Succubus

di Cara Jaime
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il prescelto ***
Capitolo 2: *** Il padrone e il fanciullo ***
Capitolo 3: *** La tortura ***
Capitolo 4: *** Il risveglio ***
Capitolo 5: *** Ostacoli lungo la via ***
Capitolo 6: *** Lo sciamano scomparso ***
Capitolo 7: *** Lunos ***
Capitolo 8: *** Alla ricerca dello sciamano ***
Capitolo 9: *** Preparativi ***
Capitolo 10: *** Il Nero Colosseo degli Spettri ***
Capitolo 11: *** Radlok ***



Capitolo 1
*** Il prescelto ***


Capitolo 1
Il prescelto




Aleggiavo leggera nella notte, come una nebbia invisibile che attraversa l’etere, i lunghi capelli corvini galleggiavano intorno al mio lunare viso sottile. Ero considerata una bellezza naturale presso la mia razza, creature demoniache dell'oscurità provenienti dalla dimensione delle Ombre Danzanti. Eppure non avevo un compagno né una famiglia. No, perché io ero una schiava. Il mio padrone, Fatuus, un maschio anziano, mi aveva assoldata per servirlo vita natural durante. Era un mestiere come un altro nel nostro regno. E la mia scelta era stata tra la guerra o la schiavitù.

Diretta verso la capanna del prescelto di quella sera, pregustavo le sensazioni di cui presto avrei goduto con il giovane. La sua carne fresca, morbida, i suoi muscoli induriti dal lavoro nei campi. Il prescelto era sempre un maschio umano giovane e fertile, destinato a provvedere il seme che avrebbe fecondato il ventre delle nostre femmine che non potevano avere figli. Ancora ci era sconosciuto il motivo, eppure il seme di un umano poteva attecchire dove quello di un incubus, maschio della nostra razza, non riusciva.

Mi avvicinai all'abitazione rustica. Le ante della finestra del piano superiore si scostarono da sole per lasciarmi entrare, richiudendosi subito dopo dietro di me. Posai i miei piedi felini sul pavimento di assi senza produrre alcun rumore. Mi avvicinai ai letto dove lui dormiva beato. Gli posai una mano sul cuore e parlai alla parte più profonda della sua mente.

“Apri gli occhi.” Lui mi fissò, le sue iridi come pugnali di ghiaccio. Avvertii una fitta nel petto. Constatai che era davvero un bel ragazzo.

“Questo è un sogno e tu sei in pace,” ordinai suadente. Il giovane assentì con un cenno del capo. Le sue palpebre si richiusero lentamente. Potevo iniziare il mio lavoro.

Esposi il suo muscolo del ventre facendo scivolare in basso la vita delle brache di tela che indossava. Ricontattai la mente profonda del giovane e gli indussi un sogno.

Giacevamo sotto gli alberi di un bosco zampillante di luce solare. I miei capelli erano biondi e folti e ricadevano sulla mia pelle chiara. Lui giocherellava con il mio seno mentre sotto gli abiti intravedevo i primi sintomi dell’eccitazione del suo corpo. Candidamente la sua mente fece scivolare nella mia il suo nome, come una melodia di flauto che dolcemente s’insinua nell’anima. Connor…

Osservai la mia mano bianca dalle dita sottili, così diversa dalla mia, appoggiarsi sul suo ventre e accarezzarlo, mentre un brivido mi scivolava lungo la schiena. Era la prima volta che mi accadeva e non sapevo bene come interpretarlo.

Convogliai la mia concentrazione sulle carezze, che ora dispensavo anche con sapienti gesti della lingua, ascoltando il suo respiro che si affrettava e il suo corpo che veniva scosso da tremori. Provai l’impulso erotico di affondare le mie unghie affilate nella sua carne e lacerarla, saggiandone la rossa linfa, ma i miei ordini erano chiari; mai lasciare tracce.

Il prescelto di stanotte mi piaceva, la vibrazione della sua anima era potente e cristallina. Ritrovai le nostre labbra a contatto, mentre lui era dentro di me e ringraziai l’Oscurità per quell’incarico così piacevole. Mi accorsi di desiderare per la prima volta che quel momento non finisse mai, a desiderare davvero qualcosa per la prima volta nella mia lunghissima vita.
Stretti in quell’intimo atto fisico e avvolti da un sogno, lui cinse le mie natiche con le sue grandi mani, sorprendentemente morbide e calde per essere quelle di un lavoratore della terra.

Cavalcavo il suo membro eretto, nascosto tra le pieghe del mio corpo, provando un piacere nuovo, un godimento intenso che mi fece gemere con la mia vera voce. Mentre scivolava dentro e fuori dal mio corpo inducendomi un orgasmo incredibile, il suo seme riempì violento il mio ventre, caldo e liquido; venni scossa da un tremito. Era paura quella che stavo provando? Riflettei incerta, non avendo mai provato emozioni così… umane.

Giacqui sul corpo caldo del giovane Connor, guardandolo dormire, un’espressione di sollievo e beatitudine sul bel viso mascolino.

Improvvisamente il freddo mi avvolse e recepii la chiamata del mio padrone. Era ora di rientrare, ma la mia anima oscura anelava a rimanere dov’ero, stesa con il prescelto di quella notte.

Non ricordavo di essermi mai sentita così bene vicino ad una creatura vivente. Proprio io che rifuggivo ogni contatto. Io che provavo repulsione verso la compagnia di ogni essere vivente. Io che vivevo la mia vita una notte alla volta senza pormi domande, senza obiettare ad alcun ordine o incarico che mi veniva impartito. In quel momento realizzai di non avere alcuna voglia di staccarmi da quel tepore e da quegli occhi che riposavano al buio.
La chiamata del mio padrone giunse più acuta di prima, come se un nugolo di stiletti di ghiaccio mi fosse improvvisamente penetrato nel corpo. Mi strappai dallo squallido giaciglio e provai una fitta acuta al petto, mentre indietreggiavo verso la finestra da cui ero entrata poche ore prima, lo sguardo fisso sul giovane Connor. Con l’amaro nel cuore, mi voltai di scatto feci un balzo verso la notte.

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Capitolo 2
*** Il padrone e il fanciullo ***


Capitolo 2
Il padrone e il fanciullo



Con passi lunghi e decisi feci ingresso nel tempio del mio padrone, Fatuus, l’incubus dominante della nostra dimensione. La sala del trono si sviluppava verso l’alto, le pareti costituite da volte e nicchie che si susseguivano delimitandone la forma rotondeggiante. Torce incastrate nei sostegni a muro ne coloravano la superficie di blu, fiamme perenni che costituivano l’unica fonte di luce del nostro regno. Fatuus il Crudele sedeva sul seggio regale, le ali draconiche spiegate, la fluente chioma bianca e le corna caprine a ornargli il capo, il mento appuntito posato sul dorso della mano in posizione di profonda riflessione. I suoi occhi citrini dalla stretta pupilla verticale fissi davanti a sè, mi pareva trapassassero il mio corpo, mettendo a nudo la mia anima. Non appena giunsi davanti al trono posai un ginocchio a terra poggiando un braccio su di esso e chinai la testa.

“Sei di ritorno. Bene,” esordì con voce leggera come l’alito del vento.

“Ho portato a termine la missione, padrone. Il seme del prescelto di stanotte è dentro di me.”

“Hai impiegato più tempo del solito, Lilin.” Potevo sentire la sua mente scrutare la mia e mi rendevo conto di non avere alcuna difesa al suo cospetto. Ero stata addestrata a lasciarmi sondare sempre e comunque dal mio padrone, perciò non osai sollevare alcuno scudo mentale per fermarlo. Chiusi invece l’accesso alla mia anima, come ogni buon succubus doveva fare, onde evitare di farsi coinvolgere dalle emozioni, una grande debolezza. Il mio gesto fu inutile, perché la sua capacità telepatica scovò i miei ricordi, frugandoli per bene e scoprendo che con questo umano mi ero data particolarmente da fare. Sbirciai e vidi la sua fronte liscia corrugarsi. Non era un buon segno.

“Me ne rendo conto, padrone, e vi porgo le mie scuse,” risposi con voce calma e conciliante.

