La Figlia dell'Arpia

di Sselene
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo I ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo III ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo V ***
Capitolo 7: *** capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo VII ***
Capitolo 9: *** capitolo 8 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Il 14 settembre 1603, dopo sedici anni continui di lutto e tristezza, la città di Erdner tornava a mostrare i suoi colori e il suo entusiasmo, esplodendo in una festa che sarebbe poi durata per giorni.
L’intera popolazione cittadina si era rovesciata nelle strade indossando i vestiti più vivaci che si riuscissero a trovare: le ragazze ballavano per strada a piedi scalzi, facendo roteare attorno a loro le lunghe gonne variopinte e facendo tintinnare i mille braccialetti che decoravano le loro braccia; i ragazzi, invece, in camicie schizzate di colori, soffiavano polveri muticolori sulla folla e battevano le mani per tenere il ritmo della danza. Persino dall’Isola Reale, in perenne movimento al di sopra della città, si sentivano musiche e cori di gioia.
Io e i miei genitori eravamo rimasti un po’ in disparte dal nucleo principale della festa, limitandoci ad osservare le danze dal ponte appena fuori la nostra casa insieme ai nostri vicini. Viste dall’alto, le strade riempite di gente sembravano ancora più colorate e movimentate, sparivano dietro le alte mura delle case e degli uffici per ricomparire appena più in là, in uno scorcio tra due guglie.
“Dovresti essere liggiù con gli altri,” mi disse Donna Ruth, battendomi affettuosamente una mano sul braccio. “Sei giovane, dovresti divertirti, stare con persone della tua età, trovarti una bella ragazza…”
Mi guardò e io le sorrisi, lasciando che continuasse col suo discorso – erano più o meno dieci anni che continuava ad insistere sulla necessità che io mettessi su famiglia e mi ero ormai abituato a lasciarmi scivolare addosso le sue parole.
“Sei un bel ragazzo, non avresti alcuna difficoltà a trovare una brava ragazza con cui sistemarti… hai questo bel colorito esotico…” Proseguì Donna Ruth. “Certo dovresti tagliarti i capelli.”
Fu istintivo portarmi le mani ai capelli, come sempre quando venivano nominati. I miei dreadlocks facevano ancora storcere il naso a più di una persona, pur dopo tutti quegli anni e nonostante il fatto che non fossi l’unico a portarli. L’abbinamento di quella capigliatura barbara con il colore scuro della mia pelle metteva a disagio una parte dei cittadini di Erdner che era piccola, ma comunque presente.
A volte sembrava quasi le persone fossero ferme al 1200.
“Mi piace tenere i capelli così, lo sai,” ribattei, come sempre. “Anche mamma li teneva così, da giovane.”
“E poi si è resa conto dei suoi errori e se li è tagliati,” mi fece notare Donna Ruth. “Non è forse vero Donna Malia?”
Voltandomi, vidi mia madre avvicinarsi a noi con mio padre al seguito. Erano una strana coppia, visivamente, lui con la pelle troppo chiara persino in quella città e lei, invece, scura come gli Spiriti di cui parlavano i libri di fiabe.
“Temo di non sapere di cosa state parlando, Donna Ruth,” mormorò lei con un sorriso, fermandosi tra di noi, mentre mio padre si appoggiava alla balaustra accanto a me.
“Parlavamo dei miei capelli,” spiegai io. “Donna Ruth crede dovrei tagliarli.”
“Proprio come avete fatto voi, Donna Malia,” precisò la nostra vicina.
“Oh, l’ho fatto per pura comodità,” rispose mia madre, ridendo, passandosi una mano sui capelli quasi del tutto rasati. “Con il tempo che mi occupano gli studenti, non avevo gran voglia di pensare ai miei capelli, che fossero dreadlocks o semplici ricci.”
“Beh, anche questo giovanotto avrà presto tanti studenti di cui occuparsi,” disse Donna Ruth.
Le sorrisi per cortesia, ma quello fu il preciso momento in cui smisi di ascoltarla. Era da anni che avevo ufficializzato la mia professione da Pedagogo, per lo shock di tutti i miei concittadini che erano convinti avrei abbandonato quella folle idea per mettermi a fare la Guardia come mio padre, ma ancora nessuno aveva richiesto i miei servizi.
Non era esattamente una sorpresa, ma era comunque deludente.
“Sicuramente,” disse con trasporto mia madre.
Fortunatamente fui salvato dalla necessità di commentare a mia volta su quella possibilità di lavoro dal suono vittorioso del corno dell’Esercito del Re. Donna Ruth e mia madre si dimenticarono immediatamente della discussione, affrettandosi dall’altro lato del ponte per provare a vedere l’ingresso trionfale dell’esercito nelle mura cittadine. Da dove ci trovavamo noi era impossibile vedere veramente l’ingresso, oscurato da troppe guglie e troppe murature, ma questo non impedì a tutti noi di affollarci sul parapetto del ponte.
Grida di giubilo anticiparono l’arrivo dei soldati, l’entusiasmo vibrava nella folla tanto che potemmo vedere il momento in cui l’esercito entrò nella nostra visuale prima che ancora che accadesse ancora, attraverso il movimento più entusiasta della gente. All’arrivo dei primi cavalieri, anche il ponte su cui ci trovavamo esplose in acclamazioni entusiaste e in un applauso scrosciante.
“La Principessa!” Gridò Marilù, infilandosi tra me e mio padre e alzandosi sulle punte per guardare oltre il bordo del parapetto. “Dov’è la Principessa?”
“Ancora non si vede,” le rispose mio padre e si chinò su di lui per prenderla in braccio. “Probabilmente è al centro del corteo.”
“Dovrebbe essere davanti a tutti a salutare,” commentò Donna Ruth, scotendo il capo.
“È sicuramente stanca, mi sorprenderebbe se avesse la forza di salutare,” feci notare io.
“Dovrebbe comunque, è la Principessa,” ribatté piccata Donna Ruth. “Ai miei tempi…”
“La Principessa!” Gridò Marilù, indicando nella folla, l’altra mano stretta alla spalla di mio padre. “Eccola, eccola, è la Principessa!”
Al centro del corte, proprio come aveva detto mio padre, era comparsa una carrozza dalla linea molto sobria, dalla cui finestra sporgeva una mano che salutava con gesti delicati.
“Sta salutando, proprio come dicevate voi, Donna Ruth,” commentò mia madre con tono cortese.
“Avrebbe dovuto affacciarsi,” ribatté l’altra, ma poi acconsentì con un cenno del capo. “Ma dev’essere tanto stanca e sicuramente non in condizioni adeguate a farsi vedere dal popolo.”
“Povera bambina, dev’essere tutto così shockante, per lei,” mormorò mia madre tra sé e sé, lo sguardo fisso sulla carrozza che passava.
“Sedici anni,” disse semplicemente mio padre.
E mentre il corteo passava, la folla danzava e Marilù gridava entusiasta, io so che i pensieri miei e dei miei genitori erano fissi su quella ragazzina che era stata strappata alla famiglia quand’era ancora in fasce per tornarci sedici anni dopo. Sapevamo già che la Principessa sarebbe entrata nella nostra vita, ma sbagliavamo sul come.

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Capitolo 2
*** Capitolo I ***


La mattina del 19 settembre 1603, mio padre rientrò un po’ dopo il solito orario, quando io e mia madre già eravamo a tavola a fare colazione e il pasto per lui, più sostanzioso data la nottata di lavoro, pronto ma ancora in pentola per tenerlo caldo.
“Il Re vorrebbe incontrarti,” disse, che non fu affatto la sorpresa. La sorpresa fu quando, dopo qualche istante di silenzio, riprese a parlare. “Ryan? Mi hai sentito?”
Alzai sorpreso lo sguardo dalla mia colazione.
“Credevo parlassi con mamma,” ammisi. “È per la Principessa, no? Di certo il Re ha richiesto mamma per un compito tanto delicato.”
“Non mi ha detto per quali motivi vuole parlarti,” rispose mio padre, sebbene sapessimo tutti che fosse come io dicevo. “Ma vuole parlare con te ed è stato molto chiaro su questo.”
“Sei proprio sicuro?” Insistetti.
Papà rise, sedendosi a tavola con noi con il suo pasto e un bicchiere di vino.
“No, devo essermi sbagliato, hai ragione tu,” mi rispose. “Certo si riferiva all’altro mio figlio Ryan che si occupa dell’insegnamento.”
“È così facile confondersi,” gli diede corda mia madre, sorridendo divertita da sopra la tazza di the.
“Sì, ho capito, è stato un commento sciocco,” borbottai vagamente imbarazzato. “Ammetterete che c’è da sorprendersi per la richiesta del Re, però. Ero certo avrebbe richiesto l’aiuto di mamma, eravamo tutti certi avrebbe richiesto mamma.”
“Non posso negarlo,” ammise mia madre. “Avrò peccato di presunzione, ma ero certa sarei stata convocata. C’è forse qualcosa che puoi dirci per fare chiarezza?” Chiese a mio padre.
Improvvisamente, la sua espressione, un attimo prima lieve e divertita, mutò in qualcosa di più pesante, come se un’ombra si fosse addensata sul suo viso.
“Questa è la prima notte che ho lavorato da quando è tornata la Principessa, lo sapete,” mormorò, pendendo il discorso stranamente alla larga. “Quindi non posso certo sapere se quella vissuta oggi è un’esperienza ripetuta, se ha davvero a che fare con la Principessa o con altro… tutto ciò che posso dirvi sono solo mie supposizioni o informazioni prive di contesto…”
Io e mia madre ci scambiammo un’occhiata apprensiva: se mio padre era tanto esitante nel parlarci di quelle cose, dovevano essere particolarmente delicate.
“Cos’è successo stanotte, Conrad?” Domandò mia madre, posando una mano sulla sua.
“Urla,” rispose concisamente mio padre. “Urla tremende, disperate, non ne ho mai sentite simili…”
“Urla?” ripeté mia madre, lanciandomi un’altra occhiata, in viso un’espressione confusa che certo rispecchiavo perfettamente.
“E credi fosse la Principessa?” Chiesi sconvolto.
“Io non credo nulla,” rispose immediatamente mio padre, con tono difensivo. “So solo che questa notte si sono sentite delle urla femminili e che una delle guardie diurne è stata tenuta tutta la notte nell’infermeria del castello.”
“Ma chi?” Domandò mia madre, immediatamente in apprensione all’idea di un qualche suo ex-studente in difficoltà.
“Uno che ha fatto trasferimento dall’esercito… Stane, mi pare si chiami, ma non ne sono sicuro. Nessuno che tu conosca, in ogni caso,” la rassicurò mio padre, baciandole il dorso della mano.
“Ed è stato portato in infermeria per cosa?” Chiesi io. “Cosa… in cosa sto andando a buttarmi?”
“Non lo so,” ammise mio padre con un sospiro. “Ufficialmente, si è parlato di uno sciocco incidente con uno dei levrieri del re, ma mi sembra così strano.”
“Una guardia reale che si fa atterrare da un levriero… suona come una barzelletta,” concesse mia madre.
“Ma cosa credi sia successo?” Insistetti io. “Qual è il collegamento tra questa guardia in infermeria, le urla e la Principessa? E me?”
“Immagino lo scoprirai a breve,” rispose semplicemente mio padre. “Di certo non puoi rifiutare l’invito del Re.”
Inutile negarlo, mio padre aveva completamente ragione. Se il Re mi aveva convocato, io ero obbligato a presentarmi a lui, qualunque ne fosse il motivo. Se poi la sua richiesta fosse stata incettabile, avrei dovuto trovare un modo di districarmene con tatto.
Sospirai, inghiottendo l’ultimo boccone di pane.
“Sarà meglio che vada, allora, prima scopro cosa vuole il Re da me, meglio è.”
“Legati i capelli,” mi disse mio padre. “Almeno sembri una persona un po’ più a modo.”
“Oh,” esclamò mia madre, alzando lo sguardo. “Mettiti la fascia, che ti sta tanto bene.”
“Sembra un pirata con quella fascia, Malia.”
“Non dire sciocchezze, Conrad, gli sta tanto bene.”
Sospirai e lasciai i miei genitori al loro piccolo battibecco; ma comunque mi legai i capelli come papà mi aveva detto e indossai la fascia che mamma mi aveva consigliato. Non avevo mai provato imbarazzo per i miei capelli inusuali, per quanto alcuni storcessero il naso, ma l’idea di giungere innanzi al Re mi metteva incredibilmente a disagio.
“Sono abbastanza decente, secondo voi?” Domandai tornando nella sala da pranzo.
I miei mi guardarono attentamente, poi si guardarono l’un l’altro e poi, in contemporanea, si strinsero nelle spalle.
“Ci accontentiamo,” rispose mio padre.
“Non è colpa tua se non hai ereditato il fascino dei tuoi genitori,” commentò mia madre.
“Sé,” sbuffai, scuotendo il capo mentre loro ridevano. “Non siete divertenti, comunque.”
“Non preoccuparti, stai benissimo,” mi rassicurò mamma. “E poi il Re ti conosce già…”
“Una cosa è conoscermi come il figlio di una delle sue Guardie, però, ed un’altra conoscermi come l’insegnante della sua unica figlia finalmente ritrovata,” feci notare io.
“Sta’ tranquillo, vedrai che andrà tutto bene,” insistette lei. “Ma vai, perché farti attendere dal Re è una pessima idea.”
Annuii, più per dare sicurezza a me stesso che per acconsentire a quelle parole, poi sospirai.
“Vado,” mi dissi, decidendomi finalmente ad uscire di casa.
 
