L'impronta dell'acqua

di SoltantoUnaFenice
(/viewuser.php?uid=460228)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hashiba Touma ***
Capitolo 2: *** Vice ispettore Fujita Ryoko ***
Capitolo 3: *** Mouri Shin ***
Capitolo 4: *** Yamada Iwao ***
Capitolo 5: *** Sanada Ryo ***
Capitolo 6: *** Rei Fan Shu ***
Capitolo 7: *** Date Seiji ***
Capitolo 8: *** Izumi ***



Capitolo 1
*** Hashiba Touma ***


Touma uscì dalla doccia con la sensazione di essersi scrollato di dosso almeno parte della stanchezza del viaggio. Si vestì e si asciugò velocemente i capelli, poi si decise a fare quello che aveva in mente da quando era sceso dallo Shinkansen e aveva finalmente toccato il suolo della propria città.
Puntò al comodino ed aprì il cassetto. Estrasse un vecchio quadernetto dalla copertina nera un po' rovinata, recuperò una penna e si sedette alla scrivania.
Come ogni volta in cui si accingeva a quella incombenza, cercò di essere veloce e liberarsene in fretta: era una cosa che faceva di propria volontà, ma continuava a trovarla poco piacevole.
Cominciò a compilare lo schema che aveva preparato ormai molti anni prima, e che si ripeteva uguale in ogni pagina:
Data: Marzo/Aprile 2013
Luogo: Quartiere periferico di Tokyo
Alla voce “Nemico” si fermò a riflettere per un po', poi decise di classificarlo come spirito primordiale trasformato in demone. Riportò anche il nome, facendo attenzione alla calligrafia, come se fosse un gesto di rispetto per questa creatura che gli uomini avevano finito col guastare: Izumi.
Compilò la voce “Avvenimenti” con un breve riassunto di quanto successo, poi lasciò qualche riga vuota, per aggiungere, in fondo alla pagina, un'ultima nota:
Si è formata una nuova Kikoutei.
Sospirò, poi rimise rapidamente il quadernetto al proprio posto.
Teneva quella sorta di diario da parecchio tempo, ma non ne aveva mai parlato con nessuno.
Non sapeva nemmeno di preciso perché lo facesse: forse sperava che ad un certo punto l'insieme dei dati avrebbe mostrato uno schema che permettesse loro di non essere colti ogni volta alla sprovvista, o forse era solo un modo – forse eccessivamente razionale – di esorcizzare quel lato della propria esistenza.
Tornò in salotto. L'unica luce accesa nell'appartamento era una lampada da tavolo sulla consolle vicino alla porta di ingresso.
La cucina era in penombra, il resto della casa silenzioso e buio.
Il vento fischiava a tratti fuori dalla finestra, ma era una voce gentile, che teneva quasi compagnia.
Si sedette sul divano.
In genere i luoghi vocati al suo rimuginare erano il letto o il terrazzo. Sul divano rimaneva solamente per guardare la televisione, che questa volta invece era rimasta spenta.
Raccolse le gambe contro il petto e rimase in silenzio: voleva ascoltare la propria solitudine. Misurarla fino in fondo come si fa con un nemico, da studiare prima di affrontarlo in battaglia.
Si guardò attorno: Un paio di divani, una poltrona reclinabile, una piantana in acciaio vicino alla finestra. La lunga mensola laccata di bianco ospitava il televisore, una pianta, un paio di vasi di ceramica raku, una scatola dipinta di azzurro e oro.
Sotto alla mensola, un cesto di vimini quadrato pieno di riviste ed un altro rotondo e più basso, vuoto. Sul muro soltanto un paio di quadri a soggetto astratto, poche linee geometriche in bianco, nero e azzurro intenso. Era un ambiente luminoso e confortevole, ma non molto personale.
Perché non teneva in vista i ricordi e le cose preziose accumulate in quegli anni? Perché non c'era nemmeno una foto?
Touma conosceva la risposta, si formulò chiara nella sua mente nel momento esatto in cui fece quelle domande. Mettere ben in vista ciò che contava era come renderne evidenti dimensioni e confini, e lui non aveva mai avuto voglia di vedere quanto fossero angusti.
La sua vita non era mai stata molto diversa da così.
Era stato un bambino molto solitario, abituato ai ritmi ed al silenzio della casa che divideva con il padre, che passava quasi tutto il proprio tempo all'università.
Ma poi aveva concesso ai suoi nakama di invadere il suo cuore e la sua vita, e quasi aveva dimenticato cosa significasse essere solo.
Questa brutta avventura gli aveva fatto capire quanto, al di fuori di questo micro-universo fondamentale e sparso qua e là per il Giappone, al di fuori dell'unione dei loro cinque cuori, non avesse praticamente nessun altro.
E di come avesse sempre avesse evitato di guardare in faccia questa verità.
Aveva sempre temuto di perdere i propri nakama, e stavolta Shu si era fatto sparare, Shin era quasi scomparso sotto una cortina di acqua avvelenata, e Seiji era prigioniero di qualcosa che Touma non sapeva come risolvere.
Non era certo una novità, ma affrontarlo e contemporaneamente realizzare di non avere nient'altro era stato destabilizzante.
Si alzò dal divano, improvvisamente irrequieto. Entrò in cucina, ma non accese la luce. Si diresse invece alla finestra e spiò il cielo tra i palazzi. Dal lato opposto, dalla grande porta finestra che dava sul terrazzo, avrebbe avuto una visuale più sgombra, ma rimase lì a contare quante stelle si riuscissero a vedere in quello spicchio rettangolare di cielo.
Dove voleva arrivare, esattamente, inseguendo i pensieri di quella sera?
Il filo portava ad una soluzione, se mai c'era?
Era così immerso nella propria malinconia, che non riconobbe subito il trillo del telefono.
Si riscosse ed afferrò il cellulare: era Shin.
“Pronto? Shin, va tutto bene?”
“Sì, non ti preoccupare. E' tutto a posto.”
“Sei a casa? Il viaggio?”
“Tutto bene. Sono un po' stanco, ma con una bella dormita sarà tutto a posto.”
“Mi hai fatto preoccupare, devi dirmi qualcosa?”
“Non posso semplicemente chiamare per sentire come va?”
“Shin, ci siamo separati stamattina.”
“Lo so. E' solo che... Pensavo che sei di nuovo in quell'appartamento vuoto, e... Non so, dovrai abituartici, no? Volevo essere sicuro che stasera tu non ti sentissi troppo solo.”
Touma si portò una mano alla gola, che improvvisamente si era stretta in un nodo. Per fortuna al telefono Shin non poteva vedere le due grosse lacrime che gli erano sfuggite.
“Grazie Shin. - sorrise. - Va tutto bene, adesso. Buonanotte.”
“Buonanotte, Touma”
Chiuse la comunicazione, poi uscì in balcone.
Il vento portava profumi nuovi: c'erano tanti fiori che stavano sbocciando in quella primavera tardiva. Touma inspirò a fondo e guardò verso l'alto.
Forse il suo mondo aveva confini ristretti, ma anche in un giardino piccolo possono nascere frutti meravigliosi.
Non aveva bisogno di grandi spazi per coltivare ciò che l'amore dei suoi nakama poteva donargli, e finalmente si rese conto di non aver bisogno di nient'altro.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Vice ispettore Fujita Ryoko ***