“Non sono avvezzo a ignorare gli errori dei miei sottoposti,” ribattè lui, amaro. Rimasi immobile. Non potevo ammettere di essere stata colta dalla debolezza delle emozioni nei confronti del prescelto di quella notte. Sarebbe stata un’ammissione di colpa, un grave errore. L’unica cosa che potevo fare era sperare che Fatuus lasciasse correre, anche se vi era poca speranza al riguardo.

Percepii la sua mente che mi lasciava andare e la sua voce che diceva: “Ora va, deponi il seme del prescelto nell’urna della tua stanza. Sei congedata per oggi.”

“Come desideri, mio padrone.”


Nella mia stanza, poggiai un piede sul letto e portai una mano sotto l’inguine. Con una spinta dei muscoli del ventre feci fuoriuscire dal mio corpo una sacca morbida che conteneva il seme che il giovane Connor aveva depositato dentro di me quella notte. Lo tenni delicatamente tra le mani e lo posai nell’urna che stava accanto alla porta. Sapevo che il giorno seguente sarebbe passato uno degli incubus serventi a prelevarlo, per depositarlo di notte nel ventre di una vergine prescelta. Nel profondo dell’anima provai un moto d’invidia per la giovane fortunata che avrebbe ospitato la progenie di Connor, ma mi affrettai a reprimere l’impulso emotivo prima che potesse giungere alle facoltà di percezione estremamente sviluppate del mio padrone.


Il mattino seguente, libera da incarichi fino al tramontare del sole, mi recai al villaggio dove viveva Connor, passando alla sua dimensione attraverso uno squarcio tra le ombre.
Lo vidi uscire di casa poco dopo l’alba, quando il sole proiettava ancora lunghe ombre e l’aria del mattino pizzicava la pelle con mille minuscoli aghi. Sulla soglia di casa, baciò la madre e s’incamminò al seguito del padre col suo carretto trainato da un mulo. Le ruote del carro cigolavano mentre rotolavano sul terreno battuto del sentiero. Sgusciai tra le ombre che pian piano si accorciavano e li seguii fino al campo, dove vidi Connor liberarsi della casacca e impugnare uno strumento da lavoro.

Il sudore luccicava come olio sulla pelle liscia del giovane, mentre con la pala rompeva e risistemava le zolle di terra. Quando le ombre di mezzogiorno si fecero troppo corte, e rischiavo così di farmi ridurre in polvere dalla luce del loro sole accecante, mi ritirai, per fari ritorno al villaggio in cui viveva il giovane nel tardo pomeriggio.


Connor sedeva all’ombra di una grande quercia con altri giovani coetanei del villaggio, maschi e femmine a festeggiare tutti insieme. Provai un moto d'invidia. Nel mio mondo, non mi era mai stato possibile stringere un simile legame con i miei simili. Ero stata scelta per servire. Contemplai estasiata i giovani bere birra scherzare tra di loro fino a sera, quando si ritirarono ognuno nell'abitazione della propria famiglia augurandosi allegramente una buona notte e sogni d'oro. Sogni d'oro... i succubus come me, non sognavano.

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Capitolo 3
*** La tortura ***


Capitolo 3
La tortura


Quella stessa notte, mentre sedevo sul davanzale della finestra tonda nella mia camera, fissando l’oscurità punteggiata da fuochi fatui, si presentò alla porta un guardiano. Si trattava di un incubus dalla pelle scura che indossava una corazza e impugnava una lancia. Fissò la parete di fronte a sé con sguardo truce poi dichiarò, a voce alta: “Siamo qui per condurre Lilin al cospetto del padrone Fatuus.” Avevo sempre trovato buffo quel modo di fare.

“Davvero?” sorrisi divertita.

“Davvero,” ribatté secco il guardiano continuando a fissare il muro.

“Va bene,” acconsentii, scesi dal davanzale e lasciai che mi accompagnassero nella Sala del trono.

Lungo gli stretti corridoi dai pavimenti neri, lisci e venati di rosso, i passi dei due guardiani riecheggiavano sordi, mentre il rumore dei miei piedi calzati negli stivali si udivano a malapena.
Svoltammo rapidamente a destra e fummo nella Sala.

“Lilin, avvicinati,” esordì Fatuus con un cenno di saluto del braccio.

“Volevate vedermi, padrone? Sono qui.”

“Molto bene,” fece lui. C’era un vago tono di soddisfazione nella sua voce. “La nostra conversazione di ieri sera non mi ha per nulla compiaciuto.” La minuscola scintilla di gioia che avevo provato fino a quel momento morì del tutto. Chiusi gli occhi e pregai che mi avesse convocata per darmi la possibilità di porvi rimedio, ma una parte di me mi disse che era una vana speranza.

“Da quanto ho visto nella tua mente la scorsa notte, ti sei impegnata molto con il tuo ultimo incarico. C'è un motivo particolare?" Rimasi in silenzio. Non potevo confessare, e se avessi negato il padrone avrebbe letto nel mio pensiero scoprendo la mia menzogna. In ogni caso ero spacciata. "Io ho il dubbio che tu mi nasconda qualcosa. Forse l'aver provato piacere nel mietere il frutto dai lombi dell'umano, cosa che presso questa casa è proibita. Il tuo silenzio è eloquente." Continuai a rimanere stupidamente muta, incapace di decidere cosa fare. Le assurde regole di Fatuus il Sadico non mi erano mai andate giù. Ma era la prima volta che mi ritrovavo a infrangerne una. "Bene, allora. Dato che non vuoi confidarmi il tuo pensiero, Lilin, stanotte verrai sottoposta alla Tortura della Confessione. Forse un po' di dolore ti scioglierà la lingua. E se hai violato le regole di questo palazzo, sarai punita severamente.” Sbarrai gli occhi e sulle labbra del padrone affiorò un largo sorriso.

I due guardiani mi afferrarono per un braccio ciascuno. Iniziai a divincolarmi con tutte le mie forze.

“Suvvia, non fare così. Non sarebbe necessario se tu mi dicessi quello che voglio sapere,” uggiolò Fatuus.

Se avessi confessato sarebbe stata un’ammissione di colpa. Alla fine la verità sarebbe venuta fuori comunque, ma decisi che se la sarebbero sudata. Nonostante facessi di tutto per liberarmi dalla loro presa d’acciaio, le due guardie riuscirono a trascinarmi fino alla Sala del Sangue. Dall’interno giungevano grida e lamenti di altri demoni che venivano torturati nelle sue sale. La bocca mi si seccò completamente una volta varcata la soglia. I guardiani mi posarono a terra e se ne andarono marciando.

“Bene bene,” mi venne incontro un vecchio incubus tutto rattrappito e rugoso. Provai ribrezzo solo a guardarlo.

Schioccò le dita e venni trascinata in una stanza senza finestre. Mi vennero messi dei ceppi ai polsi e alle caviglie, così che il mio corpo venisse tirato da sopra e da sotto, rimanendo sospeso.

Un essere la cui pelle pareva essere stata ustionata si avvicinò a me e iniziò a tastare il mio corpo con le sue lunghe dita nodose dalle acute unghie affilate. Sembravano di metallo. Improvvisamente sollevò un braccio e mi squarciò la carne sul petto trapassando il corpetto di cuoio. Urlai con tutto il fiato che avevo nei polmoni. Non avevo mai provato un dolore simile.

La creatura si spostò alle mie spalle e mi squarciò la schiena. Il mio corpo si tese e poi si rilassò, mentre lanciavo un altro urlo. Gli occhi colmi di lacrime mi impedivano di vedere bene. Sentii qualcosa di freddo che mi circondava il collo. Poi il dolore acuto del collare di spine che si conficcavano nella carne. Mi contorsi gridando come se mi avessero fulminata ma i ceppi trattenevano il mio corpo.

Odore di zolfo. Il calore si avvicinò al mio corpo da dietro finché le fiamme della torcia non presero a friggermi la pelle della schiena e poi del torso.