Grazie al teletrasportatore, praticamente ad un passo da casa mia, ero davanti al castello solo una ventina di minuti dopo aver lasciato casa; per colpa del teletrasportatore, però, passai dieci minuti seduto all’esterno della stanza di trasporto con la testa tra le gambe e lo stomaco in subbuglio.
“Capita a molti, la prima volta,” mi rassicurò la guardia, senza però nascondere l’espressione divertita con cui mi guardava. “Vedrai che ti abituerai.”
Grugnii con tono affermativo, ma non avevo neanche la forza di esprimermi a parole.
“Ryan, su, il Re ti aspetta,” continuò lei, spingendomi delicatamente con la base della lancia.
Inspirai ancora profondamente e finalmente mi alzai. Il mondo vorticò furiosamente attorno a me per qualche istante, ma poi si stabilizzò.
“Buonagiornata,” mormorai alla guardia, con voce roca.
La donna rispose al mio saluto con un cenno cortese del capo e un sorriso divertito in viso. Non aspettò neanche che mi allontanassi di molto prima di cominciare a ridere con il suo collega ed io mi sentii avvampare, ma cercai di non curarmene troppo e di concentrarmi sul mio obiettivo.
Il castello si ergeva su quasi la totalità della superficie dell’isola, di modo che tre dei suoi lati finissero direttamente sul confine dello scoglio e soltanto davanti alla facciata ci fosse uno spazio, neanche troppo ampio, con un piccolo giardino ben curato e il gazebo in pietra che conteneva il portale.
Per questo motivo, quando fui abbastanza lontano da non sentire più la risata delle guardie del portale fui anche abbastanza vicino da sentire le parole delle guardie al portone.
Nessuno dei due uomini mi era familiare, ma non era strano. Sebbene mio padre facesse parte delle Guardie Reali sin da ragazzo, io personalmente non mi ero mostrato spesso a corte.
“Non m’interessa,” stava dicendo uno dei due, una mano alzata al viso per sfiorarsi delle profonde ferite d’artiglio e i denti digrignati. “Se devo ancora avvicinarmi a quella cagna…”
Il suo collega mi notò in quel momento e batté una mano sulla spalla dell’altro per farlo zittire, indicandomi poi con un cenno del capo.
“Buonagiornata,” salutai con cortesia, fingendo di non aver sentito nulla di quel piccolo sfogo. “Il Re ha richiesto la mia presenza. Sono Ryan.”
Le due guardie si lanciarono appena un’occhiata, poi quella ferita parlò, un’espressione seccata in viso e la lancia poggiata alla spalla con fare annoiato.
“Ryan chi?” Mi chiese con tono acido.
La domanda mi colse totalmente impreparato e non seppi cosa rispondere. Sarei certo rimasto lì a lungo, se non avessi avuto un aiuto dall’interno.
“Ryan!” Mi chiamò qualcuno dall’interno del castello, affrettandosi verso di noi, un sorriso ampio in viso. “Ti stavamo aspettando.”
Chi mi stava venendo incontro, scivolando facilmente tra le due guardie per accostarsi a me, era Bryn, cugina di non so bene quale grado di mio padre e valletta del Re.
“Papà mi ha detto che il Re mi cercava e sono venuto subito…”
“Hai fatto bene, il Re ha molta urgenza,” confermò Bryn, facendomi cenno di seguirla mentre tornava dentro il Castello.
Le due guardie si fecero da parte evidentemente malvolentieri, ma di certo non si opposero.
“Ma chi sono quei due?” Domandai a bassa voce a Bryn quando fummo abbastanza lontano.
“Oh, non far caso a loro, vengono dall’esercito, sono un po’… strani…” Mi rassicurò lei.
Fu impossibile, a quel punto, non collegare l’uomo ferito alla persona di cui papà mi aveva parlato solo poco prima.
“Slane?” Chiesi, cercando di ricordare il nome che mi era stato detto.
“Skene,” mi corresse Bryn, lanciandomi un’occhiata curiosa, un’implicita domanda su come fossi a conoscenza del suo nome.
“Papà mi ha detto che una guardia dell’esercito è stata attaccata da uno dei levrieri de Re, questa notte,” risposi io.
Notai l’irrigidimento di Bryn solo perché stavo osservando con attenzione le sue reazioni. Se anche la discussione a tavola con i miei non mi avesse riempito di dubbi, di certo l’avrebbe fatto vedere Skene: le sue ferite non erano affatto riconducibili ad un levriero.
“Già,” rispose brevemente. “Aspetta qui, avviso il Re che sei arrivato.”
Non mi ero neanche reso conto che, parlando, eravamo arrivati fino alla Sala del Trono. Annuii a Bryn, seguendola con lo sguardo mentre entrava nella stanza. Non avevo avuto molto modo di pensare, da quando avevo saputo che il Re voleva vedermi e dovetti impegnarmi per continuare a non farlo. Mancava ormai poco per sapere esattamente cosa volesse da me, non era il momento giusto per perdermi nelle mie teorie, mi sarei solo ritrovato con troppa ansia per rimanere lucido.
Le porte si riaprirono dopo quella che mi sembrò un’eternità e Bryn mi fece cenno di entrare.
La Sala del Trono era certo di quanto più immenso io avessi mai visto in tutta la mia vita. Molto più lunga che larga, era un infinito rettangolo arredato da quanto di più lussuoso esistesse nell’intero Regno: il tappeto rosso acceso che, dalla porta, portava sin ai tre troni in fondo alla stanza era stato portato lì dall’angolo più estremo del mondo; e le pareti erano decorate da arazzi intessuti in seta e filo d’oro dalle mani dei migliori artigiani del Sud; i tre troni erano pure opere d’arte, maestose costruzioni in oro e pietre preziose che si diceva luccicassero perennemente, anche nel buio totale.
Re Leopoldo, altero e magnificente sul trono centrale, indossava abiti tanto ricchi che ne avevo visti di simili solo alle cerimonie, ma fu Regina Katarina a levarmi del tutto il fiato. Era cosa ben nota che le donne della famiglia della Regina fossero state benedette da tempi immemori di incedibile bellezza, ma comunque non ero preparato per ciò che mi trovai di fronte: gli occhi della Regina, zaffiri brillanti incastonati in un viso di alabastro, si fissarono su di me come se potessero guardarmi attraverso e le sue labbra, piccole e rosate, erano appena schiuse in un dolce sorriso che mi scaldò lo stomaco.
Mi resi conto di essere rimasto bloccato a guardarla solo quando Bryn, schiarendosi la gola, mi riscosse dai miei pensieri. Mi sentii avvampare di imbarazzo, per la seconda volta nel giro di pochi momenti.
“Miei Signori,” mormorai dopo quell’infinito silenzio, inchinandomi profondamente davanti. “Sono mortificato, io…”
“Non scusarti, Ryan,” mi rassicurò con tono gentile la Regina. “È la prima volta che ti trovi alla nostra presenza, non è forse vero? È reazione comune.”
“Vorremmo ringraziarti per aver accettato il nostro invito tanto repentinamente, Ryan… certo tuo padre non può essere tornato a casa molto tempo fa,” si intromise il Re, cambiando nettamente discorso; cosa per cui gli fui immensamente grato.
“Sono venuto appena mi è stato comunicato il Vostro desiderio di vedermi, Sire,” risposi con lo sguardo fisso sul pavimento. “Mi sono sentito molto onorato dalla Vostra richiesta.”
“Siamo noi onorati che tu sia venuto,” ribatté il Re, ma aveva un certo tono frettoloso in quello scambio di cortesie. “Ryan, tu sei un pedagogo attestato, non è forse vero?”
“Sì, mio Signore,” confermai, senza scendere nei dettagli.
Non c’era bisogno che il Re e la Regina sapessero che avevo l’attestato solo da due anni e che non mi ero mai concretamente occupato dell’educazione di qualcuno, non se davvero mi avevano chiamato lì per occuparmi della Principessa.
“Ma hai studiato anche come guardia, vero?” Chiese ancora lui. “E continui ad allenarti, direi…”
“Sì, mio Signore,” confermai nuovamente. “Per due anni interi ho seguito l’addestramento, prima di rendermi conto che non era ciò che desideravo fare della mia vita e cominciare invece gli studi di pedagogia. Ma tuttora cerco di ritagliarmi un po’ di tempo per mantenere una buona attività fisica.”
Cosa che non mi risultava affatto difficile, data la totale mancanza di lavoro.
La mia risposta fu seguita da un lungo silenzio, così mi azzardai ad alzare lo sguardo per cercare di capire dalle espressioni dei miei Signori cosa stessero pensando. I Regnanti erano rivolti l’uno verso l’altra e sembrava stessero intavolando un’intera discussione solo con gli sguardi. Poi il Re si volse nuovamente verso di me, annuendo appena.
“La Principessa Lisabelle è stata lontana da un essere umano per l’intera sua vita, disgraziatamente, e questo ha limitato le sue capacità di apprendimento. Per questo vorremmo che tu ti occupassi della sua educazione.”
Cercai di contenere il sorriso che minacciava di spalancarsi fin troppo entusiasta sul mio viso, limitandomi ad annuire e ad inchinarmi di nuovo.
“Sarà un grande onore per me accettare questo incarico, mio Signore.”
Il re mormorò qualcosa che non compresi, qualcosa che sembrava stranamente simile ad un ‘vedremo’, ma non ebbi modo di chiedergli di ripetersi perché lui stava già facendo cenno di avvicinarsi ad una delle guardie, dotate persino di elmo, ai lati del trono. Questa mi si avvicinò, porgendomi una grossa chiave dorata.
“È la chiave della stanza della Principessa,” mi spiegò il Re. “Bryn ti indicherà la strada.”
Accanto a me, Bryn si inchinò profondamente e poi si avviò con passi decisi alla porta. Mi inchinai a mia volta e mormorai un saluto educato ai Regnanti, poi mi affrettai a seguirla.
La chiave che mi era stata consegnata pesava tra le mie dita, ma, nello stesso momento, mi alleggeriva l’animo come solo il ricevere l’attestato da pedagogo era riuscito a fare prima. Finalmente avrei potuto dimostrare le mie capacità e non con uno studente qualsiasi, ma con la Principessa di Erdner, una possibilità che certo qualsiasi altro pedagogo avrebbe voluto avere.
Ero talmente preso dall’entusiasmo che mi ero facilmente dimenticato di tutto il resto: delle urla di cui mi aveva parlato mio padre, delle strane ferite di Skene; persino il fatto che il Re avesse scelto me al di sopra di ogni altro pedagogo mi sembrò, in quell’attimo, la cosa più ovvia e sensata.
Poi Bryn si fermò al centro di un incrocio di corridoi, indicandomi quello che proseguiva ancora a lungo alla mia destra e che era totalmente deserto, se non per la presenza di una sentinella davanti una delle porte.
“È lì,” mi disse, stringendomi con affetto una mano sul braccio. “Buona fortuna.”
Fu il suo tono a congelare del tutto il mio entusiasmo, quel sottotono di preoccupazione che potevo sentire anche nella sua voce educata per anni e anni alla neutralità. La presenza di una guardia davanti alla porta, poi, era facilmente spiegabile ma non era affatto rassicurante.
Bryn mi sorrise, a labbra strette, poi mi lasciò lì all’incrocio e si allontanò lungo il corridoio da dove eravamo venuti. Io inspirai profondamente e raggiunsi la stanza di Lisabelle.
“Sono Ryan,” mi presentai. “I Regnanti mi hanno affidato il compito di occuparmi dell’educazione della Principessa.” E dicendolo mostrai anche la chiave, perché desse validità alle mie parole.
La sentinella, una ragazza che doveva avere la mia età, guardò la chiave e poi me. Si soffermò a lungo ad osservare i muscoli che la mia maglia lasciava scoperti, ma con uno sguardo quasi clinico, come se stesse assestandone le effettive capacità.
“Stia attento,” mi disse mentre si spostava dietro di me per lasciarmi libero l’accesso alla porta. Pure in quella posizione, non mi sfuggì il modo in cui mosse la lancia per tenerla puntata contro l’ingesso. Non avevano messo lì una guardia per proteggere la Principessa, ma per proteggere dalla Principessa; e quasi mi passò la voglia di entrare.
Inspirando profondamente, infilai la chiave nella toppa e girai, aprendo lentamente la porta.
Così come Regina Katarina, anche la Principessa Lisabelle era stata benedetta da un’immensa bellezza: i suoi lineamenti dolci e puliti, i suoi occhi azzurri, le sue labbra rosate erano esattamente gli stessi della madre, ma, forse per la giovane età, apparivano ancora più belli. Ma le sue labbra erano tirate all’indietro in un ringhio su denti innaturalmente affilati; i suoi capelli, che su sua madre erano lisci e acconciati in maniera complessa, erano tagliati in maniera casuale; persino le sue unghie, sia delle mani che dei piedi, erano insolitamente lunghe e appuntite, sebbene alcune fossero spezzato.
Più che un essere umano, sembrava una bestia ferale pronta ad attaccare.
“Devo chiudere,” disse la guardia, riscuotendomi. “Se vuole uscire, esca ora.”
“No, no,” risposi, sebbene non sentissi dentro la stessa sicurezza che riuscii ad imprimere alle mie parole. “Resto qui, è il mio compito.”
“Come vuole,” ribatté semplicemente lei e mi chiuse la porta alle spalle.
Il ringhio della principessa sembrò aumentare di intensità.
“Lisabelle,” la chiamai con tono rassicurante ed un sorriso in viso. “Io sono Ryan.”
La risposta fu un semplice ringhio. Provai ad avvicinarmi di un passo, molto cautamente, ma lei non dovette apprezzare perché scattò in avanti, facendo battere i denti in un morso che mi avrebbe certo staccato la pelle dalle ossa con facilità. Il movimento, comunque, mi aiutò a notare la manetta di metallo pesante stretta attorno ad una delle sue caviglie e che le impediva di raggiungere la porta.
Mi sedetti lentamente a terra, approfittando del suo impedimento, cercando di risultare il meno pericoloso possibile.
“Riesci a capirmi quando parlo, Lisabelle?” Chiesi.
Lei ringhiò, facendo scattare di nuovo la mandibola. Io mi ritrovai a sospirare, passandomi le mani sul viso.
“Sarà una lunga cosa…”
 
