SPLIT

di tortuga1
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***
Capitolo 3: *** III. ***
Capitolo 4: *** IV. ***
Capitolo 5: *** V. ***
Capitolo 6: *** VI. ***
Capitolo 7: *** VII. ***
Capitolo 8: *** VIII. ***
Capitolo 9: *** IX. ***
Capitolo 10: *** X. ***
Capitolo 11: *** XI. ***
Capitolo 12: *** XII. ***
Capitolo 13: *** XIII. ***
Capitolo 14: *** XIV. ***
Capitolo 15: *** XV. ***
Capitolo 16: *** XVI. ***
Capitolo 17: *** XVII. ***



Capitolo 1
*** I. ***


SPLIT

Personaggi principali

 

 

 

  • Anna/Giulia esperte di computer

  • Antonio/Helix Horn comandante della missione maschile

  • Francesca/Rina addette alla sicurezza

  • Elisabeth/Carmen comandante della missione femminile

  • Emily/Flavia ingegneri e virtuose musicali

  • Erika/Carmen meccanica

  • Ester/Paula medicina e ingegneria genetica

  • Habel/Nikita ufficiale della sicurezza

  • Helga/Marzia addette alla sicurezza

  • Judith/Ernesta responsabili dell’energia

  • Miko/Sarah responsabili della sicurezza

  • Naomi/Genevieve piloti

  • Sebastian/Salvatore ufficiali medici

  • Stephy/Adele esperte in comunicazioni

  • Steve/Nicola ingegnere ed investigatore

  • Tania/Sandy arte clandestina e agricoltura

     

 

 

I.

 

Perché erano cattivi, cattivi dentro, ti dico! – le mani ossute screpolate dal lavoro pesante e costellate di geloni si muovono sicure fra i pericoli dei fornelli a legna. La cucina è satura di fumo ma tiepida, non si direbbe che fuori c’è un metro di neve.

Cattivi dentro... che vuoi dire? – Giulia, fra poco sedici anni, si muove inquieta sulla panca di legno duro. Come sempre d’inverno c’è poca energia e serve solo per le cose essenziali, è meglio tenere spente le lampade il più possibile. Per fortuna la legna non manca, basta pensare in tempo a segarla e conservarla al coperto ben ordinata, prima che il sole vada via e le macchine ridiventino pezzi di ferro gelato.

Cattivi significa quello che tu non puoi essere, e nemmeno io, e nessuna di noi. – Anna ripete stancamente quello che le hanno detto, quello che c’è scritto nelle banche dati, tutto ciò che non è stato cancellato. – non erano come noi, però stavano con noi. E un giorno tutto è cambiato. Siamo andate via.

Andate via, da dove?

Non c’è scritto, questo! Se non c’è scritto significa che non serve saperlo. Non essere curiosa. Siamo venute qui, e stiamo benissimo senza di loro.

Ti prego, dimmelo! Tu sei vecchia, devi saperlo per forza...

Basta con le domande! – la voce di Anna diventa aspra, questa ragazzina magra è noiosa, le ricorda... – Invece di farmi perdere tempo vai fuori, prendi un cestino di legna.

Va bene, Anna. – la ragazza si copre con un antico mantello argenteo e armeggia con la porta di quercia pesante. Finalmente riesce ad aprirla con una spallata, vincendo il vento che soffia dentro uno spruzzo di neve.

Torna subito dentro, si sta facendo scuro. E non allontanarti dalla casa, capito?

Va bene, Anna. – Giulia chiude la porta dietro di sé, e guarda in alto sorridendo. La neve continua a cadere, le piace da morire la neve, non le fa paura la noiosa raccomandazione che morire si può davvero assiderati, se si perde l’orientamento a pochi metri da casa. Gli alberi della foresta, larici e abeti altissimi, sono diventati sculture fantastiche, sembrano leggeri e quasi capaci di danzare, è strano, perché di sicuro la neve li spinge giù con il suo peso. E anche le poche piante spoglie vicino alla casa, querce e castagni, sono eleganti come i mandorli favolosi coperti di fiori che ha visto sullo schermo del computer. Giulia respira profondamente divertendosi a guardare gli sbuffi di vapore del suo alito, poi gira intorno alla casa rimanendo sotto la tettoia, lungo il percorso scavato dai suoi passi nella neve alta. La legnaia è ancora piena, piccoli tranci facili da maneggiare, in estate e in autunno lei e Anna li tagliano facilmente con la sega elettrica e poi li sistemano in ordine. Quasi dispiace disfare la catasta e bruciare i tronchetti, tanto sono belli a vedersi. Nel chiarore incerto del rettangolo della porta Giulia ci vede ancora, non occorre accendere la luce. La catasta di legna sembra un castello, o una di quelle costruzioni che le piacevano tanto quando era bambina. Ora che è cresciuta non gioca più con le costruzioni, però ogni tanto ci pensa ancora. Non sente freddo, protetta dal mantello che sembra di carta ma è molto più caldo di una pelliccia. Le mani invece soffrono, i guantini di lana sono consumati e Anna non si decide a fargliene un altro paio. Sarà perché lei è cresciuta, è diventata donna, ora dovrà imparare a sbrigarsela da sola. Va bene, vuol dire che si farà insegnare da Anna come si fa la maglia. Riempie di tronchetti un cestino con le rotelle e lo trascina lungo il sentiero, dopo aver chiuso bene la porta. Anna glielo raccomanda sempre, di non lasciare mai porte aperte, anche se lei non sa bene perché. Non ci sono animali pericolosi, qui, niente di più grande di una volpe, e anche quelle se la danno a gambe appena vedono un’umana.

Ce ne hai messo di tempo! – Anna è irritata e scontenta, il dolore al fianco sinistro è diventato più forte, sarà colpa del freddo. Oppure è perché si avvicina il momento. Già, il momento, rimangono esattamente due anni e sette mesi e non si potrà più alzare dal letto, poi per farla finita basteranno altre due settimane. Come sono passati in fretta questi settantasei anni, le sembra ieri di avere riconosciuto per la prima volta il viso un po’ avvizzito di Giulia. Ora che ci pensa, quel viso consumato a lei sembrava bellissimo. La macchia nera frastagliata lungo la tempia, gli occhi verdi identici a quelli di Giulia, di questa Giulia che la guarda preoccupata e sorride incerta come per farle coraggio.

Come ti senti... ti fa sempre male? – la ragazza si avvicina, appoggia una mano leggera sul ventre piatto di Anna, e lei si sforza di sorridere.

No, stai tranquilla. – stringe la mano di Giulia, deve ancora crescere un po’ per diventare grande come la sua. – adesso è passato.

Sono contenta. – Giulia la circonda con le braccia e affonda il viso sul petto di Anna, che la supera ancora di almeno dieci centimetri. – ti voglio bene, sai.

Anch’io ti voglio bene. Ora sediamoci, prendiamo un tè caldo. Stamattina ho fatto i biscotti.

Quelli con l’uvetta? – Giulia sorride contenta, di sicuro non perché è golosa, a lei non importa molto dei biscotti, però se Anna li ha fatti significa che non sta troppo male.

Proprio quelli, io li preferisco a tutti gli altri.

Anch’io! Allora, continua a raccontarmi.

Uffa, che noia! Ma chi ti ha messo in testa questa favola?

La dottoressa oggi ne ha parlato a scuola, alla lezione di genetica. Ha detto che forse abbiamo fatto male, ma poi non ha voluto dirci cos’abbiamo fatto. Era triste e quando abbiamo insistito ha cambiato discorso, sembrava... è strano, sembrava spaventata.

Quella cretina di Ester! Ma che cosa ne sa lei! – Anna appoggia bruscamente il bollitore sul fornello, facendo traboccare un po’ d’acqua.

E tu invece lo sai? Cosa sai tu più di lei? – Giulia insiste guardando fisso il viso scarno di Anna, dominato dai grandi occhi verdi. Ma Anna resta impassibile, solo scopre i denti bianchi in una smorfia dura.

Io non so niente, e nessun’altra sa niente, perché non c’è niente da sapere.

Mi stai insegnando quello che sai. Lo fai da quando mi ricordo, e ora sono arrivata molto avanti. Però una cosa non me l’hai detta mai. In quei macchinari che tu sai usare, non c’è nessuna risposta? Sei davvero sicura?

Certo che sono sicura! – gli occhi di Anna mandano un lampo e Giulia distoglie lo sguardo. Questa donna che le è stata sempre vicina, che lei oscuramente sente di amare anche se non sa perché, riesce ancora a farle paura. – tu dovrai usare le macchine, sarà questo il tuo compito. E allora... – la voce esita, e lei si gira bruscamente fingendo di controllare il bollitore. È troppo, è troppo e nemmeno lei lo sopporta. Vince la tentazione di mettersi a gridare e respira profondamente. – e allora capirai, che non c’è niente di nascosto.

Ti senti male di nuovo...

No, stai tranquilla.

Però qualcosa sai. E anche le altre maestre. Anche Sarah me l’ha detto, che la sua maestra non vuole dirle cos’è successo.

Ma io te l’ho detto, no? Loro ci facevano del male, ci mettevano in pericolo. E così c’è stata la guerra.

La... guerra? È la prima volta che me ne parli.

È normale. – Anna versa l’acqua bollente nella teiera e aggiunge tre cucchiaini di tè. – io devo insegnarti poco alla volta, altrimenti non capiresti.

Allora vuoi dire che mi stai insegnando un’altra cosa. – gli occhi di Giulia brillano e le labbra si schiudono in un sorriso felice. Come tutte le altre, ha voglia di sapere e di capire, per lei la conoscenza è più importante dell’aria. Anna le restituisce lo sguardo e scopre un vassoio di biscottini all’uvetta. Ne prende uno e cerca di assaporarlo, pensando alla prima volta che lo ha assaggiato. Una visione confusa dei gradini della porta d’ingresso, gli stessi di ora, naturalmente, il dolore alla fronte e le lacrime amare. E poi le mani ruvide e fresche di Giulia appoggiate sul bernoccolo che sembravano portare via il dolore, e il profumo di un biscottino identico a questo, ecco la prima volta.

Sì, ti sto insegnando una cosa nuova. La guerra è stata lunga e dolorosa, e poi noi siamo andate via.

Non ti sembra di essere troppo...vaga? Dici che la guerra con questi esseri malvagi è stata lunga e dolorosa, ma tu cosa ne sai? E poi, cos’è esattamente una... guerra?

Una guerra è quando si è assolutamente nemici, e si cerca di distruggersi a vicenda.

È... terribile. Non ho mai visto una cosa simile...

Certo, e qui non la vedrai mai. Noi possiamo litigare, come è successo l’anno scorso fra me e Francesca, però non ci facciamo la guerra.

Vuoi dire che la guerra è peggiore di quello che hai fatto alla maestra Francesca? Le hai dato un pugno, e lei è caduta a terra. Se succede a scuola molto meno, anche solo una parola sgarbata, le maestre ci puniscono severamente.

Lo so che è proibito. Questa è la legge, non bisogna mai usare la violenza. E io mi vergogno ancora per quello che ho fatto. Però la guerra è molto peggio.

Peggio... non capisco cosa possa esserci di peggio di un pugno nello stomaco! La maestra Francesca è diventata pallida, sembrava che dovesse vomitare. E anche tu hai capito che l’avevi fatta grossa, ti sei inginocchiata vicino a lei con una faccia che non si capiva chi le aveva prese e chi le aveva date...

La guerra è una cosa terribile. Ho visto cosa succede, è... – Anna s’interrompe, forse non è ancora il momento.

Dove, dove l’hai visto? – Giulia respinge la tazza intatta e afferra le mani di Anna. – ti prego, dimmelo!

E va bene. – inutile, inutile lottare, tutto deve ripetersi inesorabile come la morte. – in uno dei dischi del computer centrale, quello che dovrai usare tu. C’è una parte che non è stata cancellata, una piccola parte. Ci si arriva facendo i collegamenti a mano, con un cavo che ho costruito io tanti... anni fa. Funziona ancora. Fa paura, si vede come loro... si uccidevano.

Uccidere... significa quello che facciamo agli animali quando dobbiamo mangiarli?

Proprio così. Però loro, quei mostri, lo facevano fra di loro, e non per mangiare! Non so perché, ma è una cosa perversa!

Anna, se c’è stata una guerra, allora hanno ucciso anche noi...

Certo, di sicuro hanno ucciso anche noi!

E noi... abbiamo ucciso loro?

No... non lo so. Non si capisce. Non sono mai riuscita a capire.

Ne hai parlato con le altre maestre?

No. Non serve, ognuna deve fare la sua parte, le interferenze non fanno bene alla comunità, le direttive sono molto precise in proposito. E poi non cambia nulla.

E se loro... ci vengono a cercare?

Non succederà.

Come fai ad esserne così certa?

Perché... e va bene, ormai ho detto quasi tutto, tanto vale dire tutto quanto. Non mangi nemmeno un biscottino?

Non ho fame.

Va bene. Ti ho parlato spesso delle direttive, contengono tutto quello che c’è da sapere sulla nostra storia, e su come deve essere regolata la nostra vita. La prima direttiva dice che i nemici sono stati distrutti. Significa che la guerra l’abbiamo vinta noi.

 

 

La scuola è nel centro del villaggio, una casa di legno grezzo come le altre, ma senza divisioni interne, si entra direttamente in una grande aula con cinquanta banchi. Dalle finestre alte e strette filtra un po’ di chiarore, al centro del soffitto una lampada a basso consumo diffonde una luce bluastra. Giulia odia questa luce fredda che fa sembrare pallide e smunte le sue compagne, come se fossero tutte malate. Oggi insegna la maestra Francesca, che si occupa di letteratura e musica. È bassa e pesante, con il viso largo costellato di venuzze rosse, gli occhi un po’ sporgenti e le grosse mani deformate dall’artrite. Armeggia con la tastiera del terminale e sceglie un file multimediale.

Oggi vi farò vedere una cosa nuova. Finora abbiamo solo ascoltato la musica, ma oggi vedremo un frammento di un’opera. L’unico che abbiamo.

Opera, maestra? Non ce ne hai mai parlato…

È un pezzo di filmato che mostra una donna mentre canta. È molto arrabbiata perché l’hanno offesa, e lo dice… cantando.

Cosa le hanno fatto?

Non lo so, questo è solo un frammento molto breve, l’opera intera è andata perduta. Non so nemmeno esattamente cosa dice, parla una lingua sconosciuta. Sappiamo che si chiama Donna Elvira perché nel filmato c’è una sovrimpressione, e abbiamo scoperto che ripete più volte le stesse parole, come se fossero un pretesto per giustificare la musica. Pensiamo che questa opera sia stata scritta più di duemila anni fa, però la registrazione è più recente. Fate caso all’orchestrazione, basata soltanto su strumenti acustici. Gli archi, ricordate?

Sì, maestra. Violino, viola, violoncello e contrabbasso.

Bene, Giulia. E qualcuno ricorda gli ottoni?

Sì, maestra. La tromba, il trombone e la tuba. I sassofoni e i corni.

E i legni?

Oboe, fagotto, controfagotto, clarinetto e flauto.

Benissimo. E vi ricordate i vari tipi di flauto?

Certo, quello dritto di legno in diverse misure, che dava problemi di intonazione perché si inumidiva troppo, e poi quello traverso, sempre di legno duro. In tempi più recenti questo strumento fu realizzato in metallo, ottone o argento, e divenne molto più efficiente.

Sei bravissima, Flavia. Ti piace tanto la musica, vero?

Sì, maestra. Studio durante il tempo libero con Emily.

E diventerai brava come lei, ne sono sicura.

Vorrei poter suonare uno di questi strumenti antichi...

Sarebbe bello, lo so, però sono andati perduti. Nella banca dati ci sono gli schemi per costruirli, e anche tutti i particolari tecnici per suonarli. Purtroppo non abbiamo abbastanza tempo per queste cose, come sai. Dovrai accontentarti del campionatore.

Sì, maestra.

Torniamo alla strumentazione. Chi mi dice qualcosa del clavicembalo?

Io, maestra. Il clavicembalo è uno strumento a tastiera come il campionatore, ed emette suoni nella stessa scala che si chiama tamp... temp…

Temperata. Cosa significa?

Io... non l’ho capito bene.

Qualcuno l’ha capito? – dalle facce incerte la maestra si accorge che deve dare un supplemento di spiegazione. – e va bene. La scala che noi suoniamo con il campionatore è un compromesso, una delle infinite possibili. È stata inventata prima di quest’opera che sentiremo, proprio per il clavicembalo.

Per questo la raccolta di sonate si chiama “clavicembalo ben temperato!”

Certo, Marzia. Dovresti ricordartelo, l’ho detto a lezione, ma tu forse pensavi a qualcos’altro. Per fortuna ci sei arrivata da sola. Continua.

Bene, il clavicembalo è simile al pianoforte, perché ha i tasti e le corde, però...

Dai, continua. Dimmi quali sono le differenze.

Non l’ho capito. Dal suono non si capisce.

Come, non si capisce! Li ho simulati con il campionatore, sia pianoforte che clavicembalo! Vi ho fatto provare a suonarli!

Io... non lo capisco. Mi sembrano tutte... sciocchezze. – Marzia si morde il labbro, è riuscita a frenarsi all’ultimo momento e non dire “stronzate” come avrebbe fatto la sua maestra, Helga.

Basta così, inutile discutere con te. – la maestra guarda con tenerezza il viso acerbo pieno di lentiggini di Marzia, è piccola per la sua età e non si capisce che in meno di un anno crescerà e diventerà bella da fermare il respiro. – Ora faccio partire il filmato. State attente e poi ditemi le vostre impressioni.

Lo schermo piatto s’illumina e la musica inizia, un preludio di archi, poi la voce pura e altissima, canta parole incomprensibili ma piene di dolore e rabbia, si sente benissimo. Le ragazze guardano stupite la donna che canta, è vestita con un ricco abito dalla gonna ampia e lavorata, molto diverso dalle loro tute, e specialmente le colpisce l’acconciatura complicata dei capelli, rialzati sul capo come una scultura, e poi...

Maestra...

Jill, aspetta che il pezzo finisca.

Ma maestra...

E va bene. – tocca un tasto e la scena si arresta, la donna rimane con un braccio alzato e il viso di tre quarti, la bocca aperta nell’acuto interrotto. – dimmi.

Maestra, la cantante è... diversa.

Come, diversa? Cosa vuoi dire?

Non è... anziana come te. E non è nemmeno una ragazza come noi. È grande come una maestra, però...

Hai ragione. Non immagini perché, no? – la maestra percorre con gli occhi l’aula gremita di ragazze, tutte immobili e attente, beh quasi tutte, Marzia sta parlando fitto con Rina, che l’ascolta con gli occhi socchiusi. Come un’altra volta... – bene, ragazze. Non vi ho fatto vedere per caso questo filmato, è perché devo dirvi una cosa. Intanto, quante di voi hanno già le mestruazioni? Alzate la mano. Tre, sei, e sette da questo lato siete tredici, no, quindici. Poche ancora, però fra meno di un anno ce le avrete tutte quante.

Maestra, come fai a saperlo?

Zitta, lo so e basta. La maestra Ester vi ha spiegato tutto, come e perché.

Sì, è vero che lo ha spiegato, però non abbiamo capito bene…

Capirete meglio col tempo. Ora dovete considerare una cosa, che state crescendo. Diventerete sempre più alte, fino ad essere come noi.

Diventeremo anziane?

Con il tempo sì. Però ci vorrà molto tempo. Per un lungo periodo sarete come questa cantante, grandi però non anziane. Capito?

Ma... come mai di donne così qui da noi non ce n’è nemmeno una?

Saprete anche questo, però io non voglio oltrepassare un certo limite. La nostra comunità è basata sull’equilibrio, come sapete. Penso che sia più giusto se ogni maestra lo dirà alla sua compagna, a modo suo, con le parole che vorrà. Io ne parlerò soltanto con Rina.

Maestra, perché hai cominciato il discorso se poi non vuoi dirci niente? – Marzia non si sente affatto intimidita dalla maestra Francesca, se n’è accorta da quando era piccola. E dire che lei in genere a scuola non ha la vita facile, per esempio la maestra Ester le fa paura con le sue sfuriate e la maestra Anna la fa sentire una stupida, dato che la matematica non riesce ad andarle giù.

Le vostre maestre ve ne parleranno, oggi o domani al massimo. Lo abbiamo deciso tutte insieme, e così devi solo avere pazienza per qualche ora. E adesso facciamo ripartire il filmato, ricordatevi che questa è la lezione di musica.

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Capitolo 2
*** II. ***


II.

 
Direttive della dottoressa Elisabeth Gide, comandante della missione. Queste informazioni sono riservate e diventeranno accessibili alle giovani solo al raggiungimento della maggiore età di 16 anni.
Le presenti direttive annullano le precedenti. Ogni traccia delle direttive precedenti deve essere cancellata in tutti i supporti fisici, e anche nella memoria di ciascun membro dell’equipaggio. Verrà considerata infrazione grave la trasmissione di informazioni non autorizzate alle generazioni successive.
Le cellule staminali del gruppo sono custodite dalla responsabile del servizio medico. La loro conservazione è una priorità assoluta.
Da questo momento ciascun membro del gruppo dovrà seguire rigorose misure di sicurezza, al fine di preservare la propria integrità fisica. È tassativamente proibita qualsiasi attività potenzialmente pericolosa che potrebbe compromettere la trasmissione delle esperienze.
È assolutamente proibito l’utilizzo di schemi di addestramento virtuale. Quelli preparati in precedenza saranno immediatamente distrutti e sarà vietato svilupparne in futuro. L’addestramento delle giovani dovrà essere effettuato personalmente da ciascun membro del gruppo per quanto riguarda le specificità tecniche. Gli altri membri contribuiranno alla formazione generale delle giovani, seguendo il piano educativo modificato in questi termini…
 
 

Mi sembra una follia! – Rufus Jordan, simile ad un grosso topo, agita i baffetti radi sui denti sporgenti e manda lampi dagli occhiali. – Cloni, usare dei cloni! Non è stato mai fatto prima!

Calmati, Rufus. – la dottoressa Maria Spada, responsabile delle pubbliche relazioni, cerca di mantenere la voce bassa e gentile. Rufus quando ci si mette è un rompipalle micidiale, ma la sua lobby è essenziale per fare passare il finanziamento. – ora ti spiego. Lo sai qual è il guaio dei viaggi interstellari, no?

Dimmi cosa non è un guaio, in queste menate!

E va bene. Sono sperimentali. Nessuno è tornato a dirci che la missione è riuscita. Però dobbiamo, capisci, dobbiamo tentare ancora!

Non ce l’ho con te, Maria… – Jordan si asciuga il sudore con un fazzoletto di carta, malgrado l’aria condizionata la temperatura del piccolo ufficio supera i trenta gradi. – lo so che è necessario cercare di andarcene da qui. Solo che non si vedono risultati…

Fammi finire, Rufus! Il guaio delle missioni precedenti è che le abbiamo pensate come l’arca di Noè, e l’esperimento è fallito.

Miliardi bruciati e duecento anni inutili! L’ultima notizia è la migliore, stavolta hanno rifatto la rivoluzione francese. Tagliando la testa alla direttrice e ai piloti, che però hanno fatto in tempo a distruggere tutti i dati dei computer. E così moriranno tutti ancora una volta. Perché non rinunciamo?

Perché… – Maria lo guarda con rabbia. Ottuso come una rapa. – non capisci? Anche noi moriremo.

E va bene, moriremo. Non è questo il destino di tutti? Chi è che non muore?

Cazzo! Cerca di capire! Sarà l’umanità intera a morire, non resterà niente di noi…

E ti sembra così sbagliato? – si appoggia alla spalliera scomoda e poi cambia di nuovo posizione, da qualche tempo gli prude la schiena in modo insopportabile. – che cos’ha fatto di così importante l’umanità per meritarsi di vivere in eterno? Tutte le civiltà sono crollate una dopo l’altra, e le successive non hanno fatto meglio delle precedenti. Solo che l’alta tecnologia – sogghigna amaro somigliando ancora di più ad un sorcio arrabbiato – ha messo la ciliegia sulla torta. Estinzione di specie animali e vegetali d’importanza vitale. Effetto serra incontrollabile e sconvolgimenti climatici. Guerre micidiali, le peggiori in assoluto le abbiamo avute negli ultimi trent’anni. Se lo merita di crepare, la fottuta umanità.

No! Non è normale quello che dici! Lo dici perché… – Maria s’interrompe all’improvviso. Rufus ha perso tutti e tre i figli nell’ultima guerra, e lei al posto suo sarebbe impazzita. – scusa, non volevo nemmeno pensarlo. È…

Non importa. Forse hai ragione tu, bisogna provarci comunque. – la sua voce nasale si addolcisce – allora, perché i cloni?

È una delle poche cose buone che ha fatto l’ingegneria genetica. Cellule staminali che rimangono stabili nel tempo. Se solo ci fossero le risorse…

No! Non è la chiave dell’eterna giovinezza, questa stronzata! Non m’importa di far crescere un fegato nuovo da dieci milioni per tenere in piedi un vecchio! E nemmeno m’importa un cazzo di vedere un altro me stesso vivere un’altra fottuta vita!

Forse… forse hai ragione. Però la clonazione non serve a questo. Pensa ad un equipaggio in cui ciascun membro si rinnoverà nel tempo, rimanendo sempre sé stesso.

Che pazzia… ti rendi conto di cosa chiedi, a questi poveri disgraziati…

Volontari selezionati. Con il carattere stabile. Capaci di sacrificio. Capaci di affettività, di voler bene al loro giovane.

Cosa vuoi dire?

Sì, il dipartimento ricerche ha elaborato una procedura che mi sembra buona. Ciascun membro dell’equipaggio alleverà il suo clone, lo addestrerà e gli trasmetterà tutte le sue conoscenze. Hanno fatto un test che è durato due generazioni e funziona, sembrano esattamente le stesse persone...

Loro elaborano stronzate e poi mandano gli altri, lassù. Ti rendi conto di cosa significa, stare per cinquecento anni in compagnia di sé stessi bambini! E poi non funzionerà. Una nave di ripopolazione deve essere mista. Si accoppieranno, faranno figli, creeranno le fazioni e ripeteranno gli stessi errori degli altri.

No! La procedura… – ecco, è venuto il momento di giocare la carta. – la procedura prevede lo splitting.

Cos’è lo splitting? Che vuoi dire?

Che finché non arriveranno saranno divisi. Maschi e femmine.

Sei pazza… sono tutti pazzi. Cinquecento anni divisi… come potrà funzionare… non si riconosceranno nemmeno, quando s’incontreranno.

Invece sì. Conoscono lo scopo della missione, sanno perché devono fare questo sacrificio. E quando s’incontreranno sarà come se cinquecento anni non fossero passati. Saranno le stesse persone che sono partite, le stesse che ora si stanno addestrando. Li hanno selezionati con cura, vedrai che non falliranno.

Vedrò! – Jordan ghigna ancora ma sembra più ammorbidito, Maria trattiene il respiro. – nessuno di noi vedrà, noi saremo cenere da secoli. Però forse vale la pena di provare.

Grazie! Allora sosterrai la missione…

Lo farò. Che Dio ci aiuti, questa è una delle ultime possibilità. E poi…

Poi non sarà più un problema nostro. – Maria si alza in piedi, sovrastando il piccolo Rufus. – ora vado a dirglielo. Il comunicatore non funziona nemmeno oggi.

Forse si stava meglio quando non c’erano tante diavolerie. Costano troppo e ormai non possiamo più permettercele.

Non essere catastrofico, il collasso è previsto solo fra duecento anni. Tu non lo vedrai, e nemmeno io…

Che importa, si respira nell’aria, il collasso. Fortuna che la gente comune non lo sa. Quanto vorrei essere anch’io come loro…

 
 
Emily è persa nell’esecuzione di un notturno di Chopin. Le mani brune corrono sulla tastiera consunta del campionatore, basta chiudere gli occhi e sembra un gran piano da concerto, anche il peso dei tasti è perfetto. Le note limpide come una cascata risuonano nella semplice stanza di legno, fatta esattamente come le altre e riscaldata da una stufa a legna. Flavia guarda avidamente lo spartito sullo schermo piatto, e le mani della sua maestra, ancora più agili delle sue. Questo passaggio è impossibile da farsi, le dita non ci arrivano e poi sembrano non bastare… e invece lei ci riesce, e non sembra nemmeno fare fatica. Quando il brano finisce Emily rimane immobile ad ascoltare le ultime vibrazioni fedelmente simulate delle corde e della cassa armonica, poi alza gli occhi sulla ragazza.

Come suoni bene…

Anche tu suonerai così. – Flavia è il nome della madre di Emily, lei veniva dall’Italia. Il padre invece era afroamericano, e così Emily ha i lineamenti minuti di una ragazza calabrese e la pelle scura. La mescolanza genetica era uno dei requisiti della selezione, Ester una volta gliel’ha spiegato, e in fondo basta pensarci appena un po’ ed è chiarissimo, il perché.

Non ci riuscirò mai… è così difficile, e tu sei troppo buona con me. Perché non ti arrabbi mai quando sbaglio…

Perché sono sicura di quello che dico. Diventerai brava come me, esattamente come me.

Mi fido di te. – Flavia sorride, il visino sottile incorniciato da un caschetto di capelli crespi. – mi hai insegnato tante di quelle cose…

Già. Raccontami cos’avete fatto oggi a scuola.

Francesca ha fatto uno strano discorso. Aveva a che fare con le mestruazioni, io non ho capito bene. Ha detto che ogni maestra l’avrebbe spiegato con parole sue, solo alla sua compagna. Cosa voleva dire?

È troppo presto… – Emily distoglie lo sguardo dal viso aperto di Flavia, finge di guardare con attenzione lo spartito che conosce a memoria. – ma sì, è sempre troppo presto. Tu mi vuoi bene, vero, Flavia?

Certo che ti voglio bene.

E hai detto che ti fidi di me. È importante che ti fidi, perché quello che ti dirò è strano e difficile. Secondo te chi sono io?

Ma sei la mia maestra, è chiaro. Sei la prima persona che mi ricordo. Mi hai dato la pappa quando ero piccola e…

Va bene, ma chi sono davvero, tu non lo sai. Non dovevi saperlo, fino ad ora. Ora è venuto il momento. Io ho settantasei anni, e tu fra un mese ne farai sedici.

Cos’è questo mistero, che non si può sapere prima…

Non scherzare. C’è poco da scherzare, anche se non è una cosa brutta. Io sono… te. E tu sei me. Sei mia sorella gemella, più uguale di qualunque gemella naturale. Sei identica a com’ero io alla tua età.

Che stai dicendo, Emily! Stai scherzando…

Ti ho detto che non c’è niente da scherzare. Perché credi che andiamo tanto d’accordo? Come mai ci piacciono le stesse cose? E fra un paio di mesi, vedrai, anche la nostra voce sarà uguale. Almeno per un po’ di tempo. – già, altri sei anni. Poi la voce di Emily diventerà falsa perché qualcosa le crescerà lentamente nella gola.

Ma com’è possibile…

Vedrai. Domani ti farò vedere. Anche questo fa parte del tuo lavoro. Ci sono macchine che ancora non conosci, e invece devi imparare in fretta come funzionano e come si riparano. Intanto credimi. Ti ricordi le lezioni di genetica? Quelle sulle cellule staminali?

Certo, le ricordo ma le ho trovate un po’ noiose. Che c’importa delle cellule staminali…

E invece c’importa. Da una cellula, una sola, può nascere una di noi. Le cellule di Emily Williams sono state preparate settecento anni fa. Da allora Emily è nata cinque volte, e tu sei la quarta Flavia.

Non ci credo! È impossibile! Che stai raccontando… oppure sei diventata così vecchia da dare i numeri…

Chi ti ha insegnato a parlare così?

Lo dice sempre Marzia, chiama la sua maestra la vecchia.

Vecchia è per davvero, ha la mia età… però non sto dando i numeri, questo no.

Ma come faccio a crederti…

Guarda qui. – Emily si scopre il braccio sinistro e mostra quattro nei sporgenti che formano un disegno a losanga. – metti il tuo braccio vicino al mio.

Sono… sono uguali, che strano. E allora? – guarda Emily da sotto in su con aria di sfida Che vuol dire?

Svegliati, Flavia! La statistica te l’ho insegnata io! Calcola la probabilità che due persone diverse abbiano la stessa identica disposizione di quattro nei.

È…

È vicina allo zero. E ora tocca qui. – scopre una gamba ancora liscia e passa il dito lungo il bordo della tibia. – ecco, proprio qui, la senti questa pallina?

Ce l’ho anch’io! L’ho sempre avuta!

E ora calcola la probabilità che coincidano insieme la pallina (si chiama osso sesamoide) e i nei, dai, calcola.

Ho paura, Emily…

Anch’io ho avuto paura, quando Flavia me l’ha detto. Stavo per compiere sedici anni, esattamente come te.

Ma… perché?

Perché è il solo modo di restare in vita, durante un viaggio nello spazio. Il nostro viaggio è durato più di cinquecento anni.

Nello spazio… e com’è che non ne hai parlato mai prima d’ora?

Ho ancora molte cose da insegnarti.

E perché ci siamo messe in viaggio? Lo sai, tu?

I dati dei computer sono cancellati, ed è proibito anche solo parlarne. Ma io ti dirò tutto quello che so.

Mi sembra una cosa assurda, da non crederci…

Quando salirai sulla nave ci crederai.

C’è una nave…

Sì, quella che ci ha portate qui. È sepolta sotto una collina, così nessuno la vede. Però alcune sue parti funzionano ancora, e tu devi conoscerle a fondo. Impiegheremo i prossimi due anni a studiarla.

Allora le macchine che mi hai disegnato esistono davvero, la fonderia, la pressa, il micromanipolatore…

Sì, esistono. Noi abbiamo un compito delicato, mantenere la tecnologia. Riparare le macchine, ricostruire i pezzi che si consumano.

E cosa usiamo, come materie prime? Noi non possiamo estrarre i metalli…

Ricicliamo. Tutto quello che è possibile smontare, fondere e riutilizzare. E poi, se dovesse servire, useremo lo scafo, le sue parti ridondanti. Ho calcolato che ci basterà per… mille cicli.

Mi gira la testa…

È normale, è capitato anche a me. Non pensiamoci, per ora. Sai che facciamo? Prepariamo qualcosa di buono da mangiare.

 

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Capitolo 3
*** III. ***


III.

 
Sarah appoggia sulla neve il calcio dell’arma pesante, ancora troppo grande per lei. È un fucile a pompa che spara pallettoni, un’arma micidiale senza rinculo che funzionerebbe anche nel vuoto dello spazio e in assenza di peso. Lei come sempre lo tiene scarico: non ha mai sparato contro qualcosa di vivo, solo d’estate, in mezzo ai boschi, ai bersagli di carta colorata disposti a varie distanze da Miko. La sua maestra è piccola e sottile, il suo viso liscio sembra non avere età. E quando volteggia preparando un colpo micidiale, capace di uccidere se solo lo volesse, non si direbbe che ha settantasei anni. Però negli ultimi tempi è diventata ancora più taciturna, e passa lunghe ore a meditare rivolta contro la parete dipinta di bianco. Ma non importa se sta zitta, per capirsi fra loro due basta uno sguardo o un gesto impercettibile. Sarah fa la guardia alla zona proibita, nessuna giovane può avvicinarsi e tanto meno lei, ma non importa, lei è abituata ad obbedire e non si sognerebbe nemmeno di cedere alla curiosità. Alcune delle sue compagne invece hanno provato ad intrufolarsi, ogni tanto, e sono state sempre scoperte e rimandate indietro con il sedere bruciante. Miko è bravissima a somministrare castighi veloci come il fulmine, non ti accorgi nemmeno che ti ha colpita, il dolore lo senti solo dopo, quando è di nuovo sorridente e lontana. Sarah riprende il fucile e muove qualche passo sulla neve soda. È coperta con il mantello d’argento e porta caldi stivali di feltro, ma il freddo sembra penetrarle nelle ossa. Non le piace il lungo inverno della colonia, quando le giornate sono brevissime e non è possibile allontanarsi dalle case anguste. Meglio quando l’acqua del lago è tiepida, e si può nuotare guardando il cielo solcato da nuvole bianche attraverso le foglie dei faggi. Pensa ancora alla cosa che le ha detto Miko la sera prima, una cosa che lei aveva già sospettato anche senza spiegarsi perché. La stessa misura nei gesti e nelle mosse, nessun bisogno di spiegare le cose più di una volta, la certezza assoluta di quello che l’altra avrebbe detto o fatto. Lo stesso sguardo negli occhi perfettamente identici. E così lei è la quarta Sarah, e si chiama come la madre di Miko. Metà giapponese metà irlandese, una combinazione che ha determinato la curiosa mescolanza di lineamenti orientali e capelli ondulati castano chiaro. Una catena iniziata in un posto sconosciuto, in un passato quasi impossibile da immaginare. Una catena senza scopo apparente, forse senza fine. Ma tutto ha una fine, questo glielo ha insegnato Miko prima di insegnarle a camminare. E allora, come sarà? E chi vedrà questa fine, una Miko o una Sarah?
Un suono di voci concitate interrompe i suoi pensieri, lei afferra istintivamente l’arma e la punta come le ha insegnato Miko, però non serve. La sua maestra sta guidando verso di lei un gruppo di ragazze che parlano tutte insieme.

Abbassa il fucile, Sarah. Va tutto bene.

Che ci fanno qui tutte le ragazze?

Vengono a visitare la zona proibita. Da oggi non lo è più.

E io…

Sì, hai capito. Puoi venire anche tu. Dammi quel fucile e seguimi. – si avvia verso il passaggio tenuto accuratamente libero dalla neve. Sarah non ha mai visto dove porta, sa solo che gira intorno alla collina e non si può spiare da lontano. Ora, fra due pareti di ghiaccio, il sentiero proibito sembra banale e troppo stretto. Le ragazze passano una alla volta, vociando allegramente, poi si trovano davanti all’ingresso di una grotta.

E ora?

Ora seguitemi. Non c’è pericolo, questo è il posto più sicuro del pianeta. – Miko precede il gruppo dentro la grotta, illuminata da deboli lampade bluastre. Sembra scavata nella roccia, ha le pareti lisce e regolari, e finisce bruscamente con una paratia di metallo. Miko cerca un piccolo portello, lo apre e compone una lunga sequenza di caratteri su una tastiera. Subito una sezione della paratia si apre. Dentro c’è luce e calore, e le ragazze aprono i mantelli. – Benvenute sul modulo di atterraggio.

Cos’è un modulo di atterraggio?

La maestra Naomi potrebbe spiegarvelo meglio di me. Posso dirvi che la nave con cui siamo arrivate è molto grande, è lunga più di tre chilometri. Da quasi trecento anni sta in orbita intorno al pianeta, e ci resterà. Noi siamo scese con questa navetta, che ha potuto fare un atterraggio planato. Abbastanza riuscito, nessuna si è fatta male. Però la navetta si è danneggiata e non può ripartire.

Non si poteva riparare? – Flavia è sempre interessata ai dettagli tecnici e guarda avidamente i comandi sconosciuti lungo la paratia.

Non era prevista la riparazione del modulo. E poi proprio tu dovresti sapere che non c’è modo di fare uscire il modulo dall’attrazione del pianeta. Ci vorrebbe un razzo potentissimo.

Forse si potrebbe costruire… – Flavia pensa in fretta, ripassando le nozioni generali di fisica. – sì, si potrebbe fare. Ci vorrebbe molto tempo, ma è possibile.

Ma a cosa servirebbe, me lo dici? Noi siamo qui, le piante e gli animali sono stati ambientati, lassù non c’è più niente. Niente che ci possa essere utile.

E la possibilità di viaggiare ancora? – Geneviève sente il cuore battere forte, ecco a cosa servivano le lezioni di volo virtuale che Naomi si ostinava a darle. La consolle che lei conosce così bene per averci giocato migliaia di volte, ma non era un gioco perché Naomi era molto severa quando sbagliava, eccola identica davanti a questo sedile, che sembra proprio della sua misura. Si siede e prende in mano i comandi, aspettandosi di essere rimproverata, ma Miko si limita a sorridere.

Sei uguale a Naomi. – tutte ridono nervosamente, certo che è uguale, lei è Naomi. Questa verità ha scosso anche le più forti, ma non ha sorpreso per davvero nessuna di loro. Si sentono eccitate e importanti. – anche lei la pensa come te. Bene, niente è escluso, dipende solo da noi decidere come utilizzare le nostre risorse. Pensate che per tornare alla nave madre dovremmo lavorare ininterrottamente per… duecentottanta anni. Questo calcolo lo ha fatto Emily una trentina di anni fa.

Già… – Paula guarda con gli occhi socchiusi la piccola Miko dal viso impenetrabile – immagino che dovremo abituarci, a non dire mai niente di originale. Tutto è già successo, no?

Sì. Perché ti disturba? È una legge della natura, non c’è niente di nuovo, ogni cosa si ripete. È bello…

No! Io non la penso così! Perché devo essere uguale a me stessa, qualunque cosa succeda! Perché devo pensare le stesse identiche cose che ha pensato la mia… copia cinquecento anni fa! È disumano!

Calmati, Paula! Anche Ester ogni tanto fa come te, lo vedi che non c’è niente di nuovo… ah, ecco Erika. Come ti senti oggi?

Meglio. – Erika è alta e grossa, con il viso largo e arrossato. Si muove con difficoltà ansando e sorreggendosi ad una stampella di legno. – questa maledetta gamba…

Vedi che non è tutto uguale! – Paula torna alla carica – scommetto che la tua… copia non se l’era rotta, la gamba!

È… è vero. No, non se l’era rotta. Io sono scivolata mentre facevo il bagno nel lago…

Allora non siamo costrette a ripetere tutto quello che hanno fatto le nostre copie! Non c’è niente che ci obblighi! Potremmo… magari morire giovani, ecco.

Che dici, stupida ragazza! – Francesca si toglie il mantello e lo appoggia su un sedile. – la più importante direttiva è trasmettere tutto quello che sappiamo alla nostra compagna! A quella che dovrà continuare il nostro lavoro! Non possiamo, ti dico non possiamo assolutamente morire prima di aver trasmesso tutto! Ecco perché dobbiamo rispettare le procedure! Erika ha sbagliato a rischiare, pensa se avesse battuto la testa…

Non è… – Paula si morde la lingua e tace. Meglio non dire quello che si pensa, se tutte ti danno addosso. Però continua a pensarla nello stesso modo, che non è giusto, che vivere così non è vivere.

Vieni, Flavia. – Emily prende per mano la ragazza e la conduce lungo un corridoio, mentre le altre continuano a vociare nella cabina di pilotaggio. Alla fine del corridoio una porta scorrevole, che dà in un ambiente lungo una ventina di metri, illuminato fiocamente. Ai lati file di ampolle trasparenti. Emily tocca il metallo accanto ad una delle ampolle, e il pannello della parete si apre lasciando vedere un complicato fascio di fili e tubi, schede elettroniche ed elettrovalvole.

Cosa sono queste macchine…

Quelle di cui ti parlavo. Le cellule staminali vengono seminate su un terreno di coltura, che viene sistemato qui. – indica una piastra verticale di plastica rosa, ad un lato dell’ampolla vuota. – qui cominciano a dividersi, e ad un certo punto si differenzia una struttura che si chiama placenta.

Questa l’ho studiata. Serve a nutrire l’embrione dei mammiferi e a farlo respirare.

Brava. Se hai altre domande più specifiche chiedi a Ester, è lei che si occupa della biologia. Però tu devi sapere come funziona la macchina: deve dare alla placenta quantità precise di ormoni, sostanze nutritive e ossigeno, e garantire che l’embrione sia sempre immerso dentro il liquido amniotico.

E poi…

E poi, dopo nove mesi, la nuova giovane è pronta per nascere. Il liquido viene sostituito con aria, e lei comincia a respirare. Poi bisogna tagliare il cordone che la unisce alla placenta. Il cordone ombelicale.

Ecco, è qui. – si girano a guardare, è arrivata Ester insieme a Paula. Ester è molto alta e un po’ curva, con i capelli candidi e le mani nodose solcate da grosse vene blu. Però gli occhi sono vivaci e la voce squillante. – finalmente posso mostrartelo. Ciao, Flavia. Ciao, Emy.

Perché le distingui, sono due copie della stessa persona!

Stai zitta, Paula. Dovete scusarla, non ha preso bene la novità. Non l’ho fatto nemmeno io, mi ricordo…

Ecco! Non c’è nessuno spazio per la libertà! Mi sento soffocare…

Calmati, ti ho detto. Abbiamo un lavoro da fare e non c’è molto tempo. Queste sono le unità di crescita. Controllate dal computer, con tutti i meccanismi ridondanti per ridurre al minimo il pericolo di arresto. Però durante quei nove mesi gli ingegneri devono stare con gli occhi aperti, vero, Emily?

Lo stavo spiegando a Flavia.

Venite qui, ragazze. – Ester indica uno schermo nero su una parete, lo tocca e compare una fila di provette allineate. – queste sono le cellule staminali. Abbastanza per migliaia di generazioni, geneticamente stabili. Stanno a duecento gradi sotto zero, la priorità assoluta del sistema è mantenerle a questa temperatura. Ad ogni ciclo ne preleviamo alcune e…

Come, alcune? Io credevo una sola…

La procedura prevede da cinque a dieci. Alcune inspiegabilmente non si sviluppano, altre mostrano difetti non predicibili. Noi… io scelgo il gruppo migliore e lo impianto.

E che fine fanno gli altri… gruppi?

Distrutti. Vanno distrutti.

Anche se… se non hanno difetti?

Sì. Ti sembra sbagliato? La procedura prevede una sola giovane per ogni ciclo. Solo una.

È… – Paula si morde di nuovo la lingua. Ester sa benissimo cosa ha pensato, è mostruoso. Anche lei la pensa così, ne è sicura, anche se è costretta a fare questa cosa, perché come tutte deve obbedire alle direttive. Ma le altre, l’altra… Le guarda con la coda dell’occhio, sembrano serene e non si sognano di chiedersi se è giusto che per ciascuna di loro “da quattro a nove” copie identiche siano state sacrificate.

È necessario, Paula. – Ester ha capito e taglia corto. – E ora andiamo a raggiungere le altre. Naomi vuole farvi vedere i motori, per quello che servono ormai…

 
La giornata è stata lunga, Paula si sente stanca ma non può prendere sonno, troppe emozioni e troppa rabbia che non riesce a spiegarsi. Perché non accettare la verità come tutte le altre, perché questo desiderio di mandare tutto all’aria. Si rigira nel letto e parla a voce bassa.

Dormi?

No. – la risposta arriva subito, anche Ester non riusciva a riposare.

Perché sono tanto inquieta, me lo dici? È successo anche a te, quando lo hai saputo?

Lo stesso identico. Però…

Però? Parla, ti prego! Ho bisogno di capire, mi sento male…

Non serve a niente sentirsi male. Le cose non cambiano. Però io…

Tu? Perché ti fermi continuamente? Ricordati chi sei tu e chi sono io. Siamo la stessa persona, diavolo, non devi avere segreti con me.

E va bene. Tanto devo dirtelo per forza. Senza di me morirebbe, e io…

Chi, morirebbe? Cosa vuoi dire? – Paula accende la luce e si siede sul letto. Ester è rannicchiata contro il cuscino, il viso avvizzito con gli occhi cerchiati sembra terribilmente vecchio e stanco.

Mi resta poco. Non fare quella faccia, è la biologia, lo sai che di qualcosa si deve morire, no? Per noi è una leucemia cronica, ce l’ho da qualche anno e mi indebolisce a poco a poco, senza farmi soffrire. Solo alla fine, giusto un po’… Ho pochi mesi, quanto basta per insegnarti alla svelta le ultime cose.

Pochi mesi! Ma sei sicura? Non si può fare niente, proprio niente? – Paula richiama disperatamente le sue nozioni di medicina, sì che c’è da fare, prima la chemio, e poi… – facciamo il trapianto del midollo! Ti darò io le cellule!

Già fatto. Quando ho avuto la febbre alta e tu credevi che fosse un forte raffreddore. Ha funzionato per un po’.

È successo… due anni fa. Ma è pazzesco! Io non voglio rassegnarmi! Io voglio cercare di salvarti!

Ti ho detto che non si può, fidati di me. Vorrei anch’io più tempo, non ti ho ancora trasmesso tante informazioni e dovrò fare in fretta.

Non posso vederti morire! Non così! E tu, perché non me ne hai parlato prima? Perché? – Paula piange liberamente senza vergogna, che importa, Ester non è un’altra persona, è la sua immagine allo specchio, non deve guardarsi da lei, forse nemmeno rimpiangerla. E invece la logica non serve, si accorge di soffrire come non le è successo mai, e per chi? Per sé stessa. Che cosa crudele e triste.

Anch’io ho pianto quando Paula me l’ha detto.

Maledizione, mi dispiace, mi sento morire dal dolore! Non è giusto, tu sei me, perché deve dispiacermi tanto, poi ci sarò io a continuare la tua vita… – s’interrompe e singhiozza più forte. Sente sulla spalla la mano dolce di Ester, è fredda e trema leggermente.

Che vuoi farci, noi siamo fatte così, poco pragmatiche. E costrette a fare quello che non vorremmo.

A me piace curare la gente! Sono contenta quando riesco a guarire…

Ma non sai quanto è frustrante quando non ci riesci. Lo vedrai, purtroppo molto presto. Ma io ti stavo dicendo una cosa. Una cosa importante, stai attenta e giurami che non dirai niente alle altre.

Non occorre giurare. Io sono te, no?

Sì, sei me. Anche nei dubbi e nelle paure. Io ho… noi abbiamo fatto una cosa. Solo la nostra linea lo sa, è stata Paula a dirmelo. Le altre non lo sanno.

Che cosa, che cosa ha fatto Paula…

Ha portato con sé un campione di cellule staminali. Lo ha nascosto per tutti questi anni senza usarlo. E io, sono stata io a farlo, le ho seminate.

Devi spiegarmi meglio. – Paula guarda attentamente la compagna, sembra avvizzita e rimpicciolita, sarà la sua posizione curva, le mani tremano ancora di più.

Non erano… cellule dell’equipaggio. Provenivano… dall’altra parte.

Cos’è l’altra parte! Ora che hai cominciato devi finire! – l’afferra per le spalle, è così dimagrita che sembra un fuscello e lei non se n’era accorta, dove li aveva gli occhi… – ti prego.

Che stupida sei. – la voce di Ester è sorda e amara – Non devi pregare, la conoscenza ti spetta. Fa parte del gioco, dato che sei me.

Allora parla!

È difficile, è complicato. La nave… era divisa in due parti. C’erano due equipaggi e due moduli di atterraggio. Però nei primi anni di viaggio è successo qualcosa. Nessuno sa cosa, e poi i dati del computer sono stati cancellati e…

È quella storia della guerra, vero? Una storia o una leggenda, dato che tutte ne parlano ma nessuna sa dire niente di preciso. La guerra con gli uomini.

Tu cosa ne sai?

Ma niente, ti dico! Si mormora che siamo fuggite via da loro, qualcuna dice che li abbiamo distrutti per impedire che ci uccidessero. Giulia mi ha parlato di un filmato, erano spaventosi, sparavano con le loro armi terribili, erano sporchi di sudore e di sangue…

L’ho visto, quel filmato. Impressionante, forse troppo. Sembrava finto.

Come, finto?

Ma sì, troppe smorfie, troppo realismo ed era fatto troppo bene, pensa che si vedeva prima chi prendeva la mira per sparare e poi chi cadeva morto.

E allora?

Non so, non capisco. Ho la testa piena di dubbi, come allora. Ma allora ero giovane, avevo cinquantotto anni. Due anni dopo sarebbe partito il ciclo, quello che ha dato vita a te e alle tue amiche. E così ho seminato le cellule.

Quali cellule? Di chi? – Paula ha un sospetto terribile ma deve essere lei a dirlo.

Quelle che Paula aveva nascosto. Sono del medico, Paula aveva preso anche tutti i dati su di lui.

Un… uomo?

Sì, un uomo. Il maschio della nostra specie. Noi siamo mammiferi e ci riproduciamo sessualmente.

Come… i conigli?

Esattamente come loro. Lo so che non ve ne ho parlato mai a lezione, le direttive lo proibivano, quelle nuove. Insieme alle cellule Paula ha preso anche questa. Diceva che era importante. – scopre il collo avvizzito e mostra un ciondolo appeso ad un laccio di cuoio. Lo toglie e lo porge a Paula. – tieni, adesso è tua.

Il tuo ciondolo… – Paula guarda il quadratino nero, lo rigira fra le dita. Non lo aveva mai visto da vicino. – sembra un pezzo di computer… ma cos’è?

È una scheda di memoria, stava su un cadavere. Nella loro sezione ce n’era un mucchio.

Cadaveri… vuoi dire…

Sì, erano tutti morti. La loro sezione devastata da un’esplosione, non era rimasto niente, solo i corpi conservati dal gelo dello spazio. Ma Paula…

Aspetta, aspetta! Questo è successo durante il viaggio. Come mai questa… conoscenza non è stata tramandata? Come mai si dice che i dati sono cancellati e non si sa nemmeno da dove veniamo?

Perché queste sono le direttive, e sono state applicate con la forza. Hanno imposto di non dire niente alla generazione successiva, forse per nascondere qualcosa, o forse per non far perdere la speranza. Fin dall’inizio la nostra linea ha deciso di contravvenire. Paula mi ha trasmesso tutto quello che ha potuto e io adesso lo farò con te. Ho tante cose da dirti…

E allora… – Paula parla lentamente per ritardare il momento della risposta, la sa la risposta ma non vorrebbe sentirla. – allora tu hai seminato le cellule. Sono andate perdute, vero?

No. Lo sai che no, non girare intorno al problema. Lui c’è, ha diciotto anni.

E dove… dove lo tieni? Dove lo hai tenuto nascosto per diciotto anni? – Paula è esasperata ma in fondo capisce l’azione di Ester, una forma di ribellione contro le direttive che non lasciano nessuna speranza. Forse anche lei… ma certo, anche lei l’avrebbe fatto, dato che è la stessa persona.

In un compartimento segreto della nave. Si chiude dall’esterno, è il reparto di isolamento del modulo da usare in caso di malattie infettive sconosciute. Una di quelle stupide procedure di sicurezza, infatti per fortuna non è mai servito. Ci sono tutte le comodità, almeno d’inverno non fa freddo e d’estate non ci sono le zanzare. Che coglionata, portare con noi uova di zanzara insieme ai semi delle piante acquatiche…

E come mai nessuno l’ha scoperto…

E come farebbe? La porta non si vede, bisogna sapere che c’è e conoscere il codice per aprirla. E poi nessuna gira liberamente in quella sezione della nave, ci andiamo solo io che ho i laboratori, ed Emily per la manutenzione delle macchine. Mai vista una persona meno curiosa di Emily.

Ma come hai fatto a tenerlo chiuso per diciotto anni…

Non sapevo che fare. Pensa se le altre se ne fossero accorte. E poi la sua vita non è molto diversa da quella che tutte noi abbiamo fatto durante il viaggio.

E lui? Com’è? Come sta?

Sta benissimo, ti assicuro. Crede che la realtà sia questa, non conosce nient’altro. Non mi ha mai vista.

Come… non ti ha vista?

No, io parlo con lui attraverso il computer che maschera la mia voce. Quando era piccolissimo l’ho accudito con un braccio meccanico e gli ho insegnato a parlare utilizzando uno schermo interattivo. Adesso è diventato bravissimo.

Bravissimo a fare che? Dentro una scatola…

Mi sottovaluti. Gli ho insegnato tutto quello che sapevo, ora è un medico come me e te. Ha una buona mano in chirurgia.

In chirurgia… ma com’è possibile?

Certo, sa usare benissimo l’unità remota, ho simulato gli interventi più difficili. Non ha mai visto il sangue da vicino, lo so, però non importa. Mi fiderei di lui ciecamente.

Ma…

Niente ma. Adesso copriti bene, andiamo a trovarlo.

 

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Capitolo 4
*** IV. ***


IV.

 

Sotto il cielo biancastro sfrecciano bassissimi gli aerei da guerra. Tornano da un’altra missione inutile, forse l’ultima. Il caldo è soffocante, le piante tropicali sembrano boccheggiare nell’aria asciutta, e molte ormai sono ingiallite.

Allora, parte lo stesso?

Sì, è sicuro. – il vecchio beve avidamente dal bicchiere di carta, l’acqua gli cola lungo il mento. – ah! Stavo morendo di sete!

Tieni – il giovane versa altra acqua dalla bottiglia di plastica con l’etichetta scollata, e guarda con disprezzo le mani tremanti e sudice di Albert.

Che carogne. Sono con l’anima ai denti e non si arrendono. Sporchi diavoli di merda.

Ma sei sicuro, eh?

Sì che sono sicuro. Maledetti, hanno già caricato tutte le provviste e anche le piante e gli animali, un’altra dannata arca. I miei amici dicono che si sono impegnate anche le mutande, però sembra che ce la stanno facendo.

Dannazione! – Habel scaraventa un pugno sul tavolo e rovescia il bicchiere mezzo pieno. Albert cerca di afferrarlo ma non ci riesce. – e tu, cane, hai bevuto abbastanza!

Ti prego, Habel, non fare così, io sono tuo amico…

Ma sì. – versa altra acqua con un ghigno cattivo – siamo amici, noi. Parla ancora.

Non si possono avvicinare gli equipaggi. Però c’è una novità. Senti questa: maschi e femmine sono separati.

Davvero, separati? – il giovane mantiene il viso immobile come una maschera ma pensa in fretta. È pericoloso quello che sta sentendo. Parla con finto disprezzo – E come cazzo faranno…

Sembra… – beve una sorsata e abbassa la voce – sembra che durante il viaggio si riprodurranno con una di quelle loro diavolerie, clo… come si dice…

Clonazione.

Sì, clo…nazione. I maschi da una parte, le femmine dall’altra. Che stronzata, e dovranno ricongiungersi solo alla fine, quando arriveranno…

E dove cazzo sono diretti?

Che ne so io? Da qualche parte ad anni luce da qui, dicono che ci metteranno cinquecento anni. Cinquecento… ma ci pensi, noi non ci saremo…

No, ci puoi giurare, e nessun altro fottuto essere umano. E sai che ti dico? Nemmeno loro, ci saranno. Per la grandezza della Santa Unione, saranno distrutti anche loro.

Sì! – Albert scopre i denti guasti in una smorfia – devono morire! Loro, i miei amici, stanno già lavorandoci, ma non hanno voluto dirmi cosa cazzo stanno preparando. Di sicuro qualcosa di buono, per fare tanto i misteriosi! Ma tu… – torna serio all’improvviso e stringe gli occhi – come farai a salire anche tu sulla nave? Ci sono misure di sicurezza terribili…

Non ti riguarda più, vecchio.

Il coltello colpisce Albert subito sotto il pomo d’Adamo e taglia la carne di lato finché schizza uno zampillo di sangue. Habel lo rigira bene mentre il corpo inerte si abbandona contro il tavolino sconnesso, poi si asciuga le mani sulla camicia del morto. Più tardi, in albergo, dopo una lunga doccia si riveste con cura e torna quello che tutti credono, un elegante ufficiale dell’Unione Occidentale.
 

È… diverso da noi. – Paula guarda incuriosita lo strano essere immerso nel sonno. Vestito con una tuta blu troppo larga e corta, è alto e snello, senza i fianchi delle ragazze e con il petto piatto. I capelli bruni quasi rasati. Il viso dai lineamenti distesi è abbastanza bello ma un po’ grossolano, ha qualcosa che ricorda l’espressione di sfida di Marzia. – cos’ha intorno alla bocca… sembrano peli.

Sì, sono peli. È la barba, gli sta crescendo.

La… barba… Cos’è?

Una delle differenze fra il maschio e la femmina. Ce ne sono altre.

Ma come mai non ce le hai fatte studiare…

Le direttive. Non bisognava parlarne. L’ordine era dimenticare. Abbiamo dovuto piegarci tutte quante, ubbidire o fingere di ubbidire. Per secoli l’abbiamo fatto, ma io non ci riesco più.

E io che cosa farò? Tu l’hai… risvegliato, e ora lo lasci a me… – si rabbuia, Ester ha i giorni contati e sa esattamente quanti saranno. È terribile sapere quanto ti resta.

Fai quello che sentirai giusto.

Come potrò decidere io… io sono solo una…

Tu sei Paula, sei me stessa giovane. Non so quello che farai, ma sono tranquilla. Sarà come se l’avessi fatto io.

Mi pesa, questa responsabilità. Fino a ieri pensavo che tu… ecco, pensavo che tu saresti durata per sempre. Che stupida, non è vero?

Sei cresciuta all’improvviso. È il nostro destino, succede a tutte noi. Siamo noi a volerlo. Mi piaceva tanto guardarti spensierata come ti meritavi di essere. E avevi poco tempo, non ho voluto rubartelo. Anche tu farai lo stesso con quella che verrà dopo.

Già. Anch’io.

***
Sola nella casa tiepida Paula rigira fra le dita la scheda di memoria. È di nuovo inverno, fuori la neve è alta e ne cade ancora. La scheda è un quadrato nero di sei centimetri, da un lato ci sono sessantaquattro piedini dorati evidentemente destinati ad inserirsi in un alloggiamento, e lei non conosce nessun dispositivo così, non ce ne sono nel laboratorio e nemmeno nella camera di pilotaggio. Ester le ha detto cosa deve farne, ma le sembra una cosa assurda, e così ha deciso di disubbidire. Le manca Ester, è morta da quasi un mese e ancora sembra aleggiare per le stanze, certe volte crede di averla dietro le spalle e quasi si stupisce di non sentirla parlare. Il dolore è stato forte ma ora sembra attenuarsi, è stato triste vederla soffrire, e ancora più triste pensare che questa identica scena era destinata a ripetersi, scritta nel suo codice genetico imperfetto. Ma poi è subentrata la calma, la consapevolezza che Ester è andata prima, però anche lei, Paula, la seguirà, nello stesso posto. Che sia il Paradiso degli antichi o il niente delle attrazioni casuali delle molecole, sarà nello stesso posto che andrà. E così pian piano si è impadronita degli spazi prima riservati ad Ester, e anche del suo lavoro. Mantenere le colture di batteri transgenici che producono i farmaci essenziali, ed estrarli nelle piccole quantità necessarie alla comunità. Curare piccole stupidaggini, i postumi della frattura di Erika e le infezioni banali, o i sintomi del cancro al colon di Anna, che ha recidivato inesorabilmente dopo l’operazione, solo cure palliative senza nemmeno poterla consolare dato che lei sa esattamente qual è la malattia e quanto durerà, anni, mesi e giorni. E fra poco toccherà alle altre, a tutte le altre. Un incubo.
Ester le ha detto che il ragazzo si chiama Sebastian, e il suo doppio Salvatore. La madre una tedesca altissima, bionda e minuta, il padre siciliano, piccolo e scuro. La sua scheda dice che si è offerto volontario dopo che la sua famiglia era andata distrutta in un bombardamento. Niente da perdere, niente da rimpiangere. Paula sospetta che la stessa motivazione abbia spinto tutti gli esploratori, stufi del pianeta Terra e indifferenti sulla riuscita o meno dell’operazione. Peggio di così…
Gli ha parlato attraverso il sintetizzatore vocale, la stessa voce neutra che era abituato a sentire, ma lui si è accorto lo stesso della differenza.

Cosa ti è successo?

Ripeti la domanda, non ha senso. – col cavolo, che non ha senso. È successo di tutto.

Mi sembri… differente. Parli in un altro modo.

Irrilevante. Il mio modo di parlare non ti riguarda.

Prima mi riguardava. Che diavolo ti è successo? Sembri un’altra persona.

Per favore, indica se serve qualcosa. Serve qualcosa da mangiare o da bere?

Eh, hai voglia di scherzare e parli come un computer suonato. E va bene, no, non mi serve niente. Sto benissimo, grazie. Non mi hai fatto fare nessun intervento, oggi.

Prepara il terminale. C’è un intervento al cervello. Fossa cranica posteriore.

Ah. Finalmente. Mi stavo annoiando.

Non hai abbastanza da fare?

Ho letto tutti i libri. Ho simulato tutti gli interventi possibili.

Perché non ti eserciti un po’ in palestra?

Mi annoia la palestra. Sempre gli stessi movimenti. Meglio operare.

E va bene. Pronto. Paziente di ottantadue anni, stabilizzato. Astrocitoma del ponte. Intervento conservativo.

Nessun problema. Questi interventi mi rilassano.

Paula guarda l’intervento simulato, Sebastian (o Salvatore?) lavora con calma e sicurezza, pilotando il terminale microchirurgico come lei non saprebbe fare meglio. Ester è stata una maestra bravissima. Dopo tre ore Sebastian avvia il programma di ricucitura. L’intervento è finito, il malato sopravviverà. Si alza dal terminale e si stira, poi muove qualche passo nella stanza angusta. La cuccetta a forma di bozzolo incassata nella parete. Il terminale del computer con il grande schermo piatto e i comandi del modulo operatorio remoto. Il cibo delle razioni spaziali distribuito da un dispenser nella paratia. Il piccolo bagno completo di tutto. La lavatrice a secco per le tute troppo corte. Accanto una minuscola palestra con le macchine isometriche, adatte per i lunghi viaggi nello spazio in gravità ridotta. Una prigione, ma lui non lo sa, è il suo mondo da sempre.
 
Allora, che ti sembra? – Paula guarda preoccupata Giulia che maneggia con troppa disinvoltura la scheda, ha deciso di mostrargliela. – attenta a non farla cadere a terra…

Se cade non succede niente. È una scheda corazzata, ci puoi passare sopra con i piedi e non si rompe.

Non provarci! È l’unico oggetto importante che mi ha lasciato Ester.

Mi dispiace per te. E io non sto meglio… – Giulia si rabbuia pensando che anche Anna ha la data di scadenza, ma per fortuna lei non sa quando esattamente succederà. Non ancora. – però non preoccuparti. È davvero robusta, resiste anche ad un’esplosione. Come l’ha avuta Ester?

Non lo so – meglio mentire, non si sa mai – però la teneva sempre al collo. Io vorrei… sapere cosa c’è dentro. Forse non c’è niente…

Chi lo sa. Ora andiamo a vedere. Da quando sono… cresciuta Anna mi ha aperto il laboratorio. Possiamo provare se c’è uno slot per questa scheda, o altrimenti costruirne uno.

Saresti capace?

Ma certo, è la prima cosa che Anna mi ha insegnato. Non essere schiavi dell’hardware. E nemmeno del software. – con una risata che la fa sembrare ancora bambina prende il mantello e porge il suo a Paula. – dai, copriamoci bene. Il laboratorio è sulla nave.

 
 
La mensa è abbastanza fresca, gli eroi devono essere trattati bene. C’è allegria e nervosismo, tutti quanti hanno alzato un po’ il gomito, è l’ultima volta che possono farlo, sulla nave è rigorosamente vietato l’uso di alcool. Alla fine del pasto speciale da millecinquecento calorie (un lusso per gli uomini dell’equipaggio) il capitano Antonio Luciano, mezzosangue indiano con i capelli lunghi e lisci raccolti in una treccia, si alza per il brindisi.

Ragazzi, ci aspetta un lungo periodo insieme.

Sì!

Bene!

Ehi, fatemi parlare, cazzo! Bel rispetto per il comandante!

Parla, comandante!

E che aspetti?

Mi vendicherò quando saremo in volo. Vi farò lustrare il ponte con scopa e spazzolone.

Sei un negriero!

E fatemi parlare!

Zitti, fatelo parlare se no s’incazza!

Ragazzi, amici. – Antonio sorride guardandoli uno ad uno poi torna tetro come sempre, assomiglia maledettamente ad un totem – nessuno di noi lascia niente in questo fottuto pianeta. Giusto?

Giusto! Che si fotta il pianeta Terra!

Però noi stiamo andando a costruire Terra 2. E allora vi dico: che non sia mai come questa Terra! Non ripeteremo gli stessi sbagli! Giuriamo tutti che non ci saranno più guerre!

Lo giuriamo!

E beviamo alla salute delle nostre compagne che non abbiamo mai visto, e incontreremo solo su Terra 2!

Alle nostre compagne! – Tutti vuotano i bicchieri di birra e poi tornano a chiacchierare animatamente.

Sì, in culo a quelle puttane! Dovranno farsela rossa a furia di ditalini! Cinquecento anni senza cazzi…

Almeno si capisce come la pensi. Nemmeno a me piace questo split. Forse era meglio prima.

Che ne sai tu, dicono che le altre volte si sono ammazzati a vicenda come i pazzi.

Ed è successo perché uomini e donne stavano insieme? Io non ci credo.

Eh, le donne sono buone solo per una cosa, sai cosa. Meglio non avere rompimenti di palle quando c’è un lavoro serio da fare.

Ma che dici, Steve, io penso…

Non fare troppe congetture. Magari non era colpa delle donne, forse era colpa solo dell’ambiente limitato per troppi anni, chi lo può dire. Però questa trovata della clonazione mi sembra buona. Un altro te stesso da allevare e addestrare come un figlio. Io ho sempre desiderato un figlio. – Steve Castelli, un ingegnere nero con gli occhi a mandorla e padre italiano accarezza il bicchiere vuoto e ci guarda dentro. – peccato che la birra sia finita…

Io invece ce l’avevo, un figlio.

Non pensarci più, Sebastian. Ora faremo un mondo nuovo. E dai, sorridi.

Non mi va di sorridere. Forse sorriderà un mio clone, un giorno o l’altro. Io no.

Contento tu… – Steve si guarda nervosamente intorno e abbassa la voce – che te ne pare di quello? Quello nuovo.

Chi, Habel? Non so niente di lui. Solo che è un militare, è stato preso all’ultimo momento per sostituire il povero Bob alla sicurezza. Lo hanno fatto per disperazione, non c’erano alternative. Prima l’incidente nell’alloggio delle riserve, poi Bob. Che strano, morire così all’improvviso. Sembrava sanissimo…

D’infarto nel suo letto, una vera sfortuna per lui. Almeno fosse stato in battaglia…

Che cazzo cambiava?

In battaglia, volevo dire, con una bella fica sotto. – e dai, fatti una risata…

E va bene, ah ah ah. Contento?

Sei una pizza. Come farò a sopportarti per cinquecento anni?

Bah, stavo pensando lo stesso.

Aspetta, Seb, c’è rimasta una goccia di birra nei nostri bicchieri.

E allora?

Voglio brindare ancora. Al vecchio Bob, che il diavolo se lo porti. Era un amico.

 
 
Il laboratorio è stranamente caotico, in contrasto con il carattere rigoroso di Anna. Il saldatore laser dimenticato acceso brilla in un angolo abbrustolendo la vernice della paratia. Fasci di fili da riciclare sul bancone. Un computer mezzo smontato e abbandonato al suo destino da almeno un decennio, a giudicare dalla polvere stratificata. Paula guarda e non fa commenti, ha imparato quanto Giulia sia suscettibile, anche quando sembra allegra e spensierata. Si limita a staccare la spina del saldatore, che spande uno sgradevole tanfo di bruciato. Giulia rovista in uno scatolone pieno di componenti smontate da chissà dove, e ad un tratto lancia un grido eccitato.

L’ho trovato! Lo sapevo che doveva esserci! Guarda, Paula! Questo l’ha fatto Anna, si capisce dallo stile…

Non mi sembra granché. – il cavo è rattoppato con il nastro adesivo e ad un’estremità porta un pezzo di plastica sbeccato tenuto insieme a forza con fil di ferro. Però a guardarci dentro, c’è un alloggiamento con sessantaquattro piccole scanalature, e sembra della misura giusta.

L’apparenza non importa. Ora colleghiamo il cavo al computer centrale. – armeggia dietro uno dei terminali ed emerge trionfante e impolverata. – ecco fatto. È venuto il momento, dammi la scheda.

Senti… – Paula esita, ora viene il difficile. – ci ho pensato su, non so se la scheda contiene qualcosa di riservato… – il viso affilato di Giulia si contrae in una smorfia e gli occhi saettano di lato. Si è offesa a morte. Meglio fare marcia indietro. – ma no, che importa. Però devi giurare che non dirai niente a nessuna di quello che vedrai. Me lo giuri?

Uffa, come sei seccante! Va bene, va bene, te lo giuro. Devo anche sputare tre volte o fare qualcosa di simile?

No… scusami, Giulia. Tu mi stai aiutando e io invece mi comporto da sciocca. Però non sai quanto bene volessi ad Ester.

Lo so, scema. E ora dammela. – riluttante Paula scioglie il laccio di cuoio e consegna il quadrato di plastica. Corazzata, non sembrerebbe proprio. E invece Giulia è così sicura, e lei se ne intende. Cosa conterrà mai…

 

 

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Capitolo 5
*** V. ***


V.

 

Come stai oggi? Ti senti meglio? – nel riquadro dello schermo Sebastian è pallido e triste, forse anche lui sta male. Però è meglio non chiedergli niente.

Come… come diavolo fai a sapere che stavo… – Paula si aggrappa alla mensola della consolle. Non può vederla, è tutto sotto controllo. E nemmeno sentire la sua voce vera e capire dalle inflessioni cosa pensa. E invece…

Sono alcuni giorni che stai male. L’ho capito dai discorsi che fai, ma non preoccuparti. Capita a tutti ogni tanto.

Chi te l’ha detto?

Tu, me l’hai detto. Una volta, molte volte. Però ultimamente sei cambiato. Non siamo più amici come prima? Mi sembrava che ci tenessi, alla mia amicizia.

Ma io… lei… volevo dire io sono sempre lo stesso.

Sei un programma, vero? Ho capito che non sei vero, quando ho scoperto dove sono.

E dov’è che sei? Dimmelo.

Sono su una nave spaziale. Ho indovinato? Ecco perché non ci sono finestre e non ho spazio per muovermi. Ecco perché ci sono queste macchine nella palestra, il database del computer ne parla. Sono state inventate per i viaggi interstellari. E tu sei il computer centrale, che deve tenermi compagnia per non farmi impazzire. Ma ora puoi dirmi qual è la mia missione, o è troppo presto ancora?

Cosa ti fa pensare che tu abbia una missione?

Mi hai addestrato per troppi anni. Perché perdere tanto tempo se non serviva a niente? Mi sembra illogico. – già, illogico. Paula stringe ancora di più la mensola, le dita diventano bianche.

E se ti dicessi che non c’è una missione, che tu devi restare lì dentro per sempre… per sempre, capisci!

Cosa dici, per sempre… è terribile.

Sì! Lo so che è terribile, maledizione!

Allora non sei un computer, sei un essere intelligente capace di emozioni!

Che stronzate stai dicendo!

I computer non dicono parole scorrette.

Io… e va bene. Non sono un computer. Vorrei esserlo ma non lo sono.

Io invece sono contento che tu non lo sia. E nemmeno l’altro era un computer. Sai che veniva sempre a salutarmi quando era ora di dormire, sentivo l’affetto nelle sue parole, e sono sicuro che mi avrebbe abbracciato se avesse potuto. Ero un bambino, allora. Ma dimmi dove sei, sei il controllore della base? Siamo collegati via radio? La mia nave si è persa e non potete più recuperarla?

No… – fa tutte le ipotesi possibili in base alle cose che sa, ha letto la biblioteca del terminale che comprende testi di medicina e trattati generici sul volo spaziale. E basta. – non si è persa, la tua nave.

E allora cos’è successo? Perché il volo dura così a lungo? Sono qui da… diciotto anni standard. Ho tenuto il conto, dato che quello di prima (che era più gentile di te) mi ha detto esattamente quanti anni avevo. So anche il giorno della mia nascita, il quindici del mese delle piogge.

Adesso devo andare via. – è troppo duro da mantenere, questo rapporto. Paula ha di continuo la sensazione di fargli del male, tenendolo chiuso lì dentro. Ma non può farlo uscire, sarebbe una catastrofe, e forse ci sarebbero conseguenze irreparabili per tutta la colonia. E le sue paure sono aumentate ora che sa qual era la missione degli uomini.

Ti prego, non andare, resta ancora. – di sicuro è la prima volta che si esprime così. La sua voce esprime ansia, e anche il viso è attraversato da una smorfia di dolore.

Perché vuoi che rimanga…

Mi sento solo. Non mi basta più il computer. Mi sento inutile. Forse è meglio morire.

Non dirlo più! Non è… è una cosa pazza.

Perché pazza? Non servo a niente, tutto quello che ho imparato lo devo tenere per me, anche quegli interventi a distanza sembrano sempre gli stessi, forse anche quelli sono simulati. Tutto simulato, la tua voce, la mia vita. Perché vivere così?

Perché… – Paula pensa in fretta, deve essere convincente. – perché ce l’hai, la missione. Sei l’ufficiale medico di Terra due.

Cos’è terra due? Mai sentito.

È un progetto iniziato molto tempo fa. Tu sei un umano.

Lo so, che sono un umano. Me lo ha detto l’altro.

E lo sai che gli umani hanno un… sesso?

Certo che lo so, lo so perfettamente. – la sua faccia esprime stupore e curiosità – So operare sia uomini che donne, e sono addestrato per curare le patologie specifiche degli uni e delle altre. Ma fra di voi non parlate? Aspetta, aspetta! Ora ho capito, voi siete una specie aliena, ecco perché non vi fate vedere mai.

Sì. – che fortuna, il problema per ora è risolto, fino alla prossima crisi. – hai indovinato. Vi osserviamo da molto tempo, ma non potevamo farci vedere per non influenzare la vostra civiltà.

E io? Perché sono qui? State facendo un esperimento?

No! Non è un esperimento! – maledetta Ester, con la sua idea brillante. – è successo un… incidente. Ora tu sei solo, separato dalla tua colonia.

Lo avete provocato voi, l’incidente? – la sua voce sorda e minacciosa le fa un po’ paura, Paula sa che gli uomini possono essere pericolosi. Per fortuna la paratia d’acciaio è impenetrabile.

No! Ti giuro che non siamo state… stati noi. Noi ti abbiamo solo… raccolto.

Non mi ricordo di nessuno. Solo macchine e questa voce. Siete così schifosi da vedere? Ormai so della vostra esistenza, che ragione c’è a stare nascosti?

C’è un motivo… – Paula pensa ancora, e l’idea viene da una discussione avuta molto tempo prima con Ester, una sera spensierata d’estate. Ester era allegra e si era lanciata in un ragionamento filosofico neanche tanto assurdo. – tu credi che tutte le forme di vita siano basate sul carbonio, vero?

Sì… tutte le forme di vita che conosco. Che vuoi dire?

Ci sono altre forme di vita, completamente differenti. Noi siamo basati sul… silicio, quello che voi chiamate silicio. Non siamo compatibili in nulla, quello che respiri tu (una miscela di gas che voi chiamate ossigeno e azoto) per noi è veleno, e se tu fossi nella stessa cabina con me moriresti ustionato, perché la nostra temperatura corporea è di duecento dei vostri gradi. Ah, dimenticavo, noi respiriamo un gas che voi chiamate acido cianidrico…

Che peccato… e così non c’è speranza d’incontrarci di persona. Avrei voluto stringerti la mano. Sai, un gesto che facciamo noi umani per dimostrare amicizia, me lo ha detto l’altro.

Ma noi non abbiamo mani. Abbiamo… tentacoli, ecco, quello che voi chiamereste tentacoli.

Ah. – finalmente sorride, il viso è disteso. Bene, ha funzionato, almeno per oggi. – Mi dispiace che non possiamo incontrarci, però quello che conta è il pensiero. Sono contento che finalmente mi abbia parlato di te, di voi. E grazie per il tempo che perdi con me, mi fai sentire meglio.

Non ho perso tempo! Anch’io sono contenta di parlare con te. Volevo dire… contento.

Bene. – Sebastian si stira sorridendo e soffoca uno sbadiglio – Ora ho un po’ di sonno. Come si dice, da voi?

Buona notte.

Ah, ecco, si dice così anche da noi. Buona notte.

Lo schermo è muto e vuoto, ma Sebastian resta a guardarlo immerso nei suoi pensieri. Dopo un po’ digita un comando sulla tastiera e riascolta la registrazione del dialogo. Da quando, undici anni prima, ha scoperto per caso come fare, registra tutte le conversazioni con la voce. Le ultime volte qualcosa è cambiato, lo sente benissimo anche se il suono metallico è articolato dalla macchina nello stesso identico modo. Sono diversi gli intervalli fra le parole, come se ogni tanto esitasse, e anche il vocabolario è leggermente differente. Un altro essere parla con lui, quello di prima non c’è più. Lo rimpiange perché si era affezionato, ma quello nuovo è ugualmente gentile, si preoccupa che lui stia bene, gli chiede sempre se ha bisogno di qualcosa. Per due volte ha esitato parlando di sé al femminile, e poi si è corretto. Un alieno femmina.
Nella biblioteca anatomica ci sono solo cadaveri, di tutte le età e osservabili da tutte le angolazioni. Immagini di donne viventi no, nemmeno una. Come sarà una vera donna viva? Come parlerà, che effetto farà ascoltare la sua voce, su un registro più acuto di circa un’ottava in media, perché l’organo fonatorio, il laringe, nelle femmine è più piccolo di quello dei maschi… e poi, che effetto farà toccare la sua pelle, come sarà… congiungersi con lei? Come sempre seleziona l’immagine n. 12569. Donna di diciannove anni, morta per un’overdose da droga. Prima di essere inclusa in un unico blocco di plastica e sezionata con il laser in fette trasparenti da un quarto di millimetro è stata olografata e si può guardare da tutte le angolazioni, sembra in piedi con le braccia lungo il corpo, i capelli ricci e scuri, nuda. Le gira intorno, ecco il palmo delle mani con le linee sottili e macchie d’inchiostro sui polpastrelli delle dita. La curva delicata dei fianchi, le fossette delle articolazioni fra il sacro e l’ischio. Sospirando si tocca, sentendo forte quanto è inutile e quanto è triste.
La nave viaggia da trent’anni, ormai. Accelerando di continuo un po’ di più sotto la debole spinta dei motori ad energia atomica che sparano dai razzi di coda una nuvola di ioni, ormai ha raggiunto i cinquecentomila chilometri all’ora. Poco per la distanza che deve coprire, infatti il Sole è ancora di gran lunga la stella più luminosa del cielo nero, ma nessun uomo è mai andato così veloce. A metà percorso, guidata dalla sua batteria di computer ridondanti, la nave invertirà la spinta dei motori impiegando più di duecento anni per frenare la sua corsa, descriverà una rivoluzione intorno alla stella AK32, perdendo ancora velocità e agganciando il campo gravitazionale di Terra due. Il pianeta si chiama già così, se qualcuno laggiù è ancora vivo e ha voglia di consultare una carta stellare potrà localizzarlo facilmente e fantasticare su come mai può essere. Leggermente più piccolo della Terra, con un’atmosfera contenente vapore d’acqua, anidride carbonica e tracce d’azoto. Grandi calotte polari, un oceano sconfinato e un continente color arancio che durante i lunghi inverni diventa bianco di neve. Ci vorranno cento anni perché i batteri transgenici producano un’atmosfera respirabile e abbastanza humus per le piante primitive, e altri cento perché crescano le foreste e le praterie seminate dai moduli automatici. E poi comincerà l’avventura.
Solo nel vasto locale dei computer Steve rigira fra le mani una delle schede di memoria che ha preso in biblioteca. In trent’anni ha letto tutti i libri gialli, l’unico genere che gl’interessa, nel molto tempo libero che gli resta dai turni nelle serre. L’astronave è grande abbastanza da dare l’illusione di un mondo fermo e stabile. I locali sono abbastanza spaziosi, la gravità ottenuta con una rotazione costante attorno all’asse centrale è due terzi di quella originale della Terra. Le nuove serre a circuito chiuso sono state un successo: ancora in fase sperimentale alla partenza, si è visto che producono cibo e ossigeno a sufficienza per il piccolo gruppo di coloni, e l’eccesso può essere liofilizzato e ridotto in razioni a lunga conservazione.
La scheda è un videogioco modificato, molto usato dall’equipaggio maschile. La ragazza che è possibile fingere di toccare dev’essere una vecchia, ormai, o forse anche lei è morta ammazzata. Nuda, con i capelli raccolti in una breve coda da un nastro colorato, la pelle liscia e abbronzata, tette spettacolari ma naturali (si capisce da come ballano quando corre), fianchi larghi parlanti e un pezzo di culo che lo fa venire duro solo a guardarlo. Corre e tu la insegui, e se la prendi… Purtroppo le schede sono solo un centinaio, e col tempo diventa tutto banale e scontato. Come quei giochi complicati che le prime volte ti danno filo da torcere, e poi li fai ad occhi chiusi perché hai capito il trucco. Steve è ingegnere meccanico, il suo addestramento dovrà metterlo in pratica solo dopo l’installazione dei moduli minerari. Comunque ne sa abbastanza di informatica da tentare di riprogrammare la scheda. Altri movimenti, cazzo, qualche variazione che renda le cose meno monotone. Inserisce il quadratino nero nello slot, eccola la stronza subito pronta che gli tira fuori la lingua e lo sfida ad afferrarla con le braccia pelose incorporate nel programma, comandate dalla coppia di joystick. Ma lui non è interessato alla solita scena. Cerca di fermare il programma per lavorarci dentro e subito compare una schermata di protezione, è necessaria una password per proseguire.
Rina è alta per la sua età e il lavoro nei campi l’ha irrobustita. D’estate usa le macchine solari per diserbare e dissodare, taglia alberi per liberare nuovi spazi e per procurare altro legname alla colonia. Quasi tutto è fatto di legno, alla colonia, l’estrazione e lo sfruttamento dei metalli vanno molto a rilento per mancanza di attrezzature. Per costruirle dovrebbero ripercorrere le tappe delle civiltà primitive, ma sono poche e poco adatte ai lavori pesanti. La maggior parte dei membri della colonia ha specializzazioni scientifiche o decisamente strane, come quella di Tania, che deve tenere nascosto il suo talento artistico ed è stata costretta a rispolverare il suo hobby dell’erboristeria, Rina lo sa perché gliel’ha confidato Francesca che è scrittrice e scenografa, e d’estate zappa la terra. Per fortuna qualcuna con i muscoli c’è, servono braccia per seminare, piantare e curare gli alberi da frutta. Durante il lungo inverno Rina e Francesca hanno poco da fare, la terra è gelata e le macchine non vanno. Ma c’è sempre la neve da spalare, la legna da trasportare con le slitte e le riparazioni. E poi si può fare musica, non ai livelli di Emily, ma abbastanza da divertirsi. Le dita di Rina percorrono la tastiera del campionatore, senza seguire uno spartito. Lei si rilassa così, inventandosi la musica. Potrebbe continuare per ore, e se qualcuno l’ascoltasse di sicuro la troverebbe noiosa. Però non c’è nessuno, solo Francesca, perduta nei suoi pensieri, quasi non sente le note di organo che le sembrano seguire una logica inesorabile. Ora premerà sui tasti per ottenere un effetto di vibrato con l’aftertouch, poi suonerà una scala veloce sul registro alto. Infatti. E ora…

Di cosa parlate sempre tu e Marzia?

Non lo sai? Davvero non lo sai? – Rina continua a suonare distrattamente, ha il viso leggermente arrossato. Come molte altre, ha preso male la notizia che non è un essere unico e irripetibile, l’idea di essere una copia destinata a ripetersi all’infinito le fa rabbia. – invece sono sicura che lo sai, è già successo, come queste fottute note che sono sempre le stesse! – la mano aperta colpisce con forza i tasti bassi del campionatore, che emette un rumore violento di porta che sbatte.

Non romperlo, è difficile da riparare e poi ti mancherebbe.

Non lo rompo ma mi sono rotta io di suonarlo. – spegne bruscamente lo strumento e rimane girata con la faccia verso il muro di legno grezzo.

Senti, se ti consola, io quando l’ho saputo ho fatto una scenata identica a questa.

Non mi consola un cazzo!

Non parlare così. Le altre non parlano così.

Ma noi sì. E se non gli piace alle fottute stronze, che vadano a farsi inculare da un negro!

Chi ti ha detto cos’è un negro…

E a te chi ha detto cos’è un cazzo? Svegliati, Francesca, mi sembri rincoglionita! Chi diceva così, non te lo ricordi? Tu eri, e lo hai detto a Helga, Helga lo ha detto a Marzia e Marzia a me. Tutto torna indietro.

Io volevo…

Ho capito cosa volevi, invecchiando sei diventata molle. Credi che sarò più felice se non dico fica alla fica?

Basta, hai ragione tu. Non funziona, non funziona un cazzo di niente. Ti ascoltavo suonare e sapevo quale tasto avresti premuto. Ne ho le palle piene di questa ripetizione del cazzo.

Ah! Finalmente parli come si deve! – si alza bruscamente e percorre la camera a grandi passi. – e ora che sono grande, tira fuori il whisky, lo so che ce l’hai e so pure dove lo tieni. Fa freddo e ho le palle rotte. Dove andiamo a parare con questa colonia del cazzo? Che fine faremo? Me lo dici, lo sai, tu?

Non lo so, non so un cazzo di niente. Vuoi bere, eh? Io all’età tua lo reggevo già bene.

E io pure, che credi? Ti ho detto che so dove lo tieni, e so pure farlo. – Francesca estrae da sotto un’asse una bottiglia scura e versa l’alcool in due scodelle.

 
Rannicchiata nel suo letto Giulia respira piano, sperando d’ingannare l’udito fine di Anna. Da quando ha visto il contenuto della maledetta scheda di Paula non riesce più a riposare tranquilla. Basta chiudere gli occhi e ricompare il filmato senza parole ma pieno di gemiti e grugniti, una cosa schifosa ma anche terribilmente interessante, e così lei e Paula l’hanno visto fino all’ultimo fotogramma, senza fermarlo quando è ripartito dal principio. Poi senza guardarsi negli occhi hanno staccato il cavo e Paula ha ripreso la scheda, ma non se l’è messa al collo come prima, l’ha cacciata in una tasca della tuta. Giulia sospetta che l’amica abbia intenzione di buttarla via, ma è indistruttibile, anche dopo un inverno sotto la neve le sue dannate informazioni restano. Che delusione, lei credeva che ci fossero dati importanti, e anche Paula, invece…
Invece una lunga scena spaventosa, ripresa dalla parte di un essere schifoso con le braccia pelose, si vedono solo quelle e nient’altro, che afferrano una povera donna, molto bella per la verità, che non sembra spaventata, anzi sorride mentre le mani la toccano, la…
Giulia si gira nel letto e mette il cuscino in mezzo alle gambe. Muovendosi piano per non farsi scoprire da Anna, dato che non russa ancora si capisce che è sveglia, strofina la carne sensibile contro la stoffa ruvida e controlla il respiro. Alla fine sospira forte e cambia rumorosamente posizione. Fatto anche stavolta. Ora il sonno verrà più facilmente, forse.
Invece non viene, vede ancora la scena che gira e gira, la carne soda dei fianchi della donna pressata dalle dita crudeli, mentre l’altra mano si muove rapida. Si muove rapida apparentemente senza scopo, ma che logica poteva avere un uomo, un essere estinto primitivo, inferiore... Però quei movimenti le ricordano qualcosa, somigliano troppo a…Vorrebbe avere la scheda e non può alzarsi senza svegliare Anna, sente che è importante rivedere il filmato ancora una volta.

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Capitolo 6
*** VI. ***


VI.

 

Ti dico che stavolta sono sicuro!

Sei pazzo.

No! Ne ho le prove! – Sebastian e Steve sono seduti nell’abitacolo angusto di una navetta di salvataggio. Si muore di caldo e c’è cattivo odore.

E ancora più pazzo sono stato io a seguirti qui. Avrei dovuto prescriverti un tranquillante.

Non mi fare incazzare, Seb! Sono più normale io di tutti quanti voi messi insieme.

Tipico dei matti dire così, continua e ti troverai in cella d’isolamento.

Parla piano! Non mi fido di nessuno salvo te. Quella carogna sarebbe capace di spiarci anche qui.

Sarebbe un gran testa di cazzo se lo facesse, basto io a morire di caldo in questa cazzo di stiva. E dai, sputa fuori queste novità segrete. Mi sto rompendo.

L’ho scoperto una notte che ero da solo nel locale dei computer. C’ero andato con le scarpe di gomma e tenevo le luci spente per non farmi scoprire. Volevo riprogrammare la mia scheda k…

Quella che usi per farti le seghe.

Sì, proprio quella! Tu non la usi la realtà virtuale? Sei un fottuto santarellino, ti fanno schifo le seghe? Preferisci i culi dei maschi, di’?

Dacci un taglio, cazzo. Ho più di cinquant’anni ormai…

E allora? A me viene duro ancora, dottore, sono anormale?

E piantala di dire stronzate! Dimmi invece cos’avresti scoperto. Che si possono fare le seghe con la mano sinistra?

No. Ho decrittato una password per sbloccare la scheda, allora è comparso il messaggio.

Avevi le scarpe di gomma, dici.

Sì, perché?

Allora si spiega tutto. La puzza ti ha fatto venire le allucinazioni. Mi stai facendo svenire con le tue fottute scarpe di gomma.

Vaffanculo! Allora non mi prendi sul serio nemmeno questa volta!

È diventata una tua ossessione, dev’essere la vecchiaia. Prima Habel, lo avevi preso per un terrorista, te l’ho dovuto dire io che è ebreo e circonciso. E ora…

Habel non mi piace. Non mi sembra a posto, uno zio acquisito di mia madre era ebreo e…

E io dovrei continuare ad ascoltarti? Non ti vedi come sei patetico? Lo zio acquisito…

Seb! Non fare lo stronzo! Lo so benissimo come fanno gli ebrei, questo zio era gentile con noi, c’invitava a pranzo quando ce la passavamo male. Prima però pregava nella sua lingua, e mi è rimasto impresso, perché non vedevo l’ora che finisse la litania per mangiare tutte quelle cose buone. Habel alla mensa non prega mai.

E fa bene. Lascialo in pace, è un bravissimo ufficiale della sicurezza. Si tratta ancora di lui?

Lui non c’entra. La scheda k…

E dagli con la scheda del cazzo!

C’era un messaggio nascosto. Dice che uno di noi è un traditore e distruggerà l’intera missione.

Ma sei pazzo davvero! Com’è possibile che qualcuno si sia infiltrato nella missione più importante… – parla sempre meno velocemente, fino a scandire le parole – quella che dovrebbe… salvare… l’umanità.

Hai capito finalmente. Uno di loro. Ci hanno provato tante di quelle volte, con il veleno negli acquedotti, il gas nervino e la bomba atomica. Non gl’interessa più vincere, loro vogliono distruggerci e basta. Se riescono a sabotare la nostra missione hanno raggiunto lo scopo.

Non ci credo. È troppo assurdo. La tua scheda potrebbe essere un falso allarme.

Contiene troppi particolari riservati. I dati completi di tutti i membri dell’equipaggio, i nostri schemi genetici, tutte le procedure della missione, anche quelle di secondo e terzo livello.

Però manca proprio il nome del traditore.

Chi stava preparando il messaggio non lo aveva ancora scoperto. Ha dovuto interrompere il lavoro all’improvviso, e io credo di sapere perché. Il messaggio è incompleto, l’ho trovato per caso… ci pensi, avrei potuto cancellarlo senza accorgermene.

Dove hai trovato la scheda?

In biblioteca, in mezzo ad un centinaio di altre.

Devi farmela vedere.

Tieni. – gli porge un quadrato nero e una consolle portatile da videogiochi. – non è quello che sembra. Sembra una comune scheda ma è una potenza, contiene un mare di dati, e guarda meglio, non è di plastica, è fatta di titanio.

Vediamo. – la scheda entra docile nello slot e lo schermo della navetta s’illumina. Sebastian guarda stupito l’elenco sterminato di file, è impressionante, tutti i dati del computer centrale sono condensati lì dentro. – Non è possibile… guarda qui, queste directory le può leggere solo il capitano…

Le ho lette anch’io. Bah, stronzate dei militari, niente che non ti saresti aspettato da loro, hanno il cervello di una gallina.

Come fa a stare tutto quanto in così poco spazio…

Come vedi ci sta. Dev’essere un prototipo segreto, forse ce l’aveva una spia.

E il messaggio dov’è?

Qui. – si posiziona alla fine della lista di file e preme un tasto, subito parte uno spezzone audio, una voce concitata che s’interrompe bruscamente. Sebastian è impallidito e fissa lo schermo nero. Non sente più il caldo, una mano di ghiaccio gli stringe la gola.

Voglio… sentirlo di nuovo. Mi sembra di riconoscere la voce.

Ah sì? Pensaci un po’. – Steve fa ripartire il messaggio e aspetta che finisca, poi si gira a guardare la faccia desolata di Sebastian. – ma sì che l’hai riconosciuto. Era Bob.

Bob! Allora avevi ragione tu, non è stato un incidente…

Ne sono sicuro, che lo hanno ammazzato! Sono anni che te lo dico!

Il messaggio sembra… autentico. Se è vero quello che dice la missione è in pericolo mortale…

Finalmente! Ora mi credi…

Avrei voluto che non fosse così. Un traditore fra noi, un assassino…

Sì, un assassino. Ho pensato a quello che può fare. Le cellule staminali sono custodite nel nucleo centrale della nave, progettato per resistere ad un attacco atomico, e lui non può arrivarci da solo. È salito a bordo nudo come tutti noi e prima di farlo entrare lo hanno rigirato come un calzino. Così siamo sicuri che non ha una bomba atomica. La cosa più terribile che lui può costruire con le cose che ci sono a bordo è un ordigno chimico di media potenza. Ho fatto tutte le simulazioni.

Che significa media potenza, per te?

Capace di ucciderci tutti, ma non abbastanza potente da distruggere le cellule staminali.

Bene, è un buon inizio. Le donne potrebbero comunque prenderle e fare partire il ciclo da sole. Perderebbero solo una generazione, non sarebbe una cosa grave.

Dovrebbero cavarsela senza aiuto nella fase più delicata, quella dell’impianto. Le macchine pesanti le abbiamo noi, e anche gli operai addestrati per farle andare.

Poco male, ce la farebbero ugualmente e la missione riuscirebbe. Pensa ancora, Steve! Cosa può fare di altro?

Potrebbe… uccidere anche le donne. – Sebastian respira profondamente e si asciuga la fronte sudata.

Com’è possibile… le due sezioni della nave sono separate.

Ho studiato i piani della nave, sono sei mesi che cerco un punto debole come di sicuro sta facendo lui. C’è, il punto debole.

Giulia non resiste più e si alza cercando di non fare rumore. Inutile, Anna non dormiva, accende la luce e la guarda preoccupata.

Che ti succede stanotte…

Niente, dormi, è ancora prestissimo.

Lo so che ora è. Senti. – Anna si alza rabbrividendo, cerca una maglia pesante e la indossa sulla camicia di flanella. – c’è qualcosa che ti tormenta. Dimmi cos’è. Mi preoccupa, questo non è mai… successo.

Cosa vuoi dire… ah, capisco – fa una smorfia di disappunto – è la maledetta storia che si ripete, vero? Tutti in attesa che la copia faccia, dica e pensi le stesse cose.

Non te la prendere. Fa rabbia, ma poi ci si abitua. Il nostro mondo è così in fondo, pensaci, Giulia, non ci può essere niente di diverso, niente di importante, solo cose marginali. Le stesse persone e la stessa identica situazione. Può essere rassicurante, sembra… la vita eterna. Una forma imperfetta, va bene, però…

Basta, non ti sopporto! Anche l’inferno in cui credevano gli antichi doveva essere qualcosa di simile! Una ripetizione senza fine e senza via d’uscita. E ora…

Ora? – Anna si gira bruscamente, lasciando cadere un pezzetto di legno che stava usando per accendere il fornello. – cos’è successo ora? Cos’è che non ti fa dormire?

È…

E dillo! Non capisci che è inutile nascondermi qualcosa? Lo so benissimo cosa fai nel letto quando trattieni il respiro!

Io… – Giulia è diventata rossa e distoglie gli occhi – non hai diritto di spiarmi, tu…

Io, tu… che stupidaggini dici, Giulia! Dici solo io, fai prima. Non c’è un tu. Solo io.

Scusami. Devo abituarmi, ecco tutto. E va bene, inutile tergiversare, eh?

Inutile. – Anna chiude il fornello che fuma un po’, e ci appoggia sopra il bollitore. Per fortuna il tè è attecchito benissimo, merito di quella stronza di Francesca che ha la mano fatata per le colture difficili, e così non mancherà più alla colonia.

Paula mi… ha fatto vedere una cosa.

Ah sì? E cosa? – il culo, le ha fatto vedere. Dannazione, è insopportabile.

Una… scheda. – il viso di Anna non lascia trasparire nessuna sorpresa, solo un fastidio profondo.

Ah. È risuccesso. Già, dimenticavo, Ester è morta di nuovo. Certe volte mi distraggo.

Lo… lo sapevi!

Certo che lo sapevo! Io so tutto, anche il giorno e l’ora che morirò! E qui non succede mai niente, niente di nuovo!

Ho… ho trovato il cavo.

Il cavo, già. Sai chi l’ha fatto? Anna. Ma non io, l’altra.

L’altra…

Sì, un bel po’ di anni fa. Per quella scheda del diavolo, che credi, l’ha costruito apposta facendo un mucchio di fatica. E poi, dopo aver visto il bello spettacolo, la missione degli uomini, Anna si è strofinata contro il cuscino. E anch’io l’ho fatto quando è venuto il mio turno. Contenta? Forse hai ragione tu, questo è l’inferno.

No, Anna!

Come, no?

Cos’hai fatto, poi?

Me ne sono dimenticata… ma sì, ci ho pensato ogni tanto. Mi piaceva, quella ragazza. Beh, che c’è di strano? Anche a te piace Paula, l’ho capito. Però non ci starà mai, con te. Lei è proprio refrattaria a queste cose, esattamente come Ester.

Non importa, non importa! Sei sicura che non hai fatto nient’altro, che non hai pensato nient’altro?

Calmati! – versa l’acqua bollente nella teiera e respira il vapore profumato. Che si agita a fare, come il topo in trappola. Sospira pensando che non ha mai visto un topo vivo, meno che mai in trappola. – non ti ho mai vista così.

Finalmente! Finalmente è successo qualcosa di imprevisto! Bene Anna, stai allegra, ho una novità. Io non ho intenzione di dimenticarmi della scheda. Voglio guardare ancora quella scena perché sono sicura… spero di non sbagliarmi, sarebbe troppo dura.

Sicura di cosa?

Le mani. Le mani che fanno dei gesti. Mi hanno ricordato una cosa.

Cosa? A me non hanno ricordato niente… le mani, che sciocchezza. Quelle mani la toccavano dentro, senza vergogna, e lei mugolava di piacere… – versa il tè nelle tazze facendone traboccare un po’ sul tavolo lucido.

Allora finalmente è successa una cosa nuova. Tu non sei amica di Miko, vero?

Non molto. Non… la capisco.

Io Sarah la capisco. Si sentiva sola quest’estate, quando tutte erano al lago e lei a fare la guardia alla nave, ma noi non sapevamo che c’era una nave, solo che non si poteva passare di lì. Era con le gambe nude e i sandali di sughero, quelli che ha imparato a fare Judith. Hai mai guardato i suoi piedi?

No… e va bene, sì.

Sono bellissimi, non ti pare? Sembrano capaci di parlare. È strano, vero? I miei non li sopporto, e invece i suoi mi fanno impazzire.

Lo sapevo che non c’era niente di nuovo. – Anna beve troppo in fretta e si scotta la lingua. Prende con precauzione un altro sorso.

Invece sì. Ci siamo sedute insieme e lei ha lasciato quel ridicolo fucile scarico sul ciglio del viottolo. Tanto poteva in ogni caso afferrarmi e stendermi facilmente… ma a me non dispiace pensare che è più forte, mi lascerei andare e poi…

E piantala! Mi hai svegliata solo per raccontarmi le tue… fantasie?

No! Sarah sembra più piccola di quello che è, non si è accorta di come la guardavo e io non ho fatto niente. Abbiamo solo giocato.

Giocato!

Sì, a mandarci messaggi con… il linguaggio dei segni. Quello che conosciamo tutte.

Fottuti dalle procedure di sicurezza. Dannazione, che ingenuità!

Calmati, Steve! – la voce di Antonio è bassa e vibrante, incute rispetto come la sua statura gigantesca. Non ha mai bisogno di farla salire di tono. – nessuno ha colpa. È giusto che ciascuno sia intercambiabile, pensa a quello che potrebbe succedere in caso di un incidente.

Ma quel serpente traditore sa impiantare le cellule staminali! Sa come arrivarci!

Ha fatto il corso come tutti noi. Così l’intera colonia ha più probabilità di non estinguersi se capita qualcosa all’ufficiale medico. E poi lo sai bene che non ci si può arrivare da soli. Si accede almeno in tre, con password distinte.

Cazzo!

Piantala di gesticolare, Steve, o finisci fuori bordo e ci trascini con te. – Sebastian fa un mezzo passo indietro per mettersi al riparo dalle mani di Steve, sono tutti e tre all’esterno della nave con la scusa di un’ispezione, hanno spento le radio e hanno collegato i microfoni delle tute con un cavo volante.

Abbiamo poco tempo. Da dentro potrebbero insospettirsi per il silenzio radio. Tu che ne dici, Sebastian?

Che ora è chiaro perché ha aspettato trent’anni per agire. Lui vuole sicurezza. Se ci fa fuori tutti, le cellule staminali restano al sicuro. C’è un solo modo per arrivarci.

Quando faremo l’impianto!

E bravo, Steve, ci sei arrivato anche tu.

Stai zitto, senza di me quello vi faceva il culo e nemmeno ve ne accorgevate.

Basta, voi due. Pensate a quello che possiamo fare.

È come… una partita a scacchi. Usiamo la logica. Lui farà scoppiare la sua fottuta bomba, ma noi sappiamo quando lo farà. Fra meno di tre anni. Abbiamo un po’ di tempo.

Tre anni soltanto!

Potremmo… ritardare l’impianto per prendere altro tempo.

No, Sebastian, lo faremmo insospettire. Deve credere che tutto gli sta andando liscio.

Allora va bene. Sentite, io l’idea ce l’ho. Ma c’è un prezzo da pagare.

Che vuoi dire, Sebastian?

Che per fare riuscire il piano dovremo fargli credere di aver vinto. Dobbiamo essere disposti a… morire tutti.

 
Paula si è alzata nel centro della notte e si è preparato un crostino con la marmellata. Lo sbocconcella lentamente accompagnandolo con un bicchiere di latte e pensa che se farà spesso così fatalmente ingrasserà. Ma no, è impossibile, Ester era magra come un chiodo. Pensa ancora a Sebastian, alla sua faccia espressiva che alternava sconforto, speranza e divertimento. Quando era sembrato divertito? Alla fine, apprendendo di essere in compagnia di un essere alieno e caldissimo che respira cianuro. Perché ha raccontato quella balla? Un po’ per salvare la situazione, ma in modo maldestro, sì, un po’ per farsi scoprire. Mostrare un pezzetto di sé, quella parte non ancora cresciuta, ancora desiderosa di giocare. Non ha mai avuto molto tempo per il gioco, con l’addestramento ferreo che le imponeva Ester, la consapevolezza che ogni minuto era importante, e in più quella pizza della direttiva che proibisce tutto quello che può essere anche potenzialmente pericoloso. Guai a correre rischi, e si capisce, se una va perduta, si perde anche la sua conoscenza, dato che è severamente vietato preparare uno schema di addestramento virtuale, chissà perché. Le cellule restano, però, e la comunità potrebbe allevare un’altra copia. Una copia non specializzata, adatta a lavori bassi. E così in futuro, man mano che qualcuna muore prima del tempo, magari perché malgrado tutte le precauzioni l’ha colpita in testa un meteorite, la sua linea scenderà di rango, sarà il personale di servizio del futuro. E se invece si facessero crescere più copie contemporaneamente, e si addestrassero in gruppo? Però sarebbe imbarazzante, far vivere contemporaneamente più copie, per questo la procedura prevede che una sia già vecchia quando quella nuova è ancora bambina. Che confusione, e potrà andare avanti così per migliaia di anni, senza mai cambiare…
Finisce il latte e si alza stancamente dalla panca per lavare il bicchiere. In quel momento bussano alla porta. Non è strano, lei è il medico e la chiamano anche di notte, se occorre. Con tante anziane il lavoro aumenterà e sarà poco allegro, perché si sa già come andrà a finire.

Arrivo! – apre la porta e fa posto a Giulia. Non è sola, è venuta anche Anna, infagottata nel mantello e tremante per il freddo.

Perché sei uscita! Bastava avvertirmi e venivo io a visitarti…

Non sto male. – la faccia di Anna contraddice le parole, è livida e si preme con forza il fianco. – lei vuole parlarti e io l’ho accompagnata.

Non potevi aspettare domani… ma che importa, ero sveglia. Ho appena preso un bicchiere di latte con pane e marmellata. Ne volete un po’?

No, abbiamo preso il tè. Diglielo, Giulia.

Senti, Paula, dov’è la scheda?

Qui. – apre la tuta e la mostra, appesa al collo come prima.

Ah! Per fortuna! Credevo che l’avresti buttata via!

No… per un po’ ci ho pensato, però era di Ester. Lei ci teneva troppo…

Sono contenta! Vestiti, andiamo a rivedere il filmato.

Che razza d’idea ti è venuta in testa…

Non discutere. – Anna si alza in piedi e si avvolge lentamente nel mantello. – Forse c’è davvero qualcosa in quella scheda. Qualcosa che non abbiamo notato mai, nessuna di noi.

Lo… sapevi anche tu.

Sì, io e Giulia prima di me e Anna ancora prima. È stata lei a costruire l’adattatore.

Vengo subito. – Paula apre un armadio a muro e tira fuori gli stivali di feltro e il mantello con il cappuccio. Li indossa rapidamente. – andiamo, non c’è tempo da perdere.

 

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Capitolo 7
*** VII. ***


VII.

 

La giornata di Sebastian è rigidamente organizzata dal computer, sveglia alle sei standard, colazione con caffelatte liofilizzato bollente e una barretta di germi d’avena pressati con il miele. Rapida pulizia e ginnastica per un’ora. Poi studio interattivo dell’anatomia e della patologia secondo schemi ciclici per non dimenticare nulla, e interventi chirurgici e medici su una corsia di malati che lui sospetta virtuali, anche se le loro facce sono sempre diverse. Intrattenimento con filmati sulla natura e gli animali del pianeta Terra, gli spazi sconfinati della savana e dell’oceano, così strani da vedersi da parte di uno che non ha mai fatto più di dieci passi nella stessa direzione. Forse anche questi sono virtuali, e fuori di qui non esiste nulla.
Ancora studio, poi il pasto principale con carne di uccello e patate liofilizzate, acqua demineralizzata e vitamine in tavolette dal gusto acidulo, buone da rosicchiare. Ora verrebbe il tempo libero, che lui impiega disegnando sullo schermo del computer o certe volte, quando si sente davvero giù di corda come oggi, accanendosi sulla macchina isometrica fino a cadere sfinito, però non ha fatto in tempo a scaldarsi che suona il campanello. È l’avviso che ha imparato a riconoscere quando il suo interlocutore lontano gli chiede il permesso di venire a trovarlo. Molti anni fa gli ha spiegato che il campanello serve ad avvertirlo, perché non sia colto di sorpresa mentre fa qualcosa di privato. Se vuole farsi vedere basta che lui prema un tasto del terminale, altrimenti il suo amico aspetterà. Si passa intorno al collo un asciugamano di spugna logoro ma perfettamente pulito, si siede davanti allo schermo e dà il consenso. Sa che adesso chi sta dall’altra parte può vederlo.

Buon giorno. Come stai oggi? – la solita domanda, e la solita risposta.

Benissimo come sempre. Ho fatto un paio di traumi cranici con emorragia cerebrale, dicono che c’è stato un incidente. Ora i malati sono stabili.

Bravo… volevo dire, hai fatto bene come sempre. Siamo contenti del tuo lavoro.

Ah. E dimmi, che ci fanno degli umani in mezzo a voi tentacoluti? Non ho dovuto curare scottature.

Che c’entra, loro non stanno con noi, sono in una… colonia molto distante. Sopravvivono anche grazie a te, ti sono molto grati.

Ah. È bello quando c’è gente che ti pensa. Come mai sei venuto così presto? Non è il solito orario.

Devo chiederti… una cosa.

Capisco. Allora chiedi. – lo schermo è sempre nero, Sebastian lo guarda ostinatamente, deve esserci un modo di attivare la telecamera dall’altro lato. Ci ha provato in tutti i modi, mentre era solo, ma senza farsi molte illusioni. Chi sta fuori chiede il permesso per guardare, ma non è affatto detto che sia davvero così. Magari lo registrano anche mentre dorme, anche mentre…

Oggi hai l’aria… arrabbiata. Ti è successo qualcosa?

Ah! Ah! Ah! Bella questa battuta! Cosa può succedermi, secondo te? Sbagliare un intervento e fare morire un disgraziato distante un milione di chilometri? Tagliarmi con il bisturi virtuale?

Sei davvero arrabbiato. Perché? Non lo sai che i viaggi spaziali sono lunghi, possono durare anche… una vita intera? Anche più vite? Dovresti essere più stabile emotivamente, in fondo sei stato scelto per questo.

Sono stato scelto, eh?

Sì, fra migliaia di altri. Anche per il tuo carattere, che è una cosa importante nei viaggi lunghi. Devi trovare in te la forza che hai, è sicuro che ce l’hai.

Mi sento già più forte. – sorride per la prima volta e Paula istintivamente lo imita – Non sto scherzando, hai ragione tu. È dura questa vita ma forse c’è di peggio.

Sì. C’è di peggio.

Ora chiedimi quella cosa.

Bene. Tu sei Sebastian, il medico di Terra due. Ci serve un campione del tuo sangue. Sei disposto a darcelo?

Certo… ma non lo avete? Mi ricordo che la macchina mi ha fatto i prelievi un paio di mesi fa. Controlli di routine per verificare che sia perfettamente in forma.

Mi… ci serve fresco. Ti dispiace mettere il braccio nell’alloggiamento?

No… certo che no. Ecco. – infila il braccio nella nicchia morbida, e sente gli aghi attraversargli la pelle senza provocare alcun dolore. Il prelievo dura dieci secondi.

Bene. Ti siamo molto grati per la tua disponibilità.

Figurati. Per così poco… – ritira il braccio, si vedono solo due minuscoli puntini rossi che domani saranno spariti.

Ora devo andare. Verrò a trovarti domani.

Ciao. – lo schermo è sempre nero, non è cambiato niente. Sebastian sospira e torna alla macchina. Vuole migliorare il suo record di cinquecento flessioni in gravità due.

Paula aspetta con impazienza che il campione di sangue superi la complicata procedura di controllo per escludere la presenza di agenti infettivi. Ha dovuto smontare una porzione della paratia ed escludere la camera di prelievo dal controllo del computer, altrimenti sarebbe stato impossibile asportare dal locale d’isolamento anche una singola molecola. E certo, il locale è stato ideato per impedire la diffusione di infezioni pericolose, guai se fosse stato possibile maneggiare allegramente il sangue di una malata. Finalmente l’analizzatore automatico dà il consenso e Paula afferra la provetta piena di liquido. Febbrilmente ne prende una goccia e la deposita su una piastra di riconoscimento che ha smontato dalla cabina di pilotaggio ormai aperta a tutti. La piastra serviva a riconoscere il DNA delle persone autorizzate e dare il consenso per l’accesso ai sistemi di volo. E ora…
ACCESSO NEGATO. ATTENZIONE! OGNI ULTERIORE TENTATIVO DI VIOLARE IL SISTEMA DI SICUREZZA DELLA SCHEDA PROVOCHERÀ LA DISTRUZIONE DEI DATI!
Paula picchia un inutile pugno sulla mensola metallica e guarda con odio il messaggio lampeggiante. Maledetta carogna di un uomo, che motivo aveva di proteggere i suoi dati inutili in modo così geloso, così… antipatico. Detesta con tutto il cuore l’ignoto autore del sistema di sicurezza, sempre più arcigno e ostile. Prima il messaggio dell’odiosa mano pelosa, ripetuto per tutta la durata del filmato nel linguaggio universale dei segni: “questa scheda appartiene a Sebastian o Salvatore Henssen ufficiale medico”. Informazione del tutto inutile perché poi veniva richiesta una password di sessantaquattro caratteri. Giulia e Anna l’avevano lasciata dopo una mattinata di tentativi inutili, ma lei si era tenuto il cavo e l’aveva collegato al terminale esterno del locale d’isolamento. Sessantaquattro caratteri. Quasi impossibili da memorizzare, ci si deve arrivare con una forma di ragionamento, allora si era messa ad anagrammare il messaggio, ottenendo sequenze di parole senza senso, poi per disperazione aveva contato le lettere che lo componevano. Sessantaquattro. No! Troppo facile, troppo ingenuo… Diligentemente aveva sostituito ai caratteri le cifre corrispondenti, nel modo più elementare, cose da bambini piccoli, A=1, B=2, ecc., e aveva gridato di trionfo quando l’odiosa donna nuda era scomparsa, sostituita da una schermata grigia con caratteri neri. “Inserire validazione biologica”. In basso, l’immagine di una piastra di riconoscimento. Brutta serpe. Il commento successivo è comparso solo dopo il fallimento del tentativo con il sangue: “Il dottor Henssen deve essere presente personalmente, vivo, cosciente e libero da costrizioni”. Ora Paula capisce che una goccia di sangue non basta, non prova che il maledetto Henssen sia ancora vivo, e meno che mai cosciente e libero da costrizioni. Ci saranno altri trucchi insuperabili, perciò è inutile pensare di narcotizzarlo, tagliargli una mano o fargli qualche altra cosa del genere, con il rischio di perdere i dati. L’unica è dare a lui la piastra e chiedergli di seguire le istruzioni. La scheda resterà comunque fuori dalla sua portata.
Preme il tasto del campanello e aspetta la risposta affermativa. Nel locale potevano esserci malati gravi, e così è previsto un sistema di ripresa continua delle immagini e dei parametri biologici, ma Ester non lo ha usato mai senza permesso e nemmeno lei, tranne l’unica volta che l’hanno spiato durante il sonno. Sebastian compare dopo un po’, ha l’aria stanca e assonnata.

Serve altro sangue?

Scusa se ti ho disturbato. Devo… chiederti un’altra cosa.

E cosa, questa volta? Vi serve il mio fegato per cena? O forse una coscia? – non sorride, è decisamente irritato.

No, cosa vai a pensare…

Scherzavo. Lo so che per voi sono peggio del veleno. – dalla faccia non si direbbe, è accigliato e stringe i pugni.

Mi… ci serve che tu… dimostri la tua identità.

Non siete sicuri di chi sono io? Eppure questo dubbio non vi era mai venuto…

Che c’entra! Ci serve e basta. – Paula si morde le labbra e si costringe a dominare la rabbia. Il computer falsa l’inflessione della voce, ma conserva le pause, lui può accorgersi che sta perdendo la calma.

E va bene, perché discutere con una piovra rovente? Siete voi che comandate, no?

Ti ho solo chiesto se vuoi collaborare spontaneamente. Se non vuoi basta dirlo e me ne andrò.

E vattene allora, perché non mi lasci in pace? – grida, poi cambia espressione all’improvviso, sembra dispiaciuto, no, sembra stanchissimo. – scusa, sono nervoso. Vuoi che dimostri la mia identità? Il DNA non è bastato? E come posso fare altrimenti?

Puoi usare una piastra di riconoscimento.

Una piastra di… riconoscimento, hai detto, e che cos’è? Di cosa parli? Non ne ho mai vista una, qui dentro.

Te la sto mandando. Apri il contenitore delle razioni di cibo. – Sebastian si alza e va alla paratia, dove uno sportello scorrevole nasconde il dispenser del cibo. Prende il vassoio di plastica, su cui c’è posata una piastra verde con un sottile cavo nero. – bene, ora inserisci il connettore nella presa. Sta accanto alla tastiera del terminale.

Fatto.

Poggiaci un dito sopra. Così. Ora segui le istruzioni dello schermo. – Lo guarda leggere le istruzioni con aria sorpresa, poi posare sulla piastra prima l’indice destro, il medio e l’anulare sinistri, la punta della lingua e poi, con un mezzo sorriso sulle labbra, digitare una sequenza di caratteri sulla tastiera del computer mentre tiene una mano sulla piastra, e poi l’altra. Sorride ancora e poi si gira verso lo schermo principale.

Fatto. Siete contenti ora?

Sì… è successo qualcosa?

Non lo sapete, cos’è successo? Che strano, credevo che voi sapeste sempre tutto.

Sì, certo che sappiamo tutto. – Paula guarda lo schermo, la donna nuda è tornata, più irritante che mai, la sua schifosa lingua in primo piano, gliela taglierebbe volentieri.

Bene, sono lieto di essere stato utile. E ora, se vuoi scusarmi…

Ma certo, scusa tu se ti ho disturbato. Buona notte.

A te.

La donna nuda danza facendo ondeggiare le natiche troppo grosse, è disgustosa. Paula con rabbia stacca la scheda e la scaglia contro la paratia. Rimbalza senza rompersi e cade ai suoi piedi. Con un sospiro l’aggancia al laccio di cuoio e la rimette al collo.
Giulia guarda la neve cadere attraverso la piccola finestra. È stanca e irritata, sono passati due mesi da quando hanno sprecato una giornata intera per decifrare quello stupido messaggio. C’erano i membri dell’equipaggio maschi, e va bene. La scheda apparteneva ad uno di loro. Bel porco doveva essere, e forse trovando la password sarebbero comparse altre porcherie. Tutto tempo perso, senza speranza, ora la cosa che la preoccupa di più è Anna, che per ostinarsi ad uscire sotto la neve ha preso freddo ed è tormentata dalla tosse. Le ha preparato una tisana calda e l’ha fatta sdraiare vicino alla stufa, sobbalzando ad ogni suo colpo di tosse. Come farà quando lei non ci sarà più, non è vero che è adulta, invece ha ancora bisogno di essere rassicurata, ha bisogno di Anna con le sue mani forti e la soluzione sempre pronta per ogni problema. Sì, fino a quando non ha saputo escogitare niente per vincere la maledetta scheda.

Ma tu credi davvero che c’è qualcosa di utile in quella scheda?

Ci pensi ancora! Non lo credo, ne sono sicura. L’ho capito subito appena l’ho vista, quando me l’ha mostrata Ester quasi sessant’anni fa. Una scheda che resiste anche al fuoco, una volta per i nervi l’ho presa a martellate e lei niente nemmeno un’ammaccatura. Non è possibile che ci fosse solo quella… cazzata.

E perché? Non hai detto che erano carogne? Cattivi dentro, hai detto. Capaci anche di usare una scheda così per…

Ancora con questa storia! – Anna tossisce penosamente ma ha l’aria agguerrita – Non confondere le direttive con la realtà, non fare questo errore! E poi non discuto la qualità dei dati, ma la quantità. Una scheda così dovrebbe contenere almeno un trilione di giga, e invece, guarda un po’, ha solo una scenetta da cinquecento mega. Patetica.

La scenetta?

Non mi fare arrabbiare ancora di più… – s’interrompe per tossire e sputa in un fazzoletto. – maledizione, questa roba è dolciastra… mi sta venendo un accidenti doppio.

È vero, succedeva anche a me… – Giulia ricorda distintamente che quando era bambina il primo segno di una bronchite di quelle buone era proprio il saporaccio dolciastro del muco. – meglio avvertire Paula.

Lasciala stare, ne avrà abbastanza di me…

No! lasciami fare! – indossa il mantello ed esce nella luce incerta del crepuscolo. Le giornate sono ancora brevi e la neve continua a cadere.

 
Sebastian Henssen è solo nella sua cabina. Sulla nave tutti i membri dell’equipaggio hanno una camera ampia, due metri per due e mezzo, dove possono rinchiudersi per meditare, e tenerci quello che preferiscono. Lui ha scelto una pianta, una cycas che alla partenza aveva una sola tenera fogliolina e ora è diventata una palmetta con il tronco rugoso, alta quasi quanto lui. Dovrebbe riportarla nella serra, gli toglie quasi tutto lo spazio, ma non riesce a separarsi da lei. Lei, ci pensa come se fosse una persona. E cosa gli resta ormai se non questa consolazione? Con un permesso speciale ha portato a bordo le ceneri di Sonia, quelle di Sal no, perché il corpo era scomparso, vaporizzato dall’esplosione. Sparsi sulla terra bruna e assorbiti lentamente dalle radici, gli atomi di chi è stato il suo amore ora riflettono la luce sulla superficie splendente delle foglie, sembrano sorridergli. Volta le spalle alla cycas e torna al suo terminale. La sequenza di sicurezza deve essere a prova d’intrusione, perché questa è la parte più difficile del piano, il fallimento programmato. Con l’età il suo carattere meticoloso è diventato quasi pedante, non si contenta più di tre soluzioni per un problema, ma ne programma sempre altre due. Il progetto di salvare le cellule nel modo più ovvio, chiedendo aiuto alle donne, gli è sembrato accettabile all’inizio, un paio d’anni prima, ma ha avuto modo di rifletterci, ogni giorno ci ha riflettuto, concludendo che era proprio questo che avrebbe aspettato il nemico sconosciuto. La vulnerabilità di un uomo o di un piccolo gruppo, mentre portavano fuori bordo i contenitori che lui voleva distruggere. Questo perché il nemico non sa tutto. Nessuno sa tutto, per fortuna. E quello che sa lui, Sebastian, è un’informazione davvero riservata.
Fischiettando un’antica canzone di quando era giovane finisce di programmare la scheda. È quella che gli ha dato Sam, quella che forse apparteneva alla spia sconosciuta. Non riesce ancora a vederne i limiti di capienza, ci ha trasferito tutto l’archivio storico della nave e ancora rimane spazio per i dati individuali. Tre anni prima ha chiesto ai membri dell’equipaggio di preparare uno schema di addestramento virtuale per il loro doppio, da utilizzarsi in caso d’incidente mortale, e ormai tutti lo hanno finito e inserito nella memoria centrale. Ma non sanno che lui ha copiato di nascosto tutti i dati, una quantità enorme, nella scheda. Cosa metterci ancora? Bene, c’è spazio per la scena iniziale, quella che serve a confondere le idee. Con un sogghigno registra il filmato “Pelle Bollente”, che ha visto 5383 volte, a detta del computer. Si vede che merita, è molto buono anche con la modifica che toglie azione ad una delle mani. Poi chiude i cancelli di sicurezza di primo, secondo e terzo livello. Fatto. Deposita delicatamente la pianta su un carrello e la spinge con dolcezza lungo i corridoi in penombra, attento a non farle urtare le paratie. Nella serra c’è un angolo di terra abbastanza grande da accoglierla per i prossimi anni, lei e le sue figlie. Il primo impianto delle cellule è previsto per il quindici luglio standard, fra meno di due settimane, ma lui è sicuro che prima di allora sarà morto.

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Capitolo 8
*** VIII. ***


VIII.

 
Paula ascolta accigliata i fischi e i rantoli nel petto ossuto di Anna. Questa non ci voleva, una bronchite in piena regola, che potrebbe diventare polmonite malgrado la rarità di germi pericolosi su Terra due. Le somministra antibiotici e un sedativo della tosse, ora non c’è da fare altro che aspettare. Si siede accanto alla stufa, mentre la malata si agita inquieta nel letto, mandando ogni tanto un gemito che fa sobbalzare Giulia.

Dai, Giulia, non fare così. Non è poi così grave…

Non sopporto di vederla soffrire! Ogni volta che si lamenta sento una fitta al cuore!

Calmati. Anna non è in pericolo, ce la farà benissimo.

Allora perché non te ne sei andata? Ero sicura che stesse per…

No, scema, cos’hai capito... Sono io che ho bisogno di stare con qualcuno. Ti dispiace?

No! – gli occhi di Giulia s’illuminano, anche se il viso rimane serio. – sono felice se resti… lo sai che mi piace stare con te.

Lo… so, siamo amiche, no?

Certo. Molto amiche. – Giulia si avvicina un po’, fino ad avvertire il calore di Paula, le piace così tanto…

Però… – Paula si scosta dal fianco di Giulia, non capisce perché ma si sente infastidita. Si alza dal divanetto e fa qualche passo per la stanza. – volevo dirti che poi ho trovato la password. Era un codice semplicissimo, e noi che ci siamo accanite con la matematica superiore…

Ah sì? – Giulia si tira su vivacemente – e cosa c’era nella scheda? Vuoi dirmelo, vero?

Niente, c’era. Dopo un sacco di giri e rigiri, è tornata la maledetta donna nuda. Era uno scherzo, uno scherzo di cattivo gusto. Che rabbia.

Dici la verità? – Giulia la guarda attentamente, una cosa che Paula non sa fare è dire le bugie, è frustrata e scontenta, ma non ha detto tutto quello che sa.

Certo… certo che sì. – ecco, è sicuro che nasconde qualcosa. – mi ha fatto… rabbia. Maledetto Hanssen.

Ce l’hai davvero con uno che è morto settecento anni fa… com’è possibile? Il tuo dottore non c’è più, resta solo la sua interessantissima scheda. Qualche volta me la presti? Solo per… darci un’altra occhiata.

Qualche volta. Ma non oggi. Scusa, io vado. Se succede qualcosa chiamami, però credo che Anna dormirà e domani starà meglio.

Grazie, Paula. Non mi dai un bacio prima di andare?

Tieni. – la bacia rapidamente sulla guancia e si avvolge nel mantello. – buona notte.

Cammina sulla neve soffice affondando fino alle caviglie. Seguendo la pista delle luci arriva alla grotta e alla paratia, entra nel tepore della nave. Si sente inquieta e infelice, le pesa più di tutto la consapevolezza che la speranza di rompere il cerchio magico dei gesti già fatti è stata solo un’illusione, un piccolo giro imprevisto intorno ad un sasso insignificante, ma la corrente del fiume è sempre la stessa. Apre la porta segreta e si siede al terminale esterno della sezione d’isolamento. Che sta facendo, lui? Cede alla tentazione di spiarlo, se lo merita, negli ultimi tempi è sarcastico e antipatico, l’ultima volta sembrava quasi che si prendesse gioco di lei. Preme i tasti ma lo schermo rimane nero. Un guasto? È un bel guaio, non può certo chiamare la squadra di manutenzione. Dà qualche colpetto allo schermo, ma senza risultato. Allora si decide e suona il campanello. Passa un tempo molto lungo, poi arriva il consenso. Strano, ora la telecamera funziona. Eccolo, il solito ambiente, e Sebastian seduto sorridente davanti allo schermo. Sospira di sollievo, pensando ad un problema di contatti elettrici che per fortuna si è risolto da solo.

Buona sera, come stai?

Molto bene, e tu?

Anch’io…

Bene, i tuoi… tentacoli hanno sempre la temperatura normale? Duecento gradi?

Sì… perché me lo chiedi tutte le volte?

Beh, volevo essere cortese. E il cianuro che respiri è di tuo gusto? Sa di mandorle come piace a te? Ah, scusa, dimenticavo che le mandorle per voi sono peggio dell’arsenico.

Mandorle? Come… come sai delle mandorle? Si tratta di un albero estinto, cresceva sulla Terra molti secoli fa.

Ne sei sicura?

Perché mi parli… al femminile?

Sono sicuro che sei una femmina. O mi sbaglio? Anzi, ora che ci siamo, dimmi le differenze che ci sono fra i vostri sessi. Avete… i tentacoli di un altro colore? O forse le femmine sono come i ragni terrestri, e si mangiano il maschio dopo l’accoppiamento?

Dici cose incomprensibili e sei poco educato. Queste… sono informazioni riservate.

Ah. Scusa, sono stato indiscreto. Però sei una femmina, vero? L’ho capito perché sei gentile, anche l’altra doveva essere femmina.

E va bene, te lo dico. Sono… femmina. Noi siamo uguali ai maschi, la differenza è solo… – Paula sente di arrossire ed è contenta di non essere vista. – … nel fatto che noi deponiamo ovoidi, e i maschi li fecondano penetrandoli con i loro…

Basta, non dire altro, è troppo intimo! Me lo immagino con che cosa li penetrano! E gli ovoidi diventano di colpo sodi, no?

Che… che vuoi dire… – Paula ride silenziosamente cercando di non farlo capire. Oggi il colloquio con il prigioniero ha preso una piega completamente diversa dal solito, però le piace, la stuzzica. E poi, cos’ha da temere?

Niente, solo una battuta da essere a bassa temperatura. Da noi se tocchi un uovo con un… coso rovente si cuoce di colpo.

Le tue battute non sono divertenti.

Devi compatirmi, io non vedo mai nessuno e parlo solo con te. Non c’è molta varietà.

Che vuoi dire! Che non ti basto io, che vorresti parlare con qualcun altro?

No. Con nessun’altra. Mi piace davvero parlare con te. – sorride e lei lo imita. – hai un bel sorriso.

Cos’hai detto? Come fai a…

A vederti? Sullo schermo. Esattamente come tu vedi me. – Paula balza in piedi e fa un paio di passi indietro, cercando di mettersi fuori dalla portata della telecamera. – no, non fare così. Potevo non dirtelo, invece mi è sembrato giusto avvertirti.

Di cosa… di…

Che ti vedo, che so che sei umana.

Da… quanto lo sai?

Eh, da un bel po’ di tempo. Sei buona e gentile con me. Ti sono molto grato.

Davvero… credevo che mi avresti odiata, se l’avessi saputo.

E perché? Perché mi tieni qui dentro? Perché non mi dici chi sei per davvero? Perché non mi dici lo scopo della mia esistenza? Non ti odio per questo. Tu non lo sai, lo scopo della mia esistenza.

E tu… tu invece lo sai?

Sì. Ora lo so.

Il piano di Sebastian coinvolge solo Steve e Antonio, gli altri quarantotto membri dell’equipaggio non sanno niente. Steve non ha voluto sentire ragioni, si è sempre opposto a mettere a parte del piano altri membri dell’equipaggio, smontando con argomenti convincenti tutte le proposte del capitano e del medico. Habel no, perché è subentrato ad uno che è morto proprio al momento giusto per fargli spazio, quasi di sicuro lo hanno fatto fuori apposta, e poi si è comportato troppe volte in modo sospetto. Francisco no, perché negli ultimi tempi c’erano moltissimi kamikaze ispanici, ed è sciocco e imprudente raccontare tutto proprio ad un nemico potenziale. E così di seguito. Antonio e Sebastian non hanno insistito più di tanto, anche perché Steve merita considerazione, in fondo è stato proprio lui a scoprire il complotto. E anche adesso, mentre sa che sta andando incontro alla morte, ostenta un atteggiamento allegro e spavaldo. Sebastian invece è pallido e taciturno, e Antonio ha dipinto sul viso cupo i colori di guerra, come gli ha insegnato suo nonno a memoria degli antenati. Nel locale di decompressione indossano ancora una volta le tute spaziali però non escono subito, ma invece si avviano per il corridoio a spirale che li porterà alle cellule staminali. Devono prelevare i contenitori, uscire dal portello di servizio più vicino e portarli alla sezione delle donne, dove penetreranno attraverso l’unica apertura che permette un accesso dall’esterno, il boccaporto d’emergenza situato a due chilometri di distanza. Nessuno ha mai fatto tanta strada alla superficie di una nave lanciata a ottocentomila chilometri all’ora, con il rischio di essere vaporizzati da un granello di polvere cosmica. Ma Steve ha detto allegramente che le probabilità di impattare con un granello di polvere cosmica sono due virgola sette su cento milioni. Una volta entrati, il problema è trovare il modo di convincere in fretta le donne che si tratta di un’emergenza. Sebastian ha sempre trovato questo il punto debole del piano, comparire all’improvviso nella sezione delle donne e dire “salve, siamo qui perché abbiamo un problema”. Ma Steve ha ricordato che sono tutti sessantenni, molto al disopra degli scherzi da college, e la sola vista dei contenitori delle cellule farà capire alle donne che si tratta di una cosa seria. Antonio non ha fatto commenti, limitandosi a chiudere il casco con uno scatto secco. E così i tre si avviano per il corridoio, respirando rumorosamente nelle tute.

Allora, andiamo e lasciamo le nostre cellule, gli schemi genetici e le registrazioni di addestramento. Le hai, Steve?

Sì, stai tranquillo. – batte una mano guantata sulla grossa bisaccia che porta a tracolla. Sono al sicuro, cinquantuno fottuti dischi. Pesano come il piombo.

Sei sempre il solito scansafatiche. Allora i contenitori delle cellule che porteremo noi?

Non peseranno niente, la sezione delle cellule staminali è a gravità zero.

Questo stronzo ha sempre la risposta pronta. Che ne dici, Antonio?

Che so poche parolacce in navajo, questa sarebbe l’occasione buona per dirle tutte.

Perché, qualcosa ti puzza?

A parte i piedi…

Vaffanculo, Steve, di tutto puoi parlare tranne che di piedi che puzzano, cazzo! Allora, Antonio, qualcosa non va?

Te lo dico fra sei ore quando saremo di ritorno. Sai che ti dico? Ne ho le palle piene, di tornare e farmi ammazzare come un coniglio da quello stronzo.

È inevitabile, capisci? Se si accorge che abbiamo portato via le cellule, fa finta di niente e prende di mira le donne alla prossima occasione propizia. Lui o il suo doppio, fa lo stesso, basta che ci riesca prima che inizi la colonizzazione. Dobbiamo tornare e rappresentare la nostra parte. Il tuo doppio saprà quello che hai fatto, glielo hai detto, no?

Sì, gliel’ho detto. Spero che capisca.

Capirà, non temere. E niente di te andrà perduto.

Non sarà la stessa cosa che trasmettergli la mia esperienza personalmente.

Sarà meglio di niente. Fidati. E poi chissà, riusciremo a bloccare quello stronzo in tempo, allora potremo tornare alla procedura originaria. Forse avrai il tuo marmocchio da allevare.

Forse. Cazzo, quant’è lungo questo corridoio!

Tremiladuecento metri, non uno di più. Ti sembra molto perché sei appesantito dalla tuta. Però man mano che saliamo diventiamo più leggeri.

Già. A proposito, ragazzi, quando avete fatto sesso l’ultima volta?

Che razza di domande…

E dai, tu grosso indiano devi avere grosso pisello. A cosa pensi quando…

Stai zitto o ti sfondo il casco con un pugno!

Scusa… volevo solo fare conversazione, mi sento nervoso.

E sfido io, ne hai tutti i motivi. Però smettila di stuzzicare Antonio. Sfogati con me.

Con te non c’è sugo… Ci pensate, stiamo per vedere una donna vera dopo… trentatré anni. Chissà che impressione faremo, su di loro…

Credo che non ci troveranno molto valenti. Ti sei guardato ultimamente allo specchio?

Che c’entra, un uomo è sempre un uomo. Loro sì che saranno delle vecchie in menopausa da anni con la topa rinsecchita…Pazienza, mi starebbe bene anche una vecchia topa, piuttosto della vecchia mano rugosa.

Steve, fai schifo. La tua è un’idea fissa.

Già, fissa. – Steve tace e camminano ansimando per altri venti minuti. È sempre lui a parlare per primo. – Mi sento più leggero. Stiamo arrivando?

Quasi, un altro paio di giri. Fra poco dovremo attivare gli elettromagneti sugli stivali.

Ricevuto, capo.

Allora, siamo intesi. Cerchiamo di perdere meno tempo possibile, la nostra autonomia con le cellule staccate dal supporto è di un paio d’ore al massimo. Ce ne vorrà una buona per fare il tragitto.

Va bene. Quando arriviamo, chi parla?

Se non ci cacciano prima a calci, parlo io.

Non credi che tocchi al capitano?

No, Seb, lascia parlare lui. Ci tiene tanto, e poi ha una chiacchiera che convincerebbe anche il Grande spirito.

Bene. Io ho qualcosa da dire alla mia collega, andrò subito a cercare il medico di bordo.

Segreti professionali, eh?

Già, segreti professionali. – gli stivali non fanno più presa, la gravità è vicina allo zero. Azionano gli elettromagneti e cominciano ad arrancare faticosamente.

Cazzo, camminare così è molto peggio, sembra di essere invischiati nella carta moschicida!

Coraggio, non siamo qui per divertirci. Toglietevi il guanto destro. – Sebastian dà l’esempio imitato dagli altri. – Ora entriamo nel locale. – Uno dopo l’altro appoggiano la mano nuda sulla piastra di identificazione e digitano il proprio codice personale. Al terzo accesso una pesante porta blindata scorre nella paratia.

Buono questo sistema, non si può entrare se non si è in tre. E se uno di noi fosse il cattivo kamikaze e si facesse esplodere adesso?

Non combinerebbe niente, i contenitori sono corazzati e protetti dal mio codice d’accesso. Solo io posso aprirli, o in caso d’incidente chi succede a me.

Che fortuna. Così saranno sempre al sicuro.

Eh già. Tieni, Antonio – gli passa il grande contenitore, e si accorge che Antonio fatica a fermarlo.

Attento, Sebastian. Ricordati che il contenitore non ha peso, ma conserva l’inerzia. Non fare movimenti bruschi.

Grazie, Antonio. Me ne ricorderò. – afferra il grosso contenitore e lo estrae dall’alloggiamento, attento a non tirare troppo. I duecento chili di metallo lo sbilanciano ugualmente, per poco non perde l’equilibrio.

Te lo dicevo io. Ora trasportiamoli lentamente, il portello è a cento metri.

 
Flavia oggi suona Bach, facile in confronto ai romantici, però a lei piace di più. La gratifica la logica matematica delle composizioni che hanno l’equilibrio e la grazia di un progetto ben riuscito, anche nella scrittura. Sorride eseguendo perfettamente un passaggio che fino all’anno scorso la faceva inciampare. Le dita vanno al posto giusto senza bisogno di pensarci, e il limpido pianoforte disegna una cupola di note bella e perfetta e inevitabile come la volta di una costruzione fantastica. Si sente felice…

Brava. Hai fatto molti progressi.

Sì… – Flavia solleva le mani dalla tastiera e si stira. Le piace la mano bruna di Emily sulla sua spalla. – mi sembra ancora così strano.

Cosa, suonare le Variazioni come Glenn Gould?

Chi… era Glenn Gould? Non me ne hai parlato mai.

Non ti ho ancora insegnato tutto. Ci sono certe… cose che non hai visto o ascoltato. – inserisce nel computer un disco ottico e compare l’immagine in bianco e nero di un’antica sala d’incisione, con grossi microfoni e un pianoforte a coda senza coperchio. Flavia guarda avidamente, non ha mai visto niente di simile. Arriva un… essere con i capelli corti e ricci, il viso scavato e sofferente, il petto piatto peloso coperto in parte da una camicia bianca con le maniche rimboccate che esce un po’ dai pantaloni. Si avvicina con passo dinoccolato, si siede al pianoforte e attacca le Variazioni. La qualità della registrazione è cattiva, piena di fruscii, ma Flavia si accorge che è la versione migliore che conosce, la più dolce precisa appassionata rigorosa, e poi scopre che l’artista mentre suona canta a voce spiegata senza accorgersene. La sua voce ha un timbro basso e dolce, canta solo per sé, suona solo per sé.

È… fantastica. È lei Glenn Gould? Quant’è brutta e pelosa…

Non è una lei, è un uomo.

Come, uno di quei… mostri con cui abbiamo fatto la guerra?

Sì, uno di loro. Devo dirti una cosa: gli uomini non erano mostri. Flavia ed Emily prima di lei, e tutte le altre hanno conservato questo disco. Lo avevamo alla partenza, è un documento storico vecchio più di mille anni. Le nuove direttive hanno imposto di cancellare ogni loro traccia, ma…

Le nuove direttive? Non mi avevi parlato nemmeno di questo.

C’è stata dopo la guerra. Ci aspettava un periodo molto duro e molto lungo, dovevamo contare solo sulle nostre forze perché loro… erano tutti morti.

Chi, loro?

Loro, gli uomini! Però Emily non ha voluto dimenticarli, lo sai che anche Bach, Mozart, Scarlatti e Chopin erano uomini?

No… non me l’avevi mai detto.

Non volevo che ne parlassi con le altre. I primi tempi le misure di sicurezza erano rigide, Miko, quella di allora, teneva il fucile carico e molte di noi sono state punite per aver contravvenuto alle direttive. Però alla fine, al momento del primo impianto dopo la guerra, anche le più ribelli erano state domate. Domate è la parola giusta, c’era una camera blindata completamente buia, e l’Emily di allora c’è rimasta per sei giorni interi, prima di convincersi che doveva ubbidire. Hanno giurato tutte, però io so che un piccolo gruppo non ha rispettato il giuramento. Emily era fra queste, anche se non sapeva com’era stata la guerra. Lei non c’era…

Cosa vuol dire che non c’era…

La guerra è durata pochissimo, poche ore.

Com’è possibile… mi sembra una cosa assurda. Io invece penso che con il tempo le informazioni si sono confuse.

No, te lo assicuro. Tutte le altre informazioni non sono confuse, il nostro sistema di trasmissione della conoscenza funziona benissimo. La guerra di cui tutte parlano sottovoce è durata pochissimo, e molte di noi non erano presenti. Poi sono arrivate le direttive.

Che altro sai degli… uomini?

Sono i maschi della nostra specie. Sono… indispensabili per la varietà genetica. La clonazione con le cellule staminali che noi utilizziamo da settecento anni è una soluzione temporanea, sarebbe dovuta servire solo durante il viaggio. La clonazione esclude la variabilità. Io queste cose le ho studiate, un po’ per curiosità, un po’ perché ci vuole molta matematica per capirle bene, e a noi la matematica piace.

Che vuol dire variabilità? A che serve?

Serve ad adattarsi all’ambiente. Vale per tutti gli esseri viventi. Pensa ad una pianta, che mentre si riproduce cambia un po’ le sue caratteristiche, e produce tanti semi tutti diversi. Le piante figlie saranno più o meno capaci di sopravvivere, e saranno favorite quelle che meglio si adattano all’ambiente. Faranno altri semi e piante figlie, le altre saranno più deboli e moriranno.

È… complicato.

Già, e lo sto esprimendo con le parole più semplici che posso. Vedrai quando lo studierai più seriamente, l’idea di farlo ti verrà fra una... decina d’anni.

Ma… che c’entrano gli uomini con le piante?

Quando si riproducono, uomini e donne mischiano i loro geni, producendo combinazioni che non c’erano nei genitori. Perché tutte noi siamo state scelte? Perché eravamo il massimo della mescolanza, figlie di unioni interrazziali. È una garanzia in più per sopravvivere in un nuovo ambiente.

Ancora non capisco.

Pensaci. Le nostre linee possono vivere all’infinito, ma non ci sarà mai varietà. Saremo sempre uguali. Ci ammaleremo sempre delle stesse malattie, dopo lo stesso numero di anni, che dico, di giorni. Penseremo sempre nello stesso modo. Saremo poche. Capisci perché servivano gli uomini?

Un… po’. Mi sembra tutto confuso e difficile.

Stai tranquilla. Avrai tempo per pensarci, ma purtroppo non serve a niente, gli uomini non ci sono più. E anche la nostra specie è destinata ad estinguersi.

Hai detto che vivremo per sempre.

Sì, migliaia di cicli, ma alla fine, che succederà quando le cellule staminali finiranno? O se si perderà una linea? E poi un’altra? Capisci, sarà un declino lento, durerà molto tempo, ma alla fine io vedo il niente. Non ci credo più nelle favole. Però ho un compito, devo raccontartene una, esattamente come ha fatto Flavia con me.

Allora racconta.

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A causa di un errore materiale non era stato inserito il cap. 5. Mi scuso con chi è arrivato fino a questo punto e probabilmente è rimasto deluso dalla discontinuità del testo. Buona lettura!
 

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Capitolo 9
*** IX. ***


IX.

 

Paula cambia posizione, la sedia imbottita è molto comoda ma si sente la schiena intorpidita. Da troppo tempo sta incollata qui, cercando di capire. Se n’è andata, diciamo che è scappata via, ma non se la sente di tornare a casa, nell’ambiente rassicurante odoroso di fumo. Meglio il laboratorio che in confronto le era sembrato freddo e alieno, ma almeno non la distrae. Cosa diavolo è successo? Prima aveva il controllo assoluto su Sebastian e poteva consolarsi pensando che c’era tempo per decidere cosa farne, giorni mesi o forse la sua vita intera, e poi si sarebbe trattato soltanto di fare sparire un vecchio corpo alieno. Ora invece è tutto più difficile. Lui l’ha vista, sa che è umana, sa… che altro sa? Non ha provato ad interrogarlo, sente in lui troppa… sicurezza. Eppure non dovrebbe sentirsi così sicuro, l’ha solo vista, non è certo neanche che abbia ascoltato la sua voce vera. Ma sì, certamente se ha scoperto il sistema per attivare la telecamera esterna avrà attivato anche i microfoni. Si passa la mano fra i capelli, che tiene lunghi e lisci, legati con un nastro. Con rabbia si accorge che la sua pettinatura somiglia maledettamente a quella della donna nuda, quella che tutte le volte che inserisce la scheda le mostra la lingua come per prenderla in giro. Deciso, domani li taglierà cortissimi, come quelli di Marzia. Si guarda riflessa nello schermo del computer spento, il viso allungato un po’ irregolare, gli occhi obliqui per merito del nonno cinese, il naso aguzzo e la bocca un po’ grande, con i denti bianchi e sani. Non aveva mai fatto caso al suo viso, non si era mai chiesta se fosse o no un bel viso. Era il suo e basta, e ultimamente sapeva come sarebbe diventato da vecchio, quel viso. Scarno e pallido, con la pelle liscia e sottilissime rughe intorno agli occhi. Si alza di scatto e va nel locale accanto, dove c’è il terminale esterno della sezione d’isolamento. Appena si avvicina lo schermo s’illumina e compare Sebastian con la sua razione davanti, che sta mangiando di gusto. Depone le posate e sorride.

- Finalmente ti sei decisa. A cosa pensavi?

- Non mi fare perdere la pazienza! Non mi piacciono queste domande stupide!

- Sei rimasta più di un’ora, di là. E ti guardavi allo specchio.

- Non è vero! Io… – si accorge con dispetto di arrossire e mette una mano davanti all’obiettivo della telecamera.

- Non fare così. Io comunque posso vederti lo stesso. Ci sono altre quattro telecamere nascoste in questo locale.

- Come lo sai? Io non lo sapevo…

- Perché… è una storia lunga. Ti prometto che te lo dirò. Prima però facciamo le presentazioni. Chi sono io lo sai benissimo, non è vero? Hai pure controllato la mia identità. Ma tu chi sei?

- Non te lo dico.

- Potrei provare ad indovinare. Vediamo, dato che io sto nei locali di isolamento medico, sospetto che devi essere la mia collega. Ho indovinato?

- Sì… credo che sia inutile negarlo.

- Ed è stata la tua… doppia a seminare le mie cellule. Finalmente vi siete decise.

- La mia… doppia! Come hai fatto a sapere queste cose! Dimmi come, rispondi subito, o io…

- Piano, piano! La tua doppia era buona e gentile, e così sono sicuro che anche tu lo sei. Non mi aspetto niente di male da te.

- E qui ti sbagli! Ho pensato anche di toglierti l’ossigeno, poi ho cambiato idea.

- Lo vedi che alla fine non mi hai fatto niente di male! Hai cambiato idea e te ne sono grato.

- Mi prendi in giro! Maledizione! – Paula si alza di scatto e volta le spalle allo schermo, inutile, sa che il bastardo la vede lo stesso. Si gira infuriata e reprime l’impulso di fare a pezzi lo schermo. Anche questo è inutile, lui è dentro al sicuro. Però potrebbe lasciarlo davvero a morire di fame e poi a marcire…

- Per favore, calmati. Lo sapevo che non l’avresti presa bene ma mi sembrava… ingiusto non avvertirti che riuscivo a vederti. Preferivi che ti spiassi di nascosto?

- Maledetta serpe! Non ti credo! Tu, tu…

- Dai, per favore. Senti, noi due dobbiamo lavorare insieme. Un po’ come quando la tua doppia… a proposito, come vi chiamate?

- Non t’interessa! Ora chiuderò il reparto e farò finta che non esisti! Poi quando sarai morto ti taglierò a pezzi e…

- Come sei feroce… – Sebastian resta imperturbabile, la carogna, invece dovrebbe farsela sotto, non capisce che lei può davvero mantenere la minaccia? – io voglio sapere solo come ti chiami, perché sei così ostinata?

- E… va bene. – si sente disarmata dalla sua tranquillità. E poi lui è dentro e non può uscire, questo è sicuro. Distende i lineamenti ma non sorride, non gli sorriderà mai più. – Io sono Paula, lei era Ester. Ester Merkel.

- Era… – il suo viso si contrae, sembra davvero dispiaciuto. – lo sapevo, lo sentivo che non c’era più… cosa le è successo?

- Che t’importa di lei! – Paula lo guarda stupita e arrabbiata. Ha l'aria sincera e non le sembra possibile. Di sicuro mente spudoratamente... Si siede sull’orlo della poltroncina e mantiene il viso immobile e la voce neutra. – Una leucemia cronica. Niente da fare, e me lo ha tenuto nascosto fino all’ultimo, praticamente pochi mesi prima di morire. E anche te, ti ha tenuto nascosto. Ho avuto le due notizie insieme, che c’eri tu e che lei doveva morire.

- Io... le volevo bene. – Sebastian parla piano, con la voce soffocata – Senza sapere chi fosse, e senza nemmeno... essere sicuro che fosse un essere umano. Passava molto tempo con me, specialmente quando ero bambino, mi parlava di continuo e mi faceva coraggio. È stata capace di farmi sentire la sua presenza, il suo affetto anche senza toccarmi mai... Sono quello che sono grazie a lei, e lo capisci quanto è stata innaturale la mia vita... se ci penso, era premurosa come dovrebbe essere una… mamma. – una lacrima scende lungo la sua guancia e lui l’asciuga in fretta.

- Una… mamma! Chi ti ha detto questa parola? Io fino a poco tempo fa non l’avevo mai sentita…

- Perché mi prendi in giro? Non ci credo, che non lo sapevi cos’è una mamma. È…

- Lo so, lo so! Quando le… donne avevano… figli. Sembra che si affezionassero molto fra loro. Me l’ha detto Ester. Mi ha detto che fra me e lei era successo qualcosa di simile, perché lei mi aveva allevata, mi aveva trasmesso le conoscenze fondamentali quando ero piccolissima, sai, il linguaggio, i segnali del corpo… ma perché ti dico queste cose, tu non puoi capire, tu sei un uomo.

- Invece lo capisco… Anzi, credo di capirlo. Dev’essere per davvero una cosa speciale che non si può raccontare. A me non è capitato, io il mio doppio non l’ho conosciuto di persona e lo rimpiango. Sono sicuro che era un bel tipo.

- Sì, davvero un bel tipo! Lui e la sua scheda maledetta che non serve a niente!

- Che dici, ti sbagli. In quella scheda c’è molto di più di quello che sembra.

- E tu come lo sai, io non ti ho detto niente della scheda…

- Già, tu volevi leggerla senza il suo… il mio permesso. Per questo mi hai preso il sangue fresco, e poi quando il sistema di sicurezza ti ha minacciata di cancellare tutto (era solo una minaccia, le informazioni sono troppo importanti per essere cancellabili) hai pensato di barare.

- Non è vero!

- Ah no? Allora perché mai ho dovuto eseguire la sequenza di validazione? Se ricordi, io prima non sapevo nemmeno cosa fosse, una piastra di identificazione.

- Perché…

- Non mentire, si capisce dalla faccia. La scheda ha registrato tutti i tentativi di accesso. Non preoccuparti, io non mi sono offeso con te per quello che hai fatto. Hai fatto la cosa che ti sembrava giusta. Quelle informazioni erano per Sebastian Henssen cioè io, però a parte alcune istruzioni personali non c’è niente di segreto. Guarda, eccole. – preme un tasto del suo terminale e sullo schermo di Paula compare una lista interminabile di file, ciascuno collegato a quantità sterminate di informazioni. Paula sgrana gli occhi, poi prova ad aprirne uno. La sua espressione stupita fa sorridere Sebastian.

- Hai scelto bene. La storia dell’umanità, ci vorrebbero mesi per leggerne un pezzetto. Io ci ho rinunciato, mi sono contentato di un riassunto rapido.

- Come… com’è possibile…

- Quella scheda non è quello che sembra. Sebastian, il mio doppio, ci ha messo tutto quello che c’era nel computer centrale della nave, e anche di più. Per me sì che è una novità.

- Anche per me… – mentre parla Paula apre a caso i file, filmati, testi scientifici, e anche enormi sezioni di “narrativa, teatro e cinema”, ordinate per epoche, generi e provenienza geografica. Febbrilmente le scorre, centinaia di migliaia di titoli, ci vorrebbero settimane solo per leggerli. Chiude gli occhi pensando alla voce decisa di Ester, un po’ rauca per l’irritazione alla gola che negli ultimi tempi non la lasciava più – Allora era vero… il teatro c’era per davvero.

- Cosa vuoi dire, tu queste informazioni non le hai? Non ci sono nel tuo computer?

- No! Nei nostri computer non c’è niente di tutto questo. Solo testi tecnici e basta. La storia dell’umanità è riassunta nelle direttive con un centinaio di parole. Gli uomini erano i nostri nemici, e dopo la guerra sono stati distrutti tutti. Ester negli ultimi mesi ha cominciato a farmi un racconto diverso, però mi sembrava una favola, non c’era niente di plausibile in quello che mi diceva.

- Cosa ti raccontava Ester?

- Del pianeta Terra. Di una guerra catastrofica, ma non era fra uomini e donne, anche se i nostri… nemici tenevano le donne in soggezione. Che cosa assurda, da non crederci…

- Non capisco… senti… Paula, ti chiami così, vero?

- Sì, mi chiamo così.

- Dobbiamo aiutarci a vicenda. Sembra impossibile, ma tu… e credo l’intero gruppo delle donne, non conoscete una quantità enorme d’informazioni importanti. Perché sono state cancellate dai vostri computer?

- Ester diceva che è stata Eli, la comandante della missione. Era rimasta ferita, e prima di morire ha dettato le nuove direttive. E mentre Ester era prigioniera…

- Prigioniera? Che vuoi dire?

- La prima Ester. Non so molto altro, mi ha solo detto che lei era chiusa in una stanza buia, e quando l’hanno fatta uscire le memorie dei computer erano state cancellate. Hanno conservato solo le informazioni tecniche.

- Tutto cancellato, che strano… non capisco perché l’hanno fatto. Mi sembra una cosa assurda.

- Cosa sai del… teatro? Ester ci teneva tanto.

- Ho avuto pochissimo tempo per capire. Mi sembra che il teatro sia una forma di espressione non finalizzata all’utilità, come la medicina o l’ingegneria, ma solo al… divertimento.

- Vuoi dire che è una specie di gioco?

- No, qualcosa di più. Sto cercando di capirlo ma ci vuole tempo, molto tempo. Secondo me ha a che fare più che con il gioco… con l’arte. Come la pittura e la scultura. E la musica.

- L’arte ci interessa poco, tanto non serve a niente. Lo dicono le direttive… però conosciamo la musica, ce l’hanno fatta studiare.

- E ti piace?

- Sì, un po’… alcune di noi sono bravissime, io non ho mai tempo per queste cose.

- Questa sera farai una cosa per me.

- Cosa dovrei fare?

- Guarda uno di questi filmati.

- È come quello della… donna nuda? Fanno schifo! Roba adatta a voi uomini, è disgustosa!

- Ma no, voglio farti vedere una cosa che ho trovato una notte che non riuscivo a dormire. Per ora dormo pochissimo.

- Lo avevo capito dalla tua faccia… perché non dormi?

- Studio. Sto studiando quello che c’era nella scheda. Appena il sistema di sicurezza ha accertato che ero io, che ero vivo, cosciente e senza costrizioni…

- Maledizione! – Paula picchia un pugno sul piano della mensola metallica e fa schizzare in aria la tastiera senza fili. L’afferra al volo, appena in tempo.

- Che tipo irascibile sei! – Sebastian si appoggia allo schienale e la guarda divertito. È accesa in viso e gli occhi mandano lampi. – Mi ha scaricato nel terminale tutto il contenuto della scheda. Le informazioni erano per Sebastian, ma io le sto condividendo con te. Non devi sentirti frustrata.

- E va bene! Grazie per la condivisione! – lo prenderebbe a calci se lo avesse a tiro. A pugni e a calci fino a farlo sanguinare. Che strana idea, non ha mai avuto fantasie di questo tipo. Però può tenerlo chiuso per sempre, questo lo farà di sicuro.

- Sei furiosa. Calmati… voglio farti vedere questa commedia. È molto antica. Credo che abbia più di duemila anni. Dai, copia il file su un disco e guardala a casa. Ce l’hai una casa, vero? Non mostrarla a nessuna, però. È una storia di morte e d’amore. – la schermata di prima è sostituita dalle coordinate di un file abbastanza grande, una decina di giga.

- E se non mi piace?

- Te ne proporrò un’altra. Gli antichi ci sapevano fare con le storie, sai… ho guardato pochissime opere, non c’è abbastanza tempo, ma ho l’impressione che le cose migliori le hanno fatte gli antichi. Poi c’è stata troppa… ovvietà.

- Cosa vuoi dire? Che intendi per ovvietà?

- Hai presente la donna nuda, quella che ti tira fuori la lingua quando cerchi di leggere la scheda? A proposito, lo fa apposta ma non è colpa mia, è stato Sebastian quello vecchio. Aveva sessant’anni quando l’ha programmata. Ecco, la donna nuda è ovvietà.

 

Il portello esterno si apre senza difficoltà. I tre sono sudati e sfiniti, la passeggiata di due chilometri è stata più lunga e faticosa del previsto. Antonio guarda con apprensione l’indicatore dell’ossigeno, stando a quanto dice hanno superato di settantadue minuti la metà dell’autonomia. Significa che o fanno rifornimento nella sezione delle donne, o non riusciranno a tornare. Ma forse al ritorno saranno meno impacciati, Steve dalla grossa bisaccia dei dischi, e gli altri due dai grandi contenitori delle cellule. È il suo ultimo pensiero. Non sente l’esplosione alle sue spalle, ma quando la scarica di pallettoni lo attraversa da parte a parte vede una nuvola di sangue vaporizzarsi intorno a lui. Niente altro, nemmeno il tempo di provare dolore o paura, la decompressione è immediata e non si accorge di essere già morto. Sebastian ha una rapida visione di Antonio grande e rigido nella tuta laccata di rosso. Seguito da una scia di vapore si allontana nel buio insieme al contenitore delle cellule che ruota lentamente e ogni tanto gli colpisce una gamba inerte. Goffamente Sebastian si gira e il grosso contenitore gli sfugge di mano, urtando il fucile che Steve si sta preparando ad usare ancora. Il colpo parte e la scarica prende in pieno il cilindro, facendolo urtare bruscamente contro il metallo dello scafo e scivolare via rotolando senza rumore. Maledizione, troppo presto, perché ha agito così presto! Bastava che li uccidesse dentro, e tutto si sarebbe aggiustato. Così anche il suo piano alternativo è fallito. Sebastian guarda con rabbia Steve che si sta preparando a sparare di nuovo. Questa volta non sbaglierà. Però non spara, si gira anche lui e fa fuoco verso qualcosa che sta alle sue spalle. Sebastian non lo distingue bene, abbagliato dal sole ancora brillante, sembra un altro membro dell’equipaggio, la tuta bianca è identica alla sua. Approfitta della distrazione di Steve per superare una nervatura dello scafo alta un paio di metri, e un’altra ancora, e poi si appiattisce nell’ombra. Non sente niente, solo l’ansimare di Steve negli auricolari della radio, poi la voce di Habel.

- Sei impazzito? Perché spari? Butta via quel fucile, ti tengo sotto mira.

- E perché dovrei farlo? Qui non sei l’ufficiale della sicurezza, non più.

- Dove sono gli altri? Rispondi!

- Ti ho detto che puoi andare a farla in culo, pezzo di merda.

- Non hai il tempo di ricaricare e io sparo meglio di te. Se fai un movimento ti faccio a pezzi. Arrenditi che è meglio.

- Ah! Il grande eroe ha parlato! E va bene, lo lascio, vedi?

- E ora vieni verso di me lentamente. Più vicino, pezzo di merda. Ma… ma che cazz… – la voce di Habel s’interrompe bruscamente con una scarica, ora c’è solo il respiro affannoso di Steve.

- Non ti aspettavi che ne avevo due, di fucili, brutto coglione. Seb! Dove cazzo sei! Non ho tempo di cercarti, fottiti là fuori! Io vado a finire il lavoro. – Sebastian non parla e trattiene il respiro. L’indicatore dell’ossigeno dice che ha meno di mezz’ora. – Seb! Devo dirti una cosa. Che a quest’ora lì dentro sono tutti morti. Che ho cancellato tutti i loro fottuti schemi. Che sei solo. – Sebastian si morde la lingua per non insultarlo, è questo che vuole, la carogna, una parola per localizzarlo. – Allora io vado. Vado a farle fuori tutte quante. Ho qui un’altra bomba.

Sebastian rimane immobile e aspetta, il respiro è sempre lì, poi all’improvviso non si sente più. È entrato nel compartimento di decompressione e ha chiuso il portello. Pensa disperatamente, deve esserci qualcosa da fare. Supera più in fretta che può le nervature e raggiunge il portello, è chiuso ma forse non è bloccato. Febbrilmente aziona il dispositivo manuale, ecco si apre. Dà una manata al tasto rosso che aziona il segnale d’emergenza della tuta e si precipita nella camera di decompressione, assordato dalla sequenza di messaggi trasmessi a tutto volume in tutte le frequenze audio. Non prova stupore quando urta contro la canna del fucile, la sente premuta contro il petto. Lo aspettava dentro, la carogna. Non c’è scampo a questa distanza, la rosa di pallettoni lo colpirebbe comunque e lui è impacciato dalla tuta. Steve non spara, sembra non avere fretta, passa un tempo che a Sebastian sembra interminabile ma forse dura solo un paio di secondi. Il tempo di guardare dentro la bisaccia vuota al fianco di Steve, grazie a Dio era un bluff, non ce l’ha un’altra bomba. Respira profondamente e afferra con forza la canna del fucile, la solleva all’altezza del viso. Vede accentuarsi il sogghigno di Steve dietro la visiera del casco, e poi una fiammata candida.

 

Ester Merkel si toglie i guanti e li butta con rabbia in un cestino. Inutile, dannatamente inutile. Eli è stata colpita ai polmoni e uno di quei maledetti pallettoni le si è conficcato nel cuore. È viva e cosciente, ma lo sarà per poco. L’intervento d’urgenza è servito solo a ritardare la fine di qualche ora. Perché sono impazziti così, cosa li ha spinti a venire per ucciderle… lei non ha visto niente, erano le quattro standard del mattino e dormiva come quasi tutte. Poi l’allarme, quel messaggio che ha gracchiato in tutti gli altoparlanti e proveniva da una tuta spaziale in avaria. Diceva che c’era un attacco nemico al portello di emergenza, ripeteva che c’era pericolo. Quando era arrivata era già tutto finito.

- Ce la farà? – Miko è sporca di sangue non suo. È riuscita a colpire uno degli invasori ma non ha potuto evitare che Eli si prendesse in pieno il colpo destinato a lei. E poi lui ha continuato a sparare nascosto dietro una paratia, gridando che erano venuti per ucciderle tutte. Mentre la sua voce diventava più debole e stava per perdere conoscenza, ha gridato ancora che la missione era finita, tutte le cellule distrutte, e tutti gli uomini morti.

- No. Ha poche ore, se riesco a mantenerla stabile. E… loro?

- Quei porci sono morti. Uno era già steso, con la faccia distrutta. L’altro l’ho colpito io. Si stava dissanguando e fino all’ultimo ha continuato a sparare. Poi con l’ultimo colpo si è ammazzato da sé.

- Vorrei vedere i corpi. Fammeli portare in infermeria.

- E perché vuoi fare una cosa tanto inutile? Buttiamoli fuori bordo.

- No, prima devo esaminarli. Potrebbero essere contaminati, intossicati o malati, e la loro malattia potrebbe contagiare noi.

- Ho capito. Li avrai fra dieci minuti. – Miko si allontana rapidamente con il suo passo leggero. Una graziosa macchina da guerra, sembra ancora una ragazza malgrado i suoi sessant’anni. Ester torna dentro e guarda con rabbia la sagoma di Eli, coperta da un lenzuolo macchiato di sangue. La macchina cuore-polmone le ossigena ancora il sangue, malgrado lo sconquasso nel suo petto. Ma per quanto basterà? Apre gli occhi e muove le labbra, la voce è solo un sussurro ma lo sguardo è limpido.

- Ora rimarrete in cinquanta.

- No, impianterò anche le tue cellule. Saremo cinquantuno come prima.

- Non farlo. Lei sarebbe inutile, non addestrata.

- Userò il tuo schema d’addestramento. Sarà uguale a te, sarà te.

- No! Non puoi, il mio… schema non c’è mai stato.

- Come, non l’hai preparato…

- No! Non ci credo, nell’addestramento virtuale. E voglio… che siano distrutti anche i vostri.

- Che dici, sei pazza… – Ester s’interrompe bruscamente e distoglie lo sguardo. Eli sta morendo e lei la maltratta. – scusa, non volevo…

- Lascia stare. Dimmi chi erano, perché lo hanno fatto…

- Non lo so. Forse sono malati, forse qualcosa li ha intossicati fino a farli impazzire. Devo fare subito l’autopsia a tutti e due. Tu riposa e stai calma.

- Fai presto, non ho molto tempo.

- Come sei pessimista. Non hai fiducia nella medicina.

Si gira in fretta per nascondere le lacrime e passa nel locale accanto, dove i corpi sono adagiati su due barelle. Uno dei due è irriconoscibile, è stato colpito in pieno viso. Aveva il casco indossato, dev’essere successo nella camera di decompressione. L’altro è un nero con gli occhi a mandorla, il volto deformato da un ghigno che sembra di trionfo. È ferito all’addome e ha il petto devastato dal suo ultimo colpo a bruciapelo, ha perso moltissimo sangue. Ester taglia le tute con un bisturi laser e le apre sul davanti. I corpi nudi sono magri e muscolosi, si capisce che facevano esercizio fisico. Esamina con cura l’interno dei corpi con il sistema d’imaging e poi con gesti rapidi penetra nel cranio, nel torace e nell’addome del nero, facendo prelievi dei liquidi e dei tessuti attraverso piccole brecce esangui. Poi passa all’altro, quello senza faccia. Anche la mano destra è stata dilaniata dall’esplosione. Ha una sutura recente sul torace, con i punti ancora attaccati. Sembra un intervento per l’inserimento di un pacemaker sotto la pelle, cose da libri di storia della medicina, cose che non si fanno più. Con il bisturi taglia i punti e apre la ferita. Che strano. Si è inserito sotto la pelle un involucro di silicone. Lo prende delicatamente e lo mette da parte, poi completa l’autopsia.

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Capitolo 10
*** X. ***


X.

 

Ester porta l’involucro sotto una lampada potente e lo apre usando le forbici. Contiene una scheda di memoria da videogioco e un minidisco ottico. Sulla plastica del disco c’è scritto “destinato esclusivamente all’ufficiale medico, da parte del dottor Sebastian Henssen”. Ester esita, dovrebbe riferire subito ad Eli cosa ha trovato, ma Eli sta morendo. È lei il secondo ufficiale, quella che prenderà il comando quando Eli non ci sarà più. Chiude bene la porta del laboratorio ed inserisce il minidisco in un lettore. Con stupore si vede chiedere il numero d’identificazione e il codice personale, sono dati che solo lei conosce. Li digita con attenzione e finalmente parte un filmato.

Cara collega – l’uomo pallido e magro ha l’espressione triste, è ripreso in una cabina abitativa con sullo sfondo una cycas molto grande – se stai vedendo questo filmato significa che mi hai asportato la scheda dal petto, e presumibilmente io sono morto. I nemici si sono infiltrati nel nostro equipaggio e forse anche nel vostro, il loro scopo è distruggere la missione. Tu sei il piano d’emergenza, l’ultima speranza che abbiamo. Ascolta bene, perché questo messaggio girerà una volta sola e poi si cancellerà. – cambia posizione e mostra la scheda di memoria. – nascondi questa scheda e non dire a nessuna, capisci, a nessuna della sua provenienza. Ora preparati ad agire in fretta, avrai tempo per pensare dopo. In un doppio fondo del serbatoio di ossigeno liquido della mia tuta c’è un contenitore di cellule staminali. Sono le mie, devi prenderle subito e conservarle. Le lascio a te insieme a questa scheda. Quando lo riterrai opportuno, tu o la tua doppia le seminerete. Ricordati che la scheda contiene il mio schema di addestramento e altre informazioni importanti, devi darla a quello… che nascerà. Per accedere ai dati gli basterà inserirla in una consolle da videogioco e mettere un dito sulla piastra d’identificazione. Ascolta e tieni l’informazione solo per te, hai capito, solo per te e la tua linea: la missione non è fallita, non ancora. Buona fortuna.” Allunga la mano e tocca qualcosa, il filmato s’interrompe.

Ester rimane immobile per un attimo, poi corre alle barelle, la tuta dell’uomo senza volto è tagliata sul davanti, il serbatoio piatto sta sulla schiena. Aiutandosi con un braccio meccanico gira il corpo su un fianco e apre l’alloggiamento del serbatoio. È vero, è stato modificato per mantenere un piccolo cilindro metallico alla temperatura dell’ossigeno liquido, sufficiente per conservare le cellule. Con gesti febbrili prepara un contenitore termico e vi trasferisce il cilindro afferrandolo con lunghe pinze di plastica, poi inserisce il contenitore in una fila di recipienti dello stesso tipo, la sua banca dei tessuti a duecentosettanta gradi sotto zero. La paratia scorre nascondendo tutto. Fatto, in meno di tre minuti. Fare sparire la scheda è più facile, basta metterla in tasca, è piatta e leggera.

Apre la porta di comunicazione tenendo in mano l’inutile striscia dell’analizzatore. Eli ha il viso sereno e muove lentamente una mano sul lenzuolo macchiato.

- Erano malati? O drogati? – dalla sua espressione si capisce che conosce la risposta.

- No. Perfettamente efficienti. Sapevano quello che facevano.

- Lo… immaginavo. Senti, Ester, devo dati una serie di ordini. Il primo, fai andare subito una squadra nella… loro sezione e accertati che quello che ha detto quel… bastardo è vero. Le cellule distrutte, tutti gli uomini morti.

- Sì, Eli.

- E poi… – sorride pensando che ora è tutto più facile e non dovrà uccidere nessuno, una cosa che le ripugnava – devo dettarti una serie di direttive nuove. Dovranno essere applicate con la massima severità. Vedrai, vedrete che ci sarà un mondo migliore. Il nostro mondo.

- Cosa vuoi dire, Eli…

- Sì, un mondo fatto solo di donne. Perché non provarci? Facciamolo, questo mondo. Dammi un microfono, devo dettare le direttive finché ho voce.

- Certo, Eli. – Ester torna nel laboratorio per cercare un registratore, e non sente Elizabeth sussurrare: “Dio è grande”.

Appostata dietro un mucchio di neve, perfettamente immobile, Sarah aspetta con pazienza. Miko aveva ragione anche questa volta, è inutile illudersi, la storia si ripete sempre. Diffidare di Emily e della doppia di Ester, Paula, che sono capaci di ribellarsi. Chi si è ribellato una volta lo farà ancora, è una legge di natura. Emily ed Ester un tempo sono state punite, e forse bisognerà punirle di nuovo. E anche Anna, che finora l’ha fatta franca perché è troppo furba, è nella lista nera. Loro tre hanno accesso alle funzioni più importanti della comunità, la salute e la riproduzione, le macchine e le informazioni. Se si mettono d’accordo possono condizionare tutto il gruppo, indurlo a fare le scelte sbagliate. E invece l’unica via è seguire le direttive, perché il primo dovere è obbedire. Sarah stringe il fucile carico, Miko è stata categorica in proposito, e continua a sorvegliare l’uscita della grotta. Paula c’è entrata tre ore fa, non si capisce che cos’è andata a farci nel suo laboratorio. Non è proibito, ma è strano. Miko dice che anche Ester ad un certo punto ha cominciato a starci troppo nel laboratorio, e quando lei è andata a vedere ha trovato solo porte sbarrate. Ester ha risposto in malo modo a Miko che le chiedeva cosa faceva in laboratorio, chissà cosa dirà Paula. Sarah pensa all’assurdità di dover puntare la sua arma su Paula e magari su Giulia. Non l’avrebbe mai pensato possibile, però quando è cresciuta Miko le ha spiegato che è questo il compito dell’ufficiale della sicurezza, non guardare in faccia nessuno. L’ufficiale della sicurezza non è più una persona come le altre, non ha amiche e non ha sentimenti. Quando è necessario deve diventare indifferente ed efficiente come una macchina, una macchina capace di uccidere.

Paula finalmente esce dalla grotta, preceduta dalla sua lunga ombra. È tardissimo, le undici e quaranta. Non ha la faccia stupita quando Sarah le sbarra il passo, sembra solo stanca e dimagrita. Sarah vorrebbe dirle qualche parola gentile, ma nasconde il sorriso sotto una smorfia e parla a voce troppo alta.

- Che ci facevi lì dentro? Parla! – ha colpito nel segno, invece di rimbeccarla con qualche mala parola, di dirle magari che non sono fatti suoi, Paula è diventata ancora più pallida e stira le labbra, poi risponde con un filo di voce, senza guardarla negli occhi. È vero! Nasconde qualcosa!

- Avevo… avevo da lavorare. – si riprende e finalmente guarda Sarah, è più bassa di lei di almeno dieci centimetri, ma la sua faccia larga e inespressiva le sembra minacciosa. – e tu invece, che ci fai tu ancora in giro? Non sai che potresti raffreddarti?

- Questo non ti riguarda. Invece mi riguarda cosa facevi tu. Ricordati qual è il mio lavoro.

- Sì, andare in giro con un fucile scarico e sparare ai palloncini.

- Non vuoi rispondermi? – la voce di Sarah è perfettamente calma e controllata, ma Paula rabbrividisce lo stesso. Miko le ha fatto sempre paura, e ora succede lo stesso con questa, che era stata fino a pochi giorni fa la sua compagna di banco a scuola.

- Non ho niente da dirti! – Paula è stanca e irritata, e la rabbia prevale sulla prudenza. – Ora fammi passare e lasciami in pace! – spinge bruscamente da parte Sarah e si dirige con decisione verso il sentiero.

- Allora l’hai voluto tu. – Sarah con un gesto rapido mette il fucile a tracolla, poi con il taglio della mano colpisce fulmineamente Paula alla radice della spalla destra. Paula cade in ginocchio, senza fiato e senza forze, e sente che Sarah le sta legando le mani, però le sembra che stia succedendo ad un’altra, non a lei. Poi, incurante dei suoi gemiti, la costringe ad alzarsi in piedi e la trascina lungo il viottolo deserto, fino alla prima casa del villaggio. Non c’è bisogno di bussare, Miko apre la porta senza una parola, con il viso impenetrabile. La porta di quercia si chiude senza rumore, e viene passato il catenaccio.

- Che… – Paula cerca di respirare, è ancora difficile, ha gli occhi pieni di lacrime. – che ti… è saltato in testa… Miko, diglielo tu, mi ha fatto male…

- Vuoi che Sarah ti liberi, vero?

- Sì… perché l’ha fatto? Io… – ha caldo, ancora coperta dal mantello, sente di essere rossa in viso e comincia a sudare. – per favore, Miko… sento troppo caldo, dille di sciogliermi.

- Perché l’hai presa, Sarah?

- La sorvegliavo come hai detto tu, stava chiusa dentro e quando l’ho interrogata non ha voluto rispondermi, anzi mi ha aggredita. Nasconde qualcosa, ne sono sicura!

- Hai fatto bene.

- Ti prego, Miko! – Paula si rivolge a Sarah, che la guarda inespressiva – Ti ho dato solo una spinta! Vi prego…

- Stai tranquilla, fra poco non sentirai caldo.

- Che… che vuoi dire?

- Che ora ti spoglieremo.

- No! – Paula fa un passo indietro, ma sente intorno alle braccia le mani di Sarah, sembrano di ferro. – non voglio…

- Di cosa hai paura? Siamo donne come te. – Miko le passa alle spalle e scioglie il laccio che le legava i polsi, ma la tiene ferma lo stesso. Paula è furiosa, non può muovere le braccia di un millimetro, e intanto Sarah le sfila prima il mantello, poi la parte superiore della tuta, lasciandola nuda. Ora le legano di nuovo le braccia orizzontali dietro la schiena, con una corda sottile passata molte volte intorno al petto, e nemmeno tanto stretta. Paula pensa che più tardi sarà facile liberarsi. Cerca di scalciare mentre le tolgono stivali e pantaloni, ma è inutile, loro fanno di lei quello che vogliono. La lasciano legata sul pavimento e perquisiscono attentamente il mantello e la tuta.

- Cos’ha al collo? – Sarah si avvicina e le toglie la scheda, l’unica cosa che le era rimasta addosso.

- Ve la farò pagare! Avete sentito? Parlo con voi!

- Falla stare zitta.

- Certo, Miko. – Sarah si avvicina di nuovo con la faccia inespressiva e le infila in bocca uno straccio che puzza di lavatura di piatti. Paula reprime la nausea e respira piano con il naso, mentre le due continuano a studiare tutto quello che aveva addosso.

- Questa è una cosa mai vista – Miko guarda la scheda avvicinandola alla lampada. – sembra un pezzo di computer – Paula cerca disperatamente di mugolare qualcosa, e Sarah le assesta rapidamente uno schiaffo dolorosissimo.

- Stai zitta, capito? Posso dartene cento, come questo, senza farti nessun danno. Solo dolore. Starai zitta? Fai segno di sì o continuo. – Paula annuisce con gli occhi pieni di lacrime. Ha capito che la corda sottile sembrava lenta e invece la immobilizza senza scampo, sono i suoi stessi muscoli a tenerla stretta. Non si libererà mai da sola. Sarah la lascia stare e torna alla tavola di legno grezzo. – Perché tiene al collo un pezzo di computer? Forse per… ornamento?

- Stupida! Paula non fa mai niente di superfluo, dovresti saperlo!

- È… vero. – Sarah abbassa gli occhi, Miko l’ha colta in fallo. – basta guardare come va vestita.

- Però non mi fido della sua linea. Le sorvegliamo da tanto di quel tempo, dev’esserci un motivo. Eravamo ancora in viaggio, e poi siamo entrati in orbita ed è passato altro tempo, l’atmosfera si stava arricchendo di ossigeno ed erano scesi i primi moduli di semina. Sapevo che i miei occhi non avrebbero mai visto la superficie, e sapevo che invece l’avrebbero vista. Non mi fa paura questo mistero, mi piace. È il cuore della direttiva.

- Il cuore della direttiva. Tutto proseguirà per sempre, uguale. Piace anche a me... – Sarah s’interrompe, Paula scalcia sul pavimento mugolando. Si sente un po’ in colpa, forse è stata troppo dura con lei. – Miko, che ne facciamo di lei? Forse sarebbe meglio liberarla, che male c’è a portare un pezzo di computer al collo…

- Aspetta. Questo cos’è? – Miko esamina il dischetto colorato.

- Un disco ottico, un comune disco ottico di quelli che usiamo noi.

- Prima di liberarla guardiamo cosa c’è dentro. – Sarah inserisce il disco nel lettore e lancia un grido di sorpresa.

- Guarda! È una cosa… mai vista.

- Cos’è, secondo te? – Miko guarda con diffidenza le prime scene di una registrazione ambientata in una cittadina fatta di pietra, con le strade strette e acciottolate. Non c’è niente che Miko riconosca, la strana architettura di una piazza circondata da palazzi guarniti di drappi con disegni incomprensibili, le figure asciutte degli uomini, vestiti con abiti coloratissimi, morbidi cappelli piumati e armati di spada. Sarah guarda affascinata lo schermo e ascolta gli strani discorsi, in una lingua comprensibile ma piena di parole oscure.

- Guarda! Ci sono… gli uomini! Guarda come sono brutti, e come sono isolenti, che voce sgradevole hanno! E ora che fanno, si battono! – dal pavimento Paula intravede una parte dello schermo, anche lei guarda stupita e per un attimo non pensa al dolore e all’umiliazione, la scena è troppo interessante. Agilmente si attaccano incrociando le spade e parando i colpi, uno degli uomini con un nome mai sentito, Mercuzio, maneggia benissimo la sua spada, e intanto ha il tempo di ridere e scherzare.

- Qualunque cosa sia, contravviene alle direttive. – Con un gesto deciso Miko interrompe il filmato. Si para davanti a Paula e le strappa lo strofinaccio dalla bocca facendole male.

- Parla! Dove hai preso questa… cosa?

- Io… io non sapevo cos’era. La sto vedendo anch’io per la prima volta!

- Bugiarda! Come tutte quelle della tua linea! – le afferra il mento e la costringe a guardarla. – non t’illudere! Ti farò parlare anche se non vuoi! Ti farò dire anche quello che non sai!

- Ma io…

- Risponderai alle mie domande?

- No! – Paula sputa, ma non riesce a raggiungerla. Miko ride senza allegria e le allunga un leggero calcio alla base del torace, poi torna verso il tavolo senza fare caso a lei che si contorce a terra tossendo.

- La terremo con noi. Sarah, vai ad avvisare le altre. Ci servono rinforzi.

- Certo, Miko. – Sarah esce di corsa senza degnare d’uno sguardo la ragazza rannicchiata sul pavimento. Miko slega le caviglie di Paula e la costringe a mettersi in piedi, poi le infila i vestiti. Quando le scioglie le braccia Paula cerca di colpirla e graffiarla ma è inutile, la maneggia come una bambola. In pochi attimi si ritrova di nuovo legata e furiosa. Almeno l’ha rivestita, si vergognava sotto i loro sguardi freddi, come se fosse un animale.

- Non l’ho fatto per farti un favore.

- Allora perché l’hai fatto, brutta carogna?

- Per non farti divertire. Non è venuto ancora il momento.

- Che… vuoi dire?

- Lo capirai, oh se lo capirai. – con calma ripone gli oggetti personali di Paula in una scatola e la chiude in un armadio a muro.

- Cosa vuoi farmi, stronza? Non la passerai liscia, quando le altre se ne accorgeranno…

- Non faranno niente, nemmeno le altre volte hanno fatto niente.

- Le altre… volte? Vuoi dire che anche questo… schifo si è ripetuto? Come ha fatto Ester a guardarti in faccia, a curarti quando eri malata, dopo che tu…

- Non c’è mai niente di nuovo. Senti, ti do un’ultima possibilità. Io non ce l’ho con te, tu sei solo un problema di sicurezza, contravvieni alle direttive. Parla e ti libero, te ne torni a casa.

- Ester ha… parlato? E tu l’hai lasciata andare?

- Sì. È successo tanto tempo fa, Ester si è ribellata alle direttive, ma poi si è convinta che sono una buona cosa, sono fatte per il bene della comunità. Senti, Sarah non c’è, io sono vecchia ormai, ho più esperienza di lei. Le direttive vanno rispettate, capisci, è inutile opporsi. Gli… uomini non ci sono più. Non ne è rimasto nemmeno uno. Dimmi dove hai preso quel disco e ti libero.

- L’ho… preso nel laboratorio. Credo che sia… una commedia.

- Cos’è una commedia?

- Una… rappresentazione.

- Rappresentazione! Non capisco. Spiegati meglio, non cercare d’imbrogliarmi!

- Non voglio imbrogliarti! – cerca di cambiare posizione, impossibile, le braccia sono segate dalla corda sottile e le fanno male. – per favore, liberami. Perché mi tieni legata? È inutile, sei più forte.

- Cominci a sentire dolore. Bene.

- Tu… mi stai torturando. È questo che stai facendo, vero?

- Rispondi alle domande e finirà presto. Spiegati, non farmi perdere la pazienza!

- Una rappresentazione non è come un filmato che riprende la realtà. È una finzione.

- Che stupidaggini! – tira bruscamente una delle corde che legano le braccia di Paula, e il dolore aumenta. – non ci credo! A cosa servirebbe una finzione!

- Mi fa male… – Paula si morde le labbra, è inutile dirglielo, lo sa ed è questo che vuole. Si raddrizza e la guarda con aria di sfida. – e tu non crederci! È questo e basta. Serve… per divertirsi. O forse per… pensare, ecco forse è così.

- E questa cos’è? – le mostra la scheda e Paula arrossisce. – Perché la tenevi al collo?

- È… una cosa che aveva Ester. Gliel’ho presa quando lei…

- Non ci credo! Perché ti ostini, lo capisco benissimo che mi stai nascondendo qualcosa!

- Ester, la teneva sempre al collo. Volevo… fare come lei. Per ricordarla.

- Che stupida sono ad ascoltarti! – le passa una mano leggera fra i capelli e glieli tira all’improvviso, facendole inarcare il collo. – ma tu parlerai, ti assicuro che mi pregherai di ascoltarti. La lascia bruscamente, Paula respira affannosamente, con il viso coperto dai capelli. Scrolla con rabbia la testa e cerca di controllare la voce.

- Senti, Miko, puoi anche uccidermi, ma non posso dirti di più. La commedia l’ho trovata questa notte e l’ho copiata sul disco. Chissà da quanto tempo c’era, in quel computer.

- Impossibile! Loro hanno distrutto tutte le memorie, non è rimasto nulla del passato. La nostra linea lo sa bene.

- Siete… state voi a cancellare tutti i dati?

- Noi abbiamo seguito le direttive. Le direttive sono la cosa più importante, più della nostra vita.

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Capitolo 11
*** XI. ***


XI.

 

Elizabeth ha ormai pochi minuti di vita. L’ossigeno nel suo sangue scende sempre di più, Ester guarda con apprensione il monitor, fra poco si scompenserà. Ha parlato per un’ora di seguito, dettando le nuove direttive, e poi è caduta esausta in un torpore simile alla morte. Ester non ha detto niente per non addolorarla ma le sembrano un delirio, queste direttive. Cancellare la memoria degli uomini, tanto ora non c’è più nessuna possibilità di rifare la specie umana. Abolire il ricordo dell’amore e della maternità. Cancellare la storia, le piccole e le grandi cose della civiltà, distruggere persino i videogiochi che sono inutili e fanno perdere tempo, insieme alla letteratura, al cinema e al teatro. Proibire tutte le arti tranne la musica strumentale. Ripetere l’impianto all’infinito, mantenendo in vita per sempre una piccola colonia destinata al nulla. Proibire l’addestramento virtuale, che assurdità, basta un incidente e l’intera memoria di una linea andrà perduta. Per l’affetto che prova verso Eli l’ha assecondata come si fa con i pazzi, però cancellerà subito la registrazione, appena prenderà il comando della missione ormai fallita. L’assassino ha detto la verità: le cellule staminali nella sezione degli uomini sono scomparse dagli alloggiamenti, con i loro contenitori che hanno un’autonomia di poche ore. Non sono più al loro posto sulla nave, forse li hanno dispersi nello spazio. E tutto l’equipaggio è distrutto, un’esplosione ha decompresso improvvisamente l’intera sezione degli alloggi, ci sono quarantasette morti sorpresi nel sonno. E due cadaveri, ricuciti nelle tute e pronti per essere abbandonati nello spazio, fanno quarantanove. Ne mancano due, che fine hanno fatto? La cosa certa è che non ci stanno da nessuna parte, la squadra comandata da Miko ha esplorato ogni angolo abitabile della nave, anche l’immensa serra piena di piante di tutte le latitudini, che ora toccherà a loro mantenere in vita.

Miko è appena tornata dopo cinque ore di missione, ha ancora addosso la tuta spaziale che porta con grazia come se non pesasse niente.

- Ester, per favore. – Ester si avvicina alla moribonda, che ormai si esprime con un lievissimo sussurro. – lasciami sola con Miko.

- Va bene, ma tu…

- Non preoccuparti, mi bastano solo pochi minuti.

- Va bene, Eli. – esce e chiude la porta.

- Ora dimmi, sono davvero morti? Sei sicura? Hai visto i corpi?

- Sì. Li ho visti e li ho contati. Ne mancano due, forse sono finiti fuori mentre venivano qui.

- Già. Forse è andata così. Dammi la mano, Miko.

- Eccola. – Eli stringe la piccola mano e se la posa sul petto.

- Ora devi promettere. Tu farai rispettare le nuove direttive, che sono in questo disco. Tu le difenderai contro tutte, se sarà necessario, e saprai come convincerle che si deve fare così.

- Contro tutte? Non comanderà Ester, dopo di te?

- No, ho deciso di no. Ester non è abbastanza… matura per quello che è successo. Lei credeva nella missione.

- Io pure ci credo!

- E io pure. – accentua la stretta della mano, ma la voce è sempre più debole – ma noi ci crediamo nel modo giusto. Sai cosa significa?

- Spiegamelo tu, Eli. Io mi fido di te.

- E io di te, sei il mio ufficiale migliore. Il modo giusto è questo: non discutere le direttive. Io voglio cancellare il ricordo degli uomini, perché non ci serve a nulla sapere che ci sono stati, quando non potranno servirci più.

- Perché credi che sia importante fare così?

- Perché le nostre… le vostre linee dovranno affrontare da sole molte difficoltà, e non dovranno distrarsi con la speranza o con il rimpianto. È finita, la missione come la pensavano gli umani è fallita. Non ci sarà una nuova umanità come volevano loro. Però ci saremo noi.

- Sì. Capisco cosa vuoi dire, Eli. Le nostre linee.

- E alle… nuove voi non dovrete raccontare tutto, solo quello che dicono le direttive. Tutte le tracce degli uomini saranno cancellate dai nostri computer, lo farai tu insieme alle tue aiutanti più fedeli.

- La mia squadra è pronta a fare qualsiasi cosa per te, Eli.

- Cancellerete tutte le memorie incompatibili con le direttive e la nostra storia comincerà da oggi. Oggi noi abbiamo vinto la guerra.

- La… guerra?

- Sì, gli uomini volevano distruggerci, erano crudeli e malvagi, ma siamo state noi a disfarci di loro.

- Ma… lo sai che non è vero, Eli… ad ucciderli tutti sono stati i nemici, forse i nemici erano proprio quei due…

- Zitta e non discutere! Ricordati che la cosa più importante è obbedire. E in cambio avrai il potere. Sarai tu a comandare, d’ora in poi. Usa tutti i mezzi che conosci per difendere le direttive, le ho pensate per darvi la vita eterna… – la stretta della mano si allenta, lo sguardo di Eli lascia il viso di Miko e si perde in alto.

- Eli! – Eli non risponde, Miko si precipita alla porta urlando, ma quando Ester arriva di corsa, può solo constatare che la comandante Elizabeth Gide ha cessato di vivere.

 

Helga e Marzia si vestono in silenzio, le tute ormai logore, gli stivali di feltro e i mantelli argentei. Helga solleva una tavola del pavimento e tira fuori due fucili a canne mozze, ne porge uno a Marzia.

- Finalmente meniamo un po’ le mani. Mi mancava.

- Tu non mi hai detto tutto. Anche questo è successo, eh?

- Quel bel tipo di Miko dice che è una legge di natura.

- Io mi rompo le palle, possibile che non c’è mai niente di nuovo?

- Lei dice che no. Io… e quelle prima ci abbiamo creduto. Anche tu devi crederci, a lei e a Sarah.

- Sarah è fredda come un coniglio morto. Mi fa paura certe volte.

- E hai ragione ad aver paura. Lei non è come noi, lei è… superiore.

- Mah! A me non pare, basta darci una botta in testa e cade come tutte le altre.

- Sì, e tu allora fai la prova, a prenderla alle spalle.

- Tu… ci hai provato?

- Non te lo dico, lo sfizio te lo devi passare tu. Devi ubbidire a lei, capito? Te l’ho insegnato quando avevi il moccio al naso, ti ricordi?

- Mi ricordo, mi ricordo! Che palle.

- Carica il fucile.

- Sei sicura? Non credi che non ne vale la pena, basta solo puntarlo…

- Non mi fare incazzare! Lei ha detto fucili carichi e saranno carichi. Gli ordini non si discutono. – camminano nella neve ancora alta, ci vorranno almeno quaranta giorni prima del disgelo. Bussano alla porta della terza casa, aspettano con pazienza sui gradini di legno. Sono ormai le due di notte, quelle due certamente dormono. Finalmente si accende una luce tenue e la porta si apre.

- Che succede? – Rina, avvolta nel mantello, guarda sorpresa le due sagome coperte dai cappucci, poi sorride allegra. – siete voi! Entrate, Francesca sarà contenta di vedervi.

- Ne sei sicura, bambina? – Helga entra scuotendo via la neve dal mantello. – noi portiamo la tempesta.

- Mi piace la tempesta. – Rina aiuta Marzia a togliere il mantello e le accarezza il collo. Solo allora vede i fucili e il suo sorriso si attenua. – cos’è successo?

- Miko ci vuole. Sveglia Francesca.

- Non c’è bisogno. Ho sentito tutto. – Francesca indossa in fretta la tuta ed esce dalla camera da letto. – serve anche l’artiglieria?

- Sì, Miko ha detto che è una cosa seria.

- E va bene. – stancamente torna in camera da letto, e torna poco dopo con due fucili. – li ho caricati.

- Bene. Te la senti di uscire?

- Ma certo, che credi, che sono una vecchia come te? – le molla un pugno in una spalla e se ne becca un altro come risposta. – cosa dobbiamo fare?

-Prevenire. Andiamo a prendere quella carogna di Emily e quella piccola puttana di Flavia.

- Mi piace l’idea. Erano secoli che non gli davamo una strigliata.

- Sì, una bella strigliata come ai vecchi tempi.

Paula cerca di pensare in fretta, è sola nella camera da letto, seduta sul pavimento di assi. Miko non l’ha slegata, anzi l’ha sospesa ad un gancio del muro per impedirle di sdraiarsi. Ormai è tormentata dai crampi e deve reprimere i gemiti che sicuramente farebbero piacere a quelle due. Non sa fino a quando potrà resistere senza urlare, però è decisa a svenire dal dolore piuttosto che parlare. Loro leggono dentro di lei, capiscono che sta nascondendo qualcosa, però non sospettano quanto sia grossa la cosa che nasconde. Un uomo, un uomo vivo. Cosa ne farebbero, se lo scoprissero? Paula non riesce a indovinarlo, sa che in fondo loro non sono delle assassine, l’avrebbero certamente liberata se non fosse stato per il maledetto disco. E dire che lei non lo voleva nemmeno. Però poi alla fine era curiosa di vedere questa famosa commedia. Una storia di morte e di… amore. L’amore, quella cosa astratta che lei non ha mai saputo cos’è, perché nemmeno Ester lo sapeva. Dalla scena che ha visto dal pavimento della cucina sembrava la solita guerra che si fanno gli uomini, prima s’insultavano e poi cercavano d’infilzarsi con le spade, e a questo punto quella carogna di Miko aveva fermato il disco.

Cosa farà Sebastian, non vedendo più nessuno? Per quanto potrà sopravvivere senza il cibo che lei gli passa attraverso il dispenser? L’alloggio deve avere razioni concentrate d’emergenza, e l’acqua dei rubinetti si può bere. Diciamo una settimana, dieci giorni. E poi? Morirà di fame, una morte orribile e mentre morirà la maledirà, penserà che è stata lei ad abbandonarlo, a tradirlo. Ben gli sta, carogna, lei è qui per colpa sua.

Piange silenziosamente, sapendo che non potrà asciugare le lacrime e quelle due si accorgeranno anche di questo. Ma che importa, crederanno che è per il dolore e per la rabbia, e si congratuleranno con sé stesse per quanto sono state efficienti. Carogne, anzi peggio che carogne, macchine disumane al servizio di… cosa?

Stringe i denti per non gridare dal dolore e pensa in fretta. Perché mai Ester, che le ha raccontato tutto e le ha trasmesso anche la ribellione, perché non l’ha messa in guardia, perché non le ha raccontato delle umiliazioni e delle torture? Forse perché sperava che il fatto nuovo, Sebastian, potesse cambiare il corso immutabile delle linee che ripetono i gesti e i pensieri. Sì, forse per questo. E invece no, eccola qui a soffrire come Ester in passato, alla faccia di tutti i fatti nuovi. Sente un trambusto nella stanza accanto, e poi la voce di Flavia.

- Lasciatela stare! Perché l’avete legata così stretta, non può far male a nessuno… – la voce si spegne in un gemito, Paula capisce cos’è successo, un tocco leggero, quasi gentile, di Miko o di Sarah.

- Miko, ragiona, stai sbagliando tutto. – Emily cerca di mantenere la calma. – non c’è motivo di fare così, lasciaci andare e non te ne vorremo.

- Cazzate! – c’è anche Helga, allora le cose si mettono davvero male. Helga è ottusa come un pezzo di legno. – stai zitta se non t’interroghiamo!

- Helga, Francesca, noi siamo amiche, ci conosciamo da bambine… – anche la voce di Emily s’interrompe bruscamente e si sente solo il suo respiro affannoso.

- Portale insieme all’altra. Nella stanza da letto.

- Le hai perquisite?

- Sì, non hanno niente addosso.

- Ehi, tu, hai visite! – Marzia apre la porta con un calcio e spinge dentro Emily e Flavia. Anche loro sono legate, nello stesso modo doloroso. Miko rapidamente le sistema a lato di Paula, assicurate allo stesso gancio.

- Cos’è successo, Paula…

- Avrete tempo per raccontarvi le vostre storie! Un sacco di tempo! Stiamo preparando la camera buia. – la voce di Rina è allegra, come se parlasse di una torta di mele. Chiude la porta facendola sbattere, le tre prigioniere rimangono nella camera spoglia, rischiarata solo dalla striscia di luce che filtra sotto la porta. Emily cerca di muoversi e singhiozza.

- Le mani… non mi sento più le mani.

- Stai calma, Emily. Non succederà niente alle tue mani, capito? Questi sono metodi… scientifici. Lo fanno per farci soffrire, ma sono sicura che non vogliono… ucciderci. E nemmeno farci un danno permanente.

- E allora cosa diavolo vogliono? Lo sai tu? Sei stata tu a fare qualcosa di sbagliato, come quella pazza di Ester? Lo sai cos’ha passato un’altra Emily per colpa sua?

- No… – Paula cerca di raddrizzare la schiena, impossibile. – Ester non mi ha detto niente, io nemmeno me lo aspettavo questo trattamento. Invece è già successo, vero?

- Sì. E siamo state sempre noi a pagare.

- Perché noi? – Flavia appoggia le spalle alla parete di legno, ma questo non le dà sollievo. – non me l’hai detto, Emily. Perché è toccato a noi?

- Perché siamo state noi ad opporci, alle maledette direttive. Le altre ci stavano seguendo, e allora sono intervenute quelle stronze della sicurezza.

 

Sebastian si sveglia al suono leggero del cicalino del computer. Si è concesso un’ora di sonno che è passata in un attimo. Si stropiccia gli occhi e manda giù a fatica la saliva. Ha la gola asciutta e gli fanno male le ossa. Avrebbe bisogno di dormire ventiquattr’ore di seguito, lo sa, però è impossibile. Troppe le cose da scoprire, da imparare. L’addestramento imposto dal vecchio ossuto che gli ha parlato dallo schermo è complesso, deve assorbire una quantità enorme d’informazioni. Anche dedicando le intere giornate a questo, come sta facendo ultimamente, rimangono abissi di ignoranza impossibili da colmare. Per fortuna il vecchio, lui lo sa che è l’altro sé stesso, è la prima cosa che gli ha detto, ha preparato una tabella di priorità, e lui la segue ciecamente, senza chiedersi perché. Un’intera sezione del piano d’addestramento è dedicata alle tecniche di combattimento corpo a corpo, una cosa di cui lui nemmeno immaginava l’esistenza. E invece eccole, con i movimenti analizzati nei minimi dettagli, e i programmi per simularli alle macchine, e verificarne l’efficacia. Priorità assoluta. E poi il segreto rivelato, quello che nessuno deve ancora sapere perché non è sicuro se è sopravvissuto qualcuno dei nemici. Qualcuna, in questo caso. Anche questo, con tutto quello che comporta, priorità assoluta. Stranamente il vecchio ha lasciato poco spazio alla medicina, forse sapeva già che questo l’avrebbe fatto la sua collega. Il vecchio ne parla bene, anche se confessa di non conoscerla, di non averla mai incontrata e di non sapere nemmeno com’è fatta. Però è la donna destinata a lui, quella con la massima complementarità genetica, e cioè differisce da lui in modo più marcato. Li hanno selezionati tutti così, a coppie, perché fosse naturale che si riconoscessero e si scegliessero, una volta insieme. Il vecchio ha detto che avevano impiegato secoli a sviluppare queste tecniche di analisi genetica, e gli equipaggi erano il risultato di un lavoro su larghissima scala. Già, gli equipaggi e…

L’ora di ginnastica è tutta incentrata sul combattimento, simulato da un casco per la realtà virtuale che Sebastian ha trovato al terzo tentativo in uno dei possibili compartimenti nascosti che gli ha indicato il vecchio. Funziona collegato ad una macchina interattiva che gli imprigiona tutto il corpo. È faticoso e incomprensibile, ma lui non discute gli ordini del vecchio, non ha mai avuto il minimo dubbio sulla sua sincerità, piuttosto, mentre progrediva nel suo addestramento, ha avuto le conferme che tutto quello che ha detto è vero, e così anche il ruolo pauroso che forse dovrà recitare non è una fantasia ma una possibilità maledettamente reale.

Attivando le telecamere della nave ha potuto guardare fuori, l’inverno buio e le ombre delle donne che si aggirano per il villaggio, e la guardiana armata che non lascia mai l’ingresso. Sono due, quasi uguali, che si danno il cambio. Certo, ancora coesistono una vecchia e una giovane, ma la vecchia sembra senza età. Sebastian si chiede il perché di tante misure di sicurezza, in una comunità piccola e pacifica, senza alcun pericolo esterno. Nessun animale nocivo, nessun essere alieno, perché tutto, flora e fauna, è stato seminato selettivamente su un pianeta ancora vergine. Quasi tutto quello che ha detto il vecchio corrisponde alla realtà, certo ci sono discrepanze, per esempio lo stato di arretratezza della comunità, che ha avuto ormai tre generazioni a terra, e tutto il tempo per migliorare lo stile di vita. Invece niente, nessun progresso rispetto alle condizioni originarie del primo insediamento. Questo non è dovuto solo alla mancanza delle macchine pesanti, il motivo dev’essere un altro, legato alle persone. Ha ascoltato le conversazioni nei pressi della nave, ma non ha ricavato alcun elemento di giudizio. Anche le due coppie che lavorano nella nave oltre a Paula, le due esperte di computer e i due ingegneri, non dicono mai nulla di importante. Dalle loro parole si avverte solo una profonda disillusione, e frustrazione per dover ripetere all’infinito gli stessi gesti, gli stessi pensieri. E invece avrebbero potuto, anche senza gli uomini, costruire una comunità molto più varia e vivace, quella che si aspettava di trovare il vecchio.

Si stacca dalla macchina, sfinito e con i muscoli doloranti. Non sa quanto servirebbe questo addestramento virtuale in un combattimento vero. Comunque, se il vecchio ci tiene tanto, bisogna obbedire. Sotto la doccia pensa che a quest’ora Paula si sta preparando per venire alla nave. Appena arrivata tira fuori da un armadio una serie di tre pasti standard e la mette nel dispenser. Non si fa sentire, e non sa che lui la vede perfettamente. Poi torna nella sua sezione, studia e consulta i suoi testi, e molto dopo va a trovarlo. Sebastian si asciuga con una spugna logora e indossa la tuta. Se dovesse uscire all’aperto ci sarebbero problemi, non ha scarpe adatte e non sa dove trovare un mantello. Dovrà dire a Paula che fra poco ci dovrà pensare. Come fare a dirglielo senza spaventarla, crede che la porta sia chiusa dall’esterno, e non sa che lui ha accesso a tutti i sistemi della navetta. Eppure dovrà trovare il modo di dirglielo, il momento di agire si avvicina.

Guarda un po’ stupito il monitor, di solito a quest’ora Paula è già arrivata e si sta affaccendando nella sua sezione. Invece non c’è nessuno, la porta del reparto d’isolamento è chiusa, impenetrabile perché solo lei può accedere ai locali. Le luci basse, nessuna macchina in funzione. Guarda fuori, non nevica e c’è una schiarita nel cielo coperto di nuvole bianche. Gli alberi coperti di neve sono bellissimi. Nemmeno la guardiana è ancora arrivata, nessuna orma lungo il viottolo che porta alla grotta. Veramente strano. Va al dispenser del cibo, sperando che Paula sia venuta prima, mentre lui dormiva. No, non è venuta, per la prima volta il dispenser è vuoto. Peccato, un caffè ci voleva. Per prendere la razione dovrebbe aprire la porta, e Paula se ne accorgerebbe. Decide di fare a meno del caffè e aspettare ancora. Beve un po’ d’acqua demineralizzata del rubinetto, poi riprende il programma d’addestramento.

 

Giulia corre lungo il viottolo deserto, la neve alta è intatta. È strano, a quest’ora. Anna sta ancora male, ha passato una notte molto agitata con la febbre alta e ora si è assopita, però respira male e si lamenta nel sonno. Verso le otto Giulia si è decisa di andare a cercare Paula, da ieri non si è fatta vedere, e certamente bisogna dirle che Anna non è migliorata. Però nessuno risponde alla porta di Paula e il camino non fa fumo. E ora niente orme lungo il viottolo, qui da stanotte non c’è passata nessuna. Che sia successo qualcosa a Paula? Lo stomaco di Giulia si stringe, che disgrazia se Paula… però cosa potrebbe essere successo? Un incidente in laboratorio? Mai nessuna ne ha parlato prima, di questa possibilità. Si è perduta nella tormenta? Ma no, non c’era tempesta di neve, stanotte cadeva lenta e pesante ma ci si vedeva benissimo. E allora? Entra inquieta nella grotta e compone il codice di accesso. La nave è in ordine come sempre, nessuna anomalia. Però la sezione medica è al buio, come quando Paula non c’è. Bussa alla porta, sapendo che sta facendo un gesto inutile. Naturalmente nessuno risponde.

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Capitolo 12
*** XII. ***


XII.

 

Ester è coperta di sudore, l’hanno chiusa al buio in un compartimento di servizio caldissimo che la contiene appena. Sotto i piedi nudi sente una griglia di metallo a maglie larghe con gli spigoli taglienti, e deve cambiare continuamente posizione per alleviare il dolore. Ha le mani legate in modo crudele, ogni tentativo di movimento stringe ancora di più la corda che le sega le braccia ma non i polsi. Così non le rimane nessuna lesione permanente ai nervi, il medico serve vivo ed efficiente. Da cinque giorni sta così, nuda e legata, senza potersi sdraiare né lavare, però non vuole arrendersi. Quella pazza di Eli, prima di morire ha innescato la bomba, ha aizzato Miko e le sue compagne, ora si capisce a cosa servivano quelle due stronze, a menare le mani. Alla prima mezza parola di dissenso l’hanno chiusa qui dentro, e sospetta di non essere la sola ad aver subito questo trattamento. Altro che secondo ufficiale, Eli l’ha declassata e ha ceduto il comando a Miko. Poco male, se fosse ragionevole. E invece no, le pazze direttive sono diventate vangelo. Cancellare le banche dati, distruggere l’intera cultura dell’umanità. Hanno preso i punti nevralgici della nave con la forza, e di sicuro a quest’ora hanno portato a termine il loro piano. E poi, cosa succederà? Fra poco ci sarà il primo impianto, e dovranno liberarla per forza, però cosa diranno alle giovani? La direttiva dice, cancellare tutto, parlare di una guerra, che follia, loro erano qui appunto per sfuggire ad una guerra senza pietà. E poi costruire un mondo di sole donne, Ester sogghigna nel buio, lei stessa ci aveva pensato una volta, un mondo di sole donne sarebbe migliore, perché le discordie e le guerre sono cose da maschi. Però biologicamente non si può, non si può ancora. Le cellule staminali sono stabili, a patto di non cambiare nulla nel loro genoma, altrimenti si accumulerebbero errori incompatibili con la vita. Il rimaneggiamento dei geni non si può ottenere artificialmente. Però… Ester appoggia il viso incrostato di sporcizia alla paratia, leggermente più fresca dello stanzino soffocante. In fondo perché ribellarsi, se la missione è fallita e non c’è modo di fare diversamente? Le direttive sono pazze, ma non c’è di meglio in alternativa. Manda giù a fatica la saliva densa, e fortuna che ne ha un po’, le danno da bere solo due volte al giorno. Deciso. Tira un calcio alla paratia, che rimbomba sordamente. Un altro calcio, la porta si apre appena un po’, lasciando entrare un delizioso soffio di aria condizionata.

- Che vuoi? Se non la smetti…

- Basta… – si schiarisce la voce, è uscita rauca e sibilante. – basta, ho capito. Dì a Miko che ho capito.

- Non è un trucco per fregarci, eh? – Helga la guarda diffidente attraverso la fessura, ma no, è ridotta uno straccio e puzza come una fogna, sono state davvero brave a farle calare la cresta.

- Cretina testa di legno! Ti ho detto che ho capito. Chiama Miko.

 

La nave è deserta, oggi non c’è venuto nessuno. Eppure i due ingegneri avevano lasciato il lavoro a metà, una delle incubatrici smontata con i circuiti esposti, e tutti gli utensili sparsi sul bancone. Sebastian passa da una postazione all’altra, niente, deserto senza motivo. Solo la guardiana è arrivata verso le nove, ha guardato con attenzione le due file di orme fresche sulla neve, poi si è messa in posizione verificando che il fucile fosse carico. Questa è una novità, fino ad oggi la ragazza orientale toglieva le cartucce e le metteva in tasca, oggi invece ha fatto il contrario. Le orme di chi sono? Sebastian rimpiange di non aver attivato il sistema di registrazione, qualcuno è venuto mentre lui stava studiando, e se n’è andato senza entrare. Chi era? Stringe l’inquadratura sulla guardiana, sembra molto giovane, più di Paula, ma lui sa che hanno la stessa età. Si muove con grazia malgrado il mantello e l’arma, certamente è addestrata per combattere, però non contro un simulatore. Il vecchio gli ha detto che la regola fondamentale è non sottovalutare l’avversario. Se dovrà battersi con qualcuna di loro non può illudersi di essere più forte, anzi deve tenersi pronto a difendersi da un’insidia mortale. In questo caso l’insidia è nascosta molto bene, le mani eleganti della ragazza sembrano incapaci di fare del male. Un movimento lo distrae, è arrivato qualcuno, una sagoma avvolta nel mantello. Attiva l’audio.

- Sarah! Cerco Paula! L’hai vista? – la voce della ragazza bruna è piena d’ansia, il viso di Sarah resta impassibile.

- No. Stamattina non c’era nessuno. Però qualcuna era venuta e se n’era andata, c’erano le impronte sulla neve.

- Ero io! Ero venuta a cercarla qui, non c’è a casa, non c’è qui… dobbiamo dirlo alle altre, forse le è successo qualcosa…

- È inutile, non serve agitarsi.

- Cosa… cosa vuoi dire?

- Che lei per ora è al sicuro. Io lo so. Le… altre lo sanno, quelle che contano.

- Non capisco, spiegati meglio!

- Calmati. – lo sguardo di Sarah è freddo come la neve. Giulia trattiene la valanga d’insulti che aveva pronta, e la guarda interdetta. – Paula tornerà appena… potrà.

- Ma Anna… Anna sta male. Ha bisogno di Paula!

- Sta davvero così male?

- Sì! Ha la febbre altissima! Ho paura…

- Se è così… – l’espressione dura di Sarah si distende per un attimo – allora provvederò io. Cos’ha Anna?

- Una bronchite, ha detto Paula… le ha dato degli antibiotici.

- E ora cos’è successo di nuovo?

- Tossisce di continuo, è agitata, quando si assopisce si lamenta nel sonno… la febbre non è scesa, capisci! Io non so cosa fare…

- Va bene, ho capito. Tu resta qui alla nave, sorveglia tu l’ingresso. Io torno subito.

- Ma… perché si deve sorvegliare l’ingresso?

- Lo ha detto Miko. Io non discuto mai i suoi ordini. Anche tu dovresti fare lo stesso.

- Ma… – si trattiene, ha capito cosa vuole dire Sarah – va bene, resto qui. Ma tu fa’ presto.

- Farò presto. – la ragazza orientale si allontana a passi rapidi, Sebastian la segue finché può con le telecamere esterne, percorre il viottolo e si dirige alla prima casa, bussa e s’infila subito dentro lo spiraglio che si è aperto nella porta. Rimane dentro una decina di minuti, mentre Giulia passeggia nervosamente davanti all’ingresso della grotta, poi esce quasi di corsa. In pochi minuti è di ritorno.

- E allora?

- Stai tranquilla. Paula dice di aumentare la dose di antibiotico. Due compresse invece di una, ogni dodici ore. Dice di non preoccuparti, la malattia deve fare il suo corso. Ah, dimenticavo, dice di farle bere molto tè con il miele. – sorride per un attimo – il miele piace anche a me.

- Grazie, Sarah! – l’afferra per le spalle e la bacia sulle labbra, lei rimane a bocca aperta, ma Giulia è già sparita di corsa.

 

Paula ha deciso. L’ha convinta la vista di Emily, che si è agitata disperatamente per tutta la notte e ora sembra svenuta, ha chiamato aiuto ma nessuna delle carogne ci fa caso, anzi ci provano gusto. Flavia tiene duro, però ha le guance rigate di lacrime e si rifiuta di parlare. In fondo potrà dire una verità addomesticata, e prendersela con Ester, che ormai non ha niente da temere.

- Ehi, Miko! Vieni, ho deciso di dirti tutto. Hai sentito? Miko! Helga! – dopo un po’ la porta si apre e compare la brutta faccia di Helga. Ha gli occhi gonfi e rossi, si direbbe che è stata lei a passare una notte intera appesa al gancio.

- Che cazzo vuoi, tu? Non stai comoda?

- Perché non fai la prova? Ma tanto è inutile ragionare con te. Voglio parlare con Miko. Dai, chiamala.

- Se è un trucco io…

- Tu chiamala. Poi facciamo i conti, io e te. Dovrai venire a farti curare i tuoi guai, prima o poi.

- Curare?

- Ma certo, io so cosa ti verrà, in quella pancia gonfia, Ester me l’ha detto. E so pure cosa dovrò fare per aiutarti, quando griderai giorno e notte per il dolore.

- Griderò… – la faccia ottusa di Helga diventa smorta.

- E ti torcerai peggio di come ha fatto questa poveraccia. E io ti dirò che ti sta bene.

- E io ti ammazzo prima!

- Fallo, e nessuno ti curerà, nessuno saprà come fare. Dovrai spararti in testa, per smettere di soffrire!

- Io…

- Chiama Miko, non farmi perdere la pazienza!

- Vado a cercarla. – Paula respira profondamente e cerca di assumere un’espressione calma. Deve farcela in qualche modo. Passa tempo, Miko forse non è nella stanza accanto, o forse stava dormendo. Entra con passi silenziosi, non degna di uno sguardo Emily che ha ripreso a contorcersi inutilmente, e Flavia immobile con gli occhi chiusi.

- Che vuoi? Ancora siamo all’inizio, dovresti saperlo.

- È inutile, perché ripetere la storia? Lo so che non posso resistere a lungo. Quanto? Due giorni? Una settimana? Non ce la farò più e mi metterò a gridare. Tanto vale parlare prima.

- Non ci credo. – Miko la guarda freddamente, gli occhi piccoli e scuri sembrano spilli. – non è da voi. Voi lottate.

- Ma perché farlo se è inutile? E poi, puoi controllare se è vero quello che ti dico.

- Cosa vuoi dirmi?

- La verità. Ho copiato quella… cosa, dal computer del laboratorio. Fino a pochissimo tempo fa non ne sapevo l’esistenza. È stata Ester.

- Cos’ha fatto Ester?

- Ha nascosto la commedia, lo sai benissimo! Se la storia si ripete, si è ripetuto anche questo.

- No! Questa… cosa non l’avevamo mai vista.

- E va bene, si vede che la nostra linea è stata capace di mantenere il segreto per più tempo. Ester era appassionata di teatro, me ne parlava sempre. Forse ne aveva una copia in un disco, non lo so, non me lo ha detto. Me l’ha mostrata poco prima di morire, e mi ha chiesto di tramandarla a… quella che sarebbe venuta dopo. È solo una commedia, l’unica trasgressione è che contravviene alle direttive…

- Ti sembra poco? Le direttive sono tutto.

- Sì, ma in fondo cosa c’è di male? Tu l’hai vista fino in fondo?

- No! Io non voglio saperne nient'altro.

- Però se la vedessi capiresti che non c’è niente di male. È una storia. In questa storia ci sono uomini e donne, insieme. Questo contravviene alle direttive, però Ester non credeva che le direttive fossero infallibili.

- Bisogna dimenticare!

- E noi abbiamo dimenticato. Non resta niente della cultura dell’umanità, solo le nostre nozioni tecniche. Le tue arti marziali, la mia scienza medica ferma a settecento anni fa. Non siamo cresciute, siamo destinate a morire.

- Noi non moriremo mai. Le nostre linee…

- Anche le cellule finiranno prima o poi. Credimi, Miko, stai combattendo con le ombre. Ester non ci credeva, nelle direttive, ma le ha rispettate. Non mi ha detto niente finché non sono cresciuta. E anche allora aveva poco da dirmi. Pensa che non mi aveva nemmeno messa in guardia contro di te.

- Non ti aveva detto cosa era… successo?

- No. Io non sapevo niente. E queste due sventurate, che colpa hanno? Si sono ribellate sette secoli fa? Lo capisci com’è assurdo? Liberaci, e torniamo a fare il nostro lavoro.

- Ti sei comportata in modo molto sospetto. Perché?

- Ma non lo capisci! Avevo addosso il disco, sapevo che era una cosa proibita… quando Sarah mi ha fermata ho avuto paura e lei lo ha sentito. Non so nascondere le mie emozioni, lo sai! Come sono stupida.

- Vorrei crederti. Cos’è che posso verificare da sola?

- Andiamo nel laboratorio. C’è una parte della sezione medica che forse non conosci, ecco perché non hai mai trovato niente di sospetto. Troverai il file nel computer, è da lì che l’ho preso. – mentre lo dice, Paula se ne pente, ma è troppo tardi. E se Sebastian si fa vedere? Sarebbe la fine. Però non può fare più niente, se Miko sospetta che ha mentito ancora, chissà di cosa è capace.

- E va bene. – con gesti rapidi scioglie la corda che assicura Paula al gancio, lasciando appese le altre due. – aspettateci qui, non ci metteremo molto tempo.

- Liberale, Miko! Specialmente Emily, soffre molto…

- Fatti i fatti tuoi. Tu non soffri? – tira le corde e Paula suo malgrado fa una smorfia di dolore. – allora pensa per te. – la trascina nella stanza accanto e le appoggia sulle spalle il mantello, chiudendolo sul davanti. – Helga, stai attenta a quelle due. Non ti fare impressionare, non le liberare nemmeno se hanno le convulsioni.

- Stai sicura, Miko.

- E non bere! Ti sei scolata una bottiglia intera di quella schifezza!

- Vaf… va bene, Miko. – Helga reprime la parolaccia che le veniva dal cuore, ha imparato a sue spese che non si deve scherzare con il fuoco.

- E tu, se fai qualche scherzo ti giuro che lo rimpiangerai, capito? – strattona le corde fino a farla gemere – allora, hai capito?

- Sì… ho capito. Dai, andiamo.

- Non mi sembri molto contenta. Perché?

- Che domande cretine! Come posso essere contenta? Me lo dici? Sono sfinita, piena di dolori…

- E cammina, sembri un ciuco, non t’impuntare! – la trascina per il sentiero, la casa di Miko è molto vicina alla grotta. Paula respira profondamente, sembra che l’aria fredda le lavi i polmoni, non nevica, in cielo c’è una grande schiarita celeste. Oltrepassano Sarah che non fa domande, e si fermano davanti alle porte chiuse della sezione medica.

- Ora devo dimostrare la mia identità. Devo mettere la mano sulla piastra. Slegami, per favore.

- No. Ti aiuto io. – le toglie il mantello e la spinge bruscamente verso la piastra. Il protocollo non prevede nessuna formalità, solo che sia davvero lei. Così basta che Miko appoggi una mano di Paula sulla piastra, e la porta scorre. – e ora dove dobbiamo andare?

- Nel laboratorio. Qui davanti.

- Qui non c’è niente.

- Ti sembra. Componi questo codice sulla tastiera. – detta un lungo codice alfanumerico e la paratia si apre rