Keys to the Kingdom

di Ryuke
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Premio ***
Capitolo 2: *** Prime Pagine ***



Capitolo 1
*** Premio ***


PREMIO

Washington, 19 set. 2015

No, you don’t know what you’ve got, ‘till it’s gone.” 1

 

-E’ con immenso onore che chiamo dunque sul palco, il soldato speciale Solomon Andrew

Un applauso fragoroso seguì alle parole del presidente Waldrik, mentre Ace2 saliva le scalette di legno situate alla sinistra del palco. Il suo passo era sicuro, ma il suo sguardo cupo era rimasto al suolo per tutto il tempo. Non voleva dare a i suoi occhi la possibilità di tradirlo, di trasformarsi in specchio che dalla sua anima tirasse fuori i suoi sentimentalismi. I folti capelli rossi di una volta ormai da tempo avevano lasciato spazio alle rasature precise e ordinate richieste dall’esercito.  Una folla di migliaia di persone era scesa per ritrovarsi davanti alla Casa Bianca, per rendere omaggio a quelli che dai media erano stati definiti “gli eroi del medio oriente”. Erano tre, quando partirono mesi prima assieme alla loro unità. Oggi la loro storia l’avrebbero raccontata solo in due.
Il suo incedere si fece più incerto quando fu vicino al presidente. L’ aveva vista solo in televisione fino ad allora, e vedendola dal vivo gli sembrò un’altra persona. Era molto più alta di quel che sembrava, forse era anche merito dei tacchi che indossava, e i suoi occhi verdi sembravano davvero sinceri come i suoi propositi. Si scambiarono una vigorosa stretta di mano. La Waldrik gli sorrise, e dandogli una pacca sulla spalla si fece da parte. Improvvisamente, l’uniforme da cerimonia gli si era stretta addosso. Portò la mano destra al collo, allargando leggermente il nodo della cravatta nera sulla camicia bianca. Con la sinistra invece estrasse da una tasca un foglio stropicciato. Le persone avevano smesso di applaudire e ora aspettavano, in silenzio, che “lo specialista”3 cominciasse a parlare. Si avvicinò con la bocca al microfono, mentre buttava un occhio al foglio.

“Ah… io … - cominciò a balbettare un po’ in difficoltà – vi… vi ringrazio, di essere venuti qui così… così numerosi. Sapete, di tutti i finali, questo è quello che avrei voluto di meno. Noi… noi oggi possiamo star qui, a festeggiare, a sorridere. “evviva ce l’abbiamo fatta” – mimò agitandosi un po’ con le braccia e assumendo un’espressione buffa, per poi tornare improvvisamente serio – ma la verità è che molte, troppe persone sono morte perché questo si realizzasse. Sapete – disse, agitando davanti a tutti il suo foglietto stropicciato – mi ero preparato un discorso. Un bel discorso di quelli farciti con belle parole, ringraziamenti. Tutte le solite cose, no? Ma io… io non ve lo leggerò – disse strappando il foglietto, curandosi che il microfono captasse il rumore delle fibre di carta che si sfilacciavano – perché non un discorso, non una medaglia, non un premio in denaro né qualsiasi altra cosa mi restituiranno quello che ho perduto…

Concludendo così si allontanò dal microfono, andandosi a sedere vicino al suo compagno, il soldato di prima classe Mattew “Die”4 Diamond.
Il presidente riprese la parola, chiedendo un fragoroso applauso per il caporale, che la platea non esitò a concedere. L’America intera quel giorno si era commossa, chi dal vivo e chi da dietro al proprio televisore. Mezzo mondo si era fermato per onorare la memoria di chi aveva sacrificato tutto per il proprio paese. Parlarono anche gli altri, dopo. Un po’ di spazio a tutti. Parlarono gli otto volontari superstiti, tra i quali figurava Julie de la Verandryè, la fidanzata di uno dei soldati morti nel tentativo di liberarli. Una splendida giovane, di ventotto anni. Aveva i capelli castani e gli occhi verdi e pieni di dolore.
Il dolore di un amore perduto.
Parlò Mattew, brevemente, con la voce rotta dal pianto, e infine salì sul palco il colonnello Ridle, per l’elogio al soldato semplice Simon Drake, il ragazzo che si era sacrificato perché i compagni potessero salvarsi. La sua foto era rimasta sul palco per tutto il tempo, su un piedistallo e in una splendida cornice dorata. Era un ragazzo dai lineamenti snelli, con dei ricci neri che gli scendevano arruffati dal capo e la barba lunga ma curata, sempre nera. Al centro del viso spiccavano il naso, molto prominente, e un sorriso genuino accompagnato da quegli occhi castano chiaro sempre pieni di speranza.