Ero a casa per pranzo, dopo una lunga mattinata che non aveva portato a nulla.
Mia madre mi lanciò un sorriso da sopra la spalla intanto che lavorava ai fornelli insieme a mio padre, muovendosi attorno a lui con gesti perfezionati in anni e anni di matrimonio.
“Com’è andata?” Mi chiese gioviale.
Io mi accasciai ad una delle sedie, poggiando la fronte sul tavolo, senza neanche provare a non apparire sfinito quanto mi sentivo. Rimasi in silenzio a lungo, ponderando sulla domanda, poi sospirai.
“Hai presente la teoria secondo la quale il linguaggio non è innato, ma viene acquisito dal bambino durante la sua crescita?”
Mia madre rise.
“Certo che la ricordo, Ryan,” mi rispose. “È mia.”
“Beh, la Principessa è la dimostrazione empirica che hai ragione,” rivelai, senza muovermi di mezzo centimetro dalla mia posizione.
“Non parla?” Chiese curiosamente mio padre.
“No e mi ha fatto ben capire che non ha intenzione di cominciare a farlo,” ammisi.
“Oh, quindi siete riusciti comunque a comunicare?” Domandò entusiasta mia madre, affrettandosi vicino a me. “È così interessante, Ryan, devi dirmi tutto! Come avete comunicato?”
Alzai lo sguardo su di lei, sospirando all’interesse pedagogico che potevo vederle brillare negli occhi. Mia madre si era interessata sin da giovane agli studi sulla comunicazione infantile e certo quel mio commento aveva smosso la ricercatrice che c’era in lei.
Mi dispiaceva sinceramente deluderla in quel modo.
“Ringhiando.”
Mamma rimase evidentemente colpita da quella storia, tanto che per lunghi momenti non emise alcun suono, limitandosi a battere lentamente le palpebre, un paio di volte. Fu mio padre a rompere il silenzio.
“Okay,” disse, spegnendo intanto i fornelli. “Perché non ci racconti per bene cos’è successo?”
Sospirai e mi spinsi all’indietro contro lo schienale della sedia, passandomi le mani sui capelli. Ne approfittai per slegarli, anche, con un gesto inutilmente seccato, ma che comunque riuscì a darmi un po’ di sollievo. Anche la presenza dei miei, che si sistemarono seduti ai miei due lati, fu rassicurante.
“I Regnanti mi hanno chiamato per affidarmi l’educazione della Principessa, proprio come sospettavamo,” dissi, cercando di mettere in chiarezza quella mattinata, sia per loro che per me. “L’ho incontrata, anche. La tengono chiusa a chiave in una delle stanze e… non mi sembra strano.”
“Perché ringhia,” propose mio padre ed io mi ritrovai a ridere.
“Fosse solo quello…” mormorai. “Quando mi sono avvicinato ha cercato di azzannarmi. E avrebbe fatto un bel po’ male, ha questi denti affilati da piranha e… e delle unghie lunghissime e altrettanto appuntite. È… non è più un essere umano, è una belva!”
Mamma strinse le labbra e le sopracciglia, certo non apprezzando i termini che stavo usando, ma non disse niente a riguardo. Dopo la descrizione che avevo fatto di Lisabelle, probabilmente li accettava come corretti.
“Quindi hai rinunciato all’incarico?”
“No,” risposi immediatamente a mio padre, senza neanche pensarci un attimo. “La Principessa ha bisogno di qualcuno che la aiuti a ritrovare la sua umanità e sarò onorato di essere quel qualcuno,” spiegai con decisione, ma poi sospirai. “Ma non so da dove partite. Se fosse una bambina, le offrirei dei dolci per spingerla a fidarsi di me, ma dubito che lei li apprezzerebbe.”
Mio padre emise un vago verso assorto, battendo le dita sul tavolo in tono ritmico.
“Quando dobbiamo addestrare i nuovi cani, usiamo la carne,” disse.
“È una ragazzina, non un cane, Conrad!” Esclamò sconvolta mia madre.
“E non può comunque provare ad addolcirla con della carne?” Domandò retoricamente lui, stringendosi nelle spalle.
Mamma scosse il capo con fare incredulo, ma intanto la mia mente già stava andando per la sua strada.
“Beh,” mormorai assorto. “Le Arpie sono carnivore.”
Mia madre strinse le labbra e mi rivolse un’occhiataccia, ma io avevo già preso la mia decisione.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Quando mi presentai davanti alla stanza della Principessa, la mattina dopo, la sentinella mi guardò senza affatto dissimulare la sorpresa.
“Non credevo saresti tornato, Don Ryan,” mi disse.
“Solo Ryan,” la corressi automaticamente. “Non sono sposato.” Poi risposi alla sua implicita domanda. “I Regnanti mi hanno affidato un compito ed io ho intenzione di portarlo a termine,” le risposi. “Quella ragazza ha bisogno di me.”
“Ha bisogno di un tiragraffi,” ribatté lei, ma con tono lieve, come prendesse in giro un’amica. “Comunque,” aggiunse immediatamente. “Io sono Laura.”
“Piacere, Donna Laura.”
“Solo Laura,” mi corresse lei con un sorriso divertito. “Non sono sposata.”
“Allora piacere, Laura,” ripetei con un sorriso. Presi finalmente la chiave da tasca, ma poi mi fermai. “Tu sei sempre qui?”
“Di giorno, sì. La notte c’è una turnazione di tre guardie,” mi rispose, appoggiandosi alla lancia.
“Sai com’è la situazione? Qualcuno è mai con lei? Dorme? Mangia?” Cercai di informarmi.
Laura inspirò e alzò lo sguardo al soffitto, un’espressione assorta in viso mentre rimuginava sulle informazioni da darmi.
“Nessuno viene mai a trovarla di giorno e dubito fortemente che qualcuno venga di notte. I primi giorni, i Regnanti sono venuti per cercare di parlare, ma hanno rinunciato presto. Non so se dorma o quanto dorma… inizialmente passava le notti ad urlare, ora si è calmata, ma non so se questo implichi qualcosa.” Rimase in silenzio un attimo, probabilmente cercando di ricordare l’ultima domanda che le avevo posto, poi annuì. “Mangiare mangia, ma non chissà cosa. Perlopiù le portano carne e pesce cucinati in maniera molto basica. So che hanno provato a darle dei piatti più articolati, sai… mousse, vinaigrette… tutte le cose di cui si nutrono i nobili!” E scoppiò a ridere, voltando appena il capo come volesse inconsciamente nascondere quella risata. “Ma non si è mai mostrata entusiasta di quelli.”
“Okay,” dissi semplicemente, cercando di categorizzare tutte quelle nuove informazioni per farmi un’idea più chiara della Lisabelle attuale. “Un’ultima domanda: hai tu la chiave della cavigliera?”
Laura mi guardò perplessa, ma poi annuì lentamente.
“Sarebbe possibile slegarla?”
“No,” mi rispose immediatamente. “Non senza l’ordine del Re.”
“Neanche se io, come pedagogo della principessa, decidessi che sarebbe meglio che fosse slegata?”
“Non senza l’ordine del Re,” ripeté lei, più lentamente, lo sguardo fisso nel mio.
“Chiaro,” commentai io, per assicurarle che non avevo intenzione di fare di testa mia. “Eventualmente lo ritenessi utile, parlerò delle mie idee al Re.”
Laura mi guardò ancora, ma poi annuì appena, portando lo sguardo sulla porta dietro di lei.
“Pensi che lo sia? Utile, intendo.”
“È ancora presto per dirlo,” risposi, pensando alla cosa più belva che umana che mi attendeva nella stanza. “Credo che, ora come ora, se fosse in grado di farlo cercherebbe di fuggire.”
“Non riesce a immaginare i danni che potrebbe fare,” commentò lei, sfiorandosi distrattamente la mandibola con le dita. Probabilmente stava pensando alle ferite che aveva riportato Slane. “Pensi davvero di poterla… educare? Di poterla rendere di nuovo umana?”
“Non lo so,” ammisi dopo un lungo silenzio, lo sguardo ancora fisso sulla porta. “Vedremo.”
Mi decisi finalmente ad aprire la porta, cercando di ignorare Laura che si muoveva di modo da poter puntare l’arma verso la porta in caso di pericolo. Appena misi piede nella stanza, fui accolto da ringhio di Lisabelle, rannicchiata in uno degli angoli vuoti della sala.
“Ciao, Lisabelle,” la salutai con un sorriso gentile e un tono rassicurante, trattandola, effettivamente, più come una belva pericolosa che come un bambino. Cercai di non sentirmi troppo in colpa. “Io mi chiamo Ryan, ti ricordi di me? Ci siamo visti ieri…”
Non so se si ricordasse di me o no, ma di certo non fece cenno di riconoscermi, limitandosi a mostrare con più decisione i denti affilati. Mi sedetti al centro della stanza, assicurandomi di essere fuori dalla sua portata.
“Ho portato una cosa per te,” le dissi, sebbene non paresse capirmi.
Posai la borsa accanto a me e ne tirai fuori un contenitore di metallo, scoperchiandolo perché l’odore di carne marinata potesse riempire la stanza. Lisabelle annusò rumorosamente l’aria e, mi parve, il suo ruggito si ridusse di qualche tono.
Poggiai il contenitore tra me e lei, di modo che mi fosse abbastanza vicino ma fosse possibile anche per lei raggiungerlo. Lei guardò il contenitore, poi me, ma non si mosse.
“È buono,” dissi, cercando di risultare invitante. “Perché non vieni a provare?”
Non sembrò affatto interessata alle mie parole, ma il suo sguardo si muoveva rapido tra me e la carne, quindi era evidente che il cibo la stesse in qualche modo attirando. Ne mangiai un pezzo io, sperando che questo la rendesse più fiduciosa, ma lei ancora rimase ferma.
A quel punto decisi di prenderne un altro pezzo e glielo mostrai prima di lanciarglielo. Lei si spinse in avanti per catturarlo al volo tra i denti, ingoiandolo senza neanche masticare, ma poi mi lanciò un’occhiata irritata, come se l’avessi in qualche modo ingannata.
“È buono, no?” Mormorai, mostrandole ancora la carne. “E ce n’è tanta qui.”
Lisabelle rimase ferma ancora a lungo, così tanto che mi ero già convinto di aver fallito anche in quel minimo tentativo di connessione, ma poi si avvicinò a me, in maniera incredibilmente lenta. Camminava a quattro zampe, accucciata bassa sul pavimento, i polpastrelli delle mani appena poggiati a terra e uno sguardo attento fisso su di me. Arrivò al contenitore e lo tirò leggermente verso di sé, chinandosi su di esso per inspirare profondamente l‘odore della carne, ma senza mai distogliere lo sguardo da me. Dopodiché, improvvisamente, parve rilassarsi; infilzò un pezzetto di carne con una delle, poche, unghie ancora integre e lo ingoiò con gioia. Poi si aprì in un sorriso che, pur mettendo in risalto tutti i denti affilati che le occupavano la bocca, non dava alcun senso di minaccia.
Mi ritrovai a sorriderle a mia volta.
“Ti piace?” Le chiesi, ma lei si limitò ad emettere un suono incuriosito.
Era evidente che non riusciva proprio a comprendermi e non si era semplicemente ammutolita per rivolta. Il secondo regalo che le avevo portato sarebbe certo stato utile.
Mi schiarii la gola per assicurarmi che la sua attenzione fosse su di me, poi mi poggiai una mano sul petto.
“Ryan,” mi presentai.
Lisabelle guardò la mia mano, poi me, ed emise lo stesso verso.
“Ryan,” ripetei.
“Ryan,” ripeté anche lei, ma arretrò la R nella gola, tanto che il mio nome fu storpiato in un Waian.
“Ryan,” la corressi, prolungando la vibrazione della R contro il palato.
Lei mi guardò ancora, il capo inclinato su di una spalla.
“Rrrryan,” disse, lo sguardo fisso su di me come attendesse un mio commento.
Per un attimo pensai di correggerla ancora, per farle pronunciare correttamente la lettera iniziale, ma era inutile concentrarsi tanto senza sapere bene quali fossero effettivamente le sue capacità vocali, quindi mi limitai a sorridere e ad annuirle. Lei sembrò contenta di aver pronunciato correttamente il mio nome, perché si aprì in un altro ampio sorriso.
Poi si sporse leggermente verso di me, portandosi la mano al petto nello stesso modo in cui avevo fatto io.
“Tcho,” mi disse, facendo seguire a quella sillaba uno schiocco della lingua.
Era evidente che stesse seguendo il mio esempio e si stesse presentando, ma io ero troppo sorpreso per accettarlo davvero. Che non sapesse il nome che i genitori le avevano affidato era normale, dato che era stata portata via dalla culla troppo presto, ma che una belva, un’Arpia, le avesse dato un altro nome era qualcosa di inaccettabile. Non avevano abbastanza intelligenza per darsi nomi.
Lisabelle – Tcho – mi guardò curiosamente, ma poi sorrise.
“Tcho,” ripeté e ancora una volta quel suono fu seguito da uno schiocco che doveva fare ufficialmente parte del nome.
“Tcho,” ripetei, premendo la lingua contro il palato per farla schioccare.
Lei scoppiò a ridere, uno strano suono quasi singhiozzante. Pronunciò di nuovo il suo nome, insistendo sullo schiocco che io non avevo saputo far suonare correttamente. Riprovai, schioccando con più decisione la lingua sul palato, ma lei si limitò a ridere più forte e a lasciarsi cadere stesa sul pavimento, le braccia allo stomaco.
Rideva di me eppure non potevo non sorridere a quella gioia. Finalmente aveva perso quella sua aria da bestia feroce.
“Tcho?” Le proposi, lasciando perdere lo schiocco finale.
Lei mi guardò attentamente, sempre con il sorriso in viso, poi annuì.
“Tcho,” confermò.
“Ho un altro regalo per te, Tcho.” Non riuscivo bene a capire come mi sentissi a chiamarla con quel nome, ma ero piuttosto sicuro che non avrebbe risposto a Lisabelle.
Presi dalla borsa il libro per bambini che mi ero portato. Era per bimbi di età decisamente inferiore a Lisabelle, ma dubitavo fortemente che lei fosse pronta a qualcosa di più. Lo aprii alla prima pagina e glielo spinsi davanti. Lei guardò me, poi il libro, sfiorando con le dita l’immagine.
“A,” pronunciai ad alta voce, indicando la prima lettera dell’alfabeto.
Di nuovo Lisabelle guardò me e poi di nuovo il libro.
“A,” ripeté, seguendo con il dito la forma della lettera.
Annuii, poi le mostrai la lettera successiva.
“B.”
 
Quando tornai a casa, quella sera, mia madre non aspettò neanche che mi mettessi comodo.
“Com’è andata?” Mi chiese, lasciando il totale controllo della cucina a mio padre.
“La carne le è piaciuta,” risposi, sistemandosi seduto al tavolo. “Ed è bastata a farmi apparire come un amico, evidentemente. Quando è entrato il valletto per il pranzo, ha anche provato a mettersi tra me e lui.”
Ripensai alla scena, a Lisabelle che cercava di lottare contro la catena alla caviglia per potersi muovere più vicino a me, le labbra stirate sui denti; e al valletto che cercava di non mostrare il timore mentre poggiava a terra il piatto. Dietro di lui, Laura aveva lanciato un’occhiata alla scena, soffermandosi in particolare sui movimenti della principessa, e poi mi aveva sorriso colpita.
“Ma è splendido!” Commentò mia madre, interrompendo il filo dei miei pensieri. “La fiducia, o, perlomeno, il desiderio di collaborare è necessario per una buona… beh, collaborazione.”
“Siete riusciti a comunicare?” Mi chiese mio padre, senza preoccuparsi del fatto che la pentola di cui stringeva il manico era in fiamme.
“È molto comunicativa,” confermai. “Non solo ha un apprendimento molto rapido dei suoni e della sintassi della nostra lingua, ha anche una incredibile capacità vocale che credo sia dovuta all’apprendimento di una… un qualche tipo di linguaggio delle Arpie.”
“Le Arpie non hanno un linguaggio,” fece notare mio padre con tono perplesso. “Sono poco più che animali.”
“Gli animali hanno un loro linguaggio,” ribatté semplicemente mia madre. “Ma cosa ti fa pensare che la Principessa ne abbia effettivamente appreso uno?”
“Beh, prima di tutto, la Principessa ha un nome.”
“Lo sappiamo,” mi interruppe mio padre prima che potessi fare la vera e propria rivelazione. “Lisabelle.”
“Tcho,” lo corressi, lanciandogli un’occhiata. “Tcho seguito da un qualche tipo di schiocco che non sono riuscito bene a riprodurre.”
“Tcho?” Ripeté mia madre, senza nascondere la sorpresa. “L’Arpia le ha dato un nome?”
“Se non è stata l’Arpia, se l’è dato da sola, ma è chiaro che lo ritiene il suo nome,” confermai.
“Tcho seguito da uno schiocco?” Mormorò pensieroso mio padre. “Mi sembra più qualcosa di inventato che un vero e proprio nome. Dubito che esistano lingue composte da schiocchi.” Poi tacque, lanciando un’esitante occhiata a mia madre. “O sbaglio?”
“Che noi sappiamo no, non esistono,” ammise lei. “Ma non c’è nulla che ne vieti l’esistenza.”
“Non sarebbe un po’ troppo complessa, una lingua simile?” Insistette lui.
“Non più di qualsiasi altra lingua,” mi intromisi io. “Beh, forse più delle altre sì, in effetti. Ma come impari i suoni di una lingua normale, per così dire, così impari quelli di una lingua schioccante.”
“E credi davvero che le Arpie abbiano questa lingua?”
“Cos’hai scoperto esattamente?” Chiese mia madre e mi sorprese che non avesse ancora preso carta e penna per prendersi degli appunti.
“Ho scoperto che il suo nome si pronuncia con uno schiocco e che come ho schioccato io non le andava bene,” cominciai ad elencare. “Che non le viene spontaneo pronunciare la r alveolare, ma riesce a farlo se si impegna, e la stessa cosa vale per la z dolce. Tende a chiudere molto tutte le e.” Ci pensai attentamente, cercando di ricordare se avevo notato altre caratteristiche, ma non me ne venivano in mente.
Nel silenzio, papà spense i fornelli.
“R alveolare? Ripeté confuso.
“Sarebbe la r normale,” gli rispose mia madre, distrattamente, prima di rivolgersi totalmente a me. “È tutto così interessante… stai prendendo appunti, vero?”
“Non molti,” ammisi a mezza voce. “Sono stato impegnato ad aiutarla ad imparare l’alfabeto e poi le prima parole.”
“Dovresti sempre prendere appunti,” mi rimbeccò lei, scuotendo piano il capo.
“Stavo aiutandola,” ripetei.
“Lo capisco, Ryan, ma è un’occasione di studio unica che non possiamo lasciarci sfuggire. Capire esattamente come funziona in questo momento l’apprendimento della Principessa potrebbe aiutarci a capire come aiutare, in futuro, persone che si ritrovano nella stessa situazione.”
“Va bene, prenderò più appunti,” acconsentii e lei parve contenta.

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Capitolo 4
*** Capitolo III ***


Tcho non smise mai di sorprendermi. Il modo quasi istintivo con cui riusciva ad appropriarsi della lingua sembrava andare contro la teoria di mia madre dell’assenza di un linguaggio innato, ma era impossibile prendere Lisabelle come campione, essendo unica.
Era quasi due mesi dopo il nostro primo incontro quando Tcho fece esplodere un’altra bomba.
Io ero intento a riordinare gli appunti che avevo iniziato a tenere sull’educazione della Principessa, mentre lei sfogliava uno dei libri che le avevo dato. Una volta che aveva imparato l’alfabeto, aveva preso l’abitudine di leggere spesso da sola, mormorando le parole straniere tra sé e sé.
Vidi con la coda dell’occhio che mi stava fissando e mi volsi verso di lei.
Aveva il libro aperto tra le mani, ma tenuto alto di modo che fosse proprio di fronte a sé, e passava lo sguardo dal libro a me, con in viso un’espressione concentrata che le avevo visto raramente.
“Cosa c’è?” Le chiesi, ma lei non mi rispose subito.
Rimase ancora qualche momento a fissarmi, poi finalmente si decise a voltare il libro verso di me e a mostrarmi ciò che la incuriosiva: era una foto di mia madre, di quando, ancora giovane, portava lunghi dread proprio come me. Doveva essere stata la somiglianza che tanto ci univa a dare a Tcho quell’espressione tanto perplessa.
“È mia madre,” le spiegai con un sorriso. “Il libro l’ha scritto lei.”
Tcho confermò di aver compreso la mia spiegazione con uno schiocco che pareva venirle direttamente dal fondo della gola, un suono che ormai avevo sentito spesso.
“Come si chiama?” Mi chiese.
“Malia.”
Ancora si espresse con quel verso, sfiorando intanto la foto di mia madre con la punta delle dita, in viso una strana espressione che non le avevo mai visto indossare prima.
“Mia mamma,” iniziò a dire, con voce insolitamente bassa, alzando lo sguardo su di me. “Mia mamma Tzee.”
Era la prima volta che mi parlava di una ‘mamma’, ma era chiaro che si riferisse all’Arpia da cui l’esercito l’aveva salvata – se di salvare si poteva ancora parlare. Le Arpie erano bestie appena dotate di intelligenza, era impensabile che fossero in grado di creare dei legami tanto precisi di madre-figlia. Ma forse era l’umanità di Tcho a spingerla a ricordare in quel particolare modo ciò che l’aveva unita all’Arpia?
Non sapevo davvero cosa pensare.
“Tzee?” Ripetei quindi, semplicemente per non lasciar prolungare il silenzio.
Tcho annuì e ripeté il nome, facendolo poi seguire da due schiocchi che mi parvero uguali, ma potevano essere semplicemente simili. Non era sorprendente che mi avesse proposto il nome semplificato, come prima cosa, perché non era mai stata soddisfatta del modo in cui imitavo i suoi versi schioccati.
“Mamma,” continuò poi a dire, senza guardarmi. “Mamma ora è…” E si lasciò cadere il libro sulle gambe per poter spalancare le braccia, come ad abbracciare l’intera stanza. “Ovunque!”
“Ovunque?” Ripetei, senza riuscire a nascondere la mia curiosità.
“Ovunque,” confermò lei, annuendo anche, con gesto deciso. “Perché lei… uhm…” Batté le dita sul libro mentre cercava le parole migliori per spiegarmi ciò che intendeva. “Lei ora non… non respira più…”
Di nuovo mi sentii mancare il fiato, ma cercai di mantenere un’espressione neutra.
“Lei è… morta?” Le proposi, con il tono più delicato che riuscissi a mostrare.
Tcho rimase in silenzio per un po’, lo sguardo fisso sul paesaggio fuori la finestra, sebbene dalla posizione seduta in cui si trovava potesse vedere solo cielo. Anche se forse il cielo era l’unica cosa che effettivamente le interessasse vedere.
“Morta,” ripeté in un soffio. “Sì.” Inspirò profondamente e batté rapidamente le palpebre. Quando si volse verso di me aveva gli occhi lucidi e un sorriso tremolante in viso. “Ma… è bene…” Disse, sebbene anche la voce le tremasse. “Ora lei è… ovunque.”
Mi mossi senza neanche rendermene conto davvero. L’attimo prima ero seduto poco distante da lei, con un quaderno sulle gambe e la penna tra le dita; l’attimo dopo le ero inginocchiato accanto, le mie braccia strette attorno al suo corpo tanto minuto. Tcho esitò un istante, lasciandosi scappare un piccolo sussulto, ma si mosse prima che potessi decidere di allontanarmi. Si aggrappò con le dita alla mia schiena e strinse tra le labbra la stoffa della mia maglia, premendo il viso contro il mio corpo. Non riuscivo a capire bene quel movimento, a cosa fosse dovuto, ma era chiaro che era qualcosa che le dava conforto, così le lasciai fare ciò che preferiva.
Ripensai alle urla di cui mi aveva parlato mio padre il primo giorno e a Tcho, sola e disperata dopo essere stata portata via dalla madre. Dopo averla vista morire davanti ai suoi stessi occhi, forse.
La strinsi più forte, lasciando che singhiozzasse contro di me.
 
