Che razza di storia è questa!

di Passero della Neve
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Run away ***
Capitolo 2: *** La ragazza della moto ***
Capitolo 3: *** Beautiful and damned ***
Capitolo 4: *** 100 Club ***



Capitolo 1
*** Run away ***


Capitolo primo

RUN AWAY


Alex's pov:
 
(Bristol, 1976) Riuscivo a sentire le sue urla stridule ancor prima che potessi imboccare il vialetto di casa.
Sara, la mia tutrice, se ne stava comodamente in pantofole con addosso una vestaglia da malata terminale color rosa antico, lanciando le sue maledizioni contro l'uomo che da qualche tempo era diventato il suo compagno. Quota quattro in pochi mesi. Ci avrei scommesso un organo che in un'altra sola settimana sarebbe scappato via anche quest'altro debosciato. Da quando aveva messo piede in quella casa, quel tale, non aveva fatto altro che portare guai, polizia e malumore, svegliandomi nel cuore della notte con la tachicardia alle stelle. Come se fosse necessario anche il suo contributo! Quello che invece per la legge doveva essere ancora il coniuge di Sara, non avevo la minima idea di dove potesse essere, e detto con franchezza, la cosa non stuzzicava minimamente la mia curiosità. 
– Io e te dobbiamo parlare signorinella! – ringhiò Sara a denti stretti, facendomi indietreggiare. Ci risiamo: l'ossessione fantasma colpisce ancora, parte 100. Ecco il titolo del libro autobiografico che avrei dovuto scrivere. Non sarebbe bastato un intero pacco di fogli a completarlo, ma almeno sarei diventata milionaria!
– Lasciami stare – sibilai, proseguendo in fretta verso le scale. Prima che quella pazza potesse seguirmi al piano di sopra, la porta d'ingresso si aprì, e un uomo ubriaco vi entrò: ecco il venditore ambulante! La donna gli si parò davanti con un'espressione teatrale in viso e recitò una parte da oscar:
– Tesoro.. Alex ha cercato di aggredirmi, è gelosa! –
– Ancora con questa storia? Andiamo Sara, è solo una ragazzina – rispose il fidanzato con la voce impastata dall'alcol. A stento riusciva a reggersi in piedi, ed eravamo ancora in pieno giorno! Che spettacolo patetico.
– E’ una ragazzina, ecco perché ti piace! Cazzo, dì che non è vero! MA COSA DIAVOLO CI TROVATE IN LEI? – 
Sara mi rivolse uno sguardo arguto, pieno d’odio, poi continuò isterica: – Credi che io sia pazza?! 
Rimasi in silenzio, pensando che in effetti tanto sana di mente non fosse. Continuavo a starmene lì impalata, bloccata dalla paura che se mi avesse seguito al piano di sopra, Jade avrebbe assistito all'ennesima sfuriata.
Avrei voluto urlarle in faccia una serie di insulti fino a provocarmi un danno alle corde vocali. Decidendo di inghiottire quell'amara caramella che mi opprimeva la gola, mi chinai a raccattare le costruzioni sparse sulla moquette, sperando che le lacrime si fermassero in tempo ai bordi degli occhi. 
– Sara, tesoro, lascia perdere – si lagnò il fidanzato della pazza, cercando di calmarla bloccandole i polsi e la vita, impedendole così di scagliarsi contro di me. Ma con scarsi risultati, perché l'anguilla continuava a dimenarsi contrariata. Quella donna stava iniziando seriamente a perdere la ragione. Anche se impegnato in quella difficile impresa, l'uomo non perse occasione: posò il suo viscido sguardo sul mio corpo e con esso si concesse una veloce panoramica. Mi chiedevo cosa mai ci si poteva aspettare da un buono a nulla che cambiava nome ogni due giorni, brutto, fetido e pervertito, conosciuto nel Club più osceno di Bristol. I suoi soldi facili, probabilmente.
– Ho visto come lo guardi! – urlò Sara ignorando la cruda verità. La verità era che a farmi l’occhio languido senza un briciolo di scrupolo ogni volta che ne aveva l'occasione era proprio il suo adorato compagno. Ma cosa le aveva raccontato quel maniaco?
– Piantala di fare la furbetta o ti ammazzo con le mie mani, hai capito bene?! E quel collant sono miei, li rivoglio! Puttana! – Le calze che indossavo non le avevo rubate dal suo cassetto mentre giocavo a fare la prostituta, me le aveva regalate lei stessa pochi giorni prima, quando era in grado di ragionare. Mi disse che sulle mie gambe magre non sarebbero risultate volgari, ma in quel momento la mente di Sara fu parecchio annebbiata dalla schizofrenia per ricordarsene.
Solo un oggetto lei riuscì a lanciarmi addosso. Lo schivai in tempo, rischiando quasi di inciampare nel piede della lampada alle mie spalle. A quel gesto furioso, sua figlia Jade di soli cinque anni, nata da una delle sue relazioni precedenti, sobbalzò sul primo gradino delle scale proprio mentre era intenta a scendere. In preda allo spavento strinse i pastelli colorati a sé, precipitandosi di nuovo nella sua camera in fondo al corridoio.
Ormai la pazza esibiva quel tipo di scenate sempre più spesso. L'anno passato sembrava si fosse finalmente decisa a farsi aiutare da uno psichiatra, ma poi, come per magia, qualcosa le faceva cambiare idea. Saltava fuori la solita storia e tornava a puntarmi il dito contro. Contro una ragazzina che seppur avuta in affidamento avrebbe dovuto accudire con affetto, insegnarle cos'è il bene, invece di accusarla ingiustamente di essere una sgualdrina sfascia famiglie e la causa dei suoi fallimenti in amore.
Non avevo più la voglia, né la forza, di sprecare un solo altro suono per difendermi dall'ingiusta accusa di quella disagiata mentale. Ne avevo fin sopra i capelli di lei, di raccattare i mozziconi delle sigarette che lasciava in giro, di quella sua voce aspra e graffiante, dei suoi occhi isterici pieni di sangue, della sua orrida ricrescita spuntare sui capelli biondo platino.
Le costruzioni che stringevo tra le mani caddero a terra con un sonoro tonfo. Mi diressi svelta nella mia camera di tre metri per tre e lasciai che la porta dietro di me si chiudesse con un colpo secco e deciso, come a voler sbattere in faccia a quei due inutili individui il mio sincero invito di andare a farsi benedire da un esorcista. Feci scattare una mandata nella serratura e posai le spalle alla parete. Chiusi gli occhi, pregando che quella voce la smettesse di tormentarmi.
– Li ho visti i vostri sguardi, Kevin! Non mentirmi! Quella troietta ha preso tutto da sua madre! – Riuscivo persino a sentirla dal piano di sopra.
Quella non fu la prima volta che Sara osava nominare la mia vera madre. La tirava in ballo ogni volta che voleva darmi della sgualdrina accalappia uomini. 
Nessuno mai mi raccontò chi fosse la mia madre biologica, se fosse viva o meno. Da quello che potei origliare nel corso degli anni ero al corrente del fatto che quando mi dette alla luce, mia madre era una giovane sprovveduta senza arte e né parte, felice di liberarsi di una gravidanza indesiderata. Magari non era di certo il tipo di donna che un uomo per bene in cerca di una moglie fedele sposerebbe, questo però non era una buona scusa per giustificare gli insulti osceni di Sara e le sue accuse.
Nella mente malata della mia tutrice vigeva un mondo sporco e falso, un mondo che non esisteva, frutto della sua immaginazione, forse costruito sulla paura di restare sola. Per sfuggire dalla sua fobia, cercava di affibbiare la colpa del suo disagio al sangue che scorreva nelle mie vene. Evidentemente l'idea di prendermi in affidamento solo per un interesse economico, e forse anche per timore che nessuno dei suoi amanti durasse per sempre, non si rivelò una buona idea come lei aveva immaginato. Altrimenti non si spiegherebbe com'è che, poco dopo il mio arrivo, quando nacque Jade, quel falso interesse nei miei confronti svanì rapidamente come fosse niente. Ed io avrei anche potuto finire nel burrone più profondo del pianeta: nessuno se ne sarebbe accorto. Sapevo di non aver mai fatto nulla che potesse farla dispiacere o addirittura farla soffrire, e allora mi chiedevo il perché di tanto odio nei miei riguardi. "E' andata fuori di testa, non c'è nulla da capire" mi suggerì una vocina dentro di me. E forse non aveva tutti i torti.
Malgrado le mie scarse amicizie e l'atmosfera che vigeva in quella famiglia, avevo capito da sola cosa fosse la vita, quella vera. L'avevo imparato dalle persone che fino all'affidamento si erano interessate a me nell'orfanotrofio in Italia. L'avevo imparato da Suor Clarissa, dai libri, dalla danza che m'inventavo da sola dopo aver guardato le ballerine alla tv. L'avevo imparato dalla gentilezza degli sconosciuti, dalle giornate intere passate a vagabondare tra le stradine di Bristol quando non avevo nessuna voglia di tornare a casa. Tutto quello che conoscevo lo avevo imparato da sola. Solo di una cosa non ne conoscevo il sapore: quello della libertà. La libertà psichica, interiore, quella fisica. Perché non imparare a conoscerla da adesso?
“Quando avrò la maggiore età non potrai impedirmi di andare da qui, e finalmente la smetterai col tormentarmi!” 
E se l'uscita di scena trionfante venisse anticipata?


The after day...


– Un biglietto per Londra, per favore. –
Sei lunghi e pessimi anni trascorsi nel Regno Unito non furono abbastanza da cancellare il mio accento italiano. L’anziano signore della biglietteria però, dietro le sue grandi lenti da vista sembrava non averlo notato.
L’unica traccia, l’ultimo residuo che restava di me nella noiosa cittadina di Bristol era la mia inseparabile bicicletta blu elettrico, legata al palo di una stradina che ben presto avrei dimenticato. Nel suo lucchetto arrugginito dall'acqua e dal tempo incatenai quelli che erano i ricordi di una vita malsana.
Ma i ricordi non si lasciano incatenare, s’attaccheranno alla mia ombra per seguirmi in ogni dove.

Si trattava solo di una questione di puro coraggio e poi sapevo che avrei finalmente tirato un sospiro di sollievo, una volta fuori dalle fiamme di quell'inferno. 
Finalmente libera. Libera, ma sola. Sola, ma felice di essere libera. Libera da urla, percosse, schiamazzi nel cuore della notte. Libera dall'oppressione, dall'angustia, dal disagio di vivere. Libera di scegliere, di conoscere e scoprirmi. Forse ero così libera che non avevo nemmeno idea di quale direzione prendere. 
Nelle mani screpolate dal freddo stringevo caramelle alla menta, un filo di inquietudine e qualche moneta: tutto ciò che al momento mi apparteneva. Io ed il mio grammo di ottimismo continuammo a camminare verso il binario 4 con la convinzione che ce l'avrei fatta, che in un modo o nell'altro sarei riuscita a cavarmela. In caso contrario, mi bastava anche solo la soddisfazione di aver varcato la soglia della casa degli orrori prima che sarebbe stato troppo tardi anche solo per respirare.
Una bambina dai lunghi capelli raccolti in un fiocco rosa teneva nella mano quella della madre. Nell'altra stringeva una borsetta giallo canarino fatta ai ferri. Il suo sorriso timido mi ricordò una creatura a me cara e un flashback recente mi riempii la mente: la piccola Jade, inconsapevole del fatto che sua madre Sara fosse affetta da psicosi-maniaco ossessive e disturbi della personalità, mi fissava dal vetro di una finestra troppo alta per mostrare la sua bocca rosea e quel naso da bambolina. I suoi occhietti espressivi mi seguirono ad ogni pedalata mentre mi lasciavo il passato alle spalle e il magone nella gola era l’unica cosa che mi accompagnava verso il nulla. Perché nei programmi di quella sera ciò che mi attendeva era solo il nulla, nient’altro.
E poi mi ritrovai a girovagare senza meta per le ampie strade di una città a me sconosciuta e un ronzio di rumori mi accarezzava i timpani.
Non avevo idea da quanto tempo stessi camminando, e non m’importava alquanto, se non fosse che la tracolla della borsa piena di vestiti da quattro soldi iniziava ad essere un peso morto, ma niente in confronto al peso che mi trascinavo dentro da tutta un’adolescenza. Era stato lì a spingere e a soffocarmi l’esistenza per così tanto tempo che, per la prima volta nella mia vita, ebbi la piacevole sensazione che stesse diminuendo passo dopo passo. Da quel giorno in poi ciò che mi restava da sopportare forse era solo un fastidio, quel fastidio che di solito si avverte dopo un senso di liberazione da una morsa dolorosa, un laccio emostatico troppo stretto, una spina tolta da un dito. Quella vita insana e scomoda dalla quale stavo scappando era la mia morsa dolorosa, il mio laccio emostatico legato al cuore, la mia spina piantata nell'anima.
Le caviglie pesanti implorarono pietà e mi sedetti sul bordo cementato di un'aiuola per riposarmi dalla lunga camminata.
Il tempo di un sospiro. Quello fu un momento di pace troppo breve per le mie povere gambe, perché il cielo grigio iniziò a mandar giù una valanga d'acqua al primo colpo. Subito mi coprii il capo col cappuccio della felpa, ma servii a poco. Non ebbi nemmeno il tempo di correre a ripararmi sotto l'ingresso di un'abitazione che le punte dei capelli divennero bagnate fradice. Quale giorno migliore per decidere di andare via di casa? 
Oramai si stava facendo buio, i negozi calavano le serrande scolorite, nelle case s’accendevano le luci, ed io avrei passato la notte su una di quelle squallide panchine in una squallida stazione dei treni. Però chissà se avrei trovato il coraggio di chiudere gli occhi sapendo di essere circondata da cartacce, puzze nauseanti e delinquenti in agguato. 
Armata di speranza superai una sfilza di palazzi sfrecciando come una scheggia sotto l'acquazzone alla ricerca di un riparo. Un luogo asciutto nel quale avrei potuto starmene almeno fino a quando la pioggia non avrebbe cessato. Anche le nuvole decisero di non schierarsi dalla mia parte, perché ad ogni mio passo sembrava che lo facessero apposta ad aumentare il getto dell'acqua.
D'un tratto una tabella in lontananza richiamò la mia attenzione: "Crunchy Frog pub". Decisa a rintanarmi in quel locale dal nome buffo, ripresi la corsa stando ben attenta a non sbucciarmi le ginocchia in qualche pozzanghera e una volta superata la soglia della porta, una piccola campana sopra la mia testa emise un suono grazioso quando vi entrai:
Pile di tavoli riempivano una sala spaziosa dall'ambiente rustico e accogliente. Luci basse, una musica soft rock in sottofondo accompagnava qualche innocuo ubriacone attaccato alla sua birra. Ciò che mi piacque a tal punto da ipnotizzarmi per un momento fu una bellissima batteria posta in fondo al palco, di fronte all'entrata. Non ne avevo mai vista una dal vivo!
Con quei pochi penny che mi restavano ordinai un panino al formaggio e mi sedetti a mangiarlo su uno degli sgabelli alti posti in fila. Dovetti darmi una spinta con le mani per salirci.
– Mi stavo chiedendo se.. avete bisogno di una cameriera –  mi rivolsi titubante al cameriere che aveva appena servito la mia ordinazione. I suoi capelli corti, l’abbigliamento poco curato e il modo con cui si muoveva intento a lucidare i boccali di birra mi tradirono, perché quando avvicinandosi mi parlò, potei notare che quel ragazzo dai lineamenti delicati era in realtà una donna.
– Mi dispiace carina, il titolare non cerca personale. –
Annuii con un cenno del capo mentre il mio sguardo di rinuncia cadde sul ripiano del bancone. Incredibile come in pochi secondi le mie speranze erano andate magicamente a farsi benedire! Prese dall'istinto suicida, si legarono intorno ad un sasso grande quanto una montagna e si lasciarono precipitare nel burrone più profondo del pianeta. Io però non ero certo il tipo di ragazza che sarebbe scoppiata in lacrime perché scappata di casa e non sa come mantenersi. Chiunque mi avrebbe detto “sapevi a cosa andavi incontro, adesso cavatela da sola”.
Qualche minuto più tardi, intenta a rimuginare su come e soprattutto dove avrei passato le prossime ore della notte, potei sentire le palpebre diventare due massi pesanti e i nervi rilassarsi nel momento in cui, spinta dalla stanchezza, posai la fronte sul braccio steso al ripiano del bancone.
Non vedo l'ora di dormire su qualcosa di morbido.


– Hey signorina! –
Scuotendomi delicatamente, qualcuno interruppe il mio piacevole stato di trans. Quando trovai la forza di sollevare il capo, sentii il corpo come in cancrena e il collo che minacciava di non volersi muovere nemmeno di un centimetro. Dovetti massaggiarlo per riuscire a voltarmi nella direzione di quella voce:
– Mi dispiace svegliarti, volevo solo avvisarti che tra poco qui ci sarà un gran baccano – mi informò la stessa cameriera di poco prima. Con i suoi occhi verde bottiglia mi guardava accigliata, con un sorriso curioso sulla faccia sbarazzina. Lanciò un'occhiata curiosa alla mia borsa mentre riponeva qualcosa in un cassetto. Evitai quello sguardo osservatore e, passandomi una mano sul viso come a voler scacciare via il sonno, ebbi l’impressione che quella ragazza mi stesse leggendo in faccia.
Volendo spezzare quel silenzio che stavo mantenendo da troppo tempo, stavo per scusarmi per essermi appisolata come una pera cotta ma un improvviso starnuto interruppe le mie buone intenzioni. Ridemmo quasi in contemporanea e da lì fu facile dar vita ad una conversazione.
Stephanie Rooke, era questo il nome della cameriera. Mentre la osservavo pulire i tavoli e le panche color ciliegio, qualcosa di familiare nei suoi modi mascolini mi fece illudere di conoscerla da sempre. Divideva un bilocale assieme a sua cugina, un’aspirante criminologa, e ad una ragazza americana con qualche grillo per la testa conosciuta durante un concerto.
Fu più semplice di quanto pensassi confidarmi e raccontare la mia attuale situazione, senza però sfociare nei particolari più intimi. Stephanie non si meravigliò affatto quando le confessai che prendere in considerazione l’idea di ritornare a casa non era minimamente nei miei piani. Ma era anche vero che, piuttosto che in mezzo ad una strada avrei preferito dormire ovunque, anche in un pub notturno o in un garage malmesso.
Dall'alto della sua generosità, Stephanie mi propose di appropriarmi del divano di casa sua, definendolo comodo per ogni evenienza...
– Ne conosco parecchi di ragazzi nella tua situazione – disse quando notò la mia esitazione nell'accettare la sua proposta. – Io e le ragazze siamo ormai abituate a ritrovarci estranei in giro per casa! – E sembrava addirittura che la cosa le piacesse.
Forse ho trovato la mia ancora di salvezza?  
Accettare un invito così su due piedi sarebbe stato azzardato, infondo conoscevo quella cameriera da nemmeno un’ora. Ma una piccola parte di me confidava nel suo sorriso, e a dirla tutta: quando mi sarebbe capitata di nuovo un’occasione simile? Nessuno tra il diffidente popolo Londinese mi avrebbe mai aperto così facilmente la porta di casa propria in piena notte, se non in cambio di favori o qualcos'altro, ed io ero così stanca anche solo per avere ripensamenti.
– Se per te non è un problema, allora sarebbe fantastico – acconsentii, mentre il peso delle mie pene diventava sempre meno carico. Non potei fare altro che accettare, sorriderle e ringraziare Stephanie per la sua disponibilità. 


Stephanie, la mia ancora di salvezza, lasciò perdere la spugna con la quale puliva il ripiano del bancone e si allontanò rapidamente verso una piccola scala posta oltre i tavoli. – Solo un consiglio: non parlare con i punk, sono dei gran stronzi! – urlò in lontananza prima di sparire oltre l'ultimo gradino. 
Divertita dalla sua affermazione annotai il mio taccuino immaginario: 1. Come riconoscere un punk
In un batti baleno il pub divenne colmo di persone di ogni tipo: ad esempio ragazzi strambi con la faccia da duro, che pensai fossero i punk stronzi di cui aveva accennato la mia nuova conoscente. Ragazzi dall'abbigliamento improponibile, ragazze composte e non. Più non che composte, a dire il vero, e per mio stupore ogni tanto m’imbattevo anche in qualche faccia decente. 
Un gruppo formato da quattro ragazzi prese posto sul palco a suonare. "Generation X": così si erano presentati. Molte persone sedute alle panche, spinte dalla musica s’alzarono in piedi così da godersi meglio la performance. I rumori assordanti degli strumenti però, a lungo andare, risultavano davvero fastidiosi per il mio atroce mal di testa. Ecco cosa intendeva Stephanie quando aveva detto “tra poco qui ci sarà un gran baccano” .
L' orologio appeso sopra la lunga striscia di bicchieri segnava ormai le 11:00 pm e le mie gambe iniziavano ad andare in coma farmacologico. Abbandonai lo sgabello e camminando sul fastidioso formicolio dei muscoli addormentati mi diressi all'uscita del locale, non curandomi delle occhiate malvagie di un gruppetto di ragazze forse troppo stronze anche solo per guardare oltre il loro naso incipriato.  Varcata la soglia mi accorsi che la pioggia era sparita, portando con sé il mio senso di smarrimento e donandomi un pizzico di sicurezza.
Un’altra sola nota di quella musica e sarei impazzita!
Durante la fuga dalla pioggia fino al pub non avevo notato quanto potessero risultare di compagnia le luci dei negozi riflesse sulla strada bagnata, quanto potesse essere frizzante ed eccitante l'aria notturna che si respira quando si è consapevoli di essere finalmente liberi. Era come se un mondo tutto nuovo, che aspetta solo di essere scoperto, ti si presentasse magicamente sotto il naso. 
Se proprio dovevo aspettare in completa solitudine che Stephanie terminasse il suo turno al pub, volevo farlo fuori, all'aria aperta. Non avevo voglia di camminare ancora ed esclusi l'idea di allontanarmi troppo. Preferivo restare nei paraggi, perché se disgraziatamente avessi perso l'orientamento sarei di sicuro scoppiata in un pianto isterico.
Accanto all'entrata del Crunchy Frog vi era parcheggiata una motocicletta che solo a guardarla faceva venire la pelle d’oca: nera, lucida, bellissima, una di quelle motociclette enormi che fanno più rumore di un trattore. L'idea di fare un giro su quel mezzo dall'aria spericolata mi incitò a sedermi sulla sella posteriore di esso, come una bambina curiosa di provare un giocattolo pericoloso. Solo quando fui certa che il veicolo fosse bel piantato in terra mi sentii sicura di poterci restare. Un mezzo simile non l’avevo mai visto da così vicino, forse solo su qualche giornale sportivo o in tv.
Scroccai senza troppi problemi una sigaretta ad un passante, un uomo distinto in giacca e cravatta che prima di porgermi la stecca mi guardò come fossi una prostituta a basso costo con l'Aids. Cosa c’era che non andava nella mia minigonna di jeans? Lo ringraziai strizzando un occhio, con fare naturale. Ero divertita dal suo sguardo impacciato, e allo stesso tempo sorpresa che non m’avesse mandato a quel paese data la mia giovane età.
Nicotina che invade i polmoni: proprio quello che ci vuole per rilassarsi e non pensare a nulla.







Note finali


Salve a tutti!
Questa è la mia prima storia introspettiva, fatta eccezione per le mille bozze sparse tra i documenti del mio pc che ahimé, sono così pessime che non vedranno mai la luce. Inizialmente ero un po' restia a pubblicarla, forse per timore di deludere le aspettative dei fan dei Sex Pistols, Clash e company, o di descrivere i personaggi realmente esistiti o in generale l'ambiente punk in modo diverso da come se lo immagina il lettore. Mi auguro che tra qualche tempo, rileggendo, non mi chiederò come io abbia potuto sbandierare ai quattro venti un simile scempio... 
Per ora, vi dirò che sono discretamente soddisfatta nonostante i mille dubbi (l'insicurezza regna sovrana, olé!).  
I miei ringraziamenti vanno alla prima recensione in assoluto, lasciata da "Akatsuki Cloud" prima ancora che io potessi scrivere le note finali. Mi ha regalato la carica per continuare a scrivere il prossimo capitolo che ha preso già una piega mooolto più interessante. Quindi, grazie per l'incoraggiamento! 

Che dire, spero di aver stuzzicato la vostra curiosità di sapere cosa accadrà alla nostra sfortunata ma coraggiosa Alex.
A prestissimo!
Ninfea in mare

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Capitolo 2
*** La ragazza della moto ***


Capitolo secondo 
 
LA RAGAZZA DELLA MOTO


Johnny’s pov:

Da quando Cook aveva preso parte ad una sanguinosa scazzottata alla seconda uscita dell’ultima metro, decidemmo che sarebbe stato meglio non farci vedere per un po' da quelle parti.
Stare seduto ai piedi di una fermata degli autobus, in attesa di un autobus che forse non sarebbe mai arrivato, non era una buona cosa per il mio umore nero. Il tempo sembrava essersi cristallizzato. E il mio culo anestetizzato stava per divenire esagonale. Con la schiena dolorante abbandonai quella posizione scomoda e tornai in piedi, poggiandomi con la spalla al palo della luce che minacciava di spegnersi. Che quartiere di merda.
– Cristo santo Jones, piantala! – sbottai spazientito, piantandomi nervoso le mani nelle tasche della giacca. – Ti ho già detto che non voglio parlare di donne, okay?
Steve cominciava davvero a farmi innervosire. Non faceva altro che farmi domande inutili riguardo un paio di puttanelle del Bromley: un quartiere popolato da topi di fogna che chiunque persona per bene non desidererebbe mai incrociare per strada.
– Andiamo Rotten, ma l'hai vista ieri al pub? Ti guardava come una cagna in calore! Proprio non capisco perché non le hai dato una passata.
Una cosa? Steve e i suoi modi di dire. 
 – Forse intendi "perché non le hai dato una botta" – lo corressi. – Cosa sarebbe una passata, non devo mica verniciarle la figa!
Cook sbuffò una risata mentre era intento ad accendersi uno dei suoi spliff scadenti, di cui a me faceva cagare anche solo l'odore. – Verniciarle la figa.. – ripeté poi, in preda ad uno dei soliti attacchi di ridarella, che fece sorridere anche me.  
Steve Jones e Paul Cook: un corpo e un'anima. Amici inseparabili, nonché vicini di casa. Jones, il corpo, schietto e perverso al contrario di Cook, l'anima, che seppur avesse pensieri poco casti preferiva tenerli per sé.
– Io una verniciata gliela darei anche subito – borbottò il primo. Non ho alcun dubbio a riguardo, Jones.
La tipa a cui sotto consiglio del mio amico patologicamente perverso dovevo dare una “passata” era Victoria Fitch, da molti soprannominata: “Vicki tanta roba”. Sotto quel chilo e mezzo di unguento che solitamente le ragazze amano spalmarsi sulla faccia non vi era una particolare bellezza, ma il suo particolare talento in altri campi era capace di compensare qualsiasi mancanza, persino quella dell’intelligenza ... No, forse su questo punto c'erano forti dubbi.
Molto stupida, troppo spesso fastidiosa ma impeccabile nei servizi orali, Vicki era centosettanta centimetri circa di merce facile. Nulla di prezioso, una delle tante col telepass alle mutande residente nella parte peggiore del Bromley. Fan sfegatata dei Clash, un gruppetto di coglioncelli che giocavano a fare i super punk nei i locali di Londra Est. Vicki era sempre inchiodata alla sua band preferita, o meglio dire, era sempre pronta a farsi notare in tutti i modi (im)possibili dal bassista: Paul Simonon, un ragazzo del Brixton. Uno dei pochi ragazzacci di quella zona che aveva capito qualcosa della musica e che molto lontanamente avrebbe potuto anche essermi simpatico. Sebbene io non avessi un briciolo di esperienza nei rapporti tra l’universo femminile e quello maschile, avevo l’impressione che Simonon mostrasse l'atteggiamento di chi non ha nessuna intenzione di lasciare che Vicki prendesse possesso della sua mente, oltre che della zip dei pantaloni. Anche se la più ammaliante e disponibile di tutta la sua combriccola, sapevo anch’io quanto sapeva essere asfissiante quella ragazza dopo una scopata. Assurdo come non ne avesse mai abbastanza!
Vicki però non si lasciava di certo scoraggiare, custodiva la riserva, la spalla su cui piangere. Era solita offrire a me le sue grazie, ogni volta che bussavo alla finestra della sua camera in balia dell’astinenza. In questo modo, io riuscivo a rimediare una sveltina senza troppi fronzoli romantici, mentre lei riusciva ad assimilare i numerosi rifiuti da parte del suo amore inafferrabile. E a giudicare dalle performance contorsioniste che adoperava sul suo letto a baldacchino, era davvero una maestra nel soffocare i dispiaceri..
– Hai notato che quando non sfoghi diventi cattivo, Rotten? – La voce di Steve piombò tra i miei pensieri che stavano percorrendo un sentiero insolito. – Non basta urlare nel microfono, spesso ci vuole anche del sano sesso!
Quella mezza sega aveva più voglia di blaterare del solito. Storsi le labbra in una smorfia evitando una risposta. Infondo aveva pur sempre ragione. Ma quale parte del "non voglio di parlare di donne" non aveva capito? Desideravo solo mettere da parte le chiacchiere sciocche e pensare a nient’altro che alle prove della band, al testo da sistemare, e a sparami qualche birra al Crunchy Frog, un locale notturno che ultimamente frequentavamo spesso poiché non aveva regole troppo severe da farci sbattere fuori. Quella sera, prima di noi, suonavano i Generation X: un altro branco di pagliacci che a mio parare con le loro canzonette noiose non sarebbero andati molto lontano.
– Ti ammazzi di seghe e poi hai anche il coraggio di fare la predica a lui? Guarda che sei proprio forte! – intervenne Cook in mia difesa.
– Io non mi ammazzo di seghe.
– No? Hai un'intera collezione di riviste porno, amico. Presto tutti ti chiameranno "Steve Jones, il chitarrista ceco".
Steve ghignò, evidentemente entusiasta di quel soprannome che Cook gli aveva appena affibbiato e rubò la finta sigaretta dalle dita dell’amico.
– Per non parlare del fatto che hai l’uccello così rinsecchito che sembra un ramoscello secco – intervenni, divertito dal loro battibecco, con l’intenzione di ricambiare gli sfottò. Mentre la mia risata flebile veniva coperta da quella dei miei amici, lanciai il mozzicone della sigaretta in una pozzanghera a pochi metri da me e mi ritrovai a sollevare lo sguardo al cielo insolitamente limpido. L’osservai, scorgendo il luccichio debole di una stella. Aveva appena smesso di piovere, giusto in tempo per risparmiarmi una rottura di palle. Odiavo quando ero in strada e le nuvole d’un tratto decidevano di mettersi a piangere.
– Comunque se proprio ci tieni a saperlo, Vicki mi annoia – confessai senza troppo interesse. – E’ roba vecchia, e poi strilla troppo.
– Meglio così. Vorrà dire più carne per me.
– Allora buon appetito, Jones – conclusi, prima di dare un calcio ad una bottiglia vuota gettata a terra da chissà quale incivile.  
Soddisfatto di aver appena messo a tacere la morbosa curiosità di quel chitarrista ficcanaso, scacciai dalla mente quei pensieri impuri su Victoria e i suoi orgasmi e salii sul quel bus che finalmente arrivò prima che potesse crescermi la barba.

– Questo è disturbo della quiete pubblica! – sbraitò l'uomo alla guida. – Fuori di qui sporchi teppisti o chiamo la polizia!
Come previsto, il conducente ci costrinse ad abbandonare l’autobus poche fermate prima della nostra destinazione. Tutta colpa di quell'idiota di Steve e dei suoi rutti da bisonte! Per quanto mi riguardava, l'autista poteva anche ficcarsela diritto nel deretano la quiete pubblica, perché adesso dovevamo farcela a piedi fino alla metro più vicina ed io non avevo nessuna voglia di camminare.
Da cinque minuti buoni ridevo come un coglione agli scherzi che Cook raccontava di aver combinato alle amiche di bridge di sua nonna, due sorelle nubili sulla settantina. Possedevano una villa nei quartieri alti della città, presso la quale ogni tanto ci recavamo per raschiare le foglie dal giardino, innaffiare le piante e lavoretti simili, in cambio di una misera manciata di sterline che a malapena ci bastavano per un toast e un pacchetto di sigarette. Che sfruttatrici!
Da quando mio padre mi aveva sbattuto fuori di casa, m’inventavo di tutto pur di riuscire a saldare i conti delle birre che mi scolavo, anche fare le pulizie. "Ti sembra il modo di presentarti a casa? Fuori di qui, fuori di qui sporco bastardo! E non ti azzardare a tornare!" Mi sembrava ancora di sentire la sua voce dura. Quel tono autoritario da padre padrone che era solito usare anche quando parlava a mia madre. Non riuscivo ancora a capacitarmi su cosa avessi fatto di tanto grave quella sera per essere stato trattato come un farabutto, un figlio ingrato. Ero solo tornato a casa dopo due giorni di totale assenza, con i capelli a spazzola tinti di verde! Adesso il verde era andato via lasciando spazio al mio rosso naturale. Come era andato via anche l'entusiasmo iniziale, quella sensazione che ti fa credere di essere diventato finalmente un adulto ora che si è finiti per strada a fare lo squatter, ora che si conosce cosa vuole dire essere un vero punk. Essere un vero punk vuol semplicemente dire essere un figlio di puttana, uno che ha fatto del marciapiede il suo regno. Un figlio maledetto di una patria giubilata dalla vergogna della monarchia, senza avvenire, e con la voglia di rompere il muso al suo caritatevole prossimo.
Usciti finalmente dalla metro, svoltai l'angolo dell'incrocio e la risata di Steve ai racconti di Cook sfumò via come polvere al vento insieme al mix dei miei pensieri. Ci voltammo tutti e tre a guardare contemporaneamente nello stesso punto: chiamasi sincronizzazione maschile.
– Chi diavolo è quella figa spaziale sulla moto di Tony J?
Tony James, un carciofo che senza vergogna si improvvisava musicista nei Generation X, aveva parcheggiato la sua motocicletta all'entrata del parcheggio del Crunchy Frog e una figa spaziale, come Steve la descriveva, era comodamente seduta sopra. Per ipotesi che l'aldilà esista, allora il paradiso doveva essere proprio davanti a me, su quel fottuto veicolo a due ruote.
Le luci dei lampioni e della strada mi furono d'aiuto per riuscire ad inquadrare due gambe affusolate perfettamente accavallate, un viso piccolo contornato da lunghi capelli castani che raccolti in una morbida treccia ricadevano oltre la spalla. E quella sigaretta, che teneva tra le dita come se non le appartenesse. Quella ragazza fu una novità, un volto nuovo a Rotherhithe. Né io né i miei amici l'avevamo mai vista prima d'ora nei dintorni pub, né da nessun altra parte. Ma ciò che vedevo era reale o solo un abbaglio? Un'allucinazione dovuta alla mia ormai quasi implacabile astinenza? Incredibile come ogni pensiero su Vicki, mio padre e la band fosse eclissato in un attimo.
– Guardate un po’ Tony J che bel pezzo di fidanzata che ha trovato! – ironizzò Cook. Mi domandavo se Cook fosse nato ritardato o avesse subito un trauma infantile proprio come me e la mia meningite. Insomma, uno come Tony James non poteva davvero aver abbordato quella ragazza! L'unica cosa che sapeva fare quella specie di carciofo era guidare la sua bambina a due ruote, mandare qualcuno meno vigliacco di lui a pestare chi gliela rubasse per poi atteggiarsi a superuomo.
– Stronzate. Quello è più imbranato di Rotten per rimorchiare una tipa così – commentò Steve, che quel paragone poteva anche risparmiarselo. Che simpatia.  
Tenevo le mani nascoste nelle tasche dei pantaloni, aspettando il momento giusto per attraversare la strada e quel silenzio che mantenevo da un bel pezzo iniziava ad essere insostenibile. Avrei voluto dire qualcosa, qualsiasi cosa, ma l’unico pensiero che il mio cervello riusciva a partorire era: “Adesso ti rubo e ti porto via con me, dove nessuno potrà mai trovarti.
– Se fossi in lui non la lascerei alla portata di tutti – convenne Cook.
– Davvero? E di quale gioiellino parli? – Steve ci fece ridere con quella domanda ironica. Alludeva al fatto che, pochi giorni prima, sulla sella di quel gioiellino c'erano lui e Cook a zigzagare tra King’s Road e la strada opposta rischiando di provocare uno tsunami di persone volanti. Soffiarono la moto a quel pallone gonfiato proprio dove l'aveva lasciata incustodita: ad un soffio dalla boutique di Malcom. Mentre tutti i teppisti cacasotto si limitavano a sognare una motocicletta del genere, io ed i miei compagni di avventura usufruivamo del bene senza permesso. Legittimamente significherebbe rubare, ma io preferivo un termine più appropriato: "prestito".  Io e quel gran bastardo di Sid ci piazzammo sotto l'uscio del negozio nel ruolo del palo, per assicurarci che quello non uscisse troppo presto a rovinare il divertimento. Sorrisi impercettibilmente a quel pensiero spassoso, poi tornai a catturare l’immagine della ragazza della moto come a voler stampare la sua fotografia nella mente. Per un attimo mi sentii impedito di camminare, come se tutti i sensi, tatto compreso, avessero subito un blackout momentaneo. Sempre meglio sentirsi un completo ebete incapace anche solo di camminare o proferire parola, piuttosto che esibire certe figure pessime come era solito fare Steve Jones. A volte sembrava quasi un cane con la bava.
– Hey sirena sullo scoglio, vuoi nuotare con me?! – Come immaginavo il cane non perse occasione: mentre eravamo in procinto di attraversare la strada cercò di attirare l'attenzione della sirena con quella domanda velata di malizia, nonché assurda e stupida. Infondo si sa, i complimenti urlati a squarciagola da lontano sono i più raffinati. Il richiamo del mio amico però si rivelò deludente: come risposta lei non ci degnò nemmeno di una parola. Eppure ero sicuro che il suo sguardo stesse vagando dalle nostre parti. Deluso ma divertito la ignorai, mentre attraversavo il parcheggio del locale con fare disinteressato.
Ammisi a me stesso di essere sorpreso dalla sua noncuranza. Qualsiasi ragazza sfacciata non avrebbe esitato a tuonarci contro una serie di insulti, invece lei rimase in silenzio. Ci guardò, e non articolò una sillaba, lasciandoci sguazzare nell’indifferenza più assoluta.
– Non ha sentito – bofonchiò Steve, con l'aria di chi una tipa così può solo che sognarla.
– Ha sentito benissimo, mi hai distrutto il timpano! – si lamentò Cook, grattandosi l'orecchio.
– Forse è straniera. Pensa se venisse dalla Bulgaria..
– Ma che cazzo Jones, ti sei fissato con le bulgare! Tanto non te la mollano nemmeno loro.
Le voci dei miei amici facevano da sottofondo ai miei pensieri più nascosti.
Quell'atteggiamento snob e malfidente mi incuriosii a tal punto che per un attimo fui anche tentato di fare dietrofront, saltare in sella a quella fottuta motocicletta e tentare di conoscerla. Chissà se sarebbe scappata via, forse turbata dalla mia faccia poco raccomandabile. Cambiai idea, e diedi la colpa alla mia ruvida timidezza. Ma orgoglioso com’ero, alla fine mi convinsi che avevo altre cose molto più importanti a cui pensare, e al momento nessuna ragazza era inserita nella lista delle mie priorità.
Non vi era alcuna musica provenire dal pub, fortunatamente. I Generation X avevano appena terminato la loro penosa performance alla quale fui felice di non aver assistito. Adesso potevamo finalmente provare anche noi, portando un altro po’ di casino molto più originale. Speravo solo che quello svitato di Glen Matlock si fosse presentato come previsto.
Non ero certo che quella fosse davvero la ragazza di Tony James, o una di quelle cretine che gli gironzolavano intorno, ma se era seduta sulla sella della sua motocicletta con quel perdente doveva pur averci a che fare. Mi lasciai la curiosità alla spalle, gettai sull’asfalto il mozzicone dell’ennesima sigaretta ed oltrepassai la soglia del Crunchy Frog.


Alex's pov:

Avevo chiesto l’ora circa trentasette volte alle persone che diffidenti mi passavano accanto. A quanto pare le lancette pigre non avevano gran fretta di correre.
Annoiata, frugai all’interno della borsa alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarmi ad ammazzare il tempo. Nascosta sotto un paio di magliette aggrovigliate e ad un grosso elastico per capelli di cui non ricordavo l’esistenza, vi trovai una rivista dalla prima pagina mancante. L’avevo fregata circa un mese prima dalla sala d’attesa della dottoressa Freeland, una psicologa specializzata nei problemi legati all'adolescenza, presso la quale la scuola mi consigliò di recarmi quando ne sentivo il bisogno.
Pagina otto: la posta del cuore di Kelly. Argomento interessante quando non si possiede niente di più costruttivo da fare.
La comoda motocicletta sulla quale ancora sedevo a modi panchina, traballò improvvisamente provocandomi un sussulto. Feci in tempo ad aggrapparmi al paletto in acciaio della sella prima che potessi perdere l’equilibrio e ritrovarmi schiantata sulla strada. Qualcuno con la voglia di scherzare aveva deciso di sganciare il cavalletto senza nessun avvertimento, rischiando quasi di arrecarmi l’inizio di un infarto.
Due ampie spalle magre si presentarono davanti ai miei occhi quando mi voltai a guardare verso il manubrio. Dubitai fortemente che il tipo non avesse notato la mia presenza prima di prendere posto sulla sella anteriore, a meno che non fosse cieco. Cosa molto improbabile di fronte al fatto che, per un dato ovvio, i non vedenti non posseggono la capacità di guidare. Quel modo rozzo di invitarmi a scendere dalla moto non lo trovai affatto carino. Avrei preferito di gran lunga essere stata rimproverata per essermi seduta senza permesso, piuttosto che essere ignorata in un modo così poco educato. Evidentemente quell’individuo vendeva care le parole. Che fosse un tipo poco pratico nei rapporti civili? – Ma che modi! Mi hai spaventato.
– Oh mi dispiace.. la prossima volta ti avviserò in anticipo, così sarai preparata. – Fu una voce calda a parlare, quasi trascinata, con un non so che di magnetico. Non una di quelle rauche e sgradevoli degne di un rude motociclista. Ad ogni modo, qualunque suono avesse avuto quella voce non era rilevante, perché quel tono sarcastico non mi piacque per niente, specialmente se quello spiritoso non si era nemmeno degnato di voltarsi a guardarmi in faccia. Cestinai una risposta. Senza troppe cerimonie abbandonai la motocicletta con un piccolo salto e, guidata da qualcosa che somigliava lontanamente all'irritazione, mi spostai più in là sedendomi sul piccolo muretto sottostante al cancello scolorito del parcheggio. Da quella prospettiva potei ben vedere la figura del giovane e il profilo del suo viso:
capelli molto corti, biondo cenere, pettinati verso l’alto secondo nessun ordine preciso. Labbra carnose, magro e slanciato. Aveva gli occhi grandi dal taglio allungato, di un colore che non riuscii a definire per via del buio. Oserei dire due diamanti luccicanti, con delle venature di un tono più scuro qua e là. Semmai avessi dovuto descrivere quegli occhi con una metafora, sarebbe stata Mare in tempesta. Quel mare agitato dove le onde implacabili sono un mix di tonalità azzurro sfumato che incastrandosi tra loro non si lasciano cogliere. Un po’ blu, un po’ grigie, e un po’ tanto indecifrabili.
Da quale vortice immaginario saltava fuori quel ragazzo dalla giacca borchiata? Dopo una lastra alla mia silhouette distolse lo sguardo impassibile da me e si guardò intorno con attenzione, come a voler accertarsi se stesse passando inosservato o meno. Occupato a gustarsi la sua sigaretta appena accesa, incrociò al petto le braccia esili e il fumo grigio che sbuffò diritto davanti a sé si disperse nell’aria fredda. A quanto pare non aveva ancora intenzione di partire.
– Stai aspettando la tua ragazza? – domandai, più per non fare la figura del pesce muto che per la curiosità.
– No, non ho la ragazza – rispose svogliatamente.
– E non hai nemmeno l'aria di un motociclista – commentai, nonostante lui si mostrasse poco interessato alla mia presenza. – Solitamente i motociclisti sono grassi e hanno la barba.
…ma che idiozia vado a dire! Accidenti a me e alla mia mania di blaterare cose inutili quando mi ritrovavo incastrata in una nuvola d’imbarazzo.
– Io invece sono un gran figo, vero? – chiese lui distratto. Si ostinava a guardare spesso verso l’uscita del locale, con lo sguardo vago di chi è in attesa di qualcuno che da un momento all’altro sarebbe arrivato.
– E anche molto presuntuoso – aggiunsi a quella domanda retorica. Ricevetti un sorriso sbilenco in risposta che si spense quando, chinandosi in avanti, lo sconosciuto prese a smanettare col motorino d’avviamento della moto, tenendo saldo tra le labbra il filtro della sigaretta.
– Se hai perso le chiavi dovresti cercare un meccanico – gli suggerii consapevole di risultare un’impicciona.
– Porca troia, tu parli troppo – soffiò seccato, usando un tono lento. Nel tentativo di colmare il mio imbarazzo mascherato di curiosità lo avevo fatto esasperare. – Questa meraviglia non è mia, la prendo in prestito.
Ebbi l’impressione che il bel biondino fosse il tipo che in genere non rispetti le regole, figuriamoci quelle della strada! E che fosse allergico al linguaggio verbale: lo intuivo dal breve silenzio che lasciava scorrere prima di rispondere a qualsiasi domanda, dalla lentezza con cui parlava che lo faceva sembrare pigro ed annoiato.
Mi morsi il labbro, ingoiai la lingua e riaprii distrattamente la mia rivista. Trascorsero brevi istanti di silenzio, che io colmai leggendo per tre volte di seguito la stessa riga senza capirne il significato, e quando di sottecchi vidi quel ragazzo guardarmi di nuovo con quel sorrisino impertinente capii che forse la mia curiosità non gli dispiacesse più di tanto.
– Prestito o no, a me sembra che tu stia rubando – commentai come se stessi parlando tra me, cercando nel contempo di non perdere la concentrazione dalla pagina otto. Ma come si può restare concentrati in una situazione simile? Come previsto, dell'altro silenzio mi fu dato in risposta.
Mi domandavo se stesse solo tentando di spaventarmi per il semplice gusto di farlo, o se le sue intenzioni erano proprio quelle di scappare via con una motocicletta che non fosse di sua proprietà. In proposito, il mio intuito sempre impeccabile mi suggerì di eliminare la prima ipotesi.
– Hey Simonon, Tony James ha smesso di suonare da un pezzo. Fossi te farei in fretta. 
Quel vocione sconosciuto apparteneva ad un tizio barbuto, con gli occhi e la fronte nascosti sotto un berretto verde bottiglia. Accompagnato da una leggera scia di sbornia e una risata sgranata, ci passò accanto dopo esser uscito dal Crunchy Frog. Il ragazzo non rivolse nemmeno uno sguardo all'uomo che indifferente si allontanò, riservandogli lo stesso silenzio che aveva in serbo per me. Spostai lo sguardo sul motorino d’avviamento della moto, osservando scettica quelle mani di chi sa quel che fa. Il motore raschiò per un istante quando si accese, poi si fece limpido.
– Simonon? – Che nome insolito.
– Sì, è il mio cognome. Ma tu puoi chiamarmi Paul – si presentò lui, usando un tono di voce più alto da sovrastare il rombo del motore che stava scaldando. Facciamo che non ti chiamo affatto, pensai mentre mi voltavo a guardare da un’altra parte. Il suo sguardo magnetico era caduto su di me proprio nell’istante in cui stavo fissando il suo volto, e deviarlo fu l’unica cosa che l’impulso mi innestò.
– Allora, signorina.. che non ha un nome – parlò prima di portarsi di nuovo la sigaretta alle labbra. Cos’è, d’un tratto gli era venuta la voglia di conversare? Se credeva che mi sarei presentata ad un delinquente come lui, magari anche con una calorosa stretta di mano, si sbagliava di grosso. Non mi sembrava il caso di stringere allegramente amicizia come nulla fosse. – ..se hai finito con le domande, che ne diresti di fare un giro con me?
Come faceva a mantenere un comportamento così tranquillo e rilassato? Stava per rubare una maledetta motocicletta sotto i miei occhi, non una pagnotta al mercato! 
– Non hai paura che mi metta ad urlare? – raggiai la sua domanda, ma qualcosa nel suo sorriso furbo mi fece capire che fosse profondamente convinto che io non avrei mai urlato “a ladro!”, e questo mi irritò.
– Scappa con me! – insistette, vagamente serio. Anche lui aveva raggirato la mia domanda.
– Neanche per idea – mi mostrai placida, come se il mio rifiuto fosse naturale.
– Giuro che non sono uno stupratore! – protestò allora, sollevando le mani in segno d’innocenza. Stava diventando anche troppo spiritoso per i miei gusti. Arresa, roteai gli occhi verso l'alto come a voler ricevere una risposta dal cielo sul perché proprio a me doveva capitare un guaio simile, e decisa ad allontanarmi da quel tipo folle presi a camminare molto lentamente, come se stessi facendo una passeggiata. In fondo dove sarei potuta andare? Ero finita in quell'incontro solo perché stavo aspettando Stephanie che terminasse il suo turno al locale.
Riposi nella sacca della borsa la rivista che fino a quel momento mi era stata di grande aiuto per mostrarmi disinteressata alla situazione, e quando sollevai di nuovo lo sguardo trovai quel Simonon a fissarmi mentre, accelerando a tratti, mi seguiva. – Mi prenderanno a calci in bocca se non mi sbrigo, lo sai?
Cosa vuoi che me ne importi!, pensai acida. 
– Cosa c'è, non ti piacciono le moto? – cercò di convincermi.
– Non mi piaci tu, è differente.  
Vidi la sua espressione mutare improvvisamente divenendo quasi sbuffa: mi stava a guardare con le labbra contratte in una piccola smorfia, e le sopracciglia sollevate mettevano in risalto gli occhi grandi. Per caso stava attendendo una risposta che già avevo dato?
L'ampio parcheggio colmo di biciclette e automobili ci divideva da un ragazzo dai capelli scuri come la pece. Questo correva come un pazzo e sembrava proprio di volerci raggiungere. Che fosse quel James, il proprietario della motocicletta? In tal caso, avrebbe preso Paul a calci in bocca se non se la fosse svignata immediatamente. Mentre io invece avevo buone probabilità di finire sotto interrogatorio alla polizia. A quel pensiero rabbrividii, desiderando che la terra si aprisse magicamente e mi tirasse a sé.  
Paul mostrò un sorriso obliquo di chi è convinto di passarla liscia, lo sguardo fisso oltre la mia spalla, il pugno della mano stretto saldamente intorno all'acceleratore.
– Avanti, fa presto! – mi incitò quando si accorse che quel ragazzo aveva velocizzato la corsa.
In quel momento ebbi una gran voglia di eclissare dal pianeta terra. Senza perdere altro tempo e spinta forse dalla paura di diventare la sola vittima dell’uragano James, mi aggrappai con le mani alle spalle di Paul intanto che lui scaldava il motore, e il rumore di esso riusciva solo ad alimentare il mio senso di disagio. Sollevai una gamba, e molto velocemente saltai in sella al veicolo. Un millesimo di secondo prima che le mie natiche potessero toccare il tessuto in pelle della sella, Paul gettò la sigaretta ormai finita al bordo del marciapiede con un gesto brusco, mollò il freno ed io in preda allo spavento mi aggrappai al suo busto magro.
– Simonon sei morto! Scendi dalla mia cazzo di moto! – strillò il poveretto alle nostre spalle mentre ancora correva. Ma non ci raggiunse. Lo vidi fermarsi al margine del primo incrocio maledicendo anche il cielo.

Sulla mia faccia doveva sicuramente esserci stampata l’espressione di chi sta per morire dal terrore. Quella di Paul invece, che potetti notare dando una sbirciata allo specchietto, sembrava quasi felice. Somigliava ad un bambino pestifero divertito alla vista del suo insegnante ruzzolare giù per una rampa di scale.
– NON COSI' VELOCE! Ti prego! – urlai a squarciagola, con gli occhi fissi sulla strada e il cuore palpitante in gola. 
Chissà quale sarebbe stata la scelta più sensata da fare: se accettare di scappare con un pericolo ambulante, o lasciare che la furia di James si ritorcesse contro di me. In ogni caso quel ladro di motociclette stava mettendo in serio pericolo la mia sicurezza, guidando come un dissennato tra le strade trafficate della città. Ero frustrata, arrabbiata con me stessa per aver lasciato che quel folle mi tirasse nei suoi giochetti da fuori legge. Più di ogni altra cosa però, ero terrorizzata da quella velocità che stava mantenendo. Attaccata alla sua schiena come una ventosa, avevo la guancia schiacciata contro la pelle del suo chiodo, ma per nessun motivo al mondo avrei allentato la stretta prima della fine della corsa.





Note finali

Prima premessa: Sono consapevole del fatto che qualcuno potrebbe scandalizzarsi leggendo termini un po’ nudi e crudi presenti in questo capitolo - e sicuramente nei seguenti - ma vi assicuro che certi maschi ragionano e si esprimono proprio in questo modo! (Se non peggio.) E poi non dimenticate che qui stiamo parlando dei Sex Pistols e amici, ragazzacci di strada, mica "quelle robe mosce" come direbbe Rotten! xD 
Il rating della storia è rosso, per cui chi non gradisce un certo linguaggio è comunque avvisato in partenza.
Seconda premessa: La parte in cui Rotten spiega cosa vuole dire essere un vero punk è scritta nello stile sottolineato perché è una sua stessa citazione, presa proprio da un'intervista non tanto vecchia che potete trovare da qualche parte sul web.

Detto questo, cosa ne pensate del secondo capitolo? Vi annoia? Vi incuriosisce? Vi aspettavate diversamente? Fa schifo?
Si accettano anche insulti, purché siano since.... no, non è vero, sono permalosa e vi segnalo. Ma basta scrivere sciocchezze adesso, mi piacerebbe tanto leggere una recensione così lunga che inizia qui e finisce in Giappone. Ma tanto non accadrà mai perché al momento nessuno mi defecherà.

Alla prossima! :)
Ninfea in mare


 

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Capitolo 3
*** Beautiful and damned ***


Capitolo terzo
BEAUTIFUL AND DAMNED


Alex’s pov:

La lunga lista di preghiere che recitai nella mia mente durante la corsa in moto, mi furono di aiuto per sopportare l'infinita agonia alla quale Paul Simonon mi aveva sottoposto. Non dimenticai nel frattempo di annotare il secondo punto al mio taccuino astratto:
2. Non dare mai più confidenza ad un punk (specialmente se ladro di motociclette)

– Tu sei un pericolo pubblico, dovrebbero rinchiuderti! – tuonai, scossa ma felice di essere ancora sana e salva.
– Non dirmi che hai avuto paura – mormorò lui con una calma inaudita.
– Oh no, ho fatto un giro in carrozza! – La sua risata esplose subito alla mia battuta che di certo non voleva essere simpatica, ma si arrestò quando ebbe notato l’espressione seria sul mio viso.
– Dove siamo? – domandai poi, mentre acconciandomi qualche ciocca di capelli fuoriuscita dalla treccia mi guardavo intorno:
Le strade pullulavano di ragazzi di ogni età ed origine, insegne luminose e panchine poste ad ogni metro tra un vicolo e l’altro. Tutto un altro mondo se paragonato alla monotonia dei noiosi quartierini di Bristol a cui ero abituata. Da quando abbandonai l’Italia, a dodici anni, non avevo mai visto nessun altro posto all’infuori di quella che ormai non ritenevo più la mia casa. Tranne quella breve vacanza in Spagna, quando Jade non era ancora nata. Sara ed io ci trasferimmo a casa di un suo intimo amico, più intimo che amico. Ci stava a malapena un letto nello stanzino colmo di scatoloni e fetido di muffa in cui mi toccò dormire. Nonostante le pareti spesse e il palmo delle mani che premevo sulle orecchie, potevo sentire chiari i loro disgustosi lamenti erotici. Quando finalmente lo spagnolo ebbe avuto l’onore di conoscere l’isterismo di Sara, non ci pensò due volte a rispedirci nella patria inglese. Da quel giorno in poi lei peggiorò sempre di più, fino a superare i limiti della sopportazione.
– Benvenuta a Brixton Village, straniera! – esclamò Paul con fierezza, inconsapevole di aver appena rotto la bolla dei miei ricordi passati.
– Stai scherzando, vero? – chiesi retoricamente, nonostante non conoscessi quel posto. – Non posso stare qui, devo tornare da Stephanie!
– Stephanie..? – lo vidi pensarci su un momento con la sua solita espressione seria, mentre si grattava il ciuffo di capelli sopra la fronte. – Non conosco nessuna Stephanie – concluse poi, ficcandosi le mani nelle tasche. Fantastico.
Strano che non conoscesse nessuna ragazza con quel nome, perché Paul di corteggiatrici e conoscenti ne doveva avere a milioni, bello e dannato com'era. E si sa che i ragazzacci come lui, se si portano dietro quella scia maledetta, sono capaci di avere un certo fascino sulle ragazze. Io invece di scie incantate e misteri non ne avevo bisogno, ce n’erano fin troppi sparsi nella mia penosa vita per avere la briga di permettermene altri.
– La cameriera del Crunchy Frog. Dovevo andare a casa sua.. – bofonchiai nostalgica, come se non potessi mai più incontrarla. – Ascolta, Paul.. Simon o come ti chiami, è stato tutto molto divertente, però adesso devi riportarmi indietro.
– Oh no, assolutamente no. Se torno a Rotherhithe mi fanno il culo – parlottò dandosi un'occhiatina allo specchio. Un ladro vanitoso, chi l'avrebbe mai detto!
– Okay, nessun problema, prenderò la metro – decisi, incamminandomi verso la strada senza la ben che minima idea di quale direzione prendere.
– Dall’altra parte! – urlò lui alle mie spalle per indicarmi la giusta via. Potevo sentire la sua risata in lontananza, dio che imbranata!
– Avrà già finito il turno, e adesso dove diavolo vado a pescarla?! – mi rivolsi a chissà chi, guardando chissà dove, forse con l’illusione che qualcuno laggiù sarebbe stato in grado di darmi una risposta e mi sentii una perfetta nevrotica. In realtà ero solo demoralizzata dal fatto che prendendo la metro ci avrei impiegato troppo tempo, e una volta tornata al pub c’erano pochissime se non inesistenti possibilità di trovare Stephanie ancora lì ad aspettarmi.
– Ti ci porto io da lei! Andiamo! – La voce di Paul ebbe il potere di fermarmi. Mi voltai di nuovo e lo guardai con attenzione, come uno studioso davanti un libro di chimica. Lo esaminai da lontano mettendo a fuoco quel sorriso esilarato, mentre teneva le braccia poggiate al manubrio come se stesse comodamente affacciato alla finestra a gustarsi lo spettacolo pessimo che ero.
Conosceva davvero l’abitazione di quella ragazza, o quella era solo un'altra scusa per indurmi in un'altro dei suoi giochetti da delinquente? E soprattutto, perché un minuto prima aveva negato di conoscerla? Che ragazzo strano!, per non dire enigmatico. Mentre tutti quei punti interrogativi mi balenavano nella mente, senza nemmeno accorgermene ero già tornata indietro.
– Conosci davvero casa sua? – chiesi con un tono di voce sommesso che non avevo previsto, da ragazzina smarrita. Gli occhi cerulei di Paul vagarono per aria un momento, poi mi guardò con l’atteggiamento di uno che ha deciso di svelare le sue carte: – Bromley 453. Avanti, salta su. –
Con immenso sollievo rinunciai alla pazza idea di addentrarmi nella lugubre e pericolosa metro nel cuore della notte, mi acconciai la tracolla della borsa per l'ennesima volta e tornai a prendere posto sul mezzo, domandandomi se non avessi appena fatto un grosso errore nel dare credito a quello scriteriato. 

Per fortuna il viaggio di ritorno non si rivelò un incubo come la prima volta. Paul si fece tutte le scorciatoie possibili per evitare di trovarsi faccia a faccia con qualche guardia notturna.
Per mia meraviglia non fu concesso spazio al silenzio, anzi, quel ragazzo si mostrò sorprendentemente in grado di mettere più di una frase in riga. Ed io, anche se dovetti aguzzare bene l’udito per cogliere il suono della sua voce sotto rombo del motore, fui piacevolmente intrattenuta dai suoi racconti che parlavano di musica, barzellette e malefatte. Specie quelle compiute a Tony James, il proprietario della motocicletta che Paul stava guidando come se la conoscesse da sempre.
Contenta di non essere complice di un vero e proprio furto, e di essere arrivata di nuovo intera a destinazione, potei un’altra volta toccare terra con i miei piedi. Ancora non riuscivo a credere di aver fatto un giro in moto attaccata alla schiena di qualcuno di cui conoscevo solo il nome. Eppure una nuova strana sensazione aveva preso possesso dei miei sensi da quando quel James aveva urlato a Paul le peggiori ingiurie. Durante quella fuga sventata c’era qualcos’altro che insieme allo sgomento mi ribolliva dentro, qualcosa di molto simile a quella cosa chiamata adrenalina: una piacevole morsa che ti avvolge lo stomaco, che ti innalza fino a toccare le nuvole con un dito.
– Quella è la 453 – Paul indicò un cottage dall’aspetto mesto, poco curato, pochi metri più in là .
Adesso veniva la parte difficile, quella più scomoda e impacciata: dovevo congedarmi. Ma prima che ne potessi avere l’agio, Paul mi preannunziò:
– E adesso? Nessun premio per il tuo autista? – Mi guardò disinvolto e sorridente, con un doppio senso grande quanto un’imbarcazione scritto sulla faccia. Non ebbi nemmeno il tempo di schiudere le labbra per formulare una risposta adeguata che il suo braccio mi cinse i fianchi, e con fare poco delicato mi tirò a sé. Se non avessi premuto in tempo le mani sul colletto del suo chiodo, sarei cascata tra le sue braccia come uno stoccafisso. Non avevo davvero idea di cosa gli fosse preso, se avesse programmato già in partenza la fine del nostro incontro. Io di certo non l’avevo presagito. L’atteggiamento diffidente che avevo mantenuto fino a quel momento svanì come per incanto, di colpo e dolcemente. Sentii le guance improvvisamente scaldarsi e in un men che non si dica il calore del mio viso arrivò ad una temperatura spaventosa.
Che cosa mi stava succedendo? Ero solo finita con il viso ad un palmo dal suo. Una delle mie gambe strusciò contro il suo ginocchio e ciò bastò a farmi avvampare in quel modo, come una bambina che stringe la mano al più bello della classe.
Solo il tempo di un mezzo respiro trattenuto e la sua bocca, carnosa ed impaziente, premette senza indugi sulla mia, ghiacciata per il freddo pungente. Ci pensò lui a scaldarla, gustandola come se fin dal primo contatto gli fosse piaciuta, con un fare così accattivante da mozzarmi il fiato. Quando la punta calda della sua lingua mi sfiorò l’interno delle labbra tentai di liberarmi da quel tentacolo che aveva al posto del braccio, ma una presa più solida dietro la mia schiena fu la sola cosa che ottenni. A quel punto non potei fare altro che distendere i muscoli, accettare il fatto di essere in trappola e lasciarmi sopraffare dal suo profumo forte, che aveva in sé un non so cosa di dolce, nuovo e dannatamente bello.
Non c’era stato imbarazzo nel suo gesto, né il timore di un rifiuto. Paul aveva l’aria di uno che quando è intenzionato ad avere qualcosa, non solo va a prendersela subito, ma la ottiene senza opposizioni e senza nemmeno chiedere il permesso.
Quando capii che quel ladro di baci e motocliclette mi stava tenendo in ostaggio un po’ troppo a lungo, issai di nuovo le barriere e lo costrinsi a lasciarmi indietreggiare. Tornai dunque a riprendermi il mio spazio, mettendo tra noi una distanza tale da non poter facilmente finire di nuovo nelle sue grinfie, e lo vidi tirare in dentro il labbro inferiore mordendoselo in un gesto che mostrava non essere fatto di proposito. Aveva l’espressione contrariata di chi non ne ha ancora abbastanza, e negli occhi, in quegli occhi celesti quanto il fondo degli abissi vi era ancora quel luccichio magico e ardente dovuto all’eccitazione di quel bacio inaspettato che mi aveva piacevolmente esorto.
Io invece non dovevo essere molto presentabile così conciata, con i capelli arruffati ed il mascara sicuramente colato sotto le ciglia. “Non parlare con i punk, sono dei gran stronzi!” mi aveva consigliato Stephanie al pub. Ma io non solo avevo fatto un giro spericolato in moto con uno di loro, ma avevo anche lasciato che si appropriasse delle mie labbra senza alcun freno!
Paul schiuse le labbra in un sorriso che sembrava voler parlare, quando oltre un cancello verniciato di nero si aprì lentamente una porta bianco gesso, e un viso a me conosciuto comparve dietro di essa spezzando il silenzio:
– Oh mio dio, Alex! Iniziavo a pensare che fossi stata rapita – scherzò Stephanie, con un misto di preoccupazione e meraviglia disegnato sul volto. Tra le mani aveva qualcosa di simile ad una scodella per cereali che lasciò ai piedi del terzo ed ultimo gradino. Un piccolo gatto da pelo lungo e grigio spuntò dietro un bidone dell’immondizia e si affrettò a mangiare.
Dato che Stephanie non mi sembrava dispiaciuta di vedermi fuori la porta di casa sua a quell’ora inopportuna, mi convinsi di non essere stata indiscreta a presentarmi.
– Scusa se sono sparita, ma.. ho avuto un imprevisto – mi giustificai, rivolgendo uno sguardo schivo verso Paul. Era ancora lì, con la moto affiancata al margine del marciapiede.
– Hey Simonon! – salutò Stephanie quando notò un’altra presenza a pochi metri da me. Il ragazzo fece silenziosamente un cenno col capo e si sistemò sulla sella, pronto ad andarsene: – Ci si vede in giro Alex! – Mostrò l’accenno di un sorriso e sfrecciò verso la strada opposta a Rotherhithe.
Stephanie richiamò la mia attenzione, esortandomi a seguirla in casa. Giusto due passi e superai un ingresso minuscolo, ritrovandomi in un piccolo appartamento dall’arredo arrangiato. La luce gialla proveniente da due piccole lampade poste agli angoli della stanza creava una discreta illuminazione, ma forse non abbastanza da riuscire a infilare del cotone in un ago. Alzai gli occhi al soffitto e mi accorsi che il tetto non possedeva alcun lampadario.
Una ragazza dai ricci biondi e ribelli, fece irruzione in casa entrando da una finestra posta accanto alla cucina, dall’altra parte della stanza. A giudicare dall’aspetto doveva essere poco più grande di me.
– Come bacia Simonon? – parlò rivolgendomi uno sguardo malizioso. Il suo viso pallido e paffuto, marcato dal trucco ormai vecchio, mi ricordò quello di una bambola di porcellana, e la sua voce sottile quasi stonava con l’abbigliamento gotico. In una mano stringeva un paio di scarpe con un tacco che solo a guardarlo faceva venire le vertigini e nell’altra, teneva una sigaretta consumata a metà.
– Alex, lei è Nancy – mi disse Stephanie, richiudendo la porta alle nostre spalle. – Ha l’abitudine di spiare la gente dalla scala antincendio, non t’impressionare.
Fossero tutte queste le stranezze, pensai mentre mi mostravo socievole sfoggiando un sorriso in direzione di quel viso a me nuovo.
– Allora? Sei o no la ragazza di Simonon? – mi domandò pettegola la bionda, mentre saltava giù dal davanzale. Aveva un forte accento americano che la faceva sembrare snob.
– No, mi ha solo dato un passaggio. L’ho beccato a rubare la moto di un certo.. James.
– Andiamo Nancy, sei invadente! – la richiamò Stephanie, intanto che andava a chiudere la finestra dalla quale filtrava un venticello gelido. La risata dell’amica intanto aveva già preso una piega larga che fu in grado di far ridere anche me.
– James.. che soggetto! E’ proprio un babbeo! – Sghignazzando, Nancy si lasciò cadere sul divano color vinaccia, in preda alle risate scaturite da chissà quale pensiero. Quelle risa mi suggerirono che la bionda doveva conoscere molto bene quel poveretto che adesso si ritrovava senza motocicletta.
Mentre spegneva la sigaretta in un bicchiere adagiato al tavolino, Nancy torno in sé e disse: – Beh.. comunque, benvenuta nella nostra piccola dimora tesoro. – Sfoggiò un sorriso che oscillava tra la gentilezza e la strafottenza alla mia presenza, augurò la buonanotte e con una camminata traballante si ritirò in camera.
Stephanie mi guardò con una faccia buffa che mi fece capire quanto la sua amica fosse nella fase post-sbornia, scusandosi per il benvenuto un po’ strambo. La rassicurai con una scrollata di spalle, dicendo che non ero una di quelle signorine altolocate che se ne fa di questi problemi e ringraziai per le coperte che mi porse.
– Siamo a Londra Est, qui i tipi come lui li conoscono tutti – mi fece sapere Stephanie, quando le chiesi se conosceva quel Paul. I tipi come lui? I delinquenti intendeva dire. – E poi suona il basso una band.. I Clash, conosci? –
Anche se durante il giro in moto Paul mi aveva già accennato qualcosa sul suo gruppo, quando scossi il capo dicendo che non avevo mai ascoltato nessuna delle loro canzoni Stephanie mostrò un’espressione sbalordita, quasi come se avessi fatto chissà quale affronto alla corona. La musica rintronante di quei tipi al Crunchy Forg non mi aveva entusiasmata granché, così potei capire anche solo vagamente di che musica si trattasse: il punk rock non era nei miei gusti musicali preferiti.
Il cuscino dalla forma di una salsiccia si scaldò in un attimo a contatto con il mio viso. Con gli occhi vaganti sul muro bianco m
i ritrovai a fissare il soffitto, macchiato dalla polvere e dalle ombre degli oggetti. Il ticchettio dell’orologio appeso al muro mi cullò fino a quando, sfinita, potei finalmente addentrarmi nel mondo dei sogni.

Niente grida, nessun suono di piatti in frantumi, né porte che sbattono. Il paradiso. Il mio risveglio fu senza dubbio meno traumatico del solito. Solo una luce fastidiosa rifletteva sul divano sopra al quale ero distesa, accarezzandomi le spalle nude e colpendomi il viso.
Non ricordavo cosa sognai, probabilmente nulla. Fu insolito, perché io sognavo spesso. Nelle notti più buie qualcuno bussava alla porta dei miei pensieri, ma non sempre mi ritrovavo di fronte la fata turchina o il gigante buono. Erano sempre gli orchi cattivi quelli a darmi la caccia, ed io correvo, correvo forte. Correvo quanto più in fretta possibile ma la strada davanti a me, oscura e senza forma, diventava sempre più infinita, senza sbocchi secondari, senza l’ombra di una via d’uscita. Forse ero così stanca per via della giornata precedente trascorsa a gironzolare tra una strada e l’altra, che l'inconscio non ebbe nemmeno la forza di abbandonami all'immaginazione.
Mi stiracchiai e aspettai un istante, giusto il tempo che gli occhi si abituassero almeno parzialmente alla luce e riuscii a focalizzare la stanza e il corpo esile di una ragazza dai boccoli color miele. Lei doveva essere Grace, la cugina di Stephanie. Intenta a pulire i fornelli della cucina mi sfoggiò un sorriso gentile, studiandomi con due occhietti scuri nascosti dietro un paio di lenti dalla montatura marrone. Aveva l’aria della classica studentessa mattiniera, un po’ rompiscatole, fissata con le pulizie e l’uncinetto. La notte precedente già dormiva da un pezzo, e non vedendomi fare irruzione in casa non aveva idea di chi fossi, né del perché fossi piombata lì.
– Quindi sei la nostra nuova coinquilina! – asserì con eccessivo entusiasmo, quando le raccontai dell’incontro con sua cugina e con un certo Paul Simonon...
– L’ho già detto a Stephanie: solo il tempo di trovare un’altra sistemazione e andrò via. –
La studentessa dall’aria allegra, mi rassicurò dicendomi che il divano era libero per quanto tempo volevo e che la mia presenza non era solo un piacere, ma anche un aiuto in più per far più baccano e recare fastidio ai vicini antipatici. Mi sorrise con una cordialità alla quale non ero abituata, mi versò del tè in una buffa tazza gialla e disse: – Ma adesso parlami di lui! Non lo conosco granché.. sono così curiosa! –
A sentire quelle parole desiderai ardentemente di incontrare ancora quel viso d’attore, e quegli occhi scintillanti che ormai avevano preso già il dominio dei miei pensieri. Paul aveva l’espressione perennemente dura che s’addolciva solo quando rideva. Sembrava che non si forzasse nemmeno un po’ per risultare disinvolto ed attraente. Lui attraeva e basta, con un battito di ciglia senza neanche accorgersene. Perché ero ammaliata dal suo modo di essere così dannatamente bello? Pensai che forse era bello quanto stronzo, e chissà se era soltanto la linea perfetta del suo collo magro a farmi quell’effetto. Forse se a distinguerlo non avesse avuto quel piccolo spazio tra i due incisivi, non mi sarebbe parso interessante. Magari se lo avessi conosciuto in circostanze più normali, o se qualcuno avesse tentato di affibbiarmelo a tutti costi come fidanzato, non mi sarebbe piaciuto più di tanto. E forse se lo avessi incrociato per strada, o visto di sfuggita in un bar, non mi sarei nemmeno voltata per lanciargli un’occhiata furtiva, e forse… ma a chi diavolo volevo darla a bere!

Dopo aver elencato tutti i brani dei Beatles e tutti i titoli dei suoi libri gialli, Grace uscì per recarsi in biblioteca come di routine. Non si può stare mai tranquilli in questa casa, aveva detto.
La giornata stava passando noiosa tra una doccia bollente, biscotti al limone e riviste di moda che trovai sullo scaffale in bagno. Stephanie, che appena varcata la soglia della camera da letto aveva i capelli più diritti di un’antenna, mi propose di fare un salto al supermarket per mettere a tacere il brontolino dello stomaco e riempire il frigo deserto. – E’ proprio qui, all’angolo – indicò fuori dalla finestra.
L’idea di stare chiusa in casa tutto il santo giorno in attesa del fatidico nulla non mi parve interessante, così mi vestii rapidamente, infilai le converse e la giacca, ed uscimmo sotto il cielo ombrato di Londra lasciando Nancy ancora dormiente.
 




Note finali

Ho scelto come titolo del capitolo Beautiful and damned perché qui abbiamo un Paul Simonon che nei pensieri più segreti della nostra Alex viene etichettato proprio con tali aggettivi: "bello" e "dannato". E questi credo s'incastrino alla perfezione con l'atteggiamento che mostra il nostro bassista, no?
Per voi che invece attendete un incontro tra Alex e Johnny, immagino vorreste uccidermi perché come avrete notato la storia inizialmente procede a rilento, mettendo in primo piano quello che capita alla protagonista, lasciando da parte il tanto atteso John e di lui al momento nemmeno l'ombra. Ma non disperate, perché il Signor Marcio arriverà in un capitolo chilometrico tra: 3, 2, 1 ...

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Capitolo 4
*** 100 Club ***


Capitolo quarto
100 CLUB

Johnny’s pov:

– Hey ragazzi, siete pronti? Abbiamo fatto il pieno di gente! – La voce di uno degli organizzatori parlò da dietro la porta, facendo ululare Steve come un imbecille. L’idiota era appena uscito dal bagno, e quell’urlo che lanciò mentre si tirava su i pantaloni era per lui come un atto scaramantico prima dell’esibizione. 
Il palco stava aspettando solo noi. 
Un boato di caos rimbombava nell’enorme sala, incrementando la mia voglia di cantare. Tra le persone dalle facce sballate che dimenandosi e saltando tentavano di guardare meglio sul palco, notai il viso impiastricciato di Vicki. Era già in prima fila, con il mio nome scritto sulla scollatura straripante: un altro patetico e inutile teatrino al fine di attirare l’attenzione su di sé. Recentemente mi aveva fatto promettere che quando avessi suonato al 100 Club avrei dovuto salutarla dal palco prima di iniziare a cantare: uno dei suoi capricci sciocchi che, ovviamente, una volta acceso il microfono non accontentai. Quando avevo acconsentito a quella scempiaggine ero ubriaco fradicio, e quando mi ubriacavo come un ossesso avevo gravi difficoltà a gestire ciò che dicevo. Qualche settimana prima avevo già respinto le penose avance di Nancy Spungen, non mi sarei fatto problemi a scollarmi di dosso anche Victoria Fitch e rispedirla nel circolo delle battone. Insomma, il fatto che ogni tanto mi lasciava l’ingresso libero alla passera non voleva dire che un giorno le avessi fatto la proposta di fidanzamento!
Prima che potessi anche solo rendermene conto, avevo completamente accantonato ogni pensiero frivolo, dedicandomi anima e corpo alla canzone. Ero carico, pronto a dare il meglio di me e vagamente di buon umore grazie al suono degli strumenti che mi trivellava il cervello. Era sempre la stessa sensazione elettrizzante, che ogni volta m’imballava lo stomaco arrivando diritto alla materia grigia e facendomi sentire invincibile, pieno di vita. Pura adrenalina, oserei dire. Non esisteva emozione paragonabile a quella che sentivo vibrare sotto la pelle, neanche il sesso. Ogni volta che guardavo quella folla scatenata come un mare in tempesta mi sentivo esplodere. C’era chi sniffava, chi se la sparava in vena, chi faceva un salto a testa in giù da una scogliera, a me bastava impugnare un microfono per sentirmi immortale.
Durante la breve pausa della prima canzone, vidi Steve e la sua Gibson allontanarsi dall’amplificatore e avvicinarsi a me. Per un momento temetti che volesse dirmi qualcosa del tipo “dobbiamo sloggiare” oppure “c’è un guasto alle casse”, ma quel suo sorrisino degenerato mi collocò a tutt’altro argomento. Come mi disse di fare, guardai in direzione della seconda fila a sinistra. Dopo una breve panoramica, tra quello sciame di punk riuscii a localizzare i capelli inconfondibili della Spungen. La bionda ossigenata era in compagnia delle sue amiche del Bromley, e con loro c’era qualcuno che non avrei mai creduto di poter rivedere ancora una volta. Ebbi l’assurda sensazione che la mascella inferiore stesse staccandosi dalla mia faccia per schiantarsi sul pavimento del soppalco. Solo Steve arrivò a scorgere quella metafora disegnata nei miei occhi, e ghignò in modo più maniaco del solito: era davvero strafatto. Il plettro della chitarra graffiò la prima nota della seconda canzone, preceduto dalle bacchette potenti di Cook, ed io non avevo ancora la forza di scollare gli occhi dall’ammessa fidanzata di Tony James.
Fidanzata o no, quel dettaglio non aveva alcuna importanza per me. Le avrei parlato quella sera stessa, in un modo o nell’altro. Questa volta non mi sarei tirato indietro, a costo di fare la figura dell’imbranato.



Alex’s pov:

Prima di allora non ero mai stata ad un concerto. Esclusa quella volta durante la sagra della birra nel parco di Bristol, con l’indesiderata compagnia della mia tutrice e il suo ex-coniuge.
“100 Club”: questo era il nome del night in cui mi avevano trascinata Stephanie e Nancy, dicendomi che si sarebbero esibiti amici di amici, una band del momento. Anche Grace ci avrebbe raggiunto, dopo il pomeriggio passato nella biblioteca in centro. Per convincermi, Nancy mi provocò dicendomi che se mi fossi divertita - al contrario di come avevo previsto - avrei dovuto scontare un pegno. Perciò accettai: ero fin troppo sicura di scamparla. Il punk rock era solo del baccano per me, altro che musica!
Eravamo già alla prima canzone, e l’orologio da polso appartenente a uno sconosciuto che mi stava accanto segnava le 8:30 pm. Ebbi l'occasione di guardare l'orario perché quel tipo dalla cresta ossigenata non faceva altro che urtarmi con la scusa di saltare per riuscire a guardare sul palco.
– Hey idiota, vedi di piantarla! – sbottò Stephanie al tizio dell'orologio, che stava infastidendo anche lei. – Oh mio dio Nancy, hai fatto una rapina al barman! – disse poi sarcastica, quando vide l’americana ritornare insieme ad un rifornimento di bevande stretto al petto. Come risposta Nancy allargò le labbra in un sorriso a trentatré denti. Probabilmente le uscite serali la mettevano di buon umore, perché Nancy Spungen raramente sorrideva in quel modo brioso. Mi porse la bottiglia più grande, facendomi l’occhietto: – Vodka? –
– No grazie, adesso non mi va – rifiutai gentilmente. Non ero mai stata particolarmente estasiata dall’alcol.
– Non mi dire, la nostra Gracie ti ha convinta con la storia della ragazza sobria che attira gli uomini? – insinuò la bionda.
– Certo, considerando che è stato provato statisticamente – ci istruì la stessa Grace.
– Statisticamente è stato provato anche che sei un’astemia rompicoglioni! – la punzecchiò sua cugina Stephanie, facendoci ridere.
– Zitte, zitte! Ecco che ricominciano! Wouh! – Nancy mi aveva traumatizzato l’orecchio con quell’urletto. Ero indecisa se perdere l'udito per via sua o per lo strazio che quella sera aveva deciso di propinarmi.
Quando un armadio davanti a me alto circa due metri decise di spostarsi altrove, mi lasciò una visuale più chiara dello spettacolo al quale stavo assistendo. Il cantante dalla chioma centrifugata sequestrò la mia attenzione più degli altri membri della band: quei capelli arancioni non mi erano nuovi, e un flashback molto recente riaffiorò nella mia mente: il Crunchy Frog! Il giorno prima me ne stavo seduta sulla moto di Tony James fuori dal pub quando un gruppetto di teppistelli mi passò davanti facendomi una radiografia dalla testa ai piedi. Fino a qui nulla di bizzarro se non fosse per il fatto che, quei tipi, adesso erano davanti ai miei occhi ad improvvisarsi concertisti. Meno uno, il bassista, che lo vedevo lì per la prima volta.
– Ma quelli li ho già visti! – meditai ad alta voce.
– I Sex Pistols? Non mi dire, non si parla d'altro! – urlò Grace, cercando di sovrastare i suoni degli strumenti. Peccato che secondo la mia onesta opinione, quei Pistols, di sex non avevano proprio nulla.
– Il chitarrista è un depravato, vero? – le chiesi in confidenza, scrutando il soggetto: glielo si leggeva proprio in faccia. Grace rise alla mia domanda ironica, forse anche alla vista della mia espressione stomacata. Mi riferivo al complimento velato di malizia che ricevetti da quel ragazzo che adesso si dilettava con la chitarra, quando lo vidi in compagnia dei suoi amici strampalati. Ma nessuno, comprese le ragazze, era a conoscenza di quel casuale incontro.
– Si chiama Steve Jones – mi fece sapere la studentessa. – Il biondino alla batteria è il suo migliore amico: Paul Cook. Quello al basso mi pare si chiami Glen, non ci ho mai parlato. E il rosso col microfono si fa chiamare Rotten! –
... che sottospecie di soprannome!
– Ma non ce l'ha un nome normale? –
– Sì, Johnny. Lui è un tipo.. particolare, non sai mai se faccia sul serio o meno! –
Come non crederle! Con quella faccia da schiaffi che si ritrovava c'era da aspettarselo.
– Sembra pericoloso – commentai da pettegola, considerando come sgranava gli occhi.
Grace Campbell mi guardò come se avessi appena detto l’esatto contrario di ciò che pensavo, poi sorrise semplicemente. Quella ragazza era un tipo davvero attento, oltre che pignolo. Quella mattina, al mio risveglio, mi erano bastate poche chiacchiere per capire quanto fosse sensibile, dolce e con un sesto senso impeccabile. Grace era il classico tipo al quale non si poteva nascondere nulla. Aveva il potere della sensibilità e con essa ti leggeva dentro. Ed era così terribilmente annoiata che a momenti credevo si sarebbe rifugiata in qualche angolo a contarsi i capelli. Decisi quindi di smuovere le acque: afferrai i suoi fianchi simulando dei movimenti vagamente sexy e lei scoppiò a ridermi in faccia, forse per la sorpresa, o forse a causa dell'imbarazzo. Dopo una lunga insistenza da parte mia e di sua cugina, la timida Grace si decise a scatenarsi con noi. Adesso non era più un pezzo di ghiaccio incapace di sciogliersi, e anzi, dimostrò il meglio di sé arrivando persino a slegare i capelli raccolti accuratamente nel fermaglio a forma di fiore.
Da più di dieci minuti quella musica a momenti orecchiabile e a tratti rintronante andava avanti senza lunghe interruzioni. Il chitarrista emise un dolce e melodioso rutto che dal microfono fece eco in tutta la struttura. Quello doveva essere interpretato come un finale epico del brano? Mi resi conto che, quei Pistols, per quanto potessero apparire nel complesso … originali, un branco di cani rognosi sarebbe stata una compagnia decisamente più gradevole quella sera.
– Questa è "Liar", mi piace da matti! – tuonò Nancy ballando, o meglio, saltando accanto a me.

Now I wanna know, now I wanna know why you never look me in the face, broke a confidence just to please your ego, should've realised you know what I know, you're in sunspension! You're liar! 
"Sei bugiardo!" cantava il rosso, o strillava. Cantilenava con voce a tratti roca in modo lamentoso, quasi come se il microfono gli stesse strappando con forza le parole dalla gola. Povere le sue corde vocali! Ero sicura che avessero bisogno di una botta d'olio al termine della performance. Lo vidi scrutarmi da lontano con i suoi occhi sgranati da scienziato pazzo. Mi guardava come se le sue stupide strofe fossero indirizzate a me soltanto. Maledetta Nancy, maledetta lei e le sue conoscenze. Era proprio necessario sostare adiacente al palco? Ero così vicina a quel tale che, anche se mi sforzavo di non notarlo, potevo ben percepire il suo sguardo ostinato appiccicato alla pelle. I suoi occhi puntati addosso furono capaci di causarmi un senso di disagio. Riuscii a reprimere quella sensazione, e mi concentrai sulla canzone che tutto sommato si rivelò orecchiabile proprio come avevano detto le mie amiche. Il pezzo con la chitarra elettrica protagonista mi fece venir voglia di saltare ancora, ma non lo feci. Sapevo che lo sguardo di qualcuno stesse vagando ancora dalle mie parti, e non avevo alcuna intenzione di dare altro spettacolo.

Nancy aveva i piedi doloranti, colpa di quei tacchi che si ostinava ad indossare. Io e le altre la seguimmo a destra del palco alla ricerca di una sedia sulla quale avrebbe potuto sedersi. Mano nella mano con Grace, mi ritrovai nel retro, lontano dalla folla, dove i suoni degli strumenti erano meno amplificati e le persone non erano ammassate tra loro come bestie in un gregge. Chi in piedi, chi seduto su delle cassapanche, c’era chi parlottava tra loro ascoltando il concerto da lontano. Conobbi un gruppo di ragazzi del Bromley, il noto sobborgo dove vi era il nostro appartamento. Conobbi anche Siouxsie, una ragazza dall’aspetto eccentrico, un tipo dai capelli rasati di cui non avevo capito il nome, e Linda, intima amica di Stephanie e lesbica di professione che prima di me divideva l’abitazione con le ragazze. Grace mi confidò che dopo un’animata lite con Nancy, Linda decise di trasferirsi nell’appartamento di quel Rotten, con il quale andava molto più d’accordo.
Il concerto era appena terminato e di Paul Simonon nemmeno l’ombra.
Ero quasi morta dalle risate a causa delle battute stupide di un certo Sid, detto “Vicious”, uno spilungone dai capelli scuri come la notte e dalla risata facile che continuava ad inveire su Linda. Mentre ero presa dalle sue istruzioni su come rollare uno spinello perfetto, una voce squillante sovrastò il suono di quella di Sid, pacata e trascinata: – Hey Nancy! –
Quella voce nuova si rivelò appartenere ad una ragazza dalla capigliatura corvina, riccia e cotonata. I suoi piccoli occhi azzurri, che spiccavano perfettamente sulla pelle olivastra, mi guardarono di sottecchi come se fossi un bersaglio in lontananza, qualcosa da studiare prima di colpire. Nancy non le rispose, si limitò a sfoggiare un sorriso costretto. Non doveva esserle molto simpatica.
– Sid, dov’è Johnny? – chiese allora la ragazza, ignorando il disinteresse della bionda.
– Non lo so, sarà qui intorno.. – bofonchiò quello, vago.
Vicki non si trattenne ancora e sparì oltre la tenda che ci divideva dal palco, improvvisando una camminata da modella.
– Dove si saranno spacciate quelle due?! – sbuffò Nancy insieme al fumo della sigaretta. Proprio come se l’avesse previsto, le due cugine fecero ritorno portando con loro delle lattine di birra.
 – Cosa ci fa qui Victoria? – domandò Stephanie che aveva visto il soggetto allontanarsi. – Credevo fosse al pub a sbavare dietro ai Clash – si rivolse poi a Sid. Lui scrollò le spalle, strafottente, ed io avevo appena scoperto dove si trovasse Paul Simonon.
– Forse la stronza avrà saputo che Alex è nuova qui in zona – ipotizzò Grace. Quella era la prima volta che le sentivo articolare una parolaccia!
– Per poco non mi ammazzava con gli occhi. – Fui fermamente convinta che quella Vicki desiderasse linciarmi.
– Probabilmente avrà saputo di te e Simonon.. – mi guardò Nancy, maliziosa al solito, porgendomi la lattina appena aperta. – La sciacquetta ha solo paura che qualcuna le rubi la scena, non darle retta. –
Mi bastarono due birre per diventare brilla dalla punta dei piedi fino a quella dei capelli. Per non parlare della vescica che stava implorandomi pietà e che di sicuro sarebbe scoppiata se avessi mandato giù un solo altro sorso. Non ero affatto abituata all’effetto dell’alcol. La mia indole placida e l’autocontrollo sempre impeccabile fortunatamente mi aiutarono a non darlo a vedere. 
Ho bisogno della toilette, subito.
Tirai un sospiro di sollievo una volta superata quella marmaglia puzzolente che sostava nel lungo corridoio dei bagni. Inutile dire che dovetti trattenere il respiro mentre mi sollevavo la gonna di jeans e mi prestavo ai miei bisogni, nauseata dal puzzo insopportabile di scorie organiche. Recatami ai lavandini deserti, nel riflesso dello specchio potei vedere entrare la ragazza dalla scollatura in primo piano che avevo avuto il (non) piacere di incontrare pochi minuti prima: Vicki. Era scortata da una ragazza bassina e dalle forme molto abbondanti. Il mio sesto senso mi fece pensare che quella fosse la tipica ragazza-tappetino che si lascia manipolare, e magari anche calpestare dall’amicona stronza e piena di sé, che le fa credere di essere la sua amichetta del cuore. Sì, l’amicona stronza e piena di sé in quel caso era proprio Vicki-ho-due-tette-fantastiche.
– Così.. tu sei Alex? – cominciò quest’ultima, squadrandomi dalla testa ai piedi. Quella non era una domanda.
– Mmh.. mi aspettavo di meglio.  Mi parlò non solo come se volesse fare dell’ironia, ma anche come se avesse sentito già parlare di me e che avesse aspettato il momento perfetto per venirmi a fronteggiare. Mi risparmiai una risposta, che palesemente lei già conosceva e la guardai ammutolita aspettando il seguito, se ci fosse stato. E c’era:
– Credo che questa sia la prima e unica volta che ti parlerò, perché non ho intenzione di tornare sull’argomento, chiaro? 
– Ma di cosa diavolo stai parlando? – domandai perplessa. Volevo capire se quella ragazza stesse solo cercando di fare la bulletta per gioco, con quel dito che mi sventolava a un palmo dalla faccia, o se mi avesse scambiata per qualcun'altra.
– Lo sai benissimo, tesoro. Hai avuto l’occasione di conoscerlo, ma non illuderti di essere speciale. Non te l’hanno detto le tue amiche? Quel misero bacio non vale niente, perché Simonon non è disponibile! – asserì, convinta e maligna. 
Questo lascialo dire a lui,
 pensai.
– Se non vale niente, allora perché sei venuta a farmi la predica? – assodai con logica coerenza.
La ragazza tentò di intimorirmi avanzando verso di me, ma io non potei indietreggiare perché avevo il bordo del lavandino attaccato alla schiena e che stringevo nelle mani. 
– Senti, ti sto solo dando un consiglio: fatti da parte – minacciò,  – e tieni lontano da Paul Simonon quelle mani da finta verginella altrimenti ti rispedirò a calci in culo in Tasmania o da dove sei venuta! –
Proprio in quell’istante, qualcuna troppo sballata da accorgersi di quelle lampanti intimidazioni fece irruzione nei bagni affrettandosi a vomitare in una delle tazze. Vicki mi sorrise da strega e si congedò, seguita dall’amica-tappetino che era stata muta per tutto il tempo e che probabilmente aveva solo il ruolo della coda.
“Probabilmente avrà saputo di te e Simonon..”. Mi domandavo quali problemi affliggessero quella scapricciata di Nancy! Era proprio necessario spifferare a quella ragazza del mio bacio con Paul? Era proprio indispensabile fare la vipera pettegola? O forse mi stavo sbagliando. Forse Nancy non aveva aperto bocca ed io avevo solo frainteso le sue parole quando mi aveva consigliato di non dar retta a “quella sciacquetta” di Vicki. E se fossero state Stephanie e Grace? O Paul? Paul, è stato lui, mi suggerì una vocina nella mia testa.
Scortata da qualcosa che rassomigliava all’agitazione e alla rabbia scaturita da quelle assurde minacce che non avevo obbiettato, mi ritrovai seduta al bancone del club che fronteggiava il palco, abbastanza lontano dal retro. Al momento non avevo nessuna intenzione di ritornare dalle ragazze e fare come se nulla fosse accaduto.
– Una birra, grazie. – Neppure io sapevo da quale sacca immaginaria avevo tirato fuori quelle parole. Alex Martini che gioca a fare l’adulta ordinando una birra seduta su uno sgabello di un Night Club gremito di punk maleodoranti, chi l’avrebbe mai detto! Forse un altro poco di stordimento mi avrebbe aiutato a dimenticare in fretta quell’umiliazione, che seppur non pubblica, era pur sempre una mortificazione personale subita in quei bagni maledetti! Sentivo solo il bisogno di bere qualcosa di forte, ma il personale sembrava essere duro d’orecchi.



Johnny’s pov:
 
– Rotten, perché non ti diverti un po' anche tu? – mi propose Cook, guardando la mano di Steve infilata nei collant dell’amica di Linda, Rory. O il suo nome era Rosy? ...bah, come se questo m'importasse! – Ho adocchiato la ragazza della moto, prima. Io ci farei un pensierino.. – continuò il biondino, attaccandosi alla bottiglia come le api sul miele, o meglio: come Steve ad un fumetto porno.
– Nah.. Ci vuole qualcuna che.. non lo so, una che gli dia una bella svegliata! – intervenne l'altro. – Secondo me quella è troppo suora per Johnny.
Non mi pare che qualcuno avesse chiesto il suo parere.
– Sempre meglio delle bagasce che vai rimorchiando tu, Jones – soffiai insieme al fumo. Improvvisai poi un sorriso ironico, indirizzato alla ragazza che gli stava attaccata al braccio, forse troppo stupida o fatta per cogliere la mia offesa indiretta. – E comunque non ho bisogno di agenti matrimoniali. Sto bene così.
Al diavolo Steve, al diavolo Cook, e al diavolo anche Vicious insieme a quella squinternata della Spungen! Con quei due piccioncini tra i piedi da dove avrei pescato il coraggio sufficiente per avvicinarmi alla ragazza della moto? Steve la faceva facile, perché era naturale per lui presentarsi con un sorriso da cretino stampato sulla faccia e dire: "Ciao bellezza, sono Steve Jones, ti va di sganciarmela?". Non era nella mia indole assumere un atteggiamento simile, ecco perché la fobia di fare la figura dell'imbranato mi perseguitava da circa una vita.
Ero così annoiato che per un momento fui anche tentato di girare i tacchi e seguire Glen alla sala di biliardo. E questo mi fece pensare quanto fossi disperato. Mi sarebbe bastato oltrepassare il palco, spostare quella maledetta tenda e andare a parlarle. Invece no, continuavo a starmene col culo inchiodato al divano di quel camerino affollato di persone.
– E’ vero Rotten, divertiti! La vita è fantastica! Perché sei sempre incazzato? – s’intromise Rosy, o qualsiasi fosse il suo nome era irrilevante per me.
– E dimmi, cosa ci sarebbe di così eccezionale nella vita? – chiesi con la sicurezza di chi conosce già la risposta. 
– … Umh.. beh.. – 

– Oltre a farsi scopare da chiunque, ovviamente! – mi affrettai a precisare, sarcastico. L’amica di Linda aveva l’espressione di chi sta cercando qualcosa di interessante da dire, e uno sghignazzare di risate scoppiò. Dovetti trattenere una minaccia di vomito alla vista di quella sbaciucchiarsi con Steve intanto che si voltava ad ignorarmi. Che schifezza!  
– Fanculo, vado ad ubriacarmi – sibilai alzandomi. Spensi la sigaretta in un bicchiere, e fortunatamente nessuno mi seguì.

Ero davvero stufo di non poter nemmeno parlare con il mio migliore amico, tra uomini e in santa pace, senza la sgradevole compagnia dell’americana ossigenata.
– Una birra, Rob – ordinai quando arrivai alla cassa del bancone. Nell’attesa del carburante per il mio stomaco, il mio sguardo un momento prima vagante, catturò l’immagine della ragazza della moto: era completamente sola, finalmente. Sedeva su di uno sgabello posto a un paio di metri lontano da me, il gomito poggiato al ripiano e l’aria avvilita. Chissà perché aveva deciso di allontanarsi dalla sue amiche.
– Perché lui sì e io no? – protestò d'un tratto, brontolona come una bambina, rivolgendosi all'uomo pronto a servirmi. No, non era affatto avvilita, era indispettita da qualcosa di cui io non ero a conoscenza.
– Dovresti mostrarmi un documento, prima – disse Rob, parlando proprio come si fa ad una bambina.
– Sono abituata a bere! – sputò acida lei, mentendo visibilmente. – Cosa c’è, solo perché non ho un chilo di trucco sulla faccia dovrei essere minorenne? – L’acidume che stava sprizzando da tutti i pori dipinse l’atmosfera. Probabilmente aveva ragione, ma anche se avesse avuto davvero la maggiore età, con il suo visino pulito avrebbe sempre dimostrato qualche anno di meno.
– Ho cambiato idea: facciamo due, Rob. Stasera devo offrire da bere – riordinai, serio. Il barman decise di non replicare ai capricci di quella principessina, annuì perspicace ed estrasse un’altra birra dal frigo nascosto sotto il bancone, poi mi disse:
– La band non paga mai, buona serata. –
Ringraziai e riposi le monete, aprii una delle due lattine e ne feci un sorso. Quando percepii uno sguardo familiare puntato addosso mi voltai a ricambiarlo mostrando un sorrisino derisorio e, qualcosa in quegli occhi color cioccolato che incrociai, mi fece pensare che quella ragazza doveva proprio avere un’insana voglia di perdermi a sberle. Ciò bastò ad allargare il mio sorriso e ad alimentare la maledetta voglia che avevo di conoscerla. La vidi ignorarmi, saltare giù dallo sgabello e dirigersi verso l’uscita. Per caso mi stava snobbando? Mi sentii provocato. Così, mosso forse dall’illusione che con due birre tra le mani sarei sembrato meno scemo, la seguii, controllando intanto che in giro non fosse in agguato quella gatta morta di Victoria Fitch.
Il freddo pungente della notte m'investii, infiltrandosi ovunque e pizzicandomi la faccia. Mi fermai sotto l'arcata dell'uscita, affiancando la ragazza che teneva le braccia incrociate al petto. Quando le porsi la lattina sigillata senza prestarmi a guardarla, potei sfiorare le sue dita gelate come il marmo.
– Che ti succede? – le domandai, cercando di cambiare atteggiamento. Il vento leggero le accarezzava qualche ciocca di capelli fuoriusciti dalla treccia. Mi guardò per un attimo stranita, poi scosse le spalle, pensierosa. Forse non aveva molta voglia di parlare. 
– Volevo starmene un po’ da sola. C’è troppo casino lì dentro – si giustificò, prima di fare un sorso alla lattina che aveva appena aperto. Aveva un forte accento del sud, e il suono argentino della sua voce mi deliziò l’udito. 
Volevo farle una montagna di domande, ma ne inghiottii parecchie promettendomi di reprimere la mia solita invadenza e di non fare qualche madornale figuraccia alla Jones.
Proprio mentre stavo per chiederle quale fosse il suo nome, da dove venisse, se gli fosse piaciuto il concerto o qualcosa di stupido per rompere il ghiaccio, le parole si seccarono nella gola alla vista di Steve, che spuntando dall'uscita del club fu seguito da una marmaglia di gente che, in quel momento, avrei desiderato chiudere in un sacco e gettare a calci in culo giù dal London Bridge. Tempismo perfetto!
– Alex! Ecco dov'eri finita, ti ho cercata ovunque! – disse la cugina di Stephanie Rocke, scrutandomi poi malamente.
– Tranquilla Gracie, Rotten non morde – la tranquillizzò l’altra, molto simpatica.
Ignorai quella battutina, e come probabile risposta sputai oltre il margine del marciapiede. Fottuti stronzi.

– “Alex”? Una ragazza con un nome da maschio, che spasso! – parlò Steve, che con la bava alla bocca mi diede una spallata innocente.
Alex sorrise da ingenua, poi si rivolse all’amica: – Torniamo a casa, Steph? –
– No, andiamo tutti a casa di Cook. Suo padre ha un giradischi pazzesco! –
Me ne stavo con le mani infilate nelle tasche della giacca a imprecare mentalmente su quanto quella combriccola di idioti fosse saltata fuori nel momento meno opportuno, e posai sul cofano di una macchina parcheggiata accanto a me la lattina di birra che avevo già svuotato da un pezzo.
– Avanti ragazzi, aiutatemi con questo morto! – incitò l’amica di Linda, che avvolta nel suo trance grigio tentava di sorreggere la ragazza ubriaca.
– Ci penso io, Ronny – la soccorse Cook. Ecco come si chiamava la battona!
La casa di Cook distava dieci minuti da lì. Ogni fine settimana i suoi genitori partivano per la montagna a casa di parenti. Con la scusa di odiare la neve, Cook si scampava la noiosa vacanza in famiglia per organizzare qualche raduno tra amici nel suo salotto. L’ultima volta, mentre Sid faceva il coglione con la sua fionda fece rompere il vaso cinese che la padrona di casa teneva esposto sul tavolo. Cook, nonostante la sbronza che lo rendeva impedito, dovette passare il resto della serata ad incollare il gingillo pezzo per pezzo. A proposito: – Dov'è Vicious? –
– Da qualche parte con Nancy – mi rispose Cook, mentre aiutava Linda che non riusciva nemmeno a reggersi in piedi. Tra le gambe di Nancy, magari.
Prendemmo la metro, spettrale e deserta come ogni volta a quell'ora. Solo un innocuo fattone occupava un posto a sedere. 
Accasciato con la spalla alla parete della metro, guardavo Alex annuire e sorridere ai discorsi di Steve mentre stropicciava tra le dita sicuramente fredde il nastro blu della sua lunga treccia. Non avevo mai visto una ragazza del genere in vita mia, capace di rivelarsi così intrigante anche solo respirando. Lei doveva essere una di quelle persone che sanno ascoltare, che passano il tempo a rimuginare su se stessi e a cercare ogni difetto, invece di guardarsi intorno per rendersi conto di quanto faccia schifo il mondo. Una di quelle un po’ impenetrabili, una di quelle da rincontrare ancora perché leggerle al primo sguardo è un’impresa ardua.





Note finali

Giuro che non m'impegno nemmeno per tirare fuori questi capitoli così lunghi, anzi, cerco sempre di accorciarli quanto possibile al fine di non annoiarvi..
Intanto il destino ci si mette di dovere per tenere Johnny lontano da Alex. Questo fa disperare anche me, credetemi. Ah.. questi amici guastafeste che si vedono sempre nei momenti del "non bisogno"! Che cosa succederà mai in seguito, tenendo presente che i nostri protagonisti si dirigono a casa dello scatenato batterista Paul Cook? Lì di certo Alex non potrà sfuggire allo sguardo tagliente del famigerato Rotten. E speriamo che la timidezza di quest'ultimo non abbia la meglio! 
Detto ciò, mi dileguo a bere il mio tè della mezzanotte circa - perché io devo sempre distinguermi dalle persone normali, ovviamente - e a scervellarmi sul perché Bella Swan si lasciava così piacevolmente massacrare dall'ente sconosciuto che le viveva in corpo. Che ragazza stramba!

A presto, miei cari punkini! (Che detto così ... fa un po' schifetto)

Vostra, Ninfea in mare

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