Carlos e la vecchia porta di quercia. di AllHailTheGlowCloud (/viewuser.php?uid=95426)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo II ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo IV ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** Capitolo VI ***
Capitolo 1 *** Prologo. ***
Questo
era l’ultimo. L’ultimo specchio rimasto da
coprire in
tutta la casa.
Con
le sue piccole mani ancora tremanti strinse forte la
coperta che aveva preso da un cassetto appositamente per coprire anche
quest’ultimo specchio.
Si
arrampicò con un ginocchio sul mobile del bagno e con
tutta la forza che aveva lanciò il telo e questo si
agganciò agli spigoli della
superficie riflettente, restandovi appeso.
Scese
lentamente e si lasciò sfuggire un profondo respiro di
sollievo, con il cuore ancora a mille, tremando flebilmente, mentre una
goccia
di sudore freddo rotolava impietosa lungo la sua tempia.
«Ma
certo che puoi
rimanere qui, Cecil. Oserei dire che dovresti.»
pronunciò con voce melliflua la donna.
Cecil
osservò il
suo ampio sorriso crescere ancora di più e mettere in mostra
ancora più denti.
Poi
passò lo
sguardo sul ragazzo accanto a lei, e anche lui sorrise allo stesso
modo, con un
accattivante bagliore negli occhi neri.
Li
aveva coperti tutti.
Avrebbe
dovuto sentirsi più al sicuro ora, ma quella sensazione non
voleva
andarsene. Era sempre lì… Quell’ombra
evanescente dietro la coda del suo
occhio.
Si
voltò di scatto quando credette di averla dietro di
sé, ma, come
tutte le altre volte, non c’era niente.
«Chi
c’è? Chi o cosa sei? Ti prego, vieni fuori. Mi
stai facendo paura!
Chiunque tu sia, ti prego adess--»
«E’
l’unico prezzo
da pagare. Non mi dirai che è troppo per tutto
questo…» disse sempre più
sorridente la donna – quella che assomigliava tanto a sua
madre – alzando
leggermente un sopracciglio e facendo un ampio gesto col braccio come
ad
indicare… beh, tutto.
Il
bambino rimirò
ancora un po’ le due viti che giacevano appoggiate sul tavolo.
Il
ragazzo – quello
che assomigliava tanto a suo fratello – ne prese una in mano
e gliela porse con
un sorriso incoraggiante.
Cecil
esitò nel
toccarla.
«Beh…
immagino di
no, però…»
Aprì
gli occhi e si alzò un po’ a fatica.
Chissà
quanto tempo era rimasto lì accovacciato nel bel mezzo del
soggiorno, ma a giudicare dalla sua faccia tutta bagnata doveva aver
pianto
parecchio.
Lo
specchio del soggiorno era scoperto.
“Strano”,
pensò, “non ricordo di averlo scoperto”.
Si avvicinò e lo
ricoprì.
Non
era sicuro del perché tutti gli specchi in casa sua fossero
coperti,
ma erano sempre stati così da quando riuscisse a ricordare e
aveva
l’impressione che non potesse essere altrimenti.
«Prima
di tutto
però ho bisogno del mio registratore! L’ho
lasciato dall’altra parte, devo
andare a prenderlo.» disse scendendo dalla sedia.
La
donna spostò il
peso da una gamba all’altra, come a disagio o nervosa.
Un
angolo della sua
enorme bocca si piegò ancora di più
all’insù con fare incerto.
«Non
ce n’è bisogno.
Qui possiamo trovarti tutti i registratori che vuoi, caro.»
provò a
persuaderlo.
«Sì
ma io voglio il
mio. E’ speciale, è un regalo di
mia madre. Si
offenderebbe se lo perdessi, me l’ha regalato
perché è fiera di me. O almeno
credo che lo sia…» spiegò Cecil.
La
donna non batté
ciglio, ma una luce raggelante luccicò nei suoi occhi neri.
«Certamente,
capisco. Allora vai, ma mi raccomando, torna presto.»
proferì la donna, con un
tono fin troppo dolce e condiscendente.
Cecil
vide il ragazzo accanto a lui tremare impercettibilmente.
Entrambi
salutarono
Cecil con la mano, prima che attraversasse la grande porta di quercia.
Un
brivido gli attraversò la schiena.
La
casa era vuota, come era sempre stata, eppure qualcosa ancora lo
disturbava e non lo faceva stare del tutto tranquillo.
Fu
quasi sicuro di vedere qualcosa muoversi dietro la coda
dell’occhio,
ma quando si girò non c’era nulla.
Si
disse che doveva essere stata un’impressione e
scrollò le spalle.
Afferrò
il suo fidato registratore e corse fuori a giocare.
Vide
quasi subito un uomo, poco distante da casa sua, con una giacca e
una valigetta di pelle di cervo.
Si
avvicinò un po’ per vedere meglio, e proprio in
quel momento
valigetta si aprì e uno sciame gigantesco di piccole nere
mosche ronzanti ne
fuoriuscì, oscurando momentaneamente il cielo e riempiendo
l’aria di quel
ronzio assordante.
Quando
si riprese dalla sorpresa e si decise ad avvicinarsi, le mosche
erano volate via tutte quante e dell’uomo non c’era
più traccia, però Cecil
notò qualcosa di curioso a terra: una strana bambola.
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Capitolo 2 *** Capitolo I ***
Carlos scoprì quella porta
poco dopo aver traslocato con la
famiglia.
La casa era molto vecchia, con una
soffitta, una cantina, e
un giardino pieno di erbacce e di grossi e vecchi alberi.
Date le sue notevoli dimensioni,
però, non era occupata
esclusivamente dalla famiglia di Carlos. I suoi ne possedevano solo una
parte.
Nel resto dell’edificio
abitavano altre persone.
Nell’appartamento al pian
terreno, sotto quello di Carlos,
viveva l’anziana signora Josie. La donna viveva in compagnia
di creature – a
detta sua – che chiamava angeli e che –sempre
secondo lei – andavano tutte
sotto il nome di Erika. In passato Josie aveva fatto parte di una
squadra di
bowling ed era stata nominata campionessa per diverse volte di seguito
– come
lei stessa aveva rivelato a Carlos non appena si erano conosciuti.
Nell’appartamento sopra
quello di Carlos, viveva uno strano
uomo mezzo calvo, un barbiere in pensione, che sosteneva di essere
capace di
acconciare i capelli di chiunque, ma la realtà era che non
era neanche capace
di distinguere tra persone e piante, o per lo meno si confondeva
spesso, e i
suoi ultimi clienti, diciamo negli ultimi vent’anni, erano
stati per lo più
cactus.
«Un
giorno, piccolo
Carlo, quando lo riterremo opportuno, ti taglierò i capelli.
Mi domanderai perché
non posso tagliarteli adesso… – in
realtà Carlos non aveva chiesto niente,
aveva solo ribadito che il suo nome finisce con la
“s”: Carlosss
– beh, non è ancora il caso. Voglio
sperimentare dei nuovi tagli prima, ma non riesco a trovare persone
disposte a
fare da cavie. Eppure le ultime con cui ho lavorato si sono dette
più che
soddisfatte… Vedrai, sarà fantastico!»
Carlos era più che
convinto che questi fantomatici clienti
non fossero altro che malcapitati arbusti, dato che da quel poco che
era
riuscito a sbirciare nell’appartamento c’erano rami
tagliuzzati su tutto il
pavimento, inoltre la stanza emanava un tale odore di piante rancide,
così acre
e nauseabondo, che non aveva avrebbe avuto il coraggio di mettere un
piede
all’interno neanche volendo.
Esplorò anche nei
dintorni, in cerca di qualcosa di
interessante per poter fare un po’ di scienza – il
suo sogno era diventare uno
scienziato, dopo tutto. Scoprì che in fondo al giardino
c’era un’ampia foresta
che stranamente sembrava sussurrare quando ci si passava vicino. Non
era sicuro
di cosa dicesse, né che parlasse affatto, ma ebbe
l’impressione che quei
sussurri fossero dei complimenti e si sentì inspiegabilmente
edificato nel
riceverli. C’era anche un parco per cani, a vederlo si
sarebbe detto che nessuno
ci entrasse da una vita, anche se Carlos era abbastanza sicuro di aver
intravisto delle figure incappucciate aggirarsi al suo interno.
Comunque
avevano un’aria poco rassicurante e per il momento decise di
non indagare
perché doveva finire il suo giro di ricognizione.
C’era anche un cerchio di
eliotropio, rocce di un verde scuro che sotto la luce risplendevano di
particolari riflessi rossi che le facevano sembrare coperte di sangue.
Non aveva
idea di come fossero finite lì o di chi avesse fatto il
lavoro di metterle in
cerchio, ma eccole lì. In fine, c’era una casa che
non esisteva. Avrebbe avuto
senso che esistesse, dato che era situata tra altre due case
perfettamente
identiche, ma non esisteva. La signora Josie l’aveva
avvertito di stare alla
larga perché poteva essere pericoloso, ma non aveva
resistito ed era andato
subito a cercarla. Del resto doveva sapere dov’era, se voleva
starle lontano,
giusto? Ebbene, eppure sembrava una casa normalissima, a parte per il
fatto che
sbirciando dentro attraverso la finestra si vedeva una casa
completamente
vuota, con dentro solo uno strano uomo che fissava una figura in
cornice,
mentre se si entrava dalla porta – Carlos aveva bussato e gli
era stato aperto
– la casa appariva abitata e ad aprire veniva una simpatica
signora.
Era anche stato a caccia di animali e
aveva trovato diversi
cani selvatici dall’aspetto spaventoso, che però
non sembravano aver voglia di
fare alcun danno, se non disegnare qualche graffito qua e là
con delle
bombolette spray. C’era anche un gatto, un po’
schivo, che lo seguiva e lo
osservava da lontano, ma non si lasciava toccare per cui era
impossibile
giocarci.
Dopo qualche settimana aveva
esplorato tutto il possibile e
forse anche un po’ dell’impossibile e avrebbe
cominciato con l’improbabile se
non fosse che il tempo decise che quel giorno non se ne parlava proprio
di
uscire di casa: pioveva a dirotto.
La madre di Carlos era impegnata nei
suoi ultimi esperimenti
e se ne stava tutto il giorno a fare calcoli e a far esplodere cose,
per cui
non aveva tempo per dare retta a Carlos che la assillava.
«Se
ti annoi trova qualcosa
da fare in casa. Ad esempio svuotare gli scatoloni. Viviamo qui da tre
settimane ormai e la tua cameretta è ancora un
cantiere!» fu l’unica cosa che
gli disse prima di smettere nuovamente di ascoltarlo.
Stanco
di chiedere e
richiedere il permesso di uscire, si arrese e provò a
rivolgersi al padre. Non
ottenne risposte molto differenti, ma almeno gli fece una proposta che
Carlos
ritenne più costruttiva: «Un bravo scienziato deve
innanzitutto raccogliere i
dati. Perciò fai un giro della casa e conta tutte le porte,
tutte le finestre,
e tutte le cose che razionalmente non dovrebbero esistere ma esistono
lo
stesso.»
Eccitato,
Carlos afferrò un
blocchetto e una penna e corse per il corridoio. Dopo poco tempo aveva
già
raccolto tutte le informazioni e le aveva appuntate sul blocchetto.
Una
delle porte che aveva
trovato, però, aveva attirato la sua attenzione,
perché non era certo a quale
lista appartenesse: quella delle porte o quella degli oggetti che non
dovrebbero esistere razionalmente ma esistono lo stesso.
Provò ad aprirla, ma
scoprì che era chiusa, quindi chiese la chiave a sua madre e
tornò in soggiorno
per aprirla. Con sua sorpresa, la porta si apriva sul vuoto. Il vuoto
più totale.
Non luce, non oscurità, semplicemente vuoto. Un
po’ deluso la richiuse, ma
senza inchiavarla, e sbuffò tra sé scribacchiando
sul blocchetto.
✓
Cose
che non dovrebbero esistere
razionalmente eppure esistono lo stesso: 13
Quella
sera andò a letto
presto, ma il suo sonno fu disturbato da strani fruscii. Quando
aprì gli occhi,
gli parve di vedere un’ombra sgusciare via nel buio e decise
di seguirla. La
seguì fino in soggiorno, dove l’ombra
sparì nell’angolo più buio della
stanza,
quello dove c’era la porta. Incuriosito, Carlos
aprì la porta, ma non vide
altro che il vuoto. Pensò di essersi sognato tutto, la
richiuse e tornò nel suo
letto, dove si addormentò subito.
Sognò
di ombre che correvano
nel buio, con le loro migliaia di zampine e di occhi e di zanne.
Il
giorno dopo il tempo era
migliorato – per così dire, in realtà
c’era molta nebbia, ma Carlos decise di
uscire lo stesso.
Vagò
nel giardino, usando un
bastone per orientarsi, dato che non si riusciva a vedere niente a
più di un
palmo dal naso, finché non inciampò in qualcosa.
Qualcosa che si rivelò essere
un qualcuno.
«Ahi!»
esclamò una voce
dispersa nel grigiore della foschia.
«Scusa!»
rispose come per
riflesso il bambino dalla pelle olivastra, senza neanche sapere a chi
si stesse
rivolgendo.
«Mi
dispiace per
l’inconveniente, ascoltatori, ma sembra che io mi sia
scontrato con… con…»
continuò la voce, finché non si interruppe nel
momento in cui un leggero
venticello estivo diradò leggermente la nebbia. La voce
sembrava appartenere ad
un bambino probabilmente dell’età di Carlos, anche
se leggermente più alto. Un
ciuffo di capelli biondi faceva capolino tra la nebbia, mentre i suoi
occhi
sembrarono illuminarsi quando vide delinearsi la sagoma di Carlos.
Anche
Carlos restò a fissarlo
per un momento, un po’ indeciso su cosa fare, un
po’ colto di sorpresa. Il
bambino teneva stretto un vecchio apparecchio che pareva essere un
registratore, al quale probabilmente stava parlando prima di fermarsi,
aveva la
faccia piena di lentiggini e gli occhiali appoggiati sul nasino.
Appena
sembrò riprendersi da
qualunque fosse l’emozione che lo aveva preso, il bambino si
avvicinò
nuovamente il registratore alla bocca e disse:
«…ascoltatori, ho appena
incontrato un estraneo. Probabilmente si tratta di uno scienziato,
visto che
indossa un camice…»
Nel
sentire quelle parole il
piccolo Carlos si riempì di orgoglio perché
sì, certo che lui era uno
scienziato! E andava anche piuttosto fiero del suo piccolo camice su
misura che
i suoi gli avevano regalato ad un certo punto, dopo tanta insistenza da
parte
sua.
«Tu
sei uno scienziato, vero?»
gli chiese lo strano bambino.
«Ma
certo! Il mio nome è
Carlos, Carlos lo scienziato. Mi
sono
trasferito qui da poco e ho intenzione di studiare questo posto e
capire che
cosa succede qui intorno» rispose con tono solenne, drizzando
la schiena per
apparire più alto e più importante, e non
riuscendo a trattenere la
soddisfazione, sorrise mostrando tutti i denti.
Il
che sembrò avere uno
strano effetto sull’altro, Carlos non seppe subito dire se
positivo o negativo,
perché quello sgranò gli occhi e fece un
lunghissimo sospiro che terminò con un
grande sorriso.
«Piacere
di conoscerti! Io
sono Cecil e un giorno diventerò il più famoso
presentatore radio della città!»
annunciò quindi il bambino – Cecil
a
quanto pare – e gli porse la mano. Carlos la strinse
più forte che poté. Dopo
di che Cecil corse via saltellando e da quel poco che riuscì
a capire, perché
la nebbia sembrava attutire i suoni, stava dicendo al registratore:
«Il nuovo
arrivato è uno scienziato. Si chiama Carlos e mi ha stretto
la mano. E’
perfetto e… i suoi capelli sono perfetti.»
Non
seppe cosa fare e restò a
vederlo scomparire, poi alzò i tacchi ed era in procinto di
proseguire la sua
esplorazione, ma un’altra voce attirò la sua
attenzione. Era la signora Josie,
del piano terra.
«Carlo!
Carlo! Gli angeli
hanno un messaggio per te!» gli urlò dal
pianerottolo di casa.
«Gli
angeli?» ripeté Carlos
più che sorpreso – anche perché, da
quel che ne sapeva lui, gli angeli potevano
benissimo non esistere, dato che non ne aveva mai visto uno. Anche se
Josie
sosteneva che uno l’avesse aiutata a cambiare una lampadina
proprio la
settimana prima.
«Il
messaggio dice: “stai
lontano dalla porta”. Ti dice niente?»
Carlos
non era sicuro di come
questo lo facesse sentire.
«No»
rispose comunque, perché
se c’era qualcosa da scoprire voleva essere sicuro di
arrivarci la solo.
L’anziana
signora sembrò
confusa e forse un po’ delusa per un momento, poi, non troppo
convinta, fece
spallucce.
«Che
vuoi farci? Delle volte
gli angeli si confondono…» e così
dicendo si ritirò e la sua sagoma scomparve
prima nella nebbia e poi dietro la porta.
Carlos
rientrò in casa, ma presto
riprese ad annoiarsi. I genitori gli consigliarono di andare a trovare
la
signora Josie.
«Ma
ci ho appena parlato!»
provò a lamentarsi, ma si rese conto che in fondo non aveva
davvero niente di
meglio da fare, e poi perché no? Magari avrebbe finalmente
visto questi
fantomatici angeli.
La
porta gli fu aperta
subito, e fu fatto accomodare in un piccolo salottino. C’era
un gradevole odore
e infatti la donna gli rivelò che aveva appena sfornato una
crostata ed erano
stati proprio gli angeli a farla. Carlos si guardava intorno da quando
era
entrato, ma degli angeli neanche l’ombra. Iniziò a
pensare che la donna fosse
pazza, ma preferì non farglielo notare perché
aveva sentito da qualche parte
che ai matti non piace sentirsi chiamare matti. Accettò
comunque la crostata:
angelica o no, era deliziosa. Gli fu offerto anche del tè.
Non che ne andasse
pazzo, ma non se la sentì di rifiutare.
Quando
lo ebbe bevuto quasi
tutto, Josie gli tolse la tazza dalle mani annunciando che gli avrebbe
letto i
fondi. Disse che gli angeli avevano il potere ci vedere il futuro nel
tè e che
lo avevano insegnato anche a lei. Scrutò per bene la tazza
per del tempo.
«Carlo!
Piccolo Carlo, sei in
grave pericolo!» esclamò decisamente preoccupata,
mettendo agitazione anche al
bambino. Non è che credesse in queste scemenze superstiziose
come leggere i
fondi, o leggere la mano, o il procedere lineare del tempo, ma la
preoccupazione della donna fu tale da contagiarlo.
Cercò
di cavarle qualche
informazione in più, ma tutto ciò che fece fu
blaterare su come gli angeli
dicano solo ciò che vogliono dire e niente di
più, e poi il tè non è mai
affidabile, e così via.
