As I was for you

di Porrima Noctuam Tacet433
(/viewuser.php?uid=177380)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hector- Affetto ***
Capitolo 2: *** Brianna-Paura ***
Capitolo 3: *** Adolphe-Promessa ***
Capitolo 4: *** Jerome- Rabbia ***
Capitolo 5: *** Etienne de Sancerre- Fiducia ***
Capitolo 6: *** Guillaume de Ponthieau- Comprensioni ***
Capitolo 7: *** Henry De Grandpré- Difese ***
Capitolo 8: *** Kerwick-Vendetta ***
Capitolo 9: *** Filippo Augusto-Destino ***
Capitolo 10: *** William Lunga Spada- Ricordi ***
Capitolo 11: *** Henri de Bar- Amicizia ***
Capitolo 12: *** Thomas Bull- Casa ***
Capitolo 13: *** Il Leone ***
Capitolo 14: *** Harald- Padre ***
Capitolo 15: *** Beau Foxworth- Maestro ***



Capitolo 1
*** Hector- Affetto ***


Hector

Hector non sapeva esattamente quando aveva cominciato a provare affetto per Geoffrey Martewall. Non era un sentimento costruito su anni di esperienze. Hector era al suo servizio da un tempo relativamente breve.

Ne era rimasto colpito appena lo aveva visto. Non si era fatto molte idee su come sarebbe stato il figlio del barone di Dunchester. Geoffrey Martewall era un giovane uomo, poco più che un ragazzo. Avrebbe potuto essere suo figlio, probabilmente. Hector dovette ammetterlo controvoglia: in principio, come molti prima di lui, aveva commesso l’errore di sottovalutare il Leone di Dunchester.

Conoscendolo meglio, poi, aveva imparato a non farsi ingannare dal suo aspetto giovanile. Aveva un esperienza da veterano e lo spirito di una buona guida, oltre ad una abilità personale nella scrima che Hector non aveva mai visto prima. Le sue strategie erano vincenti, funzionali, e il suo pensiero correva sempre all’obbiettivo di tenere in vita i suoi uomini.

Così si era guadagnato il suo rispetto.

L’affetto, in realtà, non sembrava interessargli molto. Se lo guadagnava insieme alla fiducia, ma quasi inconsapevolmente. Le sue azioni non erano dettate dall’opportunismo, e forse questa era la cosa che più aveva stupito l’uomo disilluso  per molti aspetti che era Hector.

Martewall gli aveva riportato la speranza. Quel sentimento che si contrapponeva al sottile e persistente dubbio che Hector aveva sempre provato nei confronti di ogni feudatario o signore che aveva avuto modo di conoscere. Con Geoffrey era stato sicuro fin da subito, in chissà che modo, della sua integrità morale.

Il suo sguardo non era limpido, ma perennemente freddo e tormentato e ricordava il mare in tempesta. Eppure la presenza del suo forte onore risiedeva sempre sul suo viso, nell’espressione, nei gesti e sormontava ogni ombra sfuggente dei suoi occhi.

Ed Hector capì presto, tra uno scontro armato e l’altro, che avrebbe dato la vita per lui e non solo per lealtà. Si sorprese a cercarlo sempre più spesso in guerra con lo sguardo e, dato che la fiducia che riponeva nel suo signore sembrava ricambiata, cominciò a seguirlo con sempre più frequenza. Diventò, di fatto, il braccio destro che molti signori avevano e desideravano e che Geoffrey forse non aveva mai avuto, né voluto.

Lo era diventato in modo naturale, e Geoffrey glielo aveva lasciato fare.

Hector lo capiva. Comprendeva il suo bisogno di prendere le distanze e non forzava il suo carattere per natura solitario con troppe e fastidiose offerte d’aiuto. Faceva sentire la sua presenza senza pensare che Geoffrey avesse effettivamente molto bisogno di lui, mettendo i suoi servigi a disposizione per qualsiasi ordine avesse ricevuto.

Il giovane barone lo ricompensava con la sua totale fiducia, e la sua accondiscendenza quando Hector dimostrava di preoccuparsi per lui. Il fiammingo non avrebbe potuto chiedere di più. Il suo signore odiava il pensiero che qualcuno prendesse tanto a cuore la sua sorte da rischiare la vita per lui e ne rimaneva tuttavia lusingato.

Non era una persona semplice da servire, da capire. Ne era consapevole lui stesso, eppure vedeva che alcune persone, Hector per primo, non si stancavano mai di provarci.

E preoccuparsi per lui era spesso un compito faticoso.

Se Geoffrey fosse stato libero da ogni legame avrebbe fatto ciò che riteneva giusto senza pensare alla sua vita, ma solo ai suoi obiettivi. Di legami vincolanti ne aveva, ma continuava a curarsi molto poco di se stesso, e quindi questo rimaneva un compito che gravava sui suoi uomini più fedeli.

Hector si era accorto di non conoscere del tutto il suo signore quando lo aveva rivisto dopo cinque mesi, appena uscito dalle prigioni francesi dei Soissons.

Osservando il suo comportamento nei giorni seguenti aveva capito che c’erano ancora troppe ferite che il suo animo indomito tentava di sanare ogni giorno, troppa voglia di liberarsi da qualcosa. Prima erano i francesi, poi la morte di una persona cara, poi il disonore, della sua persona e di quella del suo amico morto raggirando i principi della cavalleria.

Questo addolorava Hector, il fatto che il suo signore non riuscisse a darsi pace.

Ma allo stesso tempo, non importava, perché non avrebbe mai disobbedito a nessuno dei suoi ordini, mai, così come non avrebbe mai incolpato il suo signore per le sue azioni, sapendo che non avrebbe sopportato tutta questa indulgenza, ma anche che, presto o tardi, avrebbe rimediato ad ogni errore commesso.

Aveva fiducia in lui, semplicemente, così come l’aveva sempre avuta.

Sapeva che avrebbe riavuto indietro il Geoffrey Martewall che non era schiavo della sua rabbia, e che sapeva distinguere la voglia di vendetta dalla sete di giustizia.

 

*

 

Lo trovò sulla cinta muraria,  i gomiti poggiati al parapetto e lo sguardo rivolto verso il bosco, con le sue chiome che sfioravano il cielo grigio striato d’arancio di un tramonto che prometteva pioggia. Aveva il solito portamento fiero e ombroso di quei giorni, di un leone ferito ma imbattuto e più forte nella sua sofferenza.

Hector indugiò per un istante, prima di avvicinarsi e decidere di distoglierlo dai suoi pensieri. Lo vide voltare appena il capo al suono dei suoi passi e lo interpretò come un muto invito a parlare.

« Signore, perdonatemi, la vostra presenza è richiesta nella Sala Grande da sir Fitz Walter e sir Cornhill, oltre che da lord Salisbury. » pronunciò l’ultimo nome con un filo d’incertezza. Sapeva che il suo signore non riusciva ancora a non ritenerlo almeno in parte responsabile per la morte di suo padre.

Tutto quell’astio derivava dal fatto che Geoffrey pensava ancora al giorno della presa di Dunchester. Non aveva rifiutato con tutte le sue forze di andare in Francia come ostaggio, pensando di fare la cosa giusta. Ed Hector sapeva che era stata la cosa giusta da fare, ma sapeva anche che il suo signore si sarebbe rimproverato sempre di non essere stato presente per combattere per la vita del padre.

Geoffrey poggiò i palmi sul muretto di pietra, raddrizzando la schiena.

« Grazie, Hector. » si voltò verso di lui e lo trapassò con il suo chiarissimo sguardo di ghiaccio, freddo e penetrante.

Hector poteva avere un’idea vaga di ciò che gli passava per la testa, questa volta. Non si era ancora del tutto ripreso dalle ferite che i mercenari di re Giovanni gli avevano lasciato come punizione per aver aiutato il suo signore a fuggire. A pensarci bene, era stato fortunato. Se il castello fosse stato solo in mano loro, probabilmente lo avrebbero ucciso.

Geoffrey si accertava della sua buona salute ogni volta che lo guardava, e nei suoi occhi passava una rabbia a stento sopita, che aspettava solo l’occasione giusta per essere scatenata contro i suoi nemici. Hector non avrebbe mai voluto essere nei loro panni, pensava con un ghigno amaro.

Re Giovanni probabilmente non aveva idea di ciò che aveva liberato.

Il giovane barone non era ancora riuscito a districarsi dai suoi pensieri, forse perché in fondo non voleva farlo. Hector lo vide incrociare le braccia al petto e poggiare la schiena al muretto, e pensò di ricordargli che lo stavano davvero attendendo, nonostante non sapesse esattamente quanto questo potesse importargli.

« Signore… »

« Mi dispiace, Hector… » disse Geoffrey, guardandolo negli occhi con decisione e una punta di sincera preoccupazione « Mi dispiace per ciò che hai dovuto subire.» e accennò alle fasciature che spuntavano da sotto la tunica di Hector, tetro.

«È stato un onore farlo per voi, mio signore. » rispose il luogotenente, con orgoglio, dopo un breve istante di piacevole sorpresa.

Lo sguardo di Geoffrey si incupì.

« Da domani, saremo in guerra. » disse, osservando il borgo sotto di lui. «Personalmente, non aspetto altro. » aggiunse, con occhi fiammeggianti di sfida. « Ma gli uomini che ho portato qui dalla Fiandra hanno già sofferto molto per una terra che non è la loro. Se voleste tornare a casa vostra, non vi biasimerei, né ve lo impedirei. »

Hector rimase immobile dallo stupore. Non che fosse strano, per Geoffrey Martewall, fare un discorso del genere, il fatto era che al suo luogotenente non era mai passata per la mente quell’idea.

Tornare in Fiandra…

« Significherebbe smettere di servirvi, signore. Nessuno di noi desidera questo. » affermò, quasi di slancio. Se Geoffrey, nello stato d’animo in cui si trovava, gli avesse ordinato di tornare in Fiandra, lui cosa avrebbe fatto?

Il giovane lo osservò in tralice per un momento.

« La vostra guerra è anche la nostra. Non importa il nostro paese d’origine. » aggiunse Hector, deciso a fargli entrare il concetto in testa una volta per tutte.

Il barone parve riflettere sulle sue parole e una miriade di pensieri indefinibili attraversarono le iridi grigio acciaio.

« Credo di aver conosciuto un’altra persona come te, Hector. Lui ha riposto la sua fiducia e la sua fedeltà in una causa e in un signore, ed è diventato ciò che serviva a quel signore, abbandonando il suo paese natale e facendo sua la guerra della persona a cui era rimasto fedele. »

Hector ascoltava in silenzio, colpito. Il viso di Geoffrey non tradiva ombre di rimpianto. Il fiammingo cercò qualcosa da dire, ma si ricordò che col suo signore molto spesso le parole non servivano.

« Capite, quindi, i motivi che mi spingono a rimanere in Inghilterra. » disse, comunque, tastando il terreno.

Non era certo che il suo signore capisse veramente cosa i suoi uomini vedevano in lui. Una guida, un faro sempre acceso, mentre lui credeva di portare solo ombra sul suo cammino.

Infatti, dopo qualche secondo Geoffrey scosse appena la testa.

« Ma capisco di essere fortunato. »

Hector ghignò, rassegnato. Non era questione di fortuna. Ma ciò che voleva dire Geoffrey gli si rivelò comunque, anche se il modo in cui il concetto era stato espresso era grossolano e molto vago.

Goffrey emise un mezzo sospiro e si diresse con passo deciso verso le scale, facendo segno col mento ad Hector di seguirlo.

Hector non si fece attendere e si incamminò dietro di lui alla vista di quel gesto impercettibile, come aveva fatto molte volte in passato e come avrebbe fatto ancora in futuro.

 

*

Hector non aveva mai visto Reginald Cornhill e Robert Fitz Walter. A Bouvines non c’erano, si erano recati al Sud per fronteggiare Luigi il Delfino, principe di Francia.

Erano seduti sugli sgabelli che i famigli usavano nel refettorio, disposti intorno al tavolo lungo di legno scuro. Avrebbero potuto scegliere una sistemazione più comoda, ma evidentemente non era il loro principale interesse, al momento, e poi dovevano essere stati costretti ad attendere il padrone di casa, che avrebbe dovuto invitarli a sedere sugli scranni più comodi riservati ai cavalieri del castello e al barone di Dunchester.

Ma quando arrivò Geoffrey Martewall non fece nulla di tutto ciò. Si limitò ad osservarli, in un primo momento, riservando uno sguardo appena più lungo a Salisbury, che come gli altri si era alzato per stringergli la mano.

Reginald Cornhill era un uomo navigato, così come Fitz Walter. Al contrario suo, però, aveva i capelli grigio topo molto corti e gli occhi scuri caldi e rassicuranti.

Fitz Walter invece portava i capelli neri più lunghi, anche se anche a lui li avevano tagliati quando lo avevano fatto prigioniero in Francia, dopo la disfatta. I suoi occhi erano di un verde chiaro e inflessibile. 

Sembrava  conoscere personalmente Geoffrey, perché lo chiamò per nome e sembrò sinceramente felice di vederlo, anche se i suoi occhi, come quelli di Cornhill, tradivano una punta di imbarazzo e preoccupazione. Hector non ne fu stupito. Non si sapeva mai cosa dire quando ci si trovava davanti ad una persona in lutto.

Nella stanza aleggiava un’atmosfera tesa, come se nessuno volesse davvero trovarsi in quel posto, al cospetto del signore di Dunchester che ancora faticava a ritenersi tale, e con la consapevolezza che si sarebbe potuto evitare il peggio se avessero agito prima.

Nessuno dei due baroni voleva davvero guardare in faccia Geoffrey. Eppure lo fecero ugualmente.

Non fu Fitz Walter a prendere per primo la parola, né Salisbury. Il primo osservava Geoffrey e poi lo scranno che era stato di sir Harald, in tralice e con una silente e malcelata sofferenza.

« Sir Geoffrey, ci fate aspettare come al solito, ma è sempre un grande piacere incontrarvi. » scherzò Reginald Cornhill, con l’intento di mettere a suo agio Geoffrey e sciogliere la tensione, come sembrava abituato a fare ormai da tempo.

Ma Geoffrey era perfettamente a suo agio. E non aveva voglia di scherzare. Lui non aveva mai voglia di scherzare.

Trapassò il cavaliere più anziano con uno sguardo di ghiaccio.

« Scusatemi se vi ho fatto attendere, signori. Non mi biasimerete, ne sono certo. Mio padre vi ha atteso a lungo, e invano. »

La sua affermazione cadde come acqua gelata sulla sala. Cornhill guardò in basso con un’espressione sinceramente mortificata. Era piuttosto strano vedere un barone più anziano chinare il capo davanti ad uno più giovane, ma Hector non se ne stupì più di tanto. Geoffrey incuteva sempre una certa soggezione.

Fitz Walter chiuse gli occhi per un breve istante. Lunga Spada invece non parve stupito, né abbandonò l’espressione calma e decisa.

« Conservate la vostra rabbia per Giovanni, sir Martewal. Vi servirà, credetemi. »

Gli occhi del giovane balenarono nella sua direzione con una luce pericolosa nello sguardo. Hector immaginava che non volesse sentirsi dare ordini da lui, non più, anche se non poteva evitarlo. Né tanto meno voleva accettare consigli.

«Lo farò. » disse, sedendosi e accavallando le gambe, con la voce vibrante di rabbia tenuta a freno. «E quando con lui avremo finito, con un po’ di fortuna me ne avanzerà abbastanza per voi.»

Hector impallidì. Cosa gli passava per la testa, dannazione?! Rispondere così, a William Lunga Spada…

Il fiammingo serrò i denti e si irrigidì mentre una sottile paura si impossessava di lui. Osservò il suo signore, per incrociarne lo sguardo e tentare di ammonirlo, ma lui non lo stava affatto guardando e non c’era traccia di indecisione o preoccupazione sul suo viso.

Lunga Spada sospirò e per un attimo Hector vide il rammarico nei suoi occhi e nella piega delle labbra. Ringraziò il Cielo che fosse un uomo ragionevole.

« Non è il momento giusto per le minacce, questo, sir Geoffrey Martewall» disse, dopo qualche lungo istante di silenzio, guardando deciso il volto del giovane. Forse l’istinto gli aveva fatto capire che arrivare subito al punto della questione, evitando di attraversare argomenti inerenti la morte di sir Harald, fosse la cosa migliore da fare.

« Avete solo alleati fedeli, in questa sala. »

Geoffrey parve irrigidirsi appena e Hector sapeva che si stava trattenendo dal rispondere in un modo poco adatto. Il suo signore sapeva sopire i suoi istinti, soprattutto quando aveva un obiettivo ben preciso da raggiungere.

« Spero solo che non siano solo parole, a questo punto. » si limitò a dire, con la consueta asciuttezza.

« Non lo saranno. » affermò Fitz Walter, la voce profonda e lo sguardo infuocato. Hector non fece fatica a riconoscere in lui il carisma sicuro, fiero e  altero di una guida esperta. Di un futuro capo dei baroni ribelli, pronto a portare il peso di una condanna di tradimento per primo.

E si rese conto in quel momento che anche Geoffey Martewall, ormai da tempo, era pronto a portare quel peso, ad essere chiamato traditore per una giusta causa, per salvare il suo popolo, e anche per vendetta, forse, perché non riusciva del tutto a sopire la rabbia,  ma soprattutto…per essere dalla parte giusta. Come avrebbe voluto sir Harald.

Nella mente del fiammingo riaffiorarono le ultime parole che sir Harald aveva rivolto al figlio.

Sei un cavaliere e un uomo d’onore, non metterlo mai più in dubbio.

Geoffrey si stava sforzando di adempiere al suo volere fino in fondo e per sempre.

« Vi avremo completamente dalla nostra parte, senza alcun tipo di rancore, Sir Martewall?» chiese Lunga Spada, incrociando le dita in grembo con lo sguardo attento e sicuro di chi si aspetta già la risposta che desidera.

« Morirei piuttosto che negare alla mia gente la prospettiva di un futuro migliore, milord. E voglio vendetta per mio padre  e per ciò che il Senza Terra ha fatto a Dunchester, non posso negarlo. Aiuterò con tutte le mie forze l’uomo che mi aiutato a riconquistare la mia casa. » affermò Geoffrey, con la ferrea determinazione di un uomo che aveva un nuovo ideale, uno scopo, una nuova guerra da combattere in nome della giustizia e per un futuro migliore, come non accadeva da troppo tempo, ormai.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Brianna-Paura ***


Brianna

 

Esisteva quel genere di paura che si macchiava di disgusto. Brianna lo sapeva da sempre. Le persone capaci solo di farsi temere la disgustavano, anche se non era immune alla paura che portavano come un animale in una gabbia, non aspettando altro che liberarla e scatenarla contro le prede più inermi. Brianna provò una sorta di sottile ma agghiacciante paura quando vide il barone Adolphe de Gant. E quando seppe cosa aveva cercato di fare. Ma provò anche disgusto. Si armò del suo coraggio e del suo orgoglio per continuare a fare ciò che faceva ogni giorno, anche se la paura era sempre lì, in attesa di un minimo cedimento.

 

*

 

Lo aveva visto dalle finestre e non aveva capito subito perché la paura l’avesse attaccata a tradimento, così all’improvviso. Poi la verità le si era rivelata in un modo così evidente che Brianna non aveva potuto continuare ad ignorarla.

Lei non aveva paura per se stessa. Forse non era più stato così da quando aveva dato alla luce Beau.

Eppure questa volta non era il suo bambino, che non correva alcun rischio, a preoccuparla. E, sebbene fosse la persona più coinvolta, nemmeno Jean Marc de Ponthieu era al centro dei suoi pensieri.

C’era qualcosa che accantonava tutto il resto nella sua mente,  qualcosa che prescindeva dalla razionalità.

Qualcosa… o qualcuno.

 

 

*

 

Per Brianna, avere paura per  Geoffrey Martewall era terribile. Le lasciava il cuore gonfio della rabbia comune agli impotenti.

Il Leone era sfuggente, indomabile, e Brianna sapeva di non poter fare nulla per impedirgli di correre i rischi che si ostinava a ricercare.

Si pentì subito del pensiero, ritenendolo ingiusto. Sir Geoffrey si era messo contro Gant per salvare un amico e per quanto riguardava la guerra, stava facendo ciò che era giusto, assumendo con coraggio una posizione pericolosa. Brianna lo sapeva ma non smetteva mai di provare paura. Fin dove si sarebbe spinta la rabbia del crociato? Il suo odio era evidente quanto l’impotenza di una donna come lei.

 

 

*

 

« Madonna » salutò Gant con scherno, inchinandosi leggermente. « I miei rispetti. Come procede la gravidanza di dama Isabeau? »

Brianna percepì la sua ira, che cercava di sopire infastidendo proprio lei. Il suo tono la fece arrossire di rabbia.

« Non è quello che vorreste sentirvi dire, ma procede molto bene. » rispose, sentendo la paura scivolarle addosso, rintanarsi in un luogo buio del suo animo, lasciando posto ad un orgoglio testardo.

Gant contrasse la mascella, fuori di sé. Si avvicinò di un passo.

« State più attenta a ciò che insinuate, madame. Di insinuazioni disonorevoli se ne fanno molte anche sul vostro conto. » sibilò. Le iridi volarono in fondo al cortile, dove Geoffrey Martewall era appena arrivato.

Brianna rabbrividì e sentì qualcosa spezzarsi dentro di lei.

Gant le aveva aperto gli occhi in un istante su qualcosa che aveva dimenticato per un attimo, nell’arroganza delle sue fantasie.

« Siate gentile. » continuò Gant, mellifluo. « Nessuno di noi vuole che sir Martewall rischi più di quanto già non faccia. »

Brianna si morse le labbra con rabbia crescente.

« Siete ignobile. » mormorò tra i denti.

Per tutta risposta lei ricevette un sorriso ammaliatore e Martewall, che si stava avvicinando a grandi passi, un saluto beffardo.

 

*

 

« Cosa vi ha detto? » chiese Martewall, bruscamente, senza neanche salutare.

Brianna non si sarebbe offesa per i modi poco formali che il cavaliere sembrava pensare di potersi permettere con lei, tenendo conto della situazione e delle circostanze, e naturalmente perché era una persona semplice. Ma per qualche strano motivo si sentì irritata dal comportamento di Geoffrey.

Forse proprio perché era Geoffrey.

« Nulla. » rispose, secca, sistemandosi in braccio il cesto che doveva portare alla sua dama e facendo per andarsene.

Martewall la trattenne con un’urgenza che sembrava quasi ansiosa, stupito, nel contempo, dal suo tono gelido.

« Ditemelo. » ordinò, freddamente.

« Ho detto nulla. »Brianna doveva ammetterlo, ci stava prendendo gusto a fare i capricci, a fare la preziosa. Sapeva che non era il momento di scherzare, ma questa era la sua piccola vendetta per come Geoffrey l’aveva trattata poco prima.

Perché se l’era presa tanto per qualcosa di così stupido, poi?

Ma voleva davvero rispondersi?

In fondo, non poteva provare un genuino divertimento. Aveva provato a nasconderlo, a fare come se niente fosse, ma le parole di Gant le risuonavano nelle orecchie e il suo corpo veniva lentamente invaso da un’opprimente senso di disperazione.

Posò il cesto a terra, sentendosi per un  attimo pazza e troppo soggetta a frequenti cambiamenti d’umore.

Aveva solo voglia di buttare fuori tutto ciò che pensava. Di tener testa ancora una volta all’impotenza che la perseguitava.

Geoffrey parve intuire i suoi pensieri uno ad uno e la osservò preoccupato mentre gli occhi di lei si inumidivano diventando allo stesso tempo più duri e severi.

« Se vi ha dett… »

« Smettetela di pensare a cosa mi ha detto. » sbottò Brianna, prendendogli un polso, dimenticando la sua posizione, il rispetto distaccato che doveva ad un nobile, dimenticandosi chi era e di restare al suo posto di comune popolana.

« Ascoltate cosa ho da dirvi io. » non lo guardò negli occhi ma sapeva comunque che lo sguardo di Geoffrey era stupito come poche altre volte. « State attento… »

« Io… » tentò di intervenire, tentennante, Geoffrey, venendo subito interrotto.

« Non intendo solo con Gant. State attento in guerra. State attento e non… »

Morite, avrebbe voluto continuare, ma non riuscì a pronunciare quella parola. Aveva trattenuto tutti i suoi sentimenti per così tanto tempo, e li aveva, nonostante questo, compresi così poco, fino a quel momento.

Geoffrey fece scivolare il polso e le strinse una mano. Brianna strinse a sua volta la presa e lo osservò mentre annuiva.

 

*

 

 

Brianna non rimpianse quella mancata promessa. Già qualcun altro le aveva promesso che sarebbe tornato e non l’aveva fatto. La guerra era troppo imprevedibile, e la donna sapeva che Geoffrey avrebbe dato tutto se stesso e avrebbe combattuto fino al limite delle sue forze.

Non poteva cambiarlo.

Non voleva, anche.

Entrambi lo sapevano.

Ma avrebbe usato quella stessa tenacia per accontentarla e per restare vivo, Brianna ne era certa, anche se non sapeva quanto la sua richiesta, o forse la sua persona, potesse essere importante per lui.  Nel silenzio triste ma fiero di un amore non dichiarato, lei  avrebbe combattuto a sua volta per dominare la paura.

 

 

n.d.a.

Eccomi di ritorno!
E questa volta è il turno di Brianna. Potevo forse ignorarla? Sì, potevo, per tanto tempo l’ho fatto, poveretta.  Devo dirlo, per rendere più stuzzicante questa sfida con me stessa, avevo deciso di estrarre un prompt per questo personaggio.
Che idea pessima... nemmeno fosse un personaggio semplice...
Comunque, prima di avere un improvviso barlume di ispirazione, ero un po' tentata di non seguire il prompt "paura", anche se difficilmente ritorno sui miei passi. Solo che non riuscivo a farmi venire in mente qualcosa. Per questo spero che vi piaccia! Fatemi sapere sinceramente quel che ne pensate, se ne avete voglia, perché io non sono così convinta... : /In più non sono molto brava nel descrivere l’amore, infatti non so perché l’ho fatto : )
Per il prossimo capitolo non so quanto ci vorrà, mi spiace. Potrebbe essere due giorni come una settimana. La scuola sta già cominciando ad occupare tempo.
Grazie a Wrong and Right, che è una grande fan di Geoffrey come me e che ha recensito quando mi sono calata nei panni del povero Hector!
Ciao!

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Adolphe-Promessa ***


Adolphe

Il barone Adolphe de Gant osservava dalla postierla della torre l’uomo che aveva ricevuto le lodi dalla corte per aver salvato la preziosa vita del Falco d’Argento.

L’inglese venuto come messaggero e condottiero per conto del principe.

Il leone di Dunchester di cui tanto si narrava, l’uomo dalle stupefacenti abilità di spadaccino.

Gant sentì la rabbia salirgli alla gola alla vista di un nuovo, e forse più pericoloso, ostacolo ai suoi piani. Strinse i pugni fin quasi a farsi male, pur mantenendo quel filo di lucidità necessaria per pensare che nessuno poteva sopravvivere a tutto.

Non appena lo aveva visto, aveva capito che il Falco era tutt’altro che indifeso. Alle sue spalle aveva dei difensori, e tra questi Geoffrey Martewall era forse il più prezioso. Più lucido di Sancerre, più esperto di Henry de Grandpré, più spietato di De Bar.  Sarebbe stato un alleato stupendo. E se avesse avuto tempo,  se lo avesse conosciuto in altri tempi e in altre circostanze, senza avere il Falco tra i piedi, Gant avrebbe provato a creare una sorta di alleanza tra loro, perché vedeva chiaramente le ombre del suo sguardo, completamente estranee al suo amico Jean de Ponthieau, e aveva la presunzione di riuscire a comprenderle.

Non era poi così diverso dall’amico Jerome Derangale, di cui tanto si era sentito parlare.

Perché  decisamente, Geoffrey Martewall non sarebbe mai stato simile a Jean de Ponthieau. Troppa rabbia dimorava in lui, troppa voglia di vendetta. Sarebbe stato sempre lontano dalla vita di Jean e della sua cerchia di allegri amici feudatari.

Solo dopo, quando lo aveva osservato con più attenzione, aveva capito che ne era perfettamente consapevole. E che quella distanza veniva continuamente annullata da Jean, lasciandolo ancora leggermente spaesato, ma fiero.

E quando gli aveva parlato aveva capito che nulla avrebbe potuto plasmare a suo piacere una mente così testarda e solitaria. Non avrebbe mai tradito il Falco.

Questo lo avrebbe reso automaticamente una persona da eliminare, se non fosse stato costretto a partire per la prossima alba. Gant lo aveva incontrato la sera prima, e il suo sguardo si era incendiato d’odio. Per poche altre persone il suo odio si era mescolato al timore.

« Voi tornate alla vostra guerra, Martewall» gli aveva detto, sibilante « io tornerò alla mia. »

Martewall gli si era avvicinato e aveva incrociato le braccia al petto. Gant continuava a vedere ombre nuove nei suoi occhi, ognuna con un diverso significato, ma aveva la sensazione che qualcosa gli sfuggisse sempre.

« Non tornerete alla vostra guerra. Non l’avete mai lasciata. »

E se ne voleva andare così com’era arrivato, con la fierezza di un Leone. Dal suo sguardo Gant aveva capito che era consapevole del suo essere diverso e pericoloso, e lo era con un misto di sottile e abituale rimorso e determinazione. Se il crociato avesse fatto qualcosa al Falco, il Leone sarebbe arrivato come la personificazione della vendetta spesso biasimata, senza alcun rimpianto. Gant aveva provato l’impulso di tirare fuori il pugnale e ucciderlo lì, di osservare il suo sangue bagnare il pavimento e la sua bocca aprirsi in uno spasimo agonizzante.

Martewall aveva voltato appena il capo verso di lui con un sorrisetto divertito. Sapeva anche questo.

« Dovete sentirvi molto solo, sir. » gli aveva sputato addosso Gant, con una calma solo apparente.

Martewall aveva fermato il suo passo ma non si era voltato.

« Se così non fosse, allora guardatevi le spalle. Perché avete qualcosa da perdere. » lo aveva minacciato Gant, sorridendo sardonico.

Martewall gli aveva rivolto un’occhiata glaciale e non aveva risposto, lasciandolo solo nell’ingresso, allontanandosi col passo calmo dei vincitori. Allora Gant aveva sentito il presentimento della morte imminente, che aveva scacciato subito con rabbia.

Martewall pensava che lasciarlo nelle mani di Jean avrebbe segnato la sua fine come uomo d’onore. Ma non sarebbe stato così.

E Gant, osservando il barone inglese montare a cavallo e prepararsi alla partenza in compagnia del Falco, decise che doveva rimanere vivo almeno fino a che non lo avesse visto trionfare su Jean Marc de Ponthieau.

 

*

 

Il cielo pareva terso, coperto dal fumo che saliva a coprire l’intero villaggio. Le case bruciavano e il rumore sfrigolante del legno logorato creava un dolce sottofondo per le orecchie del barone di Gant, riempite di urla e pianti disperati.

Il barone sorrise apertamente al cielo e al fuoco, prima di darsi alla fuga.

Quando aveva capito che sarebbe stato Geoffrey Martewall ad ostacolarlo non era rimasto stupito. Ma aveva sentito lo stesso presentimento di quando aveva visto la schiena del cavaliere allontanarsi da lui, come per lasciarlo al suo destino già segnato.

Aveva stretto i pugni con rabbia accecante. Lui non era la preda, era il cacciatore.

Lo era da sempre.

E lo aveva dimostrato prima di aprirsi una via di fuga attraverso il villaggio, incendiando le case che gli sarebbero servite da diversivo.  Solo uno stupido non avrebbe capito che le parti non si erano mai invertite. Ora lui stava scappando, era vero, ma Geoffrey Martewall era già caduto nella sua trappola. Così come il Falco d’Argento.

Sorrise, gli occhi sporgenti per la soddisfazione. Ora cosa farai, Geoffrey Martewall? , pensò, con sarcasmo ed eccitazione, riuscirai a salvare quelle povere famiglie date alle fiamme o rinuncerai per seguirmi?

Spronò il cavallo, sapendo, con lucidità, di avere comunque poco tempo. Il cavaliere inglese di certo non avrebbe lasciato bruciare quelle persone, o sene sarebbe pentito per la sua intera esistenza, ma poteva comunque contare sui suoi uomini. E Gant lo sentiva sulla pelle: presto sarebbe stato vicino.

Ma sapeva anche che Martewall non aveva la sua volontà, né la sua capacità, di sfuggire al pericolo. La sua lealtà verso gli amici gli sarebbe stata presto fatale.

Voltò il capo all’indietro e lo vide. Cavalcava con abilità magistrale e lasciava cadaveri e sangue dietro di sé. Gant ebbe un improvviso tuffo al cuore e il respiro gli mancò per un istante.

La morte lo seguiva.

 

*

 

Non avrebbe mai pensato che sarebbe andata a finire così.

Si era sempre immaginato vincitore di ogni battaglia. Niente gli aveva mai dato motivo di temere il contrario.

Ora invece riusciva quasi ad immaginare il suo corpo morente visto dall’esterno mentre il suo orgoglio andava in pezzi. Riusciva a vedere la sua disfatta,  e non sentiva rimorso. Solo rimpianto, per non aver ucciso il Falco e la sua mente non si arrendeva all’idea della morte.

Anche se era chiaro persino a lui. Sarebbe finita entro pochi istanti.

Non gli importava dell’onore, ma del suo orgoglio sì. Ed adesso moriva miseramente, trafitto dalla freccia di un inetto. Il mantello nero di Martewall gli invase i pensieri.

E tutte le promesse che aveva fatto a se stesso parvero sfaldarsi davanti ai suoi occhi. Il Leone non avrebbe mai pianto la morte del Falco, non per mano sua.

 

 

Ehm… *si gratta la testa imbarazzata*…

Salve! Lo so, non è un granché, soprattutto la prima parte. Ed è inverosimile che Gant abbia parlato con Geoffrey prima che questo partisse. Però… però mi sono comunque affezionata a questa fic, e vorrei sapere cosa ne pensate voi. Inoltre ho capito che non la potevo allungare, né cambiare. Nonostante sia corta e non particolarmente entusiasmante, volevo pubblicarla e sentire le vostre opinioni.

Sono contenta di aver avuto il tempo di scrivere, questa settimana! Ora, la raccolta, secondo l’idea originale, sarebbe finita qui. Però non so… potrebbe anche venirmi voglia di scrivere da altri punti di vista, anche se non sarà così semplice, considerando il fattore “tempo” prima di tutto, e poi anche l’ispirazione. Ho una gran voglia di scrivere di Jerome, ma è un’idea ancora da definire.

