Il caso del triangolo crepato (dal blog di John Watson)

di _Carrotscupcake_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dal blog di John Watson: Uno strano tipo di tempesta. ***
Capitolo 2: *** Dal blog di John Watson: Un'insolita proposta. ***
Capitolo 3: *** Dal blog di John Watson: Il suo bizzarro hobby. ***
Capitolo 4: *** Dal blog di John Watson: Diciassettenne e psicopatico. ***
Capitolo 5: *** Dal blog di John Watson: Ceniamo assieme? ***
Capitolo 6: *** Dal blog di John Watson: Rivelazioni Notturne. ***



Capitolo 1
*** Dal blog di John Watson: Uno strano tipo di tempesta. ***


 Dal blog di John Watson: Uno strano tipo di tempesta.

Quando conobbi Sherlock Holmes avevo solo vent’anni. Frequentavo il secondo anno di medicina al Kings College, e lui era all’ultimo anno di superiori.
Era un venerdì pomeriggio, un venerdì pomeriggio estremamente grigio e piovoso, niente di insolito per chi abita a Londra, ma quel venerdì di ottobre il cielo era particolarmente scuro e tutta la città vibrava di una strana aria di tempesta, e io non sapevo che la vera tempesta, quella che travolge tutto e non ti lascia più tornare indietro, sarebbe arrivata nella mia vita di lì a poco.
I miei genitori, che lavoravano entrambi, mia mamma come sarta e mio padre come operaio, mi avevano pregato di andare a prendere mia sorella Harry, per controllare che non avesse di nuovo saltato la scuola per andare a bere con la sua migliore amica. Sapevo che non l’avrei trovata lì. Eppure andai, per non farli preoccupare troppo, pensando che avrei trovato un modo per recuperare Harry e portarla accasa sana e salva.
In macchina ci volevano 15 minuti per arrivare alla scuola, ma decisi di andare a piedi, per risparmiare i soldi del taxi o della metro, arrivai a scuola alle quattro e mezza, un quarto d’ora dopo l’orario d’uscita, e pensai che avrei dovuto cercare di risparmiare i soldi per una macchina. La scuola era formata da due grandi edifici quadrati, decisamente brutti e grigi che spiccavano nel cortile verde e rigoglioso come due sonori pugni nell’occhio. Vagai nel cortile per un po’ nella vana speranza di trovare mia sorella, ma non trovai lei. Trovai invece due ragazzi, biondi e brufolosi con le felpe della squadra di football. Uno di loro, quello più alto e più biondo, così biondo da sembrare addirittura brizzolato, teneva per il cappotto un ragazzo dall’aspetto dinoccolato, alto e con i capelli scuri. Mi avvicinai subito per aiutarlo: non riuscivo ad assistere ad una scena di violenza senza intervenire, e comunque non era giusto. Alzai il passo per raggiungerli e, cercando di sfruttare il fatto che ero più grande di loro, dissi con voce autorevole.
<< Ehi, c’è qualche problema qui? >>
<< Nulla che ti riguardi. >> rispose rozzo l’altro ragazzo, quello biondo cenere, che aveva il naso aquilino e gli occhi scuri e arrabbiati, mentre l’amico continuava a tenere il ragazzo per il collo del cappotto.
Feci un passo avanti, per sembrare più minaccioso, cosa che mi riuscì abbastanza bene, considerato la mia statura molto insignificante quando paragonata a quella degli energumeni che avevo di fronte. << Ora dovreste andarvene. >> dissi.
Il ragazzo più biondo mollò finalmente la presa dall’altro e mi rivolse un sorriso beffardo, aveva un nasino all’insù e dei superbi occhi azzurri, sembrava il banalissimo stereotipo del ragazzo carino e prepotente, e pensai a quanto a volte potessero essere così poco interessanti gli esseri umani, conoscere Sherlock avrebbe stravolto completamente la mia idea, poiché lui è la persona più interessante che ancora oggi mi sia capitata di incontrare.
<< Oh guarda un altro idiota da picchiare. >> disse quello, senza perdere il suo sorriso. << Cole, tieni fermo il pivellino, io mi occupo dello scocciatore qui. >>
Cole ubbidì senza fiatare, tenendo fermo quel ragazzo per le spalle, voltandomi verso di loro mi resi conto che lui aveva gli occhi chiusi, ma nulla nel suo volto indicava paura, aveva le sopracciglia rilassate e la bocca leggermente schiusa, quasi stesse dormendo, o fosse sovrappensiero.
<< Allora. >> il ragazzo biondo richiamò la mia attenzione.
<< Senti, possiamo lasciare perdere? Non voglio farti male. >> dissi tranquillo.
Di tutta risposta il ragazzo rise e si spinse con forza verso di me. Non fu necessario che io facessi molto, gli presi un braccio stringendolo forte, lui se ne accorse troppo tardi e si spinse ancora verso di me stirandolo, poi quando si accorse del lieve dolore si girò di scatto, ma dal lato sbagliato. Nel suo volto si formò una specie di smorfia che rappresentava di certo dolore, ma misto a rabbia e forse anche paura. Quando lasciai il braccio, lui non esitò a separarsi da me.
<< Ti ho slogato un braccio. >> dissi tranquillamente. << Se me lo porgi potrei provare a metterti a posto la giuntura. >>
Il ragazzo mi guardò con gli occhi sbarrati, facendo un piccolo passo indietro, e stringendo la mascella dal dolore.
<< Ok, chiaramente non lascerai che io ti tocchi di nuovo. >> aggiunsi. << Allora bendalo e mettici del ghiaccio, il dolore potrebbe metterci un po’ a passare, prova con degli analgesici. Ah.. e dovresti evitare gli allenamenti di football per questa settimana. >>
Il ragazzo mi guardò come se stessi parlando esperanto, e non riuscì a far altro che grugnire, Cole allora si avvicinò a lui.
<< Luke, lascia perdere andiamo. >> gli disse, e lo trascinò via senza dire una parola.
Mi girai verso il ragazzo che avevo appena soccorso. << Stai bene? >> chiesi.
Lui aprì gli occhi, erano azzurri. Ma non solo azzurri, erano chiarissimi e brillanti, come il ghiaccio o come la superficie del mare quando il cielo è sereno, c’era qualcosa in quegli occhi che mi fece pensare fosse il caso di osservare meglio il ragazzo a cui appartenevano. L’avrei giudicato carino, e lo era di certo, ma il primo aggettivo che mi affiorò nella testa guardandolo fu “particolare”. Non avevo mai visto un ragazzo così in tutta la mia viya, era molto alto, o comunque il cappotto scuro e col bavero alzato che portava lo faceva sembrare alto, decisamente più alto di quanto lo fossi io; aveva i capelli scuri e ricci, che contrastavano con la sua pelle chiara e i suoi occhi azzurri; il naso era marcato e gli zigomi alti e ciò rendeva il suo volto tagliente e spigoloso, le labbra invece erano chiare carnose e delicate; quel ragazzo sembrava molto giovane.
<< Non era necessario che tu lo facessi. >> mi rispose con freddezza.
<< Un grazie sarebbe sufficiente. >> dissi io.
<< Comunque che ci fai qui? >> asserì lui, sempre con un tono distante e indifferente, il suo viso era esattamente rilassato come quando quei due ragazzi erano sul punto di picchiarlo, quasi fui infastidito nel notare quanto la mia presenza non avesse alcun’effetto su di lui.
<< Io sono.. >> iniziai a rispondere.
<< No, non me lo dire. Tu studi medicina al Kings College e sei anche molto bravo. Sei qui per venire a prendere tuo fratello che di solito marina la scuola, perché non andate d’accordo? Oh certo, ovvio, con tutti i sacrifici che la tua famiglia fa per pagare la scuola lui salta le lezioni per andare a bere con gli amici? Non lo puoi sopportare. >> concluse con un sorriso saccente, che mi diede i nervi, e interessò allo stesso tempo.
<< E tu.. tu come fai a sapere queste cose? >> rimasi a guardarlo un po’ perplesso e lui sorrise. Per la prima volta vidi il suo volto prendere vita, mi accorsi che aveva acquisito esattamente contezza della mia presenza, quasi mi stesse esaminando, il suo sguardo si era illuminato e così i suoi occhi azzurri sembravano anche più belli.
<< Non le so, le ho dedotte. >> rispose secco e capii che in quel momento non avrebbe aggiunto altro, lo divertiva lasciarmi così a metà tra l’interessato e confuso.
<< Allora, che ci fai ancora a scuola venti minuti dopo la chiusura? >> chiesi.
<< Facevo un esperimento >> fece le spallucce. << Mi serviva di guardare l’andatura di alcune persone di passaggio, in relazione alla loro postura per.. oh, lascia stare. Noioso. >>
<< A me non annoiava. >> risposi, e non lo feci per gentilezza, ero sincero.
<< Non per te ascoltarmi, ma per me spiegare. Posso sentire il tuo cervello ronzare, i tuoi pensieri mi disturbano. >> disse lui, era odioso e insopportabile, quasi mi pentii di aver impedito a quei ragazzi di riempirlo di pugni. Eppure rimanevo lì a parlare con lui, perché avevo bisogno di sapere.
<< Mi dici come hai fatto a dedurre quelle cose su di me? >> chiesi, senza mezzi termini.
<< Mmh, ti ho detto che è noioso sentirti pensare. >> ma era chiaro che stava morendo dalla voglia di dirmelo, sorrideva.
<< Oh avanti, smettila di fare tanto il presuntuoso, con quel sorriso misterioso, tenendomi sulle spine solo per sembrare più figo. >> esclamai esasperato.
<< Non lo sto facendo. >> risposte lui, ma senza smettere di sorridere.
<< Sì che lo stai facendo. >>
<< No. >>
<< Beh allora falla finita e dimmi come hai fatto. >>  dissi, e il suo sorriso si fece più ampio, così seppi che stava per spiegare.
<< Elementare. >> iniziò. << La cartellina che hai in mano, è del King’s College, quindi è ovvio che studi lì, ed è chiaro dal modo in cui ti sei lanciato in mio soccorso come se fossi stata una donzella in difficoltà che ti piace risolvere situazioni difficili, inoltre sapevi esattamente come fare per slogare il braccio a quel ragazzo senza il minimo sforzo ed esattamente cosa fare per curare la slogatura, quindi è ovvio che studi medicina. Sei troppo grande per essere uno studente, troppo piccolo per un genitore, chiaro che tu sia qui per un parente stretto, per probabilità un fratello. Ovviamente se non avesse avuto problemi non avresti sentito la necessità di venirlo a prendere, sarebbe potuto tornare da solo, anche perché non ti ho mai visto qui prima quindi non sei uno di quei familiari che vengono regolarmente. Che problemi può avere un ragazzo a scuola? Se fosse stata una rissa sarebbero dovuti venire necessariamente i genitori, quindi deve marinare la scuola, e poi sapere che beve è facile, visto che è quello che fanno tutti i ragazzi quando saltano le lezioni qui, tranne me, ma io sono un’eccezione. Come faccio a sapere che non andate d’accordo? Hai serrato la mascella quando ho parlato di un fratello, è il tuo sguardo si è indurito, probabilmente non condividi le sue azioni, il ché avvalora la mia ipotesi che beva. E delle ristrettezze economiche? Facile, sei venuto qui a piedi, e lo vedo dalle gocce di pioggia sul tuo cappotto, nessuno viene qui a piedi, perché non ci sono case a meno di mezz’ora di distanza e poi c’è una stazione qui vicino, quindi probabilmente sei venuto a piedi per risparmiare. Lo si vede anche dai vestiti, sei un ragazzo che si cura e si vede, ma nello stesso tempo i tuoi pantaloni risalgono almeno a tre anni fa, lo si vede dagli orli che prima erano piegati mentre adesso la cucitura è stata sciolta perché sei cresciuto in altezza, i ragazzi benestanti ormai non portano per un anno consecutivo gli stessi pantaloni senza cambiarli. Infine il fatto che sei bravo, se le precedenti deduzioni sono corrette, e immagino che lo siano, diventa ovvio. Dal momento ché gli studi universitari costano troppo e per studiare al King’s College, che è una delle università più prestigiose di Londra avrai avuto bisogno di una borsa di studio, ergo sei bravo. >>
Rimasi per un secondo a fissarlo con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata, e non mi accorsi nemmeno di quanto stupido potessi sembrare in quel momento, ma lui sembrava molto stupito dalla mia reazione, e mi guardò leggermente in confusione, quando avrei dovuto essere io quello confuso.
<< E’ stato semplicemente.. straordinario! >> esclamai a quel punto, manifestandogli quella che per me era un’ovvia reazione.
<< Lo pensi.. davvero? >> sembra ancora più confuso di prima.
<< Certo, certo. Scherzi? Wow. >> dissi io, ancora completamente sbalordito.
<< Nessuno ha mai questa reazione. >>  rispose lui, trattenendo un piccolo sorriso.
<< E che reazione hanno? >> chiesi.
<< Solitamente quella di mandarmi a ‘fanculo. >> confessò lui, lasciandosi andare a quel sorriso e illuminandosi.
Ridacchiai, trasportato dal suo entusiasmo.
<< Forse un grazie sarebbe stato sufficiente. >>
<< Già. >> disse lui pensieroso. << Senti, se vai sempre diritto sulla strada principale, poi giri a sinistra nella prima stradina alla fine di questa, se siri a destra, c’è un vicolo cieco, lì ci trovi tuo fratello. >> continuò. << E’ lì che vanno a bere i ragazzi di questa scuola a bere. >> aggiunse poi, notando il mio sguardo sbalordito.
<< Beh, misterioso sconosciuto con tutte le risposte, quest’informazione ha salvato la mia giornata. >> gli sorrisi.
<< Può valere come un grazie? >> chiese lui, sorridendo.
<< Niente affatto. >> replicai. << Ma ora devo proprio andare a cercare Harry. >> aggiunsi, facendo qualche passo indietro.
Lui fece le spallucce, e mi sorrise, ma non fece niente per salutarmi. Così dopo avergli rivolto uno sguardo imbarazzato, mi voltai per andarmene.
<< John! >> avevo già fatto qualche passo veloce quando lui mi chiamò, mi voltai subito.
<< Per il grazie la prossima volta.. >> disse lui, sorridendomi, questa volta, non so come, il suo sorriso non sembrò egocentrico o psicopatico, ma quasi addirittura dolce.
<< Come cazzo fai a sapere il mio nome? >>
<< E’ scritto sulla cartellina, John. >> ridacchiò.
<< E hai intenzione di dirmi il tuo? >> chiesi, ma conoscevo già la risposta.
<< Così non sarei più il misterioso sconosciuto e non sarei più tanto interessante. >> rispose.
<< Penso che lo saresti comunque. >> confessai io.
<< Meglio non rischiare. >> disse lui, ma aveva messo su di nuovo quel sorriso compiaciuto che mi dava i nervi, quindi mi voltai per andare via e decisi che glielo avrei chiesto la volta successiva.


