Do you understand that we will never be the same again?

di little_triangles
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Bad_news ***
Capitolo 2: *** Words are words ***
Capitolo 3: *** Skulls ***
Capitolo 4: *** Sleepsong ***
Capitolo 5: *** No Scrubs ***
Capitolo 6: *** Oblivion ***
Capitolo 7: *** Overjoyed ***



Capitolo 1
*** Bad_news ***


Bad_news

Cominciò tutto con una "cattiva notizia"...




Ero sconvolta, scaraventai velocemente il cellulare nella borsa, e presi le chiavi del motorino facendo cadere tutti i foglietti che nel tempo si erano accumulati sul davanzale. Non avevo tempo, dovevo correre. Presi le scale, non ce l'avrei fatta ad aspettare ferma dentro quella cabina un metro per uno cinque secondi di seguito. Passai con il rosso, rischiai di investire due vecchiette che attraversavano la strada, mi faceva male il polso a forza di accelerare. Avevo la mente completamente vuota, l'aria fredda che mi scompigliava i capelli e che mi premeva sulla faccia come se volesse entrare dentro di me aveva portato via tutto. Il mio cuore batteva così forte da riuscire a percepirne il rumore ad ogni battito.

***

Le porte automatiche si aprirono e tantissimi pensieri tornarono ad assalirmi e sentii come se qualcosa mi premesse sul petto da non riuscire quasi a respirare.
Era quasi surreale, le pareti bianche, i medici in camice blu che correvano avanti e indietro, il suono assordante di un'ambulanza. Dove potevano essere? Fermai una donna in camice blu, un chirurgo probabilmente, e le chiesi: “Chi mi può dire dove si trovano i miei genitori? Sono arrivati poco fa in ambulanza.” avevo il fiato corto e non ero sicura che mi avesse sentita con tutta quella confusione.
“Si deve rivolgere a quel ragazzo laggiù” e mi indicò una scrivania occupata principalmente da un computer, che sembrava avere almeno una decina d'anni, e dalla parte superiore spuntavano dei ciuffi di capelli castani.
Mi girai per ringraziarla, ma se n'era già andata.
 
Camminai velocemente fino alla scrivania scontrandomi con un paio di medici: “Posso sapere dove si trovano due pazienti? Si chiamano Sarah e James Miles.”
Disse tutto sorridente: “Certamente”, e si mise a trafficare con il computer. Sbuffai e iniziai a battere il piede, non avevo altro modo di sfogare tutta l'adrenalina che percorreva tutto il mio corpo.
Dopo qualche minuto di attesa snervante disse: “Sarah Miles è a fare una tac, mentre James Miles è in sala operatoria. Sai dov'è la sala d'aspetto?” e gli apparì un leggero sorriso, sembrava scrutarmi come se volesse leggermi nella mente, il che mi innervosiva, odiavo essere osservata.
“No”
“Ti posso accompagnare?”
“Ok” avrei preferito di no, ma mi sarei persa sicuramente e non avevo tempo per fare il giro turistico dell'ospedale, ho un pessimo senso dell'orientamento.

Dopo aver percorso alcuni larghi corridoi prendemmo l'ascensore, entrando mi chiese con naturalezza continuando a fissarmi: “Come ti chiami?”
“Kathie Miles” non avevo voglia di fare conversazione, ma lui continuò a parlare.
“Quindi stai cercando i tuoi genitori?” chiese un po' timoroso.
“Sì” risposi freddamente abbassando lo sguardo.
Dopo essere usciti dall'ascensore calò un silenzio di tomba, camminando per il labirinto di corridoi osservai quel ragazzo, avrà avuto qualche anno più di me. Notai una cosa a cui fino a quel momento non avevo fatto caso, aveva dei capelli assurdi, ma stavano bene su di lui: tutti sparati verso l'alto come se avesse messo un dito nella presa della corrente. Poi aveva sempre quel sorriso irritante stampato sulla faccia, sembrava quasi felice, non lo sopportavo. Aveva gli occhi azzurri, altra cosa che non avevo notato prima, e pure quelli sembravano sorridere.

Arrivati alla sala d'aspetto mi disse di aspettare e si fermò a parlare con un'infermiera indicandomi, quanto odiavo essere indicata. La donna entrò attraverso a una porta a due ante, una di quelle che si vedono sempre nei film che si aprono in tutti e due i sensi, in quella che pensavo fosse la sala operatoria dove si trovava mio padre. Il ragazzo si avvicinò a me: “Non posso entrare in sala operatoria, ma ho mandato un'infermiera ad avvertire il chirurgo che sei arrivata e di mandare qualcuno a informarti sulla situazione...”

Nel frattempo entrò di corsa un medico in camice blu che spingeva una barella, su quella barella c'era mia madre, aveva il viso e le braccia bruciate e la testa fasciata. Mi si riempirono gli occhi di lacrime, ma dovevo ricacciarle dentro, non era il momento di intristirsi.
Mi avvicinai alla barella, presi la mano a mia madre, ma era incosciente.
“Scusi signorina, ma dobbiamo portarla in sala operatoria”
“Come sta? Cos'è successo?”
“C'è stato un incidente e ha subito dei danni al cervello, devo andare, ne vale della sua vita.” disse lanciando uno sguardo al viso sfigurato di mia madre.
Non feci in tempo a fare altre domande, il medico aveva già superato la porta a due ante che si trovava sul lato opposto a quella della sala operatoria dove si trovava mio padre.

Non riuscivo a reggermi in piedi, mi sedetti sulla sedia più vicina e misi la faccia tra le mani, volevo solo svegliarmi da quell'orribile incubo. Dopo qualche minuto, che a me sembrarono ore, tornò l'infermiera e la sentii borbottare qualcosa, stava parlando con qualcuno. Repressi le lacrime che stavano per sgorgare dai miei occhi e alzai lo sguardo, davanti a me trovai il ragazzo, che questa volta però non sorrideva. Si sedette vicino a me: “I tuoi genitori sono stati coinvolti in un incidente d'auto, la macchina ha preso fuoco, una scheggia ha danneggiato il cuore di tuo padre e ora i medici stanno facendo il possibile” la sua voce tremava “Ora devo tornare al mio lavoro ma manderanno qualcuno ad informarti, ciao Kathie”. Si alzo velocemente stava per girare l'angolo quando mi venne in mente che non sapevo nemmeno il suo nome.
“Tu come ti chiami?” si bloccò di colpo.
“Daniel”, detto questo sparì nel corridoio.

***

Tre ore dopo un medico uscì dalla sala di mia madre: “E' la figlia della signora Miles?”
“Sì”
“Le ustioni di sua madre non sono molto gravi, ma ha battuto la testa sul parabrezza durante l'incidente e attualmente il neurochirurgo sta cercando di fermare l'emorragia...”
“Se la caverà?” lo interruppi.
“Non posso prometterle niente, ma il chirurgo è molto qualificato e speriamo che non subisca danni permanenti, la verrò ad informare se ci fossero cambiamenti.”
“Grazie” dissi un po' stizzita.
Non c'era nessuno nella stanza, solo io, che aspettavo che qualcuno uscisse dalla porta a destra o da quella di sinistra, come se fosse stato un bivio, poi il muro bianco e vuoto davanti a me, continuavo a fissarlo, non avevo il coraggio nemmeno di guardare quelle due porte color panna con quei due orribili oblò, odio gli ospedali.
 
Intanto arrivò un'infermiera dalla sala di mio padre: “Mi scusi, le porto informazioni su suo padre : purtroppo il suo cuore è troppo danneggiato e avrà bisogno di uno nuovo, al momento è in cima alla lista dei trapianti e sembra che ce ne sia uno compatibile non lontano da qui. Scusi, ma per il momento non ho nient'altro da comunicarle, tornerò dopo”
Mi addormentai, non seppi per quanto tempo, ma al mio risveglio ormai il sole era calato. Fui svegliata dal medico di mia madre.
“L'intervento è terminato, se vuole la può andare a trovare”

***

Aveva la testa fasciata, le avevano rasato i lunghi capelli rossi, la sua faccia era tutta bruciata, ma aveva un'espressione serena, sembrava quasi che fosse felice, non so perché mi diede quella sensazione. Mi addormentai tenendole la mano, ma al mio risveglio non c'era più, sole le lenzuola bianche stropicciate e il letto sfatto. Non mi ero nemmeno accorta che l'avevano portata via. Erano quasi le otto di mattina. Entrava solo qualche flebile raggio di luce dalla finestra dietro di me che era riuscito a trapassare le spesse nuvole che ricoprivano il cielo. La porta era aperta e appoggiato con la spalla allo stipite Daniel mi osservava con gli angoli della bocca leggermente all'insù, non era proprio un sorriso. Sembrava si divertisse ad osservarmi.

“Dove è finita mia madre?”
“Ha avuto una ricaduta, l'hanno portata in terapia intensiva”, ma quando avrei potuto vederla? Pensai.
“Potrai andarla a trovare dopo le undici” disse sorridendo compiaciuto vedendo il mio sguardo sorpreso, sembrava che mi leggesse nella mente.
“Perché mi stai aiutando? Perché ti interessi tanto di me? Sono parente di alcuni pazienti ricoverati qui come tanti altri, ma non mi sembra che tu ti interessi così tanto a tutti”
“Qui i medici sono persone egocentriche affamati di interventi che puntano solo a diventare famosi, non gliene frega niente dei familiari dei pazienti, mi sembra giusto che tu sia informata su quello che succede, tutto qui” disse stringendosi nelle spalle.
“Non mi hai ancora risposto”
“Neanch'io lo so precisamente”
“Perché io tra tutti i familiari dei pazienti che vedi tutti i giorni?” ero esasperata, volevo una risposta.
“Mi sembra che tu abbia bisogno di qualcuno che ti informi su cosa succede, non che portino via tua madre mentre dormi senza nemmeno avvertirti” disse un po' indignato.
Dopo qualche minuto di silenzio imbarazzante: “Mio padre?”
“Ho chiesto ai medici, dicono che l'intervento è riuscito, ma sta ancora dormendo, si spera che non rigetti il cuore”
“Posso andare da lui?”
“Ti accompagno, vieni” disse facendo un cenno con la testa.

***

Non mi aveva soddisfatta la sua risposta, penso che ci siano tante altre persone nella mia situazione in questo ospedale, perché proprio io? Ma in quel momento avevo una cosa più importante da fare.
La stanza era lì vicino e Daniel, dopo avermela indicata e avermi accompagnata lì davanti, disse: “Ora inizia l'ora delle visite, torno al lavoro, se hai bisogno di qualcosa non hai che da chiedere”
“Grazie”
Fece un cenno con la mano e sparì nuovamente nel corridoio. In fondo non era così irritante, anche se non me la diceva giusta.

Varcai la soglia della stanza. Era strano vederlo lì, era un uomo vitale, sempre indaffarato, che si svegliava prima di tutti per andare a prendere la colazione e, fino a quando andavo al liceo, per venire a svegliarmi con un brioso “Buongiorno!”.
Mi avvicinai, presi la sedia lì vicino e mi sedetti a guardarlo, era bello vederlo dopo tante ore di preoccupazione. Ora però mia madre stava di nuovo male, sarebbe riuscita a riprendersi? Mentre mi tormentavo tra tanti pensieri mio padre si svegliò, alzò lentamente le palpebre mostrando gli occhi stanchi e rossi. Non ero mai stata così felice di sentire la sua voce.
“Ciao” disse tremante.
“Bentornato” gli dissi sorridendo mentre giochicchiavo con le dita delle sue mani.
“Cosa è successo?”
“A quanto mi hanno raccontato c'è stato un incidente, la macchina ha preso fuoco, il tuo cuore è stato trafitto da una scheggia e ti è stato trapiantato, ora vedi di non rigettarlo, mi raccomando, eh?”
“Ci proverò” disse ridacchiando “Ma la mamma?”
“La mamma ha battuto la testa sul parabrezza e purtroppo ha subito dei danni al cervello, l'hanno operata, ora l'hanno portata in terapia intensiva per una ricaduta. La vado a trovare alle undici”
“Ok, poi informami su come sta, ora ho bisogno i riposarmi, ma mi ha fatto piacere parlarti”
“Anche a me, ti informerò appena scoprirò qualcosa, ora riposati”

Gli diedi un bacio sulla fronte e decisi che era il momento di fare rifornimento di caffè. Guardai l'orologio, erano le dieci e mezzo.

