forza nel colpo.» Sfilato via il suo vero
tomahawk dalla cintura, le mostrò come tenere i piedi e come
piegare le ginocchia per non perdere l'equilibrio. Le spiegò
come sfruttare l'incavo sotto la testa dell'ascia per bloccare e
deviare il colpo di una spada; e come ogni parte dell'arma, oltre alla
testa, potesse essere usata per colpire. Infine, come avvicinarsi
all'avversario, dopo averlo costretto a tenere la guardia scoperta, e
dove affondare il pugnale.
«Cerca di mirare sempre allo stomaco. O alla gola.»
Cecilia si chiese se avrebbe mai avuto il coraggio di
pugnalare qualcuno. Non riusciva a immaginarsi nell'atto di conficcare
una lama nella carne viva di un essere umano. Però,
tentò di convincersi, le
carni che ti arrivano sul tavolo della cucina le tagli e la squarti
senza fatica e senza rimorsi. Al che si disse che il
raffronto era insensato. Le situazione erano chiaramente diverse. Già,
scalpitò la sua parte più testarda. Un tacchino senza testa e un
coniglio scuoiato non tenteranno mai di ammazzarmi o di violentarmi.
Connor le chiese di ripetere, lentamente, i movimenti che lui le aveva
appena mostrato. E lei obbedì, sentendosi la ridicola
protagonista di un ancor più ridicolo balletto, mentre
agitava ascia e pugnale contro il nulla. Solo molti, molti tentativi
più tardi, quando a Cecilia già dolevano le
spalle, Connor parve convincersi che i suoi movimenti iniziassero a
mostrare un barlume di coordinazione.
«Proviamo con un avversario in carne e ossa» disse,
raccattando un bastone, poco più corto di un manico di
scopa, dal prato attorno allo spiazzo. Si posizionò davanti
a Cecilia, impugnando il bastone come fosse stata una spada.
Sferrò un colpo di taglio. Cecilia si
tirò indietro e il bastone sferzò l'aria
là dove un istante prima c'era il petto della ragazza.
Il secondo colpo, invece, calò diritto sul suo braccio.
Cecilia boccheggiò per il dolore e corse a stringersi il
braccio, poco più su del gomito.
«Questo... questo non è davvero da
gentiluomo!» soffiò, tra sorpresa e indignazione.
«Mi resterà un livido!»
Connor appoggiò il bastone in spalla. «Come posso
insegnarti a difenderti senza attaccarti?»
«Potresti limitarti a fingere di attaccarmi.»
«Tu vuoi imparare a difenderti per finta?»
Cecilia raddrizzò la schiena, massaggiandosi il braccio.
«Almeno fa lo sforzo di dispiacerti, se mi fai
male.»
Riluttante, riprese posizione.
Connor roteò il bastone e avanzò in un affondo.
Questa volta, Cecilia ebbe la prontezza di spostarsi di lato, per
sottrarsi completamente alla traiettoria del bastone, e
sollevò il pugnale. Il bastone vi scivolò contro
e tanto bastò per deviare la direzione del colpo dalla parte
opposta a quella di Cecilia, che si ritrovò a poter disporre
del fianco scoperto del ragazzo.
Sarebbe stato il momento buono per colpire l'incavo del ginocchio di
Connor con l'accetta e fargli perdere l'equilibrio.
Ma l'orlo della gonna si infilò sotto il piede di Cecilia e
per poco non fu lei a finire per terra.
«Oh!»
Le
scappò un verso di frustrata delusione. «Ma
chi voglio prendere in giro? Sono ridicola.»
«I tuoi vestiti sono ridicoli» commentò
quietamente Connor. «Tu sei impaziente.»
«Senti di chi parla di impazie—che c'è?»
Cecilia si era accorta del modo in cui Connor la stava fissando: con lo
sguardo di chi ha appena scovato un dettaglio nuovo e spassoso in una
storia che conosce a menadito. Il busto seguiva l'inclinazione pensosa
della testa e la corta treccia gli ondeggiava tra i capelli.
«Sei minuta» disse il nativo. «E leggera.
Ma non... lenta. Potresti fare dell'agilità la tua
forza.»
Con un lieve movimento del mento, Connor accennò alla
magione.
Lo sguardo di Cecilia dovette percorrere per due volte la strada tra
Connor e la casa, prima che le sopracciglia tornassero a sollevarsi.
«Oh. No» decretò. «Non
inizierò ad arrampicarmi sui tetti. Non
succederà. È impensabile.»
«Lo è se ti ostini a tenere tutta quella stoffa
addosso» fece notare Connor.
Cecilia fissò la magione, sopprimendo l'istinto di mordersi
le labbra. Pensò che, per ripagare Connor del tempo dedicato
a istruirla, avrebbe dovuto stilare per lui un elenco di espressioni
alle quali non doveva assolutamente ricorrere.
In presenza di una donna.
NOTE
AUTRICE
L'atmosfera del capitolo, che non era presente in questa forma nella scaletta originale, è stata ispirata da una traccia, della soundtrack di Assassin's Creed III.
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Capitolo 10 *** Chi lascia la via vecchia ***
THE CORNFLOWER CAP 10
X
Chi lascia la via vecchia
Tenuta
Davenport. 6 settembre 1773
L'ultimo
sacco di farina fu sistemato sul carretto e Cecilia balzò a
cassetta, agguantando le redini. Il morello si mise in marcia, il
mulino, con l'enorme e pigra ruota immersa nelle acque del fiume, venne
lasciato indietro per iniziare un sonnolento ritorno alla magione. Tra
lo scricchiolio del carretto e lo scalpiccio di zoccoli, Cecilia si
ritrovò a canticchiare, a mezza bocca e sottovoce.
«When
I was in service in Rosemary Lane,
I
won the good will of my master and dame.
Until
a young sailor came there to stay,
and that was the beginning of my
misery.»
La melodia le ronzava in testa da quando aveva messo i piedi fuori dal
letto, ma della canzone ricordava soltanto la prima strofa. Era una
vecchia ballata [1] imparata da bambina – una
città di
mare era terreno fertile per la storia di un'incauta domestica sedotta
e abbandonata da un marinaio; ma aveva dovuto aspettare di crescere
prima di poter prendere coscienza di significato del quarto verso.
Cecilia socchiuse le palpebre, guardò verso l'alto –
grosse nuvole grigie si stavano ammassando nel cielo – cercò
nei suoi ricordi un'altra estate così poco soleggiata. Non
la
trovò. E quando gli occhi tornarono in basso, sul cavallo,
la
mente stava ancora vagabondando nel passato, tra le immagini della vita
a Gloucester... dove le passeggiate a cavallo erano rare. Cecilia non
era mai salita in sella prima degli undici anni. In seguito, montare
all'amazzone divenne la regola d'oro. L'avevano istruita a prestare
attenzione alla postura, non alle redini, perennemente guidate dalla
mano dello zio. Alla tenuta, si era abituata a cavalcare come un uomo.
Il che voleva semplicemente dire guidare la bestia con mano ferma e
sedere in arcione sulla sella. Una decisione socialmente poco
raccomandabile, ma di indubbia comodità –
sopratutto da
quando Cecilia vestiva seguendo i dettami di una moda esclusivamente
personale.
L'idea di conciarsi da uomo non l'aveva mai tentata e, tuttavia, si era
affacciato in lei un sospetto: che lo scopo degli abiti destinati al
suo sesso fosse di ridurre all'osso la varietà di movimenti
che
un corpo poteva compiere. Ci aveva rimuginato su per qualche tempo.
Alla fine, si era messa al lavoro. Carta e carboncino prima, ago e
filo, forbici e bottoni dopo, prendendo a modello le giacche da
cavallerizza e le marsine dei soldati, aveva confezionato una giacca
accollata, chiusa sul davanti da una fila di bottoni, che era solita
indossare sopra a un corpetto mascherato da panciotto. Il corsetto era
stato allentato, il pannier
tolto di mezzo, e quanto restava della sottogonna, tagliata all'altezza
delle ginocchia e aperta sul lato destro, cadeva lungo i fianchi;
Cecilia la indossava sopra le braghe, celando il resto delle gambe in
un paio di stivali di pelle, uguali a quelli degli uomini.
La rinuncia alle appetibili forme muliebri era stata ripagata. Con il
trascorrere dei mesi prima e degli anni poi, era diventato facile
correre e issarsi in sella, saltare e ricadere in piedi, scalare i rami
di un albero o mantenersi in equilibrio sulla balaustra della terrazza.
Cecilia, che avrebbe compiuto l'indomani diciassette anni, aveva
trascorso gli ultimi due a sfilarsi di dosso, pian piano, pezzo dopo
pezzo, l'invisibile gabbia di convinzioni che le erano state cucite
sulla pelle dal giorno della sua nascita. Non aveva dimenticato cosa si
ci aspettava da lei, fuori dai confini della tenuta, ma adesso
era
tutto messo da parte, come l'abito color fiordaliso, da mesi chiuso
nella cassapanca ai piedi del letto.
Sapeva anche di essere lontana dall'eguagliare le capacità
di
Connor ed era scesa a patti con le sue scarse doti da tiratrice.
Sebbene pistole e moschetti fossero diventati strumenti familiari, la
sua mira lasciava a desiderare. Ma pur nella sua mediocrità,
Cecilia indulgeva spesso in un orgoglio recondito. Si sentiva invadere
da uno strano piacere, una sorta di brivido che le apriva i polmoni,
ogni volta che guardava la valle dall'alto, del tetto della magione o
dalla sommità di un abete. Il suo morbido corpo non era
più un limite. Era un alleato. Le sue mani erano ancora
piccole,
ma avevano imparato a serrarsi per sferrare un pugno nel punto giusto e
a destreggiarsi con un lama anche fuori dalla cucina.
Non che i cambiamenti fossero stati una passeggiata. C'erano stati
graffi e lividi in quantità incalcolabile. C'erano stati
attacchi di vertigini, una storta alla caviglia, un polso costretto
all'immobilità per una settimana intera. C'erano stati
lunghi
momenti demoralizzazione. Momenti in cui Connor, in modo o nell'altro,
non si asteneva mai dal gettarle accanto frasi come: «Come
pensi
di migliorare, se non ti spingi mai oltre il limite?»
[2]
Tutto era accaduto, e continuava ad accadere, sotto gli occhi di
Achille. Il vecchio non aveva mai commentato, al di là di
qualche ragionevole rimbrotto a una domestica tanto incline ad
ammaccarsi. L'aveva minacciata di ridurle la paga per ogni giorno in
cui era troppo malconcia per lavorare, ma la minaccia non si era mai
tradotta nei fatti e, in cuor suo, la ragazza era convinta che Achille
considerasse la sua smania di imparare un capriccio, una roba innocua e
ignorabile, involontaria influenza di Connor.
E Connor aveva realmente un peso nella vita di Cecilia. Ma non del
genere che poteva sospettare Achille.
***
Cecilia tirò le redini, il cavallo si arrestò nel
mezzo
del cortile deserto e lei saltò giù dal carretto.
Stava per caricarsi in spalla il
primo sacco di farina, quando qualcosa la colpì alla
schiena,
con una spinta leggera. Cecilia si voltò, tirando il capo
all'indietro appena in tempo per schivare un tartufo umidiccio.
Rifilò a sua volta una spintarella al suo aggressore, per
farlo
tornare a quattro zampe: era uno scodinzolante bastardino di un anno e
mezzo. Aveva il pelo corto e marrone, orecchie grosse e flaccide come
frittelle e qualche residuo di bracco francese nelle vene. Achille lo
aveva preso come cane da guardia, ma non si era preoccupato di dargli
un nome. Connor lo chiamava Kaneniarihton
[3] e sembrava trovare sempre il tempo di riservagli carezze e
buffetti. In quanto a Cecilia, si sarebbe sentita molto più
incline all'affetto, se la bestiola non avesse avuto la brutta
abitudine di essere sempre sporca di fango.
Ansimante di gioia canina, Kaneniarihton
continuò a girare imperterrito attorno a Cecilia, mentre lei
trascinava verso di sé il sacco di farina. «Ti
avverto... se t'azzardi a seguirmi di nuovo in casa, io ti
lego di
nuovo nelle stalle.»
Il cane se ne uscì con abbaio, breve e acuto,
spaventosamente simile a una risposta.
Cecilia abbassò gli occhi sull'animale.
Quello abbaiò di nuovo, zampettò verso il pendio
della magione e poi tornò verso Cecilia.
Di riflesso, lo sguardo della ragazza venne calamitato verso la casa,
verso le finestre del secondo piano. «Ah. Ma tu vuoi entrare
in
casa, vero? Cerchi Connor. Spiacente, cane. Connor ha la sua lezione.
Vedrai che uscirà più tardi, a farti le
carezze.»
Inghiottì un sospiro.
Cecilia si era lasciata travolgere dai sentimenti come chiunque li
sperimenti per la prima volta: ingenuamente, un po' per caso e senza
riserve. Non sapeva con esattezza quando e come fosse iniziato. Sapeva,
però, che a un certo punto di quello che le sembrava ormai
tanto
tempo prima, il trascorrere delle ore aveva preso la forma di una
attesa perenne: l'attesa dell'occasione in cui Connor sarebbe stato di
nuovo con lei. Sapeva che non c'era più una singola
attività delle sue giornate che non fosse accompagnata dal
pensiero di Connor. Sapeva di aver perso il conto delle notti trascorse
a fissare il soffitto, abbandonandota a sogni lucidi, che non aveva il
coraggio di rievocare alla luce del giorno, e a chiedersi se era di
questo che le altre donne riempivano lettere e diari. Era tutto nuovo.
Ed inebriante. E insopportabilmente penoso. Cecilia aveva cercato in
Connor un indizio che potesse farle sperare di essere ricambiata.
L'aveva cercato senza sosta, anche nei gesti più innocenti e
negli sguardi più distratti. Ma si era dovuta rassegnare: se
Connor provava qualcosa nei suoi confronti, allora non era altro che
una calma premura, un sentimento più cameratesco che
fraterno,
il genere di legame che si forma tra persone che vivono a lungo sotto
lo stesso tetto. Ogni volta che Cecilia lo ricordava a sé
stessa
– il che accadeva con una malsana frequenza – si
sentiva
soffocare. Era come avere un sasso bloccato in gola. Faceva male, e non
andava né su né giù.
Non sapeva con chi parlarne. Non era neppure certa che fosse il caso di
parlarne. Charlotte era morta prima di poter affrontare simili
argomenti come una madre fa con una figlia. Lo zio si era limitato a
radi e vaghi accenni a quello che poteva riassumersi nel perentorio
ordine di non farsi mai avvicinare dagli uomini. Pena innominabili
calamità. Di infatuazioni e di amori e di cuori sofferenti
Cecilia ne aveva sentito parlare solo nelle canzoni e nei libri, ma
anche dal basso della propria inesperienza intuiva che la vita reale
avesse poco a che spartire con le ballate.
Gettata com'era nella marea di emozioni, come un marinaio senza bussola
in mezzo a un tempesta, commetteva l'errore di trovare balsamo nella
stessa fonte della sofferenza: la compagnia di Connor.
D'altro canto, lui non sembrava mai evitarla di proposito. L'ascoltava,
quando lei parlava dei coloni; e lei pendeva dalla labbra di lui,
quando le raccontava della vita nel villaggio Kanatahséton.
Aveva persino imparato qualche parola della loro astrusa lingua,
complicata da capire e pronunciare almeno quanto era complicato
scoprire cosa passasse per la testa di Connor.
Alla lunga, con la lingua, Cecilia aveva rinunciato.
Con Connor no. E la costanza era aveva dato frutti.
Il ragazzo era un paradossale misto di brusca onestà e
stoica
riservatezza e Cecilia aveva pazientemente affinato l'arte di portarlo
a condividere i pensieri che custodiva dietro alla fronte severa.
Domande dirette, affabili ma non affettate, venivano ripagate con
risposte a volte franche e vivaci, a volte malinconiche e pensose, ma
mai scostanti e sempre sincere. Non era la vendetta – solo la
vendetta – la colonna portante della volontà
dell'Assassino. C'era anche, e sopratutto, l'amore che provava per il
suo popolo. I Kanien'kehà:ka erano la sua famiglia, lui gli
era
fedele, probabilmente li amava quanto amava i pochi ma strazianti
ricordi della madre. Connor non l'aveva mai affermato ad alta voce, ma
Cecilia intuiva avesse una gran nostalgia del villaggio. Lo intuiva dal
modo in cui lui parlava delle tradizioni che si era lasciato alle
spalle, delle feste che non avrebbe più festeggiate, dei
volti
amici che non sapeva quando avrebbe rivisto. Nominava spesso un
ragazzo, un amico d'infanzia, di nome Kanen'tò:kon; e
l'anziana
Oià:ner, la Grande Madre del villaggio, che gli aveva
mostrato
la sfera dello Spirito. L'invidia che, tanto tempo prima, Cecilia aveva
provato nei confronti del coraggio di Connor era sfumata, sostituita da
una sorta di pudica ammirazione. Sotto l'ammirazione, però,
serpeggiava ancora un sentimento egoista. Ti prego, non ci andare,
aveva sussurrato innumerevoli volte, nella propria testa. Non ci andare, là
fuori. A farti ammazzare. Rimani qui.
***
«Ventisei. Dinanzi a personalità di rango elevato,
come
nobili, giudici e uomini di chiesa, è dovere di un
gentiluomo
scoprire il capo ed inchinarsi. La profondità dell'inchino
sarà dettata del rango della persona alla quale si porge il
saluto.» Connor leggeva con calma meticolosa, pronunciando le
parole con il suo accento più pulito. Per contro, il tono
peccava di interesse. «Voi coloni ricordate davvero tutte
queste
regole?»
Alla fine della lezione pomeridiana, Achille aveva ficcato tra le mani
dell'allievo un pamphlet dal titolo inequivocabile – Regole
di
Civiltà e Comportamento Decente in Compagnia e Conversazione
– e il quesito era adesso rivolto a Cecilia, che stava
tirando
giù una camicia dalla fila di panni stesi ad asciugare.
Erano
sul promontorio affacciato sulla baia. Le grida dei gabbiani
fluttuavano nell'aria insieme alle prime foglioline d'autunno. Il cielo
era ridotto a un gonfio ammasso di nubi e una sottilissima foschia
avvolgeva le sommità degli alberi, lungo i fianchi delle
montagne.
«Se quelle regole ti sembrano tante e complicate»
disse Cecilia, spicciola, gettando la camicia nel cesto ai suoi piedi.
«Aspetta di entrare in una sala da ballo.» Rivolse
un'occhiata di sguincio al ragazzo: Connor sedeva sotto un albero
vicino, la schiena appoggiata al tronco, una gamba stesa in avanti e
l'altra tirata verso il petto; lo vide appoggiare l'avambraccio sul
ginocchio piegato, mentre abbandonava il libretto tra l'erba.
«E
che cos'è?» domandò Connor.
«Cosa?»
«Una sala da ballo.»
«Una sala. Grande, di solito. Dove uomini e donne ballano
insieme. Voglio dire... non tutti insieme. Ballano a coppie. E le
coppie ballano insieme.»
«A quale scopo?»
«Divertimento.»
«E lo è? Divertente?»
«Iimmagino di sì.» Con un debole
strattone,
Cecilia si appropriò di un paio di calze. «O non
mi spiego
perché la gente continui a frequentarli. Io non ci sono mai
stata, a un ballo. Ce n'erano, a Gloucester... nella locanda sulla
Taylor Street... ma allora io ero troppo piccola per partecipare. E poi
mio zio non li vedeva di buon occhio, i balli.» Ma immagino che
all'età giusta e con la giusta motivazione mi avrebbe
lasciata
andare... Di tanto in tanto, e senza rimpianti, Cecilia si
fermava a
immaginare come sarebbe stato avere diciassette anni ed essere ancora
la nipote di un avvocato benestante, invece che una domestica senza
familiari disposti a riconoscerla.
Tolse un lenzuolo dal filo,
liberando la vista sulla baia. L'Aquila era ancorata lungo il braccio
di terra. Con la sua forma allungata e le vele ammainate, riposava
sulle grigie acque appena increspate. Da lassù, i pochi
marinai
sulla spiaggia sembravano piccoli come soldatini di piombo.
Cecilia riportò lo sguardo su Connor. Lui fissava la
magione. I
lineamenti immobili, come se la sua mente fosse a miglia e miglia di
distanza da lì. Non domandò più nulla.
Una
manciata di secondi trascorse senza che nessuno dei due ragazzi aprisse
bocca. Cecilia scosse il lenzuolo e lo ripose nella cesta. Connor
raccolse un ramoscello e lo spezzò in due.
«Un penny per i
tuoi pensieri?» riprese Cecilia, ora inginocchiata vicino
alla
cesta.
La voce della ragazza parve richiamare Connor al presente.
Lasciò cadere il ramoscello spezzato.
«Stavo pensando... a mio padre.» La frase
restò
nell'aria e sembrò renderla improvvisamente pesante.
Cecilia era solita pensare ai Templari, e a Haytham Kenway, come a
spettri che infestavano la vita della tenuta. Anche quando nessuno li
nominava, nessuno si dimenticava della loro presenza.
Cecilia
pigiò entrambe le mani sulla montagnola di panni. E
udì la sua voce affermare: «Tu non vuoi
ucciderlo.»
«
È un Templare» disse Connor. Tre parole scandite
con una durezza che pareva sottintendere che era una
questione di dovere, non di volere.
«Templare. Non è una
condizione alla quale si può si può rimediare...
solo con
la morte» azzardò Cecilia, tentando di impostare
una certa
leggerezza nel tono. «A volte, le persone... alcune
persone...
possono cambiare idea.»
Non seppe decifrare l'espressione seria di Connor. «Lo so,
è una speranza
azzardata» aggiunse. La sua breve vita la aveva insegnato che
c'era gente perfettamente in grado di mettere i legami di sangue
all'ultimo posto, anche dietro a questioni ben meno nobili di un credo
o di una fratellanza. «Ma il Gran Maestro è pur
sempre tuo
padre. Varrà pure un tentativo. Almeno uno...»
Connor abbassò il mento e le ciocche di capelli gli caddero
davanti al volto. «In alcuni momenti, ho avuto pensieri
simili». Scosse il capo, in un gesto a malapena percepibile,
e
piegò la bocca in un amaro guizzo di sorriso.