Sentii la creatura annaspare alla ricerca di qualcosa. Tra le gambe mi si insinuò qualcosa di freddo e ruvido. Quando la mia mente accecata dal dolore riuscì a formulare un’immagine coerente, provai un dolore acuto nel ventre, quando il paletto cacciò fuori i suoi aculei che dall’interno perforarono il mio corpo. Sentii qualcosa scorrere lungo le gambe e seppi che era il mio sangue. Un fiume di sangue. Tentai di respirare, ma non ci riuscii. Persi i sensi.

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Capitolo 4
*** Il risveglio ***


Capitolo 4
Il risveglio


Un intenso fruscio nelle orecchie e un ronzio alla testa mi fecero riprendere coscienza. Trovai faticoso sollevare le palpebre, come se ci fosse sopra un macigno. Mi ritrovai ancora nella cella, appesa come un animale da macello e Fatuus che mi guardava torvo. Nonostante la tortura non avevo confessato.

“Questo è inaudito!” ululava con voce squillante il capo della Sala delle Torture. “Mai! E dico, mai si è vista una cosa del genere! La Tortura della Confessione funziona sempre! SEMPRE!”

Camminava avanti e indietro alle spalle del padrone a passi piccoli e spediti. Il suo corpo deforme ondeggiava come una pila di mattoni scossa da un terremoto. Gli occhi di Fatuus mi trapassavano colmi d’ira trattenuta a stento. A braccia conserte, digrignava i denti. Potevo sentire la sua mente lavorare vorticosamente dietro di essi alla ricerca di una soluzione. In effetti, il demone deforme aveva ragione. Nella nostra storia non si era mai sentito di qualcuno che avesse resistito alla Tortura della Confessione. Alla fine confessavano tutti, sempre. Nemmeno io mi spiegavo perché non avessi confessato. Salvo i primi momenti di tortura, del resto del trattamento non avevo memoria.

“Riportatela in camera sua,” berciò Fatuus con un gesto di disprezzo della mano. Si voltò e lasciò la cella.

Due guardiani mi issarono sulle loro spalle e mi trascinarono fino in camera mia, le gambe che scivolavano sul pavimento. Fui deposta sul mio letto e mi contorsi in una smorfia di dolore. Ovunque il mio corpo poggiasse faceva un male d’inferno.

Crollai in un sonno profondo. In sogno, vidi Connor che andava nei campi a lavorare. La sua pelle luccicava al sole come la prima volta che l’avevo visto. Si fermava, appoggiava le mani al bastone della vanga e mi sorrideva.

Quando mi risvegliai, i miei occhi fissavano il verde scuro del cielo notturno. A pochi metri da terra fluttuavano miriadi di fuochi fatui argentati. Avevo perso la cognizione del tempo. Cercai la nostra luna rossa nel cielo. Non la trovai. Avevo la sensazione di stare sospesa a pochi centimetri sopra il mio corpo, ora del tutto insensibile a qualsiasi sensazione fisica.

Ebbi la subitanea folle idea di fuggire. Lasciare quel posto desolato e freddo che era la mia dimensione per allontanarmi da quello stile di vita che ormai non sentivo più appartenermi. Se fossi fuggita, però, Fatuus mi avrebbe sguinzagliato dietro i cercatori e quelli non si sarebbero fermati fino a che non mi avrebbero trovata o fossero morti. Non volevo vivere come una fuggiasca, come una preda, a guardarmi le spalle ogni attimo della mia esistenza. Se fossi tornata a casa, mio padre mi avrebbe messa ai lavori forzati o, ancora peggio, mi avrebbe riconsegnata a Fatuus perché ricevessi la punizione decretata per chi fugge. Chi diserta dal servizio agli ordini del padrone, nel mio mondo, viene consegnato alla Sala delle Torture, dove passerà il resto dei suoi giorni ad essere torturato un poco alla volta, subendo una morte lentissima e dolorosa finché non fosse giunta la sua ora. Non potevo nemmeno scappare da Connor. La mia forma fisica attuale non mi permetteva di vivere in altre dimensioni. Qualsiasi clima diverso da quello che regna da noi mi avrebbe indebolita fino a uccidermi. Tuttavia, esisteva una scappatoia. Una soluzione che avrebbe potuto permettermi di sottrarmi a questo girone dei dannati e, contemporaneamente, di vivere in un’altra dimensione, da me scelta. Diventare umana. Un'altra delle stupide leggi della casa del mio padrone.

Esistevano delle streghe, le quali con un elaborato incantesimo, che impiegava una grande quantità di energia psichica ed elementi naturali, potevano sradicare l’anima di un succubus e incarnarla in un corpo umano. Non sapevo bene quali sarebbero state le conseguenze negative dell’incantesimo, ma ero disposta a rischiare. Quel pensiero ridiede forza alla mia anima inaridita e percepii il mio cuore accelerare il suo battito. Mi sollevai a sedere, gli abiti ridotti a brandelli che aderivano al corpo nelle ferite coagulate. Dopo essermi lavata, mi presentai al cospetto di Fatuus.

“Padrone, ho una richiesta.”
“Parla,” ringhiò lui, fissandomi con odio evidente.
“Voglio diventare umana.” Nei suoi occhi un guizzo.

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Capitolo 5
*** Ostacoli lungo la via ***


Capitolo 5
Ostacoli lungo la via


Fatuus continuava a fissarmi e nei suoi occhi si era scatenata una tempesta elettrica. Sentivo la sua furia e ne godetti. Tenendo la testa bassa, rimanendo inginocchiata, attesi la sua risposta.

“Rifiuto la tua richiesta.” Sollevai di scatto la testa e lo fissai sbattendo rapidamente le palpebre.

“Ma,” balbettai. Non mi ero aspettata una risposta del genere. Nessun padrone aveva mai violato la nostra legge in quel modo spudorato. Il fatto che Fatuus si ritenesse al di sopra mi lasciò esterrefatta.

“Guardiani! Accompagnate questa succubus alla prigione.” Le guardie scattarono sull’attenti e si portarono al mio fianco, una per lato. Chiusi gli occhi e riabbassai il capo, rassegnata. Era finita.

“Padrone, siamo autorizzati a rifiutare di obbedire all’ordine. Il nostro dovere è far rispettare la legge. Questo include accompagnarvi in prigione se non accoglierete la richiesta della sua serva. La legge vi obbliga ad accoglierla. A voi la scelta.” Li fissai sbalordita. Quindi, era così che funzionava. I guardiani avevano la prerogativa di imprigionare il loro padrone se contravveniva alla legge. Questo tornava a mio vantaggio.

“E va bene, accolgo la tua richiesta, serva. Anche se preferirei rimandarti alla Sala delle Torture,” digrignò Fatuus. Ora il suo sguardo era di fiamme. Chinai il capo.

“Ti ringrazio di cuore, padrone,” dissi, anche se era un mio diritto. Non volevo fornirgli altre occasioni per impedirmi di andarmene. Ora che potevo lasciare la casa del mio padrone e partire per decidere della mia vita, provavo una sensazione di sollievo mai avvertita prima in vita mia. La libertà aveva il sentore della leggerezza di una piuma.

Non c’erano molti bagagli da preparare dato che ai succubus servi non era consentito possedere oggetti personali. In camera mia, estrassi dal cassetto il mio portafortuna segreto, una pietra bianca e traslucida che avevo raccolto in riva al fiume che scorreva a pochi chilometri dal villaggio in cui viveva Connor. L’avevo assicurata con una stringa di corda. Me la misi al collo. Sentii un leggero formicolio espandersi in cerchio dal punto in cui la pietra toccava la mia pelle.

Quando misi piede fuori dal palazzo per l’ultima volta mi sentii felice. Mi colse un dubbio. L’usanza avrebbe voluto che passassi a salutare la mia famiglia prima di partire. Tuttavia l’idea mi infastidiva. Non perché potessero evitarmi di tener fede alla decisione che avevo preso. Piuttosto temevo il loro giudizio. Decisi di fare una breve fermata a casa loro.
Bussai alla porta di casa e mio padre spalancò bruscamente la porta. Si accigliò, realizzando di avere davanti sua figlia maggiore.

“Che cosa ci fai qui?” esclamò secco.

“Buongiorno, padre,” ribattei conciliante.

“Ti sei fatta espellere?”