-Io, non conoscevo bene il soldato semplice Drake. Ma so che cos’è diventato. Un eroe. Ha messo la vita dei suoi compagni, al di sopra della sua. Ha fatto loro il dono più grande che si possa fare a qualcuno: egli ha donato la sua vita perché gli ostaggi e i suoi compagni potessero tornare a casa, dalle loro famiglie. Un esempio di coraggio, che nessuno mai dimenticherà. Un esempio che noi tutti non dimenticheremo…

La straziante cerimonia, durò in totale due interminabili ore, e si chiuse con gli spari rivolti al cielo dei fucilieri della prima divisione di fanteria, della quale Simon aveva fatto parte. Non ci furono scenate, urla strazianti no, nulla di tutto questo. I genitori di Simon erano morti qualche anno prima. In un brutto incidente stradale. “Cose che capitano” ripeteva sempre lui. Per evitare di parlarne. E i genitori delle vittime civili che avevano perso la vita in quel modo così brutale e privo di ogni dannatissimo senso furono incorruttibili: non uno di loro si abbandonò al dolore o alla frustrazione. Tutti mantennero un esemplare contegno, rotto solo in qualche caso dalla commozione. Ma il simbolo di quella giornata, non sarebbe stato il coraggio del soldato che si era sacrificato, o il racconto di quelli che si erano salvati, né le non-lacrime dei familiari delle vittime, no, null’altro se non gli occhi gonfi di lacrime di un uomo che nella sua unità veniva chiamato “Oppenheimer”5.

 

 

SONO DIVENTATO MORTE, IL DISTRUTTORE DEI MONDIcit.5

 

-Andiamo a farci una birra? – chiese Die.

-Non sono dell’umore – controbatté Ace – e poi non mi sembra il caso…

Il giovane staccò la stella dorata spillata sulla porzione anteriore sinistra della sua giacca,  se la rigirò un paio di volte in mano e poi la infilò in tasca.

-L’abbiamo lasciato li…

-Nessuna missione è troppo difficile… - lo interruppe Die, che a sua volta venne di nuovo interrotto.

-…nessun sacrificio è troppo grande6

I due si guardarono. Ace salutò il compagno con un cenno e fece per andarsene. Tuttavia una voce molto femminile e delicata, richiamò la sua attenzione.

-Andrew, aspetti… - lo chiamò Julie mentre si avvicinava con passo frettoloso ai due. Era una ragazza meravigliosa, molto alta e dalle forme sinuose e armoniche. I capelli mossi le scendevano dietro la schiena, sul lungo abito nero che indossava. Spiccavano dei particolari in pizzo, ovviamente nero, ai bordi delle maniche e della scollatura, molto sobria. Al collo portava un ciondolo a forma di cuore che assorbiva la luce del sole e la rifletteva in altri centinaia di colori splendidi. Tra le mani piccole e delicate stringeva la scatolina blu che conteneva la medaglia al valore di Simon.

-Dammi del tu, Julie – gli rispose Ace fermandosi e voltandosi – dimmi pure

-Tra un paio di giorni – esordì la donna – si ecco…Simon avrebbe compiuto ventinove anni. Un giorno , tanto tempo fa, mi disse che se mai gli fosse successo qualcosa gli sarebbe piaciuto che le persone che gli volevano bene si riunissero per ricordarlo nel giorno del suo compleanno…sono sicuro che vorrebbe ci foste anche voi due – concluse rivolgendosi ai due soldati.

-E’ la tipica stronzata da Simon – commentò Die con una nota di amarezza nella voce – non dovrebbero esserci problemi per quanto mi riguarda… - poi si votò a guardare l’amico.

-Non lo so…io… - balbettò sospirando – non ti prometto niente – concluse infine.

La ragazza sorrise soddisfatta e strinse la mano a Mattew in segno di gratitudine. Si trattava di un giovane molto alto, a differenza di Andrew che era più basso. Aveva un aspetto molto rude e delle mani molto grandi, proporzionato alla sua mole non indifferente. Portava sul viso una barba molto ispida, interrotta sul lato basso da una cicatrice che scendeva fino alla base del collo e sebbene fosse un tipo abbastanza spiritoso, sembrava perennemente imbronciato, specie quando puntava i suoi occhi neri come la pece su chi aveva di fronte con innaturale insistenza.
I tre si separarono, tornando ciascuno alle proprie vite. Non fu facile per nessuno dei tre.
La ragazza aveva passato gli ultimi mesi chiusa in una stanza, legata ed incappucciata, giungendo com’era normale che fosse al limite della follia. Un’insistente paranoia la portava a girare per casa svoltando ogni angolo curandosi che non vi fosse nessuno. Già, perché fu così che la presero. Lei stava uscendo tranquilla dalla tenda dove aveva appena medicato un ragazzo di tredici anni raggiunto da una pallottola, quando uno di quei terroristi la afferrò da dietro l’angolo e la tramortì. Quando si svegliò era rinchiusa assieme ai volontari del suo gruppo in un furgone che viaggiava su qualche strada dissestata. Li, in quel container, scoprì l’odore della paura.
Ace e Die invece avevano passato gli ultimi anni della loro vita a Fort Riley, e anche se poterono tornarci come ex membri del primo reggimento di fanteria, la loro nuova vita da congedati non gli si adattava addosso. La sveglia alla sei del mattino ormai era biologicamente assimilata, e ciò li avrebbe portati a non fare niente per diciassette o diciotto ore al giorno. Cosa difficile quasi quanto trovarsi un lavoro. Die la sera stessa della commemorazione lasciò Fort Riley e se ne tornò in Texas, nella sua città natale. Non salutò nessuno, avvisò solo il colonnello che avrebbe liberato il suo posto a breve.

Così, quando Thomas j. Ridle ebbe raccattato tutto ciò che nelle camerate era rimasto di Simon, andò da Ace.

Il mattino del venti settembre alle nove suonò il campanello della casa assegnata al soldato in congedo con onore Andrew Solomon.

-Chi è? – chiese quest’ultimo da dietro alla porta.

-Sono il colonnello Ridle, Solomon

Ace si affrettò ad aprire la porta, e scattò sull’attenti sulla soglia.

-Colonnello! – esclamò.

-Dai spostati - gli disse Ridle. Teneva in mano un scatolone di media grandezza. Il ragazzo si spostò, lasciando entrare il colonnello e chiudendo la porta dietro di lui. Era un uomo di colore, non molto alto e di una certa età. Il suo fisico non era che l’ombra di ciò che era stato un tempo. Poggiò lo scatolone a terra e si tolse l’impermeabile, rivelando l’uniforme che con orgoglio indossava in ogni occasione. Esibiva sul petto tutte le medaglie eroicamente guadagnate. Si tolse anche il berretto, poggiandolo con cura insieme al cappotto, mostrando la testa liscia e priva d’ogni tipo di peluria. Si passò la mano destra tra i baffi neri e guardò Ace, che indossava un paio di bermuda con una fantasia molto tropicale e la tipica canotta da pigro la domenica mattina. Poggiato sul banco alla sinistra della porta stava un bicchiere di scotch.

-Me ne offri uno, ragazzo?

Il soldato fece strada al colonnello fino al salotto, dove aveva sistemato in una vetrinetta alcune bottiglie di alcolici. Prese due bicchieri e ci versò del brandy.

-Spero che apprezziate il brandy, perché lo scotch è finito – disse Ace mentre porgeva il bicchiere a Ridle. Quest’ultimo lo prese, e poi lo scontrò con quello del giovane per brindare.

-Alle nove del mattino? – chiese un po’ sarcastico. Ace mandò giù tutto d’un fiato.

-Cos’è forse venuto qui a farmi la predica, colonnello? – chiese con arroganza il giovane battendo il bicchiere sull’apice del mobiletto.

-Ricordati con chi stai parlando, Andrew. Non sei l’unico ad aver perso dei compagni in battaglia. Non sei il primo e non sarai nemmeno l’ultimo. In ogni caso ti ho riportato la roba di Simon. Non ho tempo di andare fino a Washington per restituirla alla signorina de la Verandryè. Spero che potrai farlo tu

-Oh, certo, nessun problema…abbiamo finito? – rispose Ace. Il colonnello gli si avvicinò e poggiò il suo bicchiere a fianco a quello del giovane.

-Per il momento. So dov’è l’uscita, non scomodarti - rispose. Poi si avviò verso l’uscita, si riprese il cappello e l’impermeabile ed uscì.

Ace restò a fissare la scatola per qualche istante, in quella posizione. Poi si avvicinò e la trascinò fin davanti alla poltrona. Si accomodò e la aprì rivelandone il contenuto. A parte le varie tenute rigorosamente ripiegate e gli scarponi di riserva, vi erano altre cianfrusaglie. Foto, oggetti, portafortuna e tra quella marmaglia di roba spiccò una specie di libro con la rilegatura spessa rossa. Il giovane lo prese e se lo rigirò un po’ in mano con fare curioso. Decise di aprirlo. La sua espressione tramutò dal curioso allo sbigottito quando si rese conto di ciò che aveva per le mani.

-Ma è…è un diario? – si chiese retoricamente. Così, preso dalla foga di scoprire cosa c’era scritto, si buttò nella lettura dalla prima pagina.

 

 

FINE DEL PROLOGO

*   *   *

Note

1. “No, non sai mai quel che hai, fin quando non lo perdi” – tratto dal ritornello della canzone “Untill it’s gone”, dall’album “The hunting party”, Linkin Park

2. Ace è il soprannome di Andrew Solomon. Non vi spoilero la sua provenienza

3. Altro soprannome di Solomon. Esso è dovuto al suo ruolo all’interno dell’unità, che è quello di Specialista

4. Questo è invece il soprannome di Mattew. E’ un gioco di parole tra il suo cognome (Diamond, le prime tre lettere si traslitterano “Dai”, suono simile a quello prodotto dalla pronuncia della parola “die”, che significa “muori” o “morire”) e la sua reputazione di cecchino infallibile

5. Oppenheimer è il fisico statunitense al quale viene attribuita l’invenzione della bomba atomica. Nella sua prima unità Andrew veniva chiamato così in quanto esperto di esplosivi. La frase successiva è una citazione dello stesso O., il quale in preda a rimorsi in seguito alla sua macabra invenzione si attribuì l’epiteto di “Morte, il distruttore di mondi”. Questo lo portò a rifiutare l’incarico di lavorare alla bomba ad idrogeno.

6. “No mission too difficult, no sacrifice too great” è il motto della pima divisione di fanteria, della quale fanno parte Andrew e Mattew.

 

 

Angolo dell’autore

Salve a tutti. Mi presento a voi questa volta cimentandomi in un nuovo genere: sebbene sullo sfondo ci sia un’avventura di guerra, scoprirete presto che ci troviamo all’interno del dramma romantico. Ovviamente sapere che il protagonista principale è morto vi pome in una condizione di vantaggio sul finale della storia, eppure io vi consiglio di stare bene attenti e di cogliere ogni dettaglio, perfino quelli che sfuggono anche a me. Poiché quel che sembra, non sempre corrisponde a quel che è :)
Vi auguro una buona lettura, e vi aspetto al prossimo capitolo! :D

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Capitolo 2
*** Prime Pagine ***


PRIME PAGINE

26 Febbraio 2015, Washington DC

Beh, eccoci qua. Niente, un amico, Tom per la precisione, uno che studia psicologia, è molto bravo a capire le persone si, proprio tanto comunque quello che stavo dicendo è che Tom mi ha consigliato di cominciare a scrivere qualcosa. Mi ha consigliato di buttare giù due righe al giorno per liberarmi di una parte dello stress che mi tormenta. Insomma, credo che si sentissero così le persone che vivevano prima delle guerre mondiali no? Te lo senti, è l’istinto di sopravvivenza, te lo senti nel sangue che qualcosa di molto brutto sta per succedere, è abbastanza pesante come sensazione no? Panico paura fuga, il nostro cervello è programmato geneticamente per pararci il culo senza farci perdere tempo a pensare al dafarsi1. E’ ovvio che in alcuni è più spiccato e in altri meno, ma credo che l’evidenza dei fatti non possa essere trascurata. Eppure lei ha deciso cosi. Tra tre giorni parte e io non posso farci niente. Ha sempre avuto questa spiccata passione per aiutare gli altri, è sempre stata generosa e amorevole con il prossimo. E devo ammettere che questa cosa un po’ mi rende geloso. Si lo so, sono una persona brutta. Ma lei…lei è la persona più bella che esista, e faccio fatica ad accettare che non possa essere soltanto mia. Io la amo con tutto me stesso, ma a July questo non basterà mai. Lei mi ama, lo so che mi ama, certo che mi ama, voglio dire la sua voce, il suo sorriso e il modo in cui mi guarda, sono perso si ma certe cose non si possono fingere. Non così bene. Diversamente perché farlo? Non sono ricco, non ho una grossa eredità che mi aspetta e non sono neanche tanto intelligente. Il mio naso riescono a vederlo anche quelli che stanno nell’Oregon da qui. Non sono il prototipo del ragazzo perfetto. Eppure lei me lo dice spesso, che sono perfetto. No, non lo sono. Perché dirlo se non lo pensa? Lo pensa eccome ma allora perché parte? Perché deva andare a ficcarsi in mezzo alle bombe e alle pallottole? Perché deve andare a rischiare la sua vita? Il suo futuro? Il MIO FUTURO. Lei è l’unica cosa che davvero conti nella mia vita. Cosa farò quando se ne sarà andata? Cosa farò se non dovesse tornare.

“Parti con me” si dai, “parti con me” mi ha detto.

Sono un maledetto codardo. E poi ho il coraggio di dire che la seguirei anche all’inferno. “Parti con me”. Come glie lo dico che alla fine non mi hanno voluto?

“Saresti d’intralcio”. Lei è laureata in medicina, è una che ci sa fare. Loro hanno bisogno di lei. Ma non di me.  “Siamo già a posto, magari con la prossima spedizione eh?”

Eccerto. Maledizione, se solo mi fossi deciso prima. Non importa, ormai è andata. Ora lei partirà.

Al confine tra Siria e Iraq. “Ti chiamerò col satellitare tutti i giorni”. “Mi mancherai”. Non mi aveva mai baciato così.

Ho…tanta voglia di prendere a pugni il muro. Non lo faccio solo perché non posso rompermi le mani senza averla accarezzata un’ultima volta prima che vada.

 

 

 

 

1 Marzo 2015, Washington DC

E’ andata. Stamattina alle cinque l’ho accompagnata all’aeroporto. Il loro aereo sarà atterrato più o meno adesso, alle otto di sera. Alloggeranno una notte in hotel li in Turchia e domani partiranno in autobus e attraverseranno tutta la Syria fino ad Abu Kamal, al confine con l’Iraq. Altre sedici ore di viaggio in autobus. Un massacro solo il viaggio, ma era l’unico modo. Alcune forze ribelli avevano reso impossibile l’atterraggio di qualunque aereo sul suolo siriano.
Ho paura. In quei milleduecento chilometri potrebbe succedere qualunque cosa. Ma non voglio pensare al peggio. Lei tornerà. Tra sei mesi tornerà da me. Lei me lo ha promesso. MI ha lasciato il suo anello con una promessa.
“Quando torni mi sposi”
“Ti sposo?”
“Si, mi sposi”
“E se non ti amassi?”
“Mi sposerai lo stesso”
“Perché?”
“Perché io amo te”.

Così ha detto. Perché. Io. Amo. Te.

“Allora resta” le ho detto. Le ho detto “resta”. Lei mi ha baciato. Stiamo insieme da quando avevamo diciannove anni. Alla fine dell’anno io ne compirò ventotto. Ma quello di ieri sera è stato il bacio più bello di tutta la mia vita. E poi le nostre bocche hanno smesso di parlare, e l’hanno fatto per noi i nostri corpi. Abbiamo fatto l’amore.
Un amore magico, meraviglioso, di baci e carezze, di lacrime e sorrisi. Un amore nostalgico, giovane, fresco, puro. Immortale. Il linguaggio di coloro che per davvero si amano. Ho potuto baciare tutto il suo splendido e candido corpo, la pelle chiara e pura. Così liscia e morbida, perfetta come seta. Ho baciato i suoi seni perfetti e sinuosi e il suo sesso umido e caldo. Lei ha baciato il mio corpo ruvido e spinoso, ha passato le sue mani piccole e delicate tra i miei capelli disordinati, ha accolto il mio sesso dentro di se. L’ho lasciata guidare, stringendola a me, ho lasciato che fosse lei a guidare quella danza poetica per poterne godere ogni singolo istante. Arrivammo all’apice della nostra danza con le orecchie riempite di una musica straordinariamente impetuosa, che caricava sempre di più fino a raggiungere il suo culmine nel bacio morbido che mi diede sul collo. Non ci fu bisogno di altre parole quella sera. Lei scivolò nel letto, di fianco a me. Si strinse a me e mi baciò le guance per tutta la notte. Nessuno dei due chiuse occhio.

La stretta che mi ha devastato il cuore mentre la vedevo scomparire tra la folla, è stata direttamente proporzionale al piacere e all’amore che me l’aveva invaso qualche ora prima.

 

 

 

4 Marzo 2015, Washington DC

Negli ultimi giorni ho avuto poco tempo di mettermi a scrivere, Tom non me ne vorrà. Ho cominciato a lavorare come barista in una caffetteria a un paio di isolati da qui. Cerco di prendermi turni più lunghi che posso, il lavoro mi distrae dai miei pensieri.
Julie l’ho sentita solo due volte dopo la sua partenza. Ha detto che sta bene, anche se è rimasta un po’ turbata. Ha detto che le cose sono peggio di quel che pensava. Mentre attraversavano la Syria sono stati scortati da alcuni soldati americani perché c’erano stati diversi kamikaze che si erano fatti saltare in aria proprio in quei giorni. Però il viaggio è andato bene. Ha detto che ci sono tanti bambini orfani, tanti mutilati, tanta gente che soffre la fame. Ha detto che sono al sicuro li, che ci sono dei soldati a presidiare il campo. Mi ha chiesto di stare tranquillo. Mi ha ricordato la nostra promessa. Un paio di chiamate di breve durata. Giusto qualche secondo per sentire la sua voce. Sapere che è viva per me è sufficiente. Resisti amore mio, devi resistere.

 

 

 

10 Marzo 2015, Washington DC

In casa c’è parecchia confusione. Con la scusa che non verrà nessuno a trovarmi, rimando sempre a “domani” il rimettere a posto le cose. Così in pochi giorni ho trasformato questa casa in un letamaio pur standoci solo 3-4 ore al giorno. In tutto quel casino non ritrovavo il diario. Alla fine, ho scoperto che era finito nel letto, l’ultima volta devo essermi addormentato mentre scrivevo e al mattino l’ho dimenticato.
Quando non lavoro, vado a passeggiare al parco. Era una delle attività preferite mie e di Julie. Lo facevamo sempre quando c’era il sole. Uscivamo a passeggiare, facevamo per ore intere lo stesso identico giro senza stancarci mai. Senza smettere di trovare interessantissimi argomenti di cui parlare. Senza mutare mai il nostro sguardo amorevole.
Mi manca ogni secondo in cui non c’è.

Duecentotrentatreoresediciminutiquarantasettesecondi.2

Non dormo per davvero dal giorno prima della notizia che sarebbe partita. Mi sono appisolato una decina di minuti in qualche caso, preso dalla stanchezza. Ma non c’è verso di prender sonno.
Non dormirò di nuovo fin quando non la potrò stringere al mio petto e baciare sulla fronte.
Man mano che andiamo avanti le telefonate si fanno sempre più rade.
“C’è tanto da fare”
“Lo so”
“Mi stai aspettando?”
“Certo”
“Se non tornassi…io”
“E’ successo qualcosa?”
“Oggi è entrato un tizio armato, ha puntato la pistola contro nonmiricordoilnome e gli ha detto che se non lo curava lo ammazzava”
“Cristo santo…che è successo poi? Tu stai bene?”
“Si..i soldati gli hanno sparato prima che potesse muoversi. Ma ho paura”
“Lo so”
“Se dovesse succedermi qualcosa…io voglio che…”
Stava piangendo. A singhiozzi.
“Se qualcuno mai si permetterà di torcerti un capello io verrò li e gli darò la caccia fino a quando non potrò ucciderlo con queste mie mani”
Sapevo che avrebbe riso.
“Ti amo” m’ha detto ridendo.
“Ti amo” le ho risposto. Poi ha chiuso.

Questo quattro giorni fa. Poi più niente. Ho davvero tanta paura. Ho paura che non torni. Oggi ho visto una trasmissione alla televisione mentre ero al bar. Alcuni giornalisti hanno parlato di un possibile teatro di scontro tra le forze americane ed alcuni terroristi islamici proprio in Syria. Il presidente ha detto di stare tranquilli, che l’America non ha intenzione di rientrare in guerra e ha smentito le notizie.

Ma io non le credo. Lei si è sempre dichiarata pacifista. Ma le nostre truppe sono rimaste dov’erano. A combattere. A morire. Quindi o è falsa, o non comanda un cazzo di niente.

UN. CAZZO. DI NIENTE.

 

 

FINE CAPITOLO

 

 

 

*  *  *

1. Non è un errore di battitura. Ho deliberatamente scelto di inserire delle parole che rafforzino il senso discorsivo del testo. Insomma, credo che faciliti la trasmissione dello stato d’animo di Simon. Gradirei i vostri feedback e le vostre impressioni a riguardo

2. Il tempo trascorso tra le 6 del mattino del 10 marzo alle 23.16 del 10 marzo (rispettivamente l’orario della partenza dell’aereo di Julie e l’orario in cui Simon scrive questa pagina di diario)

 

Angolo dell’autore

Ebbene, questo è il secondo capitolo. Introduco una nuova informazione riguardo il mio stile di scrittura: ho intenzione di realizzare capitoli brevi e poco prolissi, almeno all’inizio, per concentrarmi più sulle emozioni del personaggio che sulle sue azioni, che almeno per adesso sono di secondaria importanza. Detto questo spero che il capitolo vi sia piaciuto. E’ un capitolo descrittivo dell’amore di questi due giovani, è IL capitolo che da un senso all’impostazione “genere romantico”. Spero che sia di vostro gradimento. Nel prossimo capitolo ci sarà una svolta, quindi mi raccomando non ve lo perdete :D

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