Grazie infinite anche a chi legge solamente.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Jerome- Rabbia ***


Jerome Derangale

Rabbia

La prima volta che lo aveva visto, erano entrambi solo dei bambini. Geoffrey, però, gli era sembrato più grande, forse più consapevole di ciò che lo circondava. I tempi delle favole, per lui, erano finiti da un pezzo, chissà quando e in che modo.

Fu la sua solitudine ad attirarlo. Jerome gli si era avvicinato più per curiosità che per solidarietà, col solito sorriso sfrontato dipinto sul volto. Non era ancora capace di leggere tra le righe i segnali che gli intimavano di andarsene e lasciarlo solo. Solo dopo qualche istante capì di non essere desiderato, cosa che lo incitò a non desistere. Geoffrey era intento a immergere la punta del suo bastone nel fango del fiume, appollaiato sulla roccia come un leoncino pronto a balzare via.

E forse Jerome avrebbe preferito che scappasse davvero.

Detestava sentirsi ignorato e comprese presto che con Geoffrey tenere il muso o lanciare frecciatine fastidiose non sarebbe servito a nulla.

Dopo solo molto tempo si ritrovò a sbuffare, incrociare le braccia al petto e lasciarsi cadere seduto sull’erba, con la schiena poggiata alla pietra su cui l’altro bambino era seduto.

Non aveva intenzione di arrendersi. Doveva solo pensare a un altro modo per vincere quella battaglia silente. Non aveva mai dovuto combattere tanto. Di solito le altre persone assecondavano i suoi capricci, soddisfacevano i suoi desideri. E lui chiedeva sempre di più e pretendeva sempre di più, forse inconsciamente, per capire fino a che punto le persone sarebbero state disposte ad accontentarlo in ogni occasione. Ripensandoci in quel momento, si sentiva diviso tra la rabbia verso il bambino che lo ignorava e un senso opprimente di insoddisfazione.

Sbarrò appena gli occhi al suono di qualcosa che cadeva nell’acqua e si sporse per vedere l’altro bambino correre verso alcuni cespugli con l’acqua che gli arrivava ai polpacci.

Jerome osservò verso il borgo del castello di suo padre, per osservare il feudatario che salutava i numerosi ospiti e che lo cercava con uno sguardo nervoso.

Sparì anche lui alla vista nella direzione in cui la vittima ancora ignara della sua noia era scappato.

Di certo, Geoffrey Martewall era stata la sua conquista più sofferta.

Era stato l’unica persona che non aveva ceduto ad un suo capriccio, che gli aveva fatto capire il valore autentico di qualcosa guadagnato con fatica. La loro era sembrata di più una vittoria condivisa, oppure qualcosa di ancora diverso, una semplice piega degli eventi che era andata a finire nel modo migliore.

Per una volta, Jerome non aveva pensato alla vittoria o alla sconfitta.

Eppure si era sentito lo stesso orgoglioso, e la sottile insoddisfazione costante che si portava dentro ogni giorno e che lo faceva diventare più scorbutico, aggressivo e vendicativo era accantonata in un angolo del suo essere.

Geoffrey Martewall gli aveva insegnato la fatica e il sacrificio, in un modo diverso da quello con cui si addestravano i futuri cavalieri. Anche se sarebbe rimasto per sempre l’unico ad averlo capito.

*

 

Jerome non vedeva l’ora di vantarsi, lasciandosi ovviamente il tempo per respirare l’aria trionfante che aleggiava intorno a lui insieme alle lodi del pubblico e dei cavalieri suoi pari. Ma l’idillio della vittoria non bastò a non fargli notare che Geoffrey non si trovava più accanto a lui. D’improvviso le lodi suonarono false, almeno in parte, o forse incomplete, o forse immeritate, in una confusione di sensazioni che non riuscì a definire. Jerome sentì l’irritazione attanagliargli lo stomaco. Sì, forse si sentiva semplicemente irritato. Impietrito dalla rabbia, individuò il mantello di Geoffrey svolazzare e rimpicciolirsi mano a mano che si allontanava sul suo cavallo.

Trattenne un’imprecazione a denti stretti e lo raggiunse in fretta, senza neanche salutare nessuno.

«Dove pensi di andare, così senza dire niente? Io stavo ancora parlando!» gli abbaiò contro, arrabbiato. Geoffrey non lo interruppe quando ricominciò a far valere le sue ragioni con ostinazione e con una certa arroganza innata. Non lo interrompeva mai, ma non era neanche un ascoltatore passivo. Si limitava ad osservarlo in silenzio, e solo dopo che lui aveva finito di sbraitare metteva fine alla discussione con una frase che non lasciava spazio a repliche o resistenze. Non aveva mai cercato di convincerlo a fare nulla, o a pensare nulla. Non direttamente.

Anche se alla fine il risultato era proprio quello.

Lui spiegava i fatti per come erano e Jerome doveva accantonare la sua testardaggine e capire che aveva torto, perché lo riteneva capace di farlo.

Non gli avrebbe mai chiesto di ammetterlo, ovviamente.

Ma a suo modo, era una dimostrazione di fiducia assoluta. Nessuno aveva mai pensato di poter domare Jerome con la fiducia. Nessuno aveva mai pensato di non dovergli imporre qualcosa per fargliela fare.

Solo che Jerome non sapeva ancora se doveva sentirsi sconfitto, solamente infastidito, oppure qualcos’altro… qualcosa di più piacevole. 

« Queste sono cose da te. » disse semplicemente Geoffrey, indicando il piccolo capannello di scudieri e giovani cavalieri che ancora li guardava da lontano. « A me non interessano. »

Jerome rimase per un momento colto di sorpresa. Poi, come spesso succedeva, la rabbia prese il sopravvento.

« Vattene pure, allora!» quasi gli urlò contro, mollando con violenza le redini del cavallo che aveva afferrato solo qualche momento prima « Troverò ovunque compagni migliori! »

E gli voltò le spalle con una rabbia che provava sempre più di frequente, una rabbia nuova, diversa, che gli lasciava un senso di vuoto e un’insoddisfazione che odiava e che aveva il sapore amaro della delusione, invece che riempirlo di forza e d’arroganza.

Geoffrey non aggiunse una parola ma Jerome fu quasi certo di averlo visto fare un respiro appena un po’ più lungo.  Percepì i suoi movimenti mentre se ne andava, lasciandolo solo ma in compagnia di molti nuovi amici con cui avrebbe potuto vantarsi delle sue doti e delle sue vittorie.

Non tornò da loro, anche se non sapeva neanche lui il motivo di quella scelta. Tutto il suo buon umore era scemato in un istante, però mentre se ne andava per una via secondaria, senza una meta precisa, sentì comunque, e per la prima volta, l’insoddisfazione che comportava un sacrificio.

Geoffrey Martewall gli aveva insegnato la rinuncia.

 

*

 

Geoffrey non faceva altro che sorprenderlo.

Lo sorprendeva il suo modo di affrontare senza battere ciglio i suoi scatti d’ira, la sua irritabilità costante, la sua arroganza senza freni.

Lo stupiva osservare con quanta tenacia Geoffrey lasciasse aperte e nascoste le sue ferite, nell’attesa di colmare il vuoto di una cura che non poteva concedersi con una nuova battaglia, un nuovo obiettivo che sarebbe scemato con l’ultimo raggio del tramonto.  

All’inseguimento di una pace che forse non desiderava più così tanto o non credeva di meriatare, alla ricerca di una risposta così astratta da non avere nemmeno una domanda concreta dietro le spalle, alla ricerca di un po’ d’ordine nelle ombre avvolgenti del caos.

Jerome non aveva ancora trovato qualcosa per cui valesse la pena soffrire. Ma era sicuro che, se avesse sofferto, avrebbe arso il mondo intero con la sua rabbia e la sua sete di distruzione. La stessa che Geoffrey tratteneva e sprigionava solo in battaglia.

Jerome non era mai stato così: non conosceva mezze misure.

Geoffrey non poteva rifiutare la sua presenza: rappresentava tutto ciò che si era costretto a seppellire dentro di sé con una ferrea forza di volontà che l’amico riteneva semplicemente inutile.

Sì, Geoffrey non faceva altro che sorprenderlo.

Osservava la sua rabbia, i suoi capricci e il suo infantilismo come se Jerome non fosse colpevole o responsabile per essi, piuttosto una loro vittima. Come se ci fosse veramente un barlume di innocenza da salvare dentro di lui, come se il lato della sua anima macchiato di un chiaro sentore di crudeltà potesse ancora crescere, mutare, evolversi.

Jerome odiava i momenti in cui si accorgeva di tutto questo, perché per un eterno secondo ci credeva anche lui, alle convinzioni mute dell’amico,  e l’indecisione lo faceva sentire debole e la rabbia tornava. E il suo furore non gli aveva mai dato fastidio, mai, prima di incontrare Geoffrey.

 

*

 

Lo irritava oltre ogni misura.

Lo irritava così tanto che molto spesso nemmeno capiva perché continuasse a ricercare la sua presenza. Lo irritava perché sapeva che poteva essere una fonte di rimprovero. Lo irritava perché sapeva che in sua presenza non avrebbe mai dato mostra della parte peggiore di se stesso, quella parte di cui non si preoccupava mai di nascondere minimamente, mai.

Tranne che con Geoffrey.

Jerome Derangale ricercava il potere. Lo voleva, lo desiderava con ogni fibra del suo corpo, amava la consapevolezza di essere superiore a tutti, amava essere stimato, ammirato, temuto.

Amava il divertimento che gli regalava la sua stessa crudeltà.

Cercava il potere con la stessa impazienza con cui cercava Geoffrey Martewall.

Per questo lo odiava.

Si era accorto troppo tardi che non c’era posto per lui nella sua vita. Non riusciva mai a imporre la propria volontà su se stesso, mai prima di quel momento gli era stato così terribilmente chiaro e visibile il legame che lo incatenava a lui.

Jerome voleva solo il potere, e la scarica d’orgoglio che gli portava una sua vittoria. Voleva solo un successo dopo l’altro, un morto dopo l’altro, un divertimento dopo l’altro.

E allora perché non riusciva a scrollarsi di dosso il peso del suo giudizio?

Perché gli importava cosa avrebbe potuto pensare? Ma soprattutto, perché non riusciva a tagliare definitivamente i ponti, perché sentiva ancora il desiderio di stare in sua compagnia? Lo cercava come quando erano bambini. Non aveva mai smesso di volere l’amico con cui poteva mettersi alla prova e non aveva mai smesso di ritenerlo una sorta di rifugio in cui rintanarsi nei momenti di debolezza.

Al solo pensiero fremeva di rabbia. A volte, con la mente ancora ricolma di quelle riflessioni che lo tormentavano, la sua ira si riversava sul primo che capitava, come un fiume in piena, mostrando la parte più crudele della sua anima senza che lui potesse frenarsi, in un momento in cui non avrebbe mai voluto che accadesse perché lo sguardo di Geoffrey pesava su di lui come la falce del boia.

Quel giorno era successo. E la vergogna che mai avrebbe ammesso venne presto sostituita dalla rabbia. Sciolse con decisione i lacci della sella. La vittima della sua rabbia, quella volta, era stato il suo scudiero, a causa di un errore stupido e banale che Jerome gli avrebbe fatto pagare con venti frustate se si fosse ripetuto.

Sentì a malapena la porta della scuderia sbattere.

« Vattene. » ordinò subito.

Sapeva fin troppo bene chi era venuto a rovinare la sua perfetta e agognata solitudine. Avrebbe potuto riconoscere il suo passo tra mille, e anche se così non fosse stato, sapeva fin troppo bene che Geoffrey sarebbe arrivato presto a farlo sentire, consapevole o no che fosse, ancora peggio.

E sapeva anche che non avrebbe ascoltato il suo ordine.

Sembrava nato per essere diverso dagli altri, e, di conseguenza, per essere allo stesso tempo dannatamente irritante e dannatamente insostituibile.

Lo sentì affiancarsi a lui e cercò di concentrarsi sul respiro caldo del cavallo per non girarsi a fulminarlo con lo sguardo.

« La severità ha una sua giusta dose. » disse Geoffrey, col solito tono asciutto.

Irritante, odioso, devastante, indomabile.

« Sei venuto per farmi la predica? »

Non sarebbe servito, comunque.

Geoffrey non si scompose al suono rabbioso delle sue parole.

« Sono venuto a farti ragionare. Non sono un abate. »

Jerome alzò gli occhi al cielo e bofonchiò un’imprecazione sussurrata. Geoffrey lo osservò in attesa di una risposta, ma riusciva solo a vedere l’amico che non voleva saperne di sentire ragione.

Alla fine, Jerome riallacciò meglio e forse con troppa forza i lacci della sella.

« Non sono io a sbagliare. Quel ragazzino è un incapace e qualcuno lo doveva punire. Una cinghiata è solo la minima parte di ciò che si meriterebbe per essere ciò che è. »

Geoffrey scosse la testa e Jerome vide la rabbia nei suoi occhi con una fitta allo stomaco. Nell’esatto istante in cui abbassava lo sguardo con la scusa di controllare le redini, si sentì afferrare per il colletto della tunica scarlatta e gli occhi di Geoffrey gli bruciarono l’anima.

« Quel ragazzino cerca di servirti al meglio delle sue forze, ma a te non basta mai! Cosa bisogna fare per soddisfarti? »

Jerome aveva gli occhi sbarrati dallo stupore, ma cercò freneticamente le parole con cui rispondere. Nessuno l’avrebbe avuta vinta su di lui.

Nemmeno Geoffrey Martewall.

« Magari non essere inconcludenti… »

« Non è lui il problema, e lo sai!» affermò Martewall deciso, lo sguardo duro, impenetrabile, uno sguardo che faceva capire a Jerome di non avere vie di fuga dalle sue domande.

« Adesso smettila. Ho il diritto di punire il mio scudiero. » disse, cercando di mostrarsi sicuro. La verità era che più desiderava litigare con Geoffrey, più comprendeva quanto poco gli piacesse farlo.

Il giovane Martewall lo lasciò andare, ma il suo sguardo non vacillò mai.

« Cosa c’è che ti preoccupa, Jerome? »

Derangale rimase spiazzato dalla domanda. Nessuno gliel’aveva mai posta, o almeno non di recente. Non aveva mai lasciato trasparire nulla dei suoi pensieri. Per un attimo, il pensiero che Geoffrey fosse riuscito a guardare dentro di lui, ad intuire qualcosa di vero nell’osservarlo, lo terrorizzò. Aveva sempre pensato di conoscere Geoffrey abbastanza da poter capire cosa pensasse, ma l’idea del contrario non gli aveva mai attraversato la mente. Abbozzò un sorriso sarcastico con immensa fatica.

« Dovrei chiederlo io a te. Non c’è nulla che mi preoccupa. »

Come poteva dirgli che… lo odiava? Non ci sarebbe mai riuscito e se ne chiedeva il perché in ogni momento. Come poteva dirgli che aveva comunque paura del legame d’amicizia che lo legava a lui? Si poneva di continuo domande che non avrebbe mai voluto sentire.

Per lui sarebbe morto? Quanto erano importanti per Jerome Derangale la cavalleria, la fedeltà ai compagni d’arme? Quanto sarebbe stato disposto a rischiare per Geoffrey Martewall?

E quanto avrebbe sofferto se fosse morto?

Lo aveva reso… debole?

Si ribellò con tutto se stesso a quell’idea, con rabbia e odio mescolati insieme e inscindibili nella loro intensità.

No.

Questo mai.

Quelle parole parvero a lui stesso una preghiera.

E se fosse servito, avrebbe pregato il diavolo in persona e non più Dio per essere esaudito.

Strinse i pugni convulsamente osservando Geoffrey voltargli le spalle e andarsene col solito passo calmo. La rabbia gli bruciava il petto e la gola e aveva voglia di urlare, non sopportava l’umiliazione di essere stato rimproverato da lui e con lui, non sopportava di sentirsi debole e in fondo era ancora il bambino capriccioso che urlava e sbatteva i piedi se un suo desiderio non veniva esaudito all’istante. I capricci però erano diventati più seri, più terribili, e più distruttivi, nei suoi confronti come in quelli del mondo esterno.

Osservò la spada al suo fianco con uno sguardo quasi folle, per poi capire di nuovo ciò che da sempre sapeva e che mai avrebbe ammesso e mordendosi le labbra dalla frustrazione.

Se Geoffrey Martewall doveva vivere al di fuori del suo controllo, allora esisteva una parte di Jerome Derangale che doveva inevitabilmente morire.

 

*

 

C’era un fascino sinistro e misterioso nel rimorso.

Jerome non riusciva a sentirsi triste nel vedere Geoffrey Martewall pentirsi, provare dolore, dannarsi l’anima, quasi, per fare ciò che era giusto.

Perché il rimorso in realtà lo faceva sorridere con scherno e sufficienza, ma in Geoffrey diventava una vera opera d’arte, mai vista prima e mai vissuta davvero.

Jerome sapeva che per lui comprenderlo veramente sarebbe stato impossibile. C’era sempre stato, tra loro, quel velo di reciproca incomprensione che ai suoi occhi rendeva l’amico un’eterna, logorante sfida mai vinta.

Jerome non pretendeva che l’altro cambiasse. Non voleva, anzi. In qualche modo, e non si era mai soffermato a chiedersi il motivo di questa sua riflessione, Geoffrey gli andava bene così com’era. Continuava ad infastidirlo con il suo carattere e avrebbe desiderato, certe volte, che la sua testardaggine avesse una durata breve. Ma non lo voleva cambiare.

Non era un gesto nobile. Era dettato dal puro egoismo, come ogni azione di Jerome.

La completezza e la silente passione dei sentimenti di Geoffrey, sempre nascosta da un’impenetrabile scorza di ghiaccio, rappresentava per lui un tesoro che ancora non aveva raggiunto, la cui presenza era solo riuscito ad intuire. Non si sarebbe mai stancato di osservarlo, studiarlo, punzecchiarlo.

Era divertente e terribilmente appagante.

Jerome non aveva un carattere così intriso di contraddizioni.

Sapeva di essere ciò che era e lo accettava. Si accettava in tutto e per tutto, con tutta la sua presunzione e la sua superbia. Era consapevole di quale fosse la peculiarità della sua personalità e continuava ad amare il potere più delle altre assai più banali gioie della vita di tutti i giorni, e soddisfaceva ogni sua voglia.

Non aveva rimorsi e non cercava di contaminare l’interezza e l’integrità di ciò che sarebbe inevitabilmente sempre stato con debolezze inutili.

Se era il male, lo era in trionfo.

Ma Geoffrey non avrebbe condiviso la sua gloria.

Jerome lo aveva sempre saputo. Sapeva da sempre, con una fitta allo stomaco che non sapeva spiegarsi, che prima o poi Geoffrey gli avrebbe voltato le spalle per sempre.

Non doveva sapere ciò che era Jerome, le tendenze della sua natura. Lo sceriffo lo avrebbe usato come la sua scarsa morale non gli avrebbe mai impedito di fare, e non si sarebbe sentito dispiaciuto di non condividere i suoi successi, ma non lo avrebbe coinvolto nei suoi  piani ad alti livelli, e così Geoffrey non avrebbe mai saputo cosa aveva cercato di fare.

Perché se per Jerome non esisteva onore nella sconfitta, per Geoffrey non esisteva vera sconfitta in una sconfitta onorevole.

Senza senso, pensava Jerome.

Eppure con Geoffrey tentava sempre di essere migliore di ciò che era, migliore col significato che l’amico attribuiva a quella parola, naturalmente. Non sapeva il perché, ma, d’altra parte, da tempo Jerome non si chiedeva più la motivazione delle sue azioni.

Geoffrey Martewall, questo era certo, non avrebbe mai capito, se solo avesse saputo.

Ma qualcosa doveva sapere.

Jerome sentiva un bisogno quasi fisico di dire a Geoffrey le sue certezze riguardo al sedicente Jean Marc de Ponthieau.

Ora più che mai, quando sentiva che l’inevitabile stava per accadere, che una parte della sua vita stava per sfaldarsi, che tutto sarebbe tornato al suo posto e che non ci sarebbe mai più stato nessun posto per nessuna amicizia che non avrebbe mai dovuto esistere, che Geoffrey sarebbe rimasto per sempre il primo dei suoi fallimenti, ora più che in qualsiasi altro momento sentiva il desidero di averlo come complice, di condividere ancora qualcosa.

Un nemico, una causa, una condanna.

La rabbia verso il conte era quasi incontrollabile. L’aveva umiliato, ferito nell’orgoglio, sconfitto.

Doveva morire.

Sarebbe stato ancora meglio se fosse morto davanti agli occhi di Geoffrey, che aveva visto Jerome cedere miseramente la vittoria a qualcun altro, che si era preoccupato per la ferita del suo compagno d’armi.

Jerome giurò vendetta con ogni fibra del suo essere.

E oltre a tutto questo, non sopportava l’idea, il presentimento che, se Geoffrey avesse saputo tutta la verità, e se avesse conosciuto Jean de Ponthieau, l’avrebbe apprezzato più di quanto avrebbe mai potuto apprezzare Jerome. Il solo pensiero lo faceva tremare di rabbia.

Non era gelosia. Lo sarebbe diventata se Geoffrey e il conte cadetto si fossero mai conosciuti.

Volse lo sguardo verso il cavaliere in nero, che lo osservava ancora in attesa di una risposta con il solito sguardo profondo e tagliente e unico nel suo genere… l’unico, forse, all’altezza di Jerome.

Lo sceriffo lo guardò con gli occhi vagamente febbrili e infiammati d’ira e aspettativa. 

Resta dalla mia parte, Geoffrey.

« Quello non è Jean Marc de Ponthieau. »

 

 

Loculo di Tacet433

Ebbene sì, ho deciso di continuare la raccolta.Prima che dimentichi di scriverlo, le varie parti della fic sono in ordine cronologico.  E mi rendo conto che  ho descritto molto Jerome e ho lasciato relativamente poco  spazio a Geoff, ma il fatto è che... Jerome è terribilmente egocentrico, concentrato per la maggior parte del tempo su se stesso. Detto questo...

Non ci credo… ce l’ho fatta. Nonostante il tempo. Nonostante il caldo.

Sì, però… mi rendo conto che questa è un po’ utopistica come fic, forse… ma Jerome mi piace, anche se è bastardo. O forse mi piace perché è bastardo. Comunque, ho cercato di descriverlo in modo convincente, non so se ci sono riuscita, ma mi piace immaginare un Jerome così. Umano, nonostante tutto, anche se sempre, fondamentalmente… completamente… Sans-Pitié . Non mi sono spiegata bene ma avete capito; )

Di questi due mi verrebbe quasi voglia di scrivere dell’altro. Ma per molti aspetti è masochismo puro. Fatemi sapere cosa ne pensate, e soprattutto se qualcosa non vi è piaciuto!

Comunque niente mi toglie dalla testa che… scrivere di amicizie tormentate mi fa male. È nocivo.

Grazie per aver letto e alla prossima(spero)!!!

Ciao!!!

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Etienne de Sancerre- Fiducia ***


Etienne de Sancerre

Fiducia

Solitamente, chi si guadagnava l’antipatia di Etienne de Sancerre prima o poi se ne pentiva.

Anzi, forse se ne pentiva all’istante.

In molti gli avevano rimproverato il suo modo di rapportarsi con le persone che non gli piacevano. Era irruento, non riusciva a trattenersi dal dire ciò che pensava, i suoi sguardi e le sue espressioni erano sempre più che eloquenti e per niente al mondo Etienne avrebbe mai cercato di camuffarli in qualche modo.

Non ci trovava nulla di male. Le prediche di suo fratello gli ronzavano nelle orecchie fastidiosamente, ma non avevano mai sortito l’effetto sperato dal maggiore dei Sancerre. Non essere scortese, non offendere neanche con lo sguardo se non sei in guerra… a dire la verità, se si doveva misurare con un nemico che aveva catturato Jean comportandosi da bandito, che era stato amico di Jerome Derangale e, come se non bastasse, aveva ferito Henry de Bar, facendogli provare una rabbia e una paura quasi folle, allora Etienne non credeva di doversi mostrare troppo accomodante.

Jean evidentemente non era della stessa idea.

Etienne aveva le braccia incrociate sul petto da diverso tempo, come se cercasse di imprigionarcisi dietro facendo violenza a se stesso. Ogni tanto osservava torvo e con accusa Jean, seduto di fronte a lui con espressione stanca.   

Alla fine, il Falco sospirò esasperato e cedette.

« Forza, dimmi. Cosa c’è che non va? »

Etienne non aspettava altro e non ci mise un secondo a scattare.

« Oh, niente. Mi chiedevo solo se il tuo ospite si sentisse a suo agio qui da noi. »

Jean sospirò di nuovo, paziente e per nulla sorpreso. Sancerre imbastì un’espressione ancora più truce davanti alla sua esasperazione.

« Etienne, sono stanco e mi hai già fatto parlare abbastanza. E poi non saprei che dirti, se non che Martewall adesso è nostro alleato, che ci piaccia o no. »

Sancerre emise un mezzo sbuffo di disapprovazione, terribilmente infastidito. Se Jean si aspettava che avrebbe lasciato cadere il discorso in questo modo, si sbagliava di grosso. Ma a giudicare dalla sua espressione già lo sapeva.

A Etienne non importava se l’inglese era adesso un alleato o un nemico, se era un ospite o un ostaggio con troppe libertà.

Non si sarebbe mai fidato di Geoffrey Martewall, mai.

 

*

Erano state poche le volte in cui aveva provato ad immaginare cosa pensasse.

Forse perché se c’era una cosa che Etienne detestava, era fallire. E da quel punto di vista, Martewall rappresentava un fallimento continuo.

Etienne scosse le spalle tra se. Perché si sarebbe dovuto sforzare, se nemmeno a Martewall interessava davvero cosa pensasse di lui la gente?

E poi, Etienne non voleva per niente al mondo trovare una qualsiasi ragione per non odiarlo. Non era mai tornato sui suoi passi, le sue opinioni erano assolute e non le avrebbe di certo cambiate adesso.

Però… non era mai riuscito a credere che l’indifferenza di Martewall fosse reale. Non esisteva uomo al mondo che non desiderasse la fiducia dei compagni. Se non la desiderava allora non gli interessava nemmeno essere un loro alleato e Etienne, poco tempo dopo averlo conosciuto, aveva voluto metterlo bene in chiaro, perché era già stanco di nutrire dubbi dentro di se.

Ricordava ancora fin troppo bene il loro primo dialogo, la sera prima della battaglia per la riconquista di Dunchester.

« Martewall. » lo chiama, facendolo fermare ai piedi delle scalette esterne. Lui si volta e incrocia le braccia al petto sotto al mantello nero, rimanendo in ascolto.

Il gelo e l’astio calano tra loro.

Etienne lo ricorda bardato e in sella al suo palafreno, nero ed eretto e fiero, al torneo che aveva quasi vinto, fermo nel suo orgoglio esattamente come in quell’istante.

Lo ricorda in battaglia, il modo in cui aveva sfondato le linee nemiche e salvato gran parte del suo esercito quando per loro le cose si erano messe male, con una strategia solitaria ma efficace. Era una furia nel corpo di un uomo, ma Etienne non ne avrebbe mai ammesso tutti i pregi.

Dopotutto, lui lo aveva sconfitto.

« Non credo affatto che ne valga la pena. » comincia Sancerre, caparbio« Di fidarsi di te. Jean si sbaglia, questa volta. »

Martewall non muta espressione, non è arrabbiato, dispiaciuto, interdetto. E, come Etienne avrebbe dovuto aspettarsi, non conferma i suoi forti dubbi né li smentisce.

Rimane il solito enigma. Che il suo volto sia coperto da un elmo oppure no, non fa alcuna differenza, a questo punto.

« Neanche io mi fido di te. Ma so di potermi fidare nella tua devozione per il tuo principe e so che non gli disubbidirai solo per mettermi i bastoni fra le ruote. In ogni caso, non mi interessa cosa pensi di me. Voglio solo avere Danchester, mia sorella e la mia vendetta. Tu fa’ la tua parte, io farò altrettanto. »

Fa per voltargli le spalle, considerando chiuso il discorso. Ma Etienne fa un passo avanti, furioso. In qualche modo, avere la conferma che il suo astio non possa scalfirlo, e non poterlo sfidare in nessun altro modo, gli fa serrare la mascella con forza dal fastidio.

Non sopporta niente di lui: né il suo orgoglio, né lo sguardo penetrante e l’aria di fredda superiorità.

« Ascoltami bene, dannato inglese! A me non importano le tue chiacchiere o i legami politici. Eri amico di un infame traditore, ma se osi anche solo pensare di seguire il suo esempio ti verrò a cercare personalmente e pagherai ciò che hai fatto tutto insieme. Ti ho già battuto una volta, lo farò di nuovo. Ti sfiderò e pretenderò la tua testa. » i suoi occhi sembrano divampare sul viso minaccioso con furore e accanita determinazione.

Martewall  si volta a guardarlo di nuovo.

Come guarderebbe un bambino che fa i capricci.

Gli occhi grigi sono freddi e spettrali nell’ombra della sera, i tratti rigidi sembrano scolpiti nel granito, lo sguardo brucia di rabbia tenuta a stento a freno, i muscoli delle braccia si tendono mentre, fieramente, fa anche lui un passo avanti verso Etienne.

« Ringrazia il Cielo e tutti i suoi Angeli che io non voglia darti il pretesto per mantenere la promessa. »

 Etienne ci mette solo un momento per cogliere la minaccia nelle sue parole.

 

*

 

Geoffrey Martewall, in Francia, era un accordo dissonante.

Fuori posto, e indesiderato dalla maggior parte delle persone. Era inglese, rappresentava il nemico di sempre di cui si aveva ancora timore, e non bastava un’alleanza per estirpare questo tipo di pensieri dalla mente dei francesi. Come se non bastasse, il leone aveva dimostrato più volte il suo valore in numerose battaglie o tornei, e questo non aiutava a mitigare il disagio che si poteva provare in sua presenza.

Constatarlo, per lui,  non doveva essere solo triste, ma anche frustrante.

O almeno, così sosteneva Henry de Grandpré.

Solo dopo averlo sentito uscire dalla bocca dell’amico Etienne aveva notato che, effettivamente, Geoffrey Martewall si trascinava addosso la diffidenza di tutti i francesi.

Come avrebbe fatto un qualsiasi inglese in terra francese.

In altri tempi, però, i nemici erano nemici, e non esisteva quel tipo di situazione stagnante in cui non era possibile attaccare lo straniero nemmeno a parole e non era nemmeno possibile difendersi. Etienne ragionò su quel pensiero come non aveva mai fatto. Si chiese come avrebbe reagito se fosse stato nei panni dell’inglese, se avesse dovuto sopportare tutte quelle occhiate tutt’altro che ambigue o accomodanti e non ci mise molto a capire che sarebbe esploso dalla rabbia terrorizzando i più giovani e imbarazzando i più vecchi.

Etienne lo guardò mentre abbeverava personalmente il suo cavallo, per un solo istante, prima di sparire oltre la corte interna.

Martewall era amico di Jean, e il Falco si fidava di lui come i soldati di Chatel Argent si fidavano del loro signore. Ma la diffidenza era dura a morire, perché un inglese rimaneva comunque l’emblema dell’eterno nemico. Anche se formalmente era ancora un alleato, nessuno poteva essere sicuro che non sarebbe passato sull’altro lato del fronte, come tanti altri baroni prima di lui, rovinando i piani del principe francese.

In lui non era visibile nessuna traccia di disagio. Sembrava indifferente a tutti gli sguardi, a tutte le mezze frasi mormorate fra i denti di qualche soldato meno ben disposto nei suoi confronti.

A Martewall non sembrava interessare la fiducia dei francesi. La sua fierezza non aveva bisogno di certezze o rassicurazioni.

Il suo spirito indipendente e solitario traspariva chiaramente dai suoi occhi freddi.

Sancerre aggrottò le sopracciglia, stranamente riflessivo.

Di certo, Geoffrey Martewall non era una persona semplice che poteva pretendere di capire in tutti i suoi aspetti fin da subito.

Non aveva nulla della spontaneità degli amici di Etienne, della loro trasparenza. Si limitava ad essere una figura ambigua e insondabile per lui, probabilmente per suo volere.

Questo lo escludeva immediatamente dalle persone degne di fiducia e rispetto, oppure esisteva una verità più profonda? Per conoscerlo ci sarebbe voluto del tempo e forse neanche quello sarebbe bastato, per fidarsi si sarebbe dovuto sforzare non poco… ma ne valeva la pena?

 

*

 

Mai se lo sarebbe aspettato, ma col passare del tempo l’astio sfumò.

Martewall era stato il primo con cui non aveva potuto scagliare la sua rabbia tutta insieme, per questo forse Etienne si era meravigliato tanto di non provare più così tanto fastidio alla vista dell’inglese. Com’era potuto succedere? Etienne de Sancerre aveva messo fine alla sua rabbia senza sfoderare né lingua né spada, e il nemico d’Inghilterra era diventato un alleato affidabile e temibile.

Era andato oltre ciò che lui stesso pensava, rinnegandolo, cambiando idea, osservando molto attentamente il suo nemico, come mai avrebbe fatto con un amico.

E la sua mente aperta alla fine aveva ceduto all’istinto a cui naturalmente tendeva.

Forse anche Martewall se ne era accorto. E questa volta non era rimasto indifferente, ma Etienne lo sapeva solo grazie a una brevissima conversazione che aveva avuto con lui qualche tempo prima, dopo la morte di re Giovanni, la prima visita di Martewall in Francia come ambasciatore.

« Lo ammetto, Martewall. Tu mi stupisci quasi quanto Jean. »

Martewall ghigna incurvando appena gli angoli della bocca.

« Anche tu. Ma non quanto Jean. »

Certo, erano opposti. Come il giorno e la notte. O meglio, l’estate e l’inverno. E non gli era passata la voglia di sfidarlo, ma per una volta Etienne de Sancerre avrebbe preso la decisione più saggia e avrebbe aspettato di essere sicuro di poter affrontare un amico e non più un nemico.  

Martewall portava con sé segreti che sarebbero rimasti tali per sempre, ombre inviolabili. Quindi Etienne non avrebbe mai potuto capirlo davvero, lui che aveva sempre avuto un animo così poco incline all’introspezione.

A volte si chiedeva se Jerome Derangale ne fosse stato in grado. Se avesse avuto con Martewall lo stesso rapporto che lui aveva con Jean. Ma aveva smesso di vedere lo sceriffo senza pietà nel fiero e orgoglioso Leone d’ Inghilterra.

Non voleva più gettargli addosso questo peso, schiacciarlo di questa colpa.

Aveva la sensazione che lo stesse già facendo lui stesso, e più del dovuto.

 

 

Tataratààààà ecco a voi il capitolo più brutto della raccolta!!!XDXDXD

Immedesimarmi in Etienne per me è difficile, ecco perché ci ho provato lo stesso. Per adesso non ho molto da dire, se non che mi dispiace per l’attesa e per il capitolo forse un po’ corto.

Come al solito non metto una data per il prossimo capitolo, perché non la so e i miei impegni sono alquanto imprevedibili, soprattutto quelli scolastici, ma ringrazio tantissimo anche solo chi legge.

Ah, un’ultima cosa: siccome non ho ancora scelto il personaggio che prenderò in ostaggio la prossima volta, se qualcuno ha qualche idea o richiesta parli pure! In realtà non so se sarò ispirata per tutti i personaggi allo stesso modo, ma farò del mio meglio, o mal che vada vi informerò.

Ciaoo!

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Guillaume de Ponthieau- Comprensioni ***


Guillaume de Ponthieau

Comprensioni

L’aria, solo qualche istante prima vibrante di suoni, sembrò farsi muta. La calma era quasi irreale. Si respirava l’eccitazione degli uomini con un brivido di paura che nemmeno i veterani dell’esercito riuscivano sempre a sopire.

L’alba era vicina. Il cielo si faceva sempre più chiaro e le nubi si dissipavano. Ma anche se così non fosse stato, avrebbero combattuto ugualmente. I francesi lo sapevano fin troppo bene: gli inglesi erano troppo abituati ai loro temporali e al loro fango per farsi frenare da qualche goccia di pioggia e da un po’ di terra instabile.

Guillaume respirò a fondo, senza fretta. Aspettava, come tutti. Ma con più lucidità.

Aveva tenuto conto di tutto. Le forze dell’avversario, il campo di battaglia, la strategia che avrebbe adottato era di certo la migliore che potesse scegliere. Tra gli inglesi questa volta c’era stata una fuga di notizie. I feudatari d’oltremanica impegnati in quella battaglia in campo aperto sarebbero stati solo due, gli unici che non erano impegnati su altri fronti, non molto esperti e ancora abbastanza giovani. Re Giovanni contava di nuovo sulla superiorità numerica degli eserciti. Ma non sempre era un vantaggio, Guillaume lo sapeva e biasimava quel re indegno che non sapeva nemmeno imparare dai propri errori. Un esercito di mercenari troppo grande era difficile da controllare, domare, dirigere....soprattutto per dei ragazzini senza esperienza. Un sorriso scaltro gli attraversò il volto. Il nemico non andava mai sottovalutato, ma Guillaume doveva ammettere che quella volta la fortuna era a loro favore.

Anche se…

Guardò astioso alla sua sinistra, fino ad individuare Dammartin, che lo avrebbe accompagnato in quella battaglia. Non riusciva a fare a meno di provare un certo disprezzo per lui… era pieno di sé e con scarsi precetti morali. Avrebbe di certo preferito avere qualcun altro al suo fianco, ma non avrebbe potuto cambiare la volontà del re.

Col petto fremente ma l’espressione ferma e sicura, oltrepassò i suoi uomini e si pose davanti a tutti loro, presto imitato da Dammartin.

« Nervoso, Ponthieau?»  gli chiese Dammartin, con un sorriso irritante.

Guillaume decise di passare sopra al modo in cui Dammartin osava rivolgersi a lui, almeno per il momento.

« Sarei uno stolto se non lo fossi, anche se è una battaglia che abbiamo buone probabilità di vincere. Niente deve andare storto. »

Dammartin scosse le spalle con noncuranza. « non c’è nulla di cui preoccuparsi. Re Giovanni pensa di poterci sopraffare numericamente, ma siamo più di quanti immagina, quasi quanto la parte di esercito che ha messo su in tutta fretta per non farci avanzare. Un esercito guidato da due ragazzini, da immolare nell’attesa che i grandi siano liberi di venire fin qui. Oggi ci prenderemo questa vittoria e questa fetta di terra fiamminga a cui tanto tiene. »

Guillaume riteneva che Dammartin fosse fin troppo tranquillo, ma dovette ammettere che le cose che aveva detto erano vere.

Re Giovanni sembrava davvero aver fatto male i suoi conti.

Il conte fece girare il destriero e le parole che rivolse al suo esercito furono accolte con grida e clangore di spade contro scudi. Erano parole incoraggianti, ma che richiamavano l’attenzione sulla disciplina e sulla prudenza. Non potevano comunque permettersi di sottovalutare il nemico, e Guillaume sperò che questo concetto fosse ben chiaro a tutti, anche se il discorso di Dammartin era stato più canzonatorio e spensierato.

Guillaume serrò la mascella dal fastidio e ritornò tra le sue fila.

Tra i francesi tornò presto il silenzio, e cominciò a sentirsi il rumore sordo della marcia degli inglesi ancora invisibili ai loro occhi. Il conte sentì il consueto nodo alla gola e il suo sguardo si fece più deciso e scuro. Strinse le redini. I minuti che lo separavano dall’impatto col nemico erano pochi, sempre meno. E si sentiva pronto e lucido, nonostante i denti continuassero a mordere le labbra.

Gli inglesi apparvero in direzione dell’alba cupa e dalla luce opaca. Erano sagome nere sull’orizzonte, avanzavano senza esitazioni, marciando compatti, le lance verso l’alto. Un esercito di figure ancora indefinibili, con l’elegante fascino di tutte le cose inquietanti.

Guillaume assottigliò lo sguardo con impazienza, fino a che le figure non furono abbastanza vicine da poterle vedere più nitidamente. Un cavaliere avanzava in testa, la lancia puntata verso l’alto e l’elmo già calato sul viso.

Il conte sgranò gli occhi per un istante e senza volerlo trattenne il respiro.

« Dammartine! » chiamò, senza però tradire un’ ombra di paura, mentre una sensazione spiacevole gli strisciava sotto pelle.

L’altro feudatario ghignò da lontano nella sua direzione. « Cosa c’è ancora, Ponthieau?»

Anche gli uomini del conte Guillaume si stavano accorgendo di qualcosa e cominciarono a bisbigliare tra loro, confusi e nervosi.

« Silenzio! » li riprese Guillaume, furente. Poi si rivolse di nuovo a Dammartine e gli indicò il nemico col mento. Il feudatario assottigliò lo sguardo e un lampo di comprensione e timore passò nei suoi occhi. Non osò più guardare in faccia Guillaume. Le spie che avevano scoperto i piani degli inglesi non erano di Ponthieau, erano le sue.

Il cavaliere che capeggiava l’esercito nemico sembrava studiarli da sotto l’elmo, e forse aveva intuito la sorpresa dei francesi. Dietro di lui, gli stendardi erano neri con un leone d’oro sormontato dal fregio rosso dei cadetti e non avevano niente a che vedere con quelli di cui le spie francesi avevano ricevuto notizia.  Fece loro un segno di saluto con la lancia, quasi sarcastico quanto agghiacciante. I suoi sembrarono prenderlo come un segnale e suonò una tromba, gli arcieri tirarono in alto gli archi.

 

 

La Fiandra avrebbe dovuto attendere nuovamente l’arrivo dei francesi. Guillaume ricordava quella sconfitta, era una ferita che ancora bruciava nel suo orgoglio.

L’esercito francese si era battuto bene, ma era stato respinto senza remore, solo per fortuna la ritirata era riuscita e non c’erano stati prigionieri importanti. Ma re Filippo non era rimasto soddisfatto, soprattutto perché… le notizie che erano arrivate dalle spie, il presunto errore degli inglesi… era stato tutto falso.

Almeno Guillaume aveva potuto giustificarsi da questo punto di vista, mentre Dammartine probabilmente aveva architettato proprio allora il suo voltafaccia, il tradimento verso la corona.

La seconda volta che Guillaume vide quel blasone, fu il giorno del torneo di Bearne. Aveva potuto rivedere il blasone che aveva reso vana la sua strategia.

Francois de Bearne lo aveva guardato di sottecchi.

« Lo conosci?» gli aveva chiesto, incrociando le braccia al petto e guardando da lontano il barone che, in sella, si preparava ad affrontare la sfida.

« Non bene quanto vorrei. L’ho incontrato una sola volta sul campo di battaglia. »

Francois annuì tetro,  ricordando, forse, quell’avvenimento di due anni prima.

« Non preoccuparti. Non sempre chi è temibile in guerra lo è anche in torneo. »

« Lui sì. » lo smentì Guillaume, sicuro. Guardò negli occhi l’amico e poi accennò con un gesto secco della mano ad un’altra figura bionda e vestita di rosso che stava raggiungendo il barone.

« Altrimenti lui non lo avrebbe scelto. »

Poi lo aveva visto gareggiare nella giostra. E ancora non sapeva che faccia avesse, ma poco gli importava. Era molto più concentrato su Derangale in quel momento.

Uno dei motivi  per cui Guillaume de Ponthieu, in seguito, non riuscì subito a non provare diffidenza per Geoffrey Martewall, fu che nell’occasione del torneo non aveva potuto fare a meno di pensare che lui e Derangale fossero una coppia temibile e… e unita.

E come poteva biasimare la rabbia di Etienne de Sancerre? Jean era quasi morto per colpa di Derangale ed era poi stato fatto prigioniero da Martewall.

L’inglese non meritava alcun tipo di perdono.

Guillaume incrociò le dita davanti alla bocca, grato del  fatto che presto Martewall se ne sarebbe tornato in Inghilterra e con un po’ di fortuna non lo avrebbe più rivisto. Gli inglesi avevano interferito anche troppo nella vita della sua famiglia.

 

 

Era stato strano vederlo così.

Era strano vedere il barone di Dunchester che aveva gareggiato al torneo intimorendo così tanto i cavalieri francesi stare al suo cospetto a dargli spiegazioni. E aveva qualcosa di piacevole, anche.

Eppure Geoffrey Martewall non era sembrava cambiato dal giorno del torneo. Non aveva mai portato l’elmo per nascondere il suo viso, perché la fierezza dei suoi occhi era la stessa della sua postura in sella, di ciò che traspariva dalla sua abilità, dalla sicurezza del suo passo, dall’orgoglio inflessibile in ogni gesto.

Guillaume si era reso conto che vederlo in faccia non lo aiutava a carpire i suoi pensieri.

Ma di una cosa era certo: Geoffrey Martewall aveva coraggio.

Si era comportato da bandito, ricercando la vendetta e forse non era diverso da Jerome Derangale. Che elementi aveva Guillaume per pensare il contrario, d’altronde? Ma Martewall aveva coraggio.

E lo sapeva usare in tutti i modi possibili.

Sapeva cosa voleva dire schierarsi in prima linea in guerra, mettere tutto in gioco e rischiare la vita senza esitazioni. Aveva saputo affrontare il fato che gli spettava, la sua posizione d’ostaggio, aveva tenuto faticosamente la testa alta in quel gioco di intrighi.

E Guillaume sospettava che avesse anche avuto il coraggio di sbagliare volontariamente, per combattere ancora una volta contro il destino.  Aveva avuto il coraggio di fare un salto nel vuoto e abbandonare la sua casa nelle mani del nemico.

Doveva essere stata dura. Ma Guillaume queste considerazioni le fece solo in seguito. In quel preciso istante si sarebbe limitato a studiarlo con attenzione, certo che nemmeno con tutta la razionalità di cui disponeva sarebbe riuscito a giustificarlo.

Difficilmente chi era dal principio suo nemico non restava tale.

Probabilmente Geoffrey Martewall non avrebbe mai avuto una consapevolezza chiara di quanto, effettivamente, fosse riuscito a stupire il conte di Ponthieau.

 

 

 

Lo scudiero tentò persino di darsi un contegno mentre lo salutava con la testa ciondolante dalla stanchezza.

Guillaume inarcò un sopracciglio nel guardarlo. I capelli rossi di Beau Foxworth sembravano persino più scompigliati del solito, le guance erano color porpora e il dorso della mano correva spesso a sfregare gli occhi stanchi.  Guillaume lasciò che il ragazzino lo oltrepassasse, tentando di tenere le spalle ritte e di non strusciare i piedi a terra, e non poté fare a meno di notare quanto il ragazzino, nonostante la stanchezza, fosse raggiante.  Poi, seguì il percorso da cui lo aveva visto arrivare.

Trovò esattamente ciò che si era aspettato.

La figura di Martewall gli dava le spalle, indossava braghe in pelle nera, cinturone e camicia larga con le maniche arrotolate. Aveva ancora la spada da allenamento in mano, ma presto la posò sul tavolino della sala d’arme per allacciarsi la sua in cintura. Non mostrava alcun segno di affaticamento.

« Il ragazzo migliora? » chiese Guillaume all’improvviso. L’altro però non sembrò sorpreso, probabilmente lo aveva sentito arrivare e aspettava solo che il conte si mostrasse, o, se non ne avesse avuto voglia, se ne andasse.

Si voltò, poggiando una mano sul legno del tavolino.

« Sì. Il suo esercizio costante sta dando i suoi frutti. »

Guillaume annuì, lo sguardo attento. Non sapeva esattamente perché si trovasse lì, e questo lo irritava. Forse voleva semplicemente conoscere più a fondo quell’uomo che rimaneva per molti aspetti imperscrutabile perfino ai suoi occhi. Come se dietro quegli occhi chiarissimi vi fossero abissi a cui la sua ferrea logica non poteva arrivare. Non ci furono saluti, tra loro. Sicuramente Martewall si chiedeva il motivo di quella visita, forse non era del tutto certo che Guillaume si fidasse completamente di lui, o che la sua compagnia potesse risultargli anche solo poco piacevole.

Guillaume provava un profondo senso di rispetto per Geoffrey Martewall, e, ora che aveva salvato la vita a colui che oramai considerava veramente suo fratello, anche gratitudine. Quella punta di sottile perplessità da parte sua che, lo sapeva, Martewall sentiva sulla pelle anche se oramai tra loro non vi era più alcuna traccia di rancore, era dovuta solo alla profonda contraddizione che l’inglese rappresentava per Guillaume.

Prima aveva aiutato l’amico di sempre, Derangale, a coronare i suoi sogni di gloria, aveva preso prigioniero Jean per vendicare la sua morte. Poi si era rivelato essere una persona completamente diversa da come ci si sarebbe aspettati, diventando amico di colui che era stato l’origine della sua bruciante rabbia vendicativa. 

Guillaume non pretendeva di violare la sua interiorità senza ritegno, razionalmente, ma era deciso ad avere una risposta, una curiosità soddisfatta che, come ogni curiosità, avrebbe potuto avere una valenza politica.

Martewall lo osservò ancora per qualche istante, poi afferrò il mantello e la casacca nera. Guillaume lo stava ancora studiando quando Beau entrò di nuovo, di corsa,  nella sala, inchinandosi e salutando rispettosamente al cospetto dei due feudatari. Guillaume però sospettava che se fosse stato solo con Martewall non sarebbe stato così formale.

« Sir Martewall, Sir Jean ha detto che posso avere la giornata libera. Potremmo continuare? » chiese, gli occhi pieni di aspettative.

« Credevo fossi stanco. » lo provocò Martewall, il tono incolore. Guillaume però non si stupì di notare ancora una volta l’ombra di un affetto nascosto molto bene dall’inglese verso il ragazzino. Era un dettaglio che aveva notato più volte, come una certa affinità tra loro, una sorta di comprensione che passava anche attraverso la severità del barone.

« No!» si affrettò ad esclamare il ragazzino. « Ho ripreso fiato in questo tempo, signore!»

« Troppo tempo. » affermò il cavaliere, asciutto. « Ti sei battuto con un solo uomo ed eri sfinito, i tuoi tempi di ripresa sono troppo lenti. Se ci fossero stati più nemici, cosa avresti fatto? Un cavaliere non riprende fiato, lo conserva. » e gli lanciò una spada che, anche se a stento perché troppo sorpreso, il ragazzino prese al volo. Dopo lo sbalordimento e il dispiacere misto alla soggezione che la freddezza di Martewall incuteva, il suo volto venne atteggiato a un’espressione determinata e orgogliosa.

Guillaume assisteva alla scena con un certo divertimento. Martewall sembrava soddisfatto del suo allievo in erba solo quando questo non era presente. Per il resto pareva molto critico e incontentabile.

« Signore, ho interrotto la vostra conversazione? Se è così, vi prego di scusarmi… » mormorò poi Beau, rivolto al conte. Guillaume lo tranquillizzò con un gesto della mano.

« No, non preoccuparti. Ero solo venuto a salutare sir Martewall e a ringraziarlo di nuovo per ciò che ha fatto. » mentì, perché sebbene si sentisse davvero grato nei suoi confronti, le sue gambe lo avevano portato lì senza uno scopo preciso. Ponthieau non era un uomo che agiva senza un motivo, per cui aveva subito iniziato a studiare di nuovo l’inglese dall’anima tanto insondabile.

Martewall chinò appena il capo senza troppa attenzione, signorilmente.

« Come sta? » chiese, dopo un attimo di silenzio, riferendosi chiaramente al Falco.

« L’avete curato bene. Si sta riprendendo. La Provvidenza non finisce mai di stupirmi. »

« Sir Martewall ha combattuto come un vero Leone! Non pensavo che si potesse fare! » esclamò Beau, ammirato, mentre lo sguardo di Martewall si incupiva.

Guillaume fece un segno d’assenso. Lo aveva già visto agire in guerra, quindi sapeva di cos’era capace.

« Se volete, mio fratello ora è sveglio, nelle sue stanze, salite le scale… »

Martewall però scosse lievemente la testa. Guillaume immaginava che ritenesse di aver già avuto anche troppi ringraziamenti, o forse aveva solo bisogno di solitudine, quel bisogno che ogni tanto si faceva strada nelle sue iridi.

« L’ho visto anche troppo in questi giorni. Le scale me le risparmio. »

Guillaume raddrizzò la schiena, pronto a lasciare la stanza. Prima però, osservò ancora il barone inglese, la sua espressione fredda e indecifrabile, la mano poggiata alla spada con noncuranza, come se oramai questa fosse parte del suo corpo, gli occhi profondi che celavano una tempesta di pensieri ed emozioni mai esternati.

Ricordò il suo dolore, la sua fiera, e ancora più straziante proprio per questo, sofferenza. Il vuoto dei suoi occhi quando aveva scoperto la morte del padre. Ricordò lo sguardo indomato ma pronto ad accettare anche il fato più meschino, quando aveva parlato con lui la prima volta. Ricordava il modo in cui aveva sorretto Jerome Derangale, l’amico ad un passo dalla morte.

« Ammetto di non avervi mai capito del tutto, sir Martewall. Ma ora so cosa siete disposto a fare per un amico. Avrete sempre il mio rispetto. » affermò il conte, col solito sguardo neutro e il tono incolore.

Martewall non distolse mai lo sguardo dal suo, ma evidentemente non era d’accordo. E Guillaume sapeva che aveva compreso il senso più profondo delle sue parole, a differenza di Beau che aveva un’espressione perplessa.

Anche il Leone lui pensava a quello che aveva fatto per Derangale.

Il conte raggiunse l’uscita a grandi passi, pensando se avesse dovuto mettere in chiaro che non provava più alcun tipo di rancore nei suoi confronti. Poi ricordò il suo odio, la sua furia distruttrice, la sua rabbia devastante.

Si fermò di colpo in mezzo al corridoio, stringendo appena i pugni, divorato dall’indecisione che pensava di aver superato, oramai.

Aveva già detto a Martewall tutto ciò che realmente pensava. Non c’era nulla da chiarire.

 

 

L’arrivo dell’inglese era stato annunciato ormai da diversi minuti. Guillaume non si era ancora mosso dalle sue stanze, e non aveva alcuna intenzione di farlo. Il tempo trascorreva senza che lui se ne rendesse conto. Forse nemmeno gli importava di ciò che accadeva intorno a lui.

Il mondo era solo rabbia, adesso. E solo dolore.

Era straziante, più di quanto avesse mai potuto immaginare o ammettere con se stesso. Era straziante ma non era sconosciuto. Lui aveva già provato il dolore causato dal tradimento di un fratello. Quante volte ancora il fato lo avrebbe costretto a provare queste emozioni?

Mai più, giurò a se stesso con tutta l’anima.

Mai più.

Essere solo lo addolorava, così come la profonda sensazione che ogni cosa fosse vuota e senza senso, ma con tutto se stesso Guillaume cercava di sommergere tutto ciò che lo soffocava ogni secondo con la rabbia, nella convinzione di essere nel giusto.

Era il solo modo che aveva per combattere contro la sua anima ferita, dilaniata, forse insanabile.

Versò altro vino nel bicchiere e sentì appena i passi che salivano le scale per fermarsi davanti alla sua porta, che dopo pochi istanti si aprì improvvisamente.

« Monsieur! » esclamò il servo, e Guillaume, anche senza il bisogno di girarsi, capì che non si stava rivolgendo a lui, ma all’uomo che aveva accompagnato fino a lì e che aveva aperto senza bussare.

Non aveva alcuna voglia di parlare, né di pensare. Ma niente era cambiato per il mondo esterno, e lui restava sempre il conte Guillaume de Ponthieau. Aveva degli obblighi, dei doveri, e aveva ancora il suo onore e il suo orgoglio. Non lo avrebbe rinnegato in quel modo. Non avrebbe ceduto a questa debolezza.

« Puoi andare, Pierre. » disse, senza voltarsi, congedando il servo con un gesto della mano. Mentre Pierre si inchinava, salutava e se ne andava, Geoffrey Martewall fece un passo avanti.

« Cosa volete? » chiese Ponthieau, lanciando a Martewall un’occhiata bruciante. Un sorriso amaro e terribile gli attraversò il viso. « Vi manda lui? È arrivato a questi punti? » 

Martewall non mutò la sua espressione fredda, ma Guillaume aveva l’impressione che i suoi occhi potessero arrivare a scoprire i luoghi più oscuri e nascosti della sua anima.

« Io ho una guerra da combattere, sir. E non voglio immischiarvi nei vostri affari. » affermò, la voce incolore ma forse più cupa, come le ombre delle sue iridi. Guillaume si chiese cosa avesse visto in lui che lo aveva tanto turbato. Ma in fondo… non gli importava neanche questo.

« Allora togliete il disturbo. » ordinò, furente ma sempre controllato.

 « Tra poco. » annuì Martewall, avvicinandosi di un altro passo. Guillaume riportò gli occhi sulla finestra.

« Prima voglio parlarvi di Beau Foxworth. »

Il viso del conte si trasformò in una maschera rigida e sprezzante, folle di rabbia. « meriterebbe di morire sul patibolo. » rispose tra i denti.

Lo sguardo di Martewall lampeggiò per un istante, come il riflesso del sole su una spada.

« Lo porterò con me in Inghilterra. E con lui sua madre. »

Guillaume strinse le dita intorno al bracciolo della sedia fino a farsi male. Il suo petto fremeva di collera repressa, tanto che non riconobbe più se stesso quando dalla sua gola proruppe una breve risata amara, fredda, terribile.

« è così che chiedete il mio permesso, inglese? »

« Non ho mai detto di voler chiedere il vostro permesso. »  

Guillaume si voltò completamente a sfidarlo con lo sguardo. Nella mente germogliavano cattiverie nate dal dolore e dall’ira verso tutto ciò che lo circondava, dal bisogno di trovare qualcuno con cui prendersela, su cui far valere il proprio potere. Germogliavano come piante infestanti, impossibili da estirpare.

« Voi inglesi siete tutti uguali. Giovanni Senza Terra, I baroni, William Lungaspada, anche Gant, sebbene lo sia solo per metà…. Beau Foxworth, Jerome Derangale… voi, Geoffrey Martewall… » il suo sorriso si allargò, agghiacciante quanto sarcastico e meschino.« avete tutti un’inclinazione naturale al tradimento.»

Geoffrey non fece un gesto, nulla cambiò sul suo volto. Guillaume rimase per un secondo interdetto. Non si era aspettato quella reazione, non si era aspettato di poter offendere l’onore di Martewall rimanendo impunito. E allora… perché lo aveva fatto?

Ora che la reazione che si aspettava, da cui a sua volta sarebbe stato offeso, non era avvenuta, provava vergogna per ciò che aveva detto.

Martewall continuava a soppesare la sua figura. Guillaume sapeva che non stava provando rabbia. Vi era nei suoi occhi una strana comprensione, una consapevolezza inquieta, una solitudine audace ed elegante.

« Il ragazzo è stato, invece, molto fedele al suo padrone. Per questo adesso devo portarlo in Inghilterra. »

« Se questa è la vostra idea di fedeltà, potete anche ritornare in Inghilterra e non fare più ritorno. Qui non siete i benvenuti. » sbottò Ponthieau, alzando il mento con orgoglio.

« E per questo porto anche sua madre. Credo che oramai sia chiaro che ho il vostro permesso, non è vero? » rispose Martewall, tagliente ma calmo e pacato come la fredda nebbia delle foreste inglesi.

« Non fingiate che vi importi. »

 « Non lo farei mai. » si limitò a rispondere il barone, con un gesto vago. Ma prima ancora che potesse finire la frase, Guillaume lo interruppe, indolente:

« Ditemi una cosa, Leone di Dunchester. Chi pensate che possa essere Jean Marc de Ponthieau? Cosa volevate che diventasse per voi? Ha mai tradito qualche vostra aspettativa? È riuscito ad essere un amico migliore di colui che ha ucciso, alla fine? Si è fatto perdonare per questa sua colpa? »

Ad ogni domanda il suo cuore pulsava più forte nelle orecchie, la sua voce diveniva più arcigna.

Martewall per un attimo sembrò preso in contropiede. Perché il nome di Jerome Derangale un segno dentro di lui lo lasciava ancora. Poi il suo sguardo per un momento si abbassò e tornò a guardare dritto in faccia Guillaume dopo un altro istante, più forte di prima.

« Anche io ho perso un amico. Anche io mi sento tradito da lui. » ammise, stringendo i pugni. Guillaume parve risvegliarsi da un incubo, capì quanto ingiusto fosse stato, non si riconosceva e si sentiva terribilmente infantile.

« Mi dispiace. » si scusò, seppellendo l’orgoglio in un angolo del suo cuore dove non lo avrebbe fatto sentire un idiota. « ho riaperto per rabbia vecchie ferite. »

Geoffrey non gli aveva lanciato sguardi accusatori o irati per tutto quel tempo, neanche quando Guillaume lo aveva offeso. Solo ora, inaspettatamente, i suoi occhi erano duri e severi come mai li aveva visti prima.

« Non c’è nulla di “vecchio” nelle mie ferite. » sibilò, la voce profonda vibrante di rabbia. « Sapete cosa rimpiango di più di Jerome, Ponthieau? »

Guillaume scosse la testa lentamente, gli occhi appena dilatati sotto la maschera di falsa impassibilità.

« Rimpiango il non poter sentire come si sarebbe giustificato. Rimpiango la sua occasione perduta di spiegarmi tutto, il perdono che non gli avrei dato, ma che avrei sempre potuto pensare di dargli. E non era mio fratello… »

Guillaume era paralizzato dalla sorpresa. E fu come se dita gelide gli stessero stringendo lo stomaco.

Geoffrey si girò e si allontanò da lui, mise una mano sul pomello della porta.

« Cercate solo… » disse,  senza più voltarsi « Di non fare per orgoglio o paura la mia stessa fine. »

 

 

Taratatàààà….

Ci ho messo anche poco, no? Per essere Guillaume de Ponthieau…

Sono stata affetta da un’improvvisa ispirazione ed è uscito questo, e presto dovrò riscattarmi con il conte perché forse il capitolo non gli rende giustizia. Ho fatto del mio meglio e ho deciso che prima o poi tornerò a sperimentare su di lui, dato che più tento di descriverlo più lo capisco.

Se qualcosa non vi piace ditelo tranquillamente! Soprattutto nella parte finale che è stato un po’ un azzardo da parte mia…

*Ma non è mia la colpa! È tua, Jerome! Trovi sempre il modo di intrometterti! Ti ho detto che non scriverò di te e Geoff insieme per un po’, ok?!*

Non è d’accordo…   : \

Ringrazio moltissimo anche solo chi legge… poi Beau Foxworth per la sua partecipazione e la carissima Wrong_And_Right  che:

1 ha suggerito Guillaume de Ponthieu tramando alle mie spalle.

2 recensisce ogni singolo capitolo (e le sarò eternamente grata ; )

3 trama anche alle spalle di Brianna…

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Henry De Grandpré- Difese ***


Henry De Grandpré

Difese

 

Nessun disagio nella ribellione.

Questo era ciò che vedeva. Nessuna paura o vergogna nell’essere un ribelle, scomunicato, giudicato e, probabilmente molto presto, duramente punito. Henry de Grandpré non sapeva come avrebbe reagito lui, ritrovandosi nella stessa situazione del barone di Dunchester.

I suoi conterranei erano contro di lui, il diretto discendente del suo re avrebbe sempre ricordato il suo tradimento, il papa gli aveva tolto l’unica certezza a cui poteva aggrapparsi e l’idea di morire adesso doveva essere intollerabile.

Eppure non era bastata l’idea del futuro infernale ed eterno che lo aspettava dopo la morte a farlo vacillare, in un panorama in cui la Francia non poteva essere un appiglio famigliare a cui aggrapparsi se la guerra fosse finita nel peggiore dei modi.

Henry credeva fermamente che, anche se all’inizio Martewall era stato restio a combattere contro il re per il quale erano morti i suoi fratelli, la ribellione fosse per natura nelle sue corde.

E adesso solo la vittoria poteva portare a una prospettiva futura piacevole. La sua morte e la sconfitta sarebbero state ancora più terribili di quelle di un qualsiasi altro uomo.

Henry adesso capiva appieno quale orrore rappresentasse una guerra civile. Capiva, attraverso il tentativo di immaginare come ci si dovesse sentire a combattere contro i propri conterranei, coloro che un tempo erano stati compagni.

E provava rispetto e ammirazione verso quell’uomo che, pur sapendo di essere alleato del fronte in svantaggio, non agiva per opportunismo e resisteva a testa alta.

Non erano amici, e probabilmente non lo sarebbero mai stati nello stesso modo in cui Henry lo era diventato con Etienne de Sancerre, Jean o Henry de Bar. I suoi compagni d’arme erano più esperti di lui, ma sottolineavano sempre le sue qualità, e lo facevano sentire un loro pari.

Probabilmente non sarebbe mai riuscito a sentirsi al pari di Martewall.

L’inglese possedeva un’ aurea di potenza diversa da ogni altro uomo che Henry avesse conosciuto. C’era qualcosa in lui che spingeva i suoi nemici a temerlo, i suoi sottoposti ad obbedirgli senza la minima esitazione, qualcosa di intangibile e invisibile, solo percepibile.

Henry era molto bravo a percepire le cose. E quando pensava a Martewall in guerra gli sembrava che fosse esattamente nel posto in cui doveva essere, perché gli anni passati a combattere avevano lasciato un segno in lui. Ora era un veterano e sapeva guidare un esercito come se fosse nato per farlo.

Henry notava il suo senso di indifferenza e repulsione per i banchetti, per  le lunghe giornate vuote e calde tra le mura di un castello, la sua noia e l’impazienza mentre osservava fuori dai grandi finestroni di Seour, aspettando di poter tornare in Inghilterra e rivivere il piacere dei viaggi e provare a creare un futuro migliore per la sua terra.

Probabilmente Martewall non pensava potessero esserci altre strade per lui. Che tutto ciò che non riguardava la battaglia, i suoi doveri e la difesa di ciò che riteneva giusto gli sarebbe stato sempre negato dalla vita. Henry sperava che non se ne fosse convinto troppo.  Ma non potevano certo essere loro a spiegarglielo, lui e Jean lo sapevano bene e si trovavano d’accordo, Henry ne era convinto, anche se mai ne avevano parlato.

Henry sorrise nel vedere la persona che avrebbe potuto far crollare tutte le certezze dell’anima fredda di Geoffrey Martewall. Si avvicinò con passo calmo, ma attento a non farsi sentire, lo sguardo velato di malizia.

Se c’era una cosa che sapeva fare meglio degli altri era scavare nell’anima delle persone, intuirne la sostanza. Brianna Foxworth si era guadagnata la sua simpatia fin dal primo momento che aveva passato in Francia come dama da compagnia e serva di Isabeau. Henry provava un grande rispetto nei suoi confronti. Era una donna forte, combattiva e indipendente, che da ragazzina si era ritrovata disprezzata da tutti, sola con il suo bambino da proteggere e da amare.

Lei e Martewall condividevano l’incomprensione del mondo.

La conosceva oramai abbastanza da sapere che Martewall si meritava una donna come lei al suo fianco. A discapito di ogni pregiudizio, malgrado ogni convenzione. Più li osservava più si convinceva che così dovessero andare le cose.

 

*

 

La stanza era rischiarata solo dalla luce divampante del camino. Si erano riuniti lì dopo la cena, con molta discrezione.

Era prevedibile che la discussione sarebbe caduta inevitabilmente su Adolphe de Gant.

«Risolveremo la situazione, non temete. » disse infine Jean con orgoglio ma anche con aria stanca e il tono di chi vuol chiudere al più presto la conversazione. « Ma serve tempo, Etienne. E serve una strategia. Non puoi accusarlo senza prove e non puoi ucciderlo senza il benestare del re. Devi fartene una ragione. » decretò, deciso, incatenando lo sguardo di Etienne de Sancerre al suo.

Etienne lo osservò mentre alle sue spalle il cielo si incupiva. Annuì una sola volta, la mascella contratta dalla rabbia.

« Pensi che non riuscirete a provare la sua colpevolezza. »

La voce di Martewall ruppe il silenzio e vibrò, profonda, nella stanza per la prima volta in quella sera. Etienne lo guardò appena, e l’incertezza nel suo sguardo non gli si addiceva affatto.

« Gant avrà ciò che merita. Guardati attorno, Sancerre, e scoprirai che si è già fatto troppi nemici. »

Tra tutti loro, Martewall in quel momento era l’unico davvero sicuro di ciò che diceva. Henry fu grato della sua presenza, anche se solo momentanea. Sembrava essere il solo che riuscisse a mettere fine in due parole alle proteste di Etienne, come se fosse abituato, più che ad esercitare l’arte della diplomazia, che gli era del tutto estranea e con Sancerre non funzionava, a gestire personalità irruente.

« E tu, inglese, quanti nemici hai? Metà dell’Inghilterra desidera vedere la tua testa su una picca, e forse anche buona parte dei francesi. Eppure sei ancora qua.»

« Etienne, per favore! » Henry si sentì in dovere di intervenire, scuotendo la testa esasperato. « vuoi forse paragonare Gant a sir Geoffrey? »

« No! » affermò subito Etienne indignato « non intendevo dire questo. »

Mentre Jean sospirava, Martewall lo tranquillizzò con uno sguardo neutro e un gesto per lasciare intendere che non era offeso.

« Io non ho mai cercato di non farmi nemici. Gant invece si è sempre guardato le spalle e ha fatto in modo di sembrare il più devoto dei cristiani, il più fedele dei francesi e il più onesto dei vassalli. Non credo si sia mai trovato in una situazione simile. Questo dovrebbe darvi un vantaggio. »

De Bar annuì seguito a ruota da Jean, trovandosi evidentemente d’accordo con ogni parola.

Jean incrociò le braccia al petto e si toccò istintivamente la spalla.

« è scaltro. » dovette ammettere, cupo.

« Ma non è l’unico ad esserlo. » affermò Martewall, includendo tutti nella sua occhiata eloquente.

Martewall non aveva uno spirito arrendevole, questo era certo. E pur avendo la sua guerra e i suoi tormenti personali in quel momento stava lì con loro, ad assistere ad una conversazione che non avrebbe comunque portato a niente, a cercare di placare la rabbia cieca di Etienne e a dare sostegno a Jean, in uno dei luoghi chiusi e affollati che tanto odiava. Henry apprezzava in modo particolare il suo parere, razionale e lucido, non forzatamente ottimistico.

Sancerre ghignò sarcastico.

« Se non ti bastava già metà dell’Inghilterra, gioisci, Martewall… hai un altro nemico. »

La frase fece drizzare la testa di Jean. De Bar fulminò Etienne con lo sguardo.

« Scusa. » fece Etienne a Jean, alzando una mano con sincero dispiacere, ma anche in parte divertito.

Martewall scosse le spalle noncurante. Il Falco però non si astenne dal guardarlo preoccupato, in attesa della sua opinione.

« Gant è ossessionato da te, perché solo tu puoi mandarlo in rovina. Io non ho importanza per lui. »

« Chiunque interferisca nei suoi piani ha importanza per lui. » lo contraddisse Jean.

Martewall aveva un modo tutto suo di mostrarsi spavaldo, con una strana naturalezza e noncuranza, ed era chiaro a tutti che ne avesse pieno diritto.

 

*

 

 Ogni volta che lo guardava, non poteva fare a meno di ripensare a quel giorno.

L’aria era calda, rischiarata dal sole rovente del primo pomeriggio. I cavalli si abbeveravano nel ruscello, stanchi, scuotendo la coda e la criniera per scacciare le mosche. Henry accarezzava distrattamente il collo del suo destriero, e aveva solo voglia di varcare le soglie della contea di Champagne e tornare a casa.

Era accerchiato dai suoi soldati e da un paio di scudieri. I volti di coloro che mancavano dal giorno della battaglia di Bouvines gli tornavano però sempre in mente e pesavano sul suo cuore come macigni.

Improvvisamente fu distratto dai suoi pensieri dal passo deciso di molti uomini, dal clangore dei loro armamenti e dalle voci che si alzavano ed abbassavano, berciando ordini.

Guardò sulla strada di terra secca dietro di lui, come molti dei suoi uomini.  Vide una carovaniera formata da tre soldati in testa e almeno il doppio di loro dietro. Erano a cavallo e accerchiavano qualcosa che dalla posizione in cui si trovava Henry era impossibile da definire. Il giovanissimo conte rabbrividì istintivamente, portando la mano alla spada. Uno dei suoi soldati più anziani intercettò il suo movimento e gli si avvicinò.

« è il conte di Soissons coi suoi cavalieri, signore. »

Henry aguzzò la vista e riconobbe prima i blasoni sulle cotte di maglia, poi il volto navigato del conte. Si preparò a salutarlo solennemente, sebbene non gradisse la sua compagnia. Quelle erano le sue terre e solo grazie alla sua benevolenza Henry aveva potuto transitarvi e accorciare il suo viaggio.

Soissons lo raggiunse e gli strinse la mano con un grande sorriso e parole cortesi. Henry notò che alcuni dei suoi cavalieri, rimasti più distanti, tiravano per le briglie dei cavalli senza padrone, appartenuti forse ai periti durante la battaglia.

Henry spostò lo sguardo dietro alle spalle di Soissons, mentre il conte ancora gli stava parlando, con un bagliore negli occhi.

L’uomo più anziano intercettò la sua occhiata e ghignò con soddisfazione.

« Ah, sì… » disse, smontando di sella e ordinando con un gesto ai suoi uomini di fare una sosta. « il re mi ha lasciato alcuni prigionieri di guerra. » continuò, sorridendo e facendo segno a Henry di avanzare.

Lo sguardo del giovane si era incupito, e non colse l’invito. Una volta che i cavalli si furono spostati, Henry poté vedere i soldati sguainare le spade con le catene, che culminavano stringendosi attorno ai polsi dei prigionieri, ben salde nella mano libera. I soldati li fecero camminare verso gli alberi, quattro uomini di diversa età, tutti insieme per controllarli ogni secondo.

La scena fu straziante. Henry non riuscì a vederli negli occhi e ne fu grato, nessuno di loro sembrava avere la forza di rialzare la testa. Erano vestiti solo con braghe e camicie strappate sporche da giorni, i capelli unti e le barbe sfatte. Qualche macchia di sangue era visibile anche sugli abiti scuri, probabilmente dal giorno della battaglia decisiva. Le gambe cedevano a causa delle ore di cammino a piedi, le braccia sempre contratte a causa delle catene che le tenevano unite all’altezza dei polsi. Le schiene si incurvavano, esasperate dal caldo.

« Hanno viaggiato a piedi. » constatò Henry, quando ebbe riacquistato la voglia di aprire bocca.

« Certo. » disse Soissons, come se si chiedesse perché avrebbe dovuto confermare un concetto scontato.

« Ma avete cavalli liberi. » replicò Henry, cauto.

Soissons si aggiustò la manica ricamata con un sorriso indifferente.

« Sono inglesi? » chiese Henry, non provando nemmeno a forzare il suo silenzio.

« Sì. Tutti. » rispose l’altro. « Ma i Pontchateau hanno anche qualche imperiale. O forse fiammingo. Voi? »

Henry si chiese se il conte stesse parlando di merci o di persone, con lo sguardo a stento controllato e la mascella contratta.

« Io non voglio nessuno. » sibilò.

Il sorriso di Soissons si distese e il sopracciglio destro si alzò mentre annuiva.

« Neanche lui? » chiese, indicando con la mano guantata un punto al margine della strada. Là vi era un uomo costretto in ginocchio da ben tre soldati che non lo perdevano di vista neanche per un secondo. Era separato dagli altri e Henry suppose che fosse quindi il loro capo, o comunque qualcuno di rango superiore.

I quattro prigionieri si irrigidirono al vedere quel gesto, e provarono a scambiare qualche parola prima che una spada saettasse sopra alle loro teste.

A differenza degli altri prigionieri, il giovane indicato da Soissons teneva la testa, incorniciata da lunghi capelli castani, faticosamente alta per quanto poteva, e i suoi occhi si puntarono senza paura in quelli del conte più anziano. Henry vi lesse un odio dalla potenza, orgoglio e fierezza smisurati e distolse lo sguardo con un nodo alla gola, sebbene l’occhiata dell’inglese non fosse indirizzata a lui. Sul viso del sassone vi erano chiari segni di percosse.

Henry non avrebbe dovuto stupirsi. Ma persino il pensiero che gli inglesi avrebbero trattato allo stesso modo i francesi non bastò a frenare il suo disgusto.

« Perché dovrei volerlo? » chiese, mordendosi l’interno guancia.

Soisson alzò le spalle.

« Potreste chiedere un alto riscatto, è il figlio di un barone. E poi, lo conoscete. È stato il compagno dello sceriffo di Flandre al torneo di Bearne.»

Henry sgranò gli occhi dalla sorpresa e soppesò di nuovo il prigioniero con lo sguardo, per poi distoglierlo di nuovo, imbarazzato.

  « Non mi interessa. » mentì Grandpré.

Soissons osservò Martewall da lontano, cupo. « Ve lo avrei ceduto volentieri. » ammise, dopo qualche secondo, le braccia incrociate al petto. « Il suo sguardo mi suggerisce che potrebbe crearmi problemi. »

Henry non riuscì a trovare nulla da ridire. Ma con la coda dell’occhio gli sembrò d’intravedere il sospiro sollevato di un prigioniero pressappoco suo coetaneo, che aveva potuto intuire il discorso dei due feudatari.

Non riuscendo a trattenersi osservò di nuovo il barone in faccia. I suoi occhi parevano dinamici ma nel contempo ricchi d’esperienze, immagini, sicurezze e tormenti. Il modo in cui lo scrutavano lo metteva in soggezione, artigliava l’anima sciogliendone i segreti e la tenacia, e l’odio infiammava le iridi di un fuoco guizzante ma gelido.  Per fortuna l’inglese non prestò mai molta attenzione al ragazzo, concentrato su ogni mossa di Soissons e dei soldati che lo minacciavano con le spade sguainate.

Non erano gli occhi di chi proteggeva solo se stesso. Henry era oramai riuscito ad intuire il rapporto che univa Martewall ai suoi compagni e sapeva, così come il barone stesso, che la sua solitudine non poteva essere appieno compresa da loro. Loro che fino a quando lui sarebbe stato presente avrebbero avuto la loro guida, mentre lui, così consapevolmente inafferrabile e  inarrivabile, avrebbe avuto solo se stesso.

 

*

 

C’era una cosa che non comprendeva di lui e che gli metteva davanti diversi interrogativi.

La capacità di mostrarsi spietato, tanto con gli altri quanto con se stesso. Henry non sarebbe mai riuscito a uccidere come lui uccideva e si chiedeva cosa ricercasse nella battaglia che altrove non riusciva a trovare.  Gli sembrava naturale chiedersi che cosa avesse vissuto, visto o sofferto.

In fondo, ogni uomo usava le difese che aveva per creare un baluardo potente contro le avversità del mondo. E Geoffrey Martewall ne aveva bisogno più di molti altri.  Henry sentiva una punta di invidia, la stessa che provava nel notare la naturalezza e la sicurezza con cui si faceva obbedire dai suoi uomini, al pensiero che, più che difese, quelle di Martewall sembrassero armi.

 

 

 

Eccomi faticosamente di ritorno : )e siamo al sette. Ancora lontani dalla fine.

Come se io sapessi quale sarà il momento della fine…

Ooook il capitolo mi sembra un po’ corto, ma doveva finire qui. Avevo paura di essere ripetitiva confrontando questo capitolo con quello dell’altro francese che ho stressato per, forse, giorni o settimane: Etienne. Fra tutti è il capitolo che mi convince meno, Henry si è rivelato più insidioso di quanto pensassi.

Spero di essere riuscita a comprenderlo bene….  : )

Eeeee… invece, per il prossimo capitolo, avrei voluto lasciare spazio anche al povero Henry de Bar… se lo merita e mi sta simpatico. Però per adesso ci studiamo da lontano, lui mi guarda e non dice una parola: \

Avrei un’altra ideuzza, e questa è più consolidata, ma dovrei tornare ad un’inglese… e potrebbe, forse, probabilmente, comparire un Geoffrey Martewall più o meno… della mia età ; )… si vedrà.

Ciao e grazie per essere arrivati fin qui!

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Kerwick-Vendetta ***


Kerwick

Vendetta

Lo conosceva da quando erano entrambi bambini.

Ci si sarebbe aspettato che in tutti quegli anni avessero creato un legame, in qualche modo. Le mura di Dunchester non erano poi così larghe, e due bambini all’incirca della stessa età, il terzo figlio del barone e il figlio di uno dei suoi più fedeli cavalieri, avrebbero potuto facilmente fare amicizia, giocare e sognare insieme fino a quando non avessero entrambi ricevuto l’investitura.

Ma non successe così.

Kerwick passò tutta l’infanzia tra le mura del castello, servendo suo padre come scudiero. Conosceva molto bene il barone di Dunchester, che lo gratificava ogni volta che lo vedeva svolgere efficacemente e con zelo il suo dovere. Conosceva il suo carattere, le sue attività preferite, il falco che avrebbe dovuto portargli ogni qualvolta avesse avuto voglia di andare a caccia. Sapeva cosa fare per aiutarlo nella vita di tutti i giorni e sapeva cosa non fare per non farlo arrabbiare.

Ammirava suo padre e il barone oltre ogni misura. E conosceva i figli di quest’ultimo.

C’era Richard, il maggiore e l’erede, dallo spirito ardito e tanta voglia di avere successo in ogni cosa. C’era Peter, mite e pacato, che lo salutava sempre con un sorriso sincero. C’era l’unica femmina, l’ultima dei figli di Harald Martewall, Leowyn. Di lei Kerwick avrebbe potuto parlare all’infinito senza stancarsi mai.

Il terzo degli eredi era Geoffrey.

Kerwick aveva sentito dire spesso che la sua esistenza, per quanto fosse cara ad Harald, non era mai stata necessaria. Da un punto di vista prettamente razionale, era curioso che vi fosse un terzo figlio maschio ad arricchire un matrimonio combinato come quello di Martewall e sua moglie. Due eredi facevano sempre comodo, il terzo solitamente si poneva a capo di un’abbazia, oppure si addestrava per i tornei. Non avrebbe mai ricevuto un’eredità. I Martewall non erano baroni così ricchi da poterla concedere a più di due eredi, più la dote per la figlia femmina.

Sentiva parlare molto spesso della famiglia Martewall, dai suoi genitori, quando si riunivano a tavola nella loro casa in una zona privilegiata del borgo di Dunchester. Suo padre gli raccontava delle sue avventure in guerra passate assieme a sir Harald e il bambino non si stancava mai di ascoltarle. E c’erano giorni in cui si parlava di lui, il terzogenito del barone. I suoi genitori a volte ricordavano il giorno in cui era nato, un giorno in cui il mare era in tempesta, a volte si domandavano quale futuro lo aspettasse.

« Qualcuno nella sua condizione… » aveva mormorato una volta il padre, riflessivo, gli occhi che non vedevano davvero la parete della loro casa, in una sera in cui l’ombra nera della guerra incombeva su di loro e si percepiva sulla pelle. « Può avere solo una vita ordinaria e stagnante o gloriosa e difficile. Senza nessuna via di mezzo. »

Kerwick non aveva compreso il senso delle sue parole. E non aveva cominciato allora ad osservare Geoffrey e a studiarlo, perché da sempre il terzogenito aveva attirato la sua attenzione più di ogni altro. Non aveva mai osato rivolgergli la parola, provava una sorta di timore che solo i bambini timidi e insicuri potevano avere.

 Davanti a lui si sentiva a disagio. Non che credesse che fosse un bambino cattivo, semplicemente Geoffrey non aveva mai mostrato di aver notato la sua presenza in quegli anni, troppo concentrato su altro e soprattutto troppo superiore a lui, sotto diversi aspetti. Kerwick ammirava la sua forza d’animo, ma non gli si avvicinava, in parte per paura di venire trascinato in qualche guaio, come era oramai un’abitudine per il suo piccolo signore, in parte perché si sentiva veramente inferiore a lui. Lui, che aveva mostrato un talento per la scrima così palese che sir Harald, con orgoglio, non aveva avuto dubbi fin da subito su quale carriera Geoffrey avrebbe intrapreso.

Kerwick ci metteva una settimana per imparare ciò che lui imparava in un giorno. Gli voleva bene, ma da lontano, dato che con la timidezza che si ritrovava ad avere da bambino non sarebbe riuscito a stargli dietro o a farsi apprezzare da lui, che possedeva un carattere così dinamico.

Geoffrey era l’irrequieto, il solitario, il ribelle. Le regole imponevano al suo spirito troppi limiti e lui sentiva irrimediabilmente l’istinto di superarli. Geoffrey era il contestatore, il sognatore, l’arrabbiato e l’idealista. E quello che finiva sempre per far tirare fuori la verga dal padre per più volte.

Era testardo e orgoglioso. Sir Harald lo rimproverava di continuo di voler fare sempre di testa sua e di avere poca capacità d’ascolto, e Kerwick era d’accordo con lui non solo perché era il suo signore, ma anche perché la testardaggine di Geoffrey era visibile chiaramente a tutto il castello. Il piccolo barone però aveva dimostrato più volte di avere inventiva ed audacia, soffriva terribilmente una volta che aveva finito di litigare col padre, ma non per questo era disposto a cedere se riteneva qualcosa ingiusto.

Ammirava senza riserve suo padre, lo si poteva notare chiaramente, e faceva di tutto per non mostrarsi troppo dispiaciuto quando veniva punito. Kerwick non ricordava una sola volta in cui lui avesse tentato di sottrarsi ad una punizione, una volta che il padre gli si poneva davanti con lo sguardo severo.

Harald lo rimproverava duramente, molte volte e anche davanti ai servi o agli scudieri. Subito dopo però Kerwick vedeva una punta di orgoglio nei suoi occhi e nel suo sorriso, a stento nascosto. Un vero sentimento di collera e un vero sentimento d’orgoglio che si contendevano il posto in uno sguardo. La cosa che più lo rattristava, era il sospetto che quella fierezza Geoffrey non avesse mai potuto vederla.

« Sir Harald ha una vera e propria predilezione per lui. »

La madre di Kerwick aveva guardato suo marito, quella sera, con aria scettica, scuotendo la testa. « se dovesse avere una predilezione per uno dei suoi figli, non sarebbe per lui. »

« Ti sbagli. » ribadiva sir Kerwick con un sorriso sicuro.

Il tempo passò e sir Harald andò in guerra col figlio Richard. Peter invece li avrebbe seguiti per una parte di strada, per poi far visita ai monaci del monastero di Glenheaven, come era suo desiderio da molto tempo. Sir Harald l’aveva accontentato, perché Peter era un ragazzino così gentile e arrendevole che non farlo dopo così tanto tempo e sapendo che non sarebbe stato presente per chissà quanti mesi l’avrebbe persino fatto sentire in colpa.

 Kerwick aveva visto solo allora, per la prima volta, paura nello sguardo di Geoffrey. Quegli occhi solitamente così risoluti anche di fronte alla verga di sir Harald, in quel momento fremevano d’angoscia e il petto si alzava e si abbassava con meno naturalezza. Non c’era solo paura, ma anche tanta rabbia. Kerwick la guardava con preoccupazione e capì solo qualche giorno dopo, quando assistette ad un allenamento di Geoffrey dai movimenti particolarmente esasperati.

Provò una sottile vergogna. Suo padre gli aveva detto che era normale che provasse paura, e che anche lui aveva paura, per questo non avrebbe potuto portarlo con lui. Disse che era ancora molto giovane e avrebbe avuto tutto il tempo per seguire il suo cavaliere in guerra come scudiero e che per ora doveva solo sentirsi sollevato ed allenarsi tanto. Kerwick gli aveva creduto subito e non aveva più avuto dubbi, né aveva provato imbarazzo nel restare a Dunchester. Suo padre disse che anche sir Harald aveva detto le stesse cose ai suoi figli, che sarebbero dovuti rimanere soli per quei mesi, perché la madre li aveva lasciati ormai da tempo, tanto che Leowyn se la ricordava solo vagamente.

Però, oramai Kerwick lo sapeva. Geoffrey non avrebbe mai neanche provato a non sentirsi arrabbiato.

                                                            

*

 

Il castello era in fermento e cercava notizie ovunque, ma queste arrivarono in modo non frammentario solo con il ritorno di sir Harald. Geoffrey era stato molto solo in quei mesi. Passava del tempo con la sorellina quando ne aveva voglia, ma sfuggiva con ammirevole destrezza alla compagnia dei suoi istruttori o delle balie. Kerwick sentiva uno strano bisogno di tenerlo d’occhio, e il suo carattere stava mutando pian piano, divenendo più sicuro con l’età. Aveva provato a parlargli, un giorno in cui Geoffrey non era riuscito a nascondere la rabbia e l’angoscia che lo tormentavano e in cui lui aveva buone notizie da portargli.

« Signore?»

Geoffrey non si voltò. Rimase col braccio leggermente alzato e con un pugnale pronto ad essere lanciato nella mano.

« Cosa c’è? »

« Abbiamo buone nuove, signore! Alcuni abitanti del borgo dicono che hanno sentito dire che vostro padre sta tornando!» affermò Kerwick gongolante. Geoffrey lanciò il pugnale e fece quasi centro sul bersaglio, cupo in viso.

«Sono solo voci. » replicò laconico, e Kerwick vide la tristezza dipingersi nel suo sguardo.

Geoffrey si accorse della sua occhiata e lo osservò arrabbiato, incrociando le braccia al petto.

« Altro?» chiese, gelido.

Kerwick abbassò il capo imbarazzato.

« No, signore. »

« Allora puoi andare. E aspetta che tornino le sentinelle prima di credere alle notizie. »

Kerwick annuì dispiaciuto. Lui e il giovane barone avevano la stessa età, ma Geoffrey, nonostante il fisico smilzo, pareva senza dubbio più grande.

Il bambino si voltò un’ultima volta prima di lasciarlo solo.

« Siete ancora arrabbiato con sir Harald? »

Geoffrey serrò la mascella, andò a recuperare il suo pugnale e non rispose.

« Io… se permettete…» cominciò esitante Kerwick, che non aveva molta voglia di chiudere il discorso così presto. « Io penso che dovr…»

« Io penso che dovresti farti gli affari tuoi. Vattene via. » ordinò secco Geoffrey, con una punta dell’aria capricciosa tipica dei ragazzini, interrompendolo con uno sguardo infastidito. Kerwick aveva le orecchie rosse.

« Scusate…» poi, un attimo prima di girarsi, respirò a fondo e si inchinò con la fretta dell’imbarazzo. Si presentò velocemente, biascicando tutto d’un fiato. Geoffrey annuì con noncuranza.

« Guarda che lo so chi sei. » disse, con un tono tra l’impaziente e l’infastidito.

Il sorriso di Kerwick divenne raggiante d’orgoglio e soddisfazione.

 

 

*

 

Kerwick vide Geoffrey guadagnarsi il rispetto di quelli che sarebbero presto diventati i suoi uomini, in un modo assoluto che non lasciava spazio a dubbi e perplessità nella mente dei soldati.

Lui non aveva bisogno di convincersi di nulla. Era già da molto tempo che lo ammirava, il suo atteggiamento fiero e distaccato e orgoglioso anche nei momenti più bui, il suo spirito indipendente e la sua impazienza nel diventare adulto, tutto questo gli aveva fatto capire che lo avrebbe seguito con ancora più ardore di quanto avrebbe fatto coi suoi fratelli.

Era stata una considerazione non ponderata ma quasi istintiva, che si era consolidata col passare del tempo. E non vi era quindi una teoria logica per spiegarla, ma forse a Kerwick non serviva. Non gli serviva sapere perché avrebbe dato ogni fibra dei suoi talenti per servire il suo giovane e scontroso signore. Sapeva che Geoffrey si meritava il suo rispetto e la sua lealtà, e tanto gli bastava.

Stavano crescendo entrambi. Kerwick vedeva Geoffrey raggiungerlo in altezza e larghezza di spalle e accentuare la differenza d’abilità militari che li distingueva. Viaggiava molto, spesso da solo, per i boschi e i villaggi del suo feudo, e spesso seguiva il fratello Richard in occasione di tornei o per qualche battuta di caccia. Il suo spirito non tollerava l’inattività. Si era impegnato per gestire i cani da caccia, i falchi e i cavalli, prendendosi la responsabilità di selezionarli e sfruttarli, come se non volesse fermarsi un momento. I soldati gli si rivolgevano sempre più spesso per i motivi più svariati, e molte volte Geoffrey chiedeva loro di fargli da avversari, e loro avevano imparato a non privilegiarlo mai in nessun modo, per evitare la sua rabbia. Sir Harald riponeva in lui una fiducia assoluta, e chiedeva spesso il suo consiglio. Geoffrey si impegnava nel studiare le arti militari e dimostrò di avere una spiccata abilità nei panni dello stratega. La sua dinamicità si era disciplinata, forse, ma non assopita. Il suo sguardo fremeva di continuo, alla ricerca di qualcosa di indefinito, instancabile. L’eco di un’antica ambizione riecheggiava nelle sue iridi assieme a una celata e perpetua insoddisfazione.

Kerwick provò una gioia sincera nel vedere sir Harald conferire al minore dei suoi figli maschi l’investitura a cavaliere. Non avrebbe mai dimenticato il sorriso del barone in quel momento. Volle cingere lui stesso la spada al fianco del figlio, quell’arma che aveva commissionato personalmente. Gli occhi di tutti i presenti erano puntati su Geoffrey, con fiducia e orgoglio. Sir Harald lo abbracciò, una volta che si fu alzato dalla posizione inginocchiata in cui aveva pronunciato i giuramenti.

Geoffrey era molto giovane, ma decisamente pronto per divenire cavaliere, sotto il punto di vista delle abilità, delle esperienze e dei principi morali.

Diversi mesi passarono e Kerwick li sfruttò impegnandosi ancora più del solito, per raggiungere il suo signore e seguirlo nelle sue esperienze.

Successe troppo rapidamente, ciò che sir Harald più temeva. Da qualche settimana il barone aveva cominciato ad apparire pensieroso, preoccupato, con gli occhi distanti e l’aria ombrosa. Spesso osservava Geoffrey con una ruga d’inquietudine in mezzo alla fronte e emetteva un respiro un po’ più profondo. Tutte le settimane arrivavano dei messaggeri, che parlavano solo con lui e, dopo qualche tempo, coi cavalieri più fidati. Alle domande dei figli non dava risposta.

 

*

 

 

Kerwick non avrebbe voluto comportarsi da spia. Provava, in quel momento, una certa vergogna, e una sorta di sottile disgusto per se stesso. Spiare il suo signore in un momento tanto delicato e privato non gli faceva onore ed era un gesto che sfiorava l’ingiustizia.

Non aveva iniziato di proposito. Semplicemente, si era trattenuto più a lungo nell’armeria e quando aveva attraversato il chiostro per rincasare aveva sentito sir Harald e Geoffrey discutere sotto il porticato.

Era oramai sera inoltrata. L’oscurità era rischiarata solo dalle luci delle torce, ma non così tanto da coprire una distanza più ampia di qualche passo. Le figure del barone e del figlio erano segnate da luci e ombre che le rendevano quasi inquietanti e che accentuavano il dinamismo dei loro volti.

Kerwick poggiò la schiena ad una colonna con le sopracciglia contratte dalla preoccupazione, ancora avvolto dall’ombra.

« Non potete negarmi anche questo! Non adesso, non dopo tutto il tempo in cui ho aspettato e in cui sono rimasto a guardare senza fare niente!» la voce di Geoffrey saettò per il chiostro. Kerwick rabbrividì, non solo a causa dell’aria pungente. Intuiva, anzi, sapeva a cosa Geoffrey stava alludendo. Una volta che le notizie erano state accertate, tutti i feudi avevano saputo della chiamata alle armi di Giovanni Senza Terra. Kerwick sapeva che sir Harald non credeva che non si potesse arrivare ad una tregua prima della venuta dell’anno nuovo, quel periodo era molto instabile e incoerente.

Ma Richard Martewall era morto per una sola battaglia combattuta male dall’esercito inglese.

Anche una sola battaglia poteva bastare, con così poco tempo per organizzarsi, con una situazione così incerta.

E sir Harald non nutriva nessuna stima né fiducia nel suo re.

« Ti ho già spiegato le mie motivazioni, Geoffrey, e non sprecherò altro tempo perché ti ostini a non ragionare! » disse sir Harald con un gesto imperioso del braccio, il tono severo e lo sguardo bruciante.

« Allora spiegatemi, che cosa dovrei farmene della mia investitura?!» chiese Geoffrey, sarcastico e amaro, senza timore né prudenza, perché la prepotenza delle sue convinzioni evidentemente superava ogni altro sentimento e la capacità di vedere quel confine invisibile da non oltrepassare.

« Mi avete voluto cavaliere solo per portarvi il denaro dei tornei!»

Kerwick sapeva che non lo pensava davvero. Le sue parole erano dettate dalla rabbia e dalla frustrazione. Ma non per questo avrebbero ferito di meno.

« Come puoi pensare questo?! » la reazione di sir Harald era stata immediata e terribile. Respirò a fondo per riprendere il controllo di se stesso e si allontanò di un passo dal figlio, perché gli si era avvicinato tanto che quasi la sua barba gli sfiorava i capelli. « Non azzardarti mai più a ripetere una cosa del genere. » continuò, col tono più basso, tremante ma controllato. « Mi fa male sapere che pensi questo di me. » affermò infine, ed era chiara la sua ferrea volontà di essere onesto in tutto e per tutto con suo figlio.

Geoffrey abbassò per un momento lo sguardo mordendosi le labbra.

Suo padre allora incrociò le braccia al petto e respirò lentamente l’aria gelida.

« Ti ho voluto cavaliere perché ti credevo pronto. »

« Io lo sono!» affermò Geoffrey serrando i pugni.

« lo so. » sospirò sir Harald. « Ma vorrei che tu avessi più capacità di giudizio e che sapessi comprendere i tuoi limiti. »

Alzò una mano per frenare sul nascere le proteste del ragazzo e ricominciò ad alzare il tono della voce, a renderlo più severo e a stracciare il velo di rassegnazione di cui era intriso e che Geoffrey non sopportava.

« Tu resterai qui perché vivi ancora sotto il mio tetto. Sono costretto a mandare Peter e ad andare io stesso, ma per te posso trovare una giustificazione e lo farò. Non manderò a re Giovanni più di quanto gli devo. »

« E perché? » sbottò Geoffrey« è il nostro re!»

« Ci trascinerà tutti in una guerra inutile che non possiamo affrontare. Non senza una buona guida. Lui non è una buona guida. »

« Come potete saperlo? Tutte quelle voci sul fatto che abbia sacrificato il fratello… non vi è nessuna prova! »

Sir Harald sorrise amaro.

« Ti comprendo, Geoffrey, perché da ragazzo ero esattamente come te. Vedevo ingiustizie dove non c’erano. »

Geoffrey scosse la testa con impazienza.

« Io sono un cavaliere adesso. Siete stato voi ad investirmi di questo titolo e non mi interessa se ve ne pentite…»

« Io non ho mai dett…» provò a protestare sir Harald, tenace.

« Non subirò di nuovo l’umiliazione di restare a guardare senza fare niente! Di vedervi partire senza rischiare nulla di persona per la mia terra e per la mia famiglia! »

Sir Harald sospirò seccato.

« Ora non venirmi a dire che non ti ho fatto fare esperienza. Ti ho lasciato a Dunchester una sola volta, in tutti gli altri miei viaggi ti ho sempre portato con me anche se eri solo un bambino. »

« Quell’unica volta è stata la sola in cui siete andato in guerra. »

« Solo per qualche mese. Poi c’è stata la tregua. »

« E io come facevo a saperlo?!»

Il silenzio calò come una falce spietata tra loro. Ognuno di loro sembrava meditare sulle parole dell’altro. sir Harald senza dubbio pensava al senso di abbandono di Geoffrey. Per quanto riguardava il figlio, Kerwick non riusciva a decifrare i suoi pensieri. Provava costantemente il timore, gelido e terribile, di essere visto e si sentiva in colpa per questo. Voleva solo che si spostassero così da potersene andare senza colpo ferire.

« Tu non sai nemmeno perché vuoi combattere. » sentenziò sir Harald. Kerwick si aspettava da Geoffrey una risposta secca, gelida e furente.

Invece il ragazzo sorrise, agghiacciante, con una sfumatura spietata tra le labbra.

« Credete? »

Il padre attese qualche secondo che aggiungesse dell’altro, prima di perdere la pazienza come faceva sempre quando la preoccupazione lo assaliva.

« Tu rispondi ancora a me!» sbottò duramente la voce di sir Harald, severa, irata, aspra. « E rispondi a Dunchester! Resterai qui a difenderla in caso di bisogno. Ti lascio il pieno controllo del castello, che è ciò che abbiamo di più prezioso! Non ti basta!?»

« Mi chiedete se mi basta?» chiese Geoffrey tra i denti. « Hanno ucciso Richard! Come potete accettarlo in questo modo? Come potete non desiderare che ne muoiano il più possibile? »

Kerwick trattenne il fiato, colpito da quelle parole come se avesse ricevuto una stilettata al petto. Non aveva mai immaginato che ci fosse questo dietro lo sguardo di Geoffrey, che, due anni prima, era diventato fin troppo freddo. Sapeva che vi era celata tanta sofferenza, eppure il ragazzo aveva nascosto bene la sua voglia di vendetta, aveva atteso, terribilmente solo nel suo desiderio di agire al più presto, appena l’occasione si fosse presentata.

Eppure Kerwick non avrebbe dovuto stupirsi. Ricordava col cuore in gola lo sguardo di Geoffrey puntato sulla bara del fratello, e ancor prima sulla sua salma, ricordava ogni sfumatura delle sue iridi anche se aveva avuto il coraggio di guardarle solo per pochi istanti. E ricordava il legame che univa i fratelli Martewall, l’ammirazione di Geoffrey nei confronti di Richard e il modo in cui il più grande insegnava qualche trucco con la spada al fratello minore di cui andava tanto fiero.

Trovarsi di fronte un ostacolo dopo due anni in cui la sua anima si era nutrita di rabbia e odio per sopportare il dolore doveva essere per Geoffrey più che frustrante.

Kerwick sperò con tutte le sue forze che sir Harald lo fermasse.

Non sentì più nulla. Quando si sporse per vedere, vide sir Harald trattenere saldamente suo figlio per il braccio per impedirgli di andarsene, sussurrargli qualcosa mentre Geoffrey ribadiva a voce più alta che sarebbe partito con o senza il suo permesso. Il barone lo fulminò con lo sguardo saettante.

« Dannato ragazzino! Spero almeno che tu possa trovare motivazioni più onorevoli per scendere in battaglia, allora. » sbottò sir Harald alla fine, con un gesto esasperato e un misto di rabbia e preoccupazione negli occhi.

Geoffrey sembrò indolente fino all’ultimo.

« Per adesso le mie mi bastano, padre. »

 

 

 

Ooook….

Mi devo scusare, perché avevo detto che sarei riuscita con ogni probabilità a pubblicare prima di Natale e invece….

Ormai devo farvi gli auguri di buon anno!!!