«Puoi
immaginare che cosa direbbe il vecchio, se gli confidassi questa
idea?»
Cecilia si tirò in piedi. «Achille ha i suoi buoni
motivi
per odiare tutti i Templari». Si lasciò cadere
seduta di
fianco a Connor. «Non che io muoia dalla voglia di vedere una
manica d'invasati arrogarsi il diritto di mettere il guinzaglio a tutti
e a tutto. Come se non bastasse il re, dall'altra parte dello
stagno.»
«A te che cosa importa se mio padre vive o
meno?»
«A me importa di te.»
Cecilia voltò il capo verso il ragazzo, ma non ne
incrociò lo sguardo. I suoi occhi si fermarono sugli
avambracci,
sui bracciali di cuoio. «Puoi farmi una promessa?»
Nel silenzio di Connor c'era attesa e assenso.
«Non diventare mai crudele.»
Il ragazzo ruotò lentamente il polso destro, in modo che la
lama
fosse esposta alla vista di entrambi. «Non le userei mai su
di
un'innocente. È la prima regola del Credo. Trattieni la
lama–»
«Dalla carne dell'innocente. Lo so. Lo conosco il Credo. Non
mi
riferisco a quello.» Cecilia abbandonò il capo
contro la
corteccia dell'albero, ritrovandosi a studiare un ombrello di rami.
«Ti ricordi di quando mi hai raccontato la storia dei due
lupi
[4]... quella che la Grande Madre raccontava a te, e agli altri bambini
del villaggio? In ogni uomo, e in ogni donna, vivono due lupi. Uno
è buono. È amore e rispetto. E combatte solo
quando
è giusto farlo. L'altro è pieno di rabbia. E di
odio. E
combatte tutti senza nemmeno ricordarne più la ragione. I
due
lupi lottano continuamente per prendere il sopravvento sullo spirito
della persona. Ma, alla fine, a vincere sarà il lupo che
verrà nutrito.» Cecilia posò una mano
sul ruvido
bracciale di cuoio. Le dita scivolarono fino alla mano di Connor.
«Il tuo desiderio di avere vendetta per tua madre e
libertà per la tua gente è giusto. E io vedo,
ogni
giorno, quanto lavori... quanto fatichi... per completare il tuo
addestramento. E penso... anzi, io so... che hai un gran cuore.
Sarebbe... sarebbe orribile se lo riempissi solo di rabbia e di
rancore.»
Le dita di Connor strinsero la mano di Cecilia. Lo fecero lentamente,
con l'inaspettata delicatezza di un fiore che si chiude al tramonto.
Lo
sguardo di Cecilia corse al volto di Connor. Di nuovo, l'espressione di
lui la lasciò confusa. E tuttavia era sicura che gli occhi
del
ragazzo avessero perso il velo di seriosa durezza in favore di
qualcos'altro: una sorta di aperta e sorpresa affettuosità.
Cecilia prese coscienza di quanto fossero vicini: spalla contro spalla.
Quando lo sguardo di Connor si allontanò dal suo, lei lo
vide scivolare sulla sua bocca, mentre la stretta sulla mano si
caricava di una nuova forza.
Testa svuotata e petto
infuocato, dischiuse le labbra e si protese verso Connor, con la
straniante sensazione di non essere lei a guidare i propri movimenti.
Poi, Connor parlò e qualunque cosa stesse accadendo
andò
in frantumi, come un prezioso bicchiere di cristallo su un pavimento di
marmo.
«Le tue parole sono premurose, amica mia. Ma la tua
preoccupazione non è necessaria».
Lasciò la
mano della ragazza e si levò in piedi, voltandosi verso il
panorama della baia. «Faulkner mi attende. Ho promesso che
oggi
sarei andato alla baia. Sembra che la nave sia ormai nelle condizioni
per salpare.» Abbassò lo sguardo su Cecilia.
Lei aveva
tirato a sé il libriccino dimenticato, una buona scusa per
tenere gli occhi bassi. Adesso era il viso a bruciarle. Bruciava come
se fosse a pochi centimetri dal fuoco vivo.
«Tu vuoi
venire?» offrì Connor, le mani strette l'una
nell'altra,
davanti alla cintura rossa.
Cecilia
riuscì ad infilare un sorriso docile tra le labbra serrate.
«No. Meglio di no. Ho ancora... molte faccende da sbrigare. E
poi
lo sai che Faulkner mi considera alla stregua di un Giona.»
NOTE
STORICHE
[1] Rosemary Lane, o Bell Bottom Trousers, è una canzone
tradizionale inglese, popolare tanto in Gran Bretagna quanto in
America.
[2] La frase è volutamente ispirata da quella che Connor che
rivolge a Kanen'tò:kon nella sequenza della battuta di caccia.
[3] Termine Mohawk per indicare la terracotta.
[4] La leggenda dei due lupi (da quanto ho letto in giro) dovrebbe
essere una leggenda Cheeroke. Ricordo di aver letto anche che i
Cheeroke parlavano una lingua del ramo irochese e che quindi si suppone
fossero una popolazione irochese, forse i Tuscarora, migrata verso Sud.
Se i Mohawk avessero oppure no nella loro tradizione una leggenda
simile non ne ho la più pallida idea, ma passatemi l'inesattezza
storica per amore della trama.
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Capitolo 11 *** Per la via nuova ─「fine prima parte」 ***
THE CORNFLOWER CAP 11
XI
Per la via nuova
Tenuta
Davenport. 13 settembre 1773
L'Aquila aveva fatto parte della baia per tanto di quel tempo che
adesso, senza la nave, il panorama sembrava mutilato. Cecilia fissava
l'orizzonte deserto: il mare era così calmo e il cielo
così sereno che il blu del primo sfumava senza interruzioni
nel freddo azzurro del secondo. Connor mancava dalla tenuta da
più di una settimana: si era imbarcato a bordo dell'Aquila
lo stesso pomeriggio in cui avevano parlato sotto l'albero del
promontorio, senza
prendersi il disturbo di avvertire Achille o di salutare qualcuno.
Ed era più di una settimana che Cecilia, in silenzio e senza
lacrime, sopportava un dolore simile ad un ago conficcato in mezzo al
petto. Distolse gli occhi dal mare e li portò sul sassolino
che stringeva tra le dita. La pietruzza era
piatta, levigata come una perla e bianca come una conchiglia. Aveva un
piccolo foro nel centro e una macchia rossastra, sottile e allungata
come un colpo di pennellino, su di un lato. Ne
avrebbe potuti reggere altri tre della
medesima grandezza tutti nel palmo di una mano.
Un
fischio
riecheggiò nella baia.
«Ehi, lass!»
Cecilia guardò in basso: se ne stava seduta sul tetto della
baracca di Faulkner.
Erano i taglialegna. Godfrey e Terry. L'uno con
l'accetta in spalla, l'altro con il cappello calcato sul capo rosso e
una sdrucita sacca sulla schiena.
«Che stai combinando là sopra?» chiese
Godfrey.
«Contemplo il panorama.»
«C'hai più la faccia di una vedova al funerale del
marito.»
«Questa è la mia faccia contemplativa.»
Cecilia si lasciò scivolare lungo la pendenza del tetto e
cadde
in piedi sulla catasta di legna, sul lato della baracca. Con un piccolo
balzo, fu a terra, davanti ai due
boscaioli. Stiracchiò un sorriso. «Buona giornata
a voi,
signori.» Lanciò in aria il sassolino, come se
fosse stato una monetina, e lo riacchiappò al volo, ma prima
che potesse metterselo in tasca e girare i tacchi, Terry
puntò l'indice sulla sua mano.
«Dove l'hai preso
quello?» chiese, con la sua vocetta nasale e il suo accento
rubato alle Highlands.
Cecilia scrollò le spalle.
«L'ho raccolto poco fa. Era sulla riva. Grazioso,
eh?»
Fece per porgergli il sasso, ma l'uomo scosse il capo e
agitò la mano in un precipitoso segno di diniego.
«Buttala via! Quella è una Pietra della Strega.
Ti tirerà addosso sfortuna e malocchio.»
Godfrey rifilò una manata al braccio del compagno.
«Si chiama Pietra della Strega perché lo tiene
alla larga, il malocchio, rincitrullito.»
«E io ti dico che serve per farli, i malocchi!»
«Ah, sì? E allora perché i marinai li
appendono sulle navi, eh?»
Cecilia, che di tutto sentiva il desiderio tranne che di assistere
all'ennesima baruffa tra i due boscaioli, contemplò l'idea
di
piantarli lì
senza dire una parola. Poi, convenne che sarebbe stato meglio calmare
gli animi ed evitare una zuffa. «Per favore!»
disse. «È solo un sasso. E io non lo
userò per fare malocchi. Per quelli... preferisco
bambole e spilli e sangue di gallina.»
L'amara ironia venne accolta da un fin troppo lungo attimo pregno di
silenzio e
sguardi perplessi.
«Che?» squittì
cautamente Terry.
«Non vi ho mai detto che m'ha cresciuta una negra
delle Barbados?»
Terry aveva l'aria di chi si stava seriamente lambiccando il cervello
attorno a un dubbio.
Godfrey, invece, si sciolse in un verso
baritonale, un principio di risata. «Ti sta prendendo per il
culo, testa vuota.»
Il viso di Terry assunse una sfumatura pericolosamente simile al colore
della barba.
«Ma tu attenta a chi vai a raccontarle certe
storielle, lass»
aggiunse Godfrey, mentre Cecilia
già muoveva qualche passo indietro.
***
Tazzina e piattino di ceramica tintinnarono timidi, quando Cecilia
appoggiò il vassoio del tè sulla scrivania dello
studio.
«Grazie» borbottò Achille, con il
pennino in mano, curvo su di un foglio già riempito
d'inchiostro per metà.
Cecilia, come al solito, fece per lasciare in silenzio la stanza ed era
a un passo dalla soglia, quando la voce di Achille la
richiamò.
«Ah, Cecilia... aspetta! Ti ricordi di Samuel
Adams?»
Cecilia fece cenno di sì con il capo. Lo ricordava,
perfettamente, e sapeva che Achille manteneva con Samuel Adams una
corrispondenza costante, seppur non frequentissima.
«È sua la lettera che ha vi consegnato il
corriere?»
«No.» Achille ripose il pennino e aprì
un cassetto dello scrittoio. «È da parte di suo
cugino. John Adams.
[1] Chiede di te.»
Cecilia inarcò le sopracciglia, tornando verso la scrivania.
Achille tirò fuori la lettera e la porse alla ragazza. Lei
distese il foglio con una lentezza che grondava perplessità,
mentre il vecchio poggiava i gomiti sul tavolo e raccoglieva le mani
davanti al viso.
«Dice di essere stato molto amico di tuo zio, quand'erano
entrambi studenti a Harvard. E che si tennero in contatto epistolare,
nel corso degli anni. Sapeva che Carter si era fatto carico
dell'educazione di una nipote.»
Cecilia aggrottò la fronte. John Adams. Ecco perché il
cognome mi suonava familiare. Forse lo zio lo ha nominato,
qualche volta. Ma era certa che nessun John Adams fosse
stato presente al funerale.
«Dopo la dipartita di tuo zio» continuò
Achille, «Adams scrisse a Gloucester per avere tue notizie.
Non ha mai ricevuto risposta. Credi che la lettera si arrivata prima o
dopo la tua partenza?»
«Lo ignoro» ammise Cecilia. «Non mi
è mai stato nulla a riguardo. Ma non mi sorprende che i
Bardsley non si siano presi il disturbo di una risposta.»
«In ogni caso... Adams dice di essere venuto a sapere della
tua situazione attraverso Samuel. E adesso per... onorare la sincera amicizia
che lo legava a tuo zio, è disposto a darti un posto sotto
il suo tetto. Non come domestica, ovvio. Ma per offrire i mezzi per
riguadagnare la precedente posizione.»
Cecilia fissava imbambolata la spigolosa calligrafia, tanto frastornata
da faticare a leggere. Sembrava surreale che esistesse un benefattore
sconosciuto in vena di preoccuparsi di lei. Alzò lo sguardo
su Achille e tutto quello che riuscì a momorare fu:
«Voi... volete che vada?»
«Io non voglio nulla» rispose Achille, asciutto.
«Ti sto solo mettendo al corrente dell'invito che hai
ricevuto. Accettarlo o meno è una tua scelta.» Si
alzò dalla poltrona e, muovendosi verso la finestra accanto
al caminetto, diede le spalle a Cecilia. «Tuttavia»
portò le mani dietro la schiena, «mi rendo conto
che questo posto, anche con i cambiamenti degli ultimi anni, resta un
eremo. Specialmente per qualcuno della tua età. Boston
è un vespaio, ma gli Adams risiedono a Braintree. I tumulti
non sono ancora arrivati laggiù e la vita sociale, da quanto
ne so, non manca del tutto.»
Sentir Achille parlare di vita sociale era quasi più
surreale dell'invito di John Adams, ma aiutò Cecilia a fare
due più due. Vita
sociale. Riguadagnare
la precedente posizione. «Intendete dire che
è un posto dove c'è possibilità di
trovare marito.»
Achille seguitò imperterrito a guardare fuori.
«Non sono tuo padre, Cecilia. Maritarti non è una
mia responsabilità, tantomeno un mio interesse.
Anzi, detto tra noi, ho sempre trovato fastidioso il
trambusto che gira attorno a certi affari.»
«Mi fa piacere saperlo. Perché io non sento nessun
bisogno di un marito.»
«Sono molte le cose di cui non si sente il bisogno, a
diciassette anni.»
Cecilia si morse le labbra. Sollevò il mento e
ispirò, per tenersi stretta la calma. «Per favore,
Achille, non parlatemi con quel tono.»
«Quale tono?»
«Con sufficienza. Come fate sempre. Come se le mie idee
fossero solo capricci infantili. Non sono stupida. So benissimo che un
matrimonio potrebbe mettermi in una posizione più sicura, ma
perché accada dovrei rinunciare a quel poco che possiedo. Al
mio nome e al mio corpo. Diventerei proprietà di un'altra
persona, alla stregua di un cavallo o una stoviglia. Quindi proprio
voi, Achille, dovreste capire perché non muoio dalla voglia
di maritarmi.»
«
«E
sia» ribattè Achille, affatto imperturbato.
«Metteremo il signor Adams al corrente del tuo rifiuto. La
questione è chiusa.»
Cecilia lasciò la lettera accanto al vassoio.
«Posso andare ora?»
Achille fece un secco gesto di assenso, ma quando Cecilia fu di nuovo
sulla porta lei lo sentì dire: «Però,
voglio darti un consiglio.»
Cecilia si voltò, una mano sullo stipite.
«Connor è un ragazzo caparbio. Non si
lascerà distrarre dai suoi obbiettivi. Anche nell'ipotesi
che, un giorno, chissà sa quando e come, la sua missione
dovesse concludersi... la vita accanto a lui non sarebbe un finale
felice.»
Le unghie di Cecilia grattarono il legno. L'ago nel petto
affondò di qualche centimetro e lo stomaco le si contorse.
Forse per l'umiliazione. O forse per la rabbia. Capì
all'improvviso quanto fosse stato ingenuo, da parte sua, credere che il
vecchio non vedesse, o non avesse mai dato peso, a quanto accadeva in
quella casa, ma non volle dargli soddisfazione.
«Sembra un consiglio saggio. Conservatelo per la futura
moglie del vostro allievo.»
***
Quel giorno non si parlò più della lettera di
John Adams, ma quando arrivò il momento di andare a dormire,
Cecilia si scoprì insonne. Si girò e
rigirò sotto le lenzuola. Alla fine, accese la candela e
sedette sul letto; le spalle appoggiate alla testiera e le gambe, sotto
le lenzuola, tirate al petto. Voglio
davvero restare? si interrogò; aveva di nuovo
tra le mani la pietra raccolta sulla spiaggia.
Alla tenuta si sentiva ben accetta e, sopratutto, era libera di essere
sé stessa. Andare dagli Adams avrebbe significato dover
tornare alle vecchie regole, eppure esisteva almeno un buon motivo per
andare a Braintree. E non si trattava della prospettiva di un
matrimonio: Cecilia era sicura che gli Adams non potevano essere tanto
ingenui da credere che vi fosse in giro qualche mercante di
buon cuore, o un medico, o un notaio – o chissà
chi altro – abbastanza sconsiderato da prendersi in moglie
un'orfana senza dote. Oppure
sperano che io sia bella. Abbastanza bella che a furia di farmi sfilare
tra uno scapolo e l'altro, qualcuno finirà col farla la
pazzia. Resteranno delusi...
Il motivo per lasciare la tenuta era di altra natura. John Adams era un
avvocato ed era stato un amico di suo zio. Forse, con tanta fortuna e
altrettanta pazienza, Cecilia sarebbe riuscita a fargli prendere a
cuore la sua causa. Potrebbe
essere la sola possibilità che mi verrà mai
offerta di riavere la casa di Gloucester. E di capire se la morte dello
zio sia stata davvero solo un incidente. Se le sue
speranze fossero state disilluse, se gli Adams si fossero
rivelati dei novelli Bardsley, nessuno la obbligava a restare a
Braintree. Aveva degli amici, adesso. Aveva un posto al quale volgersi,
in caso di necessità. Aveva persino dei soldi propri. Pochi,
certo. Ma poteva disporne a piacimento.
E allora, perché non stava già preparando il
bagaglio?
Cecilia chiuse piano le dita attorno alla pietra.
Connor.
Chissà dov'era l'Aquila in quel momento. In mare aperto? Al
sicuro in un porto?
Achille aveva detto che Faulkner doveva essere partito con l'intento di
armare la nave e rimpinguare l'equipaggio. I marinai da assoldare si
trovavano nei porti.
E i porti sono pieni di
prostitute.
Cecilia vide nitidamente la scena nella sua testa. Una caotica taverna.
Birra e schiamazzi. Un paio di marinai rigurgitavano risate e davano
pacche complici sulle spalle di Connor mentre lo sospingevano in una
camera. La prostituta che gli avevano scelto era giovane, ma non
inesperta. Una bellezza florida dal visetto ovale e lucidi riccioli
neri, come le belle spagnole di cui parlavano le canzoni. Lei gli
avrebbe teso la mano. L'avrebbe guidato fino al materasso...
Cecilia non osò spingersi oltre con l'immaginazione.
Abbandonò il sasso sul cuscino, scese dal letto e prese la
candela, per andare ad inginocchiarsi davanti alla cassapanca.
Sollevò il coperchio. E lì, piegato con cura,
stava il suo abito color fiordaliso.
Fine prima parte
NOTE
STORICHE
[1] Secondo presidente degli Stati Uniti (Braintree,
Massachusetts, 1735-Quincy 1826). Insegnante, poi (1758) avvocato,
s’interessò di questioni costituzionali e nel Novanglus,
or history of the dispute with America (1774) sostenne che le colonie
non avevano mai riconosciuto l’autorità del parlamento
britannico nei loro affari interni. Dal 1774 al 1778 membro del
Congresso continentale, fu fautore della secessione e
dell’indipendenza formulando alcuni principi sulla politica
estera degli Stati Uniti in senso isolazionistico. Ebbe poi numerose
missioni diplomatiche in Europa (1779: Parigi; 1780: l’Aia, dove
stipulò un trattato di amicizia e di commercio con
l’Olanda; 1785: Londra); esponente del partito federalista, fu
vicepresidente (1789-96), poi presidente (1796-1800) della
Confederazione.
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Capitolo 12 *** Dopo il ricevimento ***
THE CORNFLOWER CAP 12
XII
Dopo il ricevimento
A
poche miglia da Braintree. 17 dicembre 1773
Ogni
passo, uno scricchiolio: il sottobosco era un accidentato tappeto di
ramoscelli, foglie e brina notturna.
Cecilia continuò ad avanzare, cauta. Sotto
la mantella, le dita infreddolite, tenevano sollevato l'orlo del
vestito, mentre lo
sguardo saettava irrequieto da una parte all'altra, come nel timore di
scorgere un pericolo tra gli alberi.
La ragazza si fermò a poca distanza da una quercia; ne
fissò il tronco, storto e tarchiato. Poi, riprese a
camminare,
il più silenziosamente possibile, e girò attorno
all'albero.
Accucciato tra le radici, stava un bambino: uno scricciolo di sei anni,
con un cespuglio di riccioli biondi per capelli, che balzò
subito in piedi e si mise a correre come un leprotto spaventato.
Cecilia rilassò le labbra in un sorriso. Diede al bambino
qualche attimo di vantaggio, prima di corrergli dietro. Lo
agguantò in un istante, afferrandolo sotto le braccia.
«Tana per Johnny!»
Il bambino strillò. Cecilia rise. Le loro voci echeggiarono
tra gli alberi come tra le colonne di una chiesa.
Qualche passo più in là, un cespuglio fremette.
Ne
sbucò da dietro una bambina con una mantellina scarlatta. La
bambina sgambettò verso una roccia, larga e spianata. Un
saltello e vi fu sopra. «Ho vinto io!»
squittì,
trionfole. «Ho vinto di nuovo io!»
Cecilia e Johnny la raggiunsero.
Nabby aveva gli stessi capelli biondi e ricci del fratello, un visetto
a cuore e occhi color nocciola sormontati dal cipiglio di una figlia
primogenita.
Johnny imbronciò la boccuccia da bambolotto e
strattonò
la mantella di Cecilia come fosse stato un campanello per chiamare la
servitù.
«Giochiamo un'altra volta!»
«No. Adesso basta correre» sospirò
Cecilia. I
bambini avevano le guance arrossate per il freddo e per il sudore. E
anche lei iniziava a sentirsi accaldata. «O ci ammaliamo
tutti
quanti.»
Johnny e Nabby protestarono, ma Cecilia non cedette.
«Su! Verso casa! In marcia, davanti a me.»
Uscirono dal boschetto: una misera striscia di alberi ai piedi di una
collina chiamata Penn's Hill. Cecilia vi era stata in cima, una volta.
Da lassù si vedeva il mare e, se si guardava verso nord, si
scorgeva Boston, con le case, i moli e le navi piccoli come dettagli
sfocati sullo sfondo di un quadro.