Il tavolo dello scotch era rimasto allestito più a lungo del solito. L'ispettore Nishimura aveva impiegato parecchio tempo per scrivere il rapporto finale dell'indagine, leggendo e e rileggendo gli appunti, allontanandosi spesso per andare a telefonare a qualcuno e rimuginando un po' su tutto.
Più di una volta Fujita era stata tentata di chiedergli spiegazioni su tutte le stranezze emerse durante quella indagine; un paio di volte ci aveva anche provato, ma lui aveva fatto il finto tonto, lasciando intendere che per lui non era successo niente di diverso dal solito.
Eppure di cose strane ce ne erano parecchie, lei ne era convinta: era comparsa una tigre albina, ad esempio. Era piombata davanti ad un'auto della polizia per poi scomparire nella città, e il suo collega si era comportato come se non fosse successo nulla di insolito.
E gli interrogatori a cui aveva assistito, celata dal vetro riflettente che affacciava sulla saletta, le erano sembrati in qualche modo diversi. Era come se Nishimura avesse cambiato “stile”, evitando domande che a lei sembravano ovvie, e girando attorno agli argomenti quasi come se avesse voluto spingere Kimura e la sua banda a dare certe risposte invece di altre.
Fosse stato chiunque altro, avrebbe pensato che il suo collega avesse qualcosa da nascondere, che potesse addirittura essere corrotto. Ma di Nishimura si fidava, e l'unica spiegazione plausibile a cui era giunta era che lui stesse cercando di proteggere qualcuno.
Alzò lo sguardo dal proprio lavoro, e osservò di nuovo la scrivania dell'ispettore, finalmente sgombra. Si era deciso a svuotarla il giorno prima, dopo aver passato la mattinata fuori Tokyo.
Da quel che Fujita aveva capito, era andato a trovare uno dei ragazzi che erano stati rapiti. Al suo ritorno le era sembrato di umore decisamente migliore: dovevano essersi detti qualcosa che lo aveva portato a considerare chiusa tutta quella faccenda.
Avrebbe dovuto fare altrettanto anche lei: smettere di rimuginarci sopra e passare ad altro, ma non ci riusciva. Un po' era la curiosità – che cos'è un poliziotto senza un po' di sana curiosità? - e un po' era qualcosa che ancora le bruciava dentro e la rendeva nervosa ogni volta che ripensava a quell'indagine.
Non poteva smettere di rammaricarsi di come erano andate le cose alla lavanderia. L'ispettore era inspiegabilmente sparito per diverso tempo, e lei si era trovata a fronteggiare una situazione nella quale non aveva saputo agire nel modo giusto.
Avrebbe preferito poter incolpare lui dell'averla lasciata da sola in quel casino, ma la sua onestà le impediva di scaricare in quel modo le proprie responsabilità.
La verità - e questo non poteva evitare di ripeterselo – era che non era stata all'altezza.
Aveva aspettato troppo, nell'inutile speranza che lui si facesse vivo, e così nel frattempo era arrivato anche quel pazzo di Kimura. E lei non aveva avuto la prontezza di cambiare piano, dando per scontato che si sarebbero arresi entrambi.
Era finita che lui aveva preso in ostaggio il bambino, e la cosa si era conclusa bene per puro miracolo, e di certo non per merito suo.
Sospirò, chinando il capo. Aveva già notato come la guardavano i colleghi più anziani: non le avevano detto nulla, ma sapeva cosa pensavano.
Poggiò la testa sulle braccia conserte, abbattuta. Tanti anni di impegno e serietà, tanta fatica per avanzare di carriera e farsi accettare anche se era una donna... ed ora si sentiva come se dovesse ricominciare tutto da capo. Sospirò di nuovo, più pesantemente. Era sera inoltrata e in centrale c'erano pochi colleghi, così si concesse di cedere un po' allo sconforto, rimanendo immobile con il viso nascosto.
“Va tutto bene?”
Fujita sollevò il capo di scatto: non si era accorta che fosse entrato qualcuno.
“Ispettore! - Cercò di darsi rapidamente un contegno. - Sì, grazie. E' per via del turno di notte, sono un po' stanca.”
“Ne sei sicura?”
“Certo! Perché me lo chiedi?”
“Sembri parecchio assente, ultimamente. E sei diventata molto formale, Vice Ispettore. Non dico che tu debba riprendere a chiamarmi Capitan Scotch, ma... ”
Lei arrossì. La verità era che ultimamente non era per nulla in vena di fare dell'umorismo: era come se non se ne sentisse in diritto.
“Non è niente. Sarà un periodo storto.”
Nishimura si sedette sulla scrivania, mettendosi praticamente di fronte a lei e costringendola ad arretrare un po' con la sedia.
“Perché invece di queste banalità non mi dici qual'è il vero problema?”
Lei fu tentata di negare ancora, poi si decise a vuotare il sacco. In fondo non aveva mai avuto segreti per Nishimura, e lui le aveva sempre dato buoni consigli.
Gli raccontò tutto, e dalla sua espressione indovinò che l'ispettore doveva aver già capito da solo come lei si sentisse. In fondo la conosceva piuttosto bene.
Quando finì di sfogarsi, lui scrollò le spalle, guardando fuori dalla finestra.
“E quindi? Cosa vorresti dire, che improvvisamente non sei più un buon poliziotto?”
“Dico che ho fatto un errore.”
“Pensi che tutti quelli che ti guardano dall'alto in basso non abbiano mai sbagliato? Che abbiano collezionato solo successi?”
“Beh, no.”
“Perché credi che fossero tutti lì ad aspettare che tu facessi qualcosa di poco brillante?”
“Perché sono degli antiquati maschilisti?”
“Sì. E perché l'idea che una donna possa essere più brava di loro non li faceva dormire tranquilli. Ti preoccupa la qualità del loro sonno?”
Lei ridacchiò.
“No, non molto.”
“Bene.”
“Rimane il fatto che per colpa mia un bambino si è trovato con una pistola alla tempia.”
“Fujita, forse c'era un modo migliore di guidare quell'azione. Forse qualcun altro avrebbe agito diversamente. - Nishimura si sporse in avanti, poggiando un gomito sulla gamba piegata. - Ma non esiste qualcosa che ti garantisca il successo in queste situazioni. Facciamo il meglio che possiamo: a volte funziona, a volte succedono guai come questo. Non ha senso parlare di colpa.”
Avrebbe voluto aggiungere che una buona fetta di responsabilità spettava anche a lui, che l'aveva lasciata da sola in quel modo, ma evitò: non voleva esporsi alle domande che lei era riuscita a non fargli fino a quel momento.
Lei sospirò una terza volta.
“Uhm.”
“Niente mugugni. Finisci il turno, dormici sopra, e domattina vedrai con i tuoi occhi che è così.”
Fujita annuì, le labbra ancora serrate in una piega sottile e nervosa.
“D'accordo.”
“Nessuno si aspetta che tu non cada mai. - Allungò una mano, facendole alzare il viso. - Ma io mi aspetto che tu ti rialzi, quando succede.”
Lei arrossì leggermente, poi finalmente sorrise.
“Ci proverò. Grazie, Capitan Scotch...”
"Vice Ispettore Fujita Ryoko!"
Lei scoppiò a ridere, e a lui parve un'ottima cosa.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Mouri Shin ***


