Blood and passion

di AnnabelleTheGhost
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Curiosità ***
Capitolo 2: *** Fragile ***
Capitolo 3: *** Impossibilità ***
Capitolo 4: *** Dietro le sbarre ***
Capitolo 5: *** Ragazze prepotenti ***
Capitolo 6: *** Orgoglio ***



Capitolo 1
*** Curiosità ***


1. Curiosità
 

Il retro della palestra era buio ed erano soli.
La campanella della fine delle lezioni era suonata cinque minuti prima e gli studenti si apprestavano ad abbandonare l’edificio.
Presto solo i bidelli e pochi professori sarebbero rimasti a girovagare tra le aule ma nessuno si sarebbe azzardato ad entrare in quel magazzino abbandonato.
«Shawn» sussurrò Katia.
Vecchi attrezzi ginnici riempivano il pavimento impolverato: una cavallina strappata, cerchi integri e non, coni impilati l’uno sull’altro, racchette di badmington forate, lunghi bastoni accavallati sugli angoli delle pareti e palloni da basket e calcio sgonfi.
In risposta, la mano di Shawn le accarezzò i capelli, ciocca dopo ciocca e scese sulla schiena, passando per il collo scoperto e toccando quasi con affetto le pieghe del cardigan.
Katia avvicinò le labbra. I nasi si schiacciarono l’uno contro l’altro mentre i loro visi erano sempre più vicini. Le dita di lei toccarono il colletto della camicia, stuzzicando l’estremità dei suoi capelli.
L’abbraccio si fece più forte e le dita di Shawn scesero sotto i suoi vestiti. La schiena di Katia venne percorsa da un brivido quando la sua pelle bollente venne sfiorata dalle dita ghiacciate.
Sospirò di piacere e si fece togliere il cardigan da lui con movimenti attenti e sensuali. Lei mosse la mano sui bottoni della camicia. Sollevò gli occhi, come per chiedergli il consenso, e una scintilla scattò tra quei pozzi cerulei e nocciola.
Presto si ritrovarono entrambi senza indumenti  su un materassino consumato dall’umidità.
Il campanile della chiesa lì vicino rintoccò tre volte. Il suono si propagò per le vie e attraversò le pareti della scuola fino ad arrivare allo stanzino.
Katia si stava riabbottonando il cardigan mentre lui armeggiava con la cerniera dei jeans, a petto nudo.
Lo sguardo di lei si fermò sui pettorali scolpiti dal quale non aveva potuto staccare gli occhi per tutto quel tempo: per lei Shawn era la perfezione fatta persona e quello le era parso un sogno senza precedenti.
Katia ritornò al suo abbigliamento. Si inginocchiò e si allacciò le scarpe.
Lui prese la camicia da terra e la pulì con cenni sbrigativi, senza curarsi di quanta polvere stesse realmente rimuovendo e alle pieghe che accentuava nella camicia stropicciata.
Katia tossì e si rimise in piedi. «Odio la polvere».
Shawn si infilò le maniche e girò la testa verso di lei, con aria indifferente. «Sei stata tu a scegliere questo posto».
«A casa mia stanno festeggiando il compleanno di mia nonna. Lo sai» rispose sbuffando e dandosi una sistemata veloce ai capelli.
Shawn si avvicinò di un po’. «E perché non sei andata?»
Katia, di spalle, si girò e gli rise in faccia. «Andiamo! Non vedo l’ora che quella rimbambita tiri le cuoia e si levi dalle palle. Figurati se festeggio il suo ulteriore anno di vita!»
«Non dovresti dire queste cose» mormorò.
Lei alzò un sopracciglio. «Ma cosa dici? Mia nonna, al suo stato attuale, serve solo come soprammobile».
«Quando morirà, ti dispiacerai per quello che stai dicendo adesso».
Katia sbuffò e si diede un’ultima sistemata alla gonna perché non si vedesse niente. «Senti, non mi piace parlare della mia famiglia e, da quanto ho capito in questi due mesi con te, neanche a te. Quindi finiamola qui». Cercò i suoi occhi e gli domandò: «Ora devo andare a casa. Mi accompagni?»
Shawn parve pensarci su.
«Ti prego. Una mia vicina di casa stava per essere violentata, ieri, mentre tornava da scuola. Non voglio che mi accada niente!» lo supplicò.
Shawn sospirò e le prese la mano. «Va bene, andiamo!»
Katia sorrise, allegra più che mai, e sincronizzò i propri passi con quelli di lui per uscire simultaneamente dallo stanzino. Si poteva accedere ad esso solo attraverso il cortile ma l’esterno si ritrovava in un tale stato di degrado, che nessuno aveva voglia di entrarci. Anzi, per dir la verità, ben pochi erano a conoscenza di quel ripostiglio e chiunque lo conoscesse non aveva idea di come entrarci.
Katia, per errore con un’amica, aveva trovato un’asse che cedeva e che ne permetteva l’accesso. Appena l’aveva scoperto, aveva rinominato il posto il suo luogo segreto. L’aveva subito detto a Shawn e ne aveva approfittato per perdere la verginità con il suo ragazzo.
Lei sollevò il capo e, appena lui incrociò lo sguardo, arrossì e abbassò la testa.
«Che ti succede?» chiese lui. Katia non era mai stata timida con lui e non si era mai fatta scrupoli come altre ragazze di mostrare le sue nudità.
Lei scosse la testa e riprese a camminare. Il battito cardiaco aumentò di rapidità, così come il suo passo. Shawn non si dovette sforzare per adeguarsi.
«Sei un’idiota, lo sai?»
«Cosa?!» Lei avvampò immediatamente e lo guardò scioccata.
«Hai paura di dirmi quello che pensi? Non mordo mica...» si lamentò.
«Non è questo». Abbassò la testa e sospirò. «Io... io mi chiedevo...»
Shawn alzò la testa al cielo e sbuffò, mettendo l’altra mano nella tasca dei pantaloni. «Su, spara».
«Tu mi ami?»
Lui abbassò la testa e alzò un sopracciglio nella sua direzione. «Sei seria?»
«Sì». I suoi occhi erano fermi mentre lo guardava, fisso, in attesa di una risposta. Ma le labbra erano attraversate da un leggero tremore.
Shawn scosse la testa. Katia ebbe un tuffo al cuore, prima che lui potesse parlare. «Che domanda! Ovvio, se stiamo insieme da due mesi!»
«Dici a tutte così?» borbottò, mentre il cuore riprese a battere ancora più forte di prima.
«Non è questa la cosa importante, no? Io ti amo, altrimenti perché credi che l’abbiamo fatto?»
Lei scosse le spalle. «Non lo so. Perché ho delle belle tette?»
«Sei un’idiota» replicò lui. Si fermò e la strattonò al braccio perché non proseguisse a camminare. Lei stava quasi per cadere ma lui la resse tra le braccia e la baciò con passione. Al termine del bacio, lei era divenuta rossa come un peperone e lui la guardava con un misto di fastidio e soddisfazione.
«Contenta, adesso? Non dire più queste cazzate e andiamo a casa tua».
Katia trotterellò a fianco di Shawn, ancora emozionata per quel bacio improvviso e lasciando a briglie sciolte la sua fantasia: l’ultima ora passata insieme si ripeté per centinaia di volte nella sua mente con colonne sonore tratte da film per accompagnarla.
Inavvertitamente, strinse più forte la mano di lui e se ne accorse solo davanti al cancello di casa sua quando fu costretta a separare le dita e guardarlo come se quello fosse un addio.
Lui le scompigliò i capelli. «Ci vediamo a scuola, okay?»
Katia annuì e gli sorrise. «A domani!»
Shawn guardò la sua schiena allontanarsi finché non scomparve dietro la porta di casa. Si mise le mani in tasca e proseguì verso casa sua.
Secondo lui la paura di Katia era insensata: quella era una delle giornate più soleggiate che avesse mai visto e non si sarebbe riuscito a trovare uno stupratore neanche a pagarlo.
Ma cosa ci poteva fare? Katia a volte era davvero paranoica e lui doveva accondiscere ai suoi desideri. In fondo, però, non gli dispiaceva: non era una di quelle ragazze eccessivamente timide che si vergognano solo a pronunciare la parola sesso. Lei era capace anche di dirlo venti volte al giorno e non si era fatta pregare troppo per rimanere soli in quello stanzino. L’unica condizione che aveva posto era che sarebbe dovuta essere lei a scegliere il luogo, il giorno e l’ora e lui, di certo, non si creava problemi per questo.
Arrivato a casa, si diresse subito in camera sua, ignorando la porta aperta del salone dal quale provenivano dialoghi della TV. Sua madre si stava vedendo una di quelle stupide telenovelas.
«Shawn, sei tu?» urlò lei dal divano.
Lui trattenne il più grosso sbuffo della storia dell’umanità e le gridò “sì!” in risposta. Non appena avesse superato la maturità avrebbe detto addio a quella casa piccola, alle telenovelas spagnole, alle occhiate contrariate della madre e alla sorella che gli rubava i preservativi.
Avrebbe dato un taglio a quella noia e sarebbe andato dove voleva.
«Cassidy è passata: voleva vederti!»
Cassidy: la sua amica d’infanzia e l’esatto opposto di Katia. «Dov’è adesso?»
La madre non si degnò di girare la testa per guardarlo in volto.  Puntò l’indice verso il soffitto, con gli occhi incollati allo schermo, e rispose: «In camera tua».
Shawn si diresse verso le scale e le salì due gradini alla volta per arrivare nella sua stanza. Un ghiro dai lunghi capelli castano scuro era accoccolato sul suo letto incassato nella parete.
Shawn si avvicinò e la scrollò per svegliarla. «Ehi, Cassidy!»
Lei mugugnò e spalancò gli enormi occhi d’ametista. Quel colore vibrante e così carico disorientò Shawn per un attimo ma in fondo lui vi era abituato.
«Shawn?» domandò lei con un tono impastato dal sonno.
«Che cosa ci fai qui?»
Cassidy si alzò piano piano e si sedette sul letto, stiracchiando le braccia e sbadigliando. Il naso, cosparso di lentiggini che si mimetizzavano perfettamente con l’incarnato chiaro, si arricciò per dar spazio alla bocca.
Quando finì, si afflosciò con la schiena curva e le guance sui pugni chiusi.
«Perché hai scelto la mia stanza come luogo per il tuo pisolino?» insistette Shawn mentre cercava qualcosa in un cassetto della scrivania.
«Dovevo restituirti una cosa» borbottò e si alzò in piedi per raggiungerlo. Si frugò le tasche dei pantaloni col cavallo basso, seminascosti da una felpa extralarge arancione col cappuccio.
Il suo sguardo era confuso, perciò intrufolò le mani nella tasca a marsupio della felpa.
Shawn non la stava guardando: era ancora intento a cercare qualcosa nel cassetto.
Il volto di Cassidy si illuminò non appena trovò il foglio di carta appollottolato. Si avvicinò all’amico e gli battè sulla spalla. Lui si sollevò dalla scrivania per osservarla.
Cassidy gli prese la mano dentro il cassetto e la aprì. Delle dita si fecero spazio tra le maniche del felpone e gli depositarono sul palmo aperto una pallina di carta.
Shawn chiuse la mano e guardò Cassidy. «Ce l’hai avuto tu per tutto questo tempo?»
Lei deviò lo sguardo verso un portacolori sul tavolo e replicò con tono neutro: «Ti era caduto per terra. Pensavo fosse importante...»
«E lo era. Grazie».
Cassidy stirò gli angoli delle labbra in un debole sorriso e uscì dalla stanza. Fece ciao con la mano a Shawn e saltellò sui gradini delle scale per andarsene.