Sedevamo attorno al tavolo della sala da giorno e mia madre versava del liquido caldo in una tazza.

“Non si viene espulsi dal palazzo. Piuttosto si viene imprigionati o uccisi.” Il vecchio incubus borbottò qualcosa in risposta. Era sempre stato un vecchio brontolone e io non lo reggevo.

“Allora cosa ci fai qui?”

Mi schiarii la gola. “Ho deciso di diventare umana.” Mio padre fissò il suo sguardo intenso su di me e mi trapassò con gli occhi.

“Sì, anche Fatuus mi ha guardata in quel modo,” aggiunsi sorseggiando l’infuso fumante.

“Fatuus? Da quando in qua chiami il tuo padrone per nome?”

“Da quando sono stata liberata.” Mio padre sbatté le palpebre. Nel suo particolare modo di fare significava che non credeva alle sue orecchie.

“Sì, padre. Sono stata liberata. La legge è dalla mia parte. Ho il diritto di intraprendere questo viaggio.” Il vecchio incubus incrociò le braccia sul torace mettendo così fine a quella discussione.

Mentre mi congedavo dalla mia famiglia all’ingresso di casa, mia madre mi porse una borsa di tessuto.

“Ho messo qui dentro cose che ti serviranno di sicuro. Cibo, erbe e acqua. Prendi anche questo,” disse porgendomi un sacchetto tintinnante.

“No, madre,” obiettai.

“Prendili,” ribatté lei.

“Va bene.”

“E abbi cura di te.”

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Capitolo 6
*** Lo sciamano scomparso ***


Capitolo 6
Lo sciamano scomparso


La mia prossima tappa era la capanna dello stregone. Lui avrebbe saputo darmi un indizio su dove iniziare la mia ricerca della strega che avrebbe eseguito l’incantesimo di trasformazione. Mettendo piede all’interno lo trovai al tavolo da lavoro, intento a lavorare febbrilmente a qualcosa. Indossava un ampio mantello sfrangiato di tessuto grezzo e la chioma arruffata si stagliava nella luce diffusa della tenda assumendo un colorito rossastro. Mi avvicinai quieta e sbirciai da dietro la sua ampia schiena per vedere cosa stesse facendo.
Il vecchio Narkus sussultò e si volse verso di me.

“Accidenti, che spavento, bambina!” esclamò portandosi una mano al petto coperto dalla lunga barba scura.

“Perdonami Narkus. Non volevo spaventarti. Ero curiosa di vedere che combinavi,” risposi candida, sorridendo.

“Bé, bambina, se sei qui solo per questo, ricordati,” fece lui con l’indice alzato, “guardare ma non toccare,” finimmo in coro.

“Brava, bambina, brava,” mormorò lui tornando a tagliuzzare delle erbe sparpagliate su una tavola di legno mediante un curioso attrezzo munito di lama dall'impugnatura di legno.

“Veramente non sono qui solo per questo. Mia madre ha bisogno di alcune erbe per mia sorella, è malata,” dissi curiosando con lo sguardo lungo il tavolo. La superficie rugosa era disseminata di piccole bottiglie trasparenti. Alcune erano vuote che giacevano supine, altre contenevano erbe essiccate a pezzetti.

“Va bene, va bene, bambina. Quali erbe ti servono?” fece lui di rimando, strofinando i palmi delle mani sul grembiule stropicciato e strisciato di terra. Feci una smorfia, per quel poco sporco che vidi, ma non mi pareva igienico.

“Non so. Qual è il rimedio migliore per la pestilenza sanguigna?”

“Oh, brutto affare la pestilenza sanguigna, brutto affare, bambina!” esclamò il vecchio sciamano. “Ma non ti preoccupare, ho già qui il tuo rimedio bello e pronto. E la tua sorellina starà bene in un baleno!” Narkus mi porse un flacone trasparente contenente un denso liquido rosso. Lo presi tra le mie piccole dita e lo rigirai osservando il fluido con un'espressione di disgusto.

“Vai e salutami la mamma e il papà,” concluse lo sciamano battendomi una mano sulla testa. Quindi si voltò e tornò al lavoro, la lama di metallo batteva sul legno producendo un sonoro tac tac.


Ho sempre considerato lo sciamano Narkus alla stregua di un famigliare. Gli ero affezionata. Così due sere dopo, entrando nella sua capanna, nel trovare quel pugnale conficcato nel suo caotico tavolo da lavoro in legno, provai una fitta al cuore. L’istinto mi mise in allarme, temendo che gli fosse successo qualcosa.

Estrassi il coltello dal legno e lessi la pergamena che vi era stata arrotolata attorno. Strani simboli erano vergati con inchiostro color sangue di drago. Riconobbi il codice delle spie di Fatuus.

Non avrei dovuto esserne a conoscenza, ma avevo avuto una storia con uno di loro, un incubus di nome Lunos, e questi mi aveva fatto vedere diverse lettere scritte in quel codice. Tuttavia non ero in grado di decifrarlo. Mi serviva un aiuto e sapevo già a chi rivolgermi.


Preferivo evitare di entrare a palazzo, con l’ira di Fatuus in pieno ardore. Decisi di usare lo stesso sistema che usavamo Lunos e io per comunicare quando ci vedevamo di nascosto.

Raccolsi una piccola sfera lucente poggiata lieve sullo stelo di un fiore. Era una farfalla celeste, un essere fatato che popola i prati del nostro mondo.

La piccola creatura sbadigliò e si stiracchiò. Le sussurrai all’orecchio il messaggio destinato a Lunos, chiedendogli di incontrarmi alla stalla abbandonata. Sicuramente lui avrebbe capito. Era il luogo che usavamo per i nostri rendevous segreti.

Sollevai la mano verso l’alto e la farfalla si librò in volo leggera e silente, mentre rimanevo immobile a osservarla aleggiare nel cielo stellato.


La mia piccola messaggera tornò in pochissimo tempo. Oltre alla rapidità della farfalla, il motivo stava probabilmente nel fatto che Lunos doveva essere a palazzo; così aveva ricevuto subito il messaggio.

L’esserino luminoso si posò sulla mia spalla e mi sussurrò all’orecchio con la voce di Lunos.

“Mia diletta, sono deliziato dall’aver ricevuto un tuo messaggio. Abbiamo avuto così poco tempo per incontrarci negli ultimi tempi. Ti incontrerò volentieri nel nostro solito posto. Tuo affezionato, Lunos.”

Udire la voce bassa e vellutata dell’incubus provenire da una creatura così piccola e soave mi inquietò. Comunque ringraziai la creatura e le donai un granello di ardra, una sostanza dolce che si ricava da una pianta di palude, di cui queste creature vanno ghiotte. Immediatamente presi la strada che portava alla vecchia stalla abbandonata.

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Capitolo 7
*** Lunos ***


Capitolo 7
Lunos


Attesi la spia che dovevo incontrare per circa dieci minuti, lasso di tempo durante il quale la campagna rimase in completo silenzio. E di Lunos non v’era nemmeno l’ombra.

L’atmosfera che mi circondava pareva innaturale, come se ogni cosa si fosse improvvisamente fermata. Non mi piaceva, così iniziai a innervosirmi. Mentre camminavo su e giù per la stalla dal pavimento disseminato di erba marcia, udii un fruscio inaspettato, che risuonò forte e chiaro nella quiete. M’immobilizzai, l’orecchio teso. Ampliai il raggio dei miei sensi oltre la normale sfera di percezione dei cinque metri e abbracciai l’ambiente intorno a me con la mia energia.

Percepii delle presenze all’esterno della stalla. Mi sfiorò un pensiero. Fatuus aveva mandato qualcuno a tendermi un’imboscata. Non era molto lontano dal suo stile. Bastardo, infido e incurante delle leggi che lui stesso aveva promulgato senza troppa logica. Ingenuamente, avevo confidato che avesse lasciato perdere la sua meschina vendetta. Pregai l'Oscurità di stare sbagliando. Prima che avessero la possibilità di bloccarmi ogni via d’uscita, corsi rapida verso la porta d’entrata. Mi sentii afferrare e le mie gambe si sollevarono in aria per il contraccolpo mentre qualcuno mi stringeva contro il proprio petto, avvolgendomi la vita stretta con un braccio, in una morsa d'acciaio.

