The Cornflower

di _Blanca_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una piccola randagia ***
Capitolo 2: *** Visite inaspettate ***
Capitolo 3: *** Il ragazzo Mohawk ***
Capitolo 4: *** Confidenze tra la neve ***
Capitolo 5: *** Sulla strada per Boston ***
Capitolo 6: *** Attesa ***
Capitolo 7: *** Veglia notturna ***
Capitolo 8: *** L'Aquila e il lupo ***
Capitolo 9: *** Il primo passo ***
Capitolo 10: *** Chi lascia la via vecchia ***
Capitolo 11: *** Per la via nuova ─「fine prima parte」 ***
Capitolo 12: *** Dopo il ricevimento ***
Capitolo 13: *** Lettere, matrimoni ed eredità ***
Capitolo 14: *** La famiglia Waxen e il dottor Warren ***
Capitolo 15: *** Il cuore ha le sue ragioni ***
Capitolo 16: *** Guai a Wheeler's Inn ***
Capitolo 17: *** La legge del taglione ***
Capitolo 18: *** «The house is in good hands» ***
Capitolo 19: *** Fuochi nella baia ***



Capitolo 1
*** Una piccola randagia ***


THE CORNFLOWER CAP 1
Questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro; ad eccezione di Cecilia Carter e della sua storyline, tutti i personaggi e gli intrecci presenti nella fan fiction sono proprietà della Ubisoft, dei suoi autori e sviluppatori.

Note introduttive: La mia familiarità con Assassin's Creed e i suoi fascinosi e interessanti personaggi è recente, dei romanzi ho letto Rinascimento e conosco le vicende di Assassin's Creed III solo attraverso il videogioco. Rimpolpando la conoscenza con letture sul web, ho scoperto che Connor è l'Assassino meno amato in generale. Peccato, sarà anche una macchina omicida di un metro e novanta, però a me ispira nomignoli che offenderebbero pure l'orgoglio di un cucciolo di Beagle. Fatto sta che, letteralmente da un giorno all'altro, vengo colta dall'ispirazione. Non volevo cedere e invece l'ho fatto. Mi sono persino decisa a pubblicare, perché ho pensato: male che vada riceverò un caloroso invito a lasciar perdere ma almeno mi son fatta una cultura sulla vita delle donne nell'America coloniale del Settecento e ho ripassato gli eventi della Rivoluzione Americana. Perché, sì, la Storia è un terreno che non mi ero mai azzardata a toccare e ho piegato l'immaginazione alle ricerche, tentando di costruire personaggio e situazioni che fossero realistiche dal punto di vista storico e plausibili sul fronte dell'opera originale. Magari ho toppato comunque, eh. Però posso dire di averlo fatto in buona fede. Il progettino è strutturato in una serie di 'episodi', quasi dei flash, narrati in terza persona e dal punto di vista dell'OC. Non ho intenzione di cambiare eccessivamente la trama, solo di mostrare quei momenti in cui la vita di Cecila sfiora e/o si intreccia con quella di Ratonhnhaké:ton e con gli eventi della Rivoluzione. Naturalmente, eventuali commenti, consigli e critiche costruttive (lo ripeto: Assassin's Creed per me è un campo minato .__.) saranno gentilezze di cui vi sarò profondamente grata.


















I

Una piccola randagia










Colonia di Massachussets Bay. 20 settembre 1769

Cecilia alzò lo sguardo verso la grande casa di mattoni scuri. Attorno alle finestre buie, gli infissi bianchi emanavano una luce spettrale, riverberando il chiarore della luna piena appesa nel terso cielo settembrino. La ragazza si strinse nella mantella. Ignorò il dolore ai piedi e riprese ad arrancare per il viottolo, pur sapendo che gli abitanti della casa avrebbero potuto presentare ottime ragioni per scacciarla via. Una donna sconosciuta bussava alla loro porta a tarda notte e chiedeva ospitalità: nella migliore delle ipotesi, potevano scambiarla per una mendicante; nella peggiore, per una ladra, una fuggitiva, persino una strega.
Ma lei doveva almeno tentare. Le salivano le lacrime agli occhi al solo pensiero di trascorrere un'altra notte abbarbicata ai rami di un albero, con il terrore di scivolare giù durante il sonno, rompersi il collo e finire in pasto ai lupi.
Cecilia affrontò quattro lisci gradoni di pietra e bussò alla porta, mentre da qualche parte, tra gli alberi, un gufo turbava il silenzio notturno con un lugubre bubolare.
Nessuno venne ad aprire.
Cecilia bussò altre due volte. Ogni volta con un po' di foga in più.
Lentamente, la porta venne socchiusa. Al morbido bagliore di una candela comparve il viso, contratto in un'espressione accigliata e sospettosa, di un vecchio dalla pelle scura.

***

L'anziano, sorretto da un corto bastone, guidò Cecilia lungo un androne immerso nell'oscurità. L'eco dei loro passi si fondeva con i sinistri rumori della casa: sinfonie di scricchiolii dolenti come i gemiti di un malato sul letto di morte. Entrati in una spartana cucina, il vecchio sistemò la candela sulla mensola del camino, si accomodò su di uno sgabello e disse a Cecila di farsi più vicina. Aveva la voce arrochita dall'età, ma il tono era fermo, autoritario, sottilmente spazientito.
Cecilia obbedì, lieta di poter almeno godere del tepore della brace, che brillava rossa tra la cenere.
In piedi, con la mantella sulle spalle, la bisaccia a tracolla, le mani pallide e infreddolite strette l'una nell'altra, la ragazza si lasciò esaminare. Era trascorsa almeno una settimana da quando aveva avuto occasione di guardarsi allo specchio, ma non le serviva consultare il proprio riflesso. Si rendeva conto di essere in pessime condizioni. Durante il viaggio, ogni mattina, si era lavata il viso e le braccia nelle acque fredde dei ruscelli, ma non aveva potuto far nulla per i capelli, che adesso le ricadevano sulle spalle, lisci, sporchi e spettinati. E poi il freddo e la stanchezza, il poco sonno e il poco cibo, gli abiti dal taglio modesto macchiati di terra: tutto contribuiva a darle l'aspetto randagio di un gatto malato e spelacchiato.
«E dunque, come ti chiami?» domandò il vecchio.
«Cecilia. Cecilia Carter.» La voce le uscì debole, quasi afona.
«E che stai facendo nella mia proprietà in piena notte?»
Cecila capì: il vecchio non era un domestico, tanto-meno uno schiavo. Era il padrone.
«Sono in viaggio, signore.»
Dell'incredulità sostituì il cruccio, sul volto del suo interlocutore: «Da sola?»
Cecila annuì.
«In viaggio per dove?»
«Boston.»
«E da dove vieni?»
«Gloucester.»
«Chi ti ha mandato da sola ad affrontare un viaggio simile? Non hai dei genitori?»
Cecilia si limitò a un fiacco cenno di diniego.
«Parenti? Un tutore?»
«No, signore.»
Il vecchio restò in pensoso silenzio per una lunga manciata di secondi, senza distogliere gli occhi dal viso di Cecilia.
La stava studiando attentamente. Lei lo capì ed evitò di incrociarne lo sguardo. Mantenne il proprio all'altezza del monile al collo dell'uomo: era adagiato sulle gonfie pieghe della cravatta bianca, che spuntava da sotto il panciotto cremisi dell'uomo.
«Quanti anni hai?» riprese il vecchio.
«Quattordici.»
«Non starai mica scappando da un marito, vero? Non voglio rogne per aver aperto la porta a una ladra». [1]
«Non ho nessun marito, signore. Non sto scappando. Nessuno mi cerca.»
«Ma qualcuno ti attende, a Boston?»
«No.»
«E allora cosa diamine ci vai a fare laggiù?»
Cecilia esitò, persa nella sconfortante vaghezza delle sue stesse prospettive.
«Cerco... cerco un posto dove stare. So che è una città grande. Piena di gente. Spero di trovare una famiglia che abbia bisogno di una domestica.»
Il vecchio la fissò con aria poco convinta.
Cecilia inghiottì un grumo di saliva amara e tentò di camuffare la supplica dietro un tono tranquillo: «Io non ho soldi con me. Non posso pagarvi... ma... se mi lasciaste dormire al chiuso, solo per questa notte... prometto di andarmene all'alba.»
Ricevette in risposta un verso contrariato che interpretò come un: Bah!
«I letti sono di sopra e la legna eccola lì.» Il vecchio si levò piedi, puntando il bastone verso un basso mucchio di ciocchi accatastati a lato del grande camino. «Non ci sono servitori in questa casa. Ci sono solo io. Se vuoi un fuoco, dovrai accendertelo da sola». Accennò a un tegame abbandonato su un angolo del lungo tavolo, al centro della stanza: «C'è rimasto qualche cucchiaio di stufato. Coniglio e fungh. Ma ormai sarà freddo.»

***

Un'ora più tardi, Cecilia dormiva nel buio di una spoglia e austera camera da letto. Il materasso era molle, le lenzuola ruvide, il fuoco nel caminetto presto spento, ma per la ragazza fu come riposare sotto il baldacchino di seta di re Giorgio in persona.
La notte scivolò via in un soffio e, al suo risveglio, Cecilia venne sopraffatta dalla disperazione. Doveva lasciare la casa. L'aveva promesso. L'aspettavano giorni di cammino, notti all'addiaccio, pasti a base di pane raffermo consumato in fretta e furia. Boston era lontana come un miraggio fumoso, perennemente oscurato dalle più deprimenti congetture: e se una volta lì, nessuno volesse prendermi a lavorare? Come farò quando arriverà l'inverno? Finirò a vivere per strada e morirò di freddo? No, morirò prima di fame...
Maledisse ancora una volta quelle persone avide e troppo potenti che erano le dirette responsabili della sua situazione, che l'avevano costretta a una vita da vagabonda, senza un tetto sulla testa, senza una sola figura amica alla quale rivolgersi.
Oltre la finestra piombata, il cielo era di un azzurro vivo e immacolato; a giudicare dall'intensità della luce, l'alba doveva essere passata da un pezzo. Cecilia represse la voglia di affondare il viso nel cuscino e lasciarsi andare al pianto, gettò via le lenzuola e sopportò i pizzichi dell'aria fredda, riparata solo dal cotone della lunga camicia. Lavato il viso nella catinella di ceramica, si vestì in fretta, soffermandosi pochi istanti sul proprio rifelsso, davanti allo specchio, appoggiato sulla cassettiera impolverata. Ebbe la conferma dei propri timori: bella non lo era mai stata, ma adesso era in uno stato pietoso. La stanchezza rovinava l'unico tratto del suo volto che reputava degno di nota: larghe occhiaie violacee le segnavano gli occhi – ed erano occhi grandi, con ciglia lunghe e l'iride dipinta di verde dalla fredda sfumatura grigia. Per il resto, non aveva molto da vantarsi: il viso era squadrato, quasi mascolino, il naso corto e schiacciato, le labbra grosse e screpolate, i capelli di una slavata tonalità tra il biondo e il rosso.
Cecilia si stava stringendo il nodo della mantella sul petto quando il padrone di casa – le aveva detto di chiamasi Davenport – entrò in camera.
«Buongiorno! » disse subito Cecilia. «Mi dispiace essermi alzata così tardi, ma–»
«Metti via la mantella» ordinò il signor Davenport. «Andare a Boston! Da sola! Che sciocchezza! È un miracolo che tu sia arrivata fin qui senza imbatterti in un lupo. O, peggio, in un uomo. Non sfidare la sorte due volte, bambina. Che cosa sai fare?»
Cecilia era troppo confusa per capire la domanda.
«Insomma, sai badare a una casa, oppure no?»
«Oh, be', sì. Certo.»
«Bene. Se riesci a tenere pulito quel poco che non è ancora andato in malora». L'uomo rifilò un colpetto di bastone alle gambe del letto, come a testarne la solidità. «E a non starmi troppo tra i piedi, puoi restare. Solo per l'inverno, s'intende. Sempre che il tuo bel faccino bianco non si senta offeso dalla sistemazione». Sto ancora dormendo, si disse Cecilia.
«E allora? Hai perso la lingua?»
La ragazza mormorò un «Grazie» con un filo di voce. Sentiva uno strano tepore espandersi dal suo petto e una velata umidità agli occhi. «Mmh. Bene. Ma bada di star lontana dai miei candelabri.»
A Cecilia l'avvertimento non parve strano: pensò che il signor Davenport stesse ancora mettendo in conto l'ipotesi di aver appena concesso ospitalità a una ladruncola, una che se la sarebbe potuta svignare dopo aver infilato un paio di candelabri d'argento nella bisaccia.
Il signor Davenport stava per uscire, quando Cecila esclamò: «Non volete sapere perché ho lasciato Gloucester?»
L'uomo le scoccò un'occhiata da sopra la spalla.
«Che ognuno si tenga i propri segreti» disse.










NOTE STORICHE
[1] Nell'America del diciottesimo secolo, in generale, le ragazze tra i tredici e i quattordici anni potevano già considerarsi in età da matrimonio. Una volta sposata, la donna diventava proprietà legale del marito e se una fuggiva da lui, era considerata una ladra perché stava rubando i vestiti che indossava e sé stessa.









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Capitolo 2
*** Visite inaspettate ***


THE CORNFLOWER CAP 2

















II

Visite inaspettate










Tenuta Davenport. 28 settembre 1769

A Davenport Manor non si ricevevano mai visite. Così, quel tardo pomeriggio d'autunno, Cecilia, china sul focolare, quasi trasalì udendo un irruente bussare all'ingresso. Lasciò gli avanzi del pranzo a riscaldare nel tegame, appeso sul fuoco, e attraversò di corsa la cucina. Era l'ora del tramonto e rettangoli di luce si stiracchiavano pigramente sopra i porosi mattoni color tabacco del pavimento.
Messo piede nell'androne d'ingresso, Cecilia realizzò di esser stata preceduta.
Ebbe appena il tempo di sentire il signor Davenport elargire un «No» a chiunque si trovasse sulla soglia, prima di vederlo richiudere la porta con sufficiente veemenza da far tremare stipiti e architrave.
Bussarono di nuovo.
«Vattene via» abbaiò il padrone. E voltate le spalle alla porta, puntò verso il salone da pranzo, i passi scanditi dal sordo toc del bastone contro le vecchie assi sotto il loro piedi. All'esterno, scoppiò una voce maschile: «No! Non me ne andrò!»
«Chi è?» chiese Cecilia, ferma accanto alle scale.
«Nessuno». Senza aggiungere altro, gli occhi nascosti sotto la molle falda del cappello, il signor Davenport si ritirò nella penombra del salone.
«Nessuno? Allora abbiamo un fantasma cocciuto alla porta» mormorò Cecilia.
Le avevano insegnato che il sarcasmo sulla bocca di una donna era qualcosa di detestabile. Guai, poi, a burlarsi di spettri e demoni. Ma Cecilia era fatta del genere di pasta che non si mallea nemmeno con le bacchettate sulle mani e il soggiorno nella magione, oltre ad averle gradualmente scrollato di dosso una malinconia che non le apparteneva, aveva diminuito la sua già debole inclinazione a trattenere la lingua: la ragazza si era accorta che, di qualsiasi genere fossero le sue parole, il signor Davenport mostrava sempre e comunque pochissimo interesse e nessuna preoccupazione.
Cecilia s'infilò nel salone da pranzo: una grande stanza con le pareti di damasco scarlatto dove, però, non pranzava mai nessuno. Il signor Davenport sedeva sulla sedia Windsor, vicino al camino, in cupa contemplazione delle fiammelle, dietro i riccioli anneriti del parascintille.
Cecilia non lo disturbò. Scostò qualche centimetro dei pesanti tendaggi verdi, odorosi di polvere e legna bruciata, e guardò oltre i pannelli di vetro della finestra. Era stata una giornata fresca e serena, ma nel fremere degli aceri gialli c'era un sentore di pioggia in arrivo. L'indesiderato visitatore era ancora davanti alla porta.
Era solo un ragazzo.
Aveva la pelle scura come quella di un mulatto e i lisci capelli neri, più corti di quelli dei coloni, non erano legati. Vestiva con abiti fatti di pelle di cervo, portava arco e frecce sulla schiena e un'accetta legata alla cintura: una striscia di stoffa rossa.
Era un nativo.
Il primo che Cecilia avesse mai visto da così breve distanza.
Tra curiosità e ansia, lo osservò scendere i quattro gradini d'ingresso e restarsene nei pressi delle colonne bianche, ma non riuscì a scorgere i lineamenti. Il ragazzo teneva il viso basso e le spalle chine in andatura un po' ciondolante; a dispetto dell'armamentario, le sue movenze non sembravano minacciose, dava piuttosto la genuina impressione di non saper bene cosa fare.
«Se gli apri la porta, vi butto fuori entrambi».
Nella frase del signor Davenport c'era calma, ma non ironia.
Cecilia richiuse la tenda e si voltò verso di lui, le mani dietro la schiena e le dita mollemente aggrappate alla stoffa scura.
«Chi è quel ragazzo?»
Il signor Davenport mantenne lo sguardo sul fuoco.
«Non lo so.»
«Sembra un nativo.»
«Mmh.»
«Che cosa cerca qui?»
«Guai.»
«Pensate... pensate abbia cattive intenzioni?»
«Penso che tu finirai per bruciare la cena. Di nuovo.»
Cecilia trattenne un sospiro tra le labbra.
Le risposte lapidarie non la offendevano.
Del padrone della tenuta si era fatta l'idea di una persona schietta e disincantata, assuefatta all'isolamento e al lutto. Era capace di una certa ruvida gentilezza, ma guardava il mondo con uno sguardo amareggiato, come se l'umanità intera fosse responsabile di un irreparabile torto nei suoi confronti. A Cecilia, però, non era dato sapere la natura di tale torto: il signor Davenport si mostrava perennemente restio alle conversazioni.
Compresa l'antifona, la ragazza se ne tornò in cucina, camminando con le mani nelle tasche, nascoste tra le pieghe della sottogonna, e il pensiero dello sconosciuto che le svolazzava per la testa. La visita era stata una scossa nel quieto e lineare succedersi delle ore. La vita, nella grande casa di mattoni rossi, era immobile e terribilmente solitaria, ma Cecilia non avrebbe mai osato lamentarsi. Non riusciva ad essere felice, perché ancora tormentata da ricordi amari, però era tranquilla, libera e piena di gratitudine.










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Capitolo 3
*** Il ragazzo Mohawk ***


THE CORNFLOWER CAP 3

















III

Il ragazzo Mohawk










Tenuta Davenport. 29 settembre 1769

Cecilia si fermò sulla soglia della camera.
«Io devo uscire. L'acqua in casa è finita» avvertì, a un tempo placida e sbrigativa. Reggeva un secchio sotto braccio e un tintinnante mazzo di chiavi tra le dita.
«Sta attenta al ragazzo» fu quanto rispose il vecchio, senza prendersi il disturbo di interrompere la propria occupazione: nella tenue luce del primo mattino, stava riordinando con cura le pedine della faronora; alle sue spalle, l'aquila impagliata gettava sul tappeto una pallida ombra delle ali spiegate.
Cecilia inclinò il capo di lato, trattenendosi dall'alzare gli occhi al soffitto. «Pochi minuti fa, sulla terrazza, lo avete quasi preso a bastonate. E lui non ha mosso un dito contro di voi. Quanto potrà mai essere pericoloso?»
«Intendevo sta attenta a non farlo entrare.»

***

Dense nuvole grigie se ne stavano acquattate sopra le montagne. Nell'aria c'era un eco del freddo notturno, e scendendo verso il pozzo, Cecilia godette del profumo della terra bagnata, senza scorgere il nativo da nessuna parte. La prospettiva di incappare nel ragazzo non la turbava; al contrario, si persuase che incontrarlo avrebbe offerto la possibilità di capire quale faccenda il vecchio Davenport stava ostinatamente tenendo per sé. Giacché ogni tentativo di parlare della presenza del nativo suscitava nel vecchio un crescendo di fastidio, Cecilia si era sforzata di non fare domande e di limitare i commenti. Era rimasta buona e zitta anche la sera precedente, quando aveva scorto il selvaggio infilarsi nelle stalle, in cerca di riparo dal temporale. Ma la discrezione di Cecilia era una maschera sottile, tenuta in piedi dal rispetto dovuto al suo ospite, e nascondeva una curiosità fattasi particolarmente acuta dopo quanto era riuscita a carpire della discussione in terrazza.
«Tu vuoi diventare un eroe. Aiutare i deboli. Salvare il mondo. Ma così andrai incontro solo alla morte» aveva detto il signor Davenport. «Il mondo è andato avanti, ragazzo. Fallo anche tu!»
Rimuginando su quelle parole, Cecilia arrivò a dieci passi dal pozzo tenendo lo sguardo sull'erba umidiccia.
Poi, udì uno scricchiolio.
Alzò gli occhi. Sobbalzò e si irrigidì.
Da uno degli alberi vicini – un robusto noce che non aveva ancora perso la sua folta corona bionda – la stava osservando il nativo. Il colore della casacca quasi si confondeva con quello delle foglie, mentre lui se ne stava in piedi, in perfetto equilibrio, tra i rami più grossi. Saltò giù, agile, silenzioso come un gatto. «Scusa
» disse lui. «Non volevo spaventarti». Tenne la testa china, in una postura che comunicava un che di schivo e riottoso, ma sotto le sopracciglia aggrottate gli occhi marroni, dal taglio allungato, continuavano a spiare la figura di Cecilia. Aveva spalle larghe come quelle di uomo, il viso era ancora imberbe e i lineamenti meno marcati, meno selvaggi, di quanto si aspettava Cecilia.
«Non... non mi hai fatto paura» mentì. Era indietreggiata senza accorgersene, stringendo il secchio contro il fianco. «Solo... sorpresa. Non ti avevo visto».
Per un attimo, il cuore di Cecilia aveva palpitato per lo spavento. Ora, stava subentrando una fastidiosa incertezza, come se si ritrovasse a dover scegliere una direzione dal mezzo di un crocicchio. Quanto capiva il nativo della sua lingua? Come doveva parlargli? Con lo stesso pudore femminile che avrebbe dovuto simulare con un giovanotto bianco? Con accondiscendenza, come davanti un bambino? Con cautela, come se stesse provando ad avvicinare una bestiola selvatica?
Ma prima che potesse giungere a una decisione: «Tu chi sei?» si sentì chiedere. «Sei uscita dalla casa».
Cecilia  era certa che il diritto di porre domande spettasse a lei, se non altro perché non era lei quella appostata intorno alle altrui abitazioni, ma il tono del nativo le era parso così spontaneo che non poté a fare a meno di rilassare la schiena.
«Be', ci vivo, lassù» spiegò. «Insieme al gentiluomo con cui hai già... ehm... discusso.»
«Sei sua moglie?»
«Oh
no! Non sono imparentata con lui in nessun modo. Io mi occupo della casa.»
«Puoi farmi entrare?»
«Se mi azzardassi a farlo, questa notte saremmo in due a dormire nelle stalle.»
«Puoi... puoi convincere il vecchio ad ascoltarmi?»
«Posso provarci» concesse Cecilia, pur dubitando di avere il potere di influenzare le decisioni del signor Davenport. «Ma solo perché sono molto sicura delle tue buone intenzioni.»
Il ragazzo le rivolse un'occhiata scura e interrogativa.
«Hai un'ascia» suggerì lei, con un sorriso paziente e un cenno del mento.
L'espressione dell'altro non mutò.
«Insomma... immagino che, se tu non fossi davvero qui per parlare... uhm... pacificamente... l'avresti già usata per introdurti in casa.» Così dicendo, si era avvicinata al pozzo. Sistemò il secchio alla carrucola e si preparò a far scendere la corda: movimenti che avrebbe potuto ripetere ad occhi chiusi. «Il mio nome è Cecilia. Tu come ti chiami?»
«Ratonhnhaké:ton
Cecilia sperò vivamente di essere riuscita a nascondere in tempo lo sguardo disorientato dietro al sorriso sottile.
«Be'... ha... un suono peculiare. Ehm... significa qualcosa?» buttò lì.
«Vita piena di graffi» sillabò il nativo, dopo un attimo di silenzio.
A Cecilia scappò un verso a metà tra uno sbuffo e una risata soffocata.
«Non è di buon auspicio».
E Ratonhnhaké:ton si mostrò talmente impassibile che Cecilia, a disagio, dovette distogliere in fretta lo sguardo da lui.
«Ma chi sono io per giudicare? Il mio nome significa cieca» concluse, iniziando a far calare il secchio. Un soffice splash l'avvertì che il secchio aveva toccato l'acqua. Cecilia si sporse in avanti, pru continuando ad osservare il nativo con la coda dell'occhio: Ratonhnhaké:ton era rimasto vicino all'albero, percorrendo sempre gli stessi tre o quattro passi, le braccia a ciondoloni lungo il busto.
«Posso chiederti perché sei qui?».
«Mi è stato detto di trovare il vecchio della collina. E di chiedergli di addestrarmi.».
«Addestrarti? In cosa? Nell'arte di essere scontrosi? Chi ti ha detto di trovarlo?»
Di nuovo, la risposta del ragazzo si fece attendere.
«Io... io credo di dover parlare solo con il vecchio.»
«Oh. Naturalmente» sillabò Cecilia, nello sforzo di poggiare a terra il secchio colmo d'acqua. «Non puoi parlare con me. Io sono una donna. Bianca, per di più. La mia gracile mente non potrebbe sopportare il virile peso di certe faccende». [1]
Davanti al sardonico eloquio, i lineamenti del nativo si contrassero in un'espressione di disarmante perplessità: socchiuse le palpebre, fissando Cecilia come se, di punto e bianco e senza motivo, lei avesse iniziato a discorrere in una lingua sconosciuta.
La ragazza nascose le mani dietro la schiena, appoggiandosi contro la vera del pozzo.
«Posso almeno sapere da dove vieni?»
Ratonhnhaké:ton indicò le montagne sopra le quali si stendevano le nuvole cariche di pioggia.
«Il mio villaggio è nella valle Mohawk. A tre settimane di cammino da qui.»
Le sopracciglia di Cecilia scattarono verso l'alto. Tre settimane! «Va bene. Parlerò con il signor Davenport, il tuo vecchio della collina» assicurò. 
Si chinò in avanti, per sollevare il secchio. Il nativo si stava avvicinando, ma lei lo fermò, alzando una mano a mo' di avvertimento. «Ma tu prometti di non seguirmi».
Ratonhnhaké:ton parve esitare. «Lo... prometto» disse, infine, riluttante.

***

Voltandosi, Cecilia trovò il signor Davenport all'altro capo del lungo tavolo della cucina: la osservava in un modo assai poco benevolo.
La ragazza si morse l'interno della guancia, premendo forte le labbra l'una contro l'altra, e rivolse lo sguardo colpevole sulla pagnotta tra le proprie mani. Poi, gettò un'occhiata al cestino di paglia appoggiato sul tavolo: l'aveva riempito con due mele rosse, una focaccia di farina di mais, una tozza bottiglia di sidro e tre uova sode.
«Ha fatto un lungo viaggio. Volevo solo essere gentile» si giustificò.
«Preparandogli una colazione, con le scorte della mia dispensa, affinché abbia le energie per iniziare il viaggio di ritorno, voglio sperare.»
Cecilia mise giù il pane, strofinò le mani sulla gonna e avanzò con risoluta calma verso il signor Davenport. Una promessa è una promessa.
«So di essere solo un ospite» esordì, cauta. «E non dovrei immischiarvi nei vostri affari, però... non capisco cosa vi costa ascoltare quel ragazzo. Una conversazione non ha mai ucciso nessuno. Fatelo entrare. Lasciatelo parlare per qualche minuto. Almeno, non avrà fatto tanta strada completamente invano».
Il signor Davenport la guardò con occhi che a Cecilia parvero improvvisamente spenti.
«Bambina» sospirò stancamente il vecchio, «ci sono storie che non devono essere rivangate. Parlarne servirebbe solo a risvegliare pensieri penosi nella mente di un vecchio. E a farne nascere di pericolosi in quella di chi è troppo giovane». Ritrovò in un attimo la solita, brusca energia: «Dì al ragazzo di andarsene!»

***

«Dì al vecchio che non me ne andrò!»
Cecila esalò un sospiro di pazienza, gonfiando il petto sotto lo scollo quadrato della caraco [2], e allungò il cestino al ragazzo, reggendone il manico con entrambe le mani. Un panno bianco ne copriva accuratamente il contenuto.
Ratonhnhaké:ton, seduto sotto la tettoia delle stalle, fissò il cesto, ma non si mosse. «Che cos'è?» chiese, tra il seccato e il sospettoso.
Cecilia azzardò un sorriso. «Cibo» disse. «Nella mia esperienza, i boschi e i viaggi a piedi mettono appetito. Ho pensato che... potessi aver fame...». Tentennò. Temette di aver sbagliato. Era mai possibile che per i nativi, con i loro strani dei pagani, offrire del cibo fosse un'offesa?
Il nativo si levò in piedi: superava Cecilia in altezza di tutta la testa. Prese il cestino, senza sfiorare le mani della ragazza. «Grazie» mormorò.
Il sorriso di Cecilia ebbe il coraggio di aprirsi. «Mi hai sorpresa.» Si stava alzando il vento, leggero ma pungente, e il fruscio degli alberi si insinuò sotto la sua voce. «Credevo mi avresti seguita lo stesso, per sgattaiolare in casa.»
Ratonhnhaké:ton smise di sbirciare sotto al panno. Aggrottò la fronte. «Perché non avrei dovuto mantenere la promessa?»
La ragazza si strinse nelle spalle. «La gente lo fa di continuo».

***

Cecilia fissava le lacrime di cera colare con una lentezza esasperante lungo la candela: sedeva a un tavolino, piccolo, tondo e un poco traballante, in quella stessa camera da letto in cui aveva trascorso la prima notte nella magione.
Il signor Davenport l'aveva lasciata libera di arredare la stanza con le comodità necessarie: due di sedie, un basso mobile per lo specchio, la brocca e la catinella, e quel tavolo da usare come scrittoio, sistemato vicino alla finestra.
Cecilia, reggendosi il mento tra le mani, distolse l'attenzione dalla candela e guardò fuori: attraverso il grigio e compatto velo di pioggia poteva scorgere la bassa forma delle stalle e il fioco brillare delle lanterne sotto la tettoia. I tentativi di convincere il padrone della tenuta ad accogliere il nativo erano falliti, le richieste di spiegazioni erano state ignorate e Cecilia cercava adesso di districarsi tra una pruriginosa voglia di sapere e qualcosa di molto simile al senso di colpa.
Provò a concentrarsi sulla lettura: aperto sul tavolo c'era un erbario, ma quella sera in particolare lo studio dei pregi e dell'utilità del chenopodium ambrosioides peccava di fascino. Settimane prima, quando Cecilia aveva chiesto al signor Davenport il permesso sfogliare i libri dello studio, lui non aveva dissimulato una certa sorpresa: «Ah, sai leggere?» aveva chiesto. Allora Cecilia aveva avuto la possibilità di raccontare della propria vita a Gloucester, lasciando tacitamente capire all'anziano per quale motivo vivere come una domestica in casa di un nero era una situazione che non la disturbava.
«Facendo bollire tre pugni di foglie e sommità fiorite» lesse pigramente, «si ottiene un decotto da applicare ancora ben caldo in impacchi umidi al basso ven—».
Cecilia ammutolì, voltandosi di scatto verso la finestra.
Aveva udito uno scoppio, ma era stato troppo breve, troppo vicino e troppo acuto per essere un tuono.
Era un colpo di moschetto.










NOTE STORICHE
[1] La piccata ironia di Cecilia non nasce solo dal suo essere una fastidiosa adolescente. In pieno diciottesimo secolo, l'idea generale era che l'intelligenza delle donne fosse adatta a un solo ambiente, quello domestico, e che fossero biologicamente 'programmate' per offrire cura e piacere all'uomo. Persino uno come Rousseau, pur avendo considerazione per la donna, nell'Emile del 1762 affermava:"Gli uomini dipendono dalle donne per i loro desideri; le donne dipendono dagli uomini sia per i loro desideri che per i loro bisogni; potremo vivere meglio noi senza di loro che non loro senza di noi. Perché abbiano il necessario, perché si mantengano nella loro condizione di vita, occorre che gli uomini glielo concedano, che vogliano concederlo e che le stimino degne di ciò." La donna 'qualunque' del Settecento riceveva il minimo di istruzione necessaria a mandare avanti la vita domestica, fin da bambina si sentiva dire di mantenere un atteggiamento mite e passivo, non si sognava di mettere il naso in campi come la politica, le leggi, le arti, le scienze, etc. etc. Forse a Cecilia – come moltissime sue contemporanee veramente esistite, alcune anche illustri! – la situazione va stretta, ma se se ne lamenta con un povero ragazzo Mohawk, una delle cinque tribù della Lega Irochese, non può aspettarsi di venir capita. Gli Irochesi erano un popolo matriarcale, dove "le donne erano proprietarie sia della capanna che delle coltivazioni, e ogni eredità passava attraverso le figlie femmine" e "partecipavano attivamente alle riunioni della tribù, avevano diritto di parola e spesso le loro proposte erano decisive, inoltre esse solo decidevano le questioni di famiglia."
[2] Il termine caraco indica una giacca da donna con le maniche strette, che poteva essere lunga fino alla coscia.