 
Nota dell’autrice: ciao caro lettore che stai leggendo! Questa storia è nata per caso, leggermente ispirata da un anime che ho appena finito di vedere. Non sapevo in che sezione pubblicarla, incerta tra giallo, horror e thriller. Per ora ho preferito horror ma, in caso non vada bene, accetto consigli.
Come un po' in tutte le mie storie, prima di arrivare al momento "clou" preferisco girarci intorno e presentare prima i protagonisti piuttosto che far morire gente fin dal primo capitolo! 
Non so quando verrà pubblicato il prossimo capitolo, ma se siete amanti del genere dark e sovrannaturale potete seguirmi anche qui, dove aggiorno abbastanza spesso:
L'altra faccia della notte 
Avrei tanto voluto pubblicare la storia nel rating rosso ma, impossibilitata dalla mia età, ho scelto l'arancione e in caso metterò qualche avvertenza.
Le recensioni sono più che gradite. Ricordate: una recensione al giorno toglie il medico di torno!

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Capitolo 2
*** Fragile ***


2. Fragile
 
Shawn era disteso sul letto e lanciava verso il soffitto la pallina di carta che teneva in mano. Era stato uno stupido a conservarla e anche solo a cercarla, in effetti. Sperò che Cassidy non ne avesse letto il contenuto.
Si trattava di un bigliettino strappato da un quaderno a quadretti dove, con uno stampatello disordinato, era stata scritta una breve dichiarazione d’amore. La ragazza in questione non era di certo un poeta ma sembrava molto dolce e ingenua a spedire un messaggio del genere. Esso era passato attraverso molte mani e chiunque avrebbe potuto scoprirlo. In più, tutti sapevano che lui era già fidanzato. Chi poteva essere questa intraprendente ragazza?
Passò mentalmente in rassegna le sue compagne ma nessuna gli parve mai essere stata interessata a lui...
Sospirò e scosse la testa, chiedendosi perché si stesse concentrando su cose tanto stupide!
Si voltò verso la scrivania. Piegò il braccio, prese la mira e lanciò la pallina nel cestino della spazzatura. Era stato un colpo di fortuna che avesse fatto centro perché di solito mancava sempre il bersaglio.
Chiuse gli occhi per un attimo e, quando li riaprì la mattina dopo, fu investito dalla sensazione che il pomeriggio trascorso non fosse avvenuto. Si sentiva comunque ancora nel mondo d’orfeo e occorse lavarsi la faccia due volte per poter dire che si trovava nel mondo reale.
Prese la cartella ed uscì di casa.
Davanti ai cancelli della scuola, Katia lo aspettava e, non appena lo vide, gli fece un cenno con la mano e gli sorrise come una bambina. Si allungò sulla punta dei piedi per domandargli un bacio e lui non potè che accettare. Si avviarono verso l’entrata e Shawn aprì la porta, facendo passare prima lei.
«Dormito bene?» domandò la ragazza con premura.
Shawn si limitò a scrollare le spalle.
«Io...» Katia divenne tutta rossa. «... ti ho sognato per tutta la notte. Sei perfino più bello nei miei sogni, sai?»
Shawn si lasciò sfuggire un sorriso e la osservò mentre si portava una mano per aggiustarsi i capelli. Il polso sottile fletté e una macchia violacea si estese sulla pelle.
Shawn sgranò gli occhi e le afferrò la mano. «Che ti è successo?»
Katia mugolò dal dolore e strattonò la presa per riprendere possesso del suo arto. «Niente. Non è niente, davvero. Lasciami andare, mi fai male!».
«No che non è vero, cazzo! Sono state di nuovo Sofia e le altre, vero?»
Katia scosse la testa con veemenza; gli angoli degli occhi umidi.
«Sono state loro! Non negare!»
Le labbra di Katia tremarono e lei affondò la testa nel maglioncino di lui. Fu scossa dal pianto e lui fu costretto a lasciare la presa e massaggiarle le scapole.
«È stato stamattina prima di andare a scuola. Alla fermata dell’autobus. Io aspettavo e loro... loro sono venute, in branco». Altri singhiozzi che le impedirono di parlare, poi proseguì: «Mi hanno circondata e Patricia mi ha afferrato per i polsi e sbattuta contro una parete. Mi hanno minacciata. Sofia mi ha preso a calci...»
Shawn abbassò lo sguardo e notò i tremiti delle gambe, arrossate più del normale e i calzini che coprivano mezza gamba, cosa che non accadeva mai dato che Katia adorava portarle corte.
«Sono gelose perché sto con te. Loro credono che sia colpa mia che tu non sia interessato a loro». E non riuscì più a parlare perché il suo pianto era divenuto un urlo disperato.
«Ci parlerò io. Non accadrà più. Te lo prometto!»
Katia lo abbracciò forte e sollevò la testa. «Ho paura, Shawn. Non sai le minacce che mi hanno fatto». Altro singhiozzo e gli occhi stretti, soffocati dalle lacrime. «Mi vogliono morta
«Shh, non parlare. Tutto si sistemerà».
Katia si staccò e si asciugò le lacrime sulle maniche della maglietta. «Credo che andrò un attimo in bagno. Non posso andare in classe così...» mormorò.
«Vuoi che ti accompagni?»
Katia scosse la testa, tirando su col naso. «No, ci vado da sola. Non perderti le lezioni per causa mia...» E prima che potesse contestare, aveva già girato l’angolo.
Shawn si mise una mano tra i capelli e diede un pugno alla parete. Come aveva potuto essere così stupido e così cieco? La sua fidanzata veniva presa di mira da stupide bulle e lui non aveva fatto niente per impedirlo! Katia era una ragazza forte e aveva sempre nascosto i lividi procurati dalle altre ragazze, cercando di andare avanti. Ma stavolta aveva avuto un crollo psicologico. Per ridursi a quello stato doveva essere davvero terrorizzata. E lui era stato un cretino a non accorgersene; avrebbe potuto evitare tutto questo!
Si diresse a passo di marcia in classe, deciso che durante l’intervallo l’avrebbe fatta pagare a quella cricca di carogne schifose, che si definivano il gruppo più in ed esclusivo di ragazze della scuola, capeggiate da quell’esibizionista di Sofia, alias ibrido mal riuscito tra Britney Spears e Paris Hilton.
Sbattè i libri sul banco, tanto che turbò il suo compagno di banco. «Mi hai fatto prendere un colpo. Che diamine hai oggi?»
«Hai mai picchiato una donna?» gli domandò in risposta.
«Ehi, amico, vacci piano. Qualsiasi cosa sia successa non ne vale la pena» tentò di calmarlo.
«E se questo qualcuno invece se lo meritasse fin dalla punta del midollo?» replicò.
«Be’ in molti si meriterebbero una bella sberla ma ciò non significa che tu debba sempre ricorrere alla violenza. Si potrebbe usare la diplomazia!»
«Diplomazia un corno! Se questo qualcuno è stato violento, non vedo perché non meriti di ricevere violenza. Chi di spada ferisce...»
«... di spada perisce. Sì, lo so. Ma, vedi, il mondo non è così semplice. Inspira ed espira e riuscirai a pensare razionalmente».
Shawn allontanò la sedia dal banco con un colpo secco e sedette. «Come puoi chiedermi di calmarmi? Io sono lucido e non lo sono mai stato di più in vita mia. Ci sono dei momenti nella vita in cui la violenza non è necessaria, ma obbligatoria».
Il suo compagno di banco deglutì e si mise di fianco al banco per poterlo guardare dritto in faccia. «Se una ragazza ti ha fatto un torto non te la devi mica prendere. Sono così: pettegole, dispettose... Quasi come un fratello minore. Di certo non ti sarai dimenticato come eri tu da piccolo con tua sorella!»
«Non fare esempi idioti, Matt! Io parlo di violenza tra ragazze!»
«Tra ragazze?» La sua espressione divenne perplessa. «Ma non stavamo parlando di te?»
«Quando si parla di Katia si parla anche di me!»
«Katia?» Il viso di Matt assunse il colore di un pomodoro. «Mi vuoi spiegare le cose per bene? Non ci sto capendo niente!»
Shawn fece strisciare la sedia rumorosamente sul pavimento e si alzò in piedi. Il suo corpo tremava dalla rabbia e dovette poggiare i palmi delle mani sul banco per placare la sua potenza distruttrice. Nella sua mente ricorrevano le immagini dei lividi, dello sguardo disperato di Katia e quello vittorioso di Sofia e la setta. «Io ora vado e stacco la testa a quelle galline!»
Matt lo trattenne per il maglione ma non dovette fare troppa pressione perché il suono della campanella e gli studenti che entrarono in classe a frotte furono sufficienti per calmarlo.
Shawn si abbandonò sulla sedia con un grosso sospiro.
Il ragazzo del banco accanto, alla sinistra di Shawn, prese posto e si sporse verso i due. «Ehi, ragazzi mi sono perso qualcosa?»
Era Troy, ragazzo diciannovenne con un fisico da ventottenne: i muscoli sembravano strabordare da sotto la camicia e aveva i tratti della mascella così duri che sembravano essere stati tracciati con la riga. Apparentemente l’unico tratto in comune con Shawn erano i capelli biondi mentre Matt, con il suo aspetto ordinario, sembrava fuori luogo.