“Eccoti qua, mia bella principessa!” esclamò una voce che mi giunse familiare. Lui e la sua solita delicatezza... Il giovane incubus mi lasciò andare ancora ansimante per lo spavento.
“Lunos!” esclamai voltandomi di scatto una volta che mi ebbe liberata. I miei lunghi capelli lisci sferzarono l'aria e si posarono sulla spalla.

“In carne e ossa, bambina,” ribatté lui spavaldo, osservandomi con quello sguardo che conoscevo molto bene, un'occhiata di desiderio. Quel suo atteggiamento sfrontato mi aveva sempre irritato e insieme attratto. Ora come ora, però, mi chiedevo come avevo potuto andare a letto con lui, cosa mi eccitasse tanto del suo essere.

“Mi hai fatto prendere un colpo!” protestai aggrottando la fronte con un'espressione irritata che faceva svettare verso l'alto le mie sopracciglia sottili ad ala di gabbiano.

“Mi dispiace, tesoro,” replicò lui caldamente mettendosi una mano sul cuore. “Permettimi di riparare al torto,” e così dicendo mise un braccio intorno alla mia vita, mi strinse a se e mi baciò in bocca. La sua lingua si insinuò giocando con i miei canini e accarezzando languidamente la mia. Il cuore accelerò brutalmente nel mio petto e venni colta da una vertigine inattesa, lo stesso capogiro che mi prendeva quando amoreggiavamo molto tempo prima. A quanto pare le mie sensazioni al tocco delle sue labbra non si erano dileguate del tutto.

“Ora dimmi, mia amata. Qual è la faccenda importante per la quale ti serve il mio aiuto?” domandò portandosi le mani dietro alla schiena. Io incrociai le braccia sul petto e lo guardai piegando la testa di lato.

“Prima di cominciare, dimmi: com’è il tuo rapporto con Fatuus?”

“Sono il suo servo, ma questo lo sai.”

“Sei una delle sue spie,” precisai.

“Esatto.”

“Quindi lui avrebbe potuto mandarti qui per spiarmi.”

“Stai dicendo che non ti fidi di me?”

“Diciamo così.”

“Va bene. Facciamo quello che dobbiamo fare e poi me ne torno a palazzo,” replicò Lunos, senza più alcuna traccia di impudenza. Percepii del fastidio nel tono della sua voce. Lo osservai meditabonda per un momento, quindi estrassi la pergamena codificata dalla sacca e gliela porsi. Lui la prese con le sue mani dalla pelle liscia e la esaminò.

“Lo sciamano è nelle nostre mani. Se volete rivederlo, presentatevi presso la Grotta del Selvaggio. Se lo vorrete riportare a casa sano e salvo dovrete pagare duemila keokhaise.”

Lo keokhaise è la nostra moneta corrente. La domanda che mi sorgeva spontanea era: come faceva un gruppo di semplici mercenari a sapere come si codificava un messaggio? Come li collegava questo al mio fu padrone? Questo mi sembrava un errore piuttosto grossolano da parte di un incubus astuto come lui. Se avesse progettato una trappola per me, non avrebbe usato il codice delle spie per scrivere la richiesta di riscatto. Avrebbe lasciato fare ai mercenari.

“Lunos, hai tu qualcosa a che fare con questo?” domandai leggendo il testo sbirciandolo dal suo lato sinistro. L'altezza del mio simile mi superava di ben una testa e mezzo.
“Cosa te lo fa pensare?” annotò lui voltando la testa e guardandomi dritta negli occhi. Non vi era traccia di menzogna nel suo sguardo, oppure non ne mostrava alcuna. Non sapevo ancora quanto fosse bravo a fare buon viso a cattivo gioco, cosa che le spie erano spesso chiamate a fare se catturate in missione presso le altre razze nelle svariate dimensioni nelle quali venivano mandati a cercare seme per le nostre femmine.

“Oh, nulla. Soltanto il fatto che la pergamena del riscatto è scritta nel codice delle spie, noto soltanto a Fatuus e alle sue spie come te." Lunos alzò le mani in segno di resa.

“Va bene, mi hai scoperto. Sono stato io a scrivere il messaggio.” Lo fissai incredula. Mi stava prendendo in giro? E perchè cavolo l'aveva fatto?!

“Lo sciaman.? Sta bene?” Mi premeva di più l'incolumità del mio amico. Il mistero sarebbe stato risolto in seguito.

“Sta benissimo,” fece lui con un gesto incurante della mano. “Probabilmente starà cantando canzoni intorno al fuoco con un gruppo di mercenari.”

“Probabilmente? Con i mercenari?!” mi alterai, il corpo in posizione di attacco, pronto a saltargli addosso e scatenare una bella zuffa. Mi prudevano le mani, morivo dalla voglia di prenderlo a sberle.

“L’ho fatto solo perché così ero sicuro che mi avresti contattato," aggiunse lui tranquillamente. "Mi sembrava che ultimamente avessi preso le distanze da me e non ne so il motivo. In seguito ho saputo della tua pazza idea di diventare umana e mi sono preoccupato. Volevo parlare con te.”

Lo guardai nuovamente strabuzzando gli occhi. Mi giungevao una nuova dopo l'altra. Da quando questo incubus teneva a me? Sospettosa, ridussi gli occhi a due fessure, scrutandolo con attenzione e fare indagatorio.

“Tu non approvi la mia scelta?” domandai.

“Io non posso impedirti di essere felice,” ribattè lui.

“In questo caso devo parlare con lo sciamano. Subito.”

“Vieni con me. Ti accompagno.” Lunos si mise di profilo indicandomi il cammino con un braccio teso.

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Capitolo 8
*** Alla ricerca dello sciamano ***


Capitolo 8
Alla ricerca dello sciamano


Lunos e io lasciammo alle spalle la vecchia stalla e ci dirigemmo verso nord-ovest, in direzione del Bosco di Faymere.

Il luogo era una selva di alberi dai tronchi sottili svettanti verso il cielo per diverse altezze e dalle chiome a cascata; esse ricoprivano il cielo con un intricata rete di rami e foglie sottili, una specie di tetto naturale sopra le nostre teste. Il terreno ricoperto di foglie secche scricchiolava sotto i nostri passi.

Dopo parecchie distanze, già i miei piedi dolevano e ardevano nei calzari stretti e robusti di pelle, quando giungemmo alla Grotta del Selvaggio, dove trovammo i resti dell’accampamento dei mercenari nel quale doveva trovarsi lo sciamano. Il fuoco, che tempo prima era stato acceso all’interno di un circolo di grossi sassi, ora si presentava spento, solo un cumulo di carbone. La terra smossa tutt'attorno ad esso in un raggio di almeno trenta passi rivelava che qualcuno aveva calpestato quel terreno. Però non v’era più nessuno.

“Lunos?” feci, mentre trattenevo a stento la rabbia che percepivo montare nel petto illuminandomi le iridi di rosso.

“Ehm,” Lunos si schiarì la gola, evidentemente in preda a sopresa mista a incertezza.

“Dove sono?!” sbottai con foga. "Avevi detto che erano qui!" berciai indicando il terreno con un dito. L’incubus allargò le braccia e le lasciò ricadere.

“Non lo so.”

“Lunos non ho la voglia né la pazienza per questi giochetti!” esclamai, sollevando quel dito e puntandolo nella sua direzione.

“Ehi ehi, calma principessa! Questo non l’avevo previsto,” ribatté lui mettendo le mani avanti.

“Questo non l’avevi previsto?” gli feci eco fissandolo con ira. Il fatto che lui rimanesse quasi indifferente alla situazione era ciò che maggiormente mi innervosivca. “Ora come facciamo a trovarli?!” Aprii le braccia in un gesto di impotenza. Non avevo idea di dove andare a cercarli. Non conoscevo le loro abitudini.

“Bé,” rispose lui e parve riflettere, sollevando lo sguardo verso un punto indefinito soprala mia testa. “Questi mercenari ghast zombi non sono molto svegli, non so se mi spiego,” fece battendosi un dito sulla tempia, guardandomi negli occhi.