Quella sera tornai a casa che mio padre stava uscendo.
“Hey,” mi salutò mentre si stava infilando la giacca, il suo solito sorriso in viso. “Passata una buona giornata?”
“Poi ti spiego tutto,” gli risposi in tono di promessa. “Intanto posso… posso abbracciarti?”
Ero sempre stato legato ai miei genitori e mia madre non aveva mai smesso un istante di trattarmi come un bambino, abbracciandomi e baciandomi in ogni occasione; ma con mio padre non avevo mai avuto quel rapporto tanto fisico. La mia domanda l’aveva sconvolto, non faceva nulla per nascondere la sua espressione, ma poi dovette vedere qualcosa sul mio viso e mi sorrise, allargando leggermente le braccia.
“Ma certo, Ryan.”
Dopo aver avuto tra le braccia il corpicino di Tcho per gran parte del pomeriggio, abbracciare mio padre era una strana sensazione. Mi chiesi se lei si era sentita allo stesso modo, così protetta.
“Ryan?” Chiamò curiosamente la voce di mia madre.
Cercai di scostarmi da mio padre, ma lui mi tenne stretto ancora qualche secondo prima di permettermi di allontanarmi. Mamma passava lo sguardo perplesso tra me e lui, un sorriso incerto in viso.
“Che succede?” Domandò, avvicinandosi a noi e posandomi una mano sul braccio.
“Nulla,” risposi, cercando di risultare il più rassicurante possibile. “È stata solo una giornata sfiancante.”
“Domani mi racconterai tutto,” disse mio padre e di certo non sembrava una semplice proposta. “Ora devo andare.”
“Certo, non preoccuparti. Ci vediamo domani.”
Mi guardò con una strana espressione, poi lanciò una lunga occhiata a mia madre, tenendo con lei una muta conversazione che non provai a seguire, sebbene potessi immaginare cosa stessero cercando di comunicarsi.
“Buon lavoro, Conrad,” mormorò mia madre, quando conclusero il loro discorso, con il suo solito tono affabile. “Ci vediamo domani.”
“A domani,” ripeté lui, lanciandomi un'ultima occhiata a cui cercai di rispondere con un sorriso.
Lo osservammo uscire e, per qualche istante, mia madre rimase anche in silenzio; ma poi sospirò, passandomi un braccio attorno alle spalle e tirandomi più vicino a lei.
“Che succede, Ryan?” Mi chiese.
Rimasi a godermi l'abbraccio in silenzio per un po', cercando di decidere al meglio cosa dirle del pomeriggio trascorso. Mi scostai da lei per andare in sala da pranzo, abbandonandomi seduto al tavolo. La cena non era ancora pronta.
“Una giornata sfiancante, te l'ho detto,” ripetei, senza sprecare troppa energia nel rendere quella semi-bugia convincente, dato che ero già certo che mamma non si sarebbe accontentata.
“E cos'è successo che ti ha fatto sfiancare tanto?” Domandò infatti. “È da quando eri un bambino che non abbracciavi tuo padre in quel modo.”
Ancora rimasi in silenzio, dandomi tempo e sperando, coscientemente invano, che mamma lasciasse perdere. Inspirai profondamente e mi passai le mani sul viso.
“Io e Tcho abbiamo parlato di sua madre, oggi,” ammisi alla fine.
“Ricorda la Regina?” Chiese quasi incredula mia madre. “Ma era un'infante quando è stata portata via.”
“Non la ricorda, infatti,” risposi. “Abbiamo parlato di Tzee.” Mamma mi rivolse un'occhiata perplessa e schiuse le labbra, ma continuai a parlare prima che potesse pormi l'ovvia domanda. “L'Arpia che si è presa cura di lei in questi anni.”
Il silenzio pesava su di noi come una cappa di lana.
“L'Arpia?” Ripeté lei, con tono insolitamente delicato. “E l'ha chiamata proprio mamma?”
“L'ha chiamata proprio mamma,” confermai. “E con molta decisione. Io... ha visto la tua foto sul libro, le ho parlato un po' di te e lei mi ha parlato di... di Tzee.” Inspirai ancora, cercando di tenere sotto controllo l'emozione. “E mi ha detto che ora sua madre è... ovunque. Perché è morta.”
“È... una credenza molto umana,” mormorò mia madre.
Non era qualcosa a cui avevo fatto davvero caso, ma era vero. Avevamo sempre paragonato le Arpie agli animali, non avevamo mai avuto motivi per fare in modo diverso, ma non c'era niente di animale nel credere che i morti restassero in qualche modo nel mondo. 'È ovunque’, aveva detto Tcho. Intendeva forse dire che, secondo lei, esisteva una sorta di Energia universale a cui gli uomini - le Arpie - tornavano una volta morti?
“Non le ho chiesto molti dettagli,” spiegai, prima che mamma potesse venirmi a chiedere gli appunti che avevo preso a riguardo. “Lei... chiaramente era molto turbata dalla cosa. Ovviamente lo era, sua... sua madre è stata uccisa. Ha passato ore a piangere.” Inspirai ancora, profondamente, ma poi lasciai uscire il fiato in un sospiro che suonava emotivamente stanco anche alle mie stesse orecchie. “Le urla di cui parlava papà il primo giorno... io credo Tcho stesse piangendo la madre.”
“È una cosa orribile,” mormorò appena in un soffio mia madre, una mano premuta contro le labbra e lo sguardo fisso su un punto indefinito della parete alla sua destra. “Quella povera bambina, sola e confusa in un mondo che non le appartiene più...”
“Non so che fare,” ammisi in un soffio quasi disperato, allungandomi sul tavolo per potermi avvicinare di più  a mia madre. “Mi hanno chiesto di educarla, di renderla di nuovo umana, ma... ma io non so se posso fare ciò che vogliono da me. Io non so se posso recuperare Lisabelle da ciò che è Tcho.”
Mamma riportò lo sguardo su di me, improvvisamente di nuovo seria e convinta. Posò le mani sulle mie, stringendole con decisione. Già solo quel contatto e quel calore mi facevano sentire un po' meno disperato.
“Ryan, quella ragazza ha bisogno di te,” mi disse con tono fermo. “Che sia Lisabelle o Tcho, che sia la Principessa o che sia figlia di un'Arpia, questo non conta in alcun modo. Ha bisogno di aiuto e tu sei l'unico che può darglielo.”
“Non so cosa fare, mamma,” ripetei, stringendo le sue mani delicate tra le mie.
“Certo che lo sai,” ribatté lei, il viso addolcito dall'inizio di un sorriso. “Sei stato scelto per un compito incredibilmente delicato perché eri e ancora sei il migliore per esso. Tcho sta facendo passi da gigante con te al suo fianco. Restale vicino, fa' quello che stai facendo e vedrai che tutto andrà bene.”
“Ma non sarà mai la persona che i Regnanti vogliono, mamma. Non sarà mai la Principessa che sa quale forchetta usare per il pesce e si inchina davanti alle delegazioni degli altri regni.”
“Ora non pensare a tutto questo, Ryan,” mi rimbeccò affettuosamente lei, battendomi i pollici sulle mani. “Un passo per volta. Va bene?”
Rimasi in silenzio, cercando di trovare conforto nel calore delle mani di mia madre, nel sorriso che portava in viso, nello sguardo affettuoso che teneva fisso nel mio. Non mi sentivo del tutto rassicurato, né ero convinto che la tranquillità che mostrava sull'argomento fosse del tutto sincera, ma comunque annuii.
“Va bene,” confermai con un sospiro.
Mamma si alzò e si chinò a baciarmi la fronte, poi mi fece poggiare il capo contro il suo petto, mentre mi accarezzava i capelli.
“Andrà tutto bene,” mormorò dolcemente.
Ed io pensai a Tcho e mi chiesi se anche sua madre la stringeva in quel modo, tra le sue ali piumate, se anche quella lingua fatta di schiocchi avesse toni tanto dolci per rassicurarla quando aveva timore.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