Non avevo la minima idea di dove fosse la caffetteria, ma seguendo alcuni cartelli riuscì a trovare la macchinetta che però era assediata da medici e infermieri. Mi feci largo tra di loro e trovai Daniel solo appoggiato al muro a bere una cioccolata calda.
“Ciao Daniel”
“Ciao” disse un po' giù di morale, strano.
“Hai trovato qualche altro bisognoso da aiutare?” dissi io sarcastica.
“Oggi non c'è molto movimento” disse velocemente per poi riprendere a sorseggiare la cioccolata.
“Ah, cosa mi consigli?”
Lui mi guardò con aria interrogativa.
“Il caffè, tonto”
“Non saprei, fa tutto mediamente schifo, è una macchinetta del caffè... Come mai tutto questo buon umore?”
“Mio padre si è svegliato e sembra stia bene, e tra poco vado a vedere mia madre”
“Tutta questa allegria non mi convince”
“Cerco di prendere tutto con un po' più di ottimismo” stavo mentendo, in verità dentro di me si agitava l'inferno.
“Va beh, ognuno reagisce in un modo diverso” disse pianissimo pensando di non essere sentito.
Dopo un po' di silenzio ripresi guardando il numeroso gruppo di medici che parlavano e ridevano: “Perché non stai con gli altri?”
“Io sono “quello con i capelli sparati che se ne sta tutto il giorno dietro il computer”, mentre gli altri sono medici che passano il giorno a salvare vite, per loro sono invisibile, non si abbasserebbero mai a parlare con me”
“Beh, è una questione di vocazione, non vuol dire che se tu non sei come loro, non sappia fare qualcosa che loro non si sognerebbero nemmeno. Cosa ti piacerebbe fare? Ho capito che questo lavoro non ti entusiasmi più di tanto”
“Sono all'ultimo anno all'università di letteratura di Leeds, ma mi piacerebbe fare il musicista”
“Davvero?” dissi quasi facendomi andare di traverso il caffè “Io sono del primo anno, ma non ti ho mai visto”
“Mi piace stare per conto mio” disse tagliando corto.
“Ha detto che suoni, quale strumento?”
In quel momento mi cadde l'occhio sull'orologio, erano le undici meno cinque minuti.
“Scusa Daniel, sono quasi le undici, devo andare. Ciao!” dissi correndo.
“Ciao Kathie” disse cupo.
Non capivo cosa lo turbasse.

***

Seguendo sempre i cartelli arrivai al reparto di terapia intensiva e sbirciando dai vetri delle porte trovai la stanza che cercavo, mia madre era sdraiata nel letto, attaccata a diversi macchinari, vicino a lei c'era un medico in camice blu con in mano una cartella. Entrai.
“Scusi, sono la figlia, posso sapere come sta?” dissi guardando mia madre.
“Purtroppo ha avuto un ictus e anche dopo un secondo intervento non c'è stato niente da fare, abbiamo dovuto dichiarare la morte celebrale”
“Morte celebrale?” dissi sedendomi sul lettino completamente asettica.
“Sì, sua madre è tenuta in vita dalle macchine, se la staccassimo morirebbe. Mi scusi, ma devo finire di aggiornare le cartelle degli altri pazienti” e uscì dalla stanza.
 
Le tenevo la mano fredda, aveva gli occhi chiusi, sembrava che dormisse, non me ne capacitavo, per questo non riuscì a piangere e sfogarmi. Cosa avremmo fatto io e mio padre? Mi sdraiai vicino a lei. Ebbi il presentimento che ci fosse qualcun altro nella stanza, immaginavo anche chi. Mi alzai a sedere, ma continuai a dargli le spalle e a guardare mia madre.
“Come stai?”
“Come pensi che stia? Mi hanno detto che mia mamma è cerebralmente morta e che se ora staccassi quella spina morirebbe all'istante e tu mi chiedi come sto?”
Si avvicinò e si sedette vicino a me, ma non mi girai.
“Non ce l'ho fatta a dirtelo, sembravi così felice”
A me sembrava fosse passata un'ora quando Daniel tornò a parlare “Vuoi dell'acqua?”
“Sì”
Mi porse una bottiglietta, mi girai e bevvi avidamente, come se avessi veramente sete.
“Vuoi che me ne vada?”
“Sì” non volevo che mi vedesse piangere, ero al limite.
“Sicura?”
“No” non so cosa mi fosse passato per la testa, quel monosillabo uscì dalla mia bocca senza lasciarmi il tempo di riflettere.
Appoggiò la sua mano sulla mia, non ce la facevo più a trattenermi.
“Se vuoi piangere, piangi”
Il mio viso si contrasse, non ce la facevo più. Scoppiai a piangere singhiozzando.
Mi avvolse con l'altro braccio e mi avvicinò alla sua spalla. Non riuscivo più a smettere, non cercò nemmeno di fermarmi, forse sapeva che avrebbe solo ottenuto l'effetto contrario.

 

SPAZIO PER L'AUTORE

Ciao, sono nuova e questa è la mia prima storia. I personaggi sono OOC perché non sono proprio sicura delle loro reali personalità (purtroppo non li conosco :'( ). Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e sono curiosa di sapere di cosa ne pensate ^.^, accetto tutti i consigli. Ah, non preoccupatevi, tra poco arriveranno anche Kyle, Will e Woody.
Cercherò di pubblicare il prossimo il prima possibile, probabilmente il prossimo week end, grazie per aver letto questo capitolo ;),
Δ Δ Δ little_triangles Δ Δ Δ
 
 

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Capitolo 2
*** Words are words ***


Words are words

Quando non riuscirono più a sgorgare lacrime dai miei occhi e smisi di singhiozzare mi venne in mente che Daniel doveva essere al lavoro in quel momento.
“Non dovevi lavorare?” dissi senza guardarlo
“Oggi è il mio giorno libero” tentennava. Passammo qualche minuto in silenzio.
“Tu non hai fame?”
“Un po'...” si alzò dal letto e mi tese la mano.
Beh, in effetti avevo fame, perché non accettare l'invito? Misi la mano nella sua, con l'altra cercai di togliere il mascara nero che era colato piangendo e mi alzai.

***

Uscendo dalla stanza guardai mia madre e le feci un cenno di saluto con la mano, come se avesse potuto vedermi.
Stringevo la sua mano, era calda, aveva le dita lunghe e affusolate come quelle di mio padre. Guardai le nostre mani, poi Dan, era sereno, ma i suoi occhi sembravano più felici del solito.
Mi sentivo osservata, infermiere e medici ci guardavano un po' straniti, o meglio guardavano le nostre mani. Daniel sembrava quasi non averci fatto caso.
Arrivammo alla macchinetta: merendine schifose, sandwich ammuffiti e sacchetti di patatine al formaggio. Feci una faccia schifata.
“Lo so, non è il massimo, ma se vuoi qualcosa di meglio devi uscire di qui”
Abbassai lo sguardo, non potevo abbandonare mio padre lì da solo, e nemmeno mia madre.
“Facciamo così: tu aspettami vicino alla scrivania, io torno fra cinque minuti, non ti pentirai sicuramente dell'attesa” mi fece l'occhiolino e uscì di corsa dalla porta automatica.

***

Rimasi un po' immobile a guardare la porta che si apriva e chiudeva con il frenetico via vai di persone, poi andai vicino alla scrivania, come aveva detto lui, ma intravidi Ellie. Feci improvvisamente dietrofront, non avevo voglia di sentire le sue prediche e non avrei resistito cinque minuti con lei nello stato in cui mi trovavo, ma il mio tentativo fallì miseramente. Mi aveva già intercettata. Si avvicinò tutta sorridente con il suo rossetto rosa shocking e i suoi denti bianchissimi e i capelli gialli, non biondi.
“Come stai Kitty?” odiavo quel soprannome, come le fosse venuto non lo so, nella sua mente ci sono solo riviste di gossip, vestiti dagli 800 euro in su, unghie finte lunghe cinque centimetri e... il resto penso sia tutto vuoto.
“Mah, come vuoi che stia?” avevo rinunciato a provare ad essere gentile con lei.
“Oh, povera la mia Kitty, fatti abbracciare” ora pretendeva che mi facessi pure abbracciare? Non feci in tempo a ribattere che le sue braccia mi stavano già stritolando. Quando finì di strizzarmi come se fossi un'arancia da spremere tornò a parlare con la sua vocina odiosa.
“Ho saputo di James e Sarah e sono volata subito qui” annuii ma intanto pensavo che se ne sarebbe potuta restare in America al posto di attraversare tutto l'Atlantico e piombare a Londra per rovinarmi la giornata, come se non fosse già schifosa. Pregavo che Dan arrivasse il prima possibile, non ne potevo già più.
“Come stanno i tuoi??” disse sbattendo due volte le doppie ciglia finte.
“La mamma è in terapia intensiva, hanno dichiarato la morte cerebrale” mi guardò con fare interrogativo, ma non avevo voglia di spiegarglielo “mentre papà si sta riprendendo anche se gli hanno dovuto fare un trapianto di cuore” fino al trapianto ci arrivava, per fortuna “e ora si spera che non rigetti il nuovo organo” sbattei più volte le palpebre, per ricacciare tutte le lacrime dentro.
“Che ne dici se andiamo a trovare James?” disse sfoderando un sorriso a trentadue denti sbiancati.
“Ma io...” non feci in tempo a dire un'altra parola che mi trascinò via verso la stanza di mio padre, doveva aver già chiesto dove si trovava.
L'unico barlume di speranza rimasto era che Daniel mi trovasse e mi portasse in qualche modo via da quell'arpia.
Quando entrammo nella stanza trovammo mio padre a leggere e quando alzò lo sguardo aveva un'espressione tra la sorpresa e la disperazione. Ellie era la sorellastra di mia madre e né io, né mio padre e nemmeno la sua stessa sorella la sopportavamo.
Iniziò a parlare del devon rex di razza purissima che aveva comprato l'estate precedente e del completo giacca-gonna di Prada che aveva appena acquistato online. Non stetti nemmeno ad ascoltare il resto del discorso, sentii le prime cose che aveva detto solo perché le aveva pronunciate nel mezzo minuto in cui siamo entrate nella stanza e ci eravamo sedute sulle sedie blu e plasticose che si trovavano vicino al letto.

***

Pensavo all'ultima volta in cui avevo sentito la sua voce, la voce di mia madre. Ieri mattina, un sabato ventoso e particolarmente grigio, dormivo quando fui svegliata dalla fastidiosa suoneria del cellulare. Cosa c'era di così importante da svegliarmi a quell'ora? Ma, in effetti si presuppone che una persona a mezzogiorno sia sveglia. “Pronto?” dissi assonnata.
“Oggi io e James andiamo a fare la spesa, hai bisogno di qualcosa?” ovviamente risposi di no, non volevo pesargli, era ormai passato un anno da quando vivevo nell'appartamento di Abbey Road.

***

Guardai l'orologio, era passato un quarto d'ora da quando Dan era uscito misteriosamente.
“Mi scusi, è lei la signorina Miles?” disse Daniel, di cui si vedeva solo la testa spuntare dalla porta.
“Ehm...Sì” subito non capì, ero troppo presa dai miei pensieri, ma quando velocemente mi ripresi stetti al gioco anche se non sapevo quanto fossi stata convincente, era l'unico modo per scappare di lì.
“Deve firmare dei moduli, può venire?” disse facendo un cenno con la testa facendo svolazzare i capelli.
“Se vuoi ti accompagno” disse maliziosa Ellie fissando il ragazzo.
“Non serve, dopotutto sono solo dei moduli, torno presto” mio padre mi guardò malissimo.

***

“Chi è quella?” disse Daniel un po' spaventato quando ci trovavamo a metà del corridoio.
“La mia insopportabile zia Ellie”
“Ah” teneva le mani dietro la schiena, nascondeva qualcosa...
“Dove stiamo andando?”
“Poi lo vedrai”
Cercai di sbirciare dietro la sua schiena, ma spostò subito quello che voleva nascondere.
“Uffi...”
“Eh, sennò non c'è la sorpresa”

***

Daniel era davanti a me e camminava velocemente, svoltò improvvisamente in un corridoi, poi un rumore, una porta probabilmente. Non feci in tempo a svoltare l'angolo quando sentii il suono si un pianoforte o una tastiera. Velocizzai il passo e oltrepassata la porta antincendio, come avevo previsto, mi bloccai. Era il retro dell'ospedale, separato da uno stretto corridoio da un altro edificio dal muro pieno di graffiti colorati che risaltavano sullo sfondo grigio. Davanti a me Daniel sorrideva guardandomi da oltre una tastiera con scritto sopra il suo nome: “Dan Smith”, quindi si chiamava Smith. Sulla destra c'era come un alto gradino e appoggiato lì sopra un sacchetto di plastica completamente bianco e, dall'odore speziato, dedussi che doveva venire dal messicano lì di fronte.

Rimasi pietrificata, stava iniziando a cantare.

“Some things in life are so serious” vero.
“All you can do is laugh about them” se se, prova tu a riderci sopra.
“Not sit and talk, debate about them” e su cosa avrei da discutere?
“Preach and rant, do nothing about them” e chi sbraita? Non posso dare la colpa a nessuno.
“All of your heavy discourse about cooperations into national relationships” e chi parla di rapporti internazionali??
“Getting of your high horse and laugh about something you like and you know
and you know, and you know,
and you know, cause you know,
youuu know, and you know, and you know
” sì sì facile parlare, però cantava proprio bene...

“Some things in life are so serious
All you can do is laugh about them
Don't obfuscate correct about them”
infatti, non è giusto.
“Fashionable talk and mourn about them” non ci penso nemmeno a parlare di moda o altre cose frivole come Ellie...
“Some people la-la-life's serious” ...
“But it turns out that if you make it so just
live like you're gonna die tomorrow

And love like you're going to live forever
forever, forever, forever,
'cause you know youuu know,
and you know, and you know 'cause”


“You were in that lecture, too
And you should remember that lecture, too

Some things in life are so serious
All you can do is laugh about them
'Cause words are words and don't affect them
just have a drink and laugh about them
Some people la-la-life's serious
But it turns out that if you make it so just
have a drink and laugh about it

and take up something you like and you know
and you know, and you know,
and you know, 'cause you know,
you, kno-o-ow, you know,
and you know, know, know 'cause

You were in that lecture, too
And you should remember that lecture, tooooo
And you were in that le-e-e-ecture, too
And you should remember that lecture, too

And you were, in that, lecture, you were

So, remember the words he said to youuuu
to you-u-uu”
per la verità mi aveva detto “se vuoi piangere, piangi”, ricordo perfettamente quel momento. Uffa! Non devo piangere di nuovo, ok Kathie? Ridi, ridi che è meglio.