Una
cosa la fece però, ossia
regalargli un oggetto che secondo lei gli sarebbe tornato utile in
situazioni
difficili.
Questo
era un piccolo
orologio da taschino, dall’aria molto vecchia,
tant’è che quando provò ad
aprirlo ne uscì una piccola nuvola di polvere che lo fece
tossire. Non era
certo di cosa avrebbe dovuto farsene di un vecchio orologio, ma
accettò il dono
fatto in buona fede.
Il
giorno dopo fu giorno di
compere. Dato che l’estate stava finendo, c’era
bisogno di comprare vestiti
nuovi e altre cose utili, quindi uscì con sua madre, mentre
suo padre usciva a
sua volta, ma per recarsi ad una riunione speciale di scienziati che
aveva
convocato per condividere qualche scoperta.
Quella
mattina si annoiò
moltissimo perché non gli piaceva andare per negozi, e in
più sua madre si
ostinava a non volergli comprare l’unica cosa che gli
piaceva: una bella felpa
verde con disegnato un alligatore e la scritta:
«“Gli alligatori possono
mangiare i vostri figli?”
“Sì.”»
Una
cosa molto sciocca, ma se
non altro diversa da tutti i vestiti monotoni e banali con cui sua
madre stava
riempiendo il cestino – che, inoltre, gli andavano anche
grandi, ma sua madre
sperava che ci crescesse dentro.
Quando
tornarono a casa,
Carlos aveva lo stomaco che brontolava, ma con suo grande disappunto
nel
frigorifero c’era solo un po’ di verdura andata a
male che puzzava quasi quanto
l’appartamento del signor Telly e del formaggio ammuffito. Il
bambino avrebbe
quasi giurato di aver visto qualcosa muoversi, ma sua madre gli aveva
risposto
che non c’era bisogno di essere così
melodrammatico e che sarebbe tornata
presto con del cibo vero. Dopo aver detto questo era semplicemente
uscita di
corsa, lasciandolo solo.
La
casa era abbastanza grande
e non era un gran che stare da solo, perché con tutto quello
spazio a
disposizione, senza nessuno, la casa sembrava ancora più
grande e vuota.
Ovviamente iniziò presto ad annoiarsi di nuovo e stava
giusto infilandosi il
piccolo camice per uscire fuori, quando il campanello suonò.
Aprendo
la porta si trovò
davanti un grande solare sorriso circondato da un’esplosione
di lentiggini.
«Ciao,
Cecil» salutò
piacevolmente sorpreso. In quel momento notò qualcosa
sgusciare tra le gambe
dell’ospite e capì subito che si trattava del
gatto che spesso vedeva aggirarsi
nel giardino.
«Quel
gatto è tuo?» chiese
immediatamente.
«Non
proprio. In realtà sì,
perché gli do da mangiare, ma non è proprio proprio
mio. L’ho chiamato Khoshekh.»
Carlos
annuì e si sporse per
accarezzare il gatto che inizialmente cercò di allontanarsi,
ma poi annusò con
diffidenza le dita del bambino ed infine gli concesse di grattargli
l’orecchio,
anche se brevemente.
Entrambi
i bambini risero.
«Ti
ho portato questa. Lo so
che molti considerano le bambole una cosa da femmina, ma questa ti
assomigliava
così tanto che ho voluto mostrartela.»
spiegò Cecil porgendogli il giocattolo.
Era
vero, la bambola gli
assomigliava in maniera spaventosa. Era più una sorta di
robot, ma aveva la
faccia e le mani dipinte di un marrone non troppo scuro, aveva fluenti
capelli
neri fatti di un materiale sintetico e indossava perfino un piccolo
camice
bianco.
Osservò
l’oggetto con stupore
e crescente curiosità.
«Dove
l’hai presa?»
Cecil
fece spallucce.
«L’ho
trovata, in realtà.
Credo sia caduta ad un tizio strano che si aggirava nei pressi di casa
mia.
Indossava una giacca marrone e portava una valigetta di pelle di cervo.
L’ho
visto aprirla e ne sono uscite tantissime mosche, poi è
andato via e questa
bambola è rimasta a terra.» si interruppe
pensieroso «la cosa buffa è che non
riesco proprio a ricordare la sua faccia.»
Uno
strano tizio con una
valigia piena di mosche possedeva una bambola identica a lui? Cosa
poteva
significare? Non riusciva a pensare ad una risposta intelligente e fu
anche
distratto da un grosso starnuto.
«Credo
di essere un po’
allergico ai gatti…» disse sovrappensiero,
asciugandosi il naso con il dorso
della mano.
«Adesso
devo andare, ma la bambola
puoi tenerla se vuoi» gli disse Cecil con un sorriso, prima
di allontanarsi
seguito a poca distanza anche dal gatto.
Prima
il tè degli angeli gli
aveva detto che era in pericolo, poi era arrivata una strana bambola.
Il
mistero di quella casa si stava infittendo e per Carlos questa non
poteva che
essere una gioia. Anzi, pensare all’ammonimento della signora
Josie gli ricordò
del regalo che gli era stato fatto.
Si
sedette al tavolo della
cucina con tutti gli attrezzi che riuscì a racimolare e si
mise a smontare
l’orologio che in un batter d’occhio
finì completamente scomposto sul tavolo.
Al
suo interno non sembrava
esserci un vero e proprio meccanismo, ma una particolare sostanza scura
e
densa. Non si spiegava come facesse l’oggetto a funzionare se
dentro era
ridotto in quel modo.
«Tu
cosa ne pensi, Piccolo
Me?» chiese alla bambola che aveva posto seduta di fronte al
disastro che erano
i pezzi dell’orologio.
«Non
mi rispondi è?»
Robot-Carlos
se ne stava lì
muto con quei suoi strani occhi neri che guardandoci dentro sembravano
profondissimi – letteralmente – come se non
finissero mai.
Improvvisamente
Carlos fece
un salto sulla sedia. Quella sostanza indecifrabile sembrava aver preso
vita e
le stavano crescendo piccole sporgenze che si rivelarono essere denti e
ciuffi
di peli. Spaventato, ma anche affascinato, rimase per un momento in
dubbio se
cercare di “uccidere” quella cosa in qualche modo
oppure se provare a darle del
cibo o altro. Giunse alla conclusione che se quella roba stava
nell’orologio
era perché doveva stare lì – inoltre
l’orologio funzionava, quindi non era
disturbato dalla presenza della sostanza, no? Quindi decise di
raccoglierla e
rimetterla a posto. L’orologio riprese a funzionare come se
nulla fosse
successo.
«Quest’orologio
non è reale…»
si disse tra sé e sé a bassa voce.
Lo
impostò con l’orario
giusto e si accorse che era passato molto tempo, ma di sua madre ancora
non
c’era traccia. Cosa poteva fare? Aveva davvero fame adesso,
ma non c’era nulla
di commestibile in casa.
Per
distrarsi ebbe l’idea di
tornare alla porta misteriosa del soggiorno.
Prese
la chiave e si affrettò
ad andare ad aprirla. Infilò l’oggettino metallico
nella toppa e girò finché
non sentì uno scatto. Allora la spalancò, ma
questa volta il vuoto non c’era.
Era stato sostituito da un corridoio luminoso. Non resistette alla
curiosità e
ci si infilò subito dentro.
Si
chiese dove sarebbe andato
a finire e sperava di non finire dritto nel vuoto, ma questa opzione
gli
sembrava improbabile. Quando finalmente uscì, si
guardò intorno e non vide
altro che il soggiorno di casa sua.
«Oh,
fantastico!» esclamò
sarcasticamente, «un loop geografico!» per fortuna
aveva già imparato a scuola
come ci si deve comportare: mai evitare il centro del loop. Bisogna
camminare
dritti verso di esso e così facendo ci si troverà
alla sua destra o alla sua
sinistra.
Sì,
ma non era quello che
aveva fatto camminando nel corridoio? Aveva camminato dritto ed era
finito di
nuovo nel soggiorno! Si stava domandando come fare ad uscirne illeso,
con una
certa calma, sorprendentemente, quando sentì una voce
chiamarlo dalla cucina.
Sembrava la voce di sua madre. Evidentemente era tornata dalla spesa.
Decise
di dirigersi in
cucina, sperando di non ritrovarsi in soggiorno non appena varcata la
porta, ma
con sua grande sorpresa non subì interruzioni fino alla meta
e si ritrovò
proprio dove voleva essere. C’era un profumo buonissimo, il
che era strano
perché sua madre non cucinava mai nulla di particolare.
La
donna che l’aveva chiamato
era indaffarata ai fornelli e gli dava le spalle. Sembrava proprio sua
madre,
ma aveva una carnagione leggermente diversa. Quando quella si
voltò, vide con
orrore che i suoi occhi erano completamente neri, e aveva un sorriso
molto
ampio, un sorriso che però non era un sorriso, e aveva in
generale qualcosa di
molto strano e – diciamo – disturbante.
«Tu
non sei mia madre.» disse
con un tono un po’ incerto, ma non era una domanda.
«Certo
che sì, sciocchino,
sono la tua altra madre –
rispose
amorevolmente – ora vai a chiamare il tuo latro padre,
starà certamente morendo
di fame.»
Un
po’ sospettoso, uscì dalla
cucina per dirigersi verso lo studio del padre. Anche la casa era
uguale ma
diversa, era difficile da descrivere. Forse era più una
sensazione.
Bussò
alla porta ed entrò
senza aspettare il permesso – come era abituato a fare, tanto
nessuno si
preoccupava più di tanto della sua presenza.
«Ciao,
ehm… “altro padre”,
lei mi ha detto di chiamarti per cena e…» mentre
stava ancora parlando, l’uomo
si girò mostrando anche lui due occhi neri come la pece ed
un ampio sorriso,
anche questo, come quello dell’altra madre, con qualcosa
di… “non normale”.
«Ma
certo! Non vedo l’ora!
Che cosa si mangia di buono oggi?» chiese per poi ridere tra
sé, «Oh, Carlos,
ti stavamo aspettando, sai?» continuò mentre
usciva dalla stanza con il
bambino, appoggiando una mano sulla sua spalla.
«Che
cosa significa?» chiese
quando ormai erano entrati in cucina. Rimase estasiato nel vedere la
tavola
imbandita. C’erano talmente tante cose buone che non sapeva
da dove cominciare
e aveva una tale fame che quasi dimenticò di ascoltare la
risposta – ma lo fece
comunque.
«Ovviamente,
significa quello
che significa. Ti stavamo aspettando, questo è il tuo posto,
con noi. Non era
la stessa cosa senza di te…» spiegò
l’altra madre.
«…
ma per fortuna sei
arrivato!» terminò gongolando l’altro
padre, beccandosi un’impercettibile
occhiataccia da parte della donna – forse non le piaceva
venire interrotta.
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Capitolo 3 *** Capitolo II ***
La
cena fu piacevole, anche
se c’era un’aria strana, ma forse era solo il
disagio che gli creava essere
fissato da quegli occhi neri. Il cibo era decisamente buonissimo, forse
il
migliore che avesse mai mangiato.
Appena
finito di mangiare
l’ultima portata, ovvero un’enorme coppa di gelato,
l’altra madre gli offrì di
andare a giocare con il suo altro amico.
«Quale
amico?» domandò Carlos
incuriosito. Mentre poneva la domanda, l’altra madre
andò ad aprire alla porta
e sulla soglia ad aspettarlo impazientemente c’era quello che
evidentemente
doveva essere l’altro Cecil.
Questo
Cecil assomigliava
molto all’altro – diciamo l’altro
altro Cecil – ma come al solito c’era qualcosa in
lui che non lo convinceva
pienamente. I suoi occhi avevano lo stesso aspetto di quelli dei suoi
altri
genitori e il suo sorriso era il più grande che avesse mai
visto sul volto di
chiunque. Assomigliava più ad un ghigno o qualcosa di simile
e i denti erano
lunghi e affilati. Gli ricordava più uno squalo che una
persona. Non indossava
gli occhiali, e vestiva di un brillante giallo con dettagli arancioni,
mentre,
come aveva avuto modo di vedere fino ad ora, il vero Cecil sembrava
prediligere
i colori scuri, come il viola. In generale aveva un’aria
amichevole, però.
Forse anche troppo. Probabilmente era questo il dettaglio
più disturbante del
suo aspetto.
Uscirono
chiudendosi la porta
alle spalle, mentre gli altri genitori li salutavano muovendo la mano.
«Voglio
esplorare questo
posto» disse subito Carlos, «voglio scoprire se
è davvero uguale a casa mia
come sembra.»
«Fai
pure, mi sembra una
bella idea. Non resterai deluso! Certo che qui è tutto
uguale, ma con un’unica
differenza: qui è meglio!» spiegò
l’altro Cecil, e, sempre che sia possibile,
il suo sorriso sembrò allargarsi ancora di più in
un modo decisamente
innaturale.
«Sì…
Certo… senti, ho
un’idea, io giro intorno alla casa in questo verso, e tu giri
nell’altro, così
ci incontriamo dall’altra parte e ci raccontiamo quello che
abbiamo visto»
provò a proporre Carlos nella speranza che l’altro
accettasse. Non riusciva a
decidere se quel tipo gli piaceva o no, ma, come al solito, quando
doveva fare
scoperte, preferiva farle da solo e solo dopo condividerle, quindi
voleva
davvero restare un po’ da solo.
L’altro
Cecil sembrò
ponderare la cosa e anche se inizialmente non sembrava entusiasta
dell’idea,
accettò.
Lo
salutò con la mano e
cominciò a camminare nella direzione che avevano stabilito.
Quasi
subito sentì un fruscio
tra i cespugli e si allertò. Poteva essere qualunque sorta
di animale e al momento
non aveva nulla a portata di mano per difendersi.
Si
tranquillizzò quando vide
un gatto emergere dall’erba.
«Immagino
tu sia l’altro
Khoshekh, piacere di incontrarti» provò a
presentarsi, ma il gatto stesso lo
interruppe.
«Io
non sono l’altro di nessuno»
esordì, lasciando il bambino di stucco.
«Come
mai tu parli? Prima non
parlavi… e non volavi nemmeno» aggiunse, notando
che il gatto non era
effettivamente poggiato a terra, ma fluttuava a circa mezzo metro dal
terreno.
«Lo
faccio perché so farlo.
Se posso, perché non dovrei?» rispose altezzoso il
gatto.
«Beh,
da dove vengo io i
gatti non parlano e non volano» insistette Carlos,
più che deciso ad andare a
fondo di questa faccenda dei gatti volanti.
«Ah,
no?» disse il felino,
leccandosi una zampa.
«No.
Non che io sappia
almeno.» ribatté Carlos.
«Oh,
beh, ma l’esperto di
queste cose sei tu. O sbaglio? Non sei forse uno scienziato?
– incalzò
pulendosi i baffi con la zampetta umida – in fondo io sono
solo un gatto.»
«Essere
uno scienziato non
significa sapere tutto» rispose il bambino dopo averci
riflettuto brevemente.
«Ah,
davvero? – disse il
gatto sornione, e se i gatti potessero ridere, Carlos avrebbe giurato
che lo
stesse proprio facendo – e che cos’è uno
scienziato allora?»
Carlos
avrebbe voluto rispondere
immediatamente, ma in realtà trovare una risposta adeguata
non gli risultò
semplice. Pensò ai suoi genitori. Anche loro erano
scienziati, ma ciò che
facevano tutto il giorno era ignorarlo e fare esperimenti di cui non
volevano
mai spiegargli il significato.
Quando
pensò di aver trovato
qualcosa da dire guardò il gatto, o almeno dove prima
c’era stato il gatto, ma
era già scomparso.
«Ehi!»
si sentì chiamare e si
voltò. L’altro Cecil lo raggiunse velocemente.
«Così
non vale, avevi detto
che ci saremmo incontrati dall’altra parte, ma tu sei ancora
qui» si lamentò il
bambino biondo.
«Scusa,
hai ragione, ma vedi,
è che avevo incontrato il gatto…» si
spiegò Carlos.
L’altro
Cecil fece una faccia
indecifrabile, forse a metà tra la preoccupazione e la
sorpresa, con una
leggera nota di disgusto.
«Il
gatto, eh? Non dovrebbe
essere qui. A lei non piacciono i gatti.» disse quasi
sovrappensiero, cambiando
poi completamente tono ed espressione. Riformò quel suo
assurdo ghigno e cambiò
argomento, come se si fosse reso conto di aver detto qualcosa che non
avrebbe
voluto dire.
«Tra
poco inizia il torneo di
bowling, se ci sbrighiamo forse facciamo perfino in tempo ad
iscriverci!»
esclamò esageratamente entusiasta e afferrandogli la mano lo
trascinò verso
l’appartamento dell’anziana signora Josie.
La
porta si aprì da sola non
appena ci si trovarono davanti e ciò che Carlos vide era
totalmente diverso da
ciò che aveva visto l’ultima volta che vi era
entrato.
L’appartamento
era sparito ed
ora c’era solo un campo da bowling decorato con tantissime
luci colorate che si
illuminavano ad intermittenza e formavano parole per lo più
senza senso, ma
Carlos riuscì a leggerne un paio: “Vai
Josie!”, “Viva Erika!”, e altre cose
simili.
Immediatamente
gli si
avvicinarono delle figure altissime con volti lunghi e braccia lunghe, e ali enormi, e che
emanavano un bagliore
scuro. Josie si avvicinò a loro e mise un po’
d’ordine alla confusione che
stavano facendo gli angeli.
Infatti
volevano far
indossare a Carlos e all’altro Cecil delle magliette speciali
per far parte
della loro squadra e gareggiare contro quella formata da Josie e da
altri
angeli. Carlos era al settimo cielo e li guardava sconcertato. Non
aveva mai
visto gli angeli prima d’ora e dubitava anche che
esistessero, e invece eccoli lì
in carne ed ossa – o in qualunque altra materia siano fatti i
corpi degli
angeli. Avrebbe voluto poter raccogliere dei campioni per fare
esperimenti come
facevano i suoi genitori, ma non c’era tempo
perché erano riusciti ad indossare
le magliette ed ora la partita stava per cominciare.
Quelle
della squadra
avversaria erano arancioni con disegnata una lampadina gialla e la
scritta
“Erika”, mentre quelle che indossava la squadra di
Carlos erano verdi, con
disegnato un alligatore a due teste e la scritta “Gli
alligatori hanno mangiato
i vostri figli”. Erano stranissime, ma molto colorate, e a
Carlos piacevano
tantissimo.
«Assomiglia
da morire a
quella che avevo visto in quel negozio!» aveva esclamato e
l’altro Cecil gli
aveva fatto l’occhiolino.
La
partita cominciò e Carlos
si trovò leggermente in difficoltà
all’inizio, dato che non aveva mai avuto
occasione di giocare a bowling, ma si ambientò presto, anche
perché gli angeli
erano molto cordiali e anche se sbagliava nessuno lo rimproverava.