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Capitolo 4
*** Confidenze tra la neve ***


THE CORNFLOWER CAP 4

















IV

Confidenze tra la neve










Tenuta Davenport. 24 dicembre 1769

Cecilia era immobile, in attesa, le dita arrossate strette al manico del cestino. Guardava verso l'alto, dove il cielo aveva lo stesso colore delle perle, mentre attorno a lei, i fiocchi danzavano nell'aria, radi e leggeri come pulviscolo, e i rami degli alberi si inchinavano sotto il peso delle neve.
Erano passate cinque settimane dalla notte in cui un gruppo di ladri aveva minacciato la tenuta. Cinque settimane da quando Cecilia, dal sicuro di una finestra, aveva visto quegli stessi ladri cadere sotto il tomahawk del giovane nativo. Cinque settimane da quando aveva scoperto di aver trovato ospitalità in una casa nella quale perfino le pareti e il pavimento nascondevano i segreti del padrone.
Cecilia conviveva con la sensazione che la propria esistenza fosse stata attraversata da una scossa di terremoto. La scossa aveva lasciato tutto intatto, tranne che per una sottile ma profonda crepa; adesso, attraverso la crepa, Cecilia poteva sentire gli eventi scorrerle accanto, simili alle acque di un torrente in piena, mentre lei abitava il confine tra un mondo come le aveva conosciuto per quattordici anni e un mondo nel quale si muovevano croci scarlatte e lame silenziose. La nuova consapevolezza a tratti la eccitava. In altri momenti, le faceva rimpiangere l'ignoranza perduta.
 Quando interrompeva le faccende domestiche per assistere agli allenamenti ai quali il vecchio Davenport – Cecilia aveva pian piano imparato a chiamarlo Achille – sottoponeva Ratonhnhaké:ton, non si avvicinava mai troppo: restava affacciata alla finestra, seduta sulle scale, all'ombra di un albero.
In quei frangenti ripercorreva mentalmente l'intera storia.
Esistevano persone chiamate Templari. Esistevano persone che avevano scelto il nome di Assassini. Esisteva una guerra che scorreva sotterranea a tutte le altre guerre del passato e del presente. C'erano stati morti. Tantissimi morti. C'erano dei sopravvissuti, come Achille. E adesso c'era questo ragazzino, figlio di un Templare, deciso ad abbracciare il credo degli Assassini.
Cecilia si era sorpresa di sé stessa realizzando che, nel proprio subbuglio di emozioni, c'era spazio persino per una sorta di gelosia nei confronti di Ratonhnhaké:ton. Lui era un meticcio, cresciuto tra gente da cui l'avevano sempre messa in guardia, ma sapeva da che parte avrebbe combattuto e sapeva cosa voleva essere. Cecilia non invidiava il suo passato e non agognava il futuro al quale si stava preparando. Avrebbe solo voluto la stessa forza d'animo. E avrebbe voluto anche lei che un qualche spirito le indicasse una via da percorrere. Incurante delle parole di Achille, il quale declassava il coraggio dell'allievo a un misto di testardaggine e ingenuità, Cecilia vedeva Ratonhnhaké:ton come una pietra e sé stessa come uno di quei fragili fiocchi di neve che turbinavano qua e là, senza una meta, trascinati dal nulla.
Cecilia sollevò una mano. Rivolse il palmo verso l'alto, accogliendo la neve. Ora sono qui. Tra qualche mese sarò a Boston. Chissà con chi e chissà per quanto tempo. Sapeva solo che una casa da chiamare sua non l'avrebbe mai avuta.
Un lieve tonfo interruppe i suoi pensieri.
La ragazza si voltò.
Ratonhnhaké:ton, avvolto nei suoi abiti di pelle, era balzato giù da un albero. Con la solita andatura un po' ciondolante, venne verso di lei, aprendo la sacca che portava al fianco. Ne cavò fuori quattro pigne. «Queste vanno bene?» Il fiato del ragazzo si condensò in uno sbuffo bianco.
Cecilia prese le pigne, le esaminò – erano belle pigne color ruggine, grosse come il pugno di un bambino – e distese in un sorriso le labbra spellate. «Perfette. Grazie.» Adagiò le pigne nel cestino, in un letto di rami di pino e rosse bacche di agrifoglio. «Possiamo tornare indietro». Sistemò il cappuccio della mantella sul capo e si mise in marcia, infagottata dalla gonna e dai due palmi di neve fresca.
Ratonhnhaké:ton la seguì, restandosene indietro di tre passi, e per un po' fu solo il crepito della neve sotto i loro piedi ad accompagnarli nel bosco innevato.
Per Cecilia non era stato facile abituarsi alla presenza di Ratonhnhaké:ton. Da principio, pur facendo del suo meglio per mostrarsi allegra e cordiale, aveva accuratamente evitato di rimanere da sola con lui. Oltre ad avere un inconcepibile vizio di fissare, Ratonhnhaké:ton pareva all'oscuro dell'esistenza dei giochi di parole, delle sottigliezze, delle chiacchiere futili ma educate ed eccelleva nell'arte di suddividere le proprie frasi tra domande esplicite e affermazioni schiette.
«Mi è stato insegnato a dire sempre chiaramente ciò che penso» si difendeva. «Sembra che voi coloni preferiate nascondere. Ma cosa può venire di buono dagli inganni?» [1]
E Cecilia, che non era avvezza né alle maniere dei nativi né alla compagnia maschile, finiva sempre in un pruriginoso imbarazzo. Ma il tempo aveva immancabilmente fatto il proprio lavoro e ciò che all'inizio era strano iniziava ad acquistare una parvenza di normalità, e quella mattina di dicembre, la voce di Cecilia riverberò vivace nell'aria gelata: «Non ti dà noia farmi da balia quando potresti allenarti?»
«Achille mi ha detto di badare a te» si sentì rispondere.
«Sì, questo lo so.» Non aveva fatto in tempo a chiudersi la porta alle spalle dell magione che le era arrivata la voce di Achille: «Va con lei, ragazzo. O finirà in bocca a un lupo o sul fondo di un crepaccio prima che sia mezzogiorno.»
«La mancanza di fiducia del vecchio nelle mie capacità di restare in vita non mi lusinga» cinguettò Cecilia. «E non è colpa mia se l'agrifoglio non cresce sulla collina. Però... Achille non ha tutti i torti. Non mi va di farmi mangiare da un orso–»
«Siamo in inverno. Gli orsi dormono.»
«Non va di farmi mangiare da una qualsiasi bestia affamata proprio ora. Vorrebbe dire aver sprecato i miei ultimi giorni su questa terra nell'impresa di convincere Achille a lasciarmi appendere una ghirlanda e preparare un tortino per il pranzo di domani.» Si girò verso Ratonhnhaké:ton, azzardandosi a camminare all'indietro. «Comunque, quello che volevo sapere è se mi hai accompagnata controvoglia.»
«No» disse lui. E parve stringersi nelle spalle, mentre la neve si fermava impalpabile tra i suoi capelli corvini.
Cecilia tornò a voltarsi. Sorrise, sotto il cappuccio.
La voce di Ratonhnhaké:ton la inseguì. «Perché devi fare una ghirlanda?»
«È per il Natale. Te l'ho già spiegato, il Natale.»
«No... voglio dire... perché hai insistito per fare una ghirlanda?»
Il ragazzo l'affiancò mentre Cecilia, conscia dello sguardo di lui, scrollava le spalle, saggiando tra i polpastrelli l'umida morbidezza degli aghi di pino.
«Uhm... non lo so, ho sempre fatto una ghirlanda per il Natale. La mia vita è cambiata... ma sarebbe bello se qualcosa restasse uguale, tutto qua.»
«Achille mi ha detto che i tuoi genitori sono morti» riprese Ratonhnhaké:ton. «È questo ad essere cambiato?»
«No, loro sono morti quando ero piccola. Nel caso di mio padre, prima ancora che venissi al mondo. Era un soldato. L'hanno ucciso i cannoni dei francesi a Fort Oswego, durante la guerra. [2] E mia madre s'ammalò di febbre pochi giorni dopo la mia nascita.»
«E chi–?»
«Si è preso cura di me?» lo anticipò Cecilia. «Il fratello maggiore di mio padre. Patrick Carter. Era vedovo, non aveva figli suoi e fu l'unico a farsi avanti. Mia madre... vedi, lei era irlandese. Si chiamava Norah. Sposò mio padre, che era inglese, contro il volere della famiglia e i suoi fratelli non l'hanno mai perdonata. Quando lei morì, loro non ne vollero sapere di me e mio zio mi portò a Gloucester che avevo appena due mesi. Charlotte, la governante, mi raccontava sempre che le si presentò a casa in un giorno di novembre... pioveva a dirotto... con me tra le braccia e una nutrice raccattata in città al fianco. Poi, ripartì di corsa. Era un avvocato. Sempre, sempre in viaggio.»
«Ti lasciava sola» osservò Ratonhnhaké:ton.
«C'era Charlotte! La gente può dire quel che gli pare dei neri, sai, ma Charlotte era più in gamba e intelligente di qualsiasi persona io abbia mai incontrato. Era lei mia madre. Stavamo bene, per conto nostro.» Cecilia non riuscì a tenere a freno la voglia di tradurre le immagini, ancora così vivide e vive nella sua testa, in un ruscello di parole: «Abitavamo in una casa appena fuori Gloucester. Non era grande come Davenport Manor, ma io ho sempre pensato che fosse elegante. La mia stanza preferita era la biblioteca, al secondo piano. Da lì, si riusciva a vedere il mare. Oh, e in un angolo, c'era una spinetta... ho imparato con quella a suonare... e vicino alla spinetta, c'era un mobile. E sopra al mobile... il modellino di un veliero. Da bambina, passavo le ore a immaginare le avventure dei marinai, su quella nave. Avevo persino scelto un nome per il capitano. E Charlotte stava sempre lì, ad ascoltarmi blaterare. E poi, c'erano i libri. Charlotte non disse mai a mio zio leggevo i libri di nascosto.»
«Di nascosto?» ripeté Ratonhnhaké:ton, quasi sillabando le parole.
«Lo zio era un uomo severo. Non cattivo! Solo molto... molto ligio alle regole e alla legge. Ma anche timorato di Dio. E onesto. E non tollerava la schiavitù. Con noi, Charlotte era una donna libera e in dodici anni non ricordo di averlo mai sentito rivolgerle una parola sgarbata. Ma non era altrettanto liberale con me. E con la mia educazione. Era convito che leggere troppo non fosse un comportamento sano per una giovane donna. Quando lo zio era a casa, io mi comportavo come desiderava. Quando lui era in viaggio... be', tra noi coloni esiste un detto. Occhio non vede, cuore non duole.»
Cecilia era sicura di non aver mai visto Ratonhnhaké:ton sorridere. Ora, tuttavia, scorse una piega sulla bocca del ragazzo e un guizzo di complicità negli occhi scuri.
Passò subito.
«Parli di queste persone al passato» disse lui. «Che ne è stato di loro?»
Cecilia rallentò il passo. «Charlotte era già avanti negli anni quando io arrivai a Gloucester. Se n'è andata due anni fa. Nel sonno. Nel suo letto. E mio zio... è una storia un po' lunga». Tacque. Nel silenzio galleggiava l'attesa.
Anche se i suoi occhi erano fissi sul bianco assoluto delle neve, la ragazza avvertiva che Ratonhnhaké:ton la stava ancora guardando. Prese un respiro e il freddo le riempì i polmoni. «A marzo di questo anno» cominciò, «un cugino dello zio, Richard Bardsley... faceva il mercante a Portsmouth... venne a stare da noi insieme alla moglie Rebecca. Quando li vidi per la prima volta, mi sembrarono persone raffinate. Erano scesi da una carrozza. Erano vestiti bene. Avevano maniere educate. E lei, Rebecca, era bella. E molto più giovane del marito. Ma la verità era che gli affari di Bardsley andavano male e le giubbe rosse avevano sequestrato la loro casa. Da quel che riuscii ad origliare sulla faccenda... non mi era permesso restare nella stanza quando si discuteva di affari... l'unico modo che aveva Bardsley per riempire il suo borsello era vincere una qualche causa in tribunale. Però, di denaro per pagare un avvocato non ne aveva e immagino si fosse rivolto allo zio confidando nella parentela. Lo zio si rifiutò di aiutarlo. Non ho mai saputo il motivo, ma non riesco a credere che sia stato per i soldi. Lo zio non era avaro. Comunque, dieci giorni dopo l'arrivo di Bardsley, lui e lo zio partirono per Boston.» Cecilia captò la sfumatura arrochita nella propria voce, ma continuò a raccontare, con una tranquillità che reputò convincente: «Per risolvere la questione, dissero. Sulla strada del ritorno ci fu un incidente. Un serpente spaventò i cavalli. Lo zio fu scaraventato giù dalla sella. Batté la testa su una roccia. Morì sul colpo. Dopo il funerale, venne fuori che non c'era un testamento – sai cos'è un testamento?»
«Parole sulla carta» disse Ratonhnhaké:ton. «Per un'eredità.»
«Già. E senza una volontà scritta di mio zio, tutto... la casa, i soldi, la mia futura dote... andò al suo parente maschio più stretto. Bardsley. Lui e Rebecca si stabilirono definitivamente in casa nostra e io... io venni relegata ai lavori domestici.»
Cecilia aveva smesso di camminare e Ratonhnhaké:ton era rimasto di fianco a lei. Sempre in silenzio. Sempre fissandola.
«Ma, lo giuro, non era il lavoro il problema!» Strinse le labbra l'una contro l'altra, fino a farle illividire. «Era il modo in cui mi parlavano! Era il loro incessante ripetermi che io adesso ero una cosetta senza valore e senza importanza e che dovevo solo essere grata, perché mi stavano permettendo di rimanere in quella casa. Li ho sopportati per mesi. E... e... e poi, un bel giorno, li ho piantati in asso.»
Magari lo avessi fatto davvero, pensò; e il pensiero le attraversò la mente insieme a un fiotto di rabbia e di vergogna. Si riparò dietro l'imitazione di una smorfia soddisfatta. «Non sono Cenerentola, io». Sollevò il mento e voltò il capo verso Ratonhnhaké:ton: lui aveva aggrottato la fronte, confuso da una metafora alla quale non poteva dare un significato. «Se i Bardsley vogliono una sguattera che sia disposta a farsi insultare e tiranneggiare tutto il giorno» chiarì Cecilia, «che paghino una domestica o si comprino uno schiavo».
Ratonhnhaké:ton aveva disteso la fronte. La guardava, attento, senza dire nulla.
Cecilia gonfiò le guance, tra fastidio e impazienza. Fece scivolare il manico del cestino fino al gomito e raccolse l'orlo della gonna. «Muoviamoci. Sto congelando!».










NOTE STORICHE
[1] La battuta si trova in una scena tagliata dal videogioco.
[2] La battaglia di Fort Oswego, combattuta tra il 10 e il 14 agosto 1756, rappresentò una delle vittorie francesi durante la Guerra Franco-Indiana.









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Capitolo 5
*** Sulla strada per Boston ***


THE CORNFLOWER CAP 5

















V

Sulla strada per Boston










Nei dintorni di Boston. 4 marzo 1770

L'Arabella Inn era una grigia costruzione a graticcio che dava l'idea di starsene lì, nella campagna sulla via per Boston, dai tempi di John Winthrop [1] in persona. Quella sera, mentre la neve turbinava furiosa contro le strette finestre delle locanda, al pian terreno le note di un violino si perdevano tra risate e cozzare dei boccali. Nella sala non c'era che una scarsa dozzina di persone, ma il baccano era degno di una truppa di soldati ubriachi.
O tale era l'impressione di Cecilia.
Il busto dritto, le mani sul ventre e la cuffietta sopra i capelli raccolti, la ragazza sostava a pochi passi dal grande camino di mattoni, di fronte al quale il musicista — un uomo allampanato, con capelli rossi e polpacci sottili infilati in linde calze bianche — agitava l'archetto sulle corde dello strumento.
Dopo i mesi trascorsi nell'isolamento di Davenport Manor, Cecilia si era accorta di sentire la mancanza della musica. Fa che la famiglia di Boston abbia uno strumento in casa, pregò. M a pur concentrata sulla musica, non riusciva a ignorare Ratonhnhaké:ton. Lo vedeva con la coda dell'occhio: spalla contro la colonnina dietro di lei, braccia incrociate al petto, il capo che si muoveva in continuazione. Non capiva se fosse nervoso o solo incuriosito dall'agglomerato di rumorosi coloni, ma si limitava a sperare che nessuno dei presenti desiderasse attaccar briga con un nativo. Fino a quel momento, Ratonhnhaké:ton aveva attirato solo sguardi perplessi e qualche innocuo bisbiglio.
Un uomo si avvicinò al violinista. Cecilia lo riconobbe. Era il signor Jenkinson, il locandiere. Un tondo ometto di mezz'età con il doppio mento, una sorta di maialino costretto in un panciotto color oliva, la cui fronte sudaticcia celava una mente squisitamente pratica. Aveva accolto l'arrivo della loro carrozza un'occhiata in tralice, ma udito il tintinnio di un borsellino pieno, era immediatamente diventato cieco davanti alla pelle nera di Achille e agli abiti di Ratonhnhaké:ton.
Jenkinson fece segno al violinista di fermarsi, quello ubbidì e il vociare nella sala si quietò.
L'uomo annunciò ai presenti l'intenzione di renderli partecipi della propria felicità: offriva a tutti un bicchiere di sherry perché anche la sua ultima figlia stava per sposarsi. Agitò il braccio verso il bancone, dove una ragazza si bloccò con un vassoio vuoto tra le mani, abbassò lo sguardo e sorrise pudicamente. Aveva un visetto spigoloso ma non brutto e riccioli bruni che spuntavano da sotto la cuffietta. Cecilia pensò che potesse avere al massimo un paio di anni più di lei. Fu quindi il momento di presentare il futuro marito. Tale William Dooley, un giovanotto dall'aspetto pallido — Cecilia lo giudicò anonimo — che, pur sorridendo, dava l'idea di volersene soltanto tornare a giocare a dama con il suo compagno di tavolo.
Esplose un applauso di felicitazioni.
Cecilia non mosse un dito.
Da un angolo, un uomo — che aveva ingurgitato sufficiente birra da assumere la stessa sfumatura di rosso della propria giacca — picchiò il pugno sul tavolino. «I Fiori di Edimburgo
!» urlò. «Suonate I Fiori di Edimburgo per i promessi sposi!» [2]
A un cenno del locandiere, una nuova musica riempì la sala.
Cecilia aveva appena perso l'interesse per qualsiasi tipo di concerto. La sala, da calda e festosa, era diventata un chiassoso stanzone, ammorbato dal fumo delle candele e dal lezzo di corpi umani.
«Vado a dormire anche io» sussurrò, girandosi verso 
Ratonhnhaké:ton. «Tu non finire in una rissa. Ma se ne scoppia una, chiamami. Sono divertenti. Da guardare».
Lasciò il giovane nativo alla colonna e attraversò svelta la sala.
Per raggiungere le scale, dovette passare accanto al tavolo al quale sedeva l'uomo che aveva chiesto I Fiori di Edimburgo.
Cecilia non ne incrociò lo sguardo. Né lo vide allungare il braccio.
Fu la stretta al gomito ad immobilizzarla.
«Vai di corsa, bamboletta?»
L'uomo non era né particolarmente brutto né particolarmente vecchio, ma lo stomaco di Cecilia ebbe uno spasmo di nausea davanti agli occhietti grigi, annebbiati dall'alcol, e al ghigno divertito in cui si aprivano le labbra sottili, circondate da una cortissima barba. Spostò lo sguardo sulla mano dell'uomo — il dorso gonfio era di vene bluastre e le unghie orlate di nero — e si impose di restare calma.
«Lasciatemi. Per favore.»
Ottenne solo un violento strattone.
«Perché non ti siedi un po' qui con me? O magari vengo io su con te. E mi fai compagnia, eh? Posso pure pagarti, sai?»
«Io non sono qui per la vostra compagnia, signore.»
«E non stare a fare tanto la preziosa!» L'uomo le passò il braccio attorno alla vita, tentando di farla sedere sulle sue gambe. «T'ho vista, sai? Sei qui col selvaggio. Scommetto che — » «Lasciala stare.»
Era Ratonhnhaké:ton. Era accanto al tavolo. Tono e postura emanavano il genere di tesa rabbia che Cecilia gli aveva visto addosso ogni volta che litigava con Achille.
«Che vuoi, pellerossa? Roba tua? Te la sei comprata?» Barcollando, l'ubriaco si alzò in piedi.
E Cecilia ne approfittò per sgusciare via.
Il violinista aveva di nuovo smesso di suonare e gli occhi di tutti erano su di loro.
«Signori!» Jenkinson li raggiunse. «Signori! C'è qualche problema?»
«Ce l'ha la tua dannata locanda un problema!» sbraitò l'uomo. «Quello» indicò Ratonhnhaké:ton, il quale sembrava pericolosamente sul punto di balzargli al collo, «dovrebbe stare nelle stalle! Non qui! Tra la gente civile! Dico bene?» Alzò la voce, allargò le braccia, cercò gli sguardi degli altri clienti.
Non ricevette sostegno.
Solo qualche colpetto di tosse e un calmo avvertimento da parte del locandiere, che si era frapposto tra l'uomo e Ratonhnhaké:ton.
«Signore, via... per favore, rimettetevi seduto.»
Cecilia convenne che una rapida ritirata avrebbe limitato i danni. Strinse il braccio di Ratonhnhaké:ton e lo sospinse verso le scale, sforzandosi di ignorare il crescendo di mormorii.

***

La camera era ghiacciata, ma nel caminetto la legna era pronta. Cecilia, tolta la cuffietta, vi si accovacciò davanti, dandosi da fare per accendere il fuoco con l'aiuto della candela di sego che faceva più fumo che luce.
Ratonhnhaké:ton rimase vicino alla porta, scuro in volto.
Non avevano parlato.
E a Cecilia andava bene così, perché nell'attimo in cui avevano messo piede in corridoio, il principio di nausea era diventato un groppo alla gola. Le bruciava la fronte e le pizzicavano gli occhi. Vide le prime fiammelle guizzare tra i ciocchi attraverso un velo di lacrime. Le ignorò, ma fu la sua voce, un suono umidiccio, a tradirla quando si rivolse a Ratonhnhaké:ton: «Grazie per essere intervenuto, di sotto. Ma non ho bisogno di una sentinella. Puoi andare da Achille, adesso».
Ratonhnhaké:ton spostò il peso da una gamba all'altra. Le sopracciglia scattarono verso l'alto, le palpebre sembrano aprirsi di più, il futuro Assassino parve cedere il passo al quattordicenne che non sapeva come e se dissimulare sorpresa e preoccupazione.
«Stai piangendo.»
Era un'affermazione. Non una domanda. Cecilia non rispose.
«Quell'uomo ti ha spaventata? Ti... ha fatto male... al braccio?»
 Cecilia strofinò le dita sulla fronte.
«Mi ha fatto arrabbiare.»
Mi ha fatto ricordare.
Spostò la mano dalla fronte al gomito e si accorse che, proprio all'altezza dell'incavo del braccio, la manica era macchiata. Dovevano averla sporcata la dita dell'ubriaco. Le macchie era scure, simili a quelle lasciate dall'acqua, ma Cecilia temeva fosse birra. O sudore. O il grasso di qualche pietanza. Strofinò la stoffa, spingendo il palmo contro l'incavo del gomito. E strofinò. E strofinò ancora, in un movimento goffo e infantile. Non che si illudesse di riuscire a pulirsi, solo non riusciva a smettere di spingere, di strofinare, di accanirsi contro i segni lasciati dall'uomo.
Era nuovo, quel vestito. Cecilia l'aveva confezionato da sé.
Si stavano recando a Boston perché Achille si era deciso a rimettere in senso la tenuta, ma per Cecilia il viaggio aveva un diverso fine: mancavano tre settimane alla fine dell'inverno e il vecchio Davenport le aveva detto di conoscere qualcuno che non avrebbe avuto difficoltà a trovarle un posto come domestica in una rispettabile famiglia di Boston. Cecilia, che smaniava di presentarsi al suo meglio, ordinata e pulita, degna di fiducia, aveva provato un ulteriore moto di gratitudine nei confronti di Achille quando lui le aveva lasciato usare della stoffa — buon cotone, di un delicato blu fiordaliso — dimenticata per anni in un baule.
In cambio, Achille aveva strappato una solenne promessa: mantenere il più assoluto segreto riguardo a quanto era venuta a conoscenza riguardo ad Assassini e Templari. Ratonhnhaké:ton entrò nell'alone di luce.
«Ma che stai facendo?»
Cecilia lasciò cadere la mano in grembo e rivolse uno sguardo vacuo alla camera: era una stanzetta dal soffitto basso e spiovente. Le pareti era coperte di pannelli di legno scuro e la neve oscurava quasi completamente l'abbaino. I tre materassi erano troppo sottili per lasciar sperare che fossero comodi, ma Cecilia si reputava fortunata: non doveva condividere né la stanza né il letto con delle sconosciute — sebbene vi fosse sempre la possibilità che arrivassero altri clienti, anche nel cuore di una gelida notte di neve.
Cecilia raccolse dal candela e si alzò in piedi, dando le spalle a Ratonhnhaké:ton.
«Ho detto una bugia.» La confessione cadde breve e asciutta, un suono non dissimile dal toc della candela sopra la mensola del caminetto. «Ho mentito ad Achielle. E a te. Ma mi vergognavo così tanto. Mi vergogno ancora».
Il silenzio fu riempito dalla confusione del pian terreno. Musica e voci salivano dal basso, ovattati dalle assi di legno, mentre le fiamme mandavano un suono cupo e costante, simile alle fusa di un gatto.
«Non ho lasciato i Bardsley di mia spontanea volontà. Sono stata cacciata via.» Cecilia fissava la fiamma della candela senza battere le ciglia, incurante del bruciore agli occhi. «Negli ultimi tempi, ogni volta che mi capitava di restare da sola con Bardsley, lui mi parlava in un modo che... insomma, non erano esattamente le parole di un gentiluomo, le sue. All'inizio, si limitò a qualche allusione. Se la rideva. Diceva che dovevo sorridere, se lui mi faceva dei complimenti. Così li chiamava. Complimenti. Poi... divenne più esplicito. Mi trattava come... come quell'ubriaco al piano di sotto.» Per ogni parola pronunciata a fatica, per ogni ricordo riportato in superficie, la rabbia spingeva sotto lo sterno mutando in un dolore era fisico, palpabile. «Rebecca, naturalmente, non tardò a capirlo.»

***

Gloucester.  Sei mesi prima.

Cecilia era seduta in cucina, accanto alla finestra, china sul lavoro: riattaccare i bottoni a una delle marsine di Bardsley. Fuori, l'estate resisteva nel tepore gentile del sole e nel verde del prato che circondava la casa, ma nell'animo di Cecilia regnava la malinconia di un'uggiosa serata invernale. In uno stato di angoscia e di stanchezza, come dopo un pianto sfibrante, si trascinava da un giorno al successivo e da una faccenda domestica all'altra.
Eppure, il lusso di versare lacrime se l'era permesso una sola volta: alla notizia della morte dello zio Patrick.
«Cecilia!»
Rebecca Bardsley comparve sulla soglia della cucina, con il fazzoletto di seta bianca appuntato sul petto del lucido abito nero. Una riccia ciocca era fuggita alla corona di boccoli biondi e le ricadeva a lato del viso ovale. Rebecca era una donna di quasi trent'anni — quindici in meno del marito — alta e sottile come un giunco, ma la sua magrezza era compensata dall'eleganza del portamento e dall'armonia dei lineamenti. Tuttavia, da quando Carter era morto, la piccola bocca si era fatta livida e gli occhi azzurri, sovrastati dall'arco sottile delle chiarisse sopracciglia, erano diventati lo specchio di una mente in prede all'inquietudine perenne.
La signora Bardsley passava la maggior parte del tempo chiusa in camera da letto. Diceva che l'emicrania non le concedeva tregua. Un dottore, fatto arrivare da Gloucester, aveva dichiarato che il male della signora era di natura emotiva. L'avrebbero guarita il riposo e il silenzio.
Le conseguenze di una simile diagnosi erano cadute sulle spalle di Cecilia.
Se prima ogni zuppa troppo poco saporita e ogni piega mal stirata rappresentavano la prova della svogliatezza e dell'ingratitudine di Cecilia, adesso l'acqua per il bagno non abbastanza calda era un dispetto e un uovo non bollito bene una cattiveria fatta di proposito. Rebecca Bardsley sembrava sinceramente convinta che Cecilia vivesse e respirasse solo per logorarle i nervi e, per espiare tale colpa, Cecilia aveva dovuto sopportare più ceffoni e rimproveri in quegli ultimi sette mesi che in quattordici anni di vita.
Rebecca veleggiò verso di lei, in un fruscio di gonna e sottogonna.
Cecilia, riconosciuto il nervosismo sul volto cereo della donna, incassò impercettibilmente il capo nelle spalle e giudicò opportuno riportare lo sguardo su ago e filo.
«Perché le porte della stalla sono aperte?» la interrogò Rebecca. «Dov'è il signor Bardsley?»
«Ha preso il cavallo per andare in città. Doveva incontrare qualcuno al porto. Hockins, credo abbia detto.»
Rebecca non disse nulla.
«Come... come va oggi il vostro mal di testa, signora?» azzardò Cecilia, incapace di sopportare il silenzio pesante e lo sguardo torvo.
«Smettila.»
L'ordine risuonò nell'aria come lo schiocco di una frusta.
Cecilia, non sapendo dove avesse sbagliato, tornò ad alzare lo sguardo ma non osò fiatare.
«Smettila» ripeté Rebecca. «Smettila di fingerti gentile. Io lo so che cosa vuoi. Credi che non ti abbia vista? Credi che io sia stupida, sorda e cieca?» Mosse un passo in avanti, sovrastando Cecilia e le sue parole si trasformarono in un sibilo furente. «Dopo che ti abbiamo persino permesso di restare in questa casa, ci ripaghi così
«Signora, io non so di—»
Il braccio di Rebecca scattò in avanti e e le dita si chiusero tra i capelli di Cecilia.
 «Sgualdrina!» soffiò. Costrinse la ragazza ad alzarsi e la marsina scivolò sul pavimento di terracotta. «Una sporca sgualdrina, ecco cosa sei! Ma non illuderti che dopo tutto quello che ho fatto per sollevarmi dalla miseria, io sia disposta a farmi rovinare da una piccola vipera avida di denaro!» Uno spintone mandò Cecilia a sbattere contro il spalliera della sedia, libera dalla presa. «Vattene! Vattene da questa casa! Adesso!»
«Ma io non ho fatto nien—»
La protesta di Cecilia, sull'orlo delle lacrime, venne azzittita dalla mano di Rebecca che calava sulla sua guancia.
«Ancora adesso hai il coraggio di negare? Tu... con la tua faccia da ranocchia... neghi di aver tentato... di tentare continuamente di sedurre mio marito per diventare la padrona di questa casa?»
Cecilia, la mano sulla guancia dolorante e il cuore che pulsava in gola, credette di essere sul punto di esplodere. Avrebbe voluto urlare, insultare, piantare le unghie negli occhi della signora Bardsley. La frenò solo un ricordo: il ricordo di Charlotte, che era solita raccomndarle: «Quando vuoi che la gente ti ascolti, Cecilia, non alzare la voce. Piuttosto, usa le parole giuste e pronunciale forti e chiare.»
Davanti alla furia di Rebecca Bardsley, Cecilia raddrizzò la schiena e ricacciò indietro le lacrime.
«Io non ho mai tentato sedurre vostro marito, signora. E non credo che voi siate stupida. Al contrario, sono sicura che sappiate benissimo come stanno le cose. Ma è più semplice dare la colpa a me piuttosto che affrontare il signor Bardsley e ricordargli il suo giuramento. Lui ha giurato... e ha giurato davanti a Dio... di esservi fedele.»

***

«A quel punto, Rebecca prese le forbici dal cesto del cucito e disse che se fossi sparita subito da Gloucester me le avrebbe conficcate in gola. Il genere di argomento che non lascia spazio a discussioni. In un certo senso, suppongo di doverle essere riconoscente. Almeno mi ha allontanata da Bardsley.»
Cecilia sedeva sul bordo del letto, con le mani in grembo e l'animo appena più leggero.
Ratonhnhaké:ton aveva preso posto sul letto di fronte. Schiena curvata in avanti e gli avambracci sulle cosce, manteneva lo sguardo incollato alla figura di Cecilia.
Gli occhi di lei invece, ora asciutti quanto la voce, restavano fissi sul pavimento.
«No. Tutto questo è...» Nella voce di Ratonhnhaké:ton si percepiva il sincero sforzo di cercare la parola adatta. «Ingiusto. E nessuno dovrebbe essere costretto a lasciare la propria casa.»
«Già. Comincio a capire perché tu e la tua gente ci odiate.»
«Io non odio te.»
«Perché abbiamo entrambi sangue inglese?» buttò lì Cecilia, distrattamente.
«Perché tu non hai fatto niente di male» ribatté Ratonhnhaké:ton, imperturbabile. «Però, non capisco. Hai detto di vergognarti. Perché vergogna? Quella parola... nella tua lingua... non significa forse essere turbati per aver commesso un'azione... cattiva... sbagliata.»
«Per la mia gente, come dici tu... essere una sgualdrina è il marchio peggiore con il quale si può infamare una donna. E se una donna sposata accusa una che non lo è di sedurle il marito, nessuno crederà alla seconda.»
«Io ti credo.»
Cecilia alzò lo sguardo su Ratonhnhaké:ton, premendo le labbra in un sorriso dolce e mesto.
«Tu vedi tutto... in modo diverso» sospirò. «Posso confidarti un'altra cosa?»
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia e fece cenno di sì con il capo.
Cecilia si sporse in avanti: «So che può sembrare l'idea di un pazzo ma... io non riesco a togliermi dalla testa il sospetto che mio zio sia stato ucciso. Bardsley disse che i cavalli si imbizzarrirono, ma chi può confermarlo? Non c'era nessuno con loro. E se l'avesse colpito lui alle testa con una pietra? Se lo avesse ucciso perché sapeva che sarebbe stato lui a ereditare i soldi dello zio? E poi, la storia del testamento. Io credo che l'abbiamo fatto sparire il testamento!»
«Quindi c'era un testamento? Tu lo hai visto?»
«Ehm... no. Non l'ho visto. Lo zio non parlava mai con me del suo lavoro. O di denaro. O di documenti. Ma era un avvocato e un uomo timorato di Dio. Una persona come lui... insomma, sono sicura che tenesse già un testamento. Da qualche parte.»
«Hai mai parlato di queste cose con qualcuno?»
«Nessuno mi ascolterebbe.»
«Perché no?»
«Perché sono una donna. E perché non ho delle vere prove.»
«Dovresti farlo lo stesso. Quella è la tua casa. E se davvero tuo zio fosse stato ucciso, come puoi non volere giustizia per lui?»
Cecilia si alzò e le assi del letto si prodigarono uno scricchiolio.
«Ma certo che la vorrei» sbottò. Voltandosi verso il camino, premette una mano contro il corpetto. Il cruccio sulla sua fronte poteva essere tanto di frustrazione per la propria situazione quanto di improvviso fastidio per l'ingenuità di Ratonhnhaké:ton. «E vorrei tornare a casa. E vorrei poter aver i soldi che mi spettano e non essere costretta a vivere contando solo sulla generosità degli altri, come una mendicante. Ma sarei una stupida se credessi di poter ottenere quello che desidero quando là fuori c'è un mondo intero pronto a ignorarmi.»
«Le tue parole... sono come quelle di Achille» disse Ratonhnhaké:ton.
Cecilia continuò a guardare ostinatamente il fuoco e dal suo silenzio il ragazzo dovette intuire fosse giunto il momento di lasciarla riposare.
Lei sentì i passi e il lieve aprirsi e richiudersi della porta. E poi, rimasta sola, sentì qualcosa che somigliava al rimorso.










NOTE STORICHE
[1] Nel 1630 John Winthrop, a bordo della Arabella (o Arbella) guidò in America il gruppo di puritani che in seguito fondarono la città di Boston.
[2] Una ballata per violino, di tradizione irlandese e scozzese, composta attorno al 1740.