“And you were in that lecture, too
And you should remember that lecture, too
And you were in that le-e-e-ecture, too
And you should remember that lecture, too

And you know and you know and you know and you know so so so
just take the piss and laugh and move on”
mi scappò un sorriso, sembrava fatta apposta per me.

***

Andai dietro alla tastiera e lo abbracciai appoggiando la guancia sulla felpa blu, potevo sentire il suo respiro caldo e il rumore del suo cuore.
“Grazie” dissi in un sussurro, poi percepii la sua mano tra i miei capelli mentre con l'altra mi cingeva i fianchi.
Sentii uno strano verso venire dalla mia pancia, avevo fame. Si staccò dall'abbraccio, lo feci anch'io di malavoglia, m piaceva stargli vicino, anche se non sapevo praticamente niente di lui oltre al nome, al fatto che suonasse e cantasse e che frequentava l'Università di Leeds come me.
“Hai fame, eh?” disse ridacchiando mentre riponeva la tastiera nella custodia.
“Un po'...”
“Potevi anche mangiare” non risposi.
“Guarda cosa c'è nel sacchetto” disse indicandomi quello che avevo intravisto prima.
Mi sedetti sul gradino con le gambe a penzoloni vicino al sacchetto, o misi sulle mie gambe, era caldo, sbirciai dentro.
“Pollo?”
“Quattro porzioni di pollo” disse orgoglioso avvicinandosi. Risi, come non ridevo da tanto tempo. Era buffo. Si sedette vicino a me, anche lui con le gambe a penzoloni. Mi guardava con la testa leggermente piegata. I suoi capelli sfidavano la forza di gravità.
“Che c'è, non ti piace il pollo?”
“No no, mi piace”
“Io adoro il pollo” disse appoggiando la schiena al muro con le mani che gli facevano da cuscino. Presi due scatolette rosse abbastanza grandi e pesanti e gliele porsi.
“Grazie”
Iniziai a mangiare, in effetti era proprio buono. Quel silenzio mi innervosiva.
“Come si chiama la canzone?” dissi appoggiandomi al muro, avevo finito la prima porzione ma avevo ancora fame.
“Words are words” era impressionante: aveva già finito entrambe le porzioni.
“L'hai scritta tu?”
“Sì” bene, ora sapevo come si chiamava, che frequentava l'università di Leeds, che sapeva cantare, suonare il pianoforte e che aveva scritto una canzone dal titolo “Words are words”.
“Ah” ma ora dovevo smetterla con le domande, sembrava un interrogatorio.
“Com'è il pollo?”
“Mmm... buono...” dissi mentre mi ingozzavo, mi era venuto in mente che mio padre e Ellie si sarebbero insospettiti se non fossi tornata presto, non ci vuole così tanto per firmare dei moduli.
“Calma, nessuno ti corre dietro!”
“Non posso lasciare mio padre tanto con Ellie! E' stato ingiusto appioppargliela per venire qui” dissi tra un boccone e l'altro mentre mi tornava alla mente la sua faccia sconsolata.
“Driiin! Driiin!” saltai velocemente giù dal gradino e mi avvicinai alla borsa, iniziava la caccia al tesoro.
“Hai bisogno di aiuto?” disse Daniel avvicinandosi a me.
“No no” l'avevo trovato finalmente. Tirai fuori il telefono, era Alex, che sulla mia rubrica era salvato con il nome “Alex <3”. MI ero dimenticata di cambiare il nome in rubrica. Esitai un attimo prima di cliccare il tasto rosso. Daniel era tornato a sedersi e stava scrivendo qualcosa sull'iPhone.
Tornai a sedermi anch'io vicino a lui.
I minuti passavano lentissimi e la mia porzione di pollo sembrava non finire più.
“Perché hai buttato giù?” disse senza distogliere lo sguardo dal cellulare.
“Non mi andava di parlargli”
“Perché?” cos'era? Un interrogatorio?
“Ci siamo lasciati ieri e non ho voglia di parlargli!” dissi decisa a mettere fine alla conversazione, in fondo era meglio il silenzio.
“Se vi siete lasciati perché ti chiama?” questa volta si girò verso di me, cosa gliene importava? Poteva anche continuare a messaggiare tranquillamente, non avevo voglia di rispondergli. Mi si stavano gonfiando gli occhi di lacrime ma non volevo darlo a vedere, così sbloccai il telefono e feci finta di avere qualcosa da fare. Continuava a fissarmi e io odio essere fissata, così risposi per farlo smettere.
“Non gliel'ho detto esplicitamente, ma la porta che gli ho sbattuto in faccia pensavo fosse un messaggio abbastanza chiaro”
“Quindi l'hai lasciato tu?”
“Avevo i miei buoni motivi, possiamo non parlarne?”
“Certo”

***

Eravamo tutti e due persi dai nostri pensieri, io mi stavo pulendo inutilmente le mani con un tovagliolo e il telefono si era perso di nuovo nella borsa.

Fui risvegliata dai miei pensieri da un rumore forte, che arrivava dalla fine del corridoio, ma da dove mi trovavo non potevo vedere niente. Il “gradino” terminava qualche metro più lontano da Dan facendo restringere il corridoio.
“Cos-” mi tappò la bocca con la mano. Non capivo. Si alzò lentamente senza produrre alcun rumore, e si sporse oltre il muro, era terrore quello che vedevo nei suoi occhi lucidi più blu del solito, poi si mise a correre.

 

 

SPAZIO PER L'AUTORE

Ciao ù.ù, scusate per il ritardo, ma ho avuto un po' da fare ultimamente. Sono curiosa di sapere cosa ne pensate ^.^. Vi prometto che mi impegnerò a scrivere il prossimo capitolo in modo da pubblicarlo la prossima settimana.

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Capitolo 3
*** Skulls ***


Skulls

Aprii lentamente gli occhi, un soffitto bianco, delle voci confuse che percepivo come sussurri.
Lentamente iniziai a capire quello che le voci dicevano, ma non avevo le forze necessarie per alzarmi a sedere.
"Si sveglierà? É un giorno che dorme, non ci sono segni di miglioramento e-" era una voce maschile familiare, tremante, che sembrava sull'orlo della disperazione.
"Stai tranquillo, è normale che dopo diverso tempo in cui il cervello è rimasto senza ossigeno e lo shock sia necessario un po' di tempo per riprendersi, vedrai che si risveglierà presto. Comunque sei stato bravissimo, le hai salvato la vita. Sei un suo parente?" una voce femminile, mai sentita.
"No" sospettavo fosse lui, ma prima la sua voce era irriconoscibile.
"Allora hai una ragazza! Di solito mi arrivano subito le notizie, ma dato che sei così preoccupato vi dovete conoscere da un po'..."
"La conosco solo da due giorni, ma..."
"Mmmh.." Ma perché? Forse era una specie di difesa inconscia, ma la mia parte cosciente la risposta la voleva sapere.
Non riuscivo a muovere la testa più di tanto, ma fu lui a entrare nel mio campo visivo.
Non l'avevo mai visto sorridere così tanto, anche se stava piangendo. Mi avvolse con un solo braccio stringendomi forte.
"Ho avuto seriamente paura di perderti, non farmi mai più uno scherzo simile, ok?" mi sussurrò in un orecchio.
"Mi impegnerò"
Tolse il braccio che mi avvolgeva, girando la testa di lato vidi che l'altro era fasciato e sostenuto da un tutore blu. Cos'era successo? Perché ero in un letto d'ospedale? Cosa si era fatto Dan?
"Ciao Kathie" disse una dottoressa tutta sorridente, aveva i capelli castano chiaro e un camice bianco con una scritta blu "Dr. Meredith Grey".
"Sono la dottoressa Grey, ma chiamami pure Meredith. Sei molto fortunata, se non ci fosse stato Daniel ora non saresti qui"
"Cos'è successo?"
"Questo non lo so precisamente, lo devi chiedere a lui" disse facendo un cenno con la testa come per indicare Dan dietro di lei "Ti posso dire che sei stata soffocata e per qualche minuto non è arrivato ossigeno al tuo cervello, ma per fortuna Dan aveva fatto un corso di primo soccorso e ti ha salvata. Sei svenuta e cadendo hai battuto la testa, ma non ci sono stati danni."
"Ok" ma chi mi aveva soffocata? E perché non mi ricordavo niente?
"Ci vediamo dopo" disse uscendo e facendomi l'occhiolino.

***

Daniel avvicinò una sedia al mio lettino, si sedette e iniziò a guardarmi. Era pensieroso, probabilmente stava cercando un modo per dirmi quello che era successo.
"C'è qualcosa che posso fare per aiutarti?" aveva provato a sviare il discorso, ma ovviamente il suo tentativo era fallito.
"Mi hai già aiutata, ora dimmi quello che è successo, senza nessun filtro"
"Ok... eravamo nel retro dell'ospedale, stavamo mangiando del pollo. Poi abbiamo sentito un rumore fortissimo, era un colpo di pistola. L'ho riconosciuto subito, tu invece eri confusa. Mi sono alzato per vedere cos'era successo. C'era un uomo con una pistola, poi una ragazza accasciata a terra coperta di sangue. Ho iniziato a correre, l'uomo è rimasto fermo e quando mi trovavo all'incirca a dieci metri da lui ha sparato e mi ha preso il braccio. Mi sono fermato un attimo, faceva un male cane. Poi sei arrivata tu, eri sconvolta, sei passata vicino a me per vedere come stavo, poi ti sei girata verso il corpo della ragazza. Hai sussurrato un nome: Anne."
Sentii il respiro diventare più veloce, poi delle lacrime colare sul mio viso, la mano di Daniel sulla mia e come se avesse fatto contatto, mi misi a singhiozzare. Non la smettevo più, così mi girai dall'altra parte per starmene un po' in pace, io e i miei sensi di colpa.
Si alzò, che voleva fare? Si sedette sul lettino, poi lo sentii sdraiarsi, mi spostò i capelli dal viso, girai leggermente la testa. Era sdraiato su un fianco
"Non ti posso abbracciare perché mi fa male il bra-"
"Non... imp... orta" dissi tra i singhiozzi girandomi verso di lui per abbracciarlo, ne avevo bisogno. Quando finii di singhiozzare Daniel tornò a parlare.
"Eri sconvolta, ma arrabbiatissima. Sei corsa all'inseguimento di quell'uomo. Ti ho seguita, ma eri troppo veloce. Poi l'uomo ti ha presa per un braccio, avete girato a destra e non sono più riuscito a vedervi. Sono arrivato fino all'angolo, ma era pieno di gente che mi ha rallentato. C'erano diverse strade secondarie. Hai urlato, poi non ho sentito più niente. Ho cercato di seguire la direzione da cui proveniva la tua voce e ti ho trovata a terra con la schiena contro il muro. Eri svenuta, ti ho messo sdraiata e intanto ho chiamato un'ambulanza. Ho provato a rianimarti, sapevi di pollo" sorrise, con uno di quei suoi sorrisi contagiosi, che però fu solo in grado di alzare di poco gli angoli della mia bocca. "Hai dei graffi sulla schiena e qualche livido. Pensiamo che quel bastardo ti abbia spinto contro il muro. La tua camicietta era strappata, quindi avrai bisogno di un'altra maglietta quando andrai via di qui"
Si sedette e allungò il braccio sano verso il comodino e mi porse una maglietta nera. La distesi su di me per vedere come mi stava, c'era una stampa, di Twin Peaks.
"E' un po' grande..."
"Beh, era mia, la puoi tenere"
"Te la restituirò"
"Non ti preoccupare"
"Allora anche a te piace Twin Peaks"
"No, adoro Twin Peaks" disse sghignazzando.
"Allora devi esserci affezionato..."
"Non importa, così avrai un ricordo di me"
"Vuoi dire che non ci rivedremo più?"
"Ho già fatto abbastanza danni ed è colpa mia se sei qui"
"Come avresti potuto prevedere quello che è successo?"

***


*flashback*
Mi stringeva fortissimo il braccio, mi faceva male. Una strada affollata, mi strattonò facendomi quasi perdere l'equilibrio per portarmi in una stradina sulla destra e trascinandomi in un'altra ancora più imbucata. Aveva iniziato a piovere. Qualche barbone che si copriva con le coperte logore accucciati contro il muro per non bagnarsi troppo. Un ubriaco che barcollava con una birra in mano. Avevo paura, come non avevo mai avuto prima. Urlai. Cosa voleva da me? Aveva già tolto la vita ad Anne, io non dovevo morire. Cercai di dimenarmi e di urlare di nuovo, ma mi prese per le spalle sbattendomi contro il muro. Non riuscivo a respirare. Quello schifoso si era fiondato sul mio collo e iniziava lentamente a scendere, mi faceva ribrezzo. Gli diedi uno schiaffo con tutta la forza che avevo in corpo, ma peggiorai solo la situazione. I suoi occhi neri iniettati di sangue, la bocca contratta in un ghigno inquietante. Mi strappò la camicetta facendo saltare quasi tutti i bottoni. Dei passi veloci. Spostò le mani, non riuscivo a respirare. Poi tutto nero. Il nulla, un senso di vuoto ma allo stesso tempo di voglia di sopravvivere che mi avvolgeva.