Sembrava che
a nessuno importasse effettivamente di vincere, ma piuttosto di farlo
divertire
a tutti i costi. Quindi si esibivano in piroette, salti e altre
acrobazie
strane, compreso levitare e fare tre giri della stanza prima di
lanciare la
palla.
Quando
toccò alla signora
Josie, successe una cosa stranissima. Fece qualche saltello sul posto e
oscillò
il braccio come preparazione per il lancio, ma prima che potesse
effettuarlo,
la sua faccia si aprì a metà e così
tutto il resto del corpo, che cadde a terra
come una gelatina flaccida, mentre dall’interno
sbucò una giovane donna
energica con i capelli ancora tutti neri e la faccia liscia liscia e
dal colore
bronzeo perfettamente omogeneo, senza quelle macchie che vengono spesso
alle
persone anziane. Aveva zigomi sporgenti e ben definiti, ma gli occhi
nerissimi
e quell’ampio sorriso che però non era un sorriso
– caratteristiche che
iniziavano a diventare familiari per Carlos.
La
giovane Josie si esibì in
un lancio perfetto, facendo strike, causando un’ovazione
generale da parte di
tutti gli angeli.
Carlos
si stava divertendo
moltissimo, ma dopo un po’ di tempo iniziò a
chiedersi quando sarebbe finita
quella partita, così espresse il suo dubbio
all’altro Cecil che gli rispose
mostrando tutti i denti, più aguzzi che mai.
«Quando
finirà la partita?
Mai ovviamente! Riesci ad immaginare niente di più
bello?» disse, scoppiando
poi a ridere compiaciuto.
Quest’informazione
non
piacque per nulla a Carlos. Era divertente, sì, ma non
avrebbe mai voluto
restare lì per sempre a giocare a bowling.
«Io
preferirei smettere
adesso e fare qualcosa di diverso… non ho neanche finito la
mia esplorazione…»
azzardò a dire, sperando vivamente che una cosa del genere
fosse possibile. Non
voleva davvero restare lì per sempre. Davvero no.
«Oh
– fece l’altro Cecil con
aria dispiaciuta – capisco, beh, possiamo uscire quando vuoi
allora… se proprio
vuoi»
Ovviamente
Carlos non se lo
fece ripetere due volte. Si alzò e si diresse verso
l’uscita, seguito
dall’altro bambino, mentre tutti gli angeli si scansavano per
farli passare e
li salutavano con la mano.
«Torna
quando vuoi, piccolo
Carlos! Saremo sempre qui ad aspettarti per giocare!» fu
l’ultima cosa che
sentì dire dalla giovane Josie, prima di chiudersi la porta
alle spalle.
«Cosa
vorresti fare adesso?»
gli domandò l’altro Cecil, che sembrava voler
nascondere una certa ansia – il
motivo della quale sfuggiva a Carlos, ma non ci fece troppo caso. Era
già
arrivato alla conclusione che tutti lì fossero un
po’ strani e non ci vedeva
niente di male.
«Beh,
come dicevo, vorrei--»
«Ehi,
guarda! Ci sono i tuoi
altri genitori!» lo interruppe per l’ennesima volta
– davvero, la gente in quel
posto aveva proprio la brutta abitudine di interromperlo mentre
parlava.
L’unico che lo stava a sentire era quel bizzarro gatto
volante, che però era lo
stesso molto scortese.
Si
avvicinarono, camminando
nel giardino, fino ad arrivare al centro, dove era stato allestito un
picnic
con tutte le delizie di questo mondo. I suoi altri genitori lo
attendevano in
piedi accanto ad una tovaglia a scacchi gialli e arancioni che era
stata
disposta sul prato.
«Abbiamo
pensato che avessi
fame dopo tutto quel giocare» esordì
l’altra madre, sorridendo teneramente –
per quanto le fosse concesso con quell’inquietante sorriso
che aveva.
«Io
e la tua altra madre ci
preoccupiamo sempre per te. In ogni momento.» si intromise
l’altro padre.
«Vuoi
mangiare qualcosa?
Preferisci bere? Abbiamo ogni sorta di dolcetto qui, tutti i tuoi
preferiti»
spiegò l’altra madre, mostrando il cibo con un
gesto del braccio.
In
realtà Carlos non aveva
proprio fame, ma quei dolci sembravano davvero invitanti e
così accettò e
mangiò un paio di cupcakes decorati in modo curioso: avevano
sopra una glassa
rossa e appiccicosa che ricordava molto il sangue e poi dei piccoli
ragnetti
commestibili che scoprì essere di cioccolato – con
suo grande sollievo: non
voleva mangiare dei ragni veri.
«Mangiare
ti fa stare bene, e
se stai bene sarai felice e quindi più produttivo
– disse l’altra madre – non è
vero?» chiese rivolgendosi all’altro Cecil che
annuì in modo che parve un po’
forzato, e mostrò ancora una volta tutti i denti in un
grande sorriso.
«Le
sorprese non sono finite,
Carlos – continuò l’altra madre
– guarda»
E
proprio in quel momento,
Carlos notò che intorno a loro erano stato disposti dei
cactus e molte altre
piante, la maggior parte delle quali non credeva di conoscere. Da
dietro un
cactus, il più enorme, grosso come un uomo,
spuntò fuori Telly, che si esibì in
un grande inchino.
L’altra
madre applaudì e
lanciò un’occhiata glaciale all’altro
padre e all’altro Cecil che iniziarono ad
applaudire immediatamente. Carlos non sapeva cosa fare, ma non
applaudì perché
non capiva che motivo ci fosse per farlo: non era ancora successo
niente.
Telly
tirò fuori dalle tasche
della sua divisa da barbiere due paia di forbici, una per ciascuna
mano, e
cominciò ad andare di qua e di là tra le piante,
tagliando ora una foglia, ora
un ramo, apparentemente senza un senso compiuto.
Carlos
continuava ad
osservare, ma non capiva cosa stesse facendo l’uomo. Poi,
improvvisamente, i
cactus iniziarono ad illuminarsi di colori diversi ad intermittenza,
tutte le
piante ondeggiavano lievemente come danzando e gli parve di udire una
leggera
musica. Finalmente il lavoro di Telly iniziava a prendere forma, e
così le piante
che stava potando avevano assunto le sembianze più
disparate, da animali
esotici, a insetti rari, mentre al centro ce n’era una che
assomigliava a
Carlos.
Il
bambino guardava estasiato
quello spettacolo inaspettato e intercettò casualmente lo
sguardo dell’altra
madre che lo stava osservando con un so che di famelico, ma non appena
si
accorse che il suo sguardo era ricambiato, la sua espressione
tornò amorevole e
gioiosa come prima.
Questo
mise un po’ a disagio
Carlos. Sentì un piccolo brivido e si rese conto di non
sentirsi pienamente a
suo agio con queste persone. Era vero, erano strane, e forse aveva
deciso di
ignorare la cosa un po’ per cortesia e un po’ per
curiosità, ma restavano
comunque strane e per quanto volesse negarlo, non le capiva e non lo
convincevano
fino in fondo.
Però
tutto il resto era molto
gradevole: il cibo, i giochi, lo spettacolo delle piante…
non capiva come
potesse esserci qualcosa che non andasse in persone così
gentili che gli
avevano offerto tante cose belle.
Ricacciò
indietro quella
brutta sensazione e continuò a godersi lo spettacolo.
Notò
che la luce non era
variata affatto da quando era arrivato, il che era impossibile. Era
come se il
sole non si fosse mosso, o come se la fonte della luce fosse qualcosa
di ancora
più brillante del sole. Forse il tempo scorreva
diversamente? Eppure a lui
sembrava di no, infatti gli pareva un’eternità da
quando lo spettacolo era
cominciato e iniziava ad avere fame e sonno.
Alla
prima rimediò
facilmente, addentando una grossa fetta di torta dal buffet.
Però adesso era
davvero stanco e non riuscì a trattenere uno sbadiglio.
L’altra
madre lo notò e fece
un cenno a Telly che smise di fare quello che stava facendo e rimase
immobile
come se stesse attendendo ordini.
«Cosa
c’è? Non ti piace il
nostro picnic?» domandò suonando vagamente
seccata, ma mantenendo la stessa
espressione che aveva sempre. Carlos si sentì troppi occhi
addosso. Anche gli
altri due lo stavano guardando, sempre sorridenti.
«Non
è che non mi piace, ma
ho sonno» spiegò il bambino.
«Certo
che hai sonno, caro.
Evidentemente è perché non ti diverti abbastanza
– e dicendo questo si voltò
momentaneamente verso Telly. Carlos non vide la faccia
dell’altra madre, ma il
barbiere si irrigidì e tremò – se ti
diverti stai bene, e se stai bene puoi essere
più produttivo.»
«Lo
capisco, ma…» in realtà
non capiva affatto. Si guardò intorno mentre cercava
qualcosa di intelligente
da dire e solo allora notò che tutto intorno al giardino era
stata posta una
recinzione. Sembrava una di quelle che quando le tocchi ti fanno la
scossa, e
la cosa non gli piacque affatto, anche perché tutte le cose
più interessanti
erano state lasciate fuori – come il parco per cani, la
foresta sussurrante, e
così via – anzi, ora che guardava meglio non
credeva neanche di riuscire a
vederle bene. Tutto sembrava deserto oltre un certo punto, ma non
riusciva a
capire il perché. Più cercava di guardare
più gli davano fastidio gli occhi –
diede la colpa al sonno, che in effetti era probabile.
«Io
vorrei davvero dormire,
adesso.» riuscì a dire alla fine, rendendosi conto
che tutti quanti – salvo per
Telly che se ne stava ancora immobile e rigido da sembrare uno dei suoi
cactus
– pendevano dalle sue labbra, aspettando una sua risposta.
L’altra
madre non sembrò
compiaciuta delle parole che aveva sentito, ma sorrise comunque e
allungò una
mano per accarezzare il volto di Carlos. La sua mano era innaturalmente
fredda.
«Ma
certo. Il picnic può
aspettare e domani sarà ancora qui per te, e così
tutto il resto--»
«E
ci saranno tante altre
cose ancora! Cose che ti piaceranno--» si intromise per
l’ennesima volta il
padre, ma questa volta non terminò la frase,
perché l’altra madre lo fulminò
con lo sguardo. Non cambiò espressione, ma nei suoi occhi
neri c’era una sorta
di furia e l’altro padre la percepì e tacque.
«Saluta
il tuo amico, Carlos»
disse poi, e Carlos obbedì. L’altro Cecil
dondolava sui talloni, come se fosse
impaziente per qualcosa, ma Carlos non sapeva cosa e non riusciva a
pensarci
ora, perché aveva troppo sonno. Sbadigliò
sonoramente ancora una volta,
portandosi pigramente la mano davanti alla bocca, ma senza davvero
coprirsela.
L’altra
madre lo avvolse con
un braccio intorno alle spalle e lo condusse all’interno
– non prima di aver
lanciato un’ultima occhiata a Telly.
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Capitolo 4 *** Capitolo III ***
I
suoi altri genitori lo
accompagnarono fino alla sua cameretta, ma anche questa non
assomigliava
affatto all’altra, era tutta in ordine e c’erano
tantissimi giocattoli, più di
quanti avesse mai sognato di avere.
«Ti
piace?» chiese
cortesemente l’altra madre.
Carlos
era così sorpreso ed
emozionato che per un momento quasi non pensò più
al sonno. Camminò nella
stanza osservandone tutti i dettagli. Le pareti erano di varie
sfumature di
giallo e arancione – un po’ troppo sgargiante per i
suoi gusti, sarebbe stato
difficile dormirci, ma nell’insieme era grazioso. Gli
scaffali erano ricolmi di
pupazzi, macchinine, soldatini, giochi da tavolo, qualunque cosa. La
cosa più
bella però, era che i giocattoli erano vivi. Si muovevano e
parlavano, infatti
uno per uno salutarono Carlos mentre lui li passava in rassegna.
Ad
un certo punto dal
soffitto si calò una cosa.
Era
grande poco meno di un
gatto, con una folta pelliccia scura e tantissimi occhi neri.
Quella
cosa non parlò, ma
emise un leggero suono, come le fusa di un gatto.
Carlos
non ne era sicuro, ma
era abbastanza convinto che dovesse essere un ragno.
«Ti
piace? E’ tutto tuo, è un
cucciolo fatto apposta per te» disse l’altra madre.
Carlos
non era sicuro di come
ciò lo facesse sentire. Era emozionato all’idea di
avere un cucciolo, un po’
meno all’idea che fosse un ragno, era felice che qualcuno gli
avesse fatto un
regalo simile, ma era anche moderatamente preoccupato dalla definizione
di
“cucciolo” perché si chiedeva se volesse
dire che quella cosa sarebbe cresciuta
e se sì quanto grande sarebbe diventata. I suoi genitori non
glielo avrebbero
lasciato tenere se fosse stato troppo ingombrante.
«I
miei genitori non me lo
lasceranno tenere…» si lasciò sfuggire
involontariamente.
«Oh,
ma che sciocchezza,
certo che te lo faremo tenere!» esclamò la madre.
«No,
intendo i miei veri
genitori» dovette spiegarsi Carlos.
L’espressione
dell’altra
madre cambiò impercettibilmente. Aveva
l’impressione che ci fosse qualcosa di
diverso nel suo aspetto, ma non sapeva dire cosa.
«Allora
la soluzione è
restare qui con noi. Noi ti vogliamo bene, e ti faremo tenere tutti gli
animaletti che desideri.» disse l’altra madre
accompagnandolo verso il letto.
«Tutti
quelli che desidero?»
ripeté Carlos mentre si sistemava nel letto, sbadigliando
ancora una volta.
«Tutto
quello che desideri.
Puoi averne quanti ne vuoi – mentre diceva questo a Carlos
parve di scorgere
tante piccole sagome scure strisciare giù dalle pareti, ma
non era sicuro che
ci fossero davvero, perché aveva davvero molto sonno
– noi ti vogliamo bene»
ripeté ancora una volta la donna, con l’altro
padre che gli faceva eco.
Le
palpebre pesanti gli si
chiusero sugli occhi e si addormentò subito.
La
mattina dopo si svegliò
pieno di energia. Gli ci volle un po’ per capire dove si
trovava, perché era
sicuro che quella non fosse la sua camera, ma poi ricordò
tutto.
Si
alzò e andò verso la
cucina, seguendo il buon profumo che sentiva.
I
suoi altri genitori lo
stavano già aspettando.
L’altra
madre stava cucinando
gli ultimi pancakes, mentre l’altro padre era seduto a tavola
bevendo una tazza
di una sostanza nera che Carlos identificò come
caffè.
Si
sedette e immediatamente
l’altra madre gli servì la colazione. Aveva molta
fame quindi mangiò tutto ciò
che aveva nel piatto. Solo dopo si accorse che i suoi altri genitori lo
stavano
fissando.
Non
appena ebbe finito,
l’altra madre appoggiò un pacchetto sul tavolo.
«Abbiamo
una sorpresa per te»
disse l’altra madre.
«C’è
una cosa che vogliamo
che tu faccia» stava dicendo l’altro padre, prima
di interrompersi bruscamente
ad uno sguardo dell’altra madre.
Carlos,
curioso, non se lo
fece ripetere due volte e aprì il pacchetto.
Nella
scatola c’erano due
viti molto lunghe.
Carlos
non capiva a cosa
servissero. Le osservò bene, le prese tra le mani, e poi
alzò gli occhi sui
suoi altri genitori.
Solo
allora notò che i due
avevano due viti piantate nella faccia, una per lato, poco sopra gli
estremi di
quelle lunghe, strane, sorridenti bocche.
Iniziò
a capire. Era così che
mantenevano così a lungo il sorriso.
«No
– disse – non mi
pianterete delle viti nella faccia!» urlò senza
quasi rendersi conto del
proprio tono di voce.
«Ma
Carlos, tesoro, è ciò che
devi fare se vuoi restare qui con noi…»
spiegò con calma l’altra madre.
«…
per sempre» aggiunse
l’altro padre.
Carlos
scosse forte la testa.
«Non
fa quasi male, sai? Sono
talmente appuntite che non te ne accorgerai nemmeno»
continuò l’altro padre,
attirando l’ennesimo sguardo glaciale dell’altra
madre.
Carlos
passò lo sguardo su
entrambi quei volti sorridenti e si alzò dalla sedia,
indietreggiando e
urtandola nel gesto.
«Io…
io credo di dover
tornare a casa adesso. I miei veri genitori si
preoccuperanno… magari ci penso,
okay? Ma adesso devo andare.» disse Carlos, avviandosi a
grandi falcate verso
il soggiorno.
«Va
bene, allora ci rivedremo
quando tornerai» disse l’altra madre.
«Torna
presto, Carlos» lo
salutò l’altro padre.
Carlos
inconsciamente infilò
la mano in tasca e strinse forte l’orologio che non ricordava
neanche di aver
portato con sé.
Si
infilò velocemente nella
porta e si voltò solo per vedere i suoi altri genitori
sorridergli e salutarlo
con la mano.
Percorse
il corridoio di
corsa. C’era talmente tanto silenzio che l’unico
rumore che sentiva era il
proprio respiro affannoso e il battito del proprio cuore. Questo lo
faceva
agitare, quindi cercò di correre più veloce.
Appena
arrivato all’altra
estremità, si sbatté la porta alle spalle e
chiuse immediatamente a chiave.
Prese
un bel respiro, prima
di uscire dal soggiorno.
«Sono
a casa!» gridò, ma non
ricevette alcuna risposta.
Andò
prima in cucina, poi
percorse il corridoio e si affacciò nello studio del padre.
Apparentemente non
c’era ancora nessuno. Eppure ormai avrebbero dovuto essere
tornati, forse. In
realtà non ne era proprio sicuro al cento per cento. Non era
affatto sicuro di
niente. Non sapeva nemmeno come il tempo scorresse nell’altra
casa, forse erano
passati giorni, mesi, anni! Forse i suoi genitori si erano stancati di
aspettarlo e se ne erano andati.
Questa
era un’idea stupida,
se ne rese conto subito. Tornò in cucina con
l’idea di rimettere a posto la
chiave e notò che accanto alla porta c’era una
busta della spesa.
La
raccolse e ne rovesciò il
contenuto sul tavolo. C’era dentro della verdura e una grossa
pagnotta.
Non
era un gran che, ma
sarebbe comunque riuscito a ricavarne qualcosa di buono da mangiare.
Aspettò
per un po’ che i suoi
tornassero, ma presto capì che probabilmente ciò
non sarebbe avvenuto molto
presto. Non volle darsi per vinto e non perse la speranza.
«Torneranno.
Lo so che
torneranno.» continuava a ripetersi, ma era cosciente di non
crederci davvero.
Quella
sera andò a dormire
molto presto. Sentiva di doversi riposare, e poi sperava di
addormentarsi
subito, ma ovviamente non fu così. Il suo sonno fu agitato e
poco riposante, ma
in qualche modo riuscì a dormire tutta la notte e quando si
svegliò era già
mattina inoltrata.