Seguii le indicazioni del misterioso ragazzo e arrivai in un vicoletto scuro e squallido, che pullulava di ragazzi ubbriachi e fatti, mi sfeci spazio tra quella gente e riuscii senza troppa difficoltà a trovare mia sorella, attaccata ad un bottiglia di vodka e tutta ridacchiante, con la sua amica che per poco non le vomitava addosso. Affrettai il passo verso di lei e la raggiunsi in poco tempo. Quando lo feci, Harry con uno scatto improvviso posò la bottiglia delle mani dell’altra, e si distanziò repentinamente da lei.
<< Che ci fai qui? >> mi ruggì contro, sprezzante.
<< Mamma e papà mi hanno chiesto di venirti a prendere. >> risposi tranquillo.
<< Beh, non ho bisogno che mi controlli. >>
<< A me sembra proprio il contrario. >> dissi, rivolgendogli uno sguardo carico di giudizio. Era ridotta proprio male, aveva i capelli appiccicati d’alcool, il trucco sbavato e i jeans sporchi e strappati per essere stata seduta a terra. << E ora di tornare a casa. >> aggiunsi.
<< No! >> si lamentò lei, pestando i piedi per terra.
<< Sei ubbriaca Harriet >> usai il suo nome completo per sembrare autorevole. << Ma capirai che se mamma e papà scoprono le condizioni in cui ti ho trovata ti metteranno in punizione per secoli, quindi ora verrai con me o io canterò su tutto. >>
<< Spregevole spia. >> mi rispose lei, cercando di alzarsi senza alcun risultato. La presi per un braccio e la tirai su, facendola appoggiare a me.
<< Adesso vieni. Ci fermeremo da Starbucks e ti prenderò qualcosa da mangiare così ti riprenderai, poi ti sciacquerai la faccia e i capelli, e spera che mamma sia troppo occupata con il lavoro per notare lo stato pietoso in cui ti trovi. >> dissi con un cipiglio severo. << Clara, dovresti tornare a casa anche tu. >> aggiunsi, rivolgendomi alla sua amica.
Harry si lasciò portare con sorprendente ubbidienza quel giorno, evidentemente era abbastanza ubbriaca da non aver voglia di protestare. Ci fermammo in uno Starbucks davvero, e mandai ai miei genitori un messaggio per avvisarli che stavamo bene. Dopo il primo muffin al doppio cioccolato Harry vomitò tutto, ma fu un bene, perché, liberatasi di una buona parte della quantità d’alcool che aveva assunto, fu molto più lucida. Le sciacquai la bocca, lavai la faccia e i capelli, e per questo, con mio grande imbarazzo, fui obbligato ad entrare nel bagno delle ragazze.
Quando uscimmo le comprai, con i soldi risparmiati della metro, una brioche secca, per alleviare la nausea, e lei la mangiò con gusto.
<< Oggi ho incontrato un ragazzo a scuola tua. >> trovai infine il coraggio di chiedere, mentre eravamo ancora seduti nello Starbucks. << Non conosco il suo nome. >>
<< Descrivimelo. >> propose lei, che chissà perché si sentiva in vena di conversazione quel giorno.
<< Mmh, alto, riccio, capelli scuri, occhi azzurri… Un po’.. strano. >> dissi io, e avrei detto anche incredibilmente intelligente, ma non pensavo che mia sorella se lo sarebbe mai ricordato per quello.
<< Oh. E’ di sicuro Sherlock Holmes. >> disse lei con un sorriso, e io subito pensai che Sherlock era un nome che si addiceva perfettamente a quel ragazzo: era particolare, era altezzoso, era diverso. Sherlock Holmes. Suonava perfetto perfino nella mia testa.
<< Beh.. che tipo è? >> chiesi incuriosito.
<< Uno strano. >> disse lei, con aria distaccata. << Uno sfigato insomma. Anche se una mia amica, Molly Hooper, non fa altro che parlare di quanto sia affascinante. >>
<< E tu lo trovi.. attraente? >> chiesi io, per qualche strana ragione il pensiero che mia sorella potesse trovare Sherlock carino mi disturbava un po’.
<< Oddio, come puoi essere così cieco. >> disse lei, leggermente infastidita, ma io non capii il motivo per cui lo fosse.
Quando uscimmo da bar Harry era ancora estremamente nervosa, e iniziò a sbuffare, quindi capii che era finito quel magico momento in cui avevamo avuto una conversazione normale, e rinunciai a fare altre domande su Sherlock, pensando che sarei riuscito a capire qualcosa da solo.
<< Sappi ragazzina, che da adesso in poi ti accompagnerò e verrò a prendere a scuola tutti i giorni, per assicurarmi che tu frequenti le lezioni con regolarità. >> le dissi con tono molto serio. Lei di tutta risposta scoppiò a ridere.
<< E’ me che vuoi controllare, John, oppure vuoi controllare Sherlock Holmes? >> mi disse, lasciandomi un tantino confuso.
<< Cosa? >> risposi.
<< Oh bene, allora non sei cieco solo per qu
anto riguarda me. Sei cieco anche su te stesso. >> disse lei, ma io continuavo a non capire.



Note dell'autore.

Mi dispiace rovinare l'atmosfera, ma l'autore OVVIAMENTE non è John Watson. Fino ad ora, mi è piaciuto dare l'impressione ovunque che fosse lui a scrivere, perché lo trovo molto carino che possiate immedesimarvi nella storia, ma sono necessarie alcune informazioni di servizio: come è evidente la storia è ambientata quando Sherlock era ancora al liceo brillante deduzione perché ho sempre pensato che incontratisi con quell'innocenza giovanile John e Sherlock avrebbero avuto più faciltà a manifestare i propri sentimenti, nonostante questo, ve lo anticipo, ci sarà un VERO E PROPRIO caso, quindi nella trama non ho scritto (o meglio John non ha scritto) menzogne. Comunque sono già molto avanti nella storia quindi aggiornerò con regolarità, anche ogni giorno se vedo che la storia piace, questo dipende tutto dalle vostre recensioni. Quindi se la storia vi è piaciuta o anche se vi ha fatto schifo fatemelo sapere! Se vi siete tanto immedesimati potete anche indirizzare le recensioni a John Watson, risponderò come se fossi lui *animo da roleplayer si manifesta* Detto questo, vado perché Sherlock mi chiama.. Bye.

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Capitolo 2
*** Dal blog di John Watson: Un'insolita proposta. ***


Dal blog di John Watson: Un'insolita proposta.

Quel venerdì sera, rinunciai ad uscire e decisi di cercare Sherlock su internet. Provai tutti i social network che conoscevo, facebook, instagram, twitter, e persino tumblr, ma non trovai niente. Quando mi ero quasi  arreso, finalmente trovai qualcosa: un blog. Il blog si chiamava “scienza della deduzione”. Lo aprii e iniziai a leggere l’ultima cosa che aveva postato. Dopo tre righe mi accorsi che mi sarei divertito di più tentando il suicidio che a leggere quella cosa. Erano solo stupidi elenchi, o elenchi troppo intelligenti perché una persona di intelligenza media come me potesse capire. Non mostrava per niente la sua genialità, quella che avevo sperimentato il pomeriggio stesso conoscendolo. Mi ripromisi che se lo avessi conosciuto bene, avrei tenuto un blog per lui, e avrei fatto in modo di non essere l’unico sulla terra ad apprezzare la sua intelligenza. Mi addormentai pensando a quanti soldi avrebbe potuto fare deducendo la vita di perfetti sconosciuti, come una specie di falso cartomante, l’idea mi fece ridere, perché ero sicuro che lui l’avrebbe odiata.
Di sabato il tempo sembrò aver smesso di scorrere, passai la giornata nel letto a cercare di capire cosa avrei detto a Sherlock quando l’avrei rivisto, per sembrare almeno un po’ più intelligente della gente media che tanto lo annoiava. Ero troppo distratto per poter studiare, anche se avrei avuto un esame di mercoledì. La sera decisi di alzarmi da quel letto, vestirmi ed andare a prendere una birra con degli amici, per distrarmi un po’. Fu la solita serata tra ragazzi, ma mi sembrò estremamente noiosa, e non ne potevo più di Mike che mi diceva che era assurdo che vivessi ancora dai miei genitori. Tornai a casa presto e mi addormentai quasi subito.
La domenica passò altrettanto lenta, ed era piuttosto deprimente vedere come i nostri allegri pranzi domenicali si stavano facendo sempre più tetri. Harry rimaneva assorta e in silenzio per tutta la durata del pasto, intristendo sia mamma che papà, e le portate che prima erano tante e abbondanti si erano ridotte ad una misera fetta di carne con le patate. Andai in camera mia subito dopo aver mangiato, e rimasi lì tutto il giorno, tentando invano di studiare.
Lunedì mattina mi svegliai prima del dovuto, ero molto agitato all’idea di incontrare di nuovo Sherlock Holmes. Dopo essermi preparato, buttai Harry giù dal letto, dovendo sopportare per questo le più svariate imprecazioni e minacce di morte. Andammo a scuola a piedi, e facemmo tardi. Harry riuscì ad entrare giusto in tempo, e io non trovai Sherlock.
Andai all’università a seguire i corsi, ma la mia mente era già al momento in cui sarei andato a prendere mia sorella.
Sorprendentemente vidi Harry uscire da scuola, e mi domandai se fosse entrata solo qualche minuto prima, per farmi credere di aver seguito tutte le lezioni. Immaginai che Sherlock l’avrebbe facilmente dedotto.
Quando Harry si avvicinò a me, con aria un po’ depressa e sbuffante mi accorsi con grande sorpresa che non aveva bevuto. Le rivolsi un sorriso, che lei non ricambiò. Mi guardai intorno insistentemente, cercando di temporeggiare senza che Harry se ne accorgesse.
<< E’ inutile che cerchi, John. Lui non è venuto oggi.>> disse mia sorella con un sorriso beffardo e canzonatorio.
<< Chi? >> chiesi un po’ sorpreso.
<< Sherlock Holmes. Non viene spesso a scuola. >> disse lei, sbadigliando. << Forse non ha un fratello rompipalle come te. >>
<< Non parlarmi così, Harriet. >> replicai innervosito.
<< Certo, come vuoi. >>