Lasciato il bosco, prati incolti e campi imbruniti si stendevano in
ogni direzione sotto l'azzurro spento di un cielo macchiato da nuvole a
brandelli. Era mattino presto e la campagna offriva un paesaggio piatto
e silente, completamente immerso nel gelido livore invernale. Cecilia e
i bambini attraversarono un prato — il loro passaggio mise in
fuga due grosse cornacchie, che si librarono in volo, gracchiando
infastidite — e raggiunsero la strada. La larga via, a tratti
fiancheggiata da bassi muretti, la via si snodava tra i terreni delle
fattorie collegando Braintree, a sud, con Boston a nord. Nabby e Johnny
corsero avanti. Cecilia li sorvegliò con lo sguardo, ma
scelse
di restare indietro. Calciò un sasso con la punta della
scarpina
nera e lasciò la mente libera di vagare.
*
* *
Tenuta Davenport. 27 settembre 1773
La dorata luce del mattino riempiva la camera da letto e, sospesa a
mezz'aria, brillava la polvere. Cecilia toccò il piano del
tavolinetto rotondo con le punta delle dita. Avrebbe voluto lasciare un
messaggio per Connor. Augurargli buona fortuna. Assicurargli che, se
avesse avuto bisogno di una mano, lei non l'avrebbe negata. Aveva
persino accarezzato l'idea di affidare alla carta i propri sentimenti.
Ma ogni giorno aveva rimandato al successivo il momento di sedersi
lì, al tavolo, di avvicinare il pennino al foglio e
confessare.
Adesso non c'era più tempo.
Un ultimo sguardo di addio alla stanza e Cecilia uscì dalla
camera.
Scese al pian terreno. Non trovò il baule all'ingresso
–
dove lo aveva lasciato. Trovò, invece, la porta aperta e
scorse
la carrozza, oltre i gradoni di pietra del viale: Lance stava
sistemando le briglie al cavallo. Il buon carpentiere, bisognoso di
attrezzi nuovi e non volendo rischiare di avventurarsi per le strade di
Boston, aveva accettato di allungare il viaggio di quattro miglia e di
raggiungere Braintree.
«Il tuo bagaglio è già stato
caricato.»
La voce di Achille calamitò l'attenzione di Cecilia verso il
salone da pranzo: il vecchio si era accomodato sulla sedia capo del
lungo tavolo.
Cecilia lo raggiunse. Sul tavolo, a portata di mano dell'uomo, vide un
borsello di cuoio e un secondo oggetto, stretto e lungo, arrotolato in
una pezza vermiglia.
«Ecco la tua ultima paga» disse Achille, facendo
scivolare
il borsello fino al bordo del tavolo. «E questo.»
Picchiettò la mano scura sull'anonimo fagotto.
Incuriosita, Cecilia lo sollevò. Era leggero. Quando
scostò la stoffa, riconobbe immediatamente l'oggetto: una
daga
da caccia. Veniva dall'armeria sotterranea. L'impugnatura era fatta
agata ed era rifinita in argento sulla sommità. Cecilia
sfilò via il fodero di pelle nera e granulosa, rivelando la
lama
sottile, affilata su entrambi i lati, appuntita come un ago.
Le venne da sorridere.
«C'è forse qualcosa che dovrei sapere, riguardo
agli Adams?»
«Sbrigati» borbottò Achille, indicando
l'ingresso
con uno stanco cenno del mento. «Non fare aspettare
O'Donnell.»
Cecilia avvolse la daga nel panno, fece scivolare il
borsello in tasca, tra le pieghe della gonna, ma non si
spostò
di un passo.
«Grazie.»
«Il denaro te lo sei guadagnato. La daga consideralo un
regalo di compleanno in ritardo.»
«No... intendo... grazie per
tutto.
Per avermi aperto la porta. Per avermi dato un tetto e un lavoro. Se
non fosse stato per la voi, anni fa... non so immaginare dove sarei,
adesso.»
Achille chinò il mento e la molle falda del cappello
celò
metà del suo volto grave. Il suo tono, però,
parve
ammorbidirsi.
«Tieni gli occhi aperti, là fuori. E magari...
ricordati di scriverci un paio di righe, di tanto in tanto.»
«Lo farò.»
«Devo dire qualcosa a Connor, quando
tornerà?»
La domanda colse Cecilia alla sprovvista e la voce le si
congelò
in gola come aveva fatto la mano davanti all'inchiostro. Ma fu solo per
un istante. Abbozzò un nuovo sorriso, un guizzo minuscolo,
che
stirò dolorosamente gli angoli della bocca e
restò
lontani dagli occhi.
«No. Non è necessario.»
Dieci minuti più tardi, la carrozza scendeva giù
per la
collina. Cecilia, con le mani aggrappate al bordo del finestrino,
fissò la grande casa di mattoni rossi, fino a sentire gli
occhi
pizzicare e la gola chiudersi in un nodo. Non sapeva che, in
quell'esatto momento, l'Aquila stava veleggiando verso la baia.
*
* *
Fattoria degli Adams. 17 dicembre 1773
«Cecilia!» Nabby corse verso di lei, inseguita dal
fratellino. «Dì a Johnny che non può
avere un
coccodrillo come animale domestico.»
Cecilia si fermò, occhieggiando dall'alto, ad alternanza,
entrambi i bambini. «Perché vuoi un
coccodrillo?»
domandò a Johnny.
«Perché sono grossi» dichiarò
lui,
sbracciando per l'entusiasmo. «E hanno la corazza e i denti
affilati.»
«E ti divorano» puntualizzò Nabby.
«No.. se gli do prima te in pasto.»
«Mamma non ti lascerà mai tenere un
coccodrillo.»
«Me ne prenderò uno quando sarò
grande.»
[1]
Cecilia sospirò. «Non lo varrai più un
coccodrillo,
quando sarai grande. Credi a me, che grande lo sono
già».
Prese Johnny per mano e si rimisero in cammino.
Superata l'ennesima curva, oltre uno spaurito gruppetto di alberi
spogli, sbucò la fattoria.
Una staccionata di legno e un ampio spiazzo d'erba separavano la strada
dalla casa. Ed era una bella casa: tutta in legno, lunga e bianca, con
un frontone triangolare come corona per la porta d'ingresso e i due
piani sormontati da un tetto grigio e spiovente. In quel momento,
entrambi i comignoli fumavano. Dentro e fuori, era il genere di modesta
casa prediletta dai coloni del nord: l'eleganza e il buon gusto si
rispecchivano nella sobrietà dei mobili, solidi e pratici, e
nella semplicità delle stanze, ordinate e luminose.
Cecilia e i bambini entrarono in casa passando dalla porta sul retro.
Si ritrovarono in cucina, accolti da un profumo rassicurante: impasto
di pane e legna bruciata.
«Passeggiata piacevole?»
In piedi dinanzi al tavolo, la domestica Sally si accaniva con
vivacità sulla palla di impasto crudo. Dietro di lei, seduto
sulle tavole di legno del pavimento, il piccolo Charlie, il penultimo
della nidiata, faceva del suo meglio per infastidire la gatta di casa,
una bestiola nera come la pece, gravida di gattini quanto di pazienza.
Appena vide Cecilia, Charlie si fiondò sotto al tavolo e si
aggrappò alla gonna di Sally.
«Rinvigorente» buttò lì
Cecilia, slacciando i lacci della mantella.
«Andate a scaldarvi in salotto» disse Sally ai
bambini,
già accoccolati davanti al camino, dove il fuoco languiva.
«C'è più fuoco...»
I bambini obbedirono e Cecilia prese il loro posto, dopo essersi
sfilata i guanti e aver abbandonato la mantella sulla spalliera ricurva
di una sedia.
«Non dovresti far correre i bambini» disse Sally.
Cecilia alzò lo sguardo, incontrando quello dell'altra
ragazza.
Sally aveva gli occhi più verdi che Cecilia avesse mai visto
— e di un verde diverso da quello freddo e metallico dei
suoi.
Gli occhi di Sally sembravano aver rubato dalla tavolazza di tutti i
boschi del Massachussets. Sally May era quel che si dice un fiore di
ragazza. A sedici anni, appariva splendida anche nel suo grezzo
abituccio marrone. La pelle chiara come latte e la fronte alta, le
labbra piccole e piene e il naso sottile, una cascata di capelli scuri,
cosparsi di riflessi ramati, e uno sguardo mite da bambina in preda a
un dolce e perpetuo stupore. Era il genere di bellezza
che prediletta dagli uomini: fresca a sufficienza per
accontentare
l'occhio, infantile abbastanza da non spaventarli.
«Sopratutto Nabby» continuò Sally.
«Non
è più tanto piccola. Dovrebbe iniziare a capire
che
scorrazzare in giro non è un comportamento da
signorina.»
Cecilia smosse le braci con l'attizzatoio «Ha otto anni. Ne
ha di tempo per imparare a fare la signorina.»
«Temo sia un difetto di famiglia.» La signora Adams
era
appena entrata in cucina, tenendo tra le braccia Tommy, il figlio
più piccolo, venuto al mondo solo l'anno prima.
«Ricordo
perfettamente di aver trascorso gran parte della mia infanzia a
scorrazzare in giro» seguitò la signora,
muovendosi svelta
e composta per la stanza. Andò a pescare un rocchetto di
filo
dalla scatola del cucito, sul pianale della grossa credenza, sulla
quale stavano in mostra bicchieri di peltro e stoviglie colorate.
Abigail Adams aveva un personale slanciato, il collo sottile e occhi
neri sormontati da sopracciglia arcuate, che regalavano un'espressione
scaltra e risoluta al suo viso chiaro e affilato. Indossava un opaco
abito verde, un fazzoletto di seta color crema attorno alle spalle e
una cuffietta sopra i capelli lisci e nerissimi. «Se la
memoria
non mi inganna, ero la più veloce, fra tutti i miei
fratelli—Charlie, per
l'amore del Cielo, esci subito fuori da sotto il
tavolo.»
«Mamma! Mamma!»
Nabby entrò di corsa in cucina.
«È arrivato il signor Wheeler. L'abbiamo visto
dalla finestra!»
«Oh!
È già di ritorno da Boston?»
commentò la signora Adams.
Lo sguardo di Cecilia saettò verso Sally: la ragazza, tolte
le
mani dall'impasto, si stava pulendo in fretta e furia nel grembiule.
Intanto, la signora Adams lasciava Tommy tra le braccia di Nabby e, con
calma, si avviava verso l'ingresso.
Cecilia, rimasta accanto al focolare, si alzò in piedi e
porse a
Sally un fazzoletto pulito. «Hai della farina sulla
guancia—no, l'altra...»
Facendo del suo meglio per
non ridacchiare, uscì dalla cucina e raggiunse l'ingresso
quando
la signora aveva già aperto la porta.
Il signor
Wheeler si
tolse il tricorno. «Buon giorno, signora Adams».
Notò Cecilia, alle spalle della padrona di casa.
«Signorina Carter.»
Josiah Wheeler era figlio di
una
taverniera che gestiva una locanda a metà strada tra Boston
e la
fattoria. Era un giovanotto alto e atletico, dai capelli neri e
la faccia sveglia. Non poteva vantare la perfezione di un Apollo ma
— da quanto aveva capito Cecilia — quegli occhi
azzurri dal
taglio felino e quel sorrisetto tra l'impertinente e l'affascinante
erano causa di sospiri per metà delle giovani donne del
circondario.
«Signor Wheeler. Vi credevamo ancora a
Boston»
lo accolse la signora.
«Torno proprio ora dalla
città,
madam. Porto notizie. E una lettera di Samuel Adams per vostro
marito.»
«Ah. Sam. Quand'è così, che non si
perda
tempo» commentò la signora Adams. Lo disse mentre
si
voltava verso Cecilia; così che solo Cecilia poté vedere la piega
sarcastica sulle sue labbra sottili. «Cecilia, per
favore, avverti il signor Adams della visita.»
«Subito,
signora.»
La ragazza si diresse verso le scale. Le salì alla svelta.
Bussò all'ultima porta del corridoio.
«Avanti.»
Cecilia obbedì. Nella camera troneggiava un grosso
letto a baldacchino, ai lati del quale, i ritratti del reverendo Adams
e della defunta consorte — volti severi stesi su
di uno sfondo buio — erano appesi alle pareti nude.
John
Adams,
con il panciotto aperto e le maniche della camicia arrotolate fino
ai gomiti, se ne stava arroccato sul piccolo scrittoio di noce sommerso
di libri e di carte.
«Signore, c'è il signor
Wheeler. Ha
un messaggio da parte di vostro cugino.»
Il signor Adams sospirò, rauco. Mise giù il
pennino,
versò la polvere sul foglio e, infine, si
alzò in
piedi. Era piuttosto basso, per essere un uomo. Aveva trentotto anni,
più pancia che capelli e un carattere che ondeggiava
costantemente tra una nervosa ritrosia e una brusca schiettezza di
modi. «Arrivo subito.» Si schiarì la
voce e iniziò ad abbottonare il panciotto. Cecilia
uscì e
richiuse la porta; sentiva il signor Wheeler e la signora Adams
chiacchierare al piano inferiore, ma non distingueva le parole. Si
appoggiò alla balaustra e guardò giù,
verso le
scale deserte, come uno spettatore nella galleria di un teatro.
Durante
i suoi primissimi giorni alla fattoria, Cecilia non era riuscita a
capacitarsi di cosa potesse apprezzare una donna come Abigail in un
uomo come John Adams. Lui era senza dubbio un uomo dotato di intelligenza e profonda correttezza — anni prima, aveva
difeso in tribunale i
soldati accusati di aver fatto fuoco sulla folla, davanti alla State
House di Boston — ma la signora Adams aveva sorpassato tutte
le
aspettative di Cecilia. Era una donna assertiva e istruita. Sapeva
discorrere con la medesima competenza tanto di merletti quanto di
politica. Aborriva l'idea della schiavitù e non faceva
mistero
della sua avversione per i privilegi degli uomini. Una sera, aveva
affermato senza mezzi termini che il potere illimitato che la legge
metteva nelle mani dei mariti era sbagliato. «Qualsiasi uomo
diventa un tiranno, se gliene viene data la
possibilità»
aveva concluso. [2] Non era stata una timida confessione, pronunciata
con il tono di chi si è rassegnato a un sacrificio
inevitabile.
La signora Adams aveva parlato convinta che la situazione andasse a
tutti i costi mutata. E l'aveva fatto davanti a Cecilia, davanti a
Sally, davanti alla figlia Nabby e sopratutto davanti al marito. Il
quale, con somma sorpresa di Cecilia, si era dichiarato in perfetto
accordo con la moglie. Fu allora che Cecilia aveva cominciato a capire
perché Abigail amasse tanto il pingue consorte.
*
* *
Un arco separava il salottino dalla sala da pranzo, nella quale erano
riuniti i signori Adams e il signor Wheeler; Cecilia — la
schiena
appoggiata alla parete del salottino a un palmo di distanza dallo
stipite dell'arco — non poteva vederli, ma aveva udito tutto
perfettamente.
«Sam che cosa crede di aver
ottenuto?» Era
la signora Adams. Nella sua voce, sotto lo strato di calma, vibrava una
nota di impazienza.
«Questa è una presa di
posizione,
signora» rispose il signor Wheeler. «Un messaggio
per gli
inglesi. Forse voi non capite—»
«Signor Wheeler» lo interruppe la signora Adams,
«sono consapevole della situazione come qualsiasi ubriacone
del
Green Dragon. Ma non posso fare a meno di chiedermi se Sam, e voi Figli
della Libertà, abbiate messo in conto le conseguenze. Il
denaro
e il controllo sono in cima alle preoccupazioni del governo inglese,
quando si tratta delle Colonie. Ora che centinaia di sterline
galleggiano nel porto di Boston, come credete che reagirà il
Parlamento?» [3]
«Madam, per favore...» intervenne il signor Adams.
«Condividete il pensiero di vostra moglie,
signore?» chiese
il signor Wheeler.
«Io ammiro la vostra impresa e il coraggio dimostrato. E,
tuttavia, non v'è alcun dubbio che questa mossa ci abbia
appena
portato su di un terreno spinoso.» Ci fu una pausa. Si
udirono
dei passi e il rumore di una sedia spostata. «Non resta che prepararci alla reazione degli
inglesi. Qualunque essa sia. Con il vostro permesso, madam,
partirò per Boston seduta stante.» Cecilia fissava
la
lucida cassa della spinetta, dall'altra parte del salottino,
nell'angolo vicino alla finestra. Sollevò istintivamente una mano, in cerca
della cordicella nera che portava al collo: le disegnava una v sul petto,
scomparendo oltre il bianco orlo pieghettato della camicia. Sotto il
corpetto del vestito, a mo' di ciondolo, Cecilia nascondeva la pietra
bucata raccolta sulla spiaggia.
*
* *
La tenda si mosse. Doveva esserci una fessura nel telaio della finestra
perché Cecilia, alla luce della luna, riusciva a cogliere
l'agitarsi del drappo: era come se qualcuno vi soffiasse debolmente dietro.
La ragazza si girò sotto le coperte, dando le spalle alla
finestra. Chiuse gli occhi e restò in ascolto del respiro di
Sally — condividevano quella piccola camera, dalle pareti
bianche, perché lei non se l'era sentita di spedire la
domestica
a dormire nella mansarda — pregando di addormentarsi il prima possibile.
Detestava attendere il sonno. Era il
momento in cui non riusciva più a controllare i suoi
pensieri.
Di giorno, la vita nella fattoria era una contraddanza di faccende
domestiche scandite dal ritmo delle chiacchiere e dalle pause delle
passeggiate. Di tempo e di occasioni per indugiare nei brutti pensieri
ne restava poco. Gli Adams la trattavano più come una familiare, che come
un ospite. Nessuno accennava mai alla questione del mantenimento e
quando Cecilia si offriva per aiutare, la sua buona volontà
non
veniva mai respinta. Ma la ragazza non contava di approfittare degli
Adams a lungo: aveva pianificato di confidare i suoi guai
alla signora Adams subito dopo Natale.
Nel frattempo, altre
preoccupazioni la tormentavano.
Il primo giorno
di ottobre aveva scritto a Davenport Manor. Non aveva ancora ricevuto
una risposta. Alla fattoria, la calma restava intatta,
ma non passavano mai più di due o tre giorni senza l'arrivo
di
qualche novità poco rassicurante, da Boston o da Braintree.
E
più il tempo passava, più Cecilia si convinceva
che,
quando e se una lettera fosse giunta dalla tenuta, le notizie sarebbero
state orribili. Tutte le sere, sempre, senza eccezioni, l'angoscia per la sorte di Connor saliva in superficie
e la sua mente le presentava brandelli di incubi che si ammucchiava
l'uno sopra l'altro fino a toglierle letteralmente il respiro.
NOTE
STORICHE
[1] Quando John Quincy Adams – il piccolo Johnny –
divenne
il sesto Presidente degli Stati Uniti tenne davvero un alligatore nei giardini della Casa
Bianca.
[2] Una quasi letterale citazione di un passaggio di una lettera
scritta da Abigail Adams nel 1776 conosciuta come Remember the Ladies.
[3] Si parla dell'episodio del Boston Tea Party ('il ricevimento del
tè di Boston'), avvenuto nella notte
del 16 dicembre 1773. Dopo il Massacro di Boston, il Parlamento fu
costretto ad abolire dazi e imposte, ma nel 1773 approvò il Tea
Act, che concedeva alla Compagnia della Indie Orientali il monopolio di
tutto il mercato del tè. Era questo un ulteriore provocatorio
atto della politica di controllo mercantilistico esercitato dalla
madrepatria sugli americani. Nel dicembre 1773, coloni americani
mascherati da indiani salirono a bordo di navi della Compagnia e
gettarono in mare la casse di tè. L'episodio inaugurò una
nuova fase del rapporto tra le tredici colonie e la madrepatria: quella
dello scontro aperto. ©Le vie della modernità.
Tutti i personaggi presentati nel capitolo sono realmente esistiti,
però io non sono una storica e la fan fiction non ha la
minima
pretesa di assoluta accuratezza nella rappresentazione dei vari
caratteri. Dove mi è stato possibile (come per John e
Abigail
Adams) mi sono data alle ricerche. Per gli altri, ho lavorato di
fantasia. Nell'elenco dei Sons of Liberty che parteciparono al Boston
Tea Party compare un certo Josiah Wheeler; certo è
che gli
Adams avevano una domestica, ma Sally May è interamente una
mia
invenzione; certo e documentato è anche che John Adams si
recò a Boston il giorno seguente al Tea Party.
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Capitolo 13 *** Lettere, matrimoni ed eredità ***
THE CORNFLOWER CAP 13
XIII
Lettere, matrimoni ed eredità
Fattoria
degli Adams. 3 gennaio 1774
Il signor Adams strofinò una mano sull'accenno di doppio
mento. Serrò le labbra sottili e allargò le
narici in un respiro di riflessione, mentre se ne stava con un gomito
appoggiato alla mensola del camino.
Il fuoco sibilava e l'ininterotto toc-toc
toc-toc toc-toc
dell'orologio appesantiva il silenzio del salottino.
«No» dichiarò, infine, il signor Adams,
abbassando di scatto la mano. «Non è assolutamente
possibile.»
La signora Adams, seduta sul divano cosparso di sbiadite rose
ricamate, represse un sospiro. «Si possono salvare dalla
forca sei uomini colpevoli di omicidio colposo, ma è
impossibile che una donna giovane e nubile erediti una casa.»
«Abigail, ti prego» disse il signor Adams, nel tono
informale che usava con la moglie quando non erano tra estranei.
«Nessuno più di me sarebbe lieto di vedere
l'eredità di Carter affidata a Cecilia.» Si volse
verso la ragazza, che sedeva accanto alla signora Adams, con la schiena
diritta e le mani in grembo. «E non vi sono dubbi che
l'allontanamento di Cecilia sia stato... irregolare. La casa
è una proprietà del signor Bardsley. Sua moglie
non ha diritto di parola su chi possa o non possa restare sotto quel
tetto. Quindi, se il signor Bardsley dovesse acconsentire a ospitare di
nuovo Cecilia...»
Cecilia cercò lo sguardo della signora Adams, ma la donna
non parve aver bisogno di incontrarlo per sapere cosa dire.
«John, questa non è un'opzione contemplabile.
Conosci il motivo.»
Per Cecilia non era stato semplice racimolare il coraggio di confidare
alla signora Adams il genere di sgradite attenzioni che Bardsley le
aveva rivolto e quell'accenno bastò a farle stringere lo
stomaco.
«Va bene» sospirò il signor Adams.
«Se quanto ci ha riferito Cecilia è
vero...»
«È vero!» scattò Cecilia; e
quasi si spaventò per la durezza nella propria voce.
Il signor Adams le rivolse un cenno accomodante con la mano.
«Non era mia intenzione metterlo in dubbio. Stavo solo
affermando che, per come si presenta la faccenda, vedo una sola
realistica soluzione. Cambiare i termini dell'atto di successione. In
quanto tutore legale, Carter aveva il dovere di provvedere al tuo
mantenimento e la medesima responsabilità potrebbe rientrare
nell'eredità del signor Bardsley. In tal caso, potremmo
chiedere di mutare una modesta somma di denaro in rendita per la
ragazza.»
«Quanto modesta?» si informò la signora
Adams.
«Non tanto da impedirle un matrimonio di tutto
rispetto.»
Matrimonio! Sempre un
matrimonio! La certezza che il signor Adams avesse
risposto con il proposito di rassicurarla non bastò a
soffocare il moto di rabbia nel petto di Cecilia, che si morse
l'interno del labbro e scambiò un'occhiata con la signora
Adams.
Il signor Adams seguitava: «Naturalmente, una richiesta
troppo alta sarebbe una mossa controproducente. Con quello che stanno
facendo gli inglesi, è un periodo terribile per i
commercianti. E non sappiamo se, in questi anni, il signor Bardsley
abbia avuto figli propri.»
«John» chiamò la signora Adams.
«C'è un'altra cosa che dovresti sapere.»
Con uno sguardo e un cenno del capo, incoraggiò Cecilia a
parlare della possibile esistenza di un testamento.
«Sciocchezze» decretò il signor Adams,
quando Cecilia finì di spiegare. «Se prima di
morire Carter avesse redatto e firmato un testamento segreto, tra il
signor Bardsley e il denaro si sarebbe intromessi un notaio e due
testimoni.»
Cecilia inghiottì e si fissò le mani. Teneva
ancora per sé il sospetto di un omicidio, giudicando saggio
studiare prima la reazione del signor Adams sulla questione
dell'eredità. Quella mattina, lì, sul divanetto,
decise che avrebbe continuato a tacere. Non mi daranno credito nemmeno
loro. E perché dovrebbero farlo? Forse è davvero
tutta una mia fantasia.
«Dunque, John» disse la signora Adams,
«ti occuperai personalmente della questione?»
«No —
lo
vorrei, ma i miei impegni come consigliere della città non
me lo permetterebbero. Affiderò il lavoro al signor
Auchmuty, il mio assistente. Gli scriverò subito.»
«Grazie, signore» disse Cecilia.
«Ti lasciamo alle tue carte, allora.» La signora
Adams si alzò in piedi e Cecilia la imitò,
muovendosi dietro di lei verso l'arco del salottino.
«Solo un'ultima cosa» le richiamò il
signor Adams. «Cecilia, riguardo al comportamento del signor
Bardsley nei tuoi confronti, sarà meglio tacere. Quell'uomo
è un meschino, ma è un meschino con del denaro. E
le persone sono molto più inclini a scendere a patti, quando
non si tenta di infangarne la reputazione.»
Cecilia aggrottò la fronte. Poi, a malincuore, fece un cenno
di assenso.
«Molto ragionevole, John» osservò la
signora Adams, tagliente. «Ma se il signor Bardsley desidera
che la sua reputazione di gentiluomo rimanga immacolata dovrebbe
imparare a tenere le sue rispettabilissime mani nelle proprie tasche —
andiamo,
cara.» E guidò Cecilia fuori dalla stanza.
*
* *
La campagna era stata spolverata dalla prima neve, Penn's Hill
somigliava a un pudding nel giorno di Natale e l'aria fredda sembrava
fatta apposta per intirizzire qualsiasi estremità del corpo.
Cecilia, dopo aver passeggiato un poco nel cortile, con il cappuccio
della mantella tirato sul capo, sedette su di panca, addossata alla
parte esterna del pollaio: una casupola di legno, lunga e bassa. Due
gallinelle bianche e nere ruspavano la terra scura. Beccavano in cerca
di sassolini, tra i fili di paglia e la neve. Un'altra stava
appollaiata sul terzo piolo della scaletta. Tutte, insieme alla
compagne nel pollaio, chiocciavano contro il freddo.
Ma c'era qualcun altro —
nel pollaio. Era Sally. Cecilia la sentiva camminare e tenersi
compagnia, canticchiando svagata. Non conosceva la canzone, che parlava
di una donna che respingeva, una dopo l'altra, le pericolose lusinghe
dei numerosi pretendenti, ma rimase incantata dalla voce di Sally. Era
limpida e intonata.
Sally smise di cantare non appena uscì dal pollaio —
il cestinino di uova sottobraccio —
e vide Cecilia.
«Oh» cinguettò, a mo' di saluto.
«Com'è andata con il signor Adams?»
«Non è andata peggio di quanto sperassi,
credo» Cecilia fissava, senza vederle davvero, le galline
bianche e nere; e l'ipnotico movimento dei loro colli.
«Sally...»
«Mh?»
«Tu pensi mai di non essere sulla strada giusta?»
«Eh?»
Cecilia batté le palpebre. Provò a mettere in
fila i pensieri. Voleva pronunciarli ad alta voce perché
sperava di azzittirne il ronzio. «Voglio dire.. ti
è mai venuto il dubbio di star tentando di raggiungere il
posto sbagliato? Hai mai pensato che i tuoi obbiettivi fossero troppo
egoisti... troppo piccoli... quando, intorno a te, si muove qualcosa di
più importante?»
«Non sono sicura di aver capito» ammise Sally.
Cecilia non se ne stupì. Si stupì, invece, quando
Sally prese posto vicino a lei.
«Però, per quel che vale... io penso che tutti
dovrebbero avere il diritto di raggiungere un posto dove... dove non si
sentono infelici, ecco. O, almeno, dove possono essere sereni. Cosa
è importante e cosa no, sta a noi deciderlo.»
Sally strofinò il pollice sul bordo del cestino.
Cecilia studiava il suo profilo delicato. «Tu sei felice,
Sally?»
«Sì —
e so anche di essere fortunata. Sono solo la figlia di un bottaio, se
la signora Adams non mi avesse offerto di venir a lavorare in questa
casa, non avrei neppure imparato a leggere e a scrivere.»
Cecilia arricciò un angolo della bocca. «E ora non
saresti qui a scambiarti lettere con il tuo signor Wheeler»
sussurrò.
Sally sorrise. Un delizioso velo rosato le colorò le gote.
«A volte mi sento anche troppo fortunata.»
«Hai tutte la ragioni per considerarti fortunata. Il signor
Wheeler è l'unico figlio maschio e un giorno la locanda
sarà sua.»
Sally scosse la testa, lo sguardo basso sulle uova. «Ma non
parlo di quello! Sono fortunata perché... perché
lui è così... affascinante. E gentile. E ha
scelto me.»
«Avete già una data?»
«No, mio padre vuole che prima io compia diciassette
anni.»
«Il signor Wheeler ne ha già venti,
vero?»
«Ventidue. Io spero di potermi sposare la prossima estate... adoro
l'estate.» Sally sospirò; e a Cecilia
vennero in mente certe eroine da romanzo. «La signora Josiah
Wheeler... suona bene, non trovi anche tu?»
«Suona benissimo anche Sarah May.»
«Ma non c'è Josiah! E io non posso essere
completa, senza di lui.»
«Sostituire il tuo nome con quello di un'altra persona non
è completare. È solo sostituire.»
«Ah, Sissi —
quando scoprirai cosa significa innamorarsi, non parlerai
più così.»
«Beata ignoranza, allora.»
Sally stava per ribattere, ma Cecilia drizzò la schiena e
cacciò una mano da sotto la mantella per farle segno di
ascoltare: udiva un forsennato scalpiccio di zoccoli. Era un cavallo in
corsa. «Arriva qualcuno.»
Lasciarono la panca, e il cortile, e costeggiarono un fianco della casa
fino ad affacciarsi sul prato d'ingresso: la signora Adams era
già lì e un uomo con la pelle nera stava cavando
un plico di fogli dalla bisaccia appesa alla sella.
Non appena il corriere fu ripartito al galoppo, le ragazze si
avvicinarono alla signora, intenta a controllare le lettere. Alla terza
si bloccò e guardò Cecilia.
«Questa è per te.»
Cecilia percepì il proprio stomaco saltare fino ai polmoni,
ma limitò l'espressione a una lieve e perplessa sorpresa.
Attese che Sally e la signora Adams rientrasse in casa. Poi,
andò ad appoggiarsi alla staccionata. Ispirò ed
espirò. E ruppe il sigillo.
La lettera era da parte di Achille. Una trentina di righe, o poco
più, che portavano la data del trenta dicembre. Cecilia le
divorò in un pochi secondi. L'ansia salì,
raggiunse un picco e alla fine si dissolse, trascinata via dalla stessa
brezza fredda che agitava lla mantella e piegava gli angoli della
lettera. Achille assicurava che stavano tutti bene e che il
numero di abitanti, alla tenuta, era persino aumentato. Nelle ultime
righe, parlava di Connor, tornato alla tenuta lo stesso giorno della
partenza di Cecilia. Achille aveva giudicato l'addestramento completo,
la veste da Assassino non apparteneva più al fantoccio nelle
sale sotterranee e Connor aveva dato il via alla propria crociata:
lasciandosi
coinvolgere in un certo evento di Boston del quale a
Braintree avrete sicuramente avuto notizia. Non molto tempo dopo la tua
partenza, uno degli uomini del villaggio di Connor si è
presentato alla tenuta, in cerca di aiuto contro William Johnson,
intenzionato a comprare la loro terra. Per fermarlo, Connor si
è recato a Boston. Aattraverso Sam Adams, ha scoperto che
la fonte del guadagno di Johnson risiedeva proprio nel contrabbando di
tè. Il carico è stato distrutto, ma il
Templare vive. Connor non ha ritenuto necessario ucciderlo e io temo
che il ragazzo abbia commesso un primo grave errore. Sottovaluta i Templari e
le loro risorse.
|
La
lettera si concludeva con l'augurio che la permanenza di Cecilia dagli
Adams continuasse scevra da preoccupazioni e pericoli. Cecilia trasse
un muto sospiro di sollievo. Non riusciva a dar peso ai crucci di
Achille. Non adesso che sapeva che Connor stava bene e che aveva
dimostrato di saper ricorrere a soluzioni diverse dall'assassinio.
Ripiegò con cura il foglio e lo avvicinò alla
bocca, accarezzando le labbra schiuse in un timidissimo sorriso.
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Capitolo 14 *** La famiglia Waxen e il dottor Warren ***
THE CORNFLOWER CAP 14
XIV
La famiglia Waxen e il dottor Warren
Braintree.
5 giugno 1774
L'invito
era arrivato alla fattoria con tre giorni di anticipo, ma il tempo a
disposizione per prepararsi non aveva dispensato Cecilia da una
ragguardevole dose di agitazione e, durante
tutto il tragitto in carrozza,
i crampi allo stomaco si premurarono di tenerle compagnia. Sarebbe
stata osservata? Giudicata? Interrogata? Sarebbe riuscita a calibrare
ogni gesto e soppesare ogni parola affinché il suo
comportamento
risultasse sagace ma non inappropriato? Parte di lei avrebbe voluto
liberarsi del pensiero con una scrollata di spalle, ma l'altra parte
continuava a rimuginarci sopra con sfiancante ostinazione. A
diciassette anni Cecilia conosceva i segreti dietro i conflitti, le
guerre e le morti più importati della storia, ma non aveva
mai
partecipato a un pranzo con una compagnia adulta e numerosa; e la
possibilità di infilarsi in un vestito nuovo —
rosso come
i primi lamponi tra i rovi e tagliato alla moda polacca [1] —
le
sembrava un magro compenso.
Il mittente dell'invito era il colonnello Waxen. [2] In quel periodo
dell'anno, il colonnello risiedeva a Braintree insieme ai tre figli
adulti e alla nuova moglie in dolce attesa. La casa, circondata da una
staccionata bianca, si trovava a una traversa di distanza dalla piazza
della Meeting House, il cui candido e aguzzo campanile
sorvegliava la cittadina.
La piccola carrozza degli Adams si fermò davanti al
cancelletto.
Lo sportello venne aperto, il predellino calato e Cecilia scese dopo i
signori. Le scarpe nere impattarono contro il selciato rossiccio della
strada e le falde del piatto capellino le ripararono il volto dal sole:
era una giornata calda e tersa; l'estate sembrava giunta prima del
dovuto.
Una volta in casa, le preoccupazioni di Cecilia iniziarono a quietarsi.
L'agio dei Waxon sembrava direttamente inverso alla loro propensione
per i modi formali. Bonario lui e spigliata lei, erano entrambi
gentili, ma non artificiosi. A Cecilia non vennero poste domande
né troppo argute né troppo personali e nel giro
di pochi
minuti, mentre ancora attendevano il resto degli ospiti, si
ritrovò sequestrata da Mary Waxon, unica figlia del
colonnello.
Presa sottobraccio, venne trascinata nello studiolo, dove in una gabbia
accanto alla finestra un canarino
saltellava e cinguettava. Mary invitò Cecilia sulla
poltroncina
e andò prendere un volume dalla libreria.
Più Cecilia
osservava Mary e più pensava a un topo: aveva un personale
minuto, occhi neri e naso all'insù,
incisivi troppo grandi separati da una fessura e nessun segno dei suoi
venti anni passati.
Il volume si rivelò un album di acquarelli.
Mary le disse di sfogliarlo, mentre si gettava in un appassionato
resoconto del viaggio a Parigi, compiuto un anno e mezzo prima. Parigi
e i suoi palazzi. Parigi e i suoi teatri. Parigi e i suoi salons.
Parigi, e le sue frotte di giovanotti inglesi di buona famiglia spediti
sul Continente, a raffinarsi come vini nelle botti. L'inclinazione di
Mary a parlare, che superava di gran lunga quella all'ascolto,
sollevava Cecilia dall'impegno di sfoderare commenti attenti e
intelligenti.
«Quanto vorrei che potessi vedere Parigi!»
concluse Mary.
«Lo vorrei anche io» ammise Cecilia, tenendo
l'album aperto sulle ginocchia: le abili mani di Mary erano riuscite a
imprimere sulla pagina il verde frusciante dei giardini del Palazzo
delle Tuileries.
Cecilia pensò a tutte le navi che aveva visto
scomparire all'orizzonte, dal porto di Gloucester, mentre lei non aveva
mai messo piede fuori dalla colonia. Guardò il mappamondo,
vicino al caminetto spento: una grossa sfera color sabbia, una
ragnatela di linee nere e rosse, rotte e confini, regni, fiumi e
città. Il mondo doveva essere davvero un posto troppo
sconfinato
e troppo bello perché le stampe, i quadri e le incisioni
riuscissero a rendergli giustizia.
«Eccoli, finalmente!» Mary scostò la
tenda di
mussolina dalla finestra. «I miei fratelli. Sono
tornati.»
Cecilia si accostò per spiare oltre la spalla di Mary.
In strada, quattro uomini in abiti da viaggio stavano smontando da
cavallo. Pochi secondi dopo, li udirono muoversi all'ingresso: passi
pesanti e parole di ben rivisto. Arrivavano tutti da Cambridge
—
le disse Mary, per poi informarla: il signor Hoar,
fratello maggiore dell'attuale signora Waxon, era un uomo di chiesa
senza parrocchia, dall'occhio annoiato e il capello ingrigito. Il
dottor Warren [3] era un medico trentenne, vedovo da un anno esatto,
con la responsabilità di quattro figli.
Il pranzo, per il quale le domestiche di colore avevano tirato
fuori una tovaglia di lino europeo e piatti di ceramica, venne
servito
nella sala al primo piano. Tra un mestolo
di baked beans
e una fetta di carne maiale, Cecilia, mettendo insieme i
discorsi che viaggiano attorno alla tavola, comprese che il dottor
Warren e il signor Adams si conoscevano da anni e che Warren era un
devoto patriota. A Boston, il dottore lavorava fianco a fianco con
Samuel Adams
alla guida dei Figli della Libertà e ora un mandato di
arresto
pendeva sulla sua testa, eppure lui era lì, incurante e
composto, gli occhi azzurri sorridenti e le labbra sempre pronte a
stendersi in un ghigno a metà tra il soddisfatto e lo
scaltro.
Dei figli del colonnello, invece, Cecilia si fece l'idea di due
caratteri opposti.
Il minore, James — giovanotto alto e
magro, medico anche lui, ma da appena quattro settimane —
occupava proprio il posto di fronte a lei. E, come lei, interveniva
nella conversazione solo quando interpellato. Ovvero, quasi mai.
Cecilia si sentiva pronta a credere che James fosse una persona
più
timida che scostante. Fonte di tale convinzione era il suo viso cereo,
sul quale spiccavano occhi stranamente grandi e spauriti, di un colore
che non era né verde né nocciola. Ai lati
dell'attaccatura del naso, che era lungo e dritto come quello di una
statua greca, le sopracciglia sottili erano perennemente impennate
verso l'alto.
Henry Waxon, primogenito del colonnello, gli sedeva
accanto. Ben più belloccio e robusto di James, condivideva
con i
fratelli il colore corvino dei capelli e con Mary la
capacità di
tenere banco durante una conversazione. «Gage è
sceso
dalla Livery in pompa magna» stava raccontando. Dei
commensali,
solo lui e il dottor Warren erano stati presenti all'evento. [4]
Svuotò il corto calice dell'ultimo goccio di vino rosso. Il
pasto era giunto al dessert: budino di mele. «Pioveva a
dirotto,
ma tutta Boston sembrava riunita in King Street. Una truppa di giubbe
rosse, una compagnia di artiglieri e un intero reggimento della milizia
hanno scortato il generale fino alla Town House. Dopo la lettura del
mandato, i soldati hanno sparato tre colpi a salve e la folla ha
esultato.»
«Fatico a comprendere la fiducia che i Bostoniani ripongono
nel
generale» commentò il signor Adams.
«Non hanno
dimenticato il passato» disse il colonnello, dal capotavola.
«I precedenti rapporti del generale Gage con la
città sono
stati—» Sembrò cercare il termine
adatto. «Non
spiacevoli. E il generale si è fatto delle amicizie, a
Boston.
Amicizie di un certo peso.»
«Quell'uomo a stento comprende quanto gli accade
intorno»
intervenne il dottor Warren. «Presto o tardi,
mostrerà la
sua incompetenza e allora Boston, e l'intera Colonia, vedrà
che tutto questo dispiegarsi di mandati e parate non
ha più consistenza di teatrino di ombre cinesi.»
«Chi non si è fatto illusioni è stato
il
governatore» riprese Henry. «Gage lo ha fatto
imbarcare per
Londra quattro giorni fa.»
«Provo quasi pena per Hutchinson»
sbadigliò la
signora Waxon, al capo opposto del tavolo.
«Il vostro buon cuore
è sprecato, madam» ribatté il
figliastro.
«Warren, la vostra opinione riguardo al generale
è condivisa da tutti i
Figli della Libertà?» domandò, seria,
la signora
Adams al dottore. «Spero non intendiate gettare anche lui
in mare.»
Le inquietudini della signora Adams, all'indomani della distruzione del
tè, si erano rivelate lungimiranti. Il Parlamento aveva
reagito.
E male. Per mesi, uno snervante silenzio aveva logorato i
nervi
dei patrioti. I Tories parlavano di una mossa militare da parte
dell'Inghilterra, ma niente sembrava voler accadere. Poi, alla fine di
marzo, una nuova legge era stata emanata, ma erano state necessarie
più di otto settimane prima che la notizia attraversasse
l'oceano.
Il porto di Boston era stato chiuso.
Nessuna nave commerciale avrebbe
attraccato in città fin quando la Compagnia delle Indie
Orientali non fosse stata ripagata del debito causato dalla perdita del
tè. Per fa sì che il blocco venisse rispettato,
navi
della marina britannica erano perennemente all'ancora nella baia e
quattro reggimenti di soldati si erano riversati in città,
andando ad aggiungersi alle duemila giubbe rosse già
presenti.
Per l'azione di pochi, l'intera città era stata punita.
«Il tempo dei messaggi e dei tumulti di strada si
è
concluso» affermò il dottor Warren. «Ora
è il
momento che tutte le colonie si uniscano a noi, nella richiesta di
quanto è nei nostri diritti. Dobbiamo nominare un Congresso.
Unirci — come fratelli.»
«E mettere un branco di nativi a guardia delle porte del
congresso» rise Henry. Aveva di nuovo riempito, e subito semi
svuotato, il proprio bicchiere. Il rosso del vino sembrava essersi
trasferito tutto sulle guance bianche e perfettamente rasate.
«Dottore, è vero che durante l'assalto a Griffin's
Wharf,
Adams aveva con sé un nativo? O era uno dei vostri, in vena
di
una mascherata?»
Cecilia affondò i rebbi della forchetta nel molle pasta del
budino. Non poco dovette impegnarsi per tenere lo sguardo sui ricami
del piatto.
«Era un nativo» rispose Warren. «Un
irochese. Stando
a quanto mi ha riferito Sam.»
«E come è riuscito ad ammaestrarlo?»
rise Henry.
«Signore, state parlando di una persona. Non di una
scimmia» lo riprese la signora Adams. «Moderate il
linguaggio.»
«Pellerossa. Negri. Scimmie. Chi può
distinguerli? A che pro, poi? Non vivono anche loro sugli alberi, i
selvaggi?»
«No. Non lo fanno.»
Con la coda dell'occhio, Cecilia videle teste di tutti i commensali
voltarsi all'unisono verso di lei, come tirate da un unico filo. Poteva
quasi sentire la sorpresa aleggiare sul tavolo, tra il vetro delle
caraffe e le piante ornamentali, ma tenne lo sguardo sul volto di
Henry.
«Loro vivono dentro a delle case. E voi, signore, dovreste
limitare l'uso della vostra bocca a imbuto per il vino.»
Tutti i presenti parvero inghiottire lo stupore sbuffando tra
divertimento e imbarazzo. Tutti, tranne la signora Adams, che
arricciò in silenzio le labbra sottili, e il signor Hoar,
troppo
occupato a contemplare il fondo del proprio bicchiere.
In Cecilia, il
buon senso tornò in vita con un sussulto violento. Che cosa ho
appena detto? urlò, dentro di sé.