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Capitolo 6
*** Attesa ***


THE CORNFLOWER CAP 6

















VI

Attesa










Tenuta Davenport. 16 marzo 1770

La scatola venne chiusa con risoluta delicatezza e la mano di Achille, segnata dalla ragnatela di rughe, accarezzò con una lentezza pregna di rimpianto il simbolo della confraternita, inciso sul legno rossastro.
«Hai intenzione di startene lì a guardarmi in cagnesco ancora per molto?» chiese alla figuretta impettita, ferma alla fine della scala che conduceva laggiù, nelle stanze sotterranee della magione.
«Ma come fate a essere così tranquillo?» soffiò Cecilia. «Così indifferente?»
Con estrema calma, Achille recuperò il capello dal tavolo, se lo sistemò sul capo. Senza voltarsi, disse: «Abbi fiducia nel ragazzo.»
«Ma sono passati più di dieci giorni!»
Achille portò entrambe le mani al pomo del bastone.
«Tornerà.»
«Non potete saperlo!»
«Se vuoi assicurartene di persona, sella un cavallo e corri a Boston.»
«Non... non crediate che non sia capace di farlo!»
«Buon per te. Non potrà essere meno utile del continuare a vagare per la casa come un'anima in pena.»
Cecilia premette le labbra l'una contro l'altra fino a sentire i denti piantarsi nella carne. Poi, cedette una volta per tutta. «Oh. Avete ragione!» esclamò, la voce spezzata da un sibilo sarcastico. «Che sciocchezza, da parte mia, preoccuparmi! Poiché la mia vita è piena di persone amiche, non alcun senso star in pena all'idea che una di loro possa essere stata arrestata. Per un crimine che non ha commesso. E magari impiccata. E gettata in una fos—»
«Proprio quello di cui sentivo il bisogno, alla mia età» la interruppe Achille. «Una ragazzina incline al dramma.»
«Ma che razza di maestro è quello che volta le spalle al proprio allievo?»
«Nel caso ti fosse sfuggito il particolare, bambina, io non sono un maestro di ballo. Se Connor desidera andare fino a fondo alla strada che ha scelto, dovrà imparare a sopravvivere. E imparerà molto, da questa esperienza.» Parlando, Achille aveva sollevato il viso e sembrava ora guardare i quadri appesi alla parete, sopra il tavolo.
Cecilia lo imitò.
Era scesa nella sala tante di quelle di volte da aver inconsciamente imparato a memoria i volti dei Templari, i loro nomi, il loro posto nell'Ordine. Ma solo dopo Boston aveva preso coscienza della loro pericolosa tangibilità. I Templari non erano gli ammonimenti del vecchio Davenport. Non erano quelle eleganti effigi. Erano uomini in carne e ossa, che pensavo, ordivano e agivano.
Cecilia distolse lo sguardo dal ritratto del Gran Maestro e lo fissò su Achille. «Non si chiama Connor. Il suo nome è Ratonhnhaké:ton» sentenziò, brusca, non sapendo come altro sfogarsi. Girò i tacchi e risalì su per le scale. In un attimo, fu all'ingresso. Uscì, richiudendo la porta alle sua spalle, ma non andò oltre il portico: non aveva una reale idea di cosa fare, dove andare. Se ne rimase lì, in piedi, le braccia lungo in busto e un broncio sulla bocca. Il sole di marzo non poteva nulla contro la coltre di neve che ammantava la collina, ma il freddo era l'ultimo dei pensieri di Cecilia. Scivolò a sedere sul gradino di pietra e incrociò gli avambracci, pallidi e scoperti, sopra le ginocchia. Nel silenzio innevato, il cupo ronzio del vento riempiva l'aria e le orecchie di Cecilia. Avrei dovuto fare qualcosa. Dovrei fare qualcosa, si spronò. L'incitamento venne azzittito dalla caustica e incontestabile voce del raziocinio: ma che cosa vuoi fare tu, che a mala pena sai sostenere te stessa e non sei stata nemmeno capace di tenere testa a una donnicciola malata? In fondo, lo diceva sempre lo zio Patrick: «Guarda la fortuna della tua condizione, Cecilia. L'unica virtù che ti si chiede di coltivare è l'obbedienza. Nessuno pretenderà altro da te». Ma il pensiero non le diede alcun conforto e venne soffocato dai ricordi più recenti.

***

Boston. 5 marzo 1770

Il sole era già basso sopra i tetti innevati, mentre Ratonhnhaké:ton — munito di nuovo nome e incoraggiato dal bastone di Achille piantato contro le costole — imboccava la strada affollata.
Cecilia lo guardò allontanarsi.
Durante il viaggio in carrozza, tra balzi e scossoni, era stata lei, lasciato il cattivo umore all'Arabella Inn, a rompere il silenzio: «Potresti venire a farmi visita, ogni tanto» aveva detto. «A Boston, intendo. E con visita intendo a nasconderti dai Templari.»
Ratonhnhaké:ton, fino a quel momento intento a guardar fuori, aveva voltato lentamente il capo verso Cecilia. Come al solito, l'ironia gli era passata davanti al naso ed era balzata oltre la sua testa, per gettarsi dal finestrino e perdersi nel nevischio.
Cecilia aveva preso a rimirarsi le mani. «Ma puoi anche passare per una visita...» Scelse con attenzione la parola giusta: «Amichevole.»
«Cercherò di ricordarlo» aveva riposto il ragazzo, serio ma non scostante.
Cecilia gli aveva sorriso. Lui era tornato a guardare fuori.
Achille picchiettò il bastone sul braccio di Cecilia.
«Tu vieni con me, invece. Da questa parte.»
Imboccarono una via che sembrava salire verso il nord della città, chiassosamente viva anche in quel rigido pomeriggio. Boston era un alveare umano in cui serpeggiavano mal contento e frustrazione. In ogni crocicchio e in ogni angolo di strada, qualcuno sparlava del Re e imprecava contro i Ministri e il Parlamento, mentre dall'altra parte dell'oceano l'Inghilterra emanava atti, aumentava le tasse e riversava nelle colonie truppe di soldati. «Quelle dannate aragoste!» sentì gridare Cecilia, davanti a una stamperia. E, appena pochi metri più avanti, incrociarono un primo drappello di soldati: marciavano al ritmo di un tamburello, con i tricorni calcati in testa, i moschetti in spalla e lo scricchiolio della neve, che copriva il selciato, sotto gli stivali neri.
La meta di Achille si rivelò una taverna: un massiccio edificio a due piani fatto di mattoni marroni. Non si distingueva particolarmente dalle altre costruzioni di Boston, ma dal frontone triangolare sopra la porta, si affacciava una strana insegna in ferro battuto: la sagoma di un flessuoso drago con le ali spiegate. All'interno, la taverna era semideserta: c'erano delle botti accatastate in un angolo, un fuoco nel camino e un uomo e una donna intenti a parlottareaccanto al bancone.
Si interruppero subito e Cecilia capì dai loro sorrisi e dalle loro parole di bentornato che entrambi conoscevano il vecchio Davenport.
La donna — una matrona di mezz'età, dal viso bruttino ma l'espressione allegra — gestiva la taverna, mentre l'uomo le venne presentato come Samuel Adams. Il cognome accese in Cecilia un campanello di familiarità, ma non disse nulla. Si limitò a un sorriso e a una svelta riverenza, mentre ne studiava l'aspetto di sottecchi. Adams indossava una linda marsina blu e calze bianche, ma non aveva l'aria di un gentry. [1] Non era né bello né giovane, sebbene a prima vista i capelli scuri, raccolti in un codino, non portassero traccia di fili bianchi. I suoi modi avevano un qualcosa di schietto e insieme educato che spinse Cecilia a sospettare di avere davanti qualcuno abituato a convincere il mondo delle proprie idee a suon di chiacchiere. Sarebbe stato lui ad affidarla a una buona famiglia, le dissero.
 «Ma di questo parleremo più tardi» concluse il signor Adams e Achille incoraggiò Cecilia a una passeggiata nei paraggi.
Lei, consapevole del sottinteso invito a levarsi di mezzo, perché i due uomini dovevano discutere in privato, ubbidì non senza chiedersi quale fosse il legame tra quell'Adams e il vecchio Achille: che sia anche lui coinvolto nelle faccende degli Assassini?
Mentre sulla città calava un fumoso grigiore, nel quale il nevischio si agitava senza sosta, Cecilia passeggiò in su e in giù per la Green Dragon Lane. La strada, di per sé, le offrì uno spettacolo non dissimile da qualsiasi strada di Gloucester. Chi a piedi, chi a cavallo, la gente andava per i fatti propri. Passarono un paio di carrette, altri soldati, una banda di ragazzini schiamazzanti. I commercianti non avevano ancora ritirato la merce dai banchi e nelle botteghe si continuava a lavorare. Cecilia gironzolò con insistenza davanti alla vetrina di una modisteria. Confrontò i suoi guanti senza dita, ricavati da una rozza lana marrone, con quelli dietro al vetro: eleganti, di cotone bianco, guarniti di merletto. Alla fine, scrollò le spalle, chinò il capo e se ne tornò verso taverna. Camminava contemplando l'orlo inzuppato della gonna, quando un uomo le passò accanto di corsa. Lei lo seguì con lo sguardo e lo vide avvicinarsi, agitato, a un gruppetto di altri uomini seduti su di una panchina. Tutto quello che riuscì a carpire delle sue parole fu: radunando e King Street. L'agitazione parve contagiare l'intero gruppo. Gli uomini si alzarono e sparirono oltre l'angolo della strada.
Cecilia, nel contempo, aveva raggiunto l'ingresso della taverna. La porta si aprì in quello stesso momento. Ne uscirono Achille e il signor Adams.
«Ah, eccoti qua. Bene» disse il vecchio. «Va dentro. E restaci. Manderò Connor a prenderti.»
«Perché? Dove andate?»
«Va dentro» ripeté Achille.
«E se avessi bisogno di qualcosa, chiedi alla signorina Kerr, la locandiera» aggiunse Adams. «Le ho chiesto di tenerti d'occhio.»

***

Tolta la mantella e sfilati i guanti, Cecilia sedette a un tavolo vicino alla finestra, tentando come meglio poté di non pensare a sé stessa come a un dispaccio di cui nessuno aveva voglia e tempo di occuparsi. Passarono i minuti. Cecilia tracciò arabeschi invisibili sul tavolo con la punta dell'indice, si soffiò via dalla bocca una ciocca di capelli, guardò fuori: le sembrava che il via vai, in strada, fosse aumentato.
Alla fine, la signorina Kerr si affacciò dalla stanza dietro al bancone, strofinando le mani nel grembiule.
«Ti porto qualcosa, bambina? Offre la casa.»
Cecilia chiese del sidro di mela e poco dopo la locandiera le mise il boccole sotto il naso.
«Dì un po', è la prima volta che vieni a Boston?» domandò la donna.
Cecilia disse di no. C'era già stata, una volta, da piccola. Aveva sei anni, o poco più.
«La trovi cambiata?»
«Non saprei» ammise Cecilia. «Da piccoli, tutto sembra diverso. Però, la puzza nelle strade mi pare la stessa.»
La signorina Kerr ridacchiò e Cecilia evitò di specificare la serietà della propria affermazione.
La risata della locandiera sfumò in un debole cipiglio di perplessità: giungeva dall'esterno, distinto seppur lontano, un feroce scampanio.
«C'è una chiesa, qui vicino?» domandò Cecilia, distrattamente. Osservò la signorina Kerr piantasi le mani sui fianchi e avvicinarsi alla finestra.
«No... queste non sono le campane di una funzione.»
In capo a quello che le sembrò un quarto d'ora, Cecilia scoprì che la locandiera aveva intuito giusto.
Mentre fuori calava il buio e la signorina Kerr accendeva le candele nella sala, si erano riversati nella locanda una ventina di persone: molti uomini, qualche donna, chi infuriato e chi incredulo, avevano tutti sulla bocca lo stesso argomento. Cogliendo frasi qui e là, senza muoversi dal tavolo, Cecilia riuscì a capire che qualcosa di grosso era successo dalle parti della State House. [2]
«Le giubbe rosse ci hanno aperto il fuoco contro! L'ho sentito io, quel dannato di Montgomery! Ha gridato 'fuoco'!»
«Ho visto che lo portavano via... un ragazzino... pallido come già morto.»
«Il povero Maverick!»
«Non ha che diciassette anni!»
«Ma dicono che sia stato uno della folla a sparare per primo...»
 «Ho sentito dire che se ne stava appostato su un tetto...»
«Al diavolo gli inglesi, ecco cosa dico io!»
A Cecilia era rimasto tra le mani un filo tirato via dai guanti. Adesso, continuava ad arrotolarselo attorno le dita, mentre il suo sguardo saltava da uno all'altro degli avventori e sempre più spesso finiva sulla porta della taverna. Aspettava di vederla aprirsi. Aspettava di veder comparire Ratonhnhaké:ton sull'uscio. Oppure Achille. O il signor Adams. Qualcuno, insomma. Allentò il filo — il polpastrello stava diventando bianco — e rivolse di nuovo gli occhi alla finestra: i lampionai aveva acceso le luci e un campanello di persone si era riunito sotto un portico, dall'altra parte della strada; un uomo, in piedi su di una cassa, sbracciava mentre si rivolgeva alla piccola folla.
Poiché non vide la signorina Kerr da nessuna parte, Cecilia , rapida ma composta, indossò i guanti, allacciò la mantella e uscì dalla taverna.
Attraversò di corsa la strada e sgusciò tra le persone, fino a guadagnarsi un posto in prima fila, pur restandosene all'estremità del gruppetto.
«Ripeto!» disse il banditore, scandendo la parola con una voce piena. «C'è un criminale che cammina per le strade di Boston. È un ricercato, in relazione al massacro davanti alla State House. Si sospetta che sia un uomo di origini native».
Il cuore di Cecilia fece una capriola.
«Tutti i cittadini sono invitati ad avvisare le guardie nel caso dovessero avvistarlo» continuò il banditore. «Dieci sterline a chiunque consegnarà questo pazzo pericoloso alla giustizia». La gente mormorava commenti e poneva domande. E Cecilia cercava di non allarmarsi. Con scarso successo. Ci saranno altri nativi in città. E poi, nella taverna parlavano di spari. Lui non l'ha nemmeno una pistola. Ah, ma potrebbe sempre averne rubata una. Sì, ma perché mai—
«Cecilia».
La ragazza si voltò con uno scatto.
Era Achille. Ed era solo.










NOTE STORICHE
[1] Nell'America Coloniale i gentry erano in cima alla scala sociale. Potevano essere grandi proprietari terrieri, mercanti molto ricchi o finanzieri. Occupavano posti come magistrati locali, figure di chiesa e consiglieri comunali. Subito sotto c'erano i middling: la classe media, impegnata nel commercio (fabbri, oreficerie, la stampa, etc.) o in professioni 'libere', come gli avvocati, i medici o commercianti proprietari dei loro stessi negozi. Prima della morte dello zio, che era un avvocato, Cecilia rientrava in questa classe sociale. Dopo la classe media, c'erano gli agricoltori che possedevano fattorie più o meno grandi; poi i neri liberi, che non godevano degli stessi diritti dei bianchi, ma potevano comunque essere proprietari di case e terreni; e infine gli schiavi.
[2] Il 5 marzo 1770 è passato alla storia come il massacro di Boston. Davanti alla Old State House si riunì una folla in protesta, alcuni soldati inglesi fecero fuoco e uccisero cinque civili.  Tre sul posto, mentre altri due morirono poco dopo. Uno di questi ultimi, si chiamava Samuel Maverick e aveva appunto diciassette anni: colpito da un proiettile di rimbalzo, morì dopo qualche ora.
Le reazioni all'incidente contribuirono ad accendere la scintilla della ribellione in varie colonie britanniche in America.  Tra i soldati,  Hugh Montgomery che ammise con uno dei suoi avvocati di aver gridato: "Dannazione a te, fuoco!" perché fu colpito con una mazza e gettato a terra da uno dei civili. Nel videogioco, l'ordine viene dato dopo che Charles Lee spara un colpo in aria dal tetto di un edificio vicino alla Old State House.









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Capitolo 7
*** Veglia notturna ***


THE CORNFLOWER CAP 7

















VII

Veglia notturna










Tenuta Davenport. 19 marzo 1770

Cecilia si era assopita. Uscì dal torpore, sbattendo piano le palpebre. Intorno a lei, i mobili affiorarono poco a poco dalla penombra: sagome basse, nere, addossate alle pareti spoglie della camera da letto. La ragazza spostò una mano sul bracciolo e si alzò in piedi, abbandonandosi a un muto sbadiglio. Non avrebbe saputo dire per quanto tempo fosse rimasta davanti al caminetto, con le gambe piegate sulla sedia, ma dal formicolio ai piedi intuì che la veglia notturna si era protratta più del previsto. Il rumore dei suoi passi leggeri intaccò il silenzio, mentre raggiungeva il letto, coronato dai drappi del baldacchino, per fermarsi a lato del grande materasso.
Ratonhnhaké:ton dormiva con il capo affondato nel cuscino e le lenzuola tirate fino al petto, che si alzava e si abbassava, seguendo il respiro pesante e regolare. Sul mobile vicino, un mozzicone di candela si consumava accanto a una brocca d'acqua, a un bicchiere di peltro e a una ciotola di legno, dalla quale pendeva una pezza inumidita.
«E ti stupisci che abbia la febbre?» aveva commentato Achille, placidamente, quella mattina. «Ma salvare quel tagliaboschi è stato coraggioso. Questo te lo concedo». E aveva spedito l'allievo in camera da letto, a riposare, e Cecilia in cucina, a bollire corteccia di betulla sbriciolata.
Incapace di soffocare la scintilla di contentezza accesa dal ritorno del nativo, Cecilia aveva trascurato i lavori domestici pur di passare con il giovane nativo molto più tempo del necessario. Il pudore, però, le imponeva di dissimulare e il mattino precedente, quando Ratonhnhaké:ton — sano, salvo e incollerito — si era ripresentato alla tenuta, lei gli aveva comunicato il sollievo e il piacere di rivederlo con un atteggiamento tanto compito quanto goffo.
Adesso, illanguidita dalla stanchezza, la ragazza sedette sul bordo del letto e per una volta, non vista, fu lei a concedersi di fissare. Le sembrava che neppure il sonno riuscisse ad addolcire l'espressione seria sul viso del nativo. Al soffuso chiarore della candela, ne contemplò i dettagli: le minuscole macchie sugli zigomi sporgenti e sul naso aquilino, le ciglia corte e nerissime, il disegno pieno delle labbra, la rotondità ancora infantile del mento liscio. L'attenzione scivolò sui solchi di ombre tra i muscoli del collo, e poi sul triangolo di petto, che spariva oltre i bordi della grezza camicia bianca. Osservò le mani: la destra abbandonata sopra lo stomaco, la sinistra lungo il fianco. Lì non c'era più nulla di infantile. Non erano le mani di un ragazzino. Erano le mani di un uomo, incallite dalla corda dell'arco, spellate dal freddo, graffiate dalle cortecce e dalle pietre.
Cecilia coprì la mano sinistra del ragazzo con la propria. Lasciò scivolare le dita sotto al palmo e accarezzò il dorso con il pollice, seguendo la linea delle ossa, che spingevano contro la carne. Si era sempre rammaricata di non possedere mani affusolate e dita sottili, ma accanto a quelle di Ratonhnhaké:ton, le proprie mani rivelavano il loro un aspetto munito, pallido e gracile. Troppo gracile, notò. Quanto sarebbe stato facile per lui farle del male. Ma tu non lo faresti mai, dovette rassicurarsi. Vero? Né a me né a nessun altro come me. Tu non sei... crudele.
Crudeltà. Era naturale accostare tale parola ai nativi. Cecilia li ricordava bene i sermoni del reverendo Callthorpe: gli indigeni erano pagani, selvaggi e avversi ai modi degli industriosi inglesi, si macchiavano del peccato della pigrizia e indulgevano nel vizio dell'alcol. Nelle malattie che li stavano decimando — asseriva il reverendo, dall'alto del pulpito — c'era l'imperscrutabile ma giusta volontà di Dio. Così come la presenza dei cristiani nel Nuovo Mondo era nei piani della Provvidenza. Era diritto e dovere di ogni cristiano prendere quei territori poiché Dio, nel momento della Creazione, aveva ordinato all'uomo e alla donna di riempire la terra; soggiogarla, dominare sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente. Gli indigeni, invece, trasgredivano all'ordine divino e vivevano della terra non diversamente dalle bestie.
Non appena la mente di Cecilia aveva iniziato a emergere dalla distratta apatia dell'infanzia, non appena era stata in grado di assistere alle funzioni del reverendo Callthorpe senza appisolarsi con la testolina sul braccio di Charlotte, si era chiesta se non fosse stata una scemenza, da parte di Dio, prendersi la briga di creare tutta quella gente per poi sterminarla. Però, se gli adulti attorno a lei, seduti seri e composti sulle panche, erano d'accordo con l'uomo con le facciole bianche, allora probabilmente era lei a non capirci molto.
Ma c'erano voci che le erano rimaste molto più impresse dei forbiti discorsi del reverendo Callthorpe: le voci della gente. Parlavano di scalpi, di crani fracassati, di prigionieri di guerra arsi vivi. Dicevano che offendere un indigeno equivaleva a una condanna a morte. Si sarebbero vendicati sulla pelle del primo bianco che fossero riusciti a catturare, uomo, donna o bambino. Non conoscevano la pietà e il perdono. Una volta, al porto di Gloucester, aveva sentito un marinaio raccontare che giù nel sud, nella Florida degli spagnoli, c'era una tribù che mangiava i prigionieri. Aveva otto anni Cecilia, allora, e il racconto l'aveva impressionata a tal punto da spingerla chiedere a Charlotte se la storia fosse vera. «Tutte frottole» aveva dichiarato Charlotte, ricordandole di non prestare mai fede alle chiacchiere della gente di mare.
Cecilia accarezzò di nuovo la mano di Ratonhnhaké:ton.
Lo vide corrugare le sopracciglia in una smorfia di fastidio — o di sofferenza.
Ritrasse subito il braccio.
Lui schiuse le labbra, voltò il capo verso la candela e parlò, con una voce più debole dello sfrigolio morente del fuoco nel caminetto. Mormorò qualcosa nelle propria lingua. Parole che Cecilia non poteva comprendere. Quel che capì, invece, fu che Ratonhnhaké:ton non si stava svegliando. Dormiva e sognava. E forse la febbre insidiava i suoi sogni.
Rassicurata, Cecilia avvicinò la mano alla fronte del ragazzo. Infilò le dita tra le ciocche pesanti, scure e lisce come le penne di un corvo, e qualcosa le fluttuò nel petto, tra il cuore e la gola, lieve come un piuma e tiepido come un mattino estivo. Sfiorò la treccia sottile e accostò il dorso delle dita alla guancia: la pelle era meno calda, la febbre si stava abbassando.
Chissà cosa sogna, si chiese.
Si rese conto di quante cose non conosceva di Ratonhnhaké:ton. Sapeva che, nove anni prima, la madre era morta nell'incendio che aveva devastato il villaggio, ma ignorava quali ricordi lui conservasse della donna. Ne ricordava il volto o il sorriso? Il modo di incedere o quello di parlare? Ricordava come si ci sentiva ad essere piccoli e stretti tra le braccia materne? Li abbracciavano gli indigeni, i propri figli? Lo aveva sentito affermare di essere pronto ad uccidere tutti i Templari, da quel Charles Lee responsabile dell'incendio fino al suo stesso padre — un padre con il quale condivideva solo il sangue. Ora Cecilia si domandava se il cuore del ragazzo fosse davvero irremovibile come le parole. Possibile che non avesse mai paura? Che non conoscesse il dubbio? Che non si sentisse schiacciato dai suoi obbiettivi? Proteggere la sua gente. Seguire un Credo di cui era il solo adepto. Abbattere un'organizzazione radicata nelle Colonie come una pianta infestante. Quella notte, prima di spegnere la candela e lasciare la camera, Cecilia promise a sé stessa che, fin quando fosse rimasta alla tenuta, avrebbe tentato di capire cosa si agitava in quello stoico e strano ragazzo.










NOTE STORICHE
In merito alla percezione delle popolazioni indigene ci tengo a specificare che non ho inventato né esagerato nulla. Le informazioni provengono da resoconti di esploratori e da libelli scritti da uomini di chiesa, datati tra il 1700 e il 1750 circa.









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Capitolo 8
*** L'Aquila e il lupo ***


THE CORNFLOWER CAP 8

















VIII

L'Aquila e il lupo










Tenuta Davenport. 3o marzo 1770

Trascinato fuori dall'acqua, il relitto ricordava il torace di una gigantesca bestia marina, con una parte delle enormi costole di legno marcio esposte alla vista. Ma la prua era ancora intatta e, sotto al bompresso, la testa di aquila puntava lo sguardo verso l'apertura della baia. Cecilia immaginò di vedere il rapace scuotersi ed emergere dal legno, rivelando il resto del corpo con un maestoso frullio di ali e un'esplosione di schegge, per poi librarsi in volo sopra il mare aperto.
Il guizzo di fantasia venne bruscamente troncato dal faccione che le si parò davanti.
Un marinaio dalla testa calva, che per forma e colore ricordava in modo straordinario un uovo di tacchino, portava in spalla una piccola botte. Sorrise. Aveva un buco al posto dell'incisivo destro. «Trovato qualcosa da ammirare?» Allungò la mano libera per sollevare il mento di Cecilia.
Lei tirò indietro il capo, riassunse una risposta nella linea dura e diritta delle labbra e si voltò, piantando l'uomo lì, sulla spiaggia: il nugolo di marinai che ronzavano attorno alla nave, assoldati dal vecchio Davenport per rimettere in sesto l'Aquila, era il motivo per il quale Cecilia preferiva tenersi alla larga dalla baia.
Quella mattina stava facendo un'eccezione.
Raggiunse la baracca alla fine del pontile, rifilò due colpetti leggeri alla porta socchiusa ed entrò senza attendere inviti.
Il signor Faulkner era in piedi — abbastanza fermo sulle gambe da lasciar sperare in una discreta sobrietà — con i pugni premuti sul tavolino cosparso di carte: i progetti di ricostruzione del veliero. In un angolo del tavolo, tra un compasso e un calamio, stava una bottiglia color ambra.
«Buong—»
«Ah!» Faulkner l'azzittì, puntandole l'indice contro, come se avesse sorpreso un terrazzano a fischiettare sul ponte di una nave, in mare aperto. Socchiuse l'occhio destro. «Conosci la regola, miss» gracchiò.
Cecilia si morse il labbro — Buon Dio, tutte le volte la stessa storia — imponendosi il silenzio, mentre Faulkner circumnavigava metà del tavolo per avanzare verso di lei, scandendo il saluto per primo: «Buon-gior-no.»
«Ma non vi sembra di esagerare un tantino?» azzardò Cecilia. «Chiaramente nessuno salperà oggi. E i miei capelli non sono poi così rossi.»
«Sono rossi abbastanza» ribatté Faulkner. «La malasorte s'infila ovunque, di questi tempi!» [1] Sulla sua faccia cotta da sole, e circondata di barba grigia, si dipinse un'espressione bonaria. «Ma veniamo a noi... a che devo la visita?»
«Achille vi manda questi.» Cecilia aprì la piccola sacca che portava legata alla vita. Ne tirò fuori due fogli piegati a metà e li porse a Faulkner.  «Credo siano nuove disposizioni per i tipi di cannoni con cui—»
«—equipaggiare la mia splendida signora.»
«Già. La nave.»
Faulkner tornò al tavolo e scambiò la presa sui fogli con una sul collo della bottiglia. «Come mai il vecchio ha mandato te e non il ragazzo?» Fece saltare il tappo della bottiglia.
«Connor non è alla magione.» Cecilia aveva preso l'abitudine di usare il nome scelto da Achille, almeno quando si parlava di Ratonhnhaké:ton in presenza degli altri abitanti della tenuta. «Credo sia uscito all'alba, perché non l'ho incrociato a colazione. Sarà da qualche parte. Ad allenarsi». Aggrottò la fronte. «Non s'è fatto vedere quaggiù, vero?»
Faulkner disse di no, aggiungendo che non vedeva il ragazzo da almeno un paio di giorni.
A quel punto, sbrigata la commissione, Cecilia augurò buona giornata e si affrettò a lasciare la baracca. Non che avesse antipatia per Faulkner: il vecchio era stato un lupo di mare, al comando dell'Aquila e nei ranghi dell'ordine degli Assassini, e si comportava esattamente come ci sarebbe aspettato da un vecchio lupo di mare. Era il lezzo della baracca a essere poco invitante: sembrava che l'odore di alcol e di rum avesse impregnato pareti e mobilio.
Allontanandosi dalla baia, Cecilia non prese la direzione della casa.
Era una bella giornata. Le montagne restavano imbiancate, ma sulla collina, e tra i boschi, iniziava a riaffiorare il verde, mentre il vento, che per settimane aveva sibilato tra gli alberi spogli e gli abeti sempreverdi, aveva ceduto il posto a una brezza fresca e quieta. Mancando più di tre ore al mezzogiorno, Cecilia soppesò l'idea di una visita a Diana. Magari per rifornirsi di piante medicinali. Insieme al cantiere nella baia, l'arrivo delle famiglie dei taglialegna, e di O'Donnell, il falegname di Boston, aveva portato alla tenuta una parvenza di vita. Achille aveva dato il permesso agli affittuari di costruire sui suoi terreni: abitazioni, botteghe, perfino un mulino; anche Cecilia era rimasta coinvolta nel cambiamento di rotta del padrone. Ora che la magione stava tornando quella di un tempo, aveva dichiarato Achille una settimana prima, mentre la ragazza gli serviva la colazione, poteva far comodo un aiuto per governare la casa. Non vedeva motivo di mandarla a lavorare altrove, tanto più che dalle strade Boston, tra rivoltosi e Templari, sarebbe stato saggio tenersi alla larga. Fu così che Cecilia ottenne un lavoro autentico e la promessa di otto sterline l'anno.

***

Un cumulo di neve ghiacciata circondava una roccia larga e piatta. Un tappetino di violette spuntava tra i cristalli della neve. Cecilia, scendendo lungo il lieve pendio, vide i fiori e si fermò, per inginocchiarsi accanto alla roccia. Liberò i fiori, scavando con le dita nude — indossava i lunghi guanti di lana, che lasciavano scoperte le mani, e uno scialle per tenere al caldo il petto e la gola.
Raccolse una violetta. Poi, un'altra. E altre due.
Alla quinta, si bloccò.
Al placido fruscio del vento, e agli ininterrotti cinguettii tra la vegetazione, si era appena aggiunto un rumore nuovo.
Un suono basso e continuo. E minaccioso. Un ringhio.
Cecilia alzò la testa di scatto. Scivolò all'indietro per lo spavento, finendo con il sedere sull'erba bagnata.
C'era un lupo davanti a lei.
La sovrastava dalla roccia, sulla quale era balzato, silenzioso come uno spettro, ed era pronto al secondo balzo. Le orecchie puntate in avanti, il muso arricciato e il ringhio che vibrava tra le zanne. Spuntavano come coltelli di avorio dal rosso sanguigno delle gengive.
Cecilia non si mosse. Non ci riusciva. Le sembrò di aver perso il controllo delle proprio corpo, schiacciata a terra come una calamita contro il ferro.
Poi, udì un sibilo. E un guaito. Infine, un tonfo.
Il lupo era caduto giù dalla roccia e giaceva adesso riverso su un fianco, con una freccia dall'impennaggio bianco e nero conficcata tra le costole. La punta doveva essersi fatta largo tra la carne fino a trafiggere il cuore, perché la sventurata bestia smise subito di respirare.
Cecilia sbatté le palpebre, come un cieco miracolato, raccapezzando un briciolo di padronanza di sé, e voltò la testa di lato: Connor, a venti passi di distanza, stava abbassando l'arco. La guardava con la sua solita espressione che — se Cecilia non lo avesse conosciuto — sarebbe parsa di noia mista a sopportazione.
Il ragazzo la raggiunse e le tese una mano, ma non si sprecò in parole.
Cecilia si lasciò aiutare.
«Te... te l'ho mai detto il tuo tempismo è pari solo alla tua... piuttosto inquietante... capacità di avvicinarti di soppiatto?» Aveva ancora il mazzolino di violette nel pugno serrato.
Connor rilassò la mano lungo il fianco, indietreggiando di mezzo passo. «Dovresti portare un pugnale con te».
«Oh... n-non... credo servirebbe a un granché» balbettò Cecilia, che non aveva ancora ripreso colore. Scosse la sottogonna. «E poi... non so usarlo, un pugnale».
«E allora impara.»
Non c'era asprezza o cattiveria nel tono di Connor, solo la ferma calma con la quale si sottolinea l'ovvietà di un fatto. Ciononostante, Cecilia annaspò tra sorpresa e dispetto, come se lui le avesse appena dato un pizzicotto. Tirò fuori un sorrisetto forzato. «Ma le mie ti sembrano le mani o le braccia di un combattente?»
Connor arretrò di un altro mezzo passo. Fissò Cecilia da capo a piedi, inclinando appena la testa di lato e sollevando il mento, come faceva sempre quando sembrava intento a ponderare qualcosa.
«Prova a colpirmi» disse.
«Come prego?»
«Colpiscimi. Con un pugno.»
Cecilia aveva ancora il batticuore, un eco di paura che le rimbombava per tutto il corpo e pochissima voglia di interpretare il comportamento del nativo. «Se... se stai cercando di capire chi, tra noi due, è il più forte... una dimostrazione pratica è superflua. Tu hai più muscoli. Sei più grosso. Sei più alto. E ti alleni ogni santo giorno. Vinci tu.»
«Il lupo è più forte e veloce di me. E l'orso è più grosso. Eppure, posso batterli entrambi.»
«Quelli sono animali. Tu sei una persona. Hai le armi... e l'intelligenza... dalla tua.»
«Sono anche dalla tua.»
«Ma stai parlando di fronteggiare uomini o animali?»
«Sto dicendo che se la sola cosa che riesci a pensare, davanti a un nemico, è a quanto sia più forte, grosso e alto di te, allora hai perso prima ancora di provare a combattere.»
«Facile per te parlare così. Vorrei vedere se fossi bloccato in... in un corpo come il mio.»
«Sano e intero?»
«Debole.»
«La tua volontà lo è molto di più.»
A quell'ultima frase, la risposta salì alla lingua di Cecilia come una scintilla tra due pietre focaie.
«Lieta di sapere che mi consideri una persona senza spina dorsale.»
«Io penso solo che tu scelga di essere debole.»
La scintilla divampò in una fiammata: «Io non posso scegliere un bel niente!» sibilò Cecilia. Superò Connor, sfilandogli accanto, senza guardarlo in faccia. Lui non la seguì, se non lo con lo sguardo. Forse. Cecilia non si prese la briga di controllare, ma immaginò si fosse fermato a recuperare carne e pelliccia dalla carcassa del lupo. Lei, dal canto suo, abbandonò il proposito delle visita a Diana e tornò in fretta alla magione.