Che dire… questo capitolo è l’emblema dell’OC. Ho inventato di sana pianta un po’ di cose… il carattere di Kerwick da bambino, il fatto che lui sia cresciuto a Dunchester…

Per alcuni elementi mi sono rifatta alla cronologia storica e al libro, come per azzeccare, più o meno, l’età di Geoffrey alla morte del fratello (che ho evitato di menzionare, ma dovrebbe essere sui quattordici anni, quindi ho fatto diventare Geoffrey cavaliere da molto giovane, a sedici anni. Spero sia verosimile, d’altra parte non si fa altro che dire che è un veterano. E poi me lo immagino sempre più maturo, di certo non il classico ragazzetto con gli occhiali da moscone di terza liceo ).

Per quanto riguarda la furia vendicativa… mi sono accorta che nei capitoli precedenti ho accentuato molto poco questo lato del suo carattere. Un errore da non rifare, Geoffrey è caratterizzato da luci e ombre.

*Jerome annuisce convinto. *( è sempre bello avere la sua approvazione. )

Spero tanto che il capitolo vi sia piaciuto( almeno più di quanto ha convinto me : )…)

Grazie per essere arrivati fino a qui e BUON 2015 (a chi piace festeggiarlo… )!!!!!!

Tacet

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Filippo Augusto-Destino ***


Filippo Augusto

Destino

Gli stivali piantati sulla terra brulla e resa sterile dalla sanguinosa battaglia sarebbero stati la prima cosa che i prigionieri avrebbero visto del loro supremo carceriere. Ed era giusto che fosse così.

Sentiva il sapore della vittoria sulla lingua, dietro alle labbra arricciate dalla soddisfazione. La guerra oramai era vinta. Gli inglesi, pochi e sparsi per tutta la pianura, vennero presto accerchiati dai francesi, disarmati, costretti in ginocchio e incatenati.

Vedeva tanti cadaveri di persone che aveva conosciuto, ma altrettanti uomini, fortunatamente, sorridevano nella sua direzione. Quel giorno sarebbe passato alla storia.

Filippo Augusto si guardava intorno e non vedeva altro che il suo riscatto verso la sorte che non aveva voluto favorirlo fino all’ultimo. Vedeva la grandezza della sua corona e della sua persona.

Ma  non fu l’unica meraviglia che vide.

In quel panorama di sconfitti arresi e vincitori orgogliosi, l’eccezione lo incuriosì.

L’elemento che rompeva l’equilibrio e la pace frenetica e sollevata di una guerra conclusa.

Lontano dal suo sguardo, un inglese aveva ancora la spada in mano. I francesi che lo avevano notato nella confusione lo avevano circondato e lui li affrontava, sopportando la fatica e avventandosi sui nemici come un’onda di tempesta sullo scoglio, instancabile anche se consapevole dell’ inutilità dei suoi gesti.

Oltrepassando i valletti che si accertavano delle sue condizioni, il re montò di nuovo sulla sella del suo cavallo oramai sfinito e lo costrinse al passo, raggiungendo il piccolo capannello di soldati francesi dall’aria timorosa. Quattro cavalieri lo seguirono all’istante, in silenzio.

In mezzo ai soldati dalle tuniche azzurre col fregio del giglio vi era un giovane uomo senza elmo, i lunghi capelli castani appiccicati al volto sporco di sangue e sudore, incrostati di terra. Le sopracciglia contratte dalla stanchezza incorniciavano due occhi chiarissimi di una freddezza assoluta contrapposta a un odio bruciante. Le dita erano serrate intorno alla spada, forti, il corpo pronto a staccare in qualunque direzione avrebbe potuto trovare un avversario. I tre soldati provarono a farsi avanti, uno con le corde e due con la spada. L’inglese mulinò la spada, elegante e preciso anche se ansante e spasmodicamente veloce, disegnando nell’aria un ampio semicerchio che solo per poco mancò la gola del primo soldato e il petto del secondo. I francesi grugnirono di rabbia, lanciando nel contempo un’occhiata ai due cadaveri sul terreno vicino a loro. Il primo era un loro compagno. Il secondo, con la tunica sporca di sangue e polvere, i capelli biondi sparsi intorno al viso libero dall’elmo, era lo sceriffo Derangale.

L’arrivo del re fu accolto con sollievo. I francesi osservarono guardinghi l’inglese, temendo di essere colpiti a tradimento e si allontanarono di qualche passo prima di inchinarsi.

Filippo Augusto li ignorò, osservando solo l’inglese che ricambiava con odio il suo sguardo, e con la coda dell’occhio riuscì a notare che uno dei suoi cavalieri stava infilando un dardo nella balestra. Alzò la mano per tranquillizzare tutti e riportò la sua attenzione esclusivamente sul giovane inglese, osservandolo attento, duro e severo.

« Capisci la mia lingua, inglese? »

Il giovane annuì una sola volta, freddamente e senza distogliere mai lo sguardo dal suo volto.

Filippo Augusto fece saettare per un momento lo sguardo alle sue spalle, là dove giaceva il corpo dello sceriffo, avvolto dal mantello cremisi.

« Non recheremo danno ai vostri morti. » affermò, « Né li offenderemo in alcun modo. » scandì in aggiunta, posando gli occhi ammonitori anche sui soldati, che annuirono convinti.

Jean Marc de Ponthieau aveva dei diritti sul suo nemico. Ma il re era abbastanza sicuro che gli avrebbe fatto avere degna sepoltura, appena lo avesse rivisto in mezzo alle piccole sortite mal organizzate che gli Imperiali tentavano prima di essere ancora costretti alla prigionia o alla fuga.

Lo sguardo dell’inglese ebbe un guizzo di dolore, e di incertezza mista a diffidenza. Al re il suo atteggiamento bastò per confermare i suoi sospetti. Quel cavaliere non stava continuando a combattere senza un motivo. Era una questione di rabbia e d’orgoglio, ma anche d’onore e protezione nei confronti dell’amico ucciso. Non si sarebbe arreso e non avrebbe mostrato un solo segno di vigliaccheria.

Il re, altero e rigido sul suo cavallo, lo squadrò dall’alto.

« Avete la mia parola d’onore. » disse, deciso. « Adesso gettate la spada. » e non poté fare a meno di sentire il rumore lieve dei dardi e del legno contro il metallo da dietro le spalle, là dove vigilavano i suoi cavalieri. E di compiacersi per questo.

L’inglese intanto seppelliva il dolore sotto strati d’odio e astio. La presa intorno all’impugnatura della spada si strinse invece che allentarsi.

« Non mi sono mai fidato molto dei francesi. » affermò il cavaliere, e con un guizzo fulmineo, la sua spada si sollevò assieme al braccio verso la direzione del re di Francia. Re Filippo non tradì una sola incertezza. Perché, forse a lui soltanto, l’inglese aveva in qualche modo lasciato intendere le sue intenzioni. Tutti i francesi si irrigidirono, i cavalieri puntarono le balestre su di lui e si frapposero tra lui e il re.

Filippo Augusto non lo vide fare un solo passo, un solo movimento. Non provava paura per la prigionia e forse, in quel momento di sofferenza non nutriva neanche uno spiccato timore della morte. Non aveva avuto intenzione di scagliarsi contro il sovrano fin dall’inizio, ma non avrebbe gettato la spada.

E Filippo continuava a sondare la sua anima sofferente e nascosta con lo sguardo.

Un soldato passò dietro la schiena dell’inglese e la lama del suo pugnale aderì alla gola del nemico, con uno strattone e un calcio tra la coscia e il polpaccio lo costrinse in ginocchio e il secondo gli bloccò le braccia dietro la schiena con le corde.

« Inchinati di fronte al nostro re, cane inglese!» gli sibilò vicino all’orecchio. Ora che il timore era passato credeva di potersi permettere gesti e parole del genere. Il sovrano non si stupì di sentire un soldato rivolgersi in quel modo a un cavaliere sconfitto, troppe volte aveva assistito a quell’ingiustizia. Ma i suoi occhi divamparono di un rimprovero duro e immediato.

« Rammenta che è un cavaliere, stolto! » lo redarguì. « E uno di quelli audaci. »aggiunse poi, più pacato e interessato.  

Per un secondo gli occhi dell’inglese si velarono di stupore.

Il soldato reclinò il capo dall’imbarazzo, chiedendo perdono.

Il re però non gli stava più rivolgendo alcuna attenzione. Si era nuovamente concentrato sul prigioniero.

« Siete Geoffrey Martewall? » chiese, aspettandosi già la risposta.

L’inglese annuì nello stesso modo freddo e determinato di poco prima.

« Lo immaginavo. »

Re Filippo Augusto posò poi lo sguardo sul corpo senza vita di Jerome Derangale e sulle mani di Martewall, sporche di sangue non suo. Il contegno di quest’ultimo macchiava l’aria di solenne tristezza. Nel momento in cui le iridi rifletterono nuovamente lo sceriffo si velarono di un sentimento indefinibile e sporcato di follia. La rabbia, a volte lucida e a volte cieca, era chiaramente parte integrante della sua tempra da vendicatore.

Il re spalancò per un momento gli occhi e aggrottò le sopracciglia con una smorfia di disappunto.

« Portatelo via. »

Quel giorno, l’Inghilterra si era macchiata di vergogna.

Re Filippo guardò Geoffrey Martewall un ultima volta prima che lo trascinassero troppo distante. Sapeva inquadrare le persone fin da subito e nel miglior modo possibile. Nel giorno in cui l’Inghilterra usciva disonorata da una guerra durata troppo a lungo, Filippo Augusto pensò al modo crudele in cui la vita costringeva alcuni uomini d’onore a pagare il prezzo dell’ingiustizia del mondo.

 

*

« La principessa Bianca mi ha raccontato del compito che vi ha affidato personalmente. »

Martewall annuì una sola volta alla sua constatazione, posando il gomito sul bracciolo dello scranno. Filippo lo stava scrutando con attenzione da diverso tempo. Gli abiti neri e sobri erano tipici di chi non voleva avere nessun tipo d’ostacolo nei movimenti, anche se la sua figura non mancava di una certa eleganza, la posa, per quanto si mantenesse rigida e imperscrutabile come la fermezza dello sguardo, celava una vena d’impazienza che non era sfuggita all’occhio attento del sovrano.

« Comprendo e approvo la sua decisione… » continuò, ma capì che l’inglese non aveva avuto dubbi su quello. « Anche se sono quasi sicuro che voi siate molto impaziente di tornare in patria. »

Martewall dovette annuire, cupo ma ardito.

« Lo sono. »

Il re sogghignò appena, nel vederlo così poco affabile.

« Lo immaginavo. »

Martewall sollevò lo sguardo e nei suoi occhi, per un momento, Filippo lesse sorpresa. Anche lui aveva ricordato l’ultima volta in cui gli erano state rivolte le solite esatte parole, dalla stessa persona. Ora il re non lo guardava dall’alto di un destriero, e non sentiva lo stesso disagio nel cavaliere inglese che percepiva in molte altre persone.

Geoffrey Martewall non provava timore nel stargli davanti, non provava soggezione. Solo un ferreo rispetto, ed era ciò che lo spingeva ad inchinarsi di fronte a lui. Tutto qui.

Si trovavano in una situazione diversa rispetto a quella vissuta quando Martewall aveva dovuto essere ospite dei Ponthieau. Guillaume gli aveva raccontato il modo ammirevole ed efficace  in cui il cavaliere aveva nascosto la rigidezza dei muscoli. Ma in quel momento, il barone non rischiava di rimanere intrappolato in una roccaforte francese dove la sua anima sarebbe stata logorata dall’angoscia e dal senso d’impotenza.

Anzi, probabilmente l’udienza con il re avrebbe aiutato i suoi conterranei. Re Filippo si augurò che fosse così.

« Per quanto riguarda la richiesta di Fitz Walter, la accolgo con piacere. » disse, riprendendo un discorso lasciato a metà poco tempo prima. Incrociò le dita davanti al mento, con un sorriso poco espansivo ma scaltro.

« Devo confessarvi che questi uomini attendono una richiesta come la vostra da tempo. L’Inghilterra sembra avere motivazioni più urgenti rispetto a quelle della Lingua d’Oca e dei suoi infedeli. » Filippo non riuscì, oppure non volle, trattenere una nota di stizza in quelle parole.

Geoffrey si fece se possibile ancora più attento, e probabilmente sapeva che i loro pensieri si stavano convergendo verso una sola direzione. Entrambi pensavano ad Adolphe de Gant.

E sapevano che non avrebbero dovuto entrare in argomento.

« è senz’altro così, maestà. » rispose Geoffrey, fingendosi inconsapevole delle riflessioni condivise. Nei suoi occhi si riflettevano decine di pensieri differenti. Filippo intuiva che pensasse al Falco, ma anche alla sua terra.

« Non ho toccato con mano le problematiche della Lingua d’Oca… » ammise Geoffrey, asciutto. « ma ho visto tante battaglie, e ben poche o forse nessuna difficile come quella che re Luigi sta portando avanti nella mia terra.»

Il sovrano sorrise, compiaciuto dalla risposta e dal sentire nominare così suo figlio. La parola re era stata pronunciata senza alcuna esitazione.

« Allora non vi trattengo oltre, sir Martewall. I vostri uomini avranno bisogno del loro Leone, e così mio figlio. »

Il cavaliere annuì con gratitudine, si alzò e si inchinò. Anche Filippo si era alzato per salutarlo onorevolmente.

Martewall era un mosaico contraddittorio.

Era estremamente difficile trovare tutti i pezzi dei suoi pensieri, metterli insieme. E quando ci si riusciva, si aveva la sensazione di non averne preso in considerazione qualcuno.

Ma ciò che c’era di buono era che, pur non avendo particolari doti diplomatiche, Martewall non lo annoiava. La profondità del suo essere e la sua incomprensibilità, le domande senza risposta, stimolavano la sua curiosità.

Il sovrano non metteva in dubbio che alcuni tratti del suo carattere fossero discutibili. Ma sapeva che Martewall non desiderava comprensione, forse per abitudine o per scelta, e non desiderava essere amato. Voleva solo combattere per i suoi ideali.

Sarebbero stati i fatti a parlare, per chi avesse voluto vedere e udire.

 

*

 

« Vi state rimproverando per ciò che è successo a Lincoln? » chiese Filippo Augusto, accarezzando le piume del  suo falcone sul collo ma rimanendo concentrato sul suo interlocutore.

Martewall lo osservò e non rispose.

« Ho solo avuto questa sensazione… » precisò il sovrano.

Geoffrey Martewall guardò il panorama collinoso e soleggiato, l’arco in mano e la faretra sulla spalla. Filippo Augusto aveva deciso di coinvolgere anche l’ospite straniero nella battuta di caccia col falcone che aveva organizzato.

Questo non aveva esattamente suscitato la gioia dei suoi feudatari, con l’eccezione dei Ponthieau, naturalmente, e dei compagni d’arme del Falco. Molti signori, ovviamente, credevano che fosse solo colpa degli inglesi se il loro principe non aveva messo le mani sulla corona d’Inghilterra. Ma siccome Martewall non pareva un incapace, sicuramente era qualcuno che non era stato abbastanza dedito alla causa, secodo loro.

« Mi preoccupa risultare di così semplice comprensione, sire. » disse a sorpresa Martewall, schietto e freddo come al solito. « Non penso che questo mi gioverà alla corte di Enrico. »

« Oh, non lo siete affatto, potete stare tranquillo. » rispose subito il sovrano, sicuro. « per questo ho sempre bisogno di chiedervi conferma dei miei sospetti, qualora ve ne siano. »

E con quest’ultima frase secca, il re pretendeva una risposta.

« Non nego ciò che avete intuito, sire. » rispose allora Martewall, guardando dritto davanti a sé con lo sguardo insondabile.

« Mi sento sempre così dopo una battaglia persa. Cerco il mio errore, qualcosa del nemico che ho sottovalutato o che non sono stato in grado di vedere. Ho bisogno di trovare qualcosa. »

Il re lo studiò per un lungo istante, prima di annuire.

« Capisco. » disse, pacato e riflessivo. « penso che se l’Inghilterra avesse avuto un re della vostra stessa tempra sarebbe stato un avversario molto più che temibile, contro cui il coraggio e la strategia non sarebbero bastate completamente. »

Martewall chinò il capo, ed era evidente quanto fosse rimasto colpito dal complimento inusuale e molto lusinghiero del sovrano, pronunciato con lucidità e raziocinio.

« Non penso di meritare queste vostre parole, sire. » si sentì in dovere di dire.

Filippo Augusto annuì con un gesto vago.

« Ditemi, sir… cosa avete pensato quando avete perso la battaglia di Bouvines? Anche allora avete cercato un vostro errore?» chiese, sinceramente curioso.

Martewall rimase in silenzio per un momento, prima di scuotere la testa.

« No. » rispose, freddamente. « Ero… sono assolutamente sicuro di aver fatto tutto ciò che dovevo, per quanto riguarda la strategia adottata. Non avrei potuto sceglierla io, mi sono dovuto adattare come molti altri. » 

« Almeno di quella disfatta quindi non vi ritenete responsabile. »

Martewall lo guardò negli occhi, con rispetto ma nessuna soggezione. Negli occhi aveva la certezza di star parlando con qualcuno che, almeno sul piano militare, poteva capire ciò che stava spiegando.

« No. Non di quella. Avevamo un re indegno e nessuna voglia di seguirlo. Abbiamo attaccato nel giorno del Signore. Non tutti erano d’accordo, io per primo, e questo è esattamente il genere di cosa che fiacca gli animi delle truppe. E in tutta sincerità, non ho mai visto di buon occhio l’alleanza con l’Imperatore. »

Re Filippo ghignò, ammirato. Non si aspettava niente di meno da lui, eppure in qualche modo Matewall riusciva ad essere sempre una sorpresa.

« Siete un grande guerriero. » ammise con un sogghigno che divenne in seguito più aspro. « Mi dispiacerebbe se un giorno io o mio figlio dovessimo avervi di nuovo come nemico. Il mio Falco mi ha donato un alleato onorevole e temibile… a cui, tra l’altro, è particolarmente affezionato… »

Martewall colse immediatamente l’avvertimento nelle sue parole, con un’occhiata fugace verso  Jean de Ponthieau, ignaro dei loro pensieri. Si incupì, irrigidendosi, un cambiamento che solo un osservatore esperto come il re di Francia avrebbe potuto cogliere.

Sapeva che Martewall non poteva dirgli nulla per ribattere alla sua ultima frase.

Se mai l’Inghilterra avesse, in futuro, di nuovo mosso guerra alla Francia, lui sarebbe stato dall’altra parte del fronte, a combattere per il suo popolo, senza rinnegare, tuttavia, in nessun caso il suo rispetto per la giustizia.

Filippo Augusto sapeva che il destino avrebbe fatto il suo corso. D’altra parte, non avrebbe mai pensato che il barone che aveva visto gareggiare al torneo con Sans-pitié sarebbe stato al suo fianco in quel momento di pace.  E sperò, senza troppa fiducia né illusione né dispiacere, perché  era un sovrano e non più un ragazzino incapace di essere lucido nelle sue constatazioni, che il fato non tirasse troppo i loro fili.

Che lascasse fare a lui il marionettista, senza aiuti né ostacoli.

D’altra parte, lo sapeva fare così bene…

 

 

Ed eccomi di ritorno, tardi, lo so e mi scuso.

Scusatemi per gli eventuali errori… sono un po’ distratta in questi giorni…

È un periodo un po’ pieno di cose da fare, ma facciamo un bel respiro, tra non molto sarà peggio.

Aaallooora… intanto, grazie per essere arrivati fino a qui! In secondo luogo, spiegherò la mia frase di prima. Sto traslocando, e vi assicuro che è più difficile di quanto si pensi, e io, pur essendo in un certo senso “ la piccola di casa” ho il mio bagaglio di lavoro anche senza la scuola… poooiii… esiste la possibilità che io per un periodo rimanga senza tempo o senza internet o senza entrambe le cose. Ad essere drastici, potrei sparire per un mesetto…

Eeee farò di tutto per pubblicare prima di andar via, non con un altro capitolo perché non ce la posso fare, ma, proprio per farmi perdonare ( sì, da te Wrong and Wright ; )) stavo pensando di pubblicare una storia missing moment che devo correggere e di aprire una tendina sul mio documento word degli appunti dopo averli sistemati un po’. Perdonata? ; ) : )

Mi dispiace moltissimo….

Grazie!!! Ciaao!

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** William Lunga Spada- Ricordi ***


Ancora non ci credo, di avercela fatta. -.-“ Intanto mi scuso per essere sparita per così tanto tempo. Mi devo davvero scusare tantissimo, ma non avevo idea che mi sarei ritrovata senza computer per tutto questo tempo. Ho avuto molti problemi con internet, oltretutto XD

Ma sono felicissima di poter tornare a pubblicare!!!

Ovviamente ho altre cose da dire ( non ho ancora finito di rompere J) ma le dirò a fine capitolo.

 

 

Aveva mantenuto quel portamento un po’ selvaggio che aveva da giovane, lo sguardo reso freddo e altero da una vita passata senza nessun riposo, senza nessuno sconto. Una vita che esigeva molto, ancora, da lui.

Geoffrey Martewall era invecchiato. Ma non era invecchiato da altezzoso nobile, da feudatario, da proprietario e signore di ciò che portava guadagno e ricchezza alle sue terre. Era un guerriero ancora, come lo era sempre stato. Era ancora colui che gli uomini seguivano in battaglia, che era pronto a condividere la sorte dei suoi soldati, lo stratega e la guida. Il leone che il tempo non aveva ancora sconfitto.

Il fisico asciutto, frutto di esercizio costante, lo sguardo ancora senza cedimenti anche se circondato da qualche ruga, la barba corta ad indurirgli i tratti, la sua bellezza appena trascurata e inconsapevole o indifferente, che gli donava un po’ di fascino in più. Solo qualche capello bianco si affacciava al mondo, all'altezza dell'attaccatura. La schiena era ancora ritta e forte e sembrava solida come una colonna greca. Ciò che era cambiato in lui era proprio ciò che cambiava in un'antica colonna quando rimaneva sola, sempre in piedi e ancorata al terreno, attorniata dalle macerie e senza più nessun tempio sopra di sé.

Ora tutto in lui aveva il fascino di un'esperienza sofferta, di molte cose viste e sentite, di molte battaglie e di molte speranze spezzate. Il suo sguardo adesso era ancora più difficile da sostenere. Il peso degli anni gravava su di esso, il peso di una personalità indomita.

Geoffrey Martewall aveva considerato William Lunga Spada, per buona parte della sua giovinezza, con un rispettoso senso d'inferiorità. L'inferiorità di un barone verso il fratello del re, dall'esperienza ricca e vittoriosa. L'inferiorità di un soldato di fronte ad un comandante. Ma oramai da molto tempo non era più così.

I suoi giorni di ragazzo erano finiti molto prima che effettivamente Geoffrey dimostrasse l'età per essere uomo. Ed erano finiti i giorni in cui William di Salisbury poteva sfruttare la sua fama, la sua abilità e perfino la sua stazza per sembrare inarrivabile. A differenza di molti altri, Geoffrey non piegava la sua volontà a quella del conte o di chiunque altro, non più.

lo vedeva nei suoi occhi, il disprezzo nei suoi confronti. Forse li riteneva alla pari dal punto di vista militare, cosa di cui lo stesso Salisbury non era più tanto sicuro, ma non poteva e non voleva nascondere l'antipatia verso il fratellastro del re defunto e indegno.

Ma l'odio di Geoffrey non era determinato dal pensiero di Salisbury come fratello bastardo dell'uomo che aveva fatto decapitare suo padre. Era rivolto verso un uomo che riteneva ipocrita e vigliacco, che si era riparato dietro alla prudenza, alla strategia, agli aiuti informali, ad una famiglia da proteggere e che invece avrebbe potuto salvaguardare in mille altri modi, furbo com'era.

Tutto questo per non ammettere che voleva solo tenere al sicuro la propria vita e il proprio ruolo. E aveva trovato il modo perfetto. Non fu mai nemico dei baroni, ma neanche di Giovanni. Non rischiò nulla di più di quello che aveva sempre rischiato in prima persona, lasciando ai baroni una guerra incerta da combattere.

Salisbury sospirò a fondo, esaminando il suo passato come il vecchio che era. Lo sguardo di Martewall bruciava ancora, bruciava la coscienza, bruciavano i ricordi di una testa che rotolava grottesca sul pavimento.

E i ricordi lo assalirono all'improvviso.

 

« Tengo conto del vostro buon cuore, William. »

Lunga Spada non tradisce un solo pensiero. Ma il suo animo è martoriato da sentimenti forti. Non è deluso. Non ha mai pensato davvero che le sue parole potessero salvare sir Harald dal re.

Mi dispiace, pensa, ben attento a non incrociare lo sguardo di sir Harald per più di qualche secondo.

Mi dispiace tanto.

Vede gli occhi del barone, fieri e fermi. E sa che solo il pensiero dei suoi figli lo preoccupa, di quella figlia prigioniera nelle mani della corona e di quel figlio disperso e braccato, l'ultimo, il più giovane dei figli maschi, il più solo. Lui che era partito per salvarli tutti, lui che avrebbe appreso della morte del padre solo troppo tardi, quando sarebbe stato impotente.

William può farsi un'idea della sua reazione futura. Giovanni no, è evidente. Forse crede che Geoffrey non tornerà, che sia scappato per non tornare. Forse è talmente sprovveduto da non averci pensato, o crede di poterlo ancora mandare alla forca. Cosa che, in cuor suo, ha sempre desiderato fare.

Vede il re ghignare all'apice della soddisfazione, e si chiede come possano condividere, anche se in parte, lo stesso sangue. Gli occhi di Harald sono fissi sul sovrano. Sono così simili a quelli di Geoffrey. E per questo sembrano promettere vendetta.

William sente la rabbia crescere mentre segue Giovanni, ancora gongolante, all'interno del castello di Dunchester. Lo vede appropriarsi di ogni spazio e di ogni cosa, come ha sempre fatto.

William riesce solo a pensare che il suo carissimo fratellastro non sa che cosa lo aspetta. Lunga Spada non sa ancora se i baroni reagiranno con le armi o no, anche se, a giudicare dalla tempra di alcuni di loro, non si sente ancora nella condizione di perdere la speranza.

Ma Geoffrey avrebbe ottenuto la sua vendetta in ogni caso. William ha una fiducia profonda in lui.

Passano in mezzo ai mercenari del re e ai cavalieri più fidati, che poco si differenziano dai primi, per valori morali e comportamenti.

William spera che Geoffrey Martewall non abbia pietà per nessuno.

 

E così era stato.

Pur rimanendo nell'ombra, William di Salisbury aveva seguito molto da vicino le azioni dei baroni ribelli. Li aveva spronati e aiutati più di una volta, portando cucita addosso nel contempo la maschera di sostenitore del re, un re sempre più paranoico, crudele, disperato e codardo.

Un re che, ogni volta che lo guardava, risentiva ancora chiaramente le parole che gli aveva rivolto dopo l'uccisione di sir Harald, con terrore.

Come fossero una profezia inquietante e veritiera.

 

« Si vendicherà »

Anche William prova un sottile, freddo, penetrante e sibilante desiderio di rivalsa. Le parole gli erano uscite dalla bocca con uno scopo preciso, uno scopo lucido. Con freddezza osserva il volto del re, che si era voltato di scatto con stupore per poi assumere un sorrisetto sarcastico ma velato d'incertezza.

«Di chi parli, William?» chiede, fingendosi inconsapevole e divertito. Ma non lo è. Non lo è perché sa bene a chi si riferisce.

Lunga Spada si sforza per nascondere un'ilarità quasi isterica. Non riesce a scrollarsi di dosso la sensazione, per qualche istante, che Giovanni abbia appena provocato la sua stessa morte, anche se sa che dovrebbe pensare in maniera più razionale.

Per adesso, si accontenta di spaventarlo.

«Lo sapete, mio re.» dice, fingendosi preoccupato ed accorto.

Giovanni scuote la testa con un sorriso subdolo, viscido e quasi folle nella paura celata.

«Geoffrey Martewall è già morto.» ride.

«No, non ancora. E vorrà vendicarsi. Vorrà la vostra testa e quella di molti altri. Ricordate il suo spirito, il suo...»

William si interrompe all'incedere brusco di Giovanni verso di lui. Il sorriso è scomparso per lasciare il posto solo ad una smorfia brutale sul suo volto arrossato.

« Lo farò impiccare come avrei dovuto fare anni fa. Un traditore si riconosce dal momento in cui comincia ad impugnare una spada. Il suo corpo penzolerà dalla forca per mesi, divorato dai corvi. » il suo viso è vicinissimo a quello del conte, con i suoi occhi folli e dalle pupille strette, l'espressione è un misto di bramosia e timore, la voce un sibilo vibrante di rabbia.

« Dubiti forse di questo, William? Dubiti della vittoria del tuo re, del suo diritto al trono?»

William lo guarda. Giovanni sa che il conte è esperto, sa che deve ascoltare le sue parole preziose. Ma non sempre il suo orgoglio gli permette di capire chi, tra i due, sia il più abile e degno su tutti i fronti.

« No, mio signore.»

 

Geoffrey è ancora davanti a lui, attento, imperscrutabile, severo.  William lo vede ancora, in un certo senso, come l'uomo che era a trent'anni. Il rispetto nei suoi confronti non è mutato, è rimasto lo stesso in tutta la sua grandezza. Ha sempre ammirato il suo coraggio, nonostante il modo in cui l’ha trattato il giorno che l’ha obbligato a scappare dal suo castello. Ammira la sua forza. E forse anche per questo non si è fatto problemi nell’annunciargli indirettamente ciò che gli sarebbe potuto accadere in Francia, anni prima.  

Ammira anche il suo posto in prima linea, sempre, qualunque guerra fosse. Qualunque nemico vi fosse davanti.

Geoffrey non temeva la sua spada. Lo avrebbe sfidato anche subito, se avesse pensato che fosse la cosa giusta da fare. La vecchiaia gli era servita a consolidare ciò che per natura ed educazione già sapeva, a rafforzare la sua capacità di frenare ogni istinto e, allo stesso tempo, agire talvolta con un ardimento quasi sconsiderato quanto inventivo.

Indifferente della propria vita. Come se ci fosse sempre qualcosa di più importante da seguire o per cui combattere.

William era certo che l'altro non sapesse di essere ammirato e rispettato oltre ogni misura. Ma quando aveva capito che il barone lo avrebbe odiato per sempre, il conte era rimasto addolorato, pur non mostrando questo suo sentimento.

Fin da quando era un ragazzo, aveva capito che sarebbe stato un ottimo comandante dell'esercito, un'ottima guida. Giovanni aveva cominciato a temerlo. Un ragazzo che pareva uno scherzo del destino, qualcuno che non sembrava potesse diventare particolarmente importante, l'ultimo di tre maschi, che divenne un'insospettabile arma a doppio taglio. Senza l'aiuto di nessuno.

William lo ricordava in più occasioni di quante Martewall stesso ricordasse.

Conosceva la sua indomabilità, la sua testardaggine, la sua freddezza, la sua componente passionale e il suo dolore, persino, in qualche occasione.

Conosceva la paura che portava cucita al mantello.

 

Giovanni sembra quasi febbricitante. Con una mano stringe convulsamente le tende pesanti di una finestra, mentre l'altra si aggrappa alla spada ricca di perle e intarsi che tiene alla cintura come se ne andasse della sua vita. Gli occhi sono sbarrati e liquidi, rivolti verso le luci delle torce che si possono vedere nel buio. Al loro interno si annida una paura folle. Una paura che William studia con attenzione, gustandosi ogni momento di quella sera.

Avevi ragione, ci sono queste parole in quello sguardo. Tu sapevi.

William trattiene un ghigno.

« So già quale sarà il blasone che vedrò per primo da queste finestre.» mormora Giovanni, in un soffio.

 

« Sir Martewall...» esordì William, rimanendo seduto sul suo scranno. « so che non vi fa piacere venire a farmi visita.»

Geoffrey si appoggiò alla parete con le braccia incrociate sul petto, più muscoloso di quando era giovane. Il conte constatò come non avesse perso i suoi modi ben poco impettiti, riuscendo comunque ad avere qualcosa di elegante nei movimenti.

« Infatti non è una visita di cortesia. » replicò freddo.

William annuì con un' espressione rassegnata.

« So bene a cosa è dovuta la vostra visita. » affermò adombrandosi. «se venite da me è solo perché siete obbligato dalle vostre convinzioni. Allora... immagino che non potremo contare sul vostro aiuto per la guerra in terra francese. »intuì subito Salisbury, cupo.

Martewall sorrise appena, sarcastico e sfrontato, staccandosi dalla parete con un movimento soddisfatto.

« Adoro risparmiare tempo. »

E fece per dirigersi verso la porta col suo solito passo deciso. 

« Dal momento che vi avvalete del permesso concesso generosamente dal nostro re di non rispondere alla chiamata alle armi della corona, dovrei almeno sapere il motivo di questa vostra scelta. »

Martewall si voltò di nuovo verso di lui, per nulla sorpreso da quel nuovo intervento.

« Ormai dovreste saperlo, Lunga Spada. Ho smesso di combattere guerre inutili nel momento in cui ho imparato a riconoscerle. »

Salisbury lo fissò in volto, calmo. Sarebbe stato ore a studiarlo, se solo Martewall non fosse stato così sfuggente per natura.

« certo. » disse a mezza voce, riflessivo. « e la vostra amicizia con la corona francese vi spronerà sempre a valutare bene questo tipo di situazioni.» non era un'accusa, né una affermazione sprezzante. Era semplicemente una constatazione, abbastanza ammirata, persino. L'uomo politico che era in lui apprezzava l'idea di Martewall di farsi un alleato così potente.

Ma dubitava, onestamente, che il barone agisse in quel modo davvero per quel motivo, o che avesse ricercato lui stesso l'alleanza coi francesi. Non gli era mai importato nulla di questo genere di cose e non era un politico, non era un diplomatico. Era un uomo d'onore e un guerriero.

Ed era qualcuno che Salisbury, in fin dei conti, aveva voluto provocare. Forse per dissipare, almeno in parte, l'accusa che leggeva nel suo sguardo costantemente.

Martewall non sembrò stupito dalle sue parole. Non poteva certo sperare che William non si fosse accorto del suo legame con la regina Bianca, o della sua improbabile amicizia col Falco d'Argento. Tuttavia fece qualche passo verso il conte, lo sguardo freddo, punto sul vivo.

« Se pensassi che l'Inghilterra meriti di diritto ciò che sta pretendendo, allora non ci sarebbe francese che potrebbe frenarmi. Ma non è così. Non lo è da anni.»

Salisbury lo sapeva. Sapeva che non vi era nessuno che amasse quella terra di pioggia, foreste e sassoni come Geoffrey Martewall. Ma se lo avesse detto, il barone lo avrebbe interpretato come una presa in giro.

« Non vi stavo accusando di nulla. » ci tenne a precisare il conte.

Martewall sostenne il suo sguardo con freddezza estrema.

«In ogni caso non do più molto valore alle accuse che ricevo. Sono stato accusato di tradire l'Inghilterra mentre davo ogni fibra del mio essere per salvarla. »

Salisbury si ritrovò ad aprirsi in un piccolo sorriso amaro. Lui non sentiva di aver dato nulla alla sua terra in confronto al barone, e Martewall forse voleva proprio ricordarglielo.

« Siete una persona particolare, sir Martewall. Andate contro ad ogni comune pensiero. » affermò, con un gesto vago.

« Al contrario. Spesso mi capita di essere il portavoce di molti. E già che siamo in argomento... » aggiunse il barone, sicuro e fiero. « Vi rammento di ricordare al re che la Magna Charta non esiste solo per i morti come suo padre. E non è discutibile. »

Salisbury annuì una sola volta in un gesto quasi maestoso.

« Avete avuto modo di conoscerlo, sir Geoffrey. Non è come suo padre. Rispetterà sempre il vostro amato parlamento. Enrico potrebbe essere molto peggio di com'è »

« Sì. » ammise Geoffrey, alzando di poco un angolo della bocca « Ma non per molto. »

il conte sospirò quasi divertito.

« E se vi avesse obbligato a partire per la Francia?»

Geoffrey parve indolente e noncurante.

« Ho perso troppo per accettare ancora un obbligo del genere. Ma i figli imparano dagli errori dei padri, a quanto vedo. »

Salisbury si morse la lingua prima di rispondere. Decisamente, Martewall non aveva imparato dall'errore di suo padre. Non avrebbe mai imparato a tenersi lontano dalle battaglie più spinose. Il conflitto di interessi tra il re e il parlamento era tra questi.

« Non avete intenzione di posare la spada, vero? Non vi sentite ancora del tutto al sicuro dalle ingiustizie. »

« Non si è mai del tutto al sicuro dall'ingiustizia. » replicò Martewall, gelido, prima di voltarsi nuovamente, per l'ultima volta.

 

Salisbury quasi trasalì nel constatare quanto gli fosse famigliare la sua ferocia. La riconobbe in quegli occhi grigi come la nebbia delle sue terre affacciate sul mare. Era un'eco lontano, adesso, ma anche se era momentaneamente sopito, la sua ombra sembrò oscurare le iridi ferine del barone.

Nel suo viso c'era qualcosa che faceva continuamente venir voglia di mettere mano alla spada, con un atteggiamento guardingo.

Il conte volse lo sguardo verso la moglie di Martewall. Lei ricambiò, preoccupata, con una lieve angoscia che, al fianco di Martewall, aveva sempre provato. Lei lo amava davvero, glielo si leggeva negli occhi. Lo amava come lui non si era mai amato, lo amava sopra ad ogni altra cosa.

Salisbury riuscì solo a pensare che non fosse bastato l'amore a far sparire le ombre dagli occhi di Martewall.

Sarebbe bastata la sua morte?

« Perchè siete qui?»

Era crudele venire a fargli visita. Proprio lui. Proprio chi più di chiunque altro avrebbe potuto ricordargli i sacrifici del passato. Lo vide osservarlo dall'alto, evitando di sedersi, guardando il suo corpo affondato nel letto.

Non vi era nessuna espressione, adesso, sul suo viso.

Salisbury aspettò. Confusamente si chiese anche quanto avesse insistito con i servi per riuscire a entrare nella stanza.

Sapeva che non avrebbe ignorato la sua domanda. Non si ignorano mai le parole di un moribondo, non è cortese.

« Volevo darvi il mio ultimo saluto. » la sua voce era profonda e, inaspettatamente, sinceramente addolorata, anche se non voleva dare questa impressione.

Salisbury sorrise debolmente. Il barone avrebbe potuto abbandonare parte del suo orgoglio, dato che sarebbe morto di lì a poco. Ma le abitudini sono dure a morire.

« Grazie. »

Era forse una delle parole più sentite che avesse mai pronunciato. Grazie, Geoffrey Martewall, per non avermi mentito, per non aver detto che sei venuto per sincerarti della mia salute.

Se non fosse stato convinto che sarebbe morto, non sarebbe mai venuto.

William respirò con fatica, appena più forte.

«Non riesco a vedere il vostro volto. » disse il conte, ed era vero. Non lo vedeva più bene, da quando aveva fatto qualche passo avanti. Percepì la sua esitazione. Poi, con un movimento lento, vide la sua ombra spostarsi verso la luce.

Lo osservò a lungo con gli occhi socchiusi e brucianti a causa della febbre.

«Geoffrey. » lo chiamò per nome per la prima volta in vita sua, sentendosi sempre meno lucido, ma la parola uscì rantolata dalla sua bocca, quasi incomprensibile.

Rivedeva il suo volto da ragazzo, i suoi occhi colmi di tormento.

«Non avrei mai voluto... » riuscì a dire il conte, scandendo di più le parole.

« Lo so. » la voce di Martewall fu perentoria, secca, potente. William la immaginò come una grande falce che sibilava nell'aria, mossa da braccia forti e veloci. I suoi tratti si contrassero dalla sorpresa.

« Non è stata colpa vostra.»

William si abbandonò all'oblio con un sorriso. Martewall non si smentiva mai, perché in quel momento era là con lui, a regalargli una morte serena, e nessuno dei due, per una volta, aveva qualcosa di cui scusarsi. Aveva parlato come chi ha capito solo da poco il desiderio di una persona, ciò he avrebbe dovuto fare.

Martewall voleva donargli il perdono che, forse, avrebbe voluto avere la possibilità di concedere anche ad altre persone.

William sentì la falce cadere su di lui.

L'ultima sensazione che provò fu il sentire l'odore del mare, della pioggia e della libertà, e la mano di Martewall che stringeva forte la sua.

 

 

Eccomi, Popolo Efpinese! Non sono stata spedita nello spazio!

Come ho detto, c’è altro che vorrei dire a parte il fatto che mi vergogno per la lunga assenza. Per prima cosa, scusate se ho descritto Lunga Spada in modo un po’ Oc. Ok, molto Oc.

Ho scritto di getto ciò che ho sempre pensato, e cioè che William sia un personaggio, diciamo così, che nasconde tante cose perché gli riesce bene e gli risulta utile farlo. Mi piace molto come personaggio, e non volevo descriverlo affetto da un vero e proprio rimorso, ma ho cercato di immaginarlo più vecchio e propenso a guardarsi alle spalle. Ho inventato molte cose, come la sua morte, di cui sinceramente non  so la data. Come ho detto, ho scritto di getto. In più non avendo internet non ho potuto informarmi.

Il finale è ciò he più mi impensierisce, ma se continuo a rileggerlo lascio la storia incompleta, in un punto in cui non sento di doverla finire, quindi, dato che comunque mi piace l’idea di descrivere la sua morte, lo lascio al vostro giudizio. XD

Come ultima cosa devo dire che non ho completamente risolto i miei problemi col computer ma, ehi, ci sono vicina ; )

Grazie infinite per aver letto fino a qui!

Alla prossima!!!

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Henri de Bar- Amicizia ***


Henry De Bar

Amicizia

 

 

Henri de Bar non amava particolarmente osservare le persone. Spesso non provava interesse nell'interpretare i loro comportamenti, e trovava più rispettoso farsi gli affari propri, dato che lui non aveva un compito politico affidatogli dalla corona come Jean o come Henri de Grandprè.

Era difficile che qualcuno suscitasse la sua curiosità, perchè la sua discrezione era inattaccabile quanto quella di Sancerre risultava inesistente verso tutti. In molti avrebbero potuto scambiarla per disinteresse, o menefreghismo.

 E di questo Henri si dispiaceva, ma non poteva farci nulla.

 La prima volta che aveva visto Geoffrey Martewall, non aveva potuto fare a meno di provare un brivido potente di curiosità. Lo ricordava ancora molto bene, il cavaliere bardato di nero, col leone d'oro sulla livrea e l'elmo calato sul viso. L'aveva visto scambiarsi uno sguardo con lo sceriffo senza pietà e si era chiesto subito che faccia potesse esserci sotto a quell'elmo.

 La sua curiosità era aumentata quando si era svegliato su una branda dell'accampamento, il fianco che pulsava dolorosamente e i medici intenti ad estrarre un pezzo della lancia del suo avversario dall'addome.

 Si era imposto, con la mente ancora terribilmente confusa, di non provare rabbia. Quella di Sancerre sembrava essere più che abbastanza per un semplice torneo, e Henri non voleva incoraggiare le idee folli che gli sarebbero potute venire in mente.

 Il cavaliere inglese se ne andò il giorno dopo, ma Henri, stranamente, non smise subito di pensare a lui. Ogni tanto gli tornava in mente. E gli tornava in mente la sua sconfitta, il cavaliere spaventoso che gli piombava addosso come un ariete. Sapeva che presto lo avrebbe rivisto, in guerra. 

 « Pronto, Henri?» aveva chiesto Sancerre, avvicinandosi a lui e circondandogli le spalle con un braccio in una stretta cameratesca. « Andiamo a spaccargli il cuore davvero. » aveva aggiunto, sorridendo.

 E Henri sapeva a chi si riferiva.

 Derangale era una questione privata di Jean, mentre, secondo Sancerre, Geoffrey Martewall doveva essere il suo conto in sospeso personale.

 Henri si chiese se fosse davvero così, ma non riuscì a darsi risposta.

 

 

*

 

 

Vi era sempre qualcosa di inspiegabilmente triste nell'osservare il suo sguardo freddo. O forse non era tanto tristezza, quanto un sottile senso di disarmata impotenza e confusione.

 Henri andava fiero del rispetto che sapeva di ricevere da parte dell'inglese. Sperava che un giorno lui stesso avrebbe potuto essere uno dei compagni d'arme che poteva ripagare di ciò che aveva perso con il tradimento e la morte di Derangale. Ma la distanza tra i cavalieri francesi e Geoffrey Martewall era palpabile, e non era data solo da uno stretto che separava due coste, né dal fatto che fossero stati nemici così a lungo.

 Non solo.

 In lui c'era qualcosa di diverso che nessuno poteva ignorare. Nei momenti in cui ci pensava,Henri era ancora più felice che al suo fianco ci fosse Sancerre, disposto a ridere su ogni cosa, ad annullare ogni differenza. Henri non avrebbe saputo farlo. Non per egoismo, ma semplicemente perchè non riusciva ad eliminare o ignorare ciò che si sforzava di capire.

 Non gli erano mai piaciuti gli enigmi, eppure in Martewall c'era qualcosa di nascosto che lo attirava. Il suo compagno Derangale era stato molto più semplice da capire, e per questo Henri poteva immaginare cosa lo avesse colpito dell'amico Geoffrey.

 Lo aveva guidato verso di lui la ricerca di un'anima più complessa e tormentata della sua, il fascino di un dubbio persistente.

E si chiedeva se Geoffrey sentisse la mancanza dello sceriffo, se gli sembrasse solo un ricordo molto lontano. Sancerre gli aveva confessato di essere sul punto di chiederglielo, una volta, ma di essersi subito frenato.

 « Ho sentito la tua voce nella testa che mi diceva di non immischiarmi negli affari altrui.» aveva detto, ironico.

 Henri aveva sorriso appena, orgoglioso dell'amico.

 Sperava solo che, almeno per un po' di tempo, Geoffrey avesse avuto un'amicizia come la sua. E che potesse averla di nuovo.

 

*

 

Henry de Bar era razionale e lucido. Sempre.

La sua calma pacata era una qualità che possedeva fin dalla nascita, e che aveva poi fatto in modo di sviluppare una volta che aveva intuito che avrebbe avuto da misurarsi con Etienne de Sancerre per molto tempo.

Era orgoglioso nella sua tollerante e solo in apparenza distante tranquillità. Non era incapace di sostenere un confronto, nè di arrabbiarsi, ma si sapeva controllare ammirevolmente. Era semplicemente se stesso, mite e fiero, fermo nei suoi principi saldi, incrollabile e rassicurante.

Per questo, sebbene durante i primi tempi ogni volta che guardasse il cavaliere inglese ricordasse il dolore della sua lancia nel fianco, le vertigini e la terra che si faceva vicinissima in un battito di ciglia, il cavaliere nero che gli si era lanciato addosso con una forza e una velocità a cui non poteva fare altro che soccombere, non lo aveva mai guardato con sospetto.

Ricordare era qualcosa di più forte di lui. Ma giudicarlo male quando lo stesso Jean voleva che fosse accettatto dagli altri come lo era da lui, gli sembrava senza senso.

Ma, anche se per lui, e forse solo per lui, era possibile non provare diffidenza verso Geoffrey Martewall, non provare curiosità era davvero impossibile. Persino per una persona discreta come Henry de Bar.

Ma era così difficile soddisfare la curiosità, che Henry si sarebbe sentito a disagio, come sempre, nel farsi troppe domande, come se osasse troppo nel desiderare qualcosa che Martewall aveva il diritto di nascondere.

E tuttavia sapeva che sarebbe arrivato ad avere un'opinione obiettiva del cavaliere sassone, utilizzando informazioni basate su ciò che vedeva e non vedeva, senza nessun ostacolo creato da impulsi o da pensieri nati grazie a rancori o giudizi frettolosi.

Geoffrey non gli avrebbe messo alcuna fretta, agendo come faceva di solito, senza preoccuparsi di doversi guadagnare la fiducia dei compagni d'arme del Falco. Non tentava di apparire più amichevole, né meno scontroso e non aveva mai cercato di giustificare il suo antico legame con Derangale, o di rinnegare la loro amicizia passata. Non voleva perdono e non voleva approvazione.

Usciva da ogni schema che Henry potesse immaginare. Nessuna sua azione, neanche la più piccola, era mai sembrata scontata o prevedibile.

Henry respirò lentamente l'aria fredda delle terre inglesi. Sapeva di sale e di foreste. Sapeva di pioggia.

E di pericolo.

Come Martewall, in effetti.

« non mi aspettavo di vedere anche voi, signor conte. »

Henri lo osservò per un attimo, interdetto. Era raro, estremamente raro, che Geoffrey cominciasse un discorso, se non era strettamente necessario. Puntò gli occhi nei suoi, grigi e fermi, e lui ricambiò senza imbarazzo, attendendo la sua risposta.

Forse, per lui, lo era, necessario.

Forse voleva davvero, per una volta, sapere lui qualcosa da De Bar. Il motivo della sua presenza nel suo castello, per esempio.

« Volevo vedervi anche io, come Jean. » rispose, arrivando subito al punto come era abituato a fare. Geoffrey non tradì un'espressione, nessuna emozione modificò i suoi tratti, ma per lui l'attesa non era finita e De Bar si mise a pensare a come portare avanti il discorso.

« Con tutto quello che è successo, non penso di avervi ringraziato come avrei dovuto. Ci avete aiutato a prendere Gant, dopo che avevate salvato la vita di Jean. Il vostro aiuto è stato inestimabile, e penso che oramai nessun francese avrà più dubbi sul vostro senso dell'onore. »

Geoffrey distolse lo sguardo da lui e lo puntò sul panorama nebbioso fuori dalle bifore in pietra, incrociando le braccia sul petto.

« Non l'ho fatto per questo. Ho scoperto che, alla fine, tutto ciò che mi importa ormai è di essere sicuro io stesso del mio onore. Quando non lo sono stato ho commesso molti errori. E vi è comunque qualcosa per cui dovrei chiedere perdono anche a voi...»

« La cattura di Jean...» intuì Henri, colpito dal discorso di Martewall, avvertendo tra le parole un costante senso di rimorso, o forse la sottile paura di sbagliare di nuovo e una severità ferrea verso se stesso.

D'altra parte, tutti avevano paura di qualcosa.

Geoffrey annuì dopo qualche secondo e si sforzò di osservare di nuovo il volto di Henri.

« e il fatto di aver difeso e appoggiato per così tanto un uomo che non conoscevo davvero, di non essermi accorto della vera natura di Derangale...» vi era stata una lieve esitazione nel pronunciare l'ultima parola, come se il barone fosse stato sul punto di pronunciare il nome proprio del suo vecchio amico ma ci avesse ripensato all'ultimo istante, preferendo chiamarlo per cognome in modo più distaccato possibile.

Il conte gli regalò uno dei suoi sorrisi rari e ben poco distesi, ma rassicuranti. Anche se non riusciva a credere che Geoffrey avesse davvero bisogno della sua rassicurazione, così come era strano sentirlo scusarsi per qualcosa che avvenuto due anni prima.

« Commettiamo tutti degli errori. Etienne vi direbbe di dimenticarli in un bicchiere di vino in più. Io invece sono convinto che ciò che avete fatto voi per sdebitarvi sia molto più adeguato. » gli disse Henri, non riuscendo, però, a sembrare ironico, ma solo serio e pacato come al solito.

Geoffrey rimase immobile ma i suoi sembrarono, per un solo momento, adombrarsi, prima che la freddezza, di nuovo, non lasciasse più spazio ad altro.

« Mi dispiace davvero per l'esito della guerra del vostro principe. Avrei davvero voluto che la mia terra avesse un re come lui. » tornò a dire, dopo parecchi istanti di silenzio. A Henri sarebbe piaciuto per una volta, poter intuire più di quella minima parte che riusciva a vedere dei suoi pensieri. Però gli sembrava, allo stesso tempo, che Martewall stesse, lentamente, abbattendo un poco le difese. Che potesse, questa volta, desiderare di essere compreso. La sua anima pareva più aperta di quanto l'avesse mai vista, e Henri allora si chiese perchè stesse accadendo proprio con lui.

Il conte apprezzò il suo sforzo senza riserve.

« Lo so. Anche a me dispiace, soprattutto per voi, monsieur. » rispose, un po' tentennante. « Non è colpa vostra. La corte francese parla ancora della battaglia di Lincoln e di come vi siete comportato...»

Geoffrey strinse piano le dita sull'elsa della spada in un movimento istintivo e nei suoi occhi sembrò passare il ricordo di quel giorno. Henri non si sarebbe stupito se gli avesse detto di essere stanco di combattere. Quegli occhi sembravano aver visto troppe cose, e parevano più vecchi del corpo a cui appartenevano. Ma allo stesso tempo vi era ancora una forza incrollabile nel loro colore impalpabile.

Il conte ricordò di non avere davanti un comune cavaliere, ma il Leone di Dunchester.

Quindi sì, ripensandoci si sarebbe stupito se Geoffrey Martewall avesse mai ceduto alla tentazione di posare la spada.

« Ho dovuto giurare di non combattere più contro gli altri baroni. I miei uomini mi hanno seguito fino all'ultimo, tutti, quando avrebbero potuto tradirmi, salvarsi. Mi hanno dato le loro vite e io avevo il dovere di proteggerle... » disse il barone, e c'era qualcosa nel suo modo di parlare che fece pensare ad Henri che stesse parlando più a se stesso che a lui.

Di certo, trovarsi obbligato ad arrendersi a questa condizione non era stato facile per lui, e adesso la sua mente pareva devastata da desideri e pensieri confusi.

« Avete fatto ciò che era giusto. Ora non dovreste fare altro che proteggere le vostre terre e adattarvi ad un nuovo re... »

Geoffrey aprì la bocca per dire qualcosa ma una voce vibrante di ilarità lo anticipò, arrivando poco prima del suo padrone.

« E trovarvi una moglie, magari!» aggiunse Etienne de Sancerre, con un gran sorriso, ponendosi vicino ad Henri che gli rivolse un occhiata leggermente torva.

Geoffrrey si scrollò di dosso la sua immobilità con un solo gesto stizzito.

« è l'ultimo dei miei problemi, al momento. » commentò, e la frase uscì ancora più secca dalla sua bocca grazie al suo francese dall'accento straniero.

Etienne gli scoccò un'occhiata furba e maliziosa.

« è un modo cinico per dire che ne avete già trovata una?» ipotizzò, con gli occhi che saettavano teatralmente per la stanza calda e più accogliente delle altre nel castello, alla ricerca di una famigliare testa dai capelli rosso fiammante.

Geoffrey indurì ancora di più il suo sguardo e non seguì il movimento delle iridi di Etienne.

« No. È un modo per dire che non ho proprio tempo di farlo adesso. »

« E che dovresti farti gli affari tuoi. » aggiunse Henri, con la solita pacatezza. Etienne guardò l'amico con una complicità che solo loro condividevano, a dispetto dei loro caratteri così diversi per natura, e poco dopo fece finta di non averlo sentito.

« Se fosse per voi rimandereste all'infinito. » sbuffò, in direzione di Martewall, che lo osservò impassibile. Forse con una punta di noia ed arroganza.

Henri li osservò un po' divertito. Non tutti erano in grado di incassare così bene e senza imbarazzo i colpi che Etienne si divertiva a scagliare senza nessun freno, con il suo modo di parlare sempre a sproposito e sempre con irriverenza e sarcasmo. Martewall sapeva tenergli testa, e probabilmente questo spingeva il suo amico a provocarlo più di quanto facesse con altre persone dalla tempra più fragile.

« Vi ringrazio per l'interessamento. » rispose freddo Martewall.

« Sempre a vostra disposizione...» ribatté Etienne, allegro.

« Non disturbatevi...»

Henri osservò quella scena ricordando i tempi in cui Sancerre non si fidava di Martewall, e avrebbe desiderato ucciderlo, persino, per aver ferito lo stesso Henri al torneo e per aver in seguito rapito Jean e monsieur Daniel.

Ripensando a come erano stati, ancora non si rendeva conto appieno di come potessero essere tutti lì, a scherzare sul fatto che Martewall ancora non fosse sposato, ospiti del barone.

« Forse il nostro inglese teme di perdere la sua libertà legandosi in un matrimonio. » aggiunse Etienne, con leggerezza, osservando Henri e chiedendo la sua opinione.

Il conte scosse le spalle mentre Geoffrey inarcava un sopracciglio nel sentirsi apostrofare con le parole "il nostro inglese".

« O forse è troppo impegnato a far capire al nuovo re che non è un traditore della sua terra. » ribatté Henri, serio. « A questo non avevi pensato. »

Etienne osservò subito Martewall con espressione accigliata e ironica.

« Se avete pensato di dimostrarlo accogliendo nella vostra casa dei feudatari francesi, lasciatevelo dire, avete le idee un po' confuse...»

Martewall scosse appena la testa e per un solo istante parve quasi divertito.

« In realtà non voglio affatto farmi ben volere dal re. Non sono uno dei suoi fidati e non voglio diventarlo. A me basta che mi tema abbastanza da non minacciare le mie terre. »

Henri ed Etienne annuirono con un sorriso.

« Quindi un po' di tempo vi avanzerà e potrete dedicarlo a...»

« Etienne...» Henri De Bar frenò subito l'amico con un gesto esasperato della mano. « Basta.»

 

Salve a tutti! Eccomi di ritorno!

Jerome: ...con un capitolo corto. In cui hai parlato male di me, di nuovo, per giunta.

Tacet433: * scuote le spalle*

Già. Volevo fare un grande finale ad effetto ma non mi è venuto in mente altro. Così ho lasciato correre, sperando di avere più ispirazione la prossima volta. Magari un giorno potrei tornare su Henri De Bar.

Spero comunque che vi piaccia. Non ripetersi, mano a mano che aumentano i personaggi di questa raccolta, diventa sempre più difficile. Quindi per favore, ditemelo se divento noiosa, se scrivo sempre le stesse cose ecc..

Comunque... avrei davvero voluto scrivere di più  perchè io adoro Henri De Bar!

Jerome: umpf, che gusti...

-.-" sooolo chee rimane un personaggio di cui non mi riesce bene scrivere. Per me è il più difficile. Peggio di Guillaume e di Jerome... perchè per te, Jerome, diciamolo, basta prendere molto, molto egoismo, sadismo, crudeltà, scarsa morale e cercare anche di renderti miracolosamente umano, mescolare bene...

: D va bene, basta. Scusate, è la gioia del tornare a scrivere per questa raccolta a cui voglio tanto bene.

Grazie a tutti i lettori e a Wrong and Write, insuperabile recensore.;)

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Thomas Bull- Casa ***


Thomas Bull

Casa


Thomas Bull credeva fermamente che la sua terra si sarebbe riscattata per l'umiliazione subita. Non aveva mai avuto dubbi su questo, neanche quando tutti non sapevano fare altro che piangere su ciò che era accaduto e inventarsi storie per riuscire a non sentirsi falliti, membri di un popolo sconfitto e disonorato.
Thomas viveva come sapeva fare e come poteva. Non c'era nulla che potesse fare per aiutare concretamente i suoi conterranei cavalieri imprigionati in terra francese, né chi stava tornando a casa. E di certo non avrebbe mai avuto nessuna parte nella storia della loro riconquista dell'onore perduto.
Ma Thomas faceva il suo dovere. Stava al suo posto. Aveva un posto nel mondo, delle convinzioni, una mente abbastanza intelligente per pensare in tutta libertà e per avere la dignità a cui tanto teneva. Faceva il boscaiolo e lo faceva bene. Aiutava la gente del suo villaggio.
Perchè sapeva che le piccole cose aiutano a far risollevare un popolo disperato. E lui era qualcuno che doveva avere la costanza e la tenacia di continuare, giorno dopo giorno, a fare le piccole cose.
Poi, il suo posto nel mondo era cambiato. Ma non lo aveva chiesto lui, sebbene fosse onorato dalla piega che gli eventi avevano preso e fiero, molto fiero, del suo operato.
Era stato un soldato, un tempo. E anche se in lui dimorava ancora una sorta di disgusto per la guerra, vi era anche qualcosa che, per qualche ragione, lo spingeva a desiderare di riottenere quel posto, quello scopo e quel destino.
Sapeva di poter essere utile. E Geoffrey Martewall, il giorno dopo la presa di Dunchester, lo aveva raggiunto per dirgli proprio questo, in mezzo alle macerie del suo castello.
Che aveva bisogno di ricostruire.
Thomas lo osservò, dopo essersi inchinato, con attenzione. In lui riconobbe i tratti di Harald Martewall, la fierezza nel suo sguardo che era la stessa che il padre aveva portato sul ceppo della decapitazione e che Geoffrey utilizzava ogni giorno che stava al mondo sapendo di dover combattere per qualcosa e dare ogni suo respiro per questo, forse consumandosi, sempre.
Thomas capì che vi era qualcosa di nascosto e spezzato nella forza dei suoi occhi. Il dolore lo avrebbe reso più spietato e temibile che mai.
Il boscaiolo trattenne un sorriso amaro. Geoffrey era abbastanza alto, la camicia nera aperta sul petto, gli occhi chiarissimi e taglienti sul viso bello ma severo. L'ultimo erede della casa di Dunchester. Non gli sarebbero bastati pochi momenti per capire come ci si dovesse sentire ad essere nei panni del barone.
Comprese anche che, forse, loro due avevano, dopotutto, qualcosa in comune. Il bisogno di ricostruire una vita.
All'inizio restò spiazzato dalla sua proposta, posta senza mezzi termini, chiarendo tutti i punti e le condizioni, e il fatto che non fosse obbligato ad accettare, nel caso non avesse voluto farlo.
Non aveva saputo, sulle prime, cosa rispondere.
Ma poi aveva osservato il castello scuro e le sue macerie e il giovane uomo di fronte a lui che lo guardava con uno sguardo insondabile, sembrando una cosa sola con la sua dimora. Spezzata, sofferente, furiosa, ma ancora in piedi nonostante tutto, ancora temibile e pronta a risollevarsi con uno scatto ferino, ad essere ciò che era sempre stata. La rocca sicura per i suoi abitanti. E imprendibile, questa volta, per i suoi nemici. Spietata con chi era riuscito a spezzare il suo cuore di ferro e pietra.
E Thomas decise che sì, voleva che Dunchester diventasse una casa anche per lui, voleva davvero fare parte del destino di Geoffrey Martewall.
Era, dopotutto, un nobile degno della sua lealtà.
Era raro trovarne, in quegli anni.


« Mastro Bull...» disse Geoffrey Martewall, raggiungendo con calma il comandante delle sue guardie. « è bello trovarvi esattamente nel posto in cui dovreste essere. »
Thomas chinò il capo in segno di rispetto, con un sorriso. Sapeva che il barone lo stava tenendo d'occhio, ma questo non gli dava fastidio. Al contrario, gli sembrava qualcosa di molto ragionevole da fare, da parte sua.
E aveva l'impressione che, in ogni caso, Martewall avesse finito in quell'occasione il suo esame.
« per me sarebbe un'offesa verso me stesso e verso di voi, non prendere sul serio ogni mio incarico.» disse, sapendo che, a quel punto, dopo qualche settimana, Martewall sarebbe arrivato a fidarsi di lui come avrebbe dovuto fidarsi un feudatario del comandante delle sue guardie.
Thomas non aveva mai preso alla leggera il suo compito.
Non poteva. Era un soldato di nuovo e sapeva cosa significava addossarsi un mestiere militare, e comprendere gli ordini e i desideri dei superiori degni di questo nome.
Sapeva che, un giorno non lontano, Martewall avrebbe dovuto lasciare la sua casa nelle sue mani.
Lo vide annuire, soddisfatto.
Sapeva che non gli avrebbe mai chiesto di spiegare il motivo per cui aveva accettato di entrare a far parte dei suoi famigli. Per il barone i fatti contavano più delle parole.
Lo guardò mentre lo salutava e si allontanava, e di nuovo pensò che il castello non potesse essere di nessun altro se non suo. Le vesti scarlatte dei mercenari nelle prigioni stonavano con l'intero ambiente. Geoffrey si muoveva come se conoscesse Dunchester palmo a palmo, come se, a volte, fosse il castello stesso a guidarlo. Ed ogni corridoio aveva un suo ricordo.
E non sempre era piacevole ricordare.
Geoffrey amava Dunchester e avrebbe combattuto per lei, per i suoi abitanti. La amava anche se i ricordi erano spesso dolorosi.
Thomas sapeva che Geoffrey aveva per lungo tempo fatto del dolore la sua arma. Lo sapeva perché il tempo e le esperienze lo avevano aiutato a capire i suoi sguardi così personali e inquieti, del colore insondabile della tempesta.
I suoi occhi somigliavano a due perle magnetiche ed era tanto difficile distogliere lo sguardo quanto sostenere il suo. I tratti e l'espressione erano segnati dall'esperienza e mostravano una bellezza quasi scultorea nella loro inflessibilità.
Una bellezza tutt'altro che efebica o eterea, che conteneva un fuoco represso, un'energia nascosta ed immobile, almeno temporaneamente.
Un'insolita aurea di cupa distanza.


C'erano state volte in cui aveva creduto che non ce l'avrebbe fatta, a vivere una vita senza combattere per qualcosa. In realtà, quei momenti lo assalivano ancora, mentre lo osservava mostrare un certo disagio, come una sorta di impazienza difficile da quietare, come se la serenità gli andasse stretta, dopo anni di battaglie.
Avrebbe anche potuto essere stanco della guerra, ed essere contento di aver ottenuto la pace per il suo popolo. Ma la pace per se stesso rimaneva un enigma, un eterno interrogativo. Avrebbe davvero saputo cosa fare, senza avere uno scopo preciso, degli obiettivi saldi, una meta a cui arrivare? Avrebbe sopportato una vita legata solo alla permanenza nel castello, ai normali controlli delle sentinelle, all'accettare il fatto che non ci fosse più alcun nemico?
Per tutta la vita si era concentrato esclusivamente sulle sue battaglie, personali o no che fossero, dimenticandosi delle piccole gioie che esistevano al di fuori del campo militare. Poteva vivere senza  doversi preoccupare di combattere, che era l'unica cosa che credeva di saper fare davvero, senza annegare i sentimenti nell'oblio di una battaglia?
Assolutamente no, aveva pensato Thomas, osservando con un misto di comprensione, tristezza e uno strano sentimento quasi paterno, quello che hanno sempre le persone che si avvicinano alla vecchiaia verso un giovane, la sua rabbia nel dover abbandonare le armi che aveva messo al servizio di un re in cui credeva.
O forse sì, aveva pensato, regalando un sorriso a un piccolo bambino dai capelli castani e gli occhi grigi che somigliava moltissimo al barone, con un ghigno da brigante.
Geoffrey poteva imparare ad essere se stesso anche senza combattere. Per amore, si poteva fare questo ed altro. E la sua vita sarebbe stata piena, felice, i suoi figli avrebbero vissuto a lungo insieme a lui e lo avrebbero visto e ammirato per il grande cavaliere che era.
Adesso Bull sapeva che quella vita lo avrebbe gratificato, ma non poteva, suo malgrado, fantasticare troppo, pensava, con un sorriso amaro e burbero.
Per uomini come Martewall, vi era sempre qualche nemico.


 
ook. E ci sono, straordinariamente, ci sono.
Sì, perché dovete sapere che, subito dopo aver riottenuto faticosamente computer e connessione internet, la rete ha deciso di subire un guasto proprio nella mia zona, il che non dovrebbe stupirmi, considerata la mia rinomata sfortuna con ogni apparecchio tecnologico di cui possa disporre.
Quindi, ancora una volta, devo scusarmi per non aver mantenuto ciò che avevo detto.
In più arrivo con un capitolino corto, e questa è un'aggravante.
O meglio, lo sarebbe se non avessi deciso di pubblicare un capitolo “bonus” subito dopo questo. Bonus perché non rispetta le regole della raccolta, essendo scritto dal punto di vista di Geoffrey...
volevo pubblicarlo più che altro per supplire al senso di vuoto che mi lascia questo, con le sue misere tre paginette di World XD.
Spero solo che mi sia riuscito bene. Parlare di Geoff attraverso Geoff è... insidioso. lo metto in un altro capitolo perché mi legge meglio l'Html... non chiedetemi il perché.
Grazie per aver letto e grazie per la pazienza!


Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Il Leone ***


Il Leone


Henri de Grandpré

Incroci le braccia sul petto, posando la schiena sulla staccionata di legno, senza fretta, in una posa che ti è molto famigliare. I tuoi occhi vagano senza sosta sulle tende francesi e sugli scudieri impegnati e frenetici nello svolgere al meglio e nel minor tempo possibile il loro dovere.
Tutto deve essere pronto e perfetto per il torneo di domani.
Molti sguardi pieni d'odio si posano su di te, ma non ci fai caso.
Mentre senti l'aria fresca del tramonto sulla porzione di pelle liscia del petto che hai lasciato scoperta dalla casacca, ti accorgi della calma assoluta che ti ha invaso le membra.
Forse una sottile agitazione, piacevole, arriverà il giorno dopo. Ma, per adesso, sei del tutto tranquillo e non vedi altre facce come la tua intorno a te.
Hai gareggiato così tante volte che oramai la vigilia di un torneo non ti fa più nessun effetto.
Tra tutti quegli scudieri che corrono da una parte all'altra dell'accampamento spicca la figura dell'unico cavaliere presente in quel momento.
Si riconosce il suo rango superiore solo grazie agli abiti più eleganti sulle spalle magre, agli speroni ai piedi e alla spada cinta al fianco. Ma se non fosse per questi dettagli, non avresti mai detto di stare osservando un cavaliere.
Sta poggiato alla staccionata con la schiena rigida e le braccia lasciate lungo i fianchi che hanno la stessa dinamicità di due pezzi di legno. Guarda il movimento dell'accampamento come hai fatto tu poco fa, ma con uno sguardo molto diverso. È chiaramente un cavaliere che non si è ancora dovuto guadagnare nulla, men che meno l'investitura.
Non c'è fierezza né alterigia nei suoi occhi. Solo la paura di ciò che lo aspetta, trattenuta a stento. I suoi tratti sono ancora quasi infantili e delicati e nessuna espressione ardita o divertita li rende più accattivanti.
È davvero molto giovane.
Non più giovane di quanto eri tu quando hai iniziato a gareggiare nelle giostre e nei tornei, sottoponendoti ad ogni tipo di sfida.
Ma tu non sei mai stato così... così.
Non sei mai stato particolarmente impressionabile. E non avevi di certo tanta accortezza da preoccuparti per i tornei, anche se avresti potuto rimetterci un occhio o finire sotto le zampe galoppanti del cavallo.
In effetti, pensi, gli occhi grigi che esaminano il volto del ragazzo con un'attenzione che riservi raramente a qualcuno come lui, è più... naturale il suo comportamento rispetto al tuo.
Assurdamente, nel non provare nulla al pensiero della prova che ti attende, ti senti quasi in mancanza di qualcosa.
E pensare che neanche da ragazzino ti sia importato di qualcosa di diverso dal brivido della sfida, ti fa sentire come se avessi saltato a piè pari un intero capitolo della tua vita. Ma non te ne importa, se ci pensi bene. Non riesci proprio ad immaginarti con uno sguardo così accomodante, limpido, completamente privo d'orgoglio e innocente.
Certo, non c'è mai stata dell'innocenza in te, da che ricordi.
Di questo forse ti importa.
Ma non importa a nessun altro. Sai che sarai implacabile, al torneo. Preciso e vincente almeno per la maggior parte delle volte.
Ti sei quasi deciso a tornare dentro la tenda con noncuranza, quando il ragazzino incrocia i tuoi occhi. Ricambi la sua occhiata timorosa senza imbarazzo né irrequietezza. Fai trasparire quanto sia lampante la sua scarsa sicurezza di sé, gli fai capire quanto i suoi pensieri siano perfettamente intuibili dall'esterno.
Gli servirà da lezione.
Non hai nulla contro di lui. Anche perché sarebbe piuttosto strano se tu provassi davvero qualche antipatia per qualcuno di una debolezza così palese, candida e ingenua.
Non lo vedi come qualcuno che, irrimediabilmente, sarà destinato a rimanere codardo per sempre. Sai che si imporrà di scendere in campo con coraggio.
Però è riuscito ad irritarti.
La dipendenza da qualcosa ti irrita, anche vista addosso a qualcun altro.
Osservi attentamente la sua tunica e memorizzi il blasone nobiliare. Preferiresti davvero non avere avversari come lui.
Ora ti toccherà andarci piano... per quanto tu lo sappia fare.


*


Lo senti ansimare, fuori di sé dalla rabbia, dietro di te. Ma non ti volti.
Per adesso, vuoi solo che sene vada. E ti si stringe comunque il cuore quando, imprecando, ti accontenta.
L'occhio brucia, ma non più della coscienza.
Dannazione, Jerome...
Rivedi il corpo del ragazzino steso fra la polvere, immobile, il respiro debole e la terra che si macchia del sangue che fuoriesce dall'elmo.
Di giostre e di battaglie ne hai viste tante, ma non sei riuscito a capire quanto fossero gravi le sue condizioni.
Jerome aveva intenzione di ucciderlo. È impossibile negarlo, lo hai anche visto nei suoi occhi solo pochi istanti fa, ma vorresti comunque riuscire a convincerti di essere in torto.
Una rabbia accecante ti invade il petto, la mente, lo sguardo.
Ma in un sottile pensiero, capisci che chiunque potrebbe rinfacciarti di aver ferito, anche se non così gravemente, altri tuoi avversari, quel giorno, compreso il compagno del ragazzino.
Lo sai e non ti senti particolarmente in colpa.
Ma per quel ragazzino, per lui sì.
Ti senti sporco di sangue innocente.


*


Ti eri davvero dimenticato di lui.
I ricordi riaffiorano nel momento in cui il Falco vi presenta l'uno all'altro. Certo, non avevi dimenticato il giovanissimo cavaliere che era stato vittima della rabbia di Jerome, perché era il simbolo del tuo fallimento, del fatto che avresti dovuto accorgerti di non conoscere davvero il tuo amico.
Ma avevi dimenticato il suo volto. La sua espressione impaurita che adesso, fortunatamente, è solo un ricordo.
Perchè Henry de Grandpré sembra cresciuto, rafforzato, maturato. Il volto è più deciso, sebbene gli occhi mantengano la loro limpidezza con un certa fierezza. Una nobiltà umile, una sincerità e una bontà così palese e così degna di rispetto.
Così degna di un cavaliere.
Vedi la vera nobiltà della sua anima nella gentilezza delle sue parole e del suo sorriso.
È tutto quello che tu non eri e che mai sarai.
Ti stupisci di quanto pensare a questo sia allo stesso tempo piacevole e triste.



Brianna

Eri il minore di tre fratelli maschi. Questo voleva dire che dovevi sforzarti il doppio per far parlare di te, per farti notare. Nessuno credeva che saresti potuto diventare un generale formidabile, o che il tuo bisogno di un'eredità non avrebbe fatto crescere in te l'invidia nei confronti dei tuoi fratelli, o che in ogni momento avresti combattuto per guadagnarti onorevolmente il tuo denaro.
In molti mormoravano che per te sarebbe stato più facile e meno faticoso unirsi al clero, oltre che più utile alla tua casata. Ma tu sognavi altri modi per portare in alto il nome della tua famiglia. Non ti era mai passato per la testa l'idea di prendere gli ordini. Ti eri guadagnato il rispetto di tutti con fatica, ma questo aveva temprato il tuo carattere e ti aveva reso più forte.
E non eri affatto geloso di ciò che avevano i tuoi fratelli, anche se a volte la scarsa fiducia che gli altri riponevano in te ti infastidiva, e, malato d'orgoglio, ti fingevi sempre noncurante.
Non avevi un'eredità assicurata, ma avevi una libertà che non molti conoscevano, grazie alla tua posizione e al tuo spirito indipendente. Una libertà che, anche da feudatario, non hai mai rinnegato, pur assumendoti tutte le responsabilità che ti spettavano. E che prima avevano riguardato solo la guida dei tuoi uomini e la protezione delle terre di tuo padre, non il governo di quel feudo, che, lo sapeva, era qualcosa di ben diverso e di difficile da gestire.
Per questo credi di amarla.
Ami la sua libertà, la vostra libertà. Ami il suo portamento fiero, le sue resistenze ai dolori che la vita gli ha riservato, ami la grazia e la forza con cui si prende cura di suo figlio. Un figlio ribelle, faticoso da controllare, come eri tu.
Il fatto che ci sia Beau nella sua vita non fa che renderla più affascinante ai tuoi occhi, anche se nessuno ci crederebbe.
Ami il suo cipiglio lievemente arrogante e molto sicuro, il suo essere così diversa dalle altre donne, attente a mostrarsi fragili bambole dalla pelle di seta. Non vuoi nessuna di loro al tuo fianco. Vuoi lasciare intatta la libertà che per anni hai difeso.


*

Brianna Foxworth è più forte di te.
Avete in comune la sofferenza, ma lei l'ha sempre accettata con fierezza e pacatezza, adeguandosi alla vita come l'acqua in un recipiente sempre diverso. È riuscita a sopravvivere e a seguire i giusti principi quando tu non facevi altro che desiderare sangue e vendetta. I tuoi peccati ti perseguiteranno per sempre, mentre lei è sempre stata un passo avanti, non ha mai ceduto alla debolezza di una tentazione.
La chiamano sgualdrina, ma per te è la più pura fra le donne.
La cosa peggiore, è che tu hai vissuto troppe cose per poter cambiare te stesso.
E ora non la meriti.


Kerwick


Geoffrey Martewall ricordava perfettamente la sua infanzia, anche se non lo avrebbe mai ammesso con nessuno. Non era un argomento di cui amava trovarsi a discutere.
Kerwick non ne aveva idea, ma buona parte dei ricordi più nitidi di quando Geoffrey era un bambino erano legati a lui.
Il barone lo osservò con la coda dell'occhio, in sella al suo cavallo. Il suo sguardo era molto diverso da quello del bambino che era cresciuto insieme a lui nel borgo di Dunchester. Era molto più sicuro, anche se non riusciva a sembrare arrogante.
Quel giorno aveva insistito per partire insieme a lui per la Francia, sarebbe stato un viaggio breve, ma utile per parlamentare col re riguardo ai primi aiuti che avrebbe voluto inviare a suo figlio, impegnato in una guerra aspra e spietata contro re Giovanni Senza Terra.
Geoffrey non avrebbe voluto portare con sé nessuno dei suoi cavalieri, in un momento così particolare, ma solo pochi soldati.
Kerwick non aveva mai contestato una sua decisione, in tutti quegli anni, se non una volta, il giorno in cui Dunchester era stata conquistata da Lunga Spada. Per questo Geoffrey si era dovuto trattenere per non guardarlo con tanto d'occhi quando lo aveva sentito dire che intendeva seguirlo in Francia, nonostante il barone si fosse già espresso riguardo ciò che intendeva fare. In lui aveva visto una preoccupazione a stento sopita, mentre tentava di convincerlo a portare almeno qualche cavaliere con sé, per essere più sicuro nel caso i sicari di Giovanni, fin troppo numerosi, avessero tentato di fermare la sua spedizione.
Geoffrey non aveva mai dovuto giustificare le sue azioni con lui durante buona parte della sua vita. Era così che erano sempre rimasti i rapporti fra loro. Però sentiva che qualcosa stava cambiando, da quando lo aveva visto contestare le sue decisioni di fronte a suo padre, quando Geoffrey aveva scelto di salvare il salvabile dall'esercito di Salisbury e disubbidire a sir Harald nell'arrendersi e fare in modo che la violenza dei mercenari non arrivasse al popolo innocente, alle donne e ai bambini.
Non si era sentito ferito nell'orgoglio dall'inaspettata mancata alleanza di Kerwick, e non si era sentito più debole. Era abituato a combattere da solo le sue battaglie. Ma si era chiesto perché neanche lui capisse le sue ragioni, cosa che aveva dato per scontato così tanto tempo. Questo pensiero si era aggiunto ai suoi turbamenti, perché non aveva mai pensato, a differenza degli altri, che Kerwick ubbidisse agli ordini senza fiatare, di solito, perché solo quello sapeva fare, ma che la sua fedeltà raggiungesse vette inimmaginabili, e forse anche perché si erano ritrovati ad essere d'accordo, evidentemente, su molti punti.
Ma era chiaro che non fosse più così.
Chi era stato a cambiare, in quel periodo?
Geoffrey si fece questa domanda ma si rispose un istante dopo, dandosi dello stupido. Pensò a tutto quello che aveva fatto nell'ultimo anno, al suo comportamento da bandito quando aveva preso prigioniero Jean Marc de Ponthieau in quella locanda. Ripensò alla sua voglia di vendetta camuffata da desiderio di verità.
Non si sarebbe stupito se Kerwick avesse smesso di credere completamente in lui, di provare rispetto nei suoi confronti. Rimaneva al suo fianco, perché il suo onore e la sua fedeltà non gli permettevano di fare altro, e, come era successo quel giorno, si preoccupava come sempre per la sua vita.
Eppure Geoffrey sentiva di aver perso qualcosa.
Qualcosa di importante. E non era l'approvazione senza macchia di Kerwick. Ma il suo rispetto e la sua totale fiducia.
Sapeva di esserselo meritato.


*


Da piccolo si trovava spesso a cercarlo con lo sguardo, forse perché era l'unico dei famigli della sua età. Era un comportamento senza dubbio molto strano, considerato il fatto che i due nemmeno si parlavano, in realtà. Non che Geoffrey non avesse voluto, a volte. Soprattutto quando i suoi fratelli lo lasciavano a lungo da solo, perché impegnati nei loro studi o in brevi viaggi che Harald concedeva loro.
Ma ogni volta che lo vedeva il piccolo Kerwick arrossiva e abbassava lo sguardo, e Geoffrey si sentiva a disagio come se avesse fatto qualcosa di sbagliato.
Eppure vi era qualcosa in quel bambino, una sorta di pacata e incrollabile fiducia, che gli faceva provare il desiderio di tenere in gran conto la sua opinione e i suoi pensieri così evidenti sul suo viso.
A Geoffrey piaceva la sua sincerità. Quel bambino gli ispirava fiducia, ma dalle sue reazioni non era sicuro di fare a lui lo stesso effetto e per questo Geoffrey se ne rimase sempre in disparte, preferendo molte volte la solitudine.
Vi era stato un tempo in cui si era ritrovato anche ad invidiare un po' quel bambino. Svolgeva ogni suo lavoro da scudiero in modo meticoloso e sempre perfetto. Non c'era mai stata una volta in cui aveva combinato qualcosa per cui dovesse essere punito. Sembrava molto semplice e al contempo sereno.
Geoffrey invidiava la sua naturale tranquillità, la paragonava alla propria irrequietezza, che sfogava senza potersi trattenere. Aveva invidiato non solo la sua efficienza ma anche lo sguardo sempre limpido di Kerwick, e persino le sue poche preoccupazioni. La sua capacità di risultare sempre simpatico a chiunque, sempre di piacevole compagnia. 
Poi il tempo era passato e da ragazzino Geoffrey era arrivato a sentirsi così poco adatto a parlare con lui che lo aveva dimenticato, con la mente sempre impegnata negli allenamenti con la spada, nel rapporto con la sua famiglia, nelle guerre imminenti.
Era stato troppo orgoglioso per ammettere che aveva desiderato, anche se per poco, un amico tra le mura di Dunchester , ma non si curava neanche più di questo fatto irrilevante.
Nei confronti di Kerwick era rimasto dentro di lui un pacato rispetto, che sperava fosse ricambiato.


*


« Che diavolo è successo qui?» chiese Kerwick tra sé, guardandosi intorno con gli occhi leggermente sbarrati.
Geoffrey si chinò a raccogliere dal fango un brandello di tessuto rosso sporco e bagnato dall'umidità mattutina.
« Se fossi rimasto in Inghilterra, probabilmente lo sapresti. » rispose Geoffrey, duramente, lo sguardo che scrutava le case bruciate. Kerwick non abbassò lo sguardo, ma non rispose subito, serrando la mascella.
Il giovane barone non lo degnò più di uno sguardo.
« Muoviamoci a raggiungere Fitz Walter. » ordinò, secco, l'espressione cupa ma determinata. In un primo momento aveva ricordato a Kerwick il suo errore, ma non ci aveva prestato molta attenzione. Cercava solo, in quel momento,  di capire in ogni dettaglio ciò che era avvenuto in quel luogo durante la sua breve assenza, dove si fossero diretti gli abitanti in fuga, se vi era stato solo un saccheggio o una battaglia tra componenti di diverse armate. Perlustrò con uno sguardo attento ed esperto tutto ciò che poteva, mantenendo il suo cavallo al passo in mezzo alla strada piena di impronte sparse e fango, superando le case dalle porte sfondate e i tetti anneriti e pericolanti a causa del fuoco.
L'odore della morte, inconfondibile, permeava l'aria avvolta da un silenzio che pareva irreale. Geoffrey sentiva la rabbia crescere sempre più nel suo petto.
Kerwick lo raggiunse, rimanendo solo qualche passo dietro di lui.
« Non vi chiederò perdono per essermi opposto ad una vostra decisione. » disse, calmo ma sicuro.
Geoffrey lasciò faticosamente che la sorpresa gli scivolasse addosso senza lasciare traccia e lo osservò con gli occhi taglienti e freddi come il ghiaccio.
« Non voglio affatto farti desiderare il mio perdono. Non posso dire di essere stato contento della tua decisione, ma se io non avessi acconsentito, saresti rimasto qui. Che fossi stato d'accordo o no. E non mi pare affatto di averti dato il permesso di parlarmi così. » chiarì, severo e tagliente.
Non poteva pensare che non fosse strano, rivolgersi in questo modo proprio a lui. Forse perché lo conosceva da sempre. Anche se non avevano fatto amicizia nel vero senso della parola, era stato fin da piccolo una presenza vicina. Ma lo aveva ferito nell'orgoglio dicendo una frase che, come era ovvio, era uscita istintivamente dalle sue labbra. E Geoffrey non poteva impedirsi di reagire con estrema freddezza.
In effetti, non aveva neanche idea del perché non si fosse opposto alle insistenze di Kerwick fino a farlo desistere. Ci sarebbe voluto poco, era lui il suo signore, lui quello che poteva dare ordini.
In Kerwick, quel bambino che aveva conosciuto e osservato da lontano, c'era qualcosa che lo portava, a volte, solo a volte, ad acconsentire alle proposte che faceva anche se non si trovava per niente d'accordo.
Geoffrey si morse le labbra. Non avrebbe mai più dovuto fare un simile errore.
« L'ho fatto per guardarvi le spalle, signore. » si giustificò Kerwick, abbassando la testa.
« Lo so. Ma non ne ho bisogno. »
Kerwick non disse nulla anche se la sua disapprovazione aleggiava pesante nell'aria. Geoffrey si chiese se l'altro avesse perso fiducia nelle sue capacità o condannasse apertamente il suo orgoglio.
« Credete che io non sappia cosa siete capace di fare? Avevo la vostra stessa età quando avete impugnato la spada per la prima volta. » mormorò Kerwick, pacato, come per rispondere ai suoi pensieri nascosti, e il barone lo osservò con un interesse che non aveva mai dato a vedere di volergli riservare.
« Lo ricordo bene. » concluse Geoffrey, tornando ad osservare la strada. Non mentiva, e capì in un istante di aver dato una risposta che aveva soddisfatto l'altro cavaliere.
« Mi perdonerete allora il mio modo di preoccuparmi per voi anche più di quanto facciano gli altri, anche se vi da fastidio?»
Geoffrey faticò di nuovo nel non mostrarsi sorpreso. Strinse le redini mentre la domanda gli riecheggiava nella testa.
Non c'era una risposta che gli avrebbe fatto piacere dare.
Indurendo la sua espressione appena tetra e incolore, annuì una sola volta, mentre una strana luce sembrava allargarsi nel suo petto come una sorgente che inonda all'improvviso un terreno arido.



E con questo ho finito di rompere... -.-" per un bel po' nulla e all'improvviso pufff, due capitoli!
Grazie a tutti per aver letto :)  (e Grazie con la g maiuscola a Wrong And Write, che non se ne perde uno, dei miei capitoli e mi incoraggia sempre...)
Spero di non aver deluso nessuno dei tanti ( come potrebbe essere altrimenti) ammiratori e ammiratrici di Geoff...
in ogni caso, sappiate che avevo buone intenzioni... e che non avete il mio indirizzo...  : )
Ciaooo!

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Harald- Padre ***


Harald Martewall

 

Padre.

 

 

Il barone è tornato a casa.

La sua veste è gocciolante e il suo mantello pesa sulle spalle. È tornato in un giorno in cui il cielo non è stato clemente, in un modo che oramai gli abitanti del territorio si aspettano. Le nubi sono scure e opprimenti nelle ombre della sera, e rilasciano una pioggia torrenziale.

Il barone si sfrega con una mano la barba castana, la pelle pallida e tirata sugli zigomi dalla stanchezza. Ma è solo un momento distratto, e poi il suo sguardo si irrigidisce di nuovo, come animato da un movimento che è risalito dalla schiena, ora più dritta e austera. Sembra di nuovo infaticabile, il barone, anche se il suo viaggio è finito.

Si ferma nella sala d’ingresso, finalmente lontano dalla tempesta e ascolta per un momento, senza dire nulla, le voci concitate degli ufficiali che ordinano ai servi di mettere i cavalli al riparo. Impartisce lui stesso qualche istruzione, davanti ai volti dei suoi famigli che, lo sente, sono felici di vederlo. Cede ad uno di loro il mantello con un sospiro di piacere, non sopportando più di sentire il tessuto freddo e bagnato sul collo.

Sorride distrattamente. Lui stesso è molto felice di essere di nuovo a casa. E non solo per il calore del fuoco acceso.

Dal corridoio fanno capolino delle giovani balie dai capi coperti da un panno bianco, una di loro porta in braccio un bambino  che quasi scompare tra le pieghe delle sue vesti. Lo vedono e gli vanno incontro con sorrisi ampi e saluti cortesi. Il barone le osserva inchinarsi di fronte a lui e poi tende le braccia con un piccolo sorriso.

La piccola Leowyn adesso è tra le sue braccia e dorme profondamente. Il barone le accarezza la piccola testolina ma alza lo sguardo quando sente i passi dell’ ambasciatore che lo raggiungono, e lo guarda negli occhi mentre, delicatamente, riaffida la piccola alle cure delle donne. Il messaggero ha in mano una lettera e il barone sa che resterà con lui per discutere riguardo al suo contenuto, una volta che l’avrà letta.

La porta dietro alla sue spalle si apre lentamente mentre un’altra folata di vento piega i rami degli alberi fuori dalle finestre di vetro opaco. Il barone si accorge allora di non essersi allontanato dall’entrata e si volta mentre il portone sbatte con un tonfo sordo.

Ricambia lo sguardo profondo di un bambino con le guance sporche di fango e gli occhi rossi per il vento e la pioggia che hanno raccolto. Il loro grigio intenso non ha perso però quel guizzo vivace che ha sempre avuto nel suo colore frastagliato, che pare più chiaro ancora alla luce danzante del camino. Le spalle del bambino sono magre sotto la camicia ampia e sporca anch’essa di fango, gli stivali logori e i capelli castani arruffati e fradici.

Il barone riesce a non far trapelare il suo sorriso dalle labbra, ma non dai suoi occhi, per un solo istante. Gli bastano pochi passi per raggiungere il bambino, e lo fa nonostante la presenza del messaggero sembri rendere l’aria più pesante. Anche il bambino se ne è accorto, ovviamente. Punta lo sguardo sull’uomo con quegli occhi curiosi che sembrano scrutare nel profondo della sua persona, con un velo costante di malinconia.

Sembra esserci tutto, nello sguardo di suo figlio, o almeno così ha sempre pensato il barone. C’è tutto meno che la tranquillità e la remissione.

È sempre segnato da una sorta di vivace ma non per questo serena irrequietezza.

« Signore…» l’ambasciatore richiama il barone con una stizza che cerca invano di rimanere nascosta. Lui e suo figlio ancora non si sono parlati, il messaggero scalpita perché vuole portare a termine il suo dovere nel minor tempo possibile e non capisce perché quel bambino che pare essere sbucato dal nulla e non essere nulla stia attirando così tanto l’attenzione del barone. Le donne invece sanno bene chi sia il nuovo arrivato, quelle più vecchie lo osservano con biasimo, quelle più giovani con un misto di confusione e preoccupazione. Si preoccupano per lui anche se non lo capiscono, perché è quello che devono fare, ma sanno che non è il loro compito controllare che il bambino non esca quando gli è proibito. Loro devono occuparsi quasi esclusivamente di Leowyn, per fortuna.

Il messaggero, che nulla sa della vita nel castello di Dunchester, si chiede anche come il bimbo possa permettersi di osservare sia lui stesso che il barone con quella fissità attenta e irriverente.

Il barone non lo ascolta. Per una volta, non ha voglia di mettere da parte i suoi desideri. Il suo volto potrà anche essere severo come sempre, ma il suo cuore trabocca di gioia e questo non può ignorarlo, non dopo un viaggio che è sembrato così interminabile. Non gli sfugge, inoltre, la gioia dello sguardo di suo figlio nel rivederlo dopo lungo tempo.

Il viso del bambino è molto sottile, tanto che il barone può stringergli le guance tra le dita, con il pollice da una parte e le altre quattro dall’altra, che premono vicino all’orecchio. Lo vede nei suoi occhi, che si aspetta di essere rimproverato. E infatti qualunque altra sera suo padre non ci penserebbe due volte ad afferrare la verga. Se solo pensa al buio che c’è fuori dal castello, al vento pericoloso per chiunque non abbia un riparo sopra la testa, alla pioggia che col suo frastuono potrebbe coprire qualsiasi suono e infine al bambino che è uscito da solo, sente il sangue ghiacciarsi nelle vene dal terrore. Gli stringe di più la mascella, le unghie che incidono leggermente la pelle. Il bambino lo guarda con gli occhi grandi e senza paura.

Il barone non sa se ha più voglia di abbracciarlo o di prenderlo a schiaffi, e suo figlio sa che sarà punito, ma non gliene importa,  il grigio dei suoi occhi risplende di felicità benché, capendo la situazione, eviti di sorridere apertamente.

« C’è mio figlio sotto questo strato di fango?» chiede freddamente Harald Martewall, severo.

Geoffrey lo osserva senza mutare espressione, poi accenna ad un sorrisetto impertinente, che sembra voler riservare solo al padre.

« C’è lui, padre. » annuisce, e Harald sente il suo mento pesare di più sulla mano.

Harald è stanco. È troppo stanco per sgridarlo, lo capisce in un mezzo sospiro. Ma se fosse solo colpa della stanchezza, non si sentirebbe così ben disposto. Per quella che è forse la prima volta, non punisce suo figlio perché non vuole farlo. Non vuole rovinare quell’intesa tra i loro sguardi, quel momento di comprensione che condividono spesso e di cui non potrebbe mai stancarsi, i piccoli gesti di Geoffrey per far trasparire il suo affetto anche quando ha fatto qualcosa che non avrebbe dovuto fare.

Come l’appoggiare quasi impercettibilmente il mento sul suo polso.

« ora non è il momento adatto… » inizia Harald, perché nonostante tutto non può dimenticare la paura di poco prima, la sorpresa e la sottile rabbia, e il vento fischiante non fa che ricordarglielo. « della tua nuova bravata parleremo domani. »

Si volta per chiedere alle serve di preparare un bagno al bambino, specificando che non serve che l’acqua sia calda. Se non si è ammalato sotto la pioggia scrosciante non si ammalerà di certo nella grande tinozza delle sue stanze.

Quando si gira di nuovo verso suo figlio vede uno sguardo diverso nei suoi occhi, una speranza infranta, e gli si stringe il cuore. Vorrebbe parlargli, avere tutto il tempo di farlo, confrontarsi con lui e anche rimproverarlo, magari, che sarebbe qualcosa di preferibile rispetto a quel vuoto di attenzioni.

Invece lo osserva andarsene a capo chino, salutando a voce bassa, e il messaggero deve richiamarlo due volte prima di ricevere un minimo di considerazione.

 

 

Non è stata una serata piacevole come aveva sperato quando ancora era in viaggio verso casa.

Quando finalmente gli è possibile congedare il messaggero, la mente di Harald è più ingombra di preoccupazioni di prima, le spalle più curve e il volto più teso e tirato. Per quanto riguarda il suo umore, è ciò che, più di tutto il resto, lo fa sentire stranamente debole e impotente.

E distante.

Distante come non lo era mai stato, persino. Distante dai suoi figli, da quei desideri che aveva sempre accantonato con la speranza che, un giorno, sarebbe stato ripagato di tutti i suoi sforzi. Ma la speranza era smorzata da poche, scarne gioie che lo appagavano lasciandogli al contempo il gusto della delusione nella bocca, dell’insoddisfazione. Lo accontentavano quel poco che bastava per farlo andare avanti su una via estremamente tortuosa.

Il barone metteva tutta l’anima in ciò che faceva. Perché era un uomo d’onore e di valore.

Ed è strano come, quella sera, non senta nessun tipo d’orgoglio, né quella sua costante decisione ferrea in ogni azione, ma si senta solo vuoto e stanco.

La speranza ora lascia il posto a un piccolo dubbio. A una piccola, sussurrata, confusa paura. Il tempo gli sta sfuggendo di mano, e lui deve fare di tutto per costruire dei ricordi che gli facciano affiorare il sorriso sulle labbra anche nei momenti più tetri.

Le gambe lo portano da sole, non le muove un suo preciso ordine.

Si dirige deciso verso una direzione ben definita nella sua mente, forse perché sa che lui è ancora sveglio, o forse perché, tra tutti, è la persona che gli somiglia di più. Sul suo volto vede la sua stessa forza idealista, la sua solitudine e qualcosa che Harald tenta costantemente d’afferrare e di capire. Qualcosa di così prezioso, da dover restare nascosto persino ai suoi occhi, il frutto di un amore viscerale.  Come se Geoffrey avesse sempre avuto, non sapendo d’averla, una cura per ogni tormento di suo padre e il potere di sconvolgere la sua vita in una sola parola.

Harald trova la luce debole delle candele che ancora filtra dalla fessura sotto all’entrata. Spinge piano la porta, osservando suo figlio rimasto sopra alle coperte del letto in fondo alla stanza, i capelli asciugati da un panno che gli pende dalle spalle, il viso pulito, i gomiti sottili poggiati sulle ginocchia e una spada di legno sciupata tra le mani. Ha l’espressione seria di un piccolo soldato.

O forse è solo quella di un bambino abbandonato che non vuole dare a nessuno la soddisfazione di vederlo imbronciato.

Harald si avvicina e si sente come se un grande peso gli sia stato appena levato dalle spalle quando incrocia il suo sguardo. Si sente felice e dispiaciuto al tempo stesso, perché quello scambio silenzioso è durato un solo istante ma è bastato per fargli capire che c’è sempre qualcosa che Geoffrey non gli perdona.

A volte dimentica che è solo un bambino.

Perché Geoffrey è così… strano, complesso, e i suoi occhi sono così grandi, da far dimenticare che anche lui è un bambino. Non come gli altri, forse. Ma soffre nell’essere imprigionato a metà strada.

Harald si siede sul letto, e vorrebbe costringerlo a guardarlo e a rivolgergli uno di quei suoi sorrisi così belli, ma sa che non basterà il poco che sarebbe sufficiente con chiunque altro per riuscirci. Con Geoffrey non sono mai bastate le promesse vuote, lui vuole spiegazioni.

Il barone gli tocca la spalla spingendolo leggermente all’indietro. Allora il bambino alza lo sguardo su di lui con una muta domanda nella testa, quella testa che osserva e pensa scavando nell’essenza delle cose, si scosta una ciocca di capelli castani dagli occhi.

Harald è così felice di essere lì, di vedere le sue iridi brillare di fronte al suo sorriso. È così felice di poter di nuovo stare vicino a lui, di sapere che l’indomani si preoccuperà di nuovo e si arrabbierà di nuovo. Gli passa una mano tra i capelli spettinati con l’affetto che dimostra poche volte.

« Vuoi che ti racconti cosa ho fatto in tutto questo tempo? » chiede, la voce profonda e scura.

Geoffrey lo osserva confuso e stupito, stringendo le labbra.

« Non siete arrabbiato?»

Harald sorride debolmente e scuote la testa. Oramai la rabbia è svanita e non è venuto per rimproverare suo figlio, ma perché ha bisogno della sua vicinanza. Per questa volta Geoffrey può scamparla.

« E tu?»

Geoffrey sembra pensarci per un momento, poi scuote la testa.

« Bene…» sorride Harald, preparandosi a raccontare una storia a suo figlio come non l’ha mai fatto prima, scoprendo di non essere poi tanto scarso nel provarci. Alterna racconti veri a momenti più avventurosi, sorvola sulle lunghe discussioni politiche e fa apparire la sua storia, vera solo per metà, più magica ed eroica di quanto sia in realtà, sapendo che suo figlio penderà dalle sue labbra con gli occhi sbarrati dalla sorpresa.

Perché, non ci sono dubbi, è giusto che sia così.

Quello è il loro personale momento di magia.

 

*

 

Harald Martewall era arrivato da tempo a un punto in cui non poteva far altro che vederlo tornare sapendo che se ne sarebbe andato dopo poco tempo. È una delle conseguenze della guerra, una di quelle che nella sua famiglia si accetta oramai con una certa rassegnazione. Ma non questa volta. Questa volta, qualcosa è cambiato. Forse Harald non ha mai fatto i conti con la realtà prima d’ora, non ha mai messo in conto che suo figlio potesse non tornare.

Il sollievo di sapere che è vivo lascia presto il posto alla paura.

 Fin da quando suo figlio era solo un bambino, il barone sapeva che, pur potendo scegliere una strada diversa da quella militare, Geoffrey sarebbe diventato un uomo d’arme.

Era lampante, il suo talento con la spada, ma vi era anche qualcosa di più profondo che rimaneva immutabile nell’espressione del suo viso, tra i tratti schietti del ragazzino che sarebbe diventato il bell’uomo che desiderava così ardentemente tornare a vedere.

Il suo destino si poteva percepire nelle sue risposte secche, nello sguardo penetrante e talvolta distante, nella cupa sofferenza dei suoi occhi di fronte alla salma del fratello.

Harald chiude gli occhi con dolore. Pensare di poter perdere quel giovane cavaliere, di cui è così fiero, che è stata la cosa più preziosa che abbia mai posseduto… è insopportabile.

Il barone si sforza di accantonare per un momento i ricordi, i pensieri, tutto quello che gli porta a far perdere lo sguardo oltre le finestre, in mezzo alla pioggia incessante che gli ricorda un momento ben preciso passato con suo figlio.

« Signore, gli esattori del re sono qui. »

Quanto ci sarebbe voluto per mettere insieme abbastanza denaro da pagare il suo riscatto e farlo tornare a casa? Harald stringe i pugni furiosamente. Non c’è nulla che non potrebbe fare pur di riaverlo , là dove si trova il suo legittimo posto. Eppure suo figlio è ancora in Francia, in una prigione, e può solo ringraziare che non sia morto.

« Signore…?»

Harald volta di scatto la testa verso Kerwick ed Ewen, li scruta come se volesse bruciarli con lo sguardo. Perché il barone vorrebbe distruggere ogni cosa, con la stessa furia appassionata di suo figlio, come oramai la vecchiaia e la malattia gli impediscono di fare. Sente un oppressivo senso di impotenza al pensiero di essere quasi completamente bloccato su uno scranno, mentre suo figlio soffre in una prigione e lui non può fare altro che abbandonarlo perché, nonostante tutti i suoi sforzi, non viene mai raggiunta una cifra sufficiente per i francesi.

I due cavalieri abbassano lo sguardo con una tetra consapevolezza negli occhi. Harald osserva molto attentamente il più giovane, con freddezza.

Sa chi è, sa che soffre per l’assenza di Geoffrey, che è cresciuto dietro alle sue stesse mura e che ha sempre ammirato da lontano. Eppure il barone è convinto che nessuno possa capire cosa stia provando lui stesso.

« Perdonatemi se non vi ho prestato attenzione. » sbotta, con un gesto scontroso della mano. I due cavalieri rialzano a fatica lo sguardo. Kerwick non riesce a guardarlo in viso.

« Chiediamo perdono, signore, per avervi disturbato. Gli esattori sono insistenti. » dice Ewen, nascondendo senza troppa convinzione un astio che il barone condivide con tutta l’anima.

Harald sposta lo sguardo sul tributo, racchiuso in una cassa, che avrebbe dovuto cedere al Senza Terra. Stringe le dita sul bracciolo del suo scranno.

« Che Dio mi fulmini se sarò ancora così debole… » mormora con rabbia e dolore.

Sorride appena pensando alla scelta che ha preso. Sa che Geoffrey non sarebbe d’accordo, non subito. Ma sta facendo esattamente quello che il bambino con la spada di legno in mano si aspetterebbe dal suo eroe.

 

*

 

 

Harald non si era decisamente aspettato questo.

Non si era aspettato di provare una tristezza così profonda, nel perdersi nel buio sconosciuto dei suoi occhi. Gli erano sempre sembrati senza fondo, indefiniti come i pensieri indecifrabili al loro interno e allo stesso tempo terribilmente presenti, pronti a dimostrare quanto valessero, quanto tutto ciò che avevano passato li avesse resi più forti, più freddi, più sicuri.

Ciò che vede Harald in quel momento è collera, una collera bruciante. Il suo desiderio di distruzione e di violenza non è mai stato così bruciante e così difficile da tenere a freno anche, soprattutto, per Geoffrey stesso.

E Harald, quando mormora che non riesce a riconoscerlo, quando pensa che non è suo figlio che sta pronunciando quelle parole spietate, non mente. E come ogni volta che non si mente per amore, il dolore è indescrivibile.

 Si sente improvvisamente molto, molto stanco, quando il muro di risentimento di Geoffrey gli piomba addosso insieme alla sua stessa vecchiaia. La consapevolezza di essere il destinatario di tanto odio, di essere il creatore inconsapevole di tutti quei pensieri che Geoffrey gli ha sbattuto in faccia senza pietà, arriva come una pugnalata al petto.

Per un attimo vacilla. Stringe più forte il bastone.

Eppure c’è qualcosa nei gesti di Geoffrey, come un ombra tra i tratti del suo volto, che gli fa capire che suo figlio non è del tutto perduto. Che forse il peggiore dei suoi timori non si è avverato.

Ma è testardo, il suo solitario terzogenito, lo è soprattutto quando è arrabbiato, o quando è deluso, e purtroppo crede di avere tutti i motivi per esserlo, a causa della condizione che Harald si è trovato obbligato ad imporgli. Con un'altra guerra alle porte dopo cinque lunghi mesi di prigionia.

Geoffrey si sta sforzando di trovare una nobiltà nelle sue azioni che non sente più di avere, che gli viene negata dai suoi impulsi, dal suo agire con una fredda lucidità al fine di rimettere a posto la sua vita piena di contraddizioni. Harald sente il forte bisogno di salvarlo da qualcosa di troppo inconsistente per essere sconfitto e non si è mai sentito così impotente.

La decisione si presenta come una sferzata d’aria gelida.

È questo il momento di mostrare tutta la sua forza, prima che Geoffrey arrivi ad essere troppo lontano da lui.

Gli fa terribilmente male vedere quanto la guerra l’abbia cambiato. Eppure, se ci riflette, avrebbe dovuto aspettarsi l’arrivo del momento in cui Geoffrey avrebbe cominciato a dubitare di se stesso, a perdersi in una voglia di vendetta ingiusta e camuffata da qualcos’altro, a non perdonarsi con una crudeltà sofferente.

Gli fa male anche vederlo rimanere fuori dalle mura, preso da un accecante senso d’abbandono, in balia dei nemici che continua a fronteggiare con un coraggio folle. Cosa cerca, per la prima volta lo vedi nei suoi occhi che sono ancora un enigma, quando il conte francese lo tira a forza al riparo.

Geoffrey vuole l’oblio della guerra, e cerca la pace con l’irrequietezza di qualcuno che non saprebbe come comportarsi dopo averla trovata. Geoffrey vuole vendetta per la sua sicurezza di sé che è andata distrutta, vuole lottare per tornare in superficie ma il peso della consapevolezza di quel che crede d’essere lo trascina sempre più a fondo. Geoffrey vorrebbe che per una volta tutto fosse semplice, ed affronta con forza i suoi demoni.

Forse, per un breve istante di quel tempo folle in cui è rimasto solo, con i soldati che gli gridavano di superare il cancello, ignorando ogni voce ha perfino desiderato che arrivasse il colpo fatale.

Geoffrey si trascina dietro il suo inferno ad ogni passo.

 

 

*

Lo ama con un diverso tipo d’amore.

O forse è più corretto dire che non ha mai amato nessuno, come ha amato lui. Perché dovrebbe nasconderlo a se stesso?

Non ha smesso un istante di essere fiero di lui. E vorrebbe solo che lui lo sapesse, che capisse che suo padre non lo ha mai accusato di nulla. Ricorda la loro strana connessione, che apparteneva solo a loro e non si poteva descrivere perché non vi erano al mondo parole così eterne e flessibili.

E questo padre così orgoglioso morirebbe con la pace nel cuore se sapesse che suo figlio è vivo e sta bene, e la sua anima ha smesso una volta per tutte di sanguinare. Ma gli è stata negata anche quella pace, e sa che sentirà nella tomba la disperazione di Geoffrey, quel figlio che era partito per salvarli tutti.

Quel figlio che Harald non avrebbe mai, mai voluto mandare nelle mani dei nemici come ostaggio. La vita era stata spietata con entrambi.

La sua unica consolazione è sapere che, anche se Geoffrey non lo sa, il futuro barone non ha bisogno di lui. Anche se forse cadrà di nuovo, si rialzerà, e non perderà se stesso.

E mentre Harald guarda sua figlia cercando di farle coraggio, sapendo che almeno lei sarà protetta, ricorda le ultime parole che ha detto a Geoffrey e vuole innalzarle al cielo come una preghiera.

Sei un cavaliere e un uomo d’onore…

Il boia alza la scure.

… non metterlo mai più in dubbio.

 

Angolo di Tacet

Oh.

Ho finito. Ok. Non so perché ci ho messo così tanto a decidermi per scrivere questo capitolo, scusate. La mia musa ispiratrice è perennemente in sciopero. Comunque, ci siamo, e punto in alto con Harald. Uhm, che dire… non l’ho affatto riguardato, anzi, l’ho finito proprio ora, in più il mio orologio biologico ha cambiato i suoi schemi e quindi ora ho stranamente sonno…  ;) penso e spero comunque di non aver fatto errori di grammatica, nel caso contrario, mi raccomando, non esitate a dirmelo.

Altre cose, altre cose… perdonate il capitolo melenso. non mi dilungo sulla mia insoddisfazione. E spero di non essere andata troppo OC. e lo so che ho privilegiato, attraverso lo sguardo di Harald, Geoffrey rispetto agli altri figli, ma pazienza, vero? O.o

Oggi Jerome non c’è, per fortuna, dorme anche lui.

Scusate ancora per l’imperdonabile ritardo, mi dispiace! se riesco a breve mi faccio perdonare ;)

Ciao!!!

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Beau Foxworth- Maestro ***


Beau foxworth

Maestro

 

Beau Foxworth lasciò cadere il braccio lungo il fianco, la testa reclinata all’indietro e un sorriso felice che gli illuminava il viso. Respirava affannosamente, con le dita che stringevano la spada, desiderose di correre al fianco dolorante ma trattenute al loro posto da un orgoglio spavaldo.

Eppure Beau sorrideva apertamente, sentendosi colmare da una grande soddisfazione euforica. Erano mesi che non riusciva a sentirsi così dopo un allenamento. Ripeteva ogni giorno gli esercizi di scrima con impegno, dedizione e la testa piena dei sogni che per tutta l’infanzia aveva creduto dovessero rimanere irrealizzati.  Ma allenarsi con sir Martewall era completamente diverso dal seguire le lezioni dei soldati di Chatel Argent, sebbene Beau apprezzasse oltre ogni misura tutto ciò che il suo signore Jean de Ponthieau faceva per lui, anche attraverso le azioni dei suoi famigli.

In realtà, Beau pensava che sir Martewall, e i suoi insegnamenti, fossero diversi da chiunque e da qualunque altra cosa.

« Non dovresti essere così stanco. »

Il commento freddo del maestro arrivò alle orecchie del ragazzino come una secchiata d’acqua gelida. Di colpo sentì tutto il piacevole senso d’appagamento scivolargli via dalle ossa, ed esitò un istante prima di compiere un mezzo giro su se stesso per guardare Martewall con una preoccupazione strisciante che cercò di nascondere senza successo.

Cercò freneticamente qualcosa da dire sotto il suo sguardo freddo e indagatore, ma Martewall lo precedette.

« Ti ricordo che nessuno dei tuoi possibili futuri avversari ti concederà mai di riprendere fiato per tutto il tempo che ti serve.» aggiunse il cavaliere, sciogliendosi dalla sua posa a braccia conserte per avvicinarsi a lui con la spada ben salda nella mano.

Beau si chiese per un attimo, con un mezzo gemito, se, per caso, Martewall stesso fosse diventato uno dei suoi nemici.

Non ce la faccio, pensò, ma alzò ugualmente il braccio armato con il fianco ancora percorso da fitte dolorose, i muscoli rattrappiti che non rispondevano bene ai suoi comandi.

La spada sembrava molto più pesante di prima.

E anche il modo in cui Martewall lo guardava. Beau sentì lo stomaco contorcersi al pensiero di aver deluso le sue aspettative.

Abbassò istintivamente gli occhi. Voleva dimostrare a Martewall tante cose. Il suo valore, la sua determinazione, il suo coraggio, il fatto di essere diventato, oramai, un uomo.

Ma per quanto tentasse di ignorarla, la consapevolezza di essere troppo debole per farlo lo coglieva sempre all’improvviso e gli mozzava il fiato. E pensava che il barone, più di chiunque altro, fosse difficile da accontentare, e che riflettesse questo comportamento anche su se stesso.

Ormai l’ombra di Martewall incombeva su di lui. Beau alzò lo sguardo solo un momento, per osservare con invidia, timore e ammirazione i muscoli agili del signore sotto la camicia nera, i suoi capelli un po’ ribelli e la fronte naturalmente ancora asciutta.

« Mi dispiace, signore…» mormorò il ragazzo, non riuscendo a trovare altro da dire.

Non sapeva come scrollarsi di dosso quell’amaro senso di ingiustizia. Per tutto quel tempo aveva pensato davvero di essere migliorato molto, e di essersi impegnato a fondo per riuscirci. Aveva ricevuto le più sincere congratulazioni dai soldati di Chatel Argent e anche del conte Jean Marc, di cui non avrebbe mai scordato il sorriso orgoglioso che gli rivolgeva ogni volta che Beau lo osservava dopo un allenamento, sfinito ma felice. Gli era sembrato già abbastanza difficile guadagnarsi il suo apprezzamento, sebbene il Falco fosse sempre gentile e incoraggiante, almeno fino a che Beau non combinava una delle sue bravate, facendolo preoccupare.

Tutto quello che aveva conosciuto in quei mesi di addestramento da scudiero non aveva nulla a che vedere con Martewall. Con le sue parole dure, la soggezione che incuteva la sua intera figura e il suo sguardo chiaro, la sua perenne insoddisfazione.

« non ti scusare. » gli ordinò Martewall, fermo. Si allontanò di qualche passo e si voltò di nuovo con un movimento elegante e silenzioso. Incrociò la lama con quella di Beau, che si vide costretto a stringere i denti e la presa ed alzare il braccio che non si era nemmeno accorto di aver lasciato cadere.

Beau si ritrovò a dover parare i suoi potenti affondi, con la spiacevole consapevolezza che Martewall avrebbe potuto mandarlo a gambe all’aria in un battito di ciglia, se solo avesse voluto. L’ultima stoccata fu più veloce delle altre, Beau si rese conto di aver indietreggiato per molti passi e quasi non riuscì a vederla arrivare, col cuore che pompava a ritmo serrato e che gli mozzava il fiato. Alzò la spada all’ultimo istante, nemmeno lui sapeva come, e dopo non riuscì a fare altro che mettersi al riparo prendendo qualche passo di distanza, l’arma alzata di fronte a lui.

« Dimostrami che mi sono sbagliato. » disse Martewall, con la sua calma perentoria.

Dubito che qualcuno potrebbe mai riuscirci, pensò Beau con una smorfia.

Martewall lo osservò mordersi il labbro per qualche istante senza impensierirsi davanti al suo respiro accelerato. Beau aveva la gola secca e le gambe che minacciavano di non sorreggerlo più da un momento all’altro, ma aveva capito che il barone non lo avrebbe lasciato andare via fino a quando non avesse fatto qualcosa che gli fosse piaciuta almeno in parte.

E quel momento poteva anche non arrivare mai.

Beau tossì e si asciugò la fronte, alzando ancora la spada.

 

 

Era la terza volta che Martewall non gli lasciava il tempo di riprendersi dalla sorpresa del vedere i movimenti guizzanti e fulminei del suo braccio armato. Era la terza volta che Beau finiva con la sua spada puntata al petto, perché non era stato abbastanza pronto di riflessi oppure aveva dimenticato di difendere una parte scoperta del suo corpo, ritrovandosi a dover agire quando già era troppo tardi.

Beau squadrò il suo maestro con uno sguardo determinato.

Non riusciva a capire il suo modo di combattere. Non sembrava seguire schemi rigidi, eppure quando gli dava indicazioni voleva che fossero rispettate alla lettera, e il ragazzo si accorgeva allora che nei suoi movimenti sciolti c’era una grande esperienza tecnica. Ma anche se Martewall diceva di essersi allenato con gli stessi esercizi che faceva ripetere all’allievo, nessuna delle sue mosse era minimamente prevedibile. Beau non riusciva a capire in anticipo da che parte sarebbero arrivati i suoi fendenti, né la traiettoria esatta delle mezze lune che disegnavano nell’aria.

Scostò la spada del maestro con la sua, con uno sferraglio metallico, e a Martewall non servirono altri segnali. Ricominciò a tempestarlo di fendenti veloci, e Beau allora decise di prendere l’iniziativa. Ricordò tutte le volte che Martewall gli aveva fatto notare il suo scarso equilibrio sulle gambe e piantò i piedi a terra con decisione, seguendo la posizione che gli era stata insegnata. Ma decise di slegarsi dai movimenti ripetitivi che aveva utilizzato per difendersi fino ad allora e riuscì a parare l’ennesimo colpo portando il braccio in alto, come per respingere la spada del maestro. La lama strusciò per un brevissimo istante contro quella di Martewall e si disimpegnò con molta meno fatica delle volte precedenti. Beau aveva percepito in un modo molto più leggero e allo stesso tempo potente il movimento che aveva compiuto, ed era pronto ad accettare le conseguenze di quella sua iniziativa fuori dagli schemi.

Ma, contro tutte le sue previsioni, vide Martewall sorridere per un istante così breve che temette di esserselo immaginato.

Quando si vide la spada avversaria lampeggiare verso la spalla, Beau decise di schivarla invece di pararla, con l’agilità che anni vissuti all’aperto gli avevano insegnato. E questo gli diede il tempo di tentare un affondo, per la prima volta. Anche se Martewall lo parò come fosse il gesto infantile di un bimbo in procinto di buttarglisi fra le braccia, Beau sentì il cuore esultare gioioso.

Martewall alzò le sopracciglia di fronte al suo sorriso e gli lanciò uno sguardo ammonitore, prima di riprendere a lanciargli fendenti da ogni parte, il respiro sempre regolare, le gambe tanto agili quanto sicure.

Beau ricevette il messaggio. Non doveva accontentarsi di così poco. Aveva però bene in mente come avrebbe dovuto agire da quel momento in poi, e non poteva esserne più felice.

Martewall continuò ad incalzarlo e a farlo indietreggiare fino a quando non decise di impartire al suo allievo un'altra, dura lezione. Beau non vide nemmeno arrivare un fulmineo attacco di lato, e capì in un istante che Martewall poteva essere mille volte più veloce e mille volte più preciso di quanto non apparisse durante le loro lezioni, in cui di certo non faceva altro che trattenersi.

Lo vide muoversi rapidamente, sentì il suo stivale premere sulla caviglia e in un momento si ritrovò a gambe all’aria con un’esclamazione di sorpresa, sdraiato sulla schiena.

Martewall lo guardava torvo dall’alto, puntandogli alla gola, ma non troppo vicino, la spada che aveva passato nella mano sinistra con un movimento noncurante.

« L’equilibrio. » gli ricordò, secco.

 

*

 

Beau cavalcava in silenzio, a testa bassa. Non riusciva a togliersi dalla testa i ricordi dolorosi del giorno prima. Non avrebbe mai pensato che una cosa simile, che un simile disastro ingiustificato sarebbe mai potuto succedere. Non avrebbe mai pensato che un giorno avrebbe dovuto guardare il suo signore cadere in disgrazia, disperarsi a tal punto.

Ancora non riusciva a credere a quel che era successo.

Martewall lo sbirciava di sottecchi appena più avanti di lui, di tanto in tanto, ma non disturbò mai il suo contegno chiaramente sconvolto ed esausto. Beau lo guardava e riusciva a sentirsi confortato dalla sua presenza, attenuando la paura e il senso di perdita.

« Sono certo che rivedrai presto il Falco d’Argento… » gli aveva detto a sorpresa sir Kerwick quella mattina, nel salutarlo prima di partire per l’Inghilterra. Aveva osservato a lungo anche Martewall, come per leggergli i pensieri attraverso il volto imperscrutabile.

Beau non era riuscito a sentirsi rincuorato, anche se aveva apprezzato il sorriso garbato del cavaliere e la preoccupazione sincera che sembrava nutrire nei confronti di Martewall.

Il silenzio del barone però gli aveva impedito di abbandonarsi alle fantasticherie. Nessuno poteva sapere cosa sarebbe successo in futuro, e Beau doveva accettarlo.

Il ragazzino strinse le dita sulle redini con forza, ingoiando le lacrime.

« Io mi rifiuto di pensare che il Falco del re finisca in questo modo. » mormorò, tra i denti, chiedendo aiuto a Martewall con lo sguardo. Il silenzio teso era stato incrinato all’improvviso, e i soldati più vicino a loro osservarono il loro signore senza proferire parola, interrogativi.

Martewall non si voltò, ma lasciò che il cavallo del ragazzino arrivasse ad affiancare il suo.

Beau vide la rabbia ferita dei suoi occhi, intuì la profondità dei suoi pensieri e la forza naturale e fiera della sua anima, con la sue rotture e le sue crepe. Martewall non aveva fatto un cenno, né mosso neanche un angolo del suo viso. Ma quando lo guardò con una determinazione sincera, per nulla ostentata, gli occhi cupi e insondabili di sempre, si sentì riscaldare il cuore.

Anche se tutto nel barone appariva gelido a prima vista, il fuoco che teneva dentro riusciva a scaldare anche Beau. Lo faceva perché doveva farlo, con l’inconsapevolezza e la noncuranza di qualcosa che non si è abituati ad usare se non per distruggere il proprio dolore, affogandolo nella rabbia.

Beau non sapeva che effetti avesse quel… fuoco, sul barone stesso.

Ma era riuscito a portare speranza allo spirito spaventato di Beau, e il ragazzino sperava con tutto il cuore che Martewall imparasse presto a non bruciarsi.

Distrattamente, considerò che sua madre fosse bravissima nell’essere serena nei momenti più difficili, nel trovare il raggio di sole anche nell’antro più buio. Non avrebbe detto lo stesso di Geoffrey Martewall. Lui sapeva essere concentrato, lucido, letale. Ma non era mai sereno. Non sembrava esserci quiete nella sua calma severa e ostinata.

A Beau mancava da morire sua madre.

Martewall portò istintivamente una mano alla spada, riflessivo.

« Ci è permesso di fare ben poco su questa terra, ragazzino. Molte cose…» era strano, davvero strano, vederlo esitare. Martewall era il cavaliere dai lunghi silenzi e dalle parole dette non tanto con accortezza, quanto con sicurezza, a volte con spregio, senza nessun timore delle conseguenze che le sue frasi taglienti avrebbero potuto portare.

In quel momento sembrò dover pensare a cosa dire, non averci già riflettuto in precedenza, anche se solo per qualche secondo.

«… non vanno come noi desideriamo, e tanto meno come sarebbe giusto. Ma se ci fosse qualunque cosa che potremmo fare per il Falco, la faremo. »

Non la avrebbe definita speranza. Quella di Martewall era la ricerca caparbia della giustizia, la volontà ferrea di perseguire i propri obiettivi anche attraverso la sofferenza, l’estenuante rifiuto d’arrendersi.

Beau riuscì a rivolgergli un sorriso grato e colmo di fiducia.

Qualunque cosa, si ripeté.

 

 

Arrivarono ad Auxi le Chateau a metà giornata. Martewall smontò da cavallo agilmente, e Beau si accorse per la prima volta quanta fretta avesse. Non fece lasciare i cavalli a dei servi ma ordinò che i soldati aspettassero lui e Beau oltre i cancelli. Poi, fianco a fianco, cominciarono a percorrere il barbacane, superando la prima cinta di mura.

Lo scudiero sentiva il cuore pompare forte e le dita gelide dalla paura, ma si impose di mostrare un contegno sicuro con un supremo sforzo. Sapeva di non poterci riuscire, e si accontentò di tenere la fronte alta, anche se i suoi occhi potevano tradirlo.

Al contrario, Geoffrey Martewall camminava con la calma sicura del vincitore.

Beau temeva oltre ogni misura il conte di Ponthieau, soprattutto in quel momento. Temeva che, se lo avesse visto, avrebbe insistito per punirlo, e per un istante assurdo ebbe anche paura di essere separato dalla madre a causa della sua avventatezza di cui ancora non riusciva a pentirsi. Inoltre, gli ultimi avvenimenti avevano risvegliato in lui l’istinto naturale del ragazzino emarginato che era stato. Ammirava chi portava la spada e gli speroni, ma temeva i nobili.

E non si fidava di loro.

Guardò Martewall e si concentrò sul suo contegno cupo e attento, capendo immediatamente che di lui si sarebbe sempre fidato. Non lo avrebbe mai immaginato come il feudatario distante che reggeva i fili di tutti i suoi sottoposti con una cecità dispotica, ma come un guerriero presente il cui potere si respirava grazie alla sua inquietudine fascinosa quanto oscura e irriverente, ma di certo non grazie alle terre che possedeva.

« Tu andrai a raccontare a tua madre l’accaduto e a rassicurarla sulla tua salute, poi tornerai dai cavalli e ci aspetterai lì. » ordinò il cavaliere, perentorio.

Beau annuì meccanicamente, ripetendosi le parole nella testa.

« Voglio che tu mi obbedisca alla lettera, Beau. »

Il ragazzo alzò stupito gli occhi sul barone, sorpreso dal sentirsi chiamare per nome e dalla severità del tono di voce. Annuì, in soggezione.

« Credete che il conte lascerà partire mia madre con noi?» chiese, sentendosi stupido a fare una domanda del genere, ma cercando comunque di mostrarsi sicuro. Non ebbe un grande successo.

« Non vedo perché non dovrebbe.» gli assicurò Martewall, ma non lo guardò in viso né modificò in alcun modo l’espressione del volto.

Al ragazzino venne quindi istintivo chiedersi se avesse parlato con reale convinzione oppure no. Geoffrey Martewall non conosceva Guillaume de Ponthieau. Non lo conosceva quando era arrabbiato, quando si sentiva tradito, quando soffriva. Non era dal barone elargire certezze che non aveva, ma evidente in quell’occasione non aveva saputo fare altrimenti.

« Dama Isabeau avrà bisogno di tutto l’aiuto possibile. Hai considerato l’idea che tua madre potrebbe voler restare con lei, almeno per un primo periodo? » disse Martewall, guardandolo serio.

« No. Neanche per un momento. » rispose Beau, raggelato da quella idea. « Mia madre… vorrà stare con me. » disse, tentando di convincersi, arrossendo di vergogna per la risposta che gli era uscita spontanea dalla bocca e sentendosi colpevole nei confronti di dama Isabeau.

Aveva il terrore di aver commesso l’ennesimo passo falso che si faceva fatica a perdonare. Chi avrebbe biasimato sua madre se fosse stata così arrabbiata con lui da volerlo allontanare per un po’? Chi avrebbe potuto perdonare il ragazzino che aveva rubato al signore di Auxi le Chateau? E chi avrebbe biasimato questo signore se avesse deciso di punirlo attraverso la madre, non potendolo, forse, sottrarre al barone di Dunchester senza scatenare un conflitto?

Mentre la gratitudine verso Martewall cresceva, aumentava anche la consapevolezza della situazione e la paura. Martewall stesso si stava mettendo sotto torchio da solo, e a quel punto era solo uno straniero che aveva salvato la vita al fratello che Guillaume de Ponthieau non voleva vedere mai più. La sua presenza non doveva essere gradita. Beau si ricordò in quel momento di non essere stato rimproverato dal barone per la sua ultima, irrimediabile bravata, e inspiegabilmente non si sentì sollevato. Un peso opprimente gli impediva quasi il respiro.

Beau abbassò la testa, afflitto, continuando a camminare, tentando di stare al passo con le gambe lunghe di Martewall. Il barone gli strinse la spalla solo per un momento, e Beau si sentì attraversato da un brivido di sbalordimento, gratitudine e felicità improvvisa. Non avrebbe mai pensato che qualcuno, soprattutto una persona come Martewall, si sarebbe mai dato pena per lui e sua madre.

« Ne sono convinto anche io. »

 

 

Beau fece una smorfia, abbassando lo sguardo, quando vide una figura famigliare venire incontro a lui e a Martewall dopo averli osservati con sorpresa. Il barone si preparò con freddezza all’incontro, senza dire una parola, limitandosi solo a superare Beau di un passo.

Thibeault de Chailly li raggiunse con movimenti svelti e nervosi, il viso tirato dalla preoccupazione.

« sir Martewall…» salutò, esitante, dimenticando di salutare con deferenza e ignorando volutamente la presenza di Beau. « il conte non si aspetta la vostra visita… non è mai stata annunciata.»

Geoffrey Martewall accolse con insofferenza l’implicito avvertimento.

« Il conte si aspetta di certo una visita. Ha ancora qualche conto in sospeso.» affermò con il suo francese dall’accento straniero, indicando col mento il ragazzino accanto a lui.

Chailly spostò lo sguardo su di lui come se dovesse ingoiare a tutti i costi un boccone molto amaro, ma fu solo un momento, poi riportò gli occhi su Martewall. Si leggeva sul suo viso il rispetto e l’ammirazione che provava nei confronti del barone e di ciò che stava facendo, ma anche una viva preoccupazione.

« Ponthieau non dovrà neanche vederlo. » disse Martewall, interpretando al meglio i suoi pensieri.

Chailly rifletté per un momento, chiaramente turbato e per nulla convinto.

« è rischioso. » considerò, gli occhi che scrutavano quelli dell’inglese, in cerca di qualcosa che desse ragioni ai suoi timori.

Martewall, però, a sorpresa guardò Beau.

« Lo sappiamo. » disse, freddo, mentre lo scudiero, ammutolito, non riusciva a far altro che osservarlo ad occhi sbarrati, in attesa che continuasse. « E in un altro momento non lo avrei mai lasciato venire. Ma è giusto che veda sua madre. »

Chailly si morse le labbra.

« Cosa volete fare, esattamente!?»

« Porterò il ragazzo in Inghilterra.» rispose il cavaliere con decisione e semplicità. « E sua madre con lui, se vorrà venire.»

Thibault de Chailly sospirò, come se in fondo avesse sempre saputo la risposta alla sua domanda, e sul suo viso non erano scomparse le rughe profonde della preoccupazione e del dispiacere. Per un attimo Beau pensò che fosse sul punto di ringraziare Martewall o augurargli il meglio per l’avvenire. Poi parve ripensarci e si limitò a gettargli un’occhiata eloquente, facendosi da parte per lasciarlo passare.

Beau fece per seguire il barone, quando il francese gli mise una mano sul petto.

Si rivolse a Martewall, che guardava la scena con freddezza.

« Sua madre verrà lo stesso a vederlo, anche se decidesse di non venire con voi, o il conte desiderasse tenerla accanto a dama Isabeau. » affermò Chailly, con una severità che prima non aveva mostrato.

Gli occhi di Martewall lampeggiarono per un istante, quanto bastava perché il francese togliesse la mano dal petto di Beau, riuscendo però a non cambiare espressione. Il ragazzino osservava Martewall, terrorizzato dall’idea di non poter correre subito a tranquillizzare sua madre dopo che lo aveva desiderato con tanta forza.

« Se non sapessi controllare un ragazzino non avrei promesso a Jean Marc de Ponthieau di portarlo lontano dalla Francia. Credetemi, questi giorni gli hanno insegnato molto. Non commetterà avventatezze. »

Beau prese un respiro profondo, colmo d’emozione. Non riusciva a spiegarsi completamente il comportamento di Martewall, il perché, stranamente, non avesse voluto lasciarlo coi soldati. Quando Beau aveva chiesto di poterlo seguire, Martewall non si era opposto, anche se le sue raccomandazioni erano state severissime e lo sguardo molto cupo. La fiducia che il cavaliere gli dimostrava all’improvviso, lo riempiva di felicità e soddisfazione, anche se non ne capiva il motivo e non riusciva a vedere, come sempre, ciò che vedeva Martewall.

Era certo, però, che ad entrambi non piacesse l’idea che Brianna restasse piena d’angoscia per un solo istante in più del necessario.

« E, come ho già detto, il conte non lo vedrà nemmeno. » concluse Martewall, troncando di netto la conversazione e facendo cenno allo scudiero di seguirlo.

 

Non sai cosa abbia visto in te.

Forse nulla, forse solo le imprevedibili svolte del destino lo hanno portato a pensare che ciò che sta facendo sia qualcosa di giusto. Tenerti nella sua casa, donarti il suo tempo e i suoi insegnamenti.  Nessuno, dopotutto, l’ha mai obbligato a fare a te, un ragazzino scapestrato che non ha nulla di nobile, un regalo così grande.

Geoffrey Martewall è una stella lontana, e ti tormenta l’idea di raggiungerla. Ma anche quando pensi a come potrebbe essere stato da ragazzino, lo immagini comunque troppo adulto, inquieto ma senza paura, perché possa somigliarti. La nobiltà del suo sguardo accentua la distanza che vi separa.

Eppure ti senti un prescelto dal destino.

Nessuno ha la fortuna che hai tu. Prima eri solo un piccolo brigante che rubava nei pollai, senza futuro né reputazione. Adesso puoi vedere tua madre vivere serena, al sicuro. E, accanto a lei, vi è la sorprendente e sicura figura di Geoffrey Martewall, che per madre e figlio sta diventando la stella polare, lo scoglio cui aggrapparsi.

Non gli importa che tu sia figlio di una donna rimasta sola prima di potersi sposare, non gli importa che tua madre abbia già avuto un altro uomo e sia l’emblema di tutto ciò che dovrebbe evitare. Perché una distante carità è l’unica cosa che qualcuno come il barone potrebbe mai regalare a Brianna Foxworth.

Di certo non l’amore.

Ma Martewall è libero dalle catene del mondo, dalle convenzioni che costantemente gli vengono ricordate e che costantemente liquida con sprezzante indifferenza. Martewall vuole sempre le cose più difficili da ottenere e non sai se sia a causa del destino spietato o della sua natura indomita, con le spalle sempre pesanti e divisa tra frustrazione e caparbietà.

È il leone che è tornato ferito dalla guerra, colmo d’onori e insoddisfazione che vorresti rendere orgoglioso.

Il cavaliere che solo da poco ha accettato di portarti con sé nei suoi viaggi per controllare da vicino ogni angolo delle sue terre, e solo dopo aver chiesto di persona il permesso a tua madre. L’uomo che ha distolto lo sguardo quando Brianna ha risposto, con un sorriso dolce e malizioso, che di lui si sarebbe fidata per sempre.

Il barone che, una sera, dopo l’allenamento, ti ha raccomandato di non scordare le tue origini umili, così che tu possa essere nobile non solo perché proprietario di una spada o di un paio di speroni.

Solo ora comprendi che Martewall vede in te un cavaliere diverso dagli altri, e da ciò che pensa di essere lui stesso.

Il ragazzino che nella forza mantiene l’entusiasmo del sentirsi vivo, il ragazzino su cui nessuno aveva fiducia, ciò che lui stesso aveva visto cercare a Martewall quando osservava i suoi sudditi.

L’umiltà che finalmente nel mondo acquistava dignità e potenza senza distorcersi, senza confondersi col marcio.

Sai che farai di tutto per deludere le sue aspettative e ti senti pervaso da una convinzione fiduciosa.

Come sempre, ti servirà solo il suo aiuto.

 

 

Angolo di Tacet

Ciao a tutti!

Sono tornata, dopo un tempo interminabile, e mi scuso, ovviamente, infinite volte per il ritardo. Se mi chiedeste cosa ho fatto in questo tempo probabilmente non saprei rispondere, so solo che ho dovuto aspettare molto, tra un impegno e l’altro, per finire questa fanfic. Ma ce l’ho fatta, e sono felicissima, non sapete quanto, di poter tornare a pubblicare! Spero che mi perdoniate per la lunga assenza…

Questa volta è stato il turno di Beau. Non so se sia il caso di terminare con lui la raccolta. Magari dopo un po’ rischierei di ripetermi, e sarebbe spiacevole.

( scusate, non so se da come ho scritto si vede che ho la febbre… spero di no, ma se mi metto a rileggere passa un altro giorno ed è meglio evitare : ))

Ook… ehm… la domanda sorge spontanea… qualcuno ha già letto Hyperversum Next? Impressioni? ; )

Grazie per aver letto, scusate ancora e alla prossima!

Tacet

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2829457