«Meglio che non ti immischi. Non tira buon vento» lo ammonì Matt.
I pettorali di Troy andarono su e giù con forza mentre si sganasciava dal ridere. Shawn lo ignorava completamente mentre si concentrava nella distruzione di un pezzo di carta e Matt lo guardava come se si ritrovasse in una gabbia di matti.
«Quando mai qui tira buon vento?» lo scimmiottò. «Passando a cose serie... La vedete quella ragazza al secondo banco? Ha un balcone da sballo: porterà come minimo una sesta, credetemi! E indovinate chi le chiederà di uscire oggi?»
Matt sospirò. «Non dovresti concentrarti sullo studio per una buona volta e cercare di non farti bocciare di nuovo invece di pensare alle ragazze?»
In situazioni come queste Shawn sarebbe intervenuto in favore di mister palestrato ma sembrava totalmente nel suo mondo in quel momento. Troy non si rese conto di quel cambiamento e proseguì nella sua argomentazione su quanto sia importante che una ragazza abbia delle belle tette. «Insomma, Matt, tu te la faresti una senza poppe? Che gusto ci provi a stare con una ragazza se non ti soddisfa nell’aspetto, no?»
«Lascia stare! Sei un caso senza speranza...» borbottò Matt, come se una discussione del genere non fosse mai stata intrapesa tra loro tre in passato.
Il professore entrò in classe e, dato che si trattava del più severo insegnante di quella classe, Troy non si azzardò a parlare durante la sua ora: sapeva che se l’avesse beccato un’altra volta a fare qualcosa di sbagliato l’avrebbe fatto espellere. Aveva sbagliato solo una volta, un mese prima: Troy, sfruttando la sua posizione nell’ultimo banco della fila centrale, era abilissimo a nascondere le sue riviste a luci rosse durante le lezioni ma proprio quel giorno il professore l’aveva beccato con gli occhi incollati su una modella completamente nuda. Il risultato fu una sospensione di una settimana e mezzo; ma questo era stato solo un ammonimento.
Shawn non sentì una sola parola del discorso di quel burbero dietro la cattedra. La sua vista era accecata di rosso e ogni nervo voleva farlo scattare, lanciarsi dalla finestra come nei film d’azione e intraprendere una missione punitiva. Ormai il foglio che si ritrovava tra le mani era ridotto peggio di un groviera. Ci fu bisogno di una gomitata di Matt per tornare in classe e almeno fingere di provare interesse.
Quando la terza campanella suonò si alzò di scatto.
«Fermo! Non fare niente di avventato!» gli urlò il suo compagno di banco.
Lui non si degnò di rispondere: non era avventato. In quelle tre ore mille occasioni di vendicarsi gli erano balenate per la mente. Non avrebbe sbagliato, tutto sarebbe stato calcolato nei minimi dettagli.
Percorse il corridoio verso le scale che portavano al piano inferiore, dove si trovava la 5E ma qualcosa lo costrinse a fermarsi a metà strada. Non c’era nessuno in quel corridoio, dato che tutti preferivano utilizzare le scale principali. Nonostante ciò sentiva un rumore vicino a lui, troppo vicino.
Si guardò in giro ma non vide nessuno tranne due porte rosse dove erano state disegnate stilizzate sagome di una donna e di un uomo.
«LASCIATEMI, VI PREGO!»
Dei lamenti provenivano dal bagno delle ragazze, insieme a colpi che sferzavano l’aria e risate.
Il cuore di Shawn perse un colpo: come aveva fatto a non capirlo subito? Non aveva visto abbastanza film? Le ragazze adorano sfruttare il bagno per i loro scopi malefici.
Abbassò la maniglia della porta in questione ma era bloccata. Imprecò tra sè e indietreggiò di pochi passi, sufficienti per la rincorsa adatta per sfondare la porta. Con una spallata la serratura cedette e si ritrovò, per la prima volta nella sua vita, nel bagno delle ragazze del terzo piano.
La scena che gli si presentò davanti era come stata bloccata in una fotografia.
Una dozzina di ragazze era disposta in modo sparso per la stanza. La metà di queste era addossata a un angolo del bagno mentre l’altra faceva da semplice spettatore e da incitatore in tutto ciò e si trovava più distante. Nell’angolo in questione c’era una ragazza rannicchiata a terra con le gambe al petto e in lacrime. Inginocchiata accanto a lei c’era Sofia, con i suoi lunghi capelli biondi lasciati sciolti e vestiti aderenti leggermente bagnati che le facevano intravedere l’intimo di pizzo che indossava.
Tutte le ragazze erano voltate, impietrite dallo shock, verso l’uragano che era appena piombato nel bagno.
Il pavimento era bagnato. L’acqua penetrava tra le mattonelle e lambiva le suole delle scarpe dei presenti. Katia era di fronte a Sofia, nell’angolo, e i suoi capelli zuppi le bagnavano gli indumenti.
Shawn richiuse la porta dietro di sè con un tonfo che fece tremare tutte le ragazze.
Katia alzò gli occhi e le lacrime in viso si confusero con l’acqua che le era colata dai capelli.
Lui era senza parole ma la furia omicida gli scorreva nelle vene. Aprì e chiuse le dita e si avvicinò con lunghi passi verso la sua fidanzata. Le ragazze si scostarono: sembrava che le acque si aprissero per fare largo a Shawn. Si ritrovò davanti a Sofia, che lo guardava dal basso verso l’alto, ancora scioccata.
«ALZATI, MERDA!» le gridò. L’afferrò per i capelli e tirò verso l’alto. Sofia mise le mani sul capo e non riuscì a trattenere le lacrime di dolore.
«Affrontami!» le urlò di nuovo e stavolta tirò i capelli ancora più forte.
Sofia si lasciò sfuggire un grido e costrinse le gambe a reggerla e metterla in posizione eretta.  Il suo viso arrivava all’altezza del mento di Shawn, dal viso deturpato dall’ira.
Sofia strizzò gli occhi, pregando dentro di sè che Shawn la smettesse di tirare e che le lasciasse la chioma.
«GUARDALA!» strepitò.
Sofia socchiuse le palpebre e lo guardò in viso con espressione implorante.
«Guarda come l’hai ridotta». Indicò Katia, tremante sul pavimento. «Ti senti superiore dodici contro uno? Abbi le palle di affrontare uno scontro faccia a faccia!»
Sofia scrollò il capo e mugolò. «Nononono. Perdonami. Io non...»
«Tu non... NIENTE! Hai fatto tutto di proposito e non scusarti come una bambina, vigliacca!»
Le ragazze intorno a lui si erano allontanate il più possibile. Alcune lo guardavano in attesa, altre con timore.
La mano di Shawn vibrò nell’aria, diretta verso la guancia incipriata di Sofia. Lei strinse i denti e cercò di sollevare le braccia in un patetico tentativo di difesa. Ma qualcosa bloccò il braccio del ragazzo. Erano le mani bagnate fradicie di Katia.
«Basta, Shawn. Non è necessario» mormorò. Shawn si immobilizzò e la guardò con stupore.
Katia pareva una bambina indifesa in quello stato. I capelli corti apparivano più lunghi e di un nero intenso e delle gocce si staccavano lentamente dalle ciocche facendo plic plic sul pavimento. L’ombretto celeste che sfoggiava quella mattina si era trasformato in una malriuscita imitazione del trucco di Joker, condito da macchie violacee sugli zigomi. Lo sguardo era spento e le labbra afflosciate in un’espressione smorta.
«Lasciala stare» ripetè senza il minimo calore nelle parole che pronunciava. Le ciocche di capelli biondi sfuggirono dalla presa di Shawn. Sofia approfittò del momento per correre al centro della sua cricca, in modo tale da nascondersi agli occhi di lui.
Shawn allungò le mani verso Katia ma lei indietreggiò di mezzo passo per non farsi toccare. «Non preoccuparti più per me. Tra noi due è finita. Questa relazione fa troppo male sia a me che a te». E senza aggiungere altro uscì dal bagno.
Shawn non riusciva a credere a quelle parole perciò la rincorse fuori. Le ragazze sfruttarono la momentanea disattenzione di Shawn per darsela a gambe levate in caso cambiasse idea.
Appena percorsi pochi passi, però, lui perse di vista Katia.
Scosse la testa e si passò la mano tra i capelli in segno di disperazione. Com’era potuto accadere? Com’erano potuti entrambi cadere nella merda così, senza nessun preavviso?
Avrebbe dovuto essere più esplicito e informarla che non gli sarebbe importato quante ragazze avrebbe dovuto picchiare per stare con lei, ma Katia non aveva capito.
Percorse di corsa le scale fino all’atrio d’ingresso. Non gli importava se ancora le lezioni dovevano finire. Lui aveva solo voglia di andarsene a casa e poteva solo sperare di incrociare Katia, se aveva avuto la sua stessa idea di lasciare la scuola in “anticipo”.
I bidelli non si accorsero di lui mentre sgattaiolava fuori e correva, come un matto, come sperando di lasciarsi tutto alle spalle.
 