Fino a mercoledì mattina non ci fu traccia di Sherlock Holmes a scuola, per cui quel giorno quando andai a fare l’esame ero parecchio scocciato. Non fu per niente facile e in più avevo la testa altrove. Lo passai, non brillantemente come al solito però. Quando andai a prendere mia sorella a scuola quel giorno, non ero per niente di buon umore.
Una volta arrivato a scuola mi accorsi che mia sorella non era ancora uscita, mi sedetti in cortile ad aspettarla. Anche se ormai mi ero arreso all’evidenza che non l’avrei mai più incontrato di nuovo, i miei occhi vagarono irrequieti per un po’ tra la folla, alla ricerca di Sherlock.
Cinque minuti di attesa dopo, mia sorella non era ancora uscita e iniziai a pensare che aveva di nuovo marinato la scuola.
<< John. >> una voce alle mie spalle mi fece sobbalzare, eppure la riconobbi immediatamente senza alcuno sforzo, e sulle labbra nacque spontaneamente un sorriso.
<< Sherlock Holmes. >> dissi, prima ancora di girarmi.
Quando mi voltai lo trovai fermo verso di me con lo stesso cappotto che aveva la prima volta, con uno strano sorriso sghembo in volto.
<< Hai chiesto il mio nome a tuo fratello, vero? >> disse, chiaramente compiaciuto.
<< Cosa si deve fare per stupirti allora? >> gli sorrisi.
<< Vedo che ti interessa molto di stupirmi. >> rispose lui.
<< Non esserne troppo compiaciuto, Sherlock. >>
<< Non ti scoccia di vivere ancora con i tuoi? >> si limitò a chiedere, di punto in bianco.
<< Come l’hai dedotto, sta volta? >> gli chiesi senza riuscire a trattenere un sorriso, era quello, esattamente quello il motivo per cui non vedevo l’ora di vederlo di nuovo. Impazzivo dalla voglia di sapere come funzionava quell’assurdo cervello, di starlo a guardare mentre lui esaminava i dettagli, di capire fino a che punto era bravo.
<< Vieni qui a prendere tuo fratello, quindi non dovete abitare molto distanti, o non avresti tempo per farlo, dal momento che frequenti una facoltà impegnativa come medicina, probabilmente vivi assieme a lui. Raramente i ragazzi della mia età non abitano con i propri genitori, quindi per abitare assieme a lui dovreste abitare entrambi con i vostri genitori. Inoltre lo vedo dai tuoi vestiti e il tuo pranzo. Camicia ben stirata, come ti ho detto l’altra volta sei un ragazzo curato, ma non avresti il tempo di stirare le camice così bene, quindi o le porti in lavanderia, ma non puoi permettertelo, o è tua madre a stirarle. Ed è indubbiamente anche lei a farti il pranzo, da quello che si vede dalla busta di carta che hai in mano, è ancora piena e a quest’ora avrai già mangiato, quindi è piena di cose come forchette e fazzoletti inutili o cose che tua madre cucina e a te non piacciono. In più c’è il fattore economico, semplicemente non potresti permetterti di vivere da solo e non lo chiederesti mai ai tuoi genitori in un periodo di ristrettezze economiche. >>
<< Impressionante, davvero. >> non riuscii a fare a meno di esclamare.
<< Già, lo hai già detto la volta scorsa. >>
<< Oh, scusa. Hai ragione, non lo farò più. >> risposi un po’ imbarazzato.
<< No, non fa niente.. Va bene. >> disse lui, rivolgendomi uno strano sguardo.
<< Comunque, per rispondere alla domanda di prima, sì mi scoccia parecchio. Perché? >> ammisi imbarazzato.
<< Potremmo andare a vivere assieme. >> rispose lui, semplicemente.
<< Cosa? >>
<< Coinquilini. Tu risparmieresti soldi, e i miei mi lascerebbero andare se sapessero che vivo con un maggiorenne. >> spiegò lui, come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
<< Ma ci conosciamo appena. >> dissi confuso.
<< Beh, suono il violino. >> rispose.
<< E questo cosa centra! >> replicai esasperato.
<< Hai bisogno di sapere questo di me. A volte sto zitto per giorni interi e sono un sociopatico iperattivo. Che dici, affare fatto? >>
<< Sherlock, non posso andare a vivere con uno sconosciuto. >>
<< 221 B di Baker Street, ci vediamo verso le sei domani pomeriggio. >> continuò lui imperterrito, e poi fece per andarsene senza nemmeno ascoltare la risposta. Proprio in quel momento Harry ci raggiunse. La squadrai quasi come un radar e mi accorsi che non era ubbriaca, questo mi tranquillizzò un po’, così tornai a rivolgere la mia attenzione verso Sherlock.
<< E chi è lei? >> disse lei un po’ confuso.
<< Mia sorella.. >> ammisi infine. Infondo aveva sbagliato solo un minuscolo dettaglio: “mio fratello” non era un fratello, ma una sorella. Aveva dedotto tutto il resto correttamente, e a me sembrava comunque impressionante, quindi al momento mi era sembrato irrilevante contraddirlo.
<< Quindi.. Ho sbagliato. >> il sorriso scomparve immediatamente dal suo volto.
<< Già, piacere tutto mio. >> disse Harry, in tono divertito.
<< Come ho fatto a non capirlo. >> sussurrò, e parlava più a se stesso che a noi.
<< Sherlock… >> cercai di richiamare la sua attenzione.
<< Perché non ho pensato che potessi essere una ragazza? >> disse poi rivolgendosi a mia sorella.
<< Quello che voleva dire in realtà è molto felice di averti incontrata. >> dissi io.
<< Sono stato così.. mediamente intelligente! >> si stava ancora lamentando lui.
<< Sherlock, ascolta. >> cercai il suo sguardo, e a fatica riuscii alla fine a fargli rivolgere gli occhi verso i miei. << Sei stato geniale in ogni caso. >>
<< Lo pensi davvero, John? >> chiese lui.

<< Certo, ovvio, straordinario. >> confermai, e mi resi conto che le mie parole erano riuscite a tranquillizzarlo.
<< Voi due, prendetevi una stanza. >> disse mia sorella, ridacchiando.
<< In realtà e quello che vorremmo fare, un appartamento intero per la precisione. >> disse Sherlock sbrigativo, e io non riuscii a capire se non aveva colto l’allusione di mia sorella o aveva deciso di ignorarla. << 221 B  di Baker Street, domani alle sei. Ora devo andare. >> concluse e fece di nuovo per andarsene tutto assorto nei suoi pensieri.
<< Ma Sherlock! >> protestai. << Non ho nemmeno il tuo numero di cellulare. >>
<< Non ti servirà. >> rispose lui, mentre già si allontanava.
<< Come faccio ad avvisarti, se verrò? >> gli urlai contro.
<< Verrai. >> ribatté senza voltarsi.


<< E così te ne andrai di casa? >> disse mia madre, sedendosi su una sedia malconcia in un angolo della nostra piccola e buia cucina, e riparandosi dal freddo vicino al camino acceso.
<< E’ solo un’idea mamma, non so ancora com’è la casa, o quanto mi verrà a costare. >>
Odiavo le riunioni di famiglia, c’era sempre una sorta di tensione nell’aria. Ci posizionavamo tutti in cucina, ai soliti posti. Io ero in piedi appoggiato alla porta di legno scricchiolante; Harry si sedeva alla parete sinistra della cucina, appoggiata alle porte della credenza rossa che si trovava sotto i fornelli, a terra sulle piastrelle quadrate di gres color terracotta; mia madre si sedeva davanti al fuoco e mio padre, infine, su una panca che si trovava sotto una grande finestra, proprio nella parete opposta alla porta dove ero io.
Quella sera comunque c’era un aria strana. Harry come sempre non faceva altro che ridacchiare, ma quella volta era diverso: lo faceva come se fosse stata davvero divertita, non come se fosse troppo stata ubriaca per rimanere seria. Quella sera c’era aria di buone notizie.
<< La casa gli piacerà sicuramente, insomma l’ha scelta Sherlock, e lui è così straordinario! >> Harry mi stava prendendo in giro, ma io fui l’unico a capirlo, e la fulminai con lo sguardo.
<< Chi è questo Sherlock Holmes? >> chiese mio padre.
<< Lui è.. Beh. Lo conosco appena. Gli serviva un coinquilino, e mi è sembrata una buona idea. Insomma, così se trovo un lavoretto riuscirò a permettermelo, e prima o poi devo iniziare a vivere da solo. >> dissi io.
<< Oh John. >> a mia madre si riempirono gli occhi di lacrime. << Mi dispiace tanto che non hai la libertà di andare a vivere da solo, insomma che hai bisogno di un lavoro e che dovrai avere un coinquilino. E se la casa non fosse abbastanza grande? E se avesse delle abitudini che non ti vanno a genio? >>
<< Oh, mamma, non preoccuparti. Sono sicura che John si troverà meravigliosamente assieme a Sherlock Holmes, e che la casa troppo stretta non sarà un problema. >> chissà come erano venute in testa tutte queste strane idee a mia sorella, mi chiesi se la mia ammirazione per Sherlock non risultasse assurda, e mi vergognai un po’ al pensiero che lui avesse potuto credere che ero un pazzo ossessionato.
<< Mamma. >> dissi io, tentando di riportare la discussione ad un livello minimo di serietà. << Con Sherlock andrà bene.. Lui è tranquillo. >> non potevo scegliere aggettivo meno adatto e me ne accorsi mentre lo dicevo, ma non volevo che mia madre si preoccupasse.
<< Comunque a me sembra una buona idea. >> disse mio padre.
La riunione di famiglia fu conclusa, e l’idea di Sherlock della convivenza sembrava approvata da tutti.

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Capitolo 3
*** Dal blog di John Watson: Il suo bizzarro hobby. ***


Dal blog di John Watson: Il suo bizzarro hobby.

