Safe & Sound

di Harmony394
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologue ***
Capitolo 2: *** Bedroom Hymns ***
Capitolo 3: *** Safe and Sound ***
Capitolo 4: *** The wolf's lair ***
Capitolo 5: *** You won't hurt me ***
Capitolo 6: *** Sweet dreams ***
Capitolo 7: *** Promises ***
Capitolo 8: *** Poison & Wine ***
Capitolo 9: *** Brotherhood Without Banners ***
Capitolo 10: *** Something there ***
Capitolo 11: *** Going Home ***
Capitolo 12: *** The red wedding ***
Capitolo 13: *** Florian and Jonquil ***
Capitolo 14: *** Always ***
Capitolo 15: *** AVVISO. ***



Capitolo 1
*** Prologue ***


 
Premessa: questa fanfiction si basa su un WhatIf in cui Sansa, subito dopo aver avuto il menarca, è costretta a sposare Joffrey appena tre giorni dopo. La Battaglia delle Acque Nere non si è ancora verificata e in questo universo Margaery Tyrell non giungerà mai a corte, o perlomeno non per gli scopi che conosciamo noi. Cercherò comunque di rendere i personaggi il più IC possibile. Se non dovessi riuscirci, siete liberi di mandarmi gli Estranei sotto casa. Vi avviso inoltre che sarà una storia abbastanza cruenta e senza mezzi termini, con scene piuttosto violente e linguaggio scurrile. Considerato il fandom di appartenenza, credo sia il minimo. Ah, ho una grande passione per l’angst, quindi se non gradite il genere vi sconsiglio vivamente la lettura.

P.S: Per esigenze di forma, ho dovuto separare i POV di Sansa e di Sandor attraverso due simboli differenti. Se avessi inserito un segno comune per tutti e due sarebbe stato difficile capire di chi fosse il punto di vista. Per Sandor ho dunque deciso di utilizzare il simbolo di un mastino, mentre per Sansa quello di un uccellino in gabbia. Spero che la cosa non risulti pesante.
P.P.S: La storia si basa, nonostante abbia alcuni accenni al telefilm, soprattutto sui libri. Infatti qui Sandor ha 27 anni, mentre Sansa 15 (Ho deciso di laciare l'età del telefilm a causa di alcune scene)
P.P.P. S: Questa storia è dedicata a Red, a e Erza e a Francesca, le mie fedelissime compagne di ship e di sclero. <3

~

Prologue. 



 
Bless your heart 
And your tired eyes
And try to keep your strength
Your life bleeds like the red I wore
On my lips as skin turned pale

 

Il vino scende giù per la gola, bruciando lo stomaco e lasciando un lungo rivolo violetto sul collo e la barba. Ho sempre amato il vino. Riesce a farmi sentire un po’ più di caldo, mi lascia tranquillo per alcuni minuti e mi fa dimenticare ciò che non intendo ricordare. E adesso che il fottuto Re bambino sta per prendermi l’unica cosa che ho mai desiderato in tutta la mia fottuta vita, sembra il mio unico balsamo.
Ero presente quando l’uccelletto è stato convocato da Joffrey. Me ne stavo proprio lì davanti a lei, fermo e vigile come il cane che sono sempre stato, a guardarla avanzare con il suo passo incerto e tremante verso il Trono di Spade. Il suo volto di bambola era atterrito, le sue dita non smettevano di torturarsi a vicenda ed io non la finivo più di pensare a quanto mi sarebbe piaciuto averle attorno al mio cazzo.

«Vostra grazia…» Aveva pigolato con voce sottile. Joffrey l’aveva guardata con un ghigno sardonico che percorreva il suo viso da un orecchio all’altro ed io avevo capito subito che la voglia di farle del male gli era tornata, più forte di prima.
«Mia madre mi ha detto che hai sanguinato, l’altra notte, ed il mio mastino mi ha riferito che hai cercato di strappare il lenzuolo per nascondere le prove. È vero, mia lady Sansa?» Aveva chiesto con voce petulante. L’uccelletto rivolse un’occhiata fugace nella mia direzione, quasi a volermi ricordare che ero stato io a far la spia, ma io continuai a guardare dritto dinanzi a me, impassibile.

L’uccelletto mi piaceva, cazzo se mi piaceva, ma io ero pur sempre il cane da guardia del Re. E i cani sono fedeli a chi li nutre.

«I-io… maestà… ero spaventata, non sapevo cosa fare… vi assicuro che non avrei mai—».
«Oh, fa’ silenzio!», urlò Joffrey, scattando in piedi. Avrei potuto uccidere quel reuccio da quattro soldi con una sola mano, se avessi voluto. Forse sarebbe stata la scelta migliore, forse avrei dovuto farlo sin dal primo momento. «Non mi importano le tue scuse, stupida scema. Ciò per cui ti ho fatto convocare, Sansa, è perché ora che hai sanguinato dovrò sposarti e mettere un bambino dentro di te, lo capisci?», fece una pausa mentre un sorrisetto sadico gli incurvava le labbra. Sentii il sangue ribollirmi nelle vene e le mie dita scattarono d’istinto verso l’elsa della spada. «Sei felice, mia signora?».

No che non era felice. Non lo era proprio per niente. I suoi occhi erano sgranati e spaventati, le sue labbra tremavano. Tutto di lei era in subbuglio ed io fui certo che sarebbe scoppiata a piangere da un momento all’altro. Nella sala si diffusero alcuni mormorii concitati e risatine malvagie, tuttavia continuò a mantenere quel comportamento cortese e composto che l’aveva sempre caratterizzata. Fui fiero di lei, seppur non lo diedi a vedere.

«Non chiedo altro, maestà. Sposarvi è l’unica cosa che ho sempre desiderato» Cinguettò, ed io digrignai i denti.

Fottuto uccelletto. Fottuto, dannato uccelletto. Se ne stava sempre lì a cinguettare, a dire quelle belle paroline che le aveva insegnato la balia, a trattenere le lacrime. Non lo sopportavo, cazzo. Non sopportavo quei suoi dannati occhi tristi, quel volto ombreggiato d’angoscia, quelle labbra tremolanti. Era un’agonia vederla in quello stato, lo era sempre stato.

«Bene, mia signora, perché la cerimonia si terrà fra tre giorni. E non vestirti di bianco… ho intenzione di farti visita, stanotte. Che ne pensi? Ti piace l’idea?».

L’uccelletto non rispose a quella provocazione, chinò il capo e sussurrò qualcosa che non riuscii ad udire. Neanche Joffrey dovette riuscirci, perché d’un tratto fece un gesto stizzito con le mani e la cacciò via come se fosse stata un cane pulcioso. Lei parve non aspettare altro, poiché fece subito come le era stato ordinato. Non la vidi più per l’intera giornata.

Adesso sono qui, in questo sottoscala dove l’aria della sera arriva fredda e pungente, a bere vino e sperare di prendere sonno presto. Voglio vedere l’uccelletto, voglio vederla e toccarla, magari anche baciarla, ma la voglio. La sola idea che sarà quella fichetta bionda di Joffrey a prenderla per la prima volta mi riempie d’odio e di rabbia. Lei non merita una prima volta del genere, non con uno come quello. Merita qualcuno come il fottuto Cavaliere di Fiori, un sir dall’armatura splendente e dagli occhi azzurri, qualcuno che la sappia amare e che la riempia di fiori e d’amore. 

Qualcuno che non sono io.

Mi domando come sia sentire la sua pelle di porcellana sotto le dita, assaggiare le sue labbra delicate, sentirne il sapore. Per i Sette Inferi, scuoierei vivo qualcuno per saperlo.

Poso la fiasca a terra e tiro su col naso: la devo piantare con queste stronzate. Lei è una lady ed io un cane. Il cane del Re, per l’esattezza: lo stesso Re che le ha ammazzato il padre davanti agli occhi e che minaccia di far lo stesso con la madre e il fratello. Non esattamente il principe dei suoi sogni.

«Ah, ‘fanculo!» Impreco, dando un calcio alla fiasca, che rimbalza a terra emettendo un rumore fastidioso e metallico. L’alcool inizia a fare il suo effetto, mandandomi fuori gioco una volta per tutte, e sento il sangue affluirmi velocemente alla testa ed il petto scaldarsi. Chiudo gli occhi e all’improvviso la vedo: i capelli rossi che le ricadono morbidi sulla schiena nuda, le labbra rosse e la pelle candida, mentre piange di dolore. Due uomini la tengono ferma e il Re bambino fa quello che ha promesso di farle alla sala del trono: fotterla. Quando mi avvicino, però, noto che l’aguzzino dell’uccelletto non è Joffrey.

Sono io.

Mi sveglio di soprassalto, la fronte grondante di sudore e l’armatura improvvisamente stretta attorno al collo e le gambe. Ho il fiato corto, la testa mi gira e martella furiosa mentre i rimasugli del sogno mi tornano alla mente. Per un attimo, l’idea di aver davvero fatto del male all’uccellino mi sfiora la mente e il cuore manca un battito. Mi passo una mano sul viso, come se così potessi portar via quelle immagini orribili, e ispiro profondamente nel tentativo di calmarmi. Era un incubo, mi dico. Solo un fottutissimo incubo, smettila di agitarti come una fichetta. Eppure gli occhi di Sansa, sgranati e colmi di terrore mentre mi avvicinavo a lei, sono ancora davanti a me terribili come il peggiore degli incubi. Mi piego su me stesso e poggio la faccia sui palmi delle mani, i calli delle dita che mi sfregano il viso. Era solo un incubo, continuo a ripetermi. Non le farò del male.

Recupero la fiasca di vino e bevo con avidità il liquido rimasto. Vino. Vino, vino, vino. Ho bisogno di vino. Bevo fino a star male, finché non riesco nemmeno più a restare seduto sulla sedia e crollo a terra, a ridosso della parete di mattoni. Tutto gira: la testa, il castello, il mondo intero. I suoni attorno a me sono improvvisamente ovattati, lo stomaco brucia come fuoco. All’improvviso, l’uccellino è di nuovo davanti a me, i lunghi capelli ramati le scendono morbidi sotto le spalle, ed io la trovo bellissima nella sua bellezza ancora acerba, nel suo viso da bambina e nei suoi occhi di cielo. Sansa. Sansa, Sansa, ripeto il suo nome finché le lettere perdono valore e la sua immagine sfoca. Uccellino, non andartene. Non ti farò del male. Non avere paura, uccellino. Non ti farò del male, no. Non a te. Mai a te.
 

Lei incurva le labbra in un sorriso triste, si volta e svanisce. Ed io resto di nuovo da solo.


 
 

Mi trovo a Grande Inverno. La neve ricopre le torri del castello e l’aria gelida solidifica il mio respiro in dense nuvolette grigie. Indosso di nuovo le mie vecchie vesti, quelle calde e piene di nodi che piacciono tanto alla lady mia madre, ed in lontananza posso ascoltare le urla divertite di Bran, Rickon ed Arya mentre si rincorrono e le risate calde e familiari di Jon e Robb che si allenano con la spada. Odo un profondo ululato e il mio cuore sobbalza: è Lady. La mia piccola, dolce Lady. Corro da lei, gli occhi bagnati di lacrime di gioia, ma quando arrivo il respiro mi si spezza in gola: la neve è coperta di rosso, gli alberi-diga sembrano piangere ed i cavalieri non sono Jon e Robb, ma sir Ilyn e Joffrey che lanciano dei sassi a Lady, facendola guaire di dolore. Mi lancio verso di loro urlando di smetterla, che Lady non ha fatto nulla di male e che sono dei vigliacchi, ma non mi ascoltano. Non mi hanno mai ascoltata.

Un respiro pesante mi solletica il collo e voltandomi incontro gli occhi verdi di Joffrey che sorride crudele e mi afferra con prepotenza per la vita. «Non vestirti di bianco… ho intenzione di farti visita, stanotte. Che ne pensi? Ti piace l’idea?», sussurra. Le lacrime rigano il mio volto e la paura si insidia dentro di me, nelle ossa e nel cuore. «Aiutatemi!», grido, tentando di districarmi dalla sua stretta, «Vi prego! », ma nessuno viene in mio soccorso.

Due uomini di cui non riconosco il volto mi tengono ferma per le braccia mentre Joffrey alza la mia gonna e si fa largo verso di me, incurante delle mie suppliche. Piango tutte le mie lacrime, grido, scalcio ma è tutto inutile. Lo sento avvicinarsi al mio orecchio, mentre il suo membro mi sfiora l’interno della coscia. «Ti ucciderò come ho ucciso il tuo schifoso padre, subito dopo averti scopata come la cagna che sei», dice. «Ti piace l’idea, mia signora? Ti piace?».

«NO!» Tutto il mio corpo viene spinto verso l’alto ed i miei occhi si aprono, rivelando i colori caldi della mia stanza da letto. Il cuore mi batte così forte che posso sentirlo rintonarmi nelle orecchie, terribile come una marcia funebre. Era un incubo, realizzo. Un orribile, disgustoso incubo, eppure la paura è reale, così come il senso d’oppressione al petto. Le lacrime mi salgono agli occhi tutte insieme e il mio corpo viene scosso da forti sussulti mentre porto le ginocchia al petto e vi nascondo il viso.

Non ce la faccio più. Voglio tornare a Grande Inverno, sentire l’abbraccio caldo di mia madre e pregare per il lord mio padre al Parco degli Dèi. La sola idea di dover sposare Joffrey mi terrorizza... Non voglio farlo, non voglio! Cos’ho fatto di male per meritarmi tanta sofferenza? Sono sempre stata tanto buona, tanto, tanto buona! Perché deve accadere tutto questo? Perché a me?

Delle ancelle bussano alla porta ed io sussulto e mi asciugo il viso in fretta e furia. Sono tentata di scacciarle via, ma la mia educazione me lo proibisce. Quando entrano, noto che hanno diversi panni con loro e subito ricordo che tre giorni fa ho avuto il mio menarca, ormai arrivato agli sgoccioli. Un senso d’angoscia mi stringe il petto fino a far male. Da bambina non vedevo l’ora di diventare una donna, eppure adesso darei qualsiasi cosa pur di non esserlo.
Le ancelle mi aiutano a lavarmi e vestirmi, dicendomi che entro domani il mio ciclo sarà cessato e che potrò finalmente sposare il Re. Maschero l’angoscia che mi attanaglia il petto con un sorriso di circostanza, fingendo una gioia che non mi appartiene. Sono ancelle Lannister, queste. Non Stark. Non posso fidarmi di loro. Non posso fidarmi di nessuno.

Una volta pronta, decido di dirigermi verso i giardini reali, nei pressi del tempio. Lì nessuno mi disturberà. Una parte di me spera ancora che Dontos mi aiuti a fuggire da questo covo di segreti e paure, ma ormai quella speranza è quasi svanita insieme a tutte le altre. Dopotutto, ciò in cui speravo è sempre stato soffiato via come sabbia nel vento per un motivo o per un altro, quasi il destino si diverta a farsi beffe di me, quindi perché questa volta dovrebbe essere diversa?

«Guarda un po’ chi è uscito a giocare» Sbatto contro qualcuno e perdo l’equilibrio ma, prima che possa cadere, una mano forte e grande mi afferra. Alzo lo sguardo: è il Mastino. I lunghi capelli neri gli ricadono pesanti sulle spalle, l’armatura risplende alla luce del sole e la cicatrice sul suo volto è persino più disgustosa del solito, alla luce del mattino. Distolgo lo sguardo, pentendomene subito dopo. Non avrei dovuto farlo, lo so bene, eppure al momento l’unica cosa che riesco a pensare è che gli basterebbe un solo dito per farmi davvero, davvero del male e questo mi spaventa anche più della sua cicatrice.

«Mi stavo recando al tempio, mio signore» Rispondo, evitando accuratamente di guardarlo negli occhi. Non ho dimenticato che è stato lui a salvarmi durante la rivolta del pane, eppure non riesco ancora a guardarlo in faccia per troppo tempo. Una risata crudele lascia le sue labbra.
«Preghi, uccelletto? E per cosa preghi?».

Prego che Joffrey muoia, che la Regina e tutta la sua famiglia vengano uccisi, di vedere Robb irrompere nelle mie stanze per portarmi in salvo, proprio come quando da bambini giocavamo al principe e alla principessa e di ritornare finalmente a Grande Inverno. «Prego per il mio matrimonio, mio signore; che gli dèi mi diano la fertilità e mi rendano una moglie ubbidiente e una madre amorevole», rispondo invece.

Lui sembra infastidito dalla mia risposta, proprio come ogni volta che dico una bugia. Un tempo mi disse che un mastino fiuta le bugie, che sa riconoscerle subito, e per quanto vorrei non mentirgli non posso farne a meno: se c’è una cosa che ho imparato ad Approdo del Re è che non devo fidarmi di nessuno, e lui è il cane di Joffrey. Non oso nemmeno immaginare quale sarebbe la mia punizione se venisse a sapere ciò che penso di lui.

Lo vedo alzare una mano verso di me e serro gli occhi, terrorizzata all’idea che stia per picchiarmi, ma il dolore non arriva. Non è mai arrivato, con lui. Invece sento le sue dita possenti accarezzare la mia guancia e prendere una ciocca dei miei capelli ramati; il suo tocco è gentile proprio come quella volta in cui mi aveva asciugato il sangue dal labbro spaccato. Schiudo gli occhi: c’è frustrazione nei suoi lineamenti, e rabbia: una rabbia piena d’angoscia e avvilimento, ma non cattiva. Non è mai stato davvero cattivo con me, lui. Questo lo ricordo.

«Sei brava a cantare*, uccelletto», dice. «Canta ancora, se avrai bisogno di me».

Quando va via, mi accorgo di non averlo ancora ringraziato per avermi salvato la vita.

 
 

La fichetta bionda continua a provare vestiti dopo vestiti, mantelli dopo mantelli e gioielli dopo gioielli neanche fosse una donnetta del cazzo. Ci sono almeno dieci sarti dentro questa stanza da letto, ognuno dei quali ha proposto più di venti modelli differenti di vestiti e stronzate varie, eppure lui non ha ancora deciso cosa indossare per il suo matrimonio e minaccia di darli tutti in pasto ai cani se non riuscirà ad essere soddisfatto entro la fine della giornata.

«Ehi, mastino», volto il capo verso di lui: indossa un farsetto dorato e un lungo mantello di broccato rosso e oro, i colori dei Lannister. Roteo gli occhi, irritato. Non sono ancora abbastanza ubriaco per questa merda. «Pensi sia meglio il rosso o il rosso porpora?».

Penso sia meglio che me ne vada di qui prima che quel fottuto mantello finisca stretto attorno al tuo collo. «Fa differenza?».

Joffrey sbuffa forte e sbatte i piedi. «Come immaginavo. Sei inutile. Va’ a chiamare mia madre, allora. Almeno lei… ahi! Piano con quelle spille, idiota, se non vuoi che pianti la tua testa su una picca!» Bercia quando uno dei sarti tenta di appuntargli una cintura attorno alla vita.  Non mi faccio ripetere l’ordine due volte e mi dirigo fuori dalla stanza, alla ricerca della Regina. Non impiego molto a trovarla: è in giro nei lunghi corridoi del palazzo e al suo fianco c’è Sansa Stark, bellissima nel suo vestito di seta argentea. Mi avvicino.

«Maestà», parlo. «Il Re chiede di voi. È nelle sue stanze a provare vestiti in vista del suo matrimonio».

Con la coda dell’occhio, scorgo l’uccelletto trattenere il fiato. Nella mia mente si forma l’immagine di lei che si rigira nel letto nel tentativo di scacciare via il pensiero delle sue nozze con Joffrey. Non riesco a biasimarla: chi vorrebbe essere la moglie di un coglione del genere?
Cersei sussurra qualcosa all’orecchio di Sansa, le rivolge un sorriso falso e si congeda senza voltarsi indietro. Storco le labbra. Non mi è mai piaciuta, la Regina. Rivolgo un’ultima occhiata all’uccelletto e infine decido di andarmene, ma lei mi ferma.

«Aspettate!», dice. Io obbedisco e mi volto verso di lei. Sulle sue labbra sembrano danzare una miriade di parole e la voglia animalesca di baciarla mi stringe lo stomaco. «I-Io non vi ho ancora ringraziato per l’altra volta, quando mi avete salvata da quel gruppo di rivoltosi. Siete stato molto coraggioso».
«Coraggioso?», sbuffo. L’uccelletto mi crede forse uno di quei froci dei suoi cavalieri splendenti? «Un cane non ha bisogno di coraggio per uccidere dei ratti».

Il suo sorriso si incrina, le dita si stringono a pugno sulla stoffa del vestito. «Vi dona gioia spaventare la gente?», ribatte, continuando a mantenere quel suo portamento da lady che non eccede mai con una parola di troppo. Mi viene da ridere. L’uccelletto ha iniziato ad arruffare le penne? Magari con qualche latrato si deciderà a volare via.

Le mie labbra si stendono in una smorfia obliqua, grave, mentre mi avvicino a lei. «No, mi dona gioia uccidere la gente», sussurro. I suoi occhi diventano vacui, spaventati. Non sai più che rispondere, uccelletto? Proprio ora che iniziavo a divertirmi? «Risparmiami quello sguardo, ragazzina. Anche Ned Stark uccideva senza guardare in faccia nessuno».

Lei aggrotta la fronte e stringe la labbra offesa. «Quello era il suo dovere!», risponde, la voce rotta dalla rabbia e la tristezza. «Non gli è mai piaciuto!».
Rido sprezzante. Povero, sciocco e ingenuo uccelletto che crede a tutto ciò che le viene detto. Non gli è mai piaciuto, dice? Che gran stronzata. A tutti piace uccidere. A tutti. Dai una cazzo di spada ad un uomo e vedi come anche il più coniglio della cricca diventa desideroso di ammazzare qualcuno o fare a pezzi qualcosa. «È questo ciò che ti ha detto? Be’, ha mentito! Uccidere è la cosa più dolce che ci sia in questo mondo. Mettitelo bene in testa e forse riuscirai ad evitare di farti ammazzare entro la fine del mese».

«Perché siete sempre così crudele?!» domanda lei, le lacrime appese alla punta delle ciglia. Non mi piace vederla piangere, cazzo, soprattutto se la causa del pianto sono io. Ma non mi importa. Deve capire come funzionano le cose, che questa non è una delle sue fottute ballate ma la vita vera e che nella vita vera non esistono cavalieri ma solo chi muore e chi tenta di non morire. Il resto sono solo cazzate.

«Sarai grata per le cose crudeli che faccio quando sarai Regina e sarò l’unico a frapporsi tra te e il tuo adorato Re» biascico, le mani che formicolano per la rabbia e lo stomaco stretto in una morsa di ferro. La deve smettere di credere a quelle stronzate. Sono state proprio quelle a far finire la testa di suo padre su una picca, e presto ci finirà anche la sua, di testa, se non la smette di comportarsi così. Ed io questo non lo voglio, cazzo.

Lei non dice nulla. Rimane in silenzio, a fissarmi con quei suoi occhioni azzurri pieni di tanto muto dolore. Un ghigno amaro mi incurva le labbra. Hai finito le canzoncine da cinguettare, uccelletto?

Mi dà le spalle e va via. Tuttavia, mentre si allontana, odo con chiarezza le parole che lasciano le sue labbra.

«Semmai diverrò Regina…» Sussurra. E solo quando è ormai sparita dietro una colonna, realizzo ciò che intende fare.


 

Il gelido freddo della notte mi schiaffeggia il viso, pungente come lame acuminate. Sotto di me si estende un paesaggio fantastico, con giardini pieni di gigli e gelsomini, i miei fiori preferiti. Quanti metri saranno da quassù? Cinque? Dieci? Non mi importa. Non più.

Avevo letto una storia, una volta. Parlava di una donna dalla bellezza senza eguali di nome Ashara Dayne: ella aveva assistito alla battaglia del Tridente e si era gettata dalla torre più alta del suo palazzo per il dolore che la morte del suo amato le aveva causato. I menestrelli cantavano la sua storia come la più nobile e dolorosa delle storie d’amore ed io adoravo sentirla raccontare quando ero a Grande Inverno, nonostante mi provocasse sempre una grande tristezza. Basterebbe un solo passo, una spinta, e forse anch’io verrei ricordata come una povera vittima del fato. Le lacrime sono fredde contro la mia guancia, il vento non permette loro di scorrere e fa rimanere i solchi sulla mia pelle. Sarà doloroso?, mi chiedo. Di certo molto meno di sposare Joffrey, risponde una vocina dentro di me. Eppure non riesco ancora a saltare. Sono così vigliacca da non riuscire neppure a porre fine alla mia inutile vita.

«L’uccelletto ha deciso di imparare a volare?».

Sussulto e per poco non cado davvero. Reggendomi alla ringhiera in marmo del balcone, giro di poco il capo e incontro gli occhi grigi del Mastino. Mille dubbi mi attanagliano: come faceva a sapere quello che stavo per fare? Lo dirà a Joffrey? Mi spingerà di sotto?

«State indietro!», grido. «Non fate un altro passo!».

Lui rimane in silenzio. Non so che espressione abbia il suo volto deturpato in questo momento ma una parte di me è certa che conservi ancora la sua impressione impassibile e rabbiosa che tanto lo contraddistingue.

«Se credi che questo risolverà i tuoi problemi, uccelletto, fallo» La sua voce mi colpisce dritta al petto, avvelenata. Ero certa che mi avrebbe perlomeno chiesto di pensarci su, che suicidarmi non avrebbe risolto i miei problemi, e invece… oh, ma che mi aspettavo? Lui è il cane del Re. Non gliene importa niente di me. Per lui io sono solo un oggetto, uno stupido uccelletto dalle ali spezzate che non fa altro che cinguettare paroline cortesi e senza senso. È qui solo per farsi beffe di me e del mio dolore!

«Lo farò», singhiozzo allora, la voce spezzata dal pianto. «Tutto purché non debba sposare Joffrey, domani».

«E cosa stai aspettando allora? Fallo!», la voce di Sandor Clegane non è più bassa e mitigata come prima. Adesso è più un ringhio, come se anche lui stesse tremando. «Fallo, se è questo che vuoi. Domani troveranno il tuo corpo e lo getteranno in pasto ai cani e, se sarai fortunata, di te resteranno i tuoi bei capelli rossi».

«Smettetela!», urlo. Come può dirmi queste crudeltà? Come può trattarmi così in un momento come questo? Perché non se ne va e mi lascia in pace? Mi odia a tal punto da voler rovinare anche i miei ultimi istanti di vita? « Siete crudele! Andatevene! A nessuno importa della mia morte, tanto meno a voi, quindi perché continuate a rimanere qui?».

«Perché poi toccherà a me toglierti dalla strada, ragazzina, ecco perché. Quindi mi faresti un enorme favore se la smettessi con queste cazzate e tornassi a dormire nel tuo fottuto letto di piume!».

Un’improvvisa furia mi avvolge e le parole escono dalle mie labbra prima ancora di rendermene conto. «Voi siete la persona più crudele che conosca! Vi detesto!», mi volto verso di lui, ma metto un piede in fallo e perdo l’equilibrio. La sensazione di vuoto quando mi manca la terra sotto i piedi è devastante, come se un fantasma mi attraversasse da parte a parte. Sto cadendo. Sto morendo. Non faccio in tempo ad urlare che una mano possente mi afferra per un braccio mentre un’altra mi prende per la vita e mi tira verso di sé. Solo quando la morbidezza delle lenzuola mi accarezza la pelle, capisco che il Mastino mi ha di nuovo salvato la vita.

«Voi…», le parole faticano ad uscire dalle mie labbra. Il cuore mi batte a perdifiato e le ginocchia sono ridotte a un tremolio convulso. Se qualcuno mi chiedesse come mi chiamo, non sarei in grado di rispondere. «… mi avete salvata».
«Non essere tanto sorpresa, uccelletto. L’ho fatto solo perché togliere il tuo cadavere dalla strada sarebbe stata una gran seccatura».
«Lo direte al Re?» Taglio corto. Lo guardo negli occhi mentre lo faccio. Voglio assicurarmi che non mi rifili qualche bugia, che almeno lui non lo faccia. Se lo dirà a Joffrey verrò di certo uccisa o punita e questo lui lo sa bene, quindi tanto vale saperlo subito e prepararsi. Lui non risponde ma per la prima volta mi guarda come se mi vedesse davvero, come se non fossi solo uno stupido uccelletto incapace di mentire ma una persona, qualcuno di cui prendersi cura. Poi le parole lasciano le sue labbra e, dal modo in cui mi guarda, capisco che non sta mentendo.

«No, uccelletto».

Dovrei sorridere, forse. Una lady lo farebbe, ringrazierebbe e direbbe che è lieta di aver trovato qualcuno di tanto gentile, eppure non ci riesco. Perché dovrei farlo, dopotutto? Ho paura, ho appena tentato il suicidio e domani dovrò sposare l’assassino di mio padre. Che motivo ho di sorridere? Mio fratello Robb era solito dire che una volta raggiunto il fondo del barile non si può fare altro che risalire, eppure la mia vita sembra continuare a scendere, come se qualcuno continuasse a raschiare il fondo fino a consumarlo.

«Vi ringrazio», bisbiglio ma le mie parole sono vuote, prive di sentimento, ed i miei occhi puntano verso il basso. Avrebbe dovuto lasciarmi cadere, penso, sarebbe stato meglio. Almeno avrei smesso di soffrire. «Ora potete lasciarmi. Prometto che tornerò a dormire e non farò mai più nulla del genere».
Sandor annuisce. «Lo spero per te, uccelletto», la sua voce rauca è simile allo stridio del ferro contro altro ferro. «Perché la prossima volta non ci sarò io a prenderti», e si allontana. I suoi passi sono pesanti e la sua armatura cigola sotto il suo peso ma io lo sento a malapena. Shae non è ancora tornata, oggi è stata fuori tutto il giorno e mai come adesso ho sentito la sua mancanza. Vorrei solo che qualcuno mi dicesse che va tutto bene, che anche questo incubo passerà, ma la notte è buia, le ombre sembrano farsi sempre più fitte attorno a me e questo incubo non sembra avere una fine. Stringo i denti, cercando di trattenere le lacrime. Raccolgo le gambe al petto affondandoci il capo e aspetto che il Mastino lasci le mie stanze. Ma lui non lo fa, rimane lì, in silenzio, seduto su una poltrona. Non mi guarda, eppure avverto il suo respiro pesante, il suo sguardo malinconico che si sposta per la stanza. Teme che possa di nuovo tentare di buttarmi di sotto, realizzo, ma so per certo che se glielo facessi notare si alzerebbe e andrebbe via a causa del suo orgoglio.

Non voglio che lui se ne vada. Non adesso, non dopo quello che è accaduto. E allora resto in silenzio,  mi sdraio, porto le coperte fino al mento e con ancora il suo sguardo addosso chiudo gli occhi. Forse, mi dico prima di cadere in un sonno senza sogni, c’è ancora qualcuno a cui importa di me.
 
Trascorro la notte in preda agli incubi, sognando di cadere nel vuoto e di essere sbranata dai cani. Quando mi risveglio mi tiro a sedere di scatto, il respiro mozzato come se fossi stata sott’acqua per troppo tempo, ed il cuore mi batte prepotente contro il petto. Mi volto verso il punto in cui Sandor Clegane si era seduto la scorsa notte ma lui non c’è più. È andato via insieme al buio e per un attimo mi domando se non sia stato tutto un semplice sogno. Solo quando le porte si spalancano e Shae fa il suo ingresso, il volto colmo di apprensione e le labbra serrate in una smorfia, capisco che questo non è un sogno ma un incubo.

«No», sussurro, sgranando gli occhi, ricordando improvvisamente che giorno è oggi. «Non può essere. È ancora troppo presto. Ti prego, Shae, dimmi che non è oggi. Dimmi che mi rimane un altro giorno, che sto sognando… ti prego, ti prego…», ma Shae non risponde. Resta in silenzio, gli occhi colmi di amarezza e la fronte aggrottata. Le porte si aprono lasciando entrare una ventina di ancelle dei Lannister nelle mie camere, tutte con in mano oli profumati e vestiti preziosi, e la verità si fa strada in me tagliente come la lama di un rasoio.

È il giorno del mio matrimonio.
 




 
  • Note dell’Autrice.
 1) La canzone iniziale si intitola: “Black is the color of my true love’s heart”.
2) Per “cantare”, Sandor si riferisce alle bugie di Sansa.


Ed eccomi qui! Per chi non mi conoscesse, piacere: sono Harmony394 ed ho una passione a dir poco spietata per tutto ciò che riguarda Game of Thrones ed in particolare la SanSan. Questa è la mia primissima long sul fandom e sono davvero tanto nervosa perché non so se uscirà fuori una ciofeca o qualcosa di decente. Questo sarete voi lettori a decretarlo, spero comunque per il meglio! Ahah :)

Conto di aggiornare, salvo imprevisti, una volta a settimana. Dico fin da subito che potrebbe trattarsi del martedì o del venerdì o del sabato, dipende sempre dagli impegni (dannata scuola!) e dall’ispirazione. XD

Mi scuso (?) per il linguaggio un po’ volgare che adotto nei POV di Sandor, ma ho cercato di pensare il più possibile con la testa del personaggio e sappiamo tutti che Sandor Clegane non è proprio un angioletto che non dice mai le brutte parole. ( “fuck the king” vi dice nulla? :P)
Spero che il primo capitolo vi sia piaciuto. Fatemi sapere che ne pensate, i commenti sono sempre graditi!

P.S: grazie mille alla mia Beta Alice. (qui trovare il suo sito efp: 
TsunadeShirahime  ), sei sempre un amore. <3

P.P.S: e grazie di cuore anche a Red ed Erza. Senza il vostro supporto, probabilmente questa storia non avrebbe mai visto la luce. XD
Se vorrete contattarmi o avere notizie sulle mie ff, questo è il mio profilo “fake” creato appositamente per EFP.
Link: 
https://www.facebook.com/harmony.efp.9
 
Valar Morghulis. 

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Capitolo 2
*** Bedroom Hymns ***


Bedroom Hymns
I'm not here looking for absolution
Because I found myself an old solution
I'm not here looking for absolution
Because I found myself an old solution
 

C’è una cosa che odio quasi quanto il fuoco: la gente. Donne, uomini o fottutissimi ragazzini, non fa alcuna differenza. Li odio tutti, dal primo all’ultimo. Col tempo ho imparato a sopportarli, a far finta che non esistano, ma oggi non ci riesco proprio. Oggi il solo pensiero di star calmo mi fa incazzare ancora di più. Non voglio stare calmo, dannazione. Non oggi che tutta questa gente si è riunita per assistere al matrimonio fra l’uccelletto e la fichetta bionda. Non oggi che, fottuti dèi, a quello stesso uccelletto verranno tagliate le ali ed io non potrò far nulla per impedirlo. Non oggi, cazzo. Non oggi. 

«Stamattina sei più brutto del solito, Clegane».
 
Fulmino con lo sguardo chiunque sia stato ad importunarmi. Gli occhi piccoli e acquosi del Folletto incrociano i miei: indossa un farsetto di cuoio rosso, gioielli dorati e il suo solito ghigno obliquo che lo fa assomigliare ad un mostro più di quanto non lo sia già. Digrigno i denti e le mie mani, dacché erano ferme sull’elsa della spada, tornano a ciondolare lungo i fianchi.
 
«Non credo tu sia nella posizione più adatta per insultarmi, Lannister», ghigno. Il tempio nel quale siamo riuniti è vasto, le pareti sono dorate e le vetrate brillano di colori sgargianti. Alla luce del mattino, Tyrion Lannister sembra ancora più orribile del solito. «Ti sei mai guardato allo specchio?».

Lui annuisce convinto, prende una caraffa colma di vino posata su un tavolino nelle vicinanze e versa il liquido in una coppa dorata.

«Abbastanza da vedere lo sguardo di uno che ha passato la notte in bianco. Cos’è, la tua cuccia non è più confortevole? Vuoi che te ne vada a ritirare una con un cuscino più morbido e che non puzzi di piscio?», riempie un altro calice e me lo passa. Lo bevo senza pensarci due volte, il vino che mi brucia lo stomaco ed il petto.

«E a te che importa di come dormo? Sono anni che ti sopporto e mai una volta ti è passato per la testa di chiedermi come stessi. Cosa ti fa pensare di avere il diritto di farlo adesso?».

Lui scrolla le spalle. «Be’, numero uno: l’oro con cui ti procuri i tuoi bei ossi da spolpare è oro dei Lannister, quindi credo di avere il diritto di fare quel che mi pare; numero due, ieri notte ti ho visto mentre ti dirigevi nelle stanze della ragazzina Stark. Mi auguro che tu non sia stato tanto stupido da farle del male. Sarebbe un po’ difficile spiegare al Re che il fiore rosso della sua bella lady non è germogliato durante la sua prima notte nozze perché… come dire? Un Mastino ha avuto la premura di strapparlo prima che ciò potesse avvenire».

È come se un secchio d’acqua gelata mi precipitasse addosso. Il Folletto... lui ci ha visto. Anzi no, mi ha visto e crede che abbia stuprato l’uccelletto. Un ringhio mi increspa le labbra e una furia cieca mi lambisce le viscere. Stronzo di un nano. Mi ha forse scambiato per Gregor? Crede davvero che le farei qualcosa del genere? Io?! Fottuti dèi, io l’ho salvata, la dannata ragazzina Stark, e non solo una volta.

«Sei geloso, Folletto?», la mia voce è tagliente come un rasoio, le dita scattano sull’elsa della spada. «Cosa c’è? Forse avresti voluto fotterla tu, la ragazzina Stark? Sono certo che ti sarebbe piaciuto», il mio sguardo si scontra col suo e faccio fatica a non torcergli il collo. «Abituato a puttane e cagne come sei, sarebbe stato il più grande privilegio della tua vita. Immagino che la notte te lo meni pensando a lei», rido. Una risata amara, colma di disgusto. «E sai perché lo so così bene?», bevo un altro sorso e il vino scende caldo nel mio stomaco. Dov’è l’uccelletto? Cosa sta facendo? Sta piangendo? Sta tremando di paura mentre la trascinano all’altare? La testa inizia a girare, lo stomaco a ribollire. Poi, le parole lasciano le mie labbra prima che possa fermarle. «Perché vale lo stesso per me».

Tyrion Lannister non fa in tempo a rispondermi che i cancelli vengono spalancati e un fascio di luce argentea irradia tutta la platea. Quando alzo lo sguardo, la vedo: l’uccelletto indossa una veste bianca, le sue labbra sono tinte di rosso e i capelli le ricadono morbidi sul seno messo in risalto dalla scollatura del vestito. È bella come una fata, o forse anche di più. Tuttavia, quando i suoi occhi diventano ben visibili, la vedo per quella che è: una ragazzina costretta a sposarsi contro il proprio volere e che si morde le labbra per trattenere le lacrime. I suoi occhi sono vitrei, spenti, ghiacciati; è come se non fosse davvero qui, come se stesse cercando di estraniarsi dal mondo intero. È Tywin Lannister ad accompagnarla, il farsetto di velluto porpora è in netto contrasto con l’abito bianco di lei, e nel suo sguardo c’è una nota di soddisfazione, un ghigno malcelato. Quando Sansa arriva all’altare, a pochi metri di distanza da me, scorgo una lacrima solitaria solcarle una guancia. Nessun altro se ne accorge ed io mi sento spaccare in due dalla rabbia.  

Joffrey le prende il braccio e le rivolge uno sguardo cattivo che sembra dire “il peggio non è ancora arrivato”, e lei china il capo con passività. Il septon parla ad alta voce ed io ringrazio il cielo che sia così, perché sono certo che in caso contrario tutta la sala avvertirebbe il digrignare dei miei denti. Non piangere, uccelletto. Non dare soddisfazione a questi figli di puttana.

La cerimonia trascorre così in fretta che quasi non me ne accorgo. Alla fine, i novelli sposi si scambiano un bacio che mi fa storcere il naso e tutti i presenti si dirigono in fretta verso l’esterno, dove si sta tenendo il ricevimento. Alle calcagna del Re, mi soffermo un attimo a guardare i volti degli invitati: nobili in farsetto, donne strette in abiti di seta, vecchi con bastoni dorati e tutti, nessuno escluso, con un cazzo di sorriso di merda stampato sulla faccia. Vorrei prenderli per il collo e chiedere loro cosa ci trovino da sorridere, come possano anche solo pensare che questa cerimonia sia un motivo di gioia. Ma li vedete gli occhi della ragazzina?, vorrei urlare, Li vedete quelli del vostro Re, invece?Come potete anche solo far finta che vada tutto bene?!

 «Silenzio!» Urla Joffrey, una volta che tutti hanno preso posto nelle proprie tavolate. Io sono stato collocato a pochi metri dal tavolo principale degli sposi, in piedi e abbastanza vicino da udire perfettamente ogni discorso e proteggere il Re in caso di necessità. Le labbra di Joffrey si incurvano in un sorriso obliquo e cattivo mentre si rivolge a Sansa. «Mia signora, siete incantevole oggi», dice, baciandole il dorso della mano. Lei sorride a sua volta, un sorriso nervoso e di chi ha imparato che non bisogna mai fidarsi di nessuno, e abbassa lo sguardo.

«Siete troppo gentile, vostra grazia» Risponde con un filo di voce. Il ghigno di Joffrey si allarga.
«No, no, mia signora. La vostra bellezza è senza eguali, per questo motivo ho deciso di darvi un dono degno di voi!» Fa un gesto col capo ad un servo e quello corre subito a portargli un cofanetto d’oro pieno di ricami e pietre preziose. Gli invitati iniziano a mormorare fittamente mentre lo stomaco mi si aggroviglia in una morsa. Non mi piace questa situazione. Non mi piace per niente.

«Allora, non lo apri?» Chiede con voce falsamente dolce Joffrey. Sansa gli rivolge l’ennesimo sorriso accondiscendente, ma le sue dita tremano mentre cerca di sbloccare la serratura del cofanetto. Il lucchetto scatta e l’uccelletto deglutisce. Infine, il suo volto si distende in un sospiro di sollievo quando si decide a scoprire ciò che si cela al suo interno: una tiara dorata, riportante il simbolo dei Baratheon e degli Stark, ricolma di pietre preziose e rifiniture. Deve valere milioni di pezzi d’oro, forse anche di più.

«Una regina ha bisogno di una corona, non è forse così?».
«Sì, vostra grazia. Non so davvero come ringraziarvi per questo splendido dono» Sussurra lei, posando la tiara sul capo ramato. Joffrey sorride in risposta.
«E una Regina ha anche bisogno di una guardia del corpo, ovviamente. Altrimenti come farà a difendersi dai traditori? Sir Meryn!», sir Meryn arriva in pochi istanti: fra le dita regge una scatola parecchio più grande della precedente, dalla quale proviene un forte odore acre. Il volto dell’uccelletto impallidisce, mentre Joffrey si gode la scena alle sue spalle. Quando la scatola viene posata sulla tavola, Sansa deglutisce impaurita. Per un attimo, i suoi occhi azzurri si scontrano coi miei e posso leggere chiaramente ciò che stanno urlando: aiutami. 
«Che aspetti ad aprirlo?», la voce di Joffrey è fastidiosa come il ronzio di un insetto. «Aprilo, coraggio. È il tuo Re ad ordinarlo».

Da uccelletto ammaestrato qual è, Sansa fa come le è stato detto. Le sue dita sottili armeggiano con la serratura e in sala tutti trattengono il fiato, consapevoli di ciò che sta per accadere. Qualche metro più in là, scorgo il Folletto passarsi una mano sul volto e sussurrare qualcosa di simile a una preghiera. Poi è tutto un susseguirsi di eventi: Sansa getta un urlo, salta in piedi di colpo e il contenuto della scatola si riversa a terra rivelando così ciò che nascondeva: la testa del suo meta-lupo. Ho appena la fugace visione dei suoi occhi spenti, pieni di vermi, delle zanne giallastre e incrostate di sangue, che subito l’uccelletto crolla sulle ginocchia, premendosi forte le mani sulle labbra ed urlando di nuovo. Gli ospiti ridacchiano per chissà quale cazzo di ragione mentre Joffrey, piegato in due dalle risate, continua a guardare la testa del meta-lupo come fosse un semplice giocattolo rotto.  

«Visto, mia signora? Sono stato così generoso da restituirti quella bestiaccia per cui hai pianto tanto! Non sei felice?», domanda, ma il suo tono di voce non è più derisorio come prima. È cattivo, duro. Sta cercando la scusa per picchiarla davanti a tutti, quasi questo lo renda più forte agli occhi dei suoi sudditi. «Ti ho fatto una domanda, stupida. Rispondimi! Sei felice, mia dolce lady Sansa? Lo sei?».
Ma Sansa non risponde. Rimane in silenzio, accasciata su se stessa a piangere e singhiozzare. Una parte di me mi supplica di prenderla e portarla nelle sue stanze, l’altra, più forte, mi obbliga a restare dove mi trovo e non muovermi senza aver ricevuto alcun ordine. Sei il cane da guardia del Re, dice, E i cani rispondono solo a chi li nutre. 

«Mi hai sentito? Ti ho fatto una domanda! Sei sorda per caso, oltre che stupida?» Joffrey la strattona per un braccio e il viso rigato dalle lacrime dell’uccelletto mi si para davanti violento come uno schiaffo: i suoi occhi sono rossi, l’acconciatura dei suoi capelli è in disordine e le sue labbra sono piegate in una smorfia di rabbia e dolore che la fa somigliare tanto a suo padre. Irato, Joffrey la spinge a terra con uno strattone e le dà le spalle. «Vedete, madre? Mi avete costretto a sposare una ragazza stupida e sorda!», urla, e Cersei finalmente decide di intervenire. Lo allontana da Sansa, che rimane a terra a guardare con occhi inespressivi la testa mozzata del suo meta-lupo, e gli sussurra all’orecchio qualcosa che non riesco ad udire. Lui sbuffa come un moccioso a cui hanno tolto un giocattolo, riserva un’occhiataccia all’uccelletto e si decide a tornare a sedersi.

«Mastino!», mi chiama. Digrignando i denti per impedirmi di sputar fuori tutto ciò vorrei dire, mi dirigo verso di lui.
«Vostra maestà?».

Lui fa un cenno stizzito con la mano nella direzione di Sansa. «Portala nelle mie stanze, fai in modo che si asciughi quelle lacrime e sia pronta per la notte di nozze. Picchiala se non fa quel che dici ma risparmiale il viso… non mi piacciono le ragazze brutte. Quando questa festa sarà conclusa salirò a prenderla. Sono stato chiaro?», chiede, la voce stridula ed alzata di diverse ottave. Di nuovo, l’istinto animalesco di tagliarli la gola mi avvolge pesante come una coperta di lana, tuttavia mi costringo a chinare il capo ed annuire. Arrivo vicino al corpo esile dell’uccelletto e lei alza lo sguardo verso il mio: quando incontro i suoi occhi azzurri tanto disperati,  il mio stomaco si stringe. La sollevo da terra. Come tutte le volte, lei non oppone resistenza e rimane inerte contro il mio petto.

“Non piangere, uccelletto”, sussurro a voce tanto bassa che dubito che qualcuno oltre lei possa avermi udito. “Sei al sicuro ora”.

 
 
Quando arriviamo nelle stanze di Joffrey, il Mastino apre la porta con un calcio e in poche falcate arriva nei pressi del letto, posandomi lì come fossi una bambola di porcellana che rischia di rompersi al più piccolo tocco. Ho ancora gli occhi vuoti e pieni di vermi di Lady in mente, bruciano come vino su ferite aperte e mi sento struggere dal dolore al pensiero che questa notte dovrò concedermi a quel mostro. Pensavo che una volta diventata Regina avrebbe avuto più rispetto nei miei confronti, un minimo di riguardo in più, ma mi sbagliavo. Joffrey non ha riguardo per nessuno, benché meno che per me. Mi odia e farà sempre di tutto per ricordarmelo, per incolparmi di un peccato che non è il mio, ed io rimarrò fino alla mia morte chiusa in questa gabbia che si fa sempre più stretta e soffocante. Qualcosa mi bagna il dorso della mano. Sto piangendo di nuovo. Mi sento una stupida per questo; dovrei alzarmi e tornare al ricevimento, mostrarmi a tutti come una Regina che riesce ad affrontare ogni cosa, ma non ci riesco. Non riesco neanche ad alzare il capo ed il respiro mi si spezza in petto. Forse sto morendo. Dopotutto, come potrebbe un singolo essere umano contenere tutto questo dolore?

«Qui, piccola».

Alzo gli occhi e lo sguardo grigio del Mastino mi trafigge come una spada. Non vi è soddisfazione nel suo volto, né tristezza. C’è solo tanta, tantissima rabbia. Prima che possa fermarlo, le sue dita scorrono sulle mie guance e il fazzoletto porta via ogni lacrima, ogni traccia di quel dolore che mi attanaglia le viscere dacché il lord mio padre è morto. Restiamo in silenzio per alcuni minuti e all’improvviso mi accorgo che, per la prima volta, lui non mi fa più alcuna paura.

«Grazie», dico meccanicamente. Lui mi guarda ma non dice nulla, ed io faccio lo stesso.



 
Per tutto il tempo in cui è rimasto con me, il Mastino non ha più detto una sola parola. È rimasto seduto su una poltrona di velluto, il mento poggiato sulle nocche della mano, con lo sguardo corrucciato di chi non riesce a smettere di pensare a qualcosa. Nonostante ciò, non ho avuto bisogno di parole per capire quello che ha tentato di dirmi per tutto il tempo: fuggi, uccelletto, vola via adesso che nessuno ti guarda. E per quanto lo desiderassi, per quanto dolorosamente lo desiderassi, non l’ho fatto. Cosa avrei fatto una volta fuori? Dove sarei andata? Cosa mi sarebbe accaduto? Io non sono come Arya, non saprei mai cavarmela da sola lì fuori, per me sarebbe la fine. Quando ero a Grande Inverno, ricordo di aver liberato un passerotto chiuso in una gabbia. Lo vedevo sempre così triste, i suoi pigolii erano tanto infelici che una sera, nascosta dal manto della notte, scesi le scale che portavano ai giardini e aprii la gabbia. Provai una gioia tanto grande quando lui volò via! Insieme a lui, era come se anch’io fossi volata via e col sorriso sulle labbra tornai a dormire. Quando mi risvegliai, però, il sorriso si tramutò in pianto: il passerotto era morto durante la notte, le sue piume azzurre e gialle erano sparse ovunque e il suo piccolo corpicino era esamine a terra. Piansi a dirotto, così tanto che dovettero darmi del latte di papavero per calmarmi e solo più tardi il lord mio padre mi spiegò che ero stata dolce a volerlo liberare ma che non sempre uscire da una gabbia porta alla libertà. Il passerotto aveva passato troppo tempo chiuso in gabbia per ricordare come si volava e alla fine era caduto rompendosi entrambe le ali e la testa. Per questo ho paura di lasciare questa gabbia. Per questo non riesco più a volare.

All’improvviso la porta viene spalancata e Joffrey fa il suo ingresso. Sussulto e porto entrambe le mani al petto. Lui regge una spada e mi guarda come se fossi un insetto fastidioso. Infine rivolge il suo sguardo al Mastino, che è scattato in piedi non appena lo ha visto, e gli fa cenno di uscire.

«Resta fuori, Mastino», dice. «E non provare ad entrare se non sotto mio ordine».

Il Mastino annuisce, rivolge un ultimo sguardo nella mia direzione e si dirige fuori dalla stanza senza dire una parola. Quando la porta si richiude, realizzo che insieme a lui anche la mia ultima speranza di fuga è svanita.

Joffrey si toglie l’armatura ed è quasi doloroso constatare quanto sia simile al valoroso cavaliere che ho sempre sognato di sposare, quanto sia bello. Se le cose fossero andate diversamente, questa sarebbe stata la notte che avrei atteso più di ogni altra al mondo. Ma la vita non è una canzone e spesso i mostri si nascondono sotto mentite spoglie, pronti a saltar fuori quando meno te l’aspetti. E Joffrey, in questa storia, non è il mio principe ma il mostro da cui devo essere salvata.

Mi si avvicina con andatura lenta, come se volesse godersi ogni singolo attimo della mia paura, e quando mi è accanto sguaina la spada, puntandola verso il mio collo. Il respiro mi si mozza in gola mentre il mio cuore accelera i battiti come impazzito. Cosa vuole farmi? Mi taglierà la gola? La paura è tanta da impedirmi di urlare o di muovermi. Sono paralizzata e completamente alla sua mercé.

Oh, Madre, salvami! 

Chiudo gli occhi giusto un istante prima di veder la lama calare su di me. Quando il rumore sordo di uno strappo riecheggia nella stanza, getto un grido. Impiego qualche secondo per rendermi conto di non essere morta, che la mia testa è ancora dritta sul mio collo e che il mio cuore continua a battere. Schiudo gli occhi e abbasso lo sguardo sul mio abito di seta bianca ora strappato a metà, e capisco cosa sia accaduto: mi ha tagliato il vestito. D’istinto alzo le mani per coprirmi i seni ma Joffrey non me lo permette: afferra con rabbia i miei polsi e li stringe così forte da farmi male, spingendomi verso il bordo del letto. 

«Sei stupida, Sansa, ma sei bella» scandisce. «… E guardami quando ti parlo!». Obbedisco. Sotto la luce delle torce, il suo volto è ricoperto di ombre e tutto di lui sembra più inquietante del solito. Fatico a reggermi sulle gambe e cado sul letto portandomi dietro anche Joffrey. Non faccio in tempo a capire cosa sta accadendo che lui è sopra di me, le sue mani sudate strusciano sul mio corpo e si soffermano sui miei fianchi e i miei seni, stringendoli fino a farmi piangere dal dolore. «Mi fai male!», singhiozzo, ma piuttosto che fermarlo le mie suppliche non fanno altro che fomentarlo. Le sue labbra viscide premono sulle mie con forza, in maniera quasi brutale, e la sua lingua si fa strada nella mia bocca. Mi vien voglia di vomitare. Mi chiama cagna, puttana, mi sussurra all’orecchio che mi odia e che non sono nient’altro che un pezzo di carne, la figlia di un traditore, ed io lo supplico di smetterla e urlo che mi sta facendo male. So che il Mastino è ancora lì fuori, che sta sentendo tutto, e all’improvviso mi ritrovo a supplicare che entri a salvarmi come quel giorno durante la rivolta popolana

Un dolore atroce mi trapassa da una parte all’altra, così forte che persino urlare mi è impossibile. Con orrore, realizzo che le dita di Joffrey sono dentro di me, lunghe e crudeli. Affonda le unghie nella mia carne, mi morde il collo e ghigna soddisfatto nel vedere che mi sta facendo male, che non posso reagire. «Per favore, per favore basta! », lo prego, e come risposta ricevo il colpo secco di uno schiaffo in pieno volto, poi un altro e poi un altro ancora, finché anche piangere diviene impossibile.

«Non piangere, stupida! Non mi piaci quando piangi! Voglio che tu sorrida mentre ti prendo, hai capito? Se non lo farai, chiamerò il mio mastino e farò in modo che sia lui a farlo… Hai capito, mia signora? Sono stato abbastanza chiaro?» Le sue dita premono sulla mia faccia e mi costringono a guardarlo negli occhi. C’è una furia sadica nel suo sguardo ed io mi costringo a sorridere o perlomeno ad incurvare le labbra, mentre il sapore ferroso del sangue mi riempie la bocca. 

«S-Sì, vostra grazia» La mia voce è appena un sussurro che si perde nell’oscurità. Lui sorride beffardo e si libera delle braghe in fretta e in furia, senza smettere di guardarmi. Mi torna in mente il momento in cui aveva promesso clemenza per mio padre e poi lo aveva fatto giustiziare, la testa putrefatta di Lady e la sua risata cattiva. Quando lo sento premere tra le cosce, le parole escono dalle mie labbra prima che possa fermarle.

«Fermati!».

Per un istante sperimento la più completa e totale mancanza di emozioni. Non sento più nulla: né odio, né rabbia, né vergogna. Siamo solo io e Joffrey, adesso. Poi, tagliente come un rasoio, realizzo cosa ho appena detto e i miei occhi si sgranano. La mascella di Joffrey è serrata e i suoi occhi si assottigliano in due fessure colme di odio.

«Fermarmi?», la sua voce non è nient’altro che un sussurro. «Fermarmi?! Mi hai per caso dato un ordine?», le sue dita si stringono sui miei polsi e portano le mie mani in alto, alla sbarra del letto. «Hai la minima idea di chi sono io, stupida mocciosa?», grugnisce. Io mi dimeno, urlo e scalcio. Non voglio che mi faccia sua. Non mi importa se morirò per questo, non gli consentirò di prendere anche l’unica cosa che mi è rimasta! «Io sono il Re! Ed un Re non riceve ordini! Un Re fa quello che gli pare!», si china su di me e i suoi denti affondano sulla pelle candida del mio collo. Urlo con tutte le mie forze, mi dimeno ed urlo, urlo e urlo ancora. «Hai capito, lurida cagna? Hai capito?!».

«Lasciami andare! Lasciami!» Non so dove trovo la forza per farlo ma finalmente riesco a spostarlo da sopra di me giusto in tempo prima che riesca a finire ciò che aveva iniziato. Mi alzo a sedere, tirandomi indietro verso la sbarra del letto e coprendomi col lenzuolo il resto del corpo. Lui è ancora lì, a guardarmi con sguardo spietato – lo stesso del giorno in cui aveva deciso di decapitare mio padre. Sono certa che adesso mi picchierà, che mi farà del male e che forse mi ucciderà. Il coraggio di prima è svanito: adesso c’è posto solo per la paura.

«Forse», esclama Joffrey con voce simile allo stridio del ferro. Sul suo viso si apre un ghigno sadico mentre fa per riallacciarsi le braghe. «Considerando la cagna che sei, ti troverai più a tuo agio a farti scopare da uno della tua razza, no? Mastino!».
La notte sembra acquistare improvvisamente un corpo, quello poderoso del Mastino. Emerge dal buio come un’ombra, il cigolio della porta che si apre accompagna i suoi passi. «Maestà…», parla. La sua voce è grave come una lapide.

«Puniscila, Mastino! Puniscila! Prendila come la cagna che è fino a che non supplicherà il mio perdono! Fallo! Fallo adesso!».
Il silenzio che segue quelle urla è più assordante di mille grida. Per la prima volta, Sandor Clegane mi pare davvero turbato. Rivolge una rapida occhiata nella mia direzione ed io porto il lenzuolo ancora più in su per coprirmi, poi corruccia la fronte e si rivolge a Joffrey.

«Maestà, l’onore della Regina…».

«Non me ne importa niente del suo dannato onore! Prendila!» Sbraita Joffrey. Si alza e, in preda alla rabbia, afferra una fiaccola e la punta contro di lui, che subito si ritira spaventato. Il cuore mi sale in gola perché io so ciò che il fuoco rappresenta per lui. «Prendila o ordinerò ai miei sottoposti di bruciare anche l’altra parte della tua faccia!».

Il Mastino non dice nulla ma, per la prima volta, ho davvero paura di lui. Ha un attimo di esitazione, ma alla fine mi si avvicina lentamente. Ad ogni passo, respirare diventa sempre più difficile. Non mi guarda negli occhi mentre avanza ed io realizzo con orrore che vuole obbedire a Joffrey, che la paura del fuoco è troppo forte persino per lui. Le lacrime mi salgono agli occhi tutte insieme e un singhiozzo lascia le mie labbra con prepotenza. D’istinto mi ritiro ancor di più verso lo schienale del letto, quasi come se in questo modo potessi scomparire, e tutto il mio corpo trema senza ritegno. No, dèi, vi prego non lasciate che accada…

«No, vi prego, no… vi prego, non fatelo… non voi… vi supplico».

Lui grugnisce di rabbia e la sua mano va al pugnale nel fodero della sua cintola. Vuole farmi del male? Vuole minacciarmi con quel pugnale per farmi stare zitta? Joffrey  continua a guardarci con occhi vigili e colmi di rancore accanto a letto, ed io vorrei urlare fino a graffiarmi la gola tutto il mio dolore e la rabbia che mi stringono lo stomaco.

Proprio lui che mi aveva salvata… proprio lui che mi aveva fatto credere di potermi fidare, che fosse diverso. Proprio lui vuole umiliarmi in questo modo?

«Avanti, cane! Prendila! Prendila come la cagna che è! Fottila! Fottila a sangue! È il tuo Re che te lo comanda!» Grida Joffrey. All’improvviso il Mastino si ferma, i lineamenti del suo volto duri come pietra, e si volta verso di lui.

«’Fanculo il Re» Risponde. E, prima che Joffrey possa rendersi conto di cosa stia accadendo, il pugnale affonda nel suo petto.


 


- Note dell’autrice.

Eccomi qui!
Prima di tutto: grazie, grazie e grazie mille ancora per la risposta tanto calorosa che avete dato a questa fanfiction. Ero piena di complessi e certissima che non sarebbe mai potuta piacere, quindi sapere che vi è piaciuta mi rende di felicissima e vi ringrazio di cuore. 
Come al solito, lascio a voi i commenti. Spero di non essere andata OOC e di aver mantenuto la “tragicità” che questo capitolo doveva avere. Non avete la minima idea di quanto abbia goduto a scrivere la morte di Joffrey per mano di Sandor! Eheh :P
 Da adesso in poi inizia la storia vera e propria. Spero continuerete a seguirmi e che la storia vi appassioni. Per ogni dubbio, domanda o quant’altro, sono a vostra disposizione! Al prossimo capitolo!
P.S: grazie di cuore a 
TsunadeShirahime per il betaggio. <3
P.P.S: La canzone all’inizio della pagina è Bedroom Hymns, dei Florence and The Machine.
P.P.P.S: vi lascio il link del mio profilo Facebook, semmai voleste mettervi in contatto con la sottoscritta!
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Baci, alla prossima settimana! 

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Capitolo 3
*** Safe and Sound ***



Safe and Sound
Just close your eyes
The sun is going down
You’ll be alright
No one can hurt you now
Come morning light
You and I’ll be safe and sound


Il volto di Joffrey è una maschera di sgomento e dolore. Apre la bocca per parlare ma l’unica cosa che ne fuoriesce è il sangue che gli cola giù lungo il mento ed il collo, macchiando il tappeto. Lo guardo mentre si accascia ai miei piedi, le narici dilatate e gli occhi colmi di paura; sul pavimento si crea una densa e grottesca macchia vermiglia. Trema come impazzito, sospira forte ed inarca la schiena; i suoi occhi si rivoltano ed il viso impallidisce come quello di un cadavere. Poi, ad un tratto, il suo sguardo diventa vitreo e inespressivo e non si muove più.

«Oh dèi…», le parole lasciano le mie labbra a fatica, tremolanti come foglie. «Lo avete ucciso! Voi… voi avete ucciso il Re!».

Ho pregato così a lungo per la sua morte che adesso che è sopraggiunta non riesco a realizzarla. Una voce dentro di me urla che dovrei essere felice, che finalmente Joffrey è morto e che giustizia è stata fatta, eppure i miei occhi sono lucidi di lacrime ed il mio cuore sembra stretto in artigli di ghiaccio. Non provo dispiacere, né gioia. Solo paura. Cosa ne sarà di me, adesso? Cersei… oh, Cersei! Quando saprà della morte di Joffrey infilzerà la mia testa su una picca proprio come ha fatto con mio padre! Oh no… no… no, no, no!

«Piangi, uccellino?», il Mastino pulisce il dorso della spada sulle lenzuola del mio letto di nozze. Sarebbe dovuto esserci il mio sangue, lì, non quello di Joffrey. «Avrei giurato che avresti come minimo cantato di gioia».
«Cersei ci taglierà la testa per questo!», urlo, la voce strozzata dal panico. Mi porto le mani alla gola d’istinto, il mio corpo non smette di tremare; il sangue di Joffrey continua a macchiare il pavimento. «… le infilzerà su una picca! Oh, Madre, pietà…».
«Ci?», il Mastino ridacchia sommessamente. Alzo gli occhi verso il suo volto bruciato, confusa: non c’è ombra di panico nella sua espressione, o se c’è riesce a celarlo molto bene, e questo mi inquieta persino di più. «No, uccelletto. Io vado via da qui».
«Via?» , non capisco. Come può andare via? Le guardie sono ovunque, lo placcherebbero immediatamente. È in trappola proprio come me, ne sono certa, e allora perché…? «Dove?».

Lui ghigna beffardo. «L’uccelletto è curioso, vedo», afferra la fiasca attaccata alla cintola dei suoi pantaloni, la apre e ne beve avidamente il contenuto. L’odore pungente del vino mescolato a quello ferreo del sangue mi provoca un conato di vomito e mi fa arricciare il naso in una smorfia. Il Mastino non si scompone: si asciuga i rimasugli del vino col dorso del braccio, riattacca la fiasca alla cintura e fa saettare i suoi occhi grigi verso di me. «Al Nord, forse. Lontano da questa merda; non ci tengo a finire su una picca come Ned Stark», mormora, dandomi le spalle. Lo stomaco mi si stringe in una morsa quando sento nominare il nome di mio padre. Il ricordo della sua testa infilzata su una picca e i suoi occhi grigi che fissavano il vuoto mi tornano alla mente e subito le lacrime mi pizzicano la gola. Neanche io voglio fare la sua fine. «Addio, uccelletto».

«Mi lascerete qui da sola, dunque? Non vi importa che a causa vostra sarà la mia, di testa, a finire su una picca?» Urlo, un attimo prima che lui apra la porta per andarsene. Il Mastino si blocca, la mano sospesa a mezz’aria ancora sporca del sangue di Joffrey, e si volta verso di me.

«Vieni con me», la sua voce è un appena un rantolo, bassa e profonda come la notte. «Io potrei tenerti al sicuro. Tutti quanti hanno paura di me. Nessuno ti farà mai più del male. Se lo faranno, io li ucciderò».