La campanella di uscita doveva essere suonata da ore. Katia, però, era rimasta a girovagare per la città come un fantasma senza meta. Che fine aveva fatto la sua forza di volontà, la sua tenacia? Non le avevano sempre detto che a volte si dimostrava un maschiaccio, capace di tener testa a chiunque? Ma davanti a Sofia era crollata. La sua era solo una facciata: dentro era una ragazza debole e indifesa.
Si fermò e si appoggiò contro il muro di una casa. Cercò un fazzoletto nella cartella e si soffiò il naso.
Cominciava a fare tardi e lei, come una stupida, non era tornata a casa. Non era lei la paranoica in questi casi?
Dei passi si avvicinarono.
Si pulì il naso con il fazzoletto e se lo mise in tasca. Girò la testa verso la persona che stava uscendo dalle ombre, senza sapere che sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe visto.
 

 
Nota dell’autrice: premetto subito che potrebbero esserci degli errori nel testo. Non l’ho riletto abbastanza volte... In secondo luogo, vorrei dire che, grazie al consiglio di Pendragon of the Elves, metterò la storia nei thriller. Colgo l’occasione, inoltre, per ringraziarla per le sue lunghissime recensioni che mi spronano a continuare a scrivere!
Spero che il cambio di genere della storia non deluda i lettori ma potrete comunque stare tranquilli che ci saranno contenuti pieni di sangue, proprio come piacciono a me! *Sorrisetto maligno*
La frase finale di questo capitolo, personalmente, mi dà i brividi. Ho voluto mettere questo pezzo per informare i miei cari lettori che già dal prossimo capitolo inizieremo con il “clou” della storia. SAAAANGUE *Urlo in stile Leonida*
 

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Capitolo 3
*** Impossibilità ***


3. Impossibilità
 
Una cameriera spagnola di mezz’età camminava per le strade di buon’ora in modo da arrivare in tempo nello stabile in cui lavorava. Era albeggiato da poco e l’oscurità sonnacchiosa si discostava dal mondo con lentezza. La gonna maldestramente annodata in vita frusciava, facendo rabbrividire le gambe e le mani che tenevano la borsa erano pallide a causa dell’esposizione al freddo.
Appena imboccò una strada un po’ più isolata delle altre per affrettare l’arrivo le scivolò la borsa dalle dite intirizzite e cadde a terra, producendo un rumore insolito, come se avesse urtato qualcosa.
La donna si inginocchiò per prenderla ma ciò che le si presentò davanti la fece ruzzolare a terra e gelare il sangue nelle vene.
La borsa era caduta in una pozza di sangue rappreso che circondava il corpo di una ragazza inerme. Un buco profondo e scuro si apriva nel petto, lasciando alla vista un cuore squartato. La camicetta era stata strappata e i bottoni giacevano parzialmente sul petto e altri chissà dove sull’asfalto. Un seno fuorisciva, lasciato alla vista e al freddo. Il corpo era ricoperto di lividi e le mani si trovavano accanto al ventre, colorate di rosso cremisi. Una di queste copriva uno squarcio sull’anca.
La donna era rimasta paralizzata e ciò che usciva dalle sue labbra era una frase ripetuta all’infinito, l’ultima lettera che legava con la prima dell’altra parola. «¿Por qué Dios mío? ¿Por qué Dios mío? ¿Por qué Dios mío?»
In meno di mezz’ora arrivò la polizia e riuscì a identificare il cadavere. Nel giro di due ore tutti gli amici e i parenti più stretti di Katia Marshall erano divenuti a corrente della notizia.
Alle undici del mattino Shawn era ancora immobile, nella stessa posizione col quale era stato colto dalla telefonata della cugina di Katia che, trattenendo le lacrime, gli aveva comunicato che era morta.
«Come, morta? La gente non muore così da un giorno all’altro!»
«È stata assassinata. Brutalmente».
La linea era caduta e la chiamata si era conclusa lì.
La notizia era arrivata anche alle orecchie di sua madre, che si era precipitata fuori di casa per andare a dare il proprio sostegno ai Marshall.
E Shawn era rimasto solo e pietrificato. Aveva la schiena ingobbita, gli avambracci lasciati a penzolare inanimati sulle cosce e uno sguardo vitreo incapace di vedere realmente la camera intorno a sè.
Shawn non riusciva ad accettare la notizia: il cervello aveva completamente rifiutato l’accesso di quell’improponibile dato. Katia non poteva essere morta. Loro due avevano litigato e dopo un litigio arriva sempre la riappacificazione. Katia non poteva morire: doveva prima mettere le cose a posto con Shawn.
Ma loro due si erano lasciati, cosa che Shawn ancora non aveva capito. Non c’era niente lasciato in sospeso. Era stato tutto troncato, lasciando dolore da entrambe le parti. Niente era rimasto incompiuto.
Il destino non segue una logica e Shawn doveva capire che quel cadavere ormai probabilmente portato in obitorio era reale come l’aria che respirava.
La vita di Katia aveva incontrato la fine e lui doveva rassegnarsi.
Ma come poteva? Katia era ancora giovane e doveva portare a termine tante cose! Doveva conservare altro tempo da trascorrere con lui...
I pensieri dentro di Shawn ronzavano come in uno sciame disorientato e il ronzio di ogni pensiero offuscava l’altro, creando solo confusione e disperazione.
La porta della stanza si aprì e sua sorella Monica entrò. «Shawn, ho appena saputo» mormorò. Si sedette accanto a lui sul letto, tentando di non farlo sobbalzare. I bracciali sul suo polso destro tintinnarono quando si portò indietro i lunghi capelli biondi, esattamente del colore del fratello.
«Mi dispiace tantissimo» continuò, avvicinandosi di più e mettendo un braccio sulle spalle del fratello. «Mamma mi ha detto tutto. Non devi preoccuparti: la polizia sta facendo tutto il possibile. Vedrai che prenderanno presto il colpevole...»
«Non mi importa» sussurrò con voce atona.
«Cosa?» domandò interdetta.
Shawn voltò la testa, unico movimento nel giro di oltre tre ore e osservò la sorella con occhi spenti e labbra digrignate in un’espressione rabbiosa. «NON MI IMPORTA SE PRENDERANNO IL COLPEVOLE!» urlò, scrollandosi il braccio della sorella di dosso. «NON MI FOTTE DI NIENTE! KATIA NON TORNERA’ SE UN LURIDO FIGLIO DI PUTTANA SARA’ MESSO DIETRO LE SBARRE. NON ME LA PORTERA’ INDIETRO!»
Monica era indietreggiata istintivamente. I boccoli argentati alle orecchie traballarono e le labbra bordeaux si aprirono in un tentativo di parlare. «Shawn, hai ragione ma...»
Il ragazzo si alzò dal letto con impeto e guardò la sorella con occhi di fuoco. «MA COSA? TU CHE CAZZO NE SAI DELL’AMORE SE TI VENDI COME UNA PUTTANA DA QUATTRO SOLDI?»
Monica sgranò gli occhi e si alzò pure lei dal letto. Assottigliò le palpebre, come un serpente pronto all’attacco. «Non ti permettere di insinuare queste porcherie su di me!» strillò.
«Ah, no? E, dimmi, con quanti uomini sei stata a letto questo mese? E quanti di questi avevano la tua età?»
«Fottiti, Shawn. Tu e il tuo “amore” del cazzo». Monica sbattè le zeppe sul pavimento con furia. «Rimani qui a rimuginare come un coglione! Non me ne potrebbe fregar di meno!»
Si allontanò e sbattè la porta tanto forte da far tremare gli infissi che la reggevano.
Shawn crollò a terra, distrutto. Non voleva litigare con la sorella, non in un momento del genere. O forse sì, le cose che aveva detto le pensava davvero. Era... quel senso strano che gli faceva formicolare le mani. Voleva fare a botte con qualcuno. Uccidere qualcuno. Perché una vita si ripaga con un’altra vita.
Strizzò gli occhi. Non riusciva a piangere, la violenza gli scorreva per le vene e se non si fosse sfogato sarebbe imploso.
E poi gli venne l’idea. Come un lampo, gli folgorò il cervello, paralizzando i pensieri-ronzanti. Sapeva di chi era la colpa di quello che era successo. Era così chiaro, lampante. Avrebbe vendicato Katia e l’avrebbe fatto subito.
Uscì di casa così com’era senza indossare un giubbotto o delle scarpe meno rovinate. Nel tragitto, tutti i momenti passati con Katia gli scorrevano nel cervello come una vecchia pellicola rovinata. Il primo bacio davanti al cancello di casa sua, l’incontro al parco, gli appuntamenti al cinema e gli sguardi che si scambiavano quando le loro mani si sfioravano sul pacco dei pop-corn. I loro corpi vicini, uno sull’altro, quel giorno nello stanzino della palestra. Gli occhi di lei sulla strada del ritorno, che imploravano il suo amore e un bacio soltanto. Le loro mani unite, avvinghiate strette come se nessuna forza al mondo potesse separarle. I capelli di lei che gli frustravano il viso nelle serate fredde mentre lui la teneva stretta per riscaldarla.
Ma i ricordi caldi e piacevoli vennero sostituiti da quelli brutti, che con violenza si facevano spazio nella sua mente. I lividi sulle gambe. Le lacrime sul punto di sgorgare. La matita sbavata. Il bagno allagato. E lei, Sofia, che ammirava la scena, trionfante.
Appena pensò a quella spregevole ragazza la vista si annebbiò di rosso e bussò con più forza del dovuto alla porta a cui era diretto.
«Arrivo, arrivo!» esclamò una voce da dentro.
Venne ad aprire la porta una bionda con una mascherina sui capelli arruffati. Il viso era rosso per i segni del cuscino e indossava ancora un pigiama di cotone rosa che aderiva alle sue curve nonostante il tessuto fosse morbido.
Gli occhi di lei si illuminarono quando videro Shawn. «Che ci fai qui?» chiese.
Poi notò il suo sguardo e i ricordi avvolsero anche lei. Iniziò a sudare freddo e a guardarlo con timore.
Lui aveva i denti stretti, dai quali faceva passare a stento l’aria. Impose la sua presenza dentro quella casa, urtando la ragazza nonostante non gli fosse stato concesso di entrare.
«E così dormi beata, eh?»
«Non so di cosa tu stia parlando, Shawn».
Sofia tremava.
«Tanti sogni d’oro alla stronzetta senza cuore» cantilenò.
«Io... davvero non capisco. Ti prego, va’ via».
«Mi stai implorando?» Shawn rise, allungando un lato della bocca in modo sadico e inquietante. «Tu hai ascoltato lei quando ti implorava?»
Sofia perse diversi toni di colore e indietreggiò di un passo. «Ti giuro che io e le altre non le torceremo più un capello. Hai la mia parola».
«Non le potrai mai più fare del male, stronza. È MORTA! Capisci cosa significa?»
Sofia iniziò a battere i denti. Il suo cuore pompava più forte e la cassa toracica si espandeva più rapidamente del normale. «Morta? Io non lo sapevo. Mi sono svegliata adesso!»
«Ah, non lo sapevi, eh? Ma lo sapevi benissimo quando l’hai incontrata da sola, ieri sera, e l’hai uccisa!»
«Stai delirando! Shawn, calmati. Io non c’entro in tutto questo!»
Sofia ansimava. Gli occhi erano diventati un pallino in quell’oceano bianco e nè i denti nè le mani avrebbero smesso di tremare.
Anche Shawn tremava, ma d’ira. Avanzò di un passo. Lei strisciò la pantofola destra indietro.
«E quando l’hai minacciata di farla fuori, c’entravi in tutto questo o no?»
«Io... Shawn, te lo giuro. Te lo giuro su tutto quello che vuoi! Non sono stata io! Sono rimasta tutta la notte a casa!»
«Balle!»
Il cuore di Sofia batteva come le ali di un colibrì, il suo cervello era entrato in panico. Si ricordava perfettamente ciò che era successo il giorno prima nel bagno. Non si sarebbe mai scordata quella paura e il dolore dei capelli che tiravano, tiravano come se fossero in procinto di staccarsi uno a uno dal cranio.
«Ragiona! Non posso essere stata io! Non ammazzerei una mosca!»
«Sei solo una schifosa bugiarda» rispose. E il momento tanto temuto da Sofia arrivò: Shawn sferrò un pugno. Lei chiuse gli occhi e si stupì di non provare dolore. La mano di lui aveva colpito la parete. Ciò sarebbe stato fonte di sollievo se non avesse reso lampante una cosa: Sofia era spalle al muro.
Non riuscì a trattenere le lacrime e lo guardò come un condannato a morte osserva il suo boia. «Sono innocente. Ti scongiuro! Le mie amiche te lo potranno dire!» mormorò, ormai quasi priva di voce.
Ma lui non la sentì e il secondo colpo la centrò in pieno viso.
Si accasciò a terra, in ginocchio, mettendo le mani sul naso sanguinante, inumidite dalle lacrime.
«Lacrime di coccodrillo» rise Shawn e le diede un colpo in testa che la fece sbattere contro la parete. Il quarto colpo fu una sberla, che le stampò le cinqua dita di lui sul viso e la fece coricare supina sul pavimento insolitamente caldo. Quel calore era dato da un liquido rosso e viscoso che le aveva sporcato i capelli. Sofia era incredula, ma soprattutto dolorante. Gli occhi erano verso l’alto e vedeva l’altra parte dell’ingresso; il suo aggressore non riusciva a rientrare nel suo campo visivo.
«Non hai una sorta di déjà vu?» le domandò, non appena le sferrò un calcio nel torace. Lei si piegò e sputò sangue sul parquet. Le mani, tremanti, si posarono sulle labbra, quasi tentando di frenare il reflusso sanguigno ma invano. Vennero solo sommerse da altro plasma, che scivolò dai palmi, infilandosi tra le dita e i polsi.
La vista iniziò ad essere annebbiata quando le venne spaccato il labbro e gli arti inferiori non provavano più niente. C’erano ottime probabilità che si fosse rotta una gamba.
Dentro di sè Sofia pregava che quella tortura avesse fine e che, se doveva morire, spirasse il prima possibile.
Ma Shawn non era intenzionato a finirla. «Verrai ripagata con la tua stessa moneta. E giustizia sarà fatta».
Le sirene della polizia suonavano nella notte ma Sofia e Shawn erano isolati dal mondo esterno, incapaci di sentire nulla all’infuori di sangue e dolore.