<< Sapevo che saresti venuto. >> Sherlock mi colse di nuovo alle spalle mentre lo aspettavo davanti alla porta del 221b di Baker Street, sobbalzai, e mi girai verso di lui un po’ irritato.
<< Ciao. >> gli dissi.
<< Oh, giusto. E’ così che si inizia una conversazione.. Noi non l’avevamo mai fatto così, comunque. >> mi fece notare.
<< Fa un po’ come vuoi. >> gli risposi, passandomi una mano tra i capelli per il nervosismo.
<< Ciao, John. >> mi sorrise, e io ricambiai facendomi un po’ da parte, mentre lui suonava il campanello con insistenza.
<< Sembra molto bello qui. >> affermai, un po’ preoccupato per quanto potesse venire a costare.
<< Non ti preoccupare, la proprietaria è un’amica di famiglia. Ci farà un prezzo di favore.>> mi tranquillizzò lui senza nemmeno aspettare di sapere se io avessi voglia di condividere quella mia preoccupazione. Ormai iniziavo a farci l’abitudine.
Ci aprì la porta una signora, che aveva dei corti capelli neri, un vestitino viola e un sorriso affabile, pensai avesse l’età di mia madre. Mi domandai subito perché Sherlock avesse bisogno di me per dividere l’appartamento. Era chiaro che lui poteva permetterselo, e comunque mi aveva detto che grazie alla mia presenza i suoi genitori si sarebbero convinti a lasciarlo andare, ma in realtà c’era già la proprietaria che era un’adulta e in più un’amica di famiglia. Comunque decisi di non farmi troppe domande, dal momento che, anche se non sapevo come mai servissi a Sherlock, lui a me serviva decisamente.
L’appartamento era molto carino. C’era un salotto che sarebbe stato abbastanza ampio per noi due, aveva un camino, cosa che per me è davvero fondamentale. Davanti al camino c’erano due poltrone e nella parete infondo un divano, sembrava tutto molto confortevole e bello e anche abbastanza antico. Sul pavimento c’era un bellissimo tappeto rosso, io amo i tappeti, danno un senso di calore e di casa. Sentii subito che quel posto sarebbe stato perfetto per me, se non fosse stato per l’immenso disordine che lo affollava.
Sul salotto c’era una porta che dava sulla cucina, che era abbastanza grande e attrezzata di tutto il necessario, c’era anche un bel tavolo di legno, ma anche quello era sommerso da cose assurde, giurai di averci visto anche delle dita umane.
Infondo al corridoio, c’era una camera da letto e un bagno, e poi delle scale davano ad una seconda camera da letto.
La signora Hudson, così si chiamava la proprietaria, ci fece del tè con i biscotti, e ci intimò di accomodarci in salotto. Presi posto su una delle due poltrone davanti al camino e Sherlock sull’altra. La signora ci lasciò a discutere e a prendere una decisione.
<< Allora, che ne dici? >> disse Sherlock, con il suo solito sorriso soddisfatto stampato sulle labbra.
<< Si dovrebbe mettere un po’ a posto, è un casino qui dentro. >> commentai, cercando di sminuire il mio entusiasmo per evitare che lui mi prevedesse anche il giorno in cui mi sarei trasferito. Il suo sorriso si spense e la sua espressione si indurì.
<< Quelle cose non si toccano. >> commentò freddo.
<< Oh, è roba tua.. >> mi alzai subito, per andare a dare un occhiata, incuriosito. Non era per niente il tipico disordine di un adolescente. Erano cose assurde, come occhi di rana, o strani liquidi colorati, c’era persino un piccolo teschio, posai il tè sopra al camino e lo presi in mano.
<< Potrei chiamarlo John. >> disse lui, che mi aveva seguito con lo sguardo. Ridacchiai.
<< Meglio di no. >> posai subito quel teschio.
Mi spostai in cucina, e lui mi venne dietro, forse temendo che potessi toccare qualcosa. Continuando a guardare le sue cose, mi accorsi che quelle sul tavolo erano davvero dita umane. Rabbrividii.
<< Cosa sono tutte queste cose, Sherlock? >> gli chiesi.
<< Esperimenti. >> disse lui e nella sua voce comparve una scintilla di fierezza.
<< Oh.. >> commentai, continuandomi a guardare intorno sempre più curioso. << Potrebbe davvero essere… Affascinante. >>
Sherlock non rispose allora alzai la testa per guardarlo, e lui stava già guardando me, anzi piuttosto mi stava fissando, assorto in un pensiero che non ero capace di decifrare.
<< Cosa? >> domandai un po’ perplesso.
<< Nessuno aveva mai definito quello che faccio “affascinante”. >> disse infine, con lo sguardo ancora un po’ perso.
<< Ho detto che potrebbe esserlo. >> gli risposi, e lui mi sorrise, così mi venne in mente una domanda. << Sherlock, fai mai cose.. ehm.. Normali? >> gli chiesi, visto che non avevo trovato un modo più gentile per dirlo.
<< Definisci “normali”.  >> rispose lui.
<< Tipo, non lo so… bere una birra con gli amici, andare in un locale, la playstation, uscire con una ragazza. >>
<< Non è il mio genere di cose. >> disse lui, tranquillamente.
<< Non sei mai uscito con una ragazza? >> chiesi io, cercando invano di non sembrare troppo sbalordito.
<< Te l’ho detto, non è il mio genere. >> ribadì lui, sembrava un po’ confuso, ma non turbato o imbarazzato, quindi decisi che potevo continuare con le domande.
<< Oh, allora.. Con un ragazzo? >>
<< Il tuo interesse mi lusinga. >> mi accorsi che stava sorridendo, leggermente, senza farsi notare. Mi sentii un po’ arrossire.
<< Oh, no.. Assolutamente io non.. >> mi affrettai a precisare, ma mi fermai quando notai che, oltre al fatto che trovavo difficile trovare le parole giuste per uscire fuori da quella conversazione senza tirarmi la zappa sui piedi da solo, Sherlock non stava più nemmeno prestando attenzione a quello che dicevo. Aveva preso il cellulare e leggeva un messaggio che gli era arrivato.
<< Ora devo andare. >> disse lui, senza alzare lo sguardo nemmeno per salutare.
<< Oh, esci? Allora qualche cosa di normale la fai. >>
<< Se per te “omicidio”, rientra tra la lista di cose normali, va bene. >> Ecco, avrei dovuto prevedere i segnali, ero finito a casa di uno psicopatico serial killer che mi aveva appena detto che stava uscendo per fare un omicidio. Eppure non fui per niente spaventato da quell’affermazione, non sapevo cosa intendesse, ma qualcosa dentro di me mi spingeva profondamente a fidarmi di lui.
<< Hai intenzione di uccidere qualcuno? >> chiesi come se nulla fosse.
<< Mi ascolti quando parlo? Ho detto che sono un sociopatico iperattivo, NON uno psicopatico. >> rispose lui, un po’ irritato.
<< Oh. >> dissi io, chiedendomi come questo potesse rispondere alla mia domanda.
<< Significa “No, John, non ho intenzione di uccidere nessuno”. >> spiegò lui. << Perché mi fai perdere tempo? >>
<< Allora che cosa intendi per omicidio? >> replicai io, ignorando deliberatamente la sua acidità.
<< Intendo dire che c’è stato un omicidio, e io vado a vedere. >>
<< Oh. >> ripetei.
<< Divertiti con le tue cose normali, io vado. >> lanciandomi finalmente uno sguardo e un mezzo sorriso, per poi voltarsi immediatamente per correre alla porta.
Quando mi decisi ad andargli dietro aveva già sceso le scale, ed era arrivato alla piccola anticamera. Si era fermato per aprire la porta.
<< Sherlock! >> lo chiamai, urlando un po’ troppo.
<< Sì? >> alzò lo sguardo verso di me, negli occhi aveva una gioia selvaggia, che un po’ mi preoccupò, un po’ mi trasmise la sua eccitazione.
<< Sarebbe un… Ti dispiacerebbe se.. Venissi con te? >> trovai il coraggio di chiedergli.
<< Ci stavi mettendo un po' troppo a chiedermelo. >> sorrise.
<< Sarebbe un sì? >>
<< Muoviti John, un cadavere ci aspetta. >> rispose, senza più voltarsi. Gli corsi indietro come stessi inseguendo un aquilone e mi sentii scosso da un brivido di adrenalina.
Prendemmo un taxi al volo e andammo ad Harley Street, pensai che avremmo sicuramente fatto prima a piedi, ma pensai anche che sicuramente Sherlock ne era al corrente, quindi aveva preso il taxi per un motivo specifico, anche se ancora non avevo capito bene quale.
<< Avrai delle domande. >> disse lui e così io capii. Sherlock aveva perso il taxi in modo di avere il tempo di spiegarmi cosa stava succedendo. Dapprima mi sentii estremamente lusingato, perché dopotutto stava ritardando la cosa che lo entusiasmava così tanto solo per parlare con me, ma poi pensai che lo stava facendo perché aveva bisogno di un pubblico, e non sapevo esattamente come ma mi ero andato a cacciare nella situazione perfetta per fargli da pubblico.
<< Allora, che significa che vai a vedere un omicidio? >> decisi di accettare definitivamente di essere il suo pubblico, dopotutto era Sherlock Holmes, e quello che faceva poteva solo essere interessante.
<< Un amico di famiglia, il Signor Lestrade, lavora in polizia. Suo figlio, che è un po’ più grande di me, vuole fare il poliziotto anche lui perciò da qualche anno ci fa entrambi entrare a vedere la scena del crimine e come lavorano, a patto che non tocchiamo nulla. Lui crede che voglia fare il poliziotto anche io. >> ridacchiò.
<< Perché no? Saresti bravo.. >> dissi io.
<< Oh John, offendi la mia intelligenza. >> rispose lui, facendomi ridere.
<< Quindi il figlio di questo Lestrade è un tuo amico? >> chiesi.
<< Io non ho amici.. >> disse lui. << Oh guarda siamo arrivati, Harley Street 62. >> si affrettò ad aggiungere.
Sherlock pagò il taxi e scendemmo in fretta e furia, trovammo la zona bloccata dagli agenti di polizia.
<> disse una donna riccia senza troppo entusiasmo. << E lui chi è? >> chiese poi indicandomi, ero tanto curioso di sapere come avrebbe risposto, quindi lasciai che fosse lui a presentarmi.
<< Lui è John Watson, un mio a.. >> Stava per dire “amico”? Me l’ero inventato o era proprio sul punto di dire che eravamo amici, eppure mi aveva detto chiaramente di non avere amici. Mi venne da sorridere. << Lui sta con me. >> completò non trovando un sostantivo adeguato per categorizzarmi.
Con un po’ di riluttanza la signorina ci fece entrare.
<< Ciao Sherlock. >> un ragazzo che aveva più o meno un paio d’anni più di me, con i capelli castani e un sorriso dolce, ci venne vicino.
<< Lestrade. >> rispose lui abbastanza freddo. Non mi piaceva quando faceva così, le persone vanno sempre trattate con gentilezza a mio parere, quindi decisi di intervenire portando un po’ di calore in quello scambio di battute, anche perché avevamo di fronte un ragazzo che mi sembrava naturalmente affettuoso nei confronti di Sherlock.
<< Piacere io sono John Watson. >> dissi. << Il coinquilino si Sherlock. >> pensai che “coinquilino” come sostantivo, non l’avrebbe turbato troppo, era abbastanza neutra come definizione.
<< Oh, quindi ti sei finalmente spostato a vivere da solo Sherlock. >> commentò il ragazzo. << Comunque piacere, io sono Greg. >> disse porgendomi la mano.
<< Greg? >>
<< E’ questo il mio nome, Sherlock. Se mai dovessi prenderti il disturbo di impararlo. >> commentò aspro. << Sherlock non mi chiama mai per nome, per sottolineare il fatto che non siamo amici. >> aggiunse poi, rivolto a me. Sentii come un misto di senso di colpa e soddisfazione, da quanto mi aveva detto erano anni che Sherlock e Greg si frequentavano e lui non si era mai preso la briga di ricordarsi il suo nome, mentre con me aveva sempre usato John, fin dal primo giorno in cui l’avevo visto. Sapevo che Sherlock avrebbe immaginato che lo stessi pensando, quindi alzai la testa per guardarlo, lui stava già guardando me e, suo malgrado, mi rivolse un impercettibile sorriso, impercettibile per chiunque altro, certo, ma non per me.
<< Che è successo? >> chiese lui poi.
<< Un uomo o è caduto dal quinto piano, il suo volto è entrato a contatto con l’asfalto subito, prima del resto del corpo, e adesso è irriconoscibile. Aspetteranno che qualcuno denunci la scomparsa, ma sono quasi sicuri che nessuno lo farà, sembra proprio si tratti di un senza tetto. >> riportò Greg.
<< Vado a dare un occhiata, vieni John. >> e io ubbidii senza dire una parole.
Guardare Sherlock Holmes mentre pensa è una delle cose che preferisco al mondo, me ne resi conto in quel momento, quando lo vidi osservare il cadavere. Era così assorto, attento e concentrato, pensai che neanche se mi fossi messo proprio di fronte a lui a ballare la macarena mi avrebbe notato in quel momento. C’erano solo lui e il suo cervello in quel momento, era meraviglioso e affascinante. Si muoveva attorno al corpo con agilità e leggerezza, sapeva esattamente come fare per avvicinarsi abbastanza, ma non troppo, era veloce e silenzioso. Sarebbe stato un perfetto criminale se solo l’avesse voluto, e io speravo con tutto il cuore che non l’avrebbe mai voluto, altrimenti saremmo stati tutti nei guai, e nessuno l’avrebbe mai acciuffato.
Fece così per cinque minuti guardando attraverso la sua piccola lente di ingrandimento, infine sorrise.
<< Ok John, ora è il caso di andare. >> disse poi infine.
<< Ma come, di già? >> dissi io, distogliendo in fretta il mio sguardo da lui.
Lui non mi rispose, ma prese a camminare superandomi, mi dava sui nervi quando faceva così.
<< Oh, Sherlock. >> sussurrai tra me e me.
<< Ti ci abituerai prima o poi. >> disse Greg, venendomi vicino. << Lui non è una cattiva persona, John. E’ solo.. lui è solo Sherlock. >>
<< Ciao Greg, è stato davvero bello conoscerti. >>
<< Anche per me. >> rispose lui.
<< Ora vado da lui. >> Mi congedai, per raggiungere Sherlock.