La stanza era inondata di luce, e Shin strizzò istintivamente gli occhi mentre passava dal sonno alla veglia. La sera prima si era buttato nel futon subito dopo aver chiuso la telefonata con Touma: aveva viaggiato diverse ore per tornare ad Hagi, e doveva ammettere che si stancava ancora con una certa facilità.
Non era strano: si era svegliato da appena un paio di giorni da quel lungo e innaturale sonno che lo aveva indebolito invece di farlo riposare, e di certo avrebbe avuto bisogno di ancora un po' di tempo per riprendersi del tutto.
Cercò di mettere a fuoco la stanza attorno a sé, e vide la figura seduta a terra lì accanto, tra lui e la finestra.
Il sole radente ne rendeva visibili soltanto i contorni e pochi dettagli, per il resto era una sagoma resa scura dal controluce.
Shin cercò di uscire dal torpore del sonno mentre osservava il profilo dolce del viso, i capelli raccolti in una semplice coda bassa, il bavero della camicetta bianca e la gonna al ginocchio.
Girò il capo ed allungò una mano per sfiorarla, e lei si girò sorpresa. Sembrava fosse appena emersa da una serie di pensieri che l'avevano completamente assorbita.
“Shin! Come ti senti?”
“Sayoko... Come mai sei qui?”
“Ero... beh, ero preoccupata.”
“Sto bene, te l'ho detto anche ieri sera.”
“Lo so, non volevo disturbarti. Ma ho provato chiamarti diverse volte stamattina, ed il telefono continuava ad essere spento... Così ho preferito passare a vedere se era tutto a posto.”
“Diverse volte? Scusa, ma che ore sono?”
“E' quasi ora di pranzo. Di solito non dormi mai così a lungo, mi è sembrato strano...”
Shin si tirò su a sedere. Non si era assolutamente accorto di aver dormito così tanto, ecco perché la luce era così forte!
“Perchè non mi hai svegliato?”
“Dormivi così profondamente... - Sospirò - Devi essere ancora molto stanco.”
“Mi spiace averti fatto preoccupare. Non c'era bisogno che ti precipitassi fin qui.”
“Non è poi così lontano. E forse avevo bisogno di rimanere un po' in questa casa. Mi manca.”
Shin le prese una mano, stringendola tra le sue.
“Lo sai? Poco fa, quando mi sono svegliato... Per un attimo mi è sembrato di vedere la mamma. Le somigli davvero tanto.”
Sayoko si lasciò sfuggire un lieve singhiozzo, portandosi una mano alla bocca.
Lo abbracciò, attirandolo più vicino a sé. Le sembrò di ripetere lo stesso gesto di tantissimo tempo prima, quando per la prima volta avevano dormito in due stanze diverse.
I genitori avevano deciso che erano abbastanza grandi per avere ognuno una camera propria, ed entrambi erano stati felici ed eccitati all'idea di uno spazio tutto per sé.
Ma poi, una volta infilata nel futon e spenta la luce, Sayoko si era resa conto di sentirsi un po' sola senza il fratellino. Non aveva fatto in tempo a decidere se aveva o meno il coraggio di disobbedire ai genitori e correre da Shin, che se l'era trovato sulla porta, il capo chino e lo sguardo un po' imbarazzato. Ricordava bene che avevano dormito nello stesso futon, e la mattina dopo la madre li aveva trovati così. Le era sembrato così strano che non li avesse sgridati, mentre ora invece sapeva il perché.
Era successo solo quella notte, poi si erano abituati velocemente alla novità.
Si sollevò in piedi, lisciando le pieghe che si erano formate sulla gonna.
“Riposa un altro po', ne hai bisogno.”
“No, non ho più sonno. Devi tornare a casa?”
“Beh, Shizuka tornerà solo per cena, e i bambini sono a scuola. Hai bisogno di qualcosa?”
“Perchè non ti fermi a pranzo qui? Cuciniamo insieme qualcosa, e parliamo un po'. Domani riprendo a lavorare, approfittiamo di questa giornata...”
Sayoko sorrise, mentre gli lanciava una felpa.
“Vestiti, allora! E' ora che tu mangi qualcosa di buono!”
“In tal caso, dovrò cucinare io!”
“Ma... ragazzino impertinente, hai dimenticato chi è il miglior cuoco tra noi due?”
Shin si lasciò sfuggire una leggera risata mentre si dirigeva verso il bagno.
“No, direi proprio che me lo ricordo benissimo! Ci metto un attimo, non combinare guai in cucina, nel frattempo...”
Sayoko ridacchiò, mentre usciva nel corridoio: la gara culinaria tra loro due era nata che ancora erano bambini, ed erano sempre stati entrambi piuttosto bravi. Era una vita che non si sfidavano più ai fornelli, e doveva ammettere che questo vecchio gioco un po' le mancava.
Ripensò a quello che le aveva detto Hashiba quando erano a Villa Yagyu. Forse era vero, non poteva proteggere Shin da tutto quello che doveva affrontare nella sua vita di samurai, ma poteva fare ugualmente qualcosa: essere sua sorella.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Yamada Iwao ***