***

Avevo visto in faccia la morte, e l'avevo mandata a fanculo. Se fossi morta, non avrei riposato in pace, e non me lo sarei mai perdonato. Avevo voglia di vivere, di stare tra le sue braccia stringendo tra le mani tutto quello che mi rimaneva, gli altri erano solo ricordi.

"Ti ho bagnato tutta la felpa!" dissi mortificata.
"Si asciugherà, piuttosto tu come stai?"
"Un po' meglio, ma sempre di merda"
"Passerà"
"Ne sei sicuro?"
"Sì" ero stanca, vevo voglia di dormire, chiusi gli occhi.
Mi addormentai. Non ricordavo quello che avevo sognato, ma quando mi svegliai Daniel c'era ancora e mi guardava.
"Scusa..." dissi cercando di svegliarmi completamente.
"Hai pianto tutto il tempo"
"Non ricordo cos'ho sognato"
"Non me ne andrò, okay?"
Non risposi, mi limitai a guardarlo. Sentivo un vuoto, che niente sarebbe riuscito a riempire.
"Posso andare a vedere mio padre?"
"Sei troppo debole, sta venendo lui qui"
"Okay"
Le sue labbra sfiorarono la mia fronte, poi si alzò e si sedette sulla sedia. Aveva tutti i capelli scompigliati.
"Che c'è??"
"Cercati uno specchio, e anche un pettine magari!" mi guardò un attimo un po' sorpreso, poi si passò una mano tra i capelli e si mise a ridere.

***

"Ho interrotto qualcosa?"
"Papà!"
"Io vado a casa a darmi una sistemata, a dopo" disse sottovoce Dan e si dileguò oltre la porta.
"Come stai?"
"Dipende da cosa intendi" no non stavo bene.
"Tu come stai?" non avevo voglia di parlarne ancora, così cercai di sviare il discorso.
"Meglio, ma il cuore è ancora a rischio"
"Come faremo quando ti dimetteranno?"
"Ormai sono vecchio e questo intervento mi ha indebolito molto, non posso stare da solo e così mi ospiterà tua zia"
"Ellie??" dissi preoccupata, non sarebbe in grado nemmeno di tenere un criceto!
"No, Mary, mia sorella"
"Ahh" dissi sollevata "Ma abita in America!"
"Lo so, è lontano, ma era l'unica possibilità, non potrei stare da te, hai una vita, la scuola e non ci tengo a dormire sul divano in mezzo a tutto quel disordine"
"Okay, te lo stavo per chiedere... ma una soluzione più vicina?"
"Io non ci sto in una casa di riposo con ultraottantenni!"
"Ok, scusa..." dissi alzando le mani in segno di rassegnazione "Ti potrei venire a trovare comunque nelle vacanze"
"Beh, tanto ormai è deciso, devo andare, già solo essermi spostato è stato uno sforzo immane, ci vediamo dopo"

***

Ecco, ero rimasta sola, di nuovo a guardare il soffitto con la schiena che doleva e le lacrime che rigavano il mio viso. Un senso di vuoto che mi tormentava. Dovevo essere rimasta lì per tanto tempo, perchè il soffitto era lentamente diventato più scuro.

***

La luce, un senso di leggerezza e di serenità mi avvolgevano come in una bolla. Mi alzai dal letto. Nessun dolore, niente fatica. Ero scalza, ma non sentivo freddo ai piedi, nè il mio peso che incombeva su di loro. Camminavo per i corridoi gremiti di medici che correvano, infermiere che parlavano tra di loro e persone straziate dal dolore. Ma non dava una sensazione di durezza o tristezza, era tutto un po' ovattato. Nessuno sguardo che incrociava il mio, nessuno che si scontrava contro di me mentre correva. Così, ferma in mezzo al largo corridoio avvolto in una strana luce guardavo la frenesia e l'agitazione che aleggiavano senza sosta e che sembravano correre avanti e indietro insieme alle persone. La mia bolla mi proteggeva da tutto quello e dentro di essa nessuno mi avrebbe potuta disturbare. Iniziai a camminare, non sapevo nemmeno io verso dove, ma iniziai a seguire la luce, quella luce che mi accecava, che non proveniva dalle fredde lampade al neon sul soffitto, era una luce calda. Mi ritrovai nel salone d'entrata, qui era tutto più frenetico. Mi fermai di nuovo, al centro della grande stanza, davanti alla scrivania occupata da un'infermiera, ad aspettare qualcosa, non sapevo nemmeno io cosa. Guardavo la porta automatica che si apriva e chiudeva ad intervalli quasi regolari, dalla quale entrava un ampio flusso di persone. Una fitta, non era un dolore fisico, non erano i graffi sulla schiena o i lividi, e nemmeno il segno indelebile sul mio collo, era una fitta al cuore, una sensazione che non riuscivo a definire. Eccolo, era entrato dalla porta insieme ad altre persone, ecco chi aspettavo. Non riuscì ad intercettare il suo sguardo, anche se veniva nella mia direzione. "Ciao Dan!" dissi felice, ma non mi sentiva. Allora gli andai vicino e provai ad urlargli, ma non mi sentiva e non mi vedeva. Era proprio davanti a me, con lo sguardo sconvolto, ma non si era fermato. Un brivido. Mi aveva attraversata. Cosa mi stava succedendo? Mi misi a piangere.
Era andato alla scrivania e aveva chiesto: "Cos'è successo?"
"Non ce l'ha fatta mi dispiace"
Sembrava disperato, forse ancora più di me, ma di chi stavano parlando? Cosa mi stava accadendo?

Lo seguii, si era inoltrato nella massa di gente che si accalcava nel corridoio, quello da dove ero venuta. Seguivo i suoi passi veloci, i suoi capelli che ondeggavano. Improvvisamente girò a sinistra, una porta color panna, con una finestrella dalla quale si poteva scorgere l'interno, ma ero troppo lontana. Entrò nella stanza lasciando la porta socchiusa. Non guardai dalla finestrella, spinsi la porta lentamente con il palmo della mano. Se prima piangevo ora i singhiozzi avevano preso il sopravvento. Era seduto sulla sedia, con il viso contratto, le lacrime che scendevano dai suoi occhi blu. La sua mano che stringeva quella senza vita accasciata sul materasso. Il mio corpo sul letto. Gli occhi chiusi e l'espressione tormentata dal dolore, non serena come quella di mia madre. Il viso pallido. Gli apparecchi e le macchine intorno spente. Si era alzato, continuando a tenere la mano, la ma mano. Mi ero calmata, i singhiozzi erano finiti, ma mi sentivo completamente asettica.

"Ciao" mi girai, rimasi pietrificata vedendo chi avevo di fianco.
"Anne" riuscivo di nuovo a parlare "cos'è successo?"
"Lo sai" mi avvicinai a Daniel e mi scese una lacrima "doveva volerti bene"
"Penso di sì" cercai di toccargli la mano, ma la oltrepassai. Ero un fantasma. Tornai a singhiozzare e mi sedetti per terra ranicchiata con la testa tra le ginocchia. Come lo avevo potuto permettere? Volevo vivere. Una mano che mi toccava la spalla. Alzai lo sguardo. Mia madre.
"Ciao Kathie" disse sorridendo.
"No" dissi riabbassando lo sguardo guardando un punto indefinito del pavimento.
"Cosa?" continuò serena.
"Non ora, non voglio morire e stare in questa specie di limbo senza di lui."
"Shhh" si era seduta vicino a me e mi avvolgeva con un braccio.
"Voglio vivere!" urlai dopo aver alzato la testa al cielo. Una luce bianca che riempiva la stanza. Silenzio, solo le lacrime silenziose che rigavano i nostri volti.

 

 

SPAZIO PER L'AUTORE

Ed ecco il terzo capitolo. Spero che vi sia piaciuto ù.ù e vi consiglio, se non l'avete ancora fatto, di tradurre i testi delle canzoni a cui sono riferiti i capitoli. Mi farebbe molto piacere sapere che cosa ne pensate.

A presto,

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Capitolo 4
*** Sleepsong ***


Sleepsong

Un bivio. Combattere o arrendersi. Arrendersi è facile, basta non fare niente e avrei anche potuto rivedere Anne e la mamma.
Se invece si decidesse di combattere, siamo sicuri che il futuro sarà migliore? Per combattere bisogna avere qualcosa o qualcuno per la quale farlo. Io avevo ancora qualcuno per il quale risalire in superficie e riprendermi?
"Kathiee!" una voce in lontananza, disperata.
La mia mente mi diceva di arrendermi e adagiarmi lentamente sul fondo senza più soffrire. Il mio cuore mi diceva di fare un piccolo sforzo e di fidarmi. In quel momento, mentre risalivo in superficie, pensai di aver fatto lo sbaglio più grande dell mia vita.
Improvvisamente l'aria e la luce che mi avvolgeva. Potevo dire di aver vinto la guerra tra me e la morte? Oppure ero semplicemente una sopravvissuta? Piangevo senza sosta, credo di non aver mai avuto tanta paura del futuro, che prima affrontavo a testa alta.
Quando Daniel si sciolse dall'abbraccio vidi diversi medici e infermieri che mi fissavano un po' straniti.
"Ciao, bentornata"
"Cos'è successo?" dissi preoccupata.
"Abbiamo scoperto che hai una piccola malformazione congenita al cuore... con tutto questo stress purtroppo il tuo cuore ha ceduto e hai avuto un infarto. Ti abbiamo rianimata ed è successa una cosa molto rara: ti sei risvegliata subito. Solitamente i pazienti hanno bisogno di ore per risvegliarsi dopo un simile stress. Ora devi stare tranquilla, fino a quando non ti porteremo in sala operatoria stasera, ok?"
"In sala operatoria?"
"Dobbamo fare in modo che questa malformazione non ti crei più problemi, ma devi stare attenta: il tuo cuore si è indebolito molto negli ultimi giorni, il rischio di altri infarti è alto e ti potrebbero risultare fatali"
"Ok" dissi fissando il materasso stropicciato e le coperte che erano scivolate per terra. Le lacrime scendevano silenziose sulle mie guance e andavano a bagnare la vestaglia bianca a piccoli pois blu.
Tutti i medici se ne andarono portando via gli strumenti da rianimazione. Io e Daniel rimasimo soli.
Ricordi confusi del mio passato si susseguivano veloci nella mia mente. Anne e la mamma erano solo un sogno o era stato tutto vero?
Dan ruppe il silenzio che incombeva da alcuni minuti.
"Dovrei tornare a lavorare... posso fare qualcosa prima di andare?"
"Non lo so... Quando sarò dimessa cosa succederà?"
"Tornerai a casa"
"Intendevo, ci rivedremo?"
"Sì, se lo vorrai"

***

In quel momento arrivò un'infermiera per prepararmi all'intervento.
"Buongiorno, le devo preparare le flebo, ma tra poco arriverà la dottoressa Grey per vedere come sta"
"Ok"
Odio gli aghi, così chiusi gli occhi per non vedere, quando li riaprii la sedia accanto a me era vuota.
"Dov'è finito Daniel?" dissi un po' offesa per il fatto che non mi avesse salutata prima di andare via.
"E' uscito con il telefono, penso abbia ricevuto una telefonata"
Quando l'infermiera stava per andarsene arrivò Meredith.
"Come va?"
"A parte il fatto che sono quasi morta e che tra poche ore mi aprirete il cuore in due bene" dissi senza la minima intenzione di essere divertente. Meredith accennò un sorriso prima di darmi una notizia che mi cambierà per sempre la vita.
"Ok, dopo l'operazione la tua vita non potrà tornare subito come prima perché il cuore avrà bisogno di tempo per riprendersi. Vivi da sola?"
"Sì"
"Dovresti trovare qualcuno da cui andare, che ne so, un genitore, un'amica, un parente"
"Non so..." spesso si dice di non sapere qualcosa come scusa o per prendere tempo, ma non avevo veramente la minima idea da chi andare.
"Pensaci bene, se dovessi stare male di nuovo e ti trovassi da sola nessuno potrebbe chiamare aiuto..."
"Ci penserò" la dottoressa Grey uscì di nuovo dalla porta.
A chi potevo rivolgermi? La mamma non c'era più, papà era in America, l'unica persona con cui ero abbastanza in confidenza da chiedere una cosa simile era Anne, i miei parenti erano tutti in Scozia o in America.
Rientrò Dan, si sedette sulla sedia e lanciò letteralmente il telefono sul comodino. Ero curiosa di sapere il perché, ma quella domanda senza risposta aveva completamente sotterrato la mia curiosità.
Sbuffai.
"Mi devo trovare qualcuno da cui andare e non posso stare da sola perché potrei stare male di nuovo"
"Ralph va in vacanza in Europa e i miei e le mie sorelle abitano lontano dall'università"
Le nostre parole di accavallarono, ma entrambi avevamo capito quello che aveva detto l'altro. La soluzione ai nostri problemi era evidente, ma mi vergognavo a chiedere a un mezzo sconosciuto di venire a vivere con me o di andare a casa sua. Pensandoci bene, non sapevo niente di lui e avevo l'impressione di non conoscerlo per niente.
I nostri sguardi si incontrarono per un attimo. Avevamo un'unica soluzione per due problemi, il ché poteva sembrare conveniente, ma mi sembrava sempre di avere davanti a me uno sconosciuto. Mia mamma mi diceva spesso "non parlare con gli sconosciuti", una frase che può sembrare banale, ma alla quale io non ho dato mai ascolto. Fidarsi troppo delle persone in quasi sempre si può rivelare una delusione, mentre in una piccolissima percentuale di casi può essere la tua più grande fortuna.
 