***

Le setole di saggina frusciavano sopra i mattoni, il tegame scoperchiato borbottava nel camino e la voce di Achille arrivava all'orecchio di Cecilia, intenta a spazzare il pavimento del cucina. La porta tra la cucina e il salone da pranzo era socchiusa. Nell'altra stanza, Achille parlava con Connor di un certo trattato dal titolo pomposo — De Principatibus — scritto da un Assassino italiano, ai tempi della famiglia Auditore. Un tale Macchiavelli. Gli insegnamenti di storia, di politica, di filosofia e di arte erano parte dell'addestramento di Connor e Cecilia faceva sempre in modo di trovarsi nei paraggi, durante le lezioni. A volte, se le faccende domestiche erano state sbrigate, sedeva nella stanza con Connor e il vecchio mentore.
Lei ascoltava. Ascoltava, stipava nozioni e riflessioni nella propria testa, con l'instancabile costanza di una laboriosa formichina, e capiva molto più di quanto lo zio Patrick, o Charlotte, o lo stesso Achille avrebbero mai potuto credere.
Quel pomeriggio, tuttavia, Cecilia ascoltava una parola sì e dieci no.
Fermandosi davanti a una finestra, appoggiò il mento alla scopa e dedicò un'occhiata imbronciata al mazzolino di violette. Le aveva riposte in vasetto dal collo lungo e sottile, sistemato sull'incavo del davanzale. I petali gialli e viola, lambiti dalla luce del tramonto, iniziavano ad appassire.
Cecilia aveva superato lo spavento dell'incontro con il lupo relativamente in fretta, ma non riusciva a scrollarsi di dosso le parole di Connor. Non era mai stato difficile andare contro i dettami dello zio Patrick riguardo ai molteplici limiti di una mente femminile. Capirò da sola quando avrò raggiunto il limite, si era sempre segretamente detta Cecilia, quando troverò un libro o un'idea da cui non riuscirò a cavare niente nemmeno al centesimo tentativo. Ma con il corpo era tutta un'altra faccenda. Cecilia li portava scritti addosso i segni della debolezza del suo sesso. Erano proprio sotto i suoi occhi, nelle mani piccoli, nelle carni morbide, nelle ossa gracili come quelle di un uccellino. Le donne erano vittime, non guerrieri. Le donne non potevano nulla davanti alla forza bruta. Era così, e basta. Lo diceva perfino Charlotte, che aveva uno spirito di ferro ma portava sulla schiena le cicatrici di quella metà della sua vita trascorsa alla mercé di una frusta mossa da un vigoroso braccio maschile.
Eppure... rifletteva adesso Cecilia. Eppure era stata proprio Charlotte a raccontarle le gesta di Grace O'Malley [2] e le imprese di Giovanna D'Arco. E il capitano Johnson, in quella sua Storia generale dei pirati [3] — sesto libro sul terzo ripiano della biblioteca, nella casa della sua infanzia — non aveva forse raccontato le avventure di due donne pirata? E Achille aveva forse mai fatto mistero del fatto che tanto sia gli Assassini quanto i Templari avessero sempre compreso le donne nelle loro fila? Non era stata la sorella di Ezio Auditore, Claudia, a guidare la Fratellanza per due anni? E se Connor si aspettava che lei andasse in giro con un pugnale, allora una simile attitudine doveva essere la normalità tra le donne irochesi.
Cecila stava sbucciando le patate quando sentì Achille lasciare la sala da pranzo, passando dalla porta principale. L'attimo dopo, udì il toc del bastone su per le scale. Mise giù coltello e tubero, pelato per metà, e si affacciò sulla soglia del salone.
Connor era rimasto nella stanza, seduto a un capo del lungo tavolo, lo sguardo chino su quello che doveva essere una versione in lingua inglese del trattato di Macchiavelli.
Cecilia strofinò le mani umidicce sul grembiule e si fece avanti.
Connor la udì. Si girò a guardarla.
«Posso... parlarti?» domandò la ragazza, fermandosi di fianco alla sedia.
«Lo stai già facendo» fece notare lui, con una logica a suo modo inattaccabile.
Cecilia sorvolò. Era in affannosa ricerca delle parole giuste per esprimere la sua richiesta. «Stavo pensando a quello che mi hai detto questa mattina» esordì. «E... uhm... a come... la paura mi abbia pietrificata, davanti al lupo. Il che mi ha fatto realizzare che forse tu... non hai tutti i torti. Riguardo alla mia volontà, intendo».
Connor la osservava dal basso della sedia e lei lo vide far salire un poco le sopracciglia sulla fronte, ma non lesse nulla di beffardo nel suo sguardo.
«Ti andrebbe di...» Cecilia lanciò un'occhiata alla porta, sebbene il rumore del bastone di Achille giungesse, fiaccamente ma inequivocabilmente, dal piano superiore. «Insegnarmi qualcosa? Non che mi sia messa in testa chissà quale strana idea. Non voglio andare in cerca di guai. Vorrei solo... solo non sentirmi sempre... costantemente... inerme.»
«Va bene.»
Cecilia battè le palpebre, più e più volte. «
Va... bene? Sul serio?»
«Sì. Va bene» ripeté Connor, con l'aria perplessa di chi si sta chiedendo quale bisogno c'è di dire le cose due volte. «Ti insegnerò. Quello che vuoi.»
A Cecilia sfuggirono un sospiro e un sorriso. Agì senza pensare, giacché in qualche modo sapeva che, se avesse riflettuto, la ragione l'avrebbe immobilizzata: si chinò verso il nativo e il silenzio del salone accolse lo schiocco di un bacio sulla guancia.
Quando lei si tirò indietro, Connor, rigido sulla sedia, abbassò gli occhi sul libro.
Cecilia non disse nulla. Tornò in cucina, pizzicandosi il labbro inferiore, ancora arricciato in un sorriso.










NOTE STORICHE
[1] Nella scena, si fa riferimento a due superstizioni di mari: il fischiare in mare aperto che attira le tempeste e le persone dai capelli rossi portano sfortuna, sopratutto se incontrate prima di salpare. L'unico modo per scongiurare la sfortuna è rivolgere per primi la parola alla suddetta persona. Cecilia, oltre ad essere una donna, è anche una biondina dai riflessi rossi e tanto dovrebbe bastare a Faulkner per preoccuparsi di vederla al cantiere.
[2] Grace O'Malley fu una famosa donna pirata irlandese, vissuta tra il XVI e XVII secolo.
[3] Storia generale dei pirati, scritto nel 1712, racconta le vite di pirati diventati famosi durante l'Età d'Oro della pirateria (dal 1650 al 1730). Le donne citate sono, come è facile immaginare, proprio Anne Bonny e Mary Read.









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Capitolo 9
*** Il primo passo ***


THE CORNFLOWER CAP 9

















IX

Il primo passo










Tenuta Davenport. 4 aprile 1770

Cecilia trovò Connor all'ombra della pensilina delle stalle. Sedeva sopra una botte, intento ad armeggiare con un paio di bastoni e un robusto pezzo di spago. «Iniziavo a credere che non desiderassi più provare» disse il ragazzo, quando Cecilia gli comparve accanto.
«Dovevo finire di rassettare la cucina» si giustificò lei. Torturava senza tregua l'anulare sinistro, come se cercasse di tirar via un invisibile e fastidioso anello. L'ottimismo vacillava. Dopo il picco di fermezza di qualche giorno prima, adesso doveva tenere a bada i mormorii malevoli che le nascevano dentro. Che idea stupida! Finirai solo per farti male. Tornatene ai libri e al cucito, prima di fare la figura dell'inetta.
Connor scivolò giù dalla botte, stringendo un bastone in ciascuna mano. Uno era poco più corto di un avambraccio, spesso un pollice, arrotondato su entrambe le estremità. L'altro, più lungo e più robusto, aveva incastrato sulla sommità un secondo pezzo di legno, piatto e smussato, tenuto fermo con la corda. Cecilia vi riconobbe la sagoma di un'ascia.
Il nativo lanciò il bastone corto verso Cecilia. E lei... si scansò di scatto, tirando le braccia al petto, nemmeno avesse appena schivato una palla incendiata.
Il bastone rimbalzò due volte sulle assi del portico e lì rimase, abbandonato.
Cecilia vide Connor alzare gli occhi al cielo. E giunse l'illuminazione.
«Ah. Volevi che lo prendessi al volo.» Stiracchiò un sorrisetto e raccolse il bastone, pregando ingenuamente che il pizzicore alle guance non si stesse traducendo in una vampata di rosso. «Quello sarà il pugnale» spiegò Connor. «E questo.» Fece roteare la finta ascia, con un movimento del polso, prima di lasciarla tra le mani di Cecilia. «Il tomahawk.»
Cecilia inarcò un sopracciglio. Il suo sguardo interrogativo andò dalla schiena di Connor, che stava uscendo dal riparo della tettoia, alle armi posticce. Ma ha intenzione di insegnarmi a combattere come... come uno della sua tribù? Il sopracciglio tornò al suo posto. Meglio di niente. E seguì Connor al centro dello spiazzo.
Sopra le loro teste, il cielo era coperto da un velo cenerino. Sotto i loro piedi, la terra bruna e umidiccia mostrava uno scombussolato arabesco di orme. Una cincia bigia, nascosta chissà dove tra il tenero fogliame dei primi alberi rinverditi, fece sentire il suo fischio acuto e melodioso.
«Non tenere le armi in quel modo» esordì Connor. «Sembra che tu ne abbia paura. Devi fare affidamento su di loro. La tua presa deve essere ferma. Sicura. Non tesa.» Nel dirlo, chiuse entrambe le sue mani, scure e callose, sulla mancina della ragazza, stretta attorno all'impugnatura dell'accetta. Fu un contatto rapido, un gesto meramente istruttivo, eppure Cecilia avvertì un delicato brivido accarezzarle il braccio. Le guance tornarono a pizzicare e, come la sera in cui era rimasta accanto al letto del nativo, a vegliarlo di nascosto, un qualcosa di lieve, piacevole, privo di nome sbatté le ali nel suo petto.
Cecilia si scrollò di dosso quella sensazione. Fece del suo meglio per seguire le istruzioni di Connor.
Lui le spiegò come impugnare il coltello: con la lama rivolta verso il basso, così da sfruttarlo come scudo per l'avambraccio. «E in questa posizione, potrai mettere più forza nel colpo.» Sfilato via il suo vero tomahawk dalla cintura, le mostrò come tenere i piedi e come piegare le ginocchia per non perdere l'equilibrio. Le spiegò come sfruttare l'incavo sotto la testa dell'ascia per bloccare e deviare il colpo di una spada; e come ogni parte dell'arma, oltre alla testa, potesse essere usata per colpire. Infine, come avvicinarsi all'avversario, dopo averlo costretto a tenere la guardia scoperta, e dove affondare il pugnale.
«Cerca di mirare sempre allo stomaco. O alla gola.»
Cecilia si chiese  se avrebbe mai avuto il coraggio di pugnalare qualcuno. Non riusciva a immaginarsi nell'atto di conficcare una lama nella carne viva di un essere umano. Però, tentò di convincersi, le carni che ti arrivano sul tavolo della cucina le tagli e la squarti senza fatica e senza rimorsi. Al che si disse che il raffronto era insensato. Le situazione erano chiaramente diverse. Già, scalpitò la sua parte più testarda. Un tacchino senza testa e un coniglio scuoiato non tenteranno mai di ammazzarmi o di violentarmi.
Connor le chiese di ripetere, lentamente, i movimenti che lui le aveva appena mostrato. E lei obbedì, sentendosi la ridicola protagonista di un ancor più ridicolo balletto, mentre agitava ascia e pugnale contro il nulla. Solo molti, molti tentativi più tardi, quando a Cecilia già dolevano le spalle, Connor parve convincersi che i suoi movimenti iniziassero a mostrare un barlume di coordinazione.
«Proviamo con un avversario in carne e ossa» disse, raccattando un bastone, poco più corto di un manico di scopa, dal prato attorno allo spiazzo. Si posizionò davanti a Cecilia, impugnando il bastone come fosse stata una spada.
Sferrò un colpo di taglio. Cecilia si tirò indietro e il bastone sferzò l'aria là dove un istante prima c'era il petto della ragazza.
Il secondo colpo, invece, calò diritto sul suo braccio.
Cecilia boccheggiò per il dolore e corse a stringersi il braccio, poco più su del gomito.
«Questo... questo non è davvero da gentiluomo!» soffiò, tra sorpresa e indignazione. «Mi resterà un livido!»
Connor appoggiò il bastone in spalla. «Come posso insegnarti a difenderti senza attaccarti?»
«Potresti limitarti a fingere di attaccarmi.»
«Tu vuoi imparare a difenderti per finta?»
Cecilia raddrizzò la schiena, massaggiandosi il braccio.
«Almeno fa lo sforzo di dispiacerti, se mi fai male.»
Riluttante, riprese posizione.
Connor roteò il bastone e avanzò in un affondo. Questa volta, Cecilia ebbe la prontezza di spostarsi di lato, per sottrarsi completamente alla traiettoria del bastone, e sollevò il pugnale. Il bastone vi scivolò contro e tanto bastò per deviare la direzione del colpo dalla parte opposta a quella di Cecilia, che si ritrovò a poter disporre del fianco scoperto del ragazzo.
Sarebbe stato il momento buono per colpire l'incavo del ginocchio di Connor con l'accetta e fargli perdere l'equilibrio.
Ma l'orlo della gonna si infilò sotto il piede di Cecilia e per poco non fu lei a finire per terra.
«Oh!
» Le scappò un verso di frustrata delusione. «Ma chi voglio prendere in giro? Sono ridicola.»
«I tuoi vestiti sono ridicoli» commentò quietamente Connor. «Tu sei impaziente.»
«Senti di chi parla di impazie—che c'è?»
Cecilia si era accorta del modo in cui Connor la stava fissando: con lo sguardo di chi ha appena scovato un dettaglio nuovo e spassoso in una storia che conosce a menadito. Il busto seguiva l'inclinazione pensosa della testa e la corta treccia gli ondeggiava tra i capelli. «Sei minuta» disse il nativo. «E leggera. Ma non... lenta. Potresti fare dell'agilità la tua forza.» Con un lieve movimento del mento, Connor accennò alla magione.
Lo sguardo di Cecilia dovette percorrere per due volte la strada tra Connor e la casa, prima che le sopracciglia tornassero a sollevarsi. «Oh. No» decretò. «Non inizierò ad arrampicarmi sui tetti. Non succederà. È impensabile.»
«Lo è se ti ostini a tenere tutta quella stoffa addosso» fece notare Connor.
Cecilia fissò la magione, sopprimendo l'istinto di mordersi le labbra. Pensò che, per ripagare Connor del tempo dedicato a istruirla, avrebbe dovuto stilare per lui un elenco di espressioni alle quali non doveva assolutamente ricorrere.
In presenza di una donna.










NOTE AUTRICE
L'atmosfera del capitolo, che non era presente in questa forma  nella scaletta originale, è stata ispirata da una traccia, della soundtrack di Assassin's Creed III.









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Capitolo 10
*** Chi lascia la via vecchia ***


THE CORNFLOWER CAP 10

















X

Chi lascia la via vecchia










Tenuta Davenport. 6 settembre 1773

L'ultimo sacco di farina fu sistemato sul carretto e Cecilia balzò a cassetta, agguantando le redini. Il morello si mise in marcia, il mulino, con l'enorme e pigra ruota immersa nelle acque del fiume, venne lasciato indietro per iniziare un sonnolento ritorno alla magione. Tra lo scricchiolio del carretto e lo scalpiccio di zoccoli, Cecilia si ritrovò a canticchiare, a mezza bocca e sottovoce.

«When I was in service in Rosemary Lane,
I won the good will of my master and dame.
Until a young sailor came there to stay,
and that was the beginning of my misery.»

La melodia le ronzava in testa da quando aveva messo i piedi fuori dal letto, ma della canzone ricordava soltanto la prima strofa. Era una vecchia ballata [1] imparata da bambina – una città di mare era terreno fertile per la storia di un'incauta domestica sedotta e abbandonata da un marinaio; ma aveva dovuto aspettare di crescere prima di poter prendere coscienza di significato del quarto verso.
Cecilia socchiuse le palpebre, guardò verso l'alto 
grosse nuvole grigie si stavano ammassando nel cielo – cercò nei suoi ricordi un'altra estate così poco soleggiata. Non la trovò. E quando gli occhi tornarono in basso, sul cavallo, la mente stava ancora vagabondando nel passato, tra le immagini della vita a Gloucester... dove le passeggiate a cavallo erano rare. Cecilia non era mai salita in sella prima degli undici anni. In seguito, montare all'amazzone divenne la regola d'oro. L'avevano istruita a prestare attenzione alla postura, non alle redini, perennemente guidate dalla mano dello zio. Alla tenuta, si era abituata a cavalcare come un uomo. Il che voleva semplicemente dire guidare la bestia con mano ferma e sedere in arcione sulla sella. Una decisione socialmente poco raccomandabile, ma di indubbia comodità – sopratutto da quando Cecilia vestiva seguendo i dettami di una moda esclusivamente personale.
L'idea di conciarsi da uomo non l'aveva mai tentata e, tuttavia, si era affacciato in lei un sospetto: che lo scopo degli abiti destinati al suo sesso fosse di ridurre all'osso la varietà di movimenti che un corpo poteva compiere. Ci aveva rimuginato su per qualche tempo. Alla fine, si era messa al lavoro. Carta e carboncino prima, ago e filo, forbici e bottoni dopo, prendendo a modello le giacche da cavallerizza e le marsine dei soldati, aveva confezionato una giacca accollata, chiusa sul davanti da una fila di bottoni, che era solita indossare sopra a un corpetto mascherato da panciotto. Il corsetto era stato allentato, il pannier tolto di mezzo, e quanto restava della sottogonna, tagliata all'altezza delle ginocchia e aperta sul lato destro, cadeva lungo i fianchi; Cecilia la indossava sopra le braghe, celando il resto delle gambe in un paio di stivali di pelle, uguali a quelli degli uomini.
La rinuncia alle appetibili forme muliebri era stata ripagata. Con il trascorrere dei mesi prima e degli anni poi, era diventato facile correre e issarsi in sella, saltare e ricadere in piedi, scalare i rami di un albero o mantenersi in equilibrio sulla balaustra della terrazza. Cecilia, che avrebbe compiuto l'indomani diciassette anni, aveva trascorso gli ultimi due a sfilarsi di dosso, pian piano, pezzo dopo pezzo, l'invisibile gabbia di convinzioni che le erano state cucite sulla pelle dal giorno della sua nascita. Non aveva dimenticato cosa si ci aspettava da lei, fuori dai confini della tenuta, ma adesso era tutto messo da parte, come l'abito color fiordaliso, da mesi chiuso nella cassapanca ai piedi del letto.
Sapeva anche di essere lontana dall'eguagliare le capacità di Connor ed era scesa a patti con le sue scarse doti da tiratrice. Sebbene pistole e moschetti fossero diventati strumenti familiari, la sua mira lasciava a desiderare. Ma pur nella sua mediocrità, Cecilia indulgeva spesso in un orgoglio recondito. Si sentiva invadere da uno strano piacere, una sorta di brivido che le apriva i polmoni, ogni volta che guardava la valle dall'alto, del tetto della magione o dalla sommità di un abete. Il suo morbido corpo non era più un limite. Era un alleato. Le sue mani erano ancora piccole, ma avevano imparato a serrarsi per sferrare un pugno nel punto giusto e a destreggiarsi con un lama anche fuori dalla cucina.
Non che i cambiamenti fossero stati una passeggiata. C'erano stati graffi e lividi in quantità incalcolabile. C'erano stati attacchi di vertigini, una storta alla caviglia, un polso costretto all'immobilità per una settimana intera. C'erano stati lunghi momenti demoralizzazione. Momenti in cui Connor, in modo o nell'altro, non si asteneva mai dal gettarle accanto frasi come: «Come pensi di migliorare, se non ti spingi mai oltre il limite?» [2]  Tutto era accaduto, e continuava ad accadere, sotto gli occhi di Achille. Il vecchio non aveva mai commentato, al di là di qualche ragionevole rimbrotto a una domestica tanto incline ad ammaccarsi. L'aveva minacciata di ridurle la paga per ogni giorno in cui era troppo malconcia per lavorare, ma la minaccia non si era mai tradotta nei fatti e, in cuor suo, la ragazza era convinta che Achille considerasse la sua smania di imparare un capriccio, una roba innocua e ignorabile, involontaria influenza di Connor.
E Connor aveva realmente un peso nella vita di Cecilia. Ma non del genere che poteva sospettare Achille.

***

Cecilia tirò le redini, il cavallo si arrestò nel mezzo del cortile deserto e lei saltò giù dal carretto. Stava per caricarsi in spalla il primo sacco di farina, quando qualcosa la colpì alla schiena, con una spinta leggera. Cecilia si voltò, tirando il capo all'indietro appena in tempo per schivare un tartufo umidiccio. Rifilò a sua volta una spintarella al suo aggressore, per farlo tornare a quattro zampe: era uno scodinzolante bastardino di un anno e mezzo. Aveva il pelo corto e marrone, orecchie grosse e flaccide come frittelle e qualche residuo di bracco francese nelle vene. Achille lo aveva preso come cane da guardia, ma non si era preoccupato di dargli un nome. Connor lo chiamava Kaneniarihton [3] e sembrava trovare sempre il tempo di riservagli carezze e buffetti. In quanto a Cecilia, si sarebbe sentita molto più incline all'affetto, se la bestiola non avesse avuto la brutta abitudine di essere sempre sporca di fango.
Ansimante di gioia canina, Kaneniarihton continuò a girare imperterrito attorno a Cecilia, mentre lei trascinava verso di sé il sacco di farina. «Ti avverto... se t'azzardi a seguirmi di nuovo in casa, io ti lego di nuovo nelle stalle.»
Il cane se ne uscì con abbaio, breve e acuto, spaventosamente simile a una risposta.
Cecilia abbassò gli occhi sull'animale.
Quello abbaiò di nuovo, zampettò verso il pendio della magione e poi tornò verso Cecilia.
Di riflesso, lo sguardo della ragazza venne calamitato verso la casa, verso le finestre del secondo piano. «Ah. Ma tu vuoi entrare in casa, vero? Cerchi Connor. Spiacente, cane. Connor ha la sua lezione. Vedrai che uscirà più tardi, a farti le carezze.» Inghiottì un sospiro.
Cecilia si era lasciata travolgere dai sentimenti come chiunque li sperimenti per la prima volta: ingenuamente, un po' per caso e senza riserve. Non sapeva con esattezza quando e come fosse iniziato. Sapeva, però, che a un certo punto di quello che le sembrava ormai tanto tempo prima, il trascorrere delle ore aveva preso la forma di una attesa perenne: l'attesa dell'occasione in cui Connor sarebbe stato di nuovo con lei. Sapeva che non c'era più una singola attività delle sue giornate che non fosse accompagnata dal pensiero di Connor. Sapeva di aver perso il conto delle notti trascorse a fissare il soffitto, abbandonandota a sogni lucidi, che non aveva il coraggio di rievocare alla luce del giorno, e a chiedersi se era di questo che le altre donne riempivano lettere e diari. Era tutto nuovo. Ed inebriante. E insopportabilmente penoso. Cecilia aveva cercato in Connor un indizio che potesse farle sperare di essere ricambiata. L'aveva cercato senza sosta, anche nei gesti più innocenti e negli sguardi più distratti. Ma si era dovuta rassegnare: se Connor provava qualcosa nei suoi confronti, allora non era altro che una calma premura, un sentimento più cameratesco che fraterno, il genere di legame che si forma tra persone che vivono a lungo sotto lo stesso tetto. Ogni volta che Cecilia lo ricordava a sé stessa – il che accadeva con una malsana frequenza – si sentiva soffocare. Era come avere un sasso bloccato in gola. Faceva male, e non andava né su né giù.
Non sapeva con chi parlarne. Non era neppure certa che fosse il caso di parlarne. Charlotte era morta prima di poter affrontare simili argomenti come una madre fa con una figlia. Lo zio si era limitato a radi e vaghi accenni a quello che poteva riassumersi nel perentorio ordine di non farsi mai avvicinare dagli uomini. Pena innominabili calamità. Di infatuazioni e di amori e di cuori sofferenti Cecilia ne aveva sentito parlare solo nelle canzoni e nei libri, ma anche dal basso della propria inesperienza intuiva che la vita reale avesse poco a che spartire con le ballate.
Gettata com'era nella marea di emozioni, come un marinaio senza bussola in mezzo a un tempesta, commetteva l'errore di trovare balsamo nella stessa fonte della sofferenza: la compagnia di Connor.
D'altro canto, lui non sembrava mai evitarla di proposito. L'ascoltava, quando lei parlava dei coloni; e lei pendeva dalla labbra di lui, quando le raccontava della vita nel villaggio Kanatahséton. Aveva persino imparato qualche parola della loro astrusa lingua, complicata da capire e pronunciare almeno quanto era complicato scoprire cosa passasse per la testa di Connor.
Alla lunga, con la lingua, Cecilia aveva rinunciato.
Con Connor no. E la costanza era aveva dato frutti.
Il ragazzo era un paradossale misto di brusca onestà e stoica riservatezza e Cecilia aveva pazientemente affinato l'arte di portarlo a condividere i pensieri che custodiva dietro alla fronte severa. Domande dirette, affabili ma non affettate, venivano ripagate con risposte a volte franche e vivaci, a volte malinconiche e pensose, ma mai scostanti e sempre sincere. Non era la vendetta – solo la vendetta – la colonna portante della volontà dell'Assassino. C'era anche, e sopratutto, l'amore che provava per il suo popolo. I Kanien'kehà:ka erano la sua famiglia, lui gli era fedele, probabilmente li amava quanto amava i pochi ma strazianti ricordi della madre. Connor non l'aveva mai affermato ad alta voce, ma Cecilia intuiva avesse una gran nostalgia del villaggio. Lo intuiva dal modo in cui lui parlava delle tradizioni che si era lasciato alle spalle, delle feste che non avrebbe più festeggiate, dei volti amici che non sapeva quando avrebbe rivisto. Nominava spesso un ragazzo, un amico d'infanzia, di nome Kanen'tò:kon; e l'anziana Oià:ner, la Grande Madre del villaggio, che gli aveva mostrato la sfera dello Spirito. L'invidia che, tanto tempo prima, Cecilia aveva provato nei confronti del coraggio di Connor era sfumata, sostituita da una sorta di pudica ammirazione. Sotto l'ammirazione, però, serpeggiava ancora un sentimento egoista. Ti prego, non ci andare, aveva sussurrato innumerevoli volte, nella propria testa. Non ci andare, là fuori. A farti ammazzare. Rimani qui.

***

«Ventisei. Dinanzi a personalità di rango elevato, come nobili, giudici e uomini di chiesa, è dovere di un gentiluomo scoprire il capo ed inchinarsi. La profondità dell'inchino sarà dettata del rango della persona alla quale si porge il saluto.» Connor leggeva con calma meticolosa, pronunciando le parole con il suo accento più pulito. Per contro, il tono peccava di interesse. «Voi coloni ricordate davvero tutte queste regole?»
Alla fine della lezione pomeridiana, Achille aveva ficcato tra le mani dell'allievo un pamphlet dal titolo inequivocabile – Regole di Civiltà e Comportamento Decente in Compagnia e Conversazione – e il quesito era adesso rivolto a Cecilia, che stava tirando giù una camicia dalla fila di panni stesi ad asciugare.
Erano sul promontorio affacciato sulla baia. Le grida dei gabbiani fluttuavano nell'aria insieme alle prime foglioline d'autunno. Il cielo era ridotto a un gonfio ammasso di nubi e una sottilissima foschia avvolgeva le sommità degli alberi, lungo i fianchi delle montagne.
«Se quelle regole ti sembrano tante e complicate» disse Cecilia, spicciola, gettando la camicia nel cesto ai suoi piedi. «Aspetta di entrare in una sala da ballo.» Rivolse un'occhiata di sguincio al ragazzo: Connor sedeva sotto un albero vicino, la schiena appoggiata al tronco, una gamba stesa in avanti e l'altra tirata verso il petto; lo vide appoggiare l'avambraccio sul ginocchio piegato, mentre abbandonava il libretto tra l'erba.
«E che cos'è?» domandò Connor.
«Cosa?»
«Una sala da ballo.»
«Una sala. Grande, di solito. Dove uomini e donne ballano insieme. Voglio dire... non tutti insieme. Ballano a coppie. E le coppie ballano insieme.»
«A quale scopo?»
«Divertimento.»
«E lo è? Divertente?»
«Iimmagino di sì.» Con un debole strattone, Cecilia si appropriò di un paio di calze. «O non mi spiego perché la gente continui a frequentarli. Io non ci sono mai stata, a un ballo. Ce n'erano, a Gloucester... nella locanda sulla Taylor Street... ma allora io ero troppo piccola per partecipare. E poi mio zio non li vedeva di buon occhio, i balli.» Ma immagino che all'età giusta e con la giusta motivazione mi avrebbe lasciata andare... Di tanto in tanto, e senza rimpianti, Cecilia si fermava a immaginare come sarebbe stato avere diciassette anni ed essere ancora la nipote di un avvocato benestante, invece che una domestica senza familiari disposti a riconoscerla.
Tolse un lenzuolo dal filo, liberando la vista sulla baia. L'Aquila era ancorata lungo il braccio di terra. Con la sua forma allungata e le vele ammainate, riposava sulle grigie acque appena increspate. Da lassù, i pochi marinai sulla spiaggia sembravano piccoli come soldatini di piombo.
Cecilia riportò lo sguardo su Connor. Lui fissava la magione. I lineamenti immobili, come se la sua mente fosse a miglia e miglia di distanza da lì. Non domandò più nulla.
Una manciata di secondi trascorse senza che nessuno dei due ragazzi aprisse bocca. Cecilia scosse il lenzuolo e lo ripose nella cesta. Connor raccolse un ramoscello e lo spezzò in due.
«Un penny per i tuoi pensieri?» riprese Cecilia, ora inginocchiata vicino alla cesta.
La voce della ragazza parve richiamare Connor al presente. Lasciò cadere il ramoscello spezzato. «Stavo pensando... a mio padre.» La frase restò nell'aria e sembrò renderla improvvisamente pesante.
Cecilia era solita pensare ai Templari, e a Haytham Kenway, come a spettri che infestavano la vita della tenuta. Anche quando nessuno li nominava, nessuno si dimenticava della loro presenza.
Cecilia pigiò entrambe le mani sulla montagnola di panni. E udì la sua voce affermare: «Tu non vuoi ucciderlo.» «
È un Templare» disse Connor. Tre parole scandite con una durezza che pareva sottintendere che era una questione di dovere, non di volere.
«Templare. Non è una condizione alla quale si può si può rimediare... solo con la morte» azzardò Cecilia, tentando di impostare una certa leggerezza nel tono. «A volte, le persone... alcune persone... possono cambiare idea.» Non seppe decifrare l'espressione seria di Connor. «Lo so, è una speranza azzardata» aggiunse. La sua breve vita la aveva insegnato che c'era gente perfettamente in grado di mettere i legami di sangue all'ultimo posto, anche dietro a questioni ben meno nobili di un credo o di una fratellanza. «Ma il Gran Maestro è pur sempre tuo padre. Varrà pure un tentativo. Almeno uno...»
Connor abbassò il mento e le ciocche di capelli gli caddero davanti al volto. «In alcuni momenti, ho avuto pensieri simili». Scosse il capo, in un gesto a malapena percepibile, e piegò la bocca in un amaro guizzo di sorriso. «Puoi immaginare che cosa direbbe il vecchio, se gli confidassi questa idea?»
Cecilia si tirò in piedi. «Achille ha i suoi buoni motivi per odiare tutti i Templari». Si lasciò cadere seduta di fianco a Connor. «Non che io muoia dalla voglia di vedere una manica d'invasati arrogarsi il diritto di mettere il guinzaglio a tutti e a tutto. Come se non bastasse il re, dall'altra parte dello stagno.»
«A te che cosa importa se mio padre vive o meno?»
«A me importa di te.» Cecilia voltò il capo verso il ragazzo, ma non ne incrociò lo sguardo. I suoi occhi si fermarono sugli avambracci, sui bracciali di cuoio. «Puoi farmi una promessa?» Nel silenzio di Connor c'era attesa e assenso.
«Non diventare mai crudele.»
Il ragazzo ruotò lentamente il polso destro, in modo che la lama fosse esposta alla vista di entrambi. «Non le userei mai su di un'innocente. È la prima regola del Credo. Trattieni la lama–»
«Dalla carne dell'innocente. Lo so. Lo conosco il Credo. Non mi riferisco a quello.» Cecilia abbandonò il capo contro la corteccia dell'albero, ritrovandosi a studiare un ombrello di rami. «Ti ricordi di quando mi hai raccontato la storia dei due lupi [4]... quella che la Grande Madre raccontava a te, e agli altri bambini del villaggio? In ogni uomo, e in ogni donna, vivono due lupi. Uno è buono. È amore e rispetto. E combatte solo quando è giusto farlo. L'altro è pieno di rabbia. E di odio. E combatte tutti senza nemmeno ricordarne più la ragione. I due lupi lottano continuamente per prendere il sopravvento sullo spirito della persona. Ma, alla fine, a vincere sarà il lupo che verrà nutrito.» Cecilia posò una mano sul ruvido bracciale di cuoio. Le dita scivolarono fino alla mano di Connor. «Il tuo desiderio di avere vendetta per tua madre e libertà per la tua gente è giusto. E io vedo, ogni giorno, quanto lavori... quanto fatichi... per completare il tuo addestramento. E penso... anzi, io so... che hai un gran cuore. Sarebbe... sarebbe orribile se lo riempissi solo di rabbia e di rancore.»
Le dita di Connor strinsero la mano di Cecilia. Lo fecero lentamente, con l'inaspettata delicatezza di un fiore che si chiude al tramonto.
Lo sguardo di Cecilia corse al volto di Connor. Di nuovo, l'espressione di lui la lasciò confusa. E tuttavia era sicura che gli occhi del ragazzo avessero perso il velo di seriosa durezza in favore di qualcos'altro: una sorta di aperta e sorpresa affettuosità. Cecilia prese coscienza di quanto fossero vicini: spalla contro spalla. Quando lo sguardo di Connor si allontanò dal suo, lei lo vide scivolare sulla sua bocca, mentre la stretta sulla mano si caricava di una nuova forza.
Testa svuotata e petto infuocato, dischiuse le labbra e si protese verso Connor, con la straniante sensazione di non essere lei a guidare i propri movimenti.
Poi, Connor parlò e qualunque cosa stesse accadendo andò in frantumi, come un prezioso bicchiere di cristallo su un pavimento di marmo.
«Le tue parole sono premurose, amica mia. Ma la tua preoccupazione non è necessaria». Lasciò la mano della ragazza e si levò in piedi, voltandosi verso il panorama della baia. «Faulkner mi attende. Ho promesso che oggi sarei andato alla baia. Sembra che la nave sia ormai nelle condizioni per salpare.» Abbassò lo sguardo su Cecilia.
Lei aveva tirato a sé il libriccino dimenticato, una buona scusa per tenere gli occhi bassi. Adesso era il viso a bruciarle. Bruciava come se fosse a pochi centimetri dal fuoco vivo.
«Tu vuoi venire?» offrì Connor, le mani strette l'una nell'altra, davanti alla cintura rossa.
Cecilia riuscì ad infilare un sorriso docile tra le labbra serrate. «No. Meglio di no. Ho ancora... molte faccende da sbrigare. E poi lo sai che Faulkner mi considera alla stregua di un Giona.»










NOTE STORICHE
[1] Rosemary Lane, o Bell Bottom Trousers, è una canzone tradizionale inglese, popolare tanto in Gran Bretagna quanto in America.
[2] La frase è volutamente ispirata da quella che Connor che rivolge a Kanen'tò:kon nella sequenza della battuta di caccia.
[3] Termine Mohawk per indicare la terracotta.
[4] La leggenda dei due lupi (da quanto ho letto in giro) dovrebbe essere una leggenda Cheeroke. Ricordo di aver letto anche che i Cheeroke parlavano una lingua del ramo irochese e che quindi si suppone fossero una popolazione irochese, forse i Tuscarora, migrata verso Sud. Se i Mohawk avessero oppure no nella loro tradizione una leggenda simile non ne ho la più pallida idea, ma passatemi l'inesattezza storica per amore della trama.









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Capitolo 11
*** Per la via nuova ─「fine prima parte」 ***


THE CORNFLOWER CAP 11


















XI

Per la via nuova










Tenuta Davenport. 13 settembre 1773

L'Aquila aveva fatto parte della baia per tanto di quel tempo che adesso, senza la nave, il panorama sembrava mutilato. Cecilia fissava l'orizzonte deserto: il mare era così calmo e il cielo così sereno che il blu del primo sfumava senza interruzioni nel freddo azzurro del secondo. Connor mancava dalla tenuta da più di una settimana: si era imbarcato a bordo dell'Aquila lo stesso pomeriggio in cui avevano parlato sotto l'albero del promontorio, senza prendersi il disturbo di avvertire Achille o di salutare qualcuno.
Ed era più di una settimana che Cecilia, in silenzio e senza lacrime, sopportava un dolore simile ad un ago conficcato in mezzo al petto. Distolse gli occhi dal mare e li portò sul sassolino che stringeva tra le dita. La pietruzza era piatta, levigata come una perla e bianca come una conchiglia. Aveva un piccolo foro nel centro e una macchia rossastra, sottile e allungata come un colpo di pennellino, su di un lato.
Ne avrebbe potuti reggere altri tre della medesima grandezza tutti nel palmo di una mano.
Un fischio riecheggiò nella baia.
«Ehi, lass!»
Cecilia guardò in basso: se ne stava seduta sul tetto della baracca di Faulkner.
Erano i taglialegna. Godfrey e Terry. L'uno con l'accetta in spalla, l'altro con il cappello calcato sul capo rosso e una sdrucita sacca sulla schiena.
«Che stai combinando là sopra?» chiese Godfrey.
«Contemplo il panorama.»
«C'hai più la faccia di una vedova al funerale del marito.»
«Questa è la mia faccia contemplativa.»
Cecilia si lasciò scivolare lungo la pendenza del tetto e cadde in piedi sulla catasta di legna, sul lato della baracca. Con un piccolo balzo, fu a terra, davanti ai due boscaioli. Stiracchiò un sorriso. «Buona giornata a voi, signori.» Lanciò in aria il sassolino, come se fosse stato una monetina, e lo riacchiappò al volo, ma prima che potesse metterselo in tasca e girare i tacchi, Terry puntò l'indice sulla sua mano.
«Dove l'hai preso quello?» chiese, con la sua vocetta nasale e il suo accento rubato alle Highlands.
Cecilia scrollò le spalle. «L'ho raccolto poco fa. Era sulla riva. Grazioso, eh?»
Fece per porgergli il sasso, ma l'uomo scosse il capo e agitò la mano in un precipitoso segno di diniego.
«Buttala via! Quella è una Pietra della Strega. Ti tirerà addosso sfortuna e malocchio.»
Godfrey rifilò una manata al braccio del compagno. «Si chiama Pietra della Strega perché lo tiene alla larga, il malocchio, rincitrullito.»
«E io ti dico che serve per farli, i malocchi!»
«Ah, sì? E allora perché i marinai li appendono sulle navi, eh?»
Cecilia, che di tutto sentiva il desiderio tranne che di assistere all'ennesima baruffa tra i due boscaioli, contemplò l'idea di piantarli lì senza dire una parola. Poi, convenne che sarebbe stato meglio calmare gli animi ed evitare una zuffa. «Per favore!» disse. «È solo un sasso. E io non lo userò per fare malocchi. Per quelli... preferisco bambole e spilli e sangue di gallina.» L'amara ironia venne accolta da un fin troppo lungo attimo pregno di silenzio e sguardi perplessi.
«Che?» squittì cautamente Terry.
«Non vi ho mai detto che m'ha cresciuta una negra delle Barbados?»
Terry aveva l'aria di chi si stava seriamente lambiccando il cervello attorno a un dubbio.
Godfrey, invece, si sciolse in un verso baritonale, un principio di risata. «Ti sta prendendo per il culo, testa vuota.»
Il viso di Terry assunse una sfumatura pericolosamente simile al colore della barba.
«Ma tu attenta a chi vai a raccontarle certe storielle, lass» aggiunse Godfrey, mentre Cecilia già muoveva qualche passo indietro.