“Ah sì, e quindi?!” berciai, impaziente. "Vieni al punto!"

“Capisco che in questo momento tu sia arrabbiata, ma rifletti un momento. Dove porteresti un finto ostaggio se fossi uno ghast zombi avido di monete?” spiegò Lunos, conciliante.

La mia rabbia smontò e finalmente riflettei. Il finto ostaggio era sicuramente diventato un vero ostaggio, pensai, folgorata da una rivelazione. Il capo dei mercenari aveva colto l’occasione per farci del denaro, così aveva spostato il campo. Ma dove? Mi guardai intorno, pensierosa. E come poteva aspettarsi che pagassimo il riscatto se non ci aveva nemmeno comunicato un punto d’incontro il cui effettuare lo scambio? Lunos aveva ragione. Gli ghast zombie erano proprio stupidi.

Il mio occhio cadde su un pezzo di pelle di animale appeso ad un pugnale che era stato conficcato nella parete di roccia dell’ingresso della caverna. Mi avvicinai, seguita dal mio simile, e strappai il messaggio dal muro. La calligrafia era sgraziata e indecisa come quella di un bimbo che sta ancora imparando a scrivere.

“Abiamo decisso che ci dovette pagarre, se vogliete indietro il vecchio. Siamo andati per la sua tenda in città. Portate soldi e noi non gli faremo gnente.”

Sospirai arrotolando la pelle e gettandola sui carboni del fuoco da campo.

“Visto?” si beò l’altro, le labbra sottili stese in un sorriso facciato.

“Sì, sì,” mormorai ed emisi uno sbuffo seccato. “Andiamo," dissi incamminandomi in direzione di casa.

Arrivati alla tenda dello sciamano, trovammo cinque dei mercenari appostati fuori dalla tenda; impugnavano coltelli ricavati alla bell’e meglio da ossa di animali e pezzi di pietra, l'elsa costituita da semplici strisce di pelle arrotolate sulla meno tagliente delle estermità. Sulla pallida faccia marcescente, le creature avevano un ghigno più o meno privo di denti che faceva sembrare le loro bocche delle scarpe rotte. Anche il loro odore non prometteva niente di buono.

Attraversammo la cortina di tessuto e, prima che il loro capo potesse dire qualcosa, presi un sacchetto dalla mia bisaccia e glielo piantai in mano.

“Hai i tuoi soldi, adesso porta via il tuo cimitero ambulante prima che chiami le guardie di Fatuus,” gli intimai decisa.

A quel nome la sua espressione divertita sfumò lasciando posto a un quieto terrore. In realtà non l'avrei fatto, ma la minaccia sorbì l'effeto desiderato. Lo ghast zombi zampettò fuori dalla tenda senza un'ulteriore parola e le ombre dei suoi compagni scomparirono dal tessuto della casa dello sciamano.

“Sai, credo che per questa volta non ti ucciderò,” dissi rivolta a Lunos, minacciandolo con lo sguardo. Mi voltai verso lo sciamano, comodamente seduto sullo sgabello davanti al suo tavolo da lavoro. “Stai bene?" domandai chinandomi in avanti e posandogli affettuosamente le mani sulle sue ampie spalle.

“Ma sì certo, bambina," fece lui di rimando con una carezza al mio braccio sottile. "Saranno anche fetidi e avidi, ma non sono assassini. Non mi hanno torto un capello. Hanno passato il tempo a litigare. Tu, piuttosto, bambina. Ho sentito che hai una nuova missione nella vita,” rispose lui, bonario come sempre con un sorriso e una luce negli occhi.

“Bé, sì.” Chinai la testa. Non sapevo cosa dire; non mi andava di raccontargli come ero venuta a prendere quella decisione, anche se era facilmente intuibile. E, sì, temevo il suo giudizio. Lui era una delle poche persone della cui opinione mi curavo.

“Allora ti servirà sapere dove si trova la strega più vicina che ti possa aiutare in quel senso,” proseguì lo sciamano, senza cessare di sorridere. Sollevai lo sguardo, rincuorata, e ricambiai il sorriso. Finalmente una buona notizia.

Il vecchio incubus svolse una mappa vergata su pergamena; la posò sul tavolo da lavoro sgombro, lisciandola con i palmi e fermandone gli angoli con quattro dei suoi vasetti colmi di pozioni dall'aspetto poco piacevole.

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Capitolo 9
*** Preparativi ***


Capitolo 9
Preparativi


“Ci sono tre strade che puoi prendere per arrivare dalla strega,” disse lo sciamano tracciandone la rotta simbolica lungo le linee ondulate che simboleggiavano il sentiero. “La via più diretta è verso nord. Passa attraverso la Brughiera del Sangue, discende nel profondo delle Catacombe della Blasfemia per risalire nei pressi della Cittadella Decrepita.”

“Che bei posti,” commentò Lunos in tono ironico, in piedi alle nostre spalle, le braccia conserte.

“Zitto tu! Mica ci devi passare!” ribattei girandomi e guardandolo in tralice. Aveva un'espressione corrucciata e meditabonda che mi faceva pensare stesse tramando qualcosa.

“Come no? Io vengo con te,” rispose lui con fare spensierato, sollevando lo sguardo dalla carta e posandolo nei miei occhi con un sorriso sfacciato. Io lo fissai interdetta.

“Lasciamo perdere," mormorai voltandomi di nuovo verso il tavolo. Non avevo intenzione di dargli corda. Lui che mi accompagnava nel viaggio. Che idea stupida. "Prosegui, Narkus. Ti chiedo scusa,” incitai lo sciamano.

“Le altre due strade per arrivare a destinazione girano intorno alla Brughiera. Il sentiero verso nord-ovest passa accanto alla Fortezza dei Cannibali, prosegue attraversando il Bosco del Dio Serpente e accosta il Monolito Infuocato della Falsità,” continuò lo stregone.

“Detesto i serpenti,” gemetti con una smorfia, dando per scontato che avesse compreso che non avrei mai presto quella strada. I miei piedi non si sarebbero mai avvicinati a un rettile in vita mia. “L’altra via, invece?”

“L’altro sentiero vira verso nord-est e si snoda tra il Nero Colosseo degli Spettri, la Fortezza del Pericolo Insano e il Santuario dei Demoni.”

“Bé, io direi che la via più diretta sarebbe la più corta,” commentò il mio compagno incubus. Lo ignorai.

“Tra tutti i mali, se proprio devo sceglierne qualcuno da affrontare, preferisco gli spettri, il pericolo e i demoni,” conclusi scuotendo la testa e aprendo le braccia in un gesto di rassegnazione. Non sarebbe stata esattamenta una passeggiata nel bosco, ma non avevo altra scelta. Il nostro mondo è sempre stato irto di pericoli. Era impossibile evitarli del tutto e rinunciare al viaggio era fuori discussione.

“C’è un’ultima cosa che vi sarà utile sapere riguardo alla strega.
 Narkus si intromise nei miei pensieri spezzandone il corso. Alzai il capo in ascolto. Innanzitutto, il suo nome è Fabaelin, discendente della grande sacerdotessa Faen e del gran sacerdote Ling; essi erano e rimangono i rettori del Tempio di Vabethal, dio della magia oscura, prima della sua infausta caduta. Le magie oscura e della metamorfosi scorrono nelle sue vene potenti come in quelle dei suoi antenati. In questi casi, è tradizione nonché vitale portare un dono in segno di rispetto e di riconoscenza,” c’informò Narkus.

“Cosa potrebbe desiderare una strega come dono?” domandai, completamente ignorante in materia.

“Purtroppo questo nessuno ve lo può dire,” sospirò lo stregone, allargando le braccia.
Nessuno lo sa.

“Lanceresti le rune per me, zio Narkus?” Non ricordavo esattamente quando avevo iniziato a chiamarlo così, tuttavia la cosa mi dava una sensazione di familiarità e calore. Tra l'altro era ormai entrato nel mio linguaggio quotidiano e mi suonava naturale considerarlo uno di famiglia.