***

 
Entrò Meredith tutta sorridente insieme a un'altro medico che, a pelle, non esprimeva molta simpatia.
"Lui è il dottor Alex Karev", se prima mi stava poco simpatico, quel nome peggiorava la situazione "e oggi esporrà il tuo caso".
"Kathie Miles, diciotto anni, malformazione congenita della valvola mitrale, operata tre giorni fa"
"Ti sei proprio sprecato, eh?" fece una smorfia. Non sembrava uno specializzando, perchè gli studenti non avevano il camice bianco, ma i casi li facevano esporre a loro. Ero abbastanza confusa.
"Il dottor Karev è in punizione e non ha molta voglia di lavorare" mi scappò una specie di smorfia che voleva nascondere un sorriso, mi guardò male "ma torniamo a noi, dato che sei migliorata molto in questi giorni abbiamo deciso di dimetterti" sbarrai gli occhi, ero troppo felice di uscire da quel luogo che puzzava di morte. Mi girai verso il comodino per prendere il telefono. Mandai un messaggio a mio padre, anche se in America a quell'ora erano all'incirca le quattro del mattino, poi a Dan.

 

TO DAN:
Vieni qui! Ho una cosa da dirti :) - 9:13

 

TO KATHIE:
Arrivo ;) - 9:13

 

"Ciao Kathie" disse Meredith.
"Ciao" dissi mentre uscivano senza prestargli troppa attenzione.
"Mi hanno dimessa" dissi sorridendo, ma non sembrava molto sorpreso "Lo sapevi già, vero?"
"Sì, ma detto da te ha tutto un altro effetto"
"Beh, ora torno al mio lavoro, quando sei pronta vieni alla scrivania" si passò una mano tra i capelli e se ne andò camminando velocemente.
"Il suo fidanzato?" ed ecco la solita vecchietta che non si faceva i cazzi suoi.
"No"
"Fratello?" ma cosa voleva da me??
"No" dissi brusca.
"Ah" e iniziò a guardarmi peggio di prima da dietro gli occhiali rotondi alla Harry Potter, poi si mise a rifare il letto.
Lanciai un'occhiata al comodino, mi dovevo rimettere i miei jeans, l'ultima volta che gli avevo indossati era stato quattro giorni prima, e non avevo bei ricordi di quelle ventiquattro ore. Mi fiondai nel microbagno della mia camera. Era una cosa stupida, erano solo dei pantaloni: un'ammasso di fili intrecciati e cuciti insieme, ma quando li indossai mi sembrava di essere di nuovo lì, dietro l'opedale. Poi la t-shirt di Daniel.. La stringevo tra le mani ancora piegata, quando vidi una goccia cadere lentamente per andare a creare una piccola macchiolina circolare più scura: una lacrima. Era colpa mia se si era ritrovato con un proiettile nel braccio e a dover convivere per minimo un mese con me, e io non avevo fatto nulla per impedirlo.
Infilai la maglia, era lunga almeno dieci centimetri più del dovuto e ci stavo almeno tre volte. Quella t-shirt era evidentemente grande anche per Dan.
Spinsi la porta e nella stanza tutta ordinata c'era ancora l'infermiera impicciona a guardarmi male. Mi sfogai, forse ingiustamente, su di lei che continuava a fissarmi.
"La vuole smettere di fissarmi?"
"Il suo telefono è sul comodino"
"Lo so" il telefono! Stavo per dimenticarmelo, ma non le avrei dato quella soddisfazione. Mi avvicinai al comodino e presi velocemente il telefono, che però mi scivolò dalle mani. Per fortuna esistevano le cover. Avvicinai lentamente la mano con il cervello già in lutto, lo girai e quando vidi che era tutto intero tirai un rumoroso sospiro di sollievo.
"Prima o poi le cose che si fanno tornano indietro" ci mancavano pure le perle di saggezza. Mi girai per risponderle, ma la stanza era vuota.

***

Mi guardai intorno per controllare di non aver dimenticato niente e uscii dalla stanza sperando di non entrarci mai più. Andai dritta verso la scrivania, ma non c'era nessuno seduto dietro a quel catorcio gigantesco. Dov'era finito ora?
All'improvviso mi sentii toccare la spalla e mi spavetai.
"Vuoi farmi venire un altro infarto Da-" mi stavo girando quando mi accorsi che quello dietro di me non era Daniel.
"Cosa ci fai qui?"
"Ho saputo quello che è successo, sono venuto per vedere come stavi..." in quel momento arrivò Dan alla mia destra con in mano un bicchiere della caffetteria che appoggiò sul tavolo.
"Chi è?" disse tranquillo un po' sorridente.
"Vedo che hai fatto in fretta a rimpiazzarmi" sentii un nodo alla bocca dello stomaco che saliva, avevo voglia di eplodere e urlargli in faccia tutto quello che provavo per lui, ma c'era qualcosa che mi bloccava. Forse la mano che stringeva la mia mi impediva di perdere il controllo.

 

 

 

 

SPAZIO PER L'AUTORE

Beh, ho avuto un piccolo blocco, ho in mente come si svolgeranno gli ultimi due capitoli della fanfic ma non avevo la minima idea di cosa scrivere in questo. Questo capitolo non ha il titolo di nessuna canzone perché non ne ho trovata nessuna che potesse centrare qualcosa con questo capitolo e "Life" mi sembrava quello più adatto.
Penso di pubblicare il prossimo capitolo questo week end e di risollevre un po' la situazione, a presto,

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Capitolo 5
*** No Scrubs ***


Capitolo 5 - No Scrubs


"Vattene" sibilai fulminandolo con gli occhi.
"Possiamo parlare?" non ne avevo voglia, ma forse si sarebbe deciso a lasciarmi in pace.
"Va bene, ma fuori di qui" decretai secca, non volevo dare spettacolo, ma avrei comunque cercato di mantenere la calma perché dovevo dimostrarmi superiore alla situazione, disperarsi per una persona simile sarebbe stato inutile. Dan mi lasciò la mano e mi sentii un attimo come destabilizzata, avevo perso un po' di sicurezza.
 
Lanciai un'occhiataccia ad Alex e ci girammo verso l'uscita, percorremmo il tragitto su due linee parallele, senza far incontrare mai i nostri sguardi. Dopo qualche passo mi girai indietro, era alla scrivania a fissare il deckstop, non aveva un'espressione ben definita, lo fissava e basta. Quando riportai avanti il mio sguardo mi accorsi che Alex si trovava a pochi centimetri da me. Un brivido mi percorse tutta la schiena e sentivo un groppo alla gola che mi lasciava a malapena respirare.
Appena varcata la soglia dell'uscita mi prese per un braccio. Mi girai per guardarlo e mi sembrò come di vedere quell'uomo, quel viso che cercavo di dimenticare.

***

*flashback*

"Mi scusi, possiamo disturbarla?" mi aspettavo che sarebbe arrivata la polizia di lì a poco. Aveva varcato la soglia un uomo sulla sessantina, dai capelli grigi e un po' stempiato.
"Entri pure e mi dia del tu, per favore"
"Va bene... grazie" prese la sedia plasticosa accostata al muro e si sedette tranquillamente, era molto disinvolto, sicuramente aveva molta esperienza.
Solo in quel momento mi accorsi che c'era anche un'altro poliziotto in piedi sulla soglia, più giovane, che doveva avere pochi anni in più di me.
"Dovremmo farle... ehm, farti qualche domanda su quello che è successo tre giorni fa, io sono l'agente Taylor e lui il mio collega Watson"
"Okay, fate pure"
"Beh, vorremmo sapere la sua versione della vicenda"
"Io e Daniel eravamo seduti su quella specie di gradinata" Watson se la rideva sotto i baffi, insomma, era un gradino, non sapevo in quale altro modo definirlo "poi abbiamo sentito un rumore forte: lo sparo. Dan è andato a vedere quello che era successo, si è fermato un attimo come pietrificato prima di iniziare a correre. Io non avevo capito di cosa si trattava e mi sono alzata per andare a vedere. Non avevo ancora girato l'angolo quando sentii un altro rumore: il secondo sparo che ha preso il braccio di Daniel, corsi subito a vedere come stava, poi mi girai e vidi Anne, quel bastardo gli aveva sparato in testa ed era tutta coperta di sangue" mi sembrava di rivivere quel momento, lei con quel buco in mezzo alla fronte, gli occhi inespressivi, la guancia tumefatta e viola, gocce di sangue che dal mento gocciolavano per finire sull'asfalto grigio e un po' bagnato. Mi mancava e mi sentivo tremendamente in colpa per non averla perdonata subito, dopotutto non era nemmeno colpa sua, ma dell'alcool e di quel cretino.
 
"Continui" mi incitò Taylor.
"Ero arrabbiata e l'ho seguito, ma all'angolo si fermò improvvisamente e mi prese per un braccio. Mi trascinò in mezzo alla gente fino a girare in una stradina sulla destra, poi in un'altra più stretta. Lì mi ha ritrovato Dan"
"Cos'è successo in quella stradina?" lo sapevano benissimo cosa era successo e tutti quei ricordi si trovavano stipati in una cassaforte in un angolo della mia mente di cui volevo dimenticare la combinazione.
"Ha cercato di violentarmi"
"L'ha visto in faccia?"
"Sì" l'immagine di quel volto era rimasta impressa nella mia memoria e non sarei mai stata in grado di lavarla via.
"Ce lo può descrivere?"

*fine del flashback*

***

Eravamo in mezzo a tanta gente e Alex mi trascinò all'angolo che si formava con una stradina secondaria, ma non parlò, non riuscivo a capire se fosse perché non si rendeva conto di quello che mi aveva fatto o perché era troppo imbarazzato.
"Allora?"
"Mi dispiace per i tuoi e per..." calò un silenzio terribile di pochi secondi che io riempii velocemente.
"Anne"
"Ero ubriaco, non mi rendevo conto di quello che facevo" ecco, la classica frase fatta priva di significato che detta da lui era ancora meno credibile.
"Quella ubriaca era Anne, tu sapevi benissimo quello che stavi facendo e ti sei approfittato di lei" sibilai puntandogli il dito contro, faceva troppo male rievocare quei ricordi, poi scoppiai in un urlo improvviso "Mi fai schifo!" mi girai verso l'entrata dell'ospedale, tirai un respiro di sollievo e sussurrai soddisfatta tra me e me: "Ora mi sento meglio"
 
Poi una mano mi prese la spalla e mi girò con forza.
"Mi dispiace, non succederà più" cercava di avvicinarsi alle mie labbra.
Non credevo di poter avere tutta quella forza: gli lasciai uno schiaffo così forte da fargli rimanere l'impronta rossa delle mie dita sulla guancia.
"Non ho mai visto una persona falsa quanto te, và a farti fottere"
"Credo di aver diritto a un'altra possibilità" pure presuntuoso.
"Col cazzo che ti do un'altra possibilità, vai pure via col tuo amico, guarda, ti sta aspettando! E non farti rivedere mai più" mi avvicinai a lui e gli sfilai il cellulare dalla tasca dei jeans.
"Che fai??" chiese un po' indignato.
"Faccio in modo che tu non possa più contattarmi" mi tolse il cellulare di mano, ma avevo già eliminato il mio numero dai contatti dell'iphone da novecento euro. Aveva speso tutti i suoi soldi per quel cellulare che aveva trattato meglio di me.

***

*flashback*

Alex era seduto comodamente sul divano con il suo iphone nuovo a messaggiare con i suoi amici o chissà chi mentre io ero a ripassare per l'esame di maturità. Erano le otto e mezza e mi era venuta un po' fame.
"Che ne dici se ci ordiniamo una pizza?"
"Va bene, per me una prosciutto e funghi"
"Ok, ce li hai cinque euro?"
"E per cosa?"
"Per la tua pizza!"
"Ah... li ho lasciati a casa, non è che potresti fare tu per questa volta?" sì, per questa volta, non ha mai i soldi dietro e pago tutto io con i pochi soldi che guadagno al bar.
"Va bene" finivo sempre per cedere.
Scavalcai qualche scatolone dal contenuto sconosciuto che avevano lasciato i vecchi inquilini e raggiunsi il mio telefono, a distanza di sicurezza mentre studiavo. Mandai un messaggio a Adam della pizzeria lì davanti, solo a noi faceva arrivare le pizze a velocità impressionanti, gli stavo particolarmente simpatica.
 
Era il momento di finirla con lo studio, così mi avvicinai ad Alex che aveva sempre gli occhi fissi sullo schermo.
"Allora, com'è l'appartamento?" dissi io contenta di avere un po' più di tranquillità e indipendenza, mi sedetti sul divano accanto ad Alex e gli passai un braccio attorno al collo appoggiando la testa sulla sua spalla. L'autunno successivo sarei andata a vivere lì se avessi passato l'esame per essere più vicina alla scuola e i miei erano molto ansiosi e, come al solito, avevano gufato sulla mia ammissione all'esame sicuri che l'avrei passato.
Lui bloccò precipitosamente il telefono lanciandolo alla sua destra.
"Carino, ma mai quanto te" girò la testa verso di me lasciandomi un bacio intenso che però rimase a metà: era arrivato Adam e suonava al campanello.
 