Per
colazione mangiò una
fetta di pane con dell’avanzo di burro di arachidi che
trovò in un barattolo in
fondo alla credenza.
Per
pranzo invece mangiò
altre due fette di pane e una mela. Avrebbe preferito mangiare
l’arancia, ma
aveva sentito alla radio che certe arance erano pericolose, e quindi le
evitò.
Nel
pomeriggio uscì nel
giardino per camminare un po’ e incontrò Cecil
– il vero Cecil. Non si era reso
conto di quanto gli mancasse quel tipo strano dalla faccia buffa, con
tutte le
sue lentiggini e quella mania di parlare sempre al
registratore… e il gatto che
lo seguiva ovunque.
«Carlos
lo scienziato.
L’incredibile perfetto Carlos con i suoi capelli perfetti,
dice che i suoi
genitori sono scomparsi. Non riesce più a trovarli da quando
è tornato a casa
da un mondo parallelo pieno di doppioni delle persone che vivono qui.
Altre
informazioni a venire.» ripeté Cecil al suo fidato
registratore, dopo che
Carlos gli ebbe raccontato buona parte della storia.
«E
quindi lì era esattamente
tutto uguale a qui? Dall’altra parte della grossa, vecchia,
porta di quercia?»
gli chiese dopo un po’.
«Non
proprio. Lì è tutto
molto più luminoso… e poi la gente che abita in
questo palazzo non è noiosa
come qui. Per esempio l’anziana signora Josie ha degli amici
angeli che--»
provò a rispondere Carlos prima di venire interrotto.
«Credo
che tu ti sbagli, non
penso che fossero angeli» lo rimbeccò Cecil con
tono altezzoso.
«Io
ne sono certo invece. Erano
alti alti, con le ali, e emanavano un aurea scura. Cos’altro
potevano essere?»
«Non
lo so, ma di sicuro non
erano angeli. Gli angeli non esistono e
dicono solo bugie.» replicò Cecil,
pronunciando l’ultima parte in modo
cantilenante, come se stesse ripetendo una frase a memoria.
Carlos
fece spallucce.
«D’accordo.
Non so cosa
fossero allora, ma sono sicurissimo che loro abbiano i miei genitori.
Cioè, non
gli angeli, o forse sì, anche loro, non lo so,
insomma… quelli che vivono là»
disse nel più totale sconforto.
Cecil
gli appoggiò una mano
sulla spalla, facendogli alzare lo sguardo da terra. Non disse nulla
subito, ma
sorrise. Fu confortante vedere che il suo sorriso era normale e che non
c’era
assolutamente niente si strano nella sua faccia.
«Penso
che se qualcuno ha
preso i tuoi genitori, l’unica soluzione sia lottare per
averli indietro –
disse, poi esitò e cambiò tono –
cioè, non è che voglia che tu vada di nuovo
lì. Sarebbe pericoloso.
Però…» provò a spiegarsi
meglio, ma, probabilmente
convinto di non esserci riuscito, distolse lo sguardo in imbarazzo,
arrossendo
leggermente.
Ma
Carlos aveva capito cosa
voleva dire. Sì, certo, tornare là era una
follia, ma se davvero era in quel
luogo che tenevano i suoi genitori, doveva andare a salvarli. O almeno
provarci.
Era abbastanza sicuro che da soli non sarebbero tornati.
Mentre
rifletteva su questo,
sentì qualcosa battere contro la sua gamba.
Quando
guardò, vide che si
trattava di Khoshekh.
«Credo
che voglia dirti
qualcosa» disse Cecil.
«Che
cosa?» domandò l’altro
bambino, ma Cecil non sapeva rispondere, così fece di nuovo
spallucce.
«Che
cosa vuoi dirmi, micio?»
chiese allora, rivolgendosi direttamente al gatto.
Quello,
per risposta, gli si
infilò tra le gambe e si diresse verso la porta di casa. Poi
si fermò e guardò
il bambino. Carlos capì immediatamente che il gatto voleva
essere seguito e lo
fece.
Cecil
rimase un attimo fermo
a guardare Carlos rientrare in casa, poi decise di seguirlo.
«Dove
mi stai portando? Sai
per caso dove sono i miei genitori? E’
così?» chiese, ma il gatto si limitò a
battere le palpebre e continuò a camminare lungo il
corridoio.
Arrivarono
in fine davanti ad
un grosso specchio che era appeso proprio in fondo a quel corridoio.
«P-perché questo specchio non
è scoperto?» chiese Cecil
con voce tremante.
Carlos
si voltò a guardarlo e
vide che il suo amico era rimasto distante dallo specchio, come se non
volesse
avvicinarsi.
«Che
motivo avremmo avuto per
coprirlo?» chiese sinceramente incuriosito.
Cecil
sembrò sconcertato
dalla risposta che aveva ricevuto e scosse forte la testa.
«Non
mi piace… Non va bene,
non dovrebbe…» iniziò a dire, ma poi fu
come percorso da un brivido e senza
spiegazione corse via.
«Cecil!»
lo chiamò forte
Carlos, ma Cecil era già uscito.
Allora
guardò Khoshekh.
In
risposta, il gatto fece
una cosa stranissima che sembrò – se fosse
possibile – come se avesse voluto
alzare le spalle, poi tornò a guardare lo specchio.
Anche
Carlos lo guardò.
Inizialmente
vedeva solo
riflesso un bambino dalla pelle olivastra con indosso un camice bianco
e al suo
fianco un gatto.
Poi
iniziò a percepire una
strana sensazione. Sentì dei fruscii. Ebbe
l’impressione di intravedere
qualcosa con la coda dell’occhio. Si girò a
controllare che non ci fosse niente
e quando tornò a guardare lo specchio vide qualcosa di
diverso: una lieve
immagine, come se fosse un riflesso su una superficie appannata, dei
suoi
genitori.
«Mamma!
Papà!» urlò quasi a
squarciagola, mentre le lacrime si formavano sotto i suoi occhi.
I
suoi genitori non potevano
parlare. Oppure era lui che non riusciva a sentirli. Sua madre si
avvicinò alla
superficie di vetro e dopo aver creato un po’ di condensa
alitandovi contro, vi
impresse l’indice e scrisse una parola che però
scomparve velocemente.
Carlos
fece in tempo a
leggerla, e nonostante fosse scritta al contrario, capì cosa
gli stavano
dicendo.
Le
lacrime gli scesero giù
per le guance senza che potesse o volesse fermarle. Scappare?
Come poteva essere così egoista da andarsene e lasciare i
suoi genitori nelle mani di quelle persone orribili?
Cosa
gli avrebbero fatto?
Avrebbero piantato le viti anche a loro? Sarebbero diventati dei mostri
sorridenti?
«Cosa
accadrà?» chiese al
gatto, ma un po’ in generale anche a se stesso.
Il
gatto mosse leggermente le
orecchie e batté le palpebre.
Carlos
non capiva il
linguaggio dei gatti. Di sicuro lo capiva meglio quando parlava, ma la
sua
interpretazione fu più o meno: «Secondo
te cosa accadrà?»
Riusciva
quasi a sentire
l’esatto tono del gatto nella testa, arrogante come al solito.
Comunque
cosa sarebbe
accaduto non aveva importanza – non voleva nemmeno
più pensarci – perché era
più che deciso ad impedirlo.
Si
diresse verso la cucina,
seguito da Khoshekh. Il gatto lo attese sulla soglia mentre recuperava
la
chiave, poi continuò a seguirlo fino in soggiorno, davanti
alla porta.
Infilò
la chiave nella
serratura, ma esitò a girarla.
Prese
un profondo respiro e
lanciò uno sguardo al gatto che lo fissò e
batté ancora le palpebre.
Lo
prese come un gesto di
incoraggiamento e così finalmente aprì ed
entrò.
Questa
volta la luce era
veramente potente, brillante, accecante. Non vedeva niente, e anche con
le
palpebre chiuse, ciò che vedeva era tutto bianco. Temette di
essere diventato
cieco per un momento. Si aiutò appoggiandosi alle pareti.
Il
corridoio sembrava non
finire mai – sembrava cento volte più lungo
dell’ultima volta, pensò Carlos.
Quando
stava per raggiungere
l’altra estremità, iniziò a delinearsi
una figura. Inizialmente non ne era
certo, perché riusciva a tenere gli occhi aperti a malapena,
ma quando arrivò
le arrivò addosso con un salto.
«Mamma!»
gridò
abbracciandola.
«Sapevo
che saresti tornato,
tesoro.» disse la donna, e Carlos capì
immediatamente di aver compiuto un
terribile sbaglio. Si ritrasse con forza e indietreggiò.
L’altra
madre lo lasciò
andare con riluttanza, ma neanche per un momento mutò il suo
gigantesco
sorriso.
«Cosa
avete fatto ai miei
genitori? Dove li tenete?» chiese immediatamente Carlos, a
testa alta e spalle
dritte, cercando di sembrare sicuro di sé e più
coraggioso di quanto si
sentisse in realtà.
«Assolutamente
niente, tesoro»
rispose l’altra madre con una certa noncuranza.
«Bugiarda!
–gridò il bambino,
sull’orlo del pianto- dove sono?» insistette.
Dovette fare un grande sforzo per
non piangere. Non voleva rischiare di apparire debole e dare
così l’impressione
di poter essere sconfitto facilmente – voleva credere che non
fosse così.
«Non
so dove sono, mio caro…
- cominciò l’altra madre – forse se ne
sono andati perché non ti volevano più.
Ma non devi preoccuparti di questo: ci siamo noi qui per te. E noi non
andiamo
da nessuna parte.» spiegò la donna nel tono
più rassicurante del suo
repertorio. Tuttavia non rassicurò affatto Carlos, che non
credeva ad una sola
parola di quello che aveva detto. Tranne la parte del non andare da
nessuna
parte. Quella era probabile e lo spaventava un po’. Avrebbe
tanto voluto che
tutti loro se ne andassero e lo lasciassero alla sua vita normale, con
i suoi
veri genitori.
In
quel momento, dalla porta
entrò zampettando velocemente uno di quei grossi ragni che
aveva già visto
l’ultima volta, e questo portava tra le zanne la chiave
– Carlos doveva averla
dimenticata nella serratura – che consegnò subito
all’altra madre.
Lei
la prese e spalancando la
bocca in maniera mostruosa la inghiottì.
Accarezzò il ragno mentre continuava a
guardare il bambino.
«Ti
consiglio di andare a
dormire adesso. E’ quello che abbiamo intenzione di fare noi.
Buona notte,
Carlos.» e così dicendo, l’altra madre
si diresse verso la propria stanza,
seguita dall’altro padre.
Ovviamente
Carlos non sarebbe
andato a dormire. Per prima cosa non si fidava di loro abbastanza da
dormire
sotto il loro stesso tetto. Seconda cosa, non si sarebbe riposato
finché i suoi
genitori non fossero stati sani e salvi.
Attese
di sentire la porta chiudersi
e la chiave girare nella serratura, poi si guardò intorno.
Vagò per la casa,
perlustrandola velocemente, ma tutto sembrava come lo aveva lasciato.
Per
sicurezza, controllò lo specchio alla fine del corridoio,
l’ultimo posto dove
li aveva visti, ma sembrava essere un normalissimo specchio. Dei suoi
genitori
non c’era traccia.
Decise
allora di uscire nel
giardino.
Andò
a sedersi su un vecchio
tronco appoggiato sul prato e sospirò. Non sapeva davvero da
dove cominciare.
Sentì
qualcosa di morbido
contro le gambe e capì subito che si trattava di Khoshekh.
«Dove
eri finito?» gli
domandò, rendendosi conto solo adesso che da quando aveva
varcato la porta non
l’aveva più visto. Il che non aveva senso,
perché dovevano per forza essere
passati dalla stessa porta.
«Sono
un gatto» replicò
semplicemente, come se in questa risposta apparentemente incongruente
fosse
implicita una spiegazione ovvia. Carlos si accontentò.
Questo non era un
atteggiamento da scienziato, se ne rendeva conto, ma ora aveva altre
cose per
la testa, altre domande da fare.
«Cosa
può volere da me?
Perché poi vuole proprio
me?» chiese
quindi.
«Vuole
aggiungere un pezzo
alla sua collezione, forse. Oppure vuole qualcosa da amare. Oppure ha
semplicemente fame.» e così dicendo fece di nuovo
quella cosa strana che
sembrava un’alzata di spalle. Le risposte del gatto erano
sempre vaghe, eppure
Carlos aveva l’impressione che sapesse più di
quanto volesse raccontargli.
Stava per farglielo notare, quando il gatto sparì con un
balzo dentro un buco
nel tronco.
Non
riapparve per un bel po’
e Carlos stava per arrendersi, ma attese qualche istante in
più e Khoshekh
riemerse dalla parte opposta del tronco con qualcosa in bocca.
«Che
cos’è? – chiese
incuriosito Carlos, e prendendolo tra le mani scoprì che si
trattava di un
registratore come quello di Cecil – dove l’hai
preso?»
«Appartiene
all’altro Cecil»
spiegò il gatto.
In
effetti, ora che ci
rifletteva, non credeva di aver mai visto l’altro Cecil
utilizzare un
registratore, a differenza del vero Cecil che invece non se ne separava
mai.
Non sapeva ne avesse uno.
«Gliel’hai
rubato?» chiese
Carlos, ma il gatto non rispose e prese a lucidarsi il pelo.
Il
bambino si rigirò
l’oggetto tra le mani, indeciso su cosa avrebbe dovuto farse
e chiedendosi come
avesse fatto il gatto a procurarselo.
«Adesso
dovresti andare a
dormire» affermò improvvisamente il felino,
distraendolo dai suoi pensieri.
«Ma
io non posso dormire… i
miei genitori, devo ancora trovarli…»
mormorò Carlos.
«Puoi
non dormire se vuoi, ma
faresti meglio a farlo perché ne hai bisogno. Sarebbe
davvero tragico se ti
addormentassi sul più bello» ironizzò
il gatto.
Carlos
ci rifletté,
osservando distrattamente il registratore.
“Forse
hai ragione” stava per
dire, ma quando alzò lo sguardo, il gatto era scomparso.
Tornò
in casa, guardingo,
facendo attenzione a non fare rumore. Si diresse nella propria stanza e
dopo
aver creato una sorta di barricata costituita da tutti gli oggetti
presenti
nella stanza, si sentì più sicuro e si
addormentò quasi subito.
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Capitolo 5 *** Capitolo IV ***
Il
giorno dopo, o quello che
credeva essere il giorno dopo, in realtà non era sicuro di
niente. Tutta quella
luce lo confondeva parecchio e aveva rinunciato da un bel po’
a misurare il
tempo in modo normale.
Si
accertò di avere ancora
con sé l’orologio finto e il registratore, e
uscì dalla stanza – impiegò un
po’
a rimuovere la sua assurda barricata.
In
casa sembrava non esserci
nessuno, ma poi, affacciandosi nello studio, vide il suo altro padre.
Era in
uno stato pietoso. Se ne stava seduto sulla sua sedia con gli occhi
chiusi, ma
non era certa che stesse dormendo. Quindi si avvicinò con
molta prudenza. Vide
che al collo aveva una fotocamera digitale. Facendo attenzione a non
disturbarlo, allungò una mano e sollevò
l’oggetto. Fece appena in tempo a
premere un tasto che la fotocamera emise un bip
e l’altro padre spalancò gli occhi neri.
Carlos
prese un enorme
spavento e fece un salto indietro. Subito credette che fosse arrabbiato
e che
l’avrebbe rincorso, ma si rese conto che non sarebbe accaduto
nulla di simile.
Non era sicuro se fosse perché non voleva o non poteva
muoversi, ma l’altro
padre rimase immobile, a parte per un tentativo di sorridere che si
espresse
con un solo lato della bocca grottescamente piegato
all’insù. Movimento che,
tra l’altro, produsse una sorta di rumore metallico.
«Che
cosa ti è successo?» gli
chiese Carlos, combattuto tra l’essere solamente curioso e il
provare pietà.
«Il
paraa—…sssita, la… la
foto» le parole furono pronunciate con una voce alterata che
non sembrava
affatto quella di suo padre, era lenta, monotona, a tratti stridente e
con
qualcosa di metallico, come la voce di qualcosa di elettronico di cui
le
batterie stanno per scaricarsi.
Riuscì
a malapena a capire
cosa stesse dicendo.
«Il
parassita? Intendi il
gatto?» chiese Carlos, ricordando ciò che
l’altro Cecil gli aveva detto a
proposito dei gatti (cioè che all’altra madre non
piacciono).
L’altro
padre non si mosse,
ma spalancò gli occhi e sembrò tremare.
«Hai
cercato di fare una foto
al gatto? E’ per questo che sei ridotto in questo
stato?» incalzò, cercando di
capire.
«Neess—suno
mi… —veva —etto
che non si pos—…ono fare foto ai…
ai… ai…»
«Ai
gatti?» cercò di
completare Carlos, visto che l’altro padre sembrava essersi
bloccato, come un
disco rotto.
«…ai…
ai gat—… ai…»
continuò,
con la voce sempre più bassa e lenta, mentre la sua testa
ricadeva gradualmente
da un lato.
Carlos
capì che qualcosa non
andava. Non capiva perché, ma quasi gli dispiaceva per quel
pover’uomo – sempre
che l’altro padre potesse definirsi un essere organico.
Uscì
dallo studio, lasciando
l’altro padre in quelle condizioni. Voleva sapere dove fosse
l’altra madre, ma
era evidente che chiederlo a lui non sarebbe servito a nulla in questo
momento.
Dato
che ora era solo – più o
meno – Carlos ne approfittò per dare di nuovo
un’occhiata in giro, ma ancora
una volta non trovò nulla di diverso che potesse fornirgli
un indizio su dove
si trovassero i suoi genitori.
Tornò
nel soggiorno.
Esasperato, si lasciò cadere sulla poltrona posta
esattamente davanti al
caminetto e chiuse gli occhi sospirando. Quando li riaprì,
qualcosa attirò la
sua attenzione.
Sulla
mensola del camino
c’era un oggetto che era abbastanza sicuro che non ci fosse
prima. Inoltre era
curioso che si trovasse lì, perché a casa sua
– la sua vera casa – non c’era
assolutamente nulla su quella mensola.
Si
avvicinò e lo prese tra le
mani. Il piccolo specchio incorniciato rifletté la sua
immagine e nient’altro.
Nonostante si sforzasse di guardare più attentamente
possibile, non vide i suoi
genitori come sperava.
Lo
riposizionò dove lo aveva
trovato e uscì di nuovo, sperando di trovare qualcosa di
più utile in giardino.
C’erano
ancora tutte le
piante e i cactus, anche se ora erano immobili e non si illuminavano
più. Il
picnic era sparito, forse l’altra madre aveva rimosso la
tovaglia e tutto il
resto. La recinzione, invece, era ancora dove si trovava il giorno
prima.