La ferita alla gamba bruciava da morire, e la bocca della pistola sembrava pronta a bucarlo da qualche altra parte. Iwao si toccò la fronte, cercando di calmare il respiro, e vide quanto tremava la sua mano. Chissà se era per la crisi di astinenza, per tutto il sangue che stava perdendo o perché stava per farsela letteralmente sotto per la paura...
“Allora? Ti ho fatto una domanda, stronzo. Non mi hai sentito?”
“Co-cosa?”
Iwao sollevò lo sguardo sull'uomo che torreggiava su di lui, tenendolo sotto tiro. Poco più in là c'erano altri tre ceffi, ma quello era sicuramente il capo.
“Ti ho chiesto che cazzo ci fai qui.”
“Io... volevo solo un po' di roba. E' un sacco di tempo che non prendo niente... Ho solo bisogno di qualche pasticca, davvero.”
Qualche pasticca?”
L'uomo sembrava ancora più arrabbiato. Gli scagnozzi dietro di lui erano immobili, e guardavano Iwao come se fosse praticamente già morto.
“Sì... Devo... devo prendere qualcosa.”
“Senti, povero deficiente dai capelli colorati: forse a Tokyo siete tutti scemi, ma qui no. - Gli sventolò davanti al naso il sacchetto di metanfetamine che Iwao aveva cercato di comprare poco prima. - Nessuno compra tutta questa roba in un colpo solo per farsi, ok? Tu volevi metterti a spacciare la mia roba nel mio quartiere.”
“No...”
“Sta' zitto! - Gli mollò un calcio nell'altra gamba, e Iwao si rannicchiò. - I ragazzi hanno controllato: non hai nemmeno i soldi per pagare.”
Iwao deglutì un bolo di saliva dal sapore ferroso. Era vero, non aveva uno yen. Era andato a rintanarsi in quella cittadina, il più lontano possibile da Tokyo, o almeno lontano quanto poteva arrivare con i due spiccioli che era riuscito a raccogliere prima di scappare. Ma i soldi erano finiti subito, e lui aveva un gran bisogno di prendere qualcosa. E di altri soldi.
L'unica idea che gli era venuta – che poi era sempre la stessa che gli veniva ogni volta – era stata di comprare un po' di roba, e provare a rivendere quella che non si sarebbe calato.
Non si era fatto molte domande su come avrebbe fatto a pagarla: non era un asso nella programmazione a lungo termine, e quando era un po' che non prendeva niente era anche peggio.
Ed ora era steso sull'asfalto di un parcheggio, con un proiettile conficcato poco sopra al ginocchio.
“Quindi... posso fare due ipotesi: o pensavi di prendere le pasticche e scappare senza pagare, oppure sei uno della polizia.”
“Della polizia? - Iwao cominciò a scuotere forsennatamente la testa. - No, no... niente polizia, davvero! Te lo giuro!”
“Ah sì? Compari dal niente, nessuno ti ha mai visto, cominci a chiedere qua e là dove comprare un po' di roba... Sei una merdosa spia degli sbirri!”
“No, No, davvero! Io... sono venuto qui perché devo nascondermi! Sono scappato da Tokyo, davvero!”
Iwao ormai piagnucolava, ma l'uomo non cambiò espressione.
“Nasconderti da cosa?”
“Dalla polizia! Ho sparato ad un tizio, l'ho ammazzato! Dovevo scappare, capisci? Mi stanno cercando!”
L'uomo si chinò su di lui e lo afferrò per il giubbotto.
“Ti cercano?! Brutto imbecille, quindi hai i poliziotti nella scia!”
Lo ributtò a terra, poi si rivolse agli uomini dietro di lui.
“Ammazzatelo e buttatelo da qualche parte, non voglio gente che porta guai o che sbraca con gli sbirri.”
Iwao cominciò a tremare così forte che sembrava dovesse svenire da un momento all'altro.
Lo avevano sollevato in due tenendolo per le spalle, quando diverse sirene cominciarono a risuonare dall'altro lato dell'isolato.
I tizi che lo avevano preso si consultarono velocemente, poi lo ributtarono a terra e sparirono in pochi istanti.
Le sagome di alcuni agenti sbucarono dall'angolo poco prima che Iwao riuscisse a rimettersi in piedi: mentre lo caricavano sull'auto di pattuglia, nonostante la mente ormai annebbiata, capì che stavolta non sarebbe riuscito a cavarsela.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Sanada Ryo ***


A svegliarlo era stata una serie di battiti cardiaci accelerati, seguiti dalla sensazione di non riuscire a respirare bene. Quando era teso come in quel momento, sembrava che tutta la pressione gli si scaricasse sul torace e lo bloccasse come una tenaglia: era costretto a fare due o tre lunghi respiri prima di riuscire a rilassarsi e togliersi quella sensazione d'oppressione.
Era come ansia divenuta fisica, e questa volta non nasceva da brutti pensieri o preoccupazione. Stavolta, da quando era rientrato da Tokyo, Ryo si sentiva come se tutto il suo malessere avesse a che fare più con il corpo che con la mente. O forse, più ancora con quella zona di sé stesso che era per metà corpo e per metà yoroi. Quella terra di nessuno sulla quale aveva sempre la sensazione di non avere il completo controllo.
Si mise a sedere e si guardò attorno: non si stupì di vedere che anche quella mattina Byakuen non era lì.
Il ritorno dell'armatura bianca aveva sicuramente cambiato molte cose; anche se non l'aveva ancora indossata, se non per il breve istante in cui l'aveva assorbita, Ryo era pronto a scommettere che il ritorno della Kikoutei avesse risvegliato anche un altro fantasma che era scomparso nella larga pianura africana, quando tutte le vecchie yoroi erano andate distrutte.
In tutti quegli anni si era chiesto più volte se kokuenoh si fosse davvero dissolto o se fosse rimasto sopito all'interno dell'animo di Byakuen, in attesa di essere risvegliato ancora.
Il comportamento della tigre era già un buon indizio su quale fosse la risposta: spariva spesso, sfuggiva alle sue attenzioni... così come lui faticava ad abituarsi alla kikoutei, anche Byakuen sembrava stesse cercando un nuovo equilibrio.
Ryo si diresse verso il bagno, si sciacquò velocemente il viso, si sfilò il pigiama ed indossò una maglietta ed un paio di vecchi jeans sformati. Era metà maggio, e l'estate sembrava già alle porte.
Si affacciò al balcone della sua camera, cercando di scorgere la candida figura dello spirito tigre tra il verde scuro degli alberi. Anche quella mattina si era svegliato praticamente all'alba, aveva ancora almeno un'ora libera prima di andare al lavoro.
Senza rendersene contò, sposto i propri pensieri sui suoi nakama. Di certo a quell'ora c'era almeno un altro di loro che aveva già lasciato il tepore del futon: Seiji era abituato a svegliarsi sempre molto presto, ma tutta l'ansia che lo stava tormentando aveva reso anche Ryo piuttosto mattiniero.
Quando aveva vestito per la prima volta l'armatura dell'imperatore splendente, più o meno venticinque anni prima, era stato tutto diverso. Erano agli sgoccioli di una battaglia disperata, ormai convinti di non avere i mezzi per fermare davvero Arago.
Era apparsa quella armatura dal potere immenso, e lo avevano preso come un dono insperato e decisivo. Tutto ciò che era accaduto dopo era stato un susseguirsi frenetico di eventi, sempre più pericolosi e difficili.
Usare la Kikoutei era divenuto subito necessario e naturale, e non si erano fatti molte domande; non ne avevano avuto il tempo, e forse nemmeno la maturità.
Ma ora era abbastanza vecchio da sapere cosa comportava un'arma come quella, cosa poteva divenire, e cosa poteva scatenare. Per lui, che desiderava soltanto un'esistenza semplice – non facile, a quello si era rassegnato da tempo – e lontana dal clamore e dal mondo, racchiudere in sé qualcosa dal potere così immenso era una condanna.
Se si fermava a pensare davvero al potere distruttivo dell'Imperatore Splendente, la responsabilità di cui era stato investito lo faceva sentire sul punto di soffocare.
Fu riscosso dai propri pensieri da passi alle sue spalle.
“Sei già sveglio? Non sono nemmeno le sei e mezza.”
“Ryo si voltò verso suo padre. Indossava ancora il pigiama, ma si poggiò alla balaustra accanto a lui, osservando il bosco alle spalle della casa.
“Scusami, mi spiace se ti ho svegliato.”
“Alla mia età si prendono i ritmi dei bambini, sai? Si va a letto presto, e ci si sveglia ancor prima. Ma tu sei sempre stato come un gatto, questo non è orario per te... C'è qualcosa che non va?”
“Niente di grave. Sono un po' teso, forse. Vedrai che mi passerà presto.”
“Ryo, siamo tornati da Tokyo da più di un mese, ormai, e non mi pare che tu sia a posto. Dopo quello che è successo, non credi che sia inutile cercare di tagliarmi fuori da queste cose?”
“Non voglio tagliarti fuori.”
Ma non voglio nemmeno dirti che la tua camera confina con l'equivalente di cento bombe atomiche.
“E' successo qualcosa dopo che sono tornato a casa? Tu e i tuoi amici avete avuto dei problemi?”
Ryo sospirò, cercando un modo di aprirsi almeno un po', ma senza svelare ciò che davvero lo preoccupava.
“Hai... Hai mai avuto la sensazione di avere una responsabilità molto più grande di te? Più grande di quanto tu sia in grado di gestire?”
L'uomo si fermò un attimo a pensare. Non sembrava stesse cercando un ricordo, quanto piuttosto che stesse decidendo se parlarne o meno.
“Una volta, molti anni fa, mi trovai in una situazione in cui non riuscivo a decidere cosa fosse più giusto. - Ryo si volse completamente verso di lui, aspettando che continuasse. - Mi trovavo in Sud America, in una zona tormentata da scontri e guerriglia.”
“Sei stato un fotografo di guerra?”
“No... Ero lì con una spedizione scientifica, come sempre. Quando eravamo partiti la situazione non era preoccupante, ma nei mesi in cui eravamo là precipitò velocemente. In quei giorni stavamo discutendo se tornare a casa o meno, quando per caso assistetti ad una azione di rappresaglia in un villaggio, e feci diverse foto. Ero praticamente paralizzato dalla paura, ma scattare quelle foto fu quasi un gesto automatico. La sera, al campo, mi ritrovai a svilupparle e a chiedermi cosa avrei potuto fare. Volevo denunciare quegli uomini, e ne parlai con la nostra guida.”
Ryo annuì.
“Ma lui mi disse che il militare che compariva nelle mie foto e che aveva ordinato l'attacco al villaggio era un elemento chiave di un equilibrio che si stava appena formando tra le parti, e che se lo avessi fatto arrestare l'equilibrio si sarebbe rotto, e la pace si sarebbe allontanata ancora di più. In sostanza, anche se in nome della giustizia, avrei fatto più male che bene.”
"Come è possibile che un uomo come quello potesse contribuire alla pace?"
"Oh, quel bastardo non era interessato e porre fine agli scontri, ma soltanto ad accrescere il suo potere. Tuttavia la sua scalata stava accentrando su di lui parecchie forze: alcuni si univano a lui, altri lo temevano. In un modo o nell'altro, si creava una situzione più semplice e stabile."
“Quindi hai lasciato che rimanesse impunito?”
“Ero davvero combattuto. Per quel che ne sapevo, la nostra guida poteva avermi mentito, magari era dalla loro parte. Mi arrovellai a lungo, senza parlarne con nessuno per paura di essere condizionato dalle persone sbagliate. Vedevo nemici ovunque. Ma alla fine mi resi conto che non conoscevo la situazione di quel paese abbastanza da prendere da solo una decisione, e capii che dovevo farmi aiutare. Chiedendo in giro, con molta cautela, riuscii a venire in contatto con una associazione umanitaria che operava più a sud.”
“E cosa ti dissero?”
“Purtroppo mi confermarono quello che mi aveva detto la guida. Uno di loro mi chiese di fidarmi di lui. Si fece consegnare le foto, e mi promise che ne avrebbe fatto buon uso.”
“E gliele hai date? Cosa ne ha fatto?”
“Sì, gliele ho date. Sono tornato in Giappone, e per molto tempo non è accaduto nulla. Seguivo la politica di quel pezzo di mondo per capire se avevo sbagliato a fidarmi. Non solo quell'uomo era ancora libero, ma aveva fatto carriera nell'esercito e acquisiva sempre più potere. Mi sentivo un vero idiota.”
“Non avevi più i negativi?”
“Li avevo. Li ho ancora, in realtà, ma avevo fatto una promessa e non volevo ancora infrangerla. Poi, dopo tre anni, venni a sapere che lo avevano arrestato: i giornali erano pieni delle mie foto. Il mio amico aveva aspettato che le cose fossero a posto, e poi aveva mantenuto la sua promessa.”
Ryo rimase a fissare il padre, che aveva concluso il proprio racconto, e sembrava preda dei ricordi.
Il viso era malinconico, ma sorrideva.
“Non mi avevi mai raccontato questa storia.”
Lui scrollò appena le spalle.
“L'importante è che tu abbia colto la morale.”
“Che sarebbe?”
“Non andare a lavorare in zone di guerra.”
“Papà!”
L'uomo rise, poi si fece di nuovo serio, e posò una mano sulla spalla di Ryo.
“Dai, scherzavo. La morale è: se pensi di non farcela da solo, lasciati aiutare.”
Ryo annuì, serrando le labbra. Non era il tipo di risposta che voleva sentire.
“I tuoi amici non possono aiutarti in questo? Condividono la tua stessa battaglia, no?”
Ryo sospirò.
“Questa volta no. Questa cosa è soltanto mia. Non può essere diverso.”
Il signor Sanada serrò le labbra, in un gesto simmetrico a quello del figlio. Anche questa era una risposta che non voleva sentire.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Rei Fan Shu ***


Aveva il fiatone, ma era riuscito a fare una serie completa di cinquanta flessioni. Niente a che vedere con i ritmi a cui era abituato prima che una pallottola lo passasse da parte a parte, ma Shu era abbastanza soddisfatto. In fondo non erano ancora passati due mesi da quando era successo, e sapeva che un recupero come il suo sarebbe stato praticamente impossibile per chiunque altro.
Anche i suoi stessi nakama avrebbero avuto bisogno di più tempo: benchè Shu evitasse di farne mostra, lui era più forte degli altri.
Alla sua corporatura massiccia si aggiungeva la forza di Kongo, che era l'unica delle cinque yoroi ad essere costantemente in contatto con il proprio elemento.
Quando il battito del cuore fu di nuovo ad un ritmo normale, si stese sulla schiena, deciso a provare qualche esercizio per gli addominali. L'ultimo tentativo era stato un disastro, ma erano almeno un paio di settimane che non provava, e si sentiva decisamente meglio della volta precedente.
Piegò le gambe per un appoggio più stabile, e provò qualche movimento non troppo brusco. Sembrava che andasse abbastanza bene, così cercò di sollevarsi a sedere senza il sostegno delle braccia. La fitta di dolore arrivò così improvvisa che ricadde giù a terra in un istante. Si ritrovò raggomitolato su un fianco, gli occhi strizzati e le mani premute sull'addome.
Doveva anche aver gridato, perché quando riaprì gli occhi vide sua madre sulla soglia, che lo fissava con sguardo severo.
“Shu!”
“Sto bene...” Borbottò, consapevole di risultare piuttosto ridicolo. Anche il suo ultimo nipotino di due anni si sarebbe accorto che stava mentendo.
“C'è davvero bisogno di sforzarsi così? Non puoi semplicemente aspettare di guarire?”
Shu si mise a sedere, cercando di riprendersi in fretta.
“Non lo so, mamma. Non è che io voglia fare a tutti i costi lo spaccone, ma...”
“Vorresti essere già a posto. - Si avvicinò, posandogli una mano sulla spalla. - La pazienza non è mai stata una tua virtù, purtroppo.”
“E' che essere così mi fa sentire... vulnerabile.”
“Non puoi vivere costantemente con un'arma in pugno. Hai anche tu il diritto di fermarti, quando ne hai bisogno.”
Shu avrebbe voluto dirle che – quando si trattava di Youia o altre bestie del genere – non esistevano diritti. Al limite doveri, ma non era un argomento che potesse far piacere a sua madre.
Si alzò in piedi, lasciandole un leggero bacio sulla tempia.
“Vado a fare un bagno, per oggi ho sudato a sufficienza.”
Lei lo osservò uscire un po' frettolosamente, chiedendosi fosse giusto lasciar cadere il discorso.

 

Shu si chiuse alle spalle la porta del bagno, poi aprì l'acqua per cominciare a riempire la vasca.
Si svestì con un paio di gesti distratti, ma quando passò davanti allo specchio non potè fare a meno di fermarsi. Anche volendo, era piuttosto difficile non notare il grosso segno che spiccava ora poco sotto le costole, spostato un po' verso sinistra. Era scuro e sporgente, e la pelle attorno era arrossata e tesa. Col tempo si sarebbe lentamente schiarito, ma sarebbe sempre rimasto ben visibile: un piccolo nodo indurito, uguale al suo gemello, che spiccava sulla schiena.
Non aveva molte cicatrici: curiosamente, le più visibili se le era fatte da bambino, giocando con i suoi fratelli. Delle battaglie affrontate in quegli anni conservava pochissimi segni, un po' per la protezione fornita dall'armatura, un po' perché spesso era intervenuta Kourin.
Questa volta, diversamente dal solito, Seiji non si era fatto avanti per cercare di migliorare la situazione, e Shu non aveva chiesto nulla. Sapeva che tutte le armatura erano instabili, dopo tutto quello che era successo con Izumi e soprattutto dopo che avevano richiamato nuovamente la Kikoutei, e non aveva voglia di attirare nuovamente l'attenzione sulla sua ferita.
Aveva sentito su di sé lo sguardo di disapprovazione e preoccupazione di Shin ogni volta che si era lasciato sfuggire un lamento o che si era fermato a metà di un movimento, colpito da una fitta improvvisa, e preferiva far finta di nulla.
Da quando si erano separati si erano sentiti tutti piuttosto spesso.
Persino Seiji sembrava aver vinto almeno in parte la propria repulsione per la comunicazione via telefono – naturalmente telefono fisso, con i cellulari probabilmente non sarebbe mai sceso a patti - e lo aveva chiamato diverse volte. Si era informato sulla sua guarigione, ed ogni volta Shu aveva avuto la sensazione che gli stesse nascondendo qualcosa.
Decise che ne avrebbe parlato con gli altri: con Shin, che aveva quella capacità di capirli tutti anche solo con uno sguardo, o con Touma, che sul loro enigmatico nakama sembrava sempre sapere qualcosa di più.
Si accorse di essersi bloccato a riflettere quando vide che la vasca era quasi piena e la stanza si era saturata di vapore.
Si immerse, poggiando la testa all'indietro e lasciando che il caldo cancellasse la tensione dei muscoli.
In tutti quegli anni erano successe tante cose, eppure si rese conto che questa storia l'aveva cambiato molto di più di tutte le altre volte.
Il fatto che ultimamente si fosse ritrovato piuttosto spesso a riflettere fino ad assentarsi da tutto ne era la riprova.
In passato, ogni volta che erano arrivati a rischiare il tutto per tutto, che erano arrivati ad un passo dalla sconfitta, era stato rimesso in piedi da una rabbia ed una voglia di rivalsa che gli avevano permesso di ricominciare di nuovo senza paura e senza stanchezza.
Ora quei sentimenti gli apparivano quasi immaturi e pericolosi.
Era davvero strano: aveva sentito mille appelli alla prudenza ed alla ragionevolezza dai suoi nakama, in tutti quegli anni, ma era come se gli fossero passati da un'orecchia all'altra senza attraversare il cervello.
Ora invece gli sembrava di capire davvero cosa significassero, come se all'improvviso la sua mente li avesse finalmente tradotti in qualcosa di comprensibile.
Era proprio vero che non si impara davvero una lezione fino a che non la si sperimenta sulla propria pelle.
Non avrebbe saputo dire cosa fosse successo stavolta – non era certo la prima volta che rischiava così tanto – tale da riuscire a cambiarlo in questo modo, eppure Shu si sentiva finalmente in grado di mantenere le promesse fatte.
Che fosse arrivato il momento di mettere la testa a posto?
Chiuse gli occhi, lasciandosi sfuggire un profondo sospiro. Per la prima volta, invece di sentirsi una specie di leone in gabbia, trovò questa idea rassicurante.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Date Seiji ***


Seiji si avvicinò il dito alla bocca, imprecando sottovoce: ultimamente era così distratto che era persino riuscito a tagliarsi mentre potava i bonsai.
Era ormai metà dell'estate, e da quando erano tornati da Tokyo non era successo nulla di preoccupante.
I suoi nakama stavano abbastanza bene: Shin sembrava sereno, Ryo era il solito orso, ma senza quegli estremi a cui arrivava quando non stava bene, e anche la ferita di Shu sembrava stesse diventando lentamente un ricordo. Touma era sempre il solito Touma, e Seiji poteva avvertire chiaramente tutte le manovre che il suo nakama faceva per tenerlo d'occhio senza farsi troppo notare.
Sorrise all'idea: prima o poi avrebbe dovuto dirgli la verità: c'era un che di comico nel fatto che Touma fosse convinto di potergli ronzare attorno senza che lui se ne accorgesse.
E c'era un'altra cosa che avrebbe dovuto dirgli, non appena ne fosse stato davvero sicuro. Ne avrebbero dovuto parlare tutti, e Seiji si sentiva un po' in colpa. Non per quello che stava succedendo – in fondo lui non ne aveva alcun controllo – ma perché c'era un angolo del suo cuore che si sentiva sollevato a questa idea, anche se in realtà non era affatto una buona notizia per loro.
Allontanò la mano dalle labbra, ed osservò il taglio: era piccolo ma abbastanza profondo, e forse era arrivato il momento di verificare se le proprie sensazioni erano giuste.

 

L'aria era decisamente estiva: erano diverse settimane che non pioveva, e a metà luglio era piuttosto insolito; Touma non amava il caldo, ma alle altezze alle quali viaggiava l'aria era sempre fresca.
Quando aveva dovuto volare a marzo, in cerca dei suoi due nakama scomparsi, aveva decisamente sofferto il freddo, ma in quella stagione volare al di sopra delle nuvole era piacevole.
Erano ormai passati due mesi e mezzo dall'ultima volta che erano stati tutti assieme, ed erano rimasti più o meno sempre in contatto.
Touma era abbastanza tranquillo a proposito di Ryo, Shu e Shin: anche solo sentendoli al telefono aveva la sensazione di avere tutto sotto controllo.
Ma se si trattava di Seiji, niente era mai ovvio, soprattutto dopo ciò che si erano detti in quella dolorosa sera.
Più ripensava a ciò che il suo nakama gli aveva confessato, meno gli sembrava di avere una soluzione. E così, pur di non far nulla, aveva preso l'abitudine di andare a Sendai una volta ogni dieci, quindici giorni. Volava fino al giardino di Casa Date, si appostava in qualche zona nascosta, e osservava Seiji.
Cercava di capire come stesse dai suoi gesti e dai suoi sguardi: aveva così notato con piacere che il rapporto tra Seiji e Kuniyaki sembrava ristabilito, e che il suo nakama appariva spesso calmo e quasi sereno.
Si sentiva un po' ridicolo a starsene acquattato dietro un cespuglio ad osservare, ma non riusciva a farne a meno: appena passavano troppi giorni senza aver fatto una di queste “visite”, l'urgenza di correre a controllare che fosse tutto a posto lo costringeva a sollevare di nuovo i piedi dalla sua terrazza, e volare fino a lì.
Quello che avrebbe davvero voluto fare, invece che osservare da lontano, sarebbe stato correre ad abbracciarlo, tempestarlo di domande e tormentarlo fino ad essere del tutto sicuro che le cose andassero bene, ma la consapevolezza della reazione di Seiji ad un simile assalto era sufficiente a tenerlo ben nascosto.
C'era stato solo un momento, tantissimi anni prima, in cui Seiji si era concesso di cercare il contatto fisico, ed era stato nei mesi successivi alla definitiva sconfitta di Arago.
Invece di sfuggire ad ogni effusione troppo evidente come era solito fare, Seiji si lasciava avvicinare da ognuno di loro, arrivando ad abbracciare Shin o concedendosi di addormentarsi con la spalla poggiata a quella di un Touma così preso dalla lettura da non accorgersene se non a cose fatte.
Touma si era chiesto più volte da cosa nascesse questo bisogno. Aveva ipotizzato fosse per la momentanea euforia dell'essersi liberati di un simile nemico, ma poi aveva capito che c'era di più.
Sembrava quasi che Seiji sentisse il bisogno di un calore ed un conforto diversi, e Touma era giunto alla conclusione che fosse per via dei tormenti subiti durante la prigionia nello Youiakai.
Anche Shin e Shu apparivano più fragili, ma per loro il conforto reciproco era così naturale che inizialmente era passato inosservato.
Touma sentiva qualcosa tremare dentro di sé, quando provava ad immaginare cosa avessero sopportato i suoi nakama, e sentiva ogni istante trascorso prima che lui e Ryo potessero raggiungerli e liberarli come un doloroso e imperdonabile ritardo.
Per questo, quando Seiji lo sfiorava, o gli posava una mano su una spalla, in quei giorni Touma si sentiva come se il dolore dell'amico si riversasse intero dentro di lui.
Nel giro di poco avevano notato tutti questo cambiamento, ma si erano dovuti rassegnare presto al fatto che Seiji si era rapidamente richiuso, non appena superato il momento peggiore.
Touma sospirò, ripensando a quante volte, in quegli anni, avrebbe preferito che Seiji fosse più facile da raggiungere. Fu distratto dalla vista dei primi quartieri di Sendai: era quasi arrivato.

 

Seiji sentì un familiare formicolio partire dal petto e dirigersi verso la mano, ma dopo poco si spense, disperdendosi lungo il braccio. Strinse le labbra e socchiuse gli occhi, davanti alla conferma di ciò che sospettava già da un po'.
Era il momento di parlare ai suoi nakama, non poteva rischiare che qualche altra minaccia si presentasse senza che avessero tutti chiara la situazione.
Sospirò e sorrise debolmente quando sentì l'aria vibrare di qualcosa di familiare: a quanto pareva, il momento di parlare era arrivare prima di quanto aveva previsto.
Si sollevò in piedi senza voltarsi verso il giardino, ma la sua voce squillò chiara ed appena un po' alta, e Touma non potè evitare di capire ogni parole ed arrossire all'istante.
“Vieni fuori, Touma. C'è una cosa di cui ti devo parlare.”
Il samurai del cielo emerse da dietro le piante e raggiunse il compagno sul piccolo patio di legno da cui si accedeva al suo appartamento.
“Mi hai sentito? - Seiji si limitò ad annuire, sforzandosi di non sorridere. - Ah. Immagino che non sia la prima volta, vero?”
Annuì di nuovo, ma stavolta non riuscì a non guardarlo negli occhi. Il suo sguardo brillava divertito, ma si dispiacque un po' dell'evidente imbarazzo del suo nakama.
Touma entrò in casa, scuotendo appena il capo.
“Stupido io a non aspettarmelo. - Si sedette a terra, di fronte a lui. - Di cosa mi devi parlare? Va tutto bene?”
Seiji si fermò un attimo a riordinare le idee: in realtà, non gli era stato concesso molto tempo per prepararsi un discorso.
“Si tratta di una cosa che sospettavo già da un po'. Praticamente da quando ci siamo separati.”
Touma annuì, lasciando che continuasse.
“Ho notato quasi subito che era cambiato qualcosa in Kourin. Probabilmente è cambiato qualcosa in ognuna delle Yoroi, ma nel mio caso... beh, non so dirti bene da cosa nasca. La cosa più sensata che posso ipotizzare è che la nuova Kikoutei assorba una parte di ognuna delle nostre armature, la parte che era più disposta a separarsi dal corpo della yoroi per essere condivisa. La assorbe impedendomi di utilizzarla diversamente. E in effetti avrei potuto aspettarmelo, visto che questa caratteristica di Kourin si era manifestata solo dopo che la prima Kikoutei era stata distrutta.”
Touma aggrottò le sopracciglia.
“Seiji, non sto capendo nulla. Cos'è che non puoi più usare?”
Seiji esitò ancora un attimo, poi si decise.
“I poteri curativi, Touma. - Abbassò lo sguardo sulle proprie mani, poi lo rivolse di nuovo al proprio nakama. - Kourin non li ha più.”

 

 

E questo era il penultimo capitolo. La mia idea originale era di riuscire a parlare di tutti i personaggi comparsi ne “Il giorno dell'incertezza”, e siccome NON mi piacciono gli schemi (nooooooooo, per nulla! XD ) volevo alternare uno di loro 5 ad un altro personaggio. Mi sono resa conto in fretta che non era fattibile: impossibile parlare di Fujita senza mettere in scena Nishimura, o di Shin senza inserire Sayoko... idem per il padre di Ryo e la madre di Shu.
Beh, non stiamo neanche a soffermarci sul fatto che non son riuscita a scrivere di Seiji senza tirare di nuovo in ballo Touma, vero? XD
Quindi i capitoli si sono ridotti a questi, e ormai ne manca solo uno: chi riesce ad indovinare a chi sarà dedicato il capitolo finale?

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Izumi ***


Io sono acqua, ed il mio nome era Izumi.
C'è stato un tempo in cui ero lo spirito di una sorgente.
Prima degli uomini, prima di ogni cosa, io ero nel ventre della terra, e nutrivo i suoi figli. Avevo un letto segreto sotto le zolle erbose, e mille dita sottili che salivano a guardare il cielo. Avevo correnti veloci, ed anse silenziose e lente.
Gorgogliavo il mio canto, e a volte ruggivo la mia forza, unendomi alla pioggia ed uscendo dalla mia strada.
Ho accettato gli argini che gli uomini hanno voluto costruire attorno alle mie spalle, e ho regalato loro tutta l'acqua di cui avevano bisogno.
Non ho avuto paura, quando hanno cominciato a coprirmi e nascondermi. Non ho capito, quando hanno deviato il mio corso, ed imprigionato in mille tubi. Li ho lasciati fare, quando mi hanno contaminato con i loro veleni.
Era ormai tardi, quando ho cominciato a desiderare di tornare libero.
Ho raccolto le mie ultime forze, mi sono alleato con la feccia tra coloro che avevano cercato di uccidermi. Per me non erano diversi da tutti gli altri, non erano diversi dai cinque guerrieri che avevo deciso di spazzare via prima di provare a liberarmi.
Ma uno di loro, uno che è acqua quasi come lo sono io, mi ha insegnato qualcosa che io non sapevo.
Avevo vissuto migliaia di anni, e non avevo mai imparato quanto può essere potente un cuore giusto, e quanto può essere forte l'armatura che lo veste.
Suiko mi ha offerto una nuova casa. Mi ha dato la possibilità di mescolarmi all'acqua che lo nutre, e scomparire in essa.
Non avrei mai pensato di poter trovare la pace perdendomi in mezzo ad altra acqua, divenendo pioggia ed assaggiando il sale che è nel mare.
Ero lo spirito di una sorgente, ed ora sono soltanto acqua.
Solo un rimpianto porto con me, lungo le correnti e le onde: gli uomini mi hanno avvelenato.
Le loro fabbriche, i loro scoli, i loro fumi neri che si mischiano alle nubi e tornano a terra con la pioggia... ecco ciò che ho portato in dote all'armatura che mi ha assorbito.
Ho avvelenato Suiko, e mentre dimentico ciò che ero, per divenire tutt'uno con le infinite gocce che scorrono in essa, è questo l'ultimo pensiero che mi accompagna.



Eccomi qua! ^__^
Ho impiegato talmente tanto a scrivere quest'ultimo capitolo, che quasi avevate dimenticato che questa raccolta non fosse conclusa, eh?
Ero presa dall'ispirazione per "Ritornare", e così ho tardato un po'. Diciamo... un annetto! XD
Ma visto che Izumi tornerà ancora - proprio nei prossimi capitoli di "Ritornare", era decisamente ora che chiudessi questa storia e spiegassi ancora un paio di cose...

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2853928