"Vado ad aprire" aprii la porta ed ecco il fattorino con il cappellino rosso e le pizze in mano.
"Ecco qua"
"Grazie mille Adam, tieni questi, per il servizio rapidissimo" presi le pizze con una mano mentre con l'altra gli lasciavo qualche sterlina sul palmo aperto. Mi fece l'occhiolino e mi salutò:
"A presto Kathie" richiusi la porta e lo sentii scendere le scale.
Mi rigirai e vidi Alex sempre con il suo telefono in mano.
"Lo lasci almeno mentre mangiamo, per favore"
"Okay" disse un po' scocciato. Posai le pizze sul tavolino davanti al divano che era, non si sa perché, più verso di lui, alla mia destra, ma non avevo voglia di spostarlo. Presi il cartone e lo posai sulle gambe incrociate. Pizza con le patatine fritte, i miei due cibi preferiti insieme, ma iniziai subito prendendo una patatina che era caduta fuori dal cerchio di pasta. Proprio in quel momento si avvicinò una mano per fregarmene una.
"Non è giusto, se volevi le patatine potevi prendertele, non fregarle a me!" ero particolarmente possessiva col cibo.
"Come siamo permalosi stasera!" alla sua esclamazione feci la finta offesa e presi un pezzo di pizza che divorai a una velocità impressionante. Mi diede un bacio sul collo e iniziò anche lui a mangiare. Era particolarmente lento.
Accesi la televisione, ero televisione-dipendente, e decisi che volevo ascoltare un po' di musica su mtv music.
 
Finii la pizza in men che non si dica mentre a lui mancavano ancora due pezzi.
"Era buona" non sapevo cosa dire, con lui non sapevo mai di cosa parlare.
"Sì, anche la mia, ma non ho più voglia di mangiare..." appoggiai il mio cartone sul tavolino e lui fece lo stesso. A quel punto iniziammo a baciarci con, come sottofondo, una musica molto truzza che non avevo mai sentito, ma anche se l'avessi fatto ero concentrata su altro e ci prestai poca attenzione.
Iniziò ad alzarmi la maglietta, misi le mie mani sulle sue e si fermò. Ci guardammo un attimo negli occhi, avevp pochi secondi per decidere. Allora: stavamo insieme da un mese, mi piaceva, eravamo da soli in casa e avevo ormai diciotto anni. Feci un leggero sorriso e tolsi le mie mani da sopra le sue.

*fine del flashback*

***

"Bene, ora puoi andartene e non farti rivedere mai più" cercavo di trattenermi e sembrare dura e decisa.
"Posso salutarti?" quant'era falso.
"Non nel modo che intendi tu, puoi dirmi semplicemente "addio" "
"Ti amo" ora cercava di impietosirmi.
"E' vero che tu mi ami quanto che tu non ti sei fatto la mia migliore amica ubriaca" iniziò ad indietreggiare camminando all'indietro, sperai che ci fosse un tombino aperto o che inciampasse su una buccia di banana o cose simili, ma non successe assolutamente niente: si girò, aprì la porta della macchina sportiva del suo amico e i nostri sgurdi si incontrarono per quella che speravo fosse l'ultima volta.
"Addio Kathie"

Non dissi assolutamente niente, non volevo rivolgergli una parola di più. Quando uscì dal mio campo visivo mi scese una lacrima amara, ero felice che se ne fosse andato, ma mi sentivo terribilmente stupida, perché? Cosa avevo trovato in quel deficiente? Sicuramente non lo amavo.

***

Mi girai e camminai a piccoli passi fino all'entrata. Le porte automatiche si aprirono ancora una volta, era lì e mi guardava. Avevo bisogno di piangere, non avevo più la mia camera, così mi precipitai in bagno, dove Dan non sarebbe potuto entrare. Sfiorai la maniglia metallica della porta del bagno delle donne quando mi sentii toccare l'altra mano.
"Ho bisogno di stare da sola" dissi cercando di trattenere i singhiozzi.
"Okay, ma in ogni caso io ci sono" mi sussurrò in un orecchio peggiorando la situazione.
 
Aprii di scatto la porta e mi fiondai dentro richiudendola subito. Lanciai un'occhiata alle maniglie delle porte, erano tutte girate sul rosso. Mi appoggiai al muro freddo di piastrelle quadrate azzurrine, le gambe non mi reggevano più e mi lasciai scivolare. Mi si sollevò un po' la maglietta, sentivo il freddo della parete, ma continuai a scendere fino a ritrovarmi seduta a terra con la testa appoggiata sulle ginocchia e le braccia che avvolgevano le gambe.
Io ho sempre "rinnegato" il mio passato, quello che facevo, che mi piaceva. Preferivo la Kathie del presente, che si era resa conto delle cretinate che aveva fatto la Kathie del passato e alle quali doveva rimendiare. Se fossi stata una persona forte mi sarei rialzata subito e sarei andata a fare compagnia a Dan, ma la Kathie del presente era troppo fragile e preferiva starsene da sola chiusa in un lurido bagno d'ospedale.

***

"Io dovrei dormire qui?" Dan aveva appena aperto la porta della camera di Ralph e quello che già vedevo attraverso quello spiraglio mi bastava a capire che non avrei accettato.
"Beh, camera mia è messa peggio"
"Non voglio nemmeno immaginarla, peggio di così ti devi essere proprio impegnato!" potevo vedere il letto sfatto, il comodino ricoperto da vestiti e... degli slip di pizzo nero sul pavimento. Dopo quella scoperta ero decisa a non entrare nemmeno, figuriamoci a dormire!
 
"Facciamo così: andiamo a casa mia. Pensavo di essere disordinata, ma voi due mi battete sicuramente. Ah, non sei allergico ai gatti, vero?"
"N-"
"Oh mio Dio! Zoe!" gli presi la mano e saltellando tra bottiglie di birra, cartoni di pizza e di pollo del messicano arrivai sana e salva all'ingresso. Presi le chiavi sul tavolo e chiusi la porta velocemente quando Dan fu completamente fuori. Non avevo il tempo di aspettare l'ascensore e quello era solo il secondo piano, così lo trascinai per il braccio sano giù per le scale.
"Scusa, meno male che non sei caduto..." dissi mentre scendevo l'ultimo scalino e mi avviavo velocemente fino alla porta d'uscita questa volta tenendogli la mano.






 

SPAZIO PER L'AUTORE

Okay, questo capitolo mi ha un po' depressa con il flashback... Poi mi sono ripresa con il finale, per fortuna. A questo punto si è svelato il mistero del perché Kathie ce l'aveva tanto con Alex e nel prossimo capitolo scopriremo cosa succederà a casa sua (non lo so nemmeno io). Mi scuso per il ritardo, da domenica scorsa non sono stata molto bene :/ e ho guardato quasi tutto Twin Peaks ù.ù

Alla prossima ^.^

X

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Capitolo 6
*** Oblivion ***


PRE-SPAZIO DELL'AUTRICE

Preparatevi, questo è il capitolo più lungo che ho scritto fino ad adesso...

 

 Oblivion

 

I minuti segnati dalla sveglia sembravano non passare più. Sentivo il respiro regolare di Dan proveniente dall'altra sponda del letto: stava dormendo.
In quei giorni all'ospedale mi ero completamente dimenticata di Zoe, che per fortuna aveva bucato la scatola dei croccantini e sicuramente non aveva sofferto la fame. Poi avevo trascinato Dan a casa mia senza chiedergli niente o lasciargli il tempo di prendere qualcosa da mettersi per dormire. Zoe aveva lasciato un “ricordino” sul divano, così i miei piani di dormirci sopra erano andati in fumo. Avevo un letto matrimoniale formato da due uniti, ma né io, col mio cuore spompato, né Dan, con un braccio solo a disposizione, eravamo in grado di spostarli. Sensi di colpa nei confronti di Anne e per il tempo perso a litigare con lei. Per la mamma alla quale non avevo detto abbastanza volte “ti voglio bene”, per mio papà, che non ero in grado di aiutare.
Il tempo intanto passava inesorabile. Il display della sveglia segnava l'“1:55”. Era un'ora e mezzo che provavo a dormire. Decisi di alzarmi non sapendo precisamente il motivo. Scivolai fuori dal letto e andando in cucina cercando di fare meno rumore possibile chiusi la porta della camera.

***

Presi il pacchetto extralarge di patatine dalla dispensa e mi misi a mangiarne alcune seduta sul divano. Com'era possibile non sentirsi distrutti e tristi per quello che era successo? Non ci riuscivo proprio: solo vuoto che non riuscivo a riempire. Forse già rimpiangevo di non essermi lasciata andare quel giorno. Riuscirò ad andare avanti?
Il silenzio che mi avvolgeva fu rotto dal fruscio della porta della camera da letto. Avevo bisogno di stare da sola e riflettere su quello che mi era successo per riuscire ad accettarlo, ma non ci riuscivo perché cercava sempre di aiutarmi. Odiavo che le persone cercassero di consolarmi e inutilmente di farmi parlare, sfogare o cavolate simili.
 
Si sedette sul divano accanto a me passandosi una mano fra i capelli, ma rimase in silenzio.
“Torna a dormire” dissi tra una patatina e l'altra. Ancora silenzio. Odio anche quando le persone non mi rispondono.
“Ho bisogno di stare da sola, va'”
“Noi non ci conosciamo per niente”
“Sì, è vero, ma ora torna a dormire e lasciami in pace, faremo “conoscenza” domani”
“Se non riesci a sfogarti significa che il metodo che stai usando non funziona”
“Ora iniziamo con la filosofia...”
“Puoi provare a parlare”
“Ma se non ti conosco nemmeno!”
“Forse è meglio”
“Ora dovrei dire cose del tipo: sono nata il 30 novembre 1991 a Londra, non ho né fratelli né sorelle, i miei nonni materni erano americani e poi sono venuti in Inghilterra dove mia mamma ha conosciuto mio padre...” dissi prendendolo in giro.
“Beh, intendevo qualcosa di più recente e dopo la tua nascita, ma inizia da dove vuoi”
“Ora fai pure lo psicologo?”
“Se vuoi continuare a startene zitta e non dormire tutta la notte per me va bene, io me ne torno di là”
“Cosa dovrei dire?”
“Parti dalla cosa più facile, il resto verrà da solo”
“Ma perché?» sussurrai «va beh... è cominciato tutto all'inizio dell'estate, quando stavo con Alex. Se ne fregava altamente di me tranne quando lo facevamo, poi due giorni prima che ci fosse l'incidente abbiamo litigato a una festa e me ne sono andata piantando lì lui e Anne... quando ho smaltito l'arrabbiatura sono tornata dentro e mi hanno detto che se n'erano andati. Non volevo vedere Alex, così sono andata dalla mia amica. Quando ho aperto la porta della casa l'ho trovata in mutande e reggiseno seduta sulla penisola della cucina che slacciava la cintura dei pantaloni di Alex. Sono rimasta pietrificata sulla soglia per qualche secondo finché Anne non si è accorta di me e con un tono per niente lucido mi ha detto sorridente: “Ciao Kathie”. Quando Alex si è reso conto della mia presenza mi è venuto in contro fingendosi mortificato, ma non ha fatto in tempo a parlare perché gli ho sbattuto la porta in faccia e me ne sono andata. Se non fosse successo o se avessi perdonato subito Anne ora sarebbe qui con me e non sarei a parlare con un mezzo sconosciuto della mia vita” ero ancora asettica, non sentivo assolutamente niente.
“Cos'è successo nel vicolo?” alla fine della frase iniziai a sentire le lacrime che mi riempivano gli occhi e, anche se provavo a reprimerle si capiva del mio tono di voce che stavo per piangere.
“Non ho voglia di parlarne”
“Okay” mi passò un braccio dietro la schiena facendomi appoggiare la testa sulla sua spalla. Chiusi gli occhi e tutte le lacrime che avevo accumulato si riversarono sulle mie guance. Non li riaprii prima della mattina seguente, ma prima di addormentarmi percepii un mormorio, delle parole dette come fra sé e sé.
“Io non so come aiutarti... scappi troppo velocemente”

***

Era passata una settimana da quella notte e, malgrado non stessi ancora bene, mi sentivo pronta ad affrontare il primo giorno di lezione. Oltrepassato il cancello, la sicurezza che prima mi sosteneva, era completamente sparita. Centinaia di studenti dei quali la maggior parte era più grande di me camminavano frettolosi per tutto il parco con i libri in mano. A un certo punto si avvicinò a Daniel un ragazzo che mi sembrava di aver già visto.
“Ciao” così a vedersi sembrava simpatico.
“Ciao, quando sei tornato?”
“Ieri sera. Ho pensato di venire a vedere come stai, ma direi che te la cavi bene” finendo la frase mi lanciò uno sguardo d'intesa.
“Ah, dimenticavo che non vi conoscete ancora. Ralph, lei è Kathie. Kathie, il mio amico Ralph”
“Ciao, io ora devo andare. Ci vediamo dopo” dissi un po' imbarazzata prima di scappare letteralmente alla lezione di scrittura creativa.
“Ciao” rispose distrattamente Ralph, non sembravo essergli molto simpatica.
“Ciao Kathie”

***

Volevo diventare una scrittrice, anche se in quel periodo non riuscivo a trovare ispirazione per scrivere nessuna storia. Mi divertivo a raccontare vite di persone inventate, che spesso prendevano una piega drammatica, con omicidi, criminali o intrighi. Erano tutti banali e insipidi, malgrado i colpi di scena e le morti improvvise. Perché quello corrispondeva esattamente alla vita reale, niente di nuovo. Non c'è niente di male a scrivere di vita reale, il problema è rendere la storia vissuta e originale. Il vuoto che sentivo era pieno per una piccolissima parte, il ché significava che parlare è inutile almeno nel mio caso, così decisi di iniziare a scrivere la mia storia prendendo da quel momento appunti su quello che mi succedeva.