Nota dell'autrice: riecco Shawn il Violento alla riscossa! Spero che questo capitolo vi sia piaciuto! Ho cercato di dare il massimo in descrizioni scabrose e violenza ma non sono riuscita a fare di meglio.... Non so se aggiungere "violenza" tra gli avvertimenti o cose del genere. Accetto consigli!
Sofia mi sta proprio antipatica ma, in effetti, mi è quasi dispiaciuto per lei, dato che è stata pestata a sangue... Ma abituatevi a questo genere di cose perché Shawn è una mina vagante!
Alla prossima! Chi sarà il misterioso assassino di Katia? 

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Capitolo 4
*** Dietro le sbarre ***


4. Dietro le sbarre
 
I sospiri divennero nuvolette, che si persero nell’aria innaturalmente fredda di quel luogo.
«Sei stato fortunato, ragazzo» ribadì l’agente, forse per la terza volta. Non ottenere una risposta non significava che il suo interlocutore non l’avesse ascoltato.
Shawn aveva compreso che era stata una “fortuna” che Sofia non fosse morta e che le auto della polizia fossero arrivate appena in tempo. Sua madre, con l’aiuto del padre di Matt, che era un ottimo avvocato, aveva spiegato ai poliziotti che in quel momento lui non godeva a pieno delle sue capacità mentali, traumatizzato dall’assassinio di Katia.
Era maggiorenne, poteva passare diverso tempo in carcere, ma si optò per un compromesso: qualche giorno di prigione e lavori socialmente utili.
Solo a mente fredda, Shawn si rese conto di essere stato troppo impulsivo. Non aveva prove che Sofia fosse la colpevole e, nonostante una ragazza viziata come lei meritasse qualche sberla, di certo non poteva sostituirsi a Dio e decretare chi meritasse la morte.
Si afferrò i capelli tra le mani, continuando a pensare, e ignorando l’agente, che continuava ad esprimere le sue opinioni al riguardo.
La casa di Sofia gli ricordava uno di quei film horror dove c’è sangue ovunque intorno al cadavere. Sofia vomitava sangue e Shawn non riusciva più a pensare, ma solo a infierire di più su quel corpo massacrato.  La porta era stata sfondata e un poliziotto l’aveva afferrato con forza alle spalle, bloccandogli i movimenti e il petto. La presa era ferrea e la clavicola, dove facevano forza i pugni chiusi dell’agente, gli doleva.
Altri quattro poliziotti controllarono lo stato di Sofia, urlando di “chiamare un’ambulanza!” e prestandole i primi soccorsi. Respirava a malapena ed era sul punto di perdere i sensi.
Shawn smise di opporre resistenza e guardò la scena con occhi diversi, come se lui non fosse stato l’artefice di tutto ciò. Ma una parte di lui continuava a ardere, a desiderare di colpire l’uomo che lo bloccava e sfogare la propria violenza.
I genitori di Sofia l’avevano riconosciuto, così venne chiamata la casa di Shawn per avvertire che il loro folle figlio aveva picchiato a sangue una ragazza. La madre andò in questura, pallida e tremante, sostenuta da Monica, con il telefono piazzato costantemente all’orecchio in attesa della risposta dell’avvocato Morris.
Shawn non aveva detto una sola parola fin tanto che i bollenti spiriti continuavano ad agitarlo. Solo poche ore dopo il senno gli tornò in corpo e provò pena per quella ragazza in ospedale, che probabilmente lottava tra la vita e la morte.
«Tua madre e tua sorella ti vorrebbero parlare» insistette l’agente.
Shawn scosse la testa. «Non ho niente da dire».
«Credo che tu, invece, abbia molto da dire, visto che hai appena aggredito una tua compagna!»
Shawn, scomodamente seduto, tornò a fissare il pavimento e non degnò il poliziotto d’attenzione. Questi sbuffò e camminò avanti e indietro. «Vuoi almeno sapere cosa è riuscito a patteggiare il tuo avvocato?»
«Lo so già». In quegli attimi di silenzio dove era rimasto solo in quella stanza monocolore aveva sentito tutto ciò che c’era da sentire da parte di sua sorella, sua madre, dal padre di Matt e dai poliziotti. Solo mentre sentiva quelle discussioni provò il timore di dover passare il resto della sua vita in carcere – cosa su cui non aveva riflettuto mentre tentava di uccidere Sofia – ma fu una sensazione che durò poco, poiché l’avvocato Morris era davvero molto bravo e non avrebbe di certo potuto far marcire in cella il migliore amico di suo figlio!
L’uomo uscì dalla stanza e non si fece rivedere per un altro quarto d’ora, che Shawn impiegò contando le mattonelle sul pavimento sotto i suoi occhi per tante volte. Sempre le stesse.
«Hai una visita». Un poliziotto si sporse nella stanza e, a giudicare dalla voce, doveva essere diverso dal primo.
«Non voglio vedere nessuno».
«Dice che è importante e di chiamarsi Cassidy».
Shawn sollevò gli occhi e guardò quell’uomo dalla pelle color cappuccino fissarlo, attendendo una sua risposta. «D’accordo. La faccia entrare».
L’uomo si dileguò e, al suo posto, entrò una ragazza dai capelli scompigliati e con un larghissimo pull-over azzurro, che le arrivava sulla coscia. Prese una sedia e la spostò di fronte a Shawn.
«Ciao» si approcciò con un sorriso.
«Che ci fai qui?»
Cassidy mise le mani tra le ginocchia e si guardò intorno, con l’aria di non apprezzare quella stanza. «Sono venuta... a vedere come stai» rispose, ancora non guardandolo negli occhi.
«Come vuoi che stia? Mi hanno arrestato. È questione di pochi minuti e mi metteranno in cella».
«Perché l’hai fatto?» domandò. Sbattè le palpebre, e stavolta lo guardò dritto negli occhi. Di nuovo, Shawn si trovò disorientato, osservando il colore dell’iride, che oscillava dal blu al viola. Doveva essersi abituato dopo tutti quegli anni, ma ogni volta lo stupivano.
«Katia» si limitò a rispondere e chinò la testa un’altra volta.
«Lo so. Mi dispiace» mormorò lei e allungò la mano destra su quella di Shawn. Era più magra del normale e pallida, ma era comunque confortante.
«Io... non ragionavo lucidamente. Volevo ucciderla...» confessò.
Cassidy strinse la mano. «Capisco come ti senti, Shawn, ma... non potevi ucciderla! Non l’avresti mai fatto...»
«Invece sì. Se non fosse intervenuta la polizia, a quest’ora Sofia sarebbe morta».
Cassidy non riuscì a nascondere un sorriso e unì anche l’altra mano alla stretta. «Sono contenta, allora, che sono venuti i poliziotti: non avrei mai sopportato vederti con quelle divise a righe».
«Penso che quelle esistano solo nei fumetti» tentò di sdrammatizzare Shawn.
Cassidy rise. «Hai ragione. Leggo troppi fumetti...»
Ci fu un attimo di silenzio, poi Shawn riprese: «Non mi ero reso conto che i vicini potessero chiamare la polizia...»
«Non sono stati i vicini».
Shawn alzò la testa di scatto. «E chi, allora?» Nessuno poteva sapere le sue intenzioni, nessuno era a conoscenza del suo odio per Sofia tranne...
Cassidy guardò da un’altra parte mentre Shawn le strinse le mani più forte. «Sei stata tu, vero?»
La ragazza tolse le mani dalla stretta e le rimise tra le ginocchia. Continuò a far vagare lo sguardo nella stanza, ignorando la domanda.
«Voglio solo una risposta, Cassidy. Giuro che non me la prenderò con te!»
Cassidy riuscì a guardarlo e rispose, con una voce flebile: «Sì, io ho chiamato la polizia...»
«Come facevi a sapere cosa volevo fare?» insistette.