“Ma certo, bambina, ma certo,” fece lui bonario. Afferrò un sacchetto di pelle stretto da un legaccio e si sedette al tavolino rotondo al centro della tenda. Chiuse gli occhi, infilò una mano nel sacchetto e mormorò qualcosa nella lingua degli stregoni, che ovviamente non capii. Soltanto agli sciamani viene insegnata, ed essi sono gelosi custodi dei propri segreti. Il vecchio estrasse dei sassolini grigi che gettò sul tavolo. Questi rotolarono sul piano del mobile. Simboli strani dalle forme geometriche erano incisi nelle pietre.

“Il dono che state cercando lo troverete sulla vostra strada,” tuonò Narkus. La sua voce riecheggiò tutt’intorno a noi come se le pareti fossero costituite di pietra.

“Come lo riconosceremo?” domandai fissando dritto negli occhi dello stregone, il quale aveva lo sguardo perso davanti a sé. Chissà quali segrete visioni contemplava...

Narkus voltò la testa verso di me. Due occhi verdi lucenti dalle pupille frastagliate mi fissarono. “Quando lo troverete lo saprete.”


Tutto questo parlare e aver a che fare con la magia mi aveva stordita. Al termine del consulto, lasciai la tenda dello sciamano e uscii nella notte. Alzai gli occhi verso le stelle, piccoli diamanti azzurri incastonati nella volta celeste. Mi riempii i polmoni dell’aria frizzante della sera.

“Ci serviranno delle cavalcature. La strada è lunga,” disse Lunos, materializzatosi accanto a me. “Mio zio ha un allevamento di cavalcature da viaggio e da corsa. Potrebbe prestarcene un paio.


Mi guardò, e io guardai lui. Faceva seriamente. E non avrebbe cambiato idea per nessun motivo al mondo. Lo conoscevo abbastanza bene da questo punto di vista.

“Ci?” Tentai un altro approccio per rifiutare di coinvolgerlo nella faccenda. Non mi andava che mi seguisse in un'avventura così personale. E poi ero perfettamente in grado di cavarmela da sola. Credevo.

L’incubus continuò a guardarmi sereno. Pareva ancora determinato ad accompagnarmi. Non cedeva di una falange.

Fatuus, di cui era ancora servo, era d'accordo? Gli aveva dato licenza oppure non ne sapeva nulla? Perché per Lunos era così importante venire con me? Dubitavo che lo facesse per lealtà nei miei confronti o per amore. Al mio ex amante piaceva conquistare la donna che lo attirava in quel momento. Tuttavia era un buon combattente, quanto me, e una mano in caso di problemi mi avrebbe fatto comodo durante il viaggio. 


Viaggiare da soli non ti sembra un po' noioso e deprimente? E che succederebbe se incappassi in mercenari e avessi bisogno di aiuto? L'incubus diede praticamente voce ai miei pensieri. Un turbinio di domande senza risposta vorticava nella mia mente rendendola quasi elettrica, mentre i miei occhi turchese brillavano più intensi specchiandosi nei suoi, due opali azzurri senza pecca.

“Intanto vediamo cosa ci può fornire tuo zio.
Dovetti cedere. Non avevo più argomentazioni per contrastarlo. Scegli la via del temporeggiamento.


Fuori dalla capanna dell’incubus zio di Lunos, trovammo due cavalcature già sellate e pronte per partire. Fissai il mio accompagnatore, aggrottando la fronte, infastidita.


Cosa? domandò lui avvicinandosi alla bestia tigri-forme e accarezzandone il pelo lanoso, continuando a guardarmi con aria innocente. Te lo dicevo che ti avrei accompagnato.

La decisione non era tua. Spettava a me! sbottai avvicinandomi. “Hai tramato alle mie spalle! Lo sapevo!” gesticolai gridando, sfogando la mia rabbia. La cavalcatura scartò di lato investita dalla mia foga. Mi fermai guardandola e cercai di contenermi. Quegli animali erano pareccio sensibili agli stati emotivi delle creature senzienti come noi. Spostai lo sguardo dalla testa enorme della bestia e fulminai Lunos. Ma non avevo altro da dire.

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Capitolo 10
*** Il Nero Colosseo degli Spettri ***


Capitolo 10
Il Nero Colosseo degli Spettri


Emisi un lungo e profondo sospiro lo sguardo fisso negli occhi del mio simile. Ammisi a me stessa che nell'intimo albergava un alito di timore per il viaggio che stavo per intraprendere. Dopotutto sarei andata incontro all’ignoto per realizzare un mio sogno. Lunos era così pacato e sereno che la sua presenza mi infondeva sicurezza. Mi tranquillizzava. Scossi il capo lentamente, chiudendo gli occhi per un breve momento.

“E va bene. Andiamo, Lunos,” sentenziai, regolando i legacci dell pesante zaino caricato sulle mie spalle. Lui sorrise. Con un solo agile balzo fu in sella al corsiero. La creatura rispose con un contraccolpo di groppa ondeggiando la schiena sinuosa. I suoi zoccoli artigliati incisero il terreno, quasi impazienti di calpestarlo. Salii anch’io in groppa alla mia cavalcatura dal nero manto striato di rosso, che emise uno sbuffo dalle grandi narici. Incitai la bestia al galoppo seguita da Lunos e ci lanciammo verso nord-est.


La luce dei nostri due soli, Astars e Teaturn, riverberava accecante sul sentiero di terra battuta incorniciato dalla Brughiera, mentre bruciava cocente sulle nostre pelli chiare. Le nostre cavalcature grondavano di sudore. Anch’io cominciavo a risentire dell’eccessivo calore.

“Lunos, sto morendo di caldo," boccheggiai. "Fermiamoci da qualche parte. Riprenderemo il cammino quando i soli inizieranno a tramontare,” conclusi con voce stanca.

“Come vuoi, mia adorata,” rispose. L’appellativo che usò mi infastidì un poco, tuttavia lasciai perdere.


Davanti a noi si stagliò un’enorme costruzione in rovina. Protessi gli occhi con una mano mentre cercavo di capire di cosa si trattava.

Le pareti in pietra un tempo avrebbero formato numerose arcate a punta lungo l'intero perimetro circolare dell'edificio. Ora, in alcuni punti, si scorgevano soltanto le fondamenta di quello che un tempo era stata un'arena per i combattimenti molto frequentata da demoni, mercanti, e altra feccia. Da secoli ormai, il luogo era rinomato per essere infestato da spettri. Tuttavia nessuno era mai sopravvissuto per raccontarlo direttamente. Non avevo alcuna intenzione di verificare la leggenda.

“Questo è il Nero Colosseo degli Spettri,” m’informò Lunos, come se mi avesse letto nel pensiero.

“Il nome non promette bene,” mormorai tra me e me.

“Però, se vogliamo trovare un riparo fresco che non sia la boscaglia, ci dovremo fermare qui,” replicò Lunos. “Se ti può far sentire meglio, ci accamperemo il più possibile vicino all’entrata. Nel caso di sia qualche spettro a darci noia, ce potremo andare senza problemi,” propose rassicurante.

“E va bene,” acconsentii. Non avevo più energie nemmeno per ribattere. Mi servivano riposo e acqua.

Ci accampammo sotto una delle volte più esterne dove l’ombra offriva un riparo fresco sia a noi sia alle cavalcature. Sedetti con la schiena appoggiata al muro e non ci volle molto prima che il sonno mi prendesse.


Mi risvegliai con il cuore a mille, consapevole che qualcosa non andava. I soli avevano lasciato il cielo da un pezzo e sopra il Colosseo si era stesa la notte. Le cavalcature e Lunos erano scomparsi. Anzi, la sensazione che provavo è che non fossero mai stati lì con me. Mi guardai in giro in cerca di punti di riferimento, sforzando la mente a cercare una linea d’azione da intraprendere, ma mi ritrovai paralizzata dalla paura. Era reale ciò che vedevo? Stavo sognando? Un’ombra guizzò sulle pareti. Ne cercai la fonte, ma non riuscii a trovarla. Udii il gemito di un vecchio portone che si chiudeva sbattendo. Una risata folle.