«Quanto ardore,
signorina Carter!» Henry si sciolse in un nuovo principio di
risata, in parte — Cecilia ne era certa — eccitata
dal
vino. «Avete l'animo del missionario, per caso? Siete tra
quelli
che reputano i selvaggi delle anime ingenue? Un popolo buono la cui una
unica sventura è essere nati lontani da Dio?»
Cecilia tentò di non batter ciglio. «Definire un
popolo
cattivo, o buono, non ha alcun senso. Pensare che tutti i nativi siano
violenti e inclini agli atti malvagi è corretto quanto
illudersi
che tutti i coloni siano un perfetto modello di virtù e di
bontà. In ogni caso, per quanto la loro
violenza non sia giustificabile, la loro rabbia è
comprensibile.
Chi non sarebbe infuriato con un gruppo di sconosciuti che si arroga il
diritto di dettar legge e portare via terre e case? Non è
troppo
diverso da quello che gli Inglesi stanno facendo a noi e non mi sembra
che i patrioti stiano accettando la situazione con particolare
docilità.»
Il sorriso sul volto di Henry si contorse, come se stesse trattenendo
le parole sulla lingua. «Signorina Carter, qualche giorno
rinchiusa nelle case dei selvaggi e scommetto che perdereste il
capriccio di atteggiarvi da paladina. Io ho visto, con i miei occhi, le
atrocità di cui sono capaci. Quelle bestie bruciano vivi i
loro
prigionieri. Sono capaci di tagliare via lo scalpo a un nemico ancora
in vita. E credete che facciano distinzione tra uomini o bambini? Tra
donne o neonati?»
«Il che è orribile. Non affermerò mai
il contrario.
Tuttavia, non credo che noi
possiamo vantarci di essere superiori, o
migliori, né possiamo permetterci di chiamare bestie i
nativi,
se questi sono i termini di paragone. Non appendiamo forse le persone
con una corda al collo e poi stiamo lì, a guardarle mentre
muoiono soffocate? Non tagliamo teste e poi le mettiamo in bella vista,
ancora grondanti di sangue?»
«Ed ecco che se ne va il mio appetito»
esalò Mary.
Cecilia continuò: «Per tacere della tortura. O
della
gogna. O della flagellazione. Tutto con il benestare dei nostri uomini
di chiesa e di legge, per i quali donne e bambini hanno le medesime
opportunità degli uomini solo quando si tratta di
punizioni.»
«John» interruppe il dottor Warren, rivolgendosi al
signor
Adams, «siete fortunato che la vostra protetta sia una donna.
O
avreste corso il rischio di farvi derubare del lavoro.»
Cecilia
guardò il dottor Warren, chiedendosi se stesse prendendo le
sue
parti o si stesse facendo beffe di lei.
L'uomo ricambiò lo
sguardo, senza che l'imperturbabile sorrisetto abbandonasse il suo
volto magro Poi, il dottore interrogò Henry. «La
prossima
mossa dell'accusa?»
«Se parliamo di bontà e cattiveria nell'animo
umano»
disse Henry, «nessuno è più adatto del
nostro
signor Hoar. La vostra opinione, signore?»
Il signor Hoar non si sforzò di nascondere la noia per
l'essere
stato chiamato in causa. «Io mi rifaccio a San
Paolo»
strascicò, tra il distratto e il distaccato. «La
donna
impari il silenzio e rimanga in atteggiamento modesto.»
Cecilia tornò a
contemplare i dettagli del piattino di ceramica, pressando
un sospiro di sopportazione tra le labbra.
*
* *
Il viaggio di ritorno fu accompagnato da calar del sole. Un raggio
dalla sfumatura aranciata cadeva proprio sul libro aperto tra le mani
del signor Adams. Davanti
a lui, sedeva la moglie, con lo sguardo perso verso il paesaggio.
Cecilia, accanto alla signora, teneva il capo appoggiato alla parete.
Sentiva di nuovo lo stomaco alla prese con i crampi e l'ondeggiare
della carrozza iniziava a darle la nausea. Non sapeva se dare la colpa
al budino di mele, o a tutto quel discorrere di eserciti e congressi
che faceva sembrare il mondo sull'orlo di una svolta preoccupante, o al
modo in cui Henry Waxon l'aveva salutata.
Davanti alla cancelletto, le
aveva afferrato la mano d'improvviso, e quasi a forza. Quando si era
chinato per mimare il baciamano, l'aveva fatto guardandola fissa negli
occhi. «Tornate a deliziarci presto della vostra brillante
compagnia, signorina Carter» aveva detto, con un tono che
stillava sarcasmo.
Cecilia raddrizzò le spalle. «Sono
stata sgarbata, durante il pranzo?» azzardò.
«Io
apprezzo sempre un dibattito onesto» disse il signor Adams,
senza
alzare lo sguardo dal libro.
«A volte, l'onestà ha bisogno di essere
ingentilita,
John» aggiunse pacatamente la signora Adams. «La
vita non
è tutta un'aula di tribunale. Il commento sull'imbuto era un
po'
sopra le righe, cara, ma conoscendo le compagnie del signor Waxon, sono
sicura si sia sentito dire molto peggio. Sei ancora la benvenuta, in
casa del colonnello, non temere. Anche se, a questo punto, non mi
attenderei una proposta di matrimonio, se fossi in te.»
Un sobbalzo della carrozza nascose il sussulto di Cecilia, che
fissò terrificata la signora Adams.
«Perché? Avrei
dovuto?» balbettò.
La signora le diede una strizzatina
affettuosa alla mano. «Ironia, cara.»
Il signor Adams
sfilò via i piccoli occhialini tondi.
«Ignoravamo le tue
accese idee riguardo agli indigeni.»
«Le mie idee sono le
stesse riguardo a tutti gli esseri umani» disse Cecilia.
«Non sono idee accese. Sono ragionevoli.»
NOTE
STORICHE
[1] "Robe a la Polonaise: un particolare tipo di abito femminile in
voga nel 1700 la cui sovragonna poteva essere arricciata tramite dei
cordoncini da tirare, in modo da creare dei ricchi panneggi." ©abitiantichi.it
[2] Un colonnello Waxon viene citato più di una volta nelle
lettere di Abigail Adams, di cui una proprio in occasione di un invito
a pranzo. La famiglia del colonnello, come la posizione sociale,
è però di mia invenzione.
[3] Joseph Warren fu un famoso patriota americano. Si era messo ad
esercitare la medicina a Boston quando l'agitazione contro la politica
fiscale inglese riscaldò gli animi. Il 5 marzo 1770 caddero le
prime vittime della rivoluzione. Warren fu scelto per commemorare il
secondo, e di nuovo il quinto anniversario di questa data, e lo fece
malgrado ogni tentativo per intimidirlo. Entrò nel Comitato di
corrispondenza, e formulò le famose "Suffolk Resolves" a Milton
il 9 settembre 1774, con cui i coloni decisero di resistere anche con
la forza alle illegalità inglesi e invocarono la formazione di
un Congresso continentale. Partecipò ai primi tre di questi
congressi provinciali, e il 31 maggio 1775 fu eletto presidente del
terzo a Watertown. Nella battaglia di Lexington il 19 aprile 1775, fu
uno dei più attivi sul campo, e il 14 giugno venne nominato
maggior generale dell'esercito del Massachusetts, avendo rifiutato il
posto meno azzardoso di generale medico. ©treccani.it
[4] Il generale inglese Thomas Gage fu dal 1763 Comandante in Capo
delle forze inglesi in America. Nel maggio 1774, in seguito
all'episodio del Boston Tea Party, venne nominato Governatore del
Massachusetts (al posto del suo predecessore Thomas Hutchinson) con
l'ordine, da parte del Parlamento, di provvedere alla sottomissione
della colonia all'autorità inglese e l'attuazione del Port Act.
TRIVIA: Durante il vero Boston Tea Party, i Sons of Liberty si travestirono davvero da indiani Mohawk.
La risposta di Joseph Warren alla domanda di Abigail Adams è
estrapolata dal contenuto di un articolo scritto da Warren per il Boston Evening Post del 6 giugno 1774.
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Capitolo 15 *** Il cuore ha le sue ragioni ***
THE CORNFLOWER CAP 15
XV
Il cuore ha le sue ragioni
Fattoria
degli Adams. 27 agosto 1774
«Sta attenta... per favore, sta attenta!»
«Sally, per l'amor di Dio, sto raccogliendo mele. Non sto
fronteggiando un drago!»
«Ma sei sull'albero!»
«E che follia! Salire sopra un albero di mele per raccogliere
le mele.»
L'albero era vecchio, e grosso. Il primo livello di rami creava un nodo
sul quale era possibile reggersi in piedi, ma per raggiungere le ultime
mele, e salvarle dai morsi del sole, Cecilia si era dovuta distendere
su un ramo più alto. E più sottile. Con un
braccio si teneva stretta al ramo, con la mano libera lasciava cadere
le mele verso Sally. Uno dopo l'altro, lanciò i frutti nel
grembiule che Sally teneva sollevato a mo' di cesta.
Tutto intorno a loro non si udiva che il frinire delle cicale. La
calura pomeridiana sembrava aver azzittito persino gli uccelli e il
caldo era tale che entrambe le ragazze indossavano solo i corsetti
sopra le camicie bianche.
Sally rovesciò le mele nel secchio di legno, si
sventolò con il grembiule il viso arrossato e cadde in
ginocchio tra l'erba. «Credo che perderò i
sensi» annunciò.
«E io credevo ti piacesse l'estate» se la rise
Cecilia.
«Non
così!» sospirò Sally.
Cecilia, attenta
a non trasformare la gonna in una trappola, e con un pensiero di
rimpianto per le braghe e gli stivali, scivolò verso il
basso, fino al centro dell'albero. Da lì,
appoggiò i piedi sui pioli della scaletta. Fu a terra in un
attimo. Sally si era distesa su un fianco, piegando il braccio tra la
testa e l'erba, e Cecilia sedette vicino a lei.
«Con questo clima, non riesco a immaginare dove qualcuno
possa tirare fuori la forza di andare in giro a rapinare e a tendere
agguati» commentò Sally.
Cecilia appoggiò la schiena al melo e accavallò
le caviglie. «Infatti non si sente più parlare di
quei briganti da almeno dieci giorni. Il caldo li avrà fatti
desistere.»
Boccheggiavano
da settimane, come pesci sulla spiaggia. Si faticava a lavorare di
giorno e a dormire di notte. Le piante stavano seccando, il prato
iniziava ad ingiallire, la strada era diventata più arida e
polverosa
di un fiume prosciugato.
«Deve
essere terribile anche mettersi in viaggio» riprese Sally.
«Viaggiare in carrozza sarà come viaggiare chiusi
un forno. — Credi che il signor Adams sia già
arrivato a Philadelphia?» [1]
«Lo sapremo solo quando ci scriverà.»
«Da quando è partito, la signora sembra sempre
molto preoccupata, non hai notato anche tu?»
«Lo sarei anche io, se fossi in lei. Da qui a Philadelphia
sono quattrocento miglia. Le strade non sono sicure e il signor Adams
non ha ancora risposto a nessuna delle sue lettere.»
Dopo quella osservazione, calò un lungo attimo di
sonnacchioso silenzio. Le cicale frinivano. Il sole scottava le spalle
e la nuca. Le ombre delle ragazze, e del vecchio melo, ritagliavano
macchie scure tra l'erba paglierina.
«Tu l'hai fatto?» domandò all'improvviso
Sally, in uno sbadiglio.
«Che cosa?»
«Rispondere alla lettera.»
La lettera di cui parlava Sally era arrivata alla fattoria tre giorni
prima, all'ora di colazione. Cecilia aveva sperato in un messaggio del
signor Auchmuty. Sperava fosse riuscito a rintracciare i Bardsley.
Invece, la lettera giungeva da Davenport Manor. Portava la firma di
Achille e la notizia della morte di William Johnson. Connor l'aveva
assassinato a John's Town, mentre il Templare cercava di contrattare la
vendita delle terre. Stando a quanto raccontava Achille, davanti
all'ennesimo rifiuto dei sachem, Johnson aveva spianato i moschetti.
Soltanto allora Connor era intervenuto.
«Sto... pensando a una risposta.»
«È del padrone della tenuta, vero? Quella dove
vivevi prima di venire qui.»
Cecilia annuì.
«Come hai detto che si chiama? Ha un nome strano. Come quel
personaggio, nella guerra di Troia — Ettore?»
«Achille.»
Sally spinse sul gomito per sollevare il busto. «Parli
così poco di quel posto» osservò.
«Dimmi qualcosa della tenuta. O del padrone. È una
brava persona? È un bell'uomo?»
«È buono, sì. Bello... forse ai suoi
tempi lo sarà stato» rispose Cecilia.
«Oh. È un vecchio.»
C'era talmente tanta delusione, condensata in tre parole, che Cecilia
non riuscì a trattenersi dal sorridere.
Vi fu di nuovo silenzio. Cecilia iniziò a spianare senza
alcun risultatole pieghe della gonna — e a riflettere:
sarebbe stato poi tanto terribile dirlo
a Sally? Infondo, Sally era sempre sincera, sempre premurosa, sempre
discreta e delicata quando si parlava di sentimenti. Non le era mai
parsa incline al pettegolezzo o ai giudizi troppo duri.
Decise di rischiare.
«C'era anche... un ragazzo.»
Sally, che si era messa a fissare la casa, voltò di scatto
il capo verso di lei. «Alla tenuta?»
«Lavorava per il vecchio» inventò
Cecilia.
«E... questo... ragazzo» Sally centellinava le
parole, nel palese sforzo di annacquare la curiosità con la
buona creanza, «ha attirato la tua attenzione?»
«Sì.»
«E tu hai attirato la sua?»
«No.» Cecilia sbatté ripetutamente le
palpebre. «Aveva questioni più importanti per la
testa. E poi, la mia era solo un'infatuazione. È
passata.» Lo disse a voce alta e realizzò di aver
mentito. Tutto quel tempo, tutta quella distanza, e ancora si sentiva
come il giorno in cui era salita sulla carrozza per lasciare la tenuta.
«Come si chiama?» domandò Sally.
Connor. Cecilia aveva il nome sulla punta della lingua,
perciò si sorprese quando si ritrovò a scandire
con dolcezza: «Ratonhnhaké:ton.»
Indovinò l'espressione confusa sul volto di Sally.
«È un nome Mohawk. Irochese.» E quando
azzardò un'occhiata verso la ragazza, la vide innalzare con
estrema lentezza le sopracciglia sulla fronte bianca e lucida.
«Un indigeno...» esclamò Sally, in un
sussuro sfiatato.
«Be'— per sangue... è metà
inglese. Ma è stato cresciuto dagli indigeni.»
«Un meticcio!»
«Devi... devi
proprio fissarmi come se ti avessi appena detto di essere
uscita da un bordello?»
«Oh—» Sally sembrò ritornare
in sé, mentre il viso ritrovava l'espressione dolce.
«Sono sorpresa, ecco. Non ho mai sentito parlare di... di una
cosa del genere.»
«Davvero? Non è così raro che dei
coloni si prendano mogli indigene.»
«Sì, ma quello è diverso. Sono uomini.
Non ho mai sentito di donne che abbiano sposato un indigeno. A parte...
a parte quelle sventurate anime che vengono rapite. Non sono neppure
sicura che sia legale.»
«Non è un problema che ci riguarda»
tagliò corto Cecilia.
Sally allungò una mano per sfiorarle l'avambraccio nudo e
Cecilia fissò l'anello al dito di Sally: non era un vero
prezioso, era stato ricavato da un ditale fuso, ma per Sally era la
testimonianza dalla promessa del signor Wheeler. Tempo addietro, quando
Cecilia le aveva chiesto se non le dispiacesse che l'estate fosse
passata e il matrimonio non fosse stato celebrato, lei aveva sorriso,
mite ma ottimista. «Ci saranno altre estati» aveva
detto.
«Ti ho offesa, Sissi? Non ti sto giudicando male. Non ti sto
giudicando affatto.»
«Non sono offesa» sospirò Cecilia.
Diceva la verità. Non era offesa. Era solo delusa. E pentita
di aver parlato.
«Allora... posso chiederti perché?»
«Perché cosa?»
«Perché questo ind—questo giovane uomo
ha avuto la tua attenzione?»
La domanda lasciò Cecilia spaesata. «Non... non lo
so. Forse... perché quando l'ho conosciuto avevo solo
quattordici anni e prima di allora non avevo mai avuto modo... o
motivo... di interessarmi ai giovanotti.»
Sally sorrise, increspando la fronte. «Ma non può
essere stato questo l'unico motivo.»
«Lui è sempre stato gentile. Con tutti. Certo, non
aveva le maniere del gentiluomo. E, all'inizio, c'erano tante cose, dei
nostri modi di vivere, che non capiva. Ma si preoccupava sempre degli
altri e non avrebbe mai negato il suo aiuto a nessuno. E
poi...»
«E poi?»
«E poi con me... non si è mai comportato come se
pensasse che la mia intelligenza non fosse pari alla sua. Né
mi ha mai trattata come una specie di... di statuina di cristallo,
fragile e incapace.»
Sally la fissò. Schiuse le labbra, sembrava in cerca di un
commento.
Cecilia la trasse di impiccio. «Ma come mi ha detto una volta
una persona, anche se fossi stata ricambiata... un'unione simile, alla
fine, avrebbe portato solo infelicità. Per tutti e
due.» E si affrettò ad alzarsi in piedi,
perché Sally stava per contraddirla. Cecilia lo
capì dallo sguardo. Le avrebbe detto qualcosa
sull'importanza dei sentimenti, qualcosa di molto poetico e poco
realistico, qualcosa che non avrebbe avuto la forza di sopportare.
Rassegnarsi costava dolore e fatica, ma era meno umiliante e meno
penoso del continuare a sperare in una fantasia. Cambiò
argomento, vivacemente, come nulla fosse. «Se non rientriamo
in casa, finisce che le mele diventano una marmellata.»
NOTE
STORICHE
[1] Dal 5 settembre al 26 ottobre 1774 a Philadelphia, in Pennsylvenia,
i rappresentanti di dodici delle tredici colonie si riunirono nel Primo
Congresso Continentale. Quattro furono i delegati inviati dal
Massachusetts, tra questi Samuel Adams e John Adams. Scopo del
Congresso fu di decidere la reazione alle leggi messe in atto dalla
Gran Bretagna come punizione per il Boston Tea Party. Venne discussa la
possibilità di boicottare tutte le merci inglesi e redatta
una petizione indirizzata al re.
TRIVIA: L'estate del 1774 fu davvero calda e afosa. Lo
racconta Abigail Adams nelle sue lettere a John Adams: "Your Journey I immagine must
have been very tedious from the extreem heat of the weather and the
dustiness of the road's. We are burnt up with the drouth, having had no
rain since you left us, nor is there the least apperance of any" 15
August 1774. ©Massachusetts
Historical Society Archive.
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Capitolo 16 *** Guai a Wheeler's Inn ***
Cap 13
XVI. Guai a Wheeler's Inn
Wheeler's Inn. Due miglia da Braintree. 6 settembre 1774
Cecilia vide il tronco crollato sbarrarle la strada, ma non
rallentò la corsa. Al momento giusto, scivolò
sotto
l'ostacolo. Gettò le gambe in avanti — gli stivali
scavarono un solco tra fogliame e terriccio — e
tornò in
piedi, riprendendo a correre. Poco più avanti,
sfruttò
una piatta sporgenza di roccia per spiccare un balzo e raggiungere la
biforcazione al centro di un albero.
Lì si fermò. In piedi, premendo i palmi contro la
corteccia.
Guardò davanti a sé, oltre le ultime colonne di
alberi.
Dall'altra parte della strada deserta, una lieve altura, punteggiata di
betulle, candide e slanciate, ospitava un edificio, a due piani, di
mattoni rossi: la locanda della famiglia Wheeler. Uno dei lati
più corti della locanda si allungava in una costruzione
più bassa e coperta da un tetto spiovente; botti e grosse
casse
stavano addossate contro il muro: doveva essere un magazzino. Ma in
quel soleggiato e ventoso pomeriggio, non un filo di fumo si levava dai
comignoli di pietra e né c'erano cavalli legati davanti alla
locanda.
Cecilia saltò giù dall'albero atterrando, come le
era
stato insegnato, con la dolcezza necessaria ad attutire la caduta:
ginocchia piegate, busto raccolto verso le gambe, le mani sul terreno.
Era stanca, ma soddisfatta. Aveva raggiunto la locanda correndo tra la
vegetazione, invece di percorrere la strada. Alberi e rocce,
trasformati in un percorso a ostacoli, l'avevano lasciata con il
respiro corto in cambio di qualcosa di simile al senso di
libertà abbandonato alla tenuta. La futura
costellazione
di lividi sulle braccia e sulla gambe non la preoccupava ― quattro
volte era caduta, due erano state tanto dolorose da costringerla a
fermarsi. La preoccupava, invece, l'aver constatato quanto i mesi di
semi-immobilità ― le passeggiate e le corse dietro ai
bambini
erano state il massimo del moto ― avessero reso i muscoli meno pronti e
i polmoni meno resistenti di quel che ricordasse.
Cecilia tamponò la fronte sudata con la manica della giacca,
promettendo di concedersi più spesso uscite simili.
Dopotutto, era stato facile ottenere il permesso di lasciare la
fattoria.
Il clima aveva giocato a suo favore: il vento, sceso dal nord, aveva
trasportato frescura e nuvole. E le nuvole avevano benedetto i tre
giorni precedenti con brevi temporali ristoratori.
Fondamentale, però, era stato il desiderio della signora
Adams
di spedire una nuova lettera. Per quasi tutta l'estate, la fattoria era
rimasta isolata e consegnare la lettera alla locanda era il
solo
modo di assicurarsi che il messaggio iniziasse il suo viaggio verso
Philandephia. Anche Cecilia aveva una lettera da spedire e Sally era
ansiosa di far avere sue notizie al caro signor Wheeler.
«Prendi un cavallo» le aveva proposto la signora
Adams.
Cecilia aveva risposto che preferiva camminare. «Non
sarà
pericoloso, tutta quella strada da sola? E se incontri i
briganti?» era intervenuta Sally. Sarebbe stata cauta, aveva
assicurato Cecilia. Poi, davanti all'animata perplessità
della
domestica per la particolarità degli abiti da viaggio ―
«Ti si vedono le gambe!» ― si era limitata a un
incontestabile: «Si vedono perché ce le ho, le
gambe.» Pochi minuti dopo, era uscita di casa, con la daga al
fianco e le lettere nella tasca interna della giacca da cavallerizza.
* * *
Il vento costringeva l'insegna della locanda a sbatacchiare come una
campana, cigolando come un vecchia ruota. Ma l'attenzione di Cecilia
venne catturata da altro: perché la porta d'ingresso era
socchiusa e dall'interno non giungeva alcun suono? Non una
voce.
Non un passo. Cecilia, per un istante, contemplò l'assurda
ipotesi che la locanda fosse abbandonata. Tese l'orecchio: il
sibilo del vento, i fischi delle cinciallegre dal cappuccio nero e, di
tanto in tanto, lo sgraziato gracchiare di qualche volatile.
«No! Vi prego!
Basta!»
Cecilia sobbalzò.
Una voce di donna era esplosa nel silenzio, con la stessa inaspettata
violenza di un colpo di pistola. La fonte era vicina, ma non arrivava
dall'interno, perché Cecilia l'aveva udita riverberare
nell'aria.
La decisione fu immediata.
La ragazza corse fino alle casse, addossate al muro del magazzino. Vi
salì sopra e si aggrappò alla sporgenza del
tetto,
puntellando i piedi tra le irregolarità dei mattoni.
Risalì la lieve pendenza, tenendosi bassa con il busto.
Veloce e
silenziosa come un ragnetto, trovando appoggio negli infissi di una
finestra dalla imposte aperte e pitturate di bianco, scalò
il
muro del piano successivo. Di nuovo, si aggrappò alla
sporgenza
offerta dal tetto. Con una spinta delle braccia, fu sul tetto della
locanda: il punto più sollevato della zona.
Non ci fu bisogno di aguzzare lo sguardo.
La voce la guidò.
«Così lo ammazzerete!»
Attenta a non inciampare nelle tegole, Cecilia percorse il pendio del
tetto che si affacciava sul retro dell'edificio. Si acquattò
sul
bordo e guardò giù.
La porta sul retro della locanda era spalancata. E la donna era, in
realtà, solo una ragazzina. Stava inginocchiata a terra, tra
i
sassi e la polvere del cortile: uno spiazzo deserto tra la locanda e
una costruzione che Cecilia riconobbe come una stalla. Un soldato
inglese ― la lunga giubba scarlatta non lasciava spazio a dubbi ―
teneva ferma la ragazzina, costringendole il braccio in una posizione
dall'aria dolorosa. Lo affiancava un altro soldato, con il moschetto in
spalla.
La ragazzina non gridava per sé. Chiedeva pietà
per la figura raggomitolata a terra.
Tre soldati avevano accerchiato un uomo. Tutti insieme, senza sosta,
sferravano calci e colpivano con il manico dei moschetti, con rumore di
carne sbattuta sul bancone di un macellaio.
In un'ondata di orrore Cecilia comprese che l'uomo a terra era Josiah
Wheeler.
Un sesto soldato ― forse un ufficiale: aveva delle mostrine dorate
sulle spalle e, al posto del tricorno, un alto copricapo coperto di
piume ― con le braccia dietro la schiena, la spada a un fianco e il
lucido manico di una pistola dall'altro, sembrava in soddisfatta
contemplazione dell'operato dei sottoposti.
Il terrore di Cecilia non fu dissimile da quello che, tanto tempo
prima, aveva provato nei boschi del tenuta, alla mercé di un
lupo affamato. Braccia e gambe si fecero pesanti come pietra, il
respiro si congelò nel petto e i polmoni iniziarono a
bruciare.
Dal signor Wheeler si levò un gemito spezzato che pareva
dover essere il suo ultimo respiro.
«Basta!» gridò la ragazzina, in lacrime.
E Cecilia si riscosse: il bruciore si era risolto in un'implosione di
rabbia.
La mano destra scattò verso l'impugnatura della daga, ma le
dita
si bloccarono al primo contatto con la liscia pietra. Sei soldati. Sei
uomini avvezzi al combattimento, armati di moschetti, spade e pistole.
Anche con quello che le aveva insegnato Connor, affrontarli tutti
insieme sarebbe stato una sentenza di morte.
I muscoli ancora caldi, il cuore che pompava veloce come dopo una corsa
forsennata, Cecilia si voltò per risalire la pendenza, a
passi
rapidissimi ma leggeri. Balzò sul magazzino e dal magazzino
alle
casse, fino a rimettere i piedi a terra.
E dietro alle casse restò nascosta, sporgendosi il minimo
indispensabile per controllare oltre l'angolo, prima di portare pollice
e indice tra le labbra.
Fischiò forte. Fischiò tre volte.
L'ultimo fischio si spense e vi fu un interminabile attimo di silenzio.
Cecilia temette di essere sul punto di vomitare il suo stesso cuore,
mentre il sudore le incollava la camicia alla schiena e la mano faceva
scivolare la daga fuori dal fodero. Era terrorizzata dalla
possibilità di non possedere il coraggio necessario per
usare
davvero l'arma su di una persona. Non
ci pensare, si scongiurò. Agisci. Con un
movimento del polso, roteo l'arma, ritrovandosi con la punta verso
l'alto.
Un debole scricchiolio di sassi e l'ombra sul terreno a tradirono
l'avvicinarsi di un soldato.
Cecilia si ritirò dietro la cassa, pronta a scattare a
tradimento, come un serpente nascosto sotto una pietra.
Il soldato, moschetto in spalla, sbucò oltre l'angolo.
Lei lo vide prima che lui si accorgesse di lei.
L'uomo aveva superato la cassa di un passo appena quando la lama della
daga affondò tra i suoi reni. Si udì un suono,
come di
stoffa strappata. L'uomo inarcò la schiena, ma non
urlò:
il dolore inaspettato doveva avergli sottratto il fiato. Cecilia, che
aveva spinto metà della lama nella carne, spinse ancora di
più, ruotando l'impugnatura. Avvertì il soldato
barcollare. Lesta, lo afferrò il retro del colletto della
giubba, ritirò la lama e assecondò la caduta,
facendo
stendere il corpo, in preda agli spasmi, dietro la cassa.
Non le fu concesso tempo di rendersi conto delle sue azioni.
«Ohi!
Fermo!»
Un secondo soldato aveva appena girato l'angolo.
Cecilia agì d'istinto.
Un passo di lato la salvò dall'affondo della baionettata.
Chiuse
la mano libera sulla canna del moschetto e con una spinta mantenne
l'arma lontano da sé per l'attimo necessario a sferrare un
calcio al ginocchio del soldato. Con uno scricchiolio preoccupante,
l'uomo si piegò sulle gambe, mentre Cecilia sollevava
l'altra
mano, stretta attorno all'impugnatura del daga, mirando alla tempia,
sostenuta da ogni piccola goccia di furiosa energia concentrata nel suo
corpo.
L'impatto avvenne e fu doloroso per entrambi. Cecilia dovette mordersi
le labbra per trattenere un acuto gemito e il soldato, intontito dal
colpo, impossibilitato a reggersi saldamente su entrambe le gambe,
oscillò di lato e batté la testa contro il bordo
della
cassa. Il tricorno ruzzolò via e l'uomo stramazzò
sulla
schiena. Cecilia, con il braccio indolenzito, rinfoderò la
daga.
Pestò senza pietà tra le gambe del soldato.
Quello guaii
e lei riuscì a strappargli via il moschetto. Un sibilo e poi
un
tonfo soffocato: Cecilia aveva piantato la baionetta tra le
viscere del soldato.
Ma il trambusto era stato troppo.
Un terzo soldato corse sul posto in quell'esatto momento.
Colpendo la canna dell'inglese con quella del moschetto rubato, con un
schianto secco, come di un ramo spezzato, Cecilia riuscì a
deviare l'arma nemica di lato e verso il basso. L'istante successivo,
la baionetta, già sporca di sangue, si stava conficcando
nell'inguine del soldato.
Il soldato lasciò la propria arma, per stringere le mani
sulla
canna. Un rivolo di sangue scuro gli sfuggì dalle labbra,
mentre
fissava Cecilia con occhi increduli e insieme terrorizzati. E Cecilia,
orrificata, avvertendo un rigurgito salirle alla bocca, tirò
via
la lama. Una chiazza vermiglia si allargò sulle braghe del
soldato, che finì prima in ginocchio e poi bocconi, mentre
Cecilia arretrava di scatto di tre passi.
Un dolore indicibile alla schiena le succhiò via il fiato
dai polmoni.
Boccheggiò. Il moschetto le cadde di mano. Al secondo colpo
― un
pugno alla bocca dello stomaco ― crollò piegata su se
stessa,
una guancia premuta tra l'erba e gli occhi socchiusi. Si
sentì
sul punto di soffocare. Non sentiva più aria nel petto e
il dolore dallo stomaco si espanse a tutto il corpo, ingabbiando ogni
singolo muscolo.
Il tacco di un stivale nero premette sulla sua spalla con la violenza
riservata alla carcassa di bestia. Cecilia rotolò sulla
schiena.
Sbatté le palpebre. Trovò la punta di spada alla
gola.
Era stato l'ufficiale a colpirla. Prima alle spalle, poi allo stomaco.
L'uomo ora la scrutava dall'alto, truce, ma più sorpreso che
minaccioso. «Una donna?» mormorò.
«Signore...» disse una seconda voce
maschile, «sono morti!»
* * *
Cecilia venne costretta a inginocchiarsi sulla breccia e non sarebbe
riuscita a tenere la schiena dritta se uno dei soldati non le avesse
stretto una mano sulla spalla. L'avevano trascinata sul retro della
locanda, legato i polsi e sottratto la daga. Davanti a lei, l'ufficiale
stava esaminando l'arma. Senza dire nulla, la gettò via,
come
fosse stata un torsolo di mela. La daga cadde a una ventina di passi di
distanza, rimbalzando sui sassi con un fiacco rumore
metallico.
Il signor Wheeler e la ragazzina erano rimasti sotto l'occhio vigile
dell'ultimo soldato. Josiah giaceva ancora a terra, immobile e con gli
occhi chiusi. Era svenuto, forse. Cecilia non osò pensare al
peggio. La ragazzina, stravolta dal pianto, stava piegata su di lui.
«Chi sei?»
L'ufficiale interrogò Cecilia e Cecilia, senza rispondere,
lo
guardò dritto in volto. L'inglese dimostrava una trentina di
anni increspati su un viso dall'espressione irosa e spazientita. Aveva
la mascella larga e del sangue rappreso a un angolo della bocca.
«Chi è questa donna?»
L'ufficiale si rivolse alla ragazzina.
Quella trasalì. «Non... non lo so...»
«Dimmi chi è!»
«Non lo so! Lo giuro! Non l'ho mai vista prima!»
singhiozzò.
«Dice la verità» intervenne Cecilia. La
parole vennero esalate a fatica, ma con fermezza.
L'ufficiale tornò su di lei. La squadrò per un
lungo
momento. «Bugiarda» decretò.
«Siete entrambe
complici di quest'uomo.» Le sue parole era appesantite
dall'odioso accento inglese.
Cecilia non aveva la più pallida di cosa l'ufficiale stesse
dicendo. Mi impiccheranno. Solo questo le attraversò la
mente.
La consapevolezza fu come una ferita che si fa notare prima per il
sangue e solo dopo, molto dopo, per il dolore. Non pensò a
chi
avrebbe lasciato in questo mondo o a cosa non avrebbe mai avuto la
possibilità di vivere. Guardò la ragazzina:
terrorizzata
e tremante, lo sguardo basso e il viso arrossato, una patetica
incarnazione della paura. Allora, tutto ciò a cui
riuscì
a pensare fu alle innumerevoli volte in cui lei non aveva saputo far
altro che ubbidire e abbassare lo sguardo. Se solo, si disse, avesse
vissuto con maggiore coraggio, con maggiore scaltrezza, con
più
determinazione, forse la vita non l'avrebbe condotta a una forca alla
vigilia dei sui diciotto anni.
L'ufficiale portò le mani dietro la schiena.
Ispirò
rumorosamente dal naso e la sua voce acquistò il tono di
annoiato annuncio. «Josiah Wheeler, e sua sorella Elizabeth
Wheeler, sono colpevoli del reato di contrabbando di armi e polvere da
sparo. Quattro casse di moschetti sono state trovate all'interno della
loro locanda. Ed è chiaro che le armi siano destinate alla
milizia, in aperta trasgressione alle ordinanze del Governatore. Un
reato che verrà punito con l'arresto―»
«E questo
vi dà il diritto
di accanirvi in tre su un uomo disarmato?»
«Ha fatto resistenza. Ha osato attaccarmi» disse
l'ufficiale, spicciolo. Portò la mano inguantata di nero al
fianco. «In quanto all'omicidio volontario di tre
soldati
dell'Esercito di Sua Maestà, la punizione è... la
morte.» Estrasse la pistola. «Inutile un processo
per chi
è colto sul fatto.»
Puntò la pistola alla fronte di Cecilia.
Lei fissò la stretta e tonda bocca nera. La
divorò un
tremito di paura, ma non trasalì. Non implorò.
Non disse
nulla. Abbassò le palpebre e attese.
Angolo
Autrice.
Vediamo finalmente una Cecilia costretta a ricorrere alle sue acerbe
capacità di lotta. Sì, è andata male.
Molto male.
Ed è proprio per questo che è stato un capitolo
divertente da scrivere. Se chi sta leggendo questa fan fiction, come
immagino, conosce bene le tematiche del videogioco, ha giocato
o
letto i libri, spero non troverà nella descrizione dello
scontro
niente di particolarmente trucolento, per gli standard di Assassin's Creed. Per sicurezza, ho alzato il
rating della storia ad arancione e aggiunto l'avvertimento violenza
nelle note introduttive.
Sappiamo che Connor è l'Assassino con lo stile di
combattimento
più brutale, cosa anche legata al suo background nativo
americano (i nativi erano effettivamente abbastanza violenti nelle
tecniche di combattimento, non avevano certo l'eleganza di uno
spadaccino europeo). Nella fanfiction, sappiamo che Cecilia ha
trascorso più di due anni ad assorbire lo stesso tipo di
approccio allo scontro. Da qui, la sua rozza 'tecnica', che consiste
nel colpire a tradimento e nei punti più deboli.
Fatto questo breve appunto, rinnovo i ringraziamenti ai miei recensori
e/o lettori silenziosi – che, ho visto, nelle ultime
settimane
essere aumentati! ❤
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Capitolo 17 *** La legge del taglione ***
THE CORNFLOWER CAP 17
XVII
La legge del taglione
Wheeler's
Inn. Due miglia da Braintree. 6 settembre 1774
«Signore... aspettate!»
Cecilia sollevò le palpebre ― i sassi le si stava
conficcando nella ginocchia, il cuore martellava nelle orecchie ― e
ritrovò l'occhio cieco della pistola puntato verso il suo
viso.
«E perché mai aspettare, signor Sloper?»
volle sapere l'ufficiale.
«Magari... prima... possiamo farci qualcosa»
rispose il soldato che vigilava su Elizabeth e sul corpo inerte del
signor Wheeler.
Cecilia era troppo agitata per comprendere. Guardò Sloper.
Era palesemente il più giovane. Non mostrava un filo di
barba, aveva un naso schiacciato e storto, come se in passato fosse
stato rotto da un pugno, e occhi di un grigio acquoso che stavano
ricambiando lo sguardo di Cecilia con malsana insistenza.
«Non vi bastano tutte le puttane di Boston?»
sospirò l'ufficiale.
«Sì ― ma mi piacciano di più quando non
le devo pagare. E quando sono spaventate.»
Cecilia comprese di cosa stavano discutendo e il respiro le
tremò nel petto, che si alzò e si
abbassò con violenza. Ma l'orrore non soverchiò
l'orgoglio. Continuò a fissare Sloper, concedendosi solo di
battere le palpebre, sforzandosi di ignorare il gelo che le aveva
invaso le guance. Doveva essere diventata pallida come uno straccio.
«E sia» concedette l'ufficiale, dopo un attimo di
apparente riflessione. Abbassò la pistola. «Che le
sia di lezione» scandì. «Sulla forca ci
finirà ugualmente. Nel frattempo, che le venga ricordato
qual è il suo posto.»
Cecilia portò lo sguardo sulla corda attorno ai polsi.
Contrasse la mascella e rimase muta e immobile, a dispetto della nuova
ondata di furia che le correva nelle vene, come lava, tanto
incandescente da annichilire la paura e il dolore fisico. Ma chi erano
loro per
credersi autorizzati a darle
una lezione, a umiliarla e a
violarla, a decidere quale fosse il suo posto? Chi li
aveva elevati a
giudici e giustizieri?
Elizabeth ebbe un fremito di rabbioso coraggio. «Siete delle
bestie!» sputò, tra lacrime.
«Taci!» le intimò l'ufficiale.
«O sarai la prossima.» Con un pigro movimento della
mano, coperta dal guanto nero e scricchiolante, fece cenno a Sloper di
servirsi.
Quello venne avanti soddisfatto, con un sorriso trattenuto a stento. Si
rivolse al soldato alle spalle di Cecilia: «E tu ― non ne
vuoi un pezzo?»
«No.»
Sloper rise.
«Scommetto che se fosse stato un ragazzetto ― ma da dietro,
che differenza ti fa?» Con la coda dell'occhio, Cecilia lo
vide portarsi una mano all'inguine, mimando un gesto osceno.
«Non ho voglia di fottere a pochi metri dai cadaveri ancora
caldi dei miei commilitoni» fu la secca risposta del terzo
soldato.
«Bell, sei sempre stato un gran―»
«Signor Sloper!» lo interruppe l'ufficiale.
«Abbiamo intenzione di impiegarci tutto il giorno?»
«Signore» disse Sloper, «non... non credo
di riuscirci... con un pubblico...»
Allora fu Bell a ridere di scherno.
L'ufficiale sembrava al limite della pazienza. Gesticolò,
stizzito, verso le stalle e porse la pistola a Sloper. Il soldato si
cavò il tricorno dal capo e lo affidò, assieme al
moschetto, alle mani di Bell. Costrinse Cecilia ad alzarsi in piedi,
afferrandole un braccio, e le fece sentire la presenza della pistola
premuta tra i reni.
Cecilia non oppose resistenza. In silenzio, con gli occhi lucidi e
bassi, si lasciò condurre dentro le stalle come svuotata di
energia e volontà, come un debole involucro di carne alla
mercé dei più bassi istinti del suo carceriere.
Lo fece di proposito.
Una volta nelle stalle, Cecilia venne investita dal lezzo pungente del
bestiame misto al
polveroso odore di fieno. C'erano solo due cavalli da posta: due
robusti pezzati che scossero il capo, e le criniere nere, quando
Cecilia e Sloper passarono loro davanti. Il soldato spinse la ragazza
fin sul fondo della stalla, oltre l'ultimo tramezzo, che avrebbe
nascosto la scena che stava per consumarsi a chiunque si fosse
affacciato all'ingresso. Cecilia udì il ronzio di una mosca.
C'era una piccola finestra lasciata socchiusa ― le ante rivolte verso
l'esterno; resti di paglia sulle assi del pavimento e ganci per le
coperte alle pareti. Sotto la finestra, una panca sulla quale era
sistemata un piatto cesto di vimini, pieno di attrezzi da maniscalco.
Tra tenaglie e raspe, chiodi e tirachiodi, Cecilia individuò
un martello.
Sloper le tirò i capelli, costringendola a piegare la testa
all'indietro, mentre la spingeva verso la parete. Poi, la fece voltare
e Cecilia urtò la schiena contro la parete. Il ragazzo le
circondò il collo con la mano libera. «Ora ―
vediamo come si apre questo tuo bel
vestitino.»
Abbassò la pistola, per assicurarla alla cintola. Nel farlo,
per un misero istante, uno e uno soltanto, distolse lo sguardo da
Cecilia e chinò il mento.
Il quel medesimo istante, il collo del piede sinistro di Cecilia si
abbatté tra le gambe del soldato e entrambe le mani
colpirono l'incavo del braccio steso. La presa sulla gola,
già allentata dall'inaspettato dolore, cedette.
Accadde tutto con la rapidità di un lampo.
Sloper, rosso in viso, si piegò in avanti, con una mano tra
le gambe, l'altra in cerca della pistola.
Ma la pistola era caduta sul pavimento.
Cecilia lo afferrò per i capelli sulla nuca, lo spinse
ancora più in basso e una violenta ginocchiata raggiunse
Sloper in pieno viso.
Il ragazzo imprecò, con la voce soffocata dal dolore, e
dalla mano premuta sul viso sporco di sangue, e Cecilia
scattò verso la panca.
Sloper, la cui vista doveva essersi annebbiata quanto
la mente,
colse il movimento con un attimo di fatale ritardo.
Cecilia sfilò via il martello. Ruotò su
sé stessa. L'arnese colpì la testa del soldato,
come una mazza da cricket si sarebbe abbattuta su una palla, e Sloper
cadde steso su fianco. Aveva una tempia sfondata.
Cecilia non volle guardarlo. Sicura che gli altri due soldati stessero
per accorrere, si
gettò nella forsennata ricerca di qualcosa, tra gli
attrezzi,
in grado di liberarla dalla corda. La punta di grosso chiodo si
rivelò capace di spezzare qualche filo della treccia e il
nodo si allargò il poco sufficiente per permettere a Cecilia
di sfilar via il polso destro, proprio mentre udiva dei passi dietro il
tramezzo.
Scivolò verso la pistola.
Bell comparve davanti a lei.
Lo sparo riempì l'aria di scintille e fumo bianco. I cavalli
spaventati si impennarono, nitrendo e scalpitando, e Bell fu lasciato
ad agonizzare sul pavimento della stalla, con una pallottola nello
stomaco.
Cecila salì sulla panca, spalancò le ante e
balzò oltre la finestra. Corse dietro al carretto,
abbandonato sul retro della stalle, nel timore di essere seguita
dall'ufficiale. Tremava: minuscoli, incontrollabili tremiti che le
scuotevano i muscoli brucianti di dolore.
Un grido la fece sobbalzare.
Era Elizabeth.
«Vieni fuori!» urlò l'ufficiale.
«Vieni fuori, dannata puttana, o ammazzo
quest'altra!»
Cecilia inghiottì un'imprecazione e abbandonò il
riparo.
«Sei scappata?» continuava a sbraitare l'ufficiale.