«Ho saputo della morte di Katia e volevo andare a casa tua per chiederti come stavi e impedirti di fare sciocchezze. Monica mi ha detto che non eri in casa, e allora...»
Shawn si ricordò del pomeriggio del giorno prima, quando aveva incontrato Cassidy per strada, durante la sua vana ricerca di Katia. Mentre lui si guardava intorno con disperazione, lei aveva diverse pietanze tra le mani, chiuse in sottovuoti.
Cassidy aveva compreso che qualcosa non andava e aveva chiesto se poteva dare una mano. «Non trovo Katia» la informò e, sotto insistenza di lei, le aveva raccontato l’episodio nel bagno, condito di epiteti pesanti nei confronti di Sofia.
«Non dovresti arrabbiarti con una stupida come quella: andavamo insieme alle elementari ed è sempre stata senza cervello!»
Ma Shawn non aveva intenzione di tranquilizzarsi, perciò Katia gli aveva offerto il suo aiuto nelle ricerche, ma solo dopo aver portato quei sottovuoti a sua nonna.
Nella stanza nella questura della polizia, Shawn continuava a guardare Cassidy, interrogativo.
«Non volevo farti combinare sciocchezze...» confessò lei.
Shawn sospirò e Cassidy decise di alzarsi di scatto dalla sedia. «Volevo solo dirti questo... Ora è meglio che faccia entrare gli altri: sono tutti preoccupati per te!»
«Non voglio vedere nessuno di loro. Solo essere rinchiuso in quella dannata cella e basta».
«No, che non lo vuoi...»
«Voglio solo uscire da qui il prima possibile. Odio questo posto!» affermò con disprezzo.
«Ma almeno dovresti tranquillizzare tua madre, Monica, Matt...»
Fece passare le dita di una mano tra le fessure dell’altra e le strinse sulle nocche. «C’è anche Matt?»
«Sì, l’ha saputo da suo padre».
Shawn scosse la testa e sospirò. «Fa’ entrare Monica, ma solo per cinque minuti. Non un secondo di più».
Cassidy gli fece ciao con la mano e sgusciò fuori.
Monica entrò con la sua aria da regina, esordendo: «Ti hanno fottuto, caro fratellino, eh?»
«Sta’ zitta».
«Se vuoi che stia zitta, perché mi hai chiamata?» gli domandò con un sorrisetto trionfante. Fece tintinnare i soliti braccialetti sul polso, e si avvicinò alla sedia lasciata da Cassidy.
«Volevo uccidere Sofia, non la mamma» rispose. Decise di mettersi ritto sullo schienale della sedia e osservare sua sorella sedersi davanti a lui e incrociare le gambe coperte solo da un collant a rete.
«Non c’è bisogno che fai il drammatico. Mamma sta bene. Sai com’è, se suo figlio sta per diventare un assassino non fa di certo i salti di gioia». Frugò nella borsetta nera e ne estrasse una lunga stecca bianca. «E ora spiegami perché ti sei voluto cacciare nella merda».
«Non volevo “cacciarmi nella merda”» ribattè.
«Come la spieghi un’aggressione e un quasi-omicidio? Era una candid camera?» Prese l’accendino dalla borsetta e iniziò a fumare.
A Shawn non poteva importar di meno del gigantesco cartello alle spalle della sorella dove c’era scritto “VIETATO FUMARE”. Se anche Monica fosse andata in prigione, tanto meglio.
«Non sono cazzi tuoi».
«Lo sono, invece. Quando si parla di qualcuno della famiglia Bethell, si parla di tutta la famiglia Bethell».
«Ma per favore, smettila di fingerti affezionata a me!»
«Okay, non me ne potrebbe fregare un cazzo di te e se passassi trent’anni in gattabuia. Ora sei soddisfatto?»
Shawn si limitò a osservare il fumo grigio che saliva verso il soffitto e l’odore che si impregnava nei mobili della stanza.
«Vuoi almeno sapere qualcosa di più riguardo all’omicidio della tua amaaaata Katia?» Strascicò le “a”, volendo scimmiottare Shawn, ma lui non venne neanche sfiorato dalla provocazione.  Le tolse la sigaretta dalle dita e la fissò negli occhi. «Cosa sai?»


Nota dell'autrice: non credevo di aggiornare così presto, dato che avevo in programma di pubblicare questo capitolo tra diversi giorni, ma ho scelto di aggiornare oggi le mie storie principali così da poter soddisfare i miei lettori in caso, per impegni vari come il mio compleanno il 20, Natale o feste varie, non riuscissi a continuare a scrivere queste storie.
Accade ben poco in questo capitolo, lo so, ma volevo "tranquillizzarvi" dopo la suspense di dieci giorni su cosa fosse successo a Sofia e Shawn. Non so che spoiler farvi sul prossimo capitolo perché non ho idea di cosa tratterà. Potrebbe anche morire qualcun altro...
Avevo in mente di fare uno speciale natalizio su
Blood and Passion, ma dato che ancora la seguono troppe poche persone, non credo sia il caso. Forse, chissà, il prossimo anno potrete leggere qualcosa...

ATG

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Capitolo 5
*** Ragazze prepotenti ***


5. Ragazze prepotenti

Evanthe era la seconda in carica, la vice di Sophia. Il suo viso non aveva tratti curvi e morbidi, ma aveva zigomi sporgenti e un corpo snello derivato da ore passate in palestra. Guardava tutti dall’alto in basso e adorava assegnare a ogni persona un insulto appropriato. Girava per la scuola attorniata dal gruppo di ragazze “in” come se nulla fosse successo a Sophia. Tra la massa si distingueva il nuovo acquisto, Ginger, denominata “la ragazza armadio” per il suo fisico ben poco femminile e la sua propensione a tirare sberle al prossimo.
Evanthe fermò la camminata e, come un generale che grida “ALT” alla compagnia, il resto della cricca si fermò nello stesso istante. Si girò e notò la presenza di Shawn appoggiato a un muro. Gli venne incontro, situandosi a un metro davanti a lui. Allargò le gambe, strinse le braccia al petto e spostò il bacino verso l’esterno.
«Che ci fai qui?»
Shawn sollevò gli occhi e dimostrò la stessa attenzione che avrebbe dedicato a un moscerino che gli passava davanti. Tornò a guardare le suole delle scarpe.
«Non dovresti essere in galera?» Allargò le braccia, con plateale stupore. «Come ti hanno permesso di tornare nella nostra scuola? Come hanno fatto entrare un pericolo pubblico come te?»
Shawn alzò gli occhi. «Perché dovrebbero essere affari tuoi, puttanella?»
«Non osare chiamarmi più così, merda». Digrignò il volto e gli puntò un dito contro. «Non credere di passarla liscia con me!»
«Non sto scappando».
«Non fare l’innocentino con me, fottuto verme schifoso. Credi di essere figo a prendertela con una più debole di te? Perché non sfoghi la tua frustrazione con una bambola gonfiabile come tutti i ragazzi? Mi fai schifo, merda!»
«Hai qualche altra parola nel tuo vocabolario o sai dire sempre la stessa cosa?»
Evanthe incrociò nuovamente le braccia e finse di ridere. «Abbiamo il comico dell’anno qui, ragazze. Facciamogli un applauso!»
«Ho di meglio da fare che sentire le tue stronzate».
Shawn si staccò dalla parete e fece un passo di lato, ma venne bloccato da Evanthe, che gli sbarrò la strada.
«Ma che problemi hai?» Storse la bocca e la guardò con il desiderio di avere una racchetta tra le mani e schiacciare il fastidioso moscerino. «Dove credi di andare? Se i poliziotti sono stati dei deficenti a lasciarti libero, non significa che tu ne abbia il diritto!»
«Spostati. Non ho intenzione di sentire un’altra sola parola». Le diede una spallata e camminò senza una meta precisa, ma lontano da quella cricca di schifose.
«Scappa, scappa!» gli urlò Evanthe alle sue spalle. «Tanto non ti puoi nascondere!»