***

Tazzina e piattino di ceramica tintinnarono timidi, quando Cecilia appoggiò il vassoio del tè sulla scrivania dello studio.
«Grazie» borbottò Achille, con il pennino in mano, curvo su di un foglio già riempito d'inchiostro per metà.
Cecilia, come al solito, fece per lasciare in silenzio la stanza ed era a un passo dalla soglia, quando la voce di Achille la richiamò.
«Ah, Cecilia... aspetta! Ti ricordi di Samuel Adams?»
Cecilia fece cenno di sì con il capo. Lo ricordava, perfettamente, e sapeva che Achille manteneva con Samuel Adams una corrispondenza costante, seppur non frequentissima.
«È sua la lettera che ha vi consegnato il corriere?»
«No.» Achille ripose il pennino e aprì un cassetto dello scrittoio. «È da parte di suo cugino. John Adams. [1] Chiede di te.»
Cecilia inarcò le sopracciglia, tornando verso la scrivania. Achille tirò fuori la lettera e la porse alla ragazza. Lei distese il foglio con una lentezza che grondava perplessità, mentre il vecchio poggiava i gomiti sul tavolo e raccoglieva le mani davanti al viso.
«Dice di essere stato molto amico di tuo zio, quand'erano entrambi studenti a Harvard. E che si tennero in contatto epistolare, nel corso degli anni. Sapeva che Carter si era fatto carico dell'educazione di una nipote.»
Cecilia aggrottò la fronte. John Adams. Ecco perché il cognome mi suonava familiare. Forse lo zio lo ha nominato, qualche volta. Ma era certa che nessun John Adams fosse stato presente al funerale.
«Dopo la dipartita di tuo zio» continuò Achille, «Adams scrisse a Gloucester per avere tue notizie. Non ha mai ricevuto risposta. Credi che la lettera si arrivata prima o dopo la tua partenza?»
«Lo ignoro» ammise Cecilia. «Non mi è mai stato nulla a riguardo. Ma non mi sorprende che i Bardsley non si siano presi il disturbo di una risposta.»
«In ogni caso... Adams dice di essere venuto a sapere della tua situazione attraverso Samuel. E adesso per... onorare la sincera amicizia che lo legava a tuo zio, è disposto a darti un posto sotto il suo tetto. Non come domestica, ovvio. Ma per offrire i mezzi per riguadagnare la precedente posizione
Cecilia fissava imbambolata la spigolosa calligrafia, tanto frastornata da faticare a leggere. Sembrava surreale che esistesse un benefattore sconosciuto in vena di preoccuparsi di lei. Alzò lo sguardo su Achille e tutto quello che riuscì a momorare fu: «Voi... volete che vada?»
«Io non voglio nulla» rispose Achille, asciutto. «Ti sto solo mettendo al corrente dell'invito che hai ricevuto. Accettarlo o meno è una tua scelta.» Si alzò dalla poltrona e, muovendosi verso la finestra accanto al caminetto, diede le spalle a Cecilia. «Tuttavia» portò le mani dietro la schiena, «mi rendo conto che questo posto, anche con i cambiamenti degli ultimi anni, resta un eremo. Specialmente per qualcuno della tua età. Boston è un vespaio, ma gli Adams risiedono a Braintree. I tumulti non sono ancora arrivati laggiù e la vita sociale, da quanto ne so, non manca del tutto.»
Sentir Achille parlare di vita sociale era quasi più surreale dell'invito di John Adams, ma aiutò Cecilia a fare due più due. Vita sociale. Riguadagnare la precedente posizione. «Intendete dire che è un posto dove c'è possibilità di trovare marito.»
Achille seguitò imperterrito a guardare fuori. «Non sono tuo padre, Cecilia. Maritarti non è una mia responsabilità, tantomeno un mio interesse.  Anzi, detto tra noi, ho sempre trovato fastidioso il trambusto che gira attorno a certi affari.»
«Mi fa piacere saperlo. Perché io non sento nessun bisogno di un marito.»
«Sono molte le cose di cui non si sente il bisogno, a diciassette anni.»
Cecilia si morse le labbra. Sollevò il mento e ispirò, per tenersi stretta la calma. «Per favore, Achille, non parlatemi con quel tono.»
«Quale tono?»
«Con sufficienza. Come fate sempre. Come se le mie idee fossero solo capricci infantili. Non sono stupida. So benissimo che un matrimonio potrebbe mettermi in una posizione più sicura, ma perché accada dovrei rinunciare a quel poco che possiedo. Al mio nome e al mio corpo. Diventerei proprietà di un'altra persona, alla stregua di un cavallo o una stoviglia. Quindi proprio voi, Achille, dovreste capire perché non muoio dalla voglia di maritarmi.» «
«E sia» ribattè Achille, affatto imperturbato. «Metteremo il signor Adams al corrente del tuo rifiuto. La questione è chiusa.»
Cecilia lasciò la lettera accanto al vassoio. «Posso andare ora?»
Achille fece un secco gesto di assenso, ma quando Cecilia fu di nuovo sulla porta lei lo sentì dire: «Però, voglio darti un consiglio.»
Cecilia si voltò, una mano sullo stipite.
«Connor è un ragazzo caparbio. Non si lascerà distrarre dai suoi obbiettivi. Anche nell'ipotesi che, un giorno, chissà sa quando e come, la sua missione dovesse concludersi... la vita accanto a lui non sarebbe un finale felice.»
Le unghie di Cecilia grattarono il legno. L'ago nel petto affondò di qualche centimetro e lo stomaco le si contorse. Forse per l'umiliazione. O forse per la rabbia. Capì all'improvviso quanto fosse stato ingenuo, da parte sua, credere che il vecchio non vedesse, o non avesse mai dato peso, a quanto accadeva in quella casa, ma non volle dargli soddisfazione.
«Sembra un consiglio saggio. Conservatelo per la futura moglie del vostro allievo.»

***

Quel giorno non si parlò più della lettera di John Adams, ma quando arrivò il momento di andare a dormire, Cecilia si scoprì insonne. Si girò e rigirò sotto le lenzuola. Alla fine, accese la candela e sedette sul letto; le spalle appoggiate alla testiera e le gambe, sotto le lenzuola, tirate al petto. Voglio davvero restare? si interrogò; aveva di nuovo tra le mani la pietra raccolta sulla spiaggia.
Alla tenuta si sentiva ben accetta e, sopratutto, era libera di essere sé stessa. Andare dagli Adams avrebbe significato dover tornare alle vecchie regole, eppure esisteva almeno un buon motivo per andare a Braintree. E non si trattava della prospettiva di un matrimonio: Cecilia era sicura che gli Adams non potevano essere tanto ingenui da credere che vi fosse in giro qualche mercante di buon cuore, o un medico, o un notaio – o chissà chi altro – abbastanza sconsiderato da prendersi in moglie un'orfana senza dote. Oppure sperano che io sia bella. Abbastanza bella che a furia di farmi sfilare tra uno scapolo e l'altro, qualcuno finirà col farla la pazzia. Resteranno delusi...
Il motivo per lasciare la tenuta era di altra natura. John Adams era un avvocato ed era stato un amico di suo zio. Forse, con tanta fortuna e altrettanta pazienza, Cecilia sarebbe riuscita a fargli prendere a cuore la sua causa. Potrebbe essere la sola possibilità che mi verrà mai offerta di riavere la casa di Gloucester. E di capire se la morte dello zio sia stata davvero solo un incidente. Se le sue speranze fossero state disilluse, se gli Adams si fossero rivelati dei novelli Bardsley, nessuno la obbligava a restare a Braintree. Aveva degli amici, adesso. Aveva un posto al quale volgersi, in caso di necessità. Aveva persino dei soldi propri. Pochi, certo. Ma poteva disporne a piacimento.
E allora, perché non stava già preparando il bagaglio?
Cecilia chiuse piano le dita attorno alla pietra.
Connor.
Chissà dov'era l'Aquila in quel momento. In mare aperto? Al sicuro in un porto?
Achille aveva detto che Faulkner doveva essere partito con l'intento di armare la nave e rimpinguare l'equipaggio. I marinai da assoldare si trovavano nei porti.
E i porti sono pieni di prostitute.
Cecilia vide nitidamente la scena nella sua testa. Una caotica taverna. Birra e schiamazzi. Un paio di marinai rigurgitavano risate e davano pacche complici sulle spalle di Connor mentre lo sospingevano in una camera. La prostituta che gli avevano scelto era giovane, ma non inesperta. Una bellezza florida dal visetto ovale e lucidi riccioli neri, come le belle spagnole di cui parlavano le canzoni. Lei gli avrebbe teso la mano. L'avrebbe guidato fino al materasso...
Cecilia non osò spingersi oltre con l'immaginazione. Abbandonò il sasso sul cuscino, scese dal letto e prese la candela, per andare ad inginocchiarsi davanti alla cassapanca.
Sollevò il coperchio. E lì, piegato con cura, stava il suo abito color fiordaliso.










Fine prima parte









NOTE STORICHE
[1]  Secondo presidente degli Stati Uniti (Braintree, Massachusetts, 1735-Quincy 1826). Insegnante, poi (1758) avvocato, s’interessò di questioni costituzionali e nel Novanglus, or history of the dispute with America (1774) sostenne che le colonie non avevano mai riconosciuto l’autorità del parlamento britannico nei loro affari interni. Dal 1774 al 1778 membro del Congresso continentale, fu fautore della secessione e dell’indipendenza formulando alcuni principi sulla politica estera degli Stati Uniti in senso isolazionistico. Ebbe poi numerose missioni diplomatiche in Europa (1779: Parigi; 1780: l’Aia, dove stipulò un trattato di amicizia e di commercio con l’Olanda; 1785: Londra); esponente del partito federalista, fu vicepresidente (1789-96), poi presidente (1796-1800) della Confederazione.  ©treccani.it









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Capitolo 12
*** Dopo il ricevimento ***


THE CORNFLOWER CAP 12


















XII

Dopo il ricevimento










A poche miglia da Braintree. 17 dicembre 1773

Ogni passo, uno scricchiolio: il sottobosco era un accidentato tappeto di ramoscelli, foglie e brina notturna. Cecilia continuò ad avanzare, cauta. Sotto la mantella, le dita infreddolite, tenevano sollevato l'orlo del vestito, mentre lo sguardo saettava irrequieto da una parte all'altra, come nel timore di scorgere un pericolo tra gli alberi.
La ragazza si fermò a poca distanza da una quercia; ne fissò il tronco, storto e tarchiato. Poi, riprese a camminare, il più silenziosamente possibile, e girò attorno all'albero.
Accucciato tra le radici, stava un bambino: uno scricciolo di sei anni, con un cespuglio di riccioli biondi per capelli, che balzò subito in piedi e si mise a correre come un leprotto spaventato. Cecilia rilassò le labbra in un sorriso. Diede al bambino qualche attimo di vantaggio, prima di corrergli dietro. Lo agguantò in un istante, afferrandolo sotto le braccia.
«Tana per Johnny!»
Il bambino strillò. Cecilia rise. Le loro voci echeggiarono tra gli alberi come tra le colonne di una chiesa.
Qualche passo più in là, un cespuglio fremette. Ne sbucò da dietro una bambina con una mantellina scarlatta. La bambina sgambettò verso una roccia, larga e spianata. Un saltello e vi fu sopra. «Ho vinto io!» squittì, trionfole. «Ho vinto di nuovo io!»
Cecilia e Johnny la raggiunsero.
Nabby aveva gli stessi capelli biondi e ricci del fratello, un visetto a cuore e occhi color nocciola sormontati dal cipiglio di una figlia primogenita.
Johnny imbronciò la boccuccia da bambolotto e strattonò la mantella di Cecilia come fosse stato un campanello per chiamare la servitù.
«Giochiamo un'altra volta!»
«No. Adesso basta correre» sospirò Cecilia. I bambini avevano le guance arrossate per il freddo e per il sudore. E anche lei iniziava a sentirsi accaldata. «O ci ammaliamo tutti quanti.» Johnny e Nabby protestarono, ma Cecilia non cedette.
«Su! Verso casa! In marcia, davanti a me.»
Uscirono dal boschetto: una misera striscia di alberi ai piedi di una collina chiamata Penn's Hill. Cecilia vi era stata in cima, una volta. Da lassù si vedeva il mare e, se si guardava verso nord, si scorgeva Boston, con le case, i moli e le navi piccoli come dettagli sfocati sullo sfondo di un quadro.
Lasciato il bosco, prati incolti e campi imbruniti si stendevano in ogni direzione sotto l'azzurro spento di un cielo macchiato da nuvole a brandelli. Era mattino presto e la campagna offriva un paesaggio piatto e silente, completamente immerso nel gelido livore invernale. Cecilia e i bambini attraversarono un prato — il loro passaggio mise in fuga due grosse cornacchie, che si librarono in volo, gracchiando infastidite — e raggiunsero la strada. La larga via, a tratti fiancheggiata da bassi muretti, la via si snodava tra i terreni delle fattorie collegando Braintree, a sud, con Boston a nord. Nabby e Johnny corsero avanti. Cecilia li sorvegliò con lo sguardo, ma scelse di restare indietro. Calciò un sasso con la punta della scarpina nera e lasciò la mente libera di vagare.

* * *

Tenuta Davenport. 27 settembre 1773

La dorata luce del mattino riempiva la camera da letto e, sospesa a mezz'aria, brillava la polvere. Cecilia toccò il piano del tavolinetto rotondo con le punta delle dita. Avrebbe voluto lasciare un messaggio per Connor. Augurargli buona fortuna. Assicurargli che, se avesse avuto bisogno di una mano, lei non l'avrebbe negata. Aveva persino accarezzato l'idea di affidare alla carta i propri sentimenti. Ma ogni giorno aveva rimandato al successivo il momento di sedersi lì, al tavolo, di avvicinare il pennino al foglio e confessare.
Adesso non c'era più tempo.
Un ultimo sguardo di addio alla stanza e Cecilia uscì dalla camera.
Scese al pian terreno. Non trovò il baule all'ingresso – dove lo aveva lasciato. Trovò, invece, la porta aperta e scorse la carrozza, oltre i gradoni di pietra del viale: Lance stava sistemando le briglie al cavallo. Il buon carpentiere, bisognoso di attrezzi nuovi e non volendo rischiare di avventurarsi per le strade di Boston, aveva accettato di allungare il viaggio di quattro miglia e di raggiungere Braintree.
«Il tuo bagaglio è già stato caricato.»
La voce di Achille calamitò l'attenzione di Cecilia verso il salone da pranzo: il vecchio si era accomodato sulla sedia capo del lungo tavolo.
Cecilia lo raggiunse. Sul tavolo, a portata di mano dell'uomo, vide un borsello di cuoio e un secondo oggetto, stretto e lungo, arrotolato in una pezza vermiglia.
«Ecco la tua ultima paga» disse Achille, facendo scivolare il borsello fino al bordo del tavolo. «E questo.» Picchiettò la mano scura sull'anonimo fagotto.
Incuriosita, Cecilia lo sollevò. Era leggero. Quando scostò la stoffa, riconobbe immediatamente l'oggetto: una daga da caccia. Veniva dall'armeria sotterranea. L'impugnatura era fatta agata ed era rifinita in argento sulla sommità. Cecilia sfilò via il fodero di pelle nera e granulosa, rivelando la lama sottile, affilata su entrambi i lati, appuntita come un ago.
Le venne da sorridere.
«C'è forse qualcosa che dovrei sapere, riguardo agli Adams?»
«Sbrigati» borbottò Achille, indicando l'ingresso con uno stanco cenno del mento. «Non fare aspettare O'Donnell.»
 Cecilia avvolse la daga nel panno, fece scivolare il borsello in tasca, tra le pieghe della gonna, ma non si spostò di un passo.
«Grazie.»
«Il denaro te lo sei guadagnato. La daga consideralo un regalo di compleanno in ritardo.»
«No... intendo... grazie per tutto. Per avermi aperto la porta. Per avermi dato un tetto e un lavoro. Se non fosse stato per la voi, anni fa... non so immaginare dove sarei, adesso.»
Achille chinò il mento e la molle falda del cappello celò metà del suo volto grave. Il suo tono, però, parve ammorbidirsi.
«Tieni gli occhi aperti, là fuori. E magari... ricordati di scriverci un paio di righe, di tanto in tanto.»
«Lo farò.»
«Devo dire qualcosa a Connor, quando tornerà?»
La domanda colse Cecilia alla sprovvista e la voce le si congelò in gola come aveva fatto la mano davanti all'inchiostro. Ma fu solo per un istante. Abbozzò un nuovo sorriso, un guizzo minuscolo, che stirò dolorosamente gli angoli della bocca e restò lontani dagli occhi.
«No. Non è necessario.»
Dieci minuti più tardi, la carrozza scendeva giù per la collina. Cecilia, con le mani aggrappate al bordo del finestrino, fissò la grande casa di mattoni rossi, fino a sentire gli occhi pizzicare e la gola chiudersi in un nodo. Non sapeva che, in quell'esatto momento, l'Aquila stava veleggiando verso la baia.

* * *

Fattoria degli Adams. 17 dicembre 1773

«Cecilia!» Nabby corse verso di lei, inseguita dal fratellino. «Dì a Johnny che non può avere un coccodrillo come animale domestico.»
Cecilia si fermò, occhieggiando dall'alto, ad alternanza, entrambi i bambini. «Perché vuoi un coccodrillo?» domandò a Johnny.
«Perché sono grossi» dichiarò lui, sbracciando per l'entusiasmo. «E hanno la corazza e i denti affilati.»
«E ti divorano» puntualizzò Nabby.
«No.. se gli do prima te in pasto.»
«Mamma non ti lascerà mai tenere un coccodrillo.»
«Me ne prenderò uno quando sarò grande.» [1]
Cecilia sospirò. «Non lo varrai più un coccodrillo, quando sarai grande. Credi a me, che grande lo sono già». Prese Johnny per mano e si rimisero in cammino.
Superata l'ennesima curva, oltre uno spaurito gruppetto di alberi spogli, sbucò la fattoria.
Una staccionata di legno e un ampio spiazzo d'erba separavano la strada dalla casa. Ed era una bella casa: tutta in legno, lunga e bianca, con un frontone triangolare come corona per la porta d'ingresso e i due piani sormontati da un tetto grigio e spiovente. In quel momento, entrambi i comignoli fumavano. Dentro e fuori, era il genere di modesta casa prediletta dai coloni del nord: l'eleganza e il buon gusto si rispecchivano nella sobrietà dei mobili, solidi e pratici, e nella semplicità delle stanze, ordinate e luminose.
Cecilia e i bambini entrarono in casa passando dalla porta sul retro.
Si ritrovarono in cucina, accolti da un profumo rassicurante: impasto di pane e legna bruciata.
«Passeggiata piacevole?»
In piedi dinanzi al tavolo, la domestica Sally si accaniva con vivacità sulla palla di impasto crudo. Dietro di lei, seduto sulle tavole di legno del pavimento, il piccolo Charlie, il penultimo della nidiata, faceva del suo meglio per infastidire la gatta di casa, una bestiola nera come la pece, gravida di gattini quanto di pazienza. Appena vide Cecilia, Charlie si fiondò sotto al tavolo e si aggrappò alla gonna di Sally.
«Rinvigorente» buttò lì Cecilia, slacciando i lacci della mantella.
«Andate a scaldarvi in salotto» disse Sally ai bambini, già accoccolati davanti al camino, dove il fuoco languiva. «C'è più fuoco...»
I bambini obbedirono e Cecilia prese il loro posto, dopo essersi sfilata i guanti e aver abbandonato la mantella sulla spalliera ricurva di una sedia.
«Non dovresti far correre i bambini» disse Sally.
Cecilia alzò lo sguardo, incontrando quello dell'altra ragazza. Sally aveva gli occhi più verdi che Cecilia avesse mai visto — e di un verde diverso da quello freddo e metallico dei suoi. Gli occhi di Sally sembravano aver rubato dalla tavolazza di tutti i boschi del Massachussets. Sally May era quel che si dice un fiore di ragazza. A sedici anni, appariva splendida anche nel suo grezzo abituccio marrone. La pelle chiara come latte e la fronte alta, le labbra piccole e piene e il naso sottile, una cascata di capelli scuri, cosparsi di riflessi ramati, e uno sguardo mite da bambina in preda a un dolce e perpetuo stupore. Era il genere di bellezza che prediletta dagli uomini: fresca a sufficienza per accontentare l'occhio, infantile abbastanza da non spaventarli.
«Sopratutto Nabby» continuò Sally. «Non è più tanto piccola. Dovrebbe iniziare a capire che scorrazzare in giro non è un comportamento da signorina.»
Cecilia smosse le braci con l'attizzatoio «Ha otto anni. Ne ha di tempo per imparare a fare la signorina.»
«Temo sia un difetto di famiglia.» La signora Adams era appena entrata in cucina, tenendo tra le braccia Tommy, il figlio più piccolo, venuto al mondo solo l'anno prima. «Ricordo perfettamente di aver trascorso gran parte della mia infanzia a scorrazzare in giro» seguitò la signora, muovendosi svelta e composta per la stanza. Andò a pescare un rocchetto di filo dalla scatola del cucito, sul pianale della grossa credenza, sulla quale stavano in mostra bicchieri di peltro e stoviglie colorate. Abigail Adams aveva un personale slanciato, il collo sottile e occhi neri sormontati da sopracciglia arcuate, che regalavano un'espressione scaltra e risoluta al suo viso chiaro e affilato. Indossava un opaco abito verde, un fazzoletto di seta color crema attorno alle spalle e una cuffietta sopra i capelli lisci e nerissimi. «Se la memoria non mi inganna, ero la più veloce, fra tutti i miei fratelli—Charlie, per l'amore del Cielo, esci subito fuori da sotto il tavolo.»
«Mamma! Mamma!» Nabby entrò di corsa in cucina. «È arrivato il signor Wheeler. L'abbiamo visto dalla finestra!»
«Oh! È già di ritorno da Boston?» commentò la signora Adams.
Lo sguardo di Cecilia saettò verso Sally: la ragazza, tolte le mani dall'impasto, si stava pulendo in fretta e furia nel grembiule.
Intanto, la signora Adams lasciava Tommy tra le braccia di Nabby e, con calma, si avviava verso l'ingresso. Cecilia, rimasta accanto al focolare, si alzò in piedi e porse a Sally un fazzoletto pulito. «Hai della farina sulla guancia‪—no, l'altra..

Facendo del suo meglio per non ridacchiare, uscì dalla cucina e raggiunse l'ingresso quando la signora aveva già aperto la porta.
Il signor Wheeler si tolse il tricorno. «Buon giorno, signora Adams». Notò Cecilia, alle spalle della padrona di casa. «Signorina Carter.»
Josiah Wheeler era figlio di una taverniera che gestiva una locanda a metà strada tra Boston e la fattoria. Era un giovanotto alto e atletico, dai capelli neri e la faccia sveglia. Non poteva vantare la perfezione di un Apollo ma — da quanto aveva capito Cecilia — quegli occhi azzurri dal taglio felino e quel sorrisetto tra l'impertinente e l'affascinante erano causa di sospiri per metà delle giovani donne del circondario.
«Signor Wheeler. Vi credevamo ancora a Boston» lo accolse la signora.
«Torno proprio ora dalla città, madam. Porto notizie. E una lettera di Samuel Adams per vostro marito.»
«Ah. Sam. Quand'è così, che non si perda tempo» commentò la signora Adams. Lo disse mentre si voltava verso Cecilia; così che solo Cecilia poté vedere la piega sarcastica sulle sue labbra sottili. «Cecilia, per favore, avverti il signor Adams della visita.»
«Subito, signora.»
La ragazza si diresse verso le scale. Le salì alla svelta. Bussò all'ultima porta del corridoio.
«Avanti.»
Cecilia obbedì. Nella camera troneggiava un grosso letto a baldacchino, ai lati del quale, i ritratti del reverendo Adams e della defunta consorte — volti severi stesi su di uno sfondo buio — erano appesi alle pareti nude.
John Adams, con il panciotto aperto e le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti, se ne stava arroccato sul piccolo scrittoio di noce sommerso di libri e di carte.
«Signore, c'è il signor Wheeler. Ha un messaggio da parte di vostro cugino.»
Il signor Adams sospirò, rauco. Mise giù il pennino, versò la polvere sul foglio e, infine, si alzò in piedi. Era piuttosto basso, per essere un uomo. Aveva trentotto anni, più pancia che capelli e un carattere che ondeggiava costantemente tra una nervosa ritrosia e una brusca schiettezza di modi. «Arrivo subito.» Si schiarì la voce e iniziò ad abbottonare il panciotto. Cecilia uscì e richiuse la porta; sentiva il signor Wheeler e la signora Adams chiacchierare al piano inferiore, ma non distingueva le parole. Si appoggiò alla balaustra e guardò giù, verso le scale deserte, come uno spettatore nella galleria di un teatro.
Durante i suoi primissimi giorni alla fattoria, Cecilia non era riuscita a capacitarsi di cosa potesse apprezzare una donna come Abigail in un uomo come John Adams. Lui era senza dubbio un uomo dotato di intelligenza e profonda correttezza — anni prima, aveva difeso in tribunale i soldati accusati di aver fatto fuoco sulla folla, davanti alla State House di Boston — ma la signora Adams aveva sorpassato tutte le aspettative di Cecilia. Era una donna assertiva e istruita. Sapeva discorrere con la medesima competenza tanto di merletti quanto di politica. Aborriva l'idea della schiavitù e non faceva mistero della sua avversione per i privilegi degli uomini. Una sera, aveva affermato senza mezzi termini che il potere illimitato che la legge metteva nelle mani dei mariti era sbagliato. «Qualsiasi uomo diventa un tiranno, se gliene viene data la possibilità» aveva concluso. [2] Non era stata una timida confessione, pronunciata con il tono di chi si è rassegnato a un sacrificio inevitabile. La signora Adams aveva parlato convinta che la situazione andasse a tutti i costi mutata. E l'aveva fatto davanti a Cecilia, davanti a Sally, davanti alla figlia Nabby e sopratutto davanti al marito. Il quale, con somma sorpresa di Cecilia, si era dichiarato in perfetto accordo con la moglie. Fu allora che Cecilia aveva cominciato a capire perché Abigail amasse tanto il pingue consorte.

* * *

Un arco separava il salottino dalla sala da pranzo, nella quale erano riuniti i signori Adams e il signor Wheeler; Cecilia — la schiena appoggiata alla parete del salottino a un palmo di distanza dallo stipite dell'arco — non poteva vederli, ma aveva udito tutto perfettamente.
«Sam che cosa crede di aver ottenuto?» Era la signora Adams. Nella sua voce, sotto lo strato di calma, vibrava una nota di impazienza.
«Questa è una presa di posizione, signora» rispose il signor Wheeler. «Un messaggio per gli inglesi. Forse voi non capite—»
«Signor Wheeler» lo interruppe la signora Adams, «sono consapevole della situazione come qualsiasi ubriacone del Green Dragon. Ma non posso fare a meno di chiedermi se Sam, e voi Figli della Libertà, abbiate messo in conto le conseguenze. Il denaro e il controllo sono in cima alle preoccupazioni del governo inglese, quando si tratta delle Colonie. Ora che centinaia di sterline galleggiano nel porto di Boston, come credete che reagirà il Parlamento?» [3]
«Madam, per favore...» intervenne il signor Adams.
«Condividete il pensiero di vostra moglie, signore?» chiese il signor Wheeler.
«Io ammiro la vostra impresa e il coraggio dimostrato. E, tuttavia, non v'è alcun dubbio che questa mossa ci abbia appena portato su di un terreno spinoso.» Ci fu una pausa. Si udirono dei passi e il rumore di una sedia spostata. «Non resta che prepararci alla reazione degli inglesi. Qualunque essa sia. Con il vostro permesso, madam, partirò per Boston seduta stante.» Cecilia fissava la lucida cassa della spinetta, dall'altra parte del salottino, nell'angolo vicino alla finestra. Sollevò istintivamente una mano, in cerca della cordicella nera che portava al collo: le disegnava una v sul petto, scomparendo oltre il bianco orlo pieghettato della camicia. Sotto il corpetto del vestito, a mo' di ciondolo, Cecilia nascondeva la pietra bucata raccolta sulla spiaggia.

* * *

La tenda si mosse. Doveva esserci una fessura nel telaio della finestra perché Cecilia, alla luce della luna, riusciva a cogliere l'agitarsi del drappo: era come se qualcuno vi soffiasse debolmente dietro. La ragazza si girò sotto le coperte, dando le spalle alla finestra. Chiuse gli occhi e restò in ascolto del respiro di Sally — condividevano quella piccola camera, dalle pareti bianche, perché lei non se l'era sentita di spedire la domestica a dormire nella mansarda
— pregando di addormentarsi il prima possibile.
Detestava attendere il sonno. Era il momento in cui non riusciva più a controllare i suoi pensieri.
Di giorno, la vita nella fattoria era una contraddanza di faccende domestiche scandite dal ritmo delle chiacchiere e dalle pause delle passeggiate. Di tempo e di occasioni per indugiare nei brutti pensieri ne restava poco. Gli Adams la trattavano più come una familiare, che come un ospite. Nessuno accennava mai alla questione del mantenimento e quando Cecilia si offriva per aiutare, la sua buona volontà non veniva mai respinta. Ma la ragazza non contava di approfittare degli Adams a lungo: aveva pianificato di confidare i suoi guai alla signora Adams subito dopo Natale.
Nel frattempo, altre preoccupazioni la tormentavano.
Il primo giorno di ottobre aveva scritto a Davenport Manor. Non aveva ancora ricevuto una risposta. Alla fattoria, la calma restava intatta, ma non passavano mai più di due o tre  giorni senza l'arrivo di qualche novità poco rassicurante, da Boston o da Braintree. E più il tempo passava, più Cecilia si convinceva che, quando e se una lettera fosse giunta dalla tenuta, le notizie sarebbero state orribili. 
Tutte le sere, sempre, senza eccezioni, l'angoscia per la sorte di Connor saliva in superficie e la sua mente le presentava brandelli di incubi che si ammucchiava l'uno sopra l'altro fino a toglierle letteralmente il respiro.










NOTE STORICHE
[1] Quando John Quincy Adams – il piccolo Johnny – divenne il sesto Presidente degli Stati Uniti tenne davvero un alligatore nei giardini della Casa Bianca.
[2] Una quasi letterale citazione di un passaggio di una lettera scritta da Abigail Adams nel 1776 conosciuta come Remember the Ladies.
[3] Si parla dell'episodio del Boston Tea Party ('il ricevimento del tè di Boston'), avvenuto nella notte del 16 dicembre 1773. Dopo il Massacro di Boston, il Parlamento fu costretto ad abolire dazi e imposte, ma nel 1773 approvò il Tea Act, che concedeva alla Compagnia della Indie Orientali il monopolio di tutto il mercato del tè. Era questo un ulteriore provocatorio atto della politica di controllo mercantilistico esercitato dalla madrepatria sugli americani. Nel dicembre 1773, coloni americani mascherati da indiani salirono a bordo di navi della Compagnia e gettarono in mare la casse di tè. L'episodio inaugurò una nuova fase del rapporto tra le tredici colonie e la madrepatria: quella dello scontro aperto.
©Le vie della modernità.

Tutti i personaggi presentati nel capitolo sono realmente esistiti, però io non sono una storica e la fan fiction non ha la minima pretesa di assoluta accuratezza nella rappresentazione dei vari caratteri. Dove mi è stato possibile (come per John e Abigail Adams) mi sono data alle ricerche. Per gli altri, ho lavorato di fantasia. Nell'elenco dei Sons of Liberty che parteciparono al Boston Tea Party compare un certo Josiah Wheeler;  certo è che gli Adams avevano una domestica, ma Sally May è interamente una mia invenzione; certo e documentato è anche che John Adams si recò a Boston il giorno seguente al Tea Party.










