A story ever told di kiara_star (/viewuser.php?uid=58219)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'alba del Cacciatore ***
Capitolo 2: *** Il bacio del Vampiro ***
Capitolo 3: *** La fede del Cacciatore ***
Capitolo 4: *** Il morso del Vampiro ***
Capitolo 5: *** Il destino del Cacciatore ***
Capitolo 1 *** L'alba del Cacciatore ***
A story ever told
Altro strambo
crossover Hiddlesworth per festeggiare(?)
questo Halloween.
Eric lo conoscete tutti, Adam... beh, è Hiddleston con una
parrucca riciclata dal set di THOR u.u
A parte gli scherzi, Adam è un po' Lokieggiante in questa
storia, ma siccome è ancora un personaggio privo di
caratterizzazione canonica, diciamo che si può chiudere un
occhio, vero? Chiamatelo “effetto-parrucca”.
Buona lettura e Happy Halloween.
Kiss kiss Chiara
A story ever told
Ci sono leggende che si
tramandano per decenni, secoli, millenni.
Ci sono leggende che
raccontano mille verità e poche bugie, molto più
spesso, accade che sia solo una la verità narrata e miriadi
le gocce di menzogna in cui essa si perde.
Ci sono leggende che
cambiano di bocca in bocca, di lingua in lingua ma che vengono
conosciute in ogni angolo del mondo.
E poi, poi ci sono
storie piccole, storie di uomini senza nome e senza importanza che
vengono dimenticate.
Storie di cui nessuno
ricorda l'inizio né la fine, storie che sono solo polvere su
un libro mai scritto.
Adam faceva parte delle
grandi leggende, delle leggende immortali come immortale era la sua
maledizione e quella dei suoi fratelli.
Adam il vampiro
musicista. Adam il bello, Adam che il solo incontrarlo era morte certa.
E infine c'era Eric,
un'ombra come tante altre, perse nelle memorie.
Perché tutti
conosceranno il mito dell'immortale vampiro Adam, nessuno
saprà mai la storia di Eric, il cacciatore che
dedicò la sua vita a dargli la caccia, che mai
riuscì a trafiggergli il cuore con un paletto, ma il solo a
cui il vampiro Adam donò quel cuore immortale.
Questa è
quella storia mai raccontata e io son la voce che accetta di prender
sulle spalle il fardello di narrarla.
A voi, nobili lettori,
solo la preghiera di non dimenticare.
***
I. L'alba del
Cacciatore
Eric aveva sette anni quando sua padre lo portò a caccia la
prima volta, lo ricordava bene.
Ricordava il manto di neve che copriva la landa, gli alberi alti e
spogli che sembravano disegnati di nero sullo sfondo bianco. Ricordava
la lana che pizzicava il suo collo, il segno rosso sotto il mento di
suo padre, poggiato per ore sul legno del fucile.
«Ci vuole pazienza, Eric, pazienza e calma.» Lo
educò con rigore ed Eric annuì.
Sentiva la neve bagnare la sua pancia, gli abiti che sua madre aveva
cucito con le poche stoffe che era riuscita a racimolare.
I guanti avevano troppi buchi per impedire al freddo di gelare le dita
ed Eric le avvicinò alla bocca e alitò
più volte. Suo padre lo guardò severo e lui
lasciò che il freddo di dicembre congelasse la pelle senza
più scaldarla.
Da dietro al tronco umido gli occhi di suo padre tornarono a osservare
ciò che a Eric sembrava solo un paesaggio sterile e vuoto.
Cosa avrebbero cacciato? Cosa c'era da cacciare in quel freddo?
Voleva tornare a casa, voleva dormire accanto al fuoco con il profumo
dello stufato, ma non avrebbero avuto uno stufato se suo padre non
avesse trovato della selvaggina.
Sentì il colpo e si portò le mani alle orecchie
tremando.
«Andiamo, figliolo.» Non avvertì neanche
la mano sulla sua piccola spalla.
Aprì gli occhi e vide il corpo senza vita di un alce.
Grande, immenso, steso immobile contro il tappeto nevoso.
Eric non seppe da dove fosse uscito, come avesse fatto suo padre ad
abbatterlo.
Quella sera accanto al fuoco Eric non mangiò lo stufato.
*
A undici anni Eric uccise il suo primo coniglio.
*
Quando suo padre morì lasciandolo solo con sua madre, di
anni ne aveva diciassette.
Sapeva sarebbe giunto il momento di prendersi le
responsabilità della sua famiglia, non pensava giungesse
così presto. Non sperava così presto.
Ma la febbre era durata giorni e con tutte le pelli che aveva venduto,
non era riuscito ad acquistare le medicine necessarie e
così, un mattino di un grigio autunno, suo padre
spirò fra le lacrime di sua madre.
Eric non pianse, prese il fucile e quella sera tornò con un
grosso bottino. Scuoiò i conigli uno per uno e ne
cucinò le carni.
Sua madre pianse anche la notte.
Il giorno seguente gli consegnò una scatola di legno.
Eric l'aprì e capì solo allora che le lacrime non
erano per suo padre.
«Sei un Cacciatore» gli disse tirando su con il
naso.
Eric guardò il libro dalle pagine ingiallite,
guardò il paletto che brillava di un metallo che non aveva
mai avuto modo di vedere da così vicino, e prese la lettera
che portava la calligrafia di suo padre.
“Per Eric”.
«Sei un Cacciatore» ripeté sua madre
ancora una volta.
*
La prima volta che si era trovato le mani piene di sangue aveva urlato.
Aveva urlato bestemmie e dannazioni, aveva odiato suo padre.
Guardava quel viso farsi sempre più pallido senza rendersi
conto che stava piangendo, senza rendersi conto che tremava come un
moccioso.
Tirò via il paletto e lo lanciò lontano.
Il sangue bruciava sulla sua pelle, il tanfo era nauseante e
neanche l'acqua sembrava lavarlo via.
Urlò ancora.
*
La seconda volta andò meglio.
*
La centesima volta lo incontrò.
*
Alla taverna di Briston non era difficile trovare qualche preda. Eric
passava due sere a settimana lì, quando era una settimana
particolarmente negativa, anche tre.
Le femmine erano più facili da attirare. Bastava fingere di
ricambiare i loro sguardi, bastava sorridere a propria volta e
arrossire quando dicevano che aveva un bel viso.
Poi veniva naturale uscire e andare dietro al vicolo, era semplice
lasciare che lo spingessero contro il muro. Tirare fuori il paletto e
affondarlo nel loro bel seno prosperoso era solo l'ultimo atto.
Quella sera era il turno di una moretta dagli occhi nerissimi, dalle
labbra rosse e dalla voce suadente.
Quando la vide contorcersi al suolo e poi smettere di dimenarsi si
avvicinò per riprendere la sua arma e fu allora che lo
sentì: un battito di mani, secco, a intervalli regolari, un
rumore sordo che ricordava in modo inquietante il dondolare di una
campana.
«Lascia che mi congratuli con te, ragazzo. La tua tecnica
è sublime.»
Alzò lo sguardo sul muro di mattoni grezzi alla sua destra e
strinse forte le dita sull'argento.
Occhi spenti eppure accecanti, pelle pallidissima e una corona informe
di capelli neri.
«Scendi da quel muro così ti faccio assaggiare la
mia tecnica sulla pelle, bestia.»
Si sarebbe aspettato la solita risata stridula, di quelle che gli
facevano rivoltare lo stomaco, perché quelli erano animali
arroganti e stupidi, troppo pieni di sé per capire quanto
pericolosa fosse la superbia.
Degni figli del loro padre.
«Sono diverse notti che ti guardo.» E invece quello
scese sul serio.
Non sorrise, non rise.
Fece solo pochi passi ed Eric serrò la mascella e le
falangi. «Sei troppo giovane per essere un Cacciatore,
ragazzo.»
«Non troppo per piantarti questo nel petto.»
«Allora fallo, lascia che mi goda lo spettacolo dalla prima
fila, Cacciatore.»
Ed Eric lo fece, si avventò con ferocia su di lui, lo
afferrò al collo e lo spinse a terra. Ghignò
vittorioso.
Il paletto brillò alla luce della luna, ma quando lo
piantò nel suo petto, Eric colpì solo il suolo.
Vuoto. La sua mano non stringeva nulla.
«Ma che-»
Poi fu solo un dolore alla schiena e il sapore ferroso del sangue in
bocca.
Fu solo una voce all'orecchio. «Sei troppo giovane,
ragazzino.»
Riuscì a trascinarsi fino a casa. Fu sua madre, come sempre,
a curargli la ferita alla schiena.
«Devi stare più attento, Eric. Poteva ucciderti
quell'animale.»
Tutto ciò che riusciva a chiedersi era perché non
l'avesse fatto.
*
Nonostante lo conoscesse ormai a memoria, capitava che durante il
giorno, quando si riposava sotto l'ombra di una quercia, Eric leggesse
il diario di suo padre, il diario di un Cacciatore.
Anche lui avrebbe dovuto iniziare a scriverne uno perché,
come aveva letto, era dovere di ogni Cacciatore far conoscere al suo
successore ciò che aveva imparato nella sua vita,
ciò che lo aveva aiutato nella sua missione, ciò
che aveva sbagliato così che potesse essere di monito a chi
lo avesse letto in futuro.
Suo padre scriveva che ogni cacciatore deve avere un successore.
“Ogni
Cacciatore che abbia un figlio maschio deve fare di
quel figlio maschio un Cacciatore. Colui che non avrà la
benedizione di una prole, dovrà saper scegliere un giovane
coraggioso a cui tramandare il suo compito. Così
è stato comandato da San Michele e così
dovrà sempre essere.”
Eric si disse che non avrebbe mai avuto figli, che non avrebbe mai
scritto un diario perché non l'avrebbe dovuto lasciare a
nessuno.
Diciotto anni. Era questa la data, al compimento del diciottesimo
compleanno, suo padre gli avrebbe consegnato quella scatola e gli
avrebbe insegnato davvero cosa voleva dire cacciare.
Ma suo padre era morto prima di quel momento e tutto ciò che
Eric sapeva di quel suo nuovo mondo erano frasi scritte in un diario e
in una lettera.
“Eric, figlio
mio, se leggerai queste parole vorrà
dire che non ho avuto modo di parlarti di persona.”
Così iniziava.
“So che saprai
rendermi orgoglioso di te.” E
così terminava.
Ma la frase che Eric leggeva e su cui ogni volta ingoiava un rospo di
rabbia era: “Sii
onorato della tua missione.”
Eric non cacciava perché glielo aveva detto un padre morto
in una lettera, o perché sua madre in lacrime gli aveva
consegnato una cassetta contenente uno spaventoso segreto.
Cacciava perché era l'unica cosa che sapesse fare, era
l'unica cosa che gli era stata insegnata.
Che fossero conigli, o alci, o bestie venute dall'inferno, non
importava.
Eric era solo un cacciatore, nulla di più.
Avrebbe passato la vita ad esserlo, e forse un giorno sarebbe diventato
una preda.
Un giorno lontano, pensò sotto l'ombra di una quercia.
*
Quel giorno arrivò prima del previsto.
*
Erano in due, due uomini.
Uno era il garzone di un barbiere, l'altro aveva l'aspetto di un
signorotto, ben vestito e tutto profumato.
Riuscì a scansare il gancio di uno colpendolo con un calcio
dritto allo stomaco. Si voltò per ritrovarsi le mani del
garzone che lo stringevano al collo.
I denti aguzzi scintillavano a pochi centimetri dalla sua faccia. Il
disgusto era così forte che avrebbe potuto vomitare.
I muscoli si tesero mentre gli tirava una testata.
L'altro alle sue spalle si era alzato e lo aveva spinto con il viso
contro il muro.
«Devi avere un buon sapore, Cacciatore... Non ne ho mai
assaggiato uno.»
Il paletto scivolò dall'avambraccio. Si voltò e
colpì la bestia dritto al cuore. I suoi occhi si sgranarono
e un urlo lasciò la sua gola.
«Sebastian! Lurido mortale!» Quando vide il garzone
scagliarsi contro di lui spinse via il corpo dell'altro animale e
lanciò il paletto contro il suo.
Un tonfo, un altro urlo.
Ora erano due i corpi a terra.
Poggiò le mani sulle ginocchia prendendo fiato. Era stato
uno sciocco a lasciarsi seguire da entrambi.
Non si era accorto del garzone, credendo fosse solo il signore ben
vestito la preda della serata.
Si accasciò al muro continuando a respirare, deciso a
recuperare la sua arma se nonché vide con la coda
dell'occhio una nuova ombra alla sua sinistra.
Scrutò il marciapiede spoglio illuminato dai fiochi
lampioni.
Non un suono, non un rumore.
Cercò qualcuno, qualcosa,
ma non trovò nessuno.
Quando tornò con gli occhi sui due corpi il suo cuore prese
a galoppare forte: il suo paletto d'argento non era più dove
lo aveva lasciato.
«È un'arma affascinante.» Riconobbe
all'istante quella voce e la figura nascosta dietro a una carrozza. Era
passato un pugno di anni dalla prima e unica volta in cui l'aveva
incontrato. «La maggior parte dei cacciatori usa legno di
frassino. Solo i membri di una Congrega hanno dei paletti d'argento, e
questo è alquanto particolare...»
Cercò di regolare il battito mentre guardava i suoi occhi
scorrere sul freddo metallo stretto fra le pallide dita.
Non aveva altro con sé a parte la sua arma, se quell'animale
lo avesse attaccato in quel momento sarebbe stata la fine.
«Ne conviene che tu sei uno di loro, dico bene,
ragazzino?» Lo guardò ed Eric si chiese se avesse
notato il fremito di paura che gli aveva attraversato la schiena.
Aveva capito quella prima sera che non era come gli altri, che forse
era più pericoloso. Pericoloso perché non
riusciva a capiva cosa gli passasse per la testa.
Quelle bestie erano facili da decifrare: bramavano sangue e
commettevano imprudenze e ingenuità quando si presentava
loro la possibilità di averne.
«Un giovane membro della congrega. Di quale? Sei uno delle
Tre Punte? O dei Fratelli della Fede?...» Le sue labbra
sottili si piegarono all'insù ed Eric deglutì.
«Hai perso la lingua o non sai minimamente di cosa sto
parlando?»
«No, è che non spreco parole con un animale come
te.»
Il coraggio del verbo
quando manca quello delle azioni, così
scriveva suo padre. Cercò di ricordare altri insegnamenti
lasciati sui fogli gialli, ma tutto ciò che riusciva a fare
era cercare di non respirare più forte.
«Mi credi un animale... È per questo che mi
cacci, giusto?» L'essere fece qualche passo verso di lui
facendo saltare nel palmo della mano il paletto. «Ma se fossi
io a cacciare te... Allora saresti tu l'animale, non è
così?»
Ormai gli era pericolosamente vicino. Non aveva armi, non aveva idee.
Era solo un ragazzino spaventato che malediva il giorno in cui sua
madre gli aveva mostrato quella cassa.
«Vuoi cacciarmi, quindi?» chiese e sentì
la sua stessa voce tremare. Anche l'altro se ne accorse e
ghignò appena.
Le spalle di Eric incontrarono il muro quando gli fu definitivamente di
fronte.
«Saresti una splendida preda, non lo metto in
dubbio.» Il freddo del paletto percorse la sua guancia, poi
il suo collo finché non lo sentì pungere contro
il petto. «Fa male, lo sai? Sentirlo entrare nella carne e
aprirti in due... Non è una fine piacevole... La vuoi
provare, Cacciatore?»
«Non ho paura di morire.»
Le sue labbra furono così vicine che avrebbe voluto urlare.
«Sì che ce l'hai.» Sentì il
suo fiato caldo contro la bocca e ingoiò un senso di
disgusto. «Riesco a sentirla, la tua paura.» Di
nuovo l'argento conto la guancia. «È
inebriante.»
Non riusciva a spostare lo sguardo dal suo, gelido eppure profondo come
l'oceano. Sapeva che quelli della sua razza potevano avere
capacità particolari, capacità per manipolare e
soggiogare gli umani. Si chiese se fosse per questo che non aveva
ancora cercato di spingerlo via. Forse non era paura, non era il
terrore a bloccargli gambe e braccia, era solo un trucco.
Lo era?
«Qual è il tuo nome, giovane Cacciatore?»
«Perché dovrei dirtelo?»
Provò a fingere un sorriso beffardo, non seppe se ci
riuscì, sentì solo il caldo di una mano
contrastare con il freddo del paletto. Sentì le sue dita
sfiorargli il viso e poi le labbra.
Il terrore crebbe.
«Perché stai per morire e voglio sapere su quale
lapide dovrò portare un fiore quando ricorrerà
l'anniversario di questa notte.»
In quell'istante pensò a sua madre, vide i suoi occhi in
lacrime e la solitudine della loro casa.
«I-io...»
Stava tremando? In realtà non lo voleva sapere.
«Dimmi il tuo nome e ti lascio andare.»
Non gli credette. Quei mostri non avevano umanità e quindi
neanche nobiltà. Non avrebbe mai mantenuto la parola. Lo
avrebbe solo deriso e poi lo avrebbe ucciso con il suo stesso paletto,
con il paletto di suo padre.
Cercò nel fondo delle viscere l'ultimo brandello di
coraggio. Si sporse in avanti fin quasi a sfiorargli le labbra e
sorrise: «Vai all'inferno, mostro.»
Ciò che successe dopo sembrò ancora
più irreale.
Il paletto non gli perforò il petto, ma gli
riempì il palmo.
L'essere si allontanò di qualche passo con un ghigno
indecifrabile.
Eric si guardò palesemente confuso la mano di nuovo armata.
«Adam.» Quando parlò di nuovo
tornò con lo sguardo su di lui. «Nel caso volessi
sapere il nome di chi ti ha graziato, giovane Cacciatore.»
Avrebbe voluto rispondere qualcosa, ringhiargli che erano tutti uguali,
che non avevano nomi, erano solo bestie infernali da rispedire al
mittente.
Ma non disse nulla, lo guardò attonito finché non
lo vide sparire nelle pieghe della notte.
*
La Congrega dei Figli della Neve.
Sull'ultima pagina del diario, Eric trovò un simbolo. Non
gli aveva dato importanza fino a quella notte, finché gli
occhi di Adam non lo avevano inchiodato al muro e nuove
verità non gli avevano violato le orecchie.
Non c'era scritto nulla sulla Congrega né sulle altre, ma il
simbolo di un fiocco di neve ne richiamava il nome.
Scoprì il resto grazie a Padre Jonathan, che lo aveva
cercato un mattino di primavera.
Aveva bussato alla sua porta, coperto da un mantello marrone, con il
viso tondo e gentile e una bibbia stretta nella mano.
Sua madre aveva avuto le lacrime sospese sulle ciglia mentre lo faceva
entrare in casa.
Eric era accanto al fuoco a scuoiare l'ennesima lepre.
«Sei il ritratto di tuo padre.» Fu la prima frase
che gli rivolse.
«Perché adesso?» In fondo erano ormai
sei anni che era un cacciatore, eppure quell'uomo di chiesa con mille
segreti da svelargli aveva bussato con più di un lustro di
ritardo.
«Perché adesso è necessario che tu
sappia tutto, Eric.»
«So abbastanza, e ora puoi anche andartene, prete.»
Il coltello si era conficcato nel legno del tavolo con ferocia eppure
Padre Jonathan non aveva mostrato turbamento.
«Identico a lui non solo nell'aspetto...» Aveva
sorriso, aveva fatto un cenno con il capo. «La Congrega dei
Figli della Neve. È il nobile ordine a cui apparteneva tuo
padre.»
«Di che stai parlando?» La voce di Adam
risuonò nella sua testa, e si sentì nudo e
spaventato a pensare che quella bestia immonda conoscesse la sua vita
meglio di quanto non la conoscesse lui stesso.
«Dieci Congreghe Sacre, dieci ordini a cui giurano
fedeltà tutti i
cacciatori sparsi per questo mondo. Dieci Congreghe, perché
dieci erano gli angeli che asciugarono le lacrime di Michele al termine
della biblica lotta.»
Assorbì ogni parola come fosse pece che gli scendeva sulla
pelle, ardeva e non andava via.
«Perché non c'è scritto nel diario?
Perché mio padre-»
«Lui lasciò la Congrega prima che
nascesti.»
Sentì il pianto sommesso di sua madre, ma non
riuscì a spostare lo sguardo dal viso del prete, da quel
viso che sembrava sereno in maniera inquietante.
«Perché?» La domanda era debole e
incerta, eppure abbandonò le sue labbra comunque.
«Perché essere un confratello della Congrega
è un onore non privo di obblighi.»
«Quali obblighi?»
Padre Jonathan si alzò dalla sedia e prese la sua bibbia.
«Tuo padre era un grande Cacciatore, uno dei più
abili e dei più coraggiosi e-»
«Quali obblighi? Perché sei qui? Cosa devo sapere
sul serio?» ringhiò sbattendo le mani sul tavolo.
Il pianto di sua madre si fermò, ma forse lo aveva solo
soffocato con una mano.
Il religioso prese un respiro e annuì. «Dieci sono
gli angeli che asciugarono le lacrime di Michele come dieci sono quelli
che asciugarono le lacrime di Lucifero. Dieci Congreghe per dieci
Casate. Un Mastro per un Sire.»
Non capiva, era un fiume informe di notizie che non riusciva ad
assimilare. Non fu necessario porre domande, le risposte arrivarono
tutte.
«Tuo padre era un Mastro, il Mastro dei Figli della Neve.
Abbandonò il suo compito per crescerti, per proteggerti
dalla verità finché non saresti stato pronto ad
affrontarla. Purtroppo il destino ha voluto che non fosse lui a
educarti a questa missione, ma è giunto il momento che tu
sappia che coloro che hai affrontato finora sono niente rispetto ai
demoni che li guidano. E in cima a tutti ci sono i Sire delle Casate di
Lucifero.»
«Un Mastro per un Sire...» sospirò
fissando il tavolo. «Che vuol dire?»
Quando tornò a guardare Padre Jonathan vi trovò
un sorriso.
«Significa che la tua intera vita sarà devota alla
ricerca e all'uccisione di quel Sire e solo a quel punto l'intera
Casata sarà sconfitta. Tuo padre non riuscì a
tenere sulle spalle il suo fardello e non gliene faccio una colpa, ma
tu, Eric, hai il dovere di adempiere a quel compito eluso non per paura
ma per troppo amore. Hai il dovere di trovare quel Sire prima che sia
lui a trovare te. Ecco perché sono qui, figliolo.»
Il suo cuore iniziò a battere a un ritmo stranamente
regolare, avvertì i respiri scendere profondi fin dentro
alle ossa e poi abbandonare la sua gola carichi di certezze.
Una, la più forte di tutte lasciò le sue labbra
con ironica sicurezza. «Sei in ritardo, prete.»
*
Eric iniziò a spuntare paletti di frassino,
iniziò a nasconderli negli stivali, nella cintura, sotto al
cuscino, nella testa dell'ascia con cui spaccava la legna.
Iniziò ad ascoltare i passi silenziosi che lo seguivano
quando andava a caccia.
Inizio a sentire il profumo della Morte ogni volta che gli aleggiava
intorno.
Iniziò sempre più a bramare il tramonto.
Sapeva che i passi si sarebbero presto arrestati, che la Morte lo
avrebbe fronteggiato spoglia di una qualunque maschera d'ombra.
Sapeva che presto, una di quelle notti, si sarebbe ritrovato di fronte
di nuovo quegli occhi.
*
E la notte giunse.
Giunse precisamente un anno dopo la sua grazia.
*
Stava tornando verso casa. Mancava poco all'alba e il cielo di un tenue
viola era maestosamente limpido sulla sua testa.
Una schiera di alberi spogli costeggiava il sentiero che percorreva
ormai da anni, il sentiero che divideva la sua dimora dal villaggio, la
sua pace dal suo inferno.
Sua madre lo stava aspettando con le pezze immerse nell'acqua calda,
con le radici di malva e il fondo di un vecchio whisky.
La spalla bruciava, bruciava terribilmente e forse quel whisky sarebbe
stato costretto a buttarlo giù tutto.
Si scostò la maglia e guardò stizzito lo squarcio
che tagliava di netto la sua pelle, il sangue si era arrestato ma
ciò non voleva dire che il peggio fosse passato.
Un'infezione era possibile e curarla avrebbe portato via denaro e tempo
e lui non voleva restare una sola notte nel suo letto.
Una notte senza caccia era una notte non vissuta.
Si era spesso chiesto anche da bambino perché non bramasse
il sonno come gli altri, perché dormire sembrava
così superfluo, perché gli bastava chiudere poche
ore gli occhi anche su una scomoda panca di legno per sentirsi
rigenerato.
Perché era un Cacciatore.
La risposta era giunta anni più tardi fra le pagine di un
vecchio diario.
Ricoprì la ferita e distese i muscoli del collo. Quei cinque
animali lo avevano letteralmente sfinito.
Aveva trovato sempre più utile l'utilizzo dei paletti di
frassino: erano leggeri, maneggevoli e soprattutto non lo obbligavano a
recuperare l'arma ogni volta.
Fece un passo, poi un altro e quando udì lo spezzarsi di un
ramo alle sue spalle si fermò.
Prese un profondo respiro e decise di non badare alla serata piuttosto
sfavorevole, qualcosa nella sua testa gli suggeriva che era per questo
che si era fatto vivo solo allora.
«Sei ferito.» All'udire la sua voce ebbe un breve
brivido. Era davvero lì.
«Sono i rischi del mestiere» sibilò
voltandosi lentamente. «Ci si può far
male.»
Sembrava non fosse passato un giorno dall'ultima volta. Indossava la
stessa camicia candida, la stessa giacca di un rosso troppo acceso, gli
stessi pantaloni nerissimi e la stessa immutata luce negli occhi.
Per quanto pochi fossero gli anni scivolati via da quando si erano
incontrati la prima volta, Eric sentiva di avere poco di quel ragazzino
arrogante che aveva creduto di ucciderlo al primo colpo, ancora meno di
quello che un anno prima si era lasciato mettere con le spalle al muro.
Aveva una leggera barba adesso, i capelli più lunghi e
qualche ferita di più a ricordargli cosa fosse.
«Ho notato che hai abbandonato l'argento... È un
vero peccato.» Seguì guardingo i suoi passi che lo
portavano ad avvicinarsi a lui.
«Legno o argento non ha importanza, entrambi ti entrano nella
carne e ti aprono in due... Non è così che hai
detto?»
Sorrise. Un sorriso debole e appena accennato. Un sorriso che sapeva
essere terrificante nella sua leggerezza.
«A dire il vero non so cosa si provi.»
«Non ancora.»
Stavolta il sorriso si allargò ed Eric avvertì il
sangue pompare nei muscoli forte e deciso.
Era pronto.
«Credi davvero di potermi uccidere, Cacciatore?»
Ormai erano solo pochi metri che li dividevano.
«Perché non dovrei? Forse perché sei un
Sire?»
Non scorse l'ombra di alcuna sorpresa sul suo viso.
«Oh, bene... facciamo progressi. È stato il tuo
Mastro a informarti?»
La sua gola lasciò andare una risata che risuonò
beffarda alle sue stesse orecchie.
«Mi segui come un'ombra da mesi e ancora non l'hai
capito.»
Un solo unico passo. L'ennesimo sorriso. «Tu sei un Mastro,
lo so. Il figlio di Victor.»
Eric, letteralmente smise di respirare. Tutta la sicurezza
defluì dal suo corpo come il colorito dalla pelle, era
più che certo che in quel momento lui e Adam avessero
praticamente lo stesso viso pallido.
«Tu sai-?» La domanda gli morì in gola
non appena le dita di quella bestia si avvolsero attorno al suo collo.
Sentì il battito aumentare repentino e la testa far male.
«Sei lo stesso ragazzino di un anno fa, Eric, lo stesso
ragazzino spaventato e debole.» L'aria mancava sempre di
più e si ritrovò ad accasciarsi sulle sue stesse
ginocchia. Le mani strette attorno a quel polso e gli occhi a
implorare. Pietà, morte.
Non sapeva cosa vi giacesse realmente sul fondo.
«Sei lo stesso ragazzino per cui Victor abbandonò
la sua battaglia venti anni fa.» Poi l'aria tornò
a riempirgli i polmoni quando si sentì gettare senza troppi
complimenti a terra. Tossì tastandosi la gola dolente e
seguì con lo sguardo ormai annebbiato i suoi passi.
«Come avrei potuto non riconoscere il figlio di Victor? Sei
la sua copia, Eric.»
A sentirgli pronunciare il suo nome quel breve respiro appena ritrovato
si smorzò.
«Come...»
Come fai a conoscere il
mio nome? Come sai chi sono?
Padre Jonathan gli aveva detto che suo padre aveva abbandonato l'ordine
e la sua stessa patria per poterlo crescere al sicuro da quel mondo di
tenebre. Nessuno, neanche i suoi confratelli, sapeva dove fosse e che
vita stesse vivendo ora. Nessuno sapeva avesse un figlio di nome Eric.