“Sei in ritardo,” mi fece notare Laura la mattina dopo, con in viso un sorriso divertito che non riusciva del tutto a nascondere la sua espressione incuriosita.
“Sono dovuto passare dal Re,” le risposi semplicemente.
“Dal Re?” Ripeté lei, questa volta lasciando che la curiosità prendesse del tutto il sopravvento sul suo volto. “Per quale motivo?”
Abbassai lo sguardo sul foglio che avevo tra le dita, piegato e chiuso dalla ceralacca anche se doveva semplicemente raggiungere un'ala diversa dal castello; poi glielo porsi, aspettando che lei lo prendesse prima di risponderle.
“Gli ho chiesto il permesso di far uscire un po' Tcho,” spiegai. “Non le fa bene stare sempre chiusa in stanza.”
“E il Re ha detto sì?” Chiese titubante Laura, sebbene avesse davanti agli occhi la risposta a quella sua domanda.
“Ha acconsentito alla mia richiesta, ma limitando i suoi movimenti ad uno dei giardini secondari, quello dei folletti, qualsiasi cosa voglia dire.”
“È il giardino più piccolo del castello,” mi spiegò Laura, piegando di nuovo il messaggio. “Non ci va mai nessuno, è gestito da un solo giardiniere che però non credo passi più da anni. Sarebbe praticamente un bosco, data la poca cura, se non fosse che è troppo piccolo per poter mai diventare un bosco.”
Annuii, cercando di non mostrare esternamente il disappunto che provavo. Avevo chiesto al Re di fare uscire Tcho per farle prendere aria, per farle sgranchire le gambe e per evitare che, sempre in quella stanza, iniziasse a soffrire di claustrofobia; non perché si muovesse da una gabbia ad un'altra, per quanto questa seconda potesse avere il cielo al posto del soffitto.
“Beh, in ogni caso... se puoi essere così gentile da liberare Tcho e darmi le indicazioni per il giardino...”
Laura rise a quel mio commento, un breve scoppio che riuscì immediatamente a mettere a tacere, sebbene il divertimento non svanì dal suo sguardo, fisso su di me.
“Non sai cosa dice il messaggio?” Mi chiese.
“Che... mi è concesso portare la Principessa in giardino?” Azzardai, confuso.
“Anche,” confermò lei. “Ma, soprattutto, dice che è necessario che siate accompagnati da una guardia. Da me, per essere precisi.”
“Oh,” mormorai, senza riuscire a non sentirmi sciocco per non averci pensato. Non c'era motivo per cui il Re, che teneva Tcho incatenata e chiusa a chiave nella sua stanza, la lasciasse libera di camminare per il castello con solo me a controllarla. “Mi dispiace, non pensavo saresti stata trascinata anche tu in questo...”
“Non dispiacerti, un po' d'aria farà bene anche a me,” mi rassicurò Laura, muovendo vagamente una mano come a scacciare le mie preoccupazioni. “Sarò felice di starvi accanto e sarò felice di liberare la Principessa Lisabelle...” L'utilizzo del nome fu accompagnato ad un'occhiata che mi parve fosse una frecciatina nei miei confronti, ma che svanì troppo in fretta per esserne sicuri. “Ma forse prima è meglio che tu le parli e la rassicuri del fatto che non voglio fare del male né a te né a lei. Non posso non essere armata e non voglio che si senta in pericolo.”
Lanciai un'occhiata alla lunga picca che Laura aveva accanto ed annuii. Tcho era molto diffidente, com'era normale che fosse dopo tutto ciò che le era accaduto, e aveva più volte dimostrato di essere pronta ad attaccare ad ogni minimo segno di pericolo, anche se nell'ultimo periodo mi pareva che si fosse un po' calmata.
“Facciamo che io entro e lascio la porta aperta e le parlo, così puoi liberarla?”
Laura tirò all'indietro le spalle, in un moto di disagio che le vedevo fare per la prima volta, forse non del tutto convinta dell'idea di lasciare la porta aperta, dato che era qualcosa che andava nettamente contro un ordine diretto che le era stato affidato; ma poi annuì, per quanto brevemente, e si scostò dalla porta.
“Però in fretta, mi raccomando,” mi disse, lo sguardo fisso sulla porta.
Le annuii, ma non persi altro tempo, limitandomi ad aprire la porta e ad entrare.
Tcho era stesa pancia sotto sul letto, di traverso di modo che la testa ciondolasse fuori dal materasso, un libro aperto sul pavimento. Alzò lo sguardo su di me e mi sorrise quando entrai, ma poi tornò a dedicarsi alla lettura; almeno fino a quando si rese conto che non stavo richiudendo la porta. A quel punto, alzò il capo di scatto, le sopracciglia strette in un'espressione turbata e lo sguardo che si muoveva tra me e Laura, che era rimasta ferma appena oltre la soglia.
“Buongiorno, Tcho,” la salutai con il solito sorriso e un tono neutro, cercando di farle capire che nulla di male stava succedendo. “Ho pensato che oggi potevamo fare qualcosa di un po' diverso dal solito, che dici?”
Lei non mi rispose, continuando a muovere lo sguardo tra di noi, ma non sembrava neanche intenzionata a partire all'attacco, il che era già una buona cosa.
“Stavo pensando che potremmo uscire, andare a prendere un po' d'aria. Ti va?”
La sua espressione cambiò del tutto a quella domanda. La diffidenza che le contraeva le sopracciglia verso il basso svanì, lasciando il posto ad un evidente senso di colpa che mi lasciò senza parole e che non sapevo come spiegarmi.
“No,” mi rispose, semi-nascondendo il viso nel materasso. “No, non voglio.”
Era una risposta che non avevo previsto. Ero sicuro che la mia domanda sarebbe stata sola una domanda retorica e che lei sarebbe saltata dalla gioia alla possibilità di poter finalmente uscire un po' all'aria aperta e non rimanere costretta nella stanza.
“Perché no?” Domandai, cercando di non mostrare le sorpresa, ma di mantenere un tono interessato.
“Fuori è... brutto,” mi rispose lei, guardando verso la finestra. “C'è... tanta roba. È... tutto... è tutto soffocante, io... non... non voglio. Non mi piace.”
Mi lanciò un'occhiata tanto implorante che, per un attimo, pensai di accettare il suo rifiuto e lasciar perdere del tutto quell'idea; ma non potevo. Tcho aveva bisogno di uscire all'aria aperta, per il suo bene fisico e mentale.
Mi accostai alla finestra della stanza, lanciando un'occhiata al paesaggio fuori: la stanza dove Lisabelle era stata chiusa era sul retro del castello, quindi affacciava direttamente su metri e metri di nulla; in fondo a tutto, si poteva vedere la città. Erdner era davvero una città piena, come Tcho l'aveva descritta, c'erano edifici costruiti l'uno a ridosso dell'altro, ponti e guglie che coprivano la visuale da quasi ogni angolo. Anche dall'altezza dell'isola reale, o forse proprio a causa dell'altezza dell'isola reale, sembrava che tra le costruzioni non ci fosse neanche lo spazio per camminare.
“Capisco cosa intendi,” dissi a Tcho, tornando a volgermi verso di lei. “Ma io non ho intenzione di portarti in città, non devi preoccuparti di questo. Voglio portarti in uno dei giardini del castello, così potrai stare un po' nella natura, con gli alberi e le piante e gli animali...”
“Sì?” Domandò a voce bassa lei, rimanendo semi-nascosta.
“Sì,” le confermai io, sorridendole. “Ti va?”
Tcho rimase in silenzio ancora qualche momento, ma poi annuì, appena appena.
“Ne sono contento,” le dissi, indicando poi Laura con un cenno del capo. “Laura adesso deve entrare per toglierti la cavigliera... non vuole farti del male né vuole farne a me, okay? È un'amica...”
“Okay,” mormorò semplicemente in risposta la Principessa, lanciando a Laura un'occhiata un po' diffidente.
Laura finse di non farci caso e le sorrise mentre entrava nella stanza, la lancia poggiata ad una spalla con un fare quasi distratto che riusciva in qualche modo a farla apparire meno pericolosa.
“Ciao Tcho,” la salutò, accostandosi con passi sicuri ma anche lenti al letto e sedendosi poi sul bordo. “Io sono Laura.”
“Ciao, Laura,” borbottò Tcho, insistendo eccessivamente sulla r, un'abitudine fonetica che ancora non eravamo riusciti ad estirpare.
“Mi allungheresti la gamba, così posso aiutarti con quella?” Domandò cautamente Laura, indicando la manetta che l'altra portava alla caviglia, sebbene non fosse necessario.
Tcho annuì molto lentamente, muovendosi sul letto e sistemandosi seduta, una gamba piegata verso se stessa e l'altra stesa verso Laura. Sempre con la picca in equilibrio contro la spalla, Laura tirò fuori da una delle tasche della sua divisa una piccola chiave metallica e aprì la cavigliera.
“Vorrei,” disse, prima che Tcho potesse iniziare a muoversi com'era evidente volesse fare. “Vorrei poter dare un occhio alla tua caviglia, per assicurarmi che tu stia bene e non ci siano irritazioni o altro.”
Mi diedi dello stupido per non averci pensato personalmente: dato tutto il tempo che Tcho aveva passato con quella grossa manetta di ferro alla caviglia, non era improbabile che ci fossero delle conseguenze, anzi. Sarebbe stato meglio avessi chiesto ben prima il permesso di liberarla, anche solo per qualche ora al giorno.
Tcho mi rivolse un'occhiata incerta, alla domanda di Laura; io le sorrisi e lei annuii, sebbene non molto più convinta, lasciando che la Guardia la controllasse.
Laura prese molto delicatamente il piede di Tcho tra le mani, passando le dita sulla pelle della caviglia con un'espressione di intenso studio.
“Ti dà fastidio?” Chiese, senza alzare lo sguardo. “Ti fa male?”
“No,” rispose Tcho dopo qualche istante.
“Molto bene,” commentò Laura e poi sorrise, lasciando il piede così che l'altra potesse riportarselo vicino. “Stai messa bene, non ci sono danni.”
Ancora lei la guardò, in viso un'espressione che la faceva apparire incredibilmente piccola. Per quanto Laura stesse cercando di essere amichevole, Tcho la vedeva ancora come un pericolo e non si sentiva del tutto a suo agio a starle vicino. Forse si stava preparando per il momento in cui non si sarebbe mostrata più tanto amichevole.
“Giardino?” Chiesi a voce alta, per distrarre Tcho dai suoi pensieri.
“Sì,” mormorò semplicemente lei, alzandosi dal letto per premersi vicino a me, cercando sicurezza e offrendomene nello stesso momento. “Soli?” Aggiunse a voce più bassa, lanciandomi un'occhiata dal basso.
“Laura deve venire con noi,” le risposi, passandole automaticamente una mano tra i capelli per scostarglieli dalla fronte. “È per sicurezza, così che possa proteggerci se qualcosa dovesse accadere.”
Sperai che quella mezza bugia potesse accontentarla; non avevo idea di come spiegarle che Laura doveva assicurarsi che lei non diventasse un pericolo, non senza rischiare di perdere tutta la fiducia guadagnata in quel tempo.
“Io posso,” ribatté però Tcho, con una smorfia quasi offesa.
“Certo che puoi,” confermai. “Ma Laura può darti una mano.”
L'espressione infastidita della Principessa si accentuò, al mio commento.
“Tcho,” la chiamò Laura, accostandosi a noi di mezzo passo pur rimanendo ad una giusta distanza. Tcho si strinse comunque di più a me. “Se dovesse succedere qualcosa, che comunque è un grande se, perché qui al castello siete sicuri... se dovesse succedere qualcosa, tu devi prenderti cura di Ryan, devi assicurarti che lui sia portato al sicuro.”
Rimasi sorpreso da quel discorso e ancora di più quando Tcho parve rilassarsi accanto a me, annuendo appena con un rapido gesto del capo.
“Okay,” mormorò anche, sebbene non sembrasse contenta della situazione.
Non era strano, in fondo: in tutto quel tempo io ero stata l'unica persona a cui si fosse legata e che non vedesse come un nemico, come parte di quelle persone che l'avevano strappata via di casa. Ero il suo unico amico e, forse, l'unica persona che considerasse famiglia.
“Andiamo, allora,” dissi, posando una mano sulla schiena di Tcho per guidarla. “Vedrai che ti piacerà il giardino.”
Laura ci lanciò un'ultima occhiata, poi si avviò fuori, anticipandoci. Rimase in quella posizione avanzata per tutto il percorso, lanciandoci solo ogni tanto delle occhiate da sopra la spalla per assicurarsi che fossimo ancora dietro di lei. Fui contento che il Re avesse imposto la presenza di una Guardia, perché i giardini che stavamo cercando di raggiungere erano alla fine di una lunga strada fatta di svolte, porte e corridoi sempre più piccoli. Tcho mi rimase stretta per tutto il cammino, rispondendo a monosillabi a qualsiasi discorso cercassi di iniziare.
“È dietro questa porta,” disse infine Laura, dopo quelli che mi parvero secoli, fermandosi davanti ad una porta che, sebbene artisticamente decorata, non avrei mai saputo distinguere da tutte le altre che avevamo incrociato sulla strada.”Questo è l'unico ingresso, quindi entro con voi, ma resto sulla porta... e voi potete girare come e quanto volete, va bene?” Si rivolse a me, era ovvio, ma si assicurò anche di lanciare un'occhiata a Tcho per farla sentire parte integrante della discussione.
“Grazie,” le risposi, accompagnando alla parola un cenno d'assenso. “Hai mai pensato di fare la pedagoga?”
Laura non si risparmiò una smorfia, forse approfittando del fatto che potevamo vedere il suo viso solo in parte dato che stava aprendo la porta.
“Detesto i bambini, sono così... rumorosi e capricciosi e lagnosi... preferisco starne ben lontana.”
“Ma sei...” iniziai a dire, bloccandomi immediatamente allo sguardo che mi lanciò da sopra la spalla. In effetti era chiaro immaginarsi quale commento si aspettasse, io stesso mi ero spesso sentito rispondere 'ma sei un uomo' quando avevo deciso di lasciar perdere la professione di Guardia per fare da insegnante. “Brava con Tcho,” conclusi con tono neutro.
“Tcho è grande ed è la prima volta che parliamo,” mi fece notare lei. “Un bambino, o magari anche un figlio... dovrei vederli molto più spesso.”
Avrei continuato a parlarne, ma a quel punto la porta fu spalancata e Tcho emise uno strano singulto che non riuscivo a capire se fosse un vero e proprio singhiozzo o uno dei suoi strani versi che non mi era mai capitato di sentire. Mi volsi verso di lei, osservando i suoi occhi sgranati e le sue labbra schiuse nella sorpresa. Dato tutto il tempo che aveva passato chiusa in una stanza, doveva sembrarle un sogno poter davvero ritrovarsi all'aria aperta; soprattutto perché il giardino era stato lasciato privo di cure, proprio come aveva detto Laura, e presentava una vegetazione piuttosto fitta e molto naturale. A Tcho doveva sembrare quasi casa.
“Puoi entrare, sai?” Le dissi, cercando di mantenere una certa nota di levità nella mia voce, premendo leggermente la mano sulla sua schiena per spingerla verso la porta.
Tcho mi fece resistenza per qualche istante, ma poi sul suo viso si aprì un sorriso che parve illuminare l’intero corridoio e si gettò in corsa oltre la porta.
“Non c'è niente di pericoloso, vero?” Chiesi, lanciando un'occhiata a Laura, che rise.
“È il giardino più minuscolo che abbiamo ed è all'interno del Castello Reale,” mi fece notare. “La cosa più pericolosa lì dentro è Tcho!”
Annuii, oltrepassando a mia volta l'uscio. Laura certo non mentiva quando diceva che il Giardino era il più piccolo, ma il modo in cui era stato lasciato andare, il modo in cui i cespugli erano cresciuti tanto da coprire la visuale e gli alberi si erano riempiti di fogliame al di fuori di forme precise; tutto questo lo faceva sembrare infinito. Avevo già perso di vista Tcho, sebbene le sue risate si sentissero ancora chiaramente.
Laura chiuse la porta dietro di noi e mi volsi a guardarla, sorridente e pacifica, assolutamente non pericolosa anche con la picca poggiata alla spalla.
“Grazie per aver usato il nome Tcho,” le dissi, rendendomi conto solo mentre lo dicevo che era qualcosa per cui ero sinceramente grato. “Non ci ho pensato a dirti di chiamarla così invece che Lisabelle, sarebbe stato del tutto comprensibile se tu avessi usato quel nome.”
“Nel caso, l'avrei chiamata Principessa, non posso mica andare in giro a chiamare un membro della famiglia reale col nome proprio,” ribatté Laura con tono canzonatorio ed espressione divertita. “E poi sei tu il pedagogo, se tu la chiami Tcho, io ti seguo,” aggiunse, stringendosi nelle spalle come fosse la cosa più ovvia del mondo. Forse lo era.
“Beh, grazie comunque,” ripetei. “È davvero importante per lei.”
L'espressione di Laura mutò in qualcosa di più serio, a quel punto, i suoi occhi si fissarono su di me in un modo scrutatore che mi mise a disagio, per qualche istante. Fece per parlare, pronunciando il mio nome, ma fu interrotta dal grido di pura gioia di Tcho, che distrasse entrambi.
“Ryan!” Mi chiamò ad alta voce Tcho, senza neanche curarsi di pronunciare la R correttamente. “Qui!”
“Devo...” iniziai a dire a Laura, ma lei stava già muovendo una mano nella direzione da cui provenivano le urla.
“Vai, la tua protetta ti aspetta.”
Annuii appena, cercando di levarmi dalla mente l'espressione tanto seria di Laura.
Nonostante la vegetazione fitta, era piuttosto facile muoversi all'interno del Giardino e non ebbi difficoltà alcuna a ritrovare il punto in cui Tcho si era fermata. Era accucciata a terra, il corpo chinato in avanti nello spazio lasciato libero dalle gambe aperte, in una posizione che riusciva a farmi dolore anche solo guardandola, ma che non pareva affatto disturbare lei. Non si volse neanche a guardarmi, quando mi avvicinai, la sua attenzione totalmente presa da qualcosa che aveva visto più lontano: un uccello bianco e rosa che, ignaro di tutto, si stava ripulendole piume.
“Tcho?” Provai a chiamare, ma lei mi lanciò appena un'occhiata, immediatamente tornando a fissarsi sul pennuto.
Mosse le spalle in un movimento rotatorio che rese particolarmente evidenti le sue scapole, poi tese i muscoli della schiena, come cercando di allargarla. Fu un’azione che non riuscii a definire né a comprendere finché non ripensai alle Arpie: ali, immaginai, Tcho stava spiegando le ali che non possedeva.
Cercai di chiamarla ancora una volta, ma non ne ebbi il tempo.
Tcho scattò in avanti con un mezzo salto e un gesto fulmineo, emettendo un verso molto vicino ad un ruggito, e cercò di agguantare l'uccello; riuscì ad afferrarne la coda, stringendola forte tra le dita, ma quello riuscì comunque a liberarsi con uno starnazzo, lasciando dietro di sé un bel po' di piume. Tcho fece scattare la mandibola in un morso, sebbene il pennuto fosse già troppo lontano, ma poi scoppiò a ridere, lasciandosi cadere sulla schiena.
'La cosa più pericolosa qui è Tcho,' aveva detto Laura; e non sbagliava.
“Ti diverti?” Domandai, accostandomi di un passo, ma Tcho si era già distratta, lasciandosi attirare dalle piume perdute.
“Guarda!” Esclamò con gioia, raccogliendone il più possibile e poi mostrandomele.
“Sono belle,” confermai, sorridendole. “Ti piacciono le piume?”
“Sì!” Rispose lei con entusiasmo, saltando in piedi e lanciandole per aria, ridendo mentre le ricadevano addosso. “Mia mamma,” iniziò a dire, quando quel giochino fu terminato. “Mia mamma ha tante piume!” E annuì, anche, come volesse dare concretezza alle sue stelle parole. Spalancò le braccia. “Ha... ali. Grandi ali! E poi... e poi in testa...” Si passò le mani tra i capelli, lanciandomi un'occhiata confusa.
“Un copricapo?” Le proposi. “Un cappello?” Aggiunsi quando lei non parve comprendere.
“Sì!” Mi rispose, di nuovo illuminandosi. “E su il corpo. Tante piume! Bianche!”
Nel parlare si era chinata di nuovo a raccogliere le piume, ma questa volta non le lanciò. Si avvicinò a me, cercando di spingermene alcune tra i capelli, compito piuttosto facile grazie ai miei dread.
“Arpie hanno tante piume,” mi rivelò come fosse un grande segreto, con espressione seria. “Però io no. Io sono... strana.”
Non sembrava turbata da quella parola, forse non comprendendone esattamente le implicazioni, ma mi ritrovai comunque a scuotere la testa.
“Non sei strana, Tcho,” le dissi, sorridendole.
“Sì,” ribatté semplicemente lei. “Però okay,” aggiunse immediatamente. “Mamma mi ha nel cuore uguale.”
Si scostò da me, evidentemente soddisfatta del lavoro che aveva compiuto sulla mia capigliatura. Le presi le piume dalle mani prima che potesse allontanarsi troppo, cominciando a sistemargliene tra i capelli come lei aveva fatto. Parlare di Tzee rattristava probabilmente più me che Tcho, che sembrava del tutto rassicurata dal fatto che essendo morta sua madre fosse 'ovunque’, ma volevo comunque fare qualcosa di carino per lei.
“Tua madre ti voleva davvero tanto bene,” mormorai.
“Sì,” confermò lei, sorridendomi. “Una volta, le altre Arpie dicono: tu scegli, noi o Tcho. E mamma dice: okay. E sceglie me.” Aveva in viso uno di quei sorrisi tanto ampi da farti male alle guance e io cercai di risponderle con un sorriso che fosse altrettanto sincero.
Tzee aveva abbandonato le altre Arpie per poter stare con sua figlia; e noi l'avevamo uccisa. Non riuscivo a sentirmi troppo allegro.
“Ecco,” dissi quindi, per cambiare discorso, scostandomi da lei per osservare meglio le piume che le avevo intrecciato tra i capelli. “Ora hai delle piume anche tu.”
Tcho si portò le mani ai capelli, toccandoli con mano delicata, curiosamente. Quando sentì la consistenza delle piume sotto la dita, si aprì in un altro di quegli immensi e luminosi sorrisi; poi mi si gettò addosso, spingendo il viso contro il mio petto e aggrappandosi alla parte di dietro della mia maglia.
“Grazie,” mormorò, la parola soffocata per metà dalla stoffa. “Ti ho nel cuore.”
Inspirai profondamente, passandole le braccia attorno al corpo per stringermela di più contro.
“Ti ho nel cuore anch'io.”
 
Tcho dormicchiava quando la salutai, quella sera, rannicchiata sotto le coperte con un sorriso contento in viso e ancora le piume tra i capelli.
“Ci vediamo domani,” le dissi, chinandomi a baciarle una tempia.
“Andiamo in giardino ancora?” Mi chiese lei, con gli occhi già chiusi.
“Sicuramente,” la rassicurai. “Forse non domani, ma di sicuro ci torneremo.”
“Okay,” mugugnò Tcho. “Ciao.”
“Ciao…”
Mi chinai a lasciarle sul viso un altro bacio, poi mi scostai e andai a raccogliere le mie cose.
Salutai Laura con un cenno del capo, mentre uscivo, ma lei prese per il braccio appena finii di chiudere la porta dietro di me.
“Cosa sai della sessualità delle Arpie?” Mi chiese, senza alcun preambolo.
“Ses… cos.. ma di che stai parlando?”
Non c’era certamente niente di dignitoso in me, in quel momento, dato il modo in cui cominciai a balbettare, ma la domanda di Laura mi aveva colto talmente di sorpresa che non ero riuscito neanche a fingere di avere tutto sotto controllo.
“Sto parlando di Tcho, Ryan, di che altro?” Mi rispose lei, scuotendo il capo. “La stiamo tutti trattando come una bambina, perché, mentalmente, ci appare così. Forse mentalmente è una bambina anche per le Arpie, magari sedici anni sono pochissimi per loro, non lo so. Ma fisicamente, lei è umana come me. E, credimi, sedici anni per una ragazza sono decisamente abbastanza per iniziare ad avere certi desideri.”
Sospirai profondamente, passandomi una mano tra i capelli, sentendo tra le dita la piumetta che Tcho mi aveva offerto.
“Hai ragione, non ci ho proprio pensato,” ammisi. “Tu che sai dirmi sull'argomento?”
“Sull'argomento della sessualità femminile?” Mi canzonò in risposta Laura, inarcando divertita le sopracciglia, ma poi tornò seria senza che io dovessi dirle nulla. “Non so davvero che dirti, sinceramente,” mi rispose, lo sguardo un po' perso nel vuoto mentre rifletteva. “Probabilmente ne sapresti più tu che noi, sei tu che sei sempre con lei.”
“E riguardo il suo...” Mossi una mano, sperando che un gesto vago potesse finire la frase per me, ma Laura non sembrava comprendere ciò che intendevo dire. “Il suo ciclo?” Conclusi quindi, cercando di non mostrarmi troppo imbarazzato.
Avevo studiato per occuparmi di bambini, lo sviluppo sessuale non avrebbe mai dovuto essere un mio problema.
“Bella domanda,” ammise lei. “Non è mai stato trovato sangue sulle coperte, che io sappia, e Tcho di certo non ci ha mai chiesto un aiuto di qualche tipo. Anche in questo, ha più senso che sappia qualcosa tu che noi.”
“Non è mai uscito in mezzo il discorso,” mormorai, anche se suonava debole anche alle mie stesse orecchie: non era mai uscito in mezzo il discorso perché io non avevo mai pensato potesse essere utile parlarne. “Domani cercherò di capire se ha bisogno di qualcosa, da questo punto di vista.”
“E se mai decidesse che non se la sente di parlare con te perché sei uomo, c'è sempre tua madre,” mi fece notare Laura.
“Non te?” Chiesi; e lei arricciò il naso in una smorfia.
“No, non ho proprio voglia di parlare di certe cose, sinceramente. Sono un po' affari miei.”
“Vero,” confermai, sorridendole. “Beh, comunque ci penserò domani. Buonanotte, Laura.”
“Buonanotte, Ryan,” mi rispose lei, portandosi una mano alla fronte in un vago saluto militare.

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Capitolo 6
*** Capitolo V ***


Avevo passato la notte a rigirarmi nel letto ripensando a tutto ciò che era successo durante la giornata, dormendo poco e male, svegliandomi ad ogni istante senza capirne i motivi. Fu quella pessima nottata a farmi venire una di quelle idee che possono venirti solo nel cuore della notte, con appena un paio di ore di sonno sulle spalle, perché durante la giornata sembrerebbero troppo sciocche.
Non saprei dire neanche cosa mi spinse a ritenerla una buona idea, a pensare a qualcosa del genere. La mattina dopo, prima di andare verso l'isola Reale, attraversai il ponticello per andare a bussare alla porta di fronte.
Fu Donna Ruth stessa ad aprirmi, un sorriso bonario in viso.
“Ryan, caro,” mi salutò, battendomi una mano sul braccio. “Che bello ricevere una tua visita. Vuoi entrare, fare colazione con me?”
“In realtà non ho molto tempo, mi aspettano al castello,” ammisi con un sorrisetto colpevole. “Sono una persona orribile e sono passato solo per chiederti un favore...”
“Oh, Ryan, puoi chiedermi tutti i favori che vuoi, lo sai,” ribatté con una mezza risata lei. “Dimmi pure tutto ciò che di cui hai bisogno.”
“Grazie, davvero, non avrei saputo a chi chiedere,” iniziai a dire, tirando fuori dalla tracolla le foto e le immagini che avevo raccolto durante la notte. “Mi servirebbe un vestito, per... per una mia amica.”
“Mh-hm,” commentò solo Donna Ruth, prendendo tutti i fogli che le porgevo.
Li osservò attentamente, in silenzio, un sopracciglio inarcato. Io cercai di non farmi prendere troppo dal disagio, anche se era difficile quietare i nodi che sentivo nello stomaco. Donna Ruth mi aveva praticamente cresciuto e le volevo bene come fosse parte della mia famiglia, ma sapevo bene quanto fosse strana la richiesta che avevo appena fatto.
“Ryan, caro, sai che ho un'età, ormai, e che i miei occhi non sono più buoni come una volta,” disse lei, lanciandomi un'occhiata. “Ho questa strana impressione di star guardando immagini di Arpie, ma non è così, non è vero, Ryan?”
Esitai, osservando le numerose immagini di Arpie in diverse situazioni che Donna Ruth teneva ancora tra le mani.
“No?” Azzardai, cercando di imprimere nella voce il tono più angelico che mi riuscisse.
“Ma certo, sarebbe stato decisamente troppo strano se tu mi avessi chiesto di cucire un vestito da Arpia per una tua amica, non è vero?” Insistette lei.
“Infatti,” confermai io.
Donna Ruth mi guardò, annuendo lentamente, poi mi sorrise.
“Bene, buona giornata, Ryan caro. E buon lavoro.”
Fece per richiudere la porta, ma io rimasi fermo lì, immobile. Si stava portando in casa anche le foto che le avevo dato, ma non avevo neanche capito se aveva accettato o no di aiutarmi con quel piccolo progetto. Lei dovette notare la mia confusione, perché sospiro.
“Ci vorrà qualche giorno per farlo bene, va bene?” Mi chiese.
“Ma certo, tutto il tempo che serve,” la rassicurai, rilassandomi. “Grazie, davvero, non avrei saputo come altro fare.”
“Sei un ragazzo fortunato, Ryan,” commentò lei. “E la tua amica lo è altrettanto, spero lo sappia.”
Pensai a Tcho e al modo in cui solo il giorno prima mi aveva confessato di avermi nel cuore, alle piume che mi aveva messo nei capelli e che io avevo messo a conservare in un libro.
“Credo proprio di sì,” ammisi con un sorriso.
 
“Come nascono le Arpie?” Fu una delle prime domande che feci il giorno dopo.
Tcho alzò curiosamente lo sguardo su di me, emettendo uno schiocco incuriosito.
“I... i piccoli di Arpia, i cuccioli,” cercai di precisare. “Come nascono? Lo sai?”
“Sì,” mi rispose lei, ma poi si accigliò. “Non so se... se posso dire...” Ammise.
“Non importa, a parole tue,” la rassicurai, offrendole il mio migliore sorriso. “Sei brava a farti capire.”
Mi sorrise, incrociando le gambe per sistemarsi più comoda, lasciando perdere il libro a cui si stava dedicando fino ad un attimo prima.
“Quando Arpie sono grandi, vanno via. Sole,” iniziò a spiegarmi, esitando prima di ogni singola parola, le sopracciglia strette in un'espressione concentrata. “C'è... un posto, un luogo... tutte Arpie grandi vanno qui e hanno cuccioli.”
“Tutte insieme?” Chiesi, per assicurarmi di capire bene.
“Sì,” confermò Tcho, ma poi scosse il capo. “No, ma loro no...” Strinse le labbra, emettendo a bocca chiusa un paio di schiocchi che mi parvero assai infastiditi. “I cuccioli non nascono qui. Qui sono solo... uhm... dentro...”
“Ho capito,” la rassicurai. “Le Arpie si incontrano in questo luogo e il bambino comincia a crescere in loro. Ma poi tornano al loro nido per farlo nascere, giusto?”
“Sì,” mi rispose lei, annuendo. “I cuccioli... i bambini,” si corresse immediatamente. “Nascono sempre in il nido.”
“E il padre torna insieme alla madre nel nido?” Chiesi.
“Padre?” Ripeté confusa Tcho, stringendo le sopracciglia.
“L'uomo della coppia,” le spiegai, ma lei parve solo più confusa.
“Tu hai detto... tu sei uomo...” Mi ricordò, riferendosi alla prima delle nostre lezioni. “Cosa...” Esitò, chiaramente cercando le migliori parole per esprimere il suo dubbio. “Perché uomo... uhm... con bambino?”
“Gli uomini delle Arpie non si prendono cura dei bambini?” Le domandai.
Lei si limitò a schioccare ancora in quel modo infastidito, non seppi dire se con me che non capivo o con sé stessa che non riusciva a spiegare.
“Non ho capito cosa è uomo. Credo,” ammise, scuotendo il capo.
“Oh,” mormorai sorpreso. “Beh... uomo è opposto di donna. È una differenza molto profonda, una differenza interiore,” mi assicurai che almeno sembrasse stesse comprendendo le mie parole, prima di continuare. “Per esempio, uomini e donne hanno diversi... noi li chiamiamo organi genitali. Sarebbe quella parte che hai tra le gambe.”
Tcho si portò curiosamente una mano tra le gambe alle mie parole ed io mi affrettai ad afferrare fogli e penne dalla mia borsa. Volevo evitare in ogni modo possibile potesse chiedermi di vedere cosa io nascondevo sotto i vestiti.
“Vedi, le ragazze, le donne, sarebbero le persone come te, hanno quella che noi chiamiamo vagina...” Le feci un disegno molto superficiale in cui potesse comunque riconoscere il suo corpo. “Mentre i ragazzi, gli uomini, ovvero quelli come me, hanno un pene...” E le feci un secondo disegno. “Una donna che ha dei bambini la chiamiamo 'madre’, un uomo che ha dei bambini, invece, lo chiamiamo 'padre’.”
Tcho osservò attentamente il disegno che le avevo fatto, prendendo anche tra le dita il foglio per avvicinarselo di più al viso. Emise quel suo solito schiocco curioso e poi alzò lo sguardo su di me, il capo appena inclinato su di una spalla.
“Solo questo?” Mi chiese.
“Che intendi dire?” Domandai io, osservando il disegno, poi lei.
“Solo questo?” Ripeté lei. “Solo...” Poi batté un dito sulle diverse immagini. “Solo questo?”
“Mi stai chiedendo se sono le sole differenze tra uomini e donne?” Proposi, cercando di capire; ma lei scosse il capo.
“Uomini, donne... basta?”
“Sì, certo,” risposi io, sorpreso alla domanda. “Ci sono solo queste due possibilità.”
“Oh,” commentò semplicemente Tcho, insolitamente confusa dalla mia risposta, guardando ancora il disegno. “Strano.”
“Tra voi Arpie non è così?” Chiesi io dopo qualche istante di silenzio, incuriosito da quella reazione.
“Veramente no,” mi rispose lei, scuotendo anche il capo. “C'è... tanto. In mezzo.”
“In mezzo?”
Tcho mi prese la penna da mano, posandosi il foglio sulle gambe per cominciare a sua volta a disegnare qualcosa: era chiaro che non l'aveva mai fatto prima, ma si impegnò comunque per mettere su carta la rappresentazione di tanti corpi diversi, i cui genitali erano un miscuglio dei due che avevo fatto io.
“Esempi,” mi disse, ridandomi il foglio. “C'è tanto.”
Rimasi a lungo in silenzio ad osservare le immagini che Tcho mi aveva disegnato, soffermandosi ad osservare quella strana accozzaglia di genitali maschili e femminili.
“Come li chiamate, questi così?” Domandai, indicandoli.
“Haah,” rispose lei, stringendosi nelle spalle.
“E questi, invece?” Chiesi, indicando il corpo maschile.
“Haah,” ripeté Tcho, con espressione confusa.
“E anche loro?” Insistetti, riferendomi questa volta alla donna. “Sono tutti 'haah'?” Aggiunsi quando lei si limitò ad annuire.
“Siamo tutti questo,” confermò Tcho. “Haah, Arpie. Lo siamo.”
“Arpie, sì, certo che siete Arpie...” commentai. “Ma quali nomi usate per distinguere queste diverse persone?”
“Dipende,” mi rispose lei, sempre più perplessa via via che parlavo. “Tcho, Tzee...”
“No, mi dispiace, non credo di starmi esprimendo al meglio...”
Sospirai e posai di nuovo il foglio, tenendo ancora lo sguardo fisso su di esso mentre cercavo di capire come spiegare a Tcho quello che mi interessava sapere.
“Io sono Ryan,” le dissi poi. “E sono un umano. Tutti noi lo siamo, è la nostra razza, siamo umani. Ma nel nostro linguaggio le persone che sono fatte così...” Ed indicai di nuovo il corpo maschile che avevo disegnato. “Sono uomini, mentre le persone fatte in quest'altro modo sono donne. Nella vostra lingua non c'è niente di simile?”
Tcho guardò ancora il disegno, ma poi scosse piano il capo.
“Come fate a distinguerli, allora?”
“Sono diversi,” mi rispose lei con tono semplicistico.
“Nudi, sì,” confermai. “Ma come fate a distinguerli quando non lo sono?”
“Perché?” Domandò confusa. “Perché distinguere?”
“Perché è importante saper distinguere,” risposi. “Per esempio, ad alcune persone.. ad alcuni umani piacciono solo persone che non sono come loro... quindi se sono uomini, apprezzano le donne e se sono donne apprezzano gli uomini... come fai se non sai cos'hai davanti?”
“Non lo so,” disse Tcho, ma non sembrava neanche troppo turbata dalla sua consapevole ignoranza.
“E per capire chi può avere figli o no? Non tutti possono portare avanti una gravidanza, avere dei bambini... dentro,” precisai, riutilizzando i termini che lei aveva usato. “Giusto?”
“Giusto,” ammise, annuendo piano.
Annuii leggermente a quella risposta. Forse avevo semplicemente fatto le domande sbagliate, forse esisteva il concetto di 'uomo' e 'donna', ma le Arpie lo legavano molto più alla possibilità di avere figli che agli organi genitali.
“Hanno un nome diverso, quelli che possono avere figli e quelli che non possono averne?” Chiesi.
“No,” mi rispose però lei, semplicemente. “Mamma è mamma perché ha me.”
“Non distinguete coloro che possono avere figli da colo che non possono?” Insistetti.
“No,” ripeté. “Non lo sai...”
La osservai in silenzio, ma poi sospirai, lasciando cadere il foglio.
“Va bene, non importa,” la rassicurai, offrendole anche un sorriso. “Sono argomenti tanto difficili di cui parlare quando si hanno poche parole per esprimersi, non è vero?”
Mi parve poco convinta al mio commento, sicuramente lei era certa di essersi espressa al meglio su quell'argomento, ma si limitò ad annuire.
“A te chi piace?” Mi chiese, chinandosi un po' in avanti per riprendere il foglio tra le dita.
Esitai un istante, ma poi indicai il disegno femminile.
“E a te?” Le domandai.
Tcho rise, poi posò il dito sul foglio e finse di disegnare un grande cerchio che prendesse tutti i vari corpi segnati.
“Davvero? Tutti?”
“Sì,” mi confermò con un sorriso. “E a te no. Strano.”
Non ribattei a quel commento. Con tutto quello che mi stava rivelando sulla vita sessuale delle Arpie, era del tutto normale che Tcho considerasse strano me.
“Quello che le Arpie fanno per avere dei bambini...” cominciai a dire, attirando di nuovo la sua attenzione. “Tu l'hai mai fatto?”
“No,” mi rispose con una smorfia. “Dopo. Forse. Per cuccioli. Ma ora no.”
“Non ti piace l'idea?”
“Non lo so,” ammise. “Ora no.”
“È perché sei molto giovane?” Insistetti. Non era un discorso che desideravo davvero fare, ma era mio dovere occuparmi del benessere di Tcho in ogni ambito. “Le Arpie alla tua età... di solito lo fanno?”
“Non lo so...” ammise, stringendosi nelle spalle. “Mamma dice: non è strano. Però io... sono strana.”
“Va bene, non dobbiamo continuare a parlarne,” mi intromisi subito, con tono rassicurante, sorridendole; ma poi il sorriso mi morì un po'. “Devo farti un'altra domanda, però.”
“Okay.”
“Ti capita mai di...” Cercai disperatamente le parole migliori per esprimere ciò che dovevo esprimere e rimpiansi amaramente di non aver mai avuto una sorella. “Di sanguinare? Da... dalla parte tra le gambe?”
“Uhm... sì,” confermò, con in viso un'espressione confusa e divertita. Forse le pareva assurdo che chiedessi quelle cose.
“Okay... volevamo saperlo perché non ne eravamo sicuri, non abbiamo mai trovato sangue sulle coperte...” cercai di spiegarle, sorprendendomi di quanto poco impacciato apparissi, soprattutto dato il modo in cui mi sentivo.
“Sono brava,” disse semplicemente lei, stringendosi nelle spalle.
“Okay, bene. Ma se... se hai bisogno di qualcosa, puoi chiederla, okay? A me, o a Laura, se preferisci. Quello che vuoi.”
“Okay,” rispose, ma sembrava di nuovo perplessa.
“Okay,” ripetei, poi inspirai profondamente, passandomi le mani sul visto e poi sui capelli. “Bene, direi che possiamo considerare concluso questo discorso.”
“Tu no?” Chiese improvvisamente Tcho.
“Io no cosa?” Le domandai confuso.
“No sangue?” Precisò.
“No,” risposi, scuotendo sorpreso il capo. “No, Tcho, gli uomini non... non sanguinano...” Lei annuì, ma non lasciai cadere il discorso. “Le Arpie sì? Sanguinano anche se hanno... se sono fatti come me?”
“Sì,” disse lei, ma poi la sua espressione si chiuse in un'espressione rammaricata. “I-io non lo so,” ammise con tono più basso. “Io prima credo... credevo... sì...”
Era tanto minuta, con le mani poggiate alle caviglie e le spalle curvate verso l'interno. Tcho, che era un'Arpia tanto strana che sua madre l'aveva dovuta portare via dalle altre Arpie, che era cresciuta del tutto sola. Era difficile dire quanto di quello che mi aveva detto fosse vero e quanto, invece, soltanto frutto di qualche sua confusione mentale.
“Forse lo fanno,” azzardai, sorridendole. “Le Arpie sono tanto diverse dagli umani, in fondo.”
Tcho mi guardò e mi sorrise, assai pallidamente, annuendo appena. Non sembrava affatto convinta.

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Capitolo 7
*** capitolo 6 ***


Qualche giorno dopo, forse una settimana, mi alzai da tavola per avviarmi come mio solito verso l'isola e mia madre si volse verso di me.
“Donna Ruth vorrebbe che tu passassi un attimo da lei,” mi disse con un tono vagamente incuriosito.
“Va bene, passo subito,” confermai, cercando di non mostrarmi entusiasta anche se potevo ben immaginare perché volesse vedermi. “Ci vediamo stasera.”
“Buon lavoro,” mi salutò mamma con un sorriso.
Raccolsi la tracolla che tenevo vicino la porta e me la misi in spalla mentre uscivo. Marilù era fuori la porta di casa, a cercare di fare rimbalzare sassi sul ciottolato, e si illuminò quando mi vide avvicinarsi.
“Ryan!” Esclamò, correndomi incontro per abbracciarmi. “Fai colazione con noi?”
“Devo andare a lavoro, oggi, lo sai,” le risposi affettuosamente, carezzandole i capelli. “Sono venuto a fare colazione da voi solo qualche giorno fa.”
“Ma qualche giorno fa non è oggi,” ribatté Marilù con tono imbronciato. “Non mi piace che lavori, non ci sei mai. Quando finisci?”
Non riuscii a trattenere le risa a quel commento lagnoso. Mi chinai un po' per poter prendere la bambina in braccio, sistemandomela addosso mentre andavo verso casa sua.
“Non saprei, a dire il vero,” ammisi. “Mi sto occupando di qualcosa di molto importante.”
Marilù borbottò qualcosa che non compresi appieno, ma poi si calmò immediatamente, lanciandomi un'occhiata curiosa e un mezzo sorriso.
“La Principessa è bella come dicono?” Mi chiese.
“Anche di più,” le risposi seriamente.
“Mi sembrava di aver sentito delle voci,” commentò Donna Ruth dall'uscio di casa, un sorriso affettuoso in viso.
“Ryan non vuole fare colazione con noi,” si lamentò melodrammaticamente Marilù.
“Ryan verrà a fare colazione da noi qualche altro giorno, Lù. Adesso sta lavorando, lo sai,” la rimbeccò Donna Ruth, dandole un buffetto sulla guancia.
“È ingiusto,” borbottò la ragazzina, ma già non sembrava più tanto turbata.
Si agitò tra le mie braccia fin quando non la misi giù e tornò subito a far rimbalzare i suoi sassolini. La osservai qualche istante, poi mi volsi verso Donna Ruth, con cui scambiai un sorriso affettuoso e divertito nello stesso momento.
“Mamma mi ha detto che mi cercava,” le dissi.
“Esatto, esatto,” confermò lei. “Tienimi d'occhio Marilù io vado a prenderti il vestito.”
“Grazie, davvero.”
Donna Ruth rispose al mio ringraziamento con un semplice gesto della mano, tornando dentro casa. Io mi volsi a tenere d'occhio Marilù, sebbene fosse improbabile riuscisse a fare qualche danno sul ponticello, mentre attendevo il suo ritorno. E mi ritrovai a cercare similitudini tra quella bambina che avevo davanti agli occhi e Tcho: potevo immaginarla bene, a divertirsi a far rimbalzare sassi sulla strada o sull'acqua del fiume; e altrettanto bene potevo immaginare Marilù a correre tra gli uccelli per spaventarli e cercare di afferrarli.
Ma Marilù era davvero solo una bambina, mentre Tcho era ferma in uno stadio intermedio che era difficile da definire.
“Ecco qui,” disse Donna Ruth, distraendomi dai miei pensieri. “È tutto qui dentro.”
Le sorrisi sinceramente, prendendo la scatola che mi stava porgendo.
“Grazie, davvero. Sono sicuro che le farà molto piacere riceverlo.”
“Sono sicura di sì,” mormorò lei, stringendomi poi una mano sul braccio. “Sei una brava persona e un bravo insegnante, Ryan, sono sicura che stai facendo ciò che è meglio per tutti.”
Rimasi sorpreso da quel commento, soprattutto dato il tono tanto emotivo che aveva preso, ma poi annuii lentamente.
“Sto facendo del mio meglio,” mormorai.
Donna Ruth annuì a sua volta, sorridendomi e ancora stringendomi il braccio. Poi si scostò da me.
“Su, vai, non vorrai certo fare tardi, no?” Mi disse, ritraendosi verso casa. “Marilù, non fare guai, lascio la porta aperta.”
“Sì, nonna!” Rispose la ragazzina con tono annoiato.
“Buona giornata, Donna Ruth,” salutai, sorridendole. “Ciao, ciao, Marilù,” dissi anche alla bambina, passandole accanto.
“Buon lavoro!” Esclamò lei, nonostante le fossi accanto, salutandomi con ampi gesti delle braccia fino a quando non lasciai il ponte.
 
Laura guardò curiosamente la scatola che avevo tra le mani, ma non commentò, cosa di cui fui ben grato. L'ultima cosa che volevo era dover spiegare che avevo fatto cucire un vestito da Arpia per la Principessa. I Regnanti erano buoni e comprensivi, ma già potevo sentire l'esilio pesarmi sulle spalle.
“Ho un regalo per te,” dissi a Tcho appena la porta fu chiusa alle mie spalle.
Lei rimase accucciata sul pavimento, con un libro poggiato sulle ginocchia, ma il suo sguardo era fisso su ciò che stavo portando dentro e il capo era inclinato su di una spalla in quel movimento curioso che le era caratteristico. Mi sedetti a mia volta a terra, poggiando la scatola di fronte a me e spingendola leggermente verso di lei.
“Vieni, aprilo.”
Tcho si avvicinò a me con movimenti lenti e quasi diffidenti, alzando un po' il viso per annusare l'aria.
“Non è cibo,” la dissi, senza nascondere il divertimento a quel suo atteggiamento. “Apri e basta, vedrai che ti piacerà.”
Mi ascoltò, finalmente. Si sistemò in ginocchio vicino alla scatola e ne alzò delicatamente il coperchio, lanciando un'occhiata dentro. Si illuminò immediatamente nel vederne il contenuto che in quel momento pareva semplicemente un grande ammasso di piume bianche.
“Non sono solo piume,” l'avvisai prima che potesse decidere di afferrarle e lanciarle in aria, o gettarcisi dentro.
“Cosa?” Chiese Tcho, schioccando curiosamente.
Posò le mani nella scatola, tastando lentamente le piume come a cercare di capire cosa ci fosse nascosto dentro, poi dovette riuscire ad individuare qualcosa di più solido, perché strinse meglio le dita e lo alzò dallo scatolo. Ci fu un momento di caos. Quello che aveva tra le dita era il copricapo, che non credevo Donna Ruth avrebbe fatto, ma doveva essere la cosa messa più sul fondo, perché nello smuoverlo Tcho riuscì a tirar fuori, e a buttarsi addosso, anche il vero e proprio vestito e una sorta di velo piumato che doveva rappresentare le ali.
Tcho guardò confusa tutte le piume che aveva davanti e poi me, gli occhi sgranati e le labbra schiuse in sorpresa.
“Così potrai avere le piume anche tu,” le spiegai, raccogliendo il velo da terra per poggiarglielo sulle spalle.
Lei si ritrasse, istintivamente, ma poi mi permise di sistemare meglio le finte ali e cominciò a sfiorare le piume.
“Mio?” Domandò in un soffio, guardandomi.
“Certo, è tutto tuo,” confermai, sorridendole. “Vuoi che ti aiuti ad indossare tutto?”
“Sì!” Esclamò immediatamente Tcho, illuminandosi.
Si scostò il velo dalle spalle per posarlo molto delicatamente insieme alle altre cose, poi saltò repentinamente in piedi, spogliandosi con tanta rapidità che temetti si sarebbe strappata i vestiti.
“Con calma, Tcho,” la presi in giro, ma lei non sembrava interessata ad ascoltarmi, così mi concentrai sul vestito per capire esattamente come metterlo.
Mi sembrò un semplice body ricoperto di piume, con dietro una zip per rendere più semplice l'indossarlo e il toglierselo.
“Metti questo, poi ti aiuto con la zip,” dissi, porgendole il body e cercando di non guardarla.
Lo prese con estrema delicatezza e se lo infilò senza alcuna difficoltà.
“Aiuto,” mi disse poi, porgendomi la schiena.
Mi alzai per aiutarla a chiudere la zip e poi raccolsi da terra il cappello per sistemarglielo sui capelli, fortunatamente corti. Anche quello era stato fatto su un tessuto elastico, quindi fu facile fare in modo che aderisse bene al capo di Tcho. Come ultima cosa presi da terra il velo, sistemandoglielo di nuovo sulle spalle.
“Tutto fatto,” mormorai, ridendo quando Tcho schizzò immediatamente via da me per guardarsi allo specchio.
“Guarda!” Esclamò, ammirando il suo riflesso, spalancando e poi richiudendo le ali, porgendo le spalle allo specchio per poter guardare il retro e girando poi su se stessa. “Guarda!” Ripeté.
“Sei bellissima, Tcho,” confermai sorridendole.
Scoppiò a ridere presa dall'entusiasmo, e cominciò a vorticare su se stessa, le braccia spalancate e le finte ali che svolazzavano attorno a lei. Sarebbe stato sbagliato dire che assomigliava proprio ad un'Arpia, probabilmente per Donna Ruth era stato già difficile trovare qualcosa che assomigliasse in quel modo a delle ali, ma già solo quello per Tcho era abbastanza.
“Proprio come mamma,” commentò quando si fu fermata, lanciandosi un'altra occhiata allo specchio.
Avevo visto tante diverse emozioni passarle sul viso, nel periodo in cui ero stato il suo pedagogo, a partire dalla furia dei primi giorni fino alla gioia più assoluta. Mai, però, avevo visto quell'espressione di puro orgoglio. Rimase in silenzio qualche momento, ed io con lei, poi si volse verso di me, fissando sul mio uno sguardo incredibilmente serio.
“Se mamma era viva,” mi disse. “Se mamma era viva, ti aveva nel cuore.”
Deglutii, per cercare di inghiottire il nodo che mi si era formato in gola, e le sorrisi.
“Sarebbe stato un onore per me incontrarla,” ammisi a voce bassa, ma poi forzai un sorriso un po' più allegro, per cambiare atmosfera e discorso. “Fammi vedere ancora come si muovono bene le tue ali,” dissi.
Tcho si illuminò di nuovo, riaprendosi in uno di quei suoi immensi sorrisi. Spalancò le braccia e tornò a vorticare su se stessa, ridendo rumorosamente.
Fu una delle giornate più gioiose che passammo insieme.
Era da immaginarlo che sarebbe stato l'ultima.

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Capitolo 8
*** Capitolo VII ***


La mattina dopo, Bryn mi aspettava al portone del castello, cosa che era di per sé un pessimo segno.
“Sua Maestà la Regina Katarina vorrebbe parlarti,” mi disse con tono stranamente ufficiale.
“Okay,” mormorai, cercando di nascondere il mio disagio. “È successo qualcosa?”
Bryn schiuse le labbra, poi le richiuse e si limitò a sorridere, facendomi cenno di seguirla, prima di avviarsi lungo il corridoio. Se già non mi avesse zittito il suo silenzio, di certo l'avrebbe fatto la consapevolezza che non ci stavamo muovendo verso la Sala del Trono, ma in tutt'altra direzione.
Mi era almeno di consolazione notare che non ci stavamo muovendo neanche verso la stanza di Tcho.
Bryn si fermò davanti ad una porta, indicandola con un cenno del capo.
“Regina Katarina ti aspetta dentro, ha chiesto che tu entrassi da solo.”
“Solo?” Ripetei, guardando la porta accanto a noi. “Okay,” mormorai, cercando di darmi coraggio.
Inspirai profondamente e poi bussai. Senza la presenza di Bryn accanto, probabilmente ci avrei messo molto più tempo a convincermi a farlo. Aspettai un assenso da dentro e poi entrai, stampandomi in viso il mio miglior sorriso.
La stanza in cui mi trovai era insolitamente piccola, soprattutto per un incontro con uno dei Regnanti, e non sembrava affatto vissuta. La Regina era sola al suo interno, ferma accanto alla finestra, di modo che la luce dall'esterno le creasse attorno un alone quasi divino. Era bellissima come sempre, forse anche di più, eppure dopo aver visto così spesso i suoi lineamenti su Tcho non mi faceva lo stesso effetto dei primi incontri.
“Mia Signora,” la salutai cortesemente, inchinandomi davanti a lei.
“Ryan,” rispose delicatamente lei, offrendomi un accenno di sorriso. “Grazie per aver accettato il mio invito.”
“È stato un onore a cui non avrei mai potuto rinunciare, Mia Signora,” recitai, lieto di quei necessari convenevoli che allontanavano il momento della vera conversazione.
“Come sta mia figlia?” Chiese però subito dopo la Regina, che non aveva lo stesso desiderio di girare attorno alla questione.
“Bene,” risposi semplicemente. “Faccio delle periodiche relazioni a Laura, la Guardia, credevo che lei...”
“Sì, certo,” mi interruppe lei, fermando le mie parole con un elegante cenno della mano. “Vorrei sentirlo da te, però... sei tu il suo insegnante.”
“Ma certo, Mia Signora,” commentai, cercando di decidere bene cosa dirle. “Il suo sviluppo linguistico sta proseguendo in maniera eccellente. Ha qualche difficoltà con alcuni tempi verbali, in particolare quelli composti, ma è una cosa che sinceramente c'era da aspettarsi. La nostra lingua può essere tanto complessa da questo punto di vista. Ma i progressi che sta facendo sono eccezionali.”
Regina Katarina annuì alle mie parole e parve anche lieta delle informazioni che le stavo dando, ma sembrava anche non fosse poi del tutto interessata alla questione.
“E dagli altri punti di vista?” Mi chiese. “Quando l'esercito l'ha riportata qui ci sono stati... degli incidenti...”
Ammirai il tono neutrale della Regina mentre descriveva sua figlia che graffiava a sangue una delle guardie, ma mi limitai a sorriderle.
“Ovviamente, è ancora diffidente nei confronti degli sconosciuti, ma questo sarebbe normale anche se non prendessimo in considerazione questi quindici anni vissuti in maniera così poco ortodossa,” spiegai a mo' di preambolo, cercando di utilizzare tutta la diplomazia che conoscevo. “Ma le sue reazioni più... intense... io credo sinceramente siano sotto controllo. Ha capito che qui nel Castello non ci sono pericoli da cui deve effettivamente difendersi e questo sicuramente l'ha aiutata a rilassarsi.”
“È davvero una buona notizia,” commentò la Regina, mi parve sinceramente oltre la sua perenne maschera di neutrale cortesia. “Vorrei incontrarla.”
Mi pietrificai, senza riuscire a far nulla per dissimulare almeno un minimo la mia reazione.
Pensai a Tcho, quasi identica alla Regina, che considerava Tzee la sua vera madre, che si considerava un'Arpia strana e non un'umana normale. Cercai di immaginare il risultato di quell'incontro e non riuscivo ad immaginare nulla di positivo. Ma la Regina aveva ogni diritto di voler vedere sua figlia, dopo quasi sedici anni di lontananza e disperazione, e forse a Tcho avrebbe fatto bene iniziare a legarsi a ciò che di umano ancora c'era in lei.
“Ma certo, Mia Signora,” risposi cautamente. “Ma credo che per la sicurezza e il benessere di tutti sarebbe meglio se Lei potesse assecondare alcune mie piccole richieste. Le sembreranno certo strane, ma spero si fiderà di me e del mio desiderio di fare solo ciò che è meglio per la Principessa.”
“Ma certamente, Ryan,” mi rassicurò. “Ti abbiamo affidato nostra figlia perché sapevamo che ti saresti preso cura di lei. Dimmi pure senza timore queste tue richieste.”
“La ringrazio per la fiducia che ripone in me, Mia Signora,” cominciai a dire, sperando che la diplomazia potesse un po' indebolire il colpo che stavo per affibbiarle. “La mia prima richiesta sarebbe di usare per la Principessa non il nome 'Lisabelle’ che Lei le ha dato, ma il nome 'Tcho', a cui si è legata nel tempo e che l'aiuta a sentirsi sicura e rassicurata.”
Regina Katarina inarcò appena le sopracciglia, ma chinò anche il capo.
“Certamente. Userò il nome Tcho se è quello che preferisce.”
“La ringrazio,” mormorai. “La seconda richiesta potrà sembrarLe ancora più strana, ma Le assicuro che è una necessità, soprattutto in questo primo incontro...” Esitai, ma non c'era modo di far incontrare la Regina e la Principessa senza questa piccola clausola. “Dovrebbe momentaneamente nascondere la parentela che lega Lei e la Principessa, che rischierebbe di essere uno shock troppo forte per la mente ancora delicata della Principessa Lisabelle.”
“Ryan, lo capisco perfettamente,” mi rassicurò la Regina, con un sorriso quasi affettuoso in viso. “Ritieni che sia meglio mantenere un basso profilo, per ora, lo comprendo e lo accetto. Non devi preoccuparti.”
Le sorrisi, sentendo le spalle alleggerirsi dal peso che le aveva oppresse fino a quel momento.
“La Sua saggezza e la Sua comprensione sono doni divini, Mia Signora,” commentai ed ero sincero, sotto gli strati di tradizionale cortesia.
“Sono banali qualità, nel cuore di un Regnante,” ribatté lei, scotendo appena il capo. “Vogliamo andare?” Chiese poi.
Non vedeva l'ora di poter incontrare di nuovo sua figlia, cosa del tutto comprensibile.
“Ma certo, Mia Signora,” confermai, inchinandomi di nuovo davanti a lei. “Se posso avere l'onore di anticiparLa sul cammino?”
“Ma certamente,” mi rispose Regina Katarina, acconsentendo anche con un delicato cenno del capo.
Mi inchinai nuovamente e poi uscii dalla stanza, seguito dalla Regina. Credevo Bryn ci avrebbe aspettato fuori la porta, ma l'intero corridoio era completamente vuoto.
Cercai di non mostrarmi perso durante il cammino, ma mi fu difficile trattenere il mio sospiro di sollievo quando riuscii davvero a trovare il corridoio giusto. La Regina non commentò, non so se per cortesia o se perché non mi ero perso tanto quanto temevo.
“Mia Signora,” salutò sorpresa Laura, appena ci avvicinammo abbastanza, scendendo su un ginocchio.
“Alzati pure, Laura,” le disse la Regina, attendendo che rispondesse all'ordine per sorriderle. “Oggi sono qui solo come visitatrice.”
“La Principessa sarà certo lieta di incontrarLa, Mia Signora,” commentò lei, ma non mi sfuggì la rapida occhiata che mi lanciò.
“Indubbiamente,” confermai rapidamente io. “Se vogliamo entrare?” Aggiunsi, già girando la chiave nella toppa, anche se non ancora non aprii la porta.
Avevo il terrore che sarebbe andato tutto storto. Terrore che cominciò a concretizzarsi quando entrai finalmente nella stanza e mi trovai davanti Tcho con indosso ancora il velo piumato che le avevo regalato, sebbene il resto del vestito non fosse presente.
“Tcho,” la salutai con un sorriso, rimanendo leggermente davanti alla Regina, che Tcho stava guardando con espressione assai curiosa. “Hai visite oggi, sei contenta?”
“Ciao, Tcho,” la salutò anche Regina Katarina. “Io sono Katarina. Sono tanto contenta di poterti conoscere, perché ho tanto sentito parlare di te.”
“Ciao,” mormorò Tcho, portando lo sguardo da lei a me e poi di nuovo a lei. “Chi sei?” Chiese, più curiosa che diffidente, fortunatamente.
“Io... io sono la Regina,” rispose lei, dopo una brevissima esitazione, sempre il suo sorriso cortese in viso. “Il luogo dove ti trovi adesso è il Castello Reale, è dove io e mio marito, Re Leopoldo, viviamo.”
“Oh,” commentò semplicemente Tcho, guardando ancora me e poi di nuovo la Regina. “Tu sei...” cominciò a dire, ma poi tacque, forse non sapendo come mettere in parole ciò che voleva effettivamente esprimere.
Si portò una mano al naso, percorrendone il setto con un polpastrello, ed emise uno schiocco curioso che portò la Regina a lanciarmi un'occhiata silenziosa. Poi Tcho avanzò di un passo verso la Regina, allungando una mano come a volergliela portare al viso, ma senza davvero farlo.
“Siamo...” cercò ancora di spiegarsi, ma ancora una volta rimase in silenzio.
“Siamo simili?” Propose la Regina, sfiorandosi a sua volta il naso. “È questo che vuoi dire?”
“Sì,” rispose la Principessa, schioccando curiosamente. “Perché?”
Strinsi una mano sulla spalla di Tcho, schiudendo già le labbra per dire qualcosa, per cambiare discorso e distrarla di modo che non insistette su quell'argomento, ma la Regina fu più rapida di me.
“Perché sono tua madre,” rispose con tono lieve.
Mi ero aspettato che Tcho non avrebbe reagito in maniera positiva, ma comunque non ero pronto al livello di aggressività che mostrò per quell'affermazione.
Per qualche istante rimase pietrificata sotto le mie dita, ogni muscolo contratto, ma poi scattò in avanti con le repentinità che spesso aveva mostrato. La afferrai per le spalle nello stesso momento in cui Laura tirava la Regina dietro di sé, la lancia sistemata di traverso davanti al proprio corpo di modo che potesse essere una protezione per loro senza che fosse un vero pericolo per Tcho.
“Tcho!” Esclamai, cercando di farmi sentire al di sopra del ringhio selvaggio della Principessa, stringendole le braccia attorno al corpo per tirarmela più vicino.
“Lasciami!” Gridò lei, agitandosi nella stretta con movimenti tanto violenti che mi era difficile controllare del tutto.
Afferrò un mio braccio per cercare di tirarselo via da dosso, spingendo in profondità le unghie nella mia carne. Al mio verso di dolore, però, si pietrificò.
“No,” mormorò, scattando con lo sguardo sulla ferita già sanguinante. “No, no, Ryan, no, scusa,” cominciò a balbettare, gli occhi già pieni di lacrime.
“Va tutto bene, Tcho,” cercai di rassicurarla, tirandomela di nuovo vicino per poterle baciare il viso e stando attento a non sanguinarle sul velo che ancora le era in parte poggiato addosso. “Non importa, non l'hai fatto volontariamente, non preoccuparti.”
Si spinse tra le mie braccia, stringendo i denti attorno alla stoffa della mia maglietta e chiudendo gli occhi. Era silenziosa, ma il suo corpo era scosso dai singhiozzi, nonostante le mie continua rassicurazioni.
Laura e la Regina erano ancora lì, ma cercai di ignorarle il più a lungo possibile. Solo quando mi parve che Tcho si fosse in qualche modo calmata, alzai finalmente lo sguardo su di loro. Laura aveva leggermente ritratto la picca, sebbene fosse ancora sistemata in posizione difensiva, e teneva il capo leggermente piegato di lato, forse per non mostrare la sua espressione. Dietro di lei, la solita maschera di neutralità di Regina Katarina era crollata, lasciando spazio alla disperazione più pura; alzò lo sguardo su di me, ma io chinai il viso.
“Vorrei parlare con te, questa sera, Ryan,” disse la Regina, con una voce che non riusciva a nascondere del tutto il tremore.
“Sì, Mia Signora.” risposi appena in un soffio, stringendo più forte Tcho mentre loro uscivano.
 
Regina Katarina mi attendeva nella stessa stanza in cui mi aveva accolto quella mattina, ma questa volta era seduta vicino alla finestra e non si volse neanche verso di me, quando entrai. Re Leopoldo era in piedi dietro di lei, ma mi lanciò appena un'occhiata.
“Miei Signori,” mormorai, inchinandomi profondamente. “È un onore incontrarvi entrambi.”
“Per favore, Ryan, non c'è davvero bisogno di queste sciocche cortesie,” mi interruppe la Regina, con un tono deciso, ma che non mi parve arrabbiato come mi aspettavo. “Ho raccontato a mio marito ciò che è accaduto stamattina.”
“Come sta Lisabelle?” Chiese il Re.
“Si è calmata,” risposi cautamente. “Si scusa moltissimo per come si è comportata, si è lasciata prendere dalle emozioni.”
“Perché?” Domandò la Regina, voltandosi finalmente a guardarmi. “Perché ha reagito in quel modo quando le ho rivelato la nostra parentela?”
Esitai a lungo, pensando attentamente a quali bugie raccontare, quali mezze-verità rivelare, ma poi sospirai. Non c'era più alcun motivo per nascondere la verità, non dopo tutto ciò che era già accaduto.
“La Principessa... Tcho...” Lanciai un'occhiata al Re, ma non parve sorpreso, quindi la Regina gli aveva detto anche di quello. “Lei ha... ha già una madre. Ha vissuto quasi sedici anni con una donna che si è presa cura di lei e che l'ha amata tanto da portarla via da altre Arpie che non la volevano. Tcho ha una madre, una madre che ama e che è stata uccisa. Quando Lei le ha detto di essere sua madre... Tcho l'ha vista come una presa in giro, come un'offesa allo spirito di sua madre.”
“Io sono sua madre,” ribatté Regina Katarina, stringendo le sopracciglia.
“No, invece,” mormorai io, quanto più delicato e comprensibile possibile. “Lei è la madre della Principessa Lisabelle e so che ama ancora sua figlia, so che avrebbe voluto crescerla e prendersi cura di lei e amarla, ma...” Esitai, stringendo un attimo le labbra. “Ma la Principessa Lisabelle non esiste più, non è... mai davvero esistita. È Tcho quella che l'esercito ha riportato qui, Tcho che ora abita al castello. E Tcho ha avuto una madre e non è Lei.”
Regina Katarina inspirò profondamente e batté rapidamente le palpebre, l'unico segno che si concesse del suo tumulto interiore. Il Re le strinse una mano sulla spalla, ma non reagì in alcun altro modo.
“Non c'è modo di riavere nostra figlia?” Domandò la Regina, già di nuovo in possesso di una perfetta neutralità.
Avrei voluto dire di sì, davvero, avrei voluto fare qualcosa per rasserenare almeno un po' il suo cuore certo distrutto, ma mentirle non sarebbe servito a nulla.
“No,” risposi quindi, scuotendo lentamente il capo. “Tcho è tutto ciò che potete avere e lei sarebbe certo felice di conoscerLa, di conoscere entrambi voi... ma... non sarà mai vostra figlia e non vi accetterà mai come genitori.”
Di nuovo la Regina inspirò, ma più delicatamente, portando una mano su quella che il marito ancora le teneva sulla spalla.
“Grazie per la tua sincerità, Ryan,” disse. “Puoi andare.”
“Miei Signori,” mormorai appena, inchinandomi profondamente.
Feci per allontanarmi, ma poi esitai, fermandomi ad un passo dalla porta.
“Ho... il permesso di tornare, domani?” Chiesi.
“Certamente,” rispose il Re, senza esitare. “E se potessi farci il favore di chiedere anche a tua madre di presentarsi da noi, domattina, te ne saremmo certo grati.”
“Ma certamente, Miei Signori, sarà lieta di venire,” li rassicurai distrattamente.
Mi inchinai ancora ed uscii.
Il mio cuore era più leggero dopo aver scoperto che non ero stato licenziato, dubbio che mi aveva stretto lo stomaco per tutta la giornata. Sarei stato ancora più lieto se fossi riuscito a capire per quale motivo i Regnanti avevano interesse ad incontrare mia madre.

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Capitolo 9
*** capitolo 8 ***


Quella che seguì fu una pessima notte e poi una ancor peggiore giornata.
Mia madre era venuta fino al castello con me, ma poi ci eravamo separati mentre io andavo da Tcho e lei invece seguiva Bryn. La mia mente era rimasta con lei per tutto il tempo, neanche tutto ciò che Tcho si era impegnata a fare per distrarmi dai miei pensieri mi aveva aiutato.
“Cosa?” Mi chiese ad un certo punto, il capo inclinato su di una spalla.
“Mia madre sta parlando con i Regnanti, in questo momento,” le spiegai, carezzandole i capelli. “E non so perché.”
“Hai paura?” Domandò ancora Tcho.
“Non lo so,” ammisi con un mezzo sorriso. “Non so proprio cosa possano volere da lei.”
Tcho si limitò ad annuire, venendo a stendersi con il capo sulle mie gambe.
“Vai via?”
“No, non credo,” risposi rassicurante, carezzandole dolcemente i capelli. “Non sarei venuto qui oggi se i Regnanti avessero voluto mandarmi a casa. Forse vogliono chiedere a mia madre un secondo parere, dato che è una pedagoga davvero molto capace.”
“Ryan,” mormorò Tcho, rannicchiandosi meglio contro di me e chiudendo gli occhi. “Katarina è mia mamma?”
Esitai con le dita tra i suoi capelli, tenendo lo sguardo fisso sul suo viso per capire se fosse davvero qualcosa di cui voleva discutere, dato che il giorno prima aveva evitato accuratamente ogni accenno alla rivelazione.
“Sì,” risposi cautamente. “È colei che ti ha portato dentro di sé e che ti ha fatto nascere, ma... Tzee ti ha amato e ti ha tenuto con sé, non è sbagliato definirla tua madre... Ci sono tanti modi per essere madri.”
Tcho rimase in silenzi a lungo, mantenendo gli occhi chiusi, poi inspirò profondamente.
“Tzee è mia mamma,” disse dopo qualche istante. “E non voglio un'altra mamma.”
“Non sei costretta ad averne,” la rassicurai. “Regina Katarina ti ha fatto nascere, ma non hai alcun dovere nei suoi confronti, non c'è motivo di chiamarla mamma, se non lo desideri.”
“Okay,” sussurrò Tcho, rannicchiandosi su se stessa. “Devo stare qui uguale?”
“Che intendi?”
“Non... mi piace tanto qui...” ammise lei, scuotendo un po' il piede incatenato, per sottolineare le sue parole. “Se Katarina non è mia mamma posso... andare?”
“Non lo so,” ammisi, carezzandole i capelli. “Posso provare a chiedere, dopo.”
“Okay,” rispose solo Tcho, sempre con quell'insolito tono basso. “Sono un po' stanca.”
“Dormi un po' allora... ti sveglio prima di andarmene.”
Mi lanciò un'occhiata, come temesse le stessi mentendo, ma poi annuì appena e richiuse gli occhi, sistemandosi meglio contro di me.
“Buonanotte...”
Mi resi conto di essermi addormentato solo quando mi svegliai di soprassalto, a causa dell'aprirsi della porta.
“Buongiorno,” mi canzonò Laura, guardandomi con le sopracciglia inarcate.
“Mh...” mugugnai appena, cercando di alzarmi a sedere senza disturbare troppo Tcho, che era rannicchiata su di me. “Che ore sono?”
“Tranquillo, non hai dormito tanto, sono solo le quattro,” mi rassicurò Laura. “Ci sono i tuoi genitori qui fuori, volevo assicurarmi che tu avessi il tempo di avvisare Tcho.”
“I miei genitori?” Ripetei confuso. “Beh, falli entrare...”
Lanciai un'occhiata curiosa ai miei quando entrarono nella stanza, mia madre con un quieto sorriso in viso e mio padre con un'espressione confusa non dissimile dalla mia. Poi mi chinai su Tcho, scuotendola appena.
“Tcho, sveglia, abbiamo visite...”
Tcho schiuse gli occhi, ma poi li chiuse di nuovo, con forza.
“Odio visite,” borbottò.
“Ma queste sono belle visite,” la rassicurai. “Sono i miei genitori.”
Aprì di nuovo gli occhi, lanciando un'occhiata curiosa ai miei, che erano avanzati nella stanza rimanendo comunque alquanto distanti.
“Ciao,” mormorò, alzandosi lentamente a sedere.
“Ciao, Tcho,” la salutò mia madre, accucciandosi a terra. “Io sono Malia, sono la mamma di Ryan. Ti ha già parlato di me, non è vero?”
“Sì,” rispose la Principessa, tenendo a lungo lo sguardo su di lei, prima di portarlo su mio padre.
“Io sono Conrad,” si presentò lui, rimanendo comunque in piedi.
“Tcho,” si presentò a sua volta lei, facendo seguire al nome quello schiocco che ormai non sentivo da tempo.
Mio padre ripeté il nome con tanto di schiocco, un tono interrogativo, e Tcho si illuminò.
“Sì!” Esclamò, afferrandomi per un braccio e indicandomi mio padre. “È così!”
“Sul serio?” Non riuscii a non chiedere. “Mio padre ha pronunciato correttamente il tuo nome?”
“Sì!” Confermò lei, entusiasta. “Ancora!” Aggiunse poi, rivolta a mio padre.
Papà guardò me, poi Tcho e pronunciò di nuovo il suo nome, emettendo con naturalezza anche lo schiocco.
“Sì!” Ripeté Tcho, sorridendo con estrema gioia.
“Beh, complimenti, papà, ha rinunciato a farlo pronunciare da me, non schiocco nello stesso modo...” ammisi.
“Forse perché schiocchi la lingua contro la parte anteriore del palato, mentre nel suono che emette Tcho devi schioccarla contro il retro,” spiegò mio padre, rivolgendo ancora un'occhiata a Tcho, che annuì con decisione.
“Molto interessante,” commentò mia madre, voltandosi poi verso papà. “Ma tu come lo sai?”
“Usiamo diversi tipi di schiocchi, a volte, per educare... beh... per educare i cani...” ammise lui, incerto.
“Oh, cielo,” borbottò mia madre, passandosi una mano sul viso.
“Come mai siete qui?” Chiesi, per cambiare rapidamente discorso.
I miei si scambiarono una lunga occhiata che riuscì a mettermi immediatamente a disagio. Fu mia madre a parlare.
“I Regnanti mi hanno assunto per occuparmi dell'educazione dell'erede al trono...”
“Io mi occupo di Tcho,” ribattei, tirandomi vicino Tcho in un gesto spontaneo.
“E questo non cambierà,” mi rassicurò mia madre, passando lo sguardo da me alla Principessa e poi di nuovo su di me. “I Regnanti hanno deciso di adottare il nipote del Re e di renderlo l'ufficiale erede al trono. Hanno deciso che... la Principessa Lisabelle non è più in grado di avere quel ruolo.”
“Oh...” mormorai sorpreso, senza sapere che altro aggiungere.
“Che... vuol dire?” Chiese curiosamente Tcho, guardandomi fisso.
“Non ne sono sicuro,” ammisi con un mezzo sorriso, baciandole i capelli ma tenendo lo sguardo su mia madre. “Che vuol dire?”
I miei si lanciarono un'altra lunga occhiata, discutendo mutamente, ma infine fu mio padre a parlarmi.
“I Regnanti credono che sia meglio se la Principessa cambi un po' aria, si trasferisca in un posto più tranquillo, un po' più... lontano dalla città...” mi spiegò.
“Cioè, vogliono esiliarla...” commentai.
“No!” Ribatté mia madre, esattamente mentre mio padre rispondeva: “Sì.”
“Conrad!” Esclamò ancora mamma, lanciando un'occhiataccia a papà, che si strinse nelle spalle.
“È inutile passare per la via diplomatica,” disse. “I Regnanti non vogliono che lei resti in città, è giusto che lo sappiano.”
“Ci sono modi e modi per dire le cose, però,” fece notare mamma.
“Va bene,” intervenne Tcho, sorprendendo tutti e tre noi. “Va bene, io non voglio stare qui,” precisò, stringendosi nelle spalle e poi guardò me. “Prima ho detto: devo restare? E tu: posso chiedere. Ora hanno detto no. Non voglio restare.”
“E dove vorresti andare?” Domandai confuso.
“Ovunque!” Rispose lei, scoppiando a ridere. “Ovunque, con te.”
Schiusi sorpreso le labbra a quell'affermazione, eppure non era davvero qualcosa di sorprendente. Portai lo sguardo sui miei genitori, che risposero alla mia occhiata con l'espressione più fintamente neutra avessi mai visto sui loro visti. Persino loro si aspettavano qualcosa del genere e, mi resi conto, erano già sicuri della scelta che avrei preso.
“Ryan?” Mi chiamò Tcho, chinandosi un po' verso di me. “Cosa?”
“Vieni per un po' a casa nostra,” dissi, tornando a guardarla. “Così... possiamo decidere dove andare, poi.”
Tcho batté un paio di volte le palpebre, sorpresa, poi si aprì in uno dei suoi immensi sorrisi, spingendosi contro di me e abbracciandomi stretto.
“Sì,” disse solo, spingendo il capo contro il mio petto.
Le passai le braccia attorno al corpo, tenendomela stretta. Portando lo sguardo sui miei, li trovai a sorridere e mio padre annuì anche, contento della scelta che avevo fatto. Posai il capo su quello di Tcho, cercando di immaginare il modo in cui sarebbe potuta cambiare la mia vita a quel punto, dove avrei potuto portare Tcho, cosa sarebbe successo.
Avevo solo interrogativi, davanti a me, eppure ero sicuro della scelta che avevo preso, anche se ci avevo pensato solo qualche istante.
In tutto questo tempo, non me ne sono mai pentito.

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