Il primo compito del professore, un uomo sulla mezz'età che tendeva a criticare tutti indiscriminatamente, era scrivere riguardo al come si suol dire “bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto”. Uscendo dall'aula pensavo a come lo vedevo io: mezzo pieno. Questo non significa, secondo me, essere ottimisti, ma vedere solo quello che c'è. Forse era quello il mio problema: non riuscire a vedere il vuoto.

***

Oltrepassando la soglia del bar scorsi Dan e Ralph seduti a un tavolo nell'angolo. Stavano parlando e non mi notarono, così decisi di prendere un caffè e un panino al bancone per riflettere sul mio tema. Qualcuno stava chiamando il ragazzo affianco a me.
“Ehi, vuoi venire a sederti qua?” era la voce di Ralph, girai la testa dalla parte opposta per non farmi vedere ma, come al solito, Dan non si faceva i cazzi suoi.
“Che c'è?”
“No niente, è che volevo pensare al compito di scrittura creativa, qui da sola” dissi sottolineando l'ultima parola. Sì, Dan era una persona piacevole e simpatica, ma a volte avevo bisogno dei miei spazi per riflettere.
“Ti dà fastidio Ralph?” aiuto, non riusciva proprio a capirlo che avevo semplicemente bisogno di starmene un po' per conto mio?
“No, ho bisogno di stare un po' da sola” detto questo finii il caffè e mi alzai per uscire.
“Alla fine delle lezioni passo a prenderti da sotto il portico?”
“No, non ti preoccupare, vado a fare un giro con i ragazzi”
“Ah, okay” un momento prima non lo volevo tra i piedi e il momento dopo non volevo che se ne andasse. Mi sentivo leggermente confusa, così andai a fare una passeggiata per schiarirmi un po' le idee.
 
Era carino come posto: gli alberi del viale, le panchine e tutto il resto sembravano quasi finte, forse anche migliori di quello che avevo immaginato.
Poi i miei pensieri andarono a cadere su Anne che sarebbe dovuta essere in quel momento avrebbe dovuto essere con me ad esplorare l'università, non sei piedi sotto terra.

***

I giorni si susseguivano a una velocità impressionante e senza che me ne accorgessi era ottobre. Nel frattempo erano cambiate molte cose. Dan era tornato a vivere a casa sua e non aveva più il braccio fasciato, avevo cambiato il divano, non mangiavo pollo tutte le sere e iniziavo a non sentire più il bisogno di stare da sola.
 
TO KATHIE
Stasera fanno una serata a tema Halloween al pub, vieni? Se è un sì ricordati il costume ;) - 10:28
 
TO DAN
Vorrei venire, ma non ho il costume... - 10:28
 
TO KATHIE
Il mio l'anno scorso si è rotto, puoi venire con me a prenderne uno :) ti vengo a prendere dopo pranzo? - 10:29
 
TO DAN
Okay, a dopo – 10:30
 
Da cosa mi sarei travestita? Non ne avevo la minima idea.

***

“Sei identica a Laura Palmer!”
Mi guardai allo specchio. La parrucca bionda, il vestito nero con lo scollo a V, le lenti a contatto grigie, gli orecchini e il rossetto: tutto corrispondeva perfettamente a Laura Palmer nell'ultimo episodio di Twin Peaks.
“Beh, anche tu come vampiro non scherzi” dissi sorridendo.
“Grazie”
“Possiamo andare” presi la borsa e uscita da casa chiusi la porta a chiave.

***

Erano le nove, ma sembrava fosse notte fonda. Stranamente non pioveva. Sopra l'asfalto aleggiava una strana nebbiolina densa e bianca che scompariva allo scontrarsi con la macchina. Molto in stile Halloween.
Scendendo dalla macchina per poco non cadevo con quei tacchi assurdi che mi aveva costretta a prendere Dan. Di certo non mi sarei messa le all-star o avrei comprato scarpe tacco tre stile nonna, ma il tacco dodici me lo poteva anche risparmiare.
"Avevi intenzione di uccidermi facendomi prendere sti cosi?"
Non rispose, ridacchiò soltanto. Entrando sentii la sua mano che sfiorava la mia, il ché mi diede un po' di sicurezza malgrado lo spettacolo che mi si presentava davanti agli occhi. Mi sentivo la ragazza più vestita di tutto il locale, anche se il mio vestito aveva uno scollo abbastanza profondo per i miei gusti e lo spacco laterale non era da meno.
 
Mi prese per mano e mi trascinò fino al tavolo al quale sedevano Ralph, altri quattro ragazzi e una bionda che a pelle mi stava particolarmente sul culo. Sì, provavo simpatia a pelle per pochissime persone.
"Hei, Laura Palmer?"
"Sì" ero felice che qualcuno fosse riuscito a riconoscere il mio costume oltre a Dan, questo sembrava avermi portato un "punto simpatia".
Ci sedemmo al tavolo insieme agli altri, io ero all'estremità della poltrona a semicerchio che lo circondava e accanto a me era seduto Dan, che parlava animatamente con gli altri.
"A che anno sei?" mi chiese il ragazzo che sedeva vicino a me al bar il primo giorno università. Tutti erano in silenzio ad aspettare che rispondessi. Appena mi destai dai miei pensieri risposi senza pensare: «Primo». Era ovvio che quelli dell'ultimo anno le matricole le schifano e probabilmente avevo perso il mio "punto simpatia".
"Prendete qualcosa?" arrivò una cameriera che doveva essere travestita da fantasma, ma dai vestiti che indossava sembrava più Harley Quinn di Batman: le mancava solo il cappello.
Iniziarono dall'altra parte del tavolo, non ero per niente pratica e non conoscevo nessuno dei drink che avevano ordinato, così ripetei quello che aveva detto Dan prima di me. Iniziarono tutti a ridacchiare, tranne io che ovviamente non ero sicura di aver capito a cosa si riferivano.
"Non so se lo reggerai..." disse fra una risata e l'altra la ragazza, seduta sulle gambe di un ragazzo vestito da scheletro.
Ce la dovevo fare, anche solo per mandare a fan culo mentalmente quella troietta.
Quando tornò la ragazza-fantasma contemplai il bicchierino per qualche secondo. Un bicchiere piccolo, il ché non prometteva niente di buono. Veloce e indolore. Strinsi il bicchiere fra indice e pollice e lo bevvi tutto d'un sorso, come se fosse una di quelle medicine schifose effervescenti, ma quello era molto più forte.
Sentivo l'esofago completamente in fiamme, ma non lo diedi a vedere. I ragazzi iniziarono ad applaudire, mentre la ragazza mi guardò male. Mi ero guadagnata una specie di stima. Mentre ero al secondo drink gli altri, Dan compreso, ne avevano trangugiati almeno cinque come se fossero acqua. Non ero abituata a portare le lenti a contatto e mi davano fastidio, così andai in bagno a toglierle. Uscita lanciai un'occhiata al tavolo.
 
Si erano tutti cambiati di posto, o così mi era sembrato. La mia vista era concentrata su Dan che si stava calando molto nella parte del vampiro direi, lanciandosi sul collo (e non solo) di quella troia.
Avevo già la borsa in mano, così me ne andai sbattendo la porta.

***

Più avanti c'era un bar con un'insegna luminosa con scritto "Da Joe". Sembrava un posto tranquillo, così entrai guidata dal bisogno di alcool, molto alcool. Mi sedetti su uno degli sgabelli alti davanti al bancone.
"La cosa più forte che avete" dissi al barista che mi guardava un po' stranito.
"Da dove vieni vestita così?" mi disse una voce familiare alla mia sinistra. Girandomi mi accorsi di conoscerlo.
"Il dottor Karev che qualche mese fa era in punizione?"
"Sì, chiamami Alex se vuoi"
"Kathie"
"Ecco qua" disse il barista, che dedussi fosse Joe, mentre posava un bicchierino sul bancone.
"Di solito i medici sono sempre in ospedale per procurarsi interventi, poi chissà quante cose strane vi capitano ad Halloween, perché sei qua?"
"Giorno libero" disse di fretta prima di trangugiare praticamente un quarto della bottiglia di birra che teneva in mano da quando era lì "Tu?"
"Serata schifosa a una festa. Non so bene perché sono scappata, ma anziché vedermi un porno in diretta tra una troietta e quello che consideravo il mio unico amico, preferisco l'alcool. Non ha voglia di parlare nel mezzo della notte e non ti delude mai" dissi dopo aver bevuto tutto d'un fiato il bicchierino davanti a me "un altro per favore".
"Offro io" disse buttando qualche sterlina sul bancone. Eravamo gli ultimi clienti nel locale.
"Tu non sei qui solo perché hai la giornata libera"
"Vero" disse con la bottiglia vuota in mano "ma so come rimediare".

 

 

 

 

SPAZIO DELL'AUTRICE

Mi scuso tantissimo per il ritardo per questo capitolo ^.^ sono stata male due settimane e ho dovuto recuperare un sacco di compiti (intanto mi sono guardata tutto Twin Peaks ù.ù), poi il video di Torn Apart mi ha traumatizzata e impiegando il tempo per riprendermi leggendo, domenica ho avuto giusto il tempo di fare i compiti (no ok, forse ho esagerato un po' con “traumatizzata”, ma più o meno è stato così), poi il mio compleanno che è stato uno schifo (non sono nata il 30 novembre)... insomma spero che questo capitolo sia all'altezza del precedente e che mi diate i vostri pareri a proposito, anche i lettori silenziosi, se è possibile. Ora si inizia ad entrare nel fulcro della prima parte della stagione, quindi vi consiglio di prepararvi psicologicamente ai prossimi capitoli. Grazie per aver letto questa “cosa”,

ΔΔΔ little_triangles ΔΔΔ

 

 

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Capitolo 7
*** Overjoyed ***


Overjoyed

 

Un dolore lancinante alla testa mi risvegliò dal sonno leggero. Mi sentivo a pezzi, come se avessi scalato una montagna in una notte e mi fossi addormentata da cinque minuti. Aprii gli occhi. Quella non era casa mia: le assi di legno scuro sul soffitto ne erano la conferma. Sentii qualcosa muoversi vicino a me, lì accanto c'era un ragazzo, ma non ero in grado di riconoscerlo perché mi dava la schiena.
Non mi venne nemmeno la curiosità di andare a vedere chi fosse per spolverare la memoria. Forse non lo volevo ricordare.
Scesi dal letto e raccolsi i vestiti disseminati a terra. Indossai l'abito nero che avevo raccolto davanti alla porta: era sicuramente meglio di niente, ma non proprio adatto ad andare in giro di giorno.
Uscii dalla camera e intravidi la porta distante qualche metro.
 
Da una delle porte alla mia sinistra sentii provenire dei bisbiglii e in automatico girai la testa.
«Kathie? Ah, ciao» disse Meredith cercando di nascondere la sorpresa. Accanto a lei era seduta una ragazza su per giù della sua età che mi guardava malissimo. In quel momento mi tornò in mente quello che era successo la sera precedente: io che scappo dalla festa, corro in un bar, incontro Alex e ci ubriacamo. Poi dei ricordi confusi che decisi di lasciar sopiti ancora un po'.

Arrivai fino alla porta e per poco non inciampai, era meglio togliere quelle scarpe. Camminai velocemente fino al bordo del marciapiede. Non avevo la minima idea di dove mi trovassi, così decisi di fare l'autostop: girare per tutta la città scalza non si prospettava una soluzione molto allettante. Si fermò una macchina rossa, abbastanza scassata. La portiera venne aperta dall'interno.

«Vuoi entrare o no?» disse l'uomo seduto al posto del guidatore. Mi sedetti sul sedile del passeggero e notai dei sacchetti di preservativi aperti sul cruscotto che non erano esattamente rassicuranti.

«Devo andare in via Hall Grove, vicino al campo da basket» la mano sinistra dell'uomo al volante mi toccò la gamba e si piazzò velocemente nel mio interno coscia ancora prima che potessi fiatare.

«Non sono quello che pensa! Ho solo bisogno di un passaggio fino a casa mia!» la mano si ritirò e tornò sul volante.

«Scusa!» urlò in tono di protesta «è che una vestita così alle dieci di mattina cosa potrebbe essere?»

«Potrebbe essere una che si era travestita per Halloween e ha passato la notte fuori!» lui sbuffò e calò un silenzio tombale fino a quando la macchina si accostò al marciapiedi davanti al mio palazzo.

Sgattaiolai velocemente fuori da quel lurido veicolo e corsi con le scarpe in mano fino alla porta.

«Prego, eh!» urlò l'uomo poco gentilmente prima di riaccendere il motore e andare via.

***

Dopo aver cercato un po' nella borsa le chiavi mi accorsi che qualcuno si stava avvicinando. Aprì la cerniera della tasca esterna della borsa e mi porse le chiavi che stavo cercando. I nostri sguardi si incrociarono.

«Che ci fai qui?»

«Dov'eri finita ieri sera?»

«Sai che non si risponde con una domanda?»

«Sai che lo hai appena fatto?»

«La finisci?» dissi scocciata mentre aprivo il portone del palazzo.

«Mi rispondi?»

«A quale domanda?» risposi facendo una smorfia.

«Alla prima»

«Saranno affari miei, no? Ho una vita anch'io» Daniel sbuffò sconsolato, ma non gli avrei risposto comunque. Chiamai l'ascensore, era al piano terra.

«Ciao» dissi facendo un cenno con la mano che teneva le scarpe.