«Tanto ti ritrovo! Giuro su Dio, ti ritrovo e ti
impiccho con le mie mani!»
Cecilia aveva percorso il lato corto delle stalle, tenendosi accanto al
muro. Sbirciò oltre l'angolo: l'ufficiale era al centro del
cortile, teneva Elizabeth per i capelli e il filo della spada premuto
sul collo della ragazzina. Ma Cecilia vide anche altro. Qualcosa che
l'ufficiale, nel pieno dell'ira, non stava notando. Velocissima
ripercorse i suoi passi. Gettò via la pistola scarica,
balzò sul carro e ne sfruttò il rialzo per
aggrapparsi alla sporgenza del tetto, con un tale sforzo delle braccia
che credette di essere sul punto di cedere.
«Lasciatela andare!» gridò, in piedi sul
tetto.
L'ufficiale vide Cecilia. Sarebbe potuto correre a raccogliere
un moschetto. Invece, non lasciò Elizabeth e non
abbassò la spada.
«Fai una mossa e la sgozzo!»
«No ― non lo farete. La vita della signorina Wheeler
è la sola cosa che vi salverà dalla
morte» esclamò Cecilia di rimando. Le mancava il
fiato ma doveva tenere lo sguardo in quello dell'ufficiale, senza
lasciarsi tentare dal guardare oltre la figura in divisa. Doveva far in
modo che
lui guardasse lei e lei soltanto. «Torcetele un capello e io
ammazzerò voi. Come ho appena fatto con i vostri soldati. E
non ho neppure avuto bisogno delle mani libere per farlo.
Perciò non sottovalutate la mia minaccia!»
L'ufficiale parve vivere un istante di reale e allarmata esitazione.
«Tu―strega!
Cagna indemoniata!»
«Vi prego di non consegnare ad altri i miei meriti»
ribatté Cecilia.
L'ufficiale venne privato dell'ultima parola. Ansimò.
Sgranò gli occhi. La spada si allontanò dal collo
di Elizabeth, dapprima lentamente, poi come trascinata giù
da un peso invisibile, e l'uomo seguì il destino della sua
arma, crollando tra la polvere e i sassi.
Un passo dietro al cadavere, il signor Wheeler, pallido e ansimante,
stringeva la daga di Cecilia.
* * *
Cecilia si fissò le mani: piccole, sporche e spellate. Aveva
le
nocche rosse e le dita così indolenzite da far quasi fatica
a
muoverle. Era sempre stata convinta che uccidere costituisse una scelta
a volte necessaria, ma inevitabilmente terrificante, e impossibile da
portare a termine senza sacrificare una parte di sé stessi.
Era
sempre stata convinta che l'omicidio fosse qualcosa di cui non sarebbe
mai stata capace. Ma quel giorno aveva ucciso. E adesso dov'era
l'orrore? Dov'erano la vertigine e il rimorso? Non
l'attanagliava nessuna
vergogna. Nessun
senso di colpa. Nessuna voglia di piangere né desiderio di
poter
tornare indietro e non lasciare la fattoria. Era rimasto solo uno
sbiadito eco di rabbia e disgusto, avvolto attorno al cuore, come una
sottile guaina di cuoio.
E restava il dolore fisico: mai in vita sua ne aveva provato tanto e
tutto insieme. Si sentiva come se fosse stata investita da un tiro un
sei. I muscoli della cosce bruciavano, quelli delle spalle erano come
stretti in una tenaglia, respirare era forse il solo azzardo che poteva
permettersi, senza che da una qualche parte del suo povero corpo non
giungesse immediatamente in risposta una fitta di dolore. Elizabeth le
aveva tastato con delicata attenzione i polsi e le dita, il busto e la
schiena. Non c'erano niente di rotto e niente fuori posto.
Cecilia le aveva chiesto come ne sapesse tanto di ossa rotte.
«Nostro zio ha una farmacia a Braintree» aveva
risposto
Elizabeth. «L'ho assistito per mesi. Fino a quando non ha
trovato
un vero apprendista.» [1]
«Un apprendista vero?»
«Un uomo.»
Per essere una ragazzina, Elizabeth Wheeler si era ripresa
sorprendentemente in fretta dallo spavento. Non erano serviti sali o
divanetti sui quali svenire. Passato il pericolo, si era asciugata le
guance e aveva aiutato Cecilia a trasportare il signor Wheeler
all'interno della locanda. Poi, l'aveva controllato e medicato, mentre
Cecilia spostava i cadaveri dentro le stalle.
Un gemito si
levò
dal letto: il signor Wheeler, spogliato della camicia, stava tentando
di sollevare il busto. Cecilia, al momento sola con lui, non aveva
tempo di imbarazzarsi. Josiah poteva reggere il confronto con l'Apollo
di
Fidia, ma era stato ridotto a un tappeto di lividi e il gonfiore gli
stava fagocitando il bel viso, trasformandolo in una maschera deforme,
con un labbro rotto, un sopracciglio spaccato e del sangue
rappreso sotto il naso. Elizabeth gli aveva trovato due costole
incrinate e la macchia scarlatta, sul fazzoletto al braccio sinistro,
diventava ogni secondo più scura e più larga: si
era
guadagnato un taglio di un baionetta nel suo folle tentativo di tenere
testa ai soldati inglesi.
«Vostra sorella ha detto che non dovete muovervi»
gli
ricordò Cecilia. Con un braccio a circondare mollemente il
costato, se ne stava vicino alla finestra, sulla sedia appoggiata alla
parete bianca. Erano nell'ala della locanda che fungeva da abitazione
per i proprietari; la camera, spoglia e pulita, era quella che
Elizabeth condivideva con la sorella minore. Quest'ultima, insieme alla
madre ― aveva saputo Cecilia ― era a Braintree, dove sarebbe rimasta
ospite dello zio per l'intera settimana.
Una smorfia del signor Wheeler le lasciò intendere quanto
poco tenesse conto delle raccomandazioni della sorella.
«Perché vendete armi di contrabbando?»
domandò allora Cecilia.
«Non... non sono in vendita» rispose l'uomo,
ansimando per
la fatica. Strinse i denti. Dovette tornare a distendersi.
«Sono
state raccolte e nascoste per la milizia. Verranno a prenderle questa
notte. Se solo le giubbe rosse fossero rimaste alla larga da qui ancora
per qualche ora!»
«Come sapevano che nascondevate delle armi?»
«Non lo sapevano. Vanno setacciando casa per casa.»
«Perché?»
«Non sapete degli ultimi piani di Gage?»
«So solo che ha fatto posizionare dei cannoni a Beacon Hill e
che
un reggimento si è accampato al Neck. Non riceviamo molte
notizie alla fattoria. E quando arrivano, arrivano in
ritardo.»
«Gage ha ordinato il sequestro di tutta la polvere da sparo
della
provincia. A Boston, il colonnello Brattles ha consegnato le chiavi
della polveriera agli ufficiali inglesi e, a un miglio da Winter Hill,
Maddison ha svuotato la Powder
House.»
[2]
«Perché il governatore ha tanta paura di lasciare
la polvere da sparo in giro? Non siamo in guerra.»
Wheeler sospirò rauco, gli occhi azzurri al soffitto.
«Non lo siamo, signorina Carter?»
Cecilia fu scossa da uno spasmo che non aveva nulla a che fare con il
dolore.
«No. E se mai ce ne sarà una, non sta a voi
deciderlo. Men
che meno ai Figli della Libertà. Perché credete
che sia
stato convocato un Congresso?»
«Vi assicuro che l'attesa di una decisione da parte del
Congresso
è l'unica cosa che trattiene il popolo. Ma la pazienza
è
agli sgoccioli e la gente... la gente è furiosa. Avete
appena
visto, con i vostri occhi, quale trattamento ci riservano gli inglesi.
Dovremmo lasciare che ci disarmino? Che ci rendano incapaci di reagire?
Di difenderci?»
«Io ho incontrato sei uomini di scarsa intelligenza e morale
inesistente. Mi rifiuto di credere che tutti i soldati e tutti gli
inglesi siano inclini a un comportamento simile.» Mio padre era un soldato. E un
inglese. Il pensiero colpì Cecilia
inaspettatamente. Non pensava mai a suo padre.
«Il cuore tenero delle donne» commentò,
amaro, il signor Wheeler.
«Questo non è il giorno più adatto per
sostenere la tesi della tenerezza del mio sesso.»
L'uomo voltò il capo per guardarla e Cecilia colse
nitidamente
un cruccio tra il gonfiore. Non le fu difficile prevedere quale dubbio
stava iniziando ad agitarsi dietro la fronte del signor Wheeler.
«Come ci siete riuscita?» esalò lui.
«Uno dei soldati ha il cranio fracassato... voi combattete? Voi
combattete come...»
«Come un selvaggio?» lo anticipò
Cecilia, quasi a
sfidarlo a pronunciare il termine. «Erano uomini vili e
arroganti» tagliò corto. «Si sono
scavati la fossa
da soli.»
«Sì, ma voi siete solo una piccola
don—»
«Quello che mio fratello sta cercando di dirvi»
Elizabeth
rientrò nella camera, portando con sé una
scatolina di
legno, «è che siamo in debito con voi, signorina
Carter.» Mise la scatola sul tavolo, già occupato
da un
catino di acqua. Trasse dalla scatolina un ago e un rocchetto di filo
di cotone. Poi, sedette sul bordo del letto e iniziò a
occuparsi
del taglio sul braccio del fratello. Dovette avvertire lo sguardo di
Cecilia sulle sue mani, perché dopo qualche attimo disse:
«Non è più difficile che rammendare una
vecchia
camicia.»
Il signor Wheeler grugnì quando l'ago bucò la
pelle. «Sta attenta, donna.»
«Le vecchie camice piagnucolano di meno.»
«Che ne farete dei cadaveri?» chiese Cecilia.
«Quelli» disse il signor Wheeler, succhiando aria
tra i
denti per sopportare il dolore, «hanno bisogno di un
nascondiglio
migliore.»
Cecilia restò in silenzio per un lungo momento, il viso
basso, in contemplazione degli stivali impolverati.
«Dovreste depredarli.»
«Prego?» Elizabeth interruppe il suo lavoro di
sutura per rivolgerle un'occhiata sorpresa.
«Erano soldati» riprese Cecilia. «Quanto
ci
vorrà prima che altri si accorgano della loro scomparsa?
Tutti
sanno che in, questa zona, ci sono stati attacchi di briganti negli
ultimi tempi. Dobbiamo togliergli qualsiasi oggetto di valore abbiano
addosso. Bruciare il bruciabile. Sbarazzarci del resto. E abbandonare i
corpi nel bosco, almeno a due o tre miglia da qui. — Oh, e
anche
il sangue va fatto sparire.»
I due fratelli la stava fissando. E lei capì cosa vedevano:
la
signorina Carter, l'orfanella della fattoria Adams, che senza batter
ciglio illustrava un modo per occultare una serie di omicidi.
Uno spettacolo grottesco.
«Se ne occuperà la milizia...»
sussurrò il signor Wheeler.
«No. Nessuno al di fuori di noi tre dovrà mai
sapere che
cosa è successo. Se dovessero venire a portarmi via con un
mandato d'arresto, saprò chi è stato a parlare.
Nasconderò io i corpi. Voi avete un carretto e dei cavalli,
io
so come confondere le tracce. E venendo qui ho visto più di
un
posto, in mezzo alla vegetazione, dove abbandonerei una cadavere, se
fossi un brigante.»
NOTE
STORICHE
[1] Nel diciottesimo secolo, il ruolo e le capacità dei
farmacisti coincidevano quasi interamente con quelle dei
dottori e non pochi esercitavano anche il mestiere di dentisti,
chirurghi e ostetrici. Esistevano scuole di medicina ma la maggior
parte imparava il mestiere attraverso un apprendistato.
[2] L'episodio storico che fa da sfondo a questo capitolo, e al
precedente, è quello del Powder Alarm. Tra
il 31 agosto e il 1 settembre 1774, il governatore Gage, per stroncare
sul nascere i tentativi di rivolta dei coloni, decise di rimuovere
tutte le forniture militari presente sul territorio della colonia, a
partire da Boston. Benché si trattasse inizialmente di
un'azione segreta, la notizia si sparse in fretta e la voce (falsa) che
gli Inglesi
stessero cercando di ridurre al minimo le armi dei coloni
perché sul punto di iniziare una guerra gettò
panico e agitazione.
NOTE
AUTRICE
Eccomi qui — a pubblicare in un ritardo a dir poco
vergognoso. Prometto che non accadrà o almeno non dovrebbe
accadere più, perché i restanti capitoli di
questa seconda parte della fan fiction sono praticamente tutti scritti
e completi. A questo proposito, per chi si stesse giustamente chiedendo
quando torneremo a vedere Connor e a riallacciarci alla trama
principale del videogioco, la risposta è: negli ultimi due
capitoli della seconda parte — e ciascuna parte è
formata da undici capitoli. Detto ciò vado finalmente a
rispondere alla ultime recensioni — che non pensiate che non
le abbia lette e apprezzate fino alla commozione *sniff* ❤❤❤
E un bacione e grazie a chiunque passi di qui!
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Capitolo 18 *** «The house is in good hands» ***
THE CORNFLOWER CAP 18
XVIII
«The house is in good hands»
Fattoria
degli Adams. 8 settembre 1774
Le dita sfioravano i tasti della spinetta e gli occhi seguivano la
collana di note sullo spartito. Cecilia ne sbagliò un paio,
inciampò goffamente nel ritmo, ma nessuno parve farci caso e
lei andò avanti, perché la leggerezza della
contraddanza, spensierata come le chiacchiere in una caffetteria,
allegra come i passi dei ballerini in una taverna, era un balsamo per
la
noia della sera.
La signora Adams sedeva sul divanetto, immersa in
un libro di storia; il viso stanco e tirato, le occhiaie segnate ma la
fronte distesa. Fino a pochi minuti prima era stato Johnny a leggere a
voce alta dal libro. In tutta la provincia, la situazione era talmente
incerta, talmente preoccupante, che persino le scuole erano state
chiuse, ma la signora non aveva alcuna intenzione di permettere allo
spauracchio della guerra di rovinare l'istruzione della sua prole. Ogni
sera esigeva che Johnny e Nabby si esercitassero nella lettura. Ora,
concluse le due consuete pagine obbligatorie a testa, i bambini erano
stati liberati: Nabby ricamava vicino al caminetto, sotto la guida di
Sally; Johnny se ne stava seduto su una cassapanca sotto alla
finestra, con il mento affondato sul braccio, a guardare fuori nella
semioscurità, tracciando sul vetro segni di fantasia con la
punta del dito. Charlie, seduto sul tappeto ai piedi della madre,
stringeva a sé Tommy, come fosse stato un pupazzo di pezza,
e teneva i grandi occhioni marroni puntati sulle mani di Cecilia, che
volavano senza sosta sui tasti. Charlie aveva smesso di nascondersi
alla vista di Cecilia ma, per motivi che alla ragazza restavano oscuri,
si rifiutava di rivolgerle la parola; e non importava quanto lei si
sforzasse di essere gentile, di viziarlo con giochi e dolcetti, lui si
ostinava a mettere il broncio e ad ammutolire.
John Adams era ancora a
Philadelphia. Abigail continuava a
scrivere lettere al marito ma da lui non era arrivata una sola riga di
risposta.
Tuttavia, sapevano con certezza che era a Philadelphia:
avevano letto sui giornali dell'apertura del Congresso, e si sentivano
libere di sperare che fossero gli impegni a sottrarre al signor Adams
il tempo per scrivere. O che le lettere di lui fossero andate perdute
lungo il tragitto. Oppure che non si fosse ancora trovato il modo per
far giungere i messaggi a Braintree. Intanto, di
giorno la signora Adams mandava avanti la fattoria e di
notte si lasciava attanagliare dalla preoccupazione. Aveva confidato a
Cecilia di non riuscire mai a prendere sonno prima della
mezzanotte ― e lei avrebbe voluto dirle che comprendeva la sua
ansia più di quanto potesse immaginare. Cecilia pensava ogni
giorno a Davenport Manor. Gli dedicava tutti i suoi pensieri prima di
addormentarsi. Ma le sembrava anche di pensarci ogni
giorno un po' meno.
E che l'emozione che accompagnava i suoi pensieri per Connor
fosse, ogni giorno, un po' meno l'apprensione di un'innamorata ― o che
tale
si credeva ― e un po' di più la naturale premura di
un'amica.
Cecilia
sollevò le mani
dalla tastiera, sostituì lo spartito e si
gettò nell'esecuzione di un secondo brano.
Quando il mattino precedente ― il
mattino del suo diciottesimo compleanno ― gli spartiti erano stati
consegnati alla fattoria, avvolti in una delizioso pacchetto e
accompagnati da una lettera di auguri da parte di Mary Waxon, Cecilia
era rimasta piacevolmente incredula. Non aveva mai comunicato a Mary la
sua data di nascita ― sospettò quindi che l'informazione
doveva essere finita tra le lettere della signora Adams alla signora
Waxon ― e l'unico accenno che Cecilia aveva mai fatto al suo amore per
la musica era stato in un momento di pausa, dopo il pranzo
offerto
dal colonnello, quando lei, Mary e James avevano cercato la
tranquillità dello studiolo, lontano dai discorsi di
politica. Ma era sempre stata certa che le sue parole fossero andate
perse nel fiume di chiacchiere di Mary ― e in quando a James, lui
leggeva vicino alla finestra, completamente
disinteressato.
«Soldati!»
Un brusco accordo
stonato mise fine alla musica.
«Arrivano i
soldati!» esclamò di nuovo Johnny; si era tirato
in ginocchio sulla cassapanca e indicava fuori dalla finestra.
La
signora Adams fu la prima ad avvicinarsi alla finestra; e Cecilia
ringraziò il Cielo che Sally e Nabby fossero troppo occupate
a seguirla a ruota, per accorgersi di lei che, alzatasi troppo in
fretta dallo sgabello, non riuscì a nascondere una smorfia
per il dolore alla schiena e dovette cercare l'appoggio della cassa
della spinetta.
Poi, con studiata calma, raggiunse Sally, davanti alla
finestra.
Sally strinse il braccio di Cecilia e Cecilia avrebbe voluto
avere lei qualcuno a cui stringersi: la coscienza sporca si faceva
sentire.
Ma non erano soldati inglesi quelli che avevano
appena superato la curva della strada, riempiendo la quiete della
campagna con il suono di passi pesanti e cadenzati.
Era uomini della
milizia. Ed erano tanti. Non se ne vedeva la fine ― tanto
che Cecilia pensò dovessero essere più di un
centinaio. Marciavano in ordine, in perfetto silenzio, preceduti da un
grosso carro vuoto. Un colpo di vento dispiegò la bandiera
che uno dei patrioti portava alta come uno stendardo e, alla luce
rossastra delle lanterne, Cecilia riuscì a vedere il disegno
sulla bandiera.
Il serpente diviso in otto parti. Join,
or Die
ammonivano le parole.
«Mamma, dove stanno andando?»
«Non lo so, Johnny» La signora Adams teneva le mani
sulle spalle dei due figli maggiori, che le si erano affiancati.
«Davvero non lo so.»
*
* *
Lo specchio, sul tavolino ovale che fungeva, a seconda del momento, da
scrittoio o da angolo della toletta, rifletteva il viso di Cecilia e
il suo distratto accarezzarsi i capelli chiari con la spazzola. Forse
era per via delle ombre causate dalla candela, lì sul
tavolo, ma mai il suo volto le era apparso così
pallido e così adulto:
perduta ogni incertezza dell'adolescenza, sparita ogni
rotondità infantile, i suoi lineamenti si erano fatti ancora
più marcati e mascolini, mettendo in bella vista gli zigomi
sporgenti e il disegno duro dalla mascella.
Cecilia batté le
palpebre. Venne distratta da Sally: la vedeva nello specchio.
Era
sul letto in camicia da notte. Fissava
muta le lenzuola;
i capelli sciolti in una bruna
cascata di ciocche mosse e le ginocchia raccolte contro il petto.
«Sally, c'è qualcosa che
non va?»
«No» si sentì
rispondere, in un sussurro spento.
Cecilia continuò ad
osservarla dallo specchio e Sally non si mosse.
«Sei
silenziosa, questa sera.»
«Anche tu lo sei. Lo sei da quando sei stata alla
locanda.»
Cecilia smise di spazzolarsi i capelli. E di guardare nello specchio.
Mise giù la spazzola ― il regalo di compleanno da parte di
Sally ― e
sfiorò la pietruzza forata che le pendeva sul suo petto. Non
aveva raccontato nulla di Wheeler's Inn. Non aveva il coraggio di dire
a Sally cosa era successo al signor Wheeler né di dare pena
alla signora Adams. Nascondeva i lividi, inghiottiva ogni fitta che
echeggiava dal suo corpo indolenzito e quando non ci riusciva,
se le chiedevano perché si muovesse tanto lentamente,
rispondeva che la passeggiata fino alla locanda era stata stancante in
modo sorprendente. Ma taceva anche ― e sopratutto ― per la paura di
suscitare orrore. Forse Sally e la signora Adams l'avrebbero giustificata,
considerato il genere
di pericolo in cui si era trovata in balia, ma come l'avrebbero
guardata,
se avessero saputo cosa era stata in grado di fare ― e di
farlo senza nemmeno riuscire a provare rimpianti? Ogni volta che
chiudeva gli occhi riviveva gli attimi a Wheeler's Inn. Sentiva il
lezzo della stalla, la mano del soldato stretta attorno al suo collo,
le parole di uomini che parlavano di lei come fosse stata un pezzo di
carne da sbranare. Non poter liberarsi di simili ricordi le sembrava
una punizione sufficiente alla sua incapacità di provare
pentimento ―
e niente al mondo l'avrebbe convinta ad aggiungerci il dolore di
perdere
l'affetto e la fiducia di Sally e della signora Adams.
«Non
è vero!» esclamò Cecilia, alzandosi.
Andò ad arrampicarsi sul letto. «Ma se
è vero, non l'ho fatto di proposito. E poi, non ricordo di
essere mai stata una gran chiacchierona.» Raccolse i capelli
di Sally tra le mani. Iniziò ad intrecciarli. Sally la
lasciò fare. «Non preoccuparti per il tuo signor
Wheeler. Lo sai che non è nella milizia. Non era tra quegli
uomini.»
«Lo so, ma non è questo» disse Sally.
«Allora cosa?»
Sally alzò gli occhi e Cecilia li scoprì gonfi di
lacrime.
«Scoppierà una guerra!»
esclamò Sally, con la voce spezzata e tremante di chi ha
trattenuto troppo un peso sul cuore. «Perché ―
perché deve esserci un'altra guerra? Perché non
ci lasciano stare? Perché non ci lasciano...
vivere?»
«Ma di chi parli?»
«Di tutti! Del Re! Del Parlamento! Del Governatore! E di
tutti... tutti
i patrioti! Faranno scoppiare una guerra!»
«Nessuno ha detto che ci sarà una
guerra.»
«Il signor Adams―»
«Il signor Adams parla di indipendenza, ma lui è
solo uno dei cinque delegati inviati al Congresso. Gli altri...
insomma, la maggioranza comprenderà che una guerra... una
vera guerra... non è soluzione possibile. Quali speranze ci
sono di vincere una guerra se non abbiamo nemmeno un
esercito?»
«E quegli uomini in strada?»
«Sally... quelli non sono soldati. Sono fattori. Carpentieri.
Commercianti. Uomini qualunque che hanno deciso di imbracciare un
moschetto. E se non sarà il buon senso a salvarci da una
guerra, lo farà l'egoismo. Le altre colonie non hanno motivo
di consegnarci uomini e armi. Una singola colonia contro tutto
l'Impero? ― No, non accadrà.»
«Parli di
buon senso e egoismo, ma sottovaluti la
stupidità.»
«Si troverà un accordo» insistette
Cecilia. «Scommetto che da qui a un anno sarà
tutto finito.» Sistemò una ciocca dietro
l'orecchio di Sally. Sorrise. «E allora tu sarai
già la signora Wheleer.»
Sally riabbassò gli occhi, ma azzardò a sua volta
un sorriso. Piccolo e timoroso. Si rannicchiò contro
Cecilia, appoggiandole il capo sulla spalla, e Cecilia le
strofinò affettuosamente il braccio.
La consolazione fu breve.
Il silenzio notturno venne disturbato da un
rumore che avevano già udito.
Corsero alla finestra.
La milizia era di ritorno, con il carro, ora carico, nascosto da un
telo.
Le ragazze guardarono il corteo sfilare, senza scambiarsi una parola,
fin a quando, con somma sorpresa di entrambe, gli uomini si fermarono.
Erano proprio davanti alla casa. A un cenno di un uomo a cavallo, in
tre si staccarono dalla colonna e attraversarono il prato. Dei tre, l'uomo al centro si tolse il
cappello dalle falde larghe. Guardava verso l'alto, verso il secondo
piano, ma non in direzione della loro finestra.
Cecilia, compreso che la signora Adams doveva essersi affacciata dalla
propria camera, aprì la finestra.
Udirono la voce della
signora: «Signor Hammond. Stentavo a riconoscervi, in queste
vesti.»
«Perdonate il disturbo, signora Adams. Gli ufficiali si
chiedono se avete bisogno di qualcosa. Armi? Polvere da sparo? O
qualche uomo a protezione della casa?»
«Vi ringrazio, signori, ma la casa è
già in ottime mani.» [1]
NOTE
STORICHE
[1] Quanto accade in questo capitolo è raccontato in una
delle lettere di Abigail Adams: "[...]
about 8 o clock a Sunday Evening
there pass[ed] by here about 200 Men, preceeded by a horse cart, and
marched down to the powder house from whence they took the powder and
carried [it] into the other parish and there secreeted it. I opened the
window upon there return. They pass'd without any Noise, not a word
among them till they came against this house, when some of them
perceiveing me, askd me if I wanted any powder. I replied not since it
was in so good hands. [...]" ©Massachusetts
Historical Society Archive.
NOTE
AUTRICE
Poco o nulla da dire su questo capitolo ―
più o meno un capitolo di passaggio. Fremono i preparativi
per la guerra e intanto Cecilia, diventata maggiorenne, cerca di venire
a patti con quanto sta comprendendo di sé stessa. Brutta
bestia l'adolescenza.
Passando ad altro: oltre ai consueti
ringraziamenti a chi continua a seguirmi, un grazie va anche i nuovi
lettori che si sono aggiunti nell'ultima settimana! ❤
Il prossimo
capitolo ci porterà, con un bel balzo, in avanti nel tempo e
molto, molto vicini a Connor.
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Capitolo 19 *** Fuochi nella baia ***
THE CORNFLOWER CAP 18
XIX
Fuochi nella baia
Fattoria
degli Adams. 17 giugno 1775
«Cecilia... sveglia! Svegliati!»
Cecilia venne strappata al sonno per ritrovarsi con le mani di Sally
serrate sul braccio, immersa nel rarefatto chiarore di un'aurora, che
aveva appena iniziato a dissipare il buio della camera da letto.
Cecilia scivolò sulla schiena. «Che
c'è?» biascicò, con una voce impastata.
«Non li senti?» esclamò Sally in un
soffio terrorizzato, sgranando gli occhi.
Fu necessario qualche attimo ancora, prima che Cecilia riuscisse a
svegliarsi quel tanto necessario per comprendere l'agitazione di Sally.
Boati. Cupi e lontani boati nell'assoluto silenzio della campagna.
Cecilia guardò d'istinto verso la finestra e i rimasugli di
sonno svanirono grazie alla peggiore delle epifanie. Gettò
via le lenzuola e scese dal letto. Sally la imitò. Cecilia
la prese per mano e a piedi nudi, accompagnate dall'ovattato
scricchiolio del pavimento, uscirono nel corridoio: la porta della
camera dei bambini era aperta e quella della camera padronale
socchiusa.
«Io controllo i Warren» sussurrò
Cecilia. «Tu va dalla signora.»
Mentre Sally percorreva il resto del corridoio, lei sospinse la porta
più vicina. E un nuovo boato esplose in quell'esatto
momento.
Nel letto, rannicchiati l'uno vicino all'altro, stavano quattro
bambini. Svegli, visibilmente impauriti, non avevano osato mettere
piede fuori dalle coperte. Betsy, Richard, Mary e Joseph erano stati
affidati alle zelanti cure della signora Adams una settimana prima,
quando il dottor Warren era partito per Cambridge, dove il generale
Ward aveva riunito una fetta della milizia.
«Signorina Carter, che cosa succede?»
domandò Betsy, la maggiore.
Sfoggiando a malincuore il sorriso condiscendente e menzognero di un
adulto, Cecilia andò verso il letto e sedette sul bordo del
materasso.
«Sono solo cannoni» disse, nel suo tono
più dolce. Lisciò il risvolto delle ruvide
lenzuola e le sistemò per coprire meglio i bambini.
«Ma sono lontani. Molto, molto lontani. Non dovete avere
paura.»
«Io non ne ho» enunciò il piccolo
Joseph, con un'espressione troppo solenne per il suo morbido e rotondo
visetto da cinquenne.
Cecilia gli carezzò il capino nero.
«Bravo!»
«I cannoni sono vicini a papa,
signorina Carter?» sussurrò Mary, fissandola con i
grandi occhi azzurri, tali e quali a quelli del padre.
«Oh, no! Certo che no» rispose Cecilia.
«Anche lui è lontano dai cannoni.»
*
* *
Lasciata Sally a badare ai bambini, la signora Adams risaliva a passo
svelto il pendio di Penn's Hill, tenendo Johnny per mano. Pochi passi
più indietro, li seguiva Cecilia. Lei, come la signora, si
era vestita in fretta: niente fazzoletto sulle spalle, niente cuffietta
sul capo, i capelli sciolti sulla schiena.
Un blu scuro e opaco era ancora padrone del cielo, ma una striscia di
luce sorgeva a oriente e non era difficile muoversi senza lanterne.
Continuarono a camminare, veloci e in silenzio, con l'aria fredda nei
polmoni e il boato dei cannoni nelle orecchie. I grilli cantavano. I
cani, nelle fattorie vicine, abbaiavano e ululavano senza sosta.
Giunsero in cima alla collina. Baluginii giallastri, piccoli e
sfuggevoli come lucciole, riempivano la baia di Boston. Cecilia non
ebbe più dubbi. Erano i cannoni delle navi inglesi che
facevano fuoco: vedeva brillare la luce, un istante di silenzio, e poi
il boato. Sparavano verso Charlestown. [1] Ma perché?
si chiedeva Cecilia, con un nodo alla gola. Perché la
città?
Che i patrioti avessero preso di mira le colline sopra Charlestown non
era un mistero. L'avevano saputo pochi giorni prima dal signor Wheeler,
che aveva confidato loro i piani degli ufficiali con la sentita
raccomandazione di non farne parola con nessuno, nemmeno con i vicini,
poiché i Tories avevano orecchie ovunque. Dopo quanto
accaduto alla locanda quasi un anno prima né le preghiere
delle sorelle né le suppliche di Sally, erano riuscite a
smuovere Josiah dal suo desiderio di unirsi alla milizia e, al termine
della visita, Cecilia, non volendo, aveva scorto i due fidanzati da una
finestra mentre si scambiavano l'ultimo saluto: in giardino, in piedi
l'uno di fronte all'altra; Josiah stringeva le mani di Sally. Si
dissero qualcosa. Si baciarono. Cecilia a quel punto si era pudicamente
allontanata dalla finestra, provando una gran tenerezza per i
sentimenti di lei, una certa comprensione per il desiderio di rivalsa
di lui e una rabbiosa angoscia per il futuro di tutti.
Nessuno poteva più credere che non ci sarebbe stata una
guerra. Nemmeno Cecilia poteva. Non dopo la notizia degli scontri, due
mesi prima, a Lexington e a Concord. [2] Non dopo aver visto famiglie
intere scappare da Boston, ormai fortificata dall'esercito e dai
lealisti, in cerca di rifugio e ospitalità nelle fattorie e
nei villaggi vicini. Da settimane si viveva nella paura di leggere sui
giornali che la guerra
era iniziata, che nuove truppe erano sbarcate, che altre
città erano state occupate. Persino la signora Adams
— persino lei, che per mesi e mesi non si era mai permessa,
neppure per un attimo, di lasciare prevalere una pur ragionevole
apprensione sulla forza d'animo — dopo le notizie arrivate da
Lexington e Concord, una sera, rimasta sola con Cecilia davanti al
fuoco morente della cucina, si era chiesta a voce alta che cosa ne
sarebbe stato di tutti loro se la guerra avesse portato violenza nelle
campagne e dove sarebbero andate se, com'era probabile, fossero state
costrette ad abbandonare la piccola fattoria. Cecilia era solo riuscita
a pensare a quanto fosse stata buona la scelta di tenere
in casa un moschetto e una pistola.
Il sole stava sorgendo. «Questo mia cara Cecilia»
mormorò la signora Adams, la mano in quella del figlio,
«potrebbe essere il giorno in cui verrà decisa la
sorte di tutti noi.»
Restarono in cima a Penn's Hill per lunghissimi minuti, senza parlare,
a guardare i fuochi nella baia con una certezza: se anche un'ultima
speranza di pace era sopravvissuta fino ad allora, la stavano adesso
sgretolando i colpi di cannone.
*
* *
Le
ore della mattina erano trascorse con una lentezza snervante. I
boati non avevano mai smesso di farsi sentire. A tratti, i cannoni
tacevano per qualche minuto — alcune pause erano state
abbastanza lunghe da portare a sperare in un cessate il fuoco
— ma la speranza continuava a rivelarsi vana: arrivava sempre
un nuovo boato e, a volte, quando più cannoni sparavano in
contemporanea, l'esplosione diventava talmente potente da far vibrare
tutti i vetri delle finestre. In simili condizioni era impossibile
vivere la giornata come nulla fosse. I lavori domestici non vennero
sfiorati e il pranzo ridotto al minimo indispensabile per reggersi in
piedi.
Adesso se ne stavano tutti riuniti nel salottino. Sally, sul
divanetto, era pallida come una malata; da quando si erano svegliate,
non aveva toccato nemmeno un boccone di pane e aveva lo sguardo lucido
e arrossato di chi si trova sull'orlo di un pianto nervoso. I bambini
erano più fortunati. I più piccoli, abbattuti
dalla stanchezza, erano stati portati al piano di sopra, a dormire nei
loro letti. I più grandi, silenziosi e consci di quanto
stava accadendo, occupati il tappeto e il tavolo, riuscivano a
distrarsi con i giocattoli: i pupazzi di stoffa e i cavallini di legno,
le tessere di un vecchio puzzle e qualche biglia colorata che rotolava
qua e là, sul vecchio pavimento di legno. Cecilia e la
signora Adams erano davanti a una finestra. Per tutta la mattina aveva
sperato che qualcuno, chiunque in grado di portare notizie, passasse
davanti alla loro porta, ma la strada era rimasta deserta e ora
cercavano di decidere se fosse più saggio attendere ancora
oppure mandare Cecilia fino alla locanda.
La ragazza volse lo sguardo
in alto, aggrottando la fronte: il cielo era limpidissimo e il sole
delle tre era un accecante occhio di luce. Si rimise in
contemplazione della strada. Guardò verso nord, da dove
giungevano i boati. E guardò verso sud, dove il familiare
gruppo di alberi nascondeva la piega verso est presa della strada.
Un
cavallo sbucò oltre la curva.
L'animale era lanciato al
galoppo, il cavaliere stava piegato sulla sella e la corsa
portò il cavallo davanti alla staccionata della fattoria. Le
redini vennero tirate, il cavallo si fermò e Cecilia vide
l'uomo scivolare giù dalla sella, a peso morto.
Trasalì. «Ma è ferito...»
La signora Adams non permise alla sorpresa e all'indecisione di
immobilizzarla. «Bambini. Andate di sopra. Subito! Sally,
Cecilia... con me.» Raccolse l'orlo del vestito e si
precipitò all'ingresso.
Le ragazze la seguirono a ruota.
Lo sconosciuto si era rimesso in piedi ma, per riuscire a reggersi
sulle gambe, cercava il sostegno del cavallo, mentre la povera bestia,
stranita dai boati, raschiava nervosamente gli zoccoli tra i sassi
della strada.
La signora Adams fu subito accanto all'uomo.
«Sally — aiutami!»
Entrambe offrirono le
proprie spalle come sostegno.
Cecilia fece appena in tempo a scorgere
le fattezze dell'uomo — sembrava avanti con gli anni e aveva
il viso butterato, scavato dalle cicatrici del vaiolo — prima
di sentirsi ordinare: «Cecilia, togli il cavallo dalla
strada.»
La ragazza prese le briglie.
Il cavallo nitrì, scosse il
lungo collo e indietreggiò.
«Sshh! Buono...
buono!»
L'animale parve quietarsi un poco e Cecilia poté vedere
Sally e la signora
Adams aiutare l'uomo a raggiungere la porta. Erano troppo occupate a
scongiurare una caduta per notare che il pugno destro di lui, oltre la
spalla di Sally, si era allentato. Ne scivolò via qualcosa
che a Cecilia parve una catenina.
Non appena scomparvero all'interno
della casa, lei tirò via il cavallo dalla strada. Si
fermò là dove aveva visto cadere la catenina. La
ritrovò subito, tra l'erba, e la raccolse. Alla catenina era
unito un pendente. Il cuore di Cecilia prese a battere forte. Strinse
il ciondolo nel pugno e non perse tempo. A passo svelto, condusse il
cavallo nella stalla; aprì la a bisaccia appesa alla sella,
frugò all'interno, non trovò nessun chiaro
indizio sull'identità dell'uomo. Allora, corse in casa.
Passando dalla porta della cucina, trovò Sally e la signora
Adams nel salottino. L'uomo era stato messo a sedere su una sedia.
Aveva la palpebre socchiuse sugli occhi piccoli e infossati, il
panciotto aperto e la camicia, inzuppata di sangue, sollevata a
scoprirgli un fianco. China su di lui, la signora Adams sembrava
intenta a capire la gravità della ferita, mentre Sally
sistemava sul tavolo un catino d'acqua e canovacci puliti sul tavolo.
Cecilia avanzò di impulso verso l'uomo.
«Perché avete questa?»
esclamò. Il ciondolo pendeva verso il basso, esposto alla
vista di tutti: una croce rossa, con i quattro bracci di identica
lunghezza. «Appartiene a voi?»
L'uomo sollevò le palpebre. Fissò la croce.
Scosse debolmente il capo.
«E allora perché—?»
«Cecilia!» chiamò la signora Adams, in
un sibilo, come a ordinarle di tacere.
«Se non vuoi aiutare, va di sopra e controlla i
bambini.» Fece un cenno a Sally e Sally le passò
un canovaccio.
L'uomo gemette a denti stretti quando la signora Adams
iniziò a lavare via il sangue dalla ferita.
Cecilia mosse un
passo indietro ma non uscì dalla stanza, troppo occupata a
immaginare un artefice della ferita per
ricordarsi di sbattere le palpebre.
«Sally—va in
cucina, per favore» riprese la signora. «Metti a
bollire le radici di echinacea.»
Sally obbedì. Cecilia le andò dietro e
l'avvicinò mentre lei rovistava tra i barattoli della
dispensa.
«L'uomo... vi ha detto chi è?»
«Dice di chiamarsi Brewer» sussurrò
Sally. Le tremava la voce. «E che era alla guida di un
reggimento diretto a Bunker Hill. Gli inglesi li hanno intercettati.
C'è stata una battaglia, ma erano in svantaggio per numero e
munizioni... è stato un mezzo massacro, ha detto.»
Cecilia tornò nel salottino, decisa a ottenere una risposta,
che la signora Adams giudicasse il momento adatto o meno.
«L'avete preso agli inglesi il pendente?»
Brewer aggrottò la fronte. Poi, mosse il capo in segno di
assenso.
«L'ho strappato via a uno degli
ufficiali—perché... perché continuate a
chiederlo?»
Ma Cecilia non rispose e l'uomo allungò una mano verso il
polso
della signora Adams.
«Dove... dove sono gli uomini di questa
casa?»
«Non ce ne sono» disse la signora
Adams.
«Ci siamo solo noi.»
«Allora... dovete... chiamare qualcuno.»
«Sì, un medico. A voi serve un medico»
lo interruppe la signora Adams.
«No!
No... trovate un uomo. Un uomo
fidato. Che possa cavalcare fino a Bunker Hill. Putnam ha chiesto i
rinforzi. Non arriveranno. Sono da soli... devono saperlo. Speravo...
speravo di riuscire ad arrivare io stesso più vicino...
»
Cecilia guardò la signora Adams. La donna tenne
lo sguardo basso, fermo sulle proprie mani, che stringevano il panno
pregno di sangue e di acqua. Stava chiaramente riflettendo, in fretta,
ma senza lasciar trapelare alcun segno di agitazione.
«Signora!» Cecilia non riuscì a restare
in silenzio. «Bussare alle altre fattorie, o peggio andare
fino a Braintree, spiegare quello che è successo e trovare
un uomo pronto a partire... sarebbe un inutile perdita di tempo.
Andrò io. Lasciatemi prendere Red. — E per il
medico... Sally... lei può andare a chiedere aiuto ai
Parris. Loro hanno cavalli, e uomini. Saranno in città in un
attimo.»
«Ma è ridicolo...» esalò
Brewer.
Cecilia lo ignorò e perseverò nel fissare il
profilo della signora Adams.
«So cavalcare veloce. Lo sapete. E posso partire
immediatamente.»
«E ammesso che riusciate a resistere in sella per
più di dieci miglia—»
«Sono più robusta di quanto
immaginiate.»
«E poi come pensate di avvicinarvi
senza un lasciapassare?»
«Ne scriverete uno
voi» asserì di colpo la signora Adams. Non diede
tempo all'uomo di protestare ulteriormente. «Ora tacete e
risparmiate le forze. Sally!» La ragazza si
affacciò subito nella stanza. «Carta e calamaio
per il colonnello. Cecilia, indossa gli abiti da viaggio.»
Meno di cinque minuti più tardi, Cecilia appoggiava il
piede, calzato nello stivale, sulla staffa. Si issò sulla
sella, con la daga e la pistola al fianco sinistro, e la lettera
firmata dal colonnello
Brewer al sicuro, sotto la giacca. Red era il
solo cavallo della fattoria adatto al viaggio: un arabo dal mantello
rossiccio, una
bestia veloce e nervosa. La ragazza si calcò il tricorno,
che l'avrebbe protetta dal sole di quelle ore calde, sui capelli
raccolti in una coda bassa.
Un colpo di talloni e il cavallo
partì al galoppo.
NOTE
STORICHE
[1] Nel 1775 Charlestown era un piccolo insediamento sulla
costa meridionale di una penisola a nord di Boston.
[2] Il 19 aprile 1775, nei pressi dei villaggi di Lexington e Concord,
uno scontro armato vide impegnati un contingente di truppe britanniche
e un gruppo della milizia coloniale. La battaglia, conclusasi con la
ritirata degli inglesi e la vittoria dei reparti coloniali,
segnò l'inizio ufficiale della guerra di indipendenza.
Lexington
e Concord è anche una della sequenze giocabili in Assassin's
Creed III: Connor aiuta a difendere Lexington e Concord dall'attacco
dell'esercito britannico, guidato da John Pitcairn.
Nella prima metà del capitolo ho seguito il più
fedelmente possibile le vicende storiche, dal risveglio a suon di colpi
di cannone, alla presenza dei figli di Joseph Warren fino a Penn's
Hill. Nella
seconda
parte, invece, la realtà si limita a due particolari: il
nome
del colonnello e il fatto che parte dei rinforzi chiesti da Israel
Putnam non giunsero mai. Infine, un appunto: quella di affidare alle
donne il
compito di portare messaggi e/o lanciare allarmi divenne, nel corso
della
guerra, pratica abbastanza comune. In parte perché i coloni
sapevano che le donne avrebbero suscitato meno sospetti (era ritenuto
pressoché impensabile affidare un messaggio importante alle
mani
o alla memoria di una donna) abbassando di conseguenza le
possibilità che il messaggero venisse arrestato e
perquisito.
Tra i casi più famosi, si potrebbe citare Sybil Ludington.
La
notte del 27 aprile 1777 cavalcò da sola sotto la pioggia
per
quaranta miglia, lungo una strada alla mercé dei banditi,
per
avvertire gli americani dell'avvicinarsi degli inglesi. Aveva solo
sedici anni e percorse il doppio della distanza di Paul Revere, la sua
più famosa controparte maschile.
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