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Capitolo 13
*** Lettere, matrimoni ed eredità ***


THE CORNFLOWER CAP 13


















XIII

Lettere, matrimoni ed eredità










Fattoria degli Adams. 3 gennaio 1774

Il signor Adams strofinò una mano sull'accenno di doppio mento. Serrò le labbra sottili e allargò le narici in un respiro di riflessione, mentre se ne stava con un gomito appoggiato alla mensola del camino.
Il fuoco sibilava e l'ininterotto toc-toc toc-toc toc-toc dell'orologio appesantiva il silenzio del salottino.
«No» dichiarò, infine, il signor Adams, abbassando di scatto la mano. «Non è assolutamente possibile.»
 La signora Adams, seduta sul divano cosparso di sbiadite rose ricamate, represse un sospiro. «Si possono salvare dalla forca sei uomini colpevoli di omicidio colposo, ma è impossibile che una donna giovane e nubile erediti una casa.»
«Abigail, ti prego» disse il signor Adams, nel tono informale che usava con la moglie quando non erano tra estranei. «Nessuno più di me sarebbe lieto di vedere l'eredità di Carter affidata a Cecilia.» Si volse verso la ragazza, che sedeva accanto alla signora Adams, con la schiena diritta e le mani in grembo. «E non vi sono dubbi che l'allontanamento di Cecilia sia stato... irregolare. La casa è una proprietà del signor Bardsley. Sua moglie non ha diritto di parola su chi possa o non possa restare sotto quel tetto. Quindi, se il signor Bardsley dovesse acconsentire a ospitare di nuovo Cecilia...»
Cecilia cercò lo sguardo della signora Adams, ma la donna non parve aver bisogno di incontrarlo per sapere cosa dire.
«John, questa non è un'opzione contemplabile. Conosci il motivo.»
Per Cecilia non era stato semplice racimolare il coraggio di confidare alla signora Adams il genere di sgradite attenzioni che Bardsley le aveva rivolto e quell'accenno bastò a farle stringere lo stomaco.
«Va bene» sospirò il signor Adams. «Se quanto ci ha riferito Cecilia è vero...»
«È vero!» scattò Cecilia; e quasi si spaventò per la durezza nella propria voce.
Il signor Adams le rivolse un cenno accomodante con la mano. «Non era mia intenzione metterlo in dubbio. Stavo solo affermando che, per come si presenta la faccenda, vedo una sola realistica soluzione. Cambiare i termini dell'atto di successione. In quanto tutore legale, Carter aveva il dovere di provvedere al tuo mantenimento e la medesima responsabilità potrebbe rientrare nell'eredità del signor Bardsley. In tal caso, potremmo chiedere di mutare una modesta somma di denaro in rendita per la ragazza.»
«Quanto modesta?» si informò la signora Adams.
«Non tanto da impedirle un matrimonio di tutto rispetto.»
Matrimonio! Sempre un matrimonio! La certezza che il signor Adams avesse risposto con il proposito di rassicurarla non bastò a soffocare il moto di rabbia nel petto di Cecilia, che si morse l'interno del labbro e scambiò un'occhiata con la signora Adams.
Il signor Adams seguitava: «Naturalmente, una richiesta troppo alta sarebbe una mossa controproducente. Con quello che stanno facendo gli inglesi, è un periodo terribile per i commercianti. E non sappiamo se, in questi anni, il signor Bardsley abbia avuto figli propri.»
«John» chiamò la signora Adams. «C'è un'altra cosa che dovresti sapere.» Con uno sguardo e un cenno del capo, incoraggiò Cecilia a parlare della possibile esistenza di un testamento.
«Sciocchezze» decretò il signor Adams, quando Cecilia finì di spiegare. «Se prima di morire Carter avesse redatto e firmato un testamento segreto, tra il signor Bardsley e il denaro si sarebbe intromessi un notaio e due testimoni.»
Cecilia inghiottì e si fissò le mani. Teneva ancora per sé il sospetto di un omicidio, giudicando saggio studiare prima la reazione del signor Adams sulla questione dell'eredità. Quella mattina, lì, sul divanetto, decise che avrebbe continuato a tacere. Non mi daranno credito nemmeno loro. E perché dovrebbero farlo? Forse è davvero tutta una mia fantasia.
«Dunque, John» disse la signora Adams, «ti occuperai personalmente della questione?»
«No
lo vorrei, ma i miei impegni come consigliere della città non me lo permetterebbero. Affiderò il lavoro al signor Auchmuty, il mio assistente. Gli scriverò subito.»
«Grazie, signore» disse Cecilia.
«Ti lasciamo alle tue carte, allora.» La signora Adams si alzò in piedi e Cecilia la imitò, muovendosi dietro di lei verso l'arco del salottino.
«Solo un'ultima cosa» le richiamò il signor Adams. «Cecilia, riguardo al comportamento del signor Bardsley nei tuoi confronti, sarà meglio tacere. Quell'uomo è un meschino, ma è un meschino con del denaro. E le persone sono molto più inclini a scendere a patti, quando non si tenta di infangarne la reputazione.»
Cecilia aggrottò la fronte. Poi, a malincuore, fece un cenno di assenso.
«Molto ragionevole, John» osservò la signora Adams, tagliente. «Ma se il signor Bardsley desidera che la sua reputazione di gentiluomo rimanga immacolata dovrebbe imparare a tenere le sue rispettabilissime mani nelle proprie tasche
andiamo, cara.» E guidò Cecilia fuori dalla stanza.

* * *

La campagna era stata spolverata dalla prima neve, Penn's Hill somigliava a un pudding nel giorno di Natale e l'aria fredda sembrava fatta apposta per intirizzire qualsiasi estremità del corpo. Cecilia, dopo aver passeggiato un poco nel cortile, con il cappuccio della mantella tirato sul capo, sedette su di panca, addossata alla parte esterna del pollaio: una casupola di legno, lunga e bassa. Due gallinelle bianche e nere ruspavano la terra scura. Beccavano in cerca di sassolini, tra i fili di paglia e la neve. Un'altra stava appollaiata sul terzo piolo della scaletta. Tutte, insieme alla compagne nel pollaio, chiocciavano contro il freddo. Ma c'era qualcun altro 
nel pollaio. Era Sally. Cecilia la sentiva camminare e tenersi compagnia, canticchiando svagata. Non conosceva la canzone, che parlava di una donna che respingeva, una dopo l'altra, le pericolose lusinghe dei numerosi pretendenti, ma rimase incantata dalla voce di Sally. Era limpida e intonata.
Sally smise di cantare non appena uscì dal pollaio 
il cestinino di uova sottobraccio  e vide Cecilia.
«Oh» cinguettò, a mo' di saluto. «Com'è andata con il signor Adams?»
«Non è andata peggio di quanto sperassi, credo» Cecilia fissava, senza vederle davvero, le galline bianche e nere; e l'ipnotico movimento dei loro colli. «Sally...»
«Mh?»
«Tu pensi mai di non essere sulla strada giusta?»
«Eh?»
Cecilia batté le palpebre. Provò a mettere in fila i pensieri. Voleva pronunciarli ad alta voce perché sperava di azzittirne il ronzio. «Voglio dire.. ti è mai venuto il dubbio di star tentando di raggiungere il posto sbagliato? Hai mai pensato che i tuoi obbiettivi fossero troppo egoisti... troppo piccoli... quando, intorno a te, si muove qualcosa di più importante?»
«Non sono sicura di aver capito» ammise Sally.
Cecilia non se ne stupì. Si stupì, invece, quando Sally prese posto vicino a lei.
«Però, per quel che vale... io penso che tutti dovrebbero avere il diritto di raggiungere un posto dove... dove non si sentono infelici, ecco. O, almeno, dove possono essere sereni. Cosa è importante e cosa no, sta a noi deciderlo.» Sally strofinò il pollice sul bordo del cestino.
Cecilia studiava il suo profilo delicato. «Tu sei felice, Sally?»
«Sì 
e so anche di essere fortunata. Sono solo la figlia di un bottaio, se la signora Adams non mi avesse offerto di venir a lavorare in questa casa, non avrei neppure imparato a leggere e a scrivere.»
Cecilia arricciò un angolo della bocca. «E ora non saresti qui a scambiarti lettere con il tuo signor Wheeler» sussurrò.
Sally sorrise. Un delizioso velo rosato le colorò le gote. «A volte mi sento anche troppo fortunata.»
«Hai tutte la ragioni per considerarti fortunata. Il signor Wheeler è l'unico figlio maschio e un giorno la locanda sarà sua.»
Sally scosse la testa, lo sguardo basso sulle uova. «Ma non parlo di quello! Sono fortunata perché... perché lui è così... affascinante. E gentile. E ha scelto me.»
«Avete già una data?»
«No, mio padre vuole che prima io compia diciassette anni.»
«Il signor Wheeler ne ha già venti, vero?»
«Ventidue. Io spero di potermi sposare la prossima estate...
adoro l'estate.» Sally sospirò; e a Cecilia vennero in mente certe eroine da romanzo. «La signora Josiah Wheeler... suona bene, non trovi anche tu?»
«Suona benissimo anche Sarah May.»
«Ma non c'è Josiah! E io non posso essere completa, senza di lui.»
«Sostituire il tuo nome con quello di un'altra persona non è completare. È solo sostituire.»
«Ah, Sissi 
quando scoprirai cosa significa innamorarsi, non parlerai più così.»
«Beata ignoranza, allora.»
Sally stava per ribattere, ma Cecilia drizzò la schiena e cacciò una mano da sotto la mantella per farle segno di ascoltare: udiva un forsennato scalpiccio di zoccoli. Era un cavallo in corsa. «Arriva qualcuno.»
Lasciarono la panca, e il cortile, e costeggiarono un fianco della casa fino ad affacciarsi sul prato d'ingresso: la signora Adams era già lì e un uomo con la pelle nera stava cavando un plico di fogli dalla bisaccia appesa alla sella.
Non appena il corriere fu ripartito al galoppo, le ragazze si avvicinarono alla signora, intenta a controllare le lettere. Alla terza si bloccò e guardò Cecilia.
«Questa è per te.»
Cecilia percepì il proprio stomaco saltare fino ai polmoni, ma limitò l'espressione a una lieve e perplessa sorpresa. Attese che Sally e la signora Adams rientrasse in casa. Poi, andò ad appoggiarsi alla staccionata. Ispirò ed espirò. E ruppe il sigillo.
La lettera era da parte di Achille. Una trentina di righe, o poco più, che portavano la data del trenta dicembre. Cecilia le divorò in un pochi secondi. L'ansia salì, raggiunse un picco e alla fine si dissolse, trascinata via dalla stessa brezza fredda che agitava lla mantella e piegava gli angoli della lettera. Achille assicurava che stavano tutti bene e che il numero di abitanti, alla tenuta, era persino aumentato. Nelle ultime righe, parlava di Connor, tornato alla tenuta lo stesso giorno della partenza di Cecilia. Achille aveva giudicato l'addestramento completo, la veste da Assassino non apparteneva più al fantoccio nelle sale sotterranee e Connor aveva dato il via alla propria crociata:


lasciandosi coinvolgere in un certo evento di Boston del quale a Braintree avrete sicuramente avuto notizia. Non molto tempo dopo la tua partenza, uno degli uomini del villaggio di Connor si è presentato alla tenuta, in cerca di aiuto contro William Johnson, intenzionato a comprare la loro terra. Per fermarlo, Connor si è recato a Boston. Aattraverso Sam Adams, ha scoperto che la fonte del guadagno di Johnson risiedeva proprio nel contrabbando di tè. Il carico è stato distrutto, ma il Templare vive. Connor non ha ritenuto necessario ucciderlo e io temo che il ragazzo abbia commesso un primo grave errore. Sottovaluta i Templari e le loro risorse.


La lettera si concludeva con l'augurio che la permanenza di Cecilia dagli Adams continuasse scevra da preoccupazioni e pericoli. Cecilia trasse un muto sospiro di sollievo. Non riusciva a dar peso ai crucci di Achille. Non adesso che sapeva che Connor stava bene e che aveva dimostrato di saper ricorrere a soluzioni diverse dall'assassinio. Ripiegò con cura il foglio e lo avvicinò alla bocca, accarezzando le labbra schiuse in un timidissimo sorriso.









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Capitolo 14
*** La famiglia Waxen e il dottor Warren ***


THE CORNFLOWER CAP 14


















XIV

La famiglia Waxen e il dottor Warren










Braintree. 5 giugno 1774

L'invito era arrivato alla fattoria con tre giorni di anticipo, ma il tempo a disposizione per prepararsi non aveva dispensato Cecilia da una ragguardevole dose di agitazione e, durante tutto il tragitto in carrozza, i crampi allo stomaco si premurarono di tenerle compagnia. Sarebbe stata osservata? Giudicata? Interrogata? Sarebbe riuscita a calibrare ogni gesto e soppesare ogni parola affinché il suo comportamento risultasse sagace ma non inappropriato? Parte di lei avrebbe voluto liberarsi del pensiero con una scrollata di spalle, ma l'altra parte continuava a rimuginarci sopra con sfiancante ostinazione. A diciassette anni Cecilia conosceva i segreti dietro i conflitti, le guerre e le morti più importati della storia, ma non aveva mai partecipato a un pranzo con una compagnia adulta e numerosa; e la possibilità di infilarsi in un vestito nuovo — rosso come i primi lamponi tra i rovi e tagliato alla moda polacca [1] — le sembrava un magro compenso.
Il mittente dell'invito era il colonnello Waxen. [2] In quel periodo dell'anno, il colonnello risiedeva a Braintree insieme ai tre figli adulti e alla nuova moglie in dolce attesa. La casa, circondata da una staccionata bianca, si trovava a una traversa di distanza dalla piazza della Meeting House, il cui candido e aguzzo campanile sorvegliava la cittadina.
La piccola carrozza degli Adams si fermò davanti al cancelletto. Lo sportello venne aperto, il predellino calato e Cecilia scese dopo i signori. Le scarpe nere impattarono contro il selciato rossiccio della strada e le falde del piatto capellino le ripararono il volto dal sole: era una giornata calda e tersa; l'estate sembrava giunta prima del dovuto.
Una volta in casa, le preoccupazioni di Cecilia iniziarono a quietarsi. L'agio dei Waxon sembrava direttamente inverso alla loro propensione per i modi formali. Bonario lui e spigliata lei, erano entrambi gentili, ma non artificiosi. A Cecilia non vennero poste domande né troppo argute né troppo personali e nel giro di pochi minuti, mentre ancora attendevano il resto degli ospiti, si ritrovò sequestrata da Mary Waxon, unica figlia del colonnello.
Presa sottobraccio, venne trascinata nello studiolo, dove in una gabbia accanto alla finestra un canarino saltellava e cinguettava. Mary invitò Cecilia sulla poltroncina e andò prendere un volume dalla libreria.
Più Cecilia osservava Mary e più pensava a un topo: aveva un personale minuto, occhi neri e naso all'insù, incisivi troppo grandi separati da una fessura e nessun segno dei suoi venti anni passati.
Il volume si rivelò un album di acquarelli. Mary le disse di sfogliarlo, mentre si gettava in un appassionato resoconto del viaggio a Parigi, compiuto un anno e mezzo prima. Parigi e i suoi palazzi. Parigi e i suoi teatri. Parigi e i suoi salons. Parigi, e le sue frotte di giovanotti inglesi di buona famiglia spediti sul Continente, a raffinarsi come vini nelle botti. L'inclinazione di Mary a parlare, che superava di gran lunga quella all'ascolto, sollevava Cecilia dall'impegno di sfoderare commenti attenti e intelligenti.
«Quanto vorrei che potessi vedere Parigi!» concluse Mary.
«Lo vorrei anche io» ammise Cecilia, tenendo l'album aperto sulle ginocchia: le abili mani di Mary erano riuscite a imprimere sulla pagina il verde frusciante dei giardini del Palazzo delle Tuileries.
Cecilia pensò a tutte le navi che aveva visto scomparire all'orizzonte, dal porto di Gloucester, mentre lei non aveva mai messo piede fuori dalla colonia. Guardò il mappamondo, vicino al caminetto spento: una grossa sfera color sabbia, una ragnatela di linee nere e rosse, rotte e confini, regni, fiumi e città. Il mondo doveva essere davvero un posto troppo sconfinato e troppo bello perché le stampe, i quadri e le incisioni riuscissero a rendergli giustizia.
«Eccoli, finalmente!» Mary scostò la tenda di mussolina dalla finestra. «I miei fratelli. Sono tornati.»
Cecilia si accostò per spiare oltre la spalla di Mary.
In strada, quattro uomini in abiti da viaggio stavano smontando da cavallo. Pochi secondi dopo, li udirono muoversi all'ingresso: passi pesanti e parole di ben rivisto. Arrivavano tutti da Cambridge — le disse Mary, per poi informarla: il signor Hoar, fratello maggiore dell'attuale signora Waxon, era un uomo di chiesa senza parrocchia, dall'occhio annoiato e il capello ingrigito. Il dottor Warren [3] era un medico trentenne, vedovo da un anno esatto, con la responsabilità di quattro figli.
Il pranzo, per il quale le domestiche di colore avevano
tirato fuori una tovaglia di lino europeo e piatti di ceramica, venne servito nella sala al primo piano. Tra un mestolo di baked beans e una fetta di carne maiale, Cecilia, mettendo insieme i discorsi che viaggiano attorno alla tavola, comprese che il dottor Warren e il signor Adams si conoscevano da anni e che Warren era un devoto patriota. A Boston, il dottore lavorava fianco a fianco con Samuel Adams alla guida dei Figli della Libertà e ora un mandato di arresto pendeva sulla sua testa, eppure lui era lì, incurante e composto, gli occhi azzurri sorridenti e le labbra sempre pronte a stendersi in un ghigno a metà tra il soddisfatto e lo scaltro.
Dei figli del colonnello, invece, Cecilia si fece l'idea di due caratteri opposti.
Il minore, James — giovanotto alto e magro, medico anche lui, ma da appena quattro settimane — occupava proprio il posto di fronte a lei. E, come lei, interveniva nella conversazione solo quando interpellato. Ovvero, quasi mai. Cecilia si sentiva pronta a credere che James fosse una persona più timida che scostante. Fonte di tale convinzione era il suo viso cereo, sul quale spiccavano occhi stranamente grandi e spauriti, di un colore che non era né verde né nocciola. Ai lati dell'attaccatura del naso, che era lungo e dritto come quello di una statua greca, le sopracciglia sottili erano perennemente impennate verso l'alto.
Henry Waxon, primogenito del colonnello, gli sedeva accanto. Ben più belloccio e robusto di James, condivideva con i fratelli il colore corvino dei capelli e con Mary la capacità di tenere banco durante una conversazione. «Gage è sceso dalla Livery in pompa magna» stava raccontando. Dei commensali, solo lui e il dottor Warren erano stati presenti all'evento. [4] Svuotò il corto calice dell'ultimo goccio di vino rosso. Il pasto era giunto al dessert: budino di mele. «Pioveva a dirotto, ma tutta Boston sembrava riunita in King Street. Una truppa di giubbe rosse, una compagnia di artiglieri e un intero reggimento della milizia hanno scortato il generale fino alla Town House. Dopo la lettura del mandato, i soldati hanno sparato tre colpi a salve e la folla ha esultato.»
«Fatico a comprendere la fiducia che i Bostoniani ripongono nel generale» commentò il signor Adams.
«Non hanno dimenticato il passato» disse il colonnello, dal capotavola. «I precedenti rapporti del generale Gage con la città sono stati—» Sembrò cercare il termine adatto. «Non spiacevoli. E il generale si è fatto delle amicizie, a Boston. Amicizie di un certo peso.»
«Quell'uomo a stento comprende quanto gli accade intorno» intervenne il dottor Warren. «Presto o tardi, mostrerà la sua incompetenza e allora Boston, e l'intera Colonia, vedrà che tutto questo dispiegarsi di mandati e parate non ha più consistenza di teatrino di ombre cinesi.»
«Chi non si è fatto illusioni è stato il governatore» riprese Henry. «Gage lo ha fatto imbarcare per Londra quattro giorni fa.»
«Provo quasi pena per Hutchinson» sbadigliò la signora Waxon, al capo opposto del tavolo.
«Il vostro buon cuore è sprecato, madam» ribatté il figliastro.
«Warren, la vostra opinione riguardo al generale è condivisa da tutti i Figli della Libertà?» domandò, seria, la signora Adams al dottore. «Spero non intendiate gettare anche lui in mare.»
Le inquietudini della signora Adams, all'indomani della distruzione del tè, si erano rivelate lungimiranti. Il Parlamento aveva reagito. E male. Per mesi, uno snervante silenzio aveva logorato i nervi dei patrioti. I Tories parlavano di una mossa militare da parte dell'Inghilterra, ma niente sembrava voler accadere. Poi, alla fine di marzo, una nuova legge era stata emanata, ma erano state necessarie più di otto settimane prima che la notizia attraversasse l'oceano.
Il porto di Boston era stato chiuso.
Nessuna nave commerciale avrebbe attraccato in città fin quando la Compagnia delle Indie Orientali non fosse stata ripagata del debito causato dalla perdita del tè. Per fa sì che il blocco venisse rispettato, navi della marina britannica erano perennemente all'ancora nella baia e quattro reggimenti di soldati si erano riversati in città, andando ad aggiungersi alle duemila giubbe rosse già presenti.
Per l'azione di pochi, l'intera città era stata punita.
«Il tempo dei messaggi e dei tumulti di strada si è concluso» affermò il dottor Warren. «Ora è il momento che tutte le colonie si uniscano a noi, nella richiesta di quanto è nei nostri diritti. Dobbiamo nominare un Congresso. Unirci — come fratelli.»
«E mettere un branco di nativi a guardia delle porte del congresso» rise Henry. Aveva di nuovo riempito, e subito semi svuotato, il proprio bicchiere. Il rosso del vino sembrava essersi trasferito tutto sulle guance bianche e perfettamente rasate. «Dottore, è vero che durante l'assalto a Griffin's Wharf, Adams aveva con sé un nativo? O era uno dei vostri, in vena di una mascherata?»
Cecilia affondò i rebbi della forchetta nel molle pasta del budino. Non poco dovette impegnarsi per tenere lo sguardo sui ricami del piatto.
«Era un nativo» rispose Warren. «Un irochese. Stando a quanto mi ha riferito Sam.»
«E come è riuscito ad ammaestrarlo?» rise Henry.
«Signore, state parlando di una persona. Non di una scimmia» lo riprese la signora Adams. «Moderate il linguaggio.»
«Pellerossa. Negri. Scimmie. Chi può distinguerli? A che pro, poi? Non vivono anche loro sugli alberi, i selvaggi?»
«No. Non lo fanno.»
Con la coda dell'occhio, Cecilia videle teste di tutti i commensali voltarsi all'unisono verso di lei, come tirate da un unico filo. Poteva quasi sentire la sorpresa aleggiare sul tavolo, tra il vetro delle caraffe e le piante ornamentali, ma tenne lo sguardo sul volto di Henry.
«Loro vivono dentro a delle case. E voi, signore, dovreste limitare l'uso della vostra bocca a imbuto per il vino.»
Tutti i presenti parvero inghiottire lo stupore sbuffando tra divertimento e imbarazzo. Tutti, tranne la signora Adams, che arricciò in silenzio le labbra sottili, e il signor Hoar, troppo occupato a contemplare il fondo del proprio bicchiere.
In Cecilia, il buon senso tornò in vita con un sussulto violento. Che cosa ho appena detto? urlò, dentro di sé.
«Quanto ardore, signorina Carter!» Henry si sciolse in un nuovo principio di risata, in parte — Cecilia ne era certa — eccitata dal vino. «Avete l'animo del missionario, per caso? Siete tra quelli che reputano i selvaggi delle anime ingenue? Un popolo buono la cui una unica sventura è essere nati lontani da Dio?»
Cecilia tentò di non batter ciglio. «Definire un popolo cattivo, o buono, non ha alcun senso. Pensare che tutti i nativi siano violenti e inclini agli atti malvagi è corretto quanto illudersi che tutti i coloni siano un perfetto modello di virtù e di bontà. In ogni caso, per quanto la loro violenza non sia giustificabile, la loro rabbia è comprensibile. Chi non sarebbe infuriato con un gruppo di sconosciuti che si arroga il diritto di dettar legge e portare via terre e case? Non è troppo diverso da quello che gli Inglesi stanno facendo a noi e non mi sembra che i patrioti stiano accettando la situazione con particolare docilità.»
Il sorriso sul volto di Henry si contorse, come se stesse trattenendo le parole sulla lingua. «Signorina Carter, qualche giorno rinchiusa nelle case dei selvaggi e scommetto che perdereste il capriccio di atteggiarvi da paladina. Io ho visto, con i miei occhi, le atrocità di cui sono capaci. Quelle bestie bruciano vivi i loro prigionieri. Sono capaci di tagliare via lo scalpo a un nemico ancora in vita. E credete che facciano distinzione tra uomini o bambini? Tra donne o neonati?»
«Il che è orribile. Non affermerò mai il contrario. Tuttavia, non credo che noi possiamo vantarci di essere superiori, o migliori, né possiamo permetterci di chiamare bestie i nativi, se questi sono i termini di paragone. Non appendiamo forse le persone con una corda al collo e poi stiamo lì, a guardarle mentre muoiono soffocate? Non tagliamo teste e poi le mettiamo in bella vista, ancora grondanti di sangue?»
«Ed ecco che se ne va il mio appetito» esalò Mary.
Cecilia continuò: «Per tacere della tortura. O della gogna. O della flagellazione. Tutto con il benestare dei nostri uomini di chiesa e di legge, per i quali donne e bambini hanno le medesime opportunità degli uomini solo quando si tratta di punizioni.»
«John» interruppe il dottor Warren, rivolgendosi al signor Adams, «siete fortunato che la vostra protetta sia una donna. O avreste corso il rischio di farvi derubare del lavoro.»
Cecilia guardò il dottor Warren, chiedendosi se stesse prendendo le sue parti o si stesse facendo beffe di lei.
L'uomo ricambiò lo sguardo, senza che l'imperturbabile sorrisetto abbandonasse il suo volto magro Poi, il dottore interrogò Henry. «La prossima mossa dell'accusa?»
«Se parliamo di bontà e cattiveria nell'animo umano» disse Henry, «nessuno è più adatto del nostro signor Hoar. La vostra opinione, signore?»
Il signor Hoar non si sforzò di nascondere la noia per l'essere stato chiamato in causa. «Io mi rifaccio a San Paolo» strascicò, tra il distratto e il distaccato. «La donna impari il silenzio e rimanga in atteggiamento modesto.»
Cecilia tornò a contemplare i dettagli del piattino di ceramica,
pressando un sospiro di sopportazione tra le labbra.

* * *

Il viaggio di ritorno fu accompagnato da calar del sole. Un raggio dalla sfumatura aranciata cadeva proprio sul libro aperto tra le mani del signor Adams. Davanti a lui, sedeva la moglie, con lo sguardo perso verso il paesaggio. Cecilia, accanto alla signora, teneva il capo appoggiato alla parete. Sentiva di nuovo lo stomaco alla prese con i crampi e l'ondeggiare della carrozza iniziava a darle la nausea. Non sapeva se dare la colpa al budino di mele, o a tutto quel discorrere di eserciti e congressi che faceva sembrare il mondo sull'orlo di una svolta preoccupante, o al modo in cui Henry Waxon l'aveva salutata.
Davanti alla cancelletto, le aveva afferrato la mano d'improvviso, e quasi a forza. Quando si era chinato per mimare il baciamano, l'aveva fatto guardandola fissa negli occhi. «Tornate a deliziarci presto della vostra brillante compagnia, signorina Carter» aveva detto, con un tono che stillava sarcasmo.
Cecilia raddrizzò le spalle. «Sono stata sgarbata, durante il pranzo?» azzardò.
«Io apprezzo sempre un dibattito onesto» disse il signor Adams, senza alzare lo sguardo dal libro.
«A volte, l'onestà ha bisogno di essere ingentilita, John» aggiunse pacatamente la signora Adams. «La vita non è tutta un'aula di tribunale. Il commento sull'imbuto era un po' sopra le righe, cara, ma conoscendo le compagnie del signor Waxon, sono sicura si sia sentito dire molto peggio. Sei ancora la benvenuta, in casa del colonnello, non temere. Anche se, a questo punto, non mi attenderei una proposta di matrimonio, se fossi in te.»
Un sobbalzo della carrozza nascose il sussulto di Cecilia, che fissò terrificata la signora Adams.
«Perché? Avrei dovuto?» balbettò.
La signora le diede una strizzatina affettuosa alla mano. «Ironia, cara.»
Il signor Adams sfilò via i piccoli occhialini tondi.
«Ignoravamo le tue accese idee riguardo agli indigeni.»
«Le mie idee sono le stesse riguardo a tutti gli esseri umani» disse Cecilia. «Non sono idee accese. Sono ragionevoli.»









NOTE STORICHE
[1] "Robe a la Polonaise: un particolare tipo di abito femminile in voga nel 1700 la cui sovragonna poteva essere arricciata tramite dei cordoncini da tirare, in modo da creare dei ricchi panneggi." ©abitiantichi.it
[2] Un colonnello Waxon viene citato più di una volta nelle lettere di Abigail Adams, di cui una proprio in occasione di un invito a pranzo. La famiglia del colonnello, come la posizione sociale, è però di mia invenzione.
[3] Joseph Warren fu un famoso patriota americano. Si era messo ad esercitare la medicina a Boston quando l'agitazione contro la politica fiscale inglese riscaldò gli animi. Il 5 marzo 1770 caddero le prime vittime della rivoluzione. Warren fu scelto per commemorare il secondo, e di nuovo il quinto anniversario di questa data, e lo fece malgrado ogni tentativo per intimidirlo. Entrò nel Comitato di corrispondenza, e formulò le famose "Suffolk Resolves" a Milton il 9 settembre 1774, con cui i coloni decisero di resistere anche con la forza alle illegalità inglesi e invocarono la formazione di un Congresso continentale. Partecipò ai primi tre di questi congressi provinciali, e il 31 maggio 1775 fu eletto presidente del terzo a Watertown. Nella battaglia di Lexington il 19 aprile 1775, fu uno dei più attivi sul campo, e il 14 giugno venne nominato maggior generale dell'esercito del Massachusetts, avendo rifiutato il posto meno azzardoso di generale medico. ©treccani.it
[4] Il generale inglese Thomas Gage fu dal 1763 Comandante in Capo delle forze inglesi in America. Nel maggio 1774, in seguito all'episodio del Boston Tea Party, venne nominato Governatore del Massachusetts (al posto del suo predecessore Thomas Hutchinson) con l'ordine, da parte del Parlamento, di provvedere alla sottomissione della colonia all'autorità inglese e l'attuazione del Port Act.
TRIVIA: Durante il vero Boston Tea Party, i Sons of Liberty si travestirono davvero da indiani Mohawk.
La risposta di Joseph Warren alla domanda di Abigail Adams è estrapolata dal contenuto di un articolo scritto da Warren per il Boston Evening Post del 6 giugno 1774.










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Capitolo 15
*** Il cuore ha le sue ragioni ***


THE CORNFLOWER CAP 15


















XV

Il cuore ha le sue ragioni










Fattoria degli Adams. 27 agosto 1774

«Sta attenta... per favore, sta attenta!»
«Sally, per l'amor di Dio, sto raccogliendo mele. Non sto fronteggiando un drago!»
«Ma sei sull'albero!»
«E che follia! Salire sopra un albero di mele per raccogliere le mele.»
L'albero era vecchio, e grosso. Il primo livello di rami creava un nodo sul quale era possibile reggersi in piedi, ma per raggiungere le ultime mele, e salvarle dai morsi del sole, Cecilia si era dovuta distendere su un ramo più alto. E più sottile. Con un braccio si teneva stretta al ramo, con la mano libera lasciava cadere le mele verso Sally. Uno dopo l'altro, lanciò i frutti nel grembiule che Sally teneva sollevato a mo' di cesta.
Tutto intorno a loro non si udiva che il frinire delle cicale. La calura pomeridiana sembrava aver azzittito persino gli uccelli e il caldo era tale che entrambe le ragazze indossavano solo i corsetti sopra le camicie bianche.
Sally rovesciò le mele nel secchio di legno, si sventolò con il grembiule il viso arrossato e cadde in ginocchio tra l'erba. «Credo che perderò i sensi» annunciò.
«E io credevo ti piacesse l'estate» se la rise Cecilia.
«Non così!» sospirò Sally.
Cecilia,
attenta a non trasformare la gonna in una trappola, e con un pensiero di rimpianto per le braghe e gli stivali, scivolò verso il basso, fino al centro dell'albero. Da lì, appoggiò i piedi sui pioli della scaletta. Fu a terra in un attimo. Sally si era distesa su un fianco, piegando il braccio tra la testa e l'erba, e Cecilia sedette vicino a lei. 
«Con questo clima, non riesco a immaginare dove qualcuno possa tirare fuori la forza di andare in giro a rapinare e a tendere agguati» commentò Sally.
Cecilia appoggiò la schiena al melo e accavallò le caviglie. «Infatti non si sente più parlare di quei briganti da almeno dieci giorni. Il caldo li avrà fatti desistere.»
Boccheggiavano da settimane, come pesci sulla spiaggia. Si faticava a lavorare di giorno e a dormire di notte. Le piante stavano seccando, il prato iniziava ad ingiallire, la strada era diventata più arida e polverosa di un fiume prosciugato.
«Deve essere terribile anche mettersi in viaggio» riprese Sally. «Viaggiare in carrozza sarà come viaggiare chiusi un forno. — Credi che il signor Adams sia già arrivato a Philadelphia?» [1]
«Lo sapremo solo quando ci scriverà.»
«Da quando è partito, la signora sembra sempre molto preoccupata, non hai notato anche tu?»
«Lo sarei anche io, se fossi in lei. Da qui a Philadelphia sono quattrocento miglia. Le strade non sono sicure e il signor Adams non ha ancora risposto a nessuna delle sue lettere.»
Dopo quella osservazione, calò un lungo attimo di sonnacchioso silenzio. Le cicale frinivano. Il sole scottava le spalle e la nuca. Le ombre delle ragazze, e del vecchio melo, ritagliavano macchie scure tra l'erba paglierina.
«Tu l'hai fatto?» domandò all'improvviso Sally, in uno sbadiglio.
«Che cosa?»
«Rispondere alla lettera.»
La lettera di cui parlava Sally era arrivata alla fattoria tre giorni prima, all'ora di colazione. Cecilia aveva sperato in un messaggio del signor Auchmuty. Sperava fosse riuscito a rintracciare i Bardsley. Invece, la lettera giungeva da Davenport Manor. Portava la firma di Achille e la notizia della morte di William Johnson. Connor l'aveva assassinato a John's Town, mentre il Templare cercava di contrattare la vendita delle terre. Stando a quanto raccontava Achille, davanti all'ennesimo rifiuto dei sachem, Johnson aveva spianato i moschetti. Soltanto allora Connor era intervenuto.
«Sto... pensando a una risposta.»
«È del padrone della tenuta, vero? Quella dove vivevi prima di venire qui.»
Cecilia annuì.
«Come hai detto che si chiama? Ha un nome strano. Come quel personaggio, nella guerra di Troia — Ettore?»
«Achille.» 
Sally spinse sul gomito per sollevare il busto. «Parli così poco di quel posto» osservò. «Dimmi qualcosa della tenuta. O del padrone. È una brava persona? È un bell'uomo?»
«È buono, sì. Bello... forse ai suoi tempi lo sarà stato» rispose Cecilia.
«Oh. È un vecchio.»
C'era talmente tanta delusione, condensata in tre parole, che Cecilia non riuscì a trattenersi dal sorridere. 
Vi fu di nuovo silenzio. Cecilia iniziò a spianare senza alcun risultatole pieghe della gonna — e a riflettere: sarebbe stato poi tanto terribile dirlo a Sally? Infondo, Sally era sempre sincera, sempre premurosa, sempre discreta e delicata quando si parlava di sentimenti. Non le era mai parsa incline al pettegolezzo o ai giudizi troppo duri.
Decise di rischiare.
«C'era anche... un ragazzo.»
Sally, che si era messa a fissare la casa, voltò di scatto il capo verso di lei. «Alla tenuta?»
«Lavorava per il vecchio» inventò Cecilia.
«E... questo... ragazzo» Sally centellinava le parole, nel palese sforzo di annacquare la curiosità con la buona creanza, «ha attirato la tua attenzione?»
«Sì.»
«E tu hai attirato la sua?»
«No.» Cecilia sbatté ripetutamente le palpebre. «Aveva questioni più importanti per la testa. E poi, la mia era solo un'infatuazione. È passata.» Lo disse a voce alta e realizzò di aver mentito. Tutto quel tempo, tutta quella distanza, e ancora si sentiva come il giorno in cui era salita sulla carrozza per lasciare la tenuta.
«Come si chiama?» domandò Sally.
Connor. Cecilia aveva il nome sulla punta della lingua, perciò si sorprese quando si ritrovò a scandire con dolcezza: «Ratonhnhaké:ton.» Indovinò l'espressione confusa sul volto di Sally. «È un nome Mohawk. Irochese.» E quando azzardò un'occhiata verso la ragazza, la vide innalzare con estrema lentezza le sopracciglia sulla fronte bianca e lucida.
«Un indigeno...» esclamò Sally, in un sussuro sfiatato.
«Be'— per sangue... è metà inglese. Ma è stato cresciuto dagli indigeni.»
«Un meticcio!»
«Devi... devi proprio fissarmi come se ti avessi appena detto di essere uscita da un bordello?»
«Oh—» Sally sembrò ritornare in sé, mentre il viso ritrovava l'espressione dolce. «Sono sorpresa, ecco. Non ho mai sentito parlare di... di una cosa del genere.»
«Davvero? Non è così raro che dei coloni si prendano mogli indigene.»
«Sì, ma quello è diverso. Sono uomini. Non ho mai sentito di donne che abbiano sposato un indigeno. A parte... a parte quelle sventurate anime che vengono rapite. Non sono neppure sicura che sia legale.»
«Non è un problema che ci riguarda» tagliò corto Cecilia.
Sally allungò una mano per sfiorarle l'avambraccio nudo e Cecilia fissò l'anello al dito di Sally: non era un vero prezioso, era stato ricavato da un ditale fuso, ma per Sally era la testimonianza dalla promessa del signor Wheeler. Tempo addietro, quando Cecilia le aveva chiesto se non le dispiacesse che l'estate fosse passata e il matrimonio non fosse stato celebrato, lei aveva sorriso, mite ma ottimista. «Ci saranno altre estati» aveva detto.
«Ti ho offesa, Sissi? Non ti sto giudicando male. Non ti sto giudicando affatto.»
«Non sono offesa» sospirò Cecilia. Diceva la verità. Non era offesa. Era solo delusa. E pentita di aver parlato.
«Allora... posso chiederti perché?»
«Perché cosa?»
«Perché questo ind—questo giovane uomo ha avuto la tua attenzione?»
La domanda lasciò Cecilia spaesata. «Non... non lo so. Forse... perché quando l'ho conosciuto avevo solo quattordici anni e prima di allora non avevo mai avuto modo... o motivo... di interessarmi ai giovanotti.»
Sally sorrise, increspando la fronte. «Ma non può essere stato questo l'unico motivo.»
«Lui è sempre stato gentile. Con tutti. Certo, non aveva le maniere del gentiluomo. E, all'inizio, c'erano tante cose, dei nostri modi di vivere, che non capiva. Ma si preoccupava sempre degli altri e non avrebbe mai negato il suo aiuto a nessuno. E poi...»
«E poi?»
«E poi con me... non si è mai comportato come se pensasse che la mia intelligenza non fosse pari alla sua. Né mi ha mai trattata come una specie di... di statuina di cristallo, fragile e incapace.»
Sally la fissò. Schiuse le labbra, sembrava in cerca di un commento.
Cecilia la trasse di impiccio. «Ma come mi ha detto una volta una persona, anche se fossi stata ricambiata... un'unione simile, alla fine, avrebbe portato solo infelicità. Per tutti e due.» E si affrettò ad alzarsi in piedi, perché Sally stava per contraddirla. Cecilia lo capì dallo sguardo. Le avrebbe detto qualcosa sull'importanza dei sentimenti, qualcosa di molto poetico e poco realistico, qualcosa che non avrebbe avuto la forza di sopportare. Rassegnarsi costava dolore e fatica, ma era meno umiliante e meno penoso del continuare a sperare in una fantasia. Cambiò argomento, vivacemente, come nulla fosse. «Se non rientriamo in casa, finisce che le mele diventano una marmellata.»