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Capitolo 4
*** Dal blog di John Watson: Diciassettenne e psicopatico. ***


Dal blog di John Watson: Diciassettenne e psicopatico.

<< Allora, che cosa ne pensi? >> dissi a Sherlock, mentre percorrevamo la fine di Harley Street.
<< Su cosa? >> chiese lui, bloccandosi di colpo.
<< Sul cadavere, ovviamente. >>
<< Cosa importa cosa penso, la polizia ha trovato la soluzione, no? >>
<< Ma tu non sei d’accordo, vero? >> insistetti io, smettendo di camminare per rimanere al suo fianco.
<< La polizia, John, ha il suo parere. Perché ti interessa del mio? >> chiese lui.
<< Oh, Sherlock, non insultare la tua intelligenza. >> citai le sue parole, e ridemmo entrambi. Poi lui si face serio, si voltò e si mise di fronte a me.
<< Ti interessa davvero sapere cosa penso? >> mi domandò.
<< Ovviamente. >> risposi, guardandolo dritto negli occhi.
<< D’accordo. Quell’uomo non era un senza tetto, inoltre non è caduto, penso si sia buttato, ma non da quel palazzo. >> rivelò.
<< Cosa? Come fai a dirlo? >> domandai perplesso.
<< Varie cose. La giacca troppo è stretta, nulla di strano per un senza tetto certo, ma mi ha permesso di vedere la sua pelle, è molto abbronzata. Se fosse stato un senza tetto non lo sarebbe stata aldilà dei polsi, invece è chiaro che quest’uomo ha preso il sole appositamente, inoltre una pelle così abbronzata non si può ottenere con il sole di Londra quindi l’uomo o faceva regolarmente le lampade, ma non credo perché si vedeva il segno della fede più chiaro sull’abbronzatura, e quando ti fai una lampada è necessario togliere tutti i gioielli, oppure viaggiava molto e in località di vacanza, questo ci fa pensare che non solo non fosse affatto un senza tetto, ma fosse anche abbastanza ricco. D'altronde lo si nota anche dai capelli, ben curati, puliti, recentemente tagliati, un senza tetto non li porterebbe mai così. Come si deduce dal segno della fede era sposato, e anche felicemente, perché non la toglieva mai, né ci giocherellava spostandola, non la toccava mai per paura di perderla. Come faccio a capire che non è caduto, John? E’ cristallino, cristallino! Come fate a non vederlo? E’ altamente improbabile che qualcuno inciampi e cada a testa in giù, come puoi cadere da un palazzo perpendicolarmente all’asfalto? E’ da escludere che anche che lo abbiano spinto, per lo stesso motivo, quindi è ovvio che si sia buttato. >>
<< Meraviglioso.. Meraviglioso. >> dissi, ancora a bocca aperta, facendolo sorridere. << Ascolta, non capisco ancora una cosa però: che significa che non si è buttato da quel palazzo? >>
<< La sua posizione era insolita, nessuno cade con le gambe in quell’angolazione, e poi i vestiti? Perché aveva quei vestiti se non era un senza tetto? Io penso che l’abbiano messo lì dopo che si fosse buttato da un altro palazzo e gli abbiano cambiato i vestiti dopo la morte. >>
<< Ma il sangue, Sherlock, c’era troppo sangue perché il corpo possa essere stato trasportato. Avrebbe perso sangue lungo la strada… >> sentii che almeno i miei studi di medicina stavano servendo a qualcosa.
<< Non parlare per un secondo, devo capire.. >> disse lui. << Ah, e non guardarmi per favore, mi distrae. >>
Così rimasi fermo come un’idiota a fingere di guardare dall’altra parte, mentre in realtà studiavo ogni sua mossa. Aveva gli occhi vitrei, quasi stesse guardando altrove, in un posto dentro di sé, a volte scuoteva la testa, si mordeva un labbro, o muoveva le mani come per scacciare un insetto fastidioso. Quasi mi sembrò di trattenere il respiro per tutto il tempo in cui lui stava pensando. Poi improvvisamente vidi comparire sulle sue labbra il solito sorriso selvaggio, e capii che era arrivato ad una soluzione.
<< Ho capito, John. L’ho risolto! >> quasi mi urlò nell’orecchio.
<< Allora? >>
<< Un doppio omicidio, non c’era un caso così bello da.. Non c’era mai stato, forse. >> mi chiesi se fosse normale per un adolescente essere così esaltato dalla morte, ma poi dopotutto niente in Sherlock Holmes era normale, e forse ero io quello pazzo a stargli ancora dietro. << Qualcuno si è davvero buttato da questo palazzo, ma non era quest’uomo. Due persone diverse di buttano da due palazzi diversi, magari in due posti diversi di Londra, o meglio dell’Inghilterra. Si buttano di testa, in modo da non essere identificati. Poi qualcuno, scambia loro i vestiti e per sicurezza scambia anche i luoghi da dove sono caduti, nessuno riconoscerà il nostro uomo qui e la polizia non verrà mai a sapere dell’altro omicidio. E’ geniale. Davvero geniale. Che classe.. Che originalità. >>
<< E’ un assassino, Sherlock. >> cercai di redarguirlo, ma mi accorsi che le mie parole non ebbero alcun effetto su di lui  sul suo sorriso selvaggio.
<< Già.. Probabilmente lo ha già fatto, o lo farà di nuovo. >> mentre lo disse mi resi improvvisamente conto di non essere in un videogioco: vite reali di persone reali, che avevano mariti, mogli, genitori, amici e figli, erano in pericolo. La polizia avrebbe archiviato il caso, l’assassino non sarebbe stato preso.
<< Dobbiamo avvisare la polizia! >> esclamai.
<< La polizia, John? >> si lasciò sfuggire una risata amara. << E tu credi che la polizia presterà attenzione a questa storia assurda dei due omicidi che gli viene suggerita da un diciassettenne psicopatico? >>
<< Non psicopatico, sociopatico iperattivo, Sherlock. >> questa cosa che gli dissi, per tranquillizzarlo, lo fece sorridere, molto dolcemente, ma nel suo sguardo c’era anche il segno di un’amara rassegnazione. Non pensavo che avrei mai visto un simile sguardo nei taglienti occhi azzurri di Sherlock Holmes.
<< Non possiamo fare niente.. >> disse lui.
<< Possiamo indagare da soli. >> proposi io.
<< Ma come? Ma come.. Non posso rivedere il cadavere, né toccarlo, non potrò tornare sulla scena del crimine, non ho un nome, non un luogo, non ho nulla da dove cominciare. >>
<< Ma se è facile è noioso per te, no? E’ questo che lo rende divertente. >> lo incoraggiai. << Ora pensa, Sherlock, so che puoi farlo, so che tu puoi trovare qualcosa. Hai 17 anni e riesci a capire in pochi secondi quello che uomini adulti non capiscono in anni. Sei incredibile. >> gli dissi, e poi posai le mani sulle sue spalle costringendolo a guardarmi, era nervoso. << Ci sono delle vite in gioco, ti prego.. Pensa! >> gli dissi infine, senza mollare la presa su di lui.
<< Ok, John.. Però così.. >> guardò le mie mani sulle sue spalle, e poi dritto nei miei occhi. << Tu mi distrai. >>
<< Oh, giusto, certo.. Scusa. >> lo lasciai immediatamente e questa volta mi girai del tutto, resistendo all’impulso di guardarlo pensare, sperando che questo lo avrebbe aiutato. Passarono almeno dieci minuti.
<< John? >> mi rigirai verso di lui, appena mi chiamò, aveva uno sguardo distrutto e si passò due volte la mano tra i ricci, guardando ovunque tranne che verso di me. << John, mi dispiace io.. >> capii che non aveva trovato nulla, era agitato e deluso.
<< Non fa nulla Sherlock. Hai ragione, non sono fatti nostri. Dai andiamo a casa.. >> dissi io. Mi dispiaceva che non avessimo alcun indizio, ed era estremamente frustrante, ma vederlo così devastato per una cosa che io stesso gli avevo chiesto mi faceva sentire in colpa e triste, quindi decisi di non rigirare il coltello nella piaga.
<< Sono stupido, come tutti gli altri. >> disse lui, con un’aria distaccata.
<< Andiamo Sherlock, lo sai che non è vero. Non avevi niente ‘sta volta. >> lo presi per un braccio e lo inizia a trascinare verso casa.
<< C’è sempre qualcosa… >> insistette lui.
<< Non ci pensare, ok? >>
Camminammo in silenzio per tutto il resto del tragitto. Sherlock era completamente assorto e io un po’ preoccupato per lui. Quando arrivammo a Baker Street dovetti frugare per tutte le tasche del suo cappotto per cercare le chiavi, visto che lui si rifiutava di collaborare, e fu anche piuttosto imbarazzante, dati gli strani sguardi di tutti i passanti.
Una volta a casa mi feci dare il mio mazzo dalla signorina Hudson, Sherlock nemmeno sorrise quando gli annunciai che sarei andato a vivere nell’appartamento. Mi sarei offeso, ma sapevo che aveva la mente troppo affollata dai pensieri, e che in parte era colpa mia.
Diedi un’occhiata in frigorifero e mi accorsi che non c’era nulla, capii che sarei stato io in quella casa a fare sempre la spesa, e che mi sarei dovuto in qualche modo prendere cura anche di Sherlock oltre che di me stesso, ma mi stava bene.
<< Ho bisogno di prendere alcune mie cose, che dici che mi traferisco qui domani mattina? >>
<< Mmh. >> fu il massimo che riuscii ad ottenere.
<< Sherlock, posso andare? >>
Nessuna risposta.
<< Sherlock? >> dissi un po’ più ad alta voce, quasi urlando
<< Mmh? Oh, sì vai pure.. >> dissi, con tono distratto.
<< Sicuro? Posso restare se hai bisogno di me. >>
Lui scosse la testa, per rispondermi di no.
<< Se vuoi posso rimanere a dormire qui. >>
<< Per l’amor del cielo, John. Vai! Io sto bene. >> esclamò infine Sherlock, spostandosi dalla poltrona al divano, e stringendovisi dentro perché era troppo altro per restarci con le gambe stese. A vederlo così mi faceva tenerezza. Quando si accorse che lo stavo ancora guardando, si girò con la faccia rivolta verso lo schienale, dandomi le spalle.
<< Va bene, ciao Sherlock. >> sussurrai, e me ne andai, senza aspettare di avere una risposta che, sapevo già non avrei comunque ottenuto.
 