Monica lo guardò truce. «Che fretta hai? Le notizie non scappano mica!»
Shawn moriva dalla voglia di sapere e non poteva aspettare che sua sorella finisse di fumarsi la sigaretta. Aspettare non era mai stato il suo forte.
«Stai attento a quel gruppetto di ragazze: hanno la puzza sotto il naso...»
«Tutto qui?» sbottò seccato.
Ma quando vide lo sguardo di Monica comprese: era lo stesso di quando, da piccini, lei era a conoscenza di ciò che avrebbe portato il vecchio barbuto per Natale e lui no. Era il suo vantaggio, il segreto che l'avrebbe resa importante per i giorni a seguire e che ti avrebbe fatto pendere dalle sue labbra fino al momento in cui non avrebbe confessato e c'era da star certi che lei adorava essere al centro dell'attenzione e non si sarebbe lasciata scappare un'occasione così ghiotta.


Shawn si voltò per un attimo, in un momento non visto, e osservò quella dozzina di ragazze intente a ridere. Possibile che fossero implicate nell'omicidio di Katia? Aveva voglia di tornare indietro e tirare fuori a forza la verità dalle loro bocche ma doveva mantenere la calma.

«Mantieni la calma e conta fino a dieci prima di fare qualsiasi cosa» . E, all'evidente gnorri di Shawn, che non era a conoscenza di uno psicologo nel pacchetto del "la punizione per aver picchiato Sophia", questi aveva insistito. «Non vorrai tornare in prigione, spero».

Ma lui era rimasto calmo alle provocazioni di Evanthe e si era imposto di non ricorrere alla violenza. Non voleva tornare in prigione per nessuna ragione al mondo. Era stato lì solo per pochi giorni ma l'avevano fatto sentire male. Quel suo senso di onnipotenza era vacillato di fronte a bestioni il triplo di lui con impronunciabili tatuaggi.
Non sapeva come ma doveva riuscire a procurarsi una lista di indiziati, sapere il più possibile su di loro, iniziare a fare qualche ricerca. Stare lì con le mani in mano mentre l'assassino si fumava tranquillamente una sigaretta era una cosa che non gli andava proprio giù. Doveva guardarsi intorno e decidere di chi poteva fidarsi e di chi no. Sicuramente le stronzette erano nella sezione "no".
Decise di entrare in classe: era inutile gironzolare per i corridoi e bigiare le prime ore senza ragione. Quando sua madre aveva avuto la fissa dei gialli aveva imparato che qualsiasi occasione era buona per scoprire di più sul tuo nemico.
Matt era assente quel giorno e Troy ne approfittò per fregargli il posto e sedersi accanto a Shawn.
«Com'è stata la galera?» chiese, privo di tatto e senza giri di parole.
«Una pacchia: per pranzo ti davano lecca lecca alla fragola e potevi scoparti le poliziotte di turno».
Troy non avvertì l'ironia: il suo cervello - normalmente spento - si accese sentendo parlare di sesso ma gli sforzi dei neuroni non andavano più in là di così. «E, dimmi, erano gnocche?» domandò con interesse.
Shawn si chiese come aveva fatto a diventare amico di un idiota del genere. «Oh, sì. Erano tutte modelle o ex-modelle» decise di stare al gioco per noia.
«Deve essere il paradiso, allora! Perché nessuno mi ha mai informato? E dire che la gente crede che questo succede solo nei film!» Diede una pacca sulla spalla di Shawn e sorrise come un beota. «Tutto questo tempo sprecato ad andare dietro le ragazze quando poi, andando in prigione...»
Shawn scosse la testa e sospirò. Sentiva già la mancanza di Matt come compagno di banco. «Terra chiama Troy. Sei connesso? Non siamo in un film porno! Guardati Il miglio verde e ne riparleremo...»
«Ci sono belle ragazze?»
«No».
«E perché me l'hai detto allora? Mah...» E fu così che si spensero le uniche cellule cerebrali attive di Troy.
Nella lista mentale di Shawn venne tagliato il nome di Troy tra i possibili colpevoli: lui era a conoscenza della posizione di un solo organo e di certo questo non era il cuore, cosa indispensabile per poter uccidere una persona.
Gaia, la ragazza più esperta in Trigonometria della classe - perciò con un quoziente intellettivo notevole - voltò il capo per salutare Troy e Shawn con la mano. No, se salutava Troy non poteva avere un briciolo di cervello, si corresse Shawn. Le amiche di lei si esprimettero in risolini e tornarono a parlucchiare tra di loro.
«Vuoi sapere com'è andata a finire con la ragazza dell'altra volta?» chiese Troy.
Shawn scosse la testa. Che parte di la mia fidanzata è stata uccisa e ho quasi fatto fuori Sophia non gli era chiaro? Perfino un bradipo in letargo avrebbe compreso la situazione...
«No» rispose secco e tornò a farsi gli affari propri.
Durante l'ora di educazione fisica i suoi compagni furono molto chiari riguardo al non volerlo in squadra e i professori si ritennero, non esplicitamente, d'accordo: non volevano correre il rischio di avere studenti feriti durante le loro ore. Perciò Shawn si mise su una panchina, solo e frustrato. Non aveva intenzione di fare male a nessuno mentre giocava e, anzi, si sarebbe sfogato. Escludendolo, però, gli era venuta davvero la voglia di prenderli a pugni per sfogarsi in qualche modo. Prese dalla tasca un oggetto rotondo e iniziò a giocarci.

«Non puoi essere nervoso se giochi con uno yoyo!» aveva consigliato lo psicologo dei carcerati - come l'aveva chiamato Shawn.

Su.
Giù.
Su.
Giù.
Avrebbe dovuto imparare a contenere la rabbia in questo modo per non incorrere nuovamente in guai seri.
«Ciao» tubarono in coro due voci femminili. Shawn alzò la testa, senza smettere di giocare con lo yoyo, che si arrotolò per terra.
«Che fai qui tutto solo?» vociò una. Era una sua compagna il cui nome gli sfuggiva. Era solo sicuro che iniziasse per "M".
«Anche tu ti annoi a fare sport? Io mi sono fatta male alla caviglia e per oggi non potrò più giocare a pallavolo». Questa era Gaia. Sicuramente. «Oh, che peccato!» commentò l'amica.
«Eh sì. Ora dovrò stare qui sulla panchina tutta sola...» si lamentò, piegando la schiena e massaggiandosi la caviglia scoperta.
Shawn, ignorandole completamente, si alzò e si spostò su un'altra panchina, lasciando le due interdette.
Su.
Giù.
Su.
Giù.
Su.
Giù.
Per sua sfortuna si era posizionato vicino al gruppo di ragazze che giocava a pallavolo e che, di tanto in tanto, gli lanciavano occhiate di sbieco. Evanthe, che sfoggiava uno stretto completino ginnico, afferrò la palla e mise l'indice a uncino, per poi muoverlo verso di sè. Era un chiaro segnale per raggruppare le ragazze: era il momento dei pettegolezzi dove si aggiungevano anche le ragazze sfigate desiderose di attenzione.
«Ragazze, sapete cosa è successo alla povera Sophia?» incominciò, catturando l'attenzione di tutte. Molte annuirono, aggiungendo anche pietosamente false facce tristi.
«È incredibile com'è stata conciata, vero?»
Evanthe lo faceva apposta: il suo scopo era innervosire Shawn, parlarne male davanti a lui stesso, una sorta di vendetta.
Shawn continuava a far andare lo yoyo blu su e giù senza curarsi di ciò che gli accadeva intorno.
Evanthe, non soddisfatta, proseguì. «E la fidanzata di quel pazzo, Katia...» Sentendo il nome di lei, Evanthe riuscì a catturare l'attenzione di Shawn, che strinse più forte il laccetto.
Uno, due, tre...
Evanthe lo guardò con la coda dell'occhio con soddisfazione.
Quattro, cinque...
«... Ho sentito dire che era proprio...»
Sei, sette...
«... una zoccola. Chissà quante volte l'avrà data senza pensarci due volte!»
Uno yoyo la colpì in fronte con violenza, lasciandole un gran bernoccolo e un forte dolore che la portò a mugugnare bestemmie.



Nota dell'autrice: Ecco il mio regalo di Natale per voi! Sono riuscita a terminare il capitolo con il telefono ed è stata una faticaccia perché non sono molto pratica... Se siete abbastanza furbi, in questo capitolo troverete un imput che consentirà a Shawn di "proseguire con le sue indagini" se così si può chiamare il suo tentare di scoprire la verità, picchiando persone a destra e a manca. In questo capitolo doveva starsene buono buono ma come ben sappiamo è un tipo troppo impulsivo e non è riuscito a trattenersi dopo aver sentito Katia insultata. Almeno era solo uno yoyo...
Finora quasi tutti i personaggi sono antipatici - perdonatemi, ma se fossero tutti simpatici, come si potrebbe dubitare di loro come potenziali assassini? - ma nel prossimo ne vedremo altri più simpatici e importanti per la storia.
Passate buone feste e, se ne siete in grado, potete cominciare a formulare qualche teoria sul colpevole... Potete anche dirmele, se volete, mi farebbe molto piacere!