NOTE STORICHE
[1] Dal 5 settembre al 26 ottobre 1774 a Philadelphia, in Pennsylvenia, i rappresentanti di dodici delle tredici colonie si riunirono nel Primo Congresso Continentale. Quattro furono i delegati inviati dal Massachusetts, tra questi Samuel Adams e John Adams. Scopo del Congresso fu di decidere la reazione alle leggi messe in atto dalla Gran Bretagna come punizione per il Boston Tea Party. Venne discussa la possibilità di boicottare tutte le merci inglesi e redatta una petizione indirizzata al re.
TRIVIA: L'estate del 1774 fu davvero calda e afosa. Lo racconta Abigail Adams nelle sue lettere a John Adams: "Your Journey I immagine must have been very tedious from the extreem heat of the weather and the dustiness of the road's. We are burnt up with the drouth, having had no rain since you left us, nor is there the least apperance of any" 15 August 1774. ©Massachusetts Historical Society Archive.










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Capitolo 16
*** Guai a Wheeler's Inn ***


Cap 13











XVI. Guai a Wheeler's Inn












Wheeler's Inn. Due miglia da Braintree. 6 settembre 1774


Cecilia vide il tronco crollato sbarrarle la strada, ma non rallentò la corsa. Al momento giusto, scivolò sotto l'ostacolo. Gettò le gambe in avanti — gli stivali scavarono un solco tra fogliame e terriccio — e tornò in piedi, riprendendo a correre. Poco più avanti, sfruttò una piatta sporgenza di roccia per spiccare un balzo e raggiungere la biforcazione al centro di un albero.
Lì si fermò. In piedi, premendo i palmi contro la corteccia.
Guardò davanti a sé, oltre le ultime colonne di alberi. Dall'altra parte della strada deserta, una lieve altura, punteggiata di betulle, candide e slanciate, ospitava un edificio, a due piani, di mattoni rossi: la locanda della famiglia Wheeler. Uno dei lati più corti della locanda si allungava in una costruzione più bassa e coperta da un tetto spiovente; botti e grosse casse stavano addossate contro il muro: doveva essere un magazzino. Ma in quel soleggiato e ventoso pomeriggio, non un filo di fumo si levava dai comignoli di pietra e né c'erano cavalli legati davanti alla locanda.
Cecilia saltò giù dall'albero atterrando, come le era stato insegnato, con la dolcezza necessaria ad attutire la caduta: ginocchia piegate, busto raccolto verso le gambe, le mani sul terreno. Era stanca, ma soddisfatta. Aveva raggiunto la locanda correndo tra la vegetazione, invece di percorrere la strada. Alberi e rocce, trasformati in un percorso a ostacoli, l'avevano lasciata con il respiro corto in cambio di qualcosa di simile al senso di libertà abbandonato alla tenuta.  La futura costellazione di lividi sulle braccia e sulla gambe non la preoccupava ― quattro volte era caduta, due erano state tanto dolorose da costringerla a fermarsi. La preoccupava, invece, l'aver constatato quanto i mesi di semi-immobilità ― le passeggiate e le corse dietro ai bambini erano state il massimo del moto ― avessero reso i muscoli meno pronti e i polmoni meno resistenti di quel che ricordasse.
Cecilia tamponò la fronte sudata con la manica della giacca, promettendo di concedersi più spesso uscite simili.
Dopotutto, era stato facile ottenere il permesso di lasciare la fattoria.
Il clima aveva giocato a suo favore: il vento, sceso dal nord, aveva trasportato frescura e nuvole. E le nuvole avevano benedetto i tre giorni precedenti con  brevi temporali ristoratori.
Fondamentale, però, era stato il desiderio della signora Adams di spedire una nuova lettera. Per quasi tutta l'estate, la fattoria era rimasta isolata  e consegnare la lettera alla locanda era il solo modo di assicurarsi che il messaggio iniziasse il suo viaggio verso Philandephia. Anche Cecilia aveva una lettera da spedire e Sally era ansiosa di far avere sue notizie al caro signor Wheeler.
«Prendi un cavallo» le aveva proposto la signora Adams. Cecilia aveva risposto che preferiva camminare. «Non sarà pericoloso, tutta quella strada da sola? E se incontri i briganti?» era intervenuta Sally. Sarebbe stata cauta, aveva assicurato Cecilia. Poi, davanti all'animata perplessità della domestica per la particolarità degli abiti da viaggio ― «Ti si vedono le gambe!» ― si era limitata a un incontestabile: «Si vedono perché ce le ho, le gambe.» Pochi minuti dopo, era uscita di casa, con la daga al fianco e le lettere nella tasca interna della giacca da cavallerizza.

* * *

Il vento costringeva l'insegna della locanda a sbatacchiare come una campana, cigolando come un vecchia ruota. Ma l'attenzione di Cecilia venne catturata da altro: perché la porta d'ingresso era socchiusa e dall'interno non giungeva alcun suono?  Non una voce. Non un passo. Cecilia, per un istante, contemplò l'assurda ipotesi che la locanda fosse abbandonata. Tese l'orecchio: il  sibilo del vento, i fischi delle cinciallegre dal cappuccio nero e, di tanto in tanto, lo sgraziato gracchiare di qualche volatile.
«No! Vi prego! Basta!»
Cecilia sobbalzò.
Una voce di donna era esplosa nel silenzio, con la stessa inaspettata violenza di un colpo di pistola. La fonte era vicina, ma non arrivava dall'interno, perché Cecilia l'aveva udita riverberare nell'aria.
La decisione fu immediata.
La ragazza corse fino alle casse, addossate al muro del magazzino. Vi salì sopra e si aggrappò alla sporgenza del tetto, puntellando i piedi tra le irregolarità dei mattoni. Risalì la lieve pendenza, tenendosi bassa con il busto. Veloce e silenziosa come un ragnetto, trovando appoggio negli infissi di una finestra dalla imposte aperte e pitturate di bianco, scalò il muro del piano successivo. Di nuovo, si aggrappò alla sporgenza offerta dal tetto. Con una spinta delle braccia, fu sul tetto della locanda: il punto più sollevato della  zona.
Non ci fu bisogno di aguzzare lo sguardo.
La voce la guidò.
«Così lo ammazzerete!»
Attenta a non inciampare nelle tegole, Cecilia percorse il pendio del tetto che si affacciava sul retro dell'edificio. Si acquattò sul bordo e guardò giù.
La porta sul retro della locanda era spalancata. E la donna era, in realtà, solo una ragazzina. Stava inginocchiata a terra, tra i sassi e la polvere del cortile: uno spiazzo deserto tra la locanda e una costruzione che Cecilia riconobbe come una stalla. Un soldato inglese ― la lunga giubba scarlatta non lasciava spazio a dubbi ― teneva ferma la ragazzina, costringendole il braccio in una posizione dall'aria dolorosa. Lo affiancava un altro soldato, con il moschetto in spalla.
La ragazzina non gridava per sé. Chiedeva pietà per la figura raggomitolata a terra.
Tre soldati avevano accerchiato un uomo. Tutti insieme, senza sosta, sferravano calci e colpivano con il manico dei moschetti, con rumore di carne sbattuta sul bancone di un macellaio.
In un'ondata di orrore Cecilia comprese che l'uomo a terra era Josiah Wheeler.
Un sesto soldato ― forse un ufficiale: aveva delle mostrine dorate sulle spalle e, al posto del tricorno, un alto copricapo coperto di piume ― con le braccia dietro la schiena, la spada a un fianco e il lucido manico di una pistola dall'altro, sembrava in soddisfatta contemplazione dell'operato dei sottoposti.
Il terrore di Cecilia non fu dissimile da quello che, tanto tempo prima, aveva provato nei boschi del tenuta, alla mercé di un lupo affamato. Braccia e gambe si fecero pesanti come pietra, il respiro si congelò nel petto e i polmoni iniziarono a bruciare.
Dal signor Wheeler si levò un gemito spezzato che pareva dover essere il suo ultimo respiro.
«Basta!» gridò la ragazzina, in lacrime.
E Cecilia si riscosse: il bruciore si era risolto in un'implosione di rabbia.
La mano destra scattò verso l'impugnatura della daga, ma le dita si bloccarono al primo contatto con la liscia pietra. Sei soldati. Sei uomini avvezzi al combattimento, armati di moschetti, spade e pistole. Anche con quello che le aveva insegnato Connor, affrontarli tutti insieme sarebbe stato una sentenza di  morte. 
I muscoli ancora caldi, il cuore che pompava veloce come dopo una corsa forsennata, Cecilia si voltò per risalire la pendenza, a passi rapidissimi ma leggeri. Balzò sul magazzino e dal magazzino alle casse, fino a rimettere i piedi a terra.
E dietro alle casse restò nascosta, sporgendosi il minimo indispensabile per controllare oltre l'angolo, prima di portare pollice e indice tra le labbra.
Fischiò forte. Fischiò tre volte.
L'ultimo fischio si spense e vi fu un interminabile attimo di silenzio. Cecilia temette di essere sul punto di vomitare il suo stesso cuore, mentre il sudore le incollava la camicia alla schiena e la mano faceva scivolare la daga fuori dal fodero. Era terrorizzata dalla possibilità di non possedere il coraggio necessario per usare davvero l'arma su di una persona. Non ci pensare, si scongiurò. Agisci. Con un movimento del polso, roteo l'arma, ritrovandosi con la punta verso l'alto.
Un debole scricchiolio di sassi e l'ombra sul terreno a tradirono l'avvicinarsi di un soldato.
Cecilia si ritirò dietro la cassa, pronta a scattare a tradimento, come un serpente nascosto sotto una pietra.
Il soldato, moschetto in spalla, sbucò oltre l'angolo.
Lei lo vide prima che lui si accorgesse di lei.
L'uomo aveva superato la cassa di un passo appena quando la lama della daga affondò tra i suoi reni. Si udì un suono, come di stoffa strappata. L'uomo inarcò la schiena, ma non urlò: il dolore inaspettato doveva avergli sottratto il fiato. Cecilia, che aveva spinto metà della lama nella carne, spinse ancora di più, ruotando l'impugnatura. Avvertì il soldato barcollare. Lesta, lo afferrò il retro del colletto della giubba, ritirò la lama e assecondò la caduta, facendo stendere il corpo, in preda agli spasmi, dietro la cassa.
Non le fu concesso tempo di rendersi conto delle sue azioni.
«Ohi! Fermo!»
Un secondo soldato aveva appena girato l'angolo.
Cecilia agì d'istinto.
Un passo di lato la salvò dall'affondo della baionettata. Chiuse la mano libera sulla canna del moschetto e con una spinta mantenne l'arma lontano da sé per l'attimo necessario a sferrare un calcio al ginocchio del soldato. Con uno scricchiolio preoccupante, l'uomo si piegò sulle gambe, mentre Cecilia sollevava l'altra mano, stretta attorno all'impugnatura del daga, mirando alla tempia, sostenuta da ogni piccola goccia di furiosa energia concentrata nel suo corpo. 
L'impatto avvenne e fu doloroso per entrambi. Cecilia dovette mordersi le labbra per trattenere un acuto gemito e il soldato, intontito dal colpo, impossibilitato a reggersi saldamente su entrambe le gambe, oscillò di lato e batté la testa contro il bordo della cassa. Il tricorno ruzzolò via e l'uomo stramazzò sulla schiena. Cecilia, con il braccio indolenzito, rinfoderò la daga. Pestò senza pietà tra le gambe del soldato. Quello guaii e lei riuscì a strappargli via il moschetto. Un sibilo e poi un tonfo soffocato: Cecilia aveva piantato la baionetta tra le viscere del soldato.
Ma il trambusto era stato troppo.
Un terzo soldato corse sul posto in quell'esatto momento.
Colpendo la canna dell'inglese con quella del moschetto rubato, con un schianto secco, come di un ramo spezzato, Cecilia riuscì a deviare l'arma nemica di lato e verso il basso. L'istante successivo, la baionetta, già sporca di sangue, si stava conficcando nell'inguine del soldato.
Il soldato lasciò la propria arma, per stringere le mani sulla canna. Un rivolo di sangue scuro gli sfuggì dalle labbra, mentre fissava Cecilia con occhi increduli e insieme terrorizzati. E Cecilia, orrificata, avvertendo un rigurgito salirle alla bocca, tirò via la lama. Una chiazza vermiglia si allargò sulle braghe del soldato, che finì prima in ginocchio e poi bocconi, mentre Cecilia arretrava di scatto di tre passi.
Un dolore indicibile alla schiena le succhiò via il fiato dai polmoni.
Boccheggiò. Il moschetto le cadde di mano. Al secondo colpo ― un pugno alla bocca dello stomaco ― crollò piegata su se stessa, una guancia premuta tra l'erba e gli occhi socchiusi. Si sentì sul punto di soffocare. Non sentiva più aria nel petto e il dolore dallo stomaco si espanse a tutto il corpo, ingabbiando ogni singolo muscolo.
Il tacco di un stivale nero premette sulla sua spalla con la violenza riservata alla carcassa di bestia. Cecilia rotolò sulla schiena. Sbatté le palpebre. Trovò la punta di spada alla gola. Era stato l'ufficiale a colpirla. Prima alle spalle, poi allo stomaco. L'uomo ora la scrutava dall'alto, truce, ma più sorpreso che minaccioso. «Una donna?» mormorò.
«Signore...»  disse una seconda voce maschile, «sono morti!»

* * *

Cecilia venne costretta a inginocchiarsi sulla breccia e non sarebbe riuscita a tenere la schiena dritta se uno dei soldati non le avesse stretto una mano sulla spalla. L'avevano trascinata sul retro della locanda, legato i polsi e sottratto la daga. Davanti a lei, l'ufficiale stava esaminando l'arma. Senza dire nulla, la gettò via, come fosse stata un torsolo di mela. La daga cadde a una ventina di passi di distanza, rimbalzando sui sassi con un fiacco rumore metallico. 
Il signor Wheeler e la ragazzina erano rimasti sotto l'occhio vigile dell'ultimo soldato. Josiah giaceva ancora a terra, immobile e con gli occhi chiusi. Era svenuto, forse. Cecilia non osò pensare al peggio. La ragazzina, stravolta dal pianto, stava piegata su di lui.
«Chi sei?»
L'ufficiale interrogò Cecilia e Cecilia, senza rispondere, lo guardò dritto in volto. L'inglese dimostrava una trentina di anni increspati su un viso dall'espressione irosa e spazientita. Aveva la mascella larga e del sangue rappreso a un angolo della bocca.
«Chi è questa donna?»
L'ufficiale si rivolse alla ragazzina.
Quella trasalì. «Non... non lo so...»
«Dimmi chi è!»
«Non lo so! Lo giuro! Non l'ho mai vista prima!» singhiozzò.
«Dice la verità» intervenne Cecilia. La parole vennero esalate a fatica, ma con fermezza.
L'ufficiale tornò su di lei. La squadrò per un lungo momento. «Bugiarda» decretò. «Siete entrambe complici di quest'uomo.» Le sue parole era appesantite dall'odioso accento inglese.
Cecilia non aveva la più pallida di cosa l'ufficiale stesse dicendo. Mi impiccheranno. Solo questo le attraversò la mente. La consapevolezza fu come una ferita che si fa notare prima per il sangue e solo dopo, molto dopo, per il dolore. Non pensò a chi avrebbe lasciato in questo mondo o a cosa non avrebbe mai avuto la possibilità di vivere. Guardò la ragazzina: terrorizzata e tremante, lo sguardo basso e il viso arrossato, una patetica incarnazione della paura. Allora, tutto ciò a cui riuscì a pensare fu alle innumerevoli volte in cui lei non aveva saputo far altro che ubbidire e abbassare lo sguardo. Se solo, si disse, avesse vissuto con maggiore coraggio, con maggiore scaltrezza, con più determinazione, forse la vita non l'avrebbe condotta a una forca alla vigilia dei sui diciotto anni.
L'ufficiale portò le mani dietro la schiena. Ispirò rumorosamente dal naso e la sua voce acquistò il tono di annoiato annuncio. «Josiah Wheeler, e sua sorella Elizabeth Wheeler, sono colpevoli del reato di contrabbando di armi e polvere da sparo. Quattro casse di moschetti sono state trovate all'interno della loro locanda. Ed è chiaro che le armi siano destinate alla milizia, in aperta trasgressione alle ordinanze del Governatore. Un reato che verrà punito con l'arresto―»
«E questo vi dà il diritto di accanirvi in tre su un uomo disarmato?»
«Ha fatto resistenza. Ha osato attaccarmi» disse l'ufficiale, spicciolo. Portò la mano inguantata di nero al fianco. «In quanto all'omicidio volontario di tre soldati dell'Esercito di Sua Maestà, la punizione è... la morte.» Estrasse la pistola. «Inutile un processo per chi è colto sul fatto.»
Puntò la pistola alla fronte di Cecilia.
Lei fissò la stretta e tonda bocca nera. La divorò un tremito di paura, ma non trasalì. Non implorò. Non disse nulla. Abbassò le palpebre e attese.











Angolo Autrice.
Vediamo finalmente una Cecilia costretta a ricorrere alle sue acerbe capacità di lotta. Sì, è andata male. Molto male. Ed è proprio per questo che è stato un capitolo divertente da scrivere. Se chi sta leggendo questa fan fiction, come immagino, conosce bene le tematiche del videogioco, ha giocato o letto i libri, spero non troverà nella descrizione dello scontro niente di particolarmente trucolento, per gli standard di Assassin's Creed. Per sicurezza, ho alzato il rating della storia ad arancione e aggiunto l'avvertimento violenza nelle note introduttive. 
Sappiamo che Connor è l'Assassino con lo stile di combattimento più brutale, cosa anche legata al suo background nativo americano (i nativi erano effettivamente abbastanza violenti nelle tecniche di combattimento, non avevano certo l'eleganza di uno spadaccino europeo). Nella fanfiction, sappiamo che Cecilia ha trascorso più di due anni ad assorbire lo stesso tipo di approccio allo scontro. Da qui, la sua rozza 'tecnica', che consiste nel colpire a tradimento e nei punti più deboli.
Fatto questo breve appunto, rinnovo i ringraziamenti ai miei recensori e/o lettori silenziosi – che, ho visto, nelle ultime settimane essere aumentati!

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Capitolo 17
*** La legge del taglione ***


THE CORNFLOWER CAP 17


















XVII

La legge del taglione










Wheeler's Inn. Due miglia da Braintree. 6 settembre 1774

«Signore... aspettate!»
Cecilia sollevò le palpebre ― i sassi le si stava conficcando nella ginocchia, il cuore martellava nelle orecchie ― e ritrovò l'occhio cieco della pistola puntato verso il suo viso.
«E perché mai aspettare, signor Sloper?» volle sapere l'ufficiale.
«Magari... prima... possiamo farci qualcosa» rispose il soldato che vigilava su Elizabeth e sul corpo inerte del signor Wheeler.
Cecilia era troppo agitata per comprendere. Guardò Sloper. Era palesemente il più giovane. Non mostrava un filo di barba, aveva un naso schiacciato e storto, come se in passato fosse stato rotto da un pugno, e occhi di un grigio acquoso che stavano ricambiando lo sguardo di Cecilia con malsana insistenza.
«Non vi bastano tutte le puttane di Boston?» sospirò l'ufficiale.
«Sì ― ma mi piacciano di più quando non le devo pagare. E quando sono spaventate.»
Cecilia comprese di cosa stavano discutendo e il respiro le tremò nel petto, che si alzò e si abbassò con violenza. Ma l'orrore non soverchiò l'orgoglio. Continuò a fissare Sloper, concedendosi solo di battere le palpebre, sforzandosi di ignorare il gelo che le aveva invaso le guance. Doveva essere diventata pallida come uno straccio.
«E sia» concedette l'ufficiale, dopo un attimo di apparente riflessione. Abbassò la pistola. «Che le sia di lezione» scandì. «Sulla forca ci finirà ugualmente. Nel frattempo, che le venga ricordato qual è il suo posto.»
Cecilia portò lo sguardo sulla corda attorno ai polsi. Contrasse la mascella e rimase muta e immobile, a dispetto della nuova ondata di furia che le correva nelle vene, come lava, tanto incandescente da annichilire la paura e il dolore fisico. Ma chi erano loro per credersi autorizzati a darle una lezione, a umiliarla e a violarla, a decidere quale fosse il suo posto? Chi li aveva elevati a giudici e giustizieri?
Elizabeth ebbe un fremito di rabbioso coraggio. «Siete delle bestie!» sputò, tra lacrime.
«Taci!» le intimò l'ufficiale. «O sarai la prossima.» Con un pigro movimento della mano, coperta dal guanto nero e scricchiolante, fece cenno a Sloper di servirsi.
Quello venne avanti soddisfatto, con un sorriso trattenuto a stento. Si rivolse al soldato alle spalle di Cecilia: «E tu ― non ne vuoi un pezzo?»
«No.»
Sloper rise.
«Scommetto che se fosse stato un ragazzetto ― ma da dietro, che differenza ti fa?» Con la coda dell'occhio, Cecilia lo vide portarsi una mano all'inguine, mimando un gesto osceno.
«Non ho voglia di fottere a pochi metri dai cadaveri ancora caldi dei miei commilitoni» fu la secca risposta del terzo soldato.
«Bell, sei sempre stato un gran―»
«Signor Sloper!» lo interruppe l'ufficiale. «Abbiamo intenzione di impiegarci tutto il giorno?»
«Signore» disse Sloper, «non... non credo di riuscirci... con un pubblico...»
Allora fu Bell a ridere di scherno.
L'ufficiale sembrava al limite della pazienza. Gesticolò, stizzito, verso le stalle e porse la pistola a Sloper. Il soldato si cavò il tricorno dal capo e lo affidò, assieme al moschetto, alle mani di Bell. Costrinse Cecilia ad alzarsi in piedi, afferrandole un braccio, e le fece sentire la presenza della pistola premuta tra i reni.
Cecilia non oppose resistenza. In silenzio, con gli occhi lucidi e bassi, si lasciò condurre dentro le stalle come svuotata di energia e volontà, come un debole involucro di carne alla mercé dei più bassi istinti del suo carceriere.
Lo fece di proposito.
Una volta nelle stalle, Cecilia venne investita dal lezzo pungente del bestiame misto al polveroso odore di fieno. C'erano solo due cavalli da posta: due robusti pezzati che scossero il capo, e le criniere nere, quando Cecilia e Sloper passarono loro davanti. Il soldato spinse la ragazza fin sul fondo della stalla, oltre l'ultimo tramezzo, che avrebbe nascosto la scena che stava per consumarsi a chiunque si fosse affacciato all'ingresso. Cecilia udì il ronzio di una mosca. C'era una piccola finestra lasciata socchiusa ― le ante rivolte verso l'esterno; resti di paglia sulle assi del pavimento e ganci per le coperte alle pareti. Sotto la finestra, una panca sulla quale era sistemata un piatto cesto di vimini, pieno di attrezzi da maniscalco. Tra tenaglie e raspe, chiodi e tirachiodi, Cecilia individuò un martello.
Sloper le tirò i capelli, costringendola a piegare la testa all'indietro, mentre la spingeva verso la parete. Poi, la fece voltare e Cecilia urtò la schiena contro la parete. Il ragazzo le circondò il collo con la mano libera. «Ora ― vediamo come si apre questo tuo bel vestitino.» Abbassò la pistola, per assicurarla alla cintola. Nel farlo, per un misero istante, uno e uno soltanto, distolse lo sguardo da Cecilia e chinò il mento.
Il quel medesimo istante, il collo del piede sinistro di Cecilia si abbatté tra le gambe del soldato e entrambe le mani colpirono l'incavo del braccio steso. La presa sulla gola, già allentata dall'inaspettato dolore, cedette.
Accadde tutto con la rapidità di un lampo.
Sloper, rosso in viso, si piegò in avanti, con una mano tra le gambe, l'altra in cerca della pistola.
Ma la pistola era caduta sul pavimento.
Cecilia lo afferrò per i capelli sulla nuca, lo spinse ancora più in basso e una violenta ginocchiata raggiunse Sloper in pieno viso.
Il ragazzo imprecò, con la voce soffocata dal dolore, e dalla mano premuta sul viso sporco di sangue, e Cecilia scattò verso la panca.
Sloper, la cui vista doveva essersi annebbiata quanto la mente, colse il movimento con un attimo di fatale ritardo.
Cecilia sfilò via il martello. Ruotò su sé stessa. L'arnese colpì la testa del soldato, come una mazza da cricket si sarebbe abbattuta su una palla, e Sloper cadde steso su fianco. Aveva una tempia sfondata.
Cecilia non volle guardarlo. Sicura che gli altri due soldati stessero per accorrere, si gettò nella forsennata ricerca di qualcosa, tra gli attrezzi, in grado di liberarla dalla corda. La punta di grosso chiodo si rivelò capace di spezzare qualche filo della treccia e il nodo si allargò il poco sufficiente per permettere a Cecilia di sfilar via il polso destro, proprio mentre udiva dei passi dietro il tramezzo.
Scivolò verso la pistola.
Bell comparve davanti a lei.
Lo sparo riempì l'aria di scintille e fumo bianco. I cavalli spaventati si impennarono, nitrendo e scalpitando, e Bell fu lasciato ad agonizzare sul pavimento della stalla, con una pallottola nello stomaco.
Cecila salì sulla panca, spalancò le ante e balzò oltre la finestra. Corse dietro al carretto, abbandonato sul retro della stalle, nel timore di essere seguita dall'ufficiale. Tremava: minuscoli, incontrollabili tremiti che le scuotevano i muscoli brucianti di dolore.
Un grido la fece sobbalzare.
Era Elizabeth.
«Vieni fuori!» urlò l'ufficiale. «Vieni fuori, dannata puttana, o ammazzo quest'altra!»
Cecilia inghiottì un'imprecazione e abbandonò il riparo.
«Sei scappata?» continuava a sbraitare l'ufficiale. «Tanto ti ritrovo! Giuro su Dio, ti ritrovo e ti impiccho con le mie mani!»
Cecilia aveva percorso il lato corto delle stalle, tenendosi accanto al muro. Sbirciò oltre l'angolo: l'ufficiale era al centro del cortile, teneva Elizabeth per i capelli e il filo della spada premuto sul collo della ragazzina. Ma Cecilia vide anche altro. Qualcosa che l'ufficiale, nel pieno dell'ira, non stava notando. Velocissima ripercorse i suoi passi. Gettò via la pistola scarica, balzò sul carro e ne sfruttò il rialzo per aggrapparsi alla sporgenza del tetto, con un tale sforzo delle braccia che credette di essere sul punto di cedere.
«Lasciatela andare!» gridò, in piedi sul tetto.
L'ufficiale vide Cecilia. Sarebbe potuto correre a raccogliere un moschetto. Invece, non lasciò Elizabeth e non abbassò la spada.
«Fai una mossa e la sgozzo!»
«No ― non lo farete. La vita della signorina Wheeler è la sola cosa che vi salverà dalla morte» esclamò Cecilia di rimando. Le mancava il fiato ma doveva tenere lo sguardo in quello dell'ufficiale, senza lasciarsi tentare dal guardare oltre la figura in divisa. Doveva far in modo che lui guardasse lei e lei soltanto. «Torcetele un capello e io ammazzerò voi. Come ho appena fatto con i vostri soldati. E non ho neppure avuto bisogno delle mani libere per farlo. Perciò non sottovalutate la mia minaccia!»
L'ufficiale parve vivere un istante di reale e allarmata esitazione.
«Tu―strega! Cagna indemoniata!»
«Vi prego di non consegnare ad altri i miei meriti» ribatté Cecilia.
L'ufficiale venne privato dell'ultima parola. Ansimò. Sgranò gli occhi. La spada si allontanò dal collo di Elizabeth, dapprima lentamente, poi come trascinata giù da un peso invisibile, e l'uomo seguì il destino della sua arma, crollando tra la polvere e i sassi.
Un passo dietro al cadavere, il signor Wheeler, pallido e ansimante, stringeva la daga di Cecilia.

* * *

Cecilia si fissò le mani: piccole, sporche e spellate. Aveva le nocche rosse e le dita così indolenzite da far quasi fatica a muoverle. Era sempre stata convinta che uccidere costituisse una scelta a volte necessaria, ma inevitabilmente terrificante, e impossibile da portare a termine senza sacrificare una parte di sé stessi. Era sempre stata convinta che l'omicidio fosse qualcosa di cui non sarebbe mai stata capace. Ma quel giorno aveva ucciso. E adesso dov'era l'orrore? Dov'erano la vertigine e il rimorso? Non l'attanagliava nessuna vergogna. Nessun senso di colpa. Nessuna voglia di piangere né desiderio di poter tornare indietro e non lasciare la fattoria. Era rimasto solo uno sbiadito eco di rabbia e disgusto, avvolto attorno al cuore, come una sottile guaina di cuoio.
E restava il dolore fisico: mai in vita sua ne aveva provato tanto e tutto insieme. Si sentiva come se fosse stata investita da un tiro un sei. I muscoli della cosce bruciavano, quelli delle spalle erano come stretti in una tenaglia, respirare era forse il solo azzardo che poteva permettersi, senza che da una qualche parte del suo povero corpo non giungesse immediatamente in risposta una fitta di dolore. Elizabeth le aveva tastato con delicata attenzione i polsi e le dita, il busto e la schiena. Non c'erano niente di rotto e niente fuori posto.
Cecilia le aveva chiesto come ne sapesse tanto di ossa rotte.
«Nostro zio ha una farmacia a Braintree» aveva risposto Elizabeth. «L'ho assistito per mesi. Fino a quando non ha trovato un vero apprendista.» [1]
«Un apprendista vero?»
«Un uomo.»
Per essere una ragazzina, Elizabeth Wheeler si era ripresa sorprendentemente in fretta dallo spavento. Non erano serviti sali o divanetti sui quali svenire. Passato il pericolo, si era asciugata le guance e aveva aiutato Cecilia a trasportare il signor Wheeler all'interno della locanda. Poi, l'aveva controllato e medicato, mentre Cecilia spostava i cadaveri dentro le stalle.
Un gemito si levò dal letto: il signor Wheeler, spogliato della camicia, stava tentando di sollevare il busto. Cecilia, al momento sola con lui, non aveva tempo di imbarazzarsi. Josiah poteva reggere il confronto con l'Apollo di Fidia, ma era stato ridotto a un tappeto di lividi e il gonfiore gli stava fagocitando il bel viso, trasformandolo in una maschera deforme, con un labbro rotto, un sopracciglio spaccato e del sangue rappreso sotto il naso. Elizabeth gli aveva trovato due costole incrinate e la macchia scarlatta, sul fazzoletto al braccio sinistro, diventava ogni secondo più scura e più larga: si era guadagnato un taglio di un baionetta nel suo folle tentativo di tenere testa ai soldati inglesi.
«Vostra sorella ha detto che non dovete muovervi» gli ricordò Cecilia. Con un braccio a circondare mollemente il costato, se ne stava vicino alla finestra, sulla sedia appoggiata alla parete bianca. Erano nell'ala della locanda che fungeva da abitazione per i proprietari; la camera, spoglia e pulita, era quella che Elizabeth condivideva con la sorella minore. Quest'ultima, insieme alla madre ― aveva saputo Cecilia ― era a Braintree, dove sarebbe rimasta ospite dello zio per l'intera settimana.
Una smorfia del signor Wheeler le lasciò intendere quanto poco tenesse conto delle raccomandazioni della sorella.
«Perché vendete armi di contrabbando?» domandò allora Cecilia.
«Non... non sono in vendita» rispose l'uomo, ansimando per la fatica. Strinse i denti. Dovette tornare a distendersi. «Sono state raccolte e nascoste per la milizia. Verranno a prenderle questa notte. Se solo le giubbe rosse fossero rimaste alla larga da qui ancora per qualche ora!»
«Come sapevano che nascondevate delle armi?»
«Non lo sapevano. Vanno setacciando casa per casa.»
«Perché?»
«Non sapete degli ultimi piani di Gage?»
«So solo che ha fatto posizionare dei cannoni a Beacon Hill e che un reggimento si è accampato al Neck. Non riceviamo molte notizie alla fattoria. E quando arrivano, arrivano in ritardo.»
«Gage ha ordinato il sequestro di tutta la polvere da sparo della provincia. A Boston, il colonnello Brattles ha consegnato le chiavi della polveriera agli ufficiali inglesi e, a un miglio da Winter Hill, Maddison ha svuotato la Powder House.»  [2]
«Perché il governatore ha tanta paura di lasciare la polvere da sparo in giro? Non siamo in guerra.»
Wheeler sospirò rauco, gli occhi azzurri al soffitto.
«Non lo siamo, signorina Carter?»
Cecilia fu scossa da uno spasmo che non aveva nulla a che fare con il dolore.
«No. E se mai ce ne sarà una, non sta a voi deciderlo. Men che meno ai Figli della Libertà. Perché credete che sia stato convocato un Congresso?»
«Vi assicuro che l'attesa di una decisione da parte del Congresso è l'unica cosa che trattiene il popolo. Ma la pazienza è agli sgoccioli e la gente... la gente è furiosa. Avete appena visto, con i vostri occhi, quale trattamento ci riservano gli inglesi. Dovremmo lasciare che ci disarmino? Che ci rendano incapaci di reagire? Di difenderci?»
«Io ho incontrato sei uomini di scarsa intelligenza e morale inesistente. Mi rifiuto di credere che tutti i soldati e tutti gli inglesi siano inclini a un comportamento simile.» Mio padre era un soldato. E un inglese. Il pensiero colpì Cecilia inaspettatamente. Non pensava mai a suo padre.
«Il cuore tenero delle donne» commentò, amaro, il signor Wheeler.
«Questo non è il giorno più adatto per sostenere la tesi della tenerezza del mio sesso.»
L'uomo voltò il capo per guardarla e Cecilia colse nitidamente un cruccio tra il gonfiore. Non le fu difficile prevedere quale dubbio stava iniziando ad agitarsi dietro la fronte del signor Wheeler.
«Come ci siete riuscita?» esalò lui. «Uno dei soldati ha il cranio fracassato... voi combattete? Voi combattete come...»
«Come un selvaggio?» lo anticipò Cecilia, quasi a sfidarlo a pronunciare il termine. «Erano uomini vili e arroganti» tagliò corto. «Si sono scavati la fossa da soli.»
«Sì, ma voi siete solo una piccola don—»
«Quello che mio fratello sta cercando di dirvi» Elizabeth rientrò nella camera, portando con sé una scatolina di legno, «è che siamo in debito con voi, signorina Carter.» Mise la scatola sul tavolo, già occupato da un catino di acqua. Trasse dalla scatolina un ago e un rocchetto di filo di cotone. Poi, sedette sul bordo del letto e iniziò a occuparsi del taglio sul braccio del fratello. Dovette avvertire lo sguardo di Cecilia sulle sue mani, perché dopo qualche attimo disse: «Non è più difficile che rammendare una vecchia camicia.»
Il signor Wheeler grugnì quando l'ago bucò la pelle. «Sta attenta, donna.»
«Le vecchie camice piagnucolano di meno.»
«Che ne farete dei cadaveri?» chiese Cecilia.
«Quelli» disse il signor Wheeler, succhiando aria tra i denti per sopportare il dolore, «hanno bisogno di un nascondiglio migliore.»
Cecilia restò in silenzio per un lungo momento, il viso basso, in contemplazione degli stivali impolverati.
«Dovreste depredarli.»
«Prego?» Elizabeth interruppe il suo lavoro di sutura per rivolgerle un'occhiata sorpresa.
«Erano soldati» riprese Cecilia. «Quanto ci vorrà prima che altri si accorgano della loro scomparsa? Tutti sanno che in, questa zona, ci sono stati attacchi di briganti negli ultimi tempi. Dobbiamo togliergli qualsiasi oggetto di valore abbiano addosso. Bruciare il bruciabile. Sbarazzarci del resto. E abbandonare i corpi nel bosco, almeno a due o tre miglia da qui. — Oh, e anche il sangue va fatto sparire.»
I due fratelli la stava fissando. E lei capì cosa vedevano: la signorina Carter, l'orfanella della fattoria Adams, che senza batter ciglio illustrava un modo per occultare una serie di omicidi.
Uno spettacolo grottesco.
«Se ne occuperà la milizia...» sussurrò il signor Wheeler.
«No. Nessuno al di fuori di noi tre dovrà mai sapere che cosa è successo. Se dovessero venire a portarmi via con un mandato d'arresto, saprò chi è stato a parlare. Nasconderò io i corpi. Voi avete un carretto e dei cavalli, io so come confondere le tracce. E venendo qui ho visto più di un posto, in mezzo alla vegetazione, dove abbandonerei una cadavere, se fossi un brigante.»