Il giorno dopo mi presentai a casa di Sherlock, o meglio a casa nostra, alle otto del mattino. Era l’unico orario in cui mio padre poteva darmi una mano con gli scatoloni, e a me faceva piacere passare un po’ di tempo con lui. Si era preso un’ora di permesso e sarebbe tornato a lavoro subito dopo avermi accompagnato al 221b di Baker Street.
Mio padre insistette per accompagnarmi di sopra e portare qualche scatola, magari vedere l’appartamento e conoscere il nuovo coinquilino. Io cercai di dissuaderlo, senza troppi risultati. Il problema non era che mi vergognavo di Sherlock, io ero molto fiero, in realtà, di aver conosciuto una persona così eccezionale tra le tante. Il problema in realtà era che Sherlock era un po’ difficile da capire e avevo paura che mio padre si sarebbe fatto un’idea sbagliata su di lui. Non volevo che nessuno al mondo sottovalutasse la grandezza di Sherlock Holmes.
Non ci fu verso, in ogni caso, di liberarmi di mio padre, così salì con me nel mio nuovo appartamento.
<< Sherlock! >> urlai appena varcato il ciglio della porta. Niente. << Sherlock? >> chiamai ancora, non c’era alcun motivo di turbarsi per la sua mancata risposta, avrebbe potuto essere uscito, o magari era sotto la doccia o dormiva, ma questa cosa in qualche modo mi preoccupava.
Tirai un sospiro di sollievo quando, entrando in salotto, lo trovai rannicchiato sul divano in cui l’avevo lasciato il giorno prima, aveva ancora le scarpe indosso e gli stessi vestiti, ed aveva il capo rivolto verso il soffitto, gli occhi sbarrati e le mani congiunte appoggiate leggermente sulle labbra, quasi stesse pregando. Sembrava quasi morto, così immobile e assorto, sembrava così in pace. Fui molto felice di vedere il suo petto alzarsi e abbassarsi ad ogni suo respiro.
Mio padre entrò nella stanza, posando uno scatolone con tutti i libri, e io mi affrettai a risvegliare Sherlock dalla sua estasi di intelligenza per riportarlo nel mondo normale.
Sapevo che chiamarlo sarebbe stato inutile, così lo scossi leggermente. Lui sembrò ridestarsi da un sogno, e i suoi occhi cambiarono espressione, ora non aveva solo lo sguardo rivolto verso di me. Poteva vedermi. Ne fui felice e gli sorrisi.
<< Sei qui da ieri sera? >> chiesi.
<< Sì certo. >> rispose lui secco.
<< Non hai dormito. >> aggiunsi, anche se i suoi occhi non erano stanchi.
<< E’ esatto. >>
<< E non hai mangiato. >> conclusi con un sospiro apprensivo.
<< Non mangio mentre penso, John. >> spiegò lui, mettendosi a sedere sul divano, sempre molto tranquillo. Mi sedetti affianco a lui per un secondo.
<< Beh, tu pensi sempre Sherlock. Qualcosa prima o poi dovrai anche mangiarla. >> asserii.
Mio padre fece un breve colpo di tosse per attirare la nostra attenzione su di lui, era rimasto fermo con gli scatoloni ammassati ai suoi piedi aspettando di essere presentato.
<< Oh, giusto. >> dissi non senza un po’ di imbarazzo. << Sherlock, questo è mio padre. Papà, lui è Sherlock Holmes, il mio nuovo coinquilino. >> li presentai in agitazione, sforzandomi di sorridere.
<< Piacere di conoscerti Sherlock. >> disse mio padre gentile. Di tutta risposta Sherlock lo fissò senza guardarlo, come se non avesse contezza della sua presenza, come aveva fatto con me la prima volta che mi aveva visto. Rimase in silenzio, non sapendo cosa dire, o forse non provando nemmeno a dire nulla. Gli sferrai una gomitata poco gentile nello stomaco.
<< Oh.. ehm. >> disse lui, e mi sembrava piuttosto confuso, ma addirittura imbarazzato. Non avevo mai visto Sherlock imbarazzato, mi fece tenerezza e divertì. Non sembrava più una macchina super intelligente e infallibile in quel momento, ma un ragazzino di diciassette anni messo in soggezione da un adulto, lo trovai molto dolce e mi fece sorridere. << Piacere mio, Signor Watson. >> disse infine recuperando una certa sicurezza, ma comunque non sperticandosi in un sorriso.
<< Beh. >> dissi io. << Io vado a sistemare la spesa, e già che ci sono ti preparo della colazione Sherlock. >> mi spaventava un po’ lasciarli da soli. Volevo tanto che mio padre apprezzasse Sherlock e sapevo che senza il mio controllo e il mio sussurrargli e fargli capire le buone maniere, non avrebbe fatto un’ottima impressione. Tuttavia, prima di andare in cucina gli lanciai uno sguardo, e capii che aveva compreso quanto fosse importante per me che lui facesse una buona impressione, e sperai che ci avrebbe almeno provato.
In cucina misi del latte nel bollitore, e, mentre aspettavo si facesse caldo, decisi di origliare i discorsi di mio padre con il mio futuro coinquilino.
<< Scusi se oggi sono un po’ assorto. >> sentii Sherlock dire, mi sembrava che si stesse impegnando. Già il fatto che facesse conversazione senza dedurre tutta la vita di mio padre in tre secondi era buono, e poi aveva chiesto scusa, cosa che non gli avevo mai sentito fare. << Un compito piuttosto importante a scuola. >> aggiunse, facendomi sorridere: che bugiardo. Sapevo benissimo che stava ancora pensando al caso del giorno prima.
<< Non dovrebbe essere molto difficile per te. >> commentò mio padre. << Mio figlio mi ha detto che sei un genio. >> Mi venne da arrossire, potevo sentire le labbra di Sherlock alzarsi in uno di quei suoi stupidi sorrisi compiaciuti, di quelli che mi fanno da sempre venir voglia di prenderlo a pugni.
<< Ecco perché e in cucina a preparami la colazione? >> sentii dire a Sherlock mentre ridacchiava.
<< Penso che a lui piaccia prendersi cura di te. >> commentò mio padre, facendomi arrossire ancora di più e mi affrettai a mettere i cacao e i cereali nel latte per portarlo a Sherlock.
<< Ecco. >> gli porsi una tazza rossa stretta e lunga e poi mi andai a sedere sulla poltrona del giorno prima, perché mio padre era seduto sullo stretto divano accanto a Sherlock.
<< Latte e cereali? >> disse lui un po’ schifato. << Sei serio? >>
<< C’è anche il Nesquik. >> lo corressi io, ridacchiando sotto i baffi. << Per l’amor del cielo Sherlock, hai diciassette anni, cos’altro vuoi mangiare a colazione? >>aggiunsi poi un po’ irritato, mentre lui odorava con circospezione nella tazza che gli avevo appena porso.
<< Che ne dici di nulla? >>
<< Non puoi saltare i pasti, fa male alla salute. E non fa bene al tuo preziosissimo cervello pensante. >> commentai io.
<< Non fare il dottore. >> rispose lui, che non si era ancora deciso a bere quello che gli avevo dato.
<< E tu non fare l’idiota. >> contrattaccai.
Mio padre ridacchio sotto i baffi, e Sherlock decise di non ribattere e iniziò, con mia gran soddisfazione a mangiare la mia colazione.
Feci fare a mio padre un giro per l’appartamento, che gli piacque molto, poi lui dovette scappare a lavoro e io tornai in salotto da Sherlock. Lui era di nuovo steso sul divano esattamente nella posizione in cui era quando ero entrato in casa, la tazza era sul pavimento ed era ancora mezza piena. Decisi di dovermi accontentare del fatto che ne avesse mangiato metà e la presi.
<< Te ne starai lì tutto il giorno? >> domandai.
<< Sì e ti sarei grato se non parlassi. >> disse lui.
Così sospirai, e sistemai in silenzio i miei libri e il mio computer su un tavolino davanti alla finestra, e mentre lui pensava mi misi a studiare, finendomi i suoi cereali.

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Capitolo 5
*** Dal blog di John Watson: Ceniamo assieme? ***


Dal blog di John Watson: Ceniamo assieme?

 
A pranzo Sherlock decise di non mangiare, nonostante le mie preghiere, e alle 22:30 era ancora nella stessa posizione sul divano, e non aveva detto una parola tutto il giorno, escluso quelle che gli erano servite per rifiutare il mio cibo o dirmi di fare meno rumore con i tasti del computer, perché lo distraevo.
<< E’ venerdì sera Sherlock, io esco con i miei amici dell’università. >> lo dovetti ripetere tre volte prima che lui mi sentisse.
<< Se ti preparassi qualcosa da mangiare, prima, la mangeresti? >> chiesi speranzoso, ottenendo come risposta nient’altro che un secco e disinteressato no.
<< Sai una cosa? Perché non vieni con me..? >> non era esattamente una buona idea, ero sicuro che non sarebbe piaciuto molto ai ragazzi dell’università, sarebbero bastate due deduzioni su quello che avevano fatto il giorno prima o su di che razza fosse il loro cane e lo avrebbero giudicato presuntuoso e gradasso. Non a torto ovviamente, ma io riuscivo a sopportare quelle cose in Sherlock, mentre gli altri sembravano non accorgersi delle qualità che aveva a dispetto degli insormontabili difetti che erano lampanti. Comunque avrei fatto di tutto per farlo alzare da quel divano e farlo smettere di scervellarsi.
<< Cosa? >> disse lui, alzando la testa solo per guardarmi.
<< Ho detto: perché non vieni con me. >> ripetei.
<< Con i tuoi amici dell’università? >> commentò lui, sarcastico.
<< Perché no? >>
<< Non gli piacerei. >> disse lui.
<< Non è vero, loro.. >>
<< Risparmiatelo. Non piaccio mai a le persone… Tranne a te, chissà perché. >>
<< Non ho mai detto che mi piaci. >> dissi io. << Però sì, ovvio che mi piaci. E piaceresti a tutti se solo cercassi di essere meno saccente, perché l’intelligenza è affascinante e interessante e molto attraente. >>
<< Stai dicendo che mi trovi attraente. >> non era una domanda, ma una semplice costatazione.
<< No. >> mi corressi, spiegandomi meglio. << Sto dicendo che potresti risultare molto attraente a molte persone se solo non fossi così saccente. >>
<< Comunque non uscirei con i tuoi amici, John. >>
<< Perché? >> chiesi esasperato.
<< Perché non mi piacciono le persone.. Tranne te, chissà perché. >> disse lui.
<< Beh allora andiamo da qualche parte io e te, per una volta non uscirò con i miei amici. >>
<< Non oggi John, devo pensare. >>
A quel punto spostai le sue gambe per farmi spazio in un angolino del divano, e attirai la sua attenzione finché non smise di fissare il vuoto e decise di guardare me. Ero molto serio, e il mio sguardo era preoccupato. Il suo invece era annoiato, come quello di un ragazzo prima di ricevere una ramanzina, e teso, come se lo stessi trattenendo da qualcosa di importantissimo. Ma decise di non distogliere i suoi occhi dai miei, decise di starmi ad ascoltare.
<< Sentimi bene Sherlock. >> iniziai. << So bene che ti ho messo io in testa la storia dell’investigazione e del salvare degli innocenti, ma era un’idea stupida. Lo so che ti senti deluso da te stesso perché non riesci a trovare un punto di partenza per l’indagine, ma non c’è nulla Sherlock. Se ci fosse qualcosa tu l’avresti trovata, perché tu sei il ragazzo più intelligente che conosco. E sarei pronto a giurarlo, qui e ora, scommettendo la mia vita su di te. Datti solo una sera di tregua e poi non ti impedirò di stare ancora a pensarci, ma soltanto una sola sera. Per favore, per me. >>