ATG

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Capitolo 6
*** Orgoglio ***


NOTA: PUBBLICO QUESTO CAPITOLO A DISTANZA DI BEN DUE ANNI DALL’ULTIMO! MOLTE COSE SONO SUCCESSE E MI RICORDO BEN POCO DEI MIEI PIANI INIZIALI MA MI IMPEGNO A TERMINARE QUESTA STORIA E NON LASCIARLA PIU’ IN SOSPESO.
SE SIETE DEI NUOVI LETTORI, BENVENUTI, INIZIATE A LEGGERE DAL PRIMO CAPITOLO E BUONA LETTURA!
SE SIETE VECCHI CONOSCENTI CHE SI SONO RITROVATI COME APPENA AGGIORNATA QUESTA STORIA CHE GIACEVA TRA LE SEGUITE ORMAI DA SECOLI SI’ RAGAZZI HO DECISO DI CONTINUARE. SPERO CHE AVRETE LA PAZIENZA DI RILEGGERE GLI ALTRI CAPITOLI E DI TORNARE A CONDIVIDERE CON ME QUESTO MONDO PARTORITO DALLA MIA TESTA.
UN SALUTO A TUTTI E SPERO CHE IL CAPITOLO SIA DI VOSTRO GRADIMENTO
 


6. Orgoglio

In presidenza Shawn ebbe un déjà vu: la scena era la stessa, ma l'unica differenza era che colui che gli faceva la predica non era un poliziotto bensì un uomo tarchiato con un buffo farfallino rosa a pois, la cui targhetta lo identificava come "preside".
Seduto su quella poltroncina imbottita Shawn pensava a tutto fuorché ai blateramenti dell'uomo che gli sedeva davanti. "Le ragazze sono fiori e non bisogna sfiorarle neanche con un dito" aveva iniziato con fare amichevole, ma se credeva che un tonto come lui potesse avere più impatto di una guardia carceraria si sbagliava di grosso...
Finito il soliloquio il preside lo lasciò andare e l'unica cosa di nuovo che adesso aveva Shawn era solo una gran noia.
Doveva tornare in classe ma, visto che non ne aveva alcuna voglia, optò per un giro decisamente più lungo del necessario.
Lungo il corridoio semideserto un ragazzo gli venne incontro. Shawn capì fin dal primo momento che si stava dirigendo verso di lui e che non era una caso che i due si trovassero nello stesso posto.
Non aveva idea di come accadde ma all’improvviso le persone in corridoio svanirono. Tutti quei ragazzi, che si dirigevano verso le macchinette, in bagno o magari erano solo appoggiati alla parete per riposarsi un po’ tra una lezione e l’altra, erano spariti. Come in una di quelle storie di fantasmi, le ombre tornano dai loro proprietari, lasciandoti da solo nel buio.
Il corridoio della scuola era ovviamente illuminato ma Shawn era pervaso da quella sensazione sgradevole.
Erano rimasti da soli lui e quel ragazzo, che poi tanto ragazzo non sembrava, visto che era il doppio di lui.
Shawn sollevò il capo. Non ebbe il tempo di memorizzare i tratti del volto della persona che si trovava davanti perché nel giro di mezzo secondo la sua visuale non comprendeva altri colori diversi dal nero.
La mano possente del ragazzo gli aveva afferrato la faccia e l’aveva fatta schiantare con estrema violenza contro il muro. Non soddisfatto, non mollò la presa e ripeté il gesto ancora. Ancora. Ancora.
Per quei trenta secondi di estrema sofferenza Shawn si ritrovò, per la prima volta in vita sua, impotente. Era la stessa impotenza che aveva provato alla morte di Katia. Non poteva fare nulla, a parte incassare il dolore e lasciare che gli penetrasse nel corpo.
In un angolo della sua visuale fece capolino una gradazione di cremisi che, pian piano, voleva imporre la sua presenza in un’area sempre più vasta.
Più rosso vedeva più la sua sofferenza aumentava. E non intendeva smettere.
Lentamente il dolore si trasformò in anestetico: perse la sensibilità della faccia ma questo gli consentì di riprendere parzialmente il contatto col mondo esterno. Contatto che aveva temporaneamente perso in quel mezzo minuto.
Udì inizialmente dei versi, che si mutarono in grida. Poi in parole confuse e indistinte. Quando le parole ebbero un senso sentì chiaramente: «ASSASSINO!»
In quella frazione di tempo il suo aggressore aveva urlato epiteti poco lusinghieri nei suoi confronti e adesso era giunto al culmine degli insulti, che uscì dalla sua bocca con furia animale e disgusto.
Shawn riuscì a riprendere i contatti con la realtà e agì immediatamente per bloccare la sua tortura. Sferrò un calcio ben piazzato nelle palle e riuscì a liberarsi dalla presa.
La mano del suo assalitore perse aderenza sulla pelle di Shawn e si spostò sui genitali del suo proprietario.
Shawn, con la faccia metà spappolata, guardò con aria di sfida l’avversario e lo fulminò con uno sguardo pieno di odio e rabbia. Mentre regolava il suo respiro affannato studiò l’altro.
Era alto sicuramente più di uno e novanta. Portava i capelli biondi a spazzola. Nella carne del viso trovavano spazio piccoli occhi castani infossati, separati da un naso innaturalmente obliquo, e una miriade di brufoli rossi su fronte e guance.
L’aggressore inveì contro numerose divinità mentre tratteneva il dolore. In circostanze normali Shawn non avrebbe saputo tenere a freno la sua aggressività e gli avrebbe rifilato un pugno, seguito da un altro colpo negli zebedei. Ma non era il caso. Riusciva stranamente a ragionare con lucidità e dopo aver quasi ucciso Sofia e colpito Evanthe sapeva che non doveva arrivare al terzo strike. Non era il caso di mandare la sua vita a puttane per questo sconosciuto.
Aveva aggredito le ragazze senza che queste gli avessero sfiorato un capello. Ma questa volta era più che legittimato a rispondere all’attacco. Era suo dovere contrattaccare in questo caso e proprio per questo fu ancora più difficile trattenere i pugni, che ormai erano serrati e fremevano dalla voglia di colpire qualcosa, di scaricare la tensione e l’energia che ormai si era accumulata tra le dita.
A Shawn rimaneva solo un’opzione che avrebbe garantito la sua incolumità: per la prima volta in vita sua avrebbe dovuto fuggire come un vigliacco.
Non appena voltò le spalle al nemico, questo gli gridò dietro: «Me l’aveva detto che non hai le palle! Che te la prendi con le ragazzine perché sei un cacasotto, e poi scappi. Coglione!»
Shawn si bloccò. La neo-diga della pazienza che arginava la sua ira venne distrutta dall’impeto e dalla violenza della furia che ormai aveva pervaso ogni cellula del suo corpo.
Sapeva già cosa avrebbe fatto: si sarebbe girato di centottanta gradi e, come un perfetto compasso, avrebbe disegnato un semicerchio con la sua gamba destra, per centrarlo in viso e fracassargli la mandibola.
Girò di scatto la testa ma non ebbe modo di seguire i suoi piani. Contrariamente alle sue previsioni l’altro non era accasciato a terra bensì in piedi e inaspettatamente troppo vicino a Shawn. Lo afferrò alle spalle. Con il suo enorme braccio destro l’aggressore cinse il collo di Shawn e lo intrappolò in una presa da cui era impossibile sfuggire. Con la mano sinistra scese sul cavallo dei suoi pantaloni.
«Dove hai le palle, eh? Le hai lasciate a casa da mammina?»
La stessa presa che aveva intrappolato il viso di John adesso gli teneva i testicoli e li stringeva come se dovesse spremere succo da un’arancia. E mentre li stritolava andava su e giù col braccio cantilenando: «Dove ce l’hai? Dove ce le hai? Io non sento niente!»
A causa della mancanza d’aria per Shawn era impossibile articolare delle parole, per cui non potè che replicare con un sommesso rantolo.
Il tipo rise sguaiatamente, per poi continuare: «Queste, dici? Queste gomme da masticare appiccicate al cazzo? E quelle me le chiami palle? Andiamo, il mio cane ce le ha più grandi»
Shawn non aveva modo di difendere il suo orgoglio da uomo appena ferito, aveva altro di più importante di cui preoccuparsi: doveva scegliere se morire per asfissia o per probabile dissanguamento dei genitali.
Iniziava a mancargli l’aria al cervello. Il cuore gli pompava a mille ma non sapeva a cosa dare la priorità prima di perdere i sensi. La mente ragionava frenetica, alla disperata ricerca di una soluzione, cercando tra archivi e archivi di dati. Finché Shawn non si ricordò di un film d’azione visto dieci anni prima. Ciononostante, probabilmente dovuto alla disperazione del momento, gli apparve più nitida che mai la scena più emozionante del film, quella in cui il protagonista si salvava per il rotto della cuffia.
Imitando le gesta di quell’attore, Shawn inclinò la testa all’indietro con tutta la forza che gli era rimasta. L’aggressore, troppo concentrato nel ferire l’orgoglio virile di Shawn, venne colto alla sprovvista.
La presa si fece meno stretta di prima, appena sufficiente per permettere a Shawn di fare un respiro profondo e piazzare il suo gomito destro nello sterno di colui che gli stava alle spalle.
Emise un sospiro di sollievo quando le mani dell’altro lasciarono completamente la presa sotto la cintura.
Prima di andarsene non dimenticò di lasciare il suo regalo d’addio al suo nuovo amico: un bel gancio destro in pieno viso e una ginocchiata nello stomaco.
Ma questo suo neoacquisito senso di potenza e sicurezza venne ridotto in frantumi non appena sollevò lo sguardo: davanti a lui c’era Evanthe con un telefonino davanti al viso.
«Di’ ciao al popolo del web, Shawn». La ragazza sventolò la mano libera a destra e a sinistra. «Di’ ciao».
Evanthe spostò il cellulare e, davanti allo sguardo attonito di Shawn, lasciò scoperto il volto e quel grande sorriso di compiacimento che vi era dipinto sopra.
 
 
 

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