Ma Adam sapeva. Sapeva chi era, l'aveva sempre saputo anche quella
prima notte.
Perché mi hai
lasciato vivere?
Ogni domanda restò muta ad aleggiare nel suo sguardo.
Adam le lesse tutte, Eric lo capì dal sorriso sulle sue
labbra.
«Avevi solo un paio di anni. Eri piccolo e gracile e giocavi
sulle sponde di un lago vicino casa tua...»
Il cuore gli pulsava forte nelle tempie, doloroso e incontrollato
mentre stringeva nel pugno della mano la terra umida su cui si
ritrovava in ginocchio. Adam gli si avvicinò e si
chinò. «Victor mi pregò, mi
supplicò di non farti del male. Non lo avevo mai visto
supplicare nessuno, non Victor, non il Mastro della Congrega dei Figli
della Neve, eppure ti teneva stretto fra le braccia con le lacrime a
bagnargli il volto... Patetico.»
«Non è vero» sospirò cercando
nelle sua memoria quegli occhi, quel viso, quel momento. Cercando senza
trovarlo, il pianto di suo padre.
Suo padre non aveva mai pianto, Eric non lo aveva mai visto piangere
perché piangere non era da uomini, era da deboli. Ricordava
la forza di suo padre, il coraggio, la severità ma anche la
pazienza con cui gli aveva insegnato a caricare e pulire un fucile, a
saper scegliere un buon punto per la vedetta e il momento perfetto per
scagliare il colpo.
No, quell'essere mentiva, stava impiantando semi malati nella sua testa.
Non era vero, non poteva essere vero.
Adam scosse la testa e si alzò dandogli le spalle.
«Sei degno di Victor, in te scorre lo stesso sangue da
codardo, Eric.»
«Non osare neanche pronunciare il suo nome!»
ringhiò cercando la forza di mettersi in piedi. Ci
riuscì traballando sulle sue stesse gambe. «Se mio
padre non è riuscito a ucciderti, lurida bestia, stai pur
certo che suo figlio completerà l'opera.»
Ancora gli dava la schiena, con i capelli a sfiorargli le spalle che si
muovevano appena. L'ombra della notte andava sparendo e ormai l'alba
era prossima.
Eric sapeva cosa accadeva quando sorgeva il sole, era conscio che i
raggi del giorno avevano lo stesso effetto di un paletto, e allora
perché...
«Pensava fossi lì per te...» Poi si
voltò e un primo raggio gli illuminò il volto.
«Non era così, ma ora sì, ora sono qui
per te, Eric.»
Eric corrucciò la fronte quasi non prestando più
attenzione alle sue parole. Guardò l'arancio scaldargli la
pelle e far diventare i suoi occhi pericolose gemme chiare.
Perché non bruciava? Perché non si riduceva in
polvere urlando come la bestia che era?
Chi sei?
Diede uno sguardo confuso al sole dietro le colline e poi
tornò di nuovo al suo volto.
Non lo trovò.
*
Era tornato all'alba tremando, con le mani e gli abiti sporchi di
terra, con la vita che quasi aveva abbandonato la sua carne.
Si era seduto al tavolo e aveva bisbigliato un nome: Adam.
Sua madre lo aveva guardato e aveva abbassato il capo.
«È tornato.»
Eric non sapeva da dove nacque quel sorriso. «Non
è mai andato via.»
Aveva continuato a tremare finché le braccia magre non gli
strinsero le spalle.
Poggiò la testa contro il suo petto e lasciò che
gli accarezzasse i capelli come faceva quando era un bambino.
Un bambino piccolo e
gracile.
Avrebbe voluto piangere; sua madre lo fece per lui.
*
Sotto la pioggia di un venerdì di gennaio, Eric
poggiò un fiore rosso sulla croce di legno.
Non versò una lacrima.
Guardò l'altra croce di faggio accanto, più
vecchia, più malconcia e deglutì mentre l'acqua
gli bagnava i capelli e i vestiti.
«Lo prenderò, padre.»
Non aveva più nulla da proteggere, adesso. Aveva solo
qualcuno da distruggere.
Aveva solo una missione.
«Lo prenderò.»
*
Due occhi guardarono il giovane posare il fiore sulla croce.
Ascoltò le sue parole.
Le labbra sorrisero.
***
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Capitolo 2 *** Il bacio del Vampiro ***
Cap2
A story ever told
II. Il bacio del
Vampiro
Padre
Jonathan tornò a trovarlo, mesi dopo la morte di sua
madre.
Tornò con la sua bibbia e il suo mantello e altre
verità. Eric non le voleva udire.
«Torna dai tuoi cardinali, Jonathan.» Lo
liquidò
senza lasciargli il tempo neanche di un saluto. Fra le mani spaccate
dal freddo un'ascia e un ceppo a metà.
«Ho saputo di Ester. Volevo porgerti le mie condoglianze e
-»
«Non ho bisogno di nulla, risparmiati la pantomima del
misericordioso.» Lo superò e gettò
malamente la
legna sul resto del gruppo.
Il prete si allontanò di qualche passo per poi sedersi
silente
su un tronco tagliato, guardandolo mentre terminava il suo lavoro.
Padre Jonathan aveva una dote: la perseveranza.
Eric poteva vantare lo stesso.
Poggiò l'ascia sulla spalla e rientrò in casa.
Non uno sguardo, non una parola.
I cardini cigolarono quando sbatté la porta senza riguardi.
«Resto in città qualche settimana, sono alla
parrocchia di St. Thomas.»
Eric lanciò una rapida occhiata al legno dietro cui
udì
la debole frase. Scosse la testa e prese a sbucciare una mela: la sua
cena.
Non aveva tempo, presto il sole sarebbe calato.
*
Sputò un grumo di sangue e si pulì le labbra con
il dorso della mano.
«Te lo farò sputare tutto, cacciatore.»
Un ghigno
perverso piegava il volto di quello che all'apparenza era poco
più di un bambino.
Dodici, forse tredici anni.
Eric non ne aveva mai incontrato uno così giovane.
Capelli biondi e due occhi azzurri che potevano essere i suoi.
Fece un balzo indietro quando il ragazzino si avventò contro
di
lui brandendo un piccolo pugnale, un pugnale che non poteva appartenere
a quello che avrebbe dovuto essere uno sguattero.
Riuscì ad afferrargli un polso e lo gettò a terra
poco distante.
Prese un respiro profondo e spense ogni pensiero.
Quando il piccolo demone si sollevò in piedi non ebbe
neanche il
tempo di accorgersi del paletto che volava via dalla balestra.
Un'ombra più umana sfumò il suo viso mentre
ricadeva a terra, stavolta senza più rialzarsi.
Eric abbassò l'arma e sentì sulla lingua il suo
stesso sangue; stavolta non lo sputò.
«Un bambino... che abominio.»
Le parole erano viaggiate nella sua mente eppure fu un'altra la voce
che le pronunziò, la sua.
Alzò lo sguardo trovandoselo a pochi metri di distanza. Non
riuscì neanche a sollevare il braccio che la balestra
sfuggì magicamente dalle sue mani.
«Brutto bastardo!» ringhiò estraendo un
paletto dalla cintola di cuoio che teneva legata alla vita.
Lo gettò rapido verso di lui. Gli bastò un
semplice spostamento laterale per evitarlo.
Il secondo paletto non riuscì neanche a sentirlo sotto le
dita quando si ritrovò con le spalle a terra.
Un piede schiacciava la sua mano destra e l'altro spingeva forte contro
il suo stomaco.
«Lento e rozzo. Sei peggiorato.» Adam troneggiava
su di lui con un'espressione quasi assente.
Eric digrignò i denti e cercò di calciarlo via.
La mano
gli afferrò la caviglia ma non riuscì a muoverlo
di un
solo centimetro. Il fiato mancava, poteva percepire la cassa toracica
comprimersi attorno ai suoi polmoni.
Risentì il sangue risalirgli dalla gola finché
non lo tossì sporcandosi le labbra e il mento.
Gli occhi di Adam, solo in quel momento, parvero vivi.
Il polso scricchiolò sotto la suola dello stivale e si
sforzò di non lasciare andare alcun grido di dolore, non gli
avrebbe dato questa soddisfazione.
Non l'avrebbe visto soffrire, non l'avrebbe ucciso.
Sarebbe stato Eric a uccidere lui, era una parola che avrebbe mantenuto.
«Morirai prima che questo anno si chiuda, Eric.»
«Sarai tu a morire...» La determinazione non
bastò a non far vibrare la sua gola.
Adam sorrise e spinse ancora il piede contro il suo corpo. Era come
avere un masso di roccia addosso, eppure il corpo di quell'animale era
poco più sottile del suo.
«L'arroganza sarà la tua rovina,
Cacciatore.»
Tossì ancora finché non avvertì il
sangue salire
in bocca e riscendere di nuovo. Poteva soffocare, e non sarebbe
riuscito a portare a compimento la sua missione.
Aveva cacciato ogni notte solo per rivederlo, solo per poter avere
l'occasione di piantare un paletto in quel cuore putrido, e ora giaceva
a terra immobile e dolorante. L'infrangersi di quell'unica occasione
sarebbe stata la sua morte.
Padre...
«È qui che ti ha colpito, vero?»
Adam picchiò la punta dello stivale contro il suo stomaco e
Eric
non
trattenne un gemito. «Sei stato uno sciocco. Non c'era nulla
di
umano in quel bambino.»
«L'ho ucciso...» sibilò sentendo la
pressione diminuire e il fiato riempirgli di nuovo i polmoni.
«Hai esitato e gli hai concesso la possibilità di
colpirti.»
Anche il suo polso fu libero ma non smise di fare male. Si
tirò
a sedere quando Adam indietreggiò di qualche metro.
Si passò le dita sulle labbra sporche di sangue e poi sul
mento. Quegli occhi seguirono ogni suo gesto.
«Quel demone ha fatto la fine che meritava, fossi in te mi
preoccuperei di non seguirlo a breve.»
Cercò di alzarsi ma la risata di Adam lo
schiacciò di nuovo a terra.
«Mi inviti con tale presunzione a badare alla mia vita mentre
sei steso nella polvere a bere il tuo sangue?!»
Deglutì e il sapore ferroso quasi parve tossico.
«Sei più che patetico, sei ridicolo,
Cacciatore.»
«Lo scherno delle tue parole sarà il tuo ultimo
fiato.» Flesse un ginocchio e si mise in piedi cercando di
ignorare il polso che ardeva. «E questa sarà
l'ultima
notte che i tuoi occhi dannati vedranno.»
«Se lottassi con la stessa foga con cui pronunzi minacce
saresti
un Mastro degno di questo nome. Ma sei solo un moccioso arrogante e
avventato, che spera di poter competere con un Sire quando non riesce
neanche a uccidere un vampiro di poche lune senza lasciarsi
ferire.»
Odiava che quelle parole fossero solo verità. Sapeva che non
aveva ancora né la forza né la
lucidità per
poterlo anche solo affrontare e sapeva che sì, aveva esitato
davanti a quel volto di bambino e c'era voluta la rabbia del subire il
colpo a fargli scoccare quel dardo per lui letale.
E se non fosse stato un bambino inesperto a quest'ora...
«Victor non ha mai commesso errori del genere.» Non
poteva
sopportate che quel demone parlasse di lui, non di suo padre, non dopo
averne denigrato la memoria con le sue menzogne.
Non volle udire altro.
Affondò la mano nella casacca e tirò fuori il suo
paletto
d'argento. Non lo aveva più usato, lo teneva addosso solo
per
lui.
Da qualche parte suo padre lo avrebbe guardato mentre lo affondava nel
suo petto, sua madre gli sarebbe stata accanto e sarebbero stati fieri
di lui.
Strinse forte le dita il freddo dell'argento si scaldò in
fretta.
Non avvertì più il dolore al polso, non avverti
più lo stomaco che si contorceva.
Leccò via dalle labbra qualche altra traccia di sangue e la
sputò lontano.
«Stai per tornare all'inferno a cui appartieni,
Adam.»
Un altro sorriso di beffa. «Mi piace come suona il mio nome
sulla
tua lingua... Godrò nel sentirtelo piagnucolare quando mi
supplicherai di risparmiarti.»
Serrò la mascella e le dita sulla sua arma. «Non
accadrà mai!»
Si avventò contro di lui senza riflettere più di
tanto,
con furia cieca, rivedendo il volto in lacrime di sua madre, lo sguardo
severo di suo padre e le parole di un bambino che chiedeva quando
avrebbe potuto brandire un coltello.
“Arriverà
quel giorno, Eric.”
Fu veloce, freddo e caldo allo stesso tempo, fu bagnato e appiccicoso
come il sangue che colava lungo la sua pelle.
Non era quello di Adam.
*
Aprì le palpebre che era notte, non la stessa, ne erano
passate altre. Eric non sapeva dirlo.
«Sei sveglio...» Gli occhi che incontrò
erano due
gemme castane, calde e profonde. Castane come le onde morbide che
incorniciavano il viso. «Riposa.»
Una pezza fresca gli venne posata sulla fronte. Non riuscì a
guardarsi attorno, non riuscì a chiedersi dove fosse,
perché fosse ancora lì. Nelle orecchie solo la
voce di
Adam, sulla pelle solo la sensazioni della paura.
«Io...»
Provò a sollevarsi ma due mani lo obbligarono a restare con
le spalle contro il letto - era un letto?
«Non fare sforzi. Hai perso molto sangue.»
Cercò di mettete a fuoco il resto di quel viso quando due
labbra gli sorrisero dolcemente.
Chi sei?
«Il mio nome è Sarah.»
Non capì se gli avesse letto nella mente.
Richiuse le palpebre, un nuovo sonno lo colse senza che potesse
impedirlo.
*
Charles Williams era basso, grasso e dai modi burberi. Gestiva la
locanda di Briston insieme alle sue figlie. Eric aveva conosciuto
Catherine e Annemarie. Poi c'era Sarah.
Era stata lei a trovarlo dietro la locanda, privo di sensi e coperto
solo dal suo stesso sangue.
Era stata Sarah a chiamare aiuto, a chiedere a suo padre di portarlo in
casa. Era stata Sarah a vegliare il suo sonno agitato per sei notti di
seguito.
Era stata Sarah a salvarlo.
«Due lepri e un fagiano.»
«Non ho un fucile. Come posso sparare a un fagiano?»
«Ti inventerai qualcosa.» Le sue labbra erano
morbide e dolci. Per Eric erano il sapore di casa, la sua nuova casa.
«Sei ancora qui? Non hai da lavorare, bellimbusto?»
Charles
sbucò alle spalle di Sarah come sempre con la faccia irata
di
chi vorrebbe aprirti il cranio in due.
Eric si limitò a un sorriso sbilenco e a un cenno del capo.
«Stavo proprio per andare.»
«E allora sbrigati - e tu torna in cucina che i clienti
aspettano.»
Quando Charles era rientrato Eric si era sporto per rubarle un altro
bacio.
«Stai attento.»
«Sarah!» Si udì sbraitare poco distante.
«Devo andare.»
Eric non sapeva che nome dare a ciò che gli scaldava il
petto. Ne aveva paura, ne aveva tremendamente paura.
Adam lo aveva portato a un passo dalla morte e lui neanche sapeva cosa
fosse successo.
Ricordava solo il suo sorriso beffardo e poi il dolore che aveva
attraversato il suo corpo quando aveva ripreso conoscenza.
Tre mesi, era questo il tempo trascorso.
Tre mesi in cui aveva cacciato di notte e rubato baci di giorno.
Tre mesi in cui non lo aveva più incontrato e in cui Sarah
era diventata tutto ciò a cui pensava.
Si trovava sempre più spesso a rileggere il diario di suo
padre, la sua lettera.
Padre Jonathan era partito da tempo e Eric a malincuore rimpiangeva di
non avergli parlato, di non avergli chiesto come fosse il Victor
“Cacciatore”, il Victor prima di diventare padre,
prima di
abbandonare la lotta per crescere un figlio.
Pensava sempre più spesso a cosa voleva dire avere un
figlio, e sempre più spesso capiva la sua scelta.
Se avesse mai avuto un figlio, avrebbe avuto il sorriso di Sarah e i
suoi occhi.
Se avesse mai avuto un figlio, Eric avrebbe gettato quella scatola e i
suoi mille segreti sul fondo dell'oceano.
*
«Dove vai tutte le notti?» La domanda era giunta
con tutto
il suo peso, con lo sguardo preoccupato di Sarah e le mani strette
attorno alla casacca. «Dove vai, Eric?»
Le aveva sfiorato il viso. «Se temi che ci sia un'altra-
»
«No, non temo la tua infedeltà, temo il tuo
silenzio, perché è assordante, Eric.»
Una prima lacrima le aveva segnato il viso poi una seconda e altre
ancora.
Quella notte non andò a caccia, restò in un
piccolo letto
con lei, la tenne stretta fra le braccia e le raccontò la
storia
di un bambino che ammirava suo padre, di un ragazzo che lo aveva odiato
e poi aveva capito. La storia di un uomo che aveva una missione che non
aveva chiesto né compreso, ma che avrebbe portato a
compimento.
Quando il sole si levò a baciare i loro corpi, Eric le
chiese di essere la sua sposa.
*
Era al mercato per vendere le sue pelli quando udì quelle
note.
Rabbiose eppure avvolgenti. Inquietanti e allo stesso tempo dolci come
una carezza.
«Chi sta suonando?» chiese inconsciamente al
vecchio che
stava valutando attentamente la pelliccia avorio di un coniglio.
«Hai bevuto, cacciatore?»
Aggrottò la fronte mentre la musica sembrava accrescere di
secondo in secondo.
«Questa musica, da dove viene?»
«Senti, ti do dieci denari per tutte e tre.» Non
badò alle sue parole, non badò alla sua voce che
gli
urlava dietro. Afferrò le pellicce nella mano e
cercò di
seguire quelle note.
Perché?
Non cercò una risposta.
E fu lì, dietro al vetro appannato di un'elegante sala che
lo vide.
Il sole coceva nei primi giorni d'estate, ardeva alto nel mezzogiorno
eppure lui era lì, con gli occhi chiusi e le dita che si
muovevano agili sullo strumento.
Aveva qualche paletto di frassino negli stivali, non il suo argento e
se ne rammaricò.
La chioma nera seguiva ogni movimento del capo ed Eric pensò
che
sembrava danzasse. Un pensiero sciocco e inappropriato, folle.
Ogni tasto che pigiava con le dita risuonava assordante nelle sue
orecchie, risuonava nel suo petto, nel suo ventre, nella sua testa.
Non riuscì a muovere neanche un piede finché la
musica non cessò.
Solo in quel momento vide la coltre di gente ben vestita attorno a lui,
seduta su eleganti poltrone di velluto rosso. Applaudivano,
applaudivano chiamando il suo nome.
Ma gli occhi di Adam si aprirono solo per posarsi su di lui, sulla
figura immobile davanti a quel vetro.
Un cenno del capo, un sorriso.
Eric avrebbe solo voluto che le sue dita stringessero un freddo paletto.
*
La sera appena Sarah prese sonno, Eric uscì.
Sapeva, lui lo stava aspettando.
*
Le strade della città erano insolitamente affollate,
insolitamente vive.
Camminò sul marciapiede scrutando ogni angolo, ogni riflesso
e ogni ombra.
Nei pressi della chiesta di St. Thomas, fu lì che
sentì di nuovo quelle note.
Ed era più che sicuro di essere il solo a udirle.
Avrebbe dovuto provare per lo meno timore a ritrovarsi di fronte quegli
occhi, perché era da quella notte che non li rivedeva, ma
non
c'era paura a guidare i suoi passi.
Mentre saliva le bianche scale della chiesa, Eric sentiva di provare
solo una grande, profonda e inspiegabile necessità.
Necessità di sapere, necessità di capire.
Il massiccio portone di legno era appena socchiuso. Lo aprì
con una sola mano e la musica lo inghiottì.
Adam sedeva davanti a un clavicembalo, apparentemente perso nella sua
sonata.
Sembrava la stessa immagine che Eric aveva visto quella mattina al
mercato, ma non c'erano più le donne eleganti ad applaudire,
non
c'era il caldo del sole.
Mentre avanzava per la navata con passi lenti ma decisi,
sentì il suo cuore battere furente ad ogni nota.
Il paletto già nella sua mano.
Aspettò che terminasse, aspettò che risollevasse
lo sguardo e che come quella mattina gli sorridesse.
«Neanche un piccolo plauso? Eppure ho suonato solo per
te.»
Lo so.
«Come puoi camminare al sole?»
«Fra tante domande poni la più sciocca.»
Adam si
alzò dalla sua seduta e scese i tre gradini che li
separavano.
«“Perché
sono ancora vivo?” È questa la domanda che temi di
fare, Eric.»
Rabbrividì ma finse un sorriso. «Pensi ancora che
non ti ucciderò?»
«Penso che tenterai, con tutte le tue deboli forze e che alla
fine fallirai... Come tutti coloro che ti hanno preceduto.»
Le
braccia intrecciate dietro la schiena, le labbra una linea retta, una
sola ciocca nera a tagliargli lo sguardo. Poi un sorriso. «Mi
lusinga che tu abbia abbandonato il caldo giaciglio della tua sposa per
raggiungere me in questa fredda notte.»
Le dita strinsero forte il paletto, i denti quasi scricchiolarono fra
essi. Eric provò una rabbia che forse non aveva mai provato
prima.
«Non osare neanche pensare di avvicinarti a lei.»
Sapeva
che Adam era a conoscenza di Sarah, sapeva che i suoi occhi non lo
avevano lasciato mai in quei mesi e poi nei seguenti, sapeva e ne aveva
timore. Eppure aveva rischiato e aveva deciso di cedere all'affetto di
quella ragazza dolce, alla fantasia di essere felice al suo fianco,
alla folle illusione di poter condividere con lei ogni singolo giorno.
Era stato un egoista, era stato uno stupido, forse si era solo
scioccamente innamorato.
«Non sai difendere neanche la tua pelle e vorresti porti a
difesa di un'altra vita.»
Non capiva come potesse lasciarsi toccare così ogni volta
dalle
sue parole, non riusciva ad accettare che quella bestia malefica
conoscesse così bene le pieghe del suo cuore, della sua
stessa
anima.
«Io so perché sei qui, Eric.» Adam lo
fronteggiò con un sorriso sulle labbra e lui non sapeva
perché ancora non avesse tentato di colpirlo.
«Vuoi
risposte.»
«Non voglio nulla da te a parte vederti in cenere.»
Il sorriso era ancora lì, il paletto ancora fermo nella sua
mano.
«Vuoi sapere di Victor, della sua storia, della nostra
lotta...»
Deglutì sentendo quasi il bisogno di indietreggiare. Non lo
fece.
«Non sopporti l'idea che io conosca il vero Victor.»
«Tu non conosci proprio niente!» Non
riuscì a
regolare la rabbia con cui aveva sputato quelle parole lasciando che
Adam se ne facesse beffa con un risolino.
«No, sei tu che non sai chi fosse realmente Victor, quale
cacciatore abile e spietato fosse, quale uomo privo di compassione e
pietà.»
«Taci!»
Adam non tacque, Adam continuò a colpirlo con sguardi e
sorrisi
e lui era incapace di restituirgli uno solo di quei fendenti.
Rimpianse di essere andato lì, rimpianse l'abbraccio di
Sarah.
Voleva solo tornare codardamente fra le sue braccia e restare cieco e
sordo di fronte a quella verità.
Era verità o erano le calunnie di una bestia di Lucifero?
Chi era veramente Adam? E perché voleva così
ossessivamente scoprirlo?
«Tu hai conosciuto solo un'ombra di Victor, solo
ciò che i
tuoi occhi di fanciullo ti hanno permesso di vedere.» Le
sentiva
sul bordo delle ciglia quelle lacrime eppure riuscì a
impedir
loro di cadere.
Adam gli fu a un passo e avvertì le sue dita sul viso.
«Non sarai mai un cacciatore come lui, Eric.»
Quando le
sentì scivolare su una guancia sollevò lentamente
la mano
con il paletto fino a portarla all'altezza del suo cuore. Lo
guardò negli occhi e affondò.
Adam sparì dalla sua vista in un frammento di secondo.
Non riuscì neanche a cercarlo che lo sentì alle
sue spalle.
Un braccio attorno al suo petto, una mano ad afferrargli il mento.
«Non sarai mai come lui...»
Tremò come non aveva mai tremato.
Fu un solo misero attimo.
«No...» Le parole morirono nella sua gola mentre il
dolore
lancinante gli lacerava la carne. Il paletto sfuggì dalla
sua
presa e tintinnò assordante sul pavimento della chiesa vuota.
Strinse le palpebre cercando la forza di opporsi, ma non la
trovò.
Tutto il suo corpo pareva ardere, bruciava come fosse avvolto dalle
fiamme eppure poté sentire il sangue colare lungo il suo
collo,
i capelli di Adam solleticargli il viso, i suoi denti affondare sempre
più in lui.
Non poteva finire così, non voleva finisse così,
avrebbe
preferito morire mille volte anziché tramutarsi in una di
quelle
bestie, eppure con tutta la sua rabbia, la sua paura, il suo dolore,
era completamente privo di volontà.
Il cuore batteva nel petto, forte, sempre più forte...
sempre più forte.
La mente si annebbiò, immagini sbiadite coprirono i suoi
ricordi, immagini scarlatte, occhi verdi, sorrisi taglienti.
Provò a sollevare una mano e riuscì a stringere
le dita attorno al polso con cui lo teneva fermo.
«N-no...» A chi apparteneva quella voce? Era la
sua? Era lui che stava supplicando come un bambino di non ucciderlo?
Lasciò che le sue spalle deboli si poggiassero contro il suo
petto, che lo tenesse in piedi mentre gli strappava via sangue e anima.
Non sarai come Victor...
Non sei come Victor...
Lo sentì nella testa e poi sentì la sua stessa
voce implorare.
Smettila...
Il pavimento della chiesa era gelido eppure le sue ginocchia non lo
avvertirono. Avvertirono solo l‘abbraccio soffocante in cui
era
stretto, il caldo del sangue che ormai colava sul petto, sulla sua
camicia.
Era un fantoccio privo di forza e di volontà, un fantoccio
nelle mani di un demone che sembrava impossibile da domare.
Nei suoi occhi avrebbe voluto imprimere l'immagine della sua dolce
Sarah, del suo sorriso, dei suoi capelli castani smossi dal vento
mentre lo salutava sulla soglia di casa.
“Buona caccia,
amor mio.”
Ma non c'era. La voce nelle sue orecchie non era quella di Sara, il
volto sorridente non apparteneva a sua moglie, il nero dei capelli non
era il suo.
Dietro le palpebre lei non c'era, c'era solo il mostro.
Era dentro di lui, nella sua testa, nelle sue vene, in ogni
più
piccolo angolo del suo cuore. Graffiava nelle sue paure ed Eric le
sentiva divorarlo senza pietà.
Suo padre, sua madre, il piccolo bambino che una volta era stato.
Tutto era solo un frammento perso fra le verdi iridi di Adam. Tutto era
un riflesso di una vita che lo stava abbandonando.
Strinse finché poté le dita attorno a quel esile
polso sentendo il caldo di una lacrima lasciare i suoi occhi.
Poi anche le ultime sue resistenze caddero sotto i denti di una bestia
priva di anima, sotto le parole di beffa di un demone, sotto
l'abbraccio mortale di Adam.
*
Un colpo, poi un altro, infine il freddo di qualcosa sul viso. Acqua,
acqua gelida.
«Sveglia! Non voglio ubriaconi nella mia chiesa!»
Ancora un colpo su un fianco.
Sollevò il viso verso l'uomo nella lunga veste nera che lo
sovrastava. «Allora? Alzati!»
All'ennesimo calcio rifilato sul fianco si mise a sedere.
La testa girava.
Dov'era? Perché era lì?
Non ricordava.
«Dove...?»
Il fuoco, il sangue... Adam.
Tutto tornò prepotente nella sua memoria.
Si portò agitato una mano al collo. Toccò la
pelle
più volte portando poi sotto gli occhi le sue dita: pulite,
non
c'era alcuna traccia di sangue.
Saettò in piedi barcollando.
«Dov'è?»
«Chi stai cercando? In questa-»
«DOV'È?» gridò con forza tale
da ardergli la gola.
Le mani erano sempre pulite, il suo collo privo di qualsiasi ferita, i
suoi abiti coperti solo dalla polvere.
Non era possibile avesse sognato tutto.
No, quelle sensazioni erano state vere, quella paura era stata vera. La
morte lo aveva tenuto per davvero fra le braccia.
Il respiro non voleva rallentare, il suo petto non voleva smettere di
far male.
Guardò ancora le sue mani come quella prima notte di caccia,
quando un ragazzo ingenuo si era ritrovato coperto di sangue dannato.
Ora erano ancora assurdamente e spaventosamente immacolate.
Ma come quella prima notte urlò con tutto il fiato che
avesse nel corpo.
Poi pianse.
In ginocchio, in una fredda chiesa, sotto lo sguardo immobile di un
enorme crocifisso.
*
«Mio padre vorrebbe che lo aiutassi con i lavori alla
locanda.»
Affondò il cucchiaio nella ciotola e mandò
giù un boccone di patate bollite.
«Ha detto che ha bisogno di due braccia forti e
capaci.»
Sarah sorrise, Eric mangiò un'altra cucchiaiata di cibo.
Poi un'altra ancora finché Sarah non sorrise più.
«Eric- »
«Di' a tuo padre che non ho tempo per andare da
lui.» La
sedia aveva fischiato sul pavimento mentre si alzava pulendosi
distrattamente la bocca con il dorso della mano.
Quando le dita di Sarah lo raggiunsero le scansò.
«Eric?»
«Vado in città.»
Non era neanche arrivato alla porta. Stavolta la presa di sua moglie fu
dolorosamente decisa.
«Per amore del cielo, Eric! Cosa ti sta
succedendo?» Non
voleva abbassare lo sguardo e si costrinse a reggere quello ferito di
Sarah solo per un patetico orgoglio. «Cosa ti è
accaduto?
È da quella mattina... da quando sei tornato quella mattina
che
sei diverso, sei... sei lontano.» Un carezza sul viso,
avrebbe
voluto sfuggire anche da essa. «Dove sei Eric?... Parlami...
Ti
prego, amor mio, non chiudermi fuori dai tuoi pensieri.»
Sarah gli prese il viso fra le mani e lui le allontanò con
le proprie. «Torno prima del tramonto.»
Si chiuse la porta alle spalle cercando di ignorare i singhiozzi che si
era lasciato dietro.
*
Gli incubi non lo lasciavano dormire neanche poche ore. Eric non
ricordava più sogni, solo nere ombre ad attenderlo nel suo
letto, sotto l'ombra di un albero, fra le dure assi di una panca.
Ombre nere e mani pallide.
Occhi come fiamme verdi e un sorriso affilato.
Le note di una sonata disperata risuonavano per lui ogni notte e ogni
alba.
L'abbraccio della morte, caldo e soffocante lo attendeva puntuale ad
ogni sonno.
Si alzò dal letto passandosi una mano sul viso sudato,
guardando
la donna che dormiva al suo fianco e provando ribrezzo per se stesso.
La tinozza con l'acqua ai bordi del giaciglio gli diede misero
sollievo. Si bagnò anche la testa senza però
riuscire a
cancellare le ultime immagini ferme come lame nelle sue pupille.
Si toccò il collo come ogni volta. Non c'era nulla eppure
poteva
sentire il sangue colare, i denti affondare e la sua bocca saziarsi di
lui.
Era disgustoso e non poteva mandare via quella sensazione.
Tornò con il capo sul cuscino cercando di sfiorare i capelli
di Sarah. Si ritrasse non appena lei si mosse.
Ormai cacciava solo poche ore per notte perché non voleva
che
lei fosse sola, eppure era così chiaro che Sarah fosse sola.
Perché lui l'aveva abbandonata, l'aveva lasciata nonostante
dormisse al suo fianco, nonostante condividesse ogni giorno con lei.
Sarah era sola.
Eric non era più lì, e lei lo sapeva.
Chiuse gli occhi pronto a rivivere l'ennesimo inferno, pronto a
ritrovarsi privo di difese e di volontà, pronto a essere
ancora
una volta un fantoccio.
Adam suonava. Eric lo
ascoltava in silenzio.
La musica cessava e il
paletto era freddo nel palmo della mano.
Cadeva a terra con un
tonfo e Adam sorrideva.
Passo dopo passo.
Paura... paura...paura.
“So
perché sei qui.”
Paura... paura...paura.
“No, non sai
niente!”
Un altro passo.
Un altro sorriso.
Paura.
Il paletto tornava
gelido nella mano.
Adam affondava i denti
nel suo collo e Eric lo lasciava cadere ancora.
Paura.
“So
perché sei qui.”
Sangue... fuoco...
paura.
...
Il crocifisso lo
guardava.
Sangue... sangue...
sangue.
Le braccia di Adam erano
calde, bruciavano.
Eric bruciava con esse.
Paura...
Eric aveva paura di quel
fuoco.
Eric aveva paura di quel
sangue.
Eric aveva paura...
“So
perché sei qui.”
*
Quando si compì un ciclo di lune, Eric lo sentì.
La cena con pochi pasti, Sarah che ravvivava le braci del piccolo
camino affumicato.
Eric fece cadere il coltello sul tavolo.
«Dove vai?»
Si alzò lentamente.
Lentamente si avvicinò alla porta.
Lentamente l'aprì.
Lo sentiva.
Non c'era nulla nell'ombra della sera.
Un cielo plumbeo con poche stelle, la compagnia silenziosa di decine di
alberi.
«Eric?» Sarah lo raggiunse.
«Va' dentro, Sarah.»
La guardò come non la guardava più da tempo, con
gentilezza, con dolcezza, con amore.
«Fa' attenzione, Eric.»
Le sorrise e Sarah annuì.
La porta si chiuse e con essa la tiepida luce delle fiamme.
Era buio, troppo, ma non abbastanza.
Lo sentì e poi lo vide.
Il lampo di due occhi fra le fronde, il pallore di una figura che si
muoveva fra le ombre e fu allora che Eric avverti la pelle far male.
Si toccò il collo e guardò le dita.
Erano sporche di sangue.
No, era un incubo, uno di quelli che lo tormentavano ormai tutte le
notti.
Toccò ancora la ferita e altro sangue gli macchiò
le mani.
Non si fermava.
Cercò con agitazione quegli occhi.
«Dove sei? Codardo, vieni avanti, lascia che metta fine a
tutto!» ringhiò al vento della notte.
Nessuno rispose.
Guardò la porta della sua casa, guardo il legno chiuso.
Era al sicuro? La sua Sarah era al sicuro?
Il sangue era scivolato fin dentro alla stoffa dei suoi abiti, non si
fermava.
Si pulì ancora una volta il collo con la mano ma non
riusciva a impedire alla ferita di sanguinare.
Non capiva, non aveva risposte.
In quel diario non ne aveva più trovata alcuna, quelle di
padre Jonathan non le aveva volute udire.
«Mostrati!» urlò ancora, e ancora fu
silenzio.
«Ti ucciderò! Lo giuro sul nome di mio padre e su
questo
stesso sangue! Ti ucciderò, lurida bestia, mi hai
sentito?»
Affannò guardando in ogni direzione senza più
trovarlo.
«Hai sentito quello che ho detto? Ti ucciderò,
Adam! Ti ucciderò!»
«Eric?» Si voltò incrociando lo sguardo
di Sarah, i suoi occhi colmi di paura.
«Va' dentro, Sarah!» Stavolta fu privo di qualsiasi
gentilezza. «Vai!»
Gesticolò rabbioso verso la loro casa e a quel punto per
poco non gli mancò il fiato.
Le sue mani erano di nuovo candide.
Toccò il collo: non c'era più sangue.
«No, no, no, questo non può accadere...»
biascicò fra gli ansiti. «Non può
accadere...
»
«Eric, che sta succedendo?»
Si sfilò con impeto la maglia e la trovò senza
alcuna macchia.
La sua mente lo ingannava, la sua ragione si stava sgretolando.
«Eric, guardami!» Sarah gli prese quelle
mani pulite
e le strinse fra le sue, Eric guardò i suoi occhi
completamente
e irrimediabilmente perso. «Guardami.»
«Sarah...»
«Sono qui, amor mio. Sono qui.»
«Sarah... » Abbandonò la maglia a terra
e lasciò che le sue braccia lo stringessero forte.
«Sono qui.» L'abbracciò come forse non
aveva mai fatto, come forse non aveva mai sentito il bisogno.
*
La chiesa era
silenziosa, il pavimento freddo.
Adam sorrideva.
Il paletto giaceva a
terra.
Il sangue colava lungo
il suo collo.
“So
perché sei qui.”
Eric indietreggiava
strisciando sui gomiti e finiva con le spalle contro il muro.
“No, non sai
niente!”
Adam sorrideva.
Paura...
Fuoco...
Sangue...
“Io so
tutto.”
Adam incombeva su di
lui, gli spostava senza fatica la mano dalla ferita e sorrideva ancora.
“No...”
Eric tremava.
Dita fra i capelli,
ancora denti nella carne.
...
Il crocifisso lo
guardava.
Sangue... sangue...
sangue.
Le braccia di Adam erano
calde, bruciavano.
Eric bruciava con esse.
Paura...
Eric aveva paura di quel
fuoco.
Eric aveva paura di quel
sangue.
Eric aveva paura...
“So
perché sei qui.”
...paura di se stesso.
Si svegliò di soprassalto. Respirò profondamente
ma il cuore continuava a battere privo di controllo.
Era solo un incubo, l'ennesimo, ma solo questo.
Non era reale.
Non è reale.
Si toccò il collo e portò le dita sotto la luce
della finestra.
Tremò.
Erano sporche di sangue.
Lo sentiva: lui
era lì.
***
NdA.
Grazie a tutti per l'apprezzamento a questa fic ^///^
spero
sia
stato gradito anche questo secondo appuntamento e mi scuso se
è
stato un pochino tardivo.
Con mia sorpresa mi sono accorda che la storia ha da dire molto
più di quanto credevo per cui probabilmente
aggiungerò
qualche capitolino in più rispetto a quelli precedentemente
plottati.
Non so se sia una buona notizia per voi u////u
Alla prossima e tranquilli, le risposte arriveranno.
Come sempre per consigli, suggerimenti e riflessioni sono a vostra
disposizione ^^
Kiss kiss Chiara
p.s. Benché storicamente inappropriata, questa
è la sonata che ho immaginato suonasse Adam, la linko nel
caso vi andasse di ascoltarla. <3
|
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Capitolo 3 *** La fede del Cacciatore ***
Cap3 La fede del Cacciatore
A story ever told
III. La fede del Cacciatore
Non era mai
stato un tipo molto
religioso. Non aveva ma creduto molto.
Sua madre era solita
ringraziare prima del pasto, suo padre non pronunciava mai neanche un
amen.
Poi aveva
avuto fra le mani
quella scatola, poi un mondo nuovo e oscuro era piombato nella sua
vita, poi in quella vita già stravolta aveva incontrato lui.
Non era un
tipo religioso,
Eric, neanche adesso che sapeva di avere sulle spalle un compito dato
dall'Alto, un compito nato dalle labbra di San Michele e
tramandato per secoli, millenni, da quelle degli uomini.
Un
Cacciatore, un portatore di luce, un uccisore di demoni.
Bene e
Male, la lotta primordiale di ogni Era.
Quando era
stato baciato da
quel Male solo a quel punto aveva cercato il Bene, solo quando le mani
e gli occhi di Adam avevano iniziato a perseguitare realtà e
sogno, solo in quel momento aveva sentito il bisogno di credere.
Credere che ci fosse davvero qualcosa che si chiamasse salvezza, che ci
fosse qualcosa che valeva la pena salvare.
Di quella
lotta aveva visto
solo una fazione, la vedeva tutte le notti e ormai neanche provava
più il brivido solcargli la pelle.
Per cosa
lottava? In nome di chi?
Sarah.
Era la sua
risposta.
Non gli
bastava più.
Affondò
il paletto una
volta. Lo affondò ancora e poi ancora, anche quando quel
corpo
stava ormai per divenire sempre più pallido; alle prime luci
del
sole sarebbe volato via come cenere.
Sentì
il cuore
galoppare doloroso nel petto mentre guardava quegli occhi, che non
appartenevano più a una donna, osservarlo ormai vitrei.
Gettò
il legno a terra con un gesto di stizza e iniziò a tossire
forte.
Lo sentiva
in gola, il sapore ferroso, il sapore del suo stesso sangue.
Tossì
e poi tossì di nuovo.
Non era
sangue, non c'era sangue.
Lei non
aveva avuto modo di colpirlo. Eric era stato veloce e preciso e non
c'era stato modo di fermare il suo affondo.
Eppure lo
sentiva, lo sentiva salire dallo stomaco, fermarsi nella gola, invadere
la bocca, colare dalle labbra.
Tossì.
Poggiò
le mani sulle
ginocchia e tossì ancora, tossì così
forte
finché lo stomaco non si contorse e vomitò sulla
terra
umida.
Non era
sangue, non c'era sangue.
Si
pulì la bocca con una manica e strizzò gli occhi.
Il collo
pulsò.
No...
Stavolta le
dita lo trovarono: sangue caldo sulla sua pelle sudata.
La ferita
sanguinò finché non giunse a casa.
*
«Cosa
ne pensi?»
Prese un
profondo respiro
mentre Sarah lo guardava in attesa. Strinse il braccio attorno alle sue
spalle e le baciò la fronte. «Un figlio nostro...
è
quello di cui hai bisogno anche tu, Eric.»
«Un
figlio che potrebbe divenire orfano di padre prima del tempo.»
Sarah si
scansò dal suo abbraccio stringendosi nella coperta.
«Non
amo sentirti fare questi discorsi.»
«Non
sono discorsi, è la semplice realtà.»
Le ciglia
trattennero le lacrime solo perché ormai ne aveva versate
troppe.
«Perché
hai voluto che divenissi la tua sposa se non hai intenzione di darmi
dei figli?»
«Sarah...»
Non ebbe
risposta.
Sarah gli
diede le spalle e lui la sentì piangere. Non fece nulla,
lasciò che il pianto la cullasse fino al sonno.
Dietro le
proprie palpebre, Eric trovò solo altro sangue.
Non lo
aveva più
rivisto eppure sapeva che era sempre lì vicino, lo
rincontrava
ogni volta che chiudeva gli occhi, ogni volta che chiudeva i pensieri.
Il
luogo era sempre lo stesso, sempre la chiesa di St. Thomas con il suo
crocifisso a guardare.
Adam
suonava.
Dita
agili sui tasti antichi, palpebre chiuse e labbra sporche di sangue che
colava fino al mento.
Eric
lo raggiunse e si sedette sulla prima panca, di fronte al clavicembalo.
«Ti
piace?» gli chiese ed Eric annuì.
«L'ho
scritta per te, Cacciatore. È il tuo requiem.»
E
sorrise con i denti macchiati di rosso ed Eric sentì la
paura far serrare le dita sul paletto.
«Stavolta
ti ucciderò» asserì tornando in piedi e
aspettando la fine della sua sonata.
Quando
Adam pigiò l'ultima nota il paletto
d'argento cadde a terra con un tonfo.
Eric
saettò con lo sguardo al pavimento ma non riuscì
neanche
a piegare un ginocchio per afferrarlo. Mosse solo un passo indietro
mentre lo vedeva avanzare verso di lui.
Aveva
paura.
Aveva
terrore.
Stava
piangendo.
«Tu
non mi ucciderai mai, Eric.»
Gli
fu di
fronte. Il palmo della mano a pulire il mento insanguinato, quella
stessa mano portò poi via le lacrime dal suo viso lasciando
una
patina di linfa rossa sulla sua pelle.
«Sai
perché non lo farai?»
Paura.
Ancora paura.
Le
gambe tremavano, le mani erano sassi immobili.
«Io
ti ucciderò...»
«No,
Eric, non lo farai perché non è ciò
che vuoi davvero.»
«Tu
sei un mostro! Io pianterò un paletto nel tuo petto e ti
guarderò morire! Lo giuro!»
Un
giuramento che lo fece solo sorridere.
Le
dita di Adam raggiunsero i suoi capelli reclinando con poca gentilezza
il suo collo.
«Non
lo farai...» La sua voce gli scaldò la pelle e poi
la sentì lacerare sotto i suoi denti.
Strinse
gli occhi e il cuore prese a correre forte.
Si
aggrappò a lui per non crollare a terra ma Adam lo
accompagnò sul pavimento della chiesa continuando a nutrirsi
di
lui.
Sentiva
il sangue colare caldo dal suo collo, le sue mani fra i capelli, il suo
corpo a schiacciarlo.
Sentiva
la sua vicinanza rubare pezzo dopo pezzo un po' della sua
anima.
Respirò
forte finché non sentì il freddo soffiare sulla
pelle
ferita e gli occhi di Adam bruciare sul suo viso.
Gli
accarezzò con le dita il collo e lo portò alle
labbra, alle labbra di Eric.
Scosse
il capo furente eppure non aveva forza.
«Lasciami
in pace... perché continui a torturarmi?»
Adam
sorrise ancora.
«Non
sono io che vengo, sei tu a chiamare me.»
«Non
è vero.»
Il
suo viso vicino, le sue labbra sporche del suo stesso sangue a un
soffio dalla sua bocca.
«Vuoi
risposte che non sai chiedere... vuoi emozioni che non riesci
più a provare nella tua vita... nella tua caccia.»
«Non
è vero...»
Lo
era.
Adam
soffiò sulle sue labbra e il suo respiro lo fece tremare.
«Vieni
tu da me, e avrai ciò che brami, Eric.»
Un
bacio sporco di sangue.
«Vieni
da me.»
Quando si
svegliò sapeva che doveva andare.
*
Era
domenica mattina ma lui se ne rese conto solo quando trovò
la chiesa, sempre in solitudine, piena di gente.
Superata la
soglia
guardò l'acquasantiere di marmo ma non immerse le
dita. Si
fermò e gettò uno sguardo alla nuca dei vari
fedeli.
Quando le
note del clavicembalo suonarono forte sentì il respiro
fermarsi.
Non era lui
a pigiarle, era un ragazzo magro con capelli castani e ricci.
Eppure
più lo guardava
più vedeva i suoi lineamenti mutare, più lo
ascoltava
più sembrava che lui fosse lì.
Si
toccò il collo di istinto ma lo trovò privo di
ferite.
Non gli
piaceva stare
lì, non in quel momento, non con quelle note, non con le
parole
d'ammonimento di un religioso.
«Cos'è
il
peccato, fratelli e sorelle? Il peccato è affascinante?
Sì, lo è... Esso sembra brillare, sembra pronto a
regalarci gioia e felicità. Ma è reale?
È
sincero?... No! Menzogne! Solo menzogne, fratelli e sorelle. Menzogne
che possono inghiottire la nostra anima e condannarci per sempre al
tormento.»
L'uomo
che parlava con
fervore dal pulpito poteva avere la sua età o essere
addirittura
più giovane. Capelli biondissimi, occhi di un azzurro quasi
irreale.
La
sicurezza che copriva ogni
parola, la determinazione con cui le pronunciava, come se ci credesse
sul serio. Ci credeva, questo Eric lo sapeva.
Credeva
realmente che ci fosse un Male e che quel Male andasse combattuto e
vinto.
Parlava di
tentazione, di peccato.
Ma cosa
poteva saperne quel
ragazzo di cosa volesse dire davvero? Di cosa si provava a svegliarsi
al mattino accanto a una donna che amavi, ma con il sudore sulla pelle
per sogni in cui lei non compariva? Per sogni che avrebbero dovuto
essere incubi?
Cosa ne
sapeva della tentazione che poteva essere la verità?
Molto
più infida, molto più seducente di una mela su un
albero.
Vieni
da me...
Sobbalzò
alla sua
destra ma non c'era nessuno a parte una donna che pregava a
capo
chino con le ginocchia poggiate a terra e le mani congiunte.
Si
passò una mano sugli
occhi sentendo la gola stringersi in una morsa. Aveva bisogno di uscire
da lì, di abbandonare le parole del giovane predicatore e le
note di quel maledetto clavicembalo.
Voltò
le spalle a tutti e si incamminò verso l'uscita.
Il sole che
lo accolse sembrò ardere contro la sua pelle ed era
piacevole.
Non aveva
senso restare lì, non aveva senso aspettarlo.
Tornò
a casa, tornò da Sarah.
Quando
scese il tramonto andò a caccia.
*
Erano in
tre, eppure lo affaticarono come fossero una dozzina. Erano veloci,
abili, forti.
Aveva
imparato che era
conseguenza della longevità della loro vita dannata.
Più
tempo trascorrevano sulla Terra, più tempo erano lontani
dall'inferno a cui erano destinati, più forti
diventavano.
Il calcio
arrivò
fulmineo dritto allo stomaco. Eric si ritrovò scagliato
letteralmente con la schiena contro il muro alle sue spalle.
Tossì
mettendosi in
piedi prima di subire un nuovo attacco ma riuscì a bloccare
il
polso del secondo che lo aveva aggredito da sinistra.
L'ultimo
arrivò dalla sua destra e lo colpì dritto al
mento facendogli lasciare la presa sull'altro.
Poi
sentì il collo
soffocato nella stretta del suo braccio, l'aria scarseggiare
e la
testa iniziare a girare per la mancanza di ossigeno.
«Sarai
un lauto pasto
per me e i miei fratelli, Cacciatore.» La sua lingua a
leccargli
la guancia e la nausea a coglierlo dallo stomaco.
Calciò
d'istinto
l'essere che gli si piantò di fronte tentando
inutilmente
di liberarsi da quella morsa.
Era
difficile e sentiva i sensi essere prossimi ad abbandonarlo.
Ma non
poteva morire, non prima di aver conosciuto ogni cosa, non prima di
aver trafitto con rabbia il cuore di Adam.
Aspettò
che il secondo
lo caricasse di nuovo e a quel punto usò entrambi i piedi
per
calciarlo e spingersi con le spalle così da far perdere
l'equilibrio alla bestia che lo teneva imprigionato.
Quando
entrambi caddero a
terra fu semplice svincolarsi dalla sua presa e rotolare di qualche
metro per avere la libertà di afferrare il paletto dalla
caviglia.
Lo trafisse
a terra senza lasciargli la forza di alzarsi.
«No!»
Urlò il secondo mentre lo colpiva con una ginocchiata.
Aspettò
che si avventasse su di lui e lasciò che si impalasse sul
legno con le sue stesse mani.
Calciò
poi via il corpo mettendosi in piedi con un colpo di reni.
A quel
punto il terzo sarebbe
stato facile da eliminare, ma Eric fu costretto a ingoiare
un'imprecazione quando vide la sua balestra brillare nelle
mani
di quel demonio.
«Hai
ucciso i miei
fratelli...» Non sembrava esserci rabbia nelle parole ma i
suoi
occhi bruciavano e i denti aguzzi erano digrignati con ferocia.
«Ora pagherai.»
Urlò
con dolore quando il dardo di frassino gli colpì la coscia
costringendolo a cadere sul suo ginocchio.
Sollevò
lo sguardo per vederlo caricare il secondo colpo e stavolta puntarlo
dritto al suo petto.
«Pagherai,
Cacciatore.» Il braccio teso e la balestra pronta a colpire.
Non aveva
paletti fra le mani
e per estrarne uno dalla sua cintura avrebbe dovuto essere
più
rapido della sua arma, e con una coscia ferita e il legno a
scheggiargli la carne, Eric sapeva non avrebbe neanche avuto la
possibilità di azzardare.
Strinse i
denti mentre un copioso fiotto di sangue defluiva dal profondo taglio.
Il respiro
impossibile da rallentare e gli occhi fissi in quelli della sua preda,
adesso non più tale.
Non aveva
una sola possibilità.
«Colpisci»
sibilò bagnandosi le labbra secche.
«Sto
per farlo e,
preparati, non c'è nessun Paradiso ad aspettarti
dall'altra parte.» Sorrise rabbioso
l'altro e tese
ancora di più l'arma. Solo pochi metri li
dividevano ed
evitare il dardo sarebbe stato impossibile.
Quando
avrebbe sentito il colpo partire Eric avrebbe comunque tentato.
Avrebbe
fallito e sarebbe morto in un vicolo buio della periferia, e Sarah lo
avrebbe pianto.
E Adam...
Si
sentì male nel rendersi conto che il suo ultimo pensiero in
quella vita sarebbe stato per lui.
Maledetto!
«Crepa,
Cacciatore!»
Il respiro
si arrestò nel momento in cui sentì il sibilo
della balestra. Le palpebre si serrarono.
Alla fine
non aveva neanche tentato di gettarsi da un lato o
dall'altro, alla fine si era semplicemente arreso.
Arreso al
dolore che ne sarebbe seguito, alla sua morte.
Ma il
dolore non arrivò.
Arrivò
il tonfo di un corpo che cadeva.
Aprì
all'istante
gli occhi e scorse l'essere ormai privo di vita a terra.
Dinanzi
a lui si ergeva ora un'altra figura, con un'altra
balestra
fra le mani, con gli occhi azzurri e i capelli biondi.
«Stai
bene?»
La voce era
quella che aveva udito quella mattina dal pulpito, la voce del
predicatore.
«Chi
sei?» chiese mentre atroci fitte pulsavano dal legno
conficcato nella sua gamba.
Il ragazzo
si avvicinò e gli allungò una mano per aiutarlo
ad alzarsi.
«Padre
Cornelius.»
«E
che ci fa un Padre
con una balestra?» mormorò afferrando la sua mano
e
rimettendosi dolorosamente in piedi.
«Quello
che fai tu,
Eric.» Al sentirgli pronunciare il suo nome lo
guardò
diffidente ma il giovane non sembrò curarsi del suo
sospetto.
«Dobbiamo sanare quella ferita prima che si
infetti.»
«Come
conosci il mio nome?»
Ingoiò
un ringhio di sofferenza quando le mani del prete iniziarono a tastare
la sua coscia lacerata.
«Padre
Jonathan mi ha
parlato di te.» Scrutò i suoi occhi chiari anche
nell'ombra della notte e il sorriso gentile che mostrava
ancora
una volta la sua giovane età. «Sono un
Cacciatore.»
*
Cornelius
lo aveva seguito
fino a casa sua perché Eric aveva obiettato alla sola idea
di
essere curato nella sua di casa, in quella chiesa.
Così
aveva camminato
con sofferenza muta su quella gamba ferita non lasciando neanche che
lui lo sorreggesse. Aveva sentito la carne lacerarsi ancora ad ogni
passo ma aveva mandato giù dolore e grida.
Sarah lo
aveva curato come sempre e aveva offerto una tazza di minestra al
religioso.
Cornelius
l'aveva mangiata con gradimento fino all'ultima
goccia.
Eric
studiava il suo viso e i
suoi modi mentre affondava il cucchiaio nel liquido e spiegava a Sarah
come sanare al meglio la sua ferita.
«Non
ho estratto il
paletto perché questo avrebbe solo peggiorato la lesione. Il
legno ha impedito che perdesse più sangue.»
«Ti
ringrazio per il tuo
aiuto, padre.» Sarah lo aveva già ringraziato
diverse
volte dacché era seduto su quella sedia nella loro piccola e
calda cucina.
Eric no,
non gli aveva detto grazie.
«Mi
stavi seguendo?» chiese mentre le mani di sua moglie
medicavano la ferita.
Cornelius
abbandonò la tavola e raggiunse il suo letto.
«Non
esattamente. Ti
cercavo, questo è vero, ma non mi aspettavo di trovarti in
quel
vicolo.» Aveva maniere semplici che non sembravano quelle di
un
predicatore, non sembravano quelle del ragazzo che aveva parlato con
tale foga e sicurezza dal pulpito di quella chiesa.
«Ho
incontrato Padre
Jonathan qualche mese fa e quando mi ha parlato di te ho voluto
raggiungerti per poter conoscere il Mastro della nostra
Congrega.»
Non nascose
una smorfia
infastidita alla quale però Cornelius rispose con un
sorriso.
«Io sono Cornelius, Cacciatore della Congrega dei Figli della
Neve. Mio padre era Marcus, amico fraterno di tuo padre
Victor.»
Mio
padre...
Non
riuscì a dire nulla e aspettò in silenzio che
Cornelius continuasse.
«Quando
Victor abbandonò la Congrega, fu mio padre ad avere
l'onore di fare le sue veci.»
«Dov'è
tuo padre?» chiese Sarah e Cornelius si rabbuiò.
«In
un luogo migliore.»
Anche Sarah
tacque guardandolo dolcemente negli occhi ed Eric prese un profondo
respiro.
Non aveva
incontrato nessuno al di fuori di Jonathan che fosse a conoscenza di
quella storia, nessuno a parte Adam.
La
verità su suo padre, la verità dietro quella
missione.
Cornelius
poteva avere quella verità, avere quelle risposte la cui
ricerca lo stava divorando notte e giorno.
«Sta
per sorgere il sole. Sarà meglio che vada prima che Padre
Gregory scopra le mie stanze vuote.»
«Aspetta.»
Lo fermò quando giunse alla porta.
Provò
a scendere dal letto ma Sarah glielo impedì.
«Riposa.
Quella ferita
può diventare una brutta faccenda se non la curi come
necessita.» Lo raccomandò ancora il giovane.
«Veglierò io per le notti che ci aspettano
finché
non ti sarai ristabilito.»
«Scordatelo!»
tuonò. Il dolore era insopportabile e non riusciva neanche a
tenere il piede poggiato a terra, ma non avrebbe di certo lasciato che
un ragazzino vestito da frate facesse il suo lavoro.
«Permettimi
di mostrarti
il mio valore, Mastro.» Cornelius fece un piccolo cenno con
il
capo e sorrise ancora. «Tornerò con degli unguenti
che
accelereranno la tua guarigione.»
«Grazie
per
tutto.» Dopo l'ennesimo ringraziamento di sua
moglie, il
religioso lasciò la sua casa. «Il Signore ha
ascoltato le
mie preghiere.» A quelle parole guardò il viso di
Sarah e
lo scoprì sorridente.
Non le
chiese nulla, lasciò che si prendesse cura della sua ferita
e delle sue perplessità.
«Cornelius
scioglierà i tuoi dubbi, amor mio. Forse
scioglierà anche
il buio che ha coperto i tuoi pensieri.»
L'aveva
baciato ed Eric aveva sorriso.
*
Dopo una
manciata di giorni a
riposo, Eric riuscì di nuovo a camminare. Zoppicava e non
era
ancora in grado di piegare il ginocchio senza che la ferita tirasse
dolorosa, ma era sulla buona strada per guarire, così aveva
detto Cornelius.
Gli aveva
fatto visita ogni
dì e aveva portato con sé carne e frutta. La
ferita aveva
impedito a Eric di cacciare sia di notte che di giorno, e quindi se non
fosse stato per lui, Sarah sarebbe stata costretta a chiedere aiuto a
suo padre.
Eric non
voleva lo facesse.
L'uomo ancora non approvava la loro unione e in
più di
un'occasione i dubbi avevano sfiorato la sua mente.
Forse aveva
ragione, non
avrebbe dovuto legare Sarah alla sua vita, avrebbe dovuto lasciarla
libera di incontrare e amare un uomo che sapesse renderla felice e che
le desse quel figlio che tanto voleva, che le desse notti scaldate
dagli abbracci e baci su un viso senza lacrime.
Eric sapeva
di non essere
quell'uomo, ma era l'uomo che lei aveva scelto e
Sarah era
l'unica donna che Eric avrebbe voluto al suo fianco,
l'unica che sapeva dargli quel briciolo di pace che ormai
faceva
così fatica anche solo a cercare.
Sarah amava
le visite di
Cornelius, amava la sua compagnia. Cornelius aveva sempre un sorriso
sul volto e una parola di conforto. Era un prete, ma era soprattutto un
ragazzo vitale, vivo.
“Vuoi emozioni che non riesci
più a provare nella tua vita...”
Adam era
tornato ogni notte nei suoi sogni che erano sempre gli stessi eppure
stavano cambiando.
Eric
riusciva a reggere fino
alla fine quel paletto, riusciva ad allontanarlo, riusciva a resistere
e anche se alla fine crollava sempre fra le sue braccia, la notte
seguente riusciva a resistere un po' di più.
«Cosa
stai facendo in
piedi, Eric? Torna a letto!» Lo rimproverò
Cornelius
quando lo scoprì alzato accanto al fuoco.
«Eric,
non dovevi
muoverti da solo.» Si aggiunse anche Sarah mentre portava
dentro
una cesta con la frutta che Cornelius aveva acquistato al mercato.
Non
protestò neanche, ormai si era abituato alla loro alleanza a
sue spese.
Si stese
sulle lenzuola e Sarah gli lasciò dell'acqua
accanto al letto.
«Vado
alla locanda. Annemarie sta per partorire.»
Il sorriso
sul suo viso era
solo un modo per nascondere la sofferenza. Eric non disse nulla, non le
chiese perdono per la sua volontà di non avere un figlio e
Sarah
ormai aveva smesso di chiederglielo.
«Dio
benedica le tue
mani, Sarah, che accolgano presto una nuova vita fra di noi.»
Cornelius le baciò i palmi e disegnò in aria una
croce.
Sarah
uscì dalla porta con un sorriso più sincero.
«Com'è
andata stanotte?» chiese quando furono soli.
Glielo
chiedeva ogni mattina.
«Al
solito, ma stanno
mutando il loro comportamento. Sono più cauti e ormai
attaccano
in branchi di tre, quattro. È sempre più insolito
trovarne qualcuno in caccia solitaria.»
Cornelius
si accomodò sulla sedia accanto al suo letto con i suoi
occhi azzurri sul suo viso.
«Stanotte
andrò io.»
«Non
se ne parla. Non sei ancora in grado di cacciare.»
Sorrise.
«Ho riportato ferite peggiori e non sono mai stato fermo
così a lungo» ammise sincero.
Spesse
volte si era trovato al
limite, spesse volte quegli esseri gli avevano causato tagli e lividi e
talvolta aveva anche rischiato di essere morso. Ma mai prima di quella
sera era rimasto a letto. Solo quella volta, solo quando Adam lo aveva
portato a un passo dalla morte e Sarah lo aveva salvato.
«Prima
eri solo, Eric, adesso ci sono anche io.»
Scosse il
capo. «Non cambia nulla. Stanotte andrò a caccia.
Discorso chiuso.»
«No.»
Cornelius
poggiò la mano sul suo braccio impedendogli di alzarsi.
«Sai perché i Cacciatori si sono organizzati in
Congreghe?
Perché hanno bisogno di lottare insieme. Uno affianco
all'altro, uno per l'altro.»
«Io
l'ho sempre fatto da solo e così
continuerò.»
Era sempre
stato solo, Eric.
Non aveva avuto fratelli da bambino né amici da adulto. Il
suo
carattere schivo e rude non lo rendeva avvicinabile da nessuno e a lui
era sempre andato bene così.
Suo padre
era stato il suo
punto di riferimento e quando l'aveva perso era stato
costretto
ad affrontare qualcosa di così grande che era stato
difficile
ancora solo comprendere. Ed era stato costretto ad affrontarlo da solo.
Da solo
aveva affrontato la morte di suo padre, quella di sua madre. Da solo
aveva affrontato quella vita predestinata.
Le notti di
caccia con il solo argento come compagnia.
Poi era
arrivata Sarah e aveva
avuto l'illusione di poter riavere ancora calore accanto a
lui,
ma Adam aveva distrutto anche quell'illusione ed Eric era
stato
più solo in quel letto con lei, di quanto non lo fosse mai
stato
prima.
Cornelius
parlava di confratelli, di compagni, di lottare l'uno per
l'altro.
Eric non
aveva mai lottato per
qualcuno che non fosse se stesso, non aveva mai dovuto né
voluto
badare a una vita che non fosse la sua e indirettamente quella di Sarah.
Quella sera
sarebbe dovuto morire, ma Cornelius aveva scelto di aiutarlo.
«La
tua missione non
è un fardello che devi sopportare da solo, Eric. Tutti i
confratelli portano lo stesso peso ma quando ci sono tante spalle quel
peso diventa più lieve, anche se non sparisce mai del tutto.
Si
chiama condividere, la gioia come il dolore. Le lacrime e le
ferite.»
Amava
parlare, Cornelius, parlava di tante cose e usava tante parole per dire
cose semplici.
«È
stato tuo padre a parlarti di questo?» chiese.
Lui
annuì. «Mio
padre mi iniziò alla caccia che avevo dodici anni, ma mi
parlò della nostra missione quando avevo coscienza per
capirne
il significato.»
«Hai
cacciato con lui?»
Ci fu un
breve silenzio e poi Cornelius assentì ancora con il capo.
«Ho
cacciato al fianco
di mio padre fino alla notte in cui fu ucciso...»
L'azzurro
si scurì e le labbra persero ogni sorriso. «Erano
in due.
Doveva essere una lotta semplice. Avevamo affrontato interi branchi ed
eravamo riusciti ogni volta a debellare il Male, ma quella notte no.
Mio padre fu colpito alla schiena. Non sono riuscito neanche a vedere
come fosse accaduto, ho sentito solo le sue urla... Maledette
bestie...» Cornelius strinse i denti e chiuse le palpebre.
Eric
conosceva il dolore della perdita, non sapeva cosa si provasse
però a perdere qualcuno per colpa di una di quelle bestie, a
vederla morire sotto i propri occhi senza poterla proteggere.
«Riuscii a ucciderli entrambi e cercai di soccorrerlo, ma
ormai
non c'era più niente da fare... Mio padre
è morto
senza riuscire neanche a salutare l'alba. Lui amava
l'alba
di ogni nuovo giorno...» Quando il suo racconto
terminò le
labbra tornarono a sorridere sebbene fosse un sorriso triste e amaro.
«Presto ti riprenderai e andremo a caccia insieme.»
Insieme...
Non aveva
mai compreso quanto potesse essere calda quella parola.
*
«Non
hai scritto un diario?»
Eric
addentò una mela e
scrollò le spalle. «Perché avrei
dovuto?!»
mormorò poggiandosi contro il tronco dell'albero
alle sue
spalle.
Il cielo
ero rosso e prossimo alla sera e lui stava solo aspettando che
scendesse la sua notte. La loro notte.
Aveva
scoperto presto quanto cacciare con un altro Cacciatore potesse essere
allo stesso tempo un aiuto quanto una distrazione.
Cornelius
era un abile
cacciatore e nonostante la sua veste da religioso, quando lottava aveva
furia negli occhi e nessuna esitazione. Era soprattutto un cacciatore
preciso e con le armi a distanza non mancava mai il colpo.
Eric
preferiva la lotta vera e
propria, preferiva sentire il pugno schiantarsi contro la carne, il
piede schiacciare le ossa e il sangue di quegli animali macchiare le
mani quando affondava il paletto.
La caccia
era tornata ad essere viva grazie a Cornelius.
«Sei
un Cacciatore, Eric, e per di più un Mastro. Devi avere un
diario.»
«Non
ne vedo il motivo.»
«Cosa
vuol dire? Devi farlo perché così è
scritto.»
Lo
osservò a lungo continuando a mangiare la sua mela per poi
gettare il torso sull'erba.
«Sarah
vorrebbe un figlio» sospirò con un sorriso triste.
«Un figlio da me...»
«Mi
sembra naturale e giusto che sia così. È la tua
sposa.»
Cornelius
gli sorrise con calore e lui scosse il capo.
«Dovrei
mettere al mondo
un figlio per condannarlo? Per renderlo orfano prima del tempo e
lasciargli come eredità questa vita?» Si
alzò da
terra con rabbia. «No, grazie.»
Cornelius
lo seguì subito dopo.
«Non
è una condanna, è solo il tuo destino.»
«Non
l'ho chiesto io questo destino.»
«Il
destino non si sceglie, Eric, si accetta soltanto.»
Destino,
missione, chiamata. Qualsiasi nome potesse trovare, Eric sapeva solo
che non era la vita che voleva per suo figlio.
In
un'altra storia
avrebbe donato a Sarah tutti i figli che desiderava e
l'avrebbe
guardata crescere con amore e cura la loro famiglia.
Ma la sua
storia non si sarebbe scritta con quelle intenzioni.
«Tu
lo stai scrivendo il tuo diario?» chiese.
«Certo.»
Sorrise.
«E per lasciarlo a chi? Sei un prete.»
Cornelius
non cadde nella sua provocazione e gli sorrise di riflesso.
«Come
ben saprai non
c'è necessità di prole, basta un
giovane degno a
cui affidare la nostra missione, e in ogni caso non si scrive il diario
solo per tramandarlo, ma anche per se stessi. Ogni Cacciatore impara
dalle proprie azioni, dai propri sbagli. Ogni Cacciatore,
così
come ogni semplice uomo, cambia e matura a seguito delle proprie
esperienze.» Il sorriso si accentuò. «E
di solito
migliora.»
«Quanto
ti piace
parlare, prete» brontolò dandogli una spallata e
incamminandosi verso il sentiero che portava al villaggio.
Il sole non
era ancora calato.
Cornelius
lo seguì ridendo ed Eric si lasciò contagiare
come ogni volta.
Lui li
chiamava confratelli, Eric avrebbe voluto dire amici.
«Eric,
Jonathan ti ha parlato dei dieci Sire?»
Il suo
cuore saltò un battito e un nodo ruvido gli scese nella gola.
«Ha
detto qualcosa a proposito di farne fuori uno.»
Delle tante
domande che aveva posto a Cornelius, nessuna aveva riguardato Adam.
Cornelius
gli aveva detto che
suo padre Marcus conosceva Victor e che avevano lottato fianco a fianco
per anni. Gli aveva detto che nel diario di Marcus più volte
veniva riportato il coraggio e il valore di Victor, la sua
lealtà e la sua fedeltà alla Congrega. Quelle
parole
rispecchiavano quelle di Padre Jonathan.
Il
vero Victor... un cacciatore abile e spietato, un uomo privo di
compassione e pietà...
La voce di
Adam tormentava
ancora i suoi pensieri sebbene si fosse fatta più lontana e
così anche la sua presenza.
Il suo
collo non aveva più sanguinato ma i suoi sogni non
l'avevano abbandonato.
«Pensi
di cercarlo, un
giorno?» A quella domanda aveva rallentato il passo e aveva
guardato il compagno con la coda dell'occhio.
«Perché
dovrei?»
«È
il tuo compito
primario, in verità. La caccia spetta principalmente ai
confratelli minori della Congrega, un Mastro dovrebbe impegnarsi solo
nella ricerca e nell'uccisione del Sire. Non fraintendere le
mie
parole, mai nessuno si attiene con rigore a questa regola.»
Ricordava
bene le parole di padre Jonathan: trovare
lui prima che lui trovi te.
«Tu
l'hai mai
incontrato un Sire?» chiese con un filo di voce ma Cornelius
scosse il capo con un sorriso quasi divertito.
«No,
mai. Se l'avessi fatto non sarei di certo qui a
raccontarlo.»
Il passo si
arrestò e la sua espressione seria portò
Cornelius a spegnere quel sorriso.
«Che
vuoi dire?»
«Un
Sire non è un comune vampiro, è un vampiro puro.
Non c'è nessuna umanità in lui, in
quanto esso
è nato direttamente dal sangue di Lucifero, dal suo peccato
di
disobbedienza. È più forte, più feroce
e spietato
di ogni altro vampiro. Per questo un Mastro trascorre
l'intera
vita nella preparazione fisica e mentale per affrontarlo, per
affrontare un male primordiale e antico, perché è
questo
che rappresenta un Sire: il Male incarnato.»
Sentì
un brivido correre lungo la sua schiena e la gola sussultò.
«Non
si può uccidere quindi.»
«Oh,
certo che si
può, ma nessuno ci è mai riuscito.»
Cornelius parve
pentirsi di quell'affermazione perché
scostò lo
sguardo lontano.
Nessuno era
mai riuscito a
ucciderne uno, nessun Mastro nel corso delle Ere era riuscito a mettere
fine ad una sola di quelle dieci vite.
Come poteva
riuscirci lui? Un Mastro senza conoscenza né
abilità all'altezza?
Cornelius
che era più giovane in età era già un
Cacciatore esperto se non quanto lui addirittura superiore.
«Devi
avere fede, Eric. Dio non abbandonerà i suoi figli, quando
essi lottano in nome suo.»
«Io
non lotto in nome di nessuno.»
«Ora
non
bestemmiare...» Lo riprese Cornelius con sguardo ammonitore
ma
Eric non aveva voglia di sorbirsi un altro sermone sulla fede e sul
credere. Sul Bene e sul Male.
Aveva solo
voglia di cacciare e di tornare da Sarah con le mani lorde di sangue.
Dietro i
colli il sole era tramontato.
La notte
era appena iniziata.
*
Un calcio,
poi un altro. Una gomitata, un pugno.
Una
ginocchiata sui denti.
Eric cadde
al suolo ma rotolò sulla schiena e recuperò il
paletto dal terreno.
Affondò
il legno immediatamente dopo nel cuore della sua preda.
Alle sue
spalle il sibilo della balestra.
Un colpo,
due colpi.
Due tonfi.
Si
voltò con il fiatone e Cornelius saltò
giù dal ramo su cui aveva fatto da vedetta.
«Sei
ferito,
Eric?» gli chiese controllando con la punta del piede che
nessuno
dei cinque vampiri si muovesse più.
Eric
sputò un grumo di sangue e si pulì le labbra con
il polsino della camicia.
«Sono
ancora tutto
intero...» Cornelius gli sorrise e poggiò
l'arma a
terra. «Grazie per essere rimasto a guardare.»
«Ho
solo rispettato i tuoi ordini. Mi hai detto tu di coprirti le
spalle.»
Gli
lanciò un'occhiataccia mentre cercava di
distendere i muscoli del collo indolenzito.
Passò
accanto al vampiro dai capelli bruni guardandolo con sdegno.
«Ha
cercato di mordermi...» sospirò quasi fosse un
pensiero ad alta voce.
Aveva
rischiato di vacillare
quando aveva avvertito i denti contro la sua pelle, memorie torbide si
erano presto appropriate della sua mente, ma per fortuna il suo braccio
era stato più veloce dei pensieri ed era riuscito a
ucciderlo
prima... prima che-
«Se
l'avesse fatto
sarebbe comunque cenere a quest'ora.»
Sollevò lo
sguardo sul suo viso. Non comprese quelle parole e Cornelius dovette
capirlo. «Non eri a conoscenza di questo, Eric?» Si
sentì chiedere e semplicemente alzò le spalle.
«Mio
padre era di poche parole» spiegò riferendosi al
suo diario.
Cornelius
lo raggiunse dopo aver raccolto le armi che avevano portato con loro
per quella caccia.
Il sole era
prossimo a sorgere.
«Il
sangue di un
Cacciatore è letale per loro.» Lo
informò.
«Così come loro sono figli di Lucifero, noi siamo
discendenti di Michele e quando non vi è collegamento di
sangue,
vi è il passaggio del dono della caccia. Nel momento in cui
un
Cacciatore tramanda il suo compito a un altro uomo, tramanda con esso
la benedizione di Michele che rende il semplice servo di Dio,
un'arma, la Sua arma contro il male... Nessuna bestia degli
inferi può trarre nutrimento dal sangue di un Cacciatore in
quanto esso è consacrato da Dio stesso.»
I suoi
pensieri non poterono che andare all'episodio della chiesa.
Non era
stato reale? Era stato tutto un incubo come quelli che lo
perseguitavano da allora?
Eppure
ricordava chiaramente la sensazione che aveva investito il suo corpo,
ricordava il sangue, il dolore. Ricordava la paura.
«Più
di una volta
mi sono trovato con i loro denti a un soffio dal mio collo. Sei certo
di ciò che dici?» chiese ancora conferme.
Cornelius
annuì con
sicurezza. «Se per pura follia dovessi chiederlo a uno di
loro,
questi demoni ti direbbero che è solo una leggenda, una
menzogna
creata dai Cacciatori per impedir loro di bere il nostro
sangue.»
Sorrise con altrettanta fermezza poggiandogli una mano sulla spalla.
«Ma nessun vampiro è rimasto in vita per
contraddire
questa “leggenda”. È verità,
Eric. È
la parola diretta di Michele, colui che difese la fede in Dio nella
biblica battaglia in cui tutto ebbe inizio.»
Cornelius
lo superò per avviarsi al sentiero ma Eric restò
fermo sui suoi passi.
Non poteva
essere davvero così, se il suo sangue poteva uccidere una di
quelle bestie, come aveva potuto lui
nutrirsi di lui? Come?
Se era
stato reale, se era accaduto sul serio, allora...
«È
letale...» sospirò recuperando la sua attenzione.
Gli
occhi di Cornelius indugiarono sul suo viso in silenzio.
«Anche
per un Sire è letale?» chiese ma la sua voce
tradì
i suoi dubbi, tradì la sua incertezza.
«Non
posseggo questa
risposta, Mastro.» Ne seguì un lungo silenzio e
poi le sue
labbra si mossero ancora. «Temo tu debba scoprire ancora
molte
verità, mio buon amico.» La balestra stretta nel
pugno e
un piccolo sorriso sul viso. «Sarò lieto di
aiutarti a
cercarle.»
Eric era
grato della presenza
di quella voce nel suo silenzio, di quel sorriso nei suoi timori, di
quell'amicizia nella sua solitudine. Eppure Sarah si era
sbagliata, perché con tutto il calore e la vita che
Cornelius
aveva portato con il suo arrivo, non era riuscito a sciogliere i suoi
reali dubbi che nulla avevano a che fare con la sua missione. I suoi
dubbi, le sue domande, le sue paure che vorticavano pericolose attorno
a quel nome, attorno a quel mistero che era Adam.
*
Era
ancora la chiesa di St Thomas. Era ancora il clavicembalo che suonava.
Eric
si avvicinò al primo banco e si sedette ad ascoltarlo.
«Ti
piace?» gli chiese ed Eric annuì.
«L'ho
scritta per te, Cacciatore. È il tuo requiem.»
«Potrebbe
essere il tuo.»
Adam
sorrise ancora e i suoi denti scintillarono sotto la luce della candela
poggiata sullo strumento.
Gli
occhi chiusi che si aprirono per guardarlo.
La
musica cessò stavolta prima che la sonata fosse conclusa.
Adam
abbandonò il clavicembalo e si diresse verso di lui.
Eric
stringeva con forza il suo paletto freddo fra le dita.
A
pochi metri, Adam si fermò e allungò la mano.
«Vieni da me, Eric.»
Il
paletto diventava sempre più pesante, sempre più
pesante, finché non fu più capace di tenerlo.
Cadde
a terra tintinnando.
«Non
voglio» sospirò facendo un passo indietro.
«Oh,
sì che lo vuoi.» Il suo sorriso si
allargò e la lingua inumidì le labbra.
Il
suo cuore stava battendo forte nel petto, così forte da
voler uscire fuori.
«Ti
ucciderò!»
«Vieni
da me.»
Scosse
il capo ma le gambe non riuscirono a fare un solo passo più
lontano.
Fu
Adam ad avvicinarsi mentre i suoi piedi sembravano inchiodati al suolo.
Il
collo iniziò a far male e il sangue prese a scendere copioso
dalla ferita di nuovo lacerata sulla sua pelle.
Eric
la coprì con la mano ma non poteva arrestare il fluire denso
del liquido cremisi.
Osservò
inorridito le sue dita coperte di sangue e scosse di nuovo il capo con
furia.
«No!»
Sollevò
lo sguardo e Adam gli era di fronte.
Non
poteva andare via, non poteva lottare.
«Vieni
da me, Cacciatore, e avrai ciò che brami.»
Adam
gli sfiorò il viso e poi il collo. Le sue labbra lambirono
la pelle ferita.
Rabbrividì.
Chiuse
gli
occhi e lasciò che Adam lo stringesse a sé, che
affondasse i denti nella sua gola e lo facesse crollare fra le sue
braccia.
Le
sue dita strinsero con forza il nero dei suoi capelli e solo in quel
momento Eric si rese conto che non era per allontanarlo.
Le
labbra lasciarono andare un gemito che avrebbe dovuto essere sofferenza.
Non
lo era.
«Veni
da me.»
Lasciò
che fossero quelle di Adam a inghiottire ogni altro suono.
Aprì
le palpebre ma era ancora buio.
Il suo
cuore non smetteva di battere forte e le mani di tremare.
La fronte
madida di sudore così come il resto del suo corpo.
Si
liberò della casacca che gli copriva il petto e la
passò sul viso per asciugarsi.
Passò
la stoffa sul collo ma non trovò sangue.
La
passò
sul ventre umido.
I suoi
occhi inorridirono quando si accorsero della reazione vergognosa del
suo stesso corpo.
Serrò
la mascella e
strinse le palpebre per cancellare l'ignobile vista, ma nel
buio
dello sguardo riusciva solo a rivivere le immagini di
quell'ennesimo incubo.
La sua
voce, i suoi occhi, le sue labbra... le sue mani.
Vieni
da me...
E quella
reazione era solo un insulto alla donna che giaceva al suo fianco.
Mandò
giù la rabbia e la frustrazione, la vergogna e il disgusto
per se stesso e scese dal letto.
Si diresse
verso la porta e lasciò che il freddo lo schiaffeggiasse.
L'erba
umida sotto i suoi piedi nudi e il gelo della notte prossima alla fine.
Raggiunse
il tronco del faggio
a una decina di metri e poggiò il braccio sulla corteccia
nascondendo poi il viso contro di esso mentre cercava di cancellare
quella vergogna dal suo corpo.
Lasciò
al silenzio
della notte i gemiti abominevoli che lasciarono le sue labbra, e al
vento freddo il compito di asciugare ogni goccia di sudore che
scivolava infamante sulla sua pelle.
Crollò
sulle sue stesse
ginocchia con il legno del tronco a graffiare il suo braccio e con
ancora la mano ferma fra le sue gambe, una mano bagnata di vergogna.
Colpì
forte il faggio
con un pugno, poi un altro e un altro ancora finché le
nocche
non si scorticarono macchiando la corteccia di sangue.
Il respiro
ancora affannato e le spalle ricurve come a volersi nascondere dagli
occhi del mondo stesso.
Non avrebbe
mai potuto nascondersi dai propri.
*
I giorni
seguenti aveva
evitato la compagnia di Cornelius ma non gli fu altrettanto facile
evitare gli sguardi di Sarah e le sue mute domande.
Non
l'aveva più
toccata, non era stato più capace di sfiorarla dopo quella
notte
perché ognuna di quelle che ne erano seguite, Eric era
dovuto
fuggire sotto l'ombra del faggio.
Andava a
caccia, tornava
stanco e sporco di sangue e chiudeva gli occhi nel caldo del suo
giaciglio e lì gli incubi lo tormentavano finché
non era
costretto a macchiare di nuovo le sue mani.
Adam non
era mai stato
più lontano eppure più vicino come allora ed Eric
non
l'aveva mai odiato di più.
Stava
tornando dalla sua
battuta di caccia mattutina con il bottino di qualche lepre e un
coniglio quando aveva incrociato lo sguardo di Cornelius fra le genti
del mercato.
«Buondì,
Eric.» Lo aveva salutato con l'immancabile sorriso.
Eric aveva
risposto con un semplice cenno del capo mentre barattava con un
mercante le sue pelli.
Aveva
raccolto il denaro e aveva preso il passo con premura verso la
periferia della città.
Cornelius
lo aveva seguito.
«Eric,
aspetta.»
Una mano a fermarlo e nessun sorriso sulle labbra. «Cosa
turba i
tuoi pensieri, amico mio?»
«Ho
solo fretta» mentì.
Cornelius
non credette a quella menzogna e gli fece cenno di seguirlo.
Eric
tentennò.
«Per
favore, Eric.»
Alla sua
destra la chiesa di St. Thomas.
Non ci
aveva più messo
piede neanche dopo le insistenze di Cornelius affinché
partecipasse alle celebrazioni della domenica.
Non poteva
andare lì, non dopo ciò che accadeva
nell'ombra del suo sonno.
«Voglio
mostrarti qualcosa.»
«Cosa?»
Gli sorrise
gentile. «Il diario di mio padre.»
Il diario
di Marcus, il diario che parlava di suo padre Victor.
Osservò
ancora le scale e ingoiò ogni inquietudine.
Padre...
Seguì
Cornelius fin
dentro alla chiesa e non poté impedire a un conato di vomito
di
salirgli acido dallo stomaco quando i suoi occhi caddero prima sul
clavicembalo e poi sul crocifisso. Sulle panche e sul pavimento freddo.
«Attendi
qui. Voglio accertarmi che Padre Gregory non sia nei paraggi.»
Cornelius
sparì dietro a una piccola porta di legno malconcia ed Eric
cercò di far rallentare il cuore.
Chiuse gli
occhi e si poggiò con la mano contro una delle panche.
Erano solo
incubi, solo costrizioni della sua mente.
Nulla era
reale. Nulla.
Eppure le
sue azioni lo erano, le sue azioni folli e prive di morale, spregevoli
e abominevoli.
La porta
cigolò e riaprì le palpebre.
Non era la
porta dietro cui era scomparso Cornelius, ma quella che si era aperta
alle sue spalle.
Passi lenti
ma decisi a cui non avrebbe dato importanza se non avesse avvertito il
caldo bagnare il suo collo.
Accarezzò
la pelle con le dita mentre i passi si avvicinavano sempre
più.
No...
Il suo
cuore gli bloccò la gola quando le dita tremanti mostrarono
il sangue.
I passi si
arrestarono.
Gli occhi
fissi sulle sue stesse mani e i piedi impiantati a terra.
«Tu...»
Fu un debole fiato.
«Io.»
A quella voce raggelò.
Voltò
lentamente il capo e incrociò due occhi verdi su un viso
pallido.
Fu a quel
punto che il
Cacciatore reagì al posto dell'uomo afferrando con
rapidità il paletto alla cintura e tentando
l'affondo.
Non si
sorprese che lui evitasse il suo colpo.
«I
tuoi riflessi sono migliorati.» Era alle sue spalle.
«Non
sai quanto!»
Si
voltò e tentò
una seconda volta. Il suo polso fu imprigionato fra le sue dita e la
torsione dolorosa gli fece perdere la presa del legno. Provò
comunque a colpirlo con l'altra mano ma Adam
bloccò con
facilità anche quella.
A quel
puntò fu un calcio a fargli mollare la presa.
Adam fece
un balzo indietro e le sue mani tornarono libere.
«Ho
visto che hai fatto amicizia.»
Da dietro
la schiena tirò via un piccolo paletto che gli
lanciò contro.
Adam lo
afferrò al volo e lo spezzò fra le dita senza
alcuna fatica.
Poi
sparì dalla sua vista e fu di nuovo dietro di lui.
Eric si
voltò velocemente scorgendo il suo sorriso.
«In
tutti i vostri discorsi sotto la luna non ti ho udito accennare a me,
Eric.»
Non
rispose. Il suo cervello
stava cercando di elaborare in fretta un piano d'attacco ma
qualcosa teneva occupato ogni suo pensiero.
Era il
sangue che sgorgava dalla sua pelle, erano i suoi occhi, erano le sue
labbra. Era il riflesso di quegli incubi.
«È
il figlio di Marcus, vero?»
Sentì
la rabbia montare nelle vene e qualcosa di altrettanto forte
afferrargli lo stomaco. Era paura.
Nessuno
aveva mai ucciso un Sire, aveva detto Cornelius. Nessuno, nessun
Mastro, nessun Cacciatore.
Un
Sire è il Male incarnato.
«Non
toccarlo.» Lo minacciò stringendo i pugni, ben
consapevole
che non sarebbe stata qualche parola a fermare qualsiasi fosse stata la
sua intenzione.
I
Cacciatori combattono fianco a fianco, l'uno con
l'altro, l'uno per l'altro.
Eric
avrebbe rispettato almeno quell'ordine.
«Lo
difendi...» Il
sorriso di Adam sembrò vacillare appena. «Come
Victor e
Marcus... La storia si ripete» affermò reclinando
appena
il capo cosicché una leggera ciocca nera gli coprisse lo
sguardo
da un occhio.
«La
storia... Quale storia?»
Adam
sorrise ancora.
«La
storia che tu non conosci, Eric, quella storia che non sarà
il tuo compagno Cacciatore a narrarti.»
La sua gola
sussultò sotto quello sguardo, sotto ogni singola parola,
sotto la sua semplice presenza.
«Se
vuoi conoscerla... Vieni da me.»
Se la porta
non si fosse
aperta con un cigolio assordante, se Adam non fosse sparito
così
come era apparso, se il suo collo non avesse smesso di sanguinare e i
suoi vestiti non fossero tornati candidi come ogni volta, se Cornelius
non lo avesse raggiunto con un vecchio diario stretto nella mano, Eric
sarebbe crollato nuovamente al suolo.
Avrebbe
nascosto il capo fra le braccia e avrebbe pregato.
Per la
prima volta nella sua vita avrebbe pregato quel Dio che non conosceva
ma per cui doveva lottare.
Avrebbe
invocato una fede che
non aveva per chiedere perdono di un peccato che non aveva realmente
assaggiato, eppure riusciva lo stesso a sentirne il sapore.
Ed era
dolce come la più crudele di ogni tentazione.
***
NdA.
Lo so che mi avevate dato per dispersa, ma questa storia
necessita di un certo stato d'animo per essere scritta,
quindi
chiedo venia per avervi fatto aspettare tanto, spero che almeno
l'attesa sia stata ripagata.
Grazie a chiunque legga e segua questa piccola fiaba gotica.
Mi auguro di poter concludere presto e concludere degnamente ^^
Un abbraccio.
Kiss kiss Chiara
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Capitolo 4 *** Il morso del Vampiro ***
4. Il morso del Vampiro
A story ever told
IV. Il morso del Vampiro
Coraggio, valore,
lealtà.
Nel diario
di Marcus, Eric lesse
queste parole ripetersi più volte. Victor era un cacciatore
coraggioso, un uomo di valore, un amico leale.
C'erano
episodi che narravano delle
loro cacce, che narravano delle paure di Marcus e delle rassicurazioni
di Victor, suo padre, perché Victor era un mastro votato al
suo
compito.
Eric
trovava l'immagine dell'uomo
che anni addietro, nella sua piccola cucina, padre Jonathan aveva
disegnato. Nelle pagine ingiallite del diario di Marcus, Eric
trovò quel cacciatore abile che non avrebbe mai eguagliato.
Non
c'era nulla che invece parlasse di un uomo crudele e spietato; nulla,
fra quelle righe, riportava neanche un pallido riflesso del Victor
raffigurato dalla voce ambigua di Adam.
Adam aveva
mentito, Adam mentiva.
Avrebbe
dovuto esserne sollevato,
avrebbe dovuto arrabbiarsi ancora di più, avrebbe dovuto
cacciare con più foga notte dopo notte e attendere di
ricontrarlo per porre finalmente fine alla sua vita e alle sue
menzogne.
Ma tutto
ciò che Eric continuava a sentire, era una profonda e
agghiacciante paura.
Cornelius
gli aveva mostrato quel
diario con gioia, aveva insistito affinché lo tenesse lui
per
tutto il tempo che gli fosse necessario per capire ancora
più a
fondo la sua missione; Cornelius, in tutta la sua smisurata amicizia,
ignorava quei timori che Eric nascondeva dietro ai suoi silenzi, dietro
agli sguardi che gli evitava e ai sorrisi che aveva dimenticato.
Sarah era
andata alla locanda. La
casa era silenziosa e vuota. Eric chiuse il diario e poggiò
la
fronte nel palmo della mano, guardando senza vederlo, il legno
malconcio del suo tavolo. Lo scoppiettio invadente del fuoco,
interrompeva a ritmo irregolare i suoi pensieri, le sue domande, i suoi
dubbi.
Padre...
padre mio.
Avrebbe
voluto che fosse lì, davanti a lui, che lo guardasse e gli
rispondesse.
Victor non
avrebbe potuto farlo. Le risposte di Marcus non gli bastavano.
La finestra
si aprì con una folata di vento, sbattendo rumorosa contro
la parete.
Eric
guardò al d là
del legno, la piana verde che scendeva ai piedi della sua casa, e fra
le fronde del faggio scorse un'ombra.
Era lui?
Lo stomaco
si piegò come colpito da un pugno al solo ipotizzarlo.
Sentì
la gola farsi secca e
si alzò dal tavolo per avvicinarsi alla finestra. Socchiuse
lo
sguardo per combattere le folate violente di vento. Guardò
il
faggio, guardò l'ombra e vide solo le orecchie di un cane di
montagna, la sua coda grigia, e i suoi occhi fuggiaschi che lo
guardavano.
Un guaito e
corse via.
Eric
lasciò andare un sospiro e chiuse la finestra.
Se fosse
stato lui? Se fosse stato Adam?
Cosa
avrebbe fatto? Cosa poteva fare? Cosa voleva fare?
Da quella
volta alla chiesa di St.
Thomas, non l'aveva più rivisto. Erano ormai trascorse un
paio
di settimane, solo un paio di settimane, eppure ogni notte era sembrata
più lunga, ogni caccia più pericolosa e ogni alba
più accecante.
“Vieni da me.”
Sentiva i
brividi solcargli la
spina dorsale al rimembrare quelle parole, che non erano state frutto
di un sogno, ma che erano state reali come quella dannata paura che lo
accompagnava ormai a ogni respiro.
Si
passò una mano sul viso, soffocando contro il palmo
l'ennesimo sospiro.
Un'altra
notte così e Eric sarebbe impazzito.
*
Quella notte fu
diversa.
*
Sarah era
tornata dalla locanda con
un cesto di frutta e un messaggio: Cornelius gli mandava a dire che non
lo avrebbe accompagnato quella notte.
«Padre
Gregory sta male,
ormai gli resta poco. Cornelius non può lasciare il suo
capezzale, non credo che lo farebbe in ogni caso.» Eric aveva
annuito a quelle parole e le aveva accarezzato il volto. Sarah si era
ritratta e aveva iniziato a sistemare la frutta sul tavolo.
Sarah
sfuggiva sempre più spesso alle sue carezze, forse
perché ne avvertiva il freddo.
Cenarono
nel silenzio, come ogni sera.
«Torno
prima dell'alba.»
«Sii
prudente.» Ormai era diventato un rituale. Triste e amaro,
come ogni rituale.
Non
riuscì neanche a
scendere il sentiero che lo avrebbe portato al borgo, ché si
ritrovò attaccato da due esseri notturni.
Nonostante
l'abitudine di essere in
compagna di Cornelius, Eric riuscì comunque a debellare la
loro
minaccia con facilità. Bastò un colpo di balestra
al
primo e un paletto di frassino al secondo: caddero a terra senza
emettere un solo suono.
La notte
era fredda e umida, Eric
sentiva il gelo dell'inverno che si avvicinava ad ogni cambio di luna.
Presto la landa sarebbe stata coperta di neve, nei mesi che sarebbero
seguiti avrebbe avuto solo bianco a circondarlo e lo avrebbe macchiato
di rosso a ogni notte.
Amava
l'inverno, Eric; l'inverno
portava con sé quei pochi ricordi felici, ricordi di un
bambino
ingenuo, con i guanti bucati e i vestiti cuciti da stoffe diverse, che
mangiava una zuppa calda accanto al fuoco facendosi carezzare la testa
da sua madre e godendo dello sguardo di suo padre.
Quegli
inverni erano stati più caldi di ogni estate che avesse
vissuto dopo il suo diciassettesimo compleanno.
Agganciò
la balestra alla
spalla e si sistemò la giubba grigia. Alzò la
vista al
cielo nero e alla luna sfumata di bianco.
«Splendida
notte... Non trovi?»
Il suo
cuore si era incastrato nella gola.
Abbassò
lo sguardo e si ritrovò i suoi occhi verdi di fronte.
Fu
istintivo portare le dita al suo collo. Non c'era sangue. Non aveva
fatto male, non aveva bruciato come era solito.
Non l'aveva
sentito
quella volta.
Adam
sorrise ed Eric strinse i denti.
«Il
tuo fratello Cacciatore non ti accompagna questa notte? Me ne
rammarico, avrei voluto fare la sua conoscenza.»
«Come
se potessi credere che
sia un caso che ti sia fatto vivo adesso.» Era la prima volta
da
quando cacciavano insieme che Cornelius non era con lui.
Eric
capì solo in quel
momento quanto volesse averlo al suo fianco, quanto volesse nascondersi
da quella voce nella sua testa, quella che gli sospirava domande che
non trovavano mai risposta in nessuna pagina e in nessuna parola.
Fece
scivolare dall'avambraccio un paletto di frassino ma lo tenne soltanto
stretto nella mano.
«Posso
staccarti la mano
prima ancora che tu possa sollevare il polso»
affermò
quasi apaticamente Adam, tenendo lo sguardo incatenato nel suo.
Sapeva era
verità, ma non era per paura di veder messa in atto la sua
minaccia che non provò a colpirlo.
«Perché
non c'è
nessuna traccia di te nel suo diario?» Fu la prima e la
più difficile da porre, fu la domanda che gli fece tremare
la
voce e quasi bruciare la lingua.
Adam non
rispose, continuò a guardarlo con il viso pallido messo in
ombra dal chiarore della luna.
Eric
sentì il suo stesso battito impazzire contro le tempie.
«Hai
detto di averlo
conosciuto, di aver lottato con lui... Eppure non c'è una
singola pagina in cui appaia il tuo nome.»
Sei un bugiardo,
avrebbe voluto dire.
Mi stai mentendo. Stai solo
giocando con la mia mente, bestia degli inferi.
Si
limitò a coprirsi a sua
volta di silenzio e attese una sua mossa, con la mano piena del paletto
e le gambe pronte a scattare.
Adam
sollevò il viso al
cielo, scostando per la prima volta gli occhi. Era avvolto in un
mantello nero da cui si intravedeva il bianco della camicia e il rosso
infuocato della sua casacca.
«Era
una notte come questa, simile a questa...» disse soltanto.
Eric
seguì con lo sguardo la
linea delle sue labbra, poi scese fino al suo collo niveo. Avrebbe
potuto approfittare di quel momento per colpirlo. Avrebbe potuto essere
veloce e affondare il paletto.
Poteva
farlo, era una frazione di secondo, forse meno, ma poteva tentare o
morire nel tentativo.
Poteva, la
verità era che non voleva.
Quando Adam
abbassò
nuovamente lo sguardo nel suo, Eric capì di aver perduto la
sua
unica possibilità, l'unica di quella notte, forse l'unica
della
sua stessa vita.
«Quel
diario è solo un petalo, Eric. Ne mancano ancora molti per
completare la corolla.»
Deglutì.
«E tu possiedi gli altri?»
Adam
sorrise di nuovo. «Solo
quelli che ho saputo cogliere nel corso della mia lunga esistenza,
giovane Cacciatore.» Un passo più vicino.
«Vuoi che
te li mostri?»
In quel
preciso istante gli
tornarono alla mente le parole che Cornelius disse quel giorno sul
pulpito. Il peccato e la sua effimera bellezza, la sua inconcludenza,
la sua menzogna.
Avrebbe
voluto che Cornelius fosse
lì, a ricordargli ancora una volta quelle parole, a
impedirgli
di cedere a quella tentazione.
Cornelius
non era lì.
Eric era
solo, in una fredda notte,
con tante armi che non avevano efficacia, senza una fede a cui chiedere
aiuto o una speranza in cui rifugiarsi. Aveva solo domande e paure e
altre domande ancora, aveva solo gli occhi di Adam e le sue parole.
«Mostrameli,
allora.»
E cadde,
nel caldo abbraccio di quell'illusione chiamata tentazione.
Adam
assentì con un cenno del capo e gli porse la mano.
«Vieni
con me.»
Eric
guardò quelle dita
pallide sentendo le sue tremare attorno al paletto. Guardò
di
nuovo il suo viso e i suoi occhi chiari inghiottiti dalle ombre della
notte, le sue labbra sottili, la pelle pallida e la chioma selvaggia di
capelli corvini.
«Non
ti concederò una
seconda occasione, Eric.» Quelle parole gli fecero serrare la
presa sul legno. «Se vuoi risposte, questa sarà
l'unica
notte in cui ti sarà concesso udirle.»
Non avrebbe
voluto essere
così debole da farsi piegare da un misero e beffardo
ricatto, ma
lo era. Davanti agli occhi di Adam, Eric si sentiva debole come non
mai, disarmato e nudo, senza difese o certezze.
Come fosse
stato uno di quei tanti sogni soffocanti che lo avevano tormentato, da
cui si svegliava come non avrebbe dovuto.
Stavolta
era reale, stavolta poteva cambiare l'esito e non essere un fantoccio
fra le sue mani.
Poteva, ma
per l'ennesima volta, non voleva farlo.
Allentò
la presa sul paletto
finché non cadde a terra. Non fece un solo rumore mentre si
perdeva nell'erba umida della piana.
Eric
avvicinò le dita della
mano a quelle di Adam, quando fu a un soffio dallo sfiorarle si
fermò e lo guardò negli occhi.
«Vieni
da me... Eric.»
Se c'era
davvero un dio che gli aveva dato quella missione, Eric
pregò affinché lo perdonasse.
Afferrò
le dita di Adam e poi fu solo buio.
*
Quando
riaprì le palpebre
attorno a lui c'era un forte calore, un calore che pareva soffocarlo.
Fiamme alte danzavano creando ombre sui muri.
Doveva
essere l'inferno,
pensò. Poi udì il rumore della legna che
scoppiettava
nella brace. Sollevò il busto e si trovò dinanzi
un
enorme camino.
Si
guardò intorno: era una
grande sala con un enorme libreria che copriva due intere pareti. Si
accorse in quel momento di essere seduto su un sofà di
velluto
rosso, il legno intarsiato finemente.
Passò
le dita sul bracciolo
laccato. Tornò poi con lo sguardo al fuoco rimanendo quasi
incantato nell'osservare le fiamme arancioni che salivano alte.
Il respiro
divenne caldo nei suoi stessi polmoni.
Si rese
conto solo allora di Adam che lo guardava poggiato contro una colonna a
qualche metro di distanza.
Si
sollevò immediatamente in piedi studiandolo con prudenza.
Non aveva
più il mantello
né la sua giacca rossa. La pallida camicia era aperta di
qualche
bottone. Fra le mani reggeva un calice di cristallo con del liquido
troppo denso per essere vino.
Sentì
lo stomaco rivoltarsi e strinse i pugni delle mani.
Il caldo
del camino era diventato improvvisamente insopportabile.
«Ho
atteso che ti svegliassi, non mi sembrava cortese interrompere il tuo
sonno.»
«Dove
sono? Dove mi hai portato?» chiese a bruciapelo.
Adam
sorseggiò il suo calice e si passò poi la lingua
fra le labbra che erano divenute inquietantemente rosse.
«Questa,
giovane Mastro,
è la mia umile dimora» affermò
poggiando il
bicchiere su un tavolo. «Ritieniti onorato: sei il primo
della
tua specie a mettervi piede.»
Quelle
parole lo confusero.
«Specie?»
«Cacciatori»
rispose Adam. «L'unico cacciatore.»
Lo aveva
condotto nella sua casa.
Era
verità?
Eric
guardò ancora la
stanza, il velluto del sofà, lo stesso velluto con cui erano
cucite le tende che celavano la balconata. Il camino di marmo, il
numero indefinito di libri che componeva la biblioteca e all'angolo,
illuminato da un candelabro, un clavicembalo.
E fu
proprio il clavicembalo che Adam raggiunse. Accarezzò il
legno e poi i tasti, e si sedette sulla seduta frontale.
Chiuse gli
occhi e iniziò a suonare.
Il cuore di
Eric smise di battere
mentre udiva le stesse note che avevano suonato in ogni sua notte,
quelle note che avevano centellinato ogni incubo e ogni paura.
Guardò
il volto di Adam, le
ombre disegnate dalle candele e dal fuoco del camino, i suoi capelli
che offuscavano lo sguardo celato.
Adam
continuò a suonare la
sua musica, disperata e bellissima, alzando di tanto in tanto gli occhi
nei suoi, come saette che squarciavano il buio del cielo durante una
tempesta. Suonò con un sentimento che Eric poteva descrivere
con
una parola soltanto: passione. Ed era inarrestabile mentre si spandeva
per tutta la stanza e giungeva fino a lui senza esitazioni. Note come
gocce di veleno letali.
Poi la
struggete sonata terminò, i tasti piansero per l'ultima
volta e fu silenzio.
Eric
riusciva a sentire il suo cuore battere assordante.
«Sai
quanti Mastri ho
incontrato nella mia vita, Eric?» Adam non aspettò
una
risposta. «Centinaia, diverse centinaia...» Si
alzò
poi dallo strumento e lo guardò. «E sai quanti di
loro ho
ucciso?»
«Tutti?»
Adam
sorrise.
«Tutti
tranne uno.»
Mio
padre...
Sentì
la gola in una morsa.
«Dieci
erano i Sire all'alba
di quel giorno e dieci sono ancora oggi, a dispetto di quante Ere si
siano succedute» disse ancora.
L'aria
divenne una lama che
trafiggeva il suo petto ogni volta che respirava. Lo seguì
allontanarsi dal clavicembalo per tornare al tavolo dove sostava il
calice. Ne prese un altro sorso.
«È
una lotta impari. Sarà sempre una lotta impari,
Eric.»
«Se
ti aspetti di
impressionarmi devo deluderti: non ho intenzione di abbandonare il mio
obbiettivo» affermò con fermezza sebbene il sangue
stava
pompando con troppa forza nelle sue vene.
«Le
mie parole non avevano
questo intento.» Il bicchiere era ora vuoto, sporcato solo da
una
patina che aveva seguito la discesa del liquido. «Di tutti e
dieci i Sire solo una manciata si trovano ancora qui sulla Terra. Lo
sapevi?»
No, non lo
sapeva.
Non rispose
comunque e Adam piegò le labbra in un pallido sorriso.
«Ma
di tutti e dieci gli
Angeli Fedeli, quanti di loro hai visto lottare al tuo fianco? Vi hanno
lasciato soli in una battaglia che non vi vedrai mai vincitori. Soli,
accompagnati solo dall'utopia di una fede cieca e muta, come se potesse
realmente armare le vostre mani. C'è un che di poetico nella
vostra esistenza, Eric, oppure è solo la tristezza
dell'inevitabile che cercate di esorcizzare inseguendo una chimera
chiamata salvezza... Ma per te queste parole non contano nulla. Non
conta sapere se ci sia davvero un Paradiso che ti attende al termine di
questa vita devota.
Dico bene? E ad ogni modo, non è come lo descrivono.
Credimi, io l'ho visto.»
«Dove
vuoi arrivare?»
«Voglio
semplicemente che tu
mi dica per cosa combatti, Eric. Per quale motivo ogni notte, da anni,
vivi sporcandoti le mani di sangue.»
È la mia missione.
Era questa la risposta, era ciò che gli aveva detto suo
padre in
quel diario, e che gli aveva ribadito sia Jonathan che Cornelius.
Ma non era
la verità.
«Cosa
ti importa del perché lo faccio?» chiese quasi con
rabbia, rifugiando nell'astio la sua incertezza.
«Perché
sei figlio di
tuo padre, e Victor ha lottato sempre per un solo motivo che nulla
aveva a che vedere con la fede.» Ogni qualvolta nominava il
suo
nome, Eric avrebbe voluto ucciderlo. «Ho fatto questa domanda
a
ogni singolo Mastro che ho incontrato, a ogni singolo Cacciatore tanto
coraggioso e stupido da intrecciare la sua strada con la mia: per cosa
combatti?... Mi hanno risposto tutti la stessa identica cosa, tranne
uno. Tranne Victor.»
Schiuse le
labbra per poter respirare con più facilità,
l'aria sembrava non bastargli.
Adam lo
guardava poggiato nuovamente contro la colonna, con le braccia
incrociate e le labbra rosse.
Attendeva
che gli porgesse quella domanda, e Eric aveva paura di farlo ma...
«Cosa
ti rispose?»
Lo vide
aprirsi in un debole sorriso.
«“Perché
mi piace.”»
Mandò
giù quel poco di saliva che gli era rimasta in
bocca e fece vagare nuovamente gli occhi al fuoco.
«È
la stessa
motivazione che hai tu, non è vero?... Non ci sono questioni
di
fede o giustizia, c'è solo la brama di cacciare. Il suo
bisogno
e l'eccitazione che ti provoca.»
«No,
non è
così...» Ma lo disse senza guardarlo negli occhi,
con la
voce debole e le labbra asciutte, e Adam scorse facilmente la sua
menzogna.
“Perché
sei figlio di tuo padre.”
«C'è
solo una
differenza fra te e Victor, ed è quella differenza che
faceva di
lui un grande Cacciatore e di te...» Non completò
la frase
e Eric tornò a guardarlo. «Victor era conscio di
ciò che era e non ha mai combattuto la sua vera natura. Se
non
avesse lasciato la Congrega e la nostra battaglia, sono sicuro sarebbe
stato l'unico a potersi avvicinare alla realizzazione di quel compito
di cui si veste ogni Mastro.»
L'unico che
avrebbe potuto uccidere Adam.
Eric
sentì le gambe deboli,
avrebbe voluto sedersi su quel sofà e nascondere gli occhi e
la
testa, farla smettere di pulsare e far smettere quel cuore di galoppare
doloroso nel petto.
C'era una
nota di rispetto e di ammirazione che attraversava le parole di Adam,
sottile e impalpabile, eppure c'era.
Sentì
il collo pungere. Lo toccò e sulle dita trovò
sangue.
«Non
è reale.» Le parole di Adam suonavano lontane nel
caos che imperversava nei suoi pensieri.
Il sangue
continuò a sgorgare senza arrestarsi.
«Come
può non essere
reale?» urlò mostrandogli il palmo umido. Adam non
cambiò la sua espressione apatica mentre lo osservava a
pochi
metri.
«Sei
tu a renderlo reale, e la tua mente che vuole che lo sia.»
«No!
Non è
vero!» ribadì con furia sentendo il caldo liquido
scendere
lungo il suo collo. «Tu... tu mi hai morso...»
«No,
non era reale.»
Non capiva.
Pensò
alle parole di
Cornelius, all'impossibilità di uno di quei mostri di
nutrirsi
di un Cacciatore. Allora era vero? Anche Adam poteva morire
semplicemente se si fosse nutrito di lui?
Ma aveva
avvertito i suoi denti
nella carne, ricordava nitidamente quella sensazione. Come poteva non
essere stato reale? Come poteva non esserlo adesso?
«Perché...?»
chiese infine osservando quella mano diventata rossa.
«È
il tuo modo di chiamarmi.»
«Cosa?»
Scosse il capo con un sorriso tragico. «Tenti ancora di
confondermi con le tue parole?»
Adam si
allontanò dalla
colonna sciogliendo le braccia e si avvicinò a lui con passi
lenti ma inesorabili. Non poteva andare via, non poteva scappare da
nessuna parte. L'incubo stava divenendo realtà.
«Quella
ferita non è
reale, è solo la tua mente che vuole che lo sia,
perché
vuole che io ti raggiunga.»
«Stammi
lontano!» Gli
intimò allungando la mano. «E taci con queste
assurdità! Io non voglio altro che ucciderti.»
Adam
sorrise a gli afferrò
il polso torcendolo con forza. Eric strinse i denti provando a colpirlo
con l'altra mano. Adam afferrò anche l'altra e le
piegò
con violenza dietro alla sua schiena costringendolo in ginocchio sul
pavimento. Eric non riuscì a trattenere un gemito di dolore.
«Non
è reale.» Gli sibilò contrò
l'orecchio e Eric tremò.
Scosse la
testa provando a rimettersi in piedi e sentendo il sangue scivolare
sempre più copiosamente.
Alle sue
spalle Adam serrò la presa facendo tendere dolorosamente i
suoi gomiti piegati.
Eric
urlò ancora.
«Credi
che la brama del tuo
sangue mi porterà da te.» Il respiro era sempre
più
corto, il dolore sempre più forte. «Ma io non
posso
nutrirmi di te, Eric, lo sai. È stato il figlio di Marcus a
dirtelo.»
Cornelius...
In quel
momento avrebbe voluto chiamare il suo nome. Strinse invece i denti e
continuò a combattere contro la sofferenza.
Avvertì
ancora il fiato di
Adam contro il suo orecchio. «Non hai bisogno di quella
ferita,
Eric... Io sono già qui. Sarò sempre
qui.»
Voltò
il capo e incrociò i suoi occhi, le sue labbra vicine e
l'odore pungente del sangue che emanavano.
Sentì
la morsa sulle sue
braccia allentarsi finché non furono di nuovo libere. Le
lasciò cadere lungo i fianchi restando in ginocchio su quel
pavimento di legno, sotto il calore che irradiava il fuoco e quello che
bruciava nel fondo delle iridi di Adam.
Percepì
poi la carezza delle sue dita sul suo collo.
Quando le
portò sotto il suo sguardo, Eric vide che erano candide e
pallide.
A quella
vista si sentì letteralmente crollare.
Se fosse
quella la vera illusione,
se fosse stata quella che lo aveva tormentato da quella notte nella
chiesa, se fossero i sogni che governavano i suoi sonni o l'incubo che
stava vivendo in quel momento, Eric non lo sapeva, non sapeva
più nulla. Non aveva mai saputo realmente nulla.
Chiunque
fosse stato suo padre, chiunque fosse stato quel cacciatore di nome
Victor, Eric non voleva più davvero saperlo.
«Adesso
mi ucciderai?» chiese con un filo di voce che fece fatica a
riconoscere lui stesso.
«Vuoi
che lo faccia?» La domanda di Adam fu accompagnata da una
carezza sui suoi capelli.
Eric
annuì.
«Fallo.»
Era sicuro
come non mai, era codardamente sicuro.
Adam gli
accarezzò ancora la testa e flesse un ginocchio per essere
alla sua stessa altezza.
Forse gli
avrebbe rotto il collo, o
gli avrebbe letteralmente strappato via il cuore, magari lo avrebbe
soffocato lentamente facendogli imprimere negli occhi l'immagine del
suo viso, cosicché fosse l'ultima cosa ad accompagnarlo nel
lungo viaggio verso l'Inferno.
«Farà
male...»
«Non
importa»
affermò con ridicola convinzione. Nulla avrebbe potuto fare
più male di ciò che stava annegando nel suo petto.
Adam
sorrise e gli sfiorò il
viso ed Eric avrebbe voluto morire in quel momento, non uno dopo,
perché la sensazione che gli attraversò la pelle
era
devastante.
«Addio,
Eric.»
Fu
doloroso, faceva male, Adam
aveva ragione. Nel momento esatto in cui sfiorò la sua bocca
con
le labbra, Eric sentì il cuore scoppiare. Quando
assaporò
con la lingua il sangue che tingeva quella di Adam, la sua carne
iniziò a bruciare come fosse gettata in quella brace vicina.
Mentre stringeva quel corpo pallido contro il proprio e gemeva sulla
sua bocca, Eric capì che Adam non avrebbe potuto scegliere
un
modo peggiore per ucciderlo.
E l'aveva
fatto.
Eric era
morto.
*
Riaprì
gli occhi e si
ritrovò davanti il verde dei prati, gli arbusti che salivano
fino al cielo, l'aurora appena nata.
Sulla bocca
il suo sapore, sulla pelle la sensazione delle sue dita.
Alzò
il voltò al sole pallido e lasciò andare una
lacrima per quel ragazzo che non c'era più.
*
Cornelius
tornò a cacciare
con lui qualche notte dopo. Padre Gregory era morto e un nuovo prete
era giunto dalla vicina cattedrale per prendere il suo posto. A
Cornelius non era stato neanche chiesto di farlo: troppo giovane. Fu
una fortuna, perché in caso contrario non avrebbe potuto
rifiutare ed Eric sarebbe dovuto tornare a cacciare in solitudine.
Non voleva
più farlo.
«Dietro
di te!» Eric si
voltò e colpì il demone con un calcio prima di
ucciderlo
definitivamente con un paletto. Alzò lo sguardo e vide un
altro
giungere alle spalle di Cornelius che però era occupato a
mirare
al petto di una femmina a qualche metro. Il dardo partì
centrando la preda ma non avrebbe avuto il tempo di colpire anche
quello che stava giungendo velocemente.
«Giù!»
Gli
urlò Eric e Cornelius si abbassò permettendogli
di
lanciare il paletto e colpirlo senza errore.
«Grazie...
non l'avevo visto.»
Eric
assentì con il capo
riprendendo fiato. Nella radura una decina di corpi giaceva a terra. Il
sole stava per sorgere e avrebbero aspettato che bruciassero tutti
prima di andare via.
Raggiunse
un tronco tagliato e si
sedette con stanchezza pulendosi le mani sporche con una stoffa logora
che tirò fuori dalla tasca.
Cornelius
lo raggiunse sedendosi a terra e poggiando la testa contro il suo
ginocchio.
«Diventi
sempre più abile, Mastro.»
«E
tu sempre più distratto.» Lo richiamò
ma lo udì ridere.
«Chiedo
venia, ma la colpa è della tua impeccabile compagnia, Eric.
Mi porta ad abbassare la difesa.»
«Quindi
se ti farai uccidere
sarà perché sto diventando più abile.
Una bella
responsabilità.»
Cornelius
rise ancora e poi sollevò il capo per guardarlo. Il sorriso
sfumò presto.
«Ho
parlato con Sarah, stamani.»
Ingoiò
un sospiro mentre continuava a togliere il sangue dalle dita con la
stoffa.
«E
quindi?»
Cornelius
si alzò per sedersi proprio accanto a lui sul tronco.
«Sai
che non mi è
concesso parlare di ciò che mi viene confidato,
però come
tuo amico, sento il bisogno di dirti dei dubbi che stanno pervadendo la
tua sposa, Eric.»
«Grazie
per la preoccupazione
ma non sono affari tuoi.» Provò ad alzarsi ma
Cornelius
gli prese una mano obbligandolo a restare.
«La
vostra è stata
un'unione basata su un sentimento sincero, lo so, e so anche che quel
sentimento c'è ancora e che è forte... Qualsiasi
cosa ti
possa angustiare, Eric, non permetterle di ledere quel
legame.
Non dimenticare i voti che hai preso davanti a Dio: hai promesso di
essere uno sposo e un marito degno dell'amore di Sarah.»
Sapeva bene
a cosa si riferiva,
sapeva bene che il gelo che era sceso nella loro casa era sceso anche
nelle loro notti e non era più a causa di quei sogni. Non li
aveva più fatti, Eric, non c'era più stata
nessuna sonata
e nessuna macchia di sangue. Non era più dovuto scappare
vergognosamente sotto al faggio. Il suo collo non aveva più
pulsato.
Adam era
andato via dai suoi incubi
e dalle sue paure. Eppure non aveva abbandonato i suoi pensieri ed era
divenuto anche peggio, perché la pace che sembrava aver
apparentemente trovato nelle sue notti, Eric non riusciva a scorgerla
nella sua veglia. Adesso che non tormentava più i suoi
sogni,
Adam riempiva i suoi pensieri.
«Ha
forse avuto qualche mancanza nei tuoi confronti, Eric?»
Scosse il
capo.
«No,
Sarah è...» Sospirò. «A volte
mi chiedo quanto sia stato egoista a legarla a me.»
Cornelius
strinse con gentilezza la sua mano.
«Non
è stato egoismo, Eric, è stato amore e
quell'amore c'è ancora. Devi solo riscoprirlo.»
Gli
sorrideva, sincero e amico, ed
Eric si chiese cosa avesse mai detto se avesse saputo la
verità,
se avesse saputo di Adam e delle sue labbra e di come era stato
perversamente intenso sentirle sulle proprie, come era stato intenso il
sapore del sangue nella sua bocca e le sue dita fra i capelli, se
avesse saputo con quanta disperazione avrebbe voluto rivivere quella
morte mille volte ancora.
«Lascia
che vegli io per
queste notti, concedi la tua compagnia alla tua sposa e cancella
l'ombra che è scesa sui suoi occhi.»
Sorrise.
«Ti
farai uccidere e poi dovrei venire a prenderti a calci da quell'altra
parte.»
Cornelius
rise e gli diede una pacca sulla spalla.
«È
un rischio che sono disposto a correre, amico mio.»
«Moriresti
per farmi
rispettare i miei voti nuziali?» chiese beffardo cercando di
non
far trapelare la sua vera inquietudine.
Cornelius
sorrise ancora.
«Morirei
volentieri se ciò servisse a farti trovare pace,
Eric.»
Quelle
parole gli fecero vibrare la
gola. Il sorriso di Cornelius era ancora lì, mentre
l'arancio
dell'alba scaldava l'oro dei suoi capelli.
«Giurami
che non lo
farai» ordinò serio intanto che le fiamme andavano
ad
avvolgere uno per uno i corpi privi di vita sulla terra.
«Giurami
che non farai mai una stupidaggine simile!»
«Non
posso, sarebbe un giuramento che tradirei.»
Fu Eric ad
afferrare la sua mano a quel punto e impedirgli di allontanarsi.
«Cornelius,
non azzardarti
mai e poi mai a porre la tua vita prima della mia. In nessuna occasione
e per nessun motivo. Siamo intesi?» Lo guardò con
sguardo
di rimprovero e con una certa rabbia verso se stesso, perché
non
avrebbe mai voluto che qualcuno come Cornelius potesse ritenere la sua
vita qualcosa che avesse così tanto valore. Non dopo tutto
ciò che gli stava tacendo.
Ma
Cornelius sorrise nuovamente.
«Tu
lo faresti per me?»
«Non
è la stessa cosa...»
«E
perché?
Perché tu sei un Mastro e io un Cacciatore semplice?... Sei
mio
amico, Eric, sei mio fratello e darei la vita per te così
come
so tu daresti la tua per me, e te lo impedirei allo stesso modo con cui
tu vorresti impedirlo a me. Non chiedermi di fare giuramenti, chiedimi
di essere prudente e di fare attenzione. Solo questo, fratello mio.
Solo questo.»
Nel fondo
dei suoi occhi chiari,
Eric trovò un sentimento che andava oltre la semplice
amicizia,
oltre la condivisione per quello stesso compito, andava oltre la
lealtà.
Fratello.
Eric poteva
dire finalmente cosa volesse dire.
*
Sarah stava
preparando la cena quando Eric rientrò chiudendosi la porta
alle spalle.
«È
quasi pronto...» sospirò senza voltare le spalle.
«Bene.»
Raggiunse il
tavolo e iniziò ad appuntare i suoi paletti, guardandola
fare
gli stessi gesti di ogni giorno con la stessa tristezza e la stessa
malinconia.
Il suo viso
era lo stesso di quando
l'aveva vista quella prima volta, coperto di ferite e timori, mentre
lei lo curava amorevolmente. I suoi capelli erano gli stessi che aveva
fatto scorrere fra le dita quando avevano fatto l'amore la prima volta
sull'erba umida, e i suoi occhi nocciola avevano le stesse venature
d'ambra che gli avevano fatto vibrare il cuore.
Sarah era
bella come un tempo e lui l'aveva dimenticato.
Aveva
dimenticato come fosse vederla sorridere, il suono della sua risata, il
calore gentile e timido delle sue carezze.
Aveva
perduto memoria di quel tempo
per abbracciare l'ombra soffocante di una tentazione impossibile, di un
peccato privo di salvezza.
Davanti a
quel fuoco Eric aveva
lasciato morire i dubbi e le incertezze, e aveva lasciato morire l'uomo
che aveva sposato quella giovane donna.
Non poteva
più essere quell'uomo, Eric, forse non voleva neanche
più esserlo.
E se poteva
essere un fratello
leale per Cornelius, nonostante i suoi oscuri segreti, avrebbe potuto
essere un buon marito nonostante quei desideri, nonostante quella brama
illecita.
Sarebbe
stato un compromesso che era disposto a condividere con la sua anima;
per Sarah, avrebbe potuto farlo.
Lasciò
il coltello e il paletto sul tavolo e la raggiunse di nuovo
avvolgendole le braccia attorno alla vita.
La
sentì irrigidirsi quando le posò un bacio fra i
capelli.
Quando
Sarah voltò il viso
per guardarlo, Eric le sfiorò una guancia e poi la
baciò
con dolcezza sulle labbra.
«Eric..?»
«Perdonami,
Sarah.» La baciò ancora e poi ancora, mentre gli
si stringeva alle sue spalle con forza.
Un velo
umido le scivolò sul viso e lui lo asciugò con le
dita.
«Perdonami...»
E lei gli
sorrise.
«Amor
mio, sei tornato? Sei tornato da me?»
Un'altra
lacrima, un'altra carezza.
«Sono
tornato» mentì ed ebbe ancora un sorriso, ancora
un bacio.
E mai
menzogna avrebbe potuto essere più dolce.
*
Eric
mentì per altre notti,
per altre notti la strinse fra le braccia e l'amò come gli
era
concesso e come Sarah meritava di essere amata.
Per altre
notti Cornelius
cacciò in solitudine mentre Eric guardava l'aurora sorgere
dalla
finestra della sua piccola camera.
Per altre
notti chiuse gli occhi
sentendo il cuore di Sarah battere contro il proprio petto e sentendo
di amarla, in modo diverso, ma che mai avrebbe smesso di farlo.
Per altre
notti si ingannò
da solo, credendo che quella menzogna non esistesse, che era
verità ogni bacio e ogni sospiro, e ogni lacrima.
Per altre
notti Adam sparì dai suoi sogni e dai suoi pensieri, quasi
fosse stato solo un fantasma mai realmente esistito.
E a ogni
notte seguiva una nuova
alba, seguiva un sorriso di Cornelius e una sua parola, seguiva una
ferita che Eric medicava e una raccomandazione che Cornelius prometteva
di seguire.
Poi giunse
una nuova alba e tutto cambiò.
Sarah
entrò raggiante dalla porta gettandogli le braccia al collo.
«Aspetto
un figlio, amor mio. Un figlio tuo.»
*
Non erano a
caccia. Era un pomeriggio grigio, ventoso, che lasciava cadere poche
gocce d'acqua.
Stavano
risalendo il sentiero verso casa sua quando Eric arrestò il
passo. Fra le mani un paio di conigli.
«Eric?»
Cornelius
si fermò a sua volta.
«Sarah
è
incinta.» Ogni volta che lo diceva, fosse a voce bassa o
soltanto
nei suoi pensieri, suonava come una dannazione.
«Oh,
Eric!» L'abbraccio
di Cornelius fu immediato. Le sue braccia lo strinse forte e a sua
guancia liscia premette con affetto contro la sua. «Che
notizia
felice, amico mio!»
Se anche
non avesse avuto le mani
impegnate a tenere le sue prede, Eric dubitava fortemente avrebbe avuto
la forza di ricambiare quell'abbraccio.
«Dici
davvero?»
Alle sue
parole scorse l'incredulità sul volto di Cornelius.
«Certo!
È una gioia
che riempie il mio cuore, Eric.» Gli sorrise sincero e gli
baciò le guance. «Tu non sei felice?»
Deglutì
e annuì.
«Credo
di sì...»
No, non lo era. Era terrorizzato, era spaventato dall'idea della vita
che stava germogliando nel ventre di Sarah.
Cornelius
andò al di là delle parole e scorse quella
verità.
«Ricordo
bene i tuoi timori
sull'avere un figlio, ma non devi averne. Nessuno. Sarai un buon
padre.» Gli poggiò una mano sulla spalla
scuotendolo con
affetto. «Aspetta di vederlo nascere e vedrai dissipare nel
vento
ogni paura.»
«Potrei
essere morto prima che venga al mondo...»
«La
morte fa parte della
vita. È una tappa che tutti raggiungiamo prima o poi. Non
puoi
vivere però credendo che sia l'unica. C'è tutta
una vita
prima, una meravigliosa vita, Eric. Fatta di sorrisi e di lacrime, di
dolori ma anche di gioie. Essere un padre è una delle
più
grandi che tu possa sperimentare. La tua missione non sarà
un
limite, sarà solo un insegnamento in più da
tramandare a
tuo figlio.»
Nella voce
di Cornelius c'era una
carezza per ogni parola, c'era lo stesso abbraccio con cui lo aveva
stretto, c'era lo stesso calore e la stessa fiducia. Cornelius
confidava davvero che sarebbe divenuto un buon padre ed Eric voleva
solo essere capace di condividere quella convinzione.
«Non
so cosa potrei mai insegnargli... io sento di non aver imparato ancora
nulla nella mia vita.»
Cornelius
gli sorrise. «L'umiltà. Sarebbe già un
buon punto di partenza, non credi?»
Ricambiò
quel sorriso sospirando sonoramente.
«Devo
smetterla di parlare
con te... Hai sempre una risposta per tutto. Dannato!»
mormorò passandosi una mano sugli occhi.
Le braccia
di Cornelius lo avvolsero ancora mentre se la rideva di gusto.
«Un
giorno o l'altro ti convincerò anche a
confessarti.»
Tentò
di spingerlo via ma non c'era volontà nei suoi gesti.
«Impossibile!»
«Oh,
io dico che ci riuscirò.»
«Mi
stai soffocando, prete!» brontolò allungando
però un braccio attorno alla sua schiena.
«Sono
così felice per te, amico mio. Così
felice...»
Cornelius
ignorò le sue
proteste e continuò ad abbracciarlo, gli passò
poi una
mano sulla spalle e ridendo lo invitò a bere per la lieta
notizia.
Quella
sera, andarono alla taverna
di Briston e trascorsero la notte fra i boccali di birra e i sermoni
alticci di Cornelius che, salito su un tavolo, iniziò a
narrare
storie che avrebbero dovuto essere scritte nella Bibbia.
Eric non
sapeva se fosse così o meno, la Bibbia lui non l'aveva mai
neanche aperta.
Ma sorrise
mentre lo ascoltava,
mentre Charles gli intimava con modi rudi di scendere dal suo tavolo e
Cornelius continuava a predicare con un boccale nella mano.
Eric
sorrise e rise mentre riceveva
gli auguri degli uomini che bevevano con lui, uomini che non aveva mai
realmente guardato, che avevano nomi e lavori e che lo avevano chiamato
amico anche
solo per una sera.
Quella
notte non ci sarebbe stata
caccia né sangue ad attenderlo. Quella notte Eric non
sarebbe
stato un Cacciatore, solo un uomo che presto sarebbe diventato un
padre. E avrebbe imparato molto.
*
«Non
avrei dovuto farti
bere» sospirò mentre lo trascinava verso la chiesa
di
St.Thomas. Stretto al suo fianco, Cornelius ridacchiava senza reale
motivo e continuava a dire quanto fosse felice.
«Sarà
un figlio fortunato, Eric. Avrà te come padre.»
«Sì,
sì...»
Aprì
il grosso portone e lo
condusse verso il corridoio che dava alle stanze dei religiosi.
L'indomani tutti avrebbero avuto notizia di ciò che era
accaduto
alla locanda e Cornelius si sarebbe di certo beccato una lavata di
capo. Era stato così insolito vederlo perdere ogni freno e
controllo. Benché fosse sempre un animo gioviale e
amichevole,
Eric non aveva mai davvero avuto modo di vederlo così libero.
Lo
portò nella sua stanza e lo lasciò cadere sulla
piccola branda.
«Ora
dormi senza fare troppo
baccano o sveglierai tutti.» Gli raccomandò ma
Cornelius
era già con il viso sul cuscino e gli occhi socchiusi.
Gli tolse
gli stivali e li adagiò ai piedi del letto.
«Sono
felice...» gli udì mormorare.
«Forse
lo sei più di
me» confessò con un filo di voce sedendosi sulla
branda.
Cornelius aveva ora chiuso gli occhi e respirava profondamente.
«Ho paura, davvero... E vorrei potertelo dire»
ammise in
solitudine. «Vorrei davvero poterti dire tutto, amico
mio.»
Lasciò andare un profondo respiro e si alzò.
Prima di
uscire guardò ancora il volto assopito del suo compagno.
Gli doveva
tanto e non glielo aveva mai davvero detto e, sapeva, non lo avrebbe
mai fatto.
Tornò
accanto a lui e si chinò per posargli un bacio sulla fronte
umida.
Grazie.
*
Abbandonò
le stanze private
della chiesa per tornare nella sua sala, con i banchi di legno e il
grande crocifisso, con il pulpito in alto e il clavicembalo solitario.
Dov'era
adesso?
Era andato
via per sempre?
Una parte
di lui lo sperava,
sperava che fosse così, un'altra parte invece avrebbe voluto
rivedere i suoi occhi e sentire la sua voce, un'altra parte ancora
avrebbe voluto affondare l'argento nel suo petto e scoprire come era
uccidere un Sire, cosa accadeva a chi non bruciava al sole, quale
sfumatura avrebbe attraversato il suo viso pallido mentre gli strappava
via quella vita dannata.
Una parte
di lui avrebbe voluto chiamare il suo nome e attendere che rispondesse.
“Sono già qui.
Sarò sempre qui...”
Si
avvicinò allo strumento e guardò i tasti. Poteva
sfiorarli, poteva suonare una sola nota.
Alzò
il capo al crocifisso e, per la prima volta, si fece un segno della
croce.
Voltò
le spalle e abbandonò quella chiesa.
Sua moglie
lo stava aspettando e con lei suo figlio.
Per quella
notte Eric avrebbe dimenticato di essere un Cacciatore.
Avrebbe
dimenticato la sua missione.
Avrebbe
dimenticato Adam.
...
Non gli
sarebbe stato concesso.
*
Arrivò
davanti la sua stessa casa e lui era li, poggiato contro quel faggio
che tante notti aveva atteso lui.
«Perché
non hai
suonato?» Lo accolse con quella domanda, mentre un sorriso si
tagliava nell'ombra della notte.
«Dovevo?» Sei venuto comunque.
Dalla
finestra della camera la pallida luce della candela, l'unica compagnia
di Sarah.
Eric la
guardò e poi guardò il volto di Adam.
«Un
figlio, Eric?... Sei stato così sciocco?»
Un'altra
domanda, un'altra accusa.
«Forse
lo sono sempre
stato» ammise sentendo l'umidità notturna
scivolare sulla
sua pelle e entrare fin dentro alle ossa, o erano gli occhi di Adam,
era la sua vicinanza.
Non aveva
armi con sé eppure
non ne sentiva la necessità. Non in quel momento, non quella
notte che avrebbe voluto fosse diversa, fosse unica.
Lo era
stata fino a quell'attimo, forse lo sarebbe stata ancora.
Poi fu Adam
a guardare verso quella finestra.
«Dorme,»
disse. «Sento il suo respiro e il battito del suo cuore... li
sento entrambi.»
«Senti
il suo cuore?...»
Come?
Adam
sorrise e tornò a volgere a lui il suo sguardo.
«Dovrei
congratularmi con te, credo.»
«Risparmiatelo.»
La sua
debole risata strappò
un sorriso anche a lui e Eric pensò fosse colpa dell'alcol
che
aveva bevuto. Non poteva essere altrimenti, non poteva essere per altri
motivi.
Non c'erano
ragioni diverse per
giustificare il calore che lo avvolse quando Adam si
avvicinò,
per spiegare il batticuore che tuonò nel suo petto quando
gli fu
di fronte e le sue labbra si aprirono ancora.
«Potrebbe
essere un addio, Cacciatore, se è ciò che
vuoi.»
«È
già stato un addio, Adam.»
Inclinò
la testa di qualche grado e sorrise ancora.
«Amo
gli addii, sono
affascinanti nel loro essere saturi di vuoto. Dovrebbero segnare una
fine, eppure cos'è una fine se non un diverso
inizio?»
«Ripetilo
quando ti avrò piantato un paletto nel cuore.»
Un'altra
risata, che però si spense presto, prima che quegli occhi
verdi lo inghiottissero.
«Credi
ancora di poter tentare?»
«No,
credo di poterci riuscire.»
Adam lo
guardò a lungo, in
silenzio, poi mosse un solo passo indietro e scostò il lungo
mantello nero con un gesto del braccio.
«Dimostramelo.
Stanotte.»
Un fremito
attraversò la sua
schiena ed Eric sentì le mani vuote. Le strinse in due pugni
e
accettò quella sfida. Forse l'ultima; forse, finalmente, la
prima.
Il primo
attacco andò a
vuoto e Adam lo colpì allo stomaco con una ginocchiata.
Tentò ancora, stavolta afferrandogli un braccio, ma Adam
sfuggì dalle sue mani quasi fosse solo acqua, impossibile da
trattenere.
Eric si
voltò e
riuscì a schivare un pugno, ma non il secondo che lo
colpì alla spalla. Non evitò neanche il calcio,
né
la gomitata che lo fece tossire con forza.
Si
poggiò barcollando contro il tronco alla sua sinistra,
pulendosi le labbra sporche di sangue con il dorso della mano.
«Ti
arrendi?» Adam lo fronteggiava impavido e privo di una sola
ferita.
Scosse la
testa con affanno e si aprì in un semplice sorriso di puro
orgoglio.
«Mai.»
«Hai
fatto la tua scelta, allora.»
Eric
guardò la sua mano sporca di sangue e ne sentì il
sapore in bocca.
Fu un
pensiero fulmineo, un'idea assurda eppure che non seppe scacciare.
Si
lasciò poggiare totalmente con le spalle contro il faggio in
attesa che lui lo attaccasse.
Ogni attimo
che ne seguì
parve atrocemente lungo, ma quando Adam gli fu di fronte con gli occhi
di fiamme verdi e il pallore di quel viso a un soffio, con le sue dita
attorno al collo, Eric non esitò: si sporse e
poggiò le
labbra sulle sue, lasciò che si schiudessero e che la sua
lingua
scivolasse nella sua bocca.
La morsa
sul suo collo si allentò e fu lui ad afferrare il collo
pallido di Adam, e a spingerlo contro il tronco.
Continuò
a lambire le sue labbra con rabbia e disperazione. Finché
non sentì le sue mani spingerlo via.
Ricadde
violentemente a terra e lo udì tossire più volte.
Sollevò
il capo e lo vide
piegato sulle sue stesse ginocchia mentre continuava a tossire
coprendosi la bocca con il palmo. Dense gocce di sangue presero a
colare dalle sue dita.
Si sedette
con affanno sull'erba,
chiedendosi perché non fosse ancora corso ad afferrare il
paletto celato nel manico della sua ascia,conficcata a pochi metri;
chiedendosi perché stesse provando quella strana sensazione
allo
stomaco mentre lo guardava tossire senza tregua. Eric si chiese se la
morte di Adam avesse davvero significato una fine.
Cos'è
la fine se non un diverso inizio?
«Che
mossa sleale...»
Furono le prime parole che gli sentì sospirare. Adam
spostò la sua mano e mostro le labbra e il mento sporco di
sangue, i suoi occhi chiari freddi come ghiaccio. «Degna di
Victor.»
Fu Adam a
rimettersi in piedi per
primo, non senza mostrare una certa difficoltà. Non si
curò di pulire il viso, non si curò di pulire le
sue dita
che pendevano ancora umide ai suoi fianchi.
Eric si
rialzò velocemente e in quel momento capì che
l'aver esitato lo aveva condannato.
E pensare
che era stato proprio Adam, quella lontana notte, a riprenderlo per
quella debolezza.
«Ma
poche gocce del tuo sangue, Cacciatore, non possono nulla.»
L'immagine
che aveva di fronte era
così diversa dal solito, così lontana da come
aveva
imparato a conoscerlo. Non c'era l'algido uomo che lo aveva affrontato
più volte, che lo aveva torturato nei suoi giorni e nelle
sue
notti. Le sue dita non erano le stesse che danzavano agili sui tasti di
uno strumento. Ora, mentre Adam gli puntava contro l'indice sporco di
sangue, Eric pensò che sembravano più gli artigli
di una
fiera, i suoi occhi quelli di un rapace; i suoi denti, zanne pronte a
dilaniare e divorare.
Solo
adesso, Adam era il mostro, la bestia che aveva sempre creduto ed Eric,
stranamente, non ne ebbe timore.
«Avanti,
allora. Che aspetti?» lo incitò, conscio di quanto
di lì a poco se ne sarebbe pentito.
Ma Adam non
attaccò. Adam
abbassò il braccio e sciolse il suo mantello nero che cadde
alle
sue spalle senza far rumore. Si sfilò anche la giacca rossa
e la
gettò a terra senza smettere di guardarlo.
Eric
deglutì una certa
inquietudine guardando le sue dita macchiare la candida camicia mentre
ne scioglievano i piccoli nastri che la tenevano unita. Quando la
stoffa fu slegata, i suoi occhi scrutarono la pallida striscia di pelle
che si intravedeva al centro.
«Cosa
credi di fare?»
Non si chiese se fosse trapelata la sua agitazione, la sua inquietudine
per quei gesti che non capiva. Quando Adam fece scivolare via dalle
spalle anche la camicia restando con il dorso nudo sotto i suoi occhi,
Eric non si chiese se fosse riuscito a leggere ciò che li
stava
attraversando.
«Ti
mostro quanto tu sia simile a tuo padre, Eric.»
«Cosa-?»
Non
terminò la domanda,
perché Adam si voltò mostrandogli la schiena e a
quel
punto Eric vide una profonda cicatrice che l‘attraversava
diagonalmente, dal fianco sinistro alla spalla destra.
Sembrava la
ferita di una spada ma
più che l'arma, ciò che gli fece galoppare forte
il
cuore, fu capire a chi apparteneva il braccio che l'aveva inflitta.
«Mio
padre...» sospirò debolmente.
«Quella
mattina sulle sponde
del lago. C'eri anche tu.» Adam si voltò
nuovamente ma non
raccolse i suoi abiti da terra. «Fra le lacrime, mi chiese di
risparmiarti e io lo feci. Risparmiai la vita di quel
bambino.»
Eric lo
ascoltò in silenzio mentre lo vedeva avanzare verso di lui.
«Ma
decisi di risparmiare
anche la sua. Mi voltai e andai via e a quel punto, mentre ero di
spalle, come un vigliacco, mi colpì.»
Il respiro
crebbe quando gli fu di fronte.
«Stavo
per ucciderlo, stavo
per prendermi la sua vita, e lo sai cosa mi disse mentre tenevo il suo
collo in questa mano?... “Un giorno mio figlio
completerà
l'opera.”»
Le labbra
di Adam sorrisero fra il sangue che ancora le tingeva.
«Avrei
dovuto uccidere lui e
uccidere te, ma decisi di non farlo. “D'accordo,
Victor”
gli dissi. “Fa' solo che ne sia all'altezza.” Tu a
quel
punto mi guardasti. Tremavi e piangevi, e pensai che non ne saresti mai
stato in grado.»
Eric
sentì le dita di Adam
afferragli i capelli prima che le sue labbra sanguinanti fossero sulle
sue e stavolta il sapore del sangue che invase la sua bocca, era quello
di Adam.
«Vuoi
chiedermi la stessa
cosa, Eric?» gli chiese poi con un fiato che arse la sua
carne.
«Vuoi che risparmi il figlio che ancora non hai tenuto fra le
braccia affinché porti a compimento ciò che hai
fallito
tu?» Fu ancora un bacio, rabbioso e umido.
«Io
non fallirò» ansimò sentendosi sbattere
contro il tronco. «Non fallirò.»
Di nuovo le
sue labbra, di nuovo il sangue sulla sua lingua.
Eric fece
scivolare le mani sulla sua schiena e sentì sotto le dita la
profonda cicatrice che la dilaniava.
Poi furono
le mani di Adam a vagare
sul suo corpo, a lacerare la sua casacca con un gesto deciso, a
strappare via la sua cintura di cuoio e a premere contro il suo corpo.
Sentì
il fiato mancare e il
cuore distruggersi in mille battiti mentre il peccato che aveva
consumato numerose volte sotto quello stesso faggio sembrava
impallidire di fronte a ciò che stava vivendo in quel
momento.
Le dita di
Adam lasciarono striature rosse lungo la sua pelle, le sue labbra
bruciarono ogni volta che toccavano le sue.
Il suo viso
fu graffiato dalla corteccia quando si ritrovò premuto
contro il legno.
Non seppe
dire se urlò, se
pianse, se gemette soltanto; mentre Adam lo uccideva nuovamente e
mentre Eric, sapeva, lo stava uccidendo a sua volta.
Sotto una
luna sfumata e il freddo dell'ultimo autunno, fra le coperte delle
fronde di un faggio, morirono entrambi.
Non ci
sarebbe mai stata alcuna vittoria, per nessuno.
*
Poi fu
silenzio, fu vento, fu freddo, poi fu di nuovo solitudine.
Eric non si
voltò per
vederlo andare via. Alzò solo lo sguardo verso la sua casa:
dalla finestra non veniva più alcuna luce.
La candela
si era consumata tutta.
***
NdA.
Il prossimo sarà l'ultimo.
Grazie per aver letto e seguito questa storia con affetto. Mi ha
appassionato più del previsto e, non avrei creduto di
poterlo
dire, la concludo con una certa tristezza.
Mi scuso se ho aggiornato a cadenze così irregolari, ma come
già detto in precedenza, è una storia che
riuscivo a
scrivere solo con un certo stato d'animo.
Ringrazio ognuno di voi per il tempo dedicato a queste parole, e un
abbraccio a chi a lasciato un commento con cui coccolare un po' la
piccola fanwriter che vivacchia nella mia anima ^^
Ho altri progetti targati Hiddlesworth, ma per adesso, terminata questa
storia, mi prenderò una piccola pausa dalla RPS. Ho
monopolizzato il fandom anche per troppo tempo u///u
È stato piacevolissimo condividere con voi le emozioni che
mi scatenano questi due figlioli.
Alla prossima avventura ❤
Kiss kiss Chiara
P.S. Anche la sonata di Adam, presente in questo capitolo, appartiene
al caro Scarlatti ed è la “Sonata in D minor, K.
141.”
Se vi andasse di ascoltarla, questa
è la meravigliosa esecuzione di Jean Rondeau. Buon ascolto.
|
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Capitolo 5 *** Il destino del Cacciatore ***
cap5
NdA.
Stavolta vi rubo qualche secondo prima e poi vi lascio a
questo ultimo capitolo.
Ha faticato un po' a venir fuori e vi chiedo davvero scusa per questa
infinita attesa. È anche un periodo parecchio down per me su
molti aspetti e sono conscia che non è un granché
come finale, ma a un anno esatto dal primo ho voluto comunque chiudere
il ciclo ^^
Grazie a chiunque mi abbia fatto compagnia.
Se c'è ancora qualcuno in ascolto, vi auguro un Buon
Halloween e buona lettura.
Kiss kiss Chiara
A story ever told
V. Il destino del
Cacciatore
Eric
iniziò a scrivere un diario.
Una
mattina, mentre passeggiava con le sue prede legate alla cintola, vide
un piccolo diario con la copertina scarlatta come sangue; gli
costò tutta la sua selvaggina, ma lo prese senza
alcun'esitazione.
Giunse a
casa.
Sarah
riposava sulla seggiola di legno, con il fuoco che ardeva povero nella
brace e i ferri della maglia poggiati sulle ginocchia, e con la sua
pancia tonda che sporgeva dolcemente dalle sue vesti. Eric si sedette
al tavolo, senza far rumore, e scrisse la sua prima parola su quelle
pagine vergini.
Scrisse il
suo nome: Adam.
*
Charles
voleva che si trasferissero in città, voleva che Eric
portasse sua figlia in un luogo meno isolato e deprimente,
usò queste due precise espressioni.
«Se
è ciò che Sarah vuole» rispose Eric,
bevendo una sorsata di birra dal boccale.
Charles gli
puntò contro il suo grosso indice e lo guardò con
quegli occhi neri, duri e severi.
«Non
mi sei mai piaciuto, e mai mi piacerai, ragazzo, ma stai per diventare
il padre di mio nipote perciò meglio che inizi a comportarti
con responsabilità.» Lo ammonì per poi
passare il panno umido sul bancone. «Trovati un lavoro che ti
assicuri un piatto sulla tavola ogni giorno, perché se mia
figlia è stata felice di fare la fame con te, non
lascerò che mio nipote viva allo stesso modo.
Chiaro?»
Eric
annuì e trattenne un sospiro stanco. Poi la porta della
locanda si aprì e Charles guardò infastidito
l'uomo appena entrato.
«E
smettila di frequentare quel prete... le preghiere non ti riempiono lo
stomaco.»
Lo
udì borbottare ancora e allontanarsi non appena Cornelius si
sedette accanto a lui.
«Buondì,
Charles.» Al suo saluto gentile, non ci fu alcuna risposta.
«Ignoralo,
oggi ha la luna storta... tanto per cambiare.» Gli
spiegò finendo la sua birra e poggiando il boccale sul
bancone. Si voltò a guardarlo e vide un sorriso troppo
luminoso disegnato sul suo viso. «Cos'è quella
faccia? Ti hanno forse eletto Papa?» Lo prese in giro mentre
si alzava dallo sgabello.
«Nulla
di particolare. Sono solo allegro,» rispose Cornelius
seguendolo verso l'uscita.
«Buon
per te.»
Ad
accoglierli il freddo pungente dell'inverno, il cielo bianco e l'aria
che profumava di neve.
Eric si
strinse nella sua casacca mentre Cornelius sollevava il cappuccio del
suo mantello marrone.
«Ti
sono venuto a cercare a casa ma non ti ho trovato, e Sarah mi ha detto
che probabilmente eri qui.»
Eric
sospirò.
«Charles
vuole che ci trasferissimo qui al villaggio.» Lo
informò con tono privo di colore.
«Non
mi pare per nulla un'idea malvagia, Eric. Ormai manca poco al termine
della gravidanza di Sarah e sarebbe di certo più di aiuto
essere accanto alle sue sorelle. Per non parlare della
facilità con cui potrebbe procurarsi ogni bene necessario
per allevare il nascituro.»
Non perse
neanche tempo a obiettare. Cornelius era nella ragione, ma Eric non
sopportava la vita del villaggio, troppa confusione, troppo rumore...
Troppi occhi.
Era sempre
stato un tipo solitario, amava la tranquillità della sua
dimora. Per questo amava essere un cacciatore, per poter essere in
solitudine con la sua preda, seguirla, studiarla e poi stanarla senza
necessità di altro fuorché della sua arma.
L'unica
caccia che aveva accettato di condividere era quella notturna
perché Cornelius era un fratello, non un semplice compagno.
Mentre
Sarah diveniva ogni giorno più bella e la sua pancia
cresceva, Eric continuava a cacciare con Cornelius ogni notte, alle
volte tornando prima dell'alba, altre, attendendo che il sole fosse
alto. Sarah non gli chiedeva di esserle accanto, e se anche Cornelius
insisteva spesse volte affinché il suo posto fosse di fianco
il sua sposa, Eric preferiva restare con il suo paletto nella mano, con
gli occhi fissi in quelli di un demone, con il suo sangue a sporcargli
vestiti e pelle.
La sua vita
di Mastro era rimasta apparentemente la medesima, eppure c'era qualcosa
di profondamente diverso. Perché le notti in cui tornava a
casa quando la luna era ancora alta, erano quelle in cui lo scorgeva ad
attenderlo sotto il faggio; quelle in cui aspettava l'alba e poi il suo
zenit, erano quelle in cui era Eric ad attenderlo.
E Cornelius
non sapeva, nessuno sapeva, nessuno avrebbe mai saputo delle loro
lotte, di tutte le volte che Eric tentava di affondare il paletto e di
tutte quelle in cui lui glielo strappava dalle mani. Nessuno avrebbe
mai saputo del sangue che scorreva sulla sua pelle, di quello che
sporcava la pallida pelle di Adam, delle sconfitte, delle vittorie, dei
baci e delle carezze, selvagge e rabbiose, intense e disperate. Nessuno
avrebbe saputo della tentazione a cui Eric cedeva notte dopo notte,
luna dopo luna, alba dopo alba.
«La
vita del villaggio non è così male come credi, e
poi sarà una buona occasione per frequentare le celebrazioni
mattutine.»
Eric lo
guardò con un sopracciglio sollevato e Cornelius rise
colpevole. «Va bene... come soleva dire il saggio Padre
Gregory: la fede non è un obbligo, ma una
passione.»
«Mh...
alquanto blasfemo» sottolineò divertito e
Cornelius continuò a sorridere.
«Avere
fede è un po' come essere innamorati. Ne hai un bisogno
smodato, lo avverti nel cuore e nelle tue stesse vene. Lo brami,
semplicemente... è passione, la più alta di ogni
passione, quella che ti fa sentire realmente vivo.»
Eric
ascoltò ogni parola con attenzione, guardò le
labbra di Cornelius pronunciarle con intensità, con profonda
convinzione.
«Come
fai a sapere cosa si prova a essere innamorati?» gli chiese
sinceramente incuriosito dal modo in cui ne parlava.
Cornelius
non gli negò il suo sguardo seppure sembrò
coprirsi di un sottile imbarazzo. Le sue guance pallide si arrossarono
ulteriormente sotto il freddo del pomeriggio ma il sorriso non
lasciò la sua bocca.
Non gli
rispose, però, intanto che un piccolo fiocco di neve cadeva
leggero sul suo naso. Poi ne cadde un altro ed Eric sollevò
lo sguardo all'insù, verso il cielo da cui piovevano sempre
più cristalli di neve.
«Meglio
che torni in chiesa prima che inizino a giungere i bisognosi di
riparo,» disse Cornelius stringendosi nel suo lungo mantello.
«Ci vediamo stasera, Eric. Porterò un mantello
anche per te.»
«Ti
ho già detto che non lo indosserò!» gli
rispose mentre lo vedeva allontanarsi con passo lesto.
Scosse poi
il capo decidendo che era ormai tempo di rientrare. Con quel freddo non
sarebbe stato possibile trovare alcuna preda da cacciare ed era meglio
fare una buona scorta di legna. L'inverno di quell'anno sarebbe stato
fra i più rigidi.
*
Spaccò decine e
decine di ciocchi sotto la leggera nevicata. Diede vigore al fuoco e
lasciò che la piccola cucina fosse abbracciata dal calore
delle fiamme.
Sarah stava
tagliando della verdura e gli sorrideva, in silenzio, ascoltando lo
scoppiettare della legna. Eric si sedette al tavolo ad appuntare
qualche paletto.
«Tuo
padre vuole che andiamo a vivere al villaggio.»
La notizia
non la sorprese.
«Anche
Catherine mi ha chiesto lo stesso. Dice che quando il bambino
nascerà sarebbe saggio che crescesse con i suoi
cugini.»
Eric
l'ascoltò e poggiò il paletto appena finito
accanto agli altri. Prese l'altro pezzo grezzo di frassino e fece
scorrere la lama sulla corteccia.
«Se
vuoi andare a viverci per me va bene» affermò
controllando l'angolazione del taglio. «Mi basta saperti
felice.» Intento com'era nel suo lavoro non si accorse del
silenzio di Sarah, dei suoi occhi che lo guardavano, delle domande che
avrebbe voluto fargli ma che gli tacque. «Stasera potrebbe
arrivare una bufera,» disse poi, soffiando via piccoli
riccioli di legno. «Sigillerò tutte le imposte,
così non dovrai temere il vento.»
«Potresti
restare...» alle sue parole, Eric sollevò lo
sguardo sul viso della sua sposa. «Non sei obbligato ad
andare.»
Era una
richiesta, chiara come il bruciare di quelle fiamme.
«Cercherò
di tornare prima.»
Non
poté dirle di sì. Non volle farlo.
*
Il freddo,
come aveva scoperto da tempo, era un limite non solo per un uomo ma
anche per uno di quei demoni, per il semplice motivo che non avevano
possibilità di trovane nessuno di cui cibarsi.
Tutti erano
al sicuro nelle loro case i gli sfortunati che affrontavano la notte
gelida finivano con l'essere vinti dal freddo ancora prima che dai
canini di quelle bestie.
Con la neve
fra i capelli e le dita delle mani nascoste da pesanti guanti, Eric e
Cornelius si aggiravano in solitudine per i boschi, fra i nudi alberi
che si stagliavano nel bianco della neve come anime smarrite.
Incontrarono
pochi demoni, tutti finirono per ricadere privi di vita sul manto
candido a sporcarlo con il loro sangue maledetto.
«Sarà
bene rientrare, mio buon amico» suggerì Cornelius
stringendosi nel suo mantello. «Una bufera incombe. Sarebbe
un rischio sciocco continuare ad avventurarci per queste fredde
terre.»
Il vento
aumentò ferendo il viso dei due come fosse fatto di lame
affilate.
Eric si
poggiò a un tronco per non perdere l'equilibrio.
«Va
bene» disse con voce alta per vincere il frastuono delle
raffiche. «Torniamo.»
Ma proprio
quando avevano deciso di metter fine a quella battuta di caccia, furono
attaccati da sei esseri della notte.
La sorpresa
e la difficoltà dovuta al tempo pesarono pericolosamente sui
loro movimenti e con fatica Eric riuscì ad abbatterne due
mentre Cornelius ne affrontava altri.
Corse a
dargli man forte e dopo una dura lotta rimasero due contro uno.
Cornelius
teneva puntata la sua balestra con la fronte sanguinante ma con mani
ferme. Eric strinse il suo paletto e fece un passo verso di lui.
L'essere
indietreggiava con occhi folli, mentre osservava visibilmente
terrorizzato il resto dei suoi simili completamente immobili al suolo.
Eric
guardò verso Cornelius facendogli segno di colpirlo e il
dardo partì.
*
Cornelius
aveva preso il sentiero che portava al villaggio per raggiungere la sua
chiesta. Eric risaliva il colle per far ritorno alla sua piccola casa.
Il vento
sferzava violento, i piedi affondavano nel manto sempre più
profondo di neve e lui si coprì gli occhi con una mano per
non essere accecato dal cadere dei cristalli.
Poi fu un
attimo, veloce tanto da non essere quasi percepito.
Eric si
ritrovò con le spalle sulla neve e una lama puntata alla sua
gola.
«Un
po' troppo freddo per i miei gusti» sibilò Adam
premendo il taglio sulla pelle ed Eric si umettò le labbra
screpolate dal gelo. Guardò i suoi capelli neri confusi dal
vento, il lungo mantello che si muoveva alle sue spalle, i suoi occhi
che lo divoravano.
Con un
movimento lesto, che Adam semplicemente seguì,
ribaltò le posizioni e puntò lui il paletto
d'argento al suo petto schiacciandolo contro il manto bianco.
Adam
sorrise.
Eric si
ritrovò nuovamente a finire con le spalle a terra ma
stavolta non c'era la neve, non c'era il vento, né la notte
gelida. Lenzuola di seta sotto di lui, la luce calda dell'enorme camino
di Adam, il calore del suo corpo contro il suo.
Erano nella
sua dimora, che ancora ignorava dove fosse.
Come
accadeva spesso la lotta fu presto dimenticata, la lama e l'argento
caddero al suolo, sul tappeto, senza far rumore.
E
così fecero i vestiti e ogni pensiero morale.
Dimenticato
Bene e Male, Giusto e Sbagliato, Eric lasciò che le mani di
Adam sfiorassero il suo corpo, che le labbra lambissero ogni angolo di
pelle, mentre Adam, sotto di lui, si lasciava prendere.
Eric
credeva di non aver mai conosciuto la passione prima, di non aver mai
davvero saputo cosa fosse il desiderio e la brama se non dopo che i
loro corpi si erano uniti, più volte in più
occasioni, nella più alta di ogni perversione.
Ed Eric era
creta fra le mani di Adam, lo piegava e modellava secondo la sua
volontà, e lui non poteva opporsi. Mai...
Era
divenuta una condanna.
*
Guardava il
soffitto. Ombre tetre danzavano come anime maledette. Forse lo erano.
«La
tua sposa è ormai prossima al parto.»
Eric odiava
che parlasse di lei, odiava sentire il suo nome sulle sue labbra,
odiava quello sguardo vacuo negli occhi.
«Forse
dovresti tornare da lei...»
Adam
riusciva a schiacciarlo con una semplice occhiata, con una sola parola,
con la sua stessa presenza. Ed Eric non sapeva ribellarsi.
Se suo
padre lo avesse visto ora, se Cornelius avesse mai saputo, se Sarah...
Si
tirò a sedere e si rivestì con gesti rapidi.
Raccolse il paletto da terra e lo strinse nella mano.
Con un
movimento veloce si volse e cercò il petto di Adam per
affondarlo, ma finì con il colpire solo il materasso vuoto.
Lo
cercò con gli occhi. Era lì.
Ma un
bracciò gli cinse la gola con forza smorzandogli il respiro.
«Mi
chiedo se usi con lei la stessa gentilezza,
Cacciatore» sussurrò Adam al suo orecchio
stringendo più forte il braccio. Eric provò a
divincolarsi senza successo. «Mi chiedo se l'hai mai
riservata anche al figlio di Marcus.»
«Malede-tt-o.»
Non aveva respiro, né forze.
Sentiva le
pulsazioni battere con violenza e poi rallentare. Stava soffocando.
Un attimo
prima di perdere i sensi, Adam lo lasciò andare ed Eric
cadde con le ginocchia sul tappeto iniziando a tossire forte.
«Ti
sei ammorbidito, se diventato più debole di prima»
affermò con gelo Adam alle sue spalle. «Forse
dovrei darti qualche motivazione per impegnarti di più nella
nostra lotta.»
«Lurido
mostro» ringhiò a fatica Eric cercando un
equilibrio per rialzarsi.
Era quella
la loro lotta: svilirsi, ferirsi, umiliarsi e consumarsi a vicenda.
Chi avrebbe
mai potuto vincere?
Provò
ad attaccarlo ancora, provò a difendersi. Venne colpito ma
riuscì a sfiorargli la guancia con la sua stessa lama che
aveva raccolto dal pavimento.
Adam si
pulì il sangue con il dorso della mano e scosse il capo.
«Lento,
Eric... troppo lento» sibilò leccando via il suo
stesso sangue prima di schiacciarlo con le spalle al letto.
I polsi
bloccati, le sue labbra rosse a un soffio dalle sue.
«La
prossima volta che ci rivedremo, Mastro, ti strapperò il
cuore dal petto.»
«Sarai
troppo morto per farlo» ribatté lui con rabbia.
Adam gli
sorrise e lo baciò.
«Vedrai
che l'inferno ti piacerà.»
E con
quelle parole nelle orecchie Eric si ritrovò sulla neve,
sotto lo schiaffò gelido del vento.
Si
ritrovò solo, con la compagnia di una semplice convinzione:
non lo avrebbe rivisto per un bel po'.
*
Sentiva le
sue grida, la voce di Catherine che la incitava a continuare a spingere.
Eric
passeggiò davanti al focolare graffiandosi le dita con le
unghie e guardando quella porta di legno con una profonda angoscia.
«Calmati,
Eric» gli consigliò Cornelius mentre gli allungava
un boccale con qualcosa di caldo. «È una tisana
che ti aiuterà a distendere i nervi.»
«Bevila
tu.» La allontanò disgustato dal semplice odore.
Non aveva
mai provato quella sensazione nello stomaco, era un misto di paura,
trepidazione, ansia, euforia, terrore. Sembrava che quell'ammasso di
emozioni così diverse potessero ucciderlo.
«Sta
andando tutto bene. Sarah è forte.» Cornelius gli
strinse una spalla e gli sorrise ed Eric cercò di
aggrapparsi a quelle parole come un naufrago prossimo ad annegare.
Poi lo
udì, una voce più forte di ogni altra, un vagito
che sembrò il ruggito di un leone e il suo cuore si
fermò.
Secondi
trascorsero, minuti, ore, secoli. Sembrò eterno quel lasso
di tempo prima che Catherine uscisse dalla porta, con uno straccio
logoro di sangue fra le mani e il viso sudato, ma sorrideva.
«È
un maschio, Eric» disse aprendo un po' di più la
porta. «Entra pure.»
Ma Eric non
riuscì a entrare. Guardò quella penombra,
udì la voce dolce di Sarah, udì altri piccoli
vagiti e si coprì gli occhi con una mano.
Cornelius
gli avvolse un braccio attorno alle spalle e lo scosse con vigore.
Ed Eric
pianse come il suo stesso bambino. Pianse di altre mille emozioni
diverse, più intesa di tutte, pianse per terrore.
Un maschio,
il figlio di un Cacciatore. Un'altra vita dannata.
Non lo
avrebbe permesso.
*
Sarah
riposava. Era stata forte; la sua Sarah era forte come nessun'altra
donna al mondo.
Eric la
guardava dormire con il viso sereno e bello, e poi guardava Cornelius
che cullava fra le braccia un fagottino, che ondeggiava in maniera
ridicola canticchiando una ninnananna in latino.
«Smettila,
così lo farai piangere di nuovo»
brontolò seduto al tavolo, bevendo un sorso di birra.
Cornelius
sorrise tenendo lo sguardo sul piccolo nato.
«È
bellissimo, Eric. Il bambino più bello e dolce che abbia mai
visto» disse e gli baciò la fronte rosea.
Eric
sentì un calore profondo nel modo in cui Cornelius teneva
suo figlio, con una tale premura, un tale affetto. Cornelius sarebbe
stato un buon padre, avrebbe saputo amarlo come meritava.
Lui ci
sarebbe riuscito?
Non era
riuscito neanche ad amare sua moglie davvero, non era riuscito ad amare
la sua missione.
A volte si
convinceva di essere arido e sterile come quella neve che sentiva
vicina. Freddo, inospitale, silenzioso... solo.
«Devi
dargli un nome. Va battezzato quanto prima.»
Sospirò
guardando le lingue di fuoco salire alte nella brace.
«Un
nome...» bisbigliò sentendosi lontano con il
pensiero e il cuore.
«Puoi
chiamarlo come tuo padre: Victor.»
Si
voltò immediatamente verso Cornelius.
Suo padre,
di cui aveva conosciuto solo silenzi e segreti, di cui aveva ignorato
per anni un'intera vita?
Suo padre,
che amava e odiava in egual misura.
Scosse il
capo senza dire nulla e Cornelius non indugiò.
«Allora
come lo vuoi chiamare?» gli chiese.
«Sceglilo
tu» disse bevendo la sua birra ormai calda con un solo sorso.
«Dagli tu un nome che lo protegga o... qualsiasi altra
stupidaggine voi preti professiate.»
Volle
sembrare indifferente ma Cornelius capì cosa batteva nel
profondo del suo cuore.
Sorrise e
guardò ancora il bambino addormentato fra le sue braccia.
«Christopher»
sospirò. «Colui che porta Cristo nel
cuore.» Poi sollevò lo sguardo nel suo.
«Esiste anche una storia, sai? Si dice che in tempi antichi
esistesse un uomo con mille abilità che era alla ricerca di
un principe da servire, ma voleva che costui fosse un uomo forte che
meritasse i suoi servigi. Così udì parlare del
Diavolo e di quanto potente fosse e decise di andare da lui, ma poi
scoprì che il Diavolo fuggiva sempre quando si trovava
davanti a una croce e capì che non era lui l'essere
più forte, ma colui che giaceva sofferente inchiodato alle
assi di legno. Iniziò allora la sua ricerca di Cristo ma
mentre camminava scorse un fanciullo sulle rive di un fiume, senza
forze per attraversarlo, che gli chiese aiuto. Christopher lo mise
sulle spalle e lo condusse dall'altra parte. Il fanciullo lo
ringraziò e gli chiese dove fosse diretto. “Cerco
Cristo” rispose Christopher e il fanciullo gli disse:
“Soccorri tutti colori che ti chiederanno aiuto durante il
tuo cammino. Allora troverai Cristo.” Così
Christopher si mise in viaggio seguendo le parole del fanciullo. Nella
sua strada incontrò molti uomini sofferenti e feriti e
usò le sue mille abilità per aiutarli.
Compì così molte opere buone anche se sembrava
non riuscire mai a trovare Cristo in persona. Un dì,
rammaricato per la sua infruttuosa ricerca, si sedette sulle rive di un
fiume chiedendosi se esistesse davvero questo Essere che stava cercando
ormai da tutta la vita. E mentre i dubbi lo assalivano gli si
avvicinò un fanciullo, lo stesso che aveva aiutato ad
attraversare il fiume ormai molti anni prima.
“Perché ti sei fermato?” gli chiese e
Christopher rispose: “Perché volevo trovare Cristo
per servirlo, ma non ho ancora potuto farlo, e ormai sono vecchio e
stanco.” Il fanciullo gli mise una mano sulla spalla e gli
disse: “Eppure lo hai servito tante volte nel tuo cammino.
Ogni volta che hai aiutato chi ne aveva bisogno, ogni volta che hai
alleviato le sofferenze di un uomo, ogni volta che hai risposto alla
richiesta d'aiuto di un bambino.” Christopher capì
così che quello stesso fanciullo era Cristo e comprese
finalmente quale fosse il suo vero insegnamento.»
Eric aveva
ascoltato la storia in silenzio, cercando di comprendere, percependo la
luce negli occhi e nelle parole di Cornelius e capì quanto
forte era la sua fede. Ed era qualcosa che Eric non avrebbe mai
conosciuto.
«Così
vuoi dare a mio figlio il nome di un tizio che si è fatto
abbindolare da un bambino?» Ma sorrideva mentre lo diceva e
Cornelius gli perdonò la sua irriverenza.
«Allora,
ti piace?» gli chiese e lui sollevò le spalle.
«Sì,»
rispose. «Almeno è meno ridicolo di
Cornelius.»
E lo
udì ridere.
*
Stavano
ritornando dalla locanda. Avevano brindato, bevuto e fatto infuriare
Charles. Era stata una bella serata.
Eric,
alquanto alticcio, ascoltava una delle tante parabole di Cornelius che
trovava più ridicole che profonde.
«Tramutare
l'acqua in vino?» chiese ridendo e Cornelius lo
guardò con rimprovero.
«Nostro
Signore può questo e altro» affermò
poggiandosi al muro per non inciampare. Eric lo affiancò
prendendo un braccio e legandoselo alle spalle.
«Ti
riaccompagno in chiesa» suggerì notando il suo
amico eccessivamente ubriaco.
«Nostro
Signore te ne sarà grato» rispose Cornelius
poggiando completamente il peso contro il suo corpo.
«Sì,
come no...»
Lo
trascinò fino al grande portone sperando di non incrociare
qualche altro prete in vena di spargere richiami e consigli non
richiesti.
La chiesa
era vuota, illuminata solo da troppe candele.
Eric
evitava di andarci, gli portava alla mente troppi ricordi che voleva
seppellire.
Adam non si
era più fatto vivo. Avrebbe dovuto essere un bene, invece
aveva solo aumentato le paure di Eric che sapeva che quando lo avrebbe
rivisto forse sarebbe stata la loro ultima lotta. E adesso c'era
Christopher e lo avrebbe protetto a ogni costo.
«Eric,
aspetta» disse poi Cornelius arrestando il passo e
sottraendosi al suo sostegno.
«Dove
vai?» gli chiese lui vedendolo barcollare in direzione di un
armadietto.
«Devo
prendere le chiavi della mia cella» rispose facendo fin
troppo baccano con tutte le cianfrusaglie di quell'armadio.
«Non l'ho portata con me perché avrei potuto
perderla. Sai, quando bevo non sono più molto
responsabile»
«Non
mi dire» brontolò Eric sorridendo però
per il modo goffo con cui Cornelius cercava di chiudere l'anta.
Andò così ad aiutarlo e vide la chiave
scintillare nel suo palmo. Almeno l'aveva trovata. Adesso non restava
che-
«Buona
sera, padre.»
La voce,
quella voce.
No...
Si
voltò con timore e scorse la sua figura.
No, no, non
poteva. Non doveva!
«Buonasera»
annaspò Cornelius ignaro di chi fosse l'uomo a cui stava
sorridendo.
«Troppo
tardi per una confessione?» chiese quest'ultimo con beffa ed
Eric allungò il braccio per impedire a Cornelius di fare
anche solo un passo avanti.
«Vattene
da qui» gli intimò. «Scappa!»
«Ma
che-»
«Vattene,
Cornelius!» urlò ancora finendo con il confonderlo
di più.
«Oh,
perché dovrebbe?» ribadì Adam
liberandosi del suo lungo mantello che cadde a terra.
«È arrivata l'ora delle presentazioni. Non credi,
Eric?»
Poi fu una
saetta. Si ritrovò gettato contro i banchi di legno e vide
il collo di Cornelius stretto nella mano di quel mostro.
No, no, no!
«Fermati!»
urlò più con disperazione che con vera minaccia.
«Lascialo stare!»
Cornelius
soffriva nella sua morsa e provava inutilmente a liberarsi. Adam non
pareva aver intenzione di lasciarlo andare ed Eric comprese solo allora
il suo sbaglio. Avrebbe dovuto ucciderlo quando ne aveva avuto
occasione, quella notte sotto il faggio e le decine di volte nella sua
dimora, mentre era assopito al suo fianco. Doveva profittare del suo
piacere per colpirlo, della sua perversione per vincerlo. Invece si era
lasciato trascinare nel suo vortice ed era stato lui a lasciarsi
vincere.
«Ti
prego...» ingoiò il suo orgoglio e lo
supplicò. Solo allora Adam lo guardò e nei suoi
occhi Eric non riuscì a leggere nulla. Freddi e distanti
come sempre.
Aprì
la mano e Cornelius cadde al suolo privo di sensi ma ancora vivo.
«Sei
patetico, Eric. Tu e il tuo illuderti di salvarli» disse Adam
avvicinandosi a lui. «Non puoi difenderli, non puoi salvarli
da me. Io posso prendere le loro vite, posso prendere la vita di tua
moglie, del tuo fratello di caccia, perfino di tuo figlio.»
«Non
oserai!» Lo fronteggiò con un coraggio ridicolo,
con una forza inesistenze. Perché Adam aveva ragione, se
avesse voluto avrebbe ucciso tutti coloro che amava, gli avrebbe preso
tutto e lo avrebbe distrutto.
E allora
perché non lo faceva? Perché continuava quella
perversa lotta se sapeva bene che solo uno di loro avrebbe potuto
vincerla?
Perché
Eric glielo permetteva?
«Potevi
essere il più grande Mastro che avesse mai messo piede su
questa Terra, Eric. Potevi essere colui che avrebbe messo fine alla mia
vita e invece... guardati.» Stavolta gli occhi di Adam
lasciarono andare qualcosa, delusione, biasimo, disgusto.
«Cosa
vuoi da me?» gli chiese Eric. «Cos'altro vuoi da me
che tu non abbia già preso, maledetto essere degli
inferi?!» Ma Adam non gli rispose, gli diede le spalle e
recuperò il suo mantello. «Avevi detto che mi
avesti strappato il cuore dal petto! Allora fallo, avanti!»
Eric aprì le braccia e lasciò che la disperazione
e la paura avessero la meglio.
Non avrebbe
mai vinto, non avrebbe mai affondato quel paletto, non ne aveva forza
né convinzione.
Patetico, vigliacco.
Adam non lo
degnò di una risposta neanche allora. Si avviò
alla porta, con passi lenti e solo allora lo guardò.
«È
incredibile quanto tu sia sciocco, Eric» disse soltanto prima
di sparire.
*
Cornelius
riprese i sensi dopo qualche ora.
Eric sedeva
al suo fianco e gli tergeva la fronte con un panno umido.
«Eric?
Cosa è successo? Dove-»
«Riposa»
comandò guardando i suoi occhi lucidi e i segni violacei
attorno al suo collo. Fu costretto a distogliere lo sguardo.
«Io devo tornare da Sarah e-»
Quando
provò ad alzarsi Cornelius lo fermò per un polso.
«Chi
era?» gli chiese ed Eric, che fino a quel momento aveva
sperato non lo ricordasse, fu costretto a cedere.
«Qualcuno
da cui dovrai stare alla larga» rispose.
«Era
un Sire, non è così?» Non rispose e
Cornelius ebbe la conferma. «Oh, Eric, quando pensavi di
dirmelo? Credi che...» una smorfia sofferente
piegò il suo viso quando provò a sedersi. Eric
non cercò neanche di farlo desistere. Lo aiutò a
poggiarsi con le spalle al muro e si lasciò guardare e
accusare.
«Da
quando?» chiese ancora.
«Da
un po'» rispose Eric. Da
troppo.
«E
lo hai sempre affrontato da solo... Perché, Eric? Non
ricordi più cosa vuol dire essere Cacciatori? Insieme,
fratello mio, solo insieme possiamo vincere.»
Cornelius
gli prese una mano e la strinse forte.
Eric si
sentì crollare sotto tanta fiducia, sotto tanto affetto,
sotto tutte le sporche menzogne che avrebbe dovuto riservargli.
«Volevo
proteggerti. Volevo proteggere tutti voi» si
giustificò, combattendo la voglia di gettarsi a terra e
chiedergli perdono per la sua debolezza.
Cornelius
gli sorrise con gentilezza. «Grazie per ogni tuo sacrificio,
Eric. Adesso non devi farne più.»
Eric si
sentì morire dentro ancora un po'.
*
Christopher
aveva da poco compiuto un anno, gattonava sul pavimento con qualche
ciuffetto nero di capelli sulla testa e faceva strani brontolii privi
di senso.
Eric lo
guardava crescere giorno dopo giorno, sorridente e forte, e guardava
Cornelius giocare con lui e riempirlo di doni e parole. Guardava la sua
casa sempre più in disordine, guardava le sue mani sempre
più spaccate, guardava Sarah sempre più debole.
«Faccio
io.» Le tolse le stoviglie dalle mani e le poggiò
nel tinello. Sarah non disse nulla, barcollò fino alla sedia
e si accasciò con un sospiro.
Stava male,
da qualche mese, e non sembrava esserci cura.
Cornelius
raccolse Christopher dal pavimento e lo accompagnò nella sua
piccola cesta di vimini cantandogli una canzoncina per farlo
addormentare.
«Forse
avrebbe dovuto sposarsi» sospirò Sarah guardandoli
ed Eric le si avvicinò sedendosi al suo fianco. Aveva occhi
tristi e distanti. «Avrebbe dovuto avere dei figli, una
famiglia... sarebbe stato un buon marito e un buon padre.»
Le prese la
mano e l'accarezzò con dolcezza, con colpa.
«Avresti
meritato qualcuno come lui e non...»
Ma Sarah
gli sorrise e scosse la testa. I suoi capelli bruni erano spenti, il
suo viso magro e pallido, eppure il suo sorriso sempre bellissimo.
«Sono
felice di averti sposato, Eric. Felice della vita che abbiamo
condiviso. Non rimpiango nulla.»
Eric
abbassò lo sguardo sentendo gli occhi bruciare e non
riuscì a trattenere le lacrime.
«Perdonami
per il male che ti ho fatto, amore mio» sospirò
baciandole la mano con le labbra salate di lacrime.
«Perdonami per le mie mancanze, per ogni parola ingiusta, per
tutto ciò che ti ha fatto soffrire.»
Sarah lo
abbracciò ed Eric si sentì caldo fra le sue
braccia da cui era sfuggito tante volte, quelle braccia che non aveva
mai meritato davvero, quell'amore a cui non aveva saputo dar valore.
«Prenditi
cura di lui, fallo crescere sano e colto e lontano da questo male,
Eric. Promettimi solo questo.»
«Sulla
mia vita. Te lo giuro sulla mia vita.»
E anche
Sarah lasciò andare una lacrima.
*
Sarah
morì quando Christopher neanche si reggeva sulle sue gambe.
Cornelius
celebrò il suo funerale con occhi lucidi e voce rotta. Poi,
davanti alla sua lapide, pianse in ginocchio.
Eric
stringeva fra le braccia il suo bambino che sorrideva cullato dalla sua
innocenza.
Glielo
aveva promesso.
*
«Non
puoi essere serio?!»
«E
invece lo sono.»
A terra vi
erano corpi pronti a divenire cenere, il sole era lì per
sorgere ed Eric aveva mani e abiti coperti di sangue. Cornelius lo
guardò con occhi sgranati, lasciò andare a terra
la balestra e corse ad afferrargli la giaccia con entrambe le mani.
«Quali
stupidaggini stai farneticando, Eric?!» lo scosse quasi con
violenza ed Eric volse lo sguardo lontano.
«È
la cosa migliore» disse.
«Come
potrebbe esserlo? Come potrebbe essere un bene allontanare tuo figlio
per sempre?»
Sapeva che
sarebbe stato difficile da accettare, che Cornelius avrebbe avuto da
ridire sulla sua decisione, ma Eric non era disposto a tornare indietro.
Christopher
aveva ormai cinque anni, stava imparando a leggere ed era sempre
più curioso della vita. Eric voleva che suo figlio avesse
quella vita, voleva che quella vita riservasse per lui solo luce e
gioia. Nessuna delle sue ombre avrebbe dovuto offuscarlo, nessun
segreto, nessun destino di sangue.
Aveva
atteso anche troppo, aveva aspettato perché l'amore per quel
bambino era incredibilmente forte, perché l'affetto per
Cornelius aveva la stessa intensità.
Adam era
sparito, Adam era divenuta una voce lontana, cupa, che però
gli sospirava nelle orecchie tutte le notti e gli rimembrava chi fosse
in realtà.
Eric non
voleva che un dì Christopher lo scoprisse, che come lui si
trovasse a pensare a un padre e considerarlo qualcuno che non aveva mai
davvero conosciuto.
«Con
te starà bene. Lo crescerai e lo educherai e ne fra un
brav'uomo. Ne sono certo.»
Cornelius
aveva occhi lucidi e labbra tremanti. Lo scosse ancora per la casacca.
«Basta,
ti supplico, Eric. Non voglio udire altro» gli
intimò lasciandolo andare. «Christopher ha te, e i
suoi cugini, la sua famiglia. Loro posso amarlo e proteggerlo
e-»
«Come
possono proteggerlo da questo?» urlò a quel punto
indicando ciò che li circondava, i cadaveri, il sangue, il
tanfo di morte. «Tu puoi proteggerlo perché sai
cosa affronterebbe. Tu puoi proteggerlo e salvarlo da tutto questo
perché conosci a cosa lo condurrebbe.» Cornelius
scuoteva il capo conscio di quanto gli stava chiedendo ed Eric era
consapevole che per farlo avrebbe dovuto tradire i suoi voti e
abbandonare la sua missione di Cacciatore, così come fece
Victor ormai molti anni prima.
«Rifletti,
Eric... è una scelta egoista!» lo
aggredì Cornelius quasi pentendosi subito delle sue parole,
ma Eric gli diede ragione.
«Lo
è» affermò. «Ma non posso
fare altrimenti, amico mio.» E a quel punto gli sorrise
tristemente. «Sei stato la mia salvezza quella notte. Hai
salvato la mia vita e con il tempo anche la mia anima. Mi hai donato la
tua amicizia e i tuoi insegnamenti e mai ti sarò grato
abbastanza, ma ora ti chiedo, fratello, fai lo stesso con mio figlio:
salva la sua vita.»
Cornelius
pianse coprendosi gli occhi, singhiozzando come un fanciullo ed Eric
gli si avvicinò e attese che sollevasse lo sguardo. Il sole
spuntava da dietro l'orizzonte, e illuminava le lacrime sulle sue
guance.
«Non
posso lasciarti solo...» sospirò asciugandosi
inutilmente gli occhi. «Non voglio.»
«Completerò
la mia missione e vi raggiungerò» promise una
menzogna.
Cornelius
quasi lo capì.
«Lo
ucciderai? Quel sire?» chiese ed Eric annuì.
«Sì.»
Cornelius
lo abbracciò, pianse ancora mentre il mattino li raggiungeva
e mille ceneri salivano nel cielo. Cornelius si aggrappò
alle sue spalle con forza, quasi fosse un addio.
Eric sapeva
lo era.
*
Era un
piccolo carretto con due cavalli. Pochi sacchi e molte cibarie per il
lungo viaggio.
«Ti
invierò una missiva quando saremo arrivati» disse
Cornelius stringendo le redini.
Eric
carezzò il cavallo e sorrise. Negli occhi di Cornelius c'era
una richiesta, una supplica. Vieni
con noi, lascia tutto e scappa con noi.
Non avrebbe
mai potuto farlo.
«Padre,»
Christopher si sporse dal carretto per abbracciarlo. Era bello, il suo
bambino, aveva i capelli e gli occhi di sua madre. La sua dolcezza e il
suo calore. «Raggiungici presto.»
Eric
inghiottì un urlo e sorrise.
«Certo.»
Un'altra
promessa, un'altra menzogna.
*
Le lettere
di Cornelius parlavano di un'abazia, maestosa e protetta, in cui
nessuno avrebbe mai osato cercarli.
Christopher
lo chiamava zio, ma nelle notti più buie, arrivava a
chiamarlo padre. Cornelius lo scriveva con profonda tristezza ma Eric
ne era sollevato. Sapeva che adesso il suo bambino era al sicuro.
Non rispose
mai a nessuna di quelle missive, ma le conservò tutte
accanto al suo diario che invece continuava a riempire pagina dopo
pagina. Scriveva di tutto, i suoi pensieri, le sue colpe, la sua
rabbia. Scriveva della paura che provava ogni notte quando fra i mostri
che affrontava non c'era mai il volto di Adam e allora si chiedeva dove
fosse, se li stesse cercando, se avrebbe fatto loro del male. Scriveva
di come la caccia adesso fosse più silenziosa, di come
l'assenza di Cornelius facesse rabbuiare il suo animo.
Gli
mancava, la sua compagnia e la sua voce, il suo sorriso. Gli mancavano
le domande di Christopher, la sua allegria, il suo calore, il ricordo
di Sarah che brillava nel fondo dei suoi occhi castani.
E
così, dopo la caccia, dopo aver scritto una nuova pagina,
Eric beveva, ogni volta un po' di più, ogni volta annegando
un po' del vuoto che piegava il suo cuore.
Quella sera
barcollò fino al camminò e gettò
dell'acqua per spegnere la fiamma prima di coricarsi, ma
mancò completamente il bersaglio bagnando solo il pavimento.
«Pessima
mira.»
Era troppo
ubriaco per sorprendersi, troppo stanco per spaventarsi.
Si
voltò e Adam era lì, nella sua cucina, seduto al
suo tavolo.
Ed era lo
stesso di sempre, lo stesso uomo che aveva incrociato la prima volta al
vicolo, lo stesso che aveva maledetto la sua vita, bello e letale come
solo il male poteva essere.
Gli anni
invece avevano pesato su Eric, adesso sembravano decenni quelli che li
dividevano. Qualche filo d'argento fra i capelli, una fronte
più aggrottata, un cuore più opaco.
Gli sorrise
e si sedette a terra, sentendo la testa dolere.
«Vieni
qui come un angelo della morte per portarmi via una volta per
tutte?» ridacchiò poggiando la nuca al muro.
«Mh...
l'alcol ti rende poetico, cacciatore» ribatté Adam
sarcastico ed Eric rise senza allegria. «Ho visto tuo figlio,
l'altro giorno.» Quelle parole lo gelarono. Il sorriso
morì e così quasi ogni riflesso di ebbrezza.
«Tu!»
ringhiò provando a rimettersi in piedi ma Adam si
alzò dalla sedia e lo tenne seduto a terra piantandogli un
piede sul petto.
«Non
lo toccherò. Né lui né il tuo amato
fratello di caccia» disse con voce cupa. Ed Eric non gli
credette.
«E
pensi che mi fidi delle parole di un mostro?»
sbraitò scacciando via il piede con il braccio e
strascinandosi con le spalle al muro rimettendosi in piedi.
Adam lo
guardava a pochi centimetri con il viso perlaceo e i capelli nerissimi
a circondarlo.
«Promisi
lo stesso a Victor e mantenni la mia parola. Tu ne sei la
prova.»
Suo padre,
il suo mistero più grande.
«E
perché lo faresti?» gli chiese e Adam finalmente
piegò le labbra seppure fu un sorriso quasi gelido.
«La
nostra lotta, Eric. È solo questo che mi importa»
rispose e gli accarezzò il viso con quelle dita calde capaci
di creare musiche meravigliose.
«Sarai
tu a vincere. Lo abbiamo sempre saputo, tutti e due.» Non gli
costò neanche ammetterlo, ormai gli anni e gli affanni,
avevano abbassato il suo orgoglio come un ramo che si piega sotto il
peso del bianco inverno.
«Posso
donarti la mia stessa forza, se vuoi... potremmo lottare ad armi pari
per sempre.»
Eric
tremò a quella proposta riuscendo ad ascoltare
ciò che Adam non disse.
«E
diventare come uno di quei mostri disgustosi?»
ringhiò allontanandolo ma Adam lo schiacciò
ancora contro il muro prendendogli il viso fra le mani e inghiottendolo
con il suo sguardo.
«Saresti
come me non come loro, saresti un Sire e non conosceresti vecchiaia
né dolore o debolezza. Per sempre giovane e
immortale.» Poi lo baciò, intenso e violento come
solo lui sapeva essere. «Dammi la tua anima, Eric, e avrai
tutto questo» sospirò sulle sue labbra.
«La tua anima in cambio dell'Eternità.»
«No»
disse soltanto guardando alle spalle di Adam la sua piccola casa
solitaria, che un tempo Sarah aveva reso accogliente e calda, dove
Christopher aveva emesso i primi vagiti, dove Cornelius si era preso
cura di lui e l'aveva illuminata con la sua allegria.
No, Eric
non voleva l'eternità, non voleva vivere in eterno. Voleva
solo la pace dei ricordi, la speranza che gli regalava sapere
Christopher e Cornelius lontani dal suo baratro.
Adam rimase
silente alla sua risposta e si allontanò senza dire nulla,
continuando a guardarlo freddamente.
«Se
vuoi uccidermi adesso, va bene. Se vuoi lottare e umiliarmi, va bene lo
stesso... ma non chiedermi di darti l'unica cosa che mi
resta» disse stanco, in attesa di una lama che lo
trafiggesse, di una mano che lo soffocasse.
«Come
vuoi» sospirò Adam abbassando il capo con un gesto
d'assenso. «Ma nella tua casa non oserei portare morte,
perciò per stanotte sei graziato, Cacciatore.»
«La
tua parola!» Lo fermò prima che andasse via.
«Dammi la tua parola che non farai mai loro del male...
neanche dopo.»
Adam lo
guardò a lungo e annuì.
«Hai
la mia parola, Eric...» Ma prima di uscire gli sorrise e
disse: «Così come il mio cuore.»
Mentiva,
pensò Eric.
Un'ultima
beffa per il suo rifiuto, o forse una verità che non era
disposto ad accettare altrimenti avrebbe dovuto accettare anche il
riflesso di quella verità: anche Adam aveva sempre posseduto
il suo.
*
Era una
notte d'estate, calda, afosa, con sudore attaccato alla pelle e ai
capelli, con sangue appiccicato alle mani.
Eric
attaccò i due demoni e poi il terzo. Stanco e ferito a una
gamba, fu costretto a subire l'aggressione del quarto che lo
colpì allo sterno con una ginocchiata. Poi arrivarono pugni
e calci, finché un sottile ramo non colpì la sua
schiena come una frusta.
Il dolore
gli bloccò il fiato e li udì ridere istericamente.
«È
la tua ora, Cacciatore!»
«Morirai
come il cane che sei, sporco umano!»
Ancora
colpi, ancora risate. Eric sentiva il sangue che scivolava sulla sua
schiena dilaniata mentre, obbligato in ginocchio a terra, era tenuto
fermo per le mani da due esseri immondi.
L'alba era
lontana, il sole non sarebbe venuto in suo soccorso. Nessuno lo avrebbe
fatto.
Era solo.
Doveva lottare per non morire.
Ignorò
così la sofferenza e spezzò la morsa con cui
veniva costretto dai due.
Afferrò
i due paletti di frassino infilati negli stivali e li colpì
specularmente, uno a destra e l'altro a sinistra.
Con la mano
raggiunse quella specie di frusta improvvisata e riuscì a
mettere a terra quel mostro prima di impalarlo lì al suolo.
Ne mancava ancora una, era una donna dai capelli biondi e due occhi
troppo azzurri.
Sembrò
indietreggiare mentre lui si avvicinava raccogliendo da terra la
balestra e puntandogliela contro, la balestra di Cornelius.
La donna
affannò cercando con gli occhi una via di fuga ed Eric era
lì, pronto a finirla, quando la vide sorridere in maniera
sinistra e non capì finché qualcosa non lo
colpì alla schiena, fino a trafiggerlo: la lama di un
pugnale.
La balestra
gli cadde dalle mani mentre altre pugnalate si univano ed Eric fini a
terra, in ginocchio, a stringersi lo stomaco per il dolore.
Udì
una risata stridula: un quinto demone che non aveva visto fino a quel
momento.
Sollevò
a fatica la testa e vide i due guardarlo perversamente divertiti, fra
le mani di lui un lungo stiletto d'acciaio ricoperto di sangue, il suo.
La vista si
annebbiò, le voci risultavano sempre più confuse,
si sentiva debole, sfiancato, e attorno a lui si allargava una pozza
cremisi.
Farsi
colpire così, come non avesse cacciato in ogni notte per
tutti quegli anni, come non fosse stata la sua vita stanare e uccidere
quei mostri. Morire così, per colpa di uno stupido pugnale.
Il pensiero
corse al suo bambino, adesso un ragazzo, che viveva felice nella
compagnia del suo amico più fidato. Cornelius gli aveva
spedito un suo ritratto ed Eric lo teneva in quel diario e lo guardava
tutte le sere.
Avrebbe
voluto vederlo ancora una volta prima di morire, avrebbe voluto
rivedere Cornelius, abbracciarlo, e dirgli quanto ancora gli fosse
grato per tutto. Ma non c'era più tempo, né
parole. Tutte le occasioni erano perdute oramai, ed Eric poteva solo
vedere i due esseri avvicinarsi, pronti a completare la loro opera.
Ma poi li
vide arrestarsi, sgranare gli occhi senza fiato mentre una macchia di
sangue si allargava dai loro petti. Quando caddero entrambi al suolo
capì.
Adam, di
fronte a lui, stringeva nei palmi i loro cuori che lasciò
cadere a terra accanto ai loro cadaveri.
Poi la
vista si confuse ancora, così come ogni altra sensazione ma
percepì qualcuno sollevarlo e poggiargli la guancia su
qualcosa di morbido.
Aprì
le palpebre: Adam lo teneva sulle sue gambe e gli stava spostando i
capelli dalla fronte.
«Sono
ferite mortali.» Udì debolmente.
«Lo
so...» annaspò tossendo sangue. «Un
modo... patetico di ... morire... vero?» provò a
sorridere ma non riuscì. Altro sangue abbandonò
le sue labbra.
«Posso
curarti, posso salvarti.»
«No...»
«Dammi
la tua anima, Eric. Lascia che ti salvi.» C'era una nota
strana nella sua voce, un tremolio, qualcosa che Eric non seppe
definire.
Troppo
stanco, troppo debole.
Adam gli
stava accarezzando ancora il viso ma lui non riusciva a sentire
più le sue dita.
«Com'è
l'Inferno?» gli chiese con un fiato, ormai pronto a varcarlo.
«Non
troppo diverso da questa Terra.»
Prese un
respiro, profondo, doloroso.
«Credi
che lo rivedrò?... Mio padre...»
Adam non
rispose ed Eric sentì qualcosa di caldo che gli stava
avvolgendo il corpo. Erano le braccia di Adam.
«Eric,
posso salvarti...»
Stavolta
capì che era una supplica, ma il suo tempo era finito.
In fondo
era felice che lui fosse lì, con lui, per un'ultima volta.
«Adam...
Avrei potuto ucciderti» disse.
«Sì,
avresti potuto farlo.» La voce era rotta ma Eric aveva lo
sguardo buio per vedere le sue lacrime. «Nessuno gli
farà mai del male. Hai la mia parola.»
Eric
sorrise.
«Adam...»
Il suo nome
sulle labbra fu il suo ultimo respiro.
*
*
*
Qualcuno
bussò ma quando Cornelius andò ad aprire non vi
era nessuno sulla soglia. Cercò chi potesse aver bussato ma
in basso scoprì una piccola scatola. La raccolse e la
studiò portandola dentro.
Quando
sollevò la parte superiore vide un libro in pelle rossa e
molte lettere.
Bastò
una sola occhiata per capire che fossero sue quelle lettere, per capire
che quel libro era in realtà un diario, per capire che quel
diario portava il nome di Eric.
Sapeva cosa
volesse dire.
Lo
portò al petto con le lacrime a rigargli il viso.
Il suo
amico più caro, suo fratello.
Stette
intere ore in silenzio, senza più lacrime da versare, senza
più perdono da chiedere.
Lo aveva
lasciato, abbandonato.
Il sole
calava ignaro e Cornelius cadde pesantemente sul divano.
Accarezzò la pelle rossa del diario con dita tremanti.
Tirò su con il naso e aprì la prima pagina.
*
All'ultima
pagina, Cornelius capì che quelle parole finali erano state
scritte da qualcun altro, e comprese anche chi fosse.
Pianse
ancora, di fronte a ogni frase, a ogni segreto che Eric era stato
costretto a serbare, pianse della sua cecità e della sua
stoltezza, pianse per quel dolore e quella colpa che lo aveva dovuto
accompagnare per tutti quegli anni.
Pianse la
sua anima lacerata, il suo cuore ferito.
Le ultime
parole che chiudevano quel diario erano una richiesta, un comando: proteggilo.
E Cornelius
l'avrebbe fatto.
Raggiunse
il focolare e vi gettò dentro il diario e lo
guardò bruciare lasciando che fossero le fiamme a conservare
quella storia, quei segreti, quell'amore illecito.
Cornelius
avrebbe protetto Christopher da qualunque minaccia, soprattutto dalla
più pericolosa: la verità.
Mai avrebbe
saputo.
Avrebbe
vissuto ricordando un padre amorevole e generoso, che aveva sacrificato
la vita per permettergli di vivere libero la sua.
Christopher
avrebbe vissuto libero da una missione, da un obbligo divino e, che il
Signore avesse pietà della sua anima, Cornelius avrebbe
ucciso chiunque avesse voluto fargli del male.
Avrebbe
fatto di lui un ragazzo colto e gentile, come sognava Sarah; avrebbe
fatto di lui un brav'uomo, che voleva Eric.
E un
dì, nel Regno dei Cieli, lo avrebbe ritrovato e sarebbero
stati di nuovo insieme, come due fratelli.
*
Tornò
molti anni più tardi nel vecchio villaggio. Christopher non
era con lui, era insieme alla sua sposa e ai suoi tre bambini.
Christopher, che suonava il violino come un angelo e sorrideva sempre.
Un uomo
vecchio, dai capelli bianchi e le ossa dolenti, Cornelius si
avvicinò alla croce di legno accarezzandola e guardando
anche l'altra al suo fianco.
Stette ore
in silenzio con il solo sostegno del suo bastone, con la sola compagnia
dei suoi ricordi.
Le notti di
caccia, le risate alla locanda, il calore di quella piccola cucina.
E poi i
pomeriggi seduti sull'erba a narrar storie, a sentirsi deridere eppure
godendo di ogni attimo.
Quel
ragazzo con troppa fede e poca resistenza all'alcol.
Le sgridate
di padre Gregory, le cene semplici al tavolo di Sarah, la compagnia di
Eric, il suo braccio teso che lo rimetteva in piedi, quel sorriso
sempre così timido.
“Sceglilo tu. Dagli un nome che
lo protegga...”
“Christopher.”
Oh, quale
onore era stato. Quale onore era stato crescere suo figlio.
E in fondo
l'aveva cresciuto bene.
Annuì
a se stesso, con un sorriso, come se qualcuno gli avesse dato una pacca
sulla spalla, come se il vento avesse sospirato grazie.
Dei passi
si avvicinarono e Cornelius scorse un giovane uomo con una rosa stretta
fra le dita. Si inginocchiò e la poggiò in mezzo
alle due croci.
L'aveva
veduto una sola volta in tutta la sua vita, una notte fugace e confusa
come un sogno, ma mai avrebbe dimenticato quegli occhi e quello sguardo.
Non si
dissero nulla. Restarono silenziosi uno a fianco all'altro a guardare
la tomba di qualcuno che, in un modo o nell'altro, avevano amato
entrambi.
Fu
Cornelius ad andar via per primo, tenendosi al suo bastone, sentendo la
schiena dolere per il troppo tempo trascorso in piedi.
Non si
voltò per vedere se lui fosse ancora lì.
Si disse
che era sempre stato lì.
Si disse
che lì sarebbe sempre restato.
Non lo
rivide mai più. Non tornò mai più al
villaggio.
In un
mattino d'estate, troppo caldo e assolato, mentre Christopher gli
teneva la mano, Cornelius chiuse gli occhi con un sorriso.
Eric lo
stava aspettando.
***
E
siamo giunti alla fine, nobili lettori e io so che domande angustiano
la vostra mente perché di Adam si vuol sapere il destino, di
Christopher la vita, e di quella lunga guerra biblica, l'esito.
Ma
non possiedo tali risposte, sono solo un narratore, una voce nell'oblio
che racconta una storia taciuta, fatta di segreti e silenzi, di colpe e
peccati. Perché Eric fu un Cacciatore come tanti, eppure un
uomo come pochi, un uomo che ha amato più di quanto ne fosse
conscio, che ha dato più di quanto non fosse stato dato a
lui.
Perciò,
vi chiedo, non porgete domande, non cercate altre risposte, fate solo
tesoro di quanto la mia povera lingua ha saputo raccontare
perché anche questa voce non venga dimenticata.
Perché
si ricordi e si narri di una storia fatta di sconfitte e di sangue, di
vergogne e di colpe, eppure di amore e speranza, di brandelli di luce
nelle infinite ombre.
Si
narri di Eric, Cacciatore e uomo, padre e marito, si narri di un
fratello che il buon Dio mi ha concesso di incontrare e amare. Si narri
della sua vita fugace eppure intensa.
Si
narri di questo.
Il
resto non conta, il resto è solo leggenda.
C.
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