Scattai in piedi, la schiena contro la parete, le mani premute sulla pietra. Era gelida. Puntai lo sguardo di fronte a me con l'intento di guardarmi attorno, ma mi trovai avvolta da una fitta oscurità che non mi permetteva di vedere a un palmo dal naso. Iniziai a spostarmi seguendo il perimetro della stanza scivolando lungo il muro finché non trovai il vuoto. Avanzai lentamente, una mano tesa davanti a me, l’altra a contatto con la parete. Nel buio pesto, mi sembrava di essere finita in un lungo e interminabile corridoio, pur rendendomi conto razionalmente che il Colosseo non era costruito in quel modo.

Improvvisamente si accese una forte luce che illuminò il centro dell’arena. Mi accorsi di trovarmi sulla scalinata più alta. Al centro della scena sembrava svolgersi una rappresentazione teatrale. Acuii la vista.


Un uomo indossava una veste rossa e parlava rivolto a un pubblico che non riuscivo a vedere. Riconobbi Connor.

“Quale altra prova vuole il consiglio?” tuonava la sua voce, solenne e ardita. “In quale altro modo possiamo dimostrare ai nostri anziani che questa donna è un demone?”

In un angolo di ciò che mi parve un palco in legno, notai una giovane donna su una seggiola. Di fronte a lei, un lungo tavolo al quale sedevano cinque uomini dalla pelle rugosa e i capelli bianchi e radi.

“Ve lo giuro! Io sono umana!” gemette la giovane, disperata. Riconobbi la mia voce.

“Blasfema! Bugiarda!” inveì Connor sputando saliva in faccia alla fanciulla. Lei sussultò ed io con lei. Il mondo mi vorticò attorno per un istante. Sbattei le palpebre, ritrovandomi a fissare una persona di fronte a me. Alzai la testa. Ero seduta e guardavo Connor con espressione sbalordita, poi gli anziani. Come diavolo ero finita in quel posto? Mi guardai intorno sperduta. 

Mi trovavo in una stanza circondata da soppalchi, dai quali diversi umani di diverso sesso e età mi fissavano con riprovazione. Nei loro occhi solo odio.

"Aspetta! Connor!" cercai in qualche modo di spiegarmi, domandandomi cosa stessi facendo. Sapevo di dover convincere il mio amato che ero in tutto e per tutto un essere umano come lui. Ma il ragazzo non mi credeva. Digrignava i denti, sul bel viso un'espressione più demoniaca di quella del mio ex padrone in preda alla furia. Non lo riconobbi più. Mi alzai dalla seggiola e fuggii verso l'uscita, il viso sprofondato nelle mani.

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Capitolo 11
*** Radlok ***


Capitolo 11
Radlok


Una luce abbagliante mi indusse a coprirmi gli occhi con l’avambraccio. In piedi in precario equilibrio, sentii che le mie ginocchia si piegavano e urtavano qualcosa di rigido.

“Lilin!” esclamò una voce familiare. “Dov’eri finita?” Qualcuno mi sostenne, mentre cercavo di recuperare l’uso degli occhi immersa in un mare di sole.

“Dove siamo?” mormorai, inumidendomi le labbra secche. Sentivo la bocca e la gola asciutte come la sabbia del deserto. Tossii.

Mi sentii sollevare. Sobbalzai un paio di volte, poi la mia vista si scurì.


La mia coscienza si risvegliò facendomi ritrovare distesa su una stuoia, all’ombra di un albero dalla chioma bassa e ampia. Guardai la persona che mi stava inginocchiata accanto, stentando a riconsocerla, studiandone i lineamenti. La consapevolezza ritornò con uno schianto, tutta in un colpo.

“Lunos!” esclamai per quanto me lo permettesse l’intontimento di cui ero ancora preda.

“Accidenti, bellezza, mi hai fatto prendere un colpo!” affermò l’incubus. Si passò le dita tra i lisci capelli argentei, pettinandoli all’indietro. La mia mano si allungò e si posò dolcemente sul suo viso, il quale assunse un’espressione di sorpresa. Guardai io stessa la mia mano abbassarsi. Non mi ero accorta del gesto finché non era stato fatto.

“Che succede?” domandai puntellandomi con le mani per mettermi a sedere. Circondai le ginocchia con le braccia e guardai Lunos in attesa di una spiegazione.

“Non ricordi nulla?” domandò lui, prudente. Sembrava un animale da preda che avanza circospetto verso uno specchio d'acqua.

“No. Cosa dovrei ricordare?” ribattei candida. Non avevo alcuna memoria di ciò che mi fosse successo negli ultimi... Spostai lo sguardo verso il cielo, cercando di capire ritrovare il mio orientamento temporale.

“Ci siamo accampati sotto quest’arcata perché faceva troppo caldo per proseguire il viaggio,” iniziò il mio compagno.

“Viaggio? Dove andiamo?” Nemmeno quello riuscivo a richiamare alla memoria. Perchè ci trovavamo all'aperto e dove eravamo diretti? Il giovane incubus mi lanciò uno sguardo, ed era colmo di terrore.

“Mi sono girato e non c’eri più. Ti ho cercata in tutto il Colosseo. Quando sono tornato in questo punto ti ho vista spuntare fuori dal nulla e correre verso il sentiero sotto il sole.” Strinsi gli occhi e piegai la testa di lato, cercando di dare un senso a quella storia. Tentai di aggrapparmi ai ricordi, ma questi erano impalpabili come spettri. “Non ti ricorda nulla questo?”

“No,” ribattei dopo aver riflettuto qualche secondo. Lunos assunse la mia stessa posa e appoggiò la fronte sulle ginocchia. I capelli scivolarono in avanti nascondendo completamente il suo viso. Lo osservai curiosa per un momento, quindi mi avvicinai carponi e sedetti accanto a lui.

“Ti prego, dimmi che stai bene? Dimmi che non stai male per colpa mia,” La voce mi uscì quasi con un tono di supplica. In quel momento mi sentivo leggera e spensierata, senza passato né futuro, uno spirito che esisteva solo nel presente. Il giovane sollevò il capo, rivelando gli occhi lucidi e occhiaie scure per la stanchezza.

“Tranquilla. Non è colpa tua. Questo luogo è maledetto. Gli spettri che popolano questo luogo giocano dei brutti tiri a chi ha il coraggio di entrarci,” mormorò.

“Oh!” esclamai battendomi il palmo della mano sulla fronte. “Ma certo! Il viaggio, la strega e tutto il resto!” Improvvisamente ricordai ogni cosa, come se un fiume di memorie fosse stato versato nella mia mente da una brocca invisibile. Come avevo potuto scordarlo?!

“Ricordi tutto ora?” chiese Lunos, l' aria sempre più sciupata.

“Sì.” Chinai il capo. “Fatti una dormita. Ne hai bisogno. Quando ti svegli ripartiamo,” dichiarai. Mi trascinai sulla stuoia su cui mi aveva posato Lunos e vi stesi le membra indolenzite, incrociando le dita dietro la nuca. Insieme a tutti i ricordi erano tornate anche le sensazioni collegate ad essi. Il dolore della tortura subita sotto il comando di Fatuus. La pesantezza nel cuore per il fatto di non poter stare con Connor. A proposito di lui… la mia anima si sentiva così lontana da quel giovane che mi aveva rubato il cuore. Ogni immagine di lui, attraverso ogni reminiscenza, mi colpiva come una sottile lama infilata nel petto. Sembrava che gli ostacoli sulla mia via si moltiplicassero, quasi a volermi dire che non mi era concesso ciò di cui stavo andando alla ricerca.

“Sveglia, bambocci,” ordinò una voce roca. Aprii gli occhi e sbattei le palpebre. Dovevo essermi addormentata. Mi sollevai e sentii qualcosa pungermi la spalla.

“Piano, femmina!” grugnì un’altra voce, ruvida. Mi alzai in piedi lentamente e mi voltai.

Le creature erano alte la metà di me. Armate fino ai denti, indossavano armature di metallo. Dove il loro corpo non era coperto spiccava la loro pelle violacea che, insieme ai neri capelli corti e arruffati e gli occhi arancio, era un tratto distintivo della loro razza. Radlok. Cazzo, avevamo abbassato la guardia.

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