NOTE STORICHE
[1] Nel diciottesimo secolo, il ruolo e le capacità dei farmacisti coincidevano quasi interamente con quelle dei dottori e non pochi esercitavano anche il mestiere di dentisti, chirurghi e ostetrici. Esistevano scuole di medicina ma la maggior parte imparava il mestiere attraverso un apprendistato.
[2] L'episodio storico che fa da sfondo a questo capitolo, e al precedente, è quello del Powder Alarm. Tra il 31 agosto e il 1 settembre 1774, il governatore Gage, per stroncare sul nascere i tentativi di rivolta dei coloni, decise di rimuovere tutte le forniture militari presente sul territorio della colonia, a partire da Boston. Benché si trattasse inizialmente di un'azione segreta, la notizia si sparse in fretta e la voce (falsa) che gli Inglesi stessero cercando di ridurre al minimo le armi dei coloni perché sul punto di iniziare una guerra gettò panico e agitazione.








NOTE AUTRICE
Eccomi qui — a pubblicare in un ritardo a dir poco vergognoso. Prometto che non accadrà o almeno non dovrebbe accadere più, perché i restanti capitoli di questa seconda parte della fan fiction sono praticamente tutti scritti e completi. A questo proposito, per chi si stesse giustamente chiedendo quando torneremo a vedere Connor e a riallacciarci alla trama principale del videogioco, la risposta è: negli ultimi due capitoli della seconda parte — e ciascuna parte è formata da undici capitoli. Detto ciò vado finalmente a rispondere alla ultime recensioni — che non pensiate che non le abbia lette e apprezzate fino alla commozione *sniff* ❤❤❤
E un bacione e grazie a chiunque passi di qui! 


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Capitolo 18
*** «The house is in good hands» ***


THE CORNFLOWER CAP 18


















XVIII

«The house is in good hands»










Fattoria degli Adams. 8 settembre 1774

Le dita sfioravano i tasti della spinetta e gli occhi seguivano la collana di note sullo spartito. Cecilia ne sbagliò un paio, inciampò goffamente nel ritmo, ma nessuno parve farci caso e lei andò avanti, perché la leggerezza della contraddanza, spensierata come le chiacchiere in una caffetteria, allegra come i passi dei ballerini in una taverna, era un balsamo per la noia della sera.
La signora Adams sedeva sul divanetto, immersa in un libro di storia; il viso stanco e tirato, le occhiaie segnate ma la fronte distesa. Fino a pochi minuti prima era stato Johnny a leggere a voce alta dal libro. In tutta la provincia, la situazione era talmente incerta, talmente preoccupante, che persino le scuole erano state chiuse, ma la signora non aveva alcuna intenzione di permettere allo spauracchio della guerra di rovinare l'istruzione della sua prole. Ogni sera esigeva che Johnny e Nabby si esercitassero nella lettura. Ora, concluse le due consuete pagine obbligatorie a testa, i bambini erano stati liberati: Nabby ricamava vicino al caminetto, sotto la guida di Sally; Johnny se ne stava seduto su una cassapanca sotto alla finestra, con il mento affondato sul braccio, a guardare fuori nella semioscurità, tracciando sul vetro segni di fantasia con la punta del dito. Charlie, seduto sul tappeto ai piedi della madre, stringeva a sé Tommy, come fosse stato un pupazzo di pezza, e teneva i grandi occhioni marroni puntati sulle mani di Cecilia, che volavano senza sosta sui tasti. Charlie aveva smesso di nascondersi alla vista di Cecilia ma, per motivi che alla ragazza restavano oscuri, si rifiutava di rivolgerle la parola; e non importava quanto lei si sforzasse di essere gentile, di viziarlo con giochi e dolcetti, lui si ostinava a mettere il broncio e ad ammutolire.
John Adams era ancora a Philadelphia. Abigail continuava a scrivere lettere al marito ma da lui non era arrivata una sola riga di risposta. Tuttavia, sapevano con certezza che era a Philadelphia: avevano letto sui giornali dell'apertura del Congresso, e si sentivano libere di sperare che fossero gli impegni a sottrarre al signor Adams il tempo per scrivere. O che le lettere di lui fossero andate perdute lungo il tragitto. Oppure che non si fosse ancora trovato il modo per far giungere i messaggi a Braintree. Intanto,
di giorno la signora Adams mandava avanti la fattoria e di notte si lasciava attanagliare dalla preoccupazione. Aveva confidato a Cecilia di non riuscire mai a prendere sonno prima della mezzanotte ― e lei avrebbe voluto dirle che comprendeva la sua ansia più di quanto potesse immaginare. Cecilia pensava ogni giorno a Davenport Manor. Gli dedicava tutti i suoi pensieri prima di addormentarsi. Ma le sembrava anche di pensarci ogni giorno un po' meno. E che l'emozione che accompagnava i suoi pensieri per Connor fosse, ogni giorno, un po' meno l'apprensione di un'innamorata ― o che tale si credeva ― e un po' di più la naturale premura di un'amica.
Cecilia sollevò le mani dalla tastiera, sostituì lo spartito e si gettò nell'esecuzione di un secondo brano.
Quando il mattino precedente ― il mattino del suo diciottesimo compleanno ― gli spartiti erano stati consegnati alla fattoria, avvolti in una delizioso pacchetto e accompagnati da una lettera di auguri da parte di Mary Waxon, Cecilia era rimasta piacevolmente incredula. Non aveva mai comunicato a Mary la sua data di nascita ― sospettò quindi che l'informazione doveva essere finita tra le lettere della signora Adams alla signora Waxon ― e l'unico accenno che Cecilia aveva mai fatto al suo amore per la musica era stato in un momento di pausa, dopo il pranzo offerto dal colonnello, quando lei, Mary e James avevano cercato la tranquillità dello studiolo, lontano dai discorsi di politica. Ma era sempre stata certa che le sue parole fossero andate perse nel fiume di chiacchiere di Mary ― e in quando a James, lui leggeva vicino alla finestra, completamente disinteressato.
«Soldati!»
Un brusco accordo stonato mise fine alla musica.
«Arrivano i soldati!» esclamò di nuovo Johnny; si era tirato in ginocchio sulla cassapanca e indicava fuori dalla finestra.
La signora Adams fu la prima ad avvicinarsi alla finestra; e Cecilia ringraziò il Cielo che Sally e Nabby fossero troppo occupate a seguirla a ruota, per accorgersi di lei che, alzatasi troppo in fretta dallo sgabello, non riuscì a nascondere una smorfia per il dolore alla schiena e dovette cercare l'appoggio della cassa della spinetta.
Poi, con studiata calma, raggiunse Sally, davanti alla finestra.
Sally strinse il braccio di Cecilia e Cecilia avrebbe voluto avere lei qualcuno a cui stringersi: la coscienza sporca si faceva sentire. 
Ma non erano soldati inglesi quelli che avevano appena superato la curva della strada, riempiendo la quiete della campagna con il suono di passi pesanti e cadenzati.
Era uomini della milizia. Ed erano tanti. Non se ne vedeva la fine ― tanto che Cecilia pensò dovessero essere più di un centinaio. Marciavano in ordine, in perfetto silenzio, preceduti da un grosso carro vuoto. Un colpo di vento dispiegò la bandiera che uno dei patrioti portava alta come uno stendardo e, alla luce rossastra delle lanterne, Cecilia riuscì a vedere il disegno sulla bandiera.
Il serpente diviso in otto parti. Join, or Die ammonivano le parole.
«Mamma, dove stanno andando?»
«Non lo so, Johnny» La signora Adams teneva le mani sulle spalle dei due figli maggiori, che le si erano affiancati. «Davvero non lo so.»

* * *

Lo specchio, sul tavolino ovale che fungeva, a seconda del momento, da scrittoio o da angolo della toletta, rifletteva il viso di Cecilia e il suo distratto accarezzarsi i capelli chiari con la spazzola. Forse era per via delle ombre causate dalla candela, lì sul tavolo, ma mai il suo volto le era apparso così pallido e così adulto: perduta ogni incertezza dell'adolescenza, sparita ogni rotondità infantile, i suoi lineamenti si erano fatti ancora più marcati e mascolini, mettendo in bella vista gli zigomi sporgenti e il disegno duro dalla mascella.
Cecilia batté le palpebre. Venne distratta da Sally: la vedeva nello specchio.
Era sul letto in camicia da notte. 
Fissava muta le lenzuola; i capelli sciolti in una bruna cascata di ciocche mosse e le ginocchia raccolte contro il petto.
«Sally, c'è qualcosa che non va?»
«No» si sentì rispondere, in un sussurro spento.
Cecilia continuò ad osservarla dallo specchio e Sally non si mosse.
«Sei silenziosa, questa sera.»
«Anche tu lo sei. Lo sei da quando sei stata alla locanda.»
Cecilia smise di spazzolarsi i capelli. E di guardare nello specchio. Mise giù la spazzola ― il regalo di compleanno da parte di Sally ― e sfiorò la pietruzza forata che le pendeva sul suo petto. Non aveva raccontato nulla di Wheeler's Inn. Non aveva il coraggio di dire a Sally cosa era successo al signor Wheeler né di dare pena alla signora Adams. Nascondeva i lividi, inghiottiva ogni fitta che echeggiava dal suo corpo indolenzito e quando non ci riusciva, se le chiedevano perché si muovesse tanto lentamente, rispondeva che la passeggiata fino alla locanda era stata stancante in modo sorprendente. Ma taceva anche ― e sopratutto ― per la paura di suscitare orrore. Forse Sally e la signora Adams l'avrebbero giustificata, considerato il genere di pericolo in cui si era trovata in balia, ma come l'avrebbero guardata, se avessero saputo cosa era stata in grado di fare ― e di farlo senza nemmeno riuscire a provare rimpianti? Ogni volta che chiudeva gli occhi riviveva gli attimi a Wheeler's Inn. Sentiva il lezzo della stalla, la mano del soldato stretta attorno al suo collo, le parole di uomini che parlavano di lei come fosse stata un pezzo di carne da sbranare. Non poter liberarsi di simili ricordi le sembrava una punizione sufficiente alla sua incapacità di provare pentimento ― e niente al mondo l'avrebbe convinta ad aggiungerci il dolore di perdere l'affetto e la fiducia di Sally e della signora Adams.
«Non è vero!» esclamò Cecilia, alzandosi. Andò ad arrampicarsi sul letto. «Ma se è vero, non l'ho fatto di proposito. E poi, non ricordo di essere mai stata una gran chiacchierona.» Raccolse i capelli di Sally tra le mani. Iniziò ad intrecciarli. Sally la lasciò fare. «Non preoccuparti per il tuo signor Wheeler. Lo sai che non è nella milizia. Non era tra quegli uomini.»
«Lo so, ma non è questo» disse Sally.
«Allora cosa?»
Sally alzò gli occhi e Cecilia li scoprì gonfi di lacrime.
«Scoppierà una guerra!» esclamò Sally, con la voce spezzata e tremante di chi ha trattenuto troppo un peso sul cuore. «Perché ― perché deve esserci un'altra guerra? Perché non ci lasciano stare? Perché non ci lasciano... vivere?»
«Ma di chi parli?»
«Di tutti! Del Re! Del Parlamento! Del Governatore! E di tutti... tutti i patrioti! Faranno scoppiare una guerra!»
«Nessuno ha detto che ci sarà una guerra.»
«Il signor Adams―»
«Il signor Adams parla di indipendenza, ma lui è solo uno dei cinque delegati inviati al Congresso. Gli altri... insomma, la maggioranza comprenderà che una guerra... una vera guerra... non è soluzione possibile. Quali speranze ci sono di vincere una guerra se non abbiamo nemmeno un esercito?»
«E quegli uomini in strada?»
«Sally... quelli non sono soldati. Sono fattori. Carpentieri. Commercianti. Uomini qualunque che hanno deciso di imbracciare un moschetto. E se non sarà il buon senso a salvarci da una guerra, lo farà l'egoismo. Le altre colonie non hanno motivo di consegnarci uomini e armi. Una singola colonia contro tutto l'Impero? ― No, non accadrà.»
«Parli di buon senso e egoismo, ma sottovaluti la stupidità.»
«Si troverà un accordo» insistette Cecilia. «Scommetto che da qui a un anno sarà tutto finito.» Sistemò una ciocca dietro l'orecchio di Sally. Sorrise. «E allora tu sarai già la signora Wheleer.»
Sally riabbassò gli occhi, ma azzardò a sua volta un sorriso. Piccolo e timoroso. Si rannicchiò contro Cecilia, appoggiandole il capo sulla spalla, e Cecilia le strofinò affettuosamente il braccio.
La consolazione fu breve.
Il silenzio notturno venne disturbato da un rumore che avevano già udito.
Corsero alla finestra.
La milizia era di ritorno, con il carro, ora carico, nascosto da un telo. Le ragazze guardarono il corteo sfilare, senza scambiarsi una parola, fin a quando, con somma sorpresa di entrambe, gli uomini si fermarono. Erano proprio davanti alla casa. A un cenno di un uomo a cavallo, in tre si staccarono dalla colonna e attraversarono il prato. Dei tre, l'uomo al centro si tolse il cappello dalle falde larghe. Guardava verso l'alto, verso il secondo piano, ma non in direzione della loro finestra.
Cecilia, compreso che la signora Adams doveva essersi affacciata dalla propria camera, aprì la finestra.
Udirono la voce della signora: «Signor Hammond. Stentavo a riconoscervi, in queste vesti.»
«Perdonate il disturbo, signora Adams. Gli ufficiali si chiedono se avete bisogno di qualcosa. Armi? Polvere da sparo? O qualche uomo a protezione della casa?»
«Vi ringrazio, signori, ma la casa è già in ottime mani.» [1]









NOTE STORICHE
[1] Quanto accade in questo capitolo è raccontato in una delle lettere di Abigail Adams: "[...] about 8 o clock a Sunday Evening there pass[ed] by here about 200 Men, preceeded by a horse cart, and marched down to the powder house from whence they took the powder and carried [it] into the other parish and there secreeted it. I opened the window upon there return. They pass'd without any Noise, not a word among them till they came against this house, when some of them perceiveing me, askd me if I wanted any powder. I replied not since it was in so good hands. [...]" ©Massachusetts Historical Society Archive.








NOTE AUTRICE
Poco o nulla da dire su questo capitolo ― più o meno un capitolo di passaggio. Fremono i preparativi per la guerra e intanto Cecilia, diventata maggiorenne, cerca di venire a patti con quanto sta comprendendo di sé stessa. Brutta bestia l'adolescenza. Passando ad altro: oltre ai consueti ringraziamenti a chi continua a seguirmi, un grazie va anche i nuovi lettori che si sono aggiunti nell'ultima settimana! Il prossimo capitolo ci porterà, con un bel balzo, in avanti nel tempo e molto, molto vicini a Connor.


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Capitolo 19
*** Fuochi nella baia ***


THE CORNFLOWER CAP 18


















XIX

Fuochi nella baia










Fattoria degli Adams. 17 giugno 1775

«Cecilia... sveglia! Svegliati!»
Cecilia venne strappata al sonno per ritrovarsi con le mani di Sally serrate sul braccio, immersa nel rarefatto chiarore di un'aurora, che aveva appena iniziato a dissipare il buio della camera da letto.
Cecilia scivolò sulla schiena. «Che c'è?» biascicò, con una voce impastata.
«Non li senti?» esclamò Sally in un soffio terrorizzato, sgranando gli occhi.
Fu necessario qualche attimo ancora, prima che Cecilia riuscisse a svegliarsi quel tanto necessario per comprendere l'agitazione di Sally.
Boati. Cupi e lontani boati nell'assoluto silenzio della campagna.
Cecilia guardò d'istinto verso la finestra e i rimasugli di sonno svanirono grazie alla peggiore delle epifanie. Gettò via le lenzuola e scese dal letto. Sally la imitò. Cecilia la prese per mano e a piedi nudi, accompagnate dall'ovattato scricchiolio del pavimento, uscirono nel corridoio: la porta della camera dei bambini era aperta e quella della camera padronale socchiusa.
«Io controllo i Warren» sussurrò Cecilia. «Tu va dalla signora.»
Mentre Sally percorreva il resto del corridoio, lei sospinse la porta più vicina. E un nuovo boato esplose in quell'esatto momento.
Nel letto, rannicchiati l'uno vicino all'altro, stavano quattro bambini. Svegli, visibilmente impauriti, non avevano osato mettere piede fuori dalle coperte. Betsy, Richard, Mary e Joseph erano stati affidati alle zelanti cure della signora Adams una settimana prima, quando il dottor Warren era partito per Cambridge, dove il generale Ward aveva riunito una fetta della milizia.
«Signorina Carter, che cosa succede?» domandò Betsy, la maggiore.
Sfoggiando a malincuore il sorriso condiscendente e menzognero di un adulto, Cecilia andò verso il letto e sedette sul bordo del materasso.
«Sono solo cannoni» disse, nel suo tono più dolce. Lisciò il risvolto delle ruvide lenzuola e le sistemò per coprire meglio i bambini. «Ma sono lontani. Molto, molto lontani. Non dovete avere paura.»
«Io non ne ho» enunciò il piccolo Joseph, con un'espressione troppo solenne per il suo morbido e rotondo visetto da cinquenne.
Cecilia gli carezzò il capino nero. «Bravo!»
«I cannoni sono vicini a papa, signorina Carter?» sussurrò Mary, fissandola con i grandi occhi azzurri, tali e quali a quelli del padre.
«Oh, no! Certo che no» rispose Cecilia. «Anche lui è lontano dai cannoni.»

* * *

Lasciata Sally a badare ai bambini, la signora Adams risaliva a passo svelto il pendio di Penn's Hill, tenendo Johnny per mano. Pochi passi più indietro, li seguiva Cecilia. Lei, come la signora, si era vestita in fretta: niente fazzoletto sulle spalle, niente cuffietta sul capo, i capelli sciolti sulla schiena.
Un blu scuro e opaco era ancora padrone del cielo, ma una striscia di luce sorgeva a oriente e non era difficile muoversi senza lanterne. Continuarono a camminare, veloci e in silenzio, con l'aria fredda nei polmoni e il boato dei cannoni nelle orecchie. I grilli cantavano. I cani, nelle fattorie vicine, abbaiavano e ululavano senza sosta.
Giunsero in cima alla collina. Baluginii giallastri, piccoli e sfuggevoli come lucciole, riempivano la baia di Boston. Cecilia non ebbe più dubbi. Erano i cannoni delle navi inglesi che facevano fuoco: vedeva brillare la luce, un istante di silenzio, e poi il boato. Sparavano verso Charlestown. [1] Ma perché? si chiedeva Cecilia, con un nodo alla gola. Perché la città?
Che i patrioti avessero preso di mira le colline sopra Charlestown non era un mistero. L'avevano saputo pochi giorni prima dal signor Wheeler, che aveva confidato loro i piani degli ufficiali con la sentita raccomandazione di non farne parola con nessuno, nemmeno con i vicini, poiché i Tories avevano orecchie ovunque. Dopo quanto accaduto alla locanda quasi un anno prima né le preghiere delle sorelle né le suppliche di Sally, erano riuscite a smuovere Josiah dal suo desiderio di unirsi alla milizia e, al termine della visita, Cecilia, non volendo, aveva scorto i due fidanzati da una finestra mentre si scambiavano l'ultimo saluto: in giardino, in piedi l'uno di fronte all'altra; Josiah stringeva le mani di Sally. Si dissero qualcosa. Si baciarono. Cecilia a quel punto si era pudicamente allontanata dalla finestra, provando una gran tenerezza per i sentimenti di lei, una certa comprensione per il desiderio di rivalsa di lui e una rabbiosa angoscia per il futuro di tutti.
Nessuno poteva più credere che non ci sarebbe stata una guerra. Nemmeno Cecilia poteva. Non dopo la notizia degli scontri, due mesi prima, a Lexington e a Concord. [2] Non dopo aver visto famiglie intere scappare da Boston, ormai fortificata dall'esercito e dai lealisti, in cerca di rifugio e ospitalità nelle fattorie e nei villaggi vicini. Da settimane si viveva nella paura di leggere sui giornali che la guerra era iniziata, che nuove truppe erano sbarcate, che altre città erano state occupate. Persino la signora Adams — persino lei, che per mesi e mesi non si era mai permessa, neppure per un attimo, di lasciare prevalere una pur ragionevole apprensione sulla forza d'animo — dopo le notizie arrivate da Lexington e Concord, una sera, rimasta sola con Cecilia davanti al fuoco morente della cucina, si era chiesta a voce alta che cosa ne sarebbe stato di tutti loro se la guerra avesse portato violenza nelle campagne e dove sarebbero andate se, com'era probabile, fossero state costrette ad abbandonare la piccola fattoria. Cecilia era solo riuscita a pensare a quanto fosse stata buona la scelta di tenere in casa un moschetto e una pistola.
Il sole stava sorgendo. «Questo mia cara Cecilia» mormorò la signora Adams, la mano in quella del figlio, «potrebbe essere il giorno in cui verrà decisa la sorte di tutti noi.»
Restarono in cima a Penn's Hill per lunghissimi minuti, senza parlare, a guardare i fuochi nella baia con una certezza: se anche un'ultima speranza di pace era sopravvissuta fino ad allora, la stavano adesso sgretolando i colpi di cannone.

* * *

Le ore della mattina erano trascorse con una lentezza snervante. I boati non avevano mai smesso di farsi sentire. A tratti, i cannoni tacevano per qualche minuto — alcune pause erano state abbastanza lunghe da portare a sperare in un cessate il fuoco — ma la speranza continuava a rivelarsi vana: arrivava sempre un nuovo boato e, a volte, quando più cannoni sparavano in contemporanea, l'esplosione diventava talmente potente da far vibrare tutti i vetri delle finestre. In simili condizioni era impossibile vivere la giornata come nulla fosse. I lavori domestici non vennero sfiorati e il pranzo ridotto al minimo indispensabile per reggersi in piedi.
Adesso se ne stavano tutti riuniti nel salottino. Sally, sul divanetto, era pallida come una malata; da quando si erano svegliate, non aveva toccato nemmeno un boccone di pane e aveva lo sguardo lucido e arrossato di chi si trova sull'orlo di un pianto nervoso. I bambini erano più fortunati. I più piccoli, abbattuti dalla stanchezza, erano stati portati al piano di sopra, a dormire nei loro letti. I più grandi, silenziosi e consci di quanto stava accadendo, occupati il tappeto e il tavolo, riuscivano a distrarsi con i giocattoli: i pupazzi di stoffa e i cavallini di legno, le tessere di un vecchio puzzle e qualche biglia colorata che rotolava qua e là, sul vecchio pavimento di legno. Cecilia e la signora Adams erano davanti a una finestra. Per tutta la mattina aveva sperato che qualcuno, chiunque in grado di portare notizie, passasse davanti alla loro porta, ma la strada era rimasta deserta e ora cercavano di decidere se fosse più saggio attendere ancora oppure mandare Cecilia fino alla locanda.
La ragazza volse lo sguardo in alto, aggrottando la fronte: il cielo era limpidissimo e il sole delle tre era un accecante occhio di luce. Si rimise in contemplazione della strada. Guardò verso nord, da dove giungevano i boati. E guardò verso sud, dove il familiare gruppo di alberi nascondeva la piega verso est presa della strada.
Un cavallo sbucò oltre la curva.
L'animale era lanciato al galoppo, il cavaliere stava piegato sulla sella e la corsa portò il cavallo davanti alla staccionata della fattoria. Le redini vennero tirate, il cavallo si fermò e Cecilia vide l'uomo scivolare giù dalla sella, a peso morto.
Trasalì. «Ma è ferito...»
La signora Adams non permise alla sorpresa e all'indecisione di immobilizzarla. «Bambini. Andate di sopra. Subito! Sally, Cecilia... con me.» Raccolse l'orlo del vestito e si precipitò all'ingresso.
Le ragazze la seguirono a ruota.
Lo sconosciuto si era rimesso in piedi ma, per riuscire a reggersi sulle gambe, cercava il sostegno del cavallo, mentre la povera bestia, stranita dai boati, raschiava nervosamente gli zoccoli tra i sassi della strada.
La signora Adams fu subito accanto all'uomo.
«Sally — aiutami!»
Entrambe offrirono le proprie spalle come sostegno.
Cecilia fece appena in tempo a scorgere le fattezze dell'uomo — sembrava avanti con gli anni e aveva il viso butterato, scavato dalle cicatrici del vaiolo — prima di sentirsi ordinare: «Cecilia, togli il cavallo dalla strada.»
La ragazza prese le briglie.
Il cavallo nitrì, scosse il lungo collo e indietreggiò.
«Sshh! Buono... buono!»
L'animale parve quietarsi un poco e Cecilia poté vedere Sally e la signora Adams aiutare l'uomo a raggiungere la porta. Erano troppo occupate a scongiurare una caduta per notare che il pugno destro di lui, oltre la spalla di Sally, si era allentato. Ne scivolò via qualcosa che a Cecilia parve una catenina.
Non appena scomparvero all'interno della casa, lei tirò via il cavallo dalla strada. Si fermò là dove aveva visto cadere la catenina. La ritrovò subito, tra l'erba, e la raccolse. Alla catenina era unito un pendente. Il cuore di Cecilia prese a battere forte. Strinse il ciondolo nel pugno e non perse tempo. A passo svelto, condusse il cavallo nella stalla; aprì la a bisaccia appesa alla sella, frugò all'interno, non trovò nessun chiaro indizio sull'identità dell'uomo. Allora, corse in casa. Passando dalla porta della cucina, trovò Sally e la signora Adams nel salottino. L'uomo era stato messo a sedere su una sedia. Aveva la palpebre socchiuse sugli occhi piccoli e infossati, il panciotto aperto e la camicia, inzuppata di sangue, sollevata a scoprirgli un fianco. China su di lui, la signora Adams sembrava intenta a capire la gravità della ferita, mentre Sally sistemava sul tavolo un catino d'acqua e canovacci puliti sul tavolo.
Cecilia avanzò di impulso verso l'uomo. «Perché avete questa?» esclamò. Il ciondolo pendeva verso il basso, esposto alla vista di tutti: una croce rossa, con i quattro bracci di identica lunghezza. «Appartiene a voi?»
L'uomo sollevò le palpebre. Fissò la croce. Scosse debolmente il capo.
«E allora perché—?»
«Cecilia!» chiamò la signora Adams, in un sibilo, come a ordinarle di tacere. «Se non vuoi aiutare, va di sopra e controlla i bambini.» Fece un cenno a Sally e Sally le passò un canovaccio.
L'uomo gemette a denti stretti quando la signora Adams iniziò a lavare via il sangue dalla ferita.
Cecilia mosse un passo indietro ma non uscì dalla stanza, troppo occupata a immaginare un artefice della ferita per ricordarsi di sbattere le palpebre.
«Sally—va in cucina, per favore» riprese la signora. «Metti a bollire le radici di echinacea.»
Sally obbedì. Cecilia le andò dietro e l'avvicinò mentre lei rovistava tra i barattoli della dispensa.
«L'uomo... vi ha detto chi è?»
«Dice di chiamarsi Brewer» sussurrò Sally. Le tremava la voce. «E che era alla guida di un reggimento diretto a Bunker Hill. Gli inglesi li hanno intercettati. C'è stata una battaglia, ma erano in svantaggio per numero e munizioni... è stato un mezzo massacro, ha detto.»
Cecilia tornò nel salottino, decisa a ottenere una risposta, che la signora Adams giudicasse il momento adatto o meno.
«L'avete preso agli inglesi il pendente?»
Brewer aggrottò la fronte. Poi, mosse il capo in segno di assenso.
«L'ho strappato via a uno degli ufficiali—perché... perché continuate a chiederlo?»
Ma Cecilia non rispose e l'uomo allungò una mano verso il polso della signora Adams.
«Dove... dove sono gli uomini di questa casa?»
«Non ce ne sono» disse la signora Adams.
«Ci siamo solo noi.»
«Allora... dovete... chiamare qualcuno.»
«Sì, un medico. A voi serve un medico» lo interruppe la signora Adams.
«No! No... trovate un uomo. Un uomo fidato. Che possa cavalcare fino a Bunker Hill. Putnam ha chiesto i rinforzi. Non arriveranno. Sono da soli... devono saperlo. Speravo... speravo di riuscire ad arrivare io stesso più vicino... »
Cecilia guardò la signora Adams. La donna tenne lo sguardo basso, fermo sulle proprie mani, che stringevano il panno pregno di sangue e di acqua. Stava chiaramente riflettendo, in fretta, ma senza lasciar trapelare alcun segno di agitazione.
«Signora!» Cecilia non riuscì a restare in silenzio. «Bussare alle altre fattorie, o peggio andare fino a Braintree, spiegare quello che è successo e trovare un uomo pronto a partire... sarebbe un inutile perdita di tempo. Andrò io. Lasciatemi prendere Red. — E per il medico... Sally... lei può andare a chiedere aiuto ai Parris. Loro hanno cavalli, e uomini. Saranno in città in un attimo.»
«Ma è ridicolo...» esalò Brewer.
Cecilia lo ignorò e perseverò nel fissare il profilo della signora Adams.
«So cavalcare veloce. Lo sapete. E posso partire immediatamente.»
«E ammesso che riusciate a resistere in sella per più di dieci miglia—»
«Sono più robusta di quanto immaginiate.»
«E poi come pensate di avvicinarvi senza un lasciapassare?»
«Ne scriverete uno voi» asserì di colpo la signora Adams. Non diede tempo all'uomo di protestare ulteriormente. «Ora tacete e risparmiate le forze. Sally!» La ragazza si affacciò subito nella stanza. «Carta e calamaio per il colonnello. Cecilia, indossa gli abiti da viaggio.»
Meno di cinque minuti più tardi, Cecilia appoggiava il piede, calzato nello stivale, sulla staffa. Si issò sulla sella, con la daga e la pistola al fianco sinistro, e la lettera firmata dal colonnello Brewer al sicuro, sotto la giacca. Red era il solo cavallo della fattoria adatto al viaggio: un arabo dal mantello rossiccio, una bestia veloce e nervosa. La ragazza si calcò il tricorno, che l'avrebbe protetta dal sole di quelle ore calde, sui capelli raccolti in una coda bassa.
Un colpo di talloni e il cavallo partì al galoppo.












NOTE STORICHE
[1]  Nel 1775 Charlestown era un piccolo insediamento sulla costa meridionale di una penisola a nord di Boston.
[2] Il 19 aprile 1775, nei pressi dei villaggi di Lexington e Concord, uno scontro armato vide impegnati un contingente di truppe britanniche e un gruppo della milizia coloniale. La battaglia, conclusasi con la ritirata degli inglesi e la vittoria dei reparti coloniali, segnò l'inizio ufficiale della guerra di indipendenza. Lexington e Concord è anche una della sequenze giocabili in Assassin's Creed III: Connor aiuta a difendere Lexington e Concord dall'attacco dell'esercito britannico, guidato da John Pitcairn.

Nella prima metà del capitolo ho seguito il più fedelmente possibile le vicende storiche, dal risveglio a suon di colpi di cannone, alla presenza dei figli di Joseph Warren fino a Penn's Hill. Nella seconda parte, invece, la realtà si limita a due particolari: il nome del colonnello e il fatto che parte dei rinforzi chiesti da Israel Putnam non giunsero mai. Infine, un appunto: quella di affidare alle donne il compito di portare messaggi e/o lanciare allarmi divenne, nel corso della guerra, pratica abbastanza comune. In parte perché i coloni sapevano che le donne avrebbero suscitato meno sospetti (era ritenuto pressoché impensabile affidare un messaggio importante alle mani o alla memoria di una donna) abbassando di conseguenza le possibilità che il messaggero venisse arrestato e perquisito. Tra i casi più famosi, si potrebbe citare Sybil Ludington. La notte del 27 aprile 1777 cavalcò da sola sotto la pioggia per quaranta miglia, lungo una strada alla mercé dei banditi, per avvertire gli americani dell'avvicinarsi degli inglesi. Aveva solo sedici anni e percorse il doppio della distanza di Paul Revere, la sua più famosa controparte maschile.









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