Carlos attraversò il giardino e la raggiunse. Ci mise un
po’ e dovette fare
molta attenzione, ma riuscì a superarla senza farsi male.
Fece
un grande sospiro di
sollievo perché aveva avuto davvero tanta paura di prendere
la scossa, ma
voleva esplorare fuori dal giardino per essere sicuro che i suoi
genitori non
fossero chiusi da qualche pare là fuori.
Iniziò
a camminare, ma più
avanzava, più aveva l’impressione di non riuscire
a vedere dove stava andando.
Allontanandosi, ogni cosa diventava più luminosa ed era
difficile vedere, e poi
non c’era ciò che avrebbe dovuto esserci. Non
riusciva a trovare il parco per
cani, il cerchio di pietre, la foresta sussurrante e tutto il resto.
Aveva
l’impressione di camminare in un deserto. Non era caldo,
però. Era solo tutto
molto luminoso.
Ad
un certo punto, scorse
qualcosa al proprio fianco e riconobbe immediatamente Khoshekh.
«Cosa
ci fai qui?» chiese al
gatto.
«La
domanda è cosa ci fa tu,
e cosa speri di trovare qui. Non vedi che non c’è
niente?» rispose il gatto
continuando a fluttuare accanto a lui.
«Deve
pur esserci qualcosa»
replicò Carlos con tono di ovvietà.
«Non
necessariamente. Questo
posto non interessa all’altra madre, quindi non
c’è nulla.» spiegò il felino.
«Cosa
significa? Questo posto
lo ha creato lei, quindi?» domandò il bambino.
«Forse
sì, forse no. Cosa
cambia? Il punto è che non troverai nulla qui.»
Proprio
mentre il gatto
diceva queste parole, Carlos scorse qualcosa.
«Ma
guarda! – fece indicando
con il dito – c’è qualcosa! E’
come una montagna con una luce brillante in
cima!»
«Contento
tu…» disse
semplicemente il gatto, mentre si avvicinavano sempre di più
e la sagoma
iniziava a delinearsi sempre meglio finchè non ci finirono
proprio davanti e
Carlos rimase a bocca aperta.
«Ma…
ma è la casa! Come è
possibile?»
«E’
possibilissimo. Non
abbiamo fatto altro che girare intorno. Ti avevo detto che qui non
c’è
nient’altro che questa casa.» disse saccente il
gatto.
«Va
bene. Forse non c’è
niente, ma allora…» Carlos non fece in tempo a
terminare la frase che il gatto
spiccò un balzo e atterrò sopra qualcosa che
strisciava alle loro spalle.
Il
bambino guardò bene e vide
che si trattava di uno di quegli enormi ragni dell’altra
madre e il gatto lo
stava tenendo tra i denti mentre la cosa dimenava le zampette. Poi si
fermò.
Era morto, evidentemente.
«Non
mi piacciono i ragni»
disse il gatto sputando la carcassa.
«Se
non ti piacciono, perché
l’hai ucciso?» chiese curioso Carlos.
Il
gatto lo guardò per un
istante, e il bambino si sentì giudicato come se avesse
detto qualcosa di
veramente stupido.
«Non
nel senso che non mi
piace mangiarli. Non mi piacciono in generale. Questo qui poi stava
facendo la
spia. Tutti i ragni qui sono spie.» spiegò il
felino.
«Lo
immaginavo… e comunque i
ragni non piacciono neanche a me – commentò Carlos
– adesso voglio tornare
dentro, tanto mi pare ovvio che qui fuori non troverò niente
di utile…»
«Se
preferisci» disse il
gatto e con queste parole si allontanò e sparì
tra gli arbusti.
Entrato
in casa, si stava di
nuovo dirigendo verso lo specchio in cui aveva visto i suoi genitori
– giusto
per controllare meglio, per sicurezza. – ma si
fermò a metà strada quando vide
l’altra madre seduta sul divano in soggiorno.
Lo
stava guardando con un
sorriso in faccia, ma non era esattamente lo stesso sorriso. Non
avrebbe saputo
descrivere cosa c’era di diverso, forse era più
malvagio del solito, ma quando
l’altra madre parlò, la sua voce era amorevole
come al solito.
Batté
leggermente la mano sul
divano accanto a lei, per invitarlo a sedersi. Vedendo che Carlos non
si
muoveva, sembrò molto delusa.
«No?
– disse - e
va bene.»
Si
alzò in piedi, sembrando
più grande e più minacciosa del solito.
«Proprio
non vuoi capire,
Carlos? Noi siamo l’unica famiglia che puoi avere.»
disse in modo atono, con
voce secca e dura, ma senza mai smettere di sorridere.
«Se
è così allora una
famiglia non la voglio nemmeno! Io voglio solo i miei veri
genitori e la mia vera
casa!» gridò il bambino quasi a squarcia gola,
piantando bene i piedi a terra e
stringendo i pugni per la rabbia. I suoi occhi si fecero lucidi.
Cercava con
tutto se stesso di essere forte e coraggioso – doveva
esserlo, non solo per se
stesso, ma per i suoi veri genitori – ma non era affatto
facile.
L’altra
madre si avvicinò
molto velocemente a lui e lo afferrò per un braccio,
trascinandolo per il
corridoio.
«Che
cosa fai? Lasciami!
Lasciami subito, mi fai male!» gridò Carlos,
cercando di strattonare e dimenarsi,
ma l’altra madre era molto più forte di lui, a
dire il vero, molto più forte di
quanto avrebbe immaginato.
«L’educazione
è una cosa
fondamentale se vuoi stare con noi. Non possiamo essere una vera
famiglia se
non porti rispetto ai tuoi genitori, giovanotto.»
“Io
non ci voglio stare con
voi” stava per dire Carlos, ma non ne ebbe il tempo.
«Starai
in punizione. E’
questo che succede ai bambini cattivi che non trattano i propri
genitori come
si deve. Quando imparerai a ricambiare il nostro amore come ci
meritiamo,
saremo una famiglia felice, ma fino ad allora… - disse
quando erano ormai alla
fine del corridoio - resterai qui dentro!»
Terminò
la frase
scaraventando Carlos contro lo specchio, ma, con sua sorpresa, non ci
fu nessun
infrangersi di vetri rotti, ma solo un sonoro tonfo quando raggiunse il
terreno.
Aprì
gli occhi che non si era
neanche accorto di aver chiuso e si trovò in un luogo
estremamente luminoso e
molto caldo. Ci mise un po’ a mettere a fuoco e
capì di non essere solo. Si
rese conto subito di trovarsi su un suolo fatto di sabbia. Le pareti
non erano
visibili, sembravano lontane, ma non sapeva dire quanto. Forse non
c’erano
affatto pareti. Non aveva davvero idea di dove si trovava, ma essendo
sicuro di
aver sentito dei respiri, cercò di mettere a fuoco il meglio
possibile per
vedere chi fosse e, se possibile, mettersi in contatto con la presenza.
«Chi
c’è là? Cher posto è
questo?» provò a chiedere, sperando di ricevere
una risposta, ma soprattutto
sperando di non stare commettendo un terribile errore: come poteva
sapere se
chiunque fosse in quella stanza fosse stato in combutta con
l’altra madre?
Forse lì dentro c’era un mostro pronto a mangiarlo.
«Chi
sei?» rispose una voce
femminile.
«Eccone
un altro…» disse una
seconda voce sempre femminile.
«Io
sono Carlos, ma voi chi
siete? Che cosa ci fare qui? E’ stata l’altra madre
a rinchiudervi qui?» iniziò
a chiedere Carlos, assetato di risposte.
Dalla
luce emerse una figura
abbastanza alta con tanti capelli ricci. Solo quando si fu avvicinata
abbastanza
Carlos riuscì a capire che si trattava di una ragazza. Era
giovane, di colore,
e dietro a lei spuntò immediatamente la seconda persona.
Anche lei una ragazza
di colore, ma molto più giovane dell’altra, con in
mano un libro, ma Carlos non
riuscì a vedere di cosa si trattasse.
«E’
stata l’altra madre, è
vero. Anche tu sei qui per opera sua?» chiese la
più giovane. Carlos annuì.
«Il
mio nome è Dana, lei è
Tamika» si presento la prima, mentre la seconda salutava con
un cenno della
testa.
«Da
quanto tempo siete qui?»
chiese Carlos.
«Non
ne abbiamo idea. Non c’è
modo di contare il tempo qui.» rispose Dana.
Sembrò esitare un po’, ma poi
aggiunse: «Devi andartene di qui.»
«Sai
benissimo che è
impossibile» commentò bruscamente la bambina.
«L’altra
madre ha detto che
starò qui finché non ricambierò il suo
amore…» provò a spiegare Carlos.
«Non
farlo!» esclamò
preoccupata Dana.
«Farà
cose orribili. Noi
siamo qui da un’eternità. Finirai come
noi.» spiegò Tamika.
Carlos
avrebbe voluto
chiedere a che tipo di “cose orribili” si riferisse
e se avessero già subito
queste cose, ma non sapeva come chiederlo con delicatezza. Invece,
trovò
un’altra domanda da fare.
«Probabilmente
prima o poi
l’altra madre tornerà per vedere se ho cambiato
idea, se aprirà il passaggio
nello specchio, forse allora voi potrete uscire…»
propose il bambino.
«Non
possiamo» rispose
mestamente Dana.
«Perché
no? Cosa vi trattiene
qui?» chiese curioso Carlos, alzando le sopracciglia per la
sorpresa.
«Lei
non ci ha semplicemente
rinchiuse… ci ha rubato qualcosa molto
importante…» iniziò a spiegare la
maggiore.
«Cosa?
Di che cosa si tratta?»
domandò concitatamente Carlos, sempre più
preoccupato.
«La
libertà… e la volontà.»
spiegò Dana.
«Riguardo
la volontà parla
per te! – si intromise Tamika, parlando con un certo orgoglio
– La mia volontà
non è riuscita a portarmela via.»
«Sì,
ma ha comunque la tua
libertà, quindi non puoi uscire» la
rimbeccò debolmente Dana, senza alcun
rimprovero nella voce, soltanto tanta amarezza.
Carlos
rimase un po’ in
silenzio a riflettere. Erano un bel po’ di informazioni che
avevano bisogno di
trovare un posto nella sua mente.
«Ma
allora come faccio a
tirarvi fuori da qui?» chiese sconsolato dopo un
po’, dato che non riusciva
proprio a farsi venire in mente una soluzione.
«Non
puoi. Dovresti scappare
appena ne hai l’occasione…» rispose
Dana, calciando distrattamente a terra con
un piede.
Carlos
non riusciva a
smettere di pensare al fatto che forse anche ai suoi genitori era stato
fatto
qualcosa del genere. Inoltre ancora non sapeva se loro avevano le viti
nella
faccia. Doveva a tutti i costi trovare una soluzione per almeno una di
tutte
queste cose. Non riusciva ad accettare l’idea di abbandonare
tutte queste
persone come continuavano a suggerirgli tutti.
«Ci
deve essere qualcosa che
posso fare!» esclamò esasperato dopo un tempo
interminabile.
«Forse
– suggerì Tamika – se
tu ritrovassi le nostre libertà e la sua volontà,
anzi, se lo farai sicuramente
saremo libere.»
Dana
gli si avvicinò
ulteriormente ed ora che era davvero vicina, finalmente vide che anche
lei
aveva quel mostruoso sorriso, ma era un sorriso immensamente triste e i
suoi
occhi neri sembravano vuoti. Stessa cosa valeva per Tamika, come ebbe
occasione
di constatare appena anche l’altra si avvicinò.
“Quindi
è questo che mi spetta,
che spetta a tutti quanti, se non riesco a battere l’altra
madre” pensò Carlos
con un piccolo brivido sia di disgusto che di terrore.
«Non
pensarci. Adesso devi
riposarti. Quando l’altra madre tornerà dovrai
impegnarti molto se davvero
vorrai aiutarci» disse con calma Dana.
Carlos
si sentiva davvero
stanco. In effetti gli occhi gli si stavano chiudendo, anche se era
difficile
rilassarsi con tutta quella luce. Si accovacciò a terra.
«Non
so se ci riuscirò.
L’altra madre ha anche i miei genitori…»
bisbigliò prima di sbadigliare.
«Allora
devi trovare anche
loro» disse Tamika.
«Ma
come faccio?» riuscì a
dire Carlos prima di addormentarsi.
«Guarda
l’orologio» fu
l’ultima cosa che sentì.
Quando
si svegliò,
stranamente molto più riposato di quanto credesse di potersi
sentire, fu
riportato alla veglia da un delizioso profumo. Aprì gli
occhi e scoprì che
l’altra madre lo aveva tirato fuori dal luogo dietro lo
specchio e lo aveva
portato in cucina, dove gli stava preparando la colazione.
Non
era dell’umore di stare
seduto a tavola nella stessa stanza di quella donna, ma si rese conto
che
effettivamente aveva fame e quindi mangiò tutto
ciò che gli fu servito.
L’altra
madre lo guardava
sorridendo, come al solito, ma aveva l’espressione di un
predatore che osserva
la preda abbeverarsi ad un corso d’acqua prima di attaccarla.
Sembrava
particolarmente di
buon umore. Forse era veramente convinta che la sua detenzione lo
avesse reso
più docile.
Carlos,
pieno di dubbi,
affamato e spaventato, preferì rimanere in silenzio, cosa
che gli riuscì
facilmente, dato che anche l’altra madre non disse niente
fino alla fine del
pasto.
«Era
tutto di tuo gradimento?»
chiese con eccessivo affetto l’altra madre.
Carlos
aveva avuto occasione
di riflettere e aveva deciso che finché non avesse trovato
un modo di salvare
tutti quanti avrebbe dovuto tenersela buona il più
possibile. Non avrebbe mai
accettato di farsi bucare la faccia con delle viti, ovviamente, ma
sarebbe
stato un bambino buono e affettuoso – anche se avrebbe dovuto
fare un grande
sforzo perché più guardava quella donna,
più la trovava ripugnante.
«Era
buonissimo! Non avevo
mai mangiato un’omelette così buona»
rispose Carlos forzando un sorriso.
Perfino
l’altra madre sembrò
sorpresa da questa sua reazione positiva, Carlos lo notò.
Allora non era così
sicura di se come sembrava, ma il bambino sapeva di non poter abbassare
la
guardia. Quella donna aveva troppi assi nella manica.
«Adesso
vorrei andare un po’
a giocare in giardino» disse con naturalezza, sperando che
l’altra madre non
glielo impedisse. Voleva allontanarsi da lei per avere modo di
riflettere
ancora ed escogitare un piano. Non si sentiva al sicuro nelle sue
vicinanze.
L’altra
madre lo squadrò per
bene, e Carlos temette di finire di nuovo rinchiuso nel luogo dietro lo
specchio
– questa volta per sempre, magari – ma alla fine
accentuò maggiormente il suo
mostruoso sorriso e affilò gli occhi neri.
«Ma
certo tesoro. Adesso vai
fuori a giocare. Quando tornerai sarò qui ad aspettarti e
sarà il momento per
te di accettare finalmente il nostro dono» mentre
l’altra madre diceva questo,
Carlos notò sul bancone della cucina la scatola contenente
le viti a lui
destinate. Rabbrividì, ma non disse niente.
Si
alzò e a passo svelto uscì
dalla casa, allontanandosi abbastanza da sentirsi sufficientemente al
sicuro –
anche se sapeva di non esserlo da nessuna parte.
Immediatamente
sentì un
fruscio tra i cespugli. Non ebbe bisogno di guardare per sapere che si
trattava
di Khoshekh. Il gatto fluttuò a suo fianco e lo
scrutò brevemente con aria sorniona.
«Sei
in gran forma» commentò
il micio.
Carlos
storse il naso. Non
era in vena di sarcasmo. Sapeva di non avere un bell’aspetto.
Era pallido e
stanco, nonostante la dormita e il cibo: lo stress e la paura lo
stavano
consumando.
«Adesso
ci sono ancora più
persone da salvare. Ho scoperto che l’altra madre tiene
prigioniere anche due
ragazze.» spiegò il bambino, tagliando corto.
Sperava che il gatto sapesse
qualcosa a riguardo. Aveva sempre avuto l’impressione che
quel gatto sapesse
più di quanto volesse dare a vedere.
«Sconcertante»
miagolò il
gatto, stiracchiandosi appeso nel nulla.
«Tu
lo sapevi? Perché non me
l’hai detto prima?!» domandò alterato
Carlos.
«Non
me l’avevi chiesto. Mi
risultava che volessi salvare soltanto i tuoi genitori. E te stesso,
magari.»
rispose con indifferenza.
Carlos
sospirò esasperato.
Sperava di ricevere aiuto dal felino, ma non era molto utile con le sue
battute. Se non altro, adesso aveva la prova che il gatto sapesse
qualcosa, ma
doveva capire fino a che punto e sfruttare quelle conoscenze.
«Tu
sai come aiutarli?»
chiese ignorando l’atteggiamento del gatto.
«Hai
ancora con te il
registratore?» il felino rispose alla domanda con
un’ulteriore domanda.
Carlos
si portò
istintivamente la mano alla tasca che conteneva l’oggetto.
«Certo»
disse, estraendolo e
mostrandolo al suo interlocutore.
«Beh?
Cosa fai, lo fai vedere
a me? E’ a te che interessa.» commentò
con una sorta di alzata di spalle.
Carlos
si sentiva sempre più
esasperato, ma si concentrò su ciò che credeva
che il gatto volesse dire.
Si
allontanò ancora di più
dalla casa, seguito da Khoshekh, si guardò intorno per
assicurarsi di non
essere visto – anche se la totale certezza non poteva averla
– e si sedette su
un masso.
Riavvolse
il nastro e poi
fece partire la registrazione.
«Non
è contenta… non è contenta. Le ultime
due non
sono state facili… non c’è niente da
fare per loro…» disse
una voce vibrante che usciva dall’apparecchio.
«Dopo
l’ultimo… l’ultimo…
» ripeté
la voce, rompendosi poi in lievi singhiozzi.
«Non
è andata come voleva lei. Lei è molto
arrabbiata ora. L’ultimo non è tornato…
è perso per sempre… è…
è… è salvo.»
continuò la voce, interrompendosi.
Una parte della registrazione era finita, ma subito dopo ne
cominciò un’altra.
«Io
non volevo, non volevo!»
gridò la voce, cogliendo di sorpresa Carlos che
sobbalzò, ma senza perdere la concentrazione.
«Adesso
ho le sembianze dell’ultimo. Ce n’è un
altro
adesso. Io non… non… ricordo. Cosa
c’era prima. C’è solo lei. Ce
n’è un altro
adesso.»
la registrazione si interruppe
di nuovo, ma proseguì con una nuova parte subito dopo.
La
voce sembrava ancora più
concitata di prima. Era come un sussurro, come se stessa parlando
cercando di
non farsi sentire da qualcuno.
«Lei…
lei… non ama i giochi. Lei odia chi la sfida, ma
odia ancora di più perdere. Accetterebbe una sfida. Non deve
sentirmi
altrimenti lei… non può trovare questo nastro.
Ricorda. Ricorda lei accett---»
la frase rimase inconclusa e la registrazione si
interruppe per l’ultima volta.
Carlos
rimase immobile e in
silenzio, ripetendo nella mente tutti quei pezzi di frasi sconnessi,
cercando
di attribuirgli un senso.
Fu
il gatto a rompere il
silenzio, interrompendo il flusso dei suoi pensieri.
«Hai
capito adesso?» chiese
quasi con impazienza.
Carlos
non ne era certo al cento
per cento, ma annuì debolmente.
«Quella
era la voce
dell’altro Cecil» disse più a se stesso
che al gatto, che infatti sbuffò e lo
guardò come per incitarlo a continuare ad esporre il suo
ragionamento.
«Ce
ne sono stati altri prima
di me, non è vero? Anche prima di Dana e Tamika…
da quanto tempo è qui? Lei
intendo.»
Il
gatto scosse le spalle e
fluttuò un po’ intorno al bambino.
«Non
ha importanza. Credo che
l’altro Cecil sia andato contro l’altra madre. Deve
aver cercato di ribellarsi.
Ma non era la prima volta, vero?» incalzò ancora.
«Tu
cosa credi?» ribatté il
gatto, ma in quelle parole di scherno era inclusa una risposta positiva.
“Lui
è… morto?”
avrebbe voluto chiedere, ma queste parole gli morirono in gola ancora
prima di formarsi. Non voleva pensarci. Invece cambiò
argomento.
«Tu
mi hai portato questo
registratore. Per aiutarmi a capire.» affermò
Carlos con certezza.
Il
gatto stava per rispondere
con qualcosa di impertinente, ma il bambino non gliene diede tempo.
«Grazie»
disse, infatti,
accennando un sorriso.
Il
gatto, per la prima volta,
non parlò nonostante ne avesse la possibilità.
Batté le palpebre e fece una
sorta di profondo inchino, invece.
«E
adesso cosa devo fare?»
domandò.
«Lo
sai già» replicò
laconicamente il felino e così dicendo si
allontanò e sparì come al solito. Non
mentiva però, era vero. Carlos sapeva cosa fare, anche se
non era affatto
convinto della riuscita del suo piano.
Doveva
sfidare l’altra madre
se doveva sperare di riuscire a batterla perché questa era
veramente la sua
ultima possibilità di salvare tutti quanti.
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Capitolo 6 *** Capitolo V ***
Tornò
in cucina e l’altra
madre era ancora lì che lo aspettava, in piedi di fronte al
tavolo sul quale
giaceva la scatola – “come aveva
promesso” pensò Carlos.
«Sei
tornato, spero tu ti sia
divertito. Ora è giunto il momento…»
incominciò l’altra madre, ma questa volta
fu il turno di Carlos di interrompere qualcuno.
«Non
ancora» disse lapidario.
L’altra
madre si irrigidì,
visibilmente seccata e nei suoi occhi Carlos vide di nuovo quella furia
che
fino ad ora aveva solo creduto di intravedere.
Non
si fece spaventare – o
meglio, era spaventato, ma si fece forza e non lo diede a vedere.
«Prima
voglio proporti una
sfida, un gioco se preferisci.» sentendo queste parole,
l’altra madre sembrò
agitarsi ulteriormente e il suo sguardo si fece sempre più
minaccioso, mentre
il suo sorriso si allargò a dismisura.
«Oh,
davvero? E che tipo di
sfida sarebbe, sentiamo» rispose piegando la testa di lato.
Era come se si
sforzasse di restare ferma e posata mentre invece avrebbe voluto
sfogare la
rabbia – probabilmente direttamente su Carlos – il
che non era così
improbabile.
«Se
io riesco a ritrovare i
miei genitori e ciò che hai rubato alle due ragazze del
luogo oltre lo
specchio, tu ci lascerai liberi tutti quanti»
spiegò Carlos, sforzandosi di non
far tremare la voce.
L’altra
madre quasi rise.
Carlos rabbrividì. Non voleva sentire la sua risata.
«E
se… mettiamo il caso… se
tu perdessi?» chiese in tono palesemente ironico.
«Se
perdo resterò qui con te
e mi pianterai le viti nella faccia o qualunque altra cosa sia che fai
ai poveri
malcapitati che cadono nella tua rete.» riuscì a
dire tutto d’un fiato,
soprendendosi da solo del proprio coraggio. Infatti quella non gli
sembrava una
possibilità così remota e rischiava sempre
più di diventare reale.
«Va
bene allora. Accetto la
tua sfida.» stava dicendo l’altra madre, ma Carlos
la interruppe ancora.
«Aspetta!
Devi darmi qualche
indizio prima. Che aspetto hanno la libertà e la
volontà?» chiese, ma non
ottenne risposta.
L’altra
madre si limitò a
prendere in mano una delle viti dalla scatola e a rigirarsela tra le
dita come
un gioiello prezioso.
Carlos
dubitava che quello
fosse l’indizio che cercava. Capì che non avrebbe
ottenuto niente e quindi si
girò e si diresse fuori.
Da
dove cominciare?
Si
guardò intorno, ma era già
stato nel giardino poco prima e non aveva notato niente. Non sapeva
neanche se
cominciare dai propri genitori o dalle ragazze, non sapeva dove cercare
e, a
dire il vero, neanche cosa cercare
di
preciso.
Poi
si ricordò di ciò che gli
avevano detto nel deserto dietro lo specchio.
“Guarda
l’orologio” si
ripeté, e fu ciò che fece. Lo estrasse dalla
tasca e lo osservò. Si rese conto
che c’era qualcosa di strano.
Le
lancette giravano come
impazzite, in direzioni diverse e molto velocemente, finché
non si
posizionarono in un certo modo. Non aveva senso che quella fosse
l’ora esatta.
Era ormai convinto da tempo che in quel luogo non esistesse nemmeno
un’ ora
esatta – né alcun tempo, in realtà.
Forse
non aveva sentito bene.
Non capiva come un orologio rotto potesse essergli utile.
Provò a spostarsi,
pensieroso, e vide che le lancette si muovevano ancora fino a tornare
ad
indicare la direzione che indicavano in precedenza, come una strana
bussola con
tre diversi nord.
Allora
gli fu chiaro che le
tre direzioni indicavano tre posti diversi in cui cercare. Eppure le
cose che
doveva trovare erano quattro, quindi forse avrebbe trovato due cose
nello
stesso posto, oppure una sarebbe rimasta esclusa… o non
l’avrebbe trovata
affatto.
Si
disse che non era il
momento di pensarci. Doveva trovare tutto ciò che riusciva a
trovare prima che
l’altra madre escogitasse qualcosa.
Seguì
la lancetta sei
secondi.
Questa
lo portò di fronte
alla porta dell’appartamento della signora Josie –
cioè, della giovane altra
Josie.
Fece
un respiro profondo
prima di aprire la porta e poi entrò di soppiatto, ma dentro
tutto sembrava
vuoto. Apparentemente non c’era nessuno, o almeno
così credeva.
In
fondo ad una pista c’era
una cosa grande e informe, come un grumo di cose mescolate insieme.
Carlos
guardò ancora la
lancetta e questa puntava esattamente verso quella cosa.
Cautamente
si avvicinò, ma
non accadde nulla.
Da
vicino poté vedere che la
grossa massa era ricoperta di piume.
“Gli
angeli” pensò.
La
toccò e risultò
appiccicosa, ma non viscida. Era morbida, fredda, incolore.
Riuscì
ad aprire un varco e
dentro quella sorta di guscio vide la cosa più orribile e
spaventosa che avesse
mai visto. Anche più spaventosa del sorriso
dell’altra madre, forse.
Sicuramente più disgustosa.
C’era
una creatura lì dentro,
ma anche questa era come un grumo di cose spiaccicate insieme.
Al
centro riuscì a
riconoscere i lineamenti della giovane Josie, mentre altre teste che
spuntavano
dalle spalle avevano volti irriconoscibili. Alcuni avevano solo occhi,
altri
solo bocche, altri assolutamente nulla.
In
più, quella creatura aveva
moltissime braccia che le spuntavano dai fianchi e dalla schiena. Le
gambe non
erano immediatamente riconoscibili e Carlos giunse alla conclusione che
fossero
tutte fuse insieme e che quindi quella cosa non dovesse essere in grado
di
muoversi – almeno così sperava.
Portò
l’orologio davanti a sé
e lo guardò ancora una volta, per sicurezza, e vide che la
lancetta dei secondi
puntava proprio in direzione di quella creatura.
Carlos
deglutì e mise via
l’orologio. Qualunque cosa fosse, doveva trovarsi
lì dentro.
Osservò
meglio e notò che
effettivamente c’era qualche cosa.
Quattro
delle grandi mani
della creatura erano strette insieme e si rese conto che stringevano un
oggetto. Era un rettangolo grigio scuro e lucido.
Molto
lentamente e molto
delicatamente, le manine di Carlos si avvolsero intorno a quelle grandi
mani e
un dito alla volta riuscì a liberare quasi del tutto
l’oggetto che ora –
essendo più visibile – si rivelò essere
un cellulare.
Ora
solo una mano lo
stringeva ancora. Gli mancava poco per riuscire a liberarlo
completamente, ma
proprio quando ormai c’era quasi riuscito, la mano si chiuse
di scatto e gli
occhi del volto di Josie di aprirono di scatto, neri come sempre,
scintillanti
di furore puro.
Carlos
fece un balzo indietro
per lo spavento. Il cellulare che era riuscito ad afferrare gli cadde a
terra,
mentre la sua mano era intrappolata nella morsa della creatura.
«Ladro!
Ladro!» gridò con una
voce acuta e graffiante la creatura. Tutte le varie bocche sparse per
il corpo
si muovevano all’unisono e gridavano una singola parola,
sempre più forte: «Ladro!»
Carlos
strattonò con tutta la
forza che aveva.
«Non
sono un ladro! Non sono
un ladro! Lei è una
ladra! Questo
oggetto non le appartiene, lo ha rubato! Lasciamelo
prendere!» gridò con tutta
la voce che aveva in corpo, tanto che la gola prese a fargli male non
appena
smise di parlare.
Le
sue parole non sembrarono
avere alcun effetto sulla creatura, ma per fortuna Carlos
riuscì comunque a
liberarsi dalla presa con uno strattone un po’ più
forte. Indietreggiò e poi si
fermò, osservando la cosa contorcersi a allungare tutte le
braccia nella sua
direzione, ma fortunatamente aveva immaginato bene: non poteva muoversi
da lì.
Un
po’ più tranquillo, si
guardò intorno alla ricerca del cellulare, che
scoprì giacere a terra poco
distante da lui. Lo afferrò velocemente e si
allontanò più rapidamente che poté
da quel luogo infernale.
Ora
che era uscito, non aveva
tempo da perdere. Doveva immediatamente mettersi alla ricerca del
prossimo
oggetto.
Guardò
l’orologio e sta volta
decise di seguire la lancetta dei minuti.
Puntava
dritta verso il
giardino, così Carlos si avviò allontanandosi
dalla casa.
Tutto
era silenzioso, come
era sempre stato in realtà, ma questa volta quel silenzio
fece paura a Carlos,
perché non sapeva cosa aspettarsi, ma sapeva che non sarebbe
stato nulla di
piacevole.
Arrivato
al centro del
giardino, scorse la tovaglia del picnic e tutti gli arbusti che una
volta
avevano ondeggiato e cantato per lui, ma adesso erano solo dei rami
secchi e
informi.
Anche
la tovaglia poggiata a
terra sembrava sporca e solitaria. Come se avesse qualcosa di vecchio
che prima
non aveva, e la schiena di Carlos fu percorsa da un brivido poco
rassicurante.
Si
fece forza e avanzò, ma si
arrestò immediatamente quando sentì una sorta di
brontolio provenire dai
cestini da picnic posti disordinatamente sulla tovaglia.
Solo
allora si accorse che in
mezzo a quelli c’era qualcosa.
Non
avrebbe saputo dire cosa
da così lontano, quindi decise di avvicinarsi ancora un
po’, fermandosi di
nuovo quando sentì ancora quel brontolio.
In
realtà da più vicino non
era più un brontolio, era più un ronzio, come
quello di un ingranaggio bloccato
che non riesce a mettersi in moto e quindi ripete sempre lo stesso
movimento
nel tentativo di ripartire.
Carlos
sospirò e guardò
l’orologio. La lancetta dei minuti indicava proprio quel
punto, ne era certo,
quindi si fece coraggio e avanzò ancora di qualche passo.
«Cecil!»
gridò, portandosi
una mano alla bocca per lo spavento, mentre fissava con gli occhi
spalancati lo
spettacolo davanti a sé.
Infatti,
buttato a terra come
una bambola rotta, giaceva l’altro
Cecil. I suoi arti erano piegati in modi anormali e la sua testa,
anch’essa
girata in modo innaturale, era come stata scuoiata, ma sotto di essa
non c’era
né carne né sangue, solo freddo metallo, circuiti
esposti che ogni tanto
ronzavano – ecco spiegata l’origine del suono che
aveva sentito prima – e un
liquido denso e scuro che colava dal suo orecchio e dal lato della
bocca spalancata.
L’altro
Cecil dovette vedere
Carlos ad un certo punto, perché ebbe come un singulto,
più come una vera e
propria scossa, come cercò di muoversi, che gli percorse
tutto il corpo per poi
farlo tornare a giacere come prima.
Carlos,
spaventato, ma soprattutto
impietosito da quella scena, si avvicinò fino ad
inginocchiarsi vicino
all’altro. Non abbassò la guardia, ovviamente, ma
in qualche modo sentiva di
doversi avvicinare, e non solo per prendere l’oggetto
misterioso, ma per
qualche strano motivo che gli toccava il cuore.
In
fondo, da quello che aveva
capito dalla registrazione, l’altro Cecil non poteva essere
cattivo, o almeno
non del tutto, e forse non si fidava di lui, ma vederlo in quello stato
gli
fece molto male, come un pugno nello stomaco.
Capì
che l’altro Cecil stava
cercando di dire qualcosa perché si sforzava di muovere la
bocca ed emetteva
dei suoni sconnessi.
Finalmente
riuscì a parlare,
anche se la sua voce era distorta e le parole difficili da capire.
«Tu
hai il mio registratore»
disse, non sembrava una domanda, ma più una constatazione.
Carlos
annuì e quasi senza
pensarci lo tirò fuori dalla tasca e glielo fece vedere.
L’altro
Cecil fece una
smorfia. Era impossibile capire se fosse un sorriso, una smorfia di
dolore o
cos’altro, perché la sua faccia era parzialmente
scoperchiata da quella specie
di pelle che aveva e quindi inespressiva, mentre l’altra,
ancora intatta,
sorrideva sempre, come al solito.
«Cosa
ti è successo?» chiese
Carlos con voce tremante. Aveva paura di chiederlo perché
temeva che la
spiegazione fosse più orribile del vederlo così.
Non è che non immaginasse già
cosa potesse essere successo, in realtà.
«Tu
cosa pensi?» domandò
ironicamente il bambino biondo, con non poca fatica.
«E’
stata lei, vero?» chiese
l’altro bambino.
«Non
è stata contenta di
sapere che avevi ascoltato le mie registrazioni. Pensava di averle
cancellate
tutte» spiegò e questa volta la smorfia che fece
fu molto più simile ad un vero
e proprio sorriso, anche se era evidente che gli costava fatica
mantenerlo,
perché lo fece solo per un paio di secondi e poi
aggrottò le sopracciglia.
Carlos
impiegò alcuni secondi
a capire il senso delle parole che aveva ascoltato, poi lentamente i
suoi occhi
si fecero lucidi e cominciarono a riempirsi di lacrime,
finché la vista divenne
tutta sfocata e non fu più in grado di distinguere forme
precise. Cercò di
asciugarsi gli occhi con la manica del camice, ma la situazione
migliorò solo
parzialmente.
Improvvisamente
aveva capito:
il registratore non gli era stato rubato, o almeno non a sua insaputa.
L’altro
Cecil avrebbe voluto aiutarlo fin dall’inizio, ma non gli era
stato possibile,
poi l’altra madre lo aveva scoperto ed era finito in quel
modo.
“E’
tutta colpa mia” queste
parole si formarono spontaneamente nella mente di Carlos e non riusciva
a
scacciarle via. Come faceva a non sentirsi in colpa?
«Grazie»
fu l’unica cosa che
riuscì a dire. Cercare di non singhiozzare gli portava via
molta concentrazione
e la sua mentre era affollata solo da paura e sensi di colpa, quindi
articolare
qualcosa di più complicato era impossibile in quel momento.
Ancora
con il registratore in
mano, fece la cosa che gli sembrò più giusta:
restituirlo al suo legittimo
proprietario. Delicatamente, appoggiò
l’apparecchio nella mano dell’altro Cecil
e gliela chiuse intorno ad esso.
«Devi
scappare via» rispose
incoerentemente l’altro Cecil, cambiando discorso.
«Ma
non posso! I miei
genitori e le altre due--» iniziò a dire Carlos,
ripresosi improvvisamente.
«No,
no, non intendo… devi
scappare via da me perché l’altra madre vuole che
ti faccia del male» spiegò
mentre un evidente velo di preoccupazione oscurava il suo volto.
«Ma
non riesci neanche a
muoverti, come potresti farmi del male?» chiese Carlos,
sempre più spaventato e
preoccupato.
«Tu
non hai idea di cosa lei sia
capace. Dammi retta. Tieni.»
finì di dire aprendo una mano e porgendola a fatica
all’altro bambino.
Conteneva
alcuni fogli di
carta accartocciati.
Carlos
li prese e li distese
meglio che poté e capì che erano pagine di un
libro.
«Questo
è…» iniziò a dire, ma
l’altro lo interruppe.
«Quello
che stai cercando. Ti
serve. Adesso, per favore, vattene… per…
favore…» pronunciò le ultime parole
con ancora più fatica di prima e lentamente
cominciò a mettersi in piedi.
Carlos
come di riflesso si
alzò e indietreggiò. Capì che
l’altra madre lo stava controllando in qualche
modo.
«Non
devi farlo per forza, lo
so che non vuoi farlo» provò a convincerlo.
«Non
posso, è lei che me lo
fa fare, non capisci? Non posso… Scusa!» fu
l’ultima parola che disse
mettendosi di nuovo in piedi per poi cominciare ad avanzare verso di
lui.
Carlos
indietreggiò,
stringendo tra le mani quei preziosi fogli. Capì che ormai
non c’era nulla da
fare. L’altro Cecil non era più se stesso e non lo
avrebbe più ascoltato,
quindi doveva farsi forza e trovare il modo di fermarlo.
Infilò
i figli in tasca e
iniziò a guardarsi intorno alla ricerca di un’arma
qualsiasi, ma non vedeva
molte speranze, poi finalmente notò qualcosa scintillare sul
prato a poca
distanza da sé e dall’altro.
Capì
di cosa si trattava e
senza avere in tempo di pensare, con uno scatto corse a prenderle:
erano le
grosse forbici da potatura di Telly, che doveva aver dimenticato
lì tra l’erba.
Erano
così pesanti che
dovette tenerle con entrambe le mani e le brandì contro
l’altro per tenerlo
lontano.
L’altro
Cecil non sembrava
affatto spaventato da quelle cose, nonostante fossero grandi e
affilate, e
Carlos non sapeva davvero cosa fare.
Non
osava spingerle troppo
avanti per paura di ferire l’altro, ma sapeva che si sarebbe
reso necessario
farlo. Non c’era altro modo di fermarlo, e se non
l’avesse fatto ci avrebbe
rimesso lui stesso e non poteva permetterselo, non ora ch era arrivato
così
avanti nella sua ricerca per salvare tutti quanti. Però
sapeva anche che non
avrebbe potuto considerarsi soddisfatto, pur salvando tutti, se non
avesse
salvato anche l’altro Cecil.
Mentre
indietreggiava, sempre
tenendo le forbici puntate davanti a sé, e rifletteva su
tutto questo e su cosa
fare, accadde qualcosa che lo colse di sorpresa e congelò il
suo fiume di
pensieri all’istante.
L’altro
Cecil era ad una
distanza fin troppo ravvicinata e gli sorrideva con un ghigno enorme e
sporco
di quella sostanza nera e viscosa.
Le
mani di Carlos tremavano
tanto che riusciva a stento a reggere ancora le pesanti forbici.
Forbici che
erano profondamente infilzate nel corpo dell’altro Cecil
all’altezza dello
stomaco. Carlos si sarebbe chiesto se lo avessero trapassato da parte a
parte,
ma non voleva pensarci e anche volendo non avrebbe potuto
perché in quel momento
si sentiva come se fosse stato lui quello trafitto nello stomaco.
Boccheggiò
e trattenne il
respiro senza neanche accorgersi.
Avrebbe
voluto urlare e
avrebbe sicuramente pianto, ma per lunghissimi secondi, invece, rimase
immobile
e in silenzio, osservando impotente il corpo dell’altro
fermarsi piano piano.
Le braccia del biondo scivolarono lungo i fianchi, la testa cadde da un
lato e
poi le gambe cedettero e precipitò al suolo, trascinandosi
dietro le forbici e
per poco anche Carlos stesso.
«Cosa
hai fatto?» riuscì a
dire Carlos, inginocchiatosi di nuovo accanto all’altro, con
una voce così
flebile da essere quasi inudibile.
«Non
è finita qui. Corri.
Non… hai… molto tempo» rispose
l’altro Cecil con voce leggermente metallica,
incapace di fare altro che parlare, anche se anche questo si sarebbe
reso
presto impossibile probabilmente.
«No,
no! Non… non posso
farcela da solo! Per favore, per favore…»
mormorò ancora Carlos, stringendo
così forte le mani dell’amico – che a
loro volta stringevano ancora il registratore
– che se l’altro Cecil fosse stato un semplice
essere umano, probabilmente gli
avrebbe fatto male.
Carlos
vide la vita scivolare
via dagli occhi completamente neri dell’altro, anche se
questi rimasero aperti
e il suo sorriso ancora intatto, e capì che era finita per
il suo amico.
Per
lui però non era affatto
finita. C’erano ancora delle cose che doveva trovare
– persone che doveva
salvare.
Se
non aveva salvato l’altro
Cecil, avrebbe comunque salvato tutti gli altri – questa fu
una sorta di
promessa che fece a se stesso e all’altro Cecil.
Tirò
su col naso e si asciugo
velocemente gli occhi con una manica e poi guardò
l’orologio.
La
lancetta delle ore puntava
verso l’appartamento del piano di sopra, dove viveva
l’altro Telly.
Salì
le scale di corsa, fino
a trovarsi davanti alla porta.
Nel
suo mondo, non aveva mai
voluto attraversare quella soglia perché
l’appartamento del vero Telly puzzava
in modo disgustoso.
In
realtà, non aveva idea di
cosa avrebbe trovato lì dentro.
Aprì
lentamente la porta e
con molta cautela osservò bene tutti intorno prima di
entrare.
Era
buio e non sembrava
esserci nessuno. Sarebbe stato difficile trovare qualcosa lì
dentro.
Improvvisamente
una piccola
luce si accese e Carlos sobbalzò trovandosi davanti proprio
Telly, illuminato a
mala pena.
Era
malconcio, seduto su una
sedia da barbiere al centro della stanza.
Non
era ridotto diversamente
dall’altro padre, quando lo aveva trovato nel suo studio.
Pensò che forse anche
lui aveva provato a fare una foto a Khoshekh, ma non ebbe tempo di
portare
avanti le sue elucubrazioni perché l’uomo
parlò.
«Perché
non resti qui? Potrei
fare altri spettacoli per te e potrei tagliarti i capelli se tu lo
volessi. La
tua altra madre ti vuole bene, vuole che tutti siamo produttivi al
massimo per
rendere questo posto perfetto per te»
disse borbottando al limite del comprensibile.
«Allora
proprio non capisci?
Io non voglio un mondo perfetto, e poi questo qui non è
perfetto in ogni caso.
L’altra madre non sta facendo un bel lavoro»
ribatté secco Carlos, ancora pieno
di rancore per ciò che era successo poco prima.
«Hai
ragione, non capisco.
Del resto sono solo un povero barbiere… anzi, non sono
sicuro di essere neanche
questo, ormai» Carlos non capì questa risposta, ma
non se ne curò e iniziò a
guardarsi intorno alla ricerca di qualunque cosa che potesse aiutarlo,
ma non
sapeva neanche cosa stava cercando.
Prese
in mano l’orologio e
guardò la lancetta delle ore: puntava dritta verso
l’altro Telly.
Carlos
deglutì. Non voleva
avvicinarsi, ma sembrava essere l’unico modo per recuperare
l’oggetto.
Fece
qualche passo e l’altro
Telly non si scompose.
«Dove
lo tieni? Dammelo
subito» provò ad ordinargli, sforzandosi di
sembrare più forte e sicuro che
poté, sperando di fargli almeno un po’ di paura,
ma Telly non si mosse.
«Io
so cosa cerchi, piccolo
Carlos, ma non ce l’ho io» rispose Telly atono,
senza modificare la propria
espressione mesta.
«Cosa
significa che non ce
l’hai tu? Bugiardo, lo so che ce l’hai!»
incalzo Carlos, dopo un istante di
confusione, ma fece giusto in tempo a finire la frase che
l’altro Telly fece
qualcosa di strano.
Carlos
restò immobile ad
osservare con disgusto.
Telly
aveva improvvisamente
buttato la testa all’indietro e aveva spalancato la bocca. Da
essa era
fuoriuscito un essere scuro e ricoperto di peluria. Aveva tanti piccoli
occhi
neri e si mosse velocemente con tutte le sue zampine.
Era
un ragno e teneva tra le
zanne acuminate qualche cosa che sembrava essere il caricatore di un
cellulare.
Carlos
non ebbe molto tempo
per pensare a quanto fosse disgustoso, perché la bestia
sgambettò via e
passandogli tra le gambe, in un batter d’occhio,
sgusciò fuori dalla porta.
Carlos,
anche se colto di
sorpresa, si voltò immediatamente con tutta
l’intenzione di rincorrerlo, ma si
sentì bloccato e sollevato da terra.
L’altro
Telly, alle sue
spalle, lo stringeva con le braccia.
Carlos
si dimenò più che poté
e lo riempì di calci, ma nulla sembrava fare effetto. Vide
il ragno correre giù
per le scale. Doveva liberarsi subito, o l’avrebbe
definitivamente perso di vista.
«Lasciami!»
gridò al culmine
della frustrazione, non sapendo più cosa inventarsi.
Poi
ebbe un’idea. Era
stupido, ma doveva provarci.
«Ti
lascerò tagliarmi i
capelli. L’altra madre sarà fiera di
te!» non appena pronunciò queste parole,
la presa sul suo corpo su allentò quel tanto che
bastò per farlo scivolare di
nuovo a terra. L’altro Telly allungò le braccia
per afferrarlo e costringerlo
ad adempiere alla sua proposta, ma Carlos non aveva alcuna intenzione
di
perdere tempo. Si lanciò all’inseguimento del
ragno e gli chiuse la porta in
faccia, il che gli diede un po’ di vantaggio.
Vide
il ragno in fondo alle
scale e corse più veloce che poté, ma ad un certo
punto mancò un gradino ed
inciampò, volando letteralmente giù per le scale.
Per
un momento pensò che
sarebbe morto. Avrebbe potuto battere la testa e tutto sarebbe finito
lì. E
poi, anche se fosse sopravvissuto, non sarebbe mai più
riuscito a raggiungere
il ragno e quindi non avrebbe recuperato il caricatore e
l’altra madre avrebbe
vinto. Gli avrebbe piantato le viti in faccia e gli avrebbe rubato
tutto ciò
che faceva di lui “Carlos lo scienziato”.
Atterrò
con un tonfo e si
rannicchiò, restando ad occhi chiusi. Non osava aprirli.
Aveva paura di
scoprire di avere le gambe rotte, di essere morto, o peggio: di non
vedere più
il ragno.
Si
sentiva tutto indolenzito.
«Credo
che questo ti serva»
sentì dire ad una voce familiare.
Aprì
subito gli occhi e trovò
davanti a sé Khoshekh.
Poco
più in là giaceva il
ragno in una pozza nera e proprio di fronte ai propri occhi, Carlos
vide il
caricatore.
«Sei
stato tu? Grazie,
Grazie!» esclamò abbracciando il gatto, che
però si divincolò e sfuggì
all’abbraccio.
«Credevo
di averti già detto
che non mi piacciono i ragni» commentò con
indifferenza il felino.
Carlos
rise, anche se qualche
secondo dopo emise un potente starnuto.
Si
asciugò il naso e mise in
tasca il caricatore.
Ora
gli restava soltanto un’
ultima cosa da trovare: i suoi genitori.
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Capitolo 7 *** Capitolo VI ***
Entrò
in casa, deciso a
dirigersi verso il soggiorno. Aveva una certa idea di dove si
trovassero i suoi
genitori, ma in realtà non ne era proprio certo. Ma, del
resto, che altre
opzioni aveva? E non sentiva neanche di avere molte speranze di
riuscire a trovarli,
se non fossero stati dove credeva che fossero.
Soprattutto
quando a metà del
corridoio si trovò davanti l’altra madre che lo
attendeva impaziente,
sorridendo come se niente fosse, ma con una tale collera negli occhi
neri che
Carlos non credeva le fosse possibile esprimere.
«Allora,
hai finito?» chiese
l’altra madre.
«No»
disse laconicamente
Carlos, superandola velocemente ed entrando nel soggiorno,
immediatamente
seguito dalla donna.
L’altra
madre era
evidentemente preoccupata, era ovvio che non si aspettasse che Carlos
riuscisse
a trovare tutti quegli oggetti, ma Carlos sapeva di essere comunque in
svantaggio perché non aveva ancora i suoi genitori, ma non
solo: perché era
certo che anche una volta trovati, l’altra madre non lo
avrebbe semplicemente lasciato
andare via.
Avrebbe
dovuto lottare.
Pensava a questo mentre camminava per il soggiorno, guardando
dappertutto.
Ciò
che gli interessava era
lo specchio sulla mensola del caminetto, ma non voleva che
l’altra madre lo
capisse.
Sentì
qualcosa toccargli la
gamba e senza pensarci troppo, si voltò e raccolse tra le
braccia Khoshekh.
Lanciò un’occhiata alla madre per controllare i
suoi movimenti.
Sapeva
che non le piacevano i
gatti, perciò voleva essere certo che non facesse del male
al suo amico.
Fin
troppe persone avevano
sofferto.
«Ebbene?
Hai trovato i tuoi
genitori?» chiese sempre più impaziente
l’altra madre, che, ferma al centro
della stanza, seguiva ogni movimento del bambino con gli occhi. O
almeno era
questa l’impressione che aveva Carlos. Era difficile capire
dove guardasse, con
quegli occhi completamente neri.
«Sì!»
esclamò Carlos, forse
con fin troppa convinzione, ma l’altra madre
sembrò crederci perché il bambino
fu sicuro di vederla irrigidirsi.
«E
dove sono?» domandò la
donna.
«E’
ovvio… che sono dietro la
porta – disse indicandola col braccio che non reggeva il
gatto – non sono da
nessun’altra parte, quindi sono lì. Ne sono
più che sicuro. Anzi, perché non la
apri? Così vedremo finalmente!»
Il
sorriso dell’altra madre,
sempre più sbieco e terrificante, si fece ancora
più ampio, mentre andava ad
aprire la porta.
«Ne
sei veramente sicuro?
D’accordo, allora…» disse compiaciuta,
facendo scattare la serratura e aprendo
finalmente la porta.
Carlos
sapeva di non avere
molto tempo e che questa sarebbe stata la sua ultima occasione. Senza
pensarci
due volte, lanciò il gatto addosso all’altra
madre, che cacciò un urlo, mentre
gli artigli del felino si conficcavano nella sua faccia.
Carlos
si sporse e riuscì ad
afferrare il piccolo specchio sul caminetto, che infilò in
tasca insieme a
tutti gli altri oggetti che aveva raccolto.
«Presto!
Dobbiamo andarcene
adesso!» gridò a Khoshekh, che immediatamente
saltò giù, ma non dopo aver
orribilmente sfigurato il volto dell’altra madre.
I
suoi occhi neri erano stati
feriti, dalle varie ferite colava quella stessa sostanza scura e
viscosa che
Carlos aveva ormai visto tante volte, e la sua bocca era contorta in
una
smorfia impossibile e spaventosa. Non era più un sorriso, o
se lo era, era il
più orribile che Carlos avesse mai visto.
Tuttavia
non si fermò troppo
a guardarla. Non c’era tempo.
Tolse
la chiave dalla
serratura e la mise in tasca mentre entrava velocemente insieme a
Khoshekh.
Tentò
di chiudere la porta,
ma proprio mentre stava per riuscirci, l’altra madre
dall’altra parte cominciò
a tirare.
Urla
tremende provenivano
dall’altra parte della porta.
Carlos
era terrorizzato e
sentiva che non ce l’avrebbe fatta e che l’altra
madre lo avrebbe preso e che
tutto il suo lavoro sarebbe stato per niente, ma sentiva anche che se
si fosse
arreso ora, come stava per fare, l’altra madre gli avrebbe
fatto cose cento
volte più atroci di quelle che aveva fatto a tutti gli
altri, perché nessuno
gli aveva dato così tanto fino da torcere, nemmeno
l’altro Cecil, e ora era
fuori di se per la rabbia, il rancore, e l’odio.
Ripensare
all’altro Cecil gli
fece venire una stretta allo stomaco – maggiore di quella che
aveva già per la
paura. Il suo sacrificio non poteva essere vano. Carlos non lo avrebbe
permesso.
In
quel momento sembrò guadagnare
tutta la forza in più che gli serviva per chiudere la porta,
anche se un attimo
prima di chiuderla per sempre, gli sembrò che qualcosa fosse
riuscito a
sgusciare fuori.
Non
ebbe tempo per pensarci,
ancora una volta, anche perché il corridoio era ancora
più luminoso del solito
ed era come se lì dentro tirasse un vento forte e caldo,
come quello di un
deserto. Era quasi certo di sentire qualcosa simile a sabbia colpirgli
la
faccia e fargli male, anzi, forse lo stava anche ferendo, ma in quel
momento era
difficile da capire.
Attraversò
quel corridoio che
sembrava non finire mai – tanto che per un po’
dubitò che avesse effettivamente
una fine.
Poi
finalmente la luce
diminuì un’immagine familiare iniziò a
delinearsi: quella del soggiorno della
sua casa – quella vera.
Carlos
fece una sorta di
scatto finale e insieme a Khoshekh riuscì a oltrepassare la
soglia.
Immediatamente, chiuse la porta sbattendola e infilata la chiave nella
serratura le fece fare tutti i giri che riuscì a farle fare.
E poi tirò un
lunghissimo sospiro di sollievo e si rese conto di aver trattenuto il
fiato
senza accorgersene, ma non aveva idea per quanto tempo lo avesse fatto,
o
quanto a lungo fosse rimasto in quel tunnel infernale.
Si
voltò e Khoshekh era
seduto poco più là che lo guardava. Quando Carlos
ricambiò lo sguardo, il micio
batté lentamente le palpebre due o tre volte.
Il
bambino rise. Aveva varie
ferite – per fortuna non gravi – ma non importava,
nulla importava. Ora erano
tutti salvi grazie a lui. Si sentì felice come non si
sentiva da tempo e, tutto
d’un tratto, si rese conto di sentirsi anche stanco come non
si era mai sentito
in vita sua. Si lasciò cadere sulla poltrona e nel giro di
pochi secondi si
addormentò senza neanche accorgersene.
Fu
svegliato da una voce
familiare.
«Carlos…
Carlos! Cosa ci fai
qui sulla poltrona?»
Ci
mise un po’ a capire
dov’era e cosa stava succedendo, ma appena si riprese dal
sonno abbastanza per
capirlo, riconobbe sua madre e le saltò addosso
abbracciandola.
«Ehi!
Ma che succede?»
domandò dolcemente sua madre, accarezzandogli la fronte e
spostandogli una
ciocca dalla tempia.
In
quel momento anche suo
padre fece capolino nella stanza, ma l’uomo non fece in tempo
a fare domande
che Carlos gridò «Papà!» e
gli corse incontro abbracciando anche lui.
«Ti
siamo mancati?» domandò
scherzosamente il padre.
«Sì!
Non avete idea quanto!»
esclamò Carlos.
Sua
madre rise brevemente.
«Non
essere esagerato, non
siamo stati via così tanto» commentò
spensieratamente, avviandosi in cucina.
«Beh,
certo, non è facile
definire “tanto” in un luogo dove il tempo non
funziona, però vi assicuro che a
me è sembrata un’eternità!»
insistette il bambino, suscitando ulteriormente
l’ilarità del padre che alzò un
sopracciglio e ridacchiò.
«Un
luogo dove il tempo non
funziona? Oh, la fantasia dei bambini! Non esiste un posto del genere,
o almeno
non lo abbiamo ancora scoperto…»
«Ma…
ma papà! Te lo assicuro,
lì il tempo… aspetta, tu non sai di cosa
parlo?» chiese confuso e leggermente
deluso Carlos.
Suo
padre scosse la testa
fingendosi sconsolato.
«Andiamo,
aiutiamo tua madre
a preparare la cena» disse semplicemente, prima di uscire
dalla stanza.
Carlos
rimase fermo per un
po’, prima di seguirlo.
Non
se ne era reso conto
prima, ma a quanto pare i suoi genitori non avevano alcun ricordo di
tutto ciò
che era successo.
Non
sapeva come una cosa del
genere fosse possibile, e, come dovette constatare il suo animo di
scienziato, purtroppo non aveva
alcun modo per
scoprirlo. Decise, però, che in fondo non gli importava. Gli
bastava avere di
nuovo i suoi genitori e poter vedere i loro sorrisi umani
e i loro occhi normali.
Quando
si mosse, sentì come
un tintinnio. Allora mise la mano in tasca, ma la ritrasse subito
esclamando
“Ahi!”. Si era punto il dito con un pezzo di vetro.
Decise
allora di togliersi il
camice e di svuotare le tasche. Aveva ancora il suo orologio
– che ora
funzionava normalmente, la chiave, un cellulare, un caricabatterie,
alcune
pagine accartocciate e in fine lo specchio, che però si era
rotto. Capì che
doveva essersi ferito con uno dei pezzi di vetro.
Mise
tutto quanto nel camice
che usò come un sacco, e portò tutto in camera
sua.
Quella
sera non avrebbe mai
voluto andare a dormire, voleva restare alzato con i suoi genitori per
recuperare il tempo perduto, ma alla fine cedette, un po’
perché si disse che
adesso avevano tutto il tempo del mondo, e un po’ –
per la maggior parte in
realtà – perché non riusciva a tenere
gli occhi aperti.
Ad
un certo punto, qualcosa
lo svegliò. Erano dei fruscii e dei passi che lo fecero
scattare a sedere
perché erano suoni diventati fin troppo familiari per lui e
per un momento
credette di non essere mai uscito da quell’incubo, ma quando
aprì gli occhi,
vide qualcosa di molto diverso e, in qualche modo, si calmò.
Accanto
al suo letto c’erano
due donne di colore che, nonostante la prima volta non fosse riuscito a
vederle
bene a causa della luce, sta volta riconobbe immediatamente.
Tamika
teneva in una mano le
pagine del libro, mentre Dana aveva in una mano il cellulare e
nell’altra il
caricatore.
«Che
cosa ci fate qui?»
chiese bisbigliando e trattenendo uno sbadiglio.
«Siamo
qui per avvertirti»
disse Tamika.
«E
per ringraziarti» aggiunse
Dana.
«Sono
contento che stiate
bene» rispose Carlos sorridendo, sinceramente felice di
rincontrarle.
«Ascolta
bene. Non è finita
qui.» continuò la più giovane.
Carlos
si sentì confuso.
«Che
cosa significa? Non
siamo riusciti a sconfiggere l’altra madre?» chiese
apprensivamente.
Le
due ragazze si scambiarono
un’occhiata indecifrabile, sembravano in disaccordo su cosa
rispondere.
Alla
fine fu Dana a farsi
coraggio.
«Devi
scappare. Nasconditi.
Lei ti ritroverà. Potrebbe arrivare quando meno te lo
aspetti… sempre che non
sia già qui.» Carlos la fissò per
alcuni secondi, battendo le palpebre.
Non
riusciva a capacitarsi di
una cosa del genere. L’idea che l’altra madre
potesse raggiungerlo anche lì lo
fece rabbrividire.
“Ma
è impossibile, ho chiuso
la porta!” stava per dire, ma Tamika lo precedette.
«Devi
restare qui e
combattere, perché se lei riesce a raggiungere te, puoi
essere certo che farà
del male a tutti quelli che ami» affermò con
forza, in modo che non lasciava
adito a dubbi o proteste.
«Se
resti ti accadranno cose
orribili!» lo avvertì Dana.
«Se
scappi accadranno cose
orribili alle persone a cui vuoi bene!» ribadì
Tamika.
Dicevano
l’una l’opposto di
quello che l’altra aveva appena detto ed era come se non si
sentissero a
vicenda. Tutta questa confusione non aiutava Carlos, che ora doveva
prendere
un’importante decisione. Anche se in realtà non
c’era nessuna decisione, per
quanto lo riguardava: non poteva abbandonare la sua famiglia. Tamika
aveva
ragione: se aveva lottato fino ad ora, avrebbe continuato –
anche se non aveva
idea di come.
«Che
cosa posso fare?» chiese
sconsolato.
«Lotta!»
gridò Tamika.
«Scappa!»
gridò Dana, quasi
contemporaneamente.
Entrambe
continuavano a
gridare quella singola parola che riassumeva il loro consiglio, ma
nulla di ciò
era utile a Carlos, che sperava in un aiuto più concreto.
Continuavano a
gridare ancora e ancora, sempre più forte, tanto che Carlos
non riusciva a
sentire nient’altro.
“Basta!
Zitte, sveglierete
tutti!” stava per urlare, ma non fece in tempo,
perché proprio in quel momento
aprì gli occhi.
Era
giorno e delle due donne
non c’era traccia.
Era
stato un sogno a quanto
pare. Il bambino si stropicciò gli occhi con le mani. Era
sollevato che non si
trattasse che di un incubo, ma non riusciva a sentirsi completamente
tranquillo. Gli era rimasta addosso una brutta sensazione.
Si
alzò per andare a prendere
il camice che aveva appoggiato su una sedia la sera prima, ma dopo
averlo preso
tra le mani, si rese conto che qualcosa non andava. Quando lo aveva
lasciato,
c’erano ancora dentro gli oggetti che aveva recuperato
– salvo per i vetri
rotti, che aveva messo in una scatolina in un cassetto, e per
l’orologio e la
chiave, che aveva spostato sul comodino.
«Oh, no…» furono le
uniche parole che riuscì a pronunciare, anche se
uscirono come un bisbiglio.
Immediatamente
i suoi occhi
caddero sulla chiave.
Non
poteva lasciarla
incustodita, quindi prese un cordoncino che infilò nel buco
e se la mise
intorno al collo.
Quando
fece per scendere a
fare colazione, vide qualcosa di nero sfrecciare per il corridoio e
rimase
pietrificato a guardarla sgusciare su per una parete e sparire
nell’altra
stanza.
Era
certo di cosa si
trattasse. Ne aveva visti tanti in quegli ultimi giorni, che dubitava
che se ne
sarebbe mai dimenticato finché fosse vissuto.
Cautamente,
si affacciò sulle
scale, ma del ragno neanche l’ombra.
Per
sicurezza, fece scivolare
la chiave sotto la maglietta.
Prima
di fare colazione, girò
per casa guardando in ogni angolo. Non riuscì a trovare il
ragno da nessuna
parte. Alla fine si diresse verso la porta di casa e si
affacciò fuori.
Immediatamente un’ombra nera velocissima gli passò
tra le gambe e schizzò fuori
dalla porta. Non ebbe tempo di fare niente, l’unica cosa che
fece fu chiudere
la porta e tirare un respiro di sollievo: almeno adesso era certo che
non si
trovasse in casa, quindi ora aveva almeno un posto sicuro dove stare,
anche se
fuori sarebbe stato tutt’altro che sicuro, d’ora in
poi.
Per
alcuni giorni non volle
neanche pensare di uscire di casa, sapendo che quella cosa era
là fuori, ma
dentro di sé sapeva anche che uscire sarebbe stato
necessario, se davvero
voleva riuscire a sconfiggere per sempre l’altra madre.
Inoltre, forse lui
poteva non uscire, ma i suoi genitori avrebbero continuato a farlo, e
così
anche gli altri inquilini, e anche Cecil.
Fu
proprio Cecil, a dire il
vero, a convincerlo una volta per tutte che prendere una decisione
risolutiva
era l’unica cosa da fare.
Aveva
fatto da poco colazione
e stava osservando il giardino dalla finestra, cercando il ragno con lo
sguardo
– consapevole che doveva essere lì da qualche
parte, in agguato – quando
intravide una testolina bionda spuntare dai cespugli del giardino.
Immediatamente
si irrigidì e
aguzzò la vista. Proprio come pensava, il ragno era davvero
in agguato, ed era
sicuro di averlo visto sgusciare tra l’erba.
Corse
immediatamente fuori
per avvertire il suo amico del pericolo, e fece appena in tempo a
saltargli
addosso e a spingerlo via, perché l’aracnide aveva
spiccato un balzo e stava
per attaccare Cecil e il suo gatto. Comunque sia, Carlos non si perse
in
spiegazioni: non ce n’era tempo. Prese l’amico per
una mano e corse in casa,
trascinandoselo dietro, seguito anche da Khoshekh, e chiuse
immediatamente la
porta.
Ancora
appoggiato con le
spalle contro la superficie di legno, tirò un bel respiro e
si ritrovò davanti
l’altro bambino che lo fissava con aria interrogativa.
Dopo
essere andati tutti e
tre in camera sua, Carlos aggiornò l’amico sugli
ultimi avvenimenti, e scoprì
che l’altro non dubitava neanche minimamente delle sue
parole, anche se,
naturalmente, ne era sorpreso e visibilmente preoccupato.
Carlos
osservò il viso corrucciato
del suo amico, mentre accarezzava Khoshekh dietro l’orecchio.
Per
un momento gli sembrò di
rivedere l’altro Cecil e mentalmente rivisse gli ultimi
momenti della sua vita,
il che gli causò un brivido e riaprì ferite non
ancora rimarginate. Si sarebbe quasi
messo a piangere, soprattutto considerato che quella volta non ne aveva
avuto
il tempo, o almeno, non aveva potuto fare un bel pianto liberatorio, di
quelli
che sgorgano dal profondo e che ti svuotano di tutte le energie.
Aveva
abbracciato i suoi veri
genitori quando li aveva rivisti, e si disse che era il momento di
abbracciare
anche Cecil.
Allungò
le braccia e le
strinse intorno alle spalle dell’altro che, dopo qualche
istante di confusione,
ricambiò l’abbraccio.
Sicuramente
Cecil avrebbe
pensato che quel gesto fosse un modo per farsi coraggio, considerata la
sfida
che li attendeva – e in parte era vero – ma Carlos
sentì comunque il bisogno di
spiegare.
«Mi
sei mancato. Sono felice
di rivederti e che tu stia bene…» disse
sciogliendo l’abbraccio.
L’altro
lo guardò sorridendo
leggermente, con uno sguardo comprensivo.
Carlos
tirò su col naso e si
strofinò gli occhi che gli si erano fatti lucidi.
«Che
cosa facciamo, adesso?»
domandò Cecil.
«Ho
elaborato una specie di
piano… non ne sono sicuro, ma dovrebbe funzionare. Voglio
dire, non ne sono
certo scientificamente,
perché non ho
potuto fare una prova, ma se tutto va bene…» e
così spiegò la sua idea
all’altro che ne sembrò egualmente entusiasta e
timoroso. Non trattenne tutta
una serie di commenti su come Carlos fosse coraggioso e intelligente,
pronunciati con una certa ammirazione, ma alla fine pose il dubbio: non
era
troppo pericoloso?
La
risposta, secondo Carlos,
era sì, ma non lo disse e scelse volutamente di non pensarci.
Fece
un giro per casa,
racimolando tutto ciò che poteva servirgli, poi si
avviò verso la porta.
«Io
esco! Andiamo a fare un
po’ di esperimenti in giardino!» avvisò
la madre prima di uscire, che si
raccomandò di non fare tardi per pranzo.
“Mi
auguro anche io di non
fare tardi per pranzo… oh, mamma, se solo
sapessi…” pensò tra sé e
sé.
Facendo
attenzione ad un
possibile attacco da parte del ragno, i tre si diressero verso la casa
che
esiste anche se avrebbe più senso che non esistesse,
assicurandosi di essere
seguiti perché era importante che il ragno sapesse dove
trovarli per cadere
nella trappola.
Il
piano in teoria era
semplice quanto improbabile. In realtà non era affatto
semplice, nella pratica.
E Carlos non era affatto sicuro che i suoi ragionamenti fossero esatti,
ma lo
sperava davvero. Questa poteva essere la loro l’unica
possibilità.
Se,
come credeva di aver
capito, quella casa era un passaggio tra i due mondi – quello
reale e quello
dell’altra madre – che però funzionava
in una sola direzione, se fossero
riusciti a far entrare il ragno all’interno, quello non
sarebbe più stato
capace di uscire. Da ciò che aveva osservato, solo la
signora che ci abitava
sembrava essere capace di rimanere in questo piano
dell’esistenza senza neanche
rendersi conto di ciò che la sua casa era in
realtà.
Quando
arrivarono davanti
alla casa, i due bambini si guardarono per darsi coraggio, e poi
diedero il via
al piano.
Prima
allestirono un kit per
esperimenti con tutte le cose da scienziati che Carlos si era portato
dietro,
per far capire al ragno che sarebbero stati lì per un
po’ e fare in modo che la
bestia si convincesse di averli in pugno.
Poi,
mentre Carlos versava il
contenuto di un’ampolla in un’altra –
facendo attenzione ad elencare ad alta
voce le azioni che compiva, sperando di convincere il ragno di non
essersi
accorto della sua presenza – Cecil andò a bussare
alla porta della casa. Buona
parte della buona riuscita del piano dipendeva dalla tempistica con cui
la
donna avrebbe aperto la porta, per questo era importante riuscire al
primo
tentativo, e non sarebbe stato facile.
Quando
il ragno vide che
Carlos era stato lasciato solo dall’amico, non
esitò ad attaccarlo, uscendo dal
suo nascondiglio e saltandogli addosso per recuperare la chiave.
Carlos,
che in realtà lo
teneva sott’occhio, si scansò appena in tempo e
proprio in quel momento,
Khoshekh uscì a sua volta dal suo nascondiglio, azzannando e
immobilizzando il
ragno, che cazze sopra la tovaglia con gli strumenti di lavoro di
Carlos.
Immediatamente,
Carlos chiuse
la tovaglia, facendone un fagotto e lo lanciò dentro la
porta che era appena
stata lasciata aperta dalla signora. Era importante che lei non fosse
in casa,
perciò Cecil le aveva chiesto con urgenza di seguirlo per
aiutarlo a risolvere
un qualche problema che si inventò sul momento.
Carlos
chiuse prontamente la
porta e rimase immobile, come anche Cecil e il gatto. Per un
po’ ci fu
silenzio.
Poi
la signora, confusa e
irritata, li rimproverò.
«Che
modo è questo? Che
scherzi sono da fare? Voi ragazzi di oggi e la vostra
sfacciataggine!» brontolò,
per poi tornare verso la porta e rientrare in casa.
Quando
la donna aprì la
porta, entrambi i bambini trattennero il fiato, ma per fortuna nulla ne
uscì e
il fagotto con dentro il ragno e il resto era sparito.
Carlos
non riuscì più a
trattenersi. Dopo tutto, fino ad ora non aveva avuto molte occasioni di
esprimere le proprie emozioni in modo aperto e salutare, e una bella
risata a
squarciagola, finalmente, se l’era decisamente meritata.
Anche Cecil lo imitò e
perfino Khoshekh sembrava voler festeggiare, tanto che gli si
accostò e
strofinò la testa sulla sua gamba.
Carlos
lo prese in braccio e
gli posò un bacio sulla testa, ricevendo in cambio un
miagolio compiaciuto e
delle sonore fusa.
Cecil
era corso
immediatamente a casa dicendo di dover assolutamente registrare con
attenzione
un resoconto di tutta la vicenda sul suo fidato registratore.
A
Carlos non era sembrato
strano e lo aveva salutato serenamente, per poi dirigersi a casa,
stremato ma
ancora euforico per la vittoria.
Non
era mai stato più felice
di così di non aver fatto tardi per pranzo – lo
disse anche a sua madre, mentre
si accomodava a tavola, e lei aveva riso e scosso la testa.
Quel
giorno Carlos annunciò
di voler fare una festa in giardino e di voler invitare anche Cecil, la
signora
Josie e Telly.
I
suoi genitori furono
stupiti di questa proposta, ma non vedendoci niente di male,
accettarono di
aiutarlo ad organizzarla.
Così,
il giorno seguente,
tutto il giardino era stato abbellito con bandierine colorate e altre
decorazioni, che rendevano l’atmosfera leggera e divertente.
La
signora Josie portò il suo
contributo offrendo a tutti un pezzo della sua crostata deliziosa
– a detta sua
preparata dagli angeli – mentre Telly si disse finalmente
pronto per tagliare i
capelli a Carlos. Dato che mancava poco all’inizio della
scuola, i suoi
genitori pensarono che fosse una bella idea dare una ripulita al suo
aspetto,
dato che i capelli ricci gli arrivavano ormai alle spalle.
L’unico
che non fu affatto
entusiasta del cambiamento fu Cecil, che non smise mai di lamentarsi
della
terribile perdita che il mondo aveva subito per la scomparsa di quei
bellissimi
e lunghissimi capelli, e di maledire Telly in tutti i modi. Anche se,
in
realtà, e ci mise un po’ di tempo ad ammetterlo, i
capelli di Carlos gli piacevano
tantissimo anche così com’erano adesso –
ovvero più lunghi sopra e cortissimi e
quasi rasati sulla nuca e ai lati – perché aveva
scoperto che passarci le dita
sopra era davvero piacevole, ora che erano così corti.
Carlos, invece, scoprì
di soffrire estremamente il solletico sulla nuca.
Per
quanto riguarda la
chiave, Carlos non la perse mai di vista e decise che appena fosse
stato
possibile, andava distrutta.
La
porta non fu più riaperta.
Anzi,
Carlos insistette che
vi fosse posto davanti un mobile, così da non doverla
neanche più vedere e
nella speranza di dimenticarla e con lei tutto ciò che aveva
dovuto passare
dall’altra parte di essa – eccezione fatta, forse,
per tutto ciò che aveva
imparato e tutto ciò che aveva perso.
Note:
E’ tempo delle note, finalmente! Non so quanto possa essere
stata una buona
idea metterle alla fine, perché in tutta onestà
non so quanta gente arriverà
fin qui, ma ehi! Almeno lasciatemi uno sfogo personale.
Mi ritengo tutto sommato soddisfatta
del risultato, questo
devo dirvelo. (per la serie: SAPEVATELO)
Ho iniziato a scrivere questa
fanfiction (anche se in modo
discontinuo nel tempo) subito dopo aver avuto l’idea, che
credo sia stato tra
la parte A e la parte B dell’episodio Old Oak Doors. Tra
l’altro era anche
periodo di esami per me (addio liceo LOL).
E niente… per non farmi
stressare mentre aspettavo il mio
turno agli orali mi sono comprata il libro Coraline e me lo sono letto
tutto
mentre aspettavo. Poi pochi giorno dopo mi sono riguardata il film.
Inutile
dire che ho avuto gli incubi dell’altra madre che voleva
cucirmi gli occhi per
giorni… ehm… sono suscettibile, okay??
Ma l’idea non è
giunta da sola. Diciamo che è stata una
combinazione di cose perché proprio in quel periodo ho visto
questo
post che mi
ha fatto accendere la lampadina. Naturalmente ho solo tratto
ispirazione, poi
sono partita su rotaie tutte mie e ciao insomma (?)
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