«Aspetta, ti devo parlare di una cosa» disse mentre entrava nell'ascensore poco prima che si chiudesse.

«Ancora?»

«Sì, ma è meglio se ne parliamo con calma» non avevo per niente voglia di parlare, solo di sdraiarmi sul letto e dormire, dormire tutto il giorno.

«Perché non hai chiamato me per farti venire a prendere al posto di fare l'autostop?» disse all'improvviso mentre la lucina del pulsante contrassegnato dal numero “4” si illuminava di rosso.

«Perché continui a farmi domande? Non ho voglia di parlare e ieri non mi sembravi molto interessato a quello che facevo: non ti sei nemmeno accorto che me n'ero andata»

«Ero ubriaco e non ricordo niente, si può sapere che ti prende?» sì, tutta colpa dell'alcool. Erano già diverse volte che fungeva da scusa, per Dan, per le mie avventure notturne, per Anne...

«Niente»

Entrammo nel salotto, gettai le scarpe in un angolo e appoggiai la borsa sul tavolo prima di andare a buttarmi sul divano.

«Ora puoi parlare?»

«Sì, ma se continui a comportarti così dubito di riuscire ad avere una risposta positiva»

«E come mi dovrei comportare?»

«Potresti iniziare col dirmi perché ieri sera sei scappata, è un po' che ti comporti in modo strano...»

«Non puoi fregartene e poi venire a tormentarmi perché vuoi parlare o delle risposte.» dissi in uno sfogo improvviso.

Regnava un silenzio irritante interrotto solamente dai suoi passi. Si sedette sul divano accanto a me e iniziò a giochicchiare con il telefono facendolo ruotare con le dita della mano destra.

«Le parole sono tutto quello che abbiamo» detto questo si lasciò scappare un sorriso, come se fosse felice.

«Che tu hai» rettificai.

«Pensaci»

«Lasciamo perdere» in quel momento mi iniziai ad interrogare su cosa intendesse per «noi», ma i miei pensieri si spostarono sul fatto che mi sentissi osservata.

«Cosa c'è ancora?»

«Non ti ho ancora detto di cosa ti volevo parlare»

«Cioè?»

«Ehm... Mi sono lasciato convincere a cercare qualcuno con cui suonare, anche se non so bene cosa sto cercando» ci fu una pausa, poi riprese parlando più in fretta «ti andrebbe di venire con me a sentire un gruppo?» lo guardai un po' perplessa.

«Sarebbe in un locale in centro a Londra»

«Okay, ma quando?» dissi per prendere un po' di tempo.

«Stasera, puoi venire?» in quel caso il tempo non era a mio favore e dovevo decidere subito. Il problema non era se «potevo venire», ma se «volevo venire». Mi sapeva molto di «mi hanno dato buca, non ho tempo e non te lo avrei nemmeno detto se non fosse successo, ma se potresti venire mi faresti un favore»

«Non lo so...»

«Non c'è molto tempo per decidere, dovremmo partire alle otto, di solito c'è un sacco di traffico la domenica sera»

«Va bene, okay, vengo» dissi poco convinta.

«Sicura?»

«Vuoi che venga o no? Mi sembri un po' confuso»

«Mi farebbe piacere, ma non voglio nemmeno forzarti se poi scappi nel mezzo della serata»

«Non lo farò, promesso» dissi quasi esasperata. Ma perché non me ne aveva parlato prima di voler formare un gruppo?
 

Sospirai buttando lo sguardo da un'altra parte. In quel momento suonò il campanello. Mi alzai e andai ad aprire la porta, Alex. Mi tornò in mente che gli avevo indicato casa mia mentre passavamo davanti al palazzo e, mentre mi stavo maledicendo per averlo fatto sentii dei movimenti alle mie spalle.

«Credo che tu abbia dimenticato qualcosa a casa mia» disse mostrando la parrucca bionda, poi continuò guardando Dan dietro di me «Vedo che hai fatto pace con il tuo amico...»

«Me ne stavo andando. Ah, ti passo a prendere alle otto, sempre che tu voglia venire» chiese implicitamente Daniel poco convinto.

«Sì, ci vediamo dopo» Alex si scostò e lui si fiondò giù per le scale.

«Allora avete fatto proprio pace» disse scrutandomi un po' sospettoso.

«Non proprio»

«Tieni» mi porse la parrucca bionda e fece per girarsi.

«Aspetta, ti do il mio numero, nel caso avessi dimenticato altro...» entrai dentro e scrissi il mio numero su un foglietto.

«Potrei fare in modo anch'io di dimenticare qualcosa qui» disse prima di fiondarsi sulle mie labbra. Chiuse la porta dietro di sé con un calcio e, senza staccarsi nemmeno per un secondo, mi portò fino al divano.
Qualcuno bussò alla porta, ma non aprii. Pensavo fosse la vicina che mi chiedeva sempre la farina anche se tutte le volte le dicevo che non la compro mai.

***

Erano le otto e iniziavo ad avere paura che Dan non arrivasse più. Avevo passato il pomeriggio davanti al foglio bianco del compito di scrittura creativa. Non avevo parole. Mi sembrava di essere vuota, ma non centrava col fatto che non avevo mangiato a pranzo.

Alle otto e dieci minuti suonò il campanello. Aprii la porta. Daniel si stava passando una mano tra i capelli e non mi guardò nemmeno.

«Sei pronta?»

«Sì»

«Credo di aver lasciato il telefono qui, sono tornato ma non ha aperto nessuno» Ricordando quella mattina, quel bussare ritmico contro la porta e io che non ero andata ad aprire, sentii come se qualcosa mi pesasse sul petto, o forse sulla coscienza. Percepii una sensazione di disagio quando incontrai il suo sguardo, ma non sembrava portarmi rancore, anzi, vedevo quasi un velo di imbarazzo nei suoi occhi.

«Vuoi entrare?»

«Va bene, ma siamo già in ritardo» gli porsi il telefono che avevo visto solo in quel momento sul tavolino del salotto.

«Grazie»

«Di niente» dissi con un sorriso finto mentre ripensavo continuamente a quella mattina.

«Andiamo?» chiese un po' incerto dopo qualche minuto di silenzio. Presi la borsa e lo seguii oltre la porta.

***

Quella sensazione non svaniva, eravamo in macchina in silenzio da mezz'ora e non ero stata in grado di aprir bocca. Pioveva, come al solito dopotutto, e le insegne luminose dei negozi erano solo delle luci sfocate dietro i vetri bagnati della macchina. Daniel parcheggiò lì vicino e, anche se non avevamo un ombrello, non ci bagnammo più di tanto.

Il locale era abbastanza grande e nella sala centrale si alzava un palco. Proprio in quel momento un ragazzo dai capelli medio-lunghi neri parlò al microfono.

«Buonasera a tutti. Non sono uno di molte parole e taglierò corto. Stasera suoneremo qualche cover fatta da noi e... niente, spero che vi divertiate.»

Ci eravamo seduti sugli sgabelli alti davanti al bancone.

«Qual è il nome del gruppo?» sussurrai nell'orecchio di Dan.

«Sul volantino non era specificato, penso che non abbiano ancora un nome»

Dietro al cantante si trovavano due chitarristi e un batterista. Suonarono dei pezzi rock dei quali fui in grado di riconoscerne sì e no tre. Il cantante non mi entusiasmava e i due chitarristi non sembravano spiccare per bravura, invece il batterista, che si dimenava dietro ai piatti e i tamburi, attirò la mia attenzione, anche se dovevo ammettere di non essere una grande esperta di musica pur avendo fatto qualche lezione di pianoforte fatta da piccola.

Dopo un'ora, quando la musica della radio tornò ad affollare le orecchie di tutti i presenti, sentii una mano calda che mi strinse il polso. Daniel mi trascinò fino al lato sinistro del palco, dove i membri della band avevano appena finito di riporre gli strumenti nelle custodie. Fermò il batterista mentre gli altri stavano uscendo dall'uscita secondaria.

«Ciao, ti ruberò poco tempo. Sto cercando dei componenti per un mio «progetto musicale» ancora non molto definito e, se fossi interessato, per favore chiama questo numero» infilò una mano in tasca e, alla stessa velocità con cui aveva parlato, porse un foglietto mezzo spiegazzato al ragazzo. Non riuscivo a vederlo bene perché era tutto buio, ma sembrava abbastanza sorpreso.

«Ah, dimenticavo, io sono Daniel»

«Io sono Chris, anche se tutti mi chiamano Woody» disse sereno mentre porgeva cordialmente la mano a Dan.

«Tu?» domandò rivolgendosi a me che avevo assistito in silenzio fino a quel momento.

«Kathie»

«Woody dobbiamo andare!» urlò qualcuno dalla porta aperta alla nostra sinistra.

«Ora dovrei andare, ti chiamo appena possibile» si scusò Chris.
 

A pelle mi ispirava simpatia, cosa che in quel periodo provavo per pochissime persone.

«Che ne pensi?»

«Effettivamente anche a me era sembrato bravo, invece gli altri non erano un granché» non disse nulla, mi rivolse solamente il primo sorriso della serata.

«Vuoi restare ancora un po' qua o tornare a casa?»

«Sembra un posto carino» dissi guardandomi intorno «ma uno di noi non dovrebbe bere...»

In quel momento il telefono di Dan squillò. Non riuscì a vedere chi chiamava dallo schermo, ma riconobbi la voce immediatamente.

«Pronto?»

«Daniel, dove sei finito?»

«Sono a Londra»

«Da solo?»

«No»

«Ahh...» da quel momento non sentii più Ralph che probabilmente stava parlando sottovoce.

«Possiamo parlarne un'altra volta?» la sua espressione mutò in qualcosa che non ero in grado di definire. Forse era arrabbiato, o incerto, o triste, oppure tutti e tre.

Dopo poco allontanò il telefono dall'orecchio.

«Ha buttato giù» disse continuando a fissare lo schermo.

«Di cosa voleva parlare?» alle mie parole alzò lo sguardo e capii che era una «domanda critica».

«Ma... no... niente. Non l'ho avvertito che venivo a sentire un gruppo e...»

«Sai che menti da schifo?»

Era passata un'ora da quando eravamo arrivati e il mio stomaco aveva iniziato a brontolare.

«Cerchiamo un posto dove mangiare? Ho fame»

«Anch'io»

«Pizza?»

«Okay»

***

Dentro alla pizzeria c'era tantissima gente e fuori faceva un freddo tremendo, così decidemmo di mangiare in macchina. Stavo riflettendo su quello che mi aveva detto quella mattina “Le parole sono tutto quello che abbiamo” e continuavo a chiedermi da dove gli fosse venuto.

«A volte ho l'impressione di non conoscerti affatto» dissi prima di affondare i denti in quella pizza che sembrava deliziosa.

«Io penso invece che tu mi conosca bene quanto solo altre due persone»

«Ma se non so dove sei nato, il giorno del tuo compleanno, se hai fratelli o sorelle...» non mi veniva in mente più niente, così decisi di ripiegare su qualcosa di più generico «insomma, non conosco niente di te prima di tre mesi e mezzo fa»

«Dipende da cosa intendi per conoscere una persona, ma se ti interessano i miei dati anagrafici: ho due sorelle e sono nato a Londra il 14 luglio» a sentire quella data mi vennero le lacrime agli occhi. Per quel motivo era così insopportabilmente sorridente: era il suo compleanno.

Passammo qualche minuto in silenzio e metà della mia pizza era già svanita. Avevo preferito concentrarmi su quello.

«Tu invece sai tutto di me e mi fai continuamente domande». “Insopportabili”, pensai finendo la frase.

«Il problema è che non mi rispondi»

«Forse perché non ne ho voglia»

«Oppure perché fa troppo male»

***

Quando Daniel se ne andò presi il telefono dalla borsa, senza un motivo preciso. C'erano tre chiamate perse da Alex. Non avevo alcuna voglia di richiamarlo e mi sentivo piuttosto confusa. Erano stati due giorni intensi, ma non avevo voglia di dormire. Per schiarirmi le idee decisi di uscire per schiarirmi le idee, come facevo da ormai due mesi. Presi la giacca e corsi giù per le scale. Vicino a casa mia c'era un campo da basket che veniva lasciato sempre aperto e incustodito. Oltrepassai il cancello aperto e andai a sedermi sulle tribune. Aveva smesso di piovere e rimaneva solamente una nebbiolina fredda e bagnata a riempire l'aria. Un leggero venticello spostava le goccioline d'acqua che andavano a posarsi sul mio volto. Quel venticello mi permetteva di non pensare a niente e allo stesso tempo di ritornare indietro fino a quel giorno: il 14 luglio 2010.

A volte mi sembrava di vedere la mamma che mi sorrideva e si sedeva vicino a me, altre Anne che passeggiava intorno al campo rosso per ore.
In quel momento qualcuno dal passo leggero si stava avvicinando per sedersi accanto a me, ma non era un fantasma.

 

SPAZIO AUTRICE

Da qualche capitolo non sono più molto sicura e sto iniziando a pensare sempre di più che questa sia una storia banale, noiosa e depressa. Ho provato a consolarmi pensando che tra poco la situazione si movimenterà, ma non ero molto motivata a scrivere questo capitolo. Spero che, malgrado l'inizio, non sia proprio una schifezza. Aspetto qualche vostra recensione e accetto ipotesi su chi potrebbe essere la persona che si sta avvicinando a Kathie alla fine del capitolo, anche se non penso possiate indovinare. Buon 2015 (anche se un po' in ritardo),

ΔΔΔ little_triangles ΔΔΔ

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