Sulle mie labbra danzano un centinaio di possibili risposte, eppure la mia bocca continua a rimanere serrata. Fuggire… col Mastino? No, è assurdo. Lui è un assassino, ha appena ucciso il Re a cui aveva giurato fedeltà proprio davanti ai miei occhi, non posso fidarmi di lui. Ma se resto qui morirei comunque. Non ci sarà nessuno disposto a salvarmi e se non fuggo verrò di certo condannata a morte, eppure... Oh, dèi, cosa devo fare?

«Non vuoi, vero, uccellino? Bene allora, resta pure chiusa in questa gabbia dorata che ti piace tanto. Entro domani sarai di nuovo libera... questa volta per sempre. Salutami il tuo paparino, quando lo incontrerai» Abbassa la maniglia ed esce senza darmi il tempo di ribattere. I suoi passi pesanti riecheggiano fra le mura di pietra della Fortezza Rossa, infiltrandosi taglienti nelle mie orecchie. Resto immobile fra le lenzuola, la testa piena di domande e il corpo esamine di Joffrey steso davanti ai miei occhi, morto. I suoi occhi sono vuoti, freddi, senza luce. Saranno così anche i miei se non vado subito via. Un pensiero mi si affaccia in mente, doloroso quanto reale.

Non ho più niente da perdere.

Senza pensare realmente a quello che sto facendo, salto giù dal letto e indosso l’abito che le ancelle mi avevano lasciato in previsione della mattina seguente alla notte di nozze, poi infilo li stivaletti in fretta e furia e, con ancora la vestaglia sbottonata, mi accingo a raggiungere il Mastino. Compio pochi passi prima di trovarlo ma quando mi vede mi si avventa addosso, mi spinge contro una parete e preme una mano sulle mie labbra. Le sue dita sono dure e ricoperte di calli, viscide di sangue e il suo fiato puzza di vino.

«Fa' silenzio, uccellino, o ti taglio la lingua».

Oh, no. Lo sapevo che era una trappola! Avrei dovuto rimanere nelle mie stanze, magari chiamare aiuto e dire la verità, urlare che è stato lui ad uccidere Joffrey e non io, mentre adesso verrò trascinata dalla Regina, lui le dirà che sono stata io ad assassinare suo figlio e lei mi farà tagliare la testa da sir Ilyn proprio com’è accaduto a mio padre... Oh, no… no, no, no! Madre, ti prego, non lasciare che accada, per pietà, ti prego…

Solo quando dei rumori di passi riecheggiano fra le pareti di roccia del corridoio, capisco cosa sta accadendo: c’è una guardia che passeggia, poco più avanti, avrà poco più di vent’anni; lo riconosco come uno dei soldati che aveva protetto la Regina durante la Rivolta del Pane. Le mie guance si tingono di rosso e il senso di colpa mi stringe il petto: mi sono sbagliata. Il Mastino non voleva uccidermi, solo nascondermi. Per questo mi ha spinta qui dietro. Che razza di persona viscida e meschina sono diventata per sospettare anche di chi mi ha salvata da uno stupro?

Le sue dita si allontanano dalle mie labbra e afferrano il pugnale stretto alla cintola dei suoi pantaloni. Aspetta che la guardia si volti dall’altra parte per agire in fretta e prenderlo alle spalle, tagliandogli la gola. Non riesco a vedere il volto del ragazzo mentre muore ma il suo sangue schizza ovunque: sul pavimento, sul muro, sui vestiti di Clegane e sono costretta a premermi una mano sulle labbra per non urlare. Ho già visto un uomo morire, al torneo del primo cavaliere, così come ne ho visti morire tanti altri durante la Rivolta del Pane, eppure lo stomaco mi si stringe ogni volta. Perché morire deve essere tanto orribile?

«Muoviamoci», le dita del Mastino mi afferrano il polso e mi spingono in avanti. «Prima usciamo da questa merda e meglio sarà».

Ogni passo che compio rintona nella mia mente terribile come una sentenza di morte. È notte fonda e nessuno, oltre le guardie, è in giro per il palazzo. Le poche guardie che fanno da veglia vengono stese una dopo l’altra dal Mastino, che agisce nell’ombra con la stessa ferocia e lestezza d’una faina. No, di un cane. Sandor Clegane è un cane, ricordo a me stessa. Un cane sciolto, adesso.

So che presto l’odore acre del sangue di Joffrey e delle guardie si espanderà per tutto il castello e che scatterà l’allarme, che è solo questione di attimi, piccoli rintocchi dell’orologio e la mia vita sarà di nuovo appesa a un filo, ma io continuo a camminare nonostante tutto. La presa del Mastino è salda nella mia mano e per un attimo il mio cuore si gonfia di sollievo nel sapere che sarà lui a proteggermi.

Quando riusciamo ad uscire dal palazzo, dietro di noi lasciamo una scia di cadaveri e sangue. Non so quanti uomini siano morti, sarebbe più semplice dire quanti ne sono sopravvissuti, ma nessuno sembra essere riuscito a lanciare l’allarme. Una volta varcato il cancello che porta all’ingresso della Fortezza Rossa, l’aria fresca della sera mi punge il viso quasi a volermi ricordare che ce l’abbiamo fatta, che siamo fuori, che sto fuggendo davvero, ed un sorriso mi incurva le labbra.

«Non siamo ancora fuori. Vedi di non sorridere tanto» Mi rimbecca il Mastino, ma io non lo ascolto. Non riuscirà a tediarmi con le sue parole, non adesso che sono ad un passo dalla libertà.

Una volta raggiunte le stalle, il Mastino mi dice di tenere alto il cappuccio del mantello e di non fiatare per nessun motivo ed io obbedisco senza replicare. Montiamo in sella al suo cavallo, uno stallone alto circa due metri e nero come la notte, e proprio come durante la Rivolta del Pane mi aggrappo forte alla sua schiena. Il calore del suo corpo mi fa arrossare le guance e il suo odore mi riempie le narici. È questo l’odore di un uomo, dunque?

Ad un tratto una mano mi afferra per il braccio e, prima che possa opporre resistenza, mi tira giù da cavallo, che subito nitrisce e si alza su due piedi, facendomi rovinare terra con un tonfo sordo. Dolorante e con le mani piene di graffi, alzo il volto verso il mio aguzzino: subito gli occhi scavati di sir Meryn Trant ricambiano il mio sguardo, acquosi e maligni come li ricordavo.

«Li ho trovati!», urla ad un tratto, alzandomi in piedi di peso e tirandomi dietro di sé. Il mio cuore perde un battito mentre realizzo cosa sta accadendo: ci hanno scoperti. Qualcuno deve aver trovato il cadavere di Joffrey e… e adesso vogliono uccidermi! «Non una sola mossa, Clegane! Sappiamo quello che hai fatto: hai ucciso il Re e stavi per rapire la Regina per chiedere un riscatto! Con che coraggio porti ancora il mantello bianco della Guardia Reale, verme?!».

Le parole di sir Meryn mi arrivano addosso violente come un pugno. Non capisco. Loro… loro credono davvero che il Mastino mi stesse per rapire? Non mi credono colpevole della morte di Joffrey? Sento il rumore di numerosi passi metallici avvicinarsi sempre di più: sono loro, le guardie reali, sono qui per uccidere Sandor Clegane e riportarmi indietro al palazzo! Il mio cuore sussulta di sollievo: se non mi credono colpevole, allora potrei fingere che il Mastino stesse davvero per rapirmi e in questo modo sarei innocente ai loro occhi, una semplice vittima della mente di un pazzo assassino!

Col viso contratto per la rabbia, sir Meryn sferza l’aria con la spada e tenta di colpire il Mastino, che ringhia una bestemmia fra i denti e risponde all’attacco con mortale precisione nonostante la sua postazione non sia delle migliori; il suo cavallo nitrisce infervorato. Un lampo di sfida balena nel viso di sir Meryn, ma prima che possa sferzare l’ennesimo attacco qualcosa lo colpisce e lui cade a terra rantolando. Per un attimo infinito, mi sembra che il mondo si sia fermato. C’è qualcosa di pesante fra le mie mani, mi accorgo all’improvviso, e quando chino lo sguardo mi rendo conto di averlo colpito con un masso. Il fiato mi si spezza in gola e lascio andare la pietra immediatamente. Osservo le mie dita: sono sporche di sangue.

Io… io... io ho appena colpito un uomo... una guardia reale… e le mie dita… le mie dita sono sporche del suo sangue… io… io…

La mano del Mastino si preme sulle mie labbra un attimo prima che possa urlare, soffocando il mio grido sul nascere. La mia testa si riempie di suoni ovattati e immagini confuse, il mio cuore batte con così tanta energia da farmi tremare. Le ginocchia cedono sotto il mio peso e all’improvviso tutto diventa buio. Con l’ultimo briciolo di lucidità che mi rimane, odo la voce del Mastino.

«Va tutto bene, uccellino. Nessuno ti farà più del male. Nessuno.».



Le fottute Guardie Reali mi sono alle calcagna. Sprono Straniero ad andare più veloce, a non fermarsi, e lui accelera il galoppo. L’uccellino è stretto fra le mie braccia, gli occhi chiusi e le labbra distorte in una smorfia d’angoscia, piccola e leggera come una bambola di porcellana. Non credevo che avrebbe colpito quel bastardo di Meryn. Non so perché lo abbia fatto – e nemmeno lei deve saperlo, visto come ha reagito appena si è resa conto di averlo steso – ma il pensiero mi fa ghignare di soddisfazione. Forse non è poi così debole come pensavo.

Digrigno i denti e mi avvio verso l'uscita dalla città, le guardie mi tallonano come lupi affamati e due fottute frecce mi hanno già colpito il fianco sinistro e la spalla destra. Se non fosse per l’armatura di cuoio e di ferro, probabilmente sarei già bello che morto.

Passano intere ore prima che riesca a raggiungere la Porta del Re. Per mia enorme fortuna, le strade sono deserte, l’allarme non è ancora giunto ai confini di Approdo del Re e i cancelli sono ancora aperti. Sprono Straniero ad andare più veloce, pregandolo di non tradirmi proprio adesso, e lui corre veloce oltre il grande arco ramato alle porte di Approdo del Re. Un solo pensiero occupa la mia mente: Nord. Devo andare verso Nord. E devo sbrigarmi.

Mi inoltro nel sottobosco e cavalco sempre più lontano: devo mettere più distanza possibile tra me e quegli stronzi se non voglio che la mia testa e quella dell’uccellino finiscano su una picca. Passano intere ore prima che non riesca più ad udire le loro fottute voci ma alla fine tiro un sospiro di sollievo. Li ho seminati. È finita, per adesso.

Mi guardo attorno: il bosco in cui mi sono avventurato è buio, fitto e pieno di rovi. Se non fosse per la luce della luna non riuscirei a vedere nulla. Straniero è troppo esausto per continuare a cavalcare ed io accarezzo la sua criniera con gratitudine. «Bravo, ragazzo», sussurro e lui scuote il muso in risposta.

Spossato e con le gambe in fiamme a causa della lunga cavalcata, mi concedo un sorso di vino e tiro via le due frecce conficcate nel metallo della mia armatura con un ringhio frustrato. Fottuti arcieri. Che se le ficchino nel culo, le loro fottute frecce. Per fortuna non hanno perforato la carne, non ho proprio voglia di morire a causa di qualche infezione.
All’improvviso, qualcosa si muove contro il mio petto. «L’uccellino si è svegliato», esclamo. Sansa Stark apre gli occhi e si alza subito a sedere. Il suo viso è così vicino al mio che posso quasi contarle le ciglia.

«Cosa ci faccio qui? Voi…», balbetta, gli occhi pieni di smarrimento e confusione. Ad un tratto, il suo visino pallido si ombreggia di paura e le sue iridi azzurre si posano sulle mie guardandomi come se fossi un fantasma. «Oh, no… no, no, no! Voi avete ucciso Joffrey!».

«Non c’è di che, uccellino. Mi ringrazierai a dovere quando saremo arrivati al Nord; cinque sacchi d’oro dovrebbero bastare» Ribatto. Quasi riesco a vederli sul serio, quegli enormi sacchi pieni di monete d’oro. Una volta che questa merda sarà conclusa, potrò finalmente andarmene per i cazzi miei e vivere la mia vita. Forse andrò a vivere al Nord, in una di quelle enormi montagne dove nessuno potrà rompermi i coglioni, o forse li spenderò tutti in puttane. Già: puttane dai capelli rossi e dagli occhi azzurri.

«Ed… ed io ho… ho… oh, dèi… Sir Meryn! Io… io l’ho…» La sua voce si spezza ed i suoi occhioni si velano di paura e lacrime. Crede di averlo ucciso, magari l’ha fatto sul serio: quel masso era piuttosto grande e non mi sorprenderebbe se avesse causato una gran bella emorragia alla testa di quell’idiota.

«L’hai colpito, uccellino. Dritto in testa. Io non avrei saputo farlo meglio» Sogghigno ma il suo cipiglio continua a restare turbato e colmo di senso di colpa. Stringo le labbra in un impeto di rabbia: come fa ad essere dispiaciuta? Meryn l’ha picchiata più e più volte, colpendola come se fosse stata un semplice pezzo di carne, eppure lei prova rimorso. Cosa cazzo c’è che non va in questa ragazzina? Dovrebbe gioire, essere fiera di se stessa, non piangere!

«Si può sapere per quale cazzo di motivo fai quella faccia, adesso?».

«Io… io non volevo ucciderlo, lo giuro. Non volevo colpirlo! Io… io non so cosa mi sia preso, lui… lui era lì, e vi minacciava con quella spada e le guardie erano così vicine e… e…» Scoppia a piangere e si preme le mani sul viso. Per i Sette Inferi, non mi piace la gente che piange e soprattutto non mi piacciono gli uccelletti che piangono. A che serve piangere? Quando Gregor mi premette la faccia sui carboni ardenti io non piansi. Urlai, cazzo, quello sì, urlai così tanto da graffiarmi la gola e gonfiarmi i polmoni, ma non piansi; non gli avrei mai dato quella soddisfazione, non dopo quello che mi aveva fatto. Lei invece non fa altro che piangere. Piange sempre, l’uccellino, ed io comincio ad averne abbastanza.

«Prendi», mi guarda stranita quando le porgo un fazzoletto spiegazzato che tenevo dentro la tasca. «Ti sta colando il naso», non è vero, ma è abbastanza da farla arrossire e smettere di lacrimare. Dopo essersi asciugata il viso, infila il pezzo di tessuto dentro al corpetto e mormora che me lo ridarà più tardi, dopo averlo lavato. Persino quando piange riesce a pigolare parole gentili e cordiali.

«Credete davvero che lo abbia ucciso?» Domanda dopo un po’, sinceramente preoccupata.
«Spero di sì, cazzo. Non lo sopportavo proprio quel ciccione di merda. Se non lo avessi fatto tu, uccelletto, lo avrei comunque fatto io, quindi finiscila di farti tutte queste paranoie».
«Ma io non volevo farlo! Io… io ho agito senza pensare! Non ho mai fatto del male a nessuno, lo giuro! Sono buona, gli dèi questo lo sanno… loro mi perdoneranno, non è vero? Saranno clementi!».

Tiro le briglie del cavallo, che nitrisce infastidito e si blocca di colpo. Sansa aggrotta la fronte e corruccia le labbra confusa, guardandomi spaesata.

«Cosa sta succede--» Non le permetto di terminare la frase. Afferro il suo mento con rabbia e lei squittisce di paura e prova a dimenarsi dalla mia presa d’istinto; io le afferro il polso e avvicino il suo viso al mio. Nei suoi occhi cerulei, posso leggere un’immensa paura.
«Ascoltami bene, ragazzina: quali dèi farebbero in modo che un uomo onorevole come Ned Stark venga ucciso per mano di un bamboccio viziato? Quali dèi permetterebbero che una ragazzina come te vada in sposa a quello stesso ragazzino? Dèi mostruosi, ecco quali. Gli dèi non esistono e se esistono sono dei gran figli di puttana. Quindi vedi di risparmiarmi i tuoi cinguettii senza senso, prima che ti strappi la lingua!».

«Mi fate male, sir! Per favore!» Geme lei, la voce spezzata dalla paura.

«L’uccellino tende a dimenticare le cose: ti ho già detto che non sono un sir. Io ci piscio sopra ai tuoi sir. Sono un cane. Un cane senza padrone, adesso. Lo sai cosa fanno i cani alle ragazzine impaurite come te? Guardami quando ti parlo. Guardami!».

E lei mi guarda, gli occhi pieni di lacrime ed i piccoli polsi stretti tra mie dita possenti. All’improvviso, la paura è andata via dal suo viso. Adesso c’è solo fierezza, un coraggio che le ho visto addosso solo quando stava per gettare Joffrey giù dal ponte. Sono gli occhi di una Stark. Sono gli occhi di un metà-lupo.
Lascio andare la presa di scatto, come ustionato, e mi decido a scendere da cavallo. Lei fa lo stesso; attorno a me risuonano un centinaio di suoni diversi: il verso dei gufi, il vento che sibila tra le fronde degli alberi, il tac-tac-tac degli insetti, uno più fastidioso dell’altro.

«Dovremo restare qui per la notte», sbotto ad un tratto. «Ce la fai ad accendere un fuoco?».

«No» Risponde lei, ma sono certo che anche se avesse saputo farlo avrebbe risposto così. Lei sa del mio terrore nei confronti del fuoco, forse è una delle poche a conoscere il mio segreto ed è ancora arrabbiata con me per le parole che le ho rivolto prima. Non mi aiuterebbe neanche sotto tortura.

«Bene», sibilo fra i denti. Lei stringe le labbra. «Anche volendo non sarebbe stata una buona idea accenderlo: il fumo avrebbe attirato le guardie», non risponde. Mi dà le spalle; la guardo mentre si siede con grazia sul tronco di un albero, facendo ben attenzione a non sporcarsi il vestito. Storco le labbra in una smorfia. È troppo sgargiante, penso, la riconosceranno subito. Schiudo le labbra per dirglielo, ma le parole restano bloccate in gola per chissà quale assurda ragione. Stringo i pugni, frustrato. ‘Fanculo. ‘Fanculo lei e il dannato vestito. Che m’importa, dopotutto? Che si tenga la sua cortesia ed i suoi fottuti vestitini di seta, vedremo a cosa le serviranno quando le taglieranno la testa.

Restiamo in silenzio per parecchio tempo, l’aria è pregna di tensione e vibrante come una corda di violino. Assurdo quanto assordante possa essere il suono del silenzio. I miei occhi sbirciano la sua figura minuta e la scorgo mentre, tremante per il freddo, sfrega le mani e si stringe in quel misero abitino di seta che indossa. Morirà di freddo, avverte una voce nella mia mente, preoccupata. Devi fare qualcosa o potrai dirle addio.

«Qui, uccellino», mi avvicino a lei con passo pesante, il metallo del’armatura scricchiola sotto il mio peso. Lei alza gli occhi, confusa, ma le getto il mantello della Guardia Reale sopra le spalle prima che abbia il tempo di porre domande. È ancora sporco di sangue, probabilmente puzzerà anche, ma basterà per mantenerla al caldo e nasconderle il vestito. Per quanto detesti ammetterlo, l’idea di saperla morta mi è insopportabile.

«Ma—».

«Il tuo abito è troppo sgargiante. Non va bene, se qualcuno dovesse vederti ti riconoscerebbe: va nascosto. E poi ti tornerà utile per stanotte, credimi», lei schiude la bocca in cerca di parole, ma la richiude subito dopo; il buio della notte nasconde metà del suo viso, tuttavia la luna lo illumina quel poco che basta per scorgere le sue guance tingersi di rosso. Distoglie lo sguardo, imbarazzata, e si stringe nel mio mantello come se fosse la più calda delle coperte. Per un attimo, il mio cuore batte un po’ più forte.

«Grazie», sussurra. L’istinto prepotente di premere le mie labbra sulle sue diviene impellente ma non cederò. Non sono Gregor, non le farò del male. Non a lei, mai a lei. Sento i suoi occhi azzurri addosso – occhi di lupa, occhi del Nord – e il mostro dentro il mio stomaco si dimena come impazzito. «Mi riporterete davvero a casa? Lo promettete?».

La sua domanda mi disorienta. Lo farò? Non lo so, cazzo. Non so nemmeno se riuscirò a campare fino a domattina, figuriamoci se so una cosa del genere. Mi chiede di prometterglielo, proprio io che nella vita non ho mai promesso nulla. No. Non sono fatto per le promesse, io. Io ci piscio sopra alle fottute promesse e tutta quella merda che fanno i cavalieri. Eppure adesso è diverso: è l’uccellino – il mio uccellino – a chiedermelo, sono i suoi occhioni azzurri a supplicarmi, le sue labbra rosee e che tanto vorrei baciare a tremolare in attesa di una mia risposta, e all’improvviso ogni barriera che avevo accuratamente costruito per tutti questi anni crolla sotto il calore del suo sguardo. Mi vien quasi da ridere. Proprio io, che stimavo tutto il mondo nulla, senza armi vinto son da una fanciulla*.

«Aye. Ti riporterò a casa, uccelletto».





  • Note dell’Autrice.
  1. La frase, che reputo perfetta per questa coppia – e soprattutto per Sandor –, è di Matteo Maria Boiardo, tratta dal poema “L’Orlando Innamorato”.
  2. La canzone all'inizio del capitolo è di Taylor Swift e si intitola Safe and Sound.

Eccomi qui! :)
Mi dispiace per il ritardo con l’aggiornamento, ma questa settimana è stata piena di compiti. Detesto la scuola… sigh.
Ad ogni modo: finalmente Sansa e Sandor sono evasi dalla Fortezza Rossa! Come molti, anch’io penso che Sansa non sarebbe mai fuggita volutamente col Mastino, nonostante lui potesse perfettamente tenerla al sicuro, per motivi molto banali quanto essenziali: insicurezza, paura e mancanza di motivazione. Perché avrebbe dovuto? Sansa non è Arya e certamente ha più possibilità di sopravvivenza dentro le mura di un palazzo che fuori in mezzo alle intemperie. Per questo durante la Battaglia delle Acque Nere non ha seguito Sandor. La sopravvivenza viene prima dell’amore o di qualsiasi altro sentimento, e in quel momento lei era certa che Stannis avrebbe assediato la Fortezza Rossa e l’avrebbe liberata dal sequestro dei Lannister. Scappare in un momento simile sarebbe stato inutile quanto pericoloso.
Per questo, in questa fanfiction, Sansa fugge col Mastino per una ragione puramente egoistica. Ovvero: se non lo faccio, muoio sicuro. Tanto vale inoltrarsi in un destino incerto piuttosto che in uno sicuro e drammatico. Spero che la cosa sia risultata credibile! >_<
Da questo capitolo in poi, comunque, inizia la vera storia. Non per niente questo capitolo si chiama “Safe and Sound”, rifacendosi al titolo dell’intera ff. Spero vi sia piaciuto, fatemi sapere nelle recensioni. :)

Vi mando un bacione e vi ringrazio di cuore per tutti i pareri e le recensioni entusiaste. Spero di non deludervi!
P.S: come al solito, ringrazio di cuore la mia beta
TsunadeShirahime per aver sistemato il capitolo. Grazie, Ali. <3
P.P.S: se volete mettervi in contatto con la sottoscritta, ecco il mio profilo Facebook!
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Alla settimana prossima!

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Capitolo 4
*** The wolf's lair ***


 
The wolf's lair
 

 
 *Dato che Sansa è riuscita a fuggire dalla Fortezza Rossa, ho deciso di mettere l’immagine di un uccellino fuori dalla gabbia per simboleggiare il fatto che è finalmente “volata” via.
 
I will never let you fall 
I'll stand up with you forever 
I'll be there for you through it all 
Even if saving you sends me to heaven 
 

 
 
C’è Joffrey davanti a me. Il suo volto è cinereo, la sua bocca distorta in una smorfia grottesca e dal suo petto sgorga sangue viscido e grumoso. Sussurra parole cattive, mi dice che è colpa mia se è morto ed io fuggo via. L’aria è pesante, il mio cuore batte frenetico contro la cassa toracica e ad ogni passo respirare diventa sempre più difficile.

Tum. Tum. Tum.   

«Sei stata tu!» Questa volta non è Joffrey a parlare, ma sir Meryn: la sua barba rossa è piena di vermi e i suoi occhi incavati sono iniettati di odio. Dalla sua testa, nel punto in cui l’ho colpito, sgocciola un lunghissimo rivolo di sangue. Mi volto dall’altra parte e il mio sguardo si scontra con quello di mio padre: il suo collo ha una lunga cicatrice rossa. Tutti e tre mi fissano con occhi accusatori e cattivi e ripetono la stessa frase: Sei stata tu! Sei stata tu!

Hanno ragione: è colpa mia se sono morti. Gli dèi mi puniranno per questo, mi getteranno negli Inferi e la mia anima non avrà ma più pace. «No!», il panico si impossessa di me, «No, vi prego, no! Sono buona, io. Non ho mai fatto del male a nessuno!».

Ma loro non perdonano. Non mi perdoneranno mai, così come io non perderò mai Joffrey per quello che ha fatto a mio padre. Continueranno ad odiarmi e maledirmi. Le loro mani scheletriche si avvicinano a me, le loro bocche si tingono di nero ed io urlo forte e invoco aiuto.  

«No! Vi prego, aiuto. Qualcuno… per favore… vi prego!».

Apro gli occhi e mi tiro a sedere di scatto. Le mie guance sono bollenti, le mani mi tremano per la paura. Era solo un incubo, realizzo, il fiato corto e gli occhi sgranati. Solo uno stupido, sciocco incubo. Nessuno mi farà del male.

Il venticello fresco del mattino mi accarezza il viso. Mi passo una mano fra i capelli, spossata come se avessi combattuto più di mille guerre, e gli occhi grigi di mio padre mi si parano davanti, minacciosi quasi quanto la barba piena di vermi di sir Meryn ed il petto grondante di sangue di Joffrey. D’improvviso le lacrime mi salgono agli occhi tutte assieme e nascondo il viso nelle ginocchia, pregando gli dèi di farmi dimenticare quelle visioni. Ho ucciso sir Meryn e sono complice dell’assassino di Joffrey. Sono un mostro. Sono diventata proprio come coloro da cui sono fuggita!

Mi guardo attorno, la vista sfocata a causa delle lacrime: il Mastino è steso pochi metri più in là, sdraiato su un fianco sopra un giaciglio d’erba con un braccio usato a ‘mo di cuscino. Con lo stomaco stretto in una morsa, mi asciugo le lacrime e mi avvicino a lui: alla luce del mattino, la sua cicatrice sembra perfino più spaventosa.

Tiro su col naso, ancora scombussolata dall’incubo: se mi vedesse in questo stato mi prenderebbe in giro. Fisso il suo viso ustionato dal fuoco, le sue labbra semi aperte e ricoperte di graffi ed i capelli scuri ricolmi di polvere e terra. Nonostante stia dormendo, la sua espressione continua a rimanere piena di rabbia e malinconia. Non l’ho mai visto sorridere, Sandor Clegane. Mi ha mi sempre rivolto ghigni cattivi e derisori, ma mai sorrisi veri. Mi domando se sia mai stato felice, e mi sorprendo a pensare che mi piacerebbe tanto che lo fosse. 

Devo fare qualcosa per lui, decido ad un tratto. Dopotutto, mi ha aiutata ad evadere dalla Fortezza Rossa ed ha ucciso Joffrey. Ha preferito uccidere il Re a cui aveva giurato fedeltà piuttosto che violentarmi. Nessuno dei cavalieri ad Approdo del Re lo avrebbe mai fatto, mentre lui, che non è neanche un vero cavaliere, ha rischiato la sua vita pur di non farmi del male. Non è cattivo come crede di essere, c’è del buono in lui. Io lo so bene. Eppure a volte è così semplice dimenticarlo…

Cercando di fare meno rumore possibile, mi inoltro nei pressi del bosco. Devo trovare da mangiare, così potrò preparare qualcosa per colazione. Magari lui mi ringrazierà e l’odio che affligge il suo cuore si affievolirà un pochino… magari potrò persino vederlo sorridere!

Girovago senza una meta per un po’, riuscendo a trovare nient’altro che qualche bacca dal colorito bluastro e alcune radici secche e piene di terra. Il mio vestito è tutto sporco, dei rampicanti lo hanno strappato in più parti e l’euforia con cui avevo iniziato quest’avventura si tramuta ben presto in profonda irritazione. Cosa darei per un bel bagno profumato ed un vestito pulito!

Un fruscio improvviso alle mie spalle mi fa trasalire. Mi volto di scatto: non c’è nessuno. Avanzo d’un passo, ma il fruscio ricomincia e questa volta è più vicino di prima. Il cuore mi sale in gola ed un terribile pensiero mi raggela dalla testa ai piedi. Oh, no! Sono loro, i soldati dei Lannister. Mi uccideranno, mi porteranno dalla Regina e lei darà l’ordine di uccidermi! Sarei dovuta restare col Mastino, adesso non posso più scappare... Oh no, no, no!

Un coniglietto sbuca fuori da un cespuglio: il suo musetto è sporco di terra, il suo pelo è bruno e folto ed ha delle orecchie lunghissime. Un sospiro di sollievo lascia le mie labbra, così sentito da scuotermi le spalle. Che stupida a spaventarmi per una cosa tanto sciocca! È solo un coniglio, il Mastino riuscirebbe a prenderlo a mani nude.

Un’idea mi balena in mente: se lo catturo, potrò preparare qualcosa per colazione!

Eccitata all’idea della faccia che farà il Mastino non appena mi vedrà con in mano un coniglio, mi getto in avanti nel tentativo di acciuffarlo ma lui scappa via ed io rovino a terra, macchiandomi la faccia di fango. Nel bosco riecheggia il mio grido colmo di frustrazione. Detesto questo posto!  
Stringo i pugni. Non mi darò per vinta tanto facilmente!

«Torna qui!», gli urlo dietro, correndo nella sua direzione. «Torna subito qui!».

Lo inseguo a perdifiato. Non ricordo l’ultima volta in cui ho corso tanto e all’improvviso mi sento invincibile e… felice. L’aria fredda del mattino mi sferza il viso come una frusta. Mi torna in mente Grande Inverno, Arya che mi tirava palle di neve addosso ed io che la rincorrevo per rimproverarla, il calore della coperta di lana con cui la lady mia madre ci copriva quando ritornavamo alla fortezza tutte fradice e coi capelli pieni di fiocchi di neve, Lady – la mia dolce, cara Lady – che dormiva davanti al caminetto ai miei piedi, alzando di tanto in tanto la testa per assicurarsi che stessi bene… Oh, Lady.

Il coniglio è a pochi centimetri da me, non posso mollare proprio adesso! Accelero il passo, gli occhi lucidi a causa dei ricordi e del vento, quando tutto ad un tratto si ferma. Non mi lascio sfuggire l’occasione e subito mi fiondo su di lui, riuscendo finalmente ad acciuffarlo; lui si dimena come impazzito ma la mia presa non cede. Un sorriso mi incurva le labbra. Ce l’ho fatta!

Distesa sull’erba, il viso sporco di fuliggine e terra e le mani piene di graffi, penso al Mastino.

Quando lo vedrà, sarà così sorpreso! Non vedo l’ora di vedere la sua faccia! Sarà davvero—

Un ringhio. Un ringhio forte, terrificante, mi soffia sul collo. La mia mente torna ad un vecchio ricordo d’infanzia, quando mi ero persa dentro La Foresta del Lupo e mio padre e Jory Cassel erano venuti a salvarmi. Un brivido mi sale lungo la schiena, il mio intero corpo si immobilizza. Anche quella volta il gelo si era impadronito di me, bloccando ogni mio movimento e tutto era diventato improvvisamente ovattato e lontano. Lascio andare il coniglio, alzo lo sguardo: i suoi occhi sono dorati come l’oro dei Lannister, il suo muso è ricoperto di sangue, i canini sono aguzzi come rasoi. Il respiro mi si spezza in gola.

«Un lup—».

Non faccio in tempo ad urlare che mi è addosso: i suoi occhi feroci sono ad un palmo dal mio volto e le sue zampe mi bloccano sotto il suo peso, graffiandomi con i lunghi artigli, il suo fiato sa di carne rancida e morte. Ringhia rabbioso ed io lotto con tutte le mie forze per spingere il suo muso lontano dal mio viso, urlando fino allo sfinimento. Tasto il terreno con furia, alla ricerca di qualsiasi cosa che possa essermi utile per allontanarlo e qualcosa di duro preme sotto le mie dita: un sasso. Lo afferro con dita tremanti e colpisco la bestia un attimo prima che possa azzannarmi al collo. L’animale guaisce di dolore e si allontana da me il tempo necessario per permettermi di rimettermi in piedi e fuggire. Corro, le lacrime lasciano un residuo appiccicaticcio sulle mie guance ed il cuore batte forsennato contro il petto, mentre un altro ululato si aggiunge a quello del primo lupo. Un singhiozzo mi si spezza in gola.

Ce ne sono degli altri.

Scavalco un tronco che mi blocca il passaggio ma un lembo del vestito resta impigliato ad un rampicante, facendomi cadere a terra con un tonfo sordo. Stordita per il colpo incassato cerco di alzarmi, ma la mia gonna è troppo lunga ed i lacci della vestaglia troppo stretti per permettermi di agire in fretta. Tutto gira, la mia testa è una caleidoscopio di suoni ovattati, ronzii e ululati, e la paura di morire prende il sopravvento. Soffoco un urlo, troppo spaventata persino per respirare, e la mia mente corre a quel ricordo lontano in cui mio padre veniva in mio soccorso insieme a Jory Cassel e mi traeva in salvo. Paralizzata dall’idea di cosa mi sta per accadere chiudo gli occhi e sussurro il suo nome, pregando che venga a salvarmi come quando eravamo a Grande Inverno.

Padre, aiutatemi…!

Qualcuno arriva davvero… ma non è mio padre. Lo capisco dalla sua camminata pesante e frenetica, dal ringhio basso che lascia sue le labbra mentre infilza l’ennesimo lupo con colpi decisi e brutali di spada. Mi volto: la sua cicatrice è sporca di sangue, così come la sua armatura e la sua spada, e sul suo volto è dipinta l’espressione d’un cane rabbioso che lotta per difendere un pezzo di carne. Quando anche l’ultimo dei lupi espira, i suoi occhi grigi incrociano i miei.

Il Mastino.

 

 
 
Apro gli occhi. Il primo pensiero che mi attraversa la mente è che sono vivo. Un po’ scombussolato, con la testa ancora intontita e le gambe doloranti per la cavalcata della scorsa notte, ma pur sempre vivo. Il secondo, invece, è che l’uccelletto non è più qui.

«Uccelletto…», scatto in piedi, gli occhi ancora impastati dal sonno ed il cuore in gola. «… dov’è finita la dannata ragazzina? Dov’è andata, per i Sette Inferi?!».

Mi guardo attorno e scorgo delle tracce lasciate sulla terra umida dai suoi stivaletti. Portano al bosco. Merda.

Ma che le è saltato in mente?! Inoltrarsi nei boschi da sola! Persino un ritardato saprebbe che è pericoloso. Mi avvio alla sua ricerca facendomi strada a colpi di spada fra le fronde della foresta. La testa mi vortica ferocemente, tutto il mio corpo è percorso da un tremito continuo. E se le fosse accaduto qualcosa? E se fosse caduta in qualche crepaccio e adesso si trovasse agonizzante da qualche parte, il suo bel vestitino tutto sporco di melma e sangue? E se fosse… no. No, non voglio nemmeno pensarci. Mi passo una mano sul viso, il cuore in gola e lo stomaco aggrovigliato. Lo sapevo che avrei dovuto lasciarla lì, ad Approdo del Re. Avrei dovuto fregarmene di lei e dei suoi dannati piagnistei, obbedire a quel moccioso biondo, fottermela come mi era stato ordinato e…

«Aaaah!!».

… Uccelletto!

 Mi faccio largo fra rampicanti, ramoscelli e altre merdate varie il più velocemente possibile, il fiato corto e un groviglio di emozioni incastrate nel petto, finché non la scorgo: i suoi occhioni azzurri sono colmi di terrore, le lacrime le scorrono lente lungo le guance e un gruppo di lupi ringhia contro di lei. Mi avvento su di loro con furia cieca e li passo tutti a fil di spada. Non l’avrete, ringhia una voce dentro di me, simile al latrato di un cane. Lei è mia. Mia!

Non passano che pochi istanti prima che le bestie esalino il loro ultimo guaito. I lupi rimanenti fuggono via ma nella calca uno di loro riesce a mordermi il braccio ed è solo grazie all’armatura pesante che riesco a scrollarmelo di dosso ed ucciderlo. Quando tutto finisce, ciò che rimane è un silenzio opprimente ed il mio respiro affannato.

Mi volto verso Sansa e la trovo stesa a terra, tremante e con il viso sporco di terra e polvere. A vederla così non direi mai che si tratta nientemeno che della figlia di Lord Eddard Stark: il suo abito di seta è stracciato in più punti, i suoi capelli sono in disordine e sulla clavicola e sul polpaccio destro riporta un grosso livido violaceo. Mi avvicino a grandi falcate, la prendo per le spalle e la rimetto in piedi.

«Si può sapere cosa cazzo avevi intenzione di fare?!» La mia voce è più un latrato che un grido. Lei si ritrae spaventata dalla mia presa e si stringe le mani al petto, a disagio.
«Io… io… non volevo fare niente di mal—» Qualcosa scivola giù dalla sua veste: sono bacche. Le raccolgo e le getto via non appena le riconosco.
« Per tutti i sette inferi del cazzo! Queste sono bacche di Belladonna, dannata te! Cosa avevi intenzione di fare, avvelenarti? E quei lupi…», la voce mi si spezza in gola. Sospiro. È viva, dannazione. Sporca, terrorizzata e tremante come una foglia ma viva. «… fottuti dèi! Chiudo gli occhi un attimo e tu ne approfitti per farti sbranare o avvelenarti?! Ma cos’hai nel cervello?!».
 
Lei schiude le labbra per rispondere ma riesce solo a balbettare parole senza senso. «M-Mi dispiace… io… io volevo solo—».
 
La mia presa sul suo braccio si fa più prepotente. Poteva morire. Poteva morire, dannazione! E se io non fossi stato lì? Se non l’avessi sentita? Il solo pensiero di ciò che sarebbe potuto accaderle mi avvelena il sangue. Lei geme di dolore ed io mollo il suo braccio, spingendola lontano.

«Cosa? Suicidarti, forse? È questo che volevi?!».
«Io volevo solo ringraziarvi!».

Scende il silenzio. Voleva ringraziarmi? E per cosa? Per aver condannato entrambi ad una fuga in mezzo al nulla? Per averla portata in un bosco infestato da fottuti lupi e pieno di cibi velenosi ad ogni angolo, forse? Che cazzo significa che voleva ringraziarmi? Mi prende in giro?!

Lei si tortura le dita e si morde le labbra per impedirsi di piangere, proprio come faceva quando era alla Fortezza Rossa. Probabilmente in un’altra situazione sarei stato io stesso ad asciugarle le lacrime ma adesso sono troppo infuriato per farlo.

«Per avermi fatta evadere dalla Fortezza Rossa, aver ucciso Joffrey e avermi difesa per tutto questo tempo, anche prima della fuga. Io… io volevo prendere qualcosa da mangiare e rendermi utile… non sapevo che quei lupi--» Le lacrime scorrono giù dal suo viso, impedendole di continuare. All’improvviso mi rendo conto di quanto questa situazione debba essere stressante per lei, abituata a lussi e bagni profumati com’è sempre stata, e che non riesce a capire cosa sta succedendo. ‘Fanculo! Che pianga pure! La prossima volta imparerà a non farmi spaventare in quel modo!

«Smettila di piangere come una mocciosa. Se non ti fossi allontanata tutto questo non sarebbe accaduto! Questa volta c’ero io a salvarti il culo, ma la prossima? Cosa farai la prossima volta, quando io non ci sarò? Canterai una bella canzoncina a chi ti punterà una daga alla gola?».
«Siete crudele!», singhiozza lei. «Come potete dirmi certe cose? Sir Loras non mi avrebbe mai trattata così! Lui… lui mi avrebbe—».

Una risata crudele lascia le mie labbra. «Lui ti avrebbe fatto un bell’inchino e magari ti avrebbe pure preparato una torta per consolarti, vero? E poi, chi lo sa? Si sarebbe persino scusato per non essere stato più attento a una cosina graziosa come te. Bene, lascia che sia lui a correre in tuo aiuto quando una mandria di fottuti lupi vuole averti per colazione, allora. Vai da lui! Vattene! A me non fotte più un cazzo!».

Mi allontano a passo veloce e torno indietro per prendere Straniero e lasciare questo posto. Sono stufo della ragazzina Stark. Non sono la sua fottuta balia. Ha deciso di farsi ammazzare? Bene, che lo faccia! Vuole il merdoso Cavaliere di Fiori? E che se lo prenda! Che corra da lui, che si faccia pure fottere da lui, per quanto me ne importa! Magari se sarà fortunata riceverà persino un bacio d’addio prima che le venga tagliata la testa!

«Mi lascerete qui, dunque?», la sua voce mi raggiunge un attimo dopo essere salito in groppa al cavallo. Le briglie di Straniero sono strette tra mie mani e, con sorpresa, mi accorgo di star ancora tremando. «Se volevate farmi morire tanto valeva lasciarmi in balia dei lupi!».

«Forse avrei dovuto farlo, uccelletto. Perlomeno adesso non starei più sentendo i tuoi stupidi cinguettii!» Ribatto, la voce tagliente come lo stridio del ferro. Lei stringe i pugni lungo i fianchi, il vestito rosato è pieno di chiazze scure e di strappi ed i suoi occhi sono rossi di pianto.

«Voi… voi non potete farlo!» Grida in preda al panico. Le rido in faccia.

 «E perché no, ragazzina? Dammi un solo motivo per cui non dovrei lasciarti qui e fottermene dei tuoi piagnistei!».

«Perché avete fatto una promessa».

Rimango in silenzio, la mascella serrata in una smorfia grave e austera. Il ricordo della scorsa notte mi torna alla mente e lo stomaco mi si chiude in una morsa.

Mi riporterete davvero a casa? Lo promettete?”, “Aye. Ti riporterò a casa, uccelletto”.

‘Fanculo, non me ne frega nulla! Io non sono uno dei suoi dannati sir e ci piscio sopra alle fottute promesse! Non le devo niente, faccio quello che mi pare. Non ho mai mantenuto una promessa in vita mia, quindi perché dovrei farlo adesso? Che si fotta la mocciosa Stark e le sue dannate promesse. Io sono un cane. Un cane sciolto, adesso. E faccio quello che voglio.

… e allora perché il pensiero di saperlo morta mi fa stare tanto male?

Forse sto perdendo il senno. Forse questa dannata ragazzina è una strega e mi ha lanciato qualche maledizione o che cazzo ne so io. Forse dovrei davvero fottermene e lasciarmela alle spalle, almeno la smetterei di rovinarmi l’esistenza. Forse dovrei farlo. Forse lo farò davvero. 

«Ci sputo sopra alle tue promesse, uccelletto», rispondo, sputando a terra. ‘Fanculo a lei e ‘fanculo la promessa; ne ho infrante tante nella mia vita, una in più non farà la differenza. Non lascerò che una dannata mocciosa mi faccia diventare un rammollito. «E ora levati di mezzo, se non vuoi che ti passi sopra».

Lei mi guarda in tralice, le labbra rosee – quelle dannatissime labbra – serrate e tremolanti. È quasi doloroso capire quello che urlano i suoi occhi: ti odio. Non me la sento di darle torto, dopotutto mi odio anch’io. Sprono il cavallo: la rabbia è andata via, assorbita dal male devastante che mi stringe il petto. È come se qualcuno mi stesse schiacciando il cuore… è insopportabile! Non mi sono mai sentito così e la cosa mi fa sentire debole. Straniero ha compiuto solo pochi metri quando la voce dell’uccellino riecheggia nella foresta.

«Vi pagherò!», grida, e d’istinto tiro le redini. Lei ne approfitta per corrermi dietro; quando arriva, il suo viso è paonazzo ed i suoi occhi lucidi. Vengo sopraffatto dall’istinto animalesco di appropriarmi delle sue labbra, di morderle fino a consumarle e affondare le dita fra i suoi capelli ramati ma, come sempre, riesco a mantenere il controllo. Non le farò del male, ripeto a me stesso, Non a lei. «Vi darò qualsiasi cosa. Terre, castelli, cavalli, soldi… tutto ciò che desiderate, purché mi riportiate a casa. Vi prego, non lasciatemi qui. La notte è buia e… e i Lannister sono alla mia ricerca ed io non riuscirei mai a sopravvivere da sola! Vi darò tutto quello che volete, se mi porterete sana e salva a casa. È una promessa!».

Vorrei urlarle che non basterebbero mille sacchi d’oro per compensare un solo bacio sulle sue labbra, o mille terreni per sapere che sapore ha la sua pelle, se i suoi seni sono morbidi come sembrano e se il suo profumo sa di fiori e spezie come si addice ad unavera lady come lei. All’inferno l’oro e tutto il resto: mi basterebbe possederla per una sola notte e potrei considerarmi felice per tutta la vita. Perché sempre fredde sono le mani dell’oro ma sempre calde sono quelle di una donna*.

E le sue sembrano così calde…

«Voglio dieci sacchi d’oro», sussurro fra i denti. Il suo viso si illumina di speranza.
«Oh, sì! Sì, sì, vi darò tutto l’oro che vorrete, lo prometto. Non ve ne pentirete. Giuro che sarò buona, che non mi allontanerò mai più da voi, lo giuro sugli Dèi Vecchi e Nuovi, io—».
«E…», il suo sproloquio si placa ed i suoi occhi si velano di confusione. Mi avvicino al suo viso, le sfioro i capelli con le dita e alzo il suo mento per guardarla dritta negli occhi. Mi basterebbe sporgermi un po’ di più e potrei baciarla, e solo gli dèi sanno quanto vorrei farlo. «Una canzone».
«Una canzone?».
«Una canzone, uccellino. Una su quei bei cavalieri che ti piacciono tanto. Puoi farlo? La tua septa non ti ha insegnato a cantare?».

Lei sembra incerta. Un ghigno mi incurva le labbra: l’uccellino è titubante. Forse l’idea di cinguettare una canzoncina ad un mastino brutto come me non le piace? Ma io la voglio, quella canzone. E me la prenderò che lei lo voglia o no.

«Canterò per voi volentieri!», esclama infine, ma posso fiutare la bugia fin da qui. L’uccelletto cinguetta sempre parole dolci e gentili ma non riesce proprio a mentire. Magari è proprio questo che la rende così perfetta ai miei occhi, così delicata. Sbuffo forte la mia disapprovazione e scendo per farla salire in groppa a Straniero. Quando le cingo i fianchi per issarla su, ho quasi la sensazione di alzare una piuma, tanto è leggera. Mi siedo dietro di lei, la sua schiena preme contro il mio torace ed il profumo dei suoi capelli mi inebria la mente. Non profuma di fiori come avevo immaginato, ma di donna e di dolcezza. Un odore così meravigliosi, così assuefante da non poterne più fare a meno.

 Tallono Straniero sui fianchi per farlo muovere. Se tutto va per il verso giusto arriveremo alla Terra dei Fiumi entro due giorni: lì ci saranno quegli idioti dei Tully e di certo non rifiuteranno di ospitare la figlia di lady Catelyn e offrire vitto e alloggio al suo accompagnatore. Poi, se la sua dannata zia non ha intenzione di pagare per lei, allora andremo al Nord. Per il momento, andremo dove è più vicino.

«Mi dispiace per ciò che ho detto prima. Non volevo offendervi: vi sono grata per ciò che state facendo. Non avete nulla da invidiare a sir Loras», la voce di Sansa è minuta come il pigolio d’un passerotto. I suoi occhi si posano sui miei ed io sento lo stomaco stringersi in una morsa di ferro. Distolgo lo sguardo e serro le labbra, bofonchiando a bassa voce parole strascicate.

Fottuti dèi, volete proprio farmi perdere il controllo?

«A proposito, grazie… per avermi salvato la vita».
«Dovere» Grugnisco io, e lei mi rivolge un sorriso sincero, quasi timido. Mentre il sole inizia a farsi più alto e l’aria meno fredda, realizzo che quello è stato il primo sorriso sincero che mi abbia mai rivolto.
 
 
 
 
 - Note dell’Autrice.

1) La canzone è Your guardian angel, dei The Red Jumpsuit Apparatus.
2) Citazione di Tyrion. L’amavo troppo per non inserirla da qualche parte, scusatemela.

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Ed eccomi di nuovo qui! :) (stavolta fortunatamente in orario! :P)

Allora questo è, come avrete notato, un capitolo di “passaggio”. Questo genere di capitoli saranno frequenti quanto essenziali per delineare al meglio il rapporto tra Sansa e Sandor durante tutta la ff… e poi io adoro scriverli! Godetevi il fluff finché dura, perché presto arriverà l’angst a go-go (ed io  a m o  l’angst) e finiranno tutte queste cose fluffose.

Per questo capitolo ho preso spunto da una scena del film della Bella&laBestia, della Disney. Non per niente l’ultimo scambio di dialoghi («A proposito, grazie… per avermi salvato la vita». «Dovere») è una citazione presa direttamente dal cartone. Piccola curiosità: proprio a causa di questi paralleli fra Belle\Sansa e LaBestia\Sandor, che si susseguiranno per quasi tutta la ff, la storia all’inizio doveva chiamarsi “TheBeauty&TheBeast”. Poi una mia amica mi ha fatto ascoltare Safe&Sound della Swift, e tutto è cambiato. XD

Come al solito, spero che il capitolo vi sia piaciuto. Mi piace scrivere di due personaggi così differenti e mi piace da morire anche farli maturare capitolo dopo capitolo. Questa esperienza, ad esempio, è nuovissima per Sansa che da sempre è abituata a lussi e vezzi vari, mentre adesso si ritrova in mezzo alla polvere e con l’acqua alla gola. Naturalmente non avrà un cambiamento caratteriale radicale – e dark o_o – come per Arya, ma è ovvio che non rimarrà frignona e viziata a lungo se vuole sopravvivere insieme al Mastino che, dal canto suo, è sempre uno scorbutico tsunderissimo (per chi non sa cosa significa tsundere: http://it.wikipedia.org/wiki/Tsundere ) ed io adoro il suo conflitto interiore. Scrivere di lui è sempre una sfida contro me stessa perché se da un lato vorrei far emergere quel suo lato (che tutti sappiamo ha ) apprensivo e gentile, dall’altro so per certo che piuttosto che mostrarsi tenero con qualcuno – soprattutto se quel qualcuno è Sansa – si sparerebbe dritto in un piede. Che frustrazione!

Spero di essere rimasta IC, comunque. Tengo molto alla caratterizzazione dei pg! Fatemi sapere che ne pensate, le recensioni ed i pareri sono sempre apprezzati!
Grazie di cuore a tutti coloro che hanno messo la ff nelle preferite\seguite\ricordate, e grazie mille ancora di più a chi ha lasciato un parere. Siete preziosi, davvero. Grazie, grazie e grazie.

Un ringraziamento speciale va a
TsunadeShirahime per il betaggio. Grazie, Ali. <3 <3 (a proposito: fate un salto nel suo profilo: scrive storie bellissime!)
Alla settimana prossima. Bacioni!

P.S: ecco qui il mio profilo Facebook, semmai qualcuno avesse voglia di contattarmi.
Link: https://www.facebook.com/harmony.efp.9?fref=ts

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Capitolo 5
*** You won't hurt me ***


You won’t hurt me
 
Talk to me softly
There's something in your eyes
Don't hang your head in sorrow
And please don't cry
I know how you feel inside I've
I've been there before
Somethin's changin' inside you
And don't you know
 
 
Non ho la più pallida idea di dove cazzo mi trovo.

Sono ore che cavalco verso Nord: ho superato foreste, crepacci e fiumi torbidi, ma ancora non ho visto neanche un dannato villaggio. Ero certo che tagliando per la foresta sarei giunto alla Terra dei Fiumi molto prima, ma non avevo tenuto conto del fatto che metà della strada sia franata ed è impossibile accedervi. Digrigno i denti per la rabbia. ‘Fanculo. ‘Fanculo alla strada e a questa situazione di merda. 

L’uccellino non ha più detto una sola parola da quando è salita in groppa a Straniero. Non che io ami molto parlare, però mi dà comunque fastidio. Alla Fortezza Rossa cinguettava in continuazione quelle belle paroline che le aveva insegnato la septa, mentre adesso non schiude le labbra nemmeno per umettarsi la bocca.

«Ho fame», grugnisco ad un tratto. Lei alza lo sguardo sul mio viso e poi torna ad abbassarlo senza proferire parola. «Dobbiamo trovare una locanda».
«E se dovessero esserci uomini dei Lannister?» La sua voce è appena un sussurro, ma i suoi occhi sono colmi d’ansia. Finalmente realizzo il perché di tutto questo silenzio: ha paura. Più ci avviciniamo ai villaggi e più ha paura che qualcuno possa trovarla. Non ha tutti i torti: semmai i Lannister dovessero davvero scovarla, la scuoierebbero viva.
«Non devi avere paura, uccelletto», un sorriso beffardo mi incurva le labbra. «Ti sei dimenticata quello che ti ho detto alla Fortezza Rossa?».

 I suoi gemiti di dolore mentre il Re Bambino la picchiava sono ancora vividi nella mia mente, taglienti come rasoi. Dopo la cerimonia, tutti i servi erano andati via per lasciare intimità al Re e alla Regina e gli unici ad essere rimasti eravamo io e quel coglione di Meryn. Da dietro la porta udivo le suppliche incessanti di Sansa, il rumore sordo degli schiaffi che Joffrey le dava e la furia mi montava nel petto ad ogni schiaffo di più, ad ogni insulto di troppo. Basta, ripetevo nella mia mente, Basta così. Smettila, dannato ragazzino. Prendila e falla finita, risparmiale altro dolore, ma il bamboccio aveva sempre provato un piacere perverso nel torturare gli altri, e sapevo bene che quella storia non sarebbe finita tanto presto.

Dopo un po’,  Meryn era dovuto andare a pisciare ed io ero rimasto da solo. In quel momento Joffrey mi chiamò. Entrai e ciò che mi si prospettò di fronte mi fece schizzare il sangue al cervello: lui era rosso di rabbia, indossava solo delle brache di tessuto pregiato e i suoi occhi brillavano d’una luce sadica e folle; l’uccelletto invece era accovacciata nel letto, il volto pieno di lividi e lacrime, nuda e con solo un lenzuolo a coprire le sue grazie. Tutto il suo corpo era scosso da brividi e singhiozzi, non l’avevo mai vista in quello stato.

Quando il Re mi ordinò di fotterla pensai per un breve, pericolosissimo istante di ubbidirgli. Da quanto tempo desideravo farlo, dopotutto? Da quanto agognavo baciare quelle labbra, assaggiarne il sapore? Troppo. E quella era la mia occasione: l’avrei presa una volta per tutte, con o senza il suo consenso. In fondo era il Re ad ordinarlo ed io dovevo ubbidire, non poteva odiarmi per questo. Non è colpa mia, continuavo a ripetermi mentre mi avvicinavo al suo letto, È il Re ad ordinarlo, io non c’entro nulla.

Ma quando incontrai il suo sguardo, così spaventato e pieno di delusione, qualcosa dentro di me andò in frantumi e con orrore mi resi conto di essere diventato il mostro che avevo sempre temuto di essere. Persino adesso che ho ucciso quello stronzo di Joffrey e mi sono liberato delle catene dorate dei Lannister la bile mi brucia la gola quando ripenso a quello che stavo per farle. Io non sono Gregor, cazzo. Non lo sono! Eppure Sansa era lì, nuda, bellissima e in mia totale balia, e se non mi avesse fermato, se non avesse detto quelle parole, io… io lo avrei fatto. L’avrei presa. L’avrei davvero presa.

Che razza di cane da guardia sono, se l’unico da cui dovrei proteggerla sono proprio io?

«No», risponde lei, ed io rinsavisco dai miei pensieri. «Non ho dimenticato. Mi ricordo. Però—».
«Però nulla, uccelletto. Ti ho detto che non hai nulla da temere e questo è quanto. Adesso fa silenzio, siamo vicini a un villaggio, posso sentire delle voci».

Lei non fiata, ma sulle sue labbra rosee danzano una decina di proteste. Sogghigno: può sbattere le aluccie quanto le pare, non riuscirà comunque a dissuadermi. Sono due giorni che vado in giro senza una meta, senza bere né mangiare nulla, e per quanto mi riguarda la scuoierei viva pur di avere una bottiglia di vino caldo e speziato.
Sprono Straniero e quelle stesse voci di prima accrescono di tono. Scosto il cespuglio d’un albero e scorgo quello che ha tutta l’aria di essere un villaggio di contadini. Non dovrebbero esserci pericoli, è completamente anonimo, tuttavia rischiare sarebbe pericoloso e non mi va di rimetterci la testa dopo tutto quello che ho fatto.

«Alza quel cappuccio, ragazzina, e tieni china la testa. Se qualcuno ti rivolge la parola tu non rispondere neanche morta, è chiaro?» Bercio, scendendo da cavallo. Straniero è troppo irruento quando è in mezzo alla folla, e l’ultima cosa che voglio è attirare l’attenzione.
«Ma—».
«Vuoi davvero che ti tagli la lingua?Sta zitta.» Gli occhi mi si assottigliano in due fessure iraconde e la mascella si contrae duramente. La ragazzina tace di colpo, evidentemente terrorizzata all’idea di perdere la lingua, ma lo sguardo che mi rivolge è di puro astio. Chissà come reagirebbe se le portassi via quel broncio a suon di baci.

Lei si allontana un po’ ed io lego bene Straniero ad un albero vicino al fiume in modo tale che possa abbeverarsi in caso abbia sete, poi tiro su il cappuccio del mantello. Nessuno deve sapere che sono qui. «Forza, muoviamoci. C’è una locanda laggiù».

Ci inviamo a passo spedito verso la locanda in questione, ben attenti a tenere il cappuccio sopra la testa e non dare nell’occhio. Entriamo in quella che ha tutta l’aria di essere una baracca polverosa e che puzza di vino e di aglio. Mi volto verso l’uccellino: tiene il capo chino e nasconde i capelli rossi dentro il cappuccio, proprio come le avevo detto.

Tsk. Almeno mi ascolta, qualche volta.

Ci sediamo su delle sedie accanto al bancone e l’oste si avvicina, la sua pancia protuberante che sobbalza ad ogni suo respiro. «Posso aiutarvi?», domanda. La sua voce mi ricorda tanto lo squittire di un topo. Non mi azzardo ad alzare lo sguardo, tuttavia con la coda dell’occhio scorgo il pizzetto ridicolo che ha sul mento.
«Dammi una bottiglia di vino», i miei occhi si posano sulla figura silenziosa di Sansa Stark, che continua a tenere il profilo basso e se ne resta silenziosa come una tomba. Decido che anche lei ha sete. «Una anche per lei».

Lui ubbidisce, porta le bottiglie e quando il vino scorre giù per la mia gola mi sento come rinascere. Il liquido è tiepido ma arde come il fuoco dentro il mio stomaco, il sapore dolciastro mi riempie la bocca e lo finisco in poche sorsate. Lo stesso non può dirsi della ragazzina che sta ancora sorseggiando il contenuto del suo calice con lentezza disarmante, ‘manco fosse veleno. Il mio sguardo si sofferma sulle sue labbra appena appoggiate al metallo del calice, rosse e piene come ciliegie, ed una parte di me freme alla sola idea di potersene appropriare. Che gli dèi siano dannati: come fa ad essere così bella anche in un momento simile?
«Intendete rimanere qui per la notte, signori?».

«No. Stiamo per—» Non finisco la frase. La porta dell’osteria si apre di colpo e un gruppo di uomini entrano sbattendo la porta. L’uccellino sussulta spaventata ed io porto le dita all’elsa della spada d’istinto: sono tutti ubriachi, realizzo, e sono armati. E questo non è un bene, soprattutto perché io quegli uomini li conosco: sono soldati di Ashemark, della Casata Marbrand, alleati fedeli dei Lannister, e se c’è qualcuno da cui bisogna stare lontano loro sono fra i primi della lista. Che cazzo ci fanno qui? «Intendo dire sì. Sì, ci serve una stanza e ci serve adesso», l’oste mi guarda diffidente ma non replica nulla. Nella foga, commetto l’errore di lasciargli intravedere il mio volto e, da come mi guarda, capisco subito che ha capito chi sono. Digrigno i denti e stringo forte il legno del tavolo, il sangue che mi sobbolle nelle vene come impazzito. «Muo-vi-ti».

Con reticenza, l’uomo mi porge una chiave in ottone e mi indica la terza stanza sulla destra qualche metro più in là, lungo il corridoio. Quando sto per prenderla, però, la lascia cadere a terra e quella rotola giù accanto al tavolo dove stanno i soldati dei Marbrand.

«Oh, sono mortificato…», sussurra, incurvando le labbra. «Mi è scivolata, sir».

 Figlio di puttana. Faccio per alzarmi, ma l’uccellino mi precede e si dirige svelta verso il tavolo. Non faccio in tempo a fermarla che le sue dita sono già strette attorno alla chiave. Il mondo intero sembra fermarsi e per un attimo dimentico persino come si fa a respirare. Sansa si alza, ignara di tutto e con un sorriso compiaciuto dipinto sul viso, e sta per andarsene finché succede proprio quello che non doveva succedere: uno di quegl’uomini, evidentemente ubriaco più degli altri, l’afferra per un polso e la tira verso di sé con uno strattone. Le abbassa il cappuccio col chiaro intento di baciarla e grida: «Che dite, ragazzi? Forse potrei portare qualche bella puttana alle Torri Gemelle, magari oltre al vecchio pesce Tully anch’io a prenderò moglie! E tu che ne dici, dolcezza?», incrocia il suo sguardo… e impallidisce come un lenzuolo. Nella stanza scende un silenzio di tomba.

«Perdonatemi, mio signore…», sussurra Sansa, cercando di coprirsi il volto in tutti i modi. La sua voce trema: ha capito ciò che sta per accadere. «Perdonatemi, ma io devo—».
«Fottuti dèi, è la ragazzina Stark!», urla uno di loro saltando in piedi. Sguaino la spada e tutti si girano verso di me. «… E quello è il Mastino!», gli fa il verso un altro. Succede tutto in pochi secondi. Un grido terrorizzato riecheggia nell’aria: evidentemente, il fatto che io abbia appena mozzato di netto la mano dell’uomo che la stava tenendo ferma, deve aver spaventato l’uccellino più del dovuto.

«FUORI DAI PIEDI!» La mia spada affonda nel petto di una delle guardie, il sangue schizza ovunque e macchia le pareti. La taverna è in fermento, ovunque riecheggiano grida di donne e bestemmie di soldati. Assesto un colpo alla testa di quello a cui ho appena mozzato la mano, che ricade a terra con un tonfo, e do’ un pugno ad un’altra guardia. Prima che l’uccellino abbia il tempo di fare qualcosa, la prendo di peso e me la carico sulle spalle per poi spalancare la porta e correre fuori. Spavento i cavalli degli uomini dei Marbrand sventolando sotto il loro muso la mia spada ancora pregna dell’odore del sangue, e subito loro si imbizzarriscono dandomi il tempo necessario per correre da Straniero e cavalcare lontano. Ma i soldati non mollano: le loro urla mi inseguono, i loro cavalli mi stanno alle calcagna per ore. Due frecce mi colpiscono la spalla e un braccio; io digrigno forte i denti per non perdere la presa sulle briglie e do di speroni. Sansa è stretta contro il mio petto, gli occhi sgranati e le dita tremanti.

Non l’avranno. Non l’avranno!

È solo dopo diverse ore che riesco a seminarli. Straniero è esausto, l’odore fetido del mio e del suo sudore mi invade le narici, l’interno coscia mi brucia a causa delle piaghe createsi per aver cavalcato troppo e troppo in fretta e l’unica cosa che desidero è sdraiarmi, chiudere gli occhi e risvegliarmi il secolo prossimo. Arriviamo nei meandri di una radura e, seppur a fatica, riusciamo a trascinarci dentro una sottospecie di grotta. Tiro un sospiro di sollievo e provo a rimettermi in piedi, ma la testa mi gira troppo forte e le ginocchia non reggono il mio peso. Mi lascio cadere ai piedi d’una roccia, stremato. «Vino», sussurro. «Ho bisogno di vino». Solo quando sento le sue dita sottili e gentili armeggiare con le cinture della mia armatura, sfiorandomi il collo ed il viso, apro gli occhi e incrocio lo sguardo ceruleo di Sansa Stark.

 Il mio stomaco si stringe in una morsa di ferro e qualcosa dentro di me sussulta quando mi accorgo che i suoi occhi sono lucidi di lacrime. Lei mi accarezza il viso con il dorso della mano ed una vampata di calore mi avvolge dalla testa ai piedi. Un istinto innaturale, dettato probabilmente dal dolore, mi spinge a prendere le sue dita fra le mie. Un singhiozzo spezza il silenzio. La guardo. Piange. Sansa Stark sta piangendo… per me?

«Uccelletto…?».
 

 
 
La voce del Mastino è un rantolo fiacco che si perde nel silenzio innaturale della grotta. Lo zittisco subito: non voglio faccia troppi sforzi, è ancora debole. Il senso di colpa mi stringe lo stomaco ed inumidisce i miei occhi, non permettendomi di sostenere il suo sguardo. Mi ha salvata di nuovo. Sandor Clegane ha ucciso quelle guardie che mi avevano attaccata, mi ha portata in un posto sicuro e adesso è ferito a causa mia. Mi ha salvata di nuovo, ma io non so come salvare lui.

«Oh, è tutta colpa mia…», non riesco a trattenere le lacrime. Oh, Madre, ti prego non lasciare che muoia, le mie dita non smettono di tremare. Il pensiero di tornare ad Approdo del Re mi terrorizza, ma ancora di più quello di restare sola. «Se… se solo io—».

«Se solo tu prendessi il dannato vino e mi aiutassi a disinfettare le ferite forse potrei campare ancora per qualche ora…» Mi zittisce lui, la voce strascicata e rantolosa.

Faccio come dice e cerco a tentoni la fiasca di vino stretta nella sua cintola. Impiego un po’ di tempo prima di aprirla perché le dita continuano a tremarmi.

«Perdonatemi…», mormoro, mentre con imbarazzo lo aiuto a togliersi la casacca per potergli medicare meglio le ferite. Il torso del Mastino è diverso da quello glabro e asciutto di Joffrey: il suo è molto più ampio, più muscoloso, con più peluria sul petto e con più cicatrici; le sue spalle sono larghe e le sue braccia possenti.

Lo vedo incurvare le labbra in una smorfia derisoria e all'improvviso mi rendo conto di essere arrossita. Distolgo in fretta lo sguardo e vado alle sue spalle per disinfettare le ferite sulla schiena. Tiro un sospiro di sollievo: non sembrano gravi, la maglia di ferro ha attutito il colpo e la freccia non è entrata in profondità. Deglutisco a vuoto nell’osservare quanto grande e piena di cicatrici sia la sua schiena e per un momento vengo sopraffatta dall’istinto di toccarle. Solo quando lo sento inarcarsi sotto il mio tocco come scottato, capisco di averlo fatto davvero.

«Mi dispiace», sussurro. Tutte quelle cicatrici… tre delle quali sono a causa mia. Mi sento così in colpa. «State fermo, farà un po’ male», lui annuisce, ma quando verso il vino sulle sue ferite digrigna forte i denti ed emette versi simili a quelli di un cane ferito. Tentando di ignorare le bestemmie e le imprecazioni che grida, faccio lo stesso con le ferite che ha sulle spalle e sulle braccia.

«Porca puttana!», impreca il Mastino, passandosi con rabbia una mano sulla ferita. Prima che possa dirgli di stare fermo e che toccarsi peggiorerebbe solo la situazione, lui mi precede. «Tutto questo solo perché tu non hai voluto aprire le gambe a quel moccioso del cazzo!».

Sento le lacrime pizzicarmi gli occhi e il cuore salirmi in gola. Il mio labbro inferiore trema: perché deve sempre essere così crudele? Non l’ho fatto apposta, lo sa bene, volevo solo rendermi utile. Perché deve sempre comportarsi così?

«M-Mi dispiace», la mia voce è rotta. «Io… io volevo solo…», qualcosa mi bagna le guance, il panico si impossessa di me quando mi rendo conto di star piangendo. No, no, no non devo piangere. Mi prenderà in giro se mi  vedrà piangere. Non posso piangere… non devo piangere! Tento di asciugarmi il viso prima che mi veda, ma all’improvviso lui si volta, mi guarda ed i suoi occhi si velano di panico. 
«Ah… cazzo, no. Non piangere. Non— oh, e smettila! Non ti sopporto quando piangi!».
«S-Scusatemi…», mormoro, piena di imbarazzo. « -È tutta colpa mia…».
«Credi che si sistemerà qualcosa piangendo?», bercia lui. No, non si sistemerà nulla, vorrei rispondergli, ma le parole sono come bloccate nella mia gola. Lo vedo passarsi una mano callosa sul volto con così tanta pesantezza che per un momento temo che si porterà via un pezzo di naso. «Senti, uccelletto: non mi piacciono le ragazzine che frignano. Specialmente quelle che lo fanno senza un motivo! Ora o la smetti subito o io—».
«N-Non volevo che vi f-faceste del male per colpa mia, lo giuro. Vi prego… vi prego non morite, senza di voi io—» Le parole mi si spezzano in gola, gli occhi si gonfiano di lacrime. Non so nemmeno io perché sto piangendo. Forse per tutto o forse per niente, fatto sta che non riesco proprio a trattenermi e gli occhi iniziano a bruciare così tanto da costringermi a chiuderli. Sento il Mastino borbottare irritato qualche oscenità e poi qualcosa sulle guance. Ci metto qualche secondo a capire che si tratta delle sue dita.

«Ci vuole ben altro che quattro stuzzicadenti per togliermi di mezzo, lo sai? E comunque, sei una pessima curatrice», le sue dita portano via le lacrime con fermezza ma, al tempo stesso, con una gentilezza disarmante. «Chi scoppierebbe a piangere davanti a qualcuno che ha bisogno di medicazioni? Ringrazia che le ferite non siano affatto profonde, uccelletto, o col cazzo che ti avrei riportata a cas—».

Non capisco tanto bene quello che è appena successo. So solo che all’improvviso il mio cuore è sottosopra e le mie braccia sono attorno al collo del Mastino. Il battito del suo cuore preme forte contro il mio petto, lo sento chiaramente, ed il suo collo puzza di vino e di sangue e di uomo. Sussurro che mi dispiace, che non volevo causare problemi a nessuno, ma lui non mi risponde ed io continuo ad ignorare quella vocina nella mia testa che mi dice che tutto questo è sbagliato, che lui è un assassino e che una lady non dovrebbe mai esporsi a tal punto con un uomo. Il Mastino continua a rimanere in silenzio, impietrito come una statua di sale. Poi, ad un tratto, la sua mano si poggia sulla mia schiena, delicata come se temesse di potermi rompere da un momento all’altro, e la sua voce mi sussurra all’orecchio.

«Ascolta, uccelletto: devi calmarti. Io non le sopporto le ragazzine che piangono, va bene? Mi fanno saltare i nervi», la mia presa sulle sue spalle si rafforza. Vorrei solo chiudere gli occhi e tornare indietro nel tempo, a quando la lady mia madre mi spazzolava i capelli ed Arya mi tirava palle di neve addosso insieme a Bran e il piccolo Rickon; a quando Robb mi baciava le guance e mi chiamava “sorellina”, a quando Lady era ancora con me, Jon mi sorrideva gentilmente e mio padre mi regalava delle bambole di pezza e mi prendeva in braccio. «Uccelletto… uccelletto, guardarmi», il Mastino mi prende il viso fra le mani, il suo volto è così vicino al mio che posso sentire il suo respiro sulla pelle. La sua cicatrice mi fa ancora paura, ma è niente in confronto alla paura provata quando quelle guardie stavano per catturarmi. Per la prima volta, noto quanto grigi siano i suoi occhi, quante parole siano nascoste dietro quello sguardo sempre colmo di odio e di rabbia. «Non voglio vederti piangere. Non più».

«Voi non mi farete del male, non è vero? Siete mio amico. Il mio unico amico…» Sussurro piano, la voce rotta dal pianto. Le sue spalle sono grandi e la sua barba mi solletica il viso. Nella mia mente è ancora vivido il ricordo di lui che mi prende per le spalle e mi racconta la storia della sua cicatrice, il momento in cui ha pugnalato Joffrey dritto in mezzo al cuore. È un assassino, un uomo senza onore né gloria e che uccide per divertimento. Non è un cavaliere, eppure mi ha salvato lo stesso ed ha promesso di riportarmi a casa…  e forse è proprio per questo motivo che tremo ancora al pensiero di saperlo morto. Lui è la mia unica speranza di salvezza. Il mio unico amico. Non posso perderlo. Non voglio perderlo.

Le sue dita scorrono lente sulle mie guance, portando via ogni lacrima. L’aria vibra d’un silenzio assordante, carico di parole non dette e sospiri spezzati. Io chiudo gli occhi e mi abbandono al calore delle sue mani. Lo sento sospirare, il suo fiato sa di vino e di sangue e mi fa arricciare il naso.

«No, uccelletto. Non ti farò del male» Risponde. Ed io so che è la verità.
 
 
 

- Note dell’Autrice.
  1. La canzone iniziale è dei Guns N’ Roses, Don’t Cry.
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E con immenso ritardo, eccomi qui!
Purtroppo il computer della mia Beta ha avuto diversi problemi e non è riuscita ad inviarmi il capitolo. Infatti, visto che siamo in argomento, ci terrei a sottolineare che questo capitolo NON è betato e che quindi se trovate errori mi faresti un grande piacere a dirmelo. >_>

Ero molto dubbiosa su questo capitolo. Pensavo di essere andata OOC con Sansa, ma poi mi sono ricordata che è pur sempre di una ragazzina di quindici anni che parliamo, piena di paura e in una situazione a dir poco assurda per un’altolocata come lei, e quindi ho deciso di lasciare le cose così com’erano perché non mi sembrava molto OOC. In fondo, se ci pensiamo, Sansa è di natura molto impulsiva (leggasi: tutte le volte in cui ha fatto qualcosa e poi è finita nei guai) e sentimentale, ed in una situazione come la sua credo che reagirei persino peggio. (Io detesto tutto ciò che ha a che fare con la scomodità, quindi il camminare, correre, dormire fuori, non avere internet eccetera eccetera mi manda ai pazzi. Anzi Sansa è piuttosto calma…).

Sandor è il solito scorbutico tsunderissimo di sempre. XDD Adoro scrivere di lui, c’è poco da fare. Ahaha

Anche se questo capitolo può sembrare di transizione (e per metà lo è) sarà fondamentale per ciò che avverrà in seguito. Lo capirete al prossimo capitolo, don’t worry. Per ora godetevi il fluff! :P
Ringrazio tutte le persone che seguono questa storia e ancor di più le persone che hanno lasciato dei commenti. Non smetterò mai di ringraziarvi. Grazie, grazie, grazie!


Come sempre, vi lascio il mio indirizzo Facebook, caso mai qualcuno volesse mettersi in contatto con me.
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Al prossimo capitolo.
Baci!

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Capitolo 6
*** Sweet dreams ***


Sweet dreams
 
"Now hush love, here's your gown."
"There's the bed, lantern's down."
But I don't want to go to sleep; in all my dreams, I drown.
 
 
 

 
«Ne vuoi?» Le dita del Mastino mi si parano davanti e l’odore dolciastro della mela che mi porge mi fa arricciare il naso. Sarebbe maleducato rifiutare, dunque la prendo e la mordo seppur non abbia tanta fame. Come immaginavo: è troppo dolce. Stringo le labbra in una smorfia. Lui se ne accorge ma non dice nulla.
In questi ultimi due giorni abbiamo parlato pochissimo. Forse è solo la mia immaginazione, tuttavia ho come l’impressione che abbia iniziato a prendere le distanze da me, quasi che quell’abbraccio in cui l’ho stretto giorni fa lo avesse scottato. Mi ritornano in mente le sue mani grandi che si stringono attorno alla mia vita e la sua voce impastata che sussurra al mio orecchio “No, uccelletto. Non ti farò del male”  e senza che possa fare nulla per impedirlo le mie guance si tingono di rosso.

È tutto così assurdo…

«Grande Inverno è ancora lontano?» Domando ad un tratto, spezzando il silenzio. Sono giorni che cavalchiamo, le mie cosce sono ricoperte di piaghe dolorose e l’unica cosa che desidero è fare un bel bagno e cospargermi d’unguento e sali curativi. Nutro ancora la speranza che questo sia tutto un sogno, che quando riaprirò gli occhi sarò di nuovo insieme ai miei fratelli e la mia Lady, ma la testa infilzata su una picca di mio padre è ancora impressa davanti ai miei occhi, così come i segni violacei che la spada di sir Meryn ha lasciato sulla mia schiena e le mie gambe, e so bene che non andranno più via.  

Il Mastino sbuffa forte, come a volermi deridere, e la sua voce raschiante riecheggia nell’aria. «Non stiamo andando a Grande Inverno».
Il mio cuore manca un battito. «Cosa?!», mi volto di scatto verso di lui. «No! No, voi… voi avevate detto…».
«Ho detto che ti avrei portata a casa, ed è quello che sto facendo. Non hai sentito quella guardia? Tuo zio si sta per sposare alle Torri Gemelle, dove stanno quei coglioni dei Frey. Lì ci saranno tua madre e tuo fratello, che mi pagheranno per averti portata da loro. Arriviamo prima ed è persino più sicuro, che pretendi di più?».

Il panico che si era impossessato di me si affievolisce, permettendomi di ragionare con più lucidità. Le Torri Gemelle sono una Casata antica e alleata dei Tully, e se è vero che mia madre e mio fratello sono lì ad aspettarmi di sicuro mi accoglieranno a braccia aperte non appena mi rivedranno. Un’ondata di calore mi investe in pieno e il mio cuore sussulta di gioia. Non riesco a crederci: finalmente… finalmente potrò rivedere Robb e mia madre! Oh, sarà così dolce poterli stringere, baciare loro le guance! Un pensiero improvviso mi sfreccia davanti e la gioia si placa per un momento. Mi volto verso il Mastino, guardandolo con sincera preoccupazione.

«Ma questo significa che al matrimonio parteciperanno lord e lady di tutti i Regni…» Sussurro. Il Mastino aggrotta la fronte confuso.
«Così sembra. Dove sta il problema?».

Roteo gli occhi. Possibile che non capisca? «Non posso andare ad un matrimonio conciata così!» Ribatto, indicando il mio vestito ormai logoro e strappato in più punti. Una lady non dovrebbe mai essere in disordine, soprattutto durante un evento mondano come un matrimonio tra nobili! Oh, cosa direbbe mia madre se mi vedesse in questo stato? E Robb? Sono certa che mi prenderebbe in giro per giorni…

«Sarà già tanto se ci arriverai tutta integra, uccelletto. Al momento la tua testa vale più di mille vestiti d’oro e d’argento».
Sbuffo. «Voi non potete capire…», sospiro affranta. Lui non risponde. Spero solo che lord Frey mi conceda di utilizzare una delle vesti delle sue figlie, mia madre mi diceva sempre che ne ha così tante... «Sono certa che mio fratello sarà lieto di chiedervi di restare al nostro servizio, mio signore. Lui è il Re del Nord, adesso, e sono certa che vi ricompenserà perfino più dei Lannister».

Lo sguardo del Mastino si posa sul mio viso, derisorio e crudele, e una grassa risata che non ha niente di felice lascia le sue labbra. Corruccio la fronte, senza capire il motivo di tanta ilarità. Ho forse detto qualcosa di divertente?

«Ne dubito, uccelletto. I Lannister sono dei gran figli di puttana, è vero, ma cagano oro che è una bellezza ed io non ho alcuna intenzione di tornare ad essere un cane da guardia per qualche altro lord da strapazzo… Non fare quella faccia: sono ancora un mastino, dopotutto, solo senza più catene», tira un lungo sospiro e i suoi occhi si posano sull’orizzonte. «Potrei chiedere un passaggio attraverso il Mare Stretto, combattere come mercenario con i Secondi Figli. Mi pare più adatto a me», dice dopo un po’. Io resto in silenzio, a pensare a che vita triste e pericolosa sarebbe quella passata in completa solitudine, senza alcun amico e con solo obiettivi da eliminare, villaggi da depredare, persone da uccidere e da cui nascondersi, e mi sento triste per lui.

«Sarete solo», la mia non è una domanda. Gli occhi di Sandor Clegane si posano di nuovo sul mio viso: la sua cicatrice è mostruosa come poche cose a questo mondo, ma io non distolgo lo sguardo. Non voglio più farlo. «Dovrà essere terribile».

Lui sbuffa e la sua cicatrice si piega in modo grottesco. Non ho mai capito cosa si celi dietro i suoi occhi grigi: fino ad oggi ero certa che si trattasse di un’enorme, scalpitante rabbia, ma adesso mi accorgo che c’è molto di più: c’è disillusione, amarezza, diffidenza. Sono gli occhi di chi non si aspetta più niente da nessuno, di chi è deluso e arrabbiato col mondo. Sono i miei stessi occhi.

«Di certo sarà molto meglio che perdere la testa per colpa di qualche conflitto fra stupidi lord», grugnisce, la voce dura come metallo. Le sue labbra si stringono fino a diventare una fessura bianca, la mascella si contrae. «E poi non avrei comunque alcun posto dove andare. Mio fratello Gregor ha preso tutti i feudi e le ricchezze della Casata, i miei vecchi sono morti e non c’è una sola persona in tutta Westeros che non vorrebbe vedere la mia testa su una picca. Tu invece hai tua madre, tuo fratello e qualche altro parente ancora in vita che ti aspettano a braccia aperte. Io una vera famiglia non ce l’ho mai avuta, uccelletto, solo nemici. E mi sta bene così».

C’è un insopportabile senso di vuoto nel mio petto. Fa male, mi pizzica la gola e colpisce forte il cuore. Vorrei piangere, ma so bene che lui si infurierebbe e quindi mi mordo forte la lingua per trattenermi. Mi tornano in mente le parole che mi aveva rivolto quella notte di tanti anni fa, quando ero ancora una stupida bambina dell’estate innamorata di un mostro travestito da principe: il suo alito puzzava di vino, le sue dita possenti mi stringevano le spalle, la paura  mi aveva lambito lo stomaco ed i suoi occhi colmi di rabbia mi avevano trapassata da parte a parte. Ricordo di aver pianto, di essere stata certa che mi avrebbe fatto del male, ma poi lui mi aveva raccontato la storia della sua cicatrice e allora avevo compreso che la sua non era una rabbia feroce, ma triste, e la paura in qualche modo era andata via.

All’improvviso mi accorgo che non è solo la tristezza a ghermirmi il cuore, ma anche qualcos’altro. Qualcosa di strano, che mi scombussola lo stomaco e mi spezza il respiro. Lui mi ha salvata tante di quelle volte, mi dico, guardando il suo volto deturpato, Forse potrei fare anch’io qualcosa per lui.

Le parole lasciano le mie labbra prima che possa fermarle.  «Vorrei che restaste con me».


 

 
 
Non ero preparato.

Non ero preparato a quelle parole, ai suoi occhi che mi fissano in cerca di una risposta, al fatto che per la prima volta non so più che cazzo rispondere. Per gli dèi, ma come le salta in testa di dire una cosa del genere proprio a me, che potrei ucciderla con un solo dito da un momento all’altro? Resto in silenzio. Senza parole. Lei continua a guardarmi, finché all’improvviso china il capo ed i suoi occhi si velano d’imbarazzo.

«Mi dispiace», sussurra. Qualcosa nel mio petto si aggroviglia e le mie dita tremano. «Io… io non volevo essere invadente».

Una risata crudele lascia le mie labbra. «Fottiti, uccelletto. Non sono saranno i tuoi cinguetti ad imbarazzarmi» Non dovresti parlarle così, urla una vocina nella mia testa. Ogni volta che lo fai finisce col piangere e tu detesti le persone che piangono, soprattutto se si tratta di lei. Non le do’ ascolto. Mi sento privo difese in questo momento, come se quelle parole avessero smosso qualcosa nel mio stomaco e in tutto il resto del corpo, ed io detesto sentirmi così… così debole. È solo una fottuta ragazzina con ancora la bocca sporca di latte e le tette troppo piccole, ed io sono un assassino, cazzo, non un idiota che si rincoglionisce per due occhioni azzurri.

«E smettila con queste stronzate. Non sei più ad Approdo del Re, puoi anche smetterla di fingere di non disprezzarmi».
«Io non vi disprezzo!», urla lei, gli occhi ridotti a due fessure azzurre. Il suo labbro inferiore trema, le sue dita si stringono a pugno contro la stoffa di quel che rimane del suo vecchio vestito di broccato. Per un momento, giusto un battito del cuore, mi sovvengono le sue parole: perché dovete essere sempre tanto odioso? «Mi avete salvato la vita, come potrei disprezzarvi?».

So che c’è della verità nelle sue parole, ma qualcosa – non so cosa – mi fa comunque fremere di rabbia. Sta mentendo, mi dico, è solo uno dei suoi tanti cinguettii. E se anche dicesse la verità? E se davvero non mi disprezzasse? Cosa farò? Diventerò il suo cagnolino da guardia? Mi ridurrò ad un coglione, mi affezionerò a lei per poi sbranarla quando non riuscirò più a trattenere il cazzo nei pantaloni? 

No, scuoto la testa. Io non sono Gregor. Io non le farei del male. Ho giurato di proteggerla, di riportarla a casa, e così farò. 

Dicevi lo stesso per Alina. Ti ricordi com’è finita, vero?, sussurra di nuovo quella voce, e il ricordo di mia sorella mi colpisce dritto alla bocca dello stomaco, in una morsa che sa di rimpianto e di rabbia. I suoi capelli castani mi ritornano alla mente, i suoi occhi grigi tanto simili ai miei bruciano come vino su ferite ancora aperte, la sua voce minuta mi riecheggia nella testa:  “Andrà tutto bene, Sandor. Non c’è bisogno di dirlo a nostro padre. Andrà bene, vedrai...”.

No. Non andrà tutto bene. 

«Ehi, voi due! » Una voce mi fa sussultare. Afferro d’istinto l’elsa della spada ed alzo lo sguardo: gli occhi scuri di una vecchia dal naso aquilino incontrano i miei, al suo fianco vi è un uomo qualche anno più vecchio, con una barba cespugliosa e piccoli occhi incavati e sospettosi. Lascio andare la presa di scatto e riservo loro un’occhiataccia colma di disprezzo.

«Che vuoi?» Sono già incazzato per conto mio, non ho tempo da perdere con due vecchi idioti. Sotto di me, Sansa mormora qualcosa riguardo al fatto che non bisognerebbe rivolgersi in quel modo a degli estranei. Che si fotta anche lei.

«È sulla nostra terra che camminate, sir».

«Non sono un sir, stupida vecchia. E se ci sto sopra significa che questa è la mia terra».
«Padre!», la voce della ragazzina mi prende alla sprovvista. Mi volto verso di lei, che mi guarda a sua volta con sguardo contrito. Sto quasi per mandarla a farsi fottere –chi è che hai chiamato “padre”? Ho ventisette fottuti anni, non potrei sembrare tuo padre neppure volendolo*. –, ma lei prende di nuovo la parola. «Perdonatelo, mia signora. Purtroppo dopo la morte di mia madre è diventato piuttosto scorbutico. Venne uccisa da dei banditi. Mio padre… lui non era in casa ed io feci appena in tempo a fuggire, ma vi giuro che l’amava molto e che era un guerriero nobile e valoroso: la cicatrice che porta sul volto ne è la prova. Abbevereremo il cavallo e poi ci rimetteremo in marcia, non vi daremo alcun fastidio».

Non faccio in tempo a dire nulla che la vecchiaccia si scioglie in un uggiolio impietosito e guarda Sansa con occhi colmi di tenerezza, neanche fosse un cerbiatto ferito. La furia che prima mi montava nel petto si acquieta di colpo e lascia il posto alla sorpresa: non mi aspettavo che sarebbe stata in grado di architettare una menzogna tanto elaborata in così poco tempo. Forse non è ingenua come pensavo.

«Oh, povera piccola… Aldenn, caro, guarda quant’è deperita!», strilla, rivolgendosi al marito. Gli occhi dell’uomo sono piccoli ed incavati, le sue labbra somigliano a sottili vermi pallidi e le sue dita sono ossute ma possenti. Non ha mosso bocca dall’inizio della discussione e c’è qualcosa, nel suo sguardo torvo, che non mi convince affatto. «Sono certa che abbiamo abbastanza pane per dividerlo con lei e suo padre, non trovi?».

Lui assottiglia punta il suo sguardo dritto sul mio, quasi voglia leggermi in faccia se ciò che dice la ragazzina è vero. Non mi sembra ostile e potrei ucciderlo a mani nude semmai dovesse creare problemi, tuttavia non muovo un passo verso di lui.

Questi due idioti non mi piaccianoE soprattutto non mi piace il vecchio.

«Per quale Casata combattete, sir?» Domanda.
«Tully, di Delta delle Acque. E non sono uno dei tuoi fottuti sir» Ringhio. È già la seconda volta nell’arco di un’ora che vengo chiamato così; al prossimo che lo farà giuro che ficco la mia spada dritta in gola.

Lui non dà segno di irritazione. Rimane in silenzio a studiarmi, e qualcosa mi suggerisce che sa esattamente chi sono, e soprattutto chi è Sansa. Questa volta la voglia di ucciderlo si fa impellente. Devi farlo, urla quella vocina fastidiosa di poco prima, E devi farlo in fretta, prima che qualcuno ti veda. Adesso. Adesso!
Un tuono squarcia il cielo pochi istanti prima che possa sfoderare la spada. Piccole gocce d’acqua picchiettano sul terreno, sull’armatura e sulla mia pelle, divenendo sempre più insistenti. La vecchia megera blatera qualcosa riguardo il non volersi prendere un malanno e l’uccellino pigola di disapprovazione quando i suoi capelli si bagnano. Infine, le labbra del vecchio si incurvano in tutta quella che ha l’aria di essere un sorriso accogliente e gentile ma che non mi convince per niente.

«Sta iniziando a piovere, vi servirà un tetto per la notte. Non abbiamo molto, ma chi ha sofferto per casa Tully è il benvenuto da noi. Saremo lieti di offrirvi del pane e del sale» Conclude. La schiena dell’uccelletto si rilassa contro il mio petto e sul suo visino da bambola si designa un sorriso di sollievo. Forse mi sto preoccupando troppo, forse quel tizio è davvero un brav’uomo ed ha solo una brutta faccia, o forse invece vuole solo prenderci all’amo come due pesci. Che ci provi: la mia lama vibra di piacere all’idea di assaggiare il suo sangue.

«Vi ringraziamo, miei signori. Saremo lieti di accettare la vostra ospitalità» Cinguetta Sansa, cordiale. Io annuisco col capo ma lo sguardo che riservo al vecchio idiota è chiaro: un solo passo falso e t’ammazzo, stupido vecchio. Dall’espressione che mi rivolge, comprendo che ha capito.

Non facciamo che pochi metri prima di arrivare a quella che ha tutta l’aria di essere la loro abitazione: una casa mediocre, costruita con legno e paglia e mattoni, con un focolare e alcune stanze allestite con tappeti e pagliericci. Entrando, scorgo una bambina dai capelli scuri con denti sporgenti che tutta l’aria di essere la loro nipote. Mi sovviene il viso di mia sorella e scuoto il capo per scacciare via quell’immagine.

Sono anni che non ci penso, cazzo. Proprio adesso doveva tornare a tormentarmi?

 La mocciosa e la vecchia preparano uno stufato di verdure e l’uccellino dà loro una mano mentre io e il vecchio rimaniamo seduti davanti al fuoco, a scrutarci in silenzio. Dopo un po’ ci sediamo per mangiare, la cena risulta essere addirittura piacevole e, per mia gioia, posso concedermi anche qualche bicchiere di vino. Sono seduto su un pagliericcio che dà sul focolare, quando il vecchio dagli occhi scavati di prima si siede accanto a me. Le donne vanno di là a prepararsi per la notte ed io e lui rimaniamo di nuovo soli. Non passano che pochi secondi che lui prende la parola, la sua voce è roca e autoritaria.

«Tu non mi piaci, sir. Non mi piace la tua faccia, non mi piace la tua voce e non mi piace il tuo modo di parlare, però mi piace la tua spada. Io non saprei usarla, sono solo un povero vecchio, ma tu… tu riusciresti a far scappare il peggiore dei predoni solo guardandolo di traverso. So chi sei, mio signore, ma non ho intenzione di dirlo alle guardie. Sono un uomo d’onore, io, ed ho promesso ospitalità. Tuttavia, ho bisogno del tuo aiuto: lavora per me, tieni lontani i mercenari ed io non dirò nulla a nessuno e ti ricompenserò con dell’argento per il lavoro svolto», la sua mano si tende verso di me, i suoi occhi vengono attraversati da un lampo di soddisfazione. Non mi lascio allarmare – dopotutto  avevo già percepito che lui sapeva, questa è stata solo la conferma finale – e mi limito a ingoiare un altro sorso di vino. Lo guardo da sopra la mia coppa e nella mia mente si forma l’immagine delle mie dita attorno al suo collo, del suo volto raggrinzito che si tinge di viola, del battito del suo cuore che si affievolisce pian piano, e un sorriso mi deforma il volto.

«Argento hai detto, vero? Quanto?».

Lui sorride: un sorriso strambo e con diversi denti mancanti. «Tanto. Abbastanza per ripagarti degnamente. L’ho rubato da giovane a dei mercanti. Non se ne sono mai accorti, ed io l’ho conservato per il momento più adatto. È ancora lì dietro quel vaso, proprio come la prima volta in cui l’ho lasciato. L’inverno sta arrivando, mio signore, e questa volta non sarà semplice sopravvivere. Una cane da guardia è proprio quello che mi ci vuole. La fanciulla può restare con noi, se lo desideri… ho visto come la guardi, sai? Ehehe. Non si può certo dire che tu abbia brutti gusti in fatto di donne».

Le mani mi prudono dalla voglia matta di sferrargli un pugno dritto sul naso. Stringo le labbra e prendo un altro sorso di vino. «Lo stesso non si può dire per te, invece. Tua moglie è una delle racchie più brutte che abbia mai visto».

Lui alza le spalle. «Te lo concedo. Ma almeno sa cucinare e si prende cura di Freja, mia nipote, e questo mi basta. Sono troppo vecchio per badare a futilità come la bellezza di una donna. Riguardo a noi, invece: abbiamo un accordo?».

«Se paghi il giusto va bene» Ribatto. Se fosse meno idiota, di certo si accorgerebbe del ghigno sardonico che mi incurva le labbra, saprebbe che fidarsi di un assassino è come condannarsi a morte da soli e ancor di più rivelare a quell’assassino che conosci la sua identità. Se fosse meno idiota, si accorgerebbe del pugnale che sta per ucciderlo.

«Eccoci qui!».

Mi fermo di colpo e rinfodero l’arma prima che la vecchia racchia la veda. Sul suo viso pieno di macchie e rughe vi è un enorme sorriso che mi fa capire che non ha percepito alcun pericolo, e lo stesso pare per quell’idiota di suo marito.

‘Fanculo, mi toccherà aspettare fino all’alba.

Mi scolo un altro calice di vino – che inizia a darmi alla testa, finché la figura longilinea di Sansa Stark mi si para davanti e qualcosa nel mio stomaco si dimena e la presa sul calice vacilla: l’hanno pulita, la sua pelle non è più sporca di terra e fuliggine ed i suoi capelli, da prima stretti in acconciatore districate e disordinate, adesso scendono morbidi lungo la linea dei fianchi e le incorniciano il viso sottile. Anche la veste è diversa: è meno vistosa, di lana pesante, pulita e con una cintura di cuoio che le stringe i fianchi; i suoi piedi sono fasciati da spesse calze di lana e stivali di cuoio, e un gilet di pelliccia le copre le spalle minute. Sembra proprio una semplice popolana, ma resta comunque bellissima nonostante tutto. Stringo le labbra: questo non è un bene. Non lo è per me, che fremo dalla voglia di strapparle quelle vesti di dosso e farla mia in tutto e per tutto, e non lo è per lei per il medesimo motivo.

 Che tu sia dannata, ragazzina.  

«È tardi, miei signori. Credo sia giunto il momento di andare a dormire», lo sguardo acquoso della vecchia passa da me a Sansa, per poi indicare una porta in fondo alle scale. «Vi mostro le vostre stanze, seguitemi».

La stanza che ci viene mostrata è piuttosto piccola, di legno e con un focolare addossato alla parete. I giacigli di paglia sono messi uno vicino all’altro ed hanno entrambi coperte di pelle e cuscini. Mi tolgo gli stivali e l’armatura con velocità, felice di poter di nuovo respirare come si deve, e infilo il pugnale sotto il cuscino; poi mi sdraio e tento di chiudere gli occhi. Solo quando percepisco il corpicino leggero di Sansa Stark posarsi sul giaciglio, un po’ tremolante ed evidentemente imbarazzata per la troppa vicinanza dei letti, schiudo gli occhi e mi concedo un’occhiata fugace: è voltata dall’altra parte e non posso vederla in viso, ma i suoi capelli sparsi sul cuscino sono una delle cose più belle che abbia mai visto. Sono lunghi, rossi, morbidi; la voglia di giocarci e tanta – troppa! - ma resisto. Devo farlo. Per lei. Per me. Soprattutto per me, perché so fin troppo bene che una volta andato non sarei più in grado di fermarmi.

Non le farò del male, mi ripeto, ma ad ogni secondo che passa la voglia scalpitante di lasciarmi andare si fa più forte e pericolosa. Non le farò del male. Non le farò del male. Non le farò del male!

Ad un tratto lei si gira ed io mi sento come un moccioso scoperto a rubare. Non c’è aria di rimprovero nei suoi occhi chiari, né tristezza. Per la prima volta, vedo solo tanta serietà.

«Quello che vi ho detto oggi…», sussurra, la sua voce che si perde fra gli spifferi della stanza. «Ero sincera. Non ho mentito. Non vi ho mai odiato, mio signore, lo giuro. Volevo solo dirvi questo, per quanto poco possa valere. Buonanotte», e mi dà di nuovo le spalle.  

Faccio un’immensa fatica ad addormentarmi. Le mie braghe sono improvvisamente strette, respirare è quasi impossibile e dentro di me è in corso una guerra sanguinosa fra l’istinto animalesco di fottermene di tutto e prenderla come sogno di fare dacché l’ho incontrata e la voce incessante nella mia testa che mi urla che io non sono Gregor e che non le farò del male, che non devo farlo e che non lo farò. Non lo farò.

Quando riesco a prendere sonno, però, sogno le sue labbra premute sulle mie, il suo corpo caldo e la sua pelle morbida come velluto sotto le mie dita. Sogno di baciare ogni suo lembo di pelle, ogni livido ed ogni lentiggine, soffermandomi di più fra il solco dei suoi seni e godendo dei suoi sospiri spezzati che mi chiedono di essere gentile, di non lasciarla andare. Sei mia, uccellino, le sussurro, stringendola a me. Lei freme e inarca la schiena, sussurra il mio nome e si aggrappa a me, ed è come morire e rinascere lì, sulla punta delle sue labbra. Io sono tuo e tu sei mia. Sei mia, mia, mia, solo mia, e ad ogni sussurro ne segue un bacio, poi un altro e poi altri cento ancora, finché le sue labbra svaniscono, la sua pelle inizia a sapere di fieno e l’erezione che mi ha gonfiato i pantaloni durante la notte diventa troppo dolorosa da sopportare. Apro gli occhi: la notte è svanita, il sogno anche, ma lei è ancora qui accanto a me che dorme beata. Mi domando cosa stia sognando, se almeno nei sogni tutte le sue preoccupazioni si dissolvano, e le mie dita accarezzano i suoi capelli rossi, la linea curvilinea delle sue braccia. Mi alzo dal giaciglio di paglia con la consapevolezza di non potermi spingere oltre, che se lo facessi perderei il controllo, e faccio per andarmene.

I sogni sono una cosa, mi dico, impugnando l’elsa del pugnale e dirigendomi verso la camera da letto del vecchio e di sua moglie, La realtà un’altra. E un mastino non può permettersi di amare.
 
 
 
 
  • Note dell’Autrice.
1. La canzone è tratta dal Musical The Devil’s Carnival, ed è “In all my dreams I drown”.
2. Nei libri Sandor ha ventisette anni\trenta o giù di lì, mentre Sansa dodici\tredici. Dato che il Sandor-quarantenne (per quanto Rory mi faccia sangue e sesso) della serie TV non mi garba più di tanto, ho deciso di farlo tornare ad essere il ventisettenne scorbutico che è nei libri. Per quanto riguarda Sansa, invece, ho deciso di darle l’età che dimostra nei telefilm: quindici\sedici anni. Perdonatemi questa licenza, ma Sandor quarantenne per me è #no. (avrei capito gli avessero dato due o tre anni in più, ma santo cielo gliene hanno aggiunti venti. V E N T I. HBO, what’s wrong with you?).   Ad ogni modo, qui c’è un’immagine di come immagino il Sandor dei libri: https://scontent-b-mxp.xx.fbcdn.net/hphotos-xpa1/v/t1.0-9/1510955_1384936808464127_1903264585164612734_n.jpg?oh=b60a9908af768c46d69813fd2ee339c1&oe=54FF1978 ringraziate tutti Phoenixstein per la photomanip. <3

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Eeeeeeed eccomi qui! :D
Anche questo capitolo, sempre per il motivo di cui vi parlavo la scorsa volta, non è stato betato per cui vi prego, vi prego, vi prego ditemi se qualcosa non vi convince o trovate degli errori!
Piano piano Sansa e Sandor stanno iniziando ad avvicinarsi l’uno all’altra, e questo è bene. Moooolto bene. Mi dispiace di andare molto a rilento con queste cose, ma preferisco che la storia sia credibile piuttosto che affrettata e piena di scene love-love-happy. (tranquilli, forse un giorno arriveranno (?) ) Per quanto riguarda “Alina”, la sorella di Sandor: non me la sono inventata. Esiste sul serio! Sandor aveva davvero una sorella. Nei libri non viene fatto il suo nome, quindi ho deciso di chiamarla Alina come la protagonista di una storia su Skyrim che ho letto qui su EFP. Qui c’è il link, semmai dovesse interessarvi. Ve la consiglio tanterrimo! (link: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?)

Ad ogni modo, non vi dico nulla di più su questo personaggio perché verrà meglio approfondito nei prossimi capitoli. Spero vi piaccia la metà di quanto è piaciuto a me scriverci sopra!
Ci vediamo al prossimo capitolo, grazie mille a tutti voi che mi seguite e lasciate dei pareri a questa. Non smetterò mai di ringraziarvi! ^__^
Come al solito, vi lascio il mio link di FB semmai voleste mettervi in contatto con la sottoscritta e\o avere notizie in più sulla fanfiction. Vi auguro un sereno Natale e che nessuno di voi prenda troppi kg con le feste! :P

Bacioni!

Link: https://www.facebook.com/harmony.efp.9

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Capitolo 7
*** Promises ***


Promises
Look at him, look at me,
That boy is bad, and honestly
He's a wolf in disguise
But I can't stop staring in those evil eyes
 

«No, no ti prego! Lasciaci stare!».

Voci. Sapore di fiele in bocca. Qualcuno sta piangendo.

«E allora fa come ti ho detto! Muoviti, stupida vecchia!».

Un urlo stridulo mi entra prepotentemente in testa. Il mio cuore sussulta ed io mi tiro a sedere di scatto; le mani mi tremano ed un terribile presentimento che mi stringe il petto. La mia lingua è gonfia ed i miei capelli sono pieni di pagliuzze di fieno. Tutto, attorno a me, è offuscato da una patina di nebbia. Dove sono? Cosa sta succedendo?!

«No, no vi prego, sir! Lo giuro, è tutto quello che abbiamo!».
«Non sono uno dei tuoi fottuti sir!».

Il rumore di qualcosa che sbatte viene seguito da un grido più acuto del precedente. I ricordi mi tornano alla mente all’improvviso: Freja. Quella voce appartiene a lei, alla bambina che mi ha aiutata a togliere lo sporco dalla schiena la scorsa notte, mentre l’altra appartiene a… oh, no. Oh no, no, no!

«Cosa state facendo?!» Prima che me  ne renda conto sono fuori dalla casa, i capelli ancora in disordine e gli occhi sporchi degli ultimi rimasugli del sonno. La scena che mi si para dinanzi mi lascia senza fiato: l’uomo anziano che ci ha ospitati è morto. Il suo cadavere è steso davanti alla porta di casa sua, le sue labbra sono distorte in una smorfia ed una ferita mortale allo sterno lascia coagulare viscido sangue grumoso sul terreno. Accasciata pochi metri più avanti, c’è la vecchia donna che mi ha donato vestiti nuovi e puliti. Non è morta, realizzo con sollievo, ma è terrorizzata e con un grosso livido sotto l’occhio destro. I suoi occhi acquosi passano dalla sagoma gracile di Freja ad una più imponente e spaventosa. Il respiro mi si spezza in gola quando incontro gli occhi grigi e feroci del Mastino.

«Basta! Smettetela!», grido, ma lui non mi presta attenzione. Prende un sacchetto dalla cintola della donna, rinfodera il pugnale e fa per andarsene con noncuranza. Accanto a me, la piccola Freja piange disperata e mi osserva con occhi colmi di paura e delusione. Dovrei dirle qualcosa, dovrei fare qualcosa, eppure non riesco a muovere un solo muscolo. La vecchia si alza in piedi con fatica. Io cerco d’aiutarla ma lei mi spinge via con uno strattone.

«Vattene», dice, gli occhi pieni di odio. Alzo una mano per rassicurarla, ma lei sfodera un coltellino da cucina nella mia direzione e me lo punta contro. «Adesso».
Una caterva di parole, di scuse e preghiere mi solleticano la lingua ma nessuna lascia le mie labbra. Decido di fare come mi ha detto e corro via col cuore pesante d’un crimine di cui mi sono resa complice senza volerlo. L’espressione agonizzante del vecchio mi torna alla mente ed il ricordo della testa di mio padre su una picca mi colpisce come un pugno allo stomaco. Rimembro il dolore accecante che mi aveva ghermita, la delusione di essere stata tradita da colui che consideravo il mio principe, ed un conato di nausea mi inacidisce la gola al pensiero che una bambina dolce come Freja possa star provando queste stesse emozioni proprio adesso.

«Come… come avete potuto?!», nemmeno mi accorgo di aver urlato. La mia voce è rotta dalla collera, tutto il mio corpo trema. Il Mastino si volta con lentezza verso di me, lo sguardo impassibile e le labbra serrate. «Ci hanno offerto un riparo, del cibo da mangiare e… e voi…».

«Sì, uccelletto. Ci hanno offerto un riparo e dell’ottimo stufato. E sai cosa mi avevano anche offerto, in caso non fossi stato alle loro condizioni? Una cazzo di soffiata ai Lannister riguardo a dove siamo diretti», sputa a terra, proprio accanto agli scarponi che la vecchia signora e sua nipote mi hanno dato. «Adesso può andarla a fare ai suoi fottuti antenati, la soffiata. Forse loro gli daranno retta».

Tutti i miei muscoli si irrigidiscono, respirare diventa improvvisamente difficile. Lo odio. Lo odio per quello che ha fatto, per la sua strafottenza nei confronti delle persone e della vita umana, per avermi fatto credere che vi fosse un minimo di buono in lui. Mi sbagliavo… È proprio come tutti gli altri: crudele ed egoista! Le lacrime mi pizzicano gli occhi, ma se siano di delusione o di rabbia questo non so dirlo. 

«Come faranno adesso? Avete rubato il loro denaro, colpito la vecchia signora e… e…».
«Non sarebbero comunque sopravvissute all’inverno, con o senza questo argento».
«Questo non potete saperlo!».
«Oh sì che lo so. Le hai viste anche tu: sono deboli, non hanno difese, l’inverno sta arrivando e se sono fortunate qualche predone le ucciderà presto… E l’argento non serve ai morti».

Digrigno i denti e stringo forte i pugni lunghi i fianchi, il cuore gonfio di amarezza e di furia. Ad Approdo del Re assistevo ad ingiustizie come questa ogni giorno, ma lì era diverso. Lì non potevo ribellarmi, non potevo dire nulla o avrebbero tagliato la mia, di testa. Con il Mastino è diverso. Lui non mi farà del male perché altrimenti perderebbe la ricompensa, eppure... eppure credevo che almeno lui… che almeno lui fosse diverso. Mi sbagliavo. Mi sbagliavo su tutto!

 Lui continua ad avanzare senza dire una parola, incurante di aver appena condannato a morte tre persone che gli avevano offerto un rifugio e del pane da mettere sotto i denti. Non gliene importa niente, realizzo mentre lo guardo andar via. Questo mi ferisce più di qualsiasi rasoio Non gliene importa!

«Siete… siete solo un assassino!», le parole lasciano le mie labbra di prepotenza. A pochi metri da me, il Mastino si arresta. «Nessun vero cavaliere si sarebbe mai comportato così! Un vero cavaliere non avrebbe mai fatto del male ad una bambina e sua nonna! Voi… voi siete solo un uomo perfido, egoista e meschino! Ed io… io vi detest—», un gemito spezza le mie parole quando le dita forti del Mastino mi afferrano con forza il braccio.

«Non ci provare, ragazzina», il suo volto deturpato è così vicino al mio che posso sentire il suo fiato caldo contro la pelle, l’ odore metallico del sangue e del ferro. Ad un tratto ritorno la bambina spaventata che ero al torneo del primo cavaliere del Re, quando lui mi aveva raccontato della sua cicatrice e di come suo fratello gli aveva premuto la faccia contro la brace. «Non osare paragonarmi ad uno dei tuoi cavalieri del cazzo. Vuoi sapere cosa fanno i “veri cavalieri” che tanto ti piacciono alle bambine come te o quell’altra laggiù? Le stuprano, fanno loro del male perché non possono difendersi, tagliano loro le lingue e le braccia e le gambe», la sua stretta sul mio braccio si fa più prepotente. Provo a districarmi da lui, invano: è troppo forte per me. «È stato proprio il cavaliere mio fratello ad uccidere mia sorella, lo sai? Una cosina graziosa proprio come te, ma più piccola. La riempì di botte tante di quelle volte d’ammazzarla. Gli altri cavalieri e servitori che vivevano nella nostra fortezza lo sapevano, erano a conoscenza di ciò che Gregor si divertiva a farle, dei lividi che le lasciava sulla pelle e del piacere che provava nel farlo, ma non osavano muovere un dito perché avevano tutti paura lui. Mia sorella aveva dieci anni quando venne uccisa da uno dei tuoi adorati cavalieri. Dieci anni ed il viso viola per i troppi pugni ricevuti…», serra la mascella così forte da far scricchiolare i denti. Un luccichio d’angoscia sormonta il suo sguardo, ma viene presto sostituito da una furia feroce, colma di dolore e rimpianto. Mi strattona verso di lui. «Prova a paragonarmi di nuovo ad uno di loro, ragazzina, ed arriverai dal tuo caro fratellino senza lingua. Sono stato chiaro?».

 Annuisco spaventata e la sua presa si allenta di getto, lasciandomi libera di tornare a respirare. Non sapevo che avesse avuto una sorella. Un brivido mi corre lungo la schiena, disgustandomi: mi rifiuto di credere che il mondo possa essere un posto tanto terribile da lasciar passare inosservata la morte di una bambina innocente. Eppure quando Joffrey mi aveva umiliata più e più volte di fronte l’intera corte, mai nessuno aveva sollevato un grido di protesta quindi perché avrebbero dovuto farlo gli uomini di Casa Clegane? Lo stomaco mi si stringe in una morsa. È orribile. Com’è possibile che gli dèi accettino tutto questo?

All’improvviso, non so più come sentirmi. Sono furiosa col Mastino per quello che fatto alla famiglia della piccola Freja, ma allo stesso tempo provo tristezza per lui. Ripenso a mia sorella Arya ed una mano invisibile mi stringe il cuore quando ripenso che sarebbe potuta esserci lei al posto di sua sorella… o forse io.
Il silenzio che aleggia attorno a noi è più assordante di mille gridi. Per tutto il tragitto, nessuno di noi due dice una sola parola; l’aria è così tesa da potersi tagliare, il cielo si annuvola e piccole goccioline d’acqua bagnano il mio volto. Quando saliamo in groppa a Straniero, è il Mastino a spezzare il silenzio.

«Fottuta pioggia. Ci mancava solo lei…».

Sul suo volto sporco di fuliggine e sangue scorre una lunga goccia d’acqua, poi un’altra e poi un’altra ancora, ma neanche quando altre migliaia di gocce bagnano il suo ed il mio volto dico qualcosa. Rimango in silenzio, a pensare; i capelli appiccati al viso e le dita tremanti. La pioggia porta via lo sporco, diceva la vecchia Nan, E anche il dolore. Ed io non sono più certa che ciò che scorre sul viso di Sandor Clegane sia solo semplice pioggia.


 
 
Sandor.

Apro gli occhi. È tutto buio attorno a me. Dove sono? Mi tasto la cintola dei pantaloni: non ho più il mio pugnale né la spada. Perché è tutto così buio? L’uccellino. Sansa. Perché non è qui?!

Sandor.

Di nuovo quella voce. Mi guardo attorno, ma non vedo nessuno.

«Chi sei?! Fatti vedere!», grido al nulla, ma la voce mi ritorna indietro come un’eco. Non c’è nessuno qui a parte me, e la cosa mi mette in agitazione. Sono morto? Che cazzo è successo? E dov’è Sansa? Avevo promesso di riportarla a casa, di tenerla al sicuro. Dov’è? Perché non si fa vedere?! Fottuti dèi, perché nessuno mi risponde?! «Rispondimi, cazzo!».

Un improvviso profumo di fiori aleggia nell’aria. Faccio un passo indietro e qualcosa di appiccicoso mi umetta le dita. Mi volto: gigli… sono dei gigli. Migliaia e migliaia di gigli. Ma non sono dei gigli comuni: c’è della rugiada sopra i loro steli. Rugiada rossa, densa. La sfioro con un dito: è sangue.

Aiuto!

Un urlo riecheggia nella mia mente. In un primo momento penso che si tratti della voce dell’uccelletto, ma poi realizzo che è troppo infantile per essere la sua, troppo diversa e, contemporaneamente, troppo familiare. Una risata si fa largo nella stanza: è spietata, cattiva, piena di odio. Un terribile fetore di carne bruciata e delle urla disumane e che invocano pietà riempiono le mura di quello che ha tutta l’aria di essere il fortino dei Clegane. Le mani mi tremano senza ragione, un enorme peso mi grava sul petto e respirare diventa quasi impossibile. Le urla si fanno sempre più sguaiate, la risata più cattiva e crudele… e all’improvviso capisco.

È la mia voce, questa.

Mi volto e vedo Gregor: un ghigno bastardo gli incurva le labbra ed uno scintillio sinistro nei suoi occhi scuri gli attraversa lo sguardo. Sotto di lui c’è il bambino di soli sei anni che ero stato una volta, la pelle della faccia gli si scioglie sotto la morsa del fuoco contro cui lo sta premendo. Si dibatte disperato mentre i muscoli del viso diventano vivi, scarlatti, pieni di piaghe. Supplica che quell’agonia abbia una fine, implora pietà, ma nessuno accorre in suo soccorso. Fra le sue dita, mi accorgo, vi è il cavaliere di legno di Gregor.

Non devi avere paura, passerotto.

Un ricordo lontano mi investe. Il me stesso di sette anni mi si para davanti, la cicatrice che gli deturpa il volto è scura e terribile. Si lascia curare l’ennesimo occhio nero da Alina, mia sorella: i capelli scuri le scendono gonfi sulle spalle strette e gli occhi grigi squadrano la ferita al mio viso. “Non devi avere paura, passerotto”, dice. Il me stesso del passato storce le labbra.

 “Non sono uno stupido uccellaccio. Smettila di chiamarmi così”, ribattee Lei gli fa la linguaccia sorride malinconica. Ha solo otto anni, eppure sembra portarsi dietro tutto il peso del mondo. Anche la sua guancia è gonfia, eppure il suo sorriso è gentile come al solito. Il profumo dei gigli si mischia a quello del sangue, il pianto soffocato di Alina mi sussurra nell’orecchio.

Devi dirlo a nostro padre, Alina, lui farà qualcosa. Ti manderà lontano da qui e Gregor non ti picchierà più!”, la supplica il me stesso di otto anni, ma lei scuote la testa e si asciuga le lacrime con il dorso della mano. “Se mi manderà via non potrò più vederti, passerotto. E chi ti medicherà le ferite se io non ci sarò più?”, il sorriso che lei gli rivolge è un sorriso spento, amaro, non adatto a una bambina di nove anni, ed il livido viola che ha sul collo fa pugni con la sua pelle nivea. 

Il profumo dei gigli svanisce e resta solo quello del sangue. Un lungo latrato si innalza nella stanza, freddo come la morte. Un vecchio septon sfiora la spalla del me stesso bambino e scuote la testa: “Mi dispiace, figliolo”, sussurra. Ma io so che non è vero, che non gli dispiace. Se a qualcuno fosse dispiaciuto, Alina non sarebbe morta, Gregor non l’avrebbe picchiata fino a mandarla dritta ai Sette Inferi e le cose sarebbero andate diversamente. È colpa loro… è colpa loro!
La risata di mio fratello tuona attorno a me, terribile come un incubo. Lo vedo con le mani piene di sangue, l’armatura macchiata di rosso, gli occhi grigi luccicanti di depravata gioia. Fra le dita possenti, tiene un uccellino dalle piume scarlatte.

«C’è ancora qualcosa che posso strapparti», dice. L’uccellino piange, il suo canto si trasforma in un grido alto e straziante. Con orrore, mi accorgo che è la voce di Sansa.

«NO!» Apro gli occhi, tirandomi a sedere. Un conato di vomito mi inacidisce la gola. La testa sembra scoppiarmi: il battito del mio cuore continua a rimbombarmi nella mente. Tu-Tum Tu-Tum Tu-Tum Tu-Tum. Afferro la fiasca con dentro il vino attaccata alla mia cintola e ne bevo lunghe sorsate, sperando per un momento di annegarci dentro. Il pianto dell’uccelletto mi rimbomba ancora nelle orecchie. Era solo un incubo. Solo un fottutissimo incubo, smettila di agitarti.

«State bene?», per poco non mi soffoco. Mi volto verso quella voce che ormai conosco troppo bene e gli occhioni azzurri della ragazzina Stark incontrano i miei. Sembra preoccupata. «Voi… avete urlato, prima».

Merda. Ci mancava solo questa. Mi passo una mano sul volto e cerco di far finta di niente. Non mi piace dare spiegazioni. Le spiegazioni portano a fare domande ed io odio le dannate domande, soprattutto appena sveglio. Sbuffo, i nervi a fior di pelle: è colpa sua. Se ieri non mi avesse fatto incazzare, portandomi a ripensare a mia sorella, a quest’ora non avrei fatto quel cazzo di sogno di merda e starei alla grande. Fottuta ragazzina Stark. Fottuti sogni. Fottuto mondo.

«Cosa ci fai sveglia a quest’ora? È appena l’alba» Mugugno, la bocca che sa di fiele. I primi raggi di sole tingono il cielo di rosa e azzurro e l’aria fresca del mattino mi solletica il collo. Il vecchio aveva ragione: l’inverno sta davvero arrivando, e questa volta non basterà un semplice focolare per riscaldarsi.

« Vi ho sentito urlare e mi sono svegliata. Avrei voluto chiamarvi, ma temevo che… ecco… che poteste arrabbiarvi. Lo fate sempre, dopotutto…», pigola, per poi arrossire un attimo dopo. «P-Perdonatemi, non volevo offendervi… è… è solo che voi—».

«Risparmiami le tue scuse del cazzo, ragazzina. Non mi interessano» Non mi va di stare a sentire le sue paroline cortesi, mi ci pulisco il culo con quelle. Ho altro a cui pensare. Al ghigno sardonico di mio fratello che continua a pararsi davanti i miei occhi, per esempio. Scuoto la testa e bevo un altro sorso di vino. Che gli Estranei lo portino alla dannazione.

Sulle labbra di Sansa danzano una decina di domande, ma io le conosco già tutte. Le scocco un’occhiataccia, stufo del dannato silenzio che si è venuto a creare.  «Ti concederò una sola domanda, ragazzina. Solo una. Avanti, falla. So che muori dalla voglia», prendo un’altra sorsata. Il vino mi brucia lo stomaco, così come i ricordi mi bruciano il petto. Lei mi guarda, quasi a volersi accertare se potersi fidare o meno, ed una punta di fastidio mi preme sotto le unghie. «Fai questa fottuta domanda, cazzo!».

Lei sussulta e trattiene il fiato. I suoi occhi fissi sulla mia cicatrice. «Che… che sogno avete fatto?».

Per un istante, un breve, pericolosissimo istante, ho una disperata voglia di raccontarle tutto: di Alina, di Gregor… di lei, l’uccellino stretto fra le grinfie di quel mostro senza scrupoli. Voglio farlo. Voglio davvero farlo. Ma al ricordo di mia sorella perdo il controllo, e prima di rendermene conto le mie dita artigliano il suo braccio.

«Sai cosa piacevano a mia sorella, ragazzina? Gli uccelletti. Amava quelle bestie piumate come se fossero i suoi cazzo di figli. Mentre tutti a casa nostra possedevano un cane, lei aveva una gabbia piena di uccelli che lasciava sempre aperta. Non è giusto chiuderli in gabbia, diceva, soffrono, diceva. Io pensavo fossero tutte stronzate e non la ascoltavo. Chi se ne fregava di quei fottuti uccelletti? Che morissero pure, per quanto me ne importava», la mia voce è simile allo stridio del ferro. La testa inizia a girarmi. Vino… ho bevuto troppo vino e l’ho bevuto troppo in fretta. Sansa, sotto di me, mi fissa con occhi sgranati e labbra tremule. «Aveva persino cominciato a chiamarmi passerotto. Che razza di cogliona… Ti sembra forse che abbia la faccia da passerotto, io? Ti sembro uno di quei dannati uccellini canterini come te?!».

Lei chiude gli occhi e cerca di ritrarsi dalla mia stretta. «Basta, per favore, mi state mettendo paura… ».

« Tutto ti fa paura! Guardami. Guardami! », e lei mi guarda. I suoi occhi sono su di me, posso leggervi dentro tutta la paura e l’amarezza che celano. Non sono gli occhi di una ragazzina come le altre, questi: sono occhi stanchi, pieni di ombre, di chi ha visto e passato troppe cose in troppo poco tempo. Sono occhi pieni di dolore. Sono li stessi occhi di mia sorella. «Sai cosa c’era nel mio sogno, uccellino?», la mia voce si abbassa fino a divenire un flebile sussurro. Parlare mi diviene improvvisamente difficile, persino pensare lo è. «C’era Gregor, tutto tronfio nella sua armatura ed il mantello bianco, e c’era Alina, mia sorella. Mi diceva che andava tutto bene. Me lo diceva sempre, quella stupida. Andava tutto così bene che adesso è tre metri sottoterra a far da concime ai vermi!», mi allontano da lei di colpo. Non voglio vederla. Non voglio farlo. Guardare i suoi occhi mi fa pensare ad Alina, ed io non voglio più pensare a lei. È morta, cazzo. Morta!

Qualcosa si posa sulla mia schiena, delicata e gentile. Mi giro e incontro gli occhi di Sansa, troppo simili a quelli di Alina. La bestia dentro di me si dimena come impazzita, in preda alla collera. Voglio uccidere qualcuno, urlare fino a graffiarmi la gola, sfogarmi. L’odio che mi lambisce il petto è devastante, mi soffoca e mi impedisce di respirare. Morti. Moriranno tutti. Li ucciderò tutti.

«Quando sarò di nuovo a Grande Inverno», dice, la voce piccola e sottile. «Mi prenderò cura di tutti gli uccellini che avranno bisogno di cure, così vostra sorella sarà felice. Lo prometto».

La furia si dirada e un improvviso calore al petto prende il suo posto. Sansa resta in silenzio, a fissarmi con gli occhi tristi di chi condivide il dolore della perdita, la sua piccola mano è ancora posata sulla mia spalla. Sono costretto ad allontanarmi da lei per non baciarla. La voglio, fottuti dèi. Voglio quelle sue paroline appena sussurrate, quel suo broncio da bambina, quegli occhi chiari e pieni di malinconia. Voglio l’oro, certo, ma voglio anche lei – donna, bambina o qualsiasi cosa sia. Voglio vederla sorridere, voglio confortarla quando ne avrà bisogno, voglio che si conceda a me di sua spontanea volontà e mi doni le sue gioie e i suoi dolori e il suo desiderio. Voglio lei.*

Passa un po’ di tempo prima che possa di nuovo respirare normalmente ma quando ci riesco aiuto Sansa a salire in groppa a Straniero, intenzionato ad andarmene da qui il più presto possibile. Mi isso sulla sella e, quando le sono accanto, sento la sua schiena premere contro il mio petto. I suoi capelli rossi sono messi di lato, lasciandole il collo scoperto, ed il desiderio che ho di baciarle il collo è spietato, senza freni. Fottuti dèi, non ce la faccio più. Non ce la faccio più.

«Qualcosa non va? Siete pallido» Borbotta lei, ed io vorrei prenderla a schiaffi. È colpa tua se sto così, dannazione. Smettila di guardarmi, di parlarmi, di imbronciare le labbra a quel modo. È colpa tua. Smettila… smettila, smettila, smettila!

«Sto bene», grugnisco, ma è evidente che non sto bene per niente. I movimenti di Straniero fanno sì che il suo bacino sfiori per pochi attimi i miei fianchi, l’odore di pulito che emanano i suoi capelli mi riempie le narici. Del sudore freddo mi imperla la fronte. Fottuti dèi… così non va bene. Non va bene per niente. «Tu, piuttosto, alza quel cappuccio e non aprire bocca per nessun cazzo di motivo. Nessuno deve riconoscerti. Sono stato chiaro?».

«Sì», annuisce lei. Avrà capito che quella del cappuccio è solo una scusa per non sentire il suo profumo? «Andrà tutto bene, vedrete».

Una smorfia mi incurva le labbra. I suoi fianchi sfiorano di nuovo il mio inguine. L’armatura adesso è improvvisamente troppo stretta.

«Ne dubito».
 
 
 
Ci muoviamo verso quello che ha tutta l’aria di essere un villaggio di contadini. Non conosco il suo nome, nessuna insegna lo riporta, ma posso comunque capire che non si tratta di un villaggio ricco: i viandanti sono pochi, si stringono nei loro mantelli per schernirsi dal vento gelido,  i bambini hanno l’aria stanca ed i nasi che gocciolano. Per un istante ripenso a Grande Inverno, al piacevole caldo che aleggiava nella sala principale dove vi era un enorme camino di pietra, ed una punta di nostalgia mi aggroviglia lo stomaco. Vorrei tornare lì, risvegliarmi immersa fra le mie coperte di lana e ascoltare il crepitio del fuoco mentre accarezzo Lady con il dorso della mano. Vorrei essere a casa.

Dietro di me, il Mastino non dice una parola. Le sue parole sono ancora nei miei pensieri, terribili e colme di un’angoscia tale che non avrei mai creduto che un uomo violento come lui potesse provare. Sospiro. Mi sembra assurdo che uno del suo genere possa affezionarsi a qualcuno, ma so bene che sotto quell’enorme armatura che indossa si cela un essere umano come tutti gli altri, con un cuore pulsante e dei sentimenti. Vorrei solo che anche lui lo ricordasse, ogni tanto.

Conosco il dolore del perdere un fratello o una sorella. Insieme a Grande Inverno, anche Bran e Rickon sono caduti. La notizia era stata una pugnalata dritta al cuore quando me l’avevano comunicata e tutt’ora, nel rimembrare i loro visi, ho voglia di piangere. Erano così piccoli… Rickon sapeva a stento mettere due frasi in fila il giorno in cui lasciai Grande Inverno. Avrei voluto averli abbracciarti più spesso, fare loro capire che nonostante non passassi molto tempo in loro compagnia li amavo comunque proprio come amavo Robb ed Arya. Adesso non mi resta più nulla di loro, solo i ricordi. Immagino che per il Mastino sia lo stesso. 

«Quanto distano le Torri Gemelle?» Domando ad un tratto, mossa dal bisogno disperato di riabbracciare Robb e mia madre. Lui grugnisce di disappunto: mi aveva detto di restare in silenzio, dopotutto.
«Non lo so».
Come non lo sa? «Non avete una mappa?», domando, e ringrazio gli Dèi che la mia voce risulti tanto calma. Lui scuote la testa.
«Non mi serve una mappa, uccelletto. Ho il mio istinto. E adesso taci».
«Ma—».
«Taci».

E va bene!, rispondo, ma devo solo aver creduto di averlo fatto, perché la voce mi resta serrata in gola. Sbuffo, le dita che mi prudono per il fastidio, e incrocio le braccia al petto. Perché deve sempre essere tanto aggressivo? Eppure sono stata gentile con lui. Ho cercato di mettermi nei suoi panni e non dire nulla che potesse irritarlo. Perché si comporta così?!

Un improvviso vociare provenire da un angolo della strada attira la mia attenzione, proprio a pochi passi da noi. Mi volto e scorgo la sagoma di una donna dai capelli ramati e gli occhi sgranati che supplica aiuto ai passanti, il volto cinereo ed i vestiti lerci. “Per favore!”, urla, aggrappandosi alla veste d’un signore lì accanto, che la spinge via. “Per favore, aiutatemi. La mia bambina… la mia piccola Jeyne…”.

Non so cosa sia successo. Non ricordo il momento in cui sono scesa da cavallo e sono corsa dritta da lei, incurante delle proteste decisamente poco sommesse del Mastino, né il motivo che mi ha spinto a farlo. Forse è stato quel nome, Jeyne, che mi ha ricordato la mia dolce amica d’infanzia, o forse gli occhi chiari di quella donna, tanto simili a quelli di mia madre; fatto sta che adesso mi trovo qui, proprio davanti a lei, e le mie mani sembrano essere diventate di colpo inutili e pesanti. Cerco di blaterare qualcosa, ma dalla mia bocca non esce un sussurro. Gli occhi della donna si puntano verso di me, ma è solo quando un respiro affannoso e caldo soffia contro il mio collo che comprendo che non è me che sta guardando.

«Prova a scappare un’altra volta, ragazzina, e giuro su quei fottuti dèi che preghi tanto che ti—».

Sandor Clegane viene messo a tacere dallo strillo della donna, che corre dritta da lui e gli afferra il braccio cianciando parole incomprensibili. Disgustato da quel contatto, lui la spinge a terra con una semplice scrollata del braccio e il suo volto si deforma in una maschera nauseata. «Prova a toccarmi un’altra volta e userò il tuo stesso braccio per picchiarti, pezzente», grugnisce.

«Jeyne… la mia piccola Jeyne… persa, sparita, rubata…», mormora la donna, ora a terra e con le lacrime che le rigano il viso scavato. Riservo un’occhiataccia di rimprovero al Mastino e mi affretto ad aiutarla a rimettersi in piedi. Intorno a noi inizia a formarsi una piccola folla di curiosi e d’istinto mi tiro il cappuccio più in su, rimpiangendo di non aver dato retta al Mastino che, dietro di me, mugugna fra i denti bestemmie tanto volgari da farmi drizzare i capelli.

«Si rialzi, avanti…», mormoro al suo orecchio, soffermandomi a guardarla meglio. Ha i tipici lineamenti della gente che vive nei pressi di Delta delle Acque: gli zigomi alti, la pelle pallida e gli occhi chiari. «Cos’è accaduto a vostra figlia?», domando, ma prima che lei possa rispondermi  il Mastino mi prende per le spalle e mi volta verso di lui, il suo volto a pochi centimetri dal mio.

«Che cazzo stai facendo?!», la sua voce è appena un sussurro, ma la furia nei suoi occhi è profonda come l’oceano.
«Dobbiamo aiutarla. Ha perso sua figlia!».
«Non me ne frega un cazzo se hanno rubato sua figlia, cazzi suoi che non sa badarci», ribatte lui, digrignando i denti. «Noi ce ne andremo da qui proprio adesso».
Spalanco la bocca, senza parole. «Voi non potete far—».
«Vi pagherò!», vengo interrotta dalla madre della bambina, che finalmente sembra essere tornata a parlare con chiarezza. La presa del Mastino sul mio braccio si allenta un po’ e i suoi occhi grigi si posano curiosi sulla figura della donna.
«Quanto?».
«N-Non possiedo molto, ma… ma ho del denaro e… e dell’argenteria molto preziosa. Vi prego, mio signore, aiutatemi! M-Mia figlia, la mia piccola Jeyne… lei è stata presa da dei banditi che l’hanno portata nella foresta. Sono certa che li troverete perché loro erano a piedi e… e il pianto di Jeyne… lei… oh, vi prego, vi darò tutto ciò che vorrete!».

Lo sguardo duro del Mastino torna a fissarmi. «Sua figlia è morta, probabilmente l’hanno pure mangiata e digerita. Non perderò tempo prezioso per qualcuno di morto… E poi io non salvo mocciose, fottuti dèi. Ti sembro uno dei tuoi cavalieri finocchi?!».

«Avevate detto che non eravate come vostro fratello!», bercio io, serrando i pugni. Sono consapevole di aver toccato un tasto dolente e una parte di me sussulta di paura quando il suo volto si indurisce. Prendo un respiro profondo. Non mi farà del male, mi ripeto. E spero davvero di non sbagliarmi. «Quella bambina sarebbe potuta essere vostra sorella!».

«Non osare usare mia sorella come scusa!», le sue dita si stringono attorno al mio polso. «La prossima volta che lo farai--».

«Non lo farò», sono stufa delle sue continue minacce e dei suoi sguardi carichi di odio. Ha già condannato a morte una bambina e sua nonna, non resterò di nuovo in silenzio di fronte a un’ingiustizia. «Ma se mi ascolterete e proverete a salvare quella bambina, io vi prometto che farò tutto ciò che vorrete!».

«Non dire cose di cui potresti pentirti, uccelletto», mugugna lui. Dalla presa che esercita sul mio braccio, mi accorgo che è teso come una corda di violino. «Non è mai una buona cosa. Specialmente con me».

«Lo so», rispondo. Lui aggrotta la fronte ed il suo sguardo si fa più penetrante. So già cosa vuole e non ho problemi a darglielo. Robb capirà, dopotutto a lui non cambia nulla avere qualche moneta in più o qualcuna in meno. «Se salverete quella bambina e la riporterete viva da sua madre, prometto di rimanere in silenzio per tutto il resto del viaggio, di non nominare mai più vostra sorella e di darvi tutto ciò che vorrete: oro, argento, terre… tutto. È una promessa».

Sembra in difficoltà. Nel suo sguardo scorgo perplessità, come se stesse cercando di capire quale sia la cosa migliore da fare. Mi guarda con insistenza, tanto da farmi sentire a disagio, e per un attimo sono certa di vedere un lampo di desiderio attraversare i suoi occhi. Distolgo lo sguardo, improvvisamente imbarazzata. No… devo essermelo immaginato.

«Che te ne importa di quella mocciosa? Perché vuoi aiutarla?!».

Il mio sguardo saetta sulla figura della donna accanto a me, che mi guarda con occhi lucidi. Qualcosa mi preme nel petto ed io non riesco a capire di che si tratta: euforia? Tristezza? Empatia? Rimorso? Forse ognuno di essi. Ciò che è certo, è che non lascerò morire qualcun altro ingiustamente. Ad Approdo del Re non avevo possibilità di ribellarmi ai soprusi di Joffrey, ma ora che sono libera posso diventare la Regina che ho sempre sognato di essere, buona e amata dal popolo.
Serro le labbra. «Perché nessuno lo ha fatto con me quando ero ad Approdo del Re».

Cala il silenzio. La folla di curiosi si è diradata a causa della pioggia che sta iniziando a puntellare il terreno: i capelli del Mastino iniziano a prendere la forma del suo viso, appiccicandosi alle sue guance e alla sua fronte, ed il colore dei suoi occhi diventa freddo come il ghiaccio. Faccio ben attenzione a non guardare la sua cicatrice: è con Sandor Clegane che voglio parlare, non con il Mastino. È alla sua umanità che voglio appellarmi, non all’odio della bestia che cova dentro di lui. Mi mordo il labbro e mi stringo nelle spalle: ti prego, agisci come agirebbe Sandor Clegane, non come farebbe il Mastino. Pensa che quella bambina sarebbe potuta essere tua sorella. Pensa che sarei potuta essere io.

Ad un tratto le labbra del Mastino si stringono in una linea incolore e grave. Con il cuore che sembra volermi uscire dal petto, realizzo che vuole aiutarmi. Prima che un sorriso trionfante possa dipingersi sulle mie labbra, le sue dita si posano con forza sotto il mio mento, alzandolo.

« Se quando tornerò scopro che sei fuggita, uccelletto, io—».
«Mi ucciderete…?».
«No», i suoi occhi sono seri come lapidi. Sono poche le volte in cui l’ho visto tanto austero e qualcosa mi dice che non sta affatto scherzando. «Scuoierò vivo ogni cazzo di persona di questo merdoso villaggio: bambino, uomo o donna che sia. Moriranno tutti a causa tua.  Mi hai capito?».

Annuisco. Non ci provo nemmeno a camuffare la delusione che quelle parole mi provocano. È una bestia. Solo una bestia potrebbe pensare di fare cose tanto orribili e disumane. Non sta salvando la bambina per spirito d’onore, ma per la ricompensa che riceverà dopo.

Fa per andarsene, ma prima di salire in groppa a Straniero si volta verso di me e sul suo volto si apre un ghigno beffardo.

«Hai detto “tutto ciò che vorrete”, ragazzina. Non dimenticarlo quando sarò di ritorno», sussurra, ed un lampo di lussuria gli attraversa lo sguardo. Questa volta, sono certa di non averlo immaginato. Non sento il pianto di gioia della donna accanto a me quando lui parte al galoppo, o la pioggia che scorre lenta sul mio viso appiccicandomi i capelli al viso. Sono troppo intenta a pensare a quello sguardo, al suo significato, alle parole che mi ha rivolto. Mi premo una mano sulle labbra quando, improvvisamente, realizzo ciò a cui alludeva.

Lui… non intendeva del denaro.
 
 
             
- Note dell’autrice.


1) Citazione Tyrion. Era troppo, troppo, troppo bella per non inserirla.
 2) La canzone è “Monster”, di Lady Gaga.
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Ed eccomi qui!
Come va? Finalmente siamo arrivati all’ultimo dell’anno. Come passerete la vigilia di capodanno? :)
Come al solito, ringrazio tutti voi per il seguito che state dando a questa storia. Siamo giunti ad un capitolo che, anche se può sembrare di transizione (ed in parte lo è), sarà davvero importante per ciò che accadrà nel prossimo. Spero che vi sia piaciuto!
Finalmente ho potuto approfondire il discorso “Alina”. Sì, lo so, è tragico, ma molte teorie dicono che sia andata proprio così. Dopotutto Gregor è una bestia. È uno dei pochissimi personaggi che è cattivo-perché-è-proprio-stronzo-di-suo, senza un motivo particolare. Ed io onestamente mi auguro che faccia una fine tragicissima e super umiliante, tipo quella di Tywin. (che però era un bellissimo personaggio a differenza sua)
Riuscirà il nostro prode (??????????) Sandor a non cedere alla tentazione di fotter-- ehm... *coff-coff* intendevo... di dare sfogo ai suoi istinti primordiali? Lo scopriremo al prosismo capitolo. *musica di Beautiful in sottofondo*


Bacioni, e buon anno nuovo! 

P.S: come al solito, vi lascio il mio link Facebook – caso mai qualcuno volesse contattarmi.
Link: https://www.facebook.com/harmony.efp.9?fref=ts


 

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Capitolo 8
*** Poison & Wine ***


 
Poison & Wine 
 
 
 
 
 
Now and then when I see her face
She takes me away to that special place
And if I stared too long
I'd probably break down and cry
 
 
 
 
 
C’è un terribile tanfo di sangue e di piscio nell’aria. Non so chi di questi stronzi se la sia fatta addosso prima di perdere la testa, ma la cosa mi fa comunque godere come un maiale. Paura. Cosa c’è di più eccitante del vedere lo sguardo terrorizzato di un uomo che muore sotto la lama della tua spada? Semplici carcasse che giacciono ai miei piedi, niente più che cadaveri destinati a marcire, ed io sono il macellaio che li affetta uno dopo l’altro.
 
La bambina dai capelli rossicci davanti a me trema come una foglia e piange senza ritegno. Mi ricorda qualcuno. Non ci sono volute che poche ore per trovare il gruppo di coglioni che l’aveva presa. Cosa avessero intenzione di farle era più che chiaro, considerati i suoi vestiti strappati ed i lividi che riporta sulle mani e le braccia, ma la cosa mi fa comunque venire da vomitare. Avrà sette anni, per gli dèi. Che cazzo di mente malata vorrebbe fottersi una mocciosa non credo lo capirò mai, né ho intenzione di scoprirlo. So solo che sono quasi pentito di non aver tagliato i loro minuscoli cazzi, piuttosto che le loro teste.
 
Faccio per prenderla, ma lei fugge via spaventata un attimo prima che io possa riuscirci. Imprecando sotto voce le corro dietro e l’acciuffo per i capelli; dopodiché, senza curarmi dei suoi continui strilli e piagnistei, me la carico sulle spalle.
 
«Fottuti mocciosi», mugugno fra i denti. «Fottuto uccellino e fottuto me che mi sono lasciato convincere… per i Sette Inferi, vuoi star zitta?!», le grido contro, con l’unico risultato di farla piangere persino di più. Mi passo una mano sul volto, i nervi a fior di pelle e le dita che fremono dalla voglia di chiudersi attorno alla sua gola. L’ammazzo. Giuro che adesso l’ammazzo.
 
“Tutto ciò che vorrete!”.
 
Il pensiero di Sansa che mi giura e spergiura che se avessi riportato la mocciosa dalla madre avrebbe fatto tutto ciò che avessi voluto mi fa salire un brivido lungo la schiena, e l’immagine del suo corpo nudo che si stringe al mio si fa largo fra i miei pensieri con prepotenza. Il respiro mi si spezza in gola all’immagine delle mie dita che scorrono sopra di lei – dentro di lei.
 
Ha promesso, no? L’ha detto lei. Non può tirarsi indietro. L’ha detto e adesso deve farlo, dannati gli dèi.
 
Il suo sguardo spaventato mentre Joffrey mi ordinava di fotterla mi ritorna in mente, tagliente più di cento lame di Valirya, e il mio cuore sussulta di rabbia e disgusto. Ce l’ho servita su un piatto d’argento l’occasione di farla mia una volta per tutte, la ragazzina Stark. Basterebbe un solo schiocco di dita e potrei fotterla in tutti i modi possibili in cui un uomo può fottere una donna, e avrei persino tutto il diritto di farlo. Ed io voglio farlo, dannazione, ma non così. Non in questo modo. Non se lei non è d’accordo. Perché io non sono Gregor. Sono un assassino, un cane ed un ladro, ma non uno stupratore.
 
Eppure…
 
«FOTTUTI GLI DÈI!» Un male lancinante al polso mi distrae da quei pensieri. Mi divincolo con uno strattone dalla cosa che mi ha morso e la bambina cade a terra con un tonfo. Sul mio polso adesso spicca un grosso cerchio tratteggiato di rosso, lì dove quella fottuta mocciosa ha affondato le zanne. Scuoto la mano cercando di scacciare via il dolore e con furia mi dirigo verso il punto in cui la bambina è caduta: la trovo stesa a terra, con un grosso bernoccolo sulla fronte e le guance rigate dalle lacrime, svenuta. Sono tentato di rifilarle un calcio dritto in mezzo ai denti e farlo passare per un incidente, ma lascio perdere solo perché rischierei di ammazzarla sul serio – e poi chi lo sente l’uccellino?
 
La carico sul dorso di Straniero, bestemmiando. Perlomeno adesso la finirà di lamentarsi.
 
Arrivo al villaggio dopo qualche ora. Le persone che mi scorgono passare con la mocciosa svenuta sulla sella mi guardano inebetiti, come se fossero incerti sul da farsi, e si scambiano sussurri nervosi. Mi viene da ridere quando incontro i loro occhi acquosi e sfuggenti. Provateci pure a fermarmi. Una sola parola, vermi, e sarò lieto di avere una scusa per tagliarvi la gola uno ad uno.
 
«Oh… oh, l’avete trovata! L’avete trovata!», è la voce squillante della donna di prima a stonarmi le orecchie. Tiro le redini e lei non mi da nemmeno il tempo di scendere da cavallo che prende in braccio la figlioletta e le bacia le guance, gli occhi e la fronte, piangendo di gioia e ringraziando gli dèi. Io reprimo a stento un conato di vomito e corruccio la fronte. Non mi sembra siano stati gli dèi a salvare il culo di tua figlia, dannata idiota. «Grazie, sir! Grazie, grazie, grazie!».
 
«Non sono un sir», ribatto, con una punta di fastidio nella voce. «E adesso dammi la ricompensa che mi avevi promesso».
 
Provo una soddisfazione quasi infantile quando il sorriso che le andava da un orecchio all’altro si spegne di colpo. Boccheggia un po’, stralunata, ed io roteo gli occhi e stringo le labbra impaziente.
 
Giuro che se mi ha detto una stronzata…
 
«Siete qui!», poso lo sguardo su un’altra figura molto più piccola e aggraziata. Il mio cuore manca un battito quando incontro il sorriso sincero ed emozionato che Sansa Stark mi sta rivolgendo. C’è qualcosa di diverso nei suoi occhi, un sentimento che prima d’ora non aveva mai illuminato il suo viso in mia presenza. Con lo stomaco stretto in una morsa, realizzo che si tratta di gioia. «Sapevo che sareste tornato!».
 
«”Sapevo che sareste tornato”», le faccio il verso, scendendo da cavallo. «Certo che sono tornato. Cos’è, speravi che ci restassi secco a causa di qualche moscerino Finiscila e fai in modo che la troia paghi la ricompensa che mi aveva promesso, piuttosto che perder tempo».
 
Lei mi guarda con fronte corrugata e labbra imbronciate, la gioia che aveva solcato il suo viso è svanita nel nulla. L’ho offesa. Meglio così. Non voglio che mi creda uno di quei suoi sir del cazzo. Lei rivolge uno sguardo dispiaciuto alla donna, e quella si guarda attorno con disperazione e nervosismo. Le mie dita scattano d’istinto sull’elsa della spada in un muto avvertimento: se provi a scappare sarà l’ultima cosa che farai.
 
Intuendo l’antifona, un sospiro rassegnato lascia le sue labbra sottili. «Mi dispiace, mio signore. Vi ho mentito. Non ho soldi con me, né argento… ma vi prego, capitemi, mia figlia—».
«Non me ne fotte un cazzo di tua figlia!» L’avvicino con velocità, le narici dilatate e la voglia matta di ucciderla. Lo sapevo, cazzo. Lo sapevo che erano tutte stronzate! Questa lurida puttana! Ucciderò lei e la sua mocciosa! Sguaino la spada e lei soffoca un grido terrorizzato, stringendosi al petto la figlia. Prima che possa colpirla, però, l’uccelletto mi si para davanti.
«No!», urla, spingendomi indietro. «No! Non uccidetela, pagherò io per lei!».
«Sta’ zitta, uccelletto. Hai già troppi debiti sopra la testa per potertene permettere degli altri» Faccio per scostarla, ma lei di nuovo mi spinge indietro.
«No! Per favore, no!», mi prega. I suoi occhi si posano sulla figura della donna. «Lei… lei ci offrirà un posto per la notte per ricompensarci e del cibo! Dopotutto non abbiamo ancora un posto dove stare ed io non ho intenzione di dormire di nuovo fuori e al buio! Per favore...».
Il suo sguardo è fisso sul mio, così come quello della donna-bugiarda. Entrambe mi guardano supplicanti, gli occhi lucidi di lacrime e le labbra tremolanti. I passanti mi lanciano occhiate fugaci e indignate, qualcuno di loro bisbiglia di chiamare le guardie. No, cazzo. Non chiamerete proprio nessuno.
«Questa tua gentilezza ti farà uccidere, lo sai, vero?», rinfodero la spada, reprimendo a fatica un grugnito di stizza. «Bene, allora».
 
Sansa tira un sospiro di sollievo e lo stesso fa la donna accanto a lei. Non dice nulla, ma mi guarda con occhi colmi di delusione quasi a volermi dire: “Perché devi sempre essere tanto crudele?”. Serro i pugni lungo i fianchi, costringendomi ad avanzare dietro la donna che mi lancia occhiate fugaci e timorose e ci fa segno di seguirla. Ci avviamo verso quella che ha tutta l’aria di essere una locanda da cui provengono schiamazzi e canzoni stonate. Con un cenno del capo, intimo all’uccelletto di alzare il cappuccio del mantello e lei ubbidisce.
 
«La mia casa è in condizioni pessime, miei signori, ed il cibo è anche peggio. Tuttavia conosco il proprietario di questa taverna: sono certa che vi lascerà alloggiare senza farvi spendere un soldo quando saprà cosa avete fatto per me. Se volete seguir—» L’afferro per un braccio e mi chino verso di lei, il mio volto a pochi centimetri dal suo. 
«Prova ad ingannarci o a combinare casini, donna, e ti prometto che sarà quella tua dannata mocciosa a rimetterci la testa. Sono stato chiaro?».
 
Lei annuisce terrorizzata e per un istante sono certo che stia per scoppiare a piangere. La lascio di scatto, certo che farà come le ho detto, e lei corre all’interno della locanda. L’uccelletto si volta con rabbia verso di me, gli occhi assottigliati in due fessure azzurre e i pugni serrati lungo i fianchi, e mi scocca un’occhiataccia.

«Perché dovete sempre essere tanto odioso?! Stava solo cercando di aiutarci!».

Io mi avvicino, minaccioso, ma lei non si ritrae: i suoi occhi sono ghiaccio che brucia e la voglia matta di baciarla mi consuma dall’interno, rendendomi persino più irritato di prima. Digrigno i denti, il mio viso è così vicino al suo che basterebbe un solo passo per premere le mie labbra sulle sue... e solo gli dèi sanno quanto vorrei poterlo fare.

«Ringrazia che non l’abbia squarciata in due, ragazzina. Ci sono tante cose che detesto a questo mondo ma i bugiardi sono fra i primi della lista, pensavo di avertelo già detto. Adesso smettila di cinguettare, tira più su quel cappuccio ed entra».
 
Sulle sue labbra rosate danzano una decina di risposte, tuttavia non un suono esce dalla sua bocca. Si volta di scatto, impettita, ed entra in fretta e furia all’interno della locanda. Con le dita che mi tremolano di rabbia e desiderio, la seguo: una stanza stantia e piena di tavoli colmi di gente ubriaca mi si para davanti. Se non fosse per il fatto che ormai è troppo tardi per cercare un altro posto dove stare, me ne andrei di corsa. Non mi piace questa gente: so come sono le persone ubriache – io lo sono per la maggior parte del tempo – e so anche che una ragazzina come Sansa Stark non è adatta ad un luogo del genere. D’istinto le poso una mano sulla spalla, in un chiaro avvertimento a tutti coloro che la stavano osservando come se fosse stata un dolce, e godo nel vedere quei loro volti pallidi contrarsi in una smorfia.

Toccatela e vi ammazzo uno per uno.
 
Sansa non parla, nonostante sia evidente che non si senta a suo agio, e più per la voglia di farle dispetto che per altro rafforzo la mia presa su di lei, che arrossisce senza ritegno. Un sorriso sghembo mi incurva le labbra. È proprio una di quelle verginelle che si imbarazzano per la minima cazzata.
 
Davanti a noi, la troia di prima bisbiglia qualcosa all’orecchio di quello che ha tutta l’aria di essere il proprietario della locanda. Lui ci squadra, la troia sussurra un’ultima cosa al suo orecchio; lui annuisce, osserva con evidente paura la mia cicatrice e deglutisce a vuoto, per poi fingere un sorriso di circostanza. «Siete i benvenuti, miei signori. Vi ringrazio per quello che avete fatto per Helga, la mia cara amica. Se volete qualcosa non dovete far altro che chiederla».
 
«Vino», rispondo. Sì, il vino è proprio quello che ci vuole. «Tanto vino. E del cibo e dei letti puliti. Muoviti».
 
Lui annuisce, scambia un’ultima occhiata con la troia di prima e poi torna dietro il bancone a dare ordini ai servi. Helga si avvicina a noi, lo sguardo basso e imbarazzato. La mocciosa che tiene fra le braccia non si è ancora svegliata, ma respira molto profondamente. Di sfuggita, noto che ha lo stesso naso della madre.
 
«Ora io vado. Non potrò ringraziarvi mai abbastanza per aver salvato mia figlia».
«Siamo lieti di essere stati d’aiuto», replica Sansa, accarezzandole un braccio con delicatezza. Io roteo gli occhi. Lieta lo sarai stata tu che non hai fatto un cazzo. «Buona fortuna a voi e vostra figlia, e grazie per averci procurato un luogo dove dormire».
«Mi pento solo di aver fatto troppo poco. Buonanotte, miei signori.» Si congeda – finalmente – la troia bugiarda. Sono ancora tentato d’ucciderla, le mie dita accarezzano l’elsa della spada con voluttà, ma scaccio subito via quell’idea: non devo causare casini o arriveranno le guardie.
 
L’uccelletto va a sedersi presso un tavolo dal legno consumato dalle termiti e che non é apparecchiato. Dopo alcuni minuti passati in completo silenzio, il tizio grasso che stava dietro al bancone porta un otre pieno di vino e dello stufato che puzza di cipolla e di pesce. L’odore è disgustoso ma, a differenza dell’uccelletto che si limita a giocherellarci col cucchiaio, riesco a mandarlo giù.
 
«Non fare tanto la schizzinosa. Con molte probabilità sarà l’ultima cosa che mangerai per un bel pezzo».
«Ha un odore orribile…» Si lamenta lei, e all’improvviso mi ricordo che io detesto le persone che si lamentano.
«Cosa credevi? Che avremmo mangiato torte al limone e dolcetti al miele?», mando giù un po’ di vino. Perlomeno, questo è buono. «Non sei molto furba tu, nevvero?».
Le sue labbra si assottigliano così tanto da divenire un sottilissimo filo rosato. «Smettetela. Non avete il diritto di parlarmi così!».
«Ho il diritto di avere una ricompensa per aver salvato quella mocciosa, però. “Tutto ciò che vorrete”, ricordi?», mi pento subito di averlo detto. Volevo evitare questo discorso, e invece eccolo spuntare di nuovo assieme ad un terribile calore al basso ventre. Non so se sia dovuto al vino, ma ciò che è certo è che darei un braccio per strapparle i vestiti di dosso. Mando giù un altro sorso, poi sbatto il calice sul tavolo e mi piego verso di lei. «… O forse hai dimenticato?».
 
Se non fossi certo del contrario, direi che quella che ho di fronte è una statua di cera. Sansa è sbiancata di colpo, tutto il suo corpo si è irrigidito come pietra, le sue dita trotterellano con insistenza sulla superficie del tavolo. È assurdo e moralmente sbagliato, eppure questa situazione non fa che eccitarmi ancora di più. È colpa del vino, mi ripeto. Devo smetterla di bere questa roba.
 
«Allora, uccelletto? Non cinguetti più?».
«I-Io non ho dimenticato» Pigola lei, il suo labbro inferiore tremola. «Cosa… cosa volete che faccia?».
 
Voglio che ti spogli e che mi consenta di farti mia, proprio qui su questo tavolo che sa di muffa e polvere. Voglio baciarti e fotterti fino alla fine dei tempi, sapere che sapore hanno le tue labbra. Voglio te, uccelletto. Voglio solo te.
 
Riempio il suo calice di vino, poi glielo porgo. «Tieni», lei mi guarda senza capire. «Bevi».
 
 
 
 
«B-Bere?».
«Sì, uccelletto, bere. Quella cosa che fai quando hai sete. Puoi farlo?».
«I-Io sì, sì, posso ma…».
«E allora prendi questo cazzo di bicchiere e scolatelo tutto in un sorso».
 
Sono confusa e non mi do alcuna premura di nasconderlo. Che significa tutto questo? Vuole farmi bere del vino? Perché? Si tratta di una trappola? Vuole farmi ubriacare per farmi del male? No, no… lui non mi farebbe mai del male, lo so bene, eppure non riesco proprio a capire dove vuole arrivare.
 
«Allora?! Vuoi mantenere questa promessa, sì o no?», la sua voce raschiante come ferro battuto mi fa sussultare. Lui non sembra molto felice della cosa. «Ti ho già detto che odio i bugiardi, mi pare… sei una bugiarda oltre che una scema, uccelletto?».
«Non sono una bugiarda», con dita tremanti mi costringo ad afferrare il calice di vino. Se bevuto con lentezza fa meno male, diceva la mia septa, ma lei finiva comunque con l’ubriacarsi ogni volta. Io non farò come lei. Rimarrò sobria, come si addice ad una vera lady. «Berrò, se è questo che desiderate».
 
Prendo un grande respiro e mi costringo a bere: il vino scende veloce nel mio stomaco, lasciando una lunga scia calda dietro di sé, e con sollievo realizzo che non è poi così disgustoso. Il mio sguardo si posa sulla figura di Sandor Clegane ed il mio cuore perde un battito quando incrocio i suoi occhi: c’è un non so che di penetrante nel modo in cui mi guarda, quasi di famelico. Sotto la luce delle lanterne, la sua cicatrice sembra assumere i colori del sangue. Prendo un altro bicchiere, poi un altro e poi un altro ancora finché la testa non mi gira a tal punto che credo di svenire. Quando poso il calice ormai vuoto, lui mi rivolge un sogghigno sarcastico.
 
«Tutto qui? Non riesci a berne dell’altro?» Domanda in un sussurro. Uno strano calore al petto mi fa tremare le ginocchia e le dita, lo stomaco mi si chiude in una morsa. Scuoto la testa: non posso berne dell’altro. È fuori discussione.
«La mia septa diceva che—».
«La tua septa è morta, ragazzina. Bevi altro vino se non vuoi fare la sua fine» La sua voce è dura e crudele e per un momento mi ritrovo ad odiarlo per questo. Non voglio bere altro vino, non può obbligarmi. Perché non può semplicemente lasciarmi in pace?
«Perché volete che ne beva così tanto? Che piacere ne traete?» Sbotto ad un tratto, stufa di questa situazione. Lui mi rivolge un ghigno canzonatorio, mi si avvicina e mi prende il mento tra le dita: la sua stretta è forte e le mie guance si tingono di rosso. All’improvviso sento caldo dappertutto: nella schiena, nelle gambe, nella testa e nel basso ventre, e l’unica cosa che vorrei fare e correre a nascondermi per la vergogna. Ma cosa mi prende?
 
«La tua septa non ti ha mai spiegato perché gli uomini bevono tanto, ragazzina?».
 
Sì che l’ha fatto. Mi aveva detto che gli uomini bevono per stare meglio e per non sentire il freddo, che bevono quando vogliono far baldoria e quando vogliono dimenticare qualcosa, ma sono altre le parole che lasciano le mie labbra.
 
«No. Non l’ha fatto», rispondo, per il puro gusto di contraddirlo. Le mie labbra sono secche. Le lecco per umettarle, socchiudendo gli occhi ora diventati improvvisamente pesanti. «Perché lo fanno, mio signore?».
 
 Il suo viso si fa più vicino al mio e l’odore del vino e del sangue mi investe in pieno. Le sue dita possenti si posano sui miei capelli, attorcigliandosene una ciocca attorno, ed un brivido mi sale lungo la schiena. Con sgomento, mi accorgo che non si tratta di un brivido di paura. La sua mano sinistra risale lenta lungo il mio collo, il respiro mi si mozza in gola e il mio cuore batte così forte da far male. Sospiro, assuefatta da tutti gli odori e le immagini che mi circondano, mentre il volto deturpato del Mastino si avvicina di più al mio. Le parole lasciano le mie labbra prima che possa fermarle. «Cosa state facendo?».
 
Lui spalanca gli occhi di colpo, si allontana da me come scottato, gli occhi grigi pieni di muto terrore e la fronte aggrottata. Si alza in fretta e furia avviandosi verso il bancone, poi sale di sopra senza dire una parola. Non faccio in tempo a capire cosa sia accaduto che lui è già sparito, lasciandomi qui da sola con un calice di vino tra le dita ed uno strano senso di disorientamento nel petto.
 
Meglio così, no? Stava per baciarti, dopotutto.
 
Una parte di me, quella ancora lucida, annuisce a quel pensiero ma ad un tratto gli occhi grigi del Mastino mi si parano dinanzi, pieni di rabbia e di qualcos’altro che non gli avevo mai visto addosso, e lo stomaco mi si annoda in una morsa. Posso ancora sentire il calore delle sue mani che mi accarezzano il braccio, il cuore che mi batte così forte da far male, il calore al bassoventre che brucia come fuoco. Per una ragione a me sconosciuta, mi viene da ridere mentre tutto attorno a me inizia a girare e ad apparire sfocato. Provo ad alzarmi in piedi ma le ginocchia cedono prima che possa riuscirci. La situazione è così disperata che non riesco proprio a trattenere le risate. Dèi, se mi vedesse mia madre!, penso, ma al suo ricordo il sorriso che mi incurvava le labbra si tramuta in una smorfia d’angoscia. Un singhiozzo mi scuote le spalle ed io affondo il volto nel tavolo. La testa mi gira, gira, gira in un caleidoscopio di suoni, ricordi ed immagini, e le lacrime mi bagnano le guance.

«Perché piangi, dolcezza?», alzo lo sguardo ed incontro quello d’un uomo che non conosco, con zigomi alti ed un sorriso sbilenco che gli va da un orecchio all’altro. Vedo doppio e un po’ sfocato, tuttavia riconosco che quegli occhi non sono quelli del Mastino. Vorrei urlare e scappare via, ma la mia testa è troppo pesante e le mie gambe non collaborano. Lui mi tira con violenza verso di lui, facendomi perdere l’equilibrio, e le sue mani sono improvvisamente ovunque: sui fianchi sulle cosce e sul seno. Non riesco a reagire, la testa mi gira troppo e attorno a me è tutto sfocato e nebuloso. Dov’è il Mastino? Perché non è qui? Voglio andare a casa. Dov’è mio padre? Dov’è Robb? Perché mi lasciano tutti da sola? «Ti farò dimenticare tutto io, carina. Non piangere, vedrai che passerà tutto».
 
Solo quando le sue labbra viscide premono con violenza sulle mie ed il sapore amaro dell’aglio e del vino mi inonda la bocca, riesco a trovare la forza necessaria per allontanarmi e gettare un urlo. Evidentemente riesco ad attirare l’attenzione di tutti i presenti, perché all’improvviso nella locanda c’è un gran fermento e tutto gira ancora di più. L’uomo mi lascia di colpo, il suo sapore nauseante è ancora nella mia bocca, ed io faccio appena in tempo a capire cosa sta succedendo che cado seduta su una panca, troppo scossa per restare in piedi. La nausea mi sale alla gola così acida da farmi rimettere quel poco di zuppa che ho trangugiato poco prima. Ora, invece di un semplice mal di testa ho un terribile mal di testa.
 
Un tonfo sordo rimbomba nella sala. Alzo lo sguardo: il tizio di poco prima è steso a terra con la mascella spaccata e le mani tremanti, continua ad urlare e piagnucolare ma il gruppo di uomini che gli è accanto non osa fare nulla per aiutarlo. Mi rendo conto che la loro attenzione è rivolta a qualcos’altro, o meglio qualcun altro. Quando lo sento parlare – «Pulite subito questo schifo» – comprendo che si tratta del Mastino.

«Dieci minuti, ragazzina. Ti ho lasciata da sola per dieci fottuti minuti e guarda che cazzo hai combinato!» Dice, prendendomi per i fianchi e caricandomi sulle sue spalle. Le lacrime mi salgono agli occhi tutte assieme e mi lascio andare in un pianto liberatorio che gli bagna la cotta di ferro.
 «M-Mi dispiace, è… è… è tu—tta colpa m—ia».
«Puoi scommetterci che è colpa tua! Ora dovremo andarcene. Presto arriveranno le guardie per colpa di tutto questo casino e… e piantala di piangere!».
 
Ci provo, ma l’idea di dover di nuovo dormire all’aperto mi riempie d’un’angoscia così devastante da farmi lacrimare ancora di più. Singhiozzo che mi dispiace, che non era mia intenzione causare tutti questi problemi, ma l’unica risposta che ottengo da parte sua è quella che se non la smetto di frignare mi colpirà così forte da farmi stare zitta per sempre. Solo dopo qualche lunghissimo minuto riesco a calmarmi un po’ e ragionare con lucidità. La testa sembra scoppiarmi. Ad un tratto arriviamo nel punto in cui avevamo lasciato Straniero, gli montiamo in groppa ed in fretta ci dirigiamo lontano dal villaggio: non so dove siamo diretti, forse a Fairmarket che è il luogo più vicino a Riverrun e dove ci sono meno possibilità di incontrare soldati dei Lannister, ma al momento sono troppo esausta per pensarci.
 
Sembrano passare interi giorni prima di arrivare in quella che ha tutta l’aria di essere una grotta dove poterci riparare per la notte. Non so che ore siano, ma il cielo è ancora scuro e l’unica luce è quella della luna che illumina il bosco ed i nostri visi. Il Mastino mi dice che sono una ragazzina inutile e che porta solo guai, poi si slaccia il mantello e me lo tira addosso dicendomi di indossarlo se non voglio morire di freddo. Faccio come mi dice e, attraverso la stoffa, il suo odore di vino e sangue mi riempie le narici; un odore a cui ormai sono affezionata e che mi fa sentire, in un certo modo, al sicuro.
 
Scende un silenzio che pare di marmo. La sbornia è andata via, adesso resta solo un terribile mal di testa. Sono io a prendere la parola per prima, e la mia voce risuona ancora un po’ cantilenante e instabile.
 
«Perché prima siete scappato via?» Solo adesso mi rendo conto che questa domanda è molto impertinente e non adatta ad una lady. Lui ricambia il mio sguardo e nei suoi occhi leggo smarrimento e incertezza, come chi si trova di fronte ad un bivio e non sa che strada percorrere.
«Che te ne frega? Non mi sembra gradissi molto la mia compagnia, comunque» Ribatte infine, ma è evidente che ho colpito un nervo scoperto. Per un istante rimango in silenzio, ancora imbarazzata per essere stata tanto impertinente, ma l’attimo dopo le parole lasciano le mie labbra prima che possa fermarle.
«Vi sbagliate», sussurro, ed il calore al basso ventre ritorna più forte di prima quando ripenso alle sue dita che scorrono sulla mia pelle. «Io non disprezzo affatto la vostra compagnia».
 
Nonostante l’oscurità, sono certa di veder balenare un lampo di sorpresa nel suo sguardo imperscrutabile. Il Mastino si volta verso di me, mi guarda per un tempo che pare infinito – come se volesse capire se sto dicendo la verità o meno – e poi torna a guardare altrove.
 
«Va’ a dormire, uccelletto. Sei ancora ubriaca».
«No!», salto in piedi, ancora un po’ traballante. «Perché dovete comportarvi così? Perché prima vi comportate in un modo e… e poi—».
«E tu perché non riesci a tenere chiusa la bocca? Cosa vuoi che me ne importi se la mia compagnia ti aggradi o meno? Io voglio solo prendere il mio fottuto oro e andarmene. Non mi piacciono le ragazzine, soprattutto quelle come te che non fanno altro che procurarmi guai».
 
A differenza delle altre volte, le sue parole mi colpiscono come un pugno in pieno petto. Un groppo alla gola mi impedisce di parlare, di cercare una nota di menzogna nei suoi occhi, e all’improvviso mi sento così ferita da non riuscire quasi a respirare. Le lacrime mi pizzicano gli occhi ma la tristezza è troppa persino per piangere. Non riesco più a sostenere il suo sguardo. Con l’ultima briciola di fierezza che mi è rimasta gli do le spalle e mi allontano. Non mi farò vedere da lui in questo stato. Non gli darò questa soddisfazione.

«Dove credi di andare?», mi urla dietro lui. Io accelero il passo. «Vuoi farti sbranare dai lupi, forse?!».
«Lasciatemi in pace! Andate via!» Urlo in risposta, la voce spezzata dall’angoscia. Non ho idea di dove sto andando, né perché mi senta così male se ripenso alle parole che mi ha rivolto. È un assassino, mi dico, un bruto che uccide per divertimento e che non prova sentimenti per nessuno, ed io lo odio. So di odiarlo. Devo odiarlo. La testa mi scoppia. Tutto gira, gira, gira… persino mettere un piede davanti all’altro risulta difficile.
 
Lo odio. Voglio che vada via, che non torni mai più. Lo odio, lo odio, lo odio!
 
Il respiro mi si mozza in un gemito strozzato quando le sue dita mi afferrano un braccio facendomi turbinare verso di lui. La luce della luna illumina il suo viso ma le ombre nascondono la parte bruciata del suo volto, i suoi occhi luccicano d’ira e di qualcos’altro, qualcosa che non riesco a capire. Mi strattona in avanti ed io punto i piedi nel terreno per non cedere, gli grido contro di lasciarmi in pace, che non voglio più vederlo e che lo odio, ma lui non demorde e rafforza la presa sulle mie braccia.
 
«Lasciatemi! Non voglio più vedervi! Chiamerò le guardie, loro vi uccideranno e…».
«E poi cosa, uccelletto? Ti prenderanno e taglieranno la testa anche a te per aver ucciso Joffrey!».
«Io non ho ucciso Joffrey! Siete stato voi a farlo!».
«Sì, e sono certo che la cosa ti ha recato tanto dolore, nevvero? Perché fai tante storie? Che cazzo te ne frega di quello che penso di te?! Tu vuoi solo tornare dalla tua dannata madre e sposare uno di quei finocchi in armatura che ti piacciono tanto!».

Mi districo dalla sua stretta con uno strattone deciso, le lacrime appese alle ciglia che minacciano di cadere da un momento all’altro. La testa non smette di girarmi, il battito del mio cuore è così forte da rintronarmi nel cervello.
 
TuTum.. TuTum… TuTum…
 
«Sapete? Credevo che ci fosse qualcosa sotto quel soprannome che tanto vi piace darvi, che foste più di un semplice assassino e che almeno voi… che almeno voi foste diverso da Joffrey e da tutti gli altri! Ma mi sbagliavo…», non riesco più a trattenere le lacrime. Lui mi osserva con fronte aggrottata, gli occhi grigi fissi sui miei, ed io mi mordo forte l’interno guancia. «Siete proprio come tutti gli altri: egoista e bugiardo. Se solo aveste pensato che qualcuno in questo mondo può volervi bene, che non tutti credono che voi siate un mostro solo a causa della vostra faccia, forse voi… forse—».
 
Le sue labbra premono sulle mie con prepotenza, le sue dita si stringono attorno alle mie braccia con forza ed il suo corpo si preme contro il mio quasi con dolore. Mi bacia con disperazione, come se non aspettasse altro da tempo, e all’improvviso tutta la mia rabbia, la paura e la tristezza che mi stringevano il petto si destano per lasciare il posto ad un’euforia violenta e scalpitante. La sua barba mi solletica le guance, la sua lingua ha il sapore del vino e del ferro, e all’improvviso non è più Sandor Clegane il Mastino colui che mi sta baciando, ma Sandor Clegane l’uomo che mi ha salvata da Approdo del Re, che mi ha aiutata quando ero in pericolo e che mi ha teso una mano quando ero sola contro tutti.

Per un attimo cedo al bacio, rispondendo con timidezza, finché all’improvviso lui si allontana di getto come se si fosse scottato. Mi dà le spalle, il suo fiato è pesante e strascicato, ed il mio cuore batte così forte che sono certa che persino lui possa sentirlo. Non capisco cosa sia successo, non lo realizzo… la mia testa gira troppo, tutto il mio essere, anima e corpo, sembrano andare a fuoco. Un sospiro lascia le mie labbra.
 
«La promessa che mi avevi fatto prima che recuperassi la mocciosa», la voce di Sandor Clegane è un rantolo che si perde nell’oscurità della notte, ma io riesco ad udirla comunque. «Considerala mantenuta», si volta verso di me. I suoi occhi incontrano i miei, grigio contro azzurro, ed il dorso della sua mano mi sfiora una gota con la stessa gentilezza con cui mi aveva asciugato il sangue dalle labbra ad Approdo del Re. «… uccellino», mormora a denti stretti. Trattengo il respiro e chiudo gli occhi, certa che stia di nuovo per baciarmi, ma non accade niente. Quando li riapro, lui è già lontano.
 
Mi sfioro le labbra, il sapore della sua lingua è ancora nella mia bocca. Le mie guance si tingono di rosso ed il mio cuore perde un battito, mentre tutto di me sembra andare a fuoco.

Non volevo che quel bacio finisse.
 




- Note dell’Autrice
  1. La canzone all’inizio del testo è Sweet child o’ mine, dei Guns n’ Roses.
  2. Per il titolo ho utilizzato una canzone dei The Civil Wars, Poison&Wine, che reputo perfetta per questo capitolo.
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Eeeee ce la fece! :,D
Ciao a tutti! Avete passato bene le vacanze? Mi auguro che le vostre siano state più produttive delle mie, che le ho passate tutte a letto e davanti al pc. Ahaha
Per questo capitolo ho messo più tempo del solito nel pubblicarlo perché volevo che fosse il più perfetto possibile. L’ho fatto revisionare da una ragazza bravissima ,
Amy Dickinson -la quale inoltre ringrazio moltissimo sia per il sostegno che mi sta dando per questa fanfiction e sia per essere sempre tanto gentile con me -, e ho cercato di correggere tutti i possibili errori.
Sandor ha finalmente ceduto al desiderio di baciare Sansa, e lei adesso inizia a porsi un bel po’ di domande al riguardo. Spero come al solito di essere rimasta IC (a proposito: ho adorato descrivere Sansa ubriaca XDD)

Ci rivediamo al prossimo capitolo, grazie mille ancora a tutti coloro che mi seguite e lasciate un segno del vostro passaggio. Siete l’amore. Grazie, grazie e grazie ancora!

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Capitolo 9
*** Brotherhood Without Banners ***


 
Brotherhood Without Banners
 
 
Noi siamo il popolo eterno 
Fratello della miseria 
Non toccherete da noi nessun cielo né Inferno 
Non c'è Inferno né cielo 
C'è il marcio, ecco che c'è 
In questo marcio ci siamo noi vermi di terra 
 

 
Sono state tante le notti che ho passato senza dormire:  la notte in cui Gregor mi aveva premuto la faccia contro la brace, per esempio; o la notte in cui Alina era morta o quando, ad Approdo del Re, dovevo far la guardia alle camere di quell’idiota di Joffrey. Sono rimasto sveglio diverse notti e per diversi motivi, ma mai per aver baciato una donna – o meglio, una ragazzina che odora ancora d’estate.

È accaduto tutto così in fretta che ancora fatico a capacitarmene. È assurdo, cazzo. Il solo pensiero che io possa davvero aver baciato la ragazzina Stark lo è. Eppure, se chiudo gli occhi, sento ancora le sue labbra sulle mie, la sua pelle sotto le mie dita, il profumo dei suoi capelli... Aah! È inutile girarci attorno. La verità è solo una: io, la dannata ragazzina Stark, l’ho baciata sul serio e non c’è niente che possa fare per cambiare le cose.

Non so cosa mi abbia spinto a farlo. Per gli dèi, ho trascorso due anni, dannazione, due lunghissimi anni a trattenere il cazzo nei pantaloni quando la vedevo passare per i corridoi di Approdo del Re, ad evitare di incrociare il suo sguardo troppo a lungo, a fare in modo che nessuno le facesse del male e poi… e poi succede questo. Un bacio, maledizione, un fottutissimo bacio! E tutto solo perché non ho saputo resistere a quegli occhioni languidi, alle sue labbra rosse, alla sua vocina rotta dal pianto… ‘fanculo!

Do un calcio ad una pietra e questa rimbalza contro il tronco di un albero. Fanculo. ‘Fanculo, cazzo! ‘Fanculo a tutto: all’uccellino, al bacio che le ho dato ed a tutto il cazzo di mondo. Che io sia dannato! Perché mi preoccupo tanto? È colpa sua, non mia. Se lei fosse stata zitta e non fosse scappata via a quel modo, se non fosse stata tanto bella e se non mi avesse detto quelle dannate parole nulla di tutto questo sarebbe mai successo ed io starei dormendo tranquillo e senza alcun pensiero per la testa! Io non c’entro niente con tutta ‘sta merda. Io voglio solo prendere il mio oro e—

«No… », sussulto: è la voce di Sansa. Mi volto verso di lei, il cuore che sprofonda nello stomaco al pensiero che mi abbia sentito, e la trovo rannicchiata nel suo giaciglio tutta attorcigliata nel mio mantello bianco macchiato di sangue. Le sue labbra sono distorte in una smorfia impaurita. Sta avendo un incubo, realizzo, e la furia si placa di colpo. Mi chino verso di lei, studiandone i lineamenti delicati. Come fa? Come riesce ad essere tanto bella? «No… no, non voglio. Vi prego, sir…».

Sir.

Ho sempre detestato questa parola, ma adesso la odio quasi quanto odio mio fratello. Una vocina fastidiosa mi urla nelle orecchie che sono io il sir che sta sognando, io quello che le sta facendo del male – che le ha  fatto del male – e la sensazione di ricevere un pugno in pieno stomaco è insopportabile. Come ho potuto farlo?! Avevo promesso che l’avrei protetta, che avrei ucciso chiunque avesse voluto farle del male, ma a quanto pare sono proprio io il mostro da cui deve stare in guardia. Finirò per farle del male se resto, ed io non voglio. Non sono Gregor, cazzo, non sono come lui!  Devo andare via da qui. Adesso.

Mi allontano da lei, dalla foresta e da tutto ciò che mi ricorda quel dannato di bacio. Non so per quanto ho corso, ma ho il fiatone e la mia testa sembra impazzire. Mi accascio contro il tronco d’un albero, il cuore in gola e le ginocchia che tremano. Chiudo gli occhi e rivedo i suoi occhi azzurri, le sue labbra rosee che premono contro le mie, i suoi capelli che si annodano fra le mie dita. Mi passo una mano sul volto, respirando a fatica. Il desiderio di fottermene di tutto e correre lì e farla mia è più di quanto il mio corpo possa sopportare.

È tua. Prendila.
No. No, non le farò del male.
È lì. Nessuno lo verrà a sapere, nessuno potrà biasimarti – dopotutto, te lo deve, no? Dopo tutto quello che le hai dato…
No, no… Basta. Taci. Taci!
È tua…
No, ho detto che non le farò del male!

Nella mia mente si fa vivida l’immagine del suo corpo nudo contro il mio - posso quasi sentirne il calore sotto le dita - e l’armatura diventa improvvisamente ingombrante e fastidiosa. Rivoli di sudore freddo mi imperlano la fronte, il calore al basso ventre diventa insostenibile. Non ce la faccio più. Non mi basta più solo un bacio, adesso. Voglio di più. Voglio lei.

… È tua.
È mia.

Ma è solo quando sono a pochi metri da lei, il cazzo in mano e una voglia spietata di prenderla come avrei dovuto fare già molto tempo prima, che sento le sue parole. Questa volta non è un gemito sconnesso quello che esce dalle sue labbra, né una supplica. È qualcosa di molto di più, qualcosa che non mi aspettavo e che mi arriva addosso come una secchiata d’acqua gelida.

«Sandor…».

È il mio nome.

All’improvviso, senza che io l’abbia premeditato, senza che riesca a fermarmi, è la corteccia d’un albero quella che sto colpendo con tutte le mie forze. Non sento il dolore alle nocche mentre lo faccio, né il sangue che scorre sulle mie mani. No. È la rabbia quella che mi preme sotto le unghie, che mi fa scoppiare il cuore di collera e mi fa vedere tutto rosso. Come ho potuto anche solo pensare una cosa del genere?! Come ho potuto andarci così vicino?! Sferro un altro pugno e gran parte della corteccia dell’albero si scortica via, il dolore alle dita inizia a farsi sentire  ma non mi importa… non importa…

Quando sono troppo esausto e dolorante per continuare, il sole sta sorgendo ed il crepuscolo designa il cielo con i colori dell’arancio e del blu. La corteccia dell’albero è stata quasi completamente rimossa, diverse schegge di legno sono sotto la mia pelle ed il sangue scorre grumoso sulle mie dita. Non sono rotte, posso ancora muoverle, tuttavia sono messe male e non so se riuscirò a tenere la spada. Digrigno i denti, pentendomi di quello che ho fatto. Senza spada non potrò proteggere né me né l’uccellino.

In culo anche la spada.

Quando torno all’accampamento strappo via un pezzo di stoffa dalla mia casacca e cerco di ripulirmi al meglio possibile. Niente da fare: le dita restano comunque rigide e gonfie, adesso persino chiuderle mi fa male. Solo dopo aver disinfettato le ferite con del vino rosso riesco a muoverle un po’ meglio, seppur con difficoltà. L’uccellino, avvolta dentro il mio mantello, continua a dormire ignara di tutto. Sembrano passare delle ore prima che il sole inizi a mostrarsi.
Un mugugnare indistinto mi avverte che lei si sta svegliando. Sono tentato di prenderla in giro per averci messo tanto, ma mi ferma il pensiero di quello che è accaduto ieri. Si alza, stiracchia le braccia al cielo e si strofina gli occhi finché non mette a fuoco l’ambiente attorno a lei; poi mi fissa per un po’, inebetita, e diventa rossa come i suoi capelli.

«B-Buongiorno».
«Muoviti», faccio una smorfia, alzandomi per dar da mangiare a Straniero. «Non mi va di aspettare che faccia mezzogiorno. Dobbiamo partire subito».

Lei fa per ribattere qualcosa ma non un suono lascia le sue labbra. Imbronciata, prende il mio mantello e lo fissa per un po’, poi lo piega e me lo porge con titubanza. Le sue guance sono rosse come i suoi capelli, forse persino di più, ed è quasi irritante realizzare che questo non fa altro che renderla più bella.

«Grazie» Sussurra, e qualcosa nel modo in cui pronuncia quelle parole mi fa salire un brivido lungo la schiena. Nel silenzio che segue mi accorgo del suo sguardo accigliato sulle mie dita ed un nodo alla gola mi spinge a nasconderle nella tasca dei miei pantaloni. Cosa direbbe se sapesse di come me le sono procurate? No, non voglio che capisca, che sappia dei pensieri che faccio su di lei… che pensi che sia un mostro.
Distoglie lo sguardo. «Dove siamo?», chiede. Ha sviato il discorso. Brava ragazza.
«Non lo so. Vicino le Torri, presumo. Wendish Town, forse; quest’umidità maledetta dovrebbe essere parte integrante del posto».
«Dopo che mi avrete riportato a casa…», la sua voce è un pigolio appena percepibile, le sue guance si imporporano come tulipani. «Voi…  insomma, avete proprio deciso che ve ne andrete?».
«Aye», sono stufo di riprendere questo argomento. «Quante volte dovrò ripetertelo prima che ti entri in testa?».
«Non volevo essere insolente», dice lei, torturandosi le dita. «È solo che… ecco… mi farebbe piacere avervi a Grande Inverno», il suo sguardo si fa vacuo, colmo d’imbarazzo, ed io aggrotto la fronte senza riuscire a capire. Mi sta davvero chiedendo di restare? «Insomma, quello che intendo è che… ecco… mi avete salvato la vita tante di quelle volte che starei male se sapessi che vi fosse accaduto qualcosa».  

Se prima avevo pensato di odiarla e di non volerla più vedere, adesso la detesto anche più di Gregor. Come osa chiedermi una cosa del genere?! A me, dopotutto quello che sto facendo per non pensare a lei, alle sue dannate labbra, alla sua pelle che odora di pulito, a trattenermi dal prenderla e fotterla come se non ci fosse un domani! Il cuore sembra scoppiarmi nel petto, palpitando così forte da far male. Voglio baciarla. L’ho già fatto una volta, perché non posso farlo di nuovo? E lei mi sta dicendo che vuole stare con me, che non vuole che me ne vada e… dannazione, nessuno lo aveva mai fatto prima! Nessuno mi aveva mai chiesto di restare, mentre lei … lei vuole che rimanga, che stia con lei a Grande Inverno, che la protegga. Ed io voglio restare con lei - oh, lo sa il cielo se voglio farlo. Lo voglio così tanto, così tanto…

“Vi prego, sir…”

Il ricordo di quelle parole così cariche di paura e angoscia mi colpisce come un pugno nello stomaco. All’improvviso capisco di essermi sbagliato, che lei non mi ha mai voluto e che quelle frasi non sono altro che degli stupidi cinguettii che ha imparato a memoria dalla sua septa. Sta solo cercando di essere gentile per potersi vantare con la sua famigliola del cazzo di essere rimasta la solita madamigella del cazzo che aspetta il Cavaliere dei Fiori e che tratta con dolcezza i deboli e i cattivi. Non gliene importa niente se resto o meno. Stringo i denti, le unghie che mi si conficcano nei palmi delle mani fino a far male. Fottuta ragazzina, pensa sul serio che basteranno quei suoi grandi occhioni azzurri  e le sue paroline gentili per farmi rincoglionire? Sono un cane, io, un mastino, e fiuto le menzogne come uno squalo fiuta il sangue… e lei è solo un uccelletto che sta giocando a fare la buona samaritana.

«Risparmiami questa ridicola messa in scena, ragazzina. Ti ho già detto una volta che non sopporto le menzogne, ricordi? E tu non sai mentire» Le scocco un’occhiataccia. Lei serra le labbra, offesa.

«Perché pensate sempre che io vi stia mentendo? Ho detto la verità. Mi farebbe davvero piacere che voi restiate a Grande Inverno! Mio fratello potrebbe nominarvi suo leale cavaliere e voi non dovrete restare da—».

«Solo, uccelletto? È questo che ti preoccupa? Sapermi solo?», le mie dita scattano sul suo braccio e lei sussulta spaventata. «Sono stato solo una vita intera. Cosa vuoi che me ne importi? Perché non provi a farti un po’ gli affari tuoi? Forse se avessi fatto così il tuo caro padre sarebbe ancora vivo, non trovi?».

«Smettetela di parlarmi così! Volevo solo essere gentile!» Bercia lei, e questo non fa che irritarmi ancora di più. Avevo ragione. Non gliene frega niente se resto o se vado via, vuole solo “essere gentile”. La mia presa si fa più stretta e prepotente, lei geme che le sto facendo male e che il mio sguardo le fa paura. La spingo lontano da me, il mio corpo è un tremito continuo; il mio respiro è diventato pesante, affaticato, e le dita hanno ripreso a formicolarmi per il dolore. La guardo: i suoi occhi sono pieni di collera eppure conservano quella bellezza del nord che l’ha sempre contraddistinta. Mi odia, ne sono certo, glielo leggo in faccia. Be’, che mi odi pure. Anch’io la odio! Odio lei, odio Gregor ed odio tutta questa pagliacciata!

«Prima non riuscivi nemmeno a guardarmi in faccia e adesso fai tutte queste dannate storie. Se per un semplice bacio voi donne diventate così irritanti, adesso capisco perché tutti quegli uomini sposati sono diventati degli emeriti coglioni!».

Al rievocare il bacio di ieri il viso dell’uccelletto si tinge di rosso e le sue labbra si tirano in una smorfia imbarazzata ed evasiva; si zittisce e si tortura il labbro inferiore con i denti. Distolgo lo sguardo dal suo nello stesso istante in cui lei lo distoglie dal mio e decido di allontanarmi. Non sopporto le ragazzine: non sopporto lei, il modo in cui mi guarda e mi parla, quasi che si aspettasse di vedermi togliere una presunta maschera da un momento all’altro. Ma io non porto alcuna maschera. Io sono così perché voglio esserlo, e lei potrà dire e pensare quello che le pare ma non saranno quei suoi occhioni dolci a cambiare ciò che sono!

«Dove state andando?» La sua voce tradisce del nervosismo. Sbuffo: cos’è, crede che me ne vada?
«Che ti importa?».

Mi si avvicina a passo spedito, le mani che gesticolano senza sosta. «Dobbiamo arrivare alle Torri prima del matrimonio! Non potete andarvene in giro a fare una passeggiata proprio adesso che siamo così vicin— », un rumore di fronde d’albero che sfregano fra loro si riversa nell’aria. Sansa si volta di scatto, io aguzzo lo sguardo verso il cespuglio: di nuovo, qualcosa si muove. Ed è qualcosa di grosso, visto il rumore che fa. Faccio appena in tempo a vederla correre dietro di me in preda al panico e sentire le sue braccia sottili arrampicarsi dietro la mia schiena, che l’uccelletto inizia a singhiozzare spaventata.

«Oh no... Oh no! Lo sapevo, ci hanno trovati… i Lannister sono qui! Oh dèi, se mi prendono mi porteranno dalla Regina e lei mi taglierà la testa... oh, no, no, no lo sapevo che saremmo dovuti partire prima, adesso siamo circondati e loro… ed io…» Il fruscio si fa sempre più vicino, la stretta della ragazzina sulle mie spalle più ferrea. La mia presa scatta sul pomello della spada. Qualsiasi cosa ci sia dietro il cespuglio sarà morta prima che possa avere il tempo di realizzarlo. Un altro rumore. Le fronde dei cespugli si aprono e ciò che ne esce è…

“Woff!”

Un… cane?
Impiego qualche secondo prima di realizzare davvero che il terribile mostro di cui la ragazzina ha tanta paura altro non è che un meticcio dal pelo lungo, con occhi piccoli e marroni ed una lingua lunga e rosea che ciondola dal suo muso peloso. Quando ci vede inizia a scodinzolare allegro ed è evidente che non farebbe del male ad una mosca. Lo guardo. Lui guarda me. Sospiro.

«Stai calma», sussurro alla ragazzina, la voce intrisa di sarcasmo. «Potrebbe fiutare la tua paura*».

Ma lei non risponde. Mi sarei aspettato una risposta sollevata, un “mi dispiace” per essersi appesa come un gatto alla mia schiena o qualsiasi altra cosa che non fosse il silenzio. Ad un tratto il cane di prima inizia a ringhiare verso di me, ma non sono io ad innervosirlo. Faccio giusto in tempo ad accorgermi che l’uccelletto non è più sulle mie spalle che un sacco nero viene calato sopra la mia testa e qualcosa di duro e pesante mi colpisce la nuca.

L’ultima cosa che sento prima di rovinare a terra e svenire sono le voci concitate di uomini che non conosco.

 
 
Quando apro gli occhi, la prima cosa a cui penso è di essere ancora viva. La seconda, è che non so dove mi trovo.

Provo a parlare, ma l’unica cosa che riesco a mugugnare sono gemiti sommessi e parole soffocate per via della benda che mi hanno ficcato in bocca. Ha un odore stantio, sa di vecchio e di terra, ed un brivido mi scorre lungo la schiena quando mi rendo conto che non è solo la mia bocca ad essere stata legata ma anche le mie mani. Tento di ricordare ciò che è accaduto: l’odore pungente del ferro e del sangue dell’armatura del Mastino mi torna alla mente, così come le sue enormi spalle a cui mi ero aggrappata, ed infine un terribile dolore alla nuca che mi aveva fatto mollare la presa e cadere a terra con un tonfo.  

Risate grasse e canzoni stonate riecheggiano attorno a me, intonando una sottospecie di ballata che mi ricorda tanto quella dell’Orso e La Fanciulla Bionda in chiave molto più volgare. Non conosco le voci degli uomini in questione ma sembrano ubriachi e molto euforici. Sono felici per avermi catturata, dunque? Se è così, saranno di certo uomini dei Lannister. Mi stanno portando ad Approdo del Re, dalla Regina, e questo significa che sia io che il Mastino verremo uccisi e che la mia testa verrà messa su una picca! I miei occhi si riempiono di lacrime ed il terrore serpeggia in tutto il mio corpo. Oh, no… no… eravamo così vicini alle Torri… mancava così poco… così poco!

«La ragazzina sta piangendo», è la voce crudele e beffarda di uno di quegli uomini. Subito mi pento di aver lasciato che mi vedessero piangere. Tiro su col naso e mordo il tessuto della benda. Vorrei vederli in faccia, sapere chi dovrò far uccidere quando sarò di nuovo con Robb e la lady mia madre, ma il buio continua ad oscurarmi la vista. «Forse dovremmo riportarla al suo cane da guardia, mmh?».

Il carretto sulla quale mi hanno gettata cigola e sobbalza ad ogni piccolo sassolino. Stringo i denti ed inghiotto il nodo che ho al petto. Stanno parlando del Mastino. È ancora vivo, dunque? Dov’è adesso? Hanno preso anche lui? E chi sono questi uomini? E se fosse stato ucciso?! Il solo pensiero mi riempie d’un’angoscia tanto profonda da ferirmi. Non voglio che muoia, così come non volevo che accadesse tutto questo. Io volevo solo vivere come le lady di cui i menestrelli cantavano nelle ballate, sposata ad un principe buono e gentile e diventare regina di un popolo che mi amasse. Perché è successo tutto questo?

«Deve tenerci molto. A lei, intendo. Hai visto come ha reagito quando si è svegliato? Per gli dèi, non ho visto qualcuno reagire a quel modo in cinquant’anni di vita, e che io sia dannato se dico il falso».

«Scommetto venti pezzi d’argento che è così furioso perché avrà pagato un bel po’ di grana per avere una puttana così carina, e adesso noi gliel’abbiamo portata via. A proposito: perché abbiamo preso anche lei? Che ce ne facciamo di una cagna?».

L’indignazione che mi assale nel sentirmi etichettare in quel modo è così scalpitante da farmi tremare. Il mio stomaco è in subbuglio, una vampata di calore mi investe in pieno. Come osano? Loro non sanno di chi stanno parlando! Io sono la figlia di lord Eddard Stark e lady Catelyn Tully, loro non sanno— … un momento: loro non sanno. Non hanno idea di chi io sia, mi credono una meretrice qualunque, l’amante del Mastino, e se non lo sanno allora questo significa che non stiamo andando ad Approdo del Re!

«Che cazzo vuoi che ne sappia? Thoros ha detto di prenderla e noi l’abbiamo presa. Al massimo ci farà da puttana al posto di quell’altra ragazzina presuntuosa».

Thoros. Ho già sentito questo nome. Ma dove?

«Ehi, vacci piano. A me quella ragazzina ‘sta simpatica!».
«Sì, e scommetto che te la vuoi anche scopare!».
«Oh, ma ‘sta zitto. Com’è che con te si finisce sempre per parlare di fica?».
«Perché? Non ti piace?».
«Sei proprio un coglione. Ehi… ehi, ragazzina, so che sei sveglia», una mano che puzza di sudore mi toglie la benda dalle labbra; subito il sapore di fiele della stoffa mi lascia un retrogusto amarognolo sul palato e mi fa contrarre la bocca in una smorfia. «Diglielo anche tu a ‘sto vecchio maiale che nella vita ci sono cose più importanti della fica. Come ad esempio il vino, no? A proposito: a te piace il vino, ragazzina? Hai sete?».

Sì, ho una sete terribile. Non bevo da ieri sera ed un bicchiere di vino, per quanto orribile il sapore possa essere, sarebbe perfetto. Nonostante ciò, piuttosto che bere dallo stesso recipiente da cui hanno bevuto questi due barbari preferisco morire. Scuoto la testa, risoluta. Posso quasi vedere il sorriso sghembo dell’uomo che mi sta di fronte sgretolarsi.

«Fa' come ti pare. Siamo arrivati, comunque. Prendetela e portatela fino all’interno: non vogliamo che si sporchi il bel visino che ha, no?».

Qualcuno mi stringe per i fianchi e mi issa sulle sue spalle come se fossi un sacco di patate; non provo nemmeno a ribellarmi, so già che sarebbe inutile e peggiorerebbe solo le cose. Per un breve, doloroso istante ho l’impressione che le mani che mi stringono appartengano al Mastino, che siano suoi i calli che sfregano contro il tessuto del mio vestito, ma quando sento l’odore di rum ed aglio dell’uomo che mi sta portando chissà dove capisco di essermi di nuovo sbagliata, e che questa volta il Mastino non potrà salvarmi così facilmente. Non passano che pochi minuti prima che il fresco venticello mattutino e il rumore dello sgretolare delle foglie del selciato vengano sostituiti dal lontano eco dell’acqua che scorre ed un freddo gelido mi si infiltri sin dentro le ossa. Quando vengo messa giù, le corde che mi stringono le mani vengono sciolte e la benda agli occhi tolta cosicché riesca a mettere a fuoco l’ambiente. Mi guardo attorno: è una caverna. Il freddo è pungente e a ben poco serve il fuoco che hanno acceso più in là. Vi sono una trentina di uomini e di donne attorno a me e tutti, nessuno escluso, sono ridotti così male da farmi credere di trovarmi in un campo di battaglia piuttosto che in un rifugio segreto.

«Ehi, vermiciattolo, ti abbiamo trovato una compagna di giochi» È la voce dell’uomo di prima a parlare, ma questa volta riesco a vederlo in faccia. Ha gli occhi grigi, la barba rossiccia e le braccia piene di peli; trasuda sporcizia da tutti i lati ed il suo occhio destro è ricoperto di piaghe e cicatrici. Al suo confronto, il Mastino risulta un uomo bellissimo.

Il suo sguardo si posa su quello di due ragazzini pochi metri più in là: uno è alto e piuttosto robusto mentre l’altro è secco, sporco come l’uomo che troneggia accanto a me e con arruffati capelli neri. Non sembrano apprezzare la compagnia e il luogo in cui si trovano. Mi guardano, e se lo sguardo del primo ragazzo, quello più robusto, si sofferma sul mio poco meno di dieci secondi, quello del ragazzino secco come un chiodo si assottiglia in due fessure minuziose e mi osserva per lungo tempo. Non so quale sia il motivo ma un profondo senso d’agitazione mi fa prudere le mani. Dopo quella che sembra un’eternità il ragazzino dai capelli arruffati si alza e viene nella mia direzione: all’inizio il suo passo è lento, circospetto, poi inizia a farsi più veloce finché non diventa una corsa vera e propria. Finisco col ritrovarmelo davanti, tutto sporco di terra e fuliggine e col fiato corto. Mi guarda. Io lo guardo. I suoi occhi grigi sono piccoli, il suo viso allungato. Rimane in silenzio ed allunga una mano verso di me, sfiorandomi il viso. Sta tremando. Solo adesso mi accorgo che le sue dita sono troppo piccole per essere quelle d’un ragazzo e che il suo viso, pur essendo dai lineamenti allungati e duri, è quello d’una ragazza. Ma è solo quando parla che sento il cuore scoppiarmi nel petto.

«… Sansa?».

Non so cosa sia successo, ma all’improvviso le mie braccia sono strette alle sue spalle così forte da farmi male io stessa. Il fiato mi si spezza in gola quando riconosco l’odore di fiele e di terra che l’ha sempre contraddistinta, quando la sento ricambiare il mio abbraccio con la medesima forza; i miei occhi si annebbiano d’una felicità che non sentivo da molto, troppo tempo e le parole, i pensieri ed il mondo stesso passano in secondo piano. È Arya. È mia sorella. Quella che sto stringendo è mia sorella. La mia piccola, odiosa sorella. Ed è qui con me, viva, sporca di terra e di sangue ma viva. Continuo a stringerla fra le mie braccia per timore che possa scomparire di nuovo, che vada via. È mia sorella, continuo a ripetermi, È Arya. Ed è viva. È viva.

«Cosa… cosa ci fai qui?!», mi chiede, la voce incrinata dall’emozione. Solo adesso mi accorgo che tutti, compresi i due uomini di poco prima, ci stanno fissando con sgomento e senza capire. «I-Io credevo che tu fossi ancora ad Approdo del Re…», guardo i suoi occhi come se non riuscissi a farne a meno, accarezzo le sue guance e le mie labbra si posano sulla sua fronte. È Arya, ripeto a me stessa, il petto gonfio di commozione. È Arya.

«Oh, Arya, ho così tante cose da raccontarti! Ho passato così tanto tempo a pensarti, a pregare che tu stessi bene…», i ricordi di Approdo del Re fanno capolino nella mia testa, taglienti come rasoi. Scuoto la testa, decisa. Sono solo ricordi, ormai. È passato. È passato. «Non ci crederesti mai, ma se sono ancora viva lo devo al—».

Una serie di ululati e latrati mi fa sussultare: altri uomini stanno entrando, uno è ridotto più male dell’altro, ed in mezzo a loro troneggia l’enorme figura incappucciata del Mastino che si dimena e bestemmia ad alta voce. Quando gli tolgono il cappuccio ammicca alla flebile luce presente nella grotta e si guarda attorno spaesato. Non pare riesca vedermi, in mezzo a tutta quella folla, ed io mi ritrovo a combattere contro la voglia scalpitante di correre da lui. Accanto a me, Arya aggrotta la fronte piccata e mi rivolge un’occhiata perplessa.

«Cosa ci fa lui qui?», chiede, la sua voce è intrisa di odio. I suoi occhi si sgranano. «Aspetta... tu sei venuta con lui!».
«No, Arya, ascoltami, lui… lui non è come cred—».
«Tu sei venuta qui con… con quel mostro!», la sua faccia è una maschera di incredulità e rancore. «Cosa ti ha fatto? Ti ha fatto del male?! Sei ferita, Sansa? Quel mostro! Giuro che se ti ha toccata io—».

Le mie labbra si stirano in una sottile linea adirata. Non è giusto che parli così del Mastino, non dopo che mi ha salvato la vita tante e tante di quelle volte. Sarà rude, crudele e col cuore pieno di odio per il mondo intero, ma non è un mostro. Joffrey lo era. La Regina Cersei lo è. Ilyn Payne lo è. Non lui.

«Arya, no… no, non capisci! Lui non è un mostro, lui è—».
«Un mastino!».

 Mi volto di scatto ed incontro il volto di un uomo dai capelli biondicci e sporchi di polvere: indossa parti differenti di diverse armature, il suo volto è pieno di graffi e la sua corazza riporta macchie di sangue. Ci stava ascoltando. Presa com’ero dalla discussione non me n’ero resa conto. Il mio sguardo saetta su quello grigio di Sandor ed il mio stomaco si stringe in una morsa quando ripenso che è tutta colpa mia se adesso si trova in questa situazione. L’uomo di poco prima inizia a girargli attorno, mi lancia un’occhiata beffarda e gli sussurra qualcosa all’orecchio che lo fa tremare e ringhiare. Prima che possa dire qualcosa, qualcun altro prende la parola.

«Thoros», un uomo sbuca dall’ombra. Ho già sentito la sua voce, eppure non riesco a ricordare il suo viso: ha un occhio coperto da una benda, radi capelli biondi e cicatrici sparse su tutto il corpo. Mi rivolge uno sguardo che sembra trapassarmi da parte a parte, poi accenna ad un lieve sorriso. «È questo il modo di trattare degli ospiti? Perlopiù di fronte a delle lady di Grande Inverno?».

Ora mille occhi sono puntati su di me ed Arya: occhi grigi, occhi castani, occhi verdi… ci squadrano come se fossimo dei fantasmi. In un impeto d’orgoglio prendo un respiro profondo e gonfio il petto: non piangerò e non supplicherò più di fronte a nessuno. Se vogliono giocare, io starò al loro gioco.

«Lasciatelo», comando allora, ringraziando gli dèi per aver fatto sì che la mia voce risuonasse tanto composta. Loro ridono ed altri mormorano e ridacchiano; accanto a me, Arya spalanca la bocca e mi guarda come se fossi matta. L’uomo da un occhio solo fa loro cenno di tacere e mi si avvicina a passo volutamente lento, squadrandomi come se fossi un dolce, e quando mi è vicino mi afferra per il mento e mi studia il viso con minuzia. Il suo alito sa di sangue e… morte?
«Oh, sì… proprio come pensavo: hai lo stesso carattere di tua madre, giovane lady, ed i suoi stessi occhi».
Deglutisco a fatica ma non distolgo lo sguardo. «Non credo di conoscervi, sir. Conoscete la lady mia madre?».

Lui ridacchia e la sua presa si fa più salda sul mio viso. Il suo volto deturpato è terribile e spaventoso, anche più di quello del Mastino. Cosa vuole da me? Perché ci ha portati qui? Mi fa paura. Voglio andare via da qui!

«No», dice, la voce simile ad un rantolo. «Ma conoscevo tuo padre. Era un grand’uomo, onorevole e fedele al suo Re. Lo rispettavo e lo rispetto tutt’ora che è morto per mano di quei vili dei Lannister. Immagino che neppure tu debba provare tanta simpatia per quei leoni spelacchiati… giusto, ragazzina?», la sua stretta si fa prepotente e dolorosa, un gemito lascia le mie labbra ma lui non sembra aver intenzione di mollare la presa. Attorno a noi regna il silenzio. «Giusto?!».
«S-Sì, sir».

 «Dunque mi chiedo come mai tu te ne vada in giro con i loro rognosi cani da guardia!», la presa sulla mia guancia cede e l’uomo si dirige a passo spedito verso il Mastino, puntandogli un dito contro. «Allora? L’hai rapita, non è così? E chissà con quante cazzate le avrai riempito la testa! Cosa le hai fatto, cane?!».
«Proprio un bel niente, se vuoi saperlo», la voce di Sandor Clegane è secca, colma di odio. I suoi occhi sono più spaventosi del solito. «E tu, invece? Adesso rapisci le mocciose?», aggiunge, indicando Arya col capo.

«Le abbiamo dato un posto dove dormire e del cibo da mangiare, sia a lei che al suo amico*. Noi della Fratellanza Senza Vessilli non ci approfittiamo dei più deboli, Clegane. Noi li aiutiamo. Non si può certo dire lo stesso della tua casata, che è stata costruita sui cadaveri di bambini morti. Il principe Aegon Targaryen e sua sorella giacevano dinanzi al Trono di Spade, la loro testa era stata fracassata contro il pavimento insieme a quella della loro madre Elia Martell, se non ricordo male. Credi davvero che io possa credere ad un vile codardo dal sangue sporco come te?!».

«Mi prendi forse per mio fratello? I mocciosi dei Targaryen io non li ho mai toccati, né sentito l’odore, né sentiti piangere! Vi comportate tanto da cavalieri ma non mi sembra che ci sia uno solo di voi, qui dentro, che possa vantarsi di non aver mai ucciso un uomo!», Sandor dà uno strattone alle catene, le sue labbra si deformano in un ringhio di rabbia. Se gli occhi potessero uccidere, l’uomo che gli sta dinanzi adesso sarebbe cenere. «Se volete uccidermi per dei crimini che non ho commesso fate pure! Ma non venite a rifilarmi la stronzata che la vostra merda non puzza di merda, perché qui dentro abbiamo tutti le mani sporche del sangue di qualcuno!».
«Brucia all’Inferno, cane!», urla qualcuno dalla folla.
«Assassino! Assassino!», gli fa eco qualcun altro. La folla inizia ad agitarsi, grida ed ingiurie si levano nell’aria. Afferro Arya per una spalla e le dico che dobbiamo fare qualcosa, che non è giusto che incolpino il Mastino di cose che non ha compiuto, ma lei mi rivolge uno sguardo carico di incredulità e si scrolla da me con una spallata.
«Ti sei bevuta il cervello?! Come puoi difendere un mostro simile?!».
«Non è un mostro!», ribatto io, ma le mie parole vengono soffocate sul nascere.
«Ha ucciso Mycah!», grida, e tutti tacciono e posano lo sguardo su di lei. Rendendosi conto di essere osservata, Arya si rivolge alla folla e le sua voce trema quando si decide a terminare la frase. «… Il garzone del macellaio, mio amico. Aveva dodici anni ed era disarmato!».
Il Mastino aggrotta la fronte e scrolla le spalle. «Non è stata una mia scelta. Il principe Joffrey me lo aveva ordinato ed io ho solo eseguito gli ordini. Volete condannarmi per essere stato fedele al mio Re?».
«Così fedele…», è l’uomo che si fa chiamare Thoros a parlare, la sua voce è dura come pietra. «Da ucciderlo proprio il giorno delle sue nozze. Che razza di cane sei, tu?».
«Un cane sciolto, adesso. E mi sono rotto i coglioni di starvi a sentire!».
«Dunque ammetti di averlo ucciso» Replica Thoros, ed un sorrisetto sinistro gli si dipinge sul volto. Stanno tentando di incastrarlo, vogliono una scusa per giustiziarlo. No… no, non è giusto! Non possono farlo! Tutto questo non è giusto!

«L’ha fatto a causa mia!», la mia voce si riversa fuori dalle mie labbra prima che possa fermarla. Di nuovo, mille occhi si posano su di me ed un brivido freddo mi sale lungo la schiena. Prendo un respiro profondo e, pregando che la voce non mi tremi, parlo. «L-Lui… l’ha fatto solo per salvarmi. Joffrey voleva…», il ricordo delle sue dita dentro di me, dei suoi denti sul mio collo e delle sue parole cattive mi colpiscono come una stilettata al cuore e le lacrime iniziano a pizzicarmi la gola. Stringo un lembo del mio vestito, tremante. «Lui v-voleva prendermi con la forza. Mi ha fatto del male, ha minacciato di uccidermi e… e… e poi io mi sono ribellata – lo so, ho sbagliato, non avrei dovuto ma lui era così cattivo… ed io così spaventata! – e lui ha chiamato il Mastino, gli ha ordinato di…», le mie guance si tingono di rosso, la voce mi si spezza in gola. Voglio scomparire, desidero che la terra mi risucchi in questo preciso istante. Con la coda dell’occhio, noto che anche Sandor ha serrato le labbra e distolto lo sguardo.

 «Va' avanti, ragazza» Mi ordina Thoros. Obbedisco.

«G-Gli ha ordinato di prendermi. Lì, davanti a lui, come se fossi una meretrice da due soldi. Voleva umiliarmi, farmela pagare per averlo rifiutato, ed io credevo… io credevo che il Mastino lo avrebbe fatto. Ma mi sbagliavo. Lui si è rifiutato ed ha ucciso Joffrey e mi ha portata via da Approdo del Re. Non mi ha mai fatto del male, lo giuro, anzi mi ha anche salvata da dei lupi e da un uomo che voleva violentarmi ed ha promesso che mi avrebbe riportata a casa ed io… io—».

«Basta così» Mi interrompe l’uomo da un occhio solo. Alzo lo sguardo: Arya mi fissa con occhi sgranati, pieni d’angoscia e di qualcos’altro che non riesco a capire, e sulle sue labbra danzano una decina di domande; molte donne mi osservano con occhi colmi di pietà mentre altri uomini ancora con sguardo di rimprovero e stizza per aver preso le difese dell’uomo che vogliono uccidere. Il Mastino invece guarda dritto dinanzi a sé, come se non esistessi, e per la prima volta sento il bisogno impellente di parlargli, di dirgli che mi dispiace di averlo messo in tutti questi guai, che non ho mai pensato davvero che fosse odioso e che voglio davvero che resti con me a Grande Inverno, che non è un vero cavaliere ma che lo voglio bene comunque perché mi ha protetta come se lo fosse; che io ho ancora il suo sapore di vino e di sangue sulle mie labbra e che non volevo che quel bacio terminasse.

«Sei accusato di omicidio, ma io sono solo un uomo e non sta a me giudicarti», prende la parola Dondarrion rivolgendosi a Sandor, ed io tiro un sospiro di sollievo. «Il Signore della Luce è l’unico che può farlo. Un verdetto per singolar tenzone darà la risposta!».

Nella grotta echeggiano urla d’incitamento piene di furore, tutti iniziano ad urlare lodi al un certo Dio della Luce e respirare diventa di colpo difficile: un combattimento per singolar tenzone. Il Mastino dovrà combattere. Una parte di me sa con certezza che è impossibile che venga battuto, che è invincibile nel combattimento e che non ho nulla da temere, eppure un’altra parte, quella che ho sempre associato al cuore, è ghermita da un’ansia che non mi aspettavo di poter provare per qualcuno. E se non dovesse farcela? E se lo uccidessero? No… no, no, no, non voglio che accada! Non voglio che qualcun altro muoia a causa mia!
«No!», urlo, facendomi spazio tra la folla. Gli occhi del Mastino si scontrano coi miei ed il mio sguardo si posa sulla sua mano: dalle fasciature spicca ancora una macchia rossa cremisi e le dita sono ancora gonfie. Non può lottare in quello stato! Dondarrion lo sa, per questo lo ha sfidato! «No! Non combattete! La sua mano—».

«Sta al tuo posto, ragazzina. Posso battere questi guardiani di porci ad occhi chiusi. Allora, chi sarà a battersi?», chiede Sandor, la voce profonda simile ad un latrato. «Sarai tu, prete?», il suo sguardo si posa sull’uomo dai capelli radi, Thoros, per poi passare ad un altro ancora. «O forse sarà l’arciere senza palle? O magari, chi lo sa? Sarà la lupacchiotta a combattere! Che ne dici, eh, stronzetta Stark? Non vuoi vendicare il tuo caro garzone del macellaio?».

Ma non è Arya a farsi avanti, né il prete o l’arciere, bensì l’uomo da un occhio solo. E solo adesso mi ricordo di lui: era al torneo del Primo Cavaliere, Jeyne lo aveva trovato attraente ma, per quanto il suo viso non lasci dubbi, è un uomo radicalmente differente dal cavaliere biondo e con l’armatura splendente che era una volta. Mi premo le mani alle labbra, il cuore in gola e il fiato corto: se è davvero lui, se si tratta sul serio di Beric Dondarrion, allora il Mastino… lui… lui potrebbe non riuscire a batterlo. Non in quello stato!

«No. Sarò io il tuo sfidante», dice, la voce grave quanto il suo aspetto. Il Mastino gli rivolge un’occhiata truce e colma di odio, poi sogghigna e mormora qualcosa su come sarà bello tagliargli la testa in due. «Liberatelo. E portatemi la spada», aggiunge Beric, e subito alcuni uomini corrono a liberare il Mastino dalle corde e qualcuno di loro ridacchia alla vista della sua mano ferita.  

L’uomo dai capelli biondi di nome Thoros si fa avanti: tra le mani regge una spada di ferro. Si inginocchia e chiude gli occhi, mormorando parole che non riesco ad udire. Solo quando un coro di uomini ripete dietro di lui, riesco a capire che si tratta di una preghiera.

«Signore della Luce proteggici», esclamano all’unisono, ed io mi sento a disagio. Chi è questo dio? Perché adorano lui e non i Sette? «Mostraci la verità. Abbatti quest’uomo se è colpevole o dona forza alla sua spada se tu ritieni che sia sincero. Signore della Luce, dona a noi la saggezza perché la notte è buia e piena di terrori».

Trattengo a stento un urlo quando accade l’impensabile: Thoros pronuncia altre flebili parole e Beric Dondarrion, con sguardo serio quanto una tomba, si taglia il palmo dalla mano e bagna l’elsa della spada col suo sangue. È in quel momento che la spada prende fuoco. Non so come sia possibile, né se si tratti di una qualche stregoneria o di un miracolo, ma le fiamme avvolgono solo la lama della spada e risparmiano l’elsa. La reazione del Mastino è immediata: sgrana gli occhi e muove diversi passi all’indietro. Per la prima volta, vedo una profonda paura nei suoi occhi grigi. Mi viene voglia di urlare. Il fuoco è l’unica cosa che teme e loro lo sanno, per questo hanno usato quella spada maledetta, per questo hanno proposto un verdetto per singolar tenzone!

«No!», urlo. «Questo non è giusto! Non è leale!», ma nessuno mi dà retta. Guardo Arya supplichevole, implorandola con lo sguardo di fare qualcosa, ma lei stringe i denti e volta il capo dall’altra parte. Devo fare qualcosa, e devo farla in fretta. Non posso permettere che il Mastino venga ucciso, non adesso, non ora che sono così vicina alle Torri, non dopo che mi ha salvato tutte quelle volte, non dopo il bacio che mi ha dato…

Il clangore sordo delle lame che si incontrano annuncia l’inizio del combattimento. Gli occhi del Mastino sono colmi di timore per il fuoco ma le sue braccia sferrano colpi decisi e letali che, tuttavia, Dondarrion para con destrezza. Si muovono in cerchio, affondano, sferrano attacchi mortali, ma nessuno dei due sembra davvero prevalere sull’altro. Sandor sferra un altro attacco ma Beric lo para con lo scudo e, approfittando del tempo guadagnato, lo colpisce al fianco. Il Mastino grida per il dolore e risponde all’attacco con una stoccata che fa barcollare il suo avversario all’indietro. Le loro lame si incontrano di nuovo, e di nuovo e di nuovo ancora, e per ogni colpo il mio cuore fa un salto. Le ginocchia mi tremano e nella mia testa vi è un solo pensiero: devo fare qualcosa. Non posso permettere che muoia.

Beric spinge, con l’ausilio dello scudo, il Mastino verso sinistra e lo fa cadere coi piedi dentro una brace. Mi premo le mani alle labbra e sgrano gli occhi terrorizzata. No. No, vi prego dèi, non lasciate che perda. Donate forza alla sua spada. Vi prego, dèi, non lasciate che muoia.

Sandor grida e scalcia dei barili che gli sono fra i piedi; la presa sulla spada è debole e con orrore mi rendo conto che non durerà ancora per molto. Beric approfitta di questo momento per sferrare un altro attacco al suo scudo che lo sbilancia e lo fa cadere a terra. La spada di Beric scende su di lui e il mio grido viene coperto dal rimbombo del metallo che sbatte contro lo scudo del Mastino, che inizia a spaccarsi sotto il peso della spada di Dondarrion. Nella grotta rimbombano le grida degli uomini attorno a me: “Colpevole!”,  urlano. “Colpevole! Colpevole”.

Quando lo scudo del Mastino inizia a prendere a fuoco e la lama di Beric Dondarrion si alza di nuovo, pronta a scendere sentenziando la sua morte, la mia testa si svuota di ogni pensiero ed emozione. Non sento più niente, solo la voce che nella mia mente urla sguaiata che devo fare qualcosa, che io non voglio che il Mastino muoia perché non gli ho ancora detto che mi dispiace di averlo cacciato in questo guaio, che non ho mai voluto che succedesse una cosa del genere e che quando mi ha baciata io mi sono sentita bene, al sicuro e... e...

Agisco senza pensare alle conseguenze: forte del fatto che tutti sono presi dal combattimento e troppo esaltati per badare a me, sguscio dietro una fila di barili e, con tutta la forza che ho, li spingo giù; subito questi rotolano a terra e fanno così tanto chiasso che tutti i presenti si voltano verso di me, che faccio appena in tempo a nascondermi dietro l’incavatura rocciosa di un masso. Il Mastino però se ne accorge e, ancora schiacciato a terra, prende il pugnale dalla cintola e taglia la gola a Beric in modo tanto profondo che lui non riesce nemmeno ad urlare. Dondarrion gorgoglia qualcosa, il suo unico occhio diventa vitreo ed inespressivo, la spada cade ai suoi piedi in un tonfo metallico e lui la segue un attimo dopo, il viso grigio e sporco di sangue. Capisco che il combattimento è finito quando Thoros corre da lui e gli si getta addosso, biascicando preghiere sommesse e veloci, ma il sollievo dura poco.

«Il fuoco!», urlo, quando le grida del Mastino mi arrivano alle orecchie. Si sta dibattendo come un matto per liberarsi dello scudo infuocato, supplica aiuto e piange come un bambino. “Vi prego, brucio. Aiutatemi. Qualcuno. Aiuto. Vi prego”.  Solo adesso mi accorgo di quanto realmente tema il fuoco, di quanta paura abbia, e corro verso di lui più veloce possibile. Sarò io a salvargli la vita, questa volta.

Mi alzo e afferro la prima cosa che trovo: un otre di vino. La prendo e rovescio il suo contenuto addosso alla manica della sua armatura e lo scudo che, grazie agli dèi, si spegne. A quel punto Sandor lo toglie con uno scossone e mani tremanti, poi si getta a terra e si copre gli occhi con le dita come se non volesse vedere più nulla. Ha il respiro affannoso, il volto sporco del sangue di Beric e metà del suo braccio riporta un’ustione terribile. Adesso, oltre al viso, è un altro il punto in cui il fuoco ha lasciato la sua morsa.

Una cacofonia di grida e rumori mi fanno voltare: Arya. Sta correndo verso di me… anzi, no: sta correndo verso il Mastino. I suoi occhi grigi sono colmi d’un odio che non le avevo mai visto addosso, inadatto al viso d’una bambina di dieci anni, e fra le dita regge un pugnale. Vuole ucciderlo. Una bambina di soli dieci anni, mia sorella, la stessa bambina che si divertiva a tirarmi i capelli per scherzo e lanciarmi palle di neve quando eravamo fra le mura di Grande Inverno… vuole uccidere qualcuno. Stringo i denti e mi paro davanti a lui, le mani e le ginocchia mi tremano. No. Non permetterò più a nessuno di far del male alle persone che amo.

Non faccio in tempo a fermarla che lo fa qualcun altro: il ragazzo dalle spalle larghe di poco prima, quello che era con lei. Lei urla, strepita che sono una stupida a difenderlo e che deve vendicare il suo amico, che il Mastino è un assassino e merita la morte e che anch’io la merito per quello che sto facendo. Le sue parole mi feriscono e le lacrime mi pizzicano la gola. Mi odia, lo so. Mi ha sempre odiata, me lo diceva sempre, ma adesso è diverso. Adesso l’unica cosa che vorrei è andarle incontro e dirle che mi dispiace, che non voglio che mi odi e che non posso permettere che l’unica persona in grado di riportarmi da nostra madre muoia, ma le parole mi muoiono in gola. L’unica cosa che sono in grado di fare è stringere i pugni così forte da farmi diventare bianche le nocche.

«A quanto pare il Dio della Luce ama più me che il tuo schifoso garzone del macellaio, piccola stronza» Sputa fra i denti il Mastino, dietro di me.
«Brucia all’Inferno!» Grida Arya, piangendo di rabbia. Io avanzo di alcuni passi verso di lei, gli sguardi di tutti puntati su di me.
«Arya…», parlo, con il cuore in mano. Forse posso ancora sistemare la cosa, forse tutto tornerà com’era un tempo. «Arya, mi dispiace per tutti i dispetti che ti ho fatto. Quando dicevo di odiarti non intendevo sul serio. Sei mia sorella, come potrei odiarti? Io… io ti voglio bene, ho pregato di poterti rincontrare così tante volte e… e adesso sei qui. Viva», le lacrime mi pizzicano gli occhi. Abbiamo litigato così tante volte, e per così tante sciocchezze… come vorrei tornare indietro a quei momenti. «Arya, ti prego, torna a casa con me. Il Mastino… lui… lui non è davvero cattivo. È arrogante, presuntuoso e pieno di odio per il mondo intero ma non mi farebbe mai del male, così come non ne farebbe a te. Lui ha promesso di portarmi alle Torri Gemelle, dove nostro zio sta per sposarsi; ci sarà nostra madre, Arya, e Robb. Saremo di nuovo insieme, capisci? E saremo felici come una volta», accelero il passo. Le sono così vicina da poterla toccare. Alzo una mano verso di lei, le lacrime che minacciano di sgorgare dai miei occhi da un momento all’altro. La voglia di abbracciarla diventa dolorosa. «Arya, ti prego…».

«No», nel silenzio innaturale della grotta, le sue parole sembrano grida. «Io con te non ci vengo, Sansa».

Sento qualcosa andare in frantumi. È il mio cuore. «No, no, Arya, ti prego…», le afferro il braccio, il ragazzo accanto a lei mi spinge lontana. Lo fulmino con lo sguardo.

«L’hai sentita? Lei con te non ci viene. Vattene!», dice lui, sprezzante. La voglia di colpirlo al volto mi fa ringhiare di rabbia. «Torna a fare la cagna di quell’assassino, visto che ti piace tanto!».

«No…», il mio sguardo saetta su quello di Arya. Lascerai che mi parli così?, chiedo senza bisogno di parlare. Lei resta impassibile e fa un passo indietro. Il freddo che trovo nei suoi occhi brucia più del fuoco. No. No, no non può finire così… non adesso che sono riuscita a trovarla, non dopo tutto quello che è accaduto! «Arya… nostra madre e Robb, loro—».

 «Penseremo noi a riportarla alle Torri Gemelle, ragazzina», un brivido freddo mi scorre lungo la schiena. No. Non è possibile… questa voce… «Tu, piuttosto, ringrazia di essere figlia di Ned Stark, o non sarei stato tanto gentile con te».

Mi premo le mani alle labbra quando lo vedo. È impossibile, è assurdo... tutto ciò è assurdo. Eppure è proprio lui: la benda gli ricopre l’occhio cavato e il suo corpo è ricoperto del sangue che poco prima era sgorgato dalla sua gola. Beric Dondarrion è risorto dalla morte.

«V-Voi… voi eravate morto…» Biascico con voce tremante e occhi sgranati. Il mio sguardo corre su quello di Thoros, alle sue spalle: sorride, consapevole di aver compiuto qualcosa che va oltre le leggi del tempo e della vita, e si avvicina di qualche passo.

«Il Dio della Luce è grande, ragazzina, e potente. Lui esiste davvero, non come i tuoi falsi dèi. Quest’oggi non vi verrà fatto alcun male poiché è stato lui a volerlo, ma state pure certi…», i suoi occhi si posano sulla figura di Sandor che, a fatica, si è rimesso in piedi ed ora troneggia dietro di me. «Che se non fosse stato per lui, il tuo caro cagnolino sarebbe già con la gola tagliata. Ad ogni modo, il Dio della Luce ha espresso il suo verdetto: sei libero, Sandor Clegane».

«Bene», stavolta è il Mastino a parlare, il volto deturpato è ancora sporco di sangue. «Rivoglio il mio oro. Me lo avete preso e adesso dovete rendermelo! Ho vinto la vostra fottuta sfida, ne ho il diritto!».

«Lo riavrai indietro quando la guerra sarà finita*», ribatte Beric, passandogli un foglietto di carta. «Ecco, qui c’è la ricevuta dell’oro che ti spetta».

Il Mastino lo prende e lo getta a terra senza neanche guardarlo. «Io ci piscio sopra! Siete soltanto dei ladri!».

«Siamo dei fuori legge. Avremmo potuto tagliarti la gola, se avessimo voluto» Ribatte un altro.

Stringo gli occhi in due fessure piene di collera. Ma come osano? Hanno voluto loro tutto questo! Noi non stavamo facendo niente a nessuno, se ci avessero lasciato in pace nulla sarebbe accaduto!
Il Mastino scatta verso di lui, i pugni serrati e bocca distorta in una smorfia. «Tu provaci, arciere, e ti ficco una freccia su per il culo!».
«È un assassino! Non potete lasciarlo andare! È colpevole!» Sbotta allora Arya, e la stessa irritazione di quando aveva offeso Joffrey torna a farmi visita.
«Secondo il nostro dio non lo è» Replica Beric, non distogliendo lo sguardo dal Mastino.
«Sì, ma—».
«Basta così!» Grida, ed Arya tace. Vorrei dirgli di non parlare a quel modo a mia sorella, che è solo un vigliacco e che il suo dio è pazzo, ma resto in silenzio ad inghiottire ogni parola, ogni insulto. Proprio come ad Approdo del Re. «Non spetta a noi giudicare. Vai in pace, Sandor Clegane», poi si rivolge ad altri due uomini, entrambi grossi quanto il Mastino.«In quanto a voi: sapete cosa fare».

Sandor resta in silenzio, stringe le labbra e i pugni. Mi volto verso di lui e aspetto che calino il cappuccio sulla mia testa, mi leghino le mani e mi portino fuori, proprio come sembra stiano per fare con lui. Un uomo mi si avvicina ed io lo fulmino con lo sguardo, ma lui sorride sinistro e mi stringe le braccia in una morsa di ferro. Un campanello d’allarme trilla nella mia testa.

«Cosa state facendo? Lasciatemi andare, mi fate male!», grido. La fronte del Mastino si aggrotta e nel suo sguardo leggo una nota di agitazione.
«Si da il caso, giovane lady, che oltre ad essere fuori legge siamo anche dei cavalieri. E i cavalieri salvano le fanciulle da cani rognosi come questo» sul suo volto deturpato si apre un sorriso beffardo. «E, per l’onore che serbo nei confronti di tuo padre, ho deciso di riportare sia te che tua sorella dalla lady vostra madre. Di certo puoi fidarti più di me che di quest’inetto, non trovi?».

«No!», cerco di liberarmi dalla presa dell’uomo che mi stringe le braccia, ma inutilmente. Il panico mi ghermisce lo stomaco, i miei occhi si sgranano. «No! Lasciatemi andare! Non voglio stare con voi!».

Scorgo Sandor dare spallate e gridare bestemmie, furioso come non l’ho mai visto. «Non toccatela!», il suo volto è distorto in una maschera di ira, le sue labbra sono tirate in quello che ha tutta l’aria di essere un ringhio. Gli uomini attorno a lui calano un sacco nero sulla sua testa ma lui non si arrende. «Non toccatela! Vi ucciderò! Vi ucciderò tutti, dannati bastardi! Lei è mia, è mia!».

Le lacrime mi pizzicano gli occhi e respirare diventa improvvisamente difficile: urlo che non voglio stare lì, che è col Mastino che voglio andare e non con loro, che sono dei vigliacchi e che li odio tutti e li farò uccidere da Robb, ma loro non mi ascoltano. Un uomo mi preme una mano in bocca ma io gliela mordo; la sua presa cede per un secondo ed io ne approfitto per fuggire, ma subito Thoros mi afferra per le braccia braccandomi come un cervo spaurito. Scalcio, urlo, ma è tutto inutile. Alla fine, dopo quelle che sembrano ore, la forza mi abbandona e la voce mi si strozza in gola. Faccio in tempo a sentire il Mastino chiamare il mio nome che le lacrime mi offuscano la vista ed io cado sulle ginocchia, debole come non mai. Per un motivo che non capisco mi ritorna alla mente il bacio della scorsa notte, le sue labbra crudeli che sapevano di vino , ed all’improvviso realizzo quanto io abbia bisogno di lui, quanto desideri riaverlo con me, quanto bene gli voglia nonostante le sue parole scortesi, i suoi mezzi sorrisi beffardi e le imprecazioni volgari. Il dolore esplode in me come un fulmine a ciel sereno e le lacrime striano le mie guance tutte assieme.

La grotta scende nel silenzio, solo i miei singhiozzi riecheggiano fra le pareti. Nessuno mi guarda, nessuno dice nulla. Sono tutti in silenzio, a fare finta che io non esista, a fingere di non avermi appena portato via l’unica persona che mi fosse stata vicina per tutto questo tempo, ed io mi riscopro ad odiarli tutti quanti. Arya, Beric, Thoros, il ragazzo dalle spalle larghe e tutti gli altri. Li odio. Li odio tutti… tutti!

Dita sottili mi sfiorano una spalla. Schiaffeggio via la mano di mia sorella con rabbia e le rivolgo un’occhiata truce. «Non mi toccare!», grido, e lei ritira la mano. «Vattene via! Non voglio vederti! Vattene!».

Arya si morde il labbro inferiore e si tortura i lacci della maglia, ma non dice nulla. Rimane in silenzio e se ne va, lasciandomi da sola. Sconvolta e priva di forze, sprofondo la testa nelle ginocchia, gli occhi chiusi e le spalle scosse dai singhiozzi. Ricordo la voce di Sandor mentre lo portavano via, la furia sorda che aveva solcato il suo sguardo quando aveva capito che non sarei andata con lui, ed un altro singhiozzo mi scuote le spalle nel momento in cui realizzo che, per la prima volta, mi ha chiamata per nome.



 
 
 
 
 
 
 
 Note dell'autrice.

1) la canzone iniziale è tratta dal musical Notre Dame The Paris. 
2) Questa è una citazione PALESISSIMA al film di Rapunzel. Perdonatemela ma dovevo, DOVEVO inserirla.
3) In questo What If Arya e Gendry sono già “dentro” la Fratellanza Senza Vessilli. Da poco, certo, ma ci sono già. Ho preferito fare questa piccola modifica in modo tale che non fosse tutto troppo simile alla serie tv o al libro poiché sarebbe risultato noioso e prolisso.
4) Sì, lo so che rileggere le stesse frasi del telefilm è molto Meh, però capitemi: amo questa scena con tutta me stessa. DOVEVO inserirla. 

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Ciao a tutti! 
Prima di tutto, mi dispiace di cuore per non aver potuto aggiornare la settimana scorsa. Purtroppo ho avuto diversi problemi, sia di salute che scolastici, e tutt'ora sono di frettissima perché dovrei riprendere a studiare per l'interrogazione di domani. Sigh.
Spero solo che il capitolo vi sia piaciuto, ero (e sono tutt'ora) molto agitata al riguardo. Adoro la Fratellanza Senza Vessilli e ancor di più adoro lo scontro tra Sandor e Beric. Dovevo insierirlo per forza, scusatemelo. 
Finalmente è apparsa Arya... e lei e Sansa hanno già ripreso a litigare. XD Niente da fare, 'ste due saranno sempre come cane e gatto - ma forse è proprio per questo che si vogliono così bene, sotto sotto? :P

Grazie di cuore a tutti coloro che hanno recensito il capitolo scorso, messo la storia nelle seguite\preferite\ricordate e letto questo capitolo. Grazie di cuore, davvero.
Ci vediamo al prossimo capitolo!

P.S: io e Phoenixstein stiamo scrivendo una nuova fanfiction SanSan a due mani.
Se volete dare un'occhiata, ecco qui il prologo!: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2986334&i=1


Baci!

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Capitolo 10
*** Something there ***


Something There
 
 
There's something sweet and almost kind
But he was mean and he was coarse and unrefined
And now he's dear and so unsure
I wonder why I didn't see it there before
 

«Dunque? Che ne facciamo di ‘sto cagnaccio?».
Voci confuse, sconosciute. Apro gli occhi, ma il buio è tutto ciò che vedo. Mi hanno bendato. Un improvviso mal di testa mi fa gemere di dolore. Dove sono? È un carretto, questo?! Le mie mani sono legate, la mia testa sembra star per esplodere… merda.
«Thoros ha detto di portarlo il più lontano possibile. Onestamente, non vedo l’ora di togliermelo dai piedi. Hai visto la sua faccia? Non vorrei ritrovarmela davanti neanche per tutto l’oro del mondo».

Thoros…

Immagini confuse mi tornano alla mente all’improvviso e la voce straziata dell’uccelletto mi rimbomba nelle orecchie. Ora ricordo tutto: il combattimento, quel verme di Beric che ordina ai suoi omuncoli di portarmi via, Sansa che urla e che chiama il mio nome… Il solo pensiero che una marmaglia di porci schifosi come quelli possa averle torto un solo capello mi fa ribollire il sangue. Che siano dannati!

Il carretto si ferma ed un rumore di passi strascinati si avvicina. Qualcuno mi tira giù il cappuccio con uno strattone e finalmente posso vedere in faccia il mio aguzzino: è un ragazzo. Dèi… non avrà più di vent’anni. I suoi occhi grandi e incavati sono di un colore simile al giallino, il suo mento è sporgente ed un lungo taglio che va dall’occhio destro allo zigomo sinistro gli scava il viso. Fra le dita ossute stringe un pugnale. Mi viene quasi da ridere. Forse con quello potrei pulirmi i denti una volta che gli avrò strappato via quel sorriso di merda che si ritrova.

«Allora, cane, ti abbiamo riportato in questo buco dove ti avevamo trovato. Lì c’è il tuo mantello e laggiù persino il tuo cavallino , sei fortunato che nessun lupo lo abbia sbranato ».
«Fai un altro passo e vedrai chi è che sarà sbranato, ragazzino», i miei denti si scoprono in un ringhio. Se solo fosse più vicino lo ucciderei a mani nude. «Chi te l’ha fatta quella cicatrice? La mammina come punizione per non aver bevuto tutto il latte dalla tetta?!».

Il ragazzino digrigna i denti ed issa il coltello verso la mia direzione, pronto a colpirmi. Qualcuno lo ferma prima che possa farlo.

«Ehi, ehi, ehi, calma, Clegane. Non c’è bisogno di offendere nessuno…», gli occhi scuri dell’arciere che era presente nella grotta incontrano i miei, le sue labbra sono inclinate in un sogghigno. . «… per ora», aggiunge, ritraendosi un attimo prima che il mio calcio possa raggiungere la sua faccia. Ridacchia sotto i baffi e poi fa spallucce, serafico. «Be’, è evidente che il cagnolino sia arrabbiato. Forse gli manca la sua padroncina, eh? E dimmi un po’, cane, sapeva scopare bene la tua dolce padroncina? Perché sai, per essere una lady pareva essere piuttosto attaccata ad un cagnaccio di strada come te… se capisci cosa intendo. Forse però lei preferisce qualcuno di meglio di un cane pulcioso… qualcuno come il sottoscritto, per esempio. Che ne dici, Relly, eh?! Pensi che potrei piacerle? Magari scopriamo persino che invece di un lupo la ragazzina è una cagna di prima scelta!».

«Prova anche solo a toccarla, arciere, e giuro su tutti e Sette gli dèi che—».

«Mi ucciderai?», mi canzona lui, scambiando un’occhiata complice con il ragazzino. Poi, di colpo, la sua espressione diventa grave ed il suo sorriso si spegne. «Il Signore della Luce ha deciso di non ucciderti, Clegane, ma non sfidare troppo la sorte. Potrei avere la mezza idea di scoccare una freccia in aria proprio adesso, e non ti garantisco che la sua traiettoria sarà fuori dalla tua portata. In fondo, un incidente è pur sempre un incidente anche agli occhi degli dèi... non credi?».

Con ancora lo sguardo fisso sul mio, l’idiota prende una freccia dalla faretra e la incocca nell’arco. Il ragazzino accanto a lui sbianca come un cencio e mormora qualcosa riguardo al loro dannato Signore della Luce, ma lui non lo ascolta. I suoi occhi scuri brillano di una luce perversa, a tratti grottesca, e le sue labbra esangui si tirano in un sorriso malato. Mi guarda dritto negli occhi, in attesa. Si aspetta forse che lo supplichi di lasciarmi andare? Piuttosto mi lascio ficcare una freccia in mezzo agli occhi!

«Avanti», sussurra lui, quasi avesse letto i miei pensieri. «Supplicami di lasciar stare, cane, e magari sarò magnanimo…».
Digrigno i denti. «Ficcatele su per il culo, le tue dannate frecce».
Lui sospira. «Devi per forza mettermi in difficoltà, non è vero? », punta il suo arco verso il cielo e sul suo viso si delinea un’espressione di sfida. «Vediamo se hai la pellaccia dura come dicono».

E la freccia scocca, il fischio del vento che la segue mi fa salire un brivido lungo la schiena. Sul volto dell’arciere si delinea un sorrisetto compiaciuto, ed io faccio appena in tempo sentirlo ridacchiare sotto i baffi che la sua espressione diviene una maschera di puro dolore e un grido forte e acuto abbandona le sue labbra. Non capisco cosa stia accadendo, ma ne approfitto per scendere giù dal carretto un istante prima che la freccia cada dritta dov’ero seduto. Mi libero dalle corde e, carico dell’ebbrezza della battaglia, do un calcio alle palle del ragazzino che subito si accascia a terra per il dolore. Mi volto verso l’arciere ma quando lo vedo il mio cuore perde un battito ed il fiato mi si strozza in gola per la sorpresa. Non posso crederci... è assurdo!

Il cane di prima, lo stesso che aveva spaventato Sansa e fatto abbassare a me la guardia, è sbucato fuori dal nulla e sta mordendo la gamba di quell’idiota.

«Cane rognoso! Togliti dai piedi!» , sbraita lui, ma quello non accenna a mollare la presa. «Fottuta bestiaccia! Farò di te carne da dare in pasto ai topi!», e prima che possa impedirglielo, prenda una freccia dalla faretra e la conficca dritta in mezzo al petto dell’animale. A ben poco serve il mio grido di rabbia, perché subito la povera bestia si allontana da lui ed inizia a guaire senza sosta mentre un lungo rivolo rosso bagna il terreno ed il suo pianto sofferente si riversa nell’aria.

Dannato bastardo!

Afferro il pugnale del ragazzino che, ancora dolorante a terra, non se ne accorge neppure; afferro la spalla dell’idiota in uno slancio e lo volto verso di me, occhi grigi contro occhi scuri. Devo fare davvero paura, perché all’improvviso lui sbianca come un fantasma. Gli rido in faccia.  

« Vediamo se hai la pellaccia dura come dicono», soffio fra i denti, ed il mio pugnale affonda nella carne della sua gola, aprendola come se fosse un mattoncino di burro. I suoi occhi si sgranano, dalle sue labbra prende a sgocciolare grumoso sangue scuro, finché con un mezzo sussulto cade a terra nella pozza del suo stesso sangue. È ancora vivo, mi rendo conto, e sono tentato di lasciarlo così; non ho intenzione di concedergli il lusso di una morte veloce, non dopo quello che ha fatto. Tuttavia, più per il desiderio di farla finita che per altro, mi decido a infliggergli il colpo di grazia. Poi gli sputo in faccia e do un calcio al suo cadavere, rompendogli qualche dente.

Poco lontano, mi arrivano sommessi i lamenti del ragazzino di poco prima. Lo scorgo mentre sta tentando di strisciare lontano da me, in un vano tentativo di fuga, e lo raggiungo con poche falcate. Quando lo alzo per la collottola, lui piange e mi supplica di non ucciderlo. Che scena patetica.

«Dimmi dove si trova la grotta, moccioso, e farai bene a dirmi la verità altrimenti…», afferro il cavallo dei suoi pantaloni in una minaccia più che chiara, lui squittisce di paura e giura e spergiura che non mentirà. «Sarà meglio per te, ragazzino», grugnisco. «E adesso parla!».

E lui parla. Mi dice tutto, dalla scorciatoia più pericolosa alla strada più sicura che porterà alla grotta; mi rivela chi vi è alla guardia e mi informa delle trappole sparse nei vari percorsi, aggiungendo un pianto disperato e la preghiera di lasciarlo vivere ad ogni informazione. «La n-notte è più semplice entrare», dice, e da come gli trema la voce capisco che non sta mentendo. «P-Purché non si ci faccia vedere… io… io… vi prego lasciatemi andare, sir!».

Con un colpo secco, il mio pugnale si conficca nella sua gola. Subito il sangue zampilla da tutte le parti: sul mio viso, sull’erba, sopra la mia armatura e sulla sua cotta di maglia. Il ragazzino fa appena in tempo a metabolizzare di star morendo che le gli occhi gli si girano all’indietro e tutto il suo corpo viene percorso da degli spasmi violenti, proprio come era accaduto al suo compare. Lo lascio andare e lui cade a terra con un tonfo secco, le orbite vuote adesso fisse sul nulla. Disgustato, rinfodero il pugnale e mi dirigo verso il corpicino del cane: è steso a terra, piange senza sosta e guaisce. I suoi occhi neri luccicano di dolore. Mi sento come se una mano invisibile mi stesse afferrando il cuore: se non fosse stato per il suo intervento, a quest’ora sarei cibo per vermi. Lo accarezzo, il suo pelo lungo è umido di sangue e terriccio, e stringo le labbra. Ha perso troppo sangue, non posso più fare niente.

«Sta calmo, ragazzo», borbotto, accarezzandolo. Lui si dimena e guaisce più forte, i suoi occhi supplicano quello che il muso non riesce a dire. Il dono della misericordia è l’unico che posso offrirgli. «Calmo», sussurro, afferrando il pugnale rubato prima al ragazzetto. Un sospiro colmo di frustrazione lascia le mie labbra, tuttavia mi costringo ad andare avanti. «Presto sarà tutto finito», lascio un’ultima, affranta carezza sul suo muso e continuo a guardarlo negli occhi quando il pugnale affonda nel suo cuore. Un guaito più forte dei precedenti spezza il silenzio, il suo corpo trema ed i suoi occhi neri diventano vitrei, vuoti. È tutto finito, ragazzo.

Lo seppellisco e rimango per un po’ ad osservare il suo giaciglio. Non riesco a smettere di tremare. Mi aveva visto solo mezza volta eppure ha comunque dato la sua vita per proteggermi. Non era nient’altro che un cane, eppure è morto con più valore di molti di quei merdosi cavalieri che ho incontrato. Stringo i pugni così forte da conficcarmi le unghie nella carne. Non lascerò che sia morto inutilmente: troverò l’uccellino e lo riporterò indietro, fosse l’ultima cosa che faccio.

Un forte odore di fumo aleggia nell’aria. Mi giro e scorgo un villaggio che non avevo visto prima: è piccolo, anonimo… probabilmente ci saranno meno di cento abitanti. Rinfodero il pugnale ma un improvviso dolore al braccio mi strappa un gemito. Merda, la cicatrice lasciata dal fuoco si è riaperta ed ha ripreso a dolere. Non è profonda, ma se non la curo potrebbe infettarsi e non mi va proprio di lasciarci le penne a causa del fottuto fuoco. ‘Fanculo, ci penserò più tardi: non sarà un po’ di dolore al braccio ad impedirmi di fare a pezzi qualcuno. Afferro la mia spada, mi incammino verso Straniero, il quale nitrisce infastidito per l’odore troppo forte del sangue, e lo calmo con delle carezze sul muso per poi salire sulla sua groppa, tirare su il cappuccio del mantello e partire spedito verso il villaggio; provo una soddisfazione quasi infantile quando sento il naso di uno dei due scagnozzi di Beric spezzarsi sotto il peso del cavallo. Non appena arrivo nei pressi del villaggio, smonto dalla sella e mi premuro di legare Straniero in un punto isolato, poi tiro su il cappuccio. Nessuno deve riconoscermi.

Due uomini mi passano accanto senza degnarmi di un’occhiata. Qualcosa mi dice di seguirli ed io decido di fidarmi del mio istinto: entro nella stessa locanda in cui entrano loro e mi siedo dietro il loro tavolo. Ben presto scopro di aver avuto ragione.

«… Sì, sì, proprio così, Thomas. Si fanno chiamare Fratellanza Senza Vessilli: sono un pugno di piantagrane che si divertono a sovvertire ed uccidere uomini dei Lannister. Ho sentito dire che uno di loro è morto e resuscitato… assurdo, vero?».
«Sono tutte un mucchio di balle. Un uomo che risorge dalla morte! Ah! Fra un po’ mi dirai pure che gli Estranei esistono ancora».
«Balle o meno, la Regina ha assoldato un bel po’ di uomini per ammazzarli. Secondo te cosa ci fanno quelle guardie, laggiù, eh? Visita di piacere?».

Il mio sguardo corre verso un gruppo di uomini fuori dalla locanda: indossano le armature dalla guardia cittadina di Approdo del Re. Preso com’ero dalla discussione di questi due idioti non li avevo notati. Digrigno i denti, furioso con me stesso per essere stato tanto cieco: che io sia dannato… un solo passo falso e quelli lì mi tagliano in due.

«Non lo so, Thomas, e probabilmente è meglio così. Non è saggio immischiarsi negli affari della Regina, dai retta a me».

Il braccio mi pizzica di dolore nel momento stesso in cui un’idea mi sfiora la mente. Esco dalla locanda a passo veloce, il fiato corto e l’ansia addosso. Stanno cercando Beric, no? Bene, io so perfettamente dove si trova. Se anche loro lo sapranno sarà molto più semplice far uscire da lì l’uccellino, ma io non posso comunque andare da loro: se mi vedono mi riporteranno da quella puttana di Cersei, e che gli dèi mi fulminino se ho intenzione di rivedere la sua brutta faccia. Devo trovare qualcuno disposto a indurre le guardie a stanare Beric ed i suoi sporchi amichetti, qualcuno che non desti sospetti, qualcuno come… come…

«Avete una moneta da prestarmi, sir? Giuro che ve la restituirò appena potrò… vi prego, ho tanta fame».

Un moccioso!

Gli tappo la bocca prima che possa gridare. In preda al panico, lui tenta di mordermi la mano ma l’agitazione lo induce a mordersi la lingua e grosse lacrime appaiono agli angoli dei suoi occhietti verdi. Non appena il suo sguardo si posa sulla parte bruciata del mio volto, diventa pallido come un cencio e si dibatte dalla mia presa come in preda alle convulsioni. Roteo gli occhi, i nervi a fior di pelle. Dannatissimi ragazzini. Lo scuoto un po’, i miei occhi fissi sui suoi in un tacito avvertimento, e gli stringo le spalle con forza.

«Senti, moccioso, ascoltami bene se ci tieni alla pelle: vai da quelle guardie laggiù e consegna loro questa carta», gli passo la ricevuta dell’oro che Beric ed i suoi scagnozzi mi devono, poi gli spiego per filo e per segno la strada più breve che dovrà riferire alle guardie. C’è il sigillo e la firma di Dondarrion sopra quella ricevuta. Se vogliono una prova che quello che dice il moccioso è vero, allora l’avranno. «Prova a dire chi è che ti manda, o anche solo a fare un accenno al mio volto e ti giuro su tutti e sette gli dèi che ti stacco l’uccello e te lo faccio ingoiare. Sono stato chiaro?».

«S-Sì… per favore, sir, mi fate male—».
«Te ne farò ancora di più se mi disobbedirai... E prova di nuovo a chiamarmi sir e ti strappo via la lingua! Muoviti!».

Il ragazzino, gambe secche come fuscelli ed abiti lerci e pieni di pulci, corre dalle guardie con passo traballante. Io mi nascondo dietro un cespuglio, il braccio che continua a bruciare e la fronte imperlata di sudore, e le mie mani tremano d’agitazione mentre scorgo i dannati volti delle guardie mentre si scambiano occhiate perplesse e sorprese quando il ragazzino consegna loro la ricevuta e fugge via in lacrime. Quelle si scambiano occhiate perplesse e dubbiose, ma proprio quando l’idea che stiano per prendere la carta e gettarla a terra mi attraversa la mente, un uomo dalla barba bionda, quello che ha tutta l’aria di essere il capo del gruppetto, urla ai soldati di correre ai cavalli e fa cenno di avanzare verso la direzione indicata dal ragazzino.

Un sorriso mi increspa le labbra. Ha funzionato. Dèi, darei un braccio per sapere che faccia farà Dondarrion non appena si vedrà arrivare addosso tutte quelle guardie. Corro da Straniero e monto in sella, poi do di speroni con forza, lo stomaco in subbuglio per la collera e la preoccupazione di arrivare in tempo dall’uccellino prima che le facciano del male. Non permetterò che succeda ciò che è accaduto ad Alina. Imparerà, Beric Dondarrion, che non è saggio sottrarre un osso ad un mastino. Soprattutto se quell’osso riporta il nome di Sansa Stark.

 


«Ecco, mangia», alzo il capo. I miei occhi incontrano l’azzurro intenso dell’unico occhio buono di Beric Dondarrion: tra le sue dita ossute, tese verso di me, sorregge del pane nero. Stizzita, stringo le labbra e mi volto dall’altra parte. Verrà l’Estate prima che io accetti del cibo da parte sua. «Questo comportamento non ti porterà a nulla, dolce lady», mi rimprovera, sospirando, ma io non rispondo. Non voglio avere niente a che fare con lui, non dopo che mi ha rinchiusa in questa grotta che puzza di bruciato ed è colma di rinnegati e di fuorilegge.

Lui si siede accanto ad una roccia poco lontana da me e, dopo alcuni minuti, il prete rosso, Thoros, va a fargli compagnia. «Dai retta a lui, piccola», dice, scrutandomi da sopra il suo calice di vino. «È inutile fare la difficile. A che pro, poi? Ti stiamo solo riportando a casa e allontanando da quel mostro».

«Lui non è un mostro!», le mie guance si tingono di rosso, il cuore palpita più forte. Loro non sanno nulla di lui. Giudicare una persona solo perché condivide il sangue di qualcuno che si odia è da vigliacchi, e lo so bene perché è stato proprio a causa del mio sangue che sono stata percossa e umiliata da Joffrey. «Voi non lo conoscete!».

«E tu invece sì? Avanti, ragazzina, dimmi qualcosa di Sandor Clegane che ancora non so. L’ho affrontato in battaglia tre volte e tutte e tre volte ho vinto io. E sai perché, dolce lady? Per questa», Thoros mi mostra la spada di ferro con cui Beric aveva lottato contro il Mastino poche ore prima, la stessa che aveva preso fuoco. Un sorrisetto compiaciuto incurva le sue labbra sottili. «Ti sembra che non sappia come si è procurato quella cicatrice, ragazzina? Io so tutto di lui, di sua sorella e delle sua dannata passione per il sangue. Dammi retta: l’oscurità è radicata nella sua anima, il suo cuore è nero e duro come la pietra. Persino il Signore della Luce non potrebbe fare nulla per aiutarlo, quindi smettila di farti illusioni…», beve un altro sorso di vino, poi si asciuga le labbra con il dorso della mano. «Il Mastino è amico solo del Mastino. Se gli convenisse, ti infilzerebbe da una parte all’altra con quella sua dannata spada arrugginita».

Rimango in silenzio, a corto di parole. All’improvviso, le parole colme di rabbia che Sandor Clegane mi aveva rivolto un momento prima di baciarmi fanno capolino nella mia memoria, taglienti e affilate come rasoi. I suoi occhi grigi pieni di odio, il sogghigno sinistro che gli aveva incurvato le labbra quando aveva ucciso quell’uomo che aveva tentato di violentarmi, la sua spada sporca del sangue del Re che aveva giurato di proteggere mi si parano davanti, e tutte le mie certezze vacillano.

Forse Thoros ha ragione e mi sono fatta un’idea sbagliata su Sandor Clegane. Forse quel bacio che mi ha fatto battere il cuore tanto forte non significa niente per lui, magari mi odia ed è davvero crudele come sembra...

Ma quando mi torna in mente l’istante in cui mi aveva salvata dall’attacco della folla, il suo sguardo colmo d’angoscia mentre mi raccontava di sua sorella ed il modo straziante in cui aveva urlato il mio nome prima di essere portato via, una vampata di calore mi investe in pieno… e allora capisco.

«No», sussurro, più a me stessa che a Thoros. «Io so qualcosa di lui che tu non sai».
Una risata soffocata lascia le sue labbra screpolate, Thoros inarca le sopracciglia divertito. «Ah, sì? Be’, sono tutto orecchi! ».
 «Io so che non mi farebbe mai del male».

Prima che lui possa ribattere mi allontano, il petto gonfio e le dita tremanti d’euforia. Scorgo mia sorella Arya parlottare con quel suo amico dalle spalle larghe a pochi metri da me; i nostri sguardi s’incontrano, grigio contro azzurro, e sulle sue labbra si forma il mio nome. No. Non voglio parlare con lei. Non adesso. Sarà sempre mia sorella e sono lieta di riaverla con me, ma sono ancora furiosa con lei.

«Sansa», mi chiama lei. Non rispondo. «Sansa!».
«Che cosa c’è?», mi volto verso di lei in uno scatto di furia, le mie labbra si serrano in una lunga smorfia severa. «Forse vuoi uccidere anche me, adesso?».
La sua bocca si spalanca in una “o” colma di sdegno. «C-Come puoi…?! Lui ha ucciso Mycah!».
«E mi ha salvato la vita. Perché non puoi semplicemente accettarlo?».
«No, perché tu riesci ad accettarlo, piuttosto? Ti ha salvato la vita solo per il suo tornaconto! Vuole consegnarti a Robb per avere un riscatto e poi se ne andrà via!».
«Ed invece per i tuoi amichetti fuorilegge sarà diverso, non è così?», la mia voce si alza di diverse ottave, le mie dita si serrano lungo i fianchi. Sospiro, imponendomi di mantenere la calma. Una vera lady non alza mai la voce. «Arya, lui… lui è diverso da come credevamo. Anch’io all’inizio pensavo fosse crudele e cattivo, ma non lo è, devi credermi!».
Lei indietreggia e mi guarda con occhi assottigliati in due fessure piene di risentimento. «Tu sei pazza! Lui è un mostro e… e… tu lo difendi! Lo difendi! », la sua voce diventa stridula, tutto di lei urla la sua rabbia interiore. Mi punta un dito contro. «Era presente quando nostro padre è stato ucciso e non ha fatto nulla per impedire che gli tagliassero la testa! Ma a te questo non importa, giusto? A te basta solo riavere i tuoi vestiti profumati ed un principe che ti riempia di moine e fiori! Cos’è, visto che Joffrey non ti piace più adesso te la fai col suo cane da guard--».

Lo schiaffo che le arriva rimbalza fra le pareti forte come un tuono. Non faccio in tempo a rendermi conto di quello che ho fatto, a dire che mi dispiace, che non avrei dovuto colpirla e che non so che cosa mi sia preso, che lei ringhia di rabbia e mi salta addosso tirandomi i capelli e riempiendomi di pugni. Io urlo e mi dimeno, scalcio e provo a proteggermi il viso con le braccia, ma è inutile. Nonostante sia parecchi centimetri più bassa di me, Arya è sempre stata in grado di battermi in ogni lotta. Quando gli uomini di Beric ci separano, lei si sta ancora agitando furiosa tra le braccia di quel suo amico dai capelli scuri.

«Sei una stupida!», grida, feroce come una lupa. «Una stupida oca!».

«Basta così!», la voce di Beric Dondarrion irrompe nella grotta. Accanto a lui vi sono Thoros ed altri due uomini corpulenti, li stessi che mi avevano tenuta ferma quando avevano portato via Sandor. Ci squadrano tutti con aria di rimprovero e per un momento mi sembra di essere tornata ai tempi in cui nostro padre ci sgridava per i nostri battibecchi. «Si può sapere cosa vi prende?».

«È colpa sua!», sbraita Arya, paonazza. «È sempre stata colpa sua! Tutte le cose brutte che sono successe sono accadute perché lei voleva sposare quel verme di Joffrey! È colpa sua se nostro padre è morto! È colpa sua! Solo sua!».

«Non è vero!», urlo in risposta, le lacrime che mi pizzicano la vista al ricordo della testa di mio padre fissata su una picca. «Non è vero! Sta mentendo!», la voglia matta di colpirla diventa troppo grande per riuscire a trattenerla. Beric Dondarrion mi stringe per le braccia, impedendomi di raggiungere Arya. «Non è vero! Non è vero!».

«Ora basta! Tutte e due!», Beric mi strattona verso di lui e mi prende il viso fra le mani, prepotente, ed il suo unico occhio azzurro mi trapassa da parte a parte. «Un’altra di queste scenate e giuro che arriverai dalla tua mammina senza lingua,mia dolce lady… e lo stesso vale anche per te!», aggiunge, rivolgendosi ad Arya. Vorrei dirgli di stare zitto, che non sa niente e che non ha il diritto di parlarmi in questo modo, ma le parole mi restano incastrate in gola. Io ed Arya ci scambiamo un’ultima occhiata di fuoco, dopodiché mi districo dalla stretta di Beric e mi volto dall’altra parte prima che l’ira mi faccia perdere le staffe. Tiro un sospiro profondo, passandomi una mano sul volto.

Calmati, una lady non si abbassa mai ai livelli dei suoi nemici.

Il momento è passato. Adesso, al posto della rabbia, c’è solo una grande voragine che mi strugge il cuore e lo stomaco. Quand’ero ad Approdo del Re, senza nessun amico vicino, desideravo rivedere mia sorella più di ogni altra cosa al mondo eppure adesso che siamo riunite litighiamo come il gatto e il topo. Mi sento in colpa per averla colpita, forse dovrei andare da lei e chiederle scusa, ma i miei piedi rimangono fissi sul terreno e la lingua secca sul palato. Affondo la testa nelle ginocchia, il mio cuore che va’ a pezzi. Vorrei che il Mastino fosse qui. Vorrei che mi desse la sua cappa bianca e mi dicesse che andrà tutto bene, vorrei essere a casa, vorrei rivedere mia madre e mio fratello Robb e vorrei che nulla di tutto questo fosse mai accaduto. Le lacrime mi pizzicano gli occhi, ma io scuoto la testa. No, basta. Non voglio che Beric ed i suoi scagnozzi mi vedano piangere: mi hanno già fatto del male, non permetterò che si prendano anche quest’altra vittoria su di me.

Socchiudo gli occhi. Le ombre sinuose che il fuoco proietta sulla parete rocciosa dinanzi a me assumono forme umanoidi, grandi e grosse. C’è un uomo… e una fanciulla: lui ha orecchie da mastino ed una profonda cicatrice sul volto, lei invece ha delle piccole ali da uccellino e luminosi occhi azzurri. L’uomo le accarezza i capelli con una gentilezza disarmante e lei gli sorride dolcemente.

Sembrano così felici, penso, smossa da uno strano senso di dolcezza al cuore, ma poi un altro uomo sbuca dal nulla, grande e grosso quanto una montagna, e con lui altri dieci, venti, cinquanta scagnozzi. La fanciulla urla, l’uomo con le orecchie da mastino sguaina la spada ma è tutto inutile: gli uomini riescono a portarla via e lui non può fare nulla per fermarli. “Salvami”, dice lei, piangendo. “Ti prego, vienimi a salvare”, ma lui non arriva. Non ce la fa, non può riuscirci perché l’uomo-montagna è troppo grosso, troppo pericoloso. All’improvviso dita fredde e viscide di sangue mi afferrano la gola, un’altra mi afferra le braccia e altre ancora le gambe ed i vestiti, strappandomeli di dosso. Una voce glaciale mi sussurra all’orecchio.

“C’è ancora qualcosa che posso strappargli…”.
 
Apro gli occhi di colpo. Il sogno è svanito, le mani e la voce glaciale dell’uomo-montagna pure, ma le urla e le bestemmie degli uomini sono rimaste. Strabuzzo gli occhi e salto in piedi, la testa che gira come una trottola ed il cuore che batte forsennato contro il petto. L’odore ferreo del sangue mi riempie le narici, un calore insopportabile mi investe in pieno. Fuoco… hanno appiccato un incendio! Qualcosa mi afferra la mano, gli occhi grigi di Arya si puntano sui miei.

«Sansa!», grida, una nota di paura nella voce. «Sansa, dobbiamo andarcene! Le guardie della Regina Cersei sono qui… muoviti!».
La realizzazione di ciò che sta accadendo mi colpisce come una secchiata d’acqua gelida. Ci stanno attaccando. Le guardie della Regina hanno stanato il nascondiglio di Beric!

Un uomo cade ai miei piedi colpito al collo da una freccia: una lunga scia scarlatta sgorga dal suo collo ed i suoi occhi sono rivoltati all’indietro. Prima che possa urlare, Arya mi tira forte per il braccio e corre il più lontano possibile; con lei c’è il ragazzo robusto che l’aveva fermata quando era corsa contro il Mastino, la spada sguainata ed un elmo di toro in testa. «Avanti!», urla, facendosi spazio tra le fiamme che hanno iniziato a divampare ancora più feroci. «Dobbiamo andarcene da qui!».

Durante la fuga, un uomo dall’armatura della guardia cittadina ci si para davanti, il mantello e l’elmo dorati macchiati di sangue ed una mazza chiodata in pugno. Arya sguaina una spada troppo grande per le sue dita e il suo amico le si para dinanzi con fare protettivo, facendole cenno di proseguire dall’altra parte. «Andate avanti voi, io vi raggiungo dopo!», urla.

Arya corruccia la fronte ed un lampo di timore attraversa i suoi occhi chiari. «Gendry, non puoi—».

«Muoviti!».

Facciamo come dice ed usciamo dalla grotta in fretta e furia, il fumo in faccia e i vestiti pieni di fuliggine. Il vento fresco della sera si mescola all’odore pungente di carne bruciata, l’aria è stantia e le pietre sono sporche di sangue. Tutto brucia: gli alberi, la grotta, gli uomini… se avessero potuto, i soldati dei Lannister avrebbero dato fuoco anche all’acqua. Io ed Arya ci scherniamo gli occhi con le dita mentre con l’altra mano ci teniamo ben strette l’una all’altra. Siamo quasi giunti vicino ad un sentiero che il fuoco non ha ancora divorato, quando un uomo con una folta barba ispida e scura si ci para di fronte. È uno degli uomini di Beric, uno di quelli che avevano calato un cappuccio sulla testa del Mastino, i suoi occhi sono furenti e spaventosi e d’istinto cerco di spingere Arya dietro di me. L’uomo, capendo che stavamo fuggendo, si avventa su di noi ed io faccio appena in tempo a chiudere gli occhi che il rumore metallico del ferro che cozza contro altro ferro mi rintona nella notte. Sgrano gli occhi, il respiro che mi si spezza in gola: la guardia è morta sgozzata, i suoi occhi scuri sono rivoltati all’indietro e la sua barba è sporca del suo stesso sangue. Un’altra sagoma ben più possente mi si para dinanzi, alzo lo sguardo ed il mio cuore sussulta.

« Non ti ho strappato via dalla tua gabbia dorata per lasciarti marcire in un’altra gabbia ancora più piccola, uccelletto», raspa il Mastino, la voce ridotta ad un rantolo. Sul mio viso si apre un sorriso incredulo. Prima che possa dire qualcosa, lui mi afferra la mano e mi tira verso di sé. «Andiamo via di qui».

Arya, ancora aggrappata a me, punta i piedi a terra ed il Mastino si ferma di colpo e la guarda come se la vedesse per la prima volta. Digrigna i denti, evidentemente agitato a causa del fuoco che imperversa a pochi passi da noi, e una bestemmia lascia le sue labbra ruvide.

«Che cazzo ci fa qui?! Non ho intenzione di portarmi dietro anche lei», il tono in cui lo dice è sprezzante, i suoi occhi sono assottigliati in due fessure grigie. D’istinto stringo più forte la mano di mia sorella, terrorizzata all’idea di perderla di nuovo. Lui non sembra apprezzare la cosa. «Lasciala qui e andiamocene via!».

«No!», grido. «Arya verrà con noi. Non posso lasciarla, è mia sorella!».

Ma Arya sembra preoccupata di ben altro. «Sansa, non possiamo andarcene! Dobbiamo trovare Gendry, lui è ancora lì dentro!».
«Chi cazzo è Gendry?», abbaia il Mastino, le nocche delle dita strette a pugno. «Ascolta, ragazzina, non sono venuto fin qui ad affrontare il fottuto fuoco e le cappe dorate per tornarmene a mani vuote. Vuoi portarti dietro anche la lupacchiotta? Ebbene, che gli dèi siano dannati, verrà anche lei. Più siete e più alta sarà la ricompensa!».

Ma Arya non vuole saperne e, prima che io possa fermarla, sguscia via dalla mia stretta e corre verso la grotta. Il Mastino l’afferra in poche falcate, le stringe un braccio attorno al collo e se la carica addosso come un sacco di farina. Arya scalcia, urla ingiurie e volgarità tali da farmi drizzare i capelli, ma la presa di Clegane non molla. «Scalcia pure quanto vuoi, lupacchiotta. Ti servirà a ben poco», le dice.

Il sangue mi si ghiaccia nelle vene quando sento le voci concitate dei soldati farsi più vicine. Il mio sguardo saetta su quello del Mastino ed entrambi ci scambiamo un breve cenno col capo e ci dirigiamo veloci verso Straniero. Dobbiamo andarcene da qui. Una volta arrivati, lui si toglie il mantello e lo stringe attorno ad Arya così stretto che per un attimo temo che stia per soffocarla. «Questo dovrebbe tenerti buona per un po’, lupacchiotta», ghigna, e prima che lei possa sputargli in un occhio le ficca un pezzo di stoffa in bocca.

«Non potete farle questo!», dico, indignata. Arya sarà pure pestifera e fastidiosa ed odiosa, ma è pur sempre mia sorella e lui non ha il diritto di trattarla così. «Arya è—».
«Una ragazzina odiosa quasi quanto te in questo momento, uccelletto», mi zittisce lui, una smorfia inquieta dipinta sul volto deturpato dal fuoco. «E adesso muoviti a montare in sella, se non vuoi vedere quanto poco posso essere gentile con le ragazzine che mi fanno incazzare».

Seppur controvoglia e infastidita dalle sue parole, ubbidisco senza fiatare. Tengo stretta Arya fra le braccia, in modo tale che non cada dalla sella, ma lei continua a lanciarmi occhiatacce piene di collera e alla fine decido di non guardarla più. Cavalchiamo per lungo tempo, la luna è alta nel cielo quando ci fermiamo ed Arya, in un modo o nell’altro, si è addormentata fra le mie braccia. Per la prima volta dopo tanto tempo mi concedo un momento in più per osservarla: è cresciuta tanto dall’ultima volta che l’ho vista, e non solo d’altezza. Persino adesso che sta dormendo il suo viso conserva una nota d’angoscia e le sue labbra sottili sono inclinate verso il basso, gravi proprio come quelle di nostro padre quando era sovrappensiero. Le sposto una ciocca corvina dal viso e le scosto via la benda dalle labbra, accarezzandole una gote. Nonostante tutti i litigi, le incomprensioni e le offese, Arya rimane sempre mia sorella – la mia unica e piccola sorella – ed io non mi separerò mai più da lei. 

«Fottuti Inferi… In culo Dondarrion e il prete rosso», la voce rude e strascicata del Mastino mi fa rinsavire dai miei pensieri. Lui scende da cavallo, la cicatrice sul suo volto sembra meno paurosa del solito. Mi guardo attorno: non so dove ci troviamo, né se possiamo considerarci davvero al sicuro. L’aria attorno a noi è umida e pesante e questo mi fa credere che siamo molto vicini alle Torri, e quindi anche alla lady mia madre e mio fratello Robb. «… E in culo anche alla tua dannata sorella, uccelletto. La prossima volta non sarò così gentile con lei».

«Arya è solo una bambina», ribatto d’istinto, nonostante persino io spesso non riesca a fare a meno di trovarla insopportabile. Non le ho ancora perdonato quello che stava per fare al Mastino.  « Datele un po’ di tempo per farle capire che non volete fare altro che riportarci a casa e si calmerà».

«Sarà meglio per lei. Mi auguro che il tuo caro fratellino abbia la decenza di darmi il doppio della ricompensa, perché in caso contrario non ti garantirò che la lupacchiotta tornerà a casa con tutti i pezzi al posto giusto», afferra la fiasca di vino che ha legata ai pantaloni e se ne scola giù gran parte. All’improvviso mi accorgo di avere sete, ma bere dallo stesso contenitore da cui ha bevuto lui sarebbe davvero sconveniente. Mi mordo forte le labbra, frustrata. Lui mi lancia un’occhiata obliqua e, quasi mi avesse letto nel pensiero, mi porge la borraccia con ancora i bordi bagnati della sua saliva. «Bevi», mi ordina, ed io scuoto il capo risoluta. Lui non sembra apprezzare la cosa. «Bevi, per gli dèi!».

«D’accordo!» Sbotto infine, prendendogliela dalle dita. Appoggio Arya ai piedi di un albero-diga e faccio ben attenzione a rimboccarle il mantello sino a sopra il collo per non farle prendere freddo. Quando torno dal Mastino studio la fiasca imbarazzata all’idea di bere dallo stesso recipiente da cui ha bevuto lui, finché la sete non prende il sopravvento ed io mi decido a buttar giù del vino. L’alcol scorre lento giù per la gola, lungo i polmoni fino ad arrivare allo stomaco, dissetandomi e riempiendomi di calore in questa notte gelida. Un lungo rivolo violaceo cola giù dal mio mento, delineando la linea del mio collo e del petto fino a scendere tra l’incavo dei seni. Un brivido mi scuote le spalle e con la coda dell’occhio mi accorgo dello sguardo del Mastino fisso sul mio petto. Arrossisco violentemente e mi affretto a rendergli la fiasca, per poi sistemare meglio il corpetto del mio vestito in una mossa involontaria. Il Mastino se ne accorge e sorride sprezzante.

 «L’uccelletto prova imbarazzo se un uomo la guarda, vedo», mormora, bevendo un altro sorso dalla fiasca di vino. «Non devi. Sei una donna, ormai. È normale che un uomo ti guardi».
« Non sono un uccelletto», sussurro, senza riuscire a dissimulare il mio imbarazzo. « E non è educato guardare una donna a quel modo, potreste imbarazzarla».

I suoi occhi si posano sulla mia figura con quasi più voluttà di prima ed il mio stomaco si stringe in una morsa. Mi si avvicina con passo deciso, la sua enorme ombra che troneggia sulla mia, e le sue labbra si incurvano verso l’insù. Mi alza il mento con due dita e all’improvviso il ricordo del bacio che mi ha dato mi colpisce come un fulmine a ciel sereno, facendomi tremare le ginocchia ed il cuore.

«Ti ho imbarazzata, uccelletto?» Sussurra, tornando a guardare il solco dei miei seni quasi con sfida.  
«Sì», la mia voce trema. «E vi prego, smettetela di chiamarmi a quel modo. Ho un nome, usatelo!», indietreggio di qualche passo, finendo a spalle a muro contro un albero-diga. «… se ciò vi compiace», aggiungo poi, ricordandomi delle buone maniere.

Lui avanza ancora ed io mi ritrovo bloccata contro il suo corpo, i suoi occhi grigi fissi sui miei, ed un brivido mi risale la schiena. Con stupore, realizzo che non si tratta di un brivido di freddo. Lui alza una mano sul mio viso ed io chiudo gli occhi, troppo imbarazzata per reggere il suo sguardo. Per un momento, l’idea che stia di nuovo per baciarmi mi sfiora la mente ed il mio cuore sussulta, ma quando li riapro Sandor Clegane è ancora davanti a me: la cicatrice sul suo volto risplende sinistramente alla pallida luce della luna, ma io non ne ho più alcun timore.

«Solo se tu fai lo stesso…», le sue dita scorrono lungo la mia guancia, lasciando una scia bollente sulla mia pelle. Il suo odore misto a sudore e sangue mi riempie le narici. «… Sansa».

Restiamo in silenzio, a fissarci. L’aria vibra di sensazioni nuove, strane, ed il mio cuore si contorce fino a straziarsi. Mi torna in mente il momento in cui, ad Approdo del Re, mi aveva afferrata un attimo prima che cadessi nel vuoto, salvandomi dal suicidio, ed il momento in cui mi aveva tratto in salvo dai lupi. Mi ha sempre salvata, lui. Non è un vero cavaliere, eppure è come se lo fosse.
Il suo viso è così vicino al mio che gli basterebbe un solo passo per baciarmi. Chiudo gli occhi, in attesa, mentre realizzo che quel pensiero non mi fa più così paura.

«Sansa…», bisbiglia un'ultima volta. La sua voce è dura come l'acciaio eppure mai il mio nome mi era parso tanto dolce sulle labbra di qualcuno. Schiudo gli occhi, ma lui non c’è più. Una cacofonia di pensieri e parole si aggrovigliano nella mia mente e mi riempiono di dubbi e timori. Non riesco a capire… cos’è accaduto? Rivolgo il mio sguardo verso di lui, in cerca di risposte, ma non riesco a parlare: è come se la mia voce fosse incastrata in gola, insieme al cuore e alla ragione.

«Va’ a dormire», si limita a dire Sandor, sedendosi sul tronco di un albero, dandomi le spalle. «Io ho ancora da fare, qui».

Aggrotto la fronte senza capire, finché lui si slaccia lo spallaccio dell’armatura scoprendo il braccio. Il ricordo del fuoco che lo aveva avvolto durante la battaglia con Dondarrion mi torna alla mente, e con esso anche quello delle lacrime che avevano solcato il suo viso. Con la coda nell’occhio vedo una grossa bruciatura rossastra sul suo braccio e il mio cuore sobbalza. È ferito. Il fuoco ha bruciato il suo braccio! Un istinto ignoto mi spinge a sedermi accanto a lui: alla luce tremula della luna, l’espressione contrita di Sandor Clegane è evidente. Lo zittisco prima che possa dire qualsiasi cosa.

«Vi prego», sussurro, evitando di guardarlo negli occhi per timore di arrossire come una bambina. «Lasciate che sia io a medicarvi. Ve lo devo, dopo tutto quello che avete fatto per me e per mia sorella».

Sulle sue labbra danzano un centinaio di domande e di dubbi, i suoi occhi grigi sono sgranati per la sorpresa. Forse è solo una mia impressione, ma per un attimo mi sembra di vederlo arrossire. Distoglie lo sguardo, allunga il braccio verso di me ed annuisce nervosamente. Osservando la ferita, mi accorgo con sollievo che non è grave: per fortuna il fuoco è stato estinto prima che potesse causare troppi danni, tuttavia deve comunque essere disinfettata o si infetterà. C’è solo un modo per farlo, però so già che brucerà terribilmente. Stringo le labbra, indecisa sul da farsi, e sospiro.

«Maestro Luwin una volta aveva curato una bruciatura del genere a mio fratello Bran. Era piccolo, ma selvaggio tanto quanto Arya.. forse persino di più. Un giorno entrò nelle cucine e si rovesciò dell’acqua bollente sulla coscia, provocandosi una grave ustione. Ricordo che maestro Luwin applicò diversi unguenti sulla ferita, ma prima di ognuno versava del vino per disinfettarla…», ricordare Bran non fa altro che angosciarmi. Vorrei che fosse qui, ancora vivo e sorridente, ma so bene che questo non è il momento adatto per pensarci. Faccio un respiro profondo, imponendomi di stare calma, e afferro la fiasca di vino del Mastino. «Brucerà un po’», lo avverto, e quando rovescio un po’ del liquido sulla ferita lui stringe un lembo della mia gonna e digrigna i denti con forza. Strappo una lunga striscia di stoffa dal mio abito e la uso per fasciargli la ferita, cercando di recargli meno male possibile. Non sarà perfetta e probabilmente il nodo è troppo lento, ma perlomeno adesso non rischia che gli vada il braccio in cancrena.

«Quando arriveremo alle Torri farò in modo che vi vengano date tutte le cure necessarie », sorrido, ma il mio nervosismo è evidente. Se lui dovesse morire io non potrei più tornare da mia madre e mio fratello e questo non posso permetterlo, non adesso che sono così vicina a loro. «E nel frattempo pregherò gli dèi che possiate stare meglio».

Lui ridacchia piano, come a volersi fare beffe di me. «Hai di nuovo paura che possa morire, eh?», strascica. Io arrossisco. Sono davvero così incapace a celare i miei sentimenti? «Che cosina graziosa che sei. Tutta cortesie e gentilezze persino adesso che siamo entrambi bloccati nel bel mezzo di una foresta in culo al mondo. Mi domando se anche tua sorella, lì, sia dello stesso avviso».

Mi volto verso Arya: dorme, è viva ed è di nuovo accanto a me. Questo è il più grande dono che qualcuno potesse farmi. Se non fosse stato per lui, forse non l’avrei mai più rivista. La mia mente vaga per ricordi lontani, dolorosi: la prima volta che lo conobbi, Sandor Clegane era rude e crudele e tutti i miei tentativi di essere gentile con lui fallivano uno dopo l’altro, tanto che col passare del tempo finii con l’odiarlo. Tuttavia, dopo la morte di mio padre, lui continuò ad essere sempre nei miei paraggi, taciturno e in agguato come una malattia… solo adesso mi rendo conto della verità: Sandor Clegane non è mai stato la malattia, ma la cura. Era lì quando ne avevo bisogno, silenzioso nel suo essere rumoroso e gentile nel suo essere crudele, sempre pronto a ricordarmi quanto fossi ingenua e ad asciugarmi le lacrime. È un ossimoro fatto di luci ed ombra e tanto muto dolore, qualcuno di cui potersi fidare e di cui avere paura.

«Mia sorella vi sarà riconoscente», rispondo. Lui mi guarda, le sopracciglia aggrottate e le labbra distese in un mezzo sorriso sarcastico, ed io poso una mano sulla sua. «Così come lo sono io», non gli lascio il tempo di replicare che subito mi alzo, lascio un piccolo bacio sulla sua guancia sana e mi dirigo verso mia sorella, sedendomi accanto a lei e avvolgendomi col mantello del Mastino. Quando chiudo gli occhi, le parole di mio padre mi tornano in mente.

Un giorno, quando sarai abbastanza grande, ti darò in sposa a qualcuno di coraggioso, gentile e forte”.

Sorrido. Forse, quel qualcuno, io l’ho già trovato da tempo.
 
 
 
 
- Note dell’Autrice.                                          
  1. La canzone iniziale è della Bella&laBestia, il mio cartone preferito in assoluto. Si intitola “Something there”, ed è anche il titolo del capitolo perché la reputo perfetta per ciò che, piano piano, sta accadendo a Sansa e Sandor. :)
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Eeeeed eccomi qui!
Sì, lo so, sono in ritardo PAZZESCO. Mi dispiace tantissimo, giuro che mi cospargerò il capo di cenere e mi metterò in ginocchio sui ceci. Sigh.
Ho adorato scrivere questo capitolo, soprattutto l’ultima parte dove la tensione fisica tra Sansa e Sandor e palese. A proposito, finalmente Sansa sta iniziando ad aprire gli occhi ed a capire chi è davvero amico suo e fare chiarezza sui suoi sentimenti per Sandor – che, by the way, credo che dopo il bacio sulla guancia da parte di Sansina bella sia un po’ morto per i troppi feels.
Vi ringrazio davvero di cuore per tutti i meravigliosi commenti che lasciate a questa storia. Non avete idea di quanto mi rendiate felice. Grazie, grazie e grazie mille ancora.
Il capitolo non è stato betato, quindi se doveste vedere errori non esitate ad avvertirmi! ^_^
 
Al prossimo capitolo! (che spero di postare entro la settimana prossima, stavolta. XD)

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Capitolo 11
*** Going Home ***


Going home
Take me to church
I'll worship like a dog at the shrine of your lies
I'll tell you my sins so you can sharpen your knife
Offer me my deathless death
Good God, let me give you my life

  

«PROVA DI NUOVO A METTERMI LE MANI ADDOSSO, PICCOLA STRONZA, E GIURO CHE TI-».

Apro gli occhi, il cuore che mi batte così forte da sentirne il rimbombo della testa, e mi tiro a sedere di scatto. Dèi… ma cosa sta succedendo? Mi guardo attorno confusa, il viso ancora impastato dagli ultimi residui del sonno, ed i ricordi della sera prima mi tornano in mente tutti assieme: Beric Dondarrion, il Mastino, Arya... Dov’è Arya?!

«Che fai, mi ammazzi?! Ma certo, tu sai solo uccidere ragazzini, vero? Scommetto che se ci fosse tuo fratello te la faresti sotto!».
«Piccola stronza, io ti—». 
«Che cosa sta succedendo?!», urlo un attimo prima che il Mastino strangoli mia sorella. Entrambi smettono di litigare di colpo e rivolgono i loro sguardi verso di me. Non appena mi vede, Arya mi punta un dito contro e si avvicina inferocita.
«È colpa tua!», grida. «Se avessi lasciato che questo idiota venisse ucciso da Beric, allora noi—».
Lui l’afferra per un braccio e la fa voltare verso di sé, la cicatrice grottesca che gli si contrae per la rabbia. «Allora cosa, ragazzina? Sareste tornate a casa? Sei davvero così idiota da credere ad una favoletta simile?!».
«Sta zitto! Taci, taci, taci! Sei solo un grosso, stupido scimmione! Se non fosse stato per Sansa, a quest’ora saresti morto!».
«Ti faccio vedere io chi è che sarebbe morto, lurida stron—».
«Smettetela!», grido di nuovo, e loro si fermano. Per un istante, gli unici rumori che aleggiano attorno a noi sono quelli dell’acqua del fiume che scorre qualche metro più in là e delle fronde degli alberi che sfregano tra loro. Mi passo una mano sul viso con pesantezza, quasi che in questo modo possa portar via tutta la stanchezza che mi grava addosso, e sospiro. La testa mi martella terribilmente a causa del brusco risveglio.  «Perché state litigando?».

Il Mastino digrigna i denti e scocca un’occhiataccia ad Arya che, impertinente, ricambia lo sguardo con la medesima furia. Se in lei c’è una cosa che non è cambiata dopotutto questo tempo, quella è di certo è il suo atteggiamento.

«La tua dannata sorella mi ha colpito con una pietra! Le avevo detto di stare al suo posto e che se avesse osato sfiorarmi le avrei spezzato entrambe le mani, ma lei mi ha colpito comunque! Brutta stronza, te le taglio quelle mani!».
«È vero, Arya?» Chiedo, sinceramente allibita. Come ha potuto fare una cosa simile?!
Lei rotea gli occhi e mi guarda come se fossi un insetto. «Sì, e che io sia dannata per non essere riuscita a spaccargli il cranio! È così stupido che persino la sua testa è dura come il marmo!».
«Arya, ora basta! Smettila e chiedigli scusa!».

Lei spalanca gli occhi, incrocia le braccia al petto e fa una smorfia incredula. «Scusa?! E per cosa? Ha ucciso Mycah e un sacco di persone innocenti! Perché continui a prendere le sue difese?! Sei rimasta la stupida che eri ad Approdo del Re! Prima ti piaceva Joffrey e adesso invece te la fai col suo cane da guard—»
Lo schiaffo che le do rimbomba secco e deciso nel silenzio innaturale della radura. Proprio come nel nascondiglio della Fratellanza Senza Vessilli, la sua guancia diventa rossa ed i suoi occhi si riempiono di lacrime di rabbia. Non dice nulla, ma mi rivolge un’occhiataccia carica di collera e prima che possa fermarla si districa dalla mia presa e fugge via. Mi rendo conto di ciò che ho fatto solo quando lei è ormai lontana. Subito, i sensi di colpa mi stringono il petto.

 Ma che mi è saltato in testa? Perché ho fatto una cosa del genere?!

«Arya!», parto spedita verso di lei, incurante delle urla del Mastino che mi urla di lasciarla perdere e che se dovessi perdermi lui non ha alcuna intenzione di venirmi a cercare, e la scorgo mentre corre lontano svelta come una lepre. Quando riesco a raggiungerla l’afferro per un braccio e la tiro verso di me; lei si dimena, urla, mi insulta nei peggiori dei modi, ma io non cedo. È spaventata, realizzo, chissà quante cose avranno visto i suoi occhi che devono averla segnata, e la stringo in un abbraccio, il suo odore di terra e di sudore che mi riempie le narici, e fa quasi impressione constatare quanto sia piccola e fragile. È Arya, mi dico, abbracciandola con più energia, è mia sorella. Lei continua ad agitarsi e a graffiarmi, finché lentamente, dopo un po’, si calma e rimane inerme contro il mio petto: non una sola lacrima solca il suo viso sporco di terra e fuliggine. Là dove ogni bambina della sua età avrebbe pianto, singhiozzato o fatto qualsiasi altra cosa, lei si limita a digrignare forte i denti. È una giovane lupa, Arya, molto più di quanto potrò mai esserlo io, e questo è un bene perché presto i lupi torneranno ad ululare, più forti e maestosi di prima, ed io voglio essere al suo fianco quando questo accadrà.

«Mi dispiace, Arya», sussurro allora, accarezzandole i capelli scuri e pieni di nodi. Lei si irrigidisce contro il mio petto ma non protesta. «Non avrei dovuto colpirti. Sono una stupida.».

«Sì, lo sei», ribatte lei, la sua voce che tradisce una nota d’angoscia. Si stacca da me e mi guarda dritta negli occhi, la mascella rigida come roccia e le braccia strette lungo i fianchi ossuti. Nel suo sguardo vedo qualcosa di diverso, qualcosa che prima non c’era e che stona col suo viso da bambina. È odio. Odio vero, sincero, così forte da far male… ma non è per me. «Ed io con quello lì non ci voglio stare. Lo odio, Sansa… voglio vederlo morto!».

Sospiro. «Arya, lui… lui è così, capisci? È strano, violento e pieno di odio per il mondo intero, ma non è cattivo. Può sembrarlo, e forse con qualcuno lo è stato, ma ti giuro – te lo giuro, Arya – che non mi ha mai fatto del male. Mi ha salvata tante di quelle volte e senza che io gli dessi mai nulla in cambio, ha fatto così tanto per me... proprio come un vero cavaliere.  Tutte quelle cose che ho detto alla grotta della Fratellanza Senza Vessilli non erano bugie: lui mi ha davvero salvato la vita. Forse, se solo tu ti sforzassi di capirlo un po’ di più, lui—».

«No», la risposta di Arya è secca, definitiva. Non ammette repliche. «Non voglio capirlo, non voglio parlare con lui e non voglio nemmeno guardare quella sua brutta faccia... Però voglio tornare a casa, e voglio tornarci con te perché anche se sei una completa scema sei comunque mia sorella e quindi—», la sua voce si spezza, le sue guance si tingono di rosso. Si passa una mano piena di piaghe e calli sul viso, nervosa, e sbuffa frustrata. «... e quindi tenterò di non ucciderlo. Non per ora, almeno… Ma giuro che se prova anche solo a parlarmi, io—».

«Non lo farà», la precedo io. «Non farà niente del genere, te lo prometto».

«Mmh», le sue dita corrono a torturare l’elsa della sua spada. «Sarà meglio per lui, a meno che non voglia ritrovarsi quel poco di quel cervello che si ritrova spiattellato su un masso... E questa volta giuro che farò ben attenzione a non sbagliare mira, puoi contarci!».

Le sue parole sono inadatte ad una lady e ancora di più alla bocca di una bambina, ma io fingo di non sentirle. Il mio cuore si riempie di sollievo e per riflesso le mie spalle si rilassano. Non sono felice per ciò che ha detto – dopotutto il Mastino ci ha salvato la vita, come potrei esserlo? - ma, considerata la situazione, è già tanto.

«Credo che questo è il massimo che potrò mai aspettarmi da te, non è vero?», lei annuisce. Be’, sempre meglio di niente. «D’accordo, allora. Andiamo adesso. Non mangio da ore, e sono certa che ci siano ancora alcune bacche conservate da qualche parte…».
 
 
 
«Quanto distano le Torri?».
«Non lo so».
«Non hai una mappa con te?».
«La prossima volta che vedrò un negozio di mappe te ne comprerò una».
«Be’ allora la prossima volta che ci imbatteremo in un negozio di maschere te ne comprerò una, così non vedrò più la tua brutta faccia!».
«Ti hanno mai detto di non stuzzicare il can che dorme, cagnetta?».
«Non sono un cane, ma un lupo. E i lupi li mangiano a colazione, i cani… lo sapevi, Mastino?».
«Potreste smetterla? Sembrate dei bambini!».

Contraggo le labbra in una smorfia, indispettito dal continuo berciare della cagnetta-Stark. Non rispondo alle lamentele dell’uccelletto e così fa anche la sua dannata sorella. Buon per lei. Non credo avrei saputo trattenermi oltre dal staccarle la testa dal collo. Fottuti inferi, era tutto più semplice quando non era con noi: Sansa è una Stark di Grande Inverno, è vero, eppure lei è docile e gentile mentre sua sorella è selvaggia e indomabile come solo un meta-lupo potrebbe essere. Inoltre non fa altro che parlare, parlare, parlare e parlare e chiedere, chiedere, chiedere e chiedere… ed io detesto i chiacchieroni.

«Sono ore che siamo in viaggio verso il nulla!», la sua vocetta stridula è fastidiosa come il ronzio di un insetto. Stringo le redini con più forza, illudendomi che siano la sua piccola gola. Se non fosse che l’uccelletto non me lo perdonerebbe mai, l’avrei già strangolata da tempo. «Ammettilo, ci siamo persi».
«Arya, smettila. Il Mastino sa dove stiamo andando…», risponde Sansa, ma è evidente che nemmeno lei ne è tanto convinta. «… non è così, sir?».

Mi irrigidisco come una statua, l’immagine della faccia da schiaffi del “sir” mio fratello mi si para davanti, disgustosa ed odiosa come al solito. Storco le labbra. «Quante altre volte dovrò ripeterti che non sono un fottuto sir, ragazzina?», lei si stringe nelle spalle, dispiaciuta, ma io la zittisco prima che abbia il tempo di aprire bocca. «No, cazzo. Non ho la più pallida idea di dove stiamo andando, ma laggiù ci sono le Torri Gemelle e se tutto va bene entro stasera dovremmo arrivarci. Seguiremo il fiume».

Lei non sembra soddisfatta di questa risposta. Sulle sue labbra rosse danzano mille proteste ed i suoi occhi cerulei si riempiono di frustrazione. Per qualche assurda ragione il ricordo della mia bocca che premeva sulla sua mi attraversa la mente, facendomi irrigidire come una statua.

Dèi, scuoierei vivo un uomo pur di poterla baciare di nuovo.

«Ehy!», parla la cagnetta. Mi volto verso di lei, scocciato dalla sola idea che un esserino tanto fastidioso debba starmi così vicino. «C’è un uomo, laggiù!».

E in effetti, a pochi metri più avanti, alle prese con un carretto pieno di vettovaglie ed oggetti vari vi è un ometto sulla cinquantina d’anni, un mantello nero sulle spalle e una grossa faccia rubiconda da cui spuntano due azzurri occhietti porcini. Mi chiedo cosa ci faccia qui, in mezzo al nulla, finché non noto la ruota del suo carretto: è a terra, bloccata sotto il peso del carro. Potrei ucciderlo e rubargli il cibo, sono settimane che non tocco del pollo e sono pronto a scommettere che lì ce ne sta in abbondanza, e prima di rendermene conto mi dirigo spedito verso di lui. Sansa ed Arya fanno lo stesso.

«Volete aiutarlo?», chiede l’uccelletto, lanciandomi occhiate perplesse e dubbiose.
«Certo che no. Vuole solo rubargli il cibo» La rimbecca la sorella. Sono quasi tentato di aiutarlo sul serio, quel dannato vecchio, giusto per farle un dispetto, ma ho troppa fame per mettermi appresso questi giochetti e quindi che si fotta anche lei.
«Ricorda di tenere chiusa quella fogna, ragazzina, se non vuoi che ti strappi la lingua», la minaccio. Lei mi scocca un’occhiataccia e incrocia le braccia al petto. Sta per ribattere qualcosa ma Sansa la fulmina con lo sguardo, e allora lei si morde la lingua e si costringe a distogliere lo sguardo. «E tu vedi di tenerla d’occhio mentre vado a vedere la situazione», aggiungo, rivolgendomi all’uccellino.
Mi avvicino all’ometto in questione. Lui alza gli occhi verso di me e mi guarda dal basso verso l’alto, il suo viso è tutto sudato e sporco di fuliggine. Non sembra avere paura di me. «Le strade sono diventate uno schifo», brontola. «È il terzo raggio che spacco!».
Inarco un sopracciglio. «Serve una mano?».
«Ne servirebbero otto», si lamenta lui, strascicando le parole. Non lo faccio parlare oltre che sollevo il carretto in questione, permettendogli così di rimontare la ruota. Il vecchio mi guarda con occhi pieni di sorpresa ed ammirazione, stupito dalla mia forza, ma subito dopo si affretta a rimettere a posto la ruota che si era allentata. Con sollievo mi rendo conto che non ha idea di chi io sia – e se lo sa ha avuto il buonsenso di far finta di nulla. «Devo portare questo cibo alle Torri Gemelle in tempo per il matrimonio, altrimenti lord Frey mi scuoierà vivo. Credimi, non c’è da scherzare con quel vecchio pazzo».

Le Torri Gemelle. Un ghigno mi incurva le labbra. Forse gli dèi sono dalla mia parte.

«Le Torri Gemelle», dico allora io, fingendomi interessato. «Come si ci arriva?».
«Basta continuare per questa strada qui, guarda», mi mostra un sentiero di ghiaia che prima non avevo notato. «Percorrilo tutto. Dovresti arrivare nei pressi di un fiume, poi basta che tiri sempre dritto e dovresti trovarti al Guado dei Frey. A cavallo non dovresti metterci più di mezza giornata, suppongo… a meno che qualche predone dannato non decida di romperti le scatole. E credimi se ti dico che ultimamente sono ovunque, quei maledetti. Che gli Estranei se li portino alla dannazione, puah!», e sputa a terra. Poi si alza in piedi, un accenno di sorriso dipinto sul suo volto paffuto, e mi porge la mano. «Grazie tant— ouch!», un manrovescio dritto sul naso lo fa finire a terra coi piedi all’aria. Sguaino il pugnale, deciso a porre fine a questa storia, ma la mocciosa-Stark me lo impedisce.

«No!», urla, parandosi davanti al corpo del vecchio. «Non ucciderlo!».
«I ratti morti non squittiscono», dico.
Gli occhi di Arya si assottigliano in due iraconde fessure grigie. «Ti credi un duro, non è così? Sai solo spaventare ragazzine ed ammazzare vecchi e bambini. Sei un vero uomo tu!».
«Più di tutti quelli che conosci».
«Ti sbagli», esclama lei, facendo un passo verso di me. «Conosco un assassino. Un vero assassino. Per lui saresti solo un gattino. Ti ucciderebbe con un solo dito!».

Aggrotto la fronte. Ma che cazzo vuole questa mocciosa? Dice di conoscere un assassino, dunque? Un vero assassino? Che me lo presenti pure, allora. Sono pronto a scommettere che lo sarà tanto quanto mio fratello Gregor è un vero cavaliere. Tutti possono essere assassini se metti loro una spada in mano, esattamente come tutti possono essere cavalieri se dai loro gli unguenti e un’armatura brillante per esserlo.

«È quello lì?», chiedo allora, spostando lo sguardo verso il vecchio. Arya si volta, lo guarda e poi torna a guardare me, confusa.
«No!».
«Bene».

La spingo di lato, stufo delle sue chiacchiere, quando qualcun altro mi si para di fronte. Alla luce del sole, i capelli rossi di Sansa Stark risplendono come fiamme ardenti. Il suo volto è pallido per l’ansia, ma i suoi occhi sono ghiaccio che brucia. Mi sovviene il momento in cui avevo ucciso quell’altro vecchio, quello che ci aveva ospitato a casa sua e che poi mi aveva minacciato di dire tutto alle guardie se non avessi lavorato per lui, e digrigno i denti. Anche quella volta lei aveva fatto quest’espressione.

«Uccelletto», la vedo stringere i pugni lungo i fianchi, le labbra assottigliate così tanto da sembrare fili rosati. «Spostati se non vuoi farti male».
«No, non uccidetelo!», supplica, la voce simile al pigolio d’un pulcino. «…vi prego, basta con tutto questo sangue.».

All’improvviso qualcosa dentro di me si dimena come impazzito e persino pensare diviene difficile. Una parte di tutto il mio essere mi urla di fottermene, di fare come meglio credo e agli Inferi le mocciose Stark ed i loro piagnistei, mentre l’altra è come paralizzata. “Vi prego”, ha implorato Sansa, e qualcosa nel suo tono di voce mi ha ricordato il viso pallido di Alina mentre mi supplicava di non dire niente a nostro padre riguardo a ciò che Gregor le faceva.

Vorrei essere furioso con lei perché mi rende ogni volta così debole, riuscire ad odiarla perché riesce ad abbattere sempre ogni mia barriera solo con un suo sguardo, ma quei suoi occhi così pieni di sincera gratitudine e quel sorriso appena accennato che si forma sulle sue labbra non appena rinfodero il pugnale nel fodero della cintola me lo impediscono, vincendomi come se fossi il più semplice dei giochi, ed io vorrei solo baciarla fino a consumarle le labbra.

«Sei troppo buona. Un giorno ti farai ammazzare per questo» La mia voce è così bassa da sembrare il rantolo di un ubriaco. Lei fa per dire qualcosa, ma all’improvviso il vecchio si sveglia e cerca a tentoni di rimettersi in piedi, gemendo per il dolore. La mocciosa-Stark lo guarda con fronte aggrottata, poi rivolge lo sguardo verso di me ed alza un sopracciglio.

«Ha detto che doveva andare alle Torri Gemelle, giusto?» Domanda, seria come una lapide. Annuisco. Lei fa spallucce, afferra un pezzo di legno e, sotto lo sguardo sconcertato di me e di Sansa, sferra un colpo dritto alla testa del vecchio. Subito quello emette un singulto strozzato e rovina di nuovo a terra con tanto di piedi all’aria. Sia io che l’uccelletto rimaniamo a guardarla in silenzio mentre si allontana, ancora incapaci di realizzare cosa cazzo sia appena successo.

«Ehi», ci voltiamo entrambi verso di lei, sul volto di Sansa vi è un’espressione di puro sgomento: Arya Stark è seduta sul retro del carretto, accanto a dei sacchi colmi di cibo, con una mela rossa in mano a cui ha già dato un morso e le gambe a penzoloni. «Ne avete ancora per molto?».

~

Passano delle ore prima di arrivare nei pressi di Seagard. Straniero è esausto, trascinare un carretto colmo di roba per ore non deve essere il massimo nemmeno per un cavallo infaticabile come lui, l’umidità mi fa sudare come una capra ed il braccio ferito inizia a pizzicarmi. Detesto questo posto. Perlomeno riesco ad avere una visuale delle Torri perfetta: basterà continuare per sud-ovest e seguire il viottolo ed arriveremo al Guado prima di domani, giusto in tempo per il banchetto nuziale. Più veloce andrai e più veloce dovrai dirle addio, mi ricorda una vocina maligna nella mia mente, ed una mano invisibile mi stringe il cuore in una morsa di ferro. Mi volto a guardare Sansa: è seduta proprio dietro di me, lo sguardo perso vuoto e le labbra schiuse in una piccola smorfia annoiata, e di colpo mi torna in mente il momento in cui l’ho baciata.

Non la rivedrai mai più. Questo lo sai, non è vero?

«Fermiamoci qui» Esclamo ad un tratto, tirando le redini di Straniero. La mocciosa-Stark spalanca le labbra in una grossa “O” e salta in piedi allarmata.
«No!», mi prende per un braccio: ha una presa possente, per essere uno scricciolo. «Siamo vicini alle Torri, posso vederle sin da qui, se ci fermiamo adesso noi—».
«Arriveremo giusto in tempo per il banchetto nuziale, lupacchiotta. Smettila di agitarti tanto».
«Ma—».
«Oh, ma vuoi stare zitta?!», per gli dèi, è una cazzo di pulce all’orecchio! «Abbevereremo il cavallo e poi riprenderemo il cammino. Stai pure tranquilla che quelle dannate Torri rimarranno lì per un altro po’ di tempo», scendo dal carretto e slego le corde che legano Straniero. Lui scuote la folta chioma scura e scalcia il terreno, quasi a volermi rimproverare per averlo fatto faticare tanto, ed io gli accarezzo il muso per calmarlo mentre lo porto nei pressi del fiume.

«Non è delle Torri che mi importa…» La sento mugugnare a mezza voce. Prima che possa risponderle, però, lei mi dà le spalle e si dirige lontano. Vedo Sansa osservarla mentre va via, le parole che danzano sulle sue labbra rosee sono piene di empatia e angoscia. Sospira, e rivolge lo sguardo verso di me.

«Sapete», la sua voce è così sottile che la sento a stento. Si avvicina a me, affiancandomi come se dovesse condividere un segreto molto importante, ed io incrocio il suo sguardo. Assurdo come le cose siano cambiate in poco meno di mese. Nei miei ricordi, ci sono ancora i suoi occhi azzurri che mi squadravano spauriti ad Approdo del Re, quando credeva che Joffrey fosse il suo fottuto principe azzurro e che la vita fosse una ballata, e le sue parole cortesi e piene di bugie che non ho mai sopportato. Adesso invece mi sta vicina senza alcun timore e alle volte arriva persino a sorridermi, e nonostante continui a mantenere quella dannata armatura fatta di cortesia e di ferro – ferro del nord, freddo ed inespugnabile– che non sono mai riuscito a scalfire, c’è qualcosa di diverso nel tono in cui mi si rivolge.
Qualcosa che ho imparato a riconoscere come fiducia. Non ha più paura di me, l’uccelletto. Le sue canzoni non sono più costruite con menzogne e rime imparate a memoria, ma con concetti chiari e con note alte. Si fida di me, adesso. Si fida di me. Ed io non so se questa sia una buona o una cattiva cosa perché prima, quando aveva paura di me, era più semplice fingere che di lei non mi importasse nulla, raccontare bugie sopra bugie nella speranza che un giorno avrei finito col crederci, mentre adesso… mentre adesso lei… ah, fanculo!

«Arya non è davvero cattiva come sembra, mio padre me lo ripeteva spesso. Non l’ho mai sopportata quando eravamo a Grande Inverno, né durante il soggiorno alla Fortezza Rossa. Eravamo – e siamo tutt’ora – troppo differenti», sul suo viso si delinea un sorriso nostalgico, i suoi occhi si velano di malinconia. «Una volta mangiò uno scarafaggio davanti ai miei occhi per spaventarmi e un’altra volta ancora nascose dello sterco di capra sotto il mio materasso, costringendomi a dormire in un’altra stanza per non sentire il fetore. La detestavo, tollerare la sua sola presenza era per me un’agonia. “Perché è così odiosa? Non può essere dolce e gentile come la principessa Myrcella?”, mi chiedevo. Quant’ero sciocca…».

Un sospiro grave lascia le sue labbra. Non sembra una ragazzina di quindici anni, Sansa Stark, così come sua sorella non sembra una bambina di dieci. I loro occhi sono velati di disillusione e rimpianto: rimpiangono i tempi passati, loro padre, la spensieratezza dell’innocenza. Tutte cose che non riavranno indietro mai più – proprio come me.

«Mio padre continuava a ripetermelo: “Siete diverse come il sole e la luna, ma entrambe avete lo stesso sangue. Due facce della stessa moneta”, ma a me non importava di ciò che diceva. Sapevo solo che Arya era un piccola mocciosa impertinente, che la odiavo e che era colpa sua se Lady era morta», le sue labbra si stirano in una smorfia triste, di chi ricorda frammenti di un passato troppo doloroso da ricordare. «Eppure, dopo che era fuggita da Approdo del Re, era il suo di abbraccio che agognavo ricevere nei momenti di solitudine, la sua voce quella che sognavo di risentire, e non c’è stata una sola notte in cui io non l’abbia pensata. Mi chiedevo dov’era, se le fosse accaduto qualcosa… l’ansia di saperla in balia di qualche stupratore o assassino mi logorava l’anima. Pregavo che fosse tornata a Grande Inverno, che fosse al sicuro insieme ai miei altri due fratelli ed a maestro Luwin e la vecchia Nan, ma poi Grande Inverno cadde ed ogni mia speranza si dissipò come sabbia al vento. Solo in quel momento capii quanto le volessi bene e quanto stupida fossi stata a non essermene accorta prima...», la sua voce si spezza, i suoi occhi diventano lucidi di lacrime. Per un motivo che non comprendo mi torna in mente Alina. I suoi occhi grigi, il naso un po’ adunco tipico dei Clegane e le labbra sottili perennemente incurvate in un sorriso sbilenco, e la gola mi si stringe. « È solo quando perdi qualcuno che ti accorgi di quanto sia importante per te, ma in quel momento è sempre troppo tardi…», all’improvviso mi prende la mano, le sue dita piccole e delicate si posano sulle mie e le stringono con forza – per quanto forti possano essere le dita di un uccelletto come lei – e mi rivolge un sorriso tremulo e commosso. «Ma voi… voi avete cambiato tutto. Voi me l’avete riportata indietro: viva, sporca di fango e piena di pulci e ancora più odiosa di prima, certo, ma viva. Mi avete restituito mia sorella, la mia piccola, detestabile sorella, e adesso ci state portando da nostra madre e da nostro fratello. Non mi importa se lo state facendo solo per la ricompensa, ciò che conta è che lo state facendo e questo è già tantissimo», mi guarda come se si aspettasse una risposta, eppure la mia gola è secca e la mia lingua sembra appiccicata al palato. Da quando un suo semplice sorriso è in grado di spiazzarmi in questo modo? «Per questo qualsiasi cosa io possa fare per ripagarvi per quello che state facendo per noi la farò con gioia. Se sarà nelle mie capacità, non esiterò un attimo. Dovrete solo chiedere».

«Canta», le parole escono dalle mia labbra di getto, spinte da un desiderio – no, da una necessità – irrefrenabile. Lei mi osserva con curiosità, la sua mano così piccola e delicata è ancora stretta nella mia così grande e piena di calli, ed i suoi occhi cerulei mi attraversano da parte a parte. «Canta per me, uccellino».

Mi sorride – è qualcosa di naturale, ormai, amare quel sorriso; quegli occhi specchio di un’anima così pura e innocente – e inizia a intonare l’inno alla Madre. Lo stesso inno che cantò mia madre il giorno del funerale di Alina.  


 
Dolce Madre, fonte di pietà, risparmia i nostri figli dalla guerra, noi ti preghiamo,
ferma le spade e ferma le frecce, lascia che abbiano giorni migliori.
Dolce Madre, forza delle donne,
aiuta le nostre figlie in questa tribolazione,
calma il furore e lenisci la furia,
insegna a tutte noi una via più gentile.


 
E per ogni strofa, per ogni sillaba sussurrata da quella voce così dolce e soave, mi sembra di morire e di rinascere lì, sulla punta delle sue labbra. Non mi importa più  niente delle Torri, della ricompensa, dei dannati lupi, dei cervi o dei leoni… e cos’è poi il ruggito di un leone in confronto al canto d’un usignolo? Un uccellino dalle ali spezzate e le piume rosse come il fuoco – un fuoco che non brucia, ma bacia e riscalda. Nulla. Non è nulla. Perché un cane è leale a chi lo nutre, ma è a colui che lascerà carezze sul suo capo che giurerà fedeltà e amore incondizionato. Ed io lo amo, questo uccellino dalle ali spezzate, piccolo e innocente come una bambola di porcellana, lo amo come non ho mai amato nessun’altro prima di adesso, e non gli farò del male. No. Non a lei. Mai a lei.

Quando il canto finisce, Sansa mi guarda con occhi colmi di aspettative. Ed io la guardo. La guardo. E la consapevolezza di voler baciare quelle labbra fino a consumarle mi colpisce come un pugno al centro dello stomaco. Le sfioro una guancia col dorso della mano, le sue labbra sono così vicine alle mie che basterebbe un solo passo per poterle sfiorare. «Uccellino…», mormoro, e lei schiude le labbra e socchiude gli occhi. Non riesce neanche a guardarti, urla una voce nella mia testa, e subito mi allontano da lei come scottato. Solo adesso mi accorgo di ciò che stavo facendo. Dèi… cosa mi è saltato in mente?! Stavo per baciarla, fottuti Inferi, stavo per baciarla di nuovo.

«Mio signore…?», le dita di Sansa si posano sul mio braccio. Me le scrollo di dosso in un gesto istintivo, così irruentemente che persino lei si ritrae spaventata, e mi allontano il più possibile.
«Non… toccarmi», sibilo, le parole che faticano a lasciare le mie labbra. «Io muoio se tu mi tocchi».

Lei aggrotta la fronte, confusa. Nei suoi occhi leggo smarrimento. Non capisce. Non capisce. E come potrebbe? Come potrebbe capire quanto ardentemente desideri mordere le sue labbra, accarezzare la sua pelle, fare mia ogni sua gioia o dolore o desiderio? Come potrebbe? E come potrei io anche solo sognare che qualcuno come lei – lei, così innocente, così pura, così tutto – possa amare qualcuno come me? La sola idea sembra quasi una bestemmia. Una mostruosa quanto meravigliosa bestemmia.

«Io… io non capisco. Ho fatto qualcosa di sbagliato? Non ho cantato bene, forse?».

C’è sincera apprensione nel suo tono di voce. Mi passo una mano sul volto, il mio corpo è un fremito continuo, ed improvvisamente mi viene da ridere. Una risata amara, piena di derisione per ciò che sono diventato. L’assassino senza scrupoli che si cela dietro la cicatrice che mi sfregia il volto ride a crepapelle del mio tormento, facendosi beffe di me quasi fossi il peggiore dei frocetti dediti all’amore e alle ballate. “Dov’è finito il Mastino di cui tutti i Sette Regni avevano timore?”, mi chiede, ed una parte di me, chissà quale, risponde che è morta nel momento stesso in cui gli occhi azzurri di Sansa Stark hanno incrociato i miei, in cui le sue dita sottili si sono posate sulle mie ed il suo sorriso ha distrutto ogni mia corazza, ogni mia maschera. Il Mastino ride, la sua risata tanto simile al latrato di un cane, ed io stringo i pugni così forte da conficcarmi le unghia nella carne. Ride di me, del mio dolore e del mio tormento, ed io vorrei solo prendere a calci qualcosa.

«Vattene via», la mia voce risuona simile allo stridio del ferro. Sansa corruccia la fronte e prova a sfiorarmi il braccio, ma io l’allontano prima che possa farlo.
«Ma—».
«Adesso!».

E lei se ne va, gli occhi lucidi ed i pugni serrati lungo il petto, e solo quando è abbastanza lontana torno a respirare regolarmente. Mi passo una mano sul volto, le dita che mi tremano come impazzite, e bere vino finché la testa non diventa leggera ed il peso che ho nel cuore meno oppressivo diventa una soluzione quasi naturale. E quindi bevo, bevo, bevo finché tutto gira e le ginocchia non sostengono più il mio peso. Mi appoggio al tronco d’un albero, stravolto come se avessi combattuto cento guerre e le avessi perse tutte e cento, e l’immagine distorta di Sansa Stark mi si para dinanzi, meravigliosa e dolce come nei miei sogni più reconditi.

«Sansa…», singhiozzo, crollando a terra. «Sansa…».
 
 
«… vedi? Te lo dicevo che non c’era da fidarsi di quest’ubriacone!».
«Sta’ zitta, Arya, e vammi a prendere dell’altra acqua».

Mugugnando il suo disappunto, Arya fa come le ho detto. Io rimango qui col Mastino. È da un’ora che non fa altro che dormire. Il suo volto è rosso come un pomodoro e russa come un ghiro, segni evidenti di una sbronza finita male. Forse gli salirà la febbre, a Jory Cassel una volta era capitato e Robb, Jon e Theon lo avevano preso in giro per settimane. Una parte di me, quella ancora infuriata per come mi ha trattata prima, lo desidera con ardore mentre l’altra è sinceramente preoccupata per lui. Sospiro. Non voglio che stia male, eppure non riesco a capire perché prima mi ha trattata a quel modo. Ho fatto qualcosa di sbagliato? Forse avrei dovuto cantare meglio o magari lui era già ubriaco dall’inizio e quella sfuriata è stata solo frutto dell’alcool…

Arya torna con la bisaccia piena d’acqua, me la porge ed io bagno il panno e lo passo sulla fronte del Mastino. Lunghi rivoli d’acqua sgocciolano giù per il suo mento, bagnandogli la barba ed i capelli. Visto così, sembra addirittura docile. Mi chiedo che tipo di persona sarebbe stata se suo fratello Gregor non avesse bruciato metà del suo volto, se tutta quella rabbia che lambisce il suo cuore ci sarebbe stata comunque, e mi torna in mente il momento in cui mi aveva salvata dalla rivolta popolana. Nessuno glielo aveva ordinato, eppure lui lo aveva fatto comunque. Non è un vero cavaliere, Sandor Clegane, eppure è come se lo fosse.

«… vino», le sue dita si stringono attorno al mio polso di colpo, facendomi sussultare di spavento, ed i suoi occhi si schiudono a fatica. «… dammi del vino».
«No. Ne avete bevuto abbastanza per oggi» Avvicino il bordo della bisaccia alle sue labbra, ma lui subito sputa l’acqua come se fosse veleno non appena ne tasta il sapore. Si tira su a sedere, la mascella contratta e gli occhi assottigliati in due fessure grigie, e mi fulmina con lo sguardo.
«’Fanculo l’acqua. Dammi del vino, per i Sette Inferi!».
«Sì, così dovremmo badare a te per le prossime due ore solo perché sei un dannato ubriacone», ribatte Arya al posto mio. Lui le riserva un ringhio basso e intimidatorio ma, piuttosto che intimorirsi, Arya sogghigna beffarda. «E poi non potresti averne comunque, dato che lo abbiamo gettato via».

Scende un silenzio tombale. Nell’aria aleggiano ancora le ultime parole pronunciate da mia sorella ed io trattengo il respiro. Il volto del Mastino è sbiancato quasi più di prima, i suoi occhi si spalancano in un urlo silenzioso e tutto il suo corpo si irrigidisce come una statua di sale. Mi guarda. Io lo guardo. «No…», dice in un sussurro. «No, dimmi che non l’hai fatto. Dimmi che non l’hai fatto sul serio».

«Io… ecco… voi stavate male e a me serviva un recipiente per l’acqua, e—e  visto che il vino vi faceva stare male i-io ho—».
«HAI BUTTATO VIA TUTTO IL VINO?!!».

Terrorizzata all’idea che stia per picchiarmi chiudo gli occhi e mi stringo nelle spalle, pregando gli dèi di farmi svanire nel nulla finché non si sarà calmato, ma la botta non arriva. Al suo posto, riecheggia il grugnito disperato di Sandor Clegane che adesso ha affondato il viso nelle mani e continua a mordersi le dita per la rabbia. Inarco un sopracciglio, indecisa su cosa fare. Sembra proprio disperato.

«M-Mi dispiace, prometto che quando arriveremo alle Torri io—».
«Ci piscio sopra alle tue scuse, ragazzina! Rivoglio il mio dannato vino e lo rivoglio adesso» Si alza in piedi in fretta e furia, ma non fa in tempo a muovere un passo che ricade a terra un attimo dopo a causa dei rimasugli della sbornia. Rosso come un papavero e col naso arrossato, il Mastino si passa una mano callosa sul volto e bestemmia in modo così volgare da farmi drizzare i capelli. Accanto a me, Arya ride a crepapelle, così sguaiatamente da doversi tenere la pancia con le braccia, mentre lui inveisce contro di lei in modo così simile a quello di un cane rabbioso da far sorridere persino me. Alla fine, sia io che Arya siamo piegate in due e con le guance doloranti per le troppe risate.

«Sì,sì, ridete pure, dannate voi», bercia il Mastino, ancora incapace di rimettersi in piedi. «Vedremo se riderete tanto quando mi metterò in piedi e ve le suonerò ad entrambe!».

Ma il tempo passa, Sandor Clegane riesce di nuovo a rimettersi in piedi eppure, come sempre, non alza un dito su di me né su Arya. Il sole inizia a tramontare: se non ci sbrighiamo non riusciremo ad arrivare in tempo alle Torri Gemelle e questo, dopo tutto quello che abbiamo passato, sarebbe terribile. Prima che ci rimettiamo in cammino, però, decido di osare ad avvicinarmi di nuovo al Mastino. Lo raggiungo mentre sta allacciando le cinture a Straniero per trainare il carro, il suo respiro che si condensa in piccole nuvole di fumo.

«Inizia a fare freddo», esclamo, tentando di apparire il più affabile possibile. Lui mi riserva un’occhiata veloce ed annuisce. «Quando arriveremo alle Torri ci sarà di sicuro un grosso camino acceso e del cibo caldo e speziato e…».
«Mi frega solo se c’è anche del vino».
«Oh… oh, s-sì, certo, ci sarà anche del vino, ne sono sicura!», dico conciliante. Vorrei farmi perdonare per il guaio combinato, ma ogni frase che mi viene in mente sembra o troppo finta o troppo stupida. Serro le labbra e prendo a torturarmi le dita con nervosismo. Dèi… ma perché sono sempre così nervosa quando sono in sua compagnia? «Io… ecco… riguardo a prima—».
«Lascia perdere, uccelletto. Non voglio parlarne».
«No— ehm… io… io non mi riferivo a quel prima…», il cuore mi batte così forte da poter sentire il battito nella testa. Il Mastino si volta e mi guarda: i suoi occhi freddi non fanno che mettermi ancora più a disagio e all’improvviso persino respirare diventa difficile. «Io… io volevo chiedervi perché vi siete incollerito tanto, dopo che ho cantato l’inno alla Madre. Forse non sono stata abbastanza brava? Posso cantarvi qualcos’altro, se ciò vi compiace».

Sul suo viso deturpato dal fuoco si dipinge un’espressione stupita. Il desiderio scalpitante di sapere cosa si cela dietro quegli occhi gelidi mi stringe il petto e la paura di aver di nuovo detto la cosa sbagliata mi assale. Ad un tratto si volta e riprende a maneggiare le cintole dell’imbracatura di Straniero, uno sbuffo nervoso lascia le sue labbra sottili.

«No, uccelletto. Non mi compiace», replica, la voce fredda come il marmo. Non ha risposto alla mia domanda. «E adesso va’ a chiamare quel demonio di tua sorella: dobbiamo andarcene prima che faccia buio… muoviti!», aggiunge, vedendo che non ho alcuna intenzione di muovermi dal mio posto. Una parte di me mi urla di non ubbidirgli: voglio avere le mie risposte e non me ne andrò di qui finché non le avrò ottenute. L’altra parte, invece, mi esorta a fare come dice, ricordandomi che non possiamo perdere altro tempo e che le Torri sono troppo vicine per restare qui un altro minuto di più. Decido di ascoltare quest’ultima.

Non ho compiuto che pochi passi quando una mano grande e possente mi afferra il braccio: ho una fugace visione degli occhi grigi del Mastino, delle sue labbra sottili e piene di taglietti e della sua cicatrice, che qualcosa mi annebbia la vista. È il suo mantello. Prima che possa dire qualcosa, lui si volta e riprende ad allacciare fibbie e cinturoni dell’imbracatura di Straniero.

«Fa freddo stanotte», mugugna dopo un po’, tirando su col naso. «Ed io non posso proteggerti anche dal raffreddore».

Un istinto sconosciuto mi urla di corrergli incontro ed abbracciarlo, ma mi trattengo. Non sta bene che una lady si comporti in modo tanto disdicevole con un uomo, e inoltre sono certa che a lui non piacerebbe. Quindi corro lontano da lui, il viso in fiamme ed il cuore in gola, e mi dirigo verso Arya che giocherella con un rametto ed il  cadavere di uno scarafaggio morto. Le dico che dobbiamo andare e lei mi raggiunge senza fare storie. Alla fine, dopo alcuni minuti che siamo partiti, sono io ad essere quella agitata. Il mantello del Mastino è ancora sulle mie spalle, larghissimo e caldo come una coperta di lana, e l’odore che emana è quello del suo possessore. Un odore pungente, misto a sangue, vino e sudore, che ho imparato a riconoscere e, in un certo senso, amare.

Copro anche Arya, preoccupata all’idea che possa prendersi la febbre, e stringo forte il tessuto tra le dita tanto che le nocche diventano bianche. Mi manca l’aria, il ricordo prepotente delle labbra crudeli e ruvide di Sandor Clegane sulle mie mi manda in confusione e non riesco più a guardarlo negli occhi e fingere che le sue attenzioni mi lascino indifferente o che addirittura mi spaventino. Non è più lui a spaventarmi, mi rendo conto, ma questo miscuglio di sentimenti contrastanti che mi stringe il cuore e mi fa tremare le ginocchia.

È il Mastino, stupida, dice una voce nella mia testa. È un assassino. Sai bene cos’ha fatto, tutte le persone che ha ucciso. Lui stesso ha detto che ha mandato agli Inferi donne e bambini innocenti solo perché glielo avevano ordinato. Non è un cavaliere e non sa cos’è l’amore o la gentilezza. Vuole solo portarti alle Torri Gemelle e prendere la ricompensa. Smettila di farti illusioni.

È un assassino, mi ripeto, quasi che in questo modo possa scacciar via questo improvviso senso d’inadeguatezza. È un assassino e quando arriveremo alle Torri se ne andrà e tutto questo sarà finito. Sì, è così. Lui è brutto e scontroso e violento, ed io provo solo gratitudine nei suoi confronti perché sta riportando a casa me ed Arya. Nient’altro.

 E allora perché continuo a pensare a quel bacio?

«Sansa!», la voce trillante di Arya mi risveglia dai miei pensieri, facendomi sussultare. «Sansa, guarda!».

Alzo il capo e le vedo: due enormi, grandissime Torri imponenti come montagne. Le mura sono alte, perimetrali, i fossati che le circondano profondi, ed ovunque vi sono uomini che fanno baldoria, tende e vessilli riportanti gli emblemi degli Stark e dei Frey e dei Tully. Il cuore mi si riempie di commozione al pensiero di essere tanto vicina a mia madre e mio fratello, che bastano solo pochi passi e potrò finalmente riabbracciarli, baciare loro le guance, farmi scompigliare i capelli da Robb e sentire il calore delle carezze di mia madre. Incrocio lo sguardo di Arya e nei suoi occhi leggo la mia stessa emozione. Le stringo la mano, sorridendole come mai ho fatto prima d’ora, e lei ricambia la stretta con la medesima forza.

Sto tornando a casa.
           
 
 
 
 
 
 
 
 
- Note dell’Autrice.
Ed eccomi (finalmente) di nuovo!
Scusate per il ritardo, ultimamente sono davvero impegnatissima fra scuola, famiglia e palestra. Spero che questo periodo di tram-tram generale passi presto! :| Ad ogni modo, eccoci al capitolo unidici che, sì, è un “preludio” per ciò che accadrà in seguito… e penso che tutti sapete cosa accadrà in seguito, purtroppo. Sigh.

Nonostante questo sia un capitolo di “transizione”, comunque, è uno per i quali ho sprecato più tempo ed è anche uno dei più lunghi. Il POV di Sandor mi sembrava sempre o troppo artificioso o troppo profondo e alla fine ho passato una settimana a sistemarlo e cercare di renderlo quanto meno gradevole senza stravolgere il personaggio. So che le parole che pensa sono molto forti, ma alla fin fine sono dell’idea che potrebbe davvero sentirle per Sansa, dato che per lui lei è una specie di “donna-angelo”, una sorta di amore impossibile ma per il quale spera ogni giorno. Ma lui non è un cavaliere o un poeta ma un assassino, anzi odia tutto e tutti e l’amore non sa nemmeno cos’è, quindi ha sentimenti contrastanti nei confronti di questa cosa e spesso finisce con incazzarsi con tutto il mondo. Spero di aver reso il suo conflitto interiore in modo decente… questi personaggi finiranno col mandarmi al manicomio.

Per quanto riguarda Arya e Sansa… be’, di certo non potevate aspettarvi che una volta ritrovatesi sarebbe state tutte amore e felicità. XD Anche se sono felici di essere di nuovo insieme i conflitti tra i loro caratteri continuano ad esserci e spesso finiscono male… Un po’ come accade con me e mia sorella minore, ecco – che tra l’altro è identica ad Arya, caratterialmente parlando. Meh. =_=’’
Ne approfitto per dire che il capitolo NON è betato, quindi se doveste trovare e(o)rrori di ogni genere, per favore non esitate a segnalarli! Ringrazio tutti coloro che continuano a recensire e seguire la storia. I vostri pareri sono il pane di noi scrittori, ogni consiglio, che sia critico o positivo, è prezioso. Quindi grazie mille di cuore per dedicarmi ogni volta un po’ del vostro tempo, spero di non deludere mai le vostre aspettative. Grazie, grazie e grazie mille ancora!

Ci ribecchiamo al prossimo capitolo – che sarà uno dei più angst di tutti. Sigh sob.

Un bacione!

P.S: 
 La canzone ad inizio capitolo è Take me to Church, di Hozier. 
 
 
 
 

 
 

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Capitolo 12
*** The red wedding ***


The red wedding
 
Crawl on my belly til the sun goes down
I’ll never wear your broken crown
I took the rope and I fucked it all the way
In this twilight, how dare you speak of grace?


 
 

La prima volta che sentii parlare delle Torri Gemelle avevo qualche anno in meno di Arya. Fu mia madre a farlo: mi disse che i Frey erano una famiglia fedele alla casata Tully e che il lord Walder Frey aveva un centinaio di figli. E sono tutti belli come principi?, ricordo di averle chiesto io, speranzosa all’idea che un giorno avrei potuto sposarmi con uno di loro, e lei aveva riso. Forse riderà ancora quando le rimembrerò questo aneddoto e, magari, anche lord Frey riderà.

«Parlerò io» La voce del Mastino è raschiante come ferro battuto. Nonostante gli abbia detto più volte che non ha alcun bisogno di farlo poiché nessuno gli farà del male, lui ha deciso di indossare un cappuccio per coprirsi il volto ed ha imposto sia a me che ad Arya di fare lo stesso. Se quegli stronzi delle guardie mi vedono faranno storie, un mucchio di storie, ed io non sono qui per cianciare con loro. Io voglio solo incontrare il tuo dannato fratello, prendermi la mia ricompensa e magari anche una coppa di vino, aveva detto. Be’, che creda pure quel che gli pare! Per quanto mi riguarda non obbedirò mai ad una richiesta simile. Sono Sansa Stark di Grande Inverno, io, e qui sono in mezzo agli uomini fedeli alla mia casata. Cos’ho da temere?

Ci avviciniamo alle porte. Il rombo dei tamburi ed il suono dei corni si dilatano sull'accampamento. I musicanti in una torre stanno suonando qualcosa di diverso dalle solite ballate allegre e gioviali. Qualcosa che assomiglia ad un inno di guerra. Uno strano senso d’inquietudine mi lambisce lo stomaco ed un brutto presentimento mi fa rabbrividire. Scuoto la testa, risoluta a cacciar via questi sciocchi pensieri. Staranno ancora cenando, mi dico. Risparmieranno le ballate più movimentate per dopo.

«Altolà!», un uomo con una lunga barba pallida ci ferma. «Chi siete voi?!», domanda, imperioso. Col buio non riesco a vedere bene il suo volto, ma dall’emblema che ha cucito sulla tunica, l'uomo scuoiato di Forte Terrore, capisco subito che si tratta di un sottoposto dei Bolton. Il mio cuore sussulta: i Bolton sono alleati degli Stark, anch’essi sono uomini del nord… mi riconoscerà di certo! Emozionata mi alzo per farmi vedere, ma il Mastino me lo impedisce e prende la parola prima che io possa protestare.
«Porto maiale salato per il banchetto di nozze, se ti compiace, ser » Dice. Una vampata di calore mi investe in pieno, facendomi fremere d’irritazione. Perché continua con questa farsa? Perché semplicemente non lascia che i miei uomini mi riconoscano?

L’uomo dei Bolton aggrotta la fronte. «Il maiale salato non mi compiace mai.», dice, ed i suoi occhi acquosi squadrano il Mastino con disinteresse mentre a me ed Arya non degnano nemmeno di un’occhiata. Il suo sguardo si posa invece su Straniero, esaminandolo con minuzia e sospetto. Ora che ci penso, un cavallo da guerra non è adatto a trainare un carro pieno di vettovaglie e cibi sotto sale. Non è credibile. «Com'è che hai con te questo animale?».

«La milady mi ha detto di portarlo, ser», risponde il Mastino, strascicando le parole. «Dono di nozze per il giovane lord Tully.».
«Quale lady? Chi servi?».
«La vecchia lady Whent, ser.».
«Crede davvero di poter riavere Harrenhal con un cavallo?», ribatte l’altro, sprezzante. «Per gli dèi, c'è forse uno sciocco più grande di un vecchio sciocco?», ci rivolge un breve cenno col capo e fa per cacciarci. «Ad ogni modo, il maiale salato non è carne adatta al banchetto di nozze di un lord».
«Ho anche zampe di suino, ser.».
«Niente da fare, non per questo banchetto. La festa è quasi fi­nita ed io non ho tempo da perdere. Puoi scaricare vicino al­le tende della festa, laggiù», ci indica con la mano guantata un vicoletto pieno di carretti e sacchi colmi di roba. «La birra fa venire fame, e il vecchio Frey non sen­tirà la mancanza di poche zampe di suino – non ha nemmeno i denti per roba come quella. Chiedi di Sedgekins, lui saprà cosa fare di te.», abbaia un ordine e i suoi uomini aprono un varco per lasciarci passare. Il Mastino fa schioccare di nuovo la frusta e Straniero tira il carro verso avanti. Durante tutto il tragitto, disseminato di buche e fango, non posso fare a meno di guardarmi attorno alla ricerca di volti conosciuti: una ragazza mezza svestita esce ridendo da una tenda, ma il vessillo che troneggia sulla sommità del tendone non è grigio e bianco come avevo sperato, ma giallo senape. Una donna anziana cammina per le vie incrostate dalla fuliggine e dalla pioggia, ma non è la vecchia Nan. Un maestro cammina svelto verso un braciere ma non è maestro Luwin, e nei volti tutti uguali delle guardie vedo solo sconosciuti. Anche Arya sembra delusa. Non ha più fiatato dacché siamo entrati all’interno del Guado, tuttavia i suoi occhi parlano per lei: freme dalla voglia di riabbracciare nostra madre, è ansiosa all’idea di essere tanto vicina quanto incredibilmente lontana dalla nostra famiglia e le sue labbra tremolano. Anch’io sono nervosa, ma cerco comunque di non darlo a vedere. Non sono più nella foresta, adesso, dunque devo tornare a comportarmi come una vera lady. E le lady non si scompongono mai.

«Ser Donnel Haigh» dice il Mastino, sogghignando. «Gli ho rubato più cavalli di quanti ne rie­sca a contare. Anche armature. E una volta, in una grande mi­schia, per poco non l'ho ucciso.».
«E allora perché non ti ha riconosciuto?» Domanda Arya, la fronte corrucciata.
«Perché i cavalieri sono degli idioti: sarebbe stato indegno per lui dare una seconda occhiata a un bifolco butterato», Clegane sferza l’aria con un altro colpo di frusta. «Se tieni lo sguardo basso e hai un tono rispettoso e dici spesso "ser", la maggior parte dei cavalieri neanche ti vede. Prestano molta più attenzione ai ca­valli che al popolino».
«Perché non ci fermiamo?», domando io allora. «Ci sono uomini del Nord qui attorno. Non so dove, ma sono qui. E quando mi vedranno dirò loro di non farvi del male e loro mi ubbidiranno».
«Tuo fratello è nella fortezza», risponde il Mastino, scoccandomi un’occhiata fugace. «E anche tua madre. Li vuoi vedere sì o no?».
«Sì», risponde Arya al posto mio, la voce spezzata dall’ansia. «Sì, vogliamo vederli!».
«E allora state zitte e alzate quei fottuti cappucci.», Cle­gane fa di nuovo sibilare la frusta e quella schiocca sul manto di Straniero che aumenta di velocità il trotto.
All’improvviso, qualcosa mi bagna il viso. Una gocciolina, due, tre.. sta piovendo. Una goccia mi inumidisce le labbra, la lecco e subito storco il naso: questa è pioggia acida. Scura, sporca, che sa di terra e di ferro e che prende le sfumature del rosso a causa del fuoco delle fiaccole. Un profondo senso d’inquietudine torna a fare capolino nel mio petto, più forte e raggelante di prima. Il Mastino digrigna i denti. Per un attimo, scorgo un lampo di preoccupazione nel suo sguardo. Storce le labbra, la sua cicatrice si contrae in uno spasmo. «Il cielo piange sangue. Non è un buon segno».

 

 
Dal cielo scuro continua a scendere pioggia ancora più scura, il fiume ruggisce e la musica continua a suonare all’interno di una delle torri illuminata a malapena dalle fiaccole al suo interno. I tamburi riecheggiano martellanti come battiti di un cuore e macabri come un antico requiem. Non so cosa c’è che non va, ma ho un brutto presentimento. Un mastino fiuta il pericolo, lo avverte nelle ossa. E la pioggia questa sera puzza di ferro e di sangue.

Il carro avanza su argilla fradicia ed erbacce strappate, allontanandosi dalle luci per sprofondare di nuovo nell'oscurità. Lungo le mura della fortezza, fiamme rosse danzavano e si agitavano nel vento, designando riflessi purpurei sulle maglie di ferro bagnate e sugli elmi gocciolanti dei soldati. Digrigno i denti. Detesto il fuoco. E detesto anche questo cazzo di posto.

«Guardate!», Arya Stark salta in piedi ed indica dritto dinanzi a sé. «Il ponte levatoio non è stato chiuso! Quell’idiota aveva detto di sì, ma si sbagliava!», seguo il suo sguardo: ha ragione. Il ponte levatoio è abbassato, alcuni soldati stanno lasciando la fortezza. Aguzzo lo sguardo. Il sangue mi si gela nelle vene: hanno delle spade in pugno… ma quello che sgocciola dalle loro lame non è acqua. «Vado a vedere!».

«Cosa? No! No, torna qui, dannata te!» Niente da fare. La fottuta ragazzina-lupo è troppo svelta per me e nemmeno sua sorella fa in tempo a fermarla. A differenza sua, però, l’uccelletto sembra aver intuito che qualcosa non va. Mi guarda. Nei suoi occhi azzurri avverto un lampo di paura e la sua mascella si contrae in uno spasmo involontario. Non so cosa abbia intravisto nel mio sguardo – forse niente, forse tutto – ma prima che possa bloccarla, anche lei segue la sorella giù dal carro.

«No!», la voce mi si spezza in gola. Ma cosa cazzo sta facendo? «Torna qui, dannazione!», la ruota sinistra affonda nel fango ed il carro si inclina su un fianco, sbilanciandomi. Trattengo le redini di Straniero con così tanta violenza che per poco non volo giù. Lui si inarca sulle due zampe posteriori e nitrisce infervorato dalla paura. Strappo via il sedile del carro e brandisco la spada che avevo nascosto sotto la panca, poi taglio di netto le briglie che lo legano e salto a terra. Un centinaio di uomini e cavalli attraversano le strade tutti ricoperti di ferro e di cuoio: brandiscono asce da guerra, spade acuminate, mazze chiodate ed archi lunghi. La tempesta si affievolisce, la pioggia batte leggera contro la mia armatura. Roteo su me stesso: decine e decine di tende riportanti il vessillo degli Stark stanno prendendo fuoco, la stoffa imbevuta di olio bollente attizza le fiamme, un nugolo di frecce infuocate si sollevano nel cielo scuro e grida strazianti riempiono il cielo.

Una melodia sinistra riecheggia in tutto il Guado, così terribile da sovrastare ogni pianto, urlo o gemito.

 
E chi sei tu, disse l'orgoglioso lord,
che così in basso io devo inchinarmi?
 
Il respiro mi si mozza in gola. Solo adesso realizzo perché prima mi ero sentito così dannatamente a disagio. Io conosco questa maledetta canzone. L’ho udita così tante volte… così tante, fottutissime volte, che è assurdo che l’abbia riconosciuta solo adesso. Sono le Piogge di Castamere. La canzone di battaglia dei Lannister. Una canzone che parla di massacri, di sangue e di morte.
 
Solo un gatto con un altro pelo,
questa è l'unica verità che conosco.
 
Un pensiero mi attraversa la mente. L’uccellino. Sansa. Lei è ancora là fuori.

Da qualche parte, chissà dove in mezzo a questa tempesta di fuoco e di acqua, un lupo ulula al vento. Il suo suono mi percorre il corpo come una lama gelida. All’improvviso, un'orda infinita di cavalieri e scudieri e mercenari si riversa lungo le strade, uccidendo e spargendo il sangue di tutti coloro che capitano sotto il loro tiro. Tutti coloro che portano il vessillo del meta-lupo.

Sansa, mi sposto in fretta lungo i vicoli del Guado, terrorizzato all’idea che possano riconoscerla. Dove cazzo sei, ragazzina?

Il vento sibila contro le rocce, il sangue scorre lungo i ciottoli delle strade e solo quando riesco a vedere la cagnetta Stark correre svelta come una lepre verso l’entrata della fortezza dei Frey, capisco che nemmeno lei capisce più un cazzo di ciò che sta succedendo. I suoi occhi grigi sono colmi di smarrimento, le sue labbra distorte in una smorfia di paura ed angoscia. Pochi metri più in là, il muso grigio di un metà-lupo ( quello del suo dannato fratello, forse? ) fa capolino da sotto le inferriate di una gabbia. È morto.

Dobbiamo andarcene di qui. E dobbiamo andarcene adesso.

L’afferro per le spalle, obbligandola a guardarmi. «Ragazzina, dobbiamo andare via da qui».
Sulle sue labbra sottili danzano un centinaio di risposte, i suoi occhi si sgranano. «Mia madre è ancora lì dentro! E mio fratello…».
«È morto», ringhio. «Credi davvero che avrebbero ma­cellato i suoi uomini e lasciato in vita lui?», la costringo a guardare dietro di lei, nel punto esatto in cui infuria la battaglia. «Guarda, maledetta te... Guar­da!».

L'accampamento è diventato una carneficina, corpi di uomini e donne sono ammassati ovunque, dei soldati urlano ordini mentre altri brandiscono le spade per sentenziare altra morte; il fumo si mescola alla pioggia facendo scendere gocce scure e fetide, le fiamme avvolgono enormi padiglioni riportanti il simbolo dei Tully e degli Stark. Dovunque provi a voltarmi, vi è morte. E l’uccellino è ancora là fuori.

 
 Pelo d'oro o pelo rosso,
un leone artigli ancora ha.
E i miei sono lun­ghi e affilati, mio lord,
lunghi e affilati quanto i tuoi.
 
«Dov’è tua sorella?!», Arya corruccia la fronte, intontita come se si fosse appena destata da un sogno. Le do uno schiaffo e lei spalanca gli occhi e inizia a tremare. «Parla, dannata te!».
«Sansa...», la sua voce è appena un sussurro, la guancia inizia a diventarle rossa. «Io… io non l’ho vista. Non so dov’è!».

Respirare diviene improvvisamente difficile, parlare è impossibile quasi quanto lo è pensare. Mi guardo attorno, il cuore stretto in artigli di ferro, e vedo solo morte e sangue e uomini morire. E se lei fosse tra loro?! No. No, non voglio neanche mettere in conto un’ipotesi del genere. Vorrei urlare ma la voce mi rimane incastrata in gola, come se un enorme masso mi gravasse sul petto. Se dovessero averla riconosciuta… se qualcuno scoprisse chi è…

«Aaaaaaah!».

Sia io che la mocciosa ci voltiamo verso l’urlo appena sentito. Il mio sguardo saetta su quello di Arya d’istinto: come immaginavo, è sbiancata. Non ho bisogno di altre conferme per assodare che quella è la sua voce. Senza indugiare oltre corro spedito verso la sua direzione, quando tre uomini dei Frey ci avvistano. Ringhio una bestemmia fra i denti e fischio con le dita. Straordinario come sempre, Straniero galoppa verso di me ed io gli salto in groppa e carico al galoppo uno dei tre coglioni che mi si parano dinanzi. Uno di loro, spaventato dalla mole del mio cavallo, tenta di darsela a gambe ma la lama della mia spada è più svelta e colpisce la sua nuca uccidendolo sul colpo. Un sibilo dietro il mio orecchio mi mette in allerta e faccio appena in tempo a scansarmi che l’ascia di un secondo cavaliere fende l’aria, mancandomi per un soffio e colpendo invece il muso del cavallo di un altro stronzo, che subito nitrisce di dolore e si accascia a terra di colpo, schiacciando così il suo proprietario. Il sangue schizza da tutte la parti, mescolandosi alla pioggia ed al fango. Il cavaliere che aveva provato ad uccidermi urla di rabbia ma, quando mi volto per affrontarlo, non è me che punta ma ad Arya Stark. L’elmo dello stronzo è ammaccato, una pietra giace a pochi passi dal suo cavallo, ed Arya lo guarda con occhi pieni di sfida e paura. La realizzazione che è stata lei a distrarlo per permettermi di difendermi mi si para davanti di colpo, assurda quanto reale, e la sorpresa è tale che per un istante resto inerme sul posto.

Il cavalie­re galoppa verso di lei. La cagnetta è svelta e corre veloce, ma non abbastanza. Scorgo un ghigno sadico incurvare le labbra dello stronzo e subito do di speroni. Lui alza l’ascia. Arya corre, corre, corre ma è troppo lenta. Troppo lenta. Un solo colpo e per lei sarà la fine. Il cavaliere sferza l’aria ma l’ascia abbandona le sue dita guantate di ferro e cuoio prima che possa colpirla. Poi si ferma, tossisce sangue e cade da cavallo. La sua testa è spaccata in due e la mia spada è ancora sporca di materia cerebrale e sangue viscido e grumoso. Tirandola via, lo stronzo ha un singulto e i suoi pantaloni si bagnano di piscio. Guardo la mocciosa. Lei non dice nulla, ma entrambi sappiamo che adesso siamo pari.

Una vita per una vita, ragazzina.

«Sansa…» Il suo è appena un sussurro. I miei occhi si sgranano. Repentina, la mocciosa salta su Straniero senza che io le dica nulla, aggrappandosi forte alla sella, ed io parto al galoppo. Il fuoco divampa attorno a me, le fiamme scoppiettano e il rullare di un tamburo solitario si fa più forte. Doom boom doom boom. La mia bocca è piena di fango, la faccia sporca del sangue delle guardie che ho ucciso. Ma non mi importa. Non mi importa del fuoco, del fumo, della paura che mi lambisce le viscere. Devo trovare Sansa… Sansa, l’uccelletto… il mio uccelletto…

«Eccola!» Arya indica un piccolo puntino fra la folla, in ginocchio a terra, bagnata e coperta di fuliggine. Salto giù da cavallo e corro verso di lei. La chiamo, ma lei non risponde. Avanzo svelto, improvvisamente inquieto, e quando le sono accanto l’afferro per le spalle e la volto verso di me. Rilascio subito la stretta appena vedo il suo viso e… le sue mani. Sono sporche di sangue… e non è suo. Sposto lo sguardo. C’è un uomo ai suoi piedi: il suo volto è deturpato, quasi non si riconosce, pieno di tagli; dalla sua gola sgocciola un lungo rivolo rosso ed i suoi occhi sono rivoltati all’indietro. Non capisco davvero cosa sia successo finché non mi accorgo di ciò che regge Sansa fra le dita: uno stiletto. Uno stiletto lungo, di ferro… e macchiato di sangue.

Un urlo più sguaiato dei precedenti mi fa rinsavire. Non so da dove provenga, ma dobbiamo andare via da qui e dobbiamo farlo adesso. Cerco di far alzare Sansa, ma lei non collabora; tutti i suoi muscoli sono come paralizzati, i suoi occhi pieni di smarrimento e orrore. Bestemmio forte e le tolgo lo stiletto dalle dita, poi me la isso sulle spalle di peso. Lei continua a gemere e sillabare parole senza senso.

«Va tutto bene, uccellino. Chiudi gli occhi, presto saremo fuori da questo inferno» Sussurro al suo orecchio prima di salire in groppa a Straniero. Quando la vede, Arya guarda il suo viso ancora sporco di sangue e schiude le labbra, ma non dice una parola. Probabilmente è troppo sconvolta per farlo.

Do di speroni e Straniero parte spedito verso l’uscita. Durante la corsa afferro uno dei vessilli raffiguranti le due torri dei Frey, così da non destare sospetti, ma all’improvviso una cacofonia di voci e schiamazzi mi fa fermare. Straniero vortica verso quel vociare. Un gruppo di soldati che sta uscendo dalla fortezza avanza verso l’esterno. In mezzo a loro vi è qualcosa di strano che non riesco a vedere con chiarezza. È più grosso degli altri soldati ed ha qualcosa sulla testa, qualcosa che non è umano. Quando la luce del fuoco illumina la sua figura, il sangue mi si gela nelle vene: il suo corpo è ricoperto di frecce, la sua testa è stata tagliata. Al suo posto vi è quella di un metà-lupo dalle fauci spalancate e gli occhi gialli... li stessi occhi della bestia che avevo visto prima.

La canzone maledetta, Le Piogge di Castamere, continua a suonare. Con essa, un altro coro fa da sottofondo a questa notte di follia e morte. «Re del Nord!», urlano i soldati, sghignazzando. «Re del Nord! Re del Nord! Fate passare il Re del Nord!». Capisco di chi si tratta quando ormai è troppo tardi e Sansa ed Arya hanno già visto tutto.

Robb Stark.

 
Così lui parlò, così lui parlò, il lord di Castamere.
Ma ora le piogge piangono nella sua sala,
senza nessuno a udire quel pianto.
Sì, ora le piogge piangono nella sua sala,
senza una sola anima a udire quel pianto.
 
Non guardo le ragazze Stark mentre galoppo lontano dal Gaudo, né quando arriviamo nei pressi di una locanda e saliamo le scale scricchiolanti che portano alle camere. L’oste non ci ha riconosciuti, e semmai lo avesse fatto è bastata una sola occhiata alla mia spada ancora macchiata di sangue e qualche moneta di rame per fargli intendere di tenere la bocca chiusa e non fare domande. Una volta in camera restiamo in silenzio per un tempo che pare infinito, quando ad un tratto Sansa si guarda le dita ancora sporche di sangue ed un singhiozzo spezza il silenzio. Ne segue un altro e un altro ancora e altri mille, finché i singhiozzi si tramutano in lacrime e le lacrime in pianto. Non ricordo di averla mai sentita piangere in questo modo e non riesco a guardarla mentre lo fa. Tengo gli occhi puntati in un punto imprecisato della stanza, maledicendo il mondo intero per quello che è successo. Non so perché sia accaduta una cosa simile, e non sono neanche certo di volerlo sapere. So solo che tutto ciò è abominevole persino per me, e che quei Frey sono maledetti.

«Smettila. Smettila di piangere, stupida!», la mocciosa-Stark si è alzata in piedi, i pugni stretti lungo i fianchi e gli occhi lucidi. Sansa posa lo sguardo su di lei –  mai i suoi occhi sono stati tanto arrossati, nemmeno dopo la morte di suo padre. Arya le si avvicina a passo spedito, le labbra strette e tirate in una linea sottile piena di collera. «Piangere non riporterà indietro nostra madre e Robb! Piangere non aiuterà nessuno, quindi smettila! Smettila, non ti sopporto!», trema tutta mentre lo dice, la sua voce si spezza e alla fine anche lei scoppia in lacrime. È un pianto rotto, il suo, pieno di rabbia e disperazione. Crolla a terra, le mani premute sul viso e le labbra tirate in una smorfia simile a quella di un lupo che scopre i denti, e Sansa la stringe in un abbraccio pieno di dolore. Arya si aggrappa alle sue spalle con una forza tale da farmi credere che le romperà qualche osso, ma Sansa non protesta e continua a singhiozzare senza ritegno. Per tutto il tempo, nessuno di noi tre chiude occhio. Come si fa a dormire quando il mondo attorno a te crolla? Crolla tutto, e le ragazze Stark più di tutte. Mi chiedo se anch’io finirò col crollare come un castello di carte, ma poi ricordo che io sono crollato dal momento stesso in cui Gregor ha premuto la mia faccia su quella fottuta brace.

Mi tornano in mente gli occhi colmi d’orrore di Sansa, lo stiletto che teneva stretto fra le dita macchiato di sangue ed il cadavere che la guardava con quei suoi terribili occhi vuoti. Non so cosa sia accaduto, ma so per certo che lei non è un’assassina. È un fiore nato dalla neve, lei, piccolo e delicato e bellissimo, ma non velenoso… Eppure adesso le sue mani sono sporche di un sangue che non è il suo, i suoi occhi colmi della stessa paura che aveva solcato i miei quando uccisi il mio primo uomo, e la verità è una sola, chiara e terribile.

La guardo: i suoi occhi sono rossi di pianto, fissi in un punto imprecisato della stanza, assenti,  le sue guance scavate e tese. Sua sorella si è allontanata un po’ più in là, in un angolino al buio e pieno di ombre. Le sue labbra sottili si muovono lentamente, sussurrano parole. «La Montagna, la regina Cersei, Walder Frey…». No, non sono semplici parole. Sono nomi. I nomi di chi odia… ma perché li nomina?

Per ucciderli. Non ricordi? Anche tu sussurri il nome di Gregor ogni notte per ricordarti che un giorno sarai tu a farlo fuori. Non esserne tanto sorpreso.
Una mocciosa non dovrebbe pensare ad uccidere la gente.
Una mocciosa non dovrebbe neanche vedere il corpo di suo fratello mutilato come il peggiore degli abomini.

I miei occhi si posano di nuovo su Sansa. Vorrei avvicinarmi, togliere via le lacrime dal suo viso, dirle che troveremo una soluzione, che andrà tutto bene, ma la voce mi resta incastrata in gola e l’unica cosa che riesco a fare e sdraiarmi nella brandina che puzza di vecchio e chiudere gli occhi. Sono certo che non riuscirò mai ad addormentarmi, che rimarrò sveglio fino all’alba, ma alla fine il sonno giunge ed un drappo nero cala sui miei occhi.


 

 
 
Urla. Pianti. Morte. È questo ciò che mi si prospetta davanti. Terribile, violenta morte.

Le lacrime scorrono lente sul mio viso, il vento me le appiccica alla pelle e mi solletica il collo. Dov’è mia madre? E Robb? Dov’è mio fratello?! Arya… devo trovare Arya. Lei di certo saprà dove sono, avrà trovato qualcuno disposto ad aiutarci, a porre fine a questa follia…

Morte. Morte. Morte.

Il fuoco divampa impazzito attorno a me, i vessilli raffiguranti il metà-lupo degli Stark sono ridotti a poco più che brandelli. Non capisco... non capisco! Cosa sta accadendo? Perché, perché tutto questo? Ero così vicina a mia madre, così vicina a poterla riabbracciare e sentire il suo calore, i suoi baci sulle guance…
 
E chi sei tu, disse l'orgoglioso lord,
che così in basso io devo inchinarmi?
 
La canzone di prima riecheggia nelle strade, angosciante come un requiem. Chissà, forse sono davvero morta…. Forse questi sono gli Inferi e gli dèi mi hanno mandata qui per quello che ho fatto a sir Meryn e Joffrey. No, no, non è possibile. Negli Inferi ci va solo gente cattiva e crudele, mentre qui a bruciare sono anche gli innocenti, le donne ed i bambini la cui unica colpa è quella di essere presenti a questo massacro. La mia testa gira come una trottola, camminare diventa improvvisamente difficile. Non capisco. Non capisco!

Dita ferree mi afferrano il braccio. Lancio un urlo, ma una mano viscida e callosa mi tappa la bocca mentre l’altra mi gira un braccio dietro la schiena. «Va tutto bene, bambolina…», rantola qualcuno al mio orecchio, spingendomi verso un vicolo stretto e buio. «Urla pure quanto ti pare, non c’è nessuno qui a sentirti», mi agito, piango e scalcio, ma è tutto inutile. Qualcosa di appuntito mi sfiora la schiena, il mio cuore perde un battito. Uno stiletto.

No, dèi, vi prego no… non lasciate che accada. Aiutatemi, vi prego… vi prego, no…

Vengo spinta contro il muro, il freddo umido della roccia che preme contro la mia guancia, e dita sudice mi alzano la gonna. «Ti prego… ti prego, no…», la mia voce è un gemito spezzato. Lui non mi ascolta e sghignazza nervoso, il suo alito che sa di aglio e vino, e il ricordo degli uomini che avevano tentato di stuprarmi durante la Rivolta del Pane mi aggredisce come un pugno in pieno stomaco. Il respiro mi si mozza in gola quando sento qualcosa di umido e caldo premermi fra le gambe e piango più disperatamente.

«Ti piacerà, dolcezza. Sì, sì, ti piacerà… piace a tutte, non preoccuparti...».

Una delle sue mani mi afferra il seno sinistro, l’altra si appoggia al muro. Lancio un grido e faccio forza contro di lui, riuscendo a dargli una testata che lo fa barcollare all’indietro. Complice il sudore che imperla le sue dita e la sorpresa, le sue mani scivolano via dal mio petto ed io ne approfitto per sgusciare lontano dalla sua presa, voltarmi e dargli uno schiaffo. Lui cade a terra, troppo ubriaco per reggersi in piedi, lasciandomi l’opportunità di fuggire. Corro e mi nascondo dentro ciò che è rimasto di una tenda ormai ridotta ad un mucchio di legni e travi poste alla rinfusa. Il cuore mi batte a perdifiato, la sensazione delle dita viscide di quel maiale sul mio collo e del suo membro umido sul mio interno coscia mi fa tremare, ma ho ancora troppa paura per concedermi di piangere. Posso udire il battito del mio cuore rimbombarmi nella testa. TumTum TumTum TumTum. Lui è ancora lì fuori, lo sento imprecare e correre avanti e indietro alla mia ricerca. Le ginocchia non mi reggeranno a lungo, me lo sento, e nessuno verrà a salvarmi questa volta. Sono sola… sola contro la morte.

«Stiamo giocando a nascondino?», la sua voce rauca è vicina. Troppo vicina. «Vieni fuori, smettila di sprecare il mio tempo!».

Mi rintano il più possibile nel mio nascondiglio. Va’ via, ti prego, vattene via.  Il mio piede urta un coccio di legno. Un crack maledetto rimbomba attorno a me. Deglutisco. Silenzio. Una voce urla nella mia mente. Scappa. Scappa adesso, prima che ti trovi.  Ma i miei piedi sono come incollati al terreno, così come la mia lingua è appiccicata al palato. Non riesco a muovermi. Sono paralizzata. All’improvviso, i passi dell’uomo si fermano.

«Ti ho trovata, troietta», il sangue mi si gela nelle vene. I miei occhi incrociano quelli folli del mio aguzzino, che sorride compiaciuto come se si trovasse dinanzi ad un dolce. Fra le dita stringe lo stesso stiletto con cui mi aveva minacciata prima. «Adesso esci fuori, se non vuoi che quel tuo bel visino si sporchi di sangue».

Obbedisco. Una volta fuori, lui mi afferra per le spalle e mi spinge contro il muro di pietra dietro di me, facendomi sbattere la testa. Tutto inizia a ronzare, i suoni si fanno ovattati e lontani e qualcosa di caldo mi cola giù dalle tempie. Sento le sue mani sudaticce tastarmi i fianchi, scendere lungo il mio fondoschiena, ma quando prova a toccarmi lì sotto il mio corpo reagisce d’istinto ed il mio ginocchio affonda dritto nel suo stomaco. Lui si piega in avanti, io tento di nuovo di scappare ma lui mi riafferra e mi spinge nuovamente contro il muro, bloccandomi col peso del corpo. Il suo odore mi inonda le narici: vomito, sangue, aglio e vino si mescolano. «Non sono in vena di giocare con te, lurida troia», mi gira verso di lui e una sua mano si serra attorno ad uno dei miei seni, stringendolo con così tanta forza da farmi urlare di dolore; la sua bocca si posa sopra il solco del mio petto con viscidità, le sue dita si fanno largo fra le mie gambe. Spinta dalla paura stessa, affondo i denti nel suo collo e mordo finché non sento il sangue riempirmi la bocca. Lui grida di dolore e si allontana di getto da me, io mi lancio contro di lui e lo colpisco con una spallata che gli toglie il respiro e lo fa cadere a terra con un tonfo. Lo stiletto rovina a terra con un rimbombo metallico.

Mentre lui tenta di riprendere fiato, boccheggiando bestemmie e ansimi, io afferro l’elsa della lama con dita tremanti. Lui grida, si rimette in piedi, e il terrore che mi attanaglia è tale da farmi perdere la presa. «Cagna…!», grida gettandosi a capofitto sullo stiletto, ma io sono più vicina e lo afferro prima di lui. Mi tira il vestito con forza, cercando di farmi cadere, e all’improvviso qualcosa mi suggerisce che se non agisco ci rimetterò la vita. Mi tira un calcio nei polpacci ed io cado a terra. Lui è sopra di me prima che possa fermarlo, gli occhi spietati e le labbra sottili ritratte in un ringhio feroce. Le sue dita si stringono attorno al mio collo.
«N-No… non respiro… ti p-prego…».

La sua stretta si fa più possente, la mia vista inizia a sfocare e tutto il mio corpo reclama aria. Aria. Aria. Aria. Tasto il terreno in cerca di qualcosa: trovo lo stiletto che avevo fatto cadere poco prima. Lo afferro e la lama affonda nella carne del mio aguzzino in un gesto istintivo. Lui sbarra gli occhi e molla la presa. Lo colpisco di nuovo: le mie dita tremano ma i colpi sono decisi, dettati dalla paura, e un copioso getto di sangue zampilla sul mio viso, caldo e viscido. Il terzo colpo gli lenisce il petto ed un fiotto di sangue mi investe. Alla fine, non riesco più a distinguere dove comincia e dove finisce il suo volto. L’ho accoltellato così tante volte e in modo così distratto che ormai non è nient’altro che una maschera di sangue e muscoli pulsanti. Lo spingo di lato, il suo corpo che si contorce in preda agli spasmi, ed i suoi pantaloni si macchiano di urina. Poi, dopo quella che sembra un’eternità, rivolta gli occhi all’indietro e  non si muove più.

È solo quando osservo le mie mani sporche di sangue che mi rendo conto di ciò che ho fatto, e il terrore che mi travolge è così devastante da scuotermi dalla testa ai piedi. Le lacrime mi salgono agli occhi tutte insieme, ma non riesco comunque a piangere… a respirare. Mi porto una mano al petto. Mi sento morire, devo star per morire. “Assassina”, urla una voce nella mia mente. All’improvviso, Joffrey è di nuovo qui: dal suo petto gronda sangue ed i suoi occhi sono pieni di vermi.
C’è sir Meryn con lui, e mio padre e Robb e la lady mia madre, le cavità dei loro occhi sono vuote e oscure.

«Assassina. Mostro.».
«No», singhiozzo. «No, non è stata colpa mia! Lui… lui…».
«Assassina».

Lunghi artigli mi stringono le braccia. Dimenarmi è impossibile, è come se tutto il mio corpo fosse inchiodato al terreno. Risate maligne sussurrano al mio orecchio mentre loro mi si avvicinano armati di pugnali e di asce. Tra le dita, Joffrey tiene la testa di Lady. La mia cara, dolce Lady. Si avventano su di me, mi spingono a terra, ed io capisco ciò che intendono fare. «No! No, vi prego, non fatelo! Non sono un’assassina! Lo giuro, sono buona… vi prego, vi prego...!», la mia voce viene sommersa dalla stessa melodia lugubre e malinconica di prima.

 
Pelo d'oro o pelo rosso,
un leone artigli ancora ha.
E i miei sono lun­ghi e affilati, mio lord,
lunghi e affilati quanto i tuoi.
 
Da qualche parte, un lupo ulula alla luna: il suo canto mi si infiltra sin dentro le ossa, tagliente come un rasoio. «No…», singhiozzo, mentre la musica accresce. «No, no, vi prego… vi prego, no!». La lama della spada di Joffrey sibila nel vento, la testa di Lady viene spinta verso di me, poi tutto diventa scuro.
 


«No!».

Tutto il mio corpo viene sbalzato in avanti, i capelli mi ricadono lunghi e appiccicati sul viso. Respirare è un’impresa quasi titanica, ma se riesco ancora a farlo allora significa che sono viva, che la mia testa è ancora attaccata al collo. Mi passo una mano sul volto, le mie dita tremano. Era un incubo, mi dico. Ma quando le immagini della scorsa notte mi balenano davanti agli occhi, taglienti come pugnali, realizzo che lo era solo in parte. Il mio stomaco si stringe in una morsa dolorosa e l’improvvisa voglia di piangere mi colpisce in pieno. Tuttavia, le lacrime restano incastrate in gola, così come le parole. Non ho più nemmeno la forza di urlare.
«Sei sveglia», mi volto di scatto. I miei occhi incontrano quelli grigi del Mastino. Mi torna in mente il momento in cui mi aveva caricata sulle spalle e portata via dal cadavere della guardia che aveva tentato di violentarmi. Lo odio per averlo fatto. Mia madre era ancora dentro quel maledetto castello quando siamo andati via, ed io non sono andata a salvarla. Avranno ucciso Robb, ma lei potrebbe essere stata presa in ostaggio. Perché è tornato per me? Perché non ha preso mia madre? Perché non ha fatto niente per salvarla?!

Lui ti ha salvato la vita, dice una voce nella mia testa, fastidiosa come il ronzio di un insetto. Dovresti essergli grata. Una vera lady lo sarebbe. Sbuffo. Non mi importa più niente delle lady, o della cortesia o di qualsiasi altra cosa. Perché dovrei? Mia madre è morta, la mia septa anche e sono lontana dalle corti mille miglia. A chi importerebbe se mi comportassi da lady o da popolana? A chi importerebbe di una stupida ragazzina che non riesce più neanche a piangere?!
«Dov’è mia sorella?» La mia voce risuona atona e burbera. Non voglio parlare con lui. Non mi importa se mi ha salvato la vita. Non mi importa più di niente.
«Fuori, a giocare con quello stuzzicadenti che si porta dietro», indica col capo l’esterno della finestrella vicina al mio letto. Mi sporgo un po’ e scorgo la sagoma minuta di Arya che tira fendenti a destra e a manca, gli occhi pieni di odio. Anche lei ricorda ciò che è successo ieri. Restiamo in silenzio per un po’, poi lui riprende la parola. «Come stai?».

«Perché ti importa? Ora che mio fratello è morto non hai che fartene di me e di mia sorella», stringo le labbra. “Non dovresti dargli del tu. Non è educato”, riprende quella vocina nella mia mente. Non mi importa. Neanche lui è mai stato educato con me, perché dovrei esserlo io? «Forse ci venderai ai Lannister, per quanto ne so. Loro di certo ti ricompenseranno a dovere una volta ottenuta la nostra testa…».

Il Mastino raggrinza le labbra in una smorfia e la sua cicatrice si contrae grottescamente. La simpatia che provavo nei suoi confronti è svanita di colpo, cancellata come gesso da una spugna. Non voglio più avere niente a che fare con lui. Non voglio più avere niente a che fare con nessuno. Voglio solo morire, morire e morire.

Lui digrigna i denti. «Forse lo farò, uccelletto».
«Smettila di chiamarmi così!», salto in piedi, i pugni stretti lungo i fianchi. Il mio vestito è ancora sporco di sangue, il mio cuore è pieno di odio. «Non sono un uccelletto!».

Lui si alza. Non c’è alcuna parvenza di ilarità nei suoi occhi, ma nemmeno di rabbia. C’è solo tanto, tantissimo gelo. «Oh sì che lo sei», risponde. «Un piccolo uccelletto dell’Estate che fa i capricci e arruffa le penne quando vede che le cose vanno male. Credi di ottenere qualcosa comportandoti in questo modo? Tuo fratello è morto, sicuramente anche tua madre. Credi che comportarti così li riporterà indietro?!».

La rabbia mi lambisce le viscere, una furia cieca che non credevo neppure di possedere mi scuote dalla testa ai piedi. «Sta… zitto!», nemmeno mi rendo conto di aver urlato. Il Mastino si ammutolisce. «Tutta la mia famiglia eccetto mia sorella è morta, Grande Inverno è distrutta, io ho ucciso un uomo…», la mia voce trema, si spezza riducendosi in un singhiozzo. Le immagini del corpo martoriato dell’uomo che ho ucciso mi tornano in mente. Tremo come impazzita, respirare è impossibile. « Io l’ho ucciso… con le mie mani… il suo sangue… tutto quel sangue…», mi premo una mano alle labbra. Non riesco a respirare… non riesco a respirare! «Oh, dèi… dèi, pietà… non respiro… non respiro…», le ginocchia cedono sotto il mio peso, il Mastino mi afferra per le spalle ed accompagna la mia caduta.

«Ehi… ehi, guardami! Guardami, dannazione!», mi costringe a incrociare il suo sguardo, ma io quasi non lo vedo. Le immagini di tutto quel sangue non vogliono andar via dalla mia mente, il mio cuore si sgretola sotto una stretta di ferro invisibile. Sto morendo. Devo star per morire. Il Mastino mi afferra il viso fra le mani e mi scuote con irruenza. «Hanno sterminato la tua famiglia, raso al suolo la tua casa, messo fine a quella tua cazzo di innocenza una volta per tutte e preso tutto quello che potevano, ma sei ancora viva, dannata te, sei viva. Avresti potuto lasciare che ti uccidessero ed invece non l’hai fatto. Non l’hai fatto!», le sue dita premono forte sulle mie guance. Un singhiozzo lascia la mie labbra. D’istinto mi aggrappo alle sue braccia come se da questo dipendesse la mia stessa vita. «Hai preferito affrontare tutta questa merda piuttosto che lasciare che ti portassero via l’unica cosa che ti è rimasta, Sansa. La tua vita… non hai permesso loro di togliertela. Tutti queste emozioni che stai provando, loro—».

«Non sento più niente!», gemo, la voce rotta dal pianto. Perché… perché è successo tutto questo? Perché a me? Perché alla mia famiglia?! Mi dimeno dalla sua stretta. «Voglio morire. Uccidimi, uccidimi… non la voglio più questa vita... ti prego… ti prego…».

«No, no, no... ascoltami… ascoltami!», alzo lo sguardo su di lui. Il suo viso è così vicino a mio che posso contargli tutte le ciglia. «Quando hai ucciso quell’uomo lo hai fatto per difendere la tua stessa vita, giusto? Perché altrimenti lui ti avrebbe uccisa. Ho ragione? Ho ragione, Sansa?!», il ricordo delle dita sudice e umide dell’uomo che aveva provato a stuprarmi mi tornano in mente. Annuisco, e la presa del Mastino si fa più forte. «Anche in quel momento hai lottato per la tua vita. Avresti potuto lasciare che ti uccidesse – cosa avevi da perdere, alla fine? – ma non lo hai fatto. Non lo hai fatto, cazzo. Hai visto quant’è semplice uccidere un uomo, non è vero? Lo hai visto con i tuoi stessi occhi. Cos’hai provato quando lo hai fatto? Rabbia, non è così? E soddisfazione… sì, soprattutto soddisfazione: è sempre soddisfacente uccidere. Anche quei figli di puttana dei Bolton e dei Frey hanno provato soddisfazione quando hanno fatto fuori tuo fratello e tua madre. Credi forse che loro vorrebbero saperti morta?», mi torna in mente l’abbraccio di Robb, la neve nei suoi capelli ramati, i baci affettuosi che mia madre mi regalava, e all’improvviso capisco ciò che il Mastino sta tentando di dirmi. «Non è la vita che non vuoi, ma il dolore. Non vuoi più vivere perché credi che con la morte anche il dolore andrà via. No, uccelletto, la morte non è la fine del viaggio. La morte non è niente di più che semplice e schifosa morte».

«Ti prego… ti prego, basta…».

«Vuoi morire, uccelletto? Vuoi davvero morire? Bene, allora. Fallo. Metti fine alla tua vita e al tuo dolore. Ucciditi e poniamo un punto a questa storia, se davvero credi che questo servirà. Ma se invece vuoi vivere, se non vuoi rendere vana la morte di tuo fratello e della tua dannata madre, allora vivi, fottuti dèi, vivi e vendicali! Se non vuoi farlo per te, allora fallo per loro e quella merda di sedia di ferro per cui sono morti!».

E la risposta arriva. Semplice, definitiva. Sicura. Alzo lo sguardo. «Io voglio vivere», è appena un sussurro quello che lascia le mie labbra, ma il fuoco che divampa dentro il mio petto è alto, impetuoso. «Voglio vivere…», un singhiozzo spezza le mie parole, finalmente le lacrime scorrono giù dai miei occhi. Il corpo mutilato di Robb mi si para davanti, la testa di mio padre sospesa su una picca mi torna in mente. Per loro. Voglio farlo per loro… e per me stessa. E per il Nord. «Io voglio vivere!».

Le mie ultime parole restano sospese nell’aria. Tutto sembra acquistare un senso. Il Mastino mi guarda, tutto il mio corpo è scosso dai sussulti. Trattenere il pianto diventa impossibile. Piango per Robb, per mia madre, per Bran e Rickon, per la mia dolce Lady e per Vento Grigio; piango per Grande Inverno e per tutti coloro che sono morti sotto il vessillo del metà-lupo degli Stark, per il sangue che mi macchia le mani e per quello che dovrà essere versato, piango perché nonostante tutto voglio ancora continuare a lottare.

«Tieni», Sandor mi porge quello che ha tutta l’aria di essere un panno sporco e macchiato di sangue, lo stesso che mi diede tempo fa. « I veri lupi non piangono. Loro mordono, attaccano, ululano. ».

Lupi. Non mi aveva mai dato della lupa prima d’ora. Mi ha sempre paragonata ad un uccelletto, un stupido, sciocco uccelletto. Eppure è così, sono una lupa anch’io. L’ emblema della mia nobile Casata è un metà-lupo, ed io sono una Stark. E anch’io posso essere coraggiosa.

«E uccidono», un’improvvisa euforia mi fa tremare le mani. Ripenso allo sguardo infido dell’uomo che aveva tentato di stuprarmi, a quello sadico di Joffrey e quello crudele della regina Cersei, ai sogghigni degli uomini che trasportavano il cadavere di mio fratello, al maestro Pycelle che mi toccava con quelle sue dita ossute e allo sguardo di sir Meryn mentre mi picchiava, e mi rendo conto di odiarli tutti. Tutti. Le parole del Mastino mi tornano in mente: Cos’hai provato quando lo hai fatto? Rabbia, non è così? E paura e soddisfazione… sì, soprattutto soddisfazione: è sempre soddisfacente uccidere. Un brivido mi sale lungo la schiena, ma non è di paura. È di desiderio. Quanto sarebbe dolce vederli morire tutti ai miei piedi? «Fra pochi giorni sarà il mio compleanno. Compirò sedici anni, l’età in cui una donna viene considerata adulta. Vorrei che mi facessi un regalo».

I miei occhi sono ancora rossi di pianto, nella mente è chiara l’immagine della testa decapitata di Vento Grigio sul collo di mio fratello. Il Mastino stringe le labbra.

«Cosa?».
«Il tuo pugnale», sussurro. «E voglio che mi insegni ad usarlo».
 
 
  • Note dell’Autrice.

1)       La canzone è Broken Crown, dei Mumford and Sons.

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Eeeeeed eccomi. Sì, sono viva. Non lo avreste mai detto, eh?
Mi dispiace un sacco per l’enorme ritardo, ma ho davvero avuto troppi problemi ultimamente, sia a livello scolastico, che sentimentale che familiare. Praticamente è stato un periodo d’inferno che non è ancora finito del tutto, tra l’altro. In pratica, l’angst assoluto del capitolo esprime perfettamente la mia situazione attuale. Ma vabbé.
Parliamo di altro, invece: le nozze rosse. Allora, chi, chi (di coloro che tifano Stark) non ha versato una lacrima quando ha letto\visto questa parte? Da parte mia, ho pianto con tanto di singhiozzi per i libri e mi sono crogiolata nelle mie stesse urla di dolore per il telefilm. Damn you George RR Martin.
Sansa ne ha passate di tutti i colori, qui, ma finalmente ha tirato fuori gli artigli. Sono dell’idea che lei sia una lady di tutto rispetto, dolcissima come una tortina a limone e delicata come una rosa d’inverno, ma rimane pur sempre una Stark. E quando c’è in ballo la propria sopravvivenza si fanno cose che in situazioni normali non si farebbero mai e poi mai – infatti dopo l’accaduto la mia Sansina ha un attacco di panico bello e buono.
Per questo capitolo mi sono ispirata molto sia alla scena riportata nei libri, sia a quella del telefilm. La canzone dovevo metterla per forza per principio. Scusatemela.
Spero che il capitolo vi sia piaciuto nonostante gli avvenimenti. Sappiate solo che se pensate che dopo questo possa solo migliorare, la situazione, be’… non avete prestato abbastanza attenzione. :P
Vi mando un bacione. Grazie mille di cuore per tutte le recensioni, i commenti entusiasti e i feedback che date a questa storia. Non smetterò mai di ripetervi quanto siete preziosi. Grazie, grazie e grazie mille ancora.
 
Al prossimo capitolo!
 
 
 

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Capitolo 13
*** Florian and Jonquil ***


 Florian and Jonquil
His eyes upon your face
His hand upon your hand
His lips caress your skin
It's more than I can stand

 
 

 
«Non ci stai nemmeno provando!», la voce del Mastino, alle mie spalle, è piena di scherno. Gli rivolgo un’occhiataccia, ma lui mi ride in faccia. «È tutto qui quello che sai fare?».

Digrigno i denti e tento di nuovo di colpirlo. Prima che la lama del pugnale possa toccarlo, lui si scansa ed io perdo l’equilibrio, rovinando a terra battendo forte il ginocchio. Quando scopro la gamba per vedere il danno, gemo sconsolata: un lungo rivoletto di sangue gocciola giù fino alla caviglia, beffardo. Sembra quasi volermi dire “Lascia perdere, ti rendi solo ridicola”, ma non mi importa. Io non voglio cedere, non dopo tutto quello che ho fatto per convincere il Mastino ad aiutarmi! 

«Sei senza speranza», dice Arya dall’alto del muretto di pietra dove è seduta. «Lascia perdere, Sansa. Sei fatta per tenere in mano un ago da cucito, tu. Non una spada».

Non è stato un ago a salvarmi la vita quando quell’uomo ha tentato di violentarmi, vorrei risponderle, ma mi limito a rimettermi in piedi e scoccarle un’occhiata in tralice. Dacché ci siamo allontanati dal Guado dei Frey, non vi è stata una sola notte in cui quelle sudice mani infide sul mio corpo, quell’alito che sapeva di aglio e di vino, non abbiano tormentato i miei incubi. Ogni volta che ci ripenso un brivido mi percorre la schiena ed è inutile tentare di scacciare via quelle immagini: tornano sempre, proprio come la paura. 

«La mocciosa ha ragione», il Mastino incrocia le braccia al petto e mi guarda con esasperazione. «Smettila con questa stupida idea di diventare ciò che non potrai mai essere. Rinunciaci e falla finita. Uccidere non è roba per una come te».

Mi mordo con forza le labbra, furiosa, e stringo i pugni così forte da farmi male. Ha ragione: non sono fatta per la guerra. Sono solo uno stupido uccelletto dell’estate, incapace di combattere e ribellarsi, utile solo a cinguettare stupide canzoncine. Eppure, quando ripenso al corpo massacrato di mio fratello, alla testa del suo lupo fissata sul suo collo, agli sghignazzi dei soldati che lo trasportavano, io… io sento qualcosa scorrermi nelle vene. Qualcosa che mi fa tremare le dita e le ginocchia e che mi riempie il petto di fuoco scalpitante. Uccidere non è una cosa giusta… e allora perché è stato così semplice?

Cos’hai provato quando lo hai fatto? Rabbia, non è così? E paura e soddisfazione… sì, soprattutto soddisfazione: è sempre soddisfacente uccidere, erano state queste le parole del Mastino quando gli avevo detto di aver ucciso quel pervertito, ma io so che si sbaglia. Uccidere non è mai soddisfacente. È la sensazione di torpore e giustizia che ti avvolge nel vedere chi ti ha fatto del male ai tuoi piedi, agonizzante, ad esserlo; la gioia sfrenata dell’avere la certezza che quella persona non potrà mai più farti nulla. Non c’è alcuna gloria nel togliere la vita a qualcun altro, ma nel vendicarsi… sì, in quello sì. 

«Non voglio rinunciare!», esclamo allora, risoluta. Il Mastino rotea gli occhi al cielo ed Arya fa lo stesso. «Mi hai promesso che mi avresti insegnato, non puoi tirarti indietro!».
Lui stira le labbra in un ghigno. «Perché? Non sarebbe cavalleresco da parte mia?».
«Se mi insegnassi a combattere bene almeno la metà di come fai tu, potrei essere in grado di difendermi da sola e tu non dovresti sempre preoccuparti per me!», rispondo. Non so di preciso quando ho iniziato a pormi a lui con tanta confidenza, senza preoccuparmi di dargli del “voi” come una lady dovrebbe sempre fare, ma a lui non sembra dispiacere. Dopotutto, ha sempre fatto in modo di ricordarmi quanto detestasse quei miei modi cortesi e gentili dietro cui mi nascondevo. 
«E chi ti dice che io mi preoccupo per te?» Il tono beffardo con cui mi apostrofa mi infastidisce. Stringo i pugni lungo i fianchi. Che mi aspettavo? Era ovvio che non avrebbe mantenuto la promessa. Potrà anche essere diventato più gentile nei miei riguardi, ma la sua solita attitudine a prendersi gioco di me non è cambiata affatto. 
«Bene!», sbotto allora, stringendo le labbra. Il sangue affluisce alle mie guance impetuoso come Altofuoco, facendomi divenire paonazza. Afferro il pugnale che mi ha dato la scorsa notte e lo rinfodero dentro il corpetto del mio abito, decisa a non perdere il controllo davanti a lui. Potrò anche dargli del tu, parlargli come potrei parlare a mia sorella, ma sono pur sempre la lady di Grande Inverno e ho una dignità a cui non intendo rinunciare. «Credo sia meglio rimetterci in cammino, allora».

Arya ed il Mastino si scambiano un’occhiata dubbiosa ma entrambi concordano nel rimettersi in marcia. È pericoloso soggiornare troppo a lungo nei boschi, dovremo trovare presto un riparo o una locanda dove alloggiare… l’ennesima. Ormai non ricordo quasi più com’è sentirsi a casa. Le memorie della me bambina che dormiva nell’enorme letto di piume a Grande Inverno sembra così lontana, così irraggiungibile. Sospiro. Vorrei solo tornare a casa, che tutto torni com’era prima, che Robb sia ancora vivo e il lord mio padre mi regali quelle meravigliose bambole che era solito darmi, tutte piene di pizzi e merletti proprio come lo era la me del passato. Voglio tornare ad essere una semplice ragazza che vive nell’illusione di vivere una vita bella come le ballate. Voglio tornare ad essere felice. 

«Guarda là», la voce di Arya mi fa rinsavire dai miei pensieri. Guardo il punto da lei indicato: c’è un villaggio, a pochi metri più avanti. Non sembra grande, eppure è abbastanza affollato per permetterci di passare inosservati. Io e Sandor ci scambiamo un’occhiata obliqua, poi lui prende la parola. 

«Bene», dà uno strattone alle redini di Straniero e avanza impettito verso il villaggio in questione. «Perlomeno avremo dove dormire, stanotte». 

Non impieghiamo molto per trovare una locanda. Tuttavia, scopriamo ben presto che il prezzo per soggiornare una notte è troppo elevato e né io né il Mastino abbiamo il denaro necessario. Il locandiere è un ragazzo dai capelli scuri e gli occhi ancora più scuri, con spalle larghe e mascella squadrata. Non sembra avere più dei miei anni, ma dal timbro di voce troppo profondo è evidente che sia più grande di me. Mi guarda, ma non sembra riconoscermi. In realtà, emaciata e sporca come sono, dubito che qualcuno riuscirebbe mai a farlo. 

«Sono desolato, sir», dice. Sembra sincero. «Ma mio padre è inflessibile su questo…».

Il Mastino grugnisce il suo disappunto. Leggo nel modo in cui corruccia la fronte che vorrebbe uccidere questo ragazzo qui e adesso, ma so già che non lo farà. Attirerebbe troppo l’attenzione, e noi questo non possiamo permettercelo. «Come ti pare», borbotta, la voce simile al raschiare dell’ubriaco, e fa per andarsene. Io ed Arya lo seguiamo ma, prima di poter varcare la soglia dell’uscita, il giovane ci ferma. 

«Ehi, voi!», grida. Il Mastino si arresta e gli scocca un’occhiataccia perplessa. «Io… ecco…», i suoi occhi scuri si posano sui miei, ma li distoglie subito. «Potreste stare qui per un po’. Ci servirebbe qualche mano d’aiuto per tenere lontani i piantagrane, e voi sembrate perfetto per questo compito… cioè, non che voi facciate paura… o perlomeno, non nel senso che—».

Sandor Clegane incrocia le braccia al petto, evidentemente infastidito. «Vieni al punto».

Di nuovo, lo sguardo del ragazzo si posa su di me. Questa volta sono sicura di averlo visto arrossire. «Potete restare qui tutto il tempo che volete, a patto che ci aiutiate a tenere lontani i ladri o… o coloro che recano disturbo alla locanda, ecco. Non abbiamo molto da offrirvi, ma un pasto caldo e un letto sono garantiti se accetterete, sir».

«Non sono un sir», la risposta del Mastino è secca. I suoi occhi sembrano persino più feroci del solito, anche se non riesco a spiegarmi il motivo. «Ed io ci piscio sopra alla tua offerta. Non sono il tuo merdoso cane da guardia. Andiamo».

«No!», la voce trillante di Arya mi fa sobbalzare. «Ci sta offrendo un posto dove stare, del cibo e un letto. Non abbiamo alcun luogo dove andare, perché non restiamo almeno per questa notte?!».

Ha ragione. Andarcene adesso sarebbe una follia. Nessuno qui sembra conoscerci: siamo troppo lontani sia dal Guado che dai Lannister, qui nessuno potrebbe trovarci o riconoscerci. E poi questo ragazzo sembra sincero. «Arya ha ragione. Potremmo restare».

Lo sguardo nebuloso di Sandor Clegane saetta ora verso di me e ora verso il ragazzo. È più alto di lui di diverse spanne, i suoi capelli sono più lunghi, e di certo gli basterebbe un solo spintone per metterlo fuori gioco, eppure lo guarda come se si trattasse di un nemico di guerra che non riesce proprio a soffrire. Dal canto suo, il giovane in questione sembra profondamente preoccupato per noi e sembra volerci davvero aiutare. Non mi fido di lui, ma voglio comunque approfittare della sua offerta. Dopotutto, cosa abbiamo da perdere?

«Per favore…», lo supplico allora, speranzosa all’idea di poter di nuovo dormire in un letto vero e non solo in giacigli di paglia in mezzo al gelo della notte. «Solo per questa notte!».

Lui serra le labbra in una linea tanto sottile da non riuscire più a vederle. Sembra frustrato e irritato, seppur non riesca a capirne il motivo. Alla fine, dopo quella che mi sembra un’eternità, si decide a rilasciare la presa che fino a quel momento aveva esercitato sul pomello della sua spada. I suoi occhi si puntano sul ragazzo, colmi di rabbia. Lo prende per il colletto, sollevandolo da terra. 

«Se provi a prendermi in giro, ragazzetto, giuro che ti ficco la mia spada su per il culo. Sono stato chiaro?» sussurra. Non faccio in tempo a dirgli di lasciarlo stare che lui lo molla, quasi fosse stato un pupazzo di stoffa. Afferra la prima chiave che trova sul bancone e si dirige al piano di sopra, dove di solito stanno le stanze da letto. Non passano che pochi istanti che il clangore metallico della serratura che si sblocca ci raggiunge, subito seguito da quello di una porta che sbatte. Io, Arya ed il ragazzo rimaniamo in silenzio, senza sapere davvero cosa dire. 

«Mi dispiace…», dico ad un tratto, chinandomi per aiutare il ragazzo a rimettersi in piedi. Arya mi dà una mano. «Nostro padre… ecco… lui è un po’ irascibile», cerco l’appoggio di mia sorella con lo sguardo. Lei annuisce con convinzione. Il giovane non pare molto convinto. 
«Quell’uomo è vostro padre?». 

Annuisco, sperando che la bugia risulti credibile. Non sono mai stata brava a mentire. «Sì, e mi dispiace davvero per come ti ha trattato. Tu invece sei stato molto gentile. Io e mia sorella ti siamo grate… purtroppo la nostra casa è stata bruciata in un saccheggio; fu in quella situazione che mio padre si procurò quella cicatrice. Nostra madre morì nell’incendio e da quel momento lui non è stato più lo stesso».

«Oh», sul volto glabro del ragazzo si dipinge una smorfia dispiaciuta. «Oh, ehm… mi dispiace molto per la vostra perdita. Anch’io ho perso mia madre, capisco il vostro dolore. Se avrete bisogno di qualcosa, non avete che da chiedere», mi sorride. È un sorriso gentile, il suo. Quasi dolce. D’istinto gli sorrido di rimando. «Come vi chiamate?».

A quella domanda, io ed Arya ci lanciamo un’occhiata nervosa. «Ehm... mi chiamo Jonquil», è stato il primo nome che mi è venuto in mente. Forse non uno dei più comuni. Il ragazzo alza un sopracciglio e fa un mezzo sorriso. 

«Jonquil? Come la lady della ballata?».
«Nostra madre amava molto quella ballata…», come scusa non è un granché, ma sembra convincente. «Lei invece è…».
«Nymeria», sul viso scarno di Arya si dipinge un sorrisetto soddisfatto. «Mi chiamo Nymeria».

Il ragazzo scopre i denti in quello che ha tutta l’aria di essere un sorriso un po’ tirato. I riccioli bruni e le piccole efelidi sul viso lo fanno sembrare molto più giovane di quanto non sia in realtà. Ha un bel sorriso. 

«Nomi belli quanto inusuali, se posso permettermi», dice. Le sue labbra si schiudono nuovamente, ma Arya lo interrompe prima che possa parlare, mi prende per un braccio e mi trascina di sopra con il pretesto del “Scusaci tanto, ma nostro padre si arrabbierà tantissimo se non andiamo subito in camera!”. Prima che possa salire gli scalini, però, dita forti mi afferrano per un gomito. Gli occhi scuri del ragazzo di prima incrociano i miei, caldi come il sole d’estate. 

«Aryl», sussurra, la voce bassa e roca. «Il mio nome è Aryl. Ma, se vuoi, potrai chiamarmi Florian, mia signora».

Per un momento non so davvero cosa dire. Florian è il nome dell’amante di Jonquil, ed io ho appena detto di chiamarmi così. Sento le guance andarmi in fiamme, il cuore salirmi in gola. Solo adesso mi rendo conto di quanto calde siano le sue mani e di quanto profondo sia il nero dei suoi occhi. 

«Jonquil!» La voce di Arya mi fa sussultare. Mi districo dalla stretta di Aryl in fretta e furia, biascicando uno stentato “Devo andare…”, e corro su per i gradini della scala. Trovo mia sorella ad aspettarmi proprio davanti l’uscio della porta, un sorrisetto beffardo dipinto sul volto mentre abbassa la maniglia ed entra nella stanza. La seguo. Appena entrata, il mio sguardo incrocia quello del Mastino: è sdraiato su quella che pare una brandina malridotta, dalle lenzuola gialline e consumate, la fiasca di vino in mano e un’espressione arcigna in viso. Una parte di me si chiede come mai sia così piccato, ma ben presto finisco col dimenticarmene. Ora come ora, nella mia mente vi è solo il pensiero di Aryl e dei suoi bellissimi occhi. 

«”Ma, se vuoi, potrai chiamarmi Florian, mia signora!”», la risata di Arya mi rimbomba fastidiosa nelle orecchie. Non so perché, ma il mio sguardo corre istintivamente verso quello di Sandor Clegane. Non mi guarda… anzi, sembra quasi che mi stia volutamente evitando. «Avresti dovuto vedere la tua faccia! Eri tutta rossa… lo sei anche adesso!».
«N-Non è vero! Smettila subito!».
«Magari ora vi sposerete e avrete dieci figli… ti ci vedo proprio a fare la contadina. Oh, sì! Una contadinella con la pancia gonfia e le tette mosc—», il mio cuscino le arriva dritto sul naso, scompigliandole tutti i capelli. «… Ehi!».
«Smettila! Non succederà niente del genere!».
«Sì, certo. Sono sicura che fra un paio di giorni vi troveranno nel fienile a darci dentro proprio come due c—».
«Un’altra parola, cagnetta, e giuro su tutti e Sette gli dèi che quella lingua te la faccio ingoiare».

Entrambe ci voltiamo verso Sandor. Mi ero dimenticata che fosse qui, e adesso per chissà quale ragione mi sento terribilmente in imbarazzo. Ha udito quello che ha detto Arya, e non sembra molto felice della cosa. Mi torna in mente il momento in cui mi baciò, il sapore forte delle sue labbra che si imprimeva sulle mie, e il mio cuore sobbalza. Mi chiedo cosa pensi di Aryl, se ne è geloso, se a me tiene almeno un po’, e mi sorprende scoprire che mi piacerebbe che fosse così. Scuoto la testa. No. Basta, questi deliri sono durati fin troppo. Devo dormire… oh, sì. Dormire è la scelta migliore. 

Mi tolgo la vestaglia e le scarpe, poi lego i capelli in una treccia e mi infilo sotto le coperte, facendo segno ad Arya di raggiungermi. Ci sono solo due letti, qui dentro, quindi dovremo dormire insieme, io e lei. Meglio così: la notte fa freddo, e stando vicine potremmo riscaldarci un po’ di più. Lei arriva, si infila sotto le coperte e si sdraia accanto a me. Mi concedo un momento per osservarla, come se non potessi evitarlo. Dacché ci siamo ricongiunte l’idea di perderla di nuovo mi terrorizza ed ogni secondo che passo con lei, per quanto detestabile e irritante sia, è prezioso. I suoi capelli sono pieni di nodi, le sue guance scavate e scarne, gli occhi sembrano quelli di un gufo, tanto sono incavati, ma il suo viso è ancora quello di una bambina di dieci anni. È così piccola… ancora così piccola…

«Sansa», la sua voce è appena un sussurro. 
«Sì?».
«Pensi che nostra madre… insomma, lei non sappiamo che fine abbia fatto. Forse è ancora viva, e se è così dovremmo tornare a salvarla».

Il viso di mia madre mi si para dinanzi agli occhi, affettuoso e severo come sempre. La rivedo mentre mi pettinava i capelli, mentre passava una coperta di lana sul viso mio e di Arya per scaldarci, quando mi sorrideva con fierezza dopo aver visto i miei progressi col cucito. Mi tasto il corpetto d’istinto: il pugnale che mi ha dato il Mastino è ancora stretto fra le mie dita, appuntito proprio come un ago. Adesso non cucio più. Adesso è un altro il tipo di ago che reggo fra le dita, e questo non serve a tessere centrini o fazzoletti. 

«Dormi, adesso», premo le mie labbra sulla sua fronte, delicata. Assurdo quanto le sue spalle siano piccole in confronto alle mie. «Ci penseremo domani».

Ma io non riesco a dormire bene. Sogno di essere un lupo; un lupo dolorante, stanco, che non riesce nemmeno a camminare. Invece che ululare, pigolo, e sulla mia schiena vi sono un paio di piccole ali scure come quelle di un corvo. Le parole della vecchia Nan mi tornano alla mente, “Ali oscure, oscure parole”. Davanti a me vi è un fiume; le sue acque sono scure, rosse, e puzzano. Digrigno le zanne nonostante mi venga difficile persino respirare, finché non la vedo: una carpa, dai colori del sangue e del cielo notturno, si dimena frenetica sul terreno. Le manca l’aria, non riesce a respirare; la sua testa è quasi del tutto recisa dal corpo.

Sta morendo. Devo fare qualcosa, ma muovermi è difficile o addirittura impossibile. Eppure quella carpa è importante per me ed io devo salvarla… devo farlo prima che sia troppo tardi. I miei occhi si riempiono di lacrime di frustrazione, uggiolo di tristezza e commiserazione.

Qualcosa sbuca fuori dal terreno: sono due torri. Due enormi, imponenti torri della stessa altezza e larghezza, paurose e piene di crepe. Dal loro interno fuoriesce un uomo scuoiato, senza un briciolo di pelle sul volto e sulle dita. Si avvicina alla carpa, poi mi guarda. Io ricambio lo sguardo, terrorizzata e col cuore in gola. Ha un coltello in mano.

Ti prego, un guaito che suona più come un cinguettio che un latrato. Ti prego, non ucciderla…. Io le voglio bene. Tanto, troppo bene. Ti prego, ti supplico: risparmiala.

L’uomo scuoiato mi osserva con quei suoi terribili occhi vuoti, il suo volto senza labbra si tira e scopre i denti in quello che dovrebbe essere la parvenza di un sorriso. «I Lannister portano i loro saluti», e il coltello cala giù sulla testa della carpa. 
 
 
«… No!» Mi tiro a sedere di scatto. Tutto attorno a me vortica senza ritegno, la mia vista è appannata dagli ultimi rimasugli del sonno. Impiego un po’ prima di capire che si trattava di un sogno e che io non sono un lupo, non più di quanto non sia un uccellino. L’incubo mi assale come una faina e mi stringe a sé, imponendomi quelle terribili immagini davanti agli occhi. Mi passo una mano sul cuore. Fuori è ancora buio.

Accanto a me, Arya dorme ignara di tutto e lo stesso fa il Mastino, pochi metri più in là. Mi sdraio sulla schiena, chiudo gli occhi ma il senso d’inquietudine resta in agguato tutta la notte come una malattia. Non riesco più a prendere sonno e per tutto il tempo ho una terribile voglia di piangere. Solo quando le prime luci del mattino iniziano a filtrare dalle persiane inizio a realizzare, ed è come se un secchio d’acqua gelida mi piombi addosso. Una certezza assoluta, come quella di dover morire, mi investe in pieno. Il dolore è così accecante, così insopportabile, che per un attimo non riesco più a respirare. Mi premo una mano sulla bocca e ne mordo forte la carne, il sapore ferroso del mio stesso sangue mi solletica la lingua. 

Pensi che nostra madre… cioè, lei non sappiamo che fine abbia fatto. Forse è ancora viva, e se è così dovremmo tornare a salvarla. 

Stringo i denti, l’odio e la rabbia e l’angoscia che mi stritolano lo stomaco. Gli occhi di mia madre, azzurri proprio come i miei, mi tornano alla mente. All’improvviso, realizzo che non li vedrò mai più, che non sentirò più alcuna carezza sul mio capo, la sua mano gentile che mi sistema i capelli dietro l’orecchio. Un singhiozzo mi si spezza in gola, le lacrime scorrono umide lungo il mio viso. 

Non torneremo a salvarla. Non possiamo. È troppo tardi.

 
 

 
 
Lo voglio morto.    

Da quando siamo arrivati in questo schifo di posto, quel dannato ragazzino non ha smesso di stare alle calcagna di Sansa. Siamo qui da nemmeno due giorni – alla fine Sansa e la cagnetta hanno insistito a tal punto di rimanere che combatterle sarebbe stato inutile – e lui non le ha staccato gli occhi di dosso un secondo... e la cosa peggiore è che neanche Sansa sembra riuscirci. Questa mattina, quando mi sono svegliato, lei era già in piedi accanto alla finestra, silenziosa e con il sole negli occhi. Era bella come un sogno, e allo stesso tempo nel suo sguardo c’era qualcosa di terribile come un incubo. Aveva pianto, la scorsa notte. Lo si vedeva dai suoi occhi rossi, dalla smorfia malinconica delle sue labbra, dalle occhiaie che le incupivano il viso. Una parte di me, chissà quale, mi aveva urlato di andare da lei e baciarle via quelle lacrime, cancellare ogni residuo di dolore, ma non lo feci. Rimasi lì, in silenzio, a fingere di non vederla. Alla fine, fu lei a spezzare il silenzio.

«Scendo di sotto, forse ci sarà qualcosa da fare. Non svegliare mia sorella, scenderà da sé».

Mi passò vicino. D’istinto, l’afferrai per il braccio e la tirai verso di me. La scia che avevano lasciato le lacrime sul suo volto era ancora visibile. Senza davvero pensare a ciò che stavo facendo, senza riuscire a fermarmi, passai le mie dita sulle sue guance e sotto i suoi occhi, portandomi via le lacrime. Lei non disse niente, ma i suoi occhi divennero lucidi. Chinò lo sguardo.

«Perdonami», sussurrò.

Quando uscì dalla stanza, le mie dita erano ancora umide.

Ero poggiato contro lo stipite della porta dell’ingresso della locanda, ben attento che nessuno di losco entrasse, quando udii la sua risata due ore più tardi. Mi voltai e la vidi: era con quel ragazzo, il figlio del locandiere, e sorrideva mentre lui le porgeva una margherita improvvisando un inchino. 

 «Nessun fiore potrà mai essere bello quanto te» le disse. Sansa arrossì vistosamente, io sentii il sangue schizzarmi al cervello.  
«Aryl... cioè, Florian, io… io non so davvero cosa dire. Sei così gentile…».

Florian. Adesso lo chiama pure come quell’idiota di quella fottuta ballata!

Lui si avvicinò al suo viso, poi le scostò una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio. Sussurrò al suo orecchio qualcosa che non riuscii ad udire e Sansa gli sorrise timidamente. All’improvviso, respirare divenne impossibile. 

Devo andarmene da qui… devo andarmene!

Non ce la facevo più. Era assurdo, tutte quelle emozioni lo erano. Quel… male, terribile come se qualcosa mi stesse consumando dall’interno, che mi aveva stretto lo stomaco, il mio cuore che non la smetteva più di battere troppo forte. Potevo sentirne il rimbombo nella testa, simile ad una marcia di guerra. TuTum… TuTum… TuTum. Lo odiavo, ma ancora di più odiavo lei. Perché… perché, cazzo, non lo aveva respinto? Perché era così stupida… così ingenua… così… così… bella? E quelle labbra! Quelle sue dannatissime labbra! Il solo pensiero che quel moccioso avesse solo potuto sfiorarle mi riempiva di veleno. No. No, no, no… erano mie, solo mie. Le sue labbra, i suoi occhi, le sue mani, lei era mia. Il mio uccellino, la mia donna o bambina o quello che era. Lui doveva starle lontano… doveva starle lontano!

«Clegane», ritorno alla realtà con violenza. Il volto scarno del locandiere mi si para davanti, gli occhi scuri come quelli del figlio mi osservano pieni d’incertezza. «Ti senti bene? La tua fiasca…», seguo il suo sguardo. Per terra vi è la mia fiasca di vino, ormai ridotta in frantumi, che ho gettato sul pavimento in un attacco di collera. Non me ne ero neanche accorto, dannato me. 

«’Fanculo la fiasca», la mia voce è strascicata, quasi un ringhio. È sera, ormai. Il sole è calato e la locanda è piena di gente e menestrelli che cantano e suonano ballate rumorose e volgari. Il mio turno di guardia si è concluso da un pezzo, eppure sono ancora qui in attesa di qualche coglione in cerca di guai e di botte. Dèi... muoio dalla voglia di fare a pezzi qualcuno, di vedere la mia spada che si macchia di sangue. «Torna pure a riempire calici di vino, vecchio».

L’uomo aggrotta la fronte, le labbra strette in una linea sospettosa e stranita, ma fa come gli ho detto e torna a servire ai tavoli. Ad aiutarlo, vi è il ragazzetto suo figlio. I suoi lineamenti sono giovani, affascinanti. Non è il Cavaliere di Fiori, ma persino io che sono un uomo capisco che ad un occhio femminile possa apparire piacente. Anche Sansa sembra esserne rimasta ammaliata. È seduta a pochi tavoli da me, vicino a sua sorella, i lunghi capelli rossi le ricadono morbidi sul seno e i suoi occhi sono fissi sul figlio del locandiere.

È da stamattina, fottuti gli dèi, che non fa altro che guardarlo, guardarlo e guardarlo, ed io sono stufo. Sembra essersi dimenticata di me e del fatto che sono stato io lo stronzo che l’ha salvata da Joffrey, che le ha asciugato le lacrime quando piangeva e che l’ha protetta da qualsiasi pericolo; io, che ho rinunciato a tutto per lei, per riportarla a casa e vederla al sicuro; io, ad amarla fino a morire.

Ma che mi aspettavo? È solo una stupida ragazzina. Nel suo cuore non c’è posto per la bruttezza della mia cazzo di faccia, per un mastino ringhiante. No, non c’è mai stata e mai – mai! – ci sarà. 

«Canta l’orso e la fanciulla bionda, menestrello!» Una voce si solleva in cielo, altre mille la seguono inneggiando alla ballata in questione. Il menestrello, un ometto con lunghi capelli brizzolati legati in una crocchia e una casacca a righe bianche ed azzurre, sorride gioviale al pubblico e inizia strimpellare le prime note della ballata con il liuto. Dai vari tavoli si alzano alcune donne e i loro uomini e tutti prendono a danzare a casaccio, senza una vera coordinazione o logica. Sansa li guarda con sorpresa e desiderio, le mani congiunte al petto e gli occhi pieni di nostalgia. Vuole danzare, capisco subito, e sono quasi tentato di andare da lei e chiederle di farlo assieme – se solo non fossi un impedito cronico. 

Oh dolce era lei, pura e con gli occhi belli,
la fanciulla con il miele nei capelli. 
I capelli, i capelli. La fanciulla con il miele nei capelli.
Annusò essenze profumate, nell'aria dell'estate
Annusò e ruggì e lo sentì il dolce profumo del miele, nell'aria della sera.
 
Un uomo scivola a terra, la folla ride sguaiatamente. Anche l’uccellino ride, insieme alla sorella, e all’improvviso mi dimentico di ogni cosa: della rabbia nei suoi confronti, del ragazzetto, della locanda e di tutto il mondo. C’è solo lei, ora. Lei ed il suo sorriso. Da quanto tempo non sorrideva? E come fa una sola persona ad avere tutte queste bellezze, ad essere così meravigliosa? Senza neppure accorgermene, mi avvicino verso di lei. Non mi importa se non so danzare, se sono brutto o bestiale. Voglio stringerla, baciarle le labbra, farla ridere ancora e ancora e ancora. Le note della canzone continuano a riempire la stanza, il mio cuore sembra battere al ritmo di musica.
 
Un cavaliere armato avevo chiamato.
Ma tu sei un orso, un orso,
tutto marrone e nero, tutto coperto di pelo…
Scalciò e urlò la fanciulla dagli occhi belli,
ma lui le leccò il miele dai capelli!

Dai capelli! L'orso le leccò il miele dai capelli!
 
I miei occhi si scontrano con quelli della mocciosa-lupo, che inarca un sopracciglio. Che si fotta anche lei, non mi può fregare di meno di come mi guarda. La mia testa gira, gira, gira… il vino che ho bevuto prima inizia a fare effetto. Forse è per questo che sto andando da lei, che mi sento così leggero e pesante allo stesso tempo, con lo stomaco che mi si stringe al desiderio – no, la necessità – di baciarla di nuovo. 

«Uccellin—».

Qualcuno mi si para davanti. È il ragazzetto di prima, il figlio del locandiere. Sansa lo guarda, lui le porge una mano in un chiaro invito a danzare. Nella sala iniziano a levarsi grida d’incitamento, d’ilarità, che inneggiano alla danza. Con un breve sorriso, lei accetta. Non si è nemmeno accorta della mia presenza.
 
Poi lei sospirò e berciò e scalciò
su nell'aria della sera!
Mio orso, così splendido e forte.
E andarono via, di villaggio in villaggio,
la fanciulla dal profumo di miele e l'orso vestito da paggio!

 
 
Rimango giusto il tempo di vedere i suoi occhi persi in quelli di lui, le loro mani che si intrecciano, il sorriso timido che si forma sul viso di Sansa, finché tutto diventa troppo. Troppo da sopportare, da guardare, da tollerare. Mi sento soffocare dai miei stessi sentimenti e all’improvviso non riesco più a respirare, a pensare. Tutto gira… gira… gira troppo. Sbatto contro qualcuno, ne urto un altro. Non mi importa. Non mi importa più di niente. Solo quando l’aria fredda della notte mi sferza il volto, capisco di essere uscito dalla locanda. Mi appoggio allo stipite di una colonna, stremato come se avessi corso per secoli. La testa è un vortice di immagini, suoni ed emozioni confuse.

Rivedo il sorriso di Sansa, le dita di quel bastardo che si intrecciano alle sue, gli occhi grigi della mocciosa-lupo che mi fissano come se fossi stato un fantasma. Detesto tutto questo… tutti questi sentimenti. Li odio. Odio sentirmi così… debole, indifeso come una fichetta. Le mani mi tremano di rabbia, il mostro dentro il mio stomaco si rivolta come impazzito. Tiro un pugno al muro. 

È colpa sua. È tutta colpa di Sansa, di quelle sue fottute labbra, del suo modo di guardarmi, del suo odore di donna e di pulito. Che si fotta… che si fottano lei e quel fottuto bastardo succhia latte. Che se la scopi pure, per quanto mi riguarda. Non mi importa. Non mi importa. Non mi importa niente!

«Giornata pesante, tesoro?», una voce alle mie spalle mi fa trasalire. Mi volto ed incontro due grandi occhi blu assottigliati in due fessure sensuali. È una puttana, realizzo subito, una di quelle che sta nelle locande e fa compagnia agli uomini per guadagnare qualche spicciolo e attirare clienti. I suoi capelli sono d’un rosso più scuro di quello di Sansa, la sua pelle è più pallida e piena di lentiggini, le sue labbra più rosse e voluttuose ed il suo naso più lungo ma, tutto sommato, è bella. Non sembra impressionata dalla mia cicatrice, quanto più dalla mia mole. I suoi occhi mi squadrano dalla testa ai piedi, soffermandosi sul cavallo dei miei pantaloni. «Se lì sotto sei grande e grosso come all’esterno, sarei felice di rendertela un po’ più lieta…».

No, è il mio primo pensiero. No, non voglio farlo

Ma all’improvviso le mie mani sono sul suo seno, la mia bocca sulla sua gola, il suo ginocchio fra le mie cosce. Il suo seno è grande, pesante, diverso da quello piccolo e delicato di Sansa Stark, la sua pelle sa di tabacco e vino e non di fiori e di pulito, le sue labbra sono troppo piene per essere quelle del mio uccelletto… ma non mi importa. No, no, non mi importa. Non mi importa. 

Un rumore alle mie spalle, simile a quello di un singhiozzo, mi paralizza. D’istinto mi stacco dalla puttana che stavo baciando e il sangue mi si gela nelle vene quando incontro gli occhi pieni di confusione di Sansa. Lei non dice niente, sembra quasi imbambolata, ma non c’è bisogno di parole. I suoi occhi parlano per lei. 

E ciò che stanno dicendo è che ha visto ogni cosa. 


 
 

– Note dell’Autrice.

Io. Sono. Una. Pessima. Persona.
Non ci credo nemmeno io, ma sì, sono tornata. Ad un orario indecente, dopo mesi e mesi, ma sì, eccomi qui.  Assurdo, vero? Eppure finalmente (?) è successo.

Sono senza giustificazioni. Non aggiorno da marzo. Ho continuato a rimandare sempre in seguito, campando una scusa sopra l’altra, quando al verità era una sola: non mi andava di farlo. Non mi andava di scrivere, di impegnarmi, di fare qualsiasi cosa. Era un periodo brutto, buio e schifoso, e quindi anche tutto quello che scrivevo lo era. Mi ero fatta contagiare dal morbo fatale per uno scrittore: l’apatia. Tutt’ora non credo di esserne guarita del tutto, ma diciamo che ci sto lavorando.

Ma voi… voi siete stati meravigliosi. Tutti voi. Grazie, grazie e grazie mille ancora per tutti i messaggi che avete mandato, tutti i sollecitamenti, tutti i complimenti… grazie. Grazie per non aver abbandonato la storia, grazie per non aver abbandonato me come scrittrice. Vi ringrazio davvero di cuore. Siete preziosi ed io non mi merito davvero tutto questo.

Il capitolo in sé, comunque, è un capitolo di transizione. Il vero boom sarà nel successivo, che ho già scritto e dovrei solo far betare. Spero di riuscirci presto, o perlomeno entro la fine dell’anno. lol

Vi mando a tutti un enorme, sentitissimo bacione. Davvero, grazie mille di cuore a tutti voi ancora una volta. Se oggi sto postando, è solo grazie a voi ed al vostro sostegno.

A presto! (si spera :P)
 
 
 

 

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Capitolo 14
*** Always ***


Always
It's dangerous to fall in love 
But I want to burn with you tonight 
Hurt me 
There's two of us 
We're bristling with desire 
The pleasure's pain and fire 
Burn me 

 
 
«Sansa… Sansa, non è così che si fa!», un altro fendente, poi un altro e un altro ancora. Un lungo rivolo di sudore mi scende lungo la fronte, la voce di Arya è lontana come un’eco. «La vuoi smettere?! Finirai col rovinarlo!», mi blocco, improvvisamente esausta, e le mie mani ciondolano lungo i miei fianchi come un burattino a cui hanno tagliato i fili. Ho il fiatone, le dita mi formicolano per la tensione. Se non fosse che Arya mi ha appena afferrata per un braccio, costringendomi a guardarla, non mi sarei nemmeno accorta della sua presenza.  «Si può sapere che ti prende stamattina? Sembri impazzita!». 

Aggrotto la fronte, il pugnale che mi ha dato il Mastino è ancora stretto tra le mie dita. Mi torna in mente la scorsa notte, quando l’ho sorpreso a baciare quella meretrice, ed un’improvvisa vampata di calore mi riempie di rabbia. Ricordo ancora benissimo le sue labbra premute sul collo di lei, le sue dita callose sul suo seno, ed è assurdo quanto tutto questo mi faccia stare male. È successo tutto così in fretta che persino adesso fatico a mettere insieme i pezzi: rimembro solo che  una cacofonia spaventosa nella locanda, tutti ballavano e ridevano ed il vino scorreva a fiumi. Anch’io avevo bevuto, ma non ricordo quanto; dopotutto Arya era con me, il Mastino anche, ed io volevo solo annegare il dolore per la perdita di mia madre e mio fratello. 

All’improvviso tutto aveva iniziato a diventare confuso, strano, e le risate erano giunte da sole. Non pensavo più a niente, non volevo farlo. Solo per una notte, mi dicevo, prendendo un altro boccale, solo per una notte. Poi Aryl mi aveva chiesto di ballare, ed io avevo accettato. Non so perché lo feci. Forse erano stati il suo sorriso genuino ed i suoi occhi scuri, forse era stato il vino o l’ebbrezza del momento. Non lo so e non lo ricordo, fatto sta che ad un tratto tutti avevano iniziato ad inneggiare cori su me e Aryl e lui mi aveva baciata.

Era stato un bacio umido, un po’ viscido e imbarazzante, ma per un momento avevo corrisposto. Forse è meglio così, mi ero detta. Forse è meglio che io dimentichi, che per una sera non sia più Sansa Stark, ma una ragazza qualunque, forse potrei fidarmi di Aryl, ma poi il pensiero del bacio che Sandor mi aveva dato mi aveva attraversato la mente come un fulmine a ciel sereno, ed era stato come se una secchiata d’acqua gelida mi fosse caduta addosso. Mi allontanai da Aryl e lo schiaffeggiai persino, per poi correre da Arya. Il mio cuore batteva così forte da poterne sentire il rimbombo nella testa. 

«Arya…», all’improvviso tutto aveva iniziato a girare. Mi sentivo in colpa come una ladra e non riuscivo a spiegarmi il motivo. Sapevo solo che dovevo trovare il Mastino, parlargli, capire cosa mi stava succedendo. Dovunque guardassi, però, di lui non c’era traccia; era come svanito nel nulla. «Arya, dov’è il Mastino?».

Lei fece spallucce, incurante del fatto che il mio cuore si stesse consumando a poco a poco. «Perché ti importa? Mi sembra che ti stessi divertendo con il tuo Florian…».

«Arya, dimmi dov’è!».

«L’ho visto uscire dalla locanda… sembrava agitato, ma forse era solo la sua faccia ad essere brutta».

Non risposi e mi avviai di getto fuori dalla locanda. Dovevo capire… dovevo sapere perché, per gli dèi, stavo così male all’idea di aver baciato qualcun altro, perché mi importasse così tanto di lui, di quello che avrebbe detto, e perché non riuscissi più a togliermi dalla mente il bacio che mi aveva dato. Aprii la porta, il cuore che batteva forsennato contro il mio petto, e lo vidi. Non ricordo di preciso cosa accadde, ma so per certo di aver sentito qualcosa dentro di me andare in pezzi. Respirare divenne improvvisamente difficile, il cuore mi sprofondò nello stomaco e un singhiozzo sfuggì dalle mie labbra. Lui mi sentì e si staccò di colpo dalla donna: aveva un seno abbondante, diverso dal mio ancora acerbo, grandi occhi chiari e lunghissimi capelli rossi che scendevano sinuosi lungo i suoi fianchi prosperosi. Venni colta da un’invidia profonda e da un odio scalpitante e, per la prima volta, mi sentii brutta rispetto a qualcun altro. 

«Uccellino…», la voce del Mastino era appena un rantolo. Con il cuore in gola e le lacrime che mi pizzicavano gli occhi, realizzai di non essere in grado di sostenere il suo sguardo. «Sansa…».

«Volevo solo dirti che sono stanca e che sto tornando nelle mie stanze», ringraziai gli dèi che la mia voce fosse risuonata tanto calma nonostante tutto dentro di me stesse facendo a pugni, e rivolsi un’occhiata truce alla donna affianco a lui, che mi guardò con supponenza dall’alto della sua figura. «Buonanotte», e fuggii di corsa nelle mie stanze. Non chiusi occhio per tutta la notte e, senza nemmeno rendermene conto, aspettai il rientro del Mastino per tutto il tempo. Lui non venne. 

 
«Sansa! Sansa, ma mi ascolti?» La voce squillante di Arya mi riporta alla realtà. 

La guardo, lei guarda me. Vorrei tanto confidarmi con lei, dirle che non riesco più a capire cosa mi sta succedendo, perché il cuore mi fa tanto male al ricordo delle labbra del Mastino premute su quelle di una donna che non sono io, comprendere come mai me ne importi tanto, ma dalle mie labbra non esce un suono. Frustrata ed improvvisamente colma di rabbia, prendo il pugnale ancora stretto tra le mie dita e lo getto a terra. 

«Non ho niente che non va!», urlo, ed Arya fa un passo indietro, allarmata. «Lasciami in pace! Non sei nemmeno in grado di insegnarmi ad usare questo dannato pugnale!», e senza darle il tempo di ribattere mi dirigo spedita lontano da lei. Non guardo nemmeno dove sto andando, so solo che se non vado via finirò con lo scoppiare. Il nodo che ho al centro del cuore sembra farsi ad ogni passo più stretto, il fiato inizia a mancarmi. Cosa mi sta succedendo? Perché… perché sto così male? 

Le lacrime lasciano i miei occhi tutte insieme e senza preavviso mi tornano in mente tutte le cose che fino a questo momento ho cercato di rinchiudere in un cassetto per non lasciarle uscire mai più: Grande Inverno. Le ballate che mi avevano sempre fatta sognare. Jeyne Pool. Lady, la mia dolce e cara Lady, uccisa al posto di Nymeria. Joffrey che promette pietà per mio padre e poi lo condanna a morte davanti i miei occhi. Gli inganni della Regina, il suo terribile sorrisetto crudele e voluttuoso. Sir Ilyn Payne che tiene Ghiaccio per sé, che mi osserva con quei suoi terribili occhi glaciali. Il Mastino. Il Mastino che ha baciato un’altra donna, ma che mi ha salvata da Approdo del Re ed ha ucciso Joffrey e mi ha tratta in salvo da uno stupro. La Fratellanza Senza Vessilli, le parole di Thoros che mi dice di non fidarmi del Mastino, il combattimento tra lui e Beric. E poi le Torri Gemelle, il fuoco che divampa e le urla dei soldati, l’uomo che ho ucciso…

Il dolore esplode in me come un fulmine, impedendomi persino di respirare. Mi accascio su me stessa, una mano premuta sulla bocca per nascondere i singhiozzi e le lacrime, e piango finché ho fiato, finché il peso che ho sulle spalle non diviene un po’ più leggero da sopportare – ma so già che nulla di tutto questo diventerà mai semplice da sopportare. 

«Sansa...», una mano piccola e gentile si posa sulla mia spalla. Mi volto e incontro gli occhi grigi di mia sorella, che dal basso della sua statura mi osserva con sincera preoccupazione. «Si può sapere cosa succede?».

Ed io le racconto tutto. Le racconto di Joffrey, dei soprusi che ho dovuto subire a causa sua ad Approdo del Re; dell’uomo che aveva tentato di violentarmi al Guado dei Frey, di come io lo abbia ucciso e degli incubi che continuo a fare, e le racconto del Mastino, del bacio che mi ha dato, del fatto che mi ha salvata tante e tante di quelle volte, del nodo che ho al petto ogni volta che lui mi sfiora, del fatto che non mi fa più alcuna paura e che la sola idea che lui possa aver baciato qualcun’altra mi avvelena il sangue ed il cuore ma che non mi importa più niente dell’affetto che avevo iniziato a provare per lui, che è un assassino e che io lo odio. Lo odio per aver baciato un’altra, perché è colpa sua se mi sento così angosciata e perché per un momento – un breve, brevissimo momento – avevo pensato di significare qualcosa per lui, qualcosa di più di una semplice reliquia da trasportare sana e salva al mittente, ma mi sbagliavo. Mi sono sempre sbagliata. 

Quando finisco di parlare mi fa male la gola e le dita mi tremolano. Arya mi guarda senza dire niente, la fronte aggrottata e le labbra strette in una linea grave, e per un momento credo che sia arrabbiata con me. Si alza, si pulisce i pantaloni e mi passa un secchio di legno che aveva poggiato prima da qualche parte e che io non avevo visto. 

«Tieni», mi dice, seria come una lapide. «Poco più in là c’è un fiume, basta che segui il sentiero. Aryl mi aveva detto di riempirlo, ma tu hai bisogno di fare una passeggiata e poi un bagno nel fiume ti rinfrescherà le idee. Vacci, poi torna quando hai finito. Puoi farlo?».

La guardo senza capire, le labbra imbronciate in una smorfia confusa. Lei sospira, mi passa il secchio e prima che possa replicare se ne va senza voltarsi. Con ancora il secchio fra le dita, le rivolgo un’ultima occhiata perplessa e, più per il desiderio di prendermi una pausa e darmi una ripulita che per altro, decido di darle ascolto. 

 
 
Vedo Alina dinanzi a me. I lunghi capelli castani un po’ crespi le incorniciano il viso rotondo e le sue labbra sono socchiuse quel poco che basta per fischiare. Uno dei suoi passerotti cinguetta insieme a lei, appollaiato sul suo indice, e lei sorride felice. I suoi occhi grigi si posano su di me e con dolcezza mi fa segno di raggiungerla. Prima che possa farlo, però, una grossa ombra scura si staglia su di lei. Il respiro mi si mozza in gola: è Gregor. 

Prima che io possa fermarlo, lui si avventa sul passerotto di Alina e lo stritola tra le dita possenti, ora ricoperte di sangue. Alina urla e piange disperata, gli chiede perché sia così crudele e come abbia potuto farle una cosa simile, ma lui non le dà retta e ride, ride, ride sempre di più e sempre più sguaiatamente. Non riesco a trattenere la mia rabbia e gli corro incontro. Prima che possa colpirlo, però, lui mi blocca e mi spinge a terra. All’improvviso, ritorno il bambino di sei anni che ero stato una volta. 

«Bastardo! Bastardo, non puoi farlo! Non puoi farlo!».

«Non posso, pulce?», sulla sua faccia mastodontica si apre un ghigno crudele. Si dirige svelto verso mia sorella, la prende per la collottola e, senza curarsi del fatto che lei stia piangendo e invocando aiuto, le dà un pugno, poi un altro e poi un altro ancora, finché le sue nocche non si sporcano di rosso. Gregor però non sembra soddisfatto e l’afferra per i capelli, tirandoglieli all’indietro, e lei urla così forte da diventare paonazza. Anche i suoi capelli diventano rossi, la sua pelle più nivea e la sua voce più da ragazza e meno da bambina. 

D’improvviso, mi accorgo che non è più Alina quella che Gregor sta picchiando. 

«C’è ancora qualcosa che posso strapparti…».

 
Mi sveglio di soprassalto, il cuore in gola e la fronte imperlata di sudore. Impiego qualche secondo prima di realizzare che, dannazione, ho fatto di nuovo quell’incubo. Bestemmiando, mi passo una mano sul volto quasi che così facendo possa portar via anche le preoccupazioni. Gli occhi azzurri dell’uccellino pieni di delusione mi si parano davanti, taglienti come rasoi, insieme ai ricordi di ciò che è accaduto la scorsa notte. Merdama perché ho fatto una cosa del genere? Baciare quella puttana... perché, poi? Era bella, sì, ma non quanto lei.

Vaffanculo, cazzo. Perché mi faccio tutti questi problemi? Come se a lei importasse qualcosa, poi… come se a me importasse qualcosa! E comunque è stata colpa sua. Lei ha ballato con quel moccioso con la bocca ancora sporca di latte, lei gli ha permesso di stringere la sua mano, di sorriderle e… io non le devo niente. Non ho ragione di sentirmi così. Anzi sono stato un idiota a ubriacarmi a tal punto da addormentarmi qui fuori: fortuna che persino da svenuto sono brutto come la morte, almeno nessuno ha avuto il coraggio di ammazzarmi. 

Mi tasto la cintola dei pantaloni in cerca della mia fiasca di vino. Non c’è. 

«Stai cercando questa?». 

Mi volto di scatto verso la voce alle mie spalle. Il mio sguardo incontra quello gelido della ragazzina-lupo. Tra le dita ossute tiene la mia fiasca di vino. 

Fottuti gli dèi, ma è normale che una mocciosa della sua età sia tanto inquietante?  

«Dammela», ordino, la mia voce sembra quasi il raschiare dell’ubriaco. Peste… ho bisogno di un bagno. «Adesso».

«Eccotela!», prima che possa fermarla, lei toglie via il tappo e mi rovescia il liquido in testa. Non contenta, mi rifila anche un calcio negli stinchi. 

«Piccola stronza!», cerco di afferrarla, ma lei è troppo svelta: mi dà un altro calcio e mi getta la fiasca dritta in fronte. «Dannata puttana, ma si può sapere che cazzo ti prende?!».

«Sta’ lontano da mia sorella!».

Devo aver sentito male. 

«Che hai detto, cagnetta?!».

I suoi occhi diventano freddi come il ghiaccio, la sua espressione grave come una lapide. Non so cosa la trattenga, ma sono certo che se potesse mi ucciderebbe qui ed ora.

 «Ho detto che se provi di nuovo ad avvicinarti a mia sorella ti infilzerò con la mia spada dritto in mezzo agli occhi».

«Ma si può sapere di che cazzo stai parlando?!».

«Non fare il finto tonto con me! Mi ha detto cosa le hai fatto, sai? Che l’hai baciata! Il solo pensiero mi ripugna, e lo stesso vale per lei. Ma non l’hai ancora capito? La disgusti! Me lo ha detto Sansa che sei solo un pezzo di merda che vuole scoparsela. Cosa devo fare, Arya? Non so più come farglielo capire che non voglio avere niente a che fare con lui!  Be’, io però ce la faccio a dirtelo: stalle alla larga, stronzo. E riprenditi questa ferraglia che le hai dato,  così magari puoi tagliarti il cazzo!».

Prima che io possa davvero realizzare le sue parole, lei mi carica un altro calcio e poi fugge via. Non provo nemmeno ad andarle dietro, il dopo sbornia di ieri sera non me lo consente. I capelli mi ricadono appiccicati lungo la fronte a causa del vino, le mani mi prudono ed è come se mille spine mi stessero pungendo il petto. Il pugnale che ho dato a Sansa è ancora a terra, sporco e graffiato. 

Ma non l’hai ancora capito? La disgusti! 

Nella mia mente si fanno largo i ricordi di quando, ad Approdo del Re, lei non riusciva nemmeno a guardarmi. Mi ha sempre guardato con quei suoi occhi spauriti, l’uccellino, e le sue labbra tremolavano ogni volta che l’avvicinavo. Non mi ha mai potuto guardare, né soffrire. Le mie parole la irritano, la mia faccia la disgusta, e tutte quelle parole che mi ha rivolto, quegli sguardi, quelle sue frasi gentili… tutte bugie. Nient’altro che bugie. Per un lungo momento rimango in silenzio, in attesa di qualcosa che mi risvegli da questo brutto sogno, e il tempo pare fermarsi. La testa inizia a girare, girare e girare ancora, e la voce tagliente della mocciosa-lupo mi rintona nella mente. 

Me lo ha detto Sansa che sei solo un pezzo di merda che vuole scoparsela. 

Non riesco a muovermi. Fisso il vuoto, senza davvero realizzare cosa sta accadendo, quando all’improvviso la delusione esplode come un fulmine. Scatto in piedi e tutto gira persino di più, tanto che sono costretto a reggermi ad un albero per impedirmi di cadere. Mille rumori ovattati mi stordiscono, mille immagini mi si presentano davanti: Sansa che sorride. Sansa che mi stringe le braccia attorno al collo. Sansa che piange per me. Sansa che mi ringrazia. Sansa che chiama il mio nome. Sansa che respira il mio respiro, che freme sotto il mio tocco, che mi guarda dritto negli occhi mentre le accarezzo il braccio.

La rabbia prende il posto dell’angoscia così repentinamente da rivoltarmi le viscere. Stringo i pugni così forte da graffiarmi i palmi delle mani. 

Ma che ti aspettavi? Che a lei potesse importare di uno come te? Un mastino senza titoli né bellezza, né niente?! Lei, così bella quanto bugiarda. Ma guardati, stupido e debole cagnaccio che non sei altro, come ti sei ridotto? A frignare per una donna – anzi no, una ragazzina che puzza ancora d’Estate. 

Mi ha mentito. 

Certo che l’ha fatto. Cosa avrebbe dovuto fare? Voleva solo tornare a casa ed ha sfruttato l’occasione per farti fare quello che voleva. L’hai sentita la mocciosa-lupo, no? La disgusti. Sei solo un mostro. 

No, no. Lei… lei aveva detto…

Aveva detto un mucchio di balle. Balle, balle… erano tutte balle. Prova a tornare da lei, dai. Dille quello che hai sentito e vedrai come reagirà: ti manderà al diavolo e andrà a strusciarsi da quel bel ragazzino senza palle. Tanto ormai non le servi più, no? Sua madre è morta, i suoi fratelli anche, a suo padre hanno tagliato la testa proprio davanti a lei. Perché dovrebbe voler stare con te? Ti ha detto bugie sopra bugie, prova solo disgusto nei tuoi riguardi. Sapevi che sarebbe finita così, quindi perché te la prendi tanto? 

Mi torna in mente la serata di ieri, quando l’ho vista sorridere. La risposta mi si presenta davanti chiara come il sole e dolorosa come vino su ferite ancora aperte.

Perché la amo.

No. No, non è vero!, urla una voce nella mia testa, il tono allarmato. Un mastino non si innamora. Un mostro come te non può innamorarsi!, ma più cerco di convincermi delle mie stesse parole e più la realtà dei fatti mi si para davanti, crudele come una pugnalata. 
L’uccelletto… quella dannata ragazzina del Nord! No, non è vero che la amo, no...  no, no, no, sono tutte cazzate! Io la odio, la detesto dal più profondo delle viscere. Volevo solo fotterla a sangue sin dall’inizio, quello che è venuto dopo, tutte queste… emozioni, sono solo un danno collaterale, una menzogna scaturita da un’altra menzogna. Io non la amo. Io non amo nessuno, nemmeno me stesso, figuriamoci una dannata mocciosa come lei. Io volevo solo prendere il mio fottuto oro e andarmene, ma adesso che quello stronzo di suo fratello è morto non posso mirare a nient’altro che al nulla. ‘In culo ‘sta merda!  Che se la prendano gli Estranei per quel che mi riguarda, che si lasci fottere da quel damerino senza palle che le piace tanto! A me non importa più niente… non mi è mai importato un cazzo!

Una voce mi riporta alla realtà. Mi guardo attorno: senza accorgermene, mi sono inoltrato nel bel mezzo della foresta. La voce che aleggia poco lontano da me è minuta, coperta dal suono dell’acqua del fiume che continua a scorrere. La furia cieca che mi aveva assalito si tramuta in curiosità e prima che possa fermarmi mi dirigo svelto verso il suono di quella voce che, via via che avanzo, si fa sempre più forte. È la voce di una donna, canta quella che ha tutta l’aria di essere una nenia, ma è solo quando scosto il ramo di un rampicante che vedo di chi si tratta: i lunghi capelli ramati le ricadono bagnati lungo la schiena, i suoi fianchi sono acerbi ma sinuosi come la curva delle cosce; la pelle bianca come la neve sembra illuminarla persino di più, conferendole un non so che di celestiale, ed i suoi seni piccoli e sodi sono turgidi e rosei. 

Sansa…

Resto imbambolato a fissarla per quella che pare un’eternità. Non riesco a pensare a niente, dentro di me vi è solo il vuoto e un fuoco impetuoso. Ne ho viste tante di donne nude, di seni sodi e di fiche, ma mai belle quanto lei. Per un momento stento a credere che un essere così meraviglioso possa essere mortale, e mi sembra di sognare. Forse si tratta del vino. Forse in realtà sto solo immaginando tutto. Ma la pressione nel mio basso ventre è reale, il desiderio impellente di correre lì da lei e farla mia persino di più, e sono costretto e voltarmi per trattenermi. 

Devo andarmene da qui. Devo andarmene da qui proprio adesso. 

Mi volto e faccio per andarmene, ma nella fretta pesto un ramo marcio e le foglie sparpagliate sotto di esso mi fanno perdere l’equilibrio e scivolare come il più coglione dei coglioni. Bestemmiando a voce fin troppo alta rovino giù per la piccola collinetta che mi distanziava da Sansa, sbattendo più volte la testa e arrivando a terra come un sacco di patate. Sansa smette subito di cantare e si abbassa sott’acqua in fretta e furia, sussultando di spavento e sgranando gli occhi. Quando cerco di rimettermi in piedi, per un attimo il mio sguardo incrocia il suo e lei diventa dello stesso colore dei suoi capelli.

Ancora stordito dalla caduta, impiego qualche secondo prima di rendermi conto di starla fissando. 

 
 
«Che stai facendo?!», la mia voce è un singulto strozzato dall’imbarazzo, le mie mani corrono a coprire i miei seni nonostante ci pensi già l’acqua del fiume a celarli. Cosa ci fa lui qui? Da quanto tempo mi osserva?! « Cosa ci fai qui? Mi stavi spiando?! Per gli dèi!».

«Non agitarti, ragazzina, non stavo spiando proprio nessuno», ribatte lui, e sono certa che le sue guance si siano tinte di un colore più acceso. Volta il viso dall’altra parte, nervoso. «Sono finito quaggiù per salutarti, ma poi ti ho sentita cantare, mi sono avvicinato e prima ancora che potessi vederti sono scivolato come il peggiore dei coglioni e sono finito qui». 

«Salutarmi?», con ancora il cuore che batte forsennato contro il mio petto e le braccia strette attorno al petto, corruccio la fronte. Ma di cosa sta parlando? Dov’è che vuole andare? «Perché? Dove vai?».

«Lontano da qui. Non ho più niente da spartire né con te, né con la tua dannata sorella». Ma di che sta parlando? «Tieni, ti sei persa questo», un clangore metallico cozza contro i sassolini della riva del fiume. Sporgendomi, mi accorgo che si tratta del pugnale che mi aveva donato. Alzo lo sguardo, allarmata: lui è già diversi passi davanti a me. Mi sento raggelare. 

Sta andando via. Sta andando via per sempre, ed io non so neanche perché. 

Scatto fuori dall’acqua e prendo la prima cosa che mi capita tra le mani: la sottana di lino che mi aveva dato la nonna di Freja mi si appiccica addosso come una seconda pelle, i miei capelli ancora zuppi lasciano gocciolare lunghe strie d’acqua giù per il mio collo, il freddo mi percuote fin dentro le ossa ma a me non importa. Gli corro dietro: devo sapere cosa sta accadendo, perché vuole andare via. 

«Aspettami!», gli urlo dietro. Lui cammina a pochi metri distante da me, imperterrito come se non mi avesse sentita, e mi sembra quasi di ricevere una pugnalata al centro del cuore. Si è sempre voltato quando lo chiamavo. «Fermo! Fermati, per favore!», corro svelta lungo il sentiero, la terra umida mi solletica le dita dei piedi e allo stesso tempo mi disgusta, e riesco ad arrivare al suo fianco. Lui continua a non guardarmi. Lo afferro per il braccio in un ultimo, disperato tentativo di avere la sua attenzione, ma lui mi scrolla via con una spallata ed io faccio appena in tempo a reggermi al tronco di un albero che le ginocchia cedono sotto il mio peso. Adesso anche le mie braccia sono sporche di fango, così come la mia sottana di lino e le mie ginocchia che bruciano, ma non è questo il motivo che mi spinge a mordermi forte l’interno della guancia per non scoppiare a piangere. È il dolore cieco misto alla frustrazione di non riuscire a capire cosa stia succedendo, perché tutto stia andando a rotoli così all’improvviso senza una spiegazione, senza nemmeno un perché. 

« Io… io non capisco… non capisco…», un singhiozzo mi spezza il respiro, la realizzazione di essere in lacrime mi colpisce forte come uno schiaffo. Mi stringo nelle spalle, un vuoto doloroso al centro del cuore che mi corrode dall’interno. Perché tutto questo? Perché sta andando via? Non capisco… non capisco... «Dammi almeno una spiegazione, non ho fatto niente di male…». 

All’improvviso lui si ferma e il mio cuore manca un battito. Torna verso di me con furia e, prima che possa fermarlo, mi afferra per un polso e mi tira su. Il suo volto sfregiato è a pochi centimetri dal mio, i suoi occhi grigi sono colmi di una collera e un risentimento tali da spaventarmi, e lo stomaco mi si stringe in una morsa perché mi rendo conto di avere di nuovo paura di lui. 

«Non osare continuare a mentirmi. Sono stufo delle tue dannate bugie. Sai benissimo perché me ne sto andando!».

I miei occhi si sgranano. Ma di cosa sta parlando? 

«Ti sbagli, non ne so null—».

«Ti ho detto di smetterla! Credi che io sia uno stupido?! Credi che non sappia quello che hai detto alla tua maledetta sorella?! Cosa devo fare, Arya? Non so più come farglielo capire che non voglio avere niente a che fare con lui!  Non preoccuparti, uccelletto, non hai più bisogno di farmi capire nulla. Resta pure con quello stronzetto dalla bocca ancora sporca di latte che ti piace tanto, sono sicuro che con lui ci vuoi avere a che fare, invece. Lui è bello, no? Non ha mica la mia brutta faccia, non ha mica una spada sporca di sangue, lui. Fottitelo allora, dagli pure trenta marmocchi urlanti, sono sicuro che apprezzerà. A me non me ne fotte più un cazzo, potete andare a farvi fottere entrambi per quanto mi riguarda!».

Mi spinge lontano, facendomi barcollare all’indietro, e si allontana in fretta e furia. La mia mente si riempie di domande, immagini e pensieri confusi. Una cacofonia di ricordi mi si para davanti come un muro di mattoni, e all’improvviso tutto è chiaro. Arya. È stata lei a dire quelle cose al Mastino. Ecco perché mi aveva detto di andare al fiume, ecco perché era così seria ed i suoi occhi così gelidi mentre me lo diceva… voleva avermi fuori dai piedi così da avere campo libero. La cosa mi sconvolge a tal punto che non riesco nemmeno ad infuriarmi. Come ha potuto farmi questo? E perché lui le ha creduto?!

«Io non ho mai detto nulla del genere!», grido allora, la voce strozzata dalla collera. Non è il pensiero che Arya abbia mentito a ferirmi, quanto più che lui le abbia creduto. «Non offendermi più di quanto ti è concesso!».

«Offenderti?», lui si blocca di colpo, permettendomi di raggiungerlo. Si volta e mi guarda con occhi pieni di amaro sarcasmo. «Oh, no, uccelletto. Non ho bisogno di offenderti. Lo stai già facendo da sola!». 

«Preferisci credere a mia sorella, che ti detesta, piuttosto che a me?! Valgo davvero così poco?!».

Le sue dita artigliano le mie braccia prima che io possa scansarmi, i suoi occhi si riempiono di rabbia. «Non osare…», le sue labbra si scoprono in un ringhio, la sua voce è raschiante come ferro battuto. «Non osare dire a me una cosa del genere. Non hai la minima cazzo di idea di quello che ho passato per causa tua!».

«Così come tu non hai idea di cosa io abbia passato per causa tua!», la rabbia prende di colpo il posto dell’angoscia. Come osa? Come osa dire a me una cosa del genere dopo tutto quello che ho passato a causa sua? Dopo tutti i dubbi, le incertezze e le emozioni che ho provato per lui e quel bacio che mi ha dato?! «Come puoi rinfacciarmi certe assurdità quando sei stato tu  a baciare quella donna!».

I suoi occhi si sgranano, boccheggia qualcosa che non riesco a capire e stringe le labbra. 

«Non ti devo alcuna spiegazione».

Resto in silenzio. Queste parole mi feriscono più di quanto voglia dare a vedere, ma non gli darò la soddisfazione di vedermi piangere. Non più. 

«Neanch’io.», dico, gli occhi stretti in due fessure colme d’ira. Il nodo nel mio petto si fa più prepotente, le lacrime mi pizzicano la gola. «Ma non accusarmi di qualcosa che non ho commesso. Non ho detto quelle cose sul tuo conto, e non mi importa niente di Aryl: quando ha provato a baciarmi l’ho schiaffeggiato davanti a tutti e sono corsa a cercarti! Evidentemente, tu eri già impegnato con qualcun’altra!», la rabbia scalpitante che mi aveva offesa la notte precedente torna a farmi visita più forte e prepotente di prima. Lui si irrigidisce come una corda d’arpa e per un momento non dice nulla, poi però la stretta sul mio braccio si fa più energica ed il suo volto si avvicina al mio. 

«Vuoi sapere perché ho baciato quella puttana, uccelletto?», la sua voce è raschiante come il ferro, tutto il mio corpo trema come impazzito sotto la sua stretta. «Perché il solo pensiero che quello stronzo ti toccasse, delle sue fottute mani intrecciate alle tue, delle sue labbra che ti baciavano mi dava così tanto la nausea che sono dovuto uscire da quella merda di locanda. Ti basta come spiegazione? Ti basta, o magari vuoi sapere dell’altro? Che quella cazzo di puttana l’ho baciata perché mi ricordava te, forse? Che ho finto che i suoi capelli rossi fossero i tuoi capelli rossi, che le sue labbra fossero le tue e… e che le sue cazzo di tett—».

Non lo lascio finire. Lo bacio di slancio, impedendoglielo, e allaccio le mie braccia attorno il suo collo. Da dove viene tutta questa spavalderia? Non lo so. Non mi importa. No, no, non mi importa. Cosa sto facendo? Non lo so. No, no, non mi importa neanche di questo. Devo essere impazzita, sì, di questo sono sicura. Sì. Sì, sono impazzita. 

In un primo momento, Sandor resta immobile contro le mie labbra, rigido come una statua, ma proprio quando sono certa che stia per respingermi mi prende il viso tra le mani e mi bacia con una passione quasi spietata, quella di un assetato che moriva di sete da troppo tempo, ed io mi sento sopprimere da un sentimento nuovo, devastante e caldo come AltoFuoco e che divampa senza alcuna pietà in tutto il mio corpo. 

Il bacio si fa più profondo, il contatto più esigente, e all’improvviso la sottana che ho appiccicata addosso diventa un peso insopportabile. Quasi ad aver letto i miei pensieri, lui la solleva e le sue dita callose accarezzano voraci ogni mio lembo di pelle, tracciandone i contorni e lasciando una scia bollente dietro di loro. Non penso a nulla mentre le sue mani corrono a sfiorare i miei seni, solleticandomi i capezzoli e facendomi inarcare contro la sua mano, la mia mente è come svuotata da ogni pensiero, negativo o positivo che sia, e tutto il mio corpo, anima e spirito, si consacrano a lui. Lentamente le sue labbra scendono sul mio collo, il suo sospiro che si infrange contro la mia pelle ancora bagnata, e un brivido mi scorre lungo la schiena e d’istinto mi stringo di più a lui che, con l’altra mano, continua a torturami il seno sinistro. 

«Uccellino…», lo sento sussurrare, ma i miei sensi sono troppo assuefatti dall’improvvisa scarica di piacere che mi solletica il basso ventre per prestargli attenzione. «Sei mia, uccellino…», dice, sfilandomi la sottana senza troppi preamboli.

Continua a scendere fino ad arrivare al solco in mezzo ai miei seni, e lì inizia a leccarmi, a lasciare piccoli baci che mi fanno sospirare di piacere. È sbagliato, urla una vocina nella mia mente. Fermati, ma io non voglio fermarmi. Io voglio essere sua. Sua, sua, solo sua. Perché da quando mi ha baciata non ho fatto altro che pensare a lui ed alle sue labbra, perché il solo pensiero di saperlo lontano da me mi strugge, perché quando l’ho visto baciare quell’altra donna mi sono sentita come morire e perché lui mi ha sempre salvata da ogni pericolo, mentendo per me e rischiando persino la sua vita. 

L’imbarazzo lotta con il piacere quando lui inizia a baciarmi i capezzoli, attaccandosi al destro come un figlio con la madre mentre con l’altra mano continua a stuzzicare l’altro, e a me sfugge un gemito. 

«Sandor…», singhiozzo, quando il piacere mi fa tremare come una foglia, e lui sorride sotto i baffi. Smette di baciare i miei seni e mi rivolge un’occhiata di sottecchi, quasi a volermi chiedere il permesso per continuare. Permesso che gli do nel momento stesso in cui sento le sue dita penetrare le mie labbra più intime, sussurrando un “Sì, ti prego…”  tremolante. Con i polpastrelli lui accarezza la mia intimità finché non trova un punto che nemmeno sapevo di avere, e inizia a massaggiare alternando velocità e lentezza in un modo tale da portarmi alla follia. Il piacere è tanto che le mie ginocchia cedono sotto il mio peso e, insieme a me, anche lui si sdraia sul terreno umido di pioggia e foglie bagnate, senza però smettere di stimolare quel minuscolo pezzettino di carne. «Ti prego…», la mia voce risuona lontana come un’eco, quasi ovattata. Le sue dita vengono sostituite alla lingua, facendomi sussultare come se mi fossi scottata. E, in effetti, tutto il mio corpo sembra prendere fuoco: le cosce, la pancia, la mia intimità… tutto prende fuoco. «Sandor…», lo supplico, perché la sensazione è troppo intensa da tollerare. Per tutta risposta, lui continua a massaggiare con la lingua quel punto ben preciso del mio corpo ed io vengo travolta da un’ondata tale di piacere che il mio bacino si inarca in uno spasmo involontario e la mia voce si rompe in un gemito così voluttuoso da imbarazzarmi. Alla fine, sono esausta come se avessi combattuto mille guerre ed appagata come mai prima d’ora. 

«Uccellino», mi chiama lui, alzandosi verso di me, la barba ricoperta dei miei umori. Nei suoi occhi leggo la stessa eccitazione che vi è nei miei e questo mi sorprende, perché ero certa che il piacere può essere provato solo se qualcuno ce lo dona, mentre per lui è bastato vedermi contorcere sotto le sue dita e la sua lingua. Il solo pensiero mi fa arrossire terribilmente e d’istinto abbasso lo sguardo. «Sansa».

Vi è quasi una nota dolorosa nel modo in cui sussurra il mio nome, quasi temesse che possa scappar via da un momento all’altro. Dal modo in cui mi guarda, realizzo che ha paura di farmi del male. Poggio una mano sulla sua guancia sana e lo rassicuro premendo le mie labbra sulle sue. Lui ricambia il bacio con dolcezza, come se temesse di potermi spezzare come una statua di cristallo, e con lentezza inizia a slacciare via le cinture che legano la sua armatura. Quando resta con solo le brache ed i pantaloni di stoffa, si ferma e mi guarda in attesa. Per un attimo torno la bambina spaventata che ero stata ad Approdo del Re, quella che teme il dolore e che non sa più cosa vuole e quando lo vuole, ed il mio cuore si stringe in una morsa. 

«Sansa», mi chiama lui, riportandomi alla realtà. Leggo una passione sfrenata nei suoi occhi grigi, ma leggo anche del timore. Lo stesso timore di prima. Paradossalmente, sembra più spaventato lui che io. «Non voglio farti del male».

«Non me ne hai mai fatto».

«E non voglio iniziare da adesso. Non avrei dovuto spingermi tanto oltre».

Sandor fa per alzarsi. Ciò provoca in me il peggiore dei terrori: non posso permettergli una cosa simile, non voglio che vada via, non voglio che tutto questo finisca! 

«No!», dico. Nel silenzio assordante della radura, la mia voce riecheggia forte come un grido. Afferro la sua mano e il mio sguardo incrocia il suo. Per la prima volta dopo tanto tempo so con certezza ciò che voglio. Mi spingo verso di lui e lo bacio di nuovo, le mie mani che accarezzano il suo viso, e iniziamo a lottare. Voglio rendergli lo stesso piacere che lui ha dato a me, fargli sentire che sono io a volere tutto questo, che non mi farà mai del male finché resterà al mio fianco, che non mi importa del passato e che lui sia sfregiato e un assassino.

Dentro di me nasce un’improvvisa risolutezza, prende vita dal centro del mio cuore e si espande per tutto il mio corpo come un fuoco che arde e consuma dall’interno. Lui si sfila le brache ed io, con la coda dell’occhio, noto la sua virilità. È molto più grossa di quella di Joffrey, con una profusione di peli lucidi e scuri, e puntata in erezione verso di me. Arrossisco come una sciocca e lui se ne accorge e ride sommessamente, divertito dal mio essere tanto pudica. 

«Che cosina graziosa che sei, tutta rossa quanto i tuoi capelli. La tua septa ti ha insegnato come si dà piacere ad un uomo, uccelletto?».

Scuoto la testa, improvvisamente a disagio. Nessuno mi ha mai detto nulla al riguardo, il sesso non è un argomento che è consentito discutere ad una lady. Lui avvicina di più il suo corpo al mio, prendendomi una mano tra le sue e, mentre mi bacia le labbra, la posa sull’asta della sua virilità, guidandomi nei movimenti. «Così, uccelletto…», soffia sulle mie labbra. I miei movimenti sono rigidi, imbarazzati, ma pian piano comprendo cosa fare. Lui allontana le dita dopo un po’ ed io continuo da sola, cercando di seguire i suoi ritmi e capire attraverso i suoi sospiri come muovermi nonostante il crescente imbarazzo. Dopo un po’, Sandor socchiude gli occhi in preda al piacere e vederlo così… indifeso a causa mia, provoca in me una soddisfazione tale da indurmi a sentirmi invincibile. «Uccelletto…», mormora lui, tutti i muscoli del suo corpo contratti. «Dèi…».

Lui spalanca gli occhi e, in uno scatto d’ormoni, senza che io riesca pienamente a realizzare cosa sta succedendo, mi prende per i fianchi e mi volta dall’altra parte, torreggiando sopra di me. «Non ho intenzione di venire in questo modo, uccelletto», dice, il respiro fiacco e lo sguardo pieno di lussuria. Prende di nuovo a baciarmi il collo, poi le labbra e, mentre rispondo al bacio, un dolore lancinante mi fa gettare un urlo che prontamente Sandor soffoca con un bacio. Il dolore è tanto che impiego qualche secondo per realizzare che lui è dentro di me, adesso, e che dalla mia intimità sta sgocciolando del sangue. 

Sono sua, adesso.

Per i primi minuti il dolore non accenna a passare, tanto da indurmi a chiedergli di essere gentile, e lui mi accontenta. 

All’inizio le spinte sono lente, quasi leggere, ma via via che il tempo passa ed il dolore si acquieta diventano più veloci e poderose. Sandor alterna passione e delicatezza, cercando sempre di essere il più gentile possibile, finché ad un tratto il dolore viene messo in ombra dal piacere. Non so per quanto tempo siamo rimasti così, uno preso dall’altro in un intreccio di corpi e gemiti e sospiri spezzati, ma durante gli ultimi momenti, mentre lui si muoveva lentamente dentro di me, regalandomi scosse di piacere e brividi di freddo, mi parve di morire e rinascere lì, in quella foresta che sapeva di muschio e di pino e di me e di lui. 

La sensazione che quell’esperienza mi provocò fu così devastante da strapparmi un urlo. Alla mia voce, si aggiunse presto anche la sua ed entrambi finimmo col raggiungere l’apice a pochi minuti di distanza l’uno dall’altra. 

Adesso, sdraiati uno accanto all’altra su questo terreno che sa di erba bagnata e di umido, nessuno dei due riesce a parlare. Il momento in cui avevamo litigato sembra lontano mille miglia, il torpore dell’unione che ci ha reso una cosa sola non è ancora passato. Mi chiedo cosa penserebbe mia madre se mi vedesse adesso, se accetterebbe un’unione con il Mastino, l’uomo la cui famiglia ha servito i Lannister per generazioni. Dopo un po’, mi rendo conto che non me ne  sarebbe importato comunque. Non lascerò che nessuno condizioni più la mia vita.

«Cosa succederà adesso?» Chiedo, la mia voce ridotta ad un rantolo per la fatica. 

«Non lo so, uccelletto».

«Resterai con me?».

Lui resta in silenzio per un tempo che a me pare un’eternità, e un improvviso terrore mi coglie al centro del petto. Lo guardo, i suoi occhi grigi che incontrano i miei, e lui lascia un bacio umido sulle labbra. 

«Sempre» Risponde. 

Ed io sorrido, perché so che è la verità. 
 
 
  • Note dell’Autrice
Ed eccomi qui, a mesi e mesi dall’ultimo aggiornamento.

Prima di tutto, vi chiedo di perdonarmi.. Sono mesi che non aggiorno e posso solo immaginare la frustrazione di voi lettori, faccio ammenda. La verità è che mi sono appassionata ad altri fandom e ad altri progetti, e finalmente posso dire con assoluta certezza di star scrivendo per la prima volta una storia originale. Un fantasy, ovviamente. Magari lo pubblicherò qui su EFP, un giorno!

Inoltre,  sono al quinto anno di liceo e tutto ciò  mi ha non poco stressata, al punto da farmi arrivare sull’orlo di una crisi nervosa. Brutta cosa sono gli esami di stato. Brutta brutta bruttissima. Aggiungeteci anche diversi problemi famigliari e privati ed ecco qui i motivi principali di tutto questo silenzio stampa.

Non mi sento di dirvi che il prossimo aggiornamento arriverà a breve… anzi, non so nemmeno cosa ne sarà della mia vita dopo gli esami, lol. Posso solo promettervi e assicurarvi che non abbandonerò mai completamente questa fan fiction. Sono troppo affezionata ai miei due dorks Sansa e Sandor, e anche se non sono proprio entusiasta di scrivere gli ultimi capitoli, visto la drammaticità che prenderà la piega della storia (no angst no party), prima o poi questa storia avrà un epilogo e una conclusione, di questo sono certa. Perciò dico già da adesso GRAZIE MILLE a tutti coloro che continueranno a seguire la storia nonostante tutto, e un sincero “mi dispiace” a chi non se la sente. Grazie soprattutto a tutti coloro che hanno continuato a recensire e rileggere (!!!) la storia durante questi mesi di attesa, è solo grazie a voi che questa storia è arrivata sin qui. Siete preziosissimi, non smetterò mai di dirvelo, e grazie, grazie, grazie mille ancora per tutto. Anche da parte di Sansa e Sandor.
Grazie.


Passando alla storia: cavolo, finalmente ‘sti due si son svegliati! Ahah Sansa ha preso posizione una volta per tutte, reclamando a gran voce ciò che è suo, e Sandrone non se l’è fatto ripetere due volte. Spariamo le bombe! Finalmente una gioia! Aspettavo di scrivere ‘sto capitolo da secoli XDD

Arya in questo capitolo è insopportabile, lo so, ma ho cercato di mettermi nei suoi panni: lei odia il Mastino, è nella sua lista nera, e lo vede come ostacolo al suo rapporto con Sansa che finalmente ha rivisto dopo tantissimo tempo e che credeva di aver perso per sempre. Una volta che sa che fra i due c’è persino del tenero, mi è parso normale che impazzisse. Di gelosia? Di rabbia? Entrambi? XD Ciò che conta alla fine, è che senza di lei i nostri due scemi non avrebbero mai avuto modo di riavvicinarsi. Quindi: grazie, Arya!

Ringrazio tutti per le recensioni. Stavolta, giuro, cercherò di rispondere a tutte! Per il momento vi mando solo un enorme bacio e un abbraccio fortissimo. I vostri pareri mi danno sempre una carica fortissima e mi fanno tornare voglia di scrivere. Grazie mille.

Un abbraccio in particolare alla mia Beta preziosissima  Amy Dickinson.  Grazie, grazie, grazie <3


Sempre vostra.

p.s: quanti di voi stanno seguendo la sesta stagione? Sandor pls torna e salva Sansina che senza di te è persahh çç

 
 
 

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Capitolo 15
*** AVVISO. ***


18.07.2019

Salve a tutti,
inizio dicendo: no, non ho giustificazioni.
Sono passati tre anni dall’ultimo aggiornamento. Mi rendo conto che avrei dovuto fare questo avviso molto tempo fa, anche solo per rispetto nei riguardi dei miei lettori, ma non ne ho mai avuto davvero il coraggio perché ho sempre avuto la convinzione che prima o poi sarei riuscita a riprendere S&S in mano. Per me questo post era – ed è tutt’ora – una sconfitta personale.
Ho scritto Safe&Sound in un periodo della mia vita molto diverso da adesso: andavo ancora a scuola e le mie uniche preoccupazioni erano letteralmente gli aggiornamenti di questa fan fiction e i brutti voti da recuperare. Purtroppo spesso la vita, come si suol dire, accade, e per un lungo periodo a me sono capitate tante cose che non vi elencherò qui ma che mi hanno portato a non riuscire più a scrivere nulla. Mi spiace di cuore, davvero, ma non riuscivo e ancora oggi non riesco più a fare la cosa che ho sempre amato fare più di ogni altra al mondo: scrivere. Credetemi se vi dico che fa più male a me che a chiunque altro.

Quando l’ho iniziata avevo in mente un finale ben diverso, angst da far male ma… giusto, secondo me. O almeno secondo la Harmony di tre anni fa. Ad oggi reputo che quel finale sarebbe stato troppo drammatico, esasperante addirittura. “Inventane un altro”, sì, effettivamente potrei farlo e magari un giorno riprenderò in mano la penna e finalmente – finalmente! – riuscirò a scrivere di nuovo qualcosa di serio, ma non mi sento di dare false speranze a nessuno.
Al contrario io volevo ringraziarvi con tutto il mio cuore, il mio essere e il mio affetto per tutto l’amore che avete dato a questa storia. Non avete idea di quanto mi rallegrasse leggere i vostri pareri, sapere che dall’altra parte c’era qualcuno ad ascoltarmi mentre narravo questa piccola avventura, leggere nuovi commenti nonostante fosse passato tutto questo tempo e la storia fosse rimasta inconclusa. Tutto questo non sarebbe stato lo stesso senza il vostro riscontro tanto caloroso. Grazie. Grazie. Mille e mille volte grazie.

In ogni caso, sono ancora innamorata di Sansa e Sandor come all’epoca e rivederli nella nuova stagione quest’anno mi ha fatto rivivere tutti i bellissimi momenti passati a scrivere di loro. La me fangirl sperava con tutto il cuore in qualcosa di più ma immagino che sarebbe risultata una forzatura considerato il loro rapporto nella serie; forse i libri ci regaleranno un altro finale, chissà?

L’ultimo capitolo di Safe&Sound si conclude con Sansa e Sandor che hanno appena fatto l’amore. Sono entrambi stretti l’un l’altra, incerti sul futuro ma consapevoli che qualunque cosa accada resteranno insieme. È un finale da fiaba, melenso, assolutamente l’opposto di quello che avevo in mente, ma io non sono più quella di tre anni fa. Adesso all’amore ci credo un po’ di più e i finali da fiaba mi piacciono, mi fanno sognare… e Sansa e Sandor si meritano di essere felici. Lasciamoli stare lì, Sani e Salvi ancora per un po’.

Vi ringrazio ancora una volta per tutto, siete stati meravigliosi. Spero di tornare a scrivere e poter rivivere la sensazione di avere un seguito tanto caloroso.
Vi voglio bene.

Sempre vostra;

- Harmony394.

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