Portai Sherlock a Piccadilly Circus da Rain Forest, poteva sembrare infantile, ma amavo quel posto. I miei genitori ci portavano me ed Harry quando eravamo piccoli e io avevo continuato ad andarci, tanto che ormai mi conoscevano tutti i camerieri.
<< Rain Forest? >> commentò sarcastico Sherlock.
<< Senti, fai quello che vuoi, ma evita di uccidere la mia infanzia, d’accordo? >> gli dissi io nell’entrare. L’entrata principale era lo shop del negozio, c’erano mille pupazzi di tutti gli animali pensabili, e uno stagno finto con un coccodrillo robot che apriva e chiudeva la bocca, i bambini erano sempre spaventati a morte quando lo vedevano, quando eravamo piccoli Harry piangeva e io la prendevo in giro.
Superando lo shop c’era un banchetto con un cameriere, di solito a quell’ora era Josh, mi avvicinai.
<< Buonasera. >> dissi rivolgendogli un grande sorriso.
<< Ciao John, come ti possiamo essere utili oggi? >> ripose lui, riconoscendomi.
<< Un tavolo per due. >>
<< Non avevo dubbi. >> ridacchiò lui. << Ti do il solito, quello sotto al cielo stellato? >>
<< Oh no lascia stare, uno qualsiasi va bene. Oggi sono con un amico. >> commentai.
<< Un.. Amico? >> disse lui un po’ perplesso.
<< Viviamo insieme. >> spiegò Sherlock che era comparso dal nulla alla mie spalle. A volte aveva questa strana abilità di dire la cosa sbagliata al momento sbagliato, mi chiesi se lo facesse apposta.
<< Oh, beh.. Il cielo stellato ve lo do comunque, non si sa mai. >> Josh mi fece uno di quei sorrisi delle persone che hanno capito tutto, ma in realtà non aveva capito proprio niente, mi sentii subito scocciato e imbarazzato, e quasi mi pentii di aver chiesto a Sherlock di andare da qualche parte quella sera. Avremmo potuto semplicemente ordinare qualcosa da mangiare.
<< Noi non siamo… Noi siamo… >> iniziai a spiegare a Josh la situazione, ma non era facile.
<< Puoi trovare il tavolo da solo. >> mi interruppe lui, facendomi un incredibilmente fastidioso occhiolino.
Mi rassegnai e guidai Sherlock al tavolo dove solitamente andavo quando avevo appuntamento con qualche ragazza. Rain Forest è un pub il cui interno è arredato come ci si trovasse in una foresta tropicale, anche il clima è abbastanza umido, ci sono cascate, alberi, e animali robot di ogni genere che si muovono, è meraviglioso, ti sembra quasi di entrare in un altro mondo.
<< Sai che tutti questi animali non sono veri, John? >>
<< Zitto e usa l’immaginazione. >> commentai, infastidito.
<< Te l’hanno detto che babbo Natale non esiste? >> mi fece ridere, e mi tornò il buon umore.
Il cielo stellato era la parte più tranquilla del pub, per arrivarci si doveva attraversare un piccolo ponte che superava un ruscello, era un ponte arcuato tipo quello dei balli di principesse nelle favole, di solito quando ci andavo con una ragazza la tenevo per mano mentre attraversavamo, e questo le faceva impazzire. Mi venne da ridere all’idea di farlo con Sherlock, ma nello stesso tempo fui disturbato da quello che avrebbe pensato la gente, e presi in considerazione l’idea di prendere un altro tavolo casuale, anche se ormai Josh aveva segnato che eravamo seduti lì. Comunque rinunciai e feci sedere Sherlock al mio solito tavolo, lui guardò su e sorrise. Sembrava felice, ma non felice come quando Greg lo aveva chiamato per un caso, non euforico, sembrava felice in una maniera più tranquilla, ed era assurdo pensarlo di proprio di lui, ma sembrava spensierato. Mi venne spontaneo di sorridergli con tenerezza, alla fine ero felice anche io che avesse accettato di uscire da Baker Street e smettere ti tormentarsi una sera, ero felice di essere una di quelle poche persone, o forse anche l’unica, che aveva il privilegio di poterlo mettere di buon umore.
<< Mi piace questo cielo. >> confessò.
<< Ah, ora la smetti di disdegnare Rain Forest, eh? >> gli dissi, e lui mi sorrise.
Anche sotto mia forte insistenza, Sherlock rifiutò di mangiare, ma io presi le costolette di agnello e un buonissimo frappè di frutta. Mi imbarazzava un po’ che lui mi stesse a guardare me che mangiavo, mentre rimaneva digiuno, ma a lui non sembrava dar fastidio, quindi dopo un po’ me ne dimenticai.
<< Allora, spiegami. >> gli chiesi.
<< Cosa per l’esattezza? >>
<< Come pensi.. >> dissi. << Ti ho osservato oggi, sei stato tutto il giorno sul divano con gli occhi sbarrati e le mani congiunte. Come fai a mantenere la concentrazione per così tanto tempo? Non ti capita mai di iniziare a fantasticare? >> precisai poi.
<< Non stavo esattamente pensando, io stavo esplorando la mia memoria. >> disse lui, lasciandomi un po’ confuso. << Ho una sorta di palazzo mentale dove conservo tutte le informazioni che ricevo che mi sembrano rilevanti, così ogni volta che ne ho bisogno entro nel mio palazzo mentale e le ritrovo. >> aggiunse poi, notando il mio sguardo interrogativo.
<< Affascinante. >> commentai.
<< Affascinante, interessante e molto attraente, per la precisione. >> mi prese in giro, ripetendo le mie parole.
<< Anche le parole che dico io le conservi in questo palazzo? >>
<< No, alcune cose le memorizzo e basta. >> rispose lui, sorridendo.
<< Oh, e questo posto dove conservi i ricordi potrebbe essere qualsiasi posto al mondo? O deve essere per forza un palazzo? >> chiesi, sempre più incuriosito.
<< No, potrebbe essere qualsiasi cosa. Un archivio, una casa, una stanza, come vuoi.. >> spiegò lui.
<< Figo. Potrebbe essere anche il nostro appartamento a Baker Street. >> proposi io.
<< No, se fosse il 221b, allora ci saresti tu. >> 
<< Beh, sarebbe troppo figo essere nella tua mente.. Probabilmente mi ci perderei, però. >> commentai, e lui rise.
<< Non potresti esserci, mi distrarresti. >>
<< Starei zitto e muto senza nemmeno respirare, immagino che il me della tua mente potrebbe farlo. >> dissi io.
<< Mi distrarresti comunque. >> replicò.
Una volta finito di mangiare, praticamente costrinsi senza pietà Sherlock a prendere un dolce, con lui era anche peggio di quando ci andavo con quelle ragazze fissate con la dieta che prendevano solo un’insalata, è proprio frustrante mangiare di gusto quando c’è una persona davanti a te che ti guarda mentre resta digiuno. Alla fine, dopo una serie di storie infinite, non so come riuscii a convincerlo, e prendemmo il vulcano: una dolce montagna di cioccolata che una volta portata in tavola e veniva accesa e rilasciava scintille e una meravigliosa cascata di cioccolata calda.
Sherlock mi spiegò le reazioni chimiche che rendevano tutto possibile, e mi sembrò strano che una cosa che mi era sembrata così esaltante e quasi magica una volta, fosse in realtà così semplice, e frutto di schematici passaggi che erano sempre gli stessi, sembrava quasi banale spiegato in questo modo.
<< Così distruggi la magia.. >> commentai.
<< Beh no, John. La chimica è quasi come una magia, solo che razionalmente spiegabile. >> replicò lui. << Non ti sembra più interessante questo vulcano, adesso che sai come funziona? >>
<< No, mi sembra meno misterioso.. Più banale. >>
<< Allora tutto ti sembrerà banale, perché tutto è chimica. Anche l’amore, per esempio, lo è. >> affermò.
<< Ti sbagli Sherlock, l’amore è molto di più di questo, e non è razionalmente spiegabile. >> 
<< So riconoscere quando qualcuno è innamorato facilmente. >> disse lui con un tono un po’ freddo. << Il battito accelera, le pupille si dilatano, al tocco la pelle reagisce. Tutto il corpo reagisce all’amore, John. Non è altro che chimica. >>
<< Ok, sì questo è vero. Ma sono sicuro che non sapresti riconoscere tutti questi segni su di te, se fossi innamorato. Altrimenti sarebbe così facile: incontri una persona, sai che la ami, sai che lei ama te e per sempre felici e contenti. Invece no, ci sono tanti amori infelici e occasioni sprecate. Ci sono persone che non hanno la capacità di comprendere o ammettere i propri sentimenti. >>
<< I sentimenti. >> disse lui in tono sprezzante. << Sono solo un difetto della chimica. >>
<< Se fosse solo chimica, Sherlock. Allora com’è che funziona? Perché mi innamoro di una persona e non di un’altra? Sai spiegarmelo questo? >> dissi io, che ormai ero completamente preso dalla discussione.
Sherlock mi guardò in maniera strana, sembrò intensa e anche un po’ triste, quasi potevo vedere i suoi occhi scurirsi, alla luce delle finte stelle sopra di noi. Per un momento tacque, e continuò a guardarmi, come se stesse cercando la risposta alla mia domanda dentro di me, il suo sguardo stava diventando difficile da sostenere, ma nello stesso tempo ero troppo curioso per distogliere il mio.
<< No, non so spiegarlo. >> ammise poi, abbassando lo sguardo. << Non ho idea di come spiegarlo, John. >>

Note dell'autore: Ok, ricordate per un secondo che NON sono John Watson (anche se devo dire che mi fanno impazzire quelle recensioni in cui mi chiamate Dottor Watson, vi amo per questo!). Voglio solo dirvi che so che è il capitolo è molto corto, ma era tutto così estremamente e schifosamente romantico che volevo interrompere le cose qui. Spero che vi sia piaciuto, perché a me, onestamente è piaciuto da morire awwwww GAYYYYY! Ok, stop. Un'ultima cosa: se viaggiate andate da Rain Forest, è un pub che esiste davvero in varie capitali, ed è meraviglioso,  ne vale la pena!!! (pubblicità non molto occulta). Ok, ora dimenticate che non sono John! Devo andare, io e Sherlock lavoriamo ad un caso importante, spero tanto che il blog vi piaccia e scrivetemi!! 

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Capitolo 6
*** Dal blog di John Watson: Rivelazioni Notturne. ***


Prima di postare il nuovo capitolo del mio blog, vorrei scusarmi per l'attesa. Io e Sherlock stiamo lavorando ad un caso molto delicato e importante che ci tiene molto impegnati, e non trovo tanto tempo per scrivere. Lui insiste perché io non parli di questo caso, visto che è segretissimo e ancora irrisolto, ma spero che un giorno potrò parlarvene. Spero anche che l'attesa non vi abbia fatto perdere l'interesse per l'affascinante storia di Sherlock Holmes. Con affetto a tutti i lettori, Dr. John Holmes Watson.

Dal blog di John Watson: Rivelazioni Nottu
rne.

<< No, non di nuovo quel divano. >> dissi io, una volta tornati a Baker Street, quando Sherlock si precipitò a rannicchiarsi su quel divano troppo piccolo per lui, nella solita posizione da semivegetale di quando aveva bisogno di pensare intensamente.
<< Ti ho concesso una sera, John. E non so nemmeno perché l’ho fatto. Ora zitto e lasciami pensare. >> disse lui, mettendosi le mani congiunte sopra alle labbra, e io capì che non ci sarebbe stato verso di trascinarlo nel letto, anche se ormai era già l’una di notte.
<< Buonanotte. >> gli dissi prima di salire nella mia camera da letto al piano di sopra. Non ottenni risposta, ma non me la presi più di tanto.
Sherlock passò i due giorni successivi sul divano a rifiutare ogni mio tentativo di dargli del cibo o di chiacchierare, per quanto ne sapevo non mangiò e non dormì e non si alzò per un secondo dal divano, nemmeno per sgranchirsi le gambe. Dal canto mio, nonostante fossi abbastanza preoccupato per lui, io non lo disturbai troppo, e approfittai del silenzio che aleggiava in casa per trovare la concentrazione perfetta per studiare, per due giorni Sherlock non mi disse nemmeno una parola, senza nemmeno curarsi di rispondere ai miei “Buongiorno” o “Ti faccio un panino?”
Domenica sera finii di studiare alle undici, e andai da Sherlock per dargli la solita e mai ricambiata buonanotte, ma quando mi avvicinai a lui mi accorsi che si era addormentato anche lui, mi venne subito da sorridere.
Frugai nella sua camera da letto, visto che non ce l’avrei fatta a portare lui lì alto com’era, e gli procurai un cuscino e una coperta. Tornai da  lui, gli alzai la testa con estrema lentezza per non svegliarlo e ci misi sotto il cuscino, poi lo coprii e mi fermai a guardarlo per un secondo.
<< Oh Sherlock, sei umano anche tu, eh? >> sussurrai con tenerezza. << E hai solo 17 anni, non puoi saperne tutto della vita.. >> aggiunsi, senza smettere di sorridere.
<< John..? >> disse lui con la voce impastata e confusa del sonno.
<< Buonanotte Sherlock. >> gli dissi, e mi affrettai a salire in camera mia, prima di svegliarlo del tutto.
Erano le 4:34 secondo la sveglia del mio comodino quando Sherlock letteralmente irruppe nella mia camera da letto, strappandomi violentemente ai miei sogni.
<< John, John…John ho capito! >> disse lui aprendo la porta della mia camera da letto senza bussare e senza contenere il suo tono di voce e lasciandomi così in uno stato completamente confusionale.
<< Sh..Sherlock? >> sussurrai io senza ancora essere stato capace di aprire completamente gli occhi, neppure al buio. << Che succede, stai bene? >> chiesi, gettando le mani alla cieca sul comodino per cercare l’interruttore della mia piccola lampada da lettura.
<< Benissimo, mai stato meglio. >> esclamò lui, ancora urlando.
<< Allora che cazzo mi hai svegliato affare? >> replicai io, dopo essere riuscito finalmente ad accendere la luce e essermi messo a sedere. Sherlock ignorò il mio tono feroce e continuò a sorridere con entusiasmo.
<< John, l’ho risolto, capisci? >> disse lui insistendo.
<< Tu, hai risolto cosa? >> chiesi, e cercai di non sembrare troppo curioso. Non volevo dargli corda e ammettere che quello che aveva da dirmi mi interessava, anche se mi aveva svegliato quasi alle cinque del mattino, di lunedì mattina.
<< Ho capito come possiamo indagare sull’uomo trovato ad Harley Street! >> spiegò lui, e a quel punto non fui capace di contenere il mio entusiasmo, ormai avevo perso la speranza per quel caso, ma non avrei mai dovuto dubitare di Sherlock Holmes, e lo perdonai persino per avermi svegliato urlando nel cuore della notte. Gli feci cenno di entrare definitivamente nella camera e spiegarmi tutto quello che aveva capito, e lui così fece: si mise a sedere sul mio letto, e sorrise, forse anche più di quanto non stesse già facendo prima.
<< Quell’uomo aveva un tatuaggio, dietro all’orecchio. >> disse lui. << Un triangolo senza punta e crepato alla base. Non ci avevo fatto caso all’inizio, non l’avevo riconosciuto perché la mia memoria aveva rimosso quest’informazione che ritenevo inutile. >>
<< Quale informazione? >> lo incoraggiai a continuare.
<< All’inizio di quest’anno scolastico in religione abbiamo fatto questo stupido progetto, e ognuno ha dovuto parlare di una sorta di setta religiosa a piacere. Una ragazza portò questa setta abbastanza sconosciuta. Una setta inglese, la cui sede principale si trova a Londra. Coloro che aderiscono a questa setta si chiamano gli illuminati di Fitzgerald e prendono il nome dal loro rappresentante. La ragazza spiegò che una volta entrati in questa setta è impossibile uscirne, e lo scopo principale è spogliarsi di tutti i desideri e le paure mondane per poi raggiungere il cielo. >> disse lui.
<< Aspetta, parli di una sorta di suicidio di massa? >> chiesi io, valutando attentamente la situazione.
<< La ragazza non parlò esplicitamente di questo. Ma non sarebbe una cosa tanto insolita in una setta, e poi quale altro modo conosci per raggiungere il cielo? >>
<< Ok, ma aspetta. Cosa centra tutto questo con il nostro uomo? >> domandai io.
<< Tutti i membri della setta, dal momento in cui si uniscono a questa si tatuano il suo simbolo dietro all’orecchio e il simbolo è… >>
<< Un triangolo crepato. >> realizzai improvvisamente dove voleva arrivare.
<< Esattamente. >> disse lui.
<< Allora, qual è il piano? >> domandai.
<< Il piano è molto semplice domani mi accompagnerai a scuola, se qualcuno te lo chiede dirai di essere Mycroft Holmes. >> iniziò lui.
<< Mycroft? Mycroft Holmes? Chi diavolo è? >> lo interruppi.
<< Mio fratello.. Allora una volta arrivati lì.. >> cercò di continuare.
<< Tuo fratello? Fratello.. tu hai un fratello? >> lo interruppi nuovamente.
<< Sì, l’ho appena detto.. Allora quando… >>
<< Perché non me lo avevi mai detto? >> chiesi, non lasciandolo finire.
<< Cosa? >> disse lui, infastidito.
<< Che hai un fratello. >>
<< Non era importante. >> commentò lui.
<< Importante? Importante? >> dissi io un po’ innervosito. << Tu sai tutto di me, hai persino conosciuto mio padre, io invece di te non so nulla! >>
<< Beh, vogliamo rimandare le confessioni sull’infanzia ad un’altra volta, John? Avrei un piano da spiegarti. >> esclamò lui, ma io avevo momentaneamente perso la curiosità sul caso ed ero determinato a saperne di più su Mycroft. Non so perché fosse così importante, forse mi ero appena reso conto che era folle andare a vivere con una persona che nemmeno conoscevo, o forse mi dava semplicemente fastidio la consapevolezza che Sherlock non sarebbe mai riuscito a considerarmi come un suo amico, mentre io già lo sentivo come tale. In realtà forse era semplicemente una questione di principio, poiché parlare di suo fratello sembrava innervosire il mio coinquilino così tanto, morivo di curiosità di saperne di più.
<< E quanti anni ha? >> chiesi insistente.
<< Chi? >>
<< Mycroft, chi sennò? >>
<< Oh, 24. E ora vuoi ascoltare il piano? >>
<< Andate d’accordo? >> lo ignorai.
<< No, per niente. E ora John basta con le domande e ascoltami. >> mi guardò dritto negli occhi. Non era arrabbiato, non lo era per niente, ma aveva uno sguardo così fermo e autoritario che non osai contraddirlo. Feci subito silenzio e annuii per fargli capire che stavo ascoltando.
<< Allora, tu entri a scuola e ti spacci per mio fratello. Ti scontri con la ragazza, iniziate a parlare, ci provi, e vi scambiate i numeri, insomma queste cose che si fanno quando.. >>
<< Aspetta. >> lo interruppi per l’ennesima volta. << Tu vuoi che ci provi con lei? >> dissi io un po’ contrariato.
<< Sì sì ovvio. E quando sarà abbastanza coinvolta le racconterai di una tragica storia passata, e così lei ti racconterà del suo ex che è un membro della setta in questione. >> disse lui.
<< Come fai a sapere che il suo ex è un membro degli Illuminati? >> chiesi io.
<< Ovvio, lei ha portato questa setta come ricerca, ma lei stessa ha detto che è segretissima, e per niente conosciuta, persino la professoressa di religione non sapeva di cosa stesse parlando. Per questo motivo deve essere entrata in contatto con qualche membro. Non può essere una persona che conosceva appena: se fai parte di una setta super segreta non vai a raccontare in giro “Ehi tutti, sapete faccio parte di una setta di suicidi!”. Poteva essere un familiare, ma non lo avrebbe mai esposto in questo modo, raccontare a tutti della setta può essere un pericolo per chi ne fa parte, nessuno mette i propri familiari in pericolo. Poteva essere un’amica, ma sarebbe stata una situazione simile ad un familiare, una con cui ha litigato, ma se avessero litigato probabilmente lei avrebbe detto a tutti il nome dell’amica che era un membro per vendicarsi. Resta un fidanzato, gli avrà parlato di unirsi alla setta e lei sicuramente avrà rifiutato, altrimenti non ne avrebbe parlato nell’ora di religione, e se lei ha rifiutato è improbabile che stiano ancora assieme. Quindi è un ex. >> concluse, e io sorrisi. << Sì lo so, grazie. >> aggiunse lui.
<< Sai cosa? >>
<< Che è straordinario. >> ridacchiò lui.
<< Ma io non l’ho detto. >> lo contradissi.
<< Lo pensavi. >>
<< No.. Io non.. Ok, lo pensavo, è stato straordinario. >> ammisi.
<< Allora seguirai il piano? >>
<< Perché non ci provi tu, con la ragazza? >> chiesi io.
<< Nah, io non le faccio queste cose. >> rispose.
<< E cosa ti fa credere che lui le faccia? >> dissi, ma Sherlock non rispose. Si limitò a guardarmi e a sorridere, mi guardò per un po’ e non smetteva di sorridere.
<< Sì d’accordo, va bene. Lo farò. >> esclamai alla fine, esasperato. << Ma smettila di fare questa faccia. >>
<< Quale faccia? >> disse lui e aveva ancora il sorriso stampato sulle labbra.
<< Quella faccia, la tua faccia. >>
<< Beh è la mia faccia… >> commentò lui, ancora sorridendo.
<< Oh vattene dalla mia stanza. >>
<< Ma dai! >> a quel puntò iniziò a ridere.
<< Vai via! >> gli diedi una spinta, ma non si mosse. << Voglio dormire. >> gli diedi una spinta più forte.
<< Ok, ok.. Ma non farmi male. >> disse lui alzandosi. Poi si diresse verso la porta e uscì, e io mi lasciai scappare un sorriso, stendendomi sul letto e chiedendomi se sarei riuscito ad addormentarmi.
Pochi secondi dopo però, Sherlock si riaffacciò sull’uscio della mia camera da letto.
<< Ah a proposito. >> disse. << Grazie della copertina. >>
Di tutta risposta gli tirai un cuscino in faccia, e lui scoppiò a ridere, così feci anche io, lasciandomi contagiare dalla sua risata.
<< Vaffanculo, Sherlock Holmes. >> dissi, mettendomi sotto le coperte e chiudendo gli occhi.
Poi sentii la porta che si chiudeva, e lo sentii scendere le scale, mentre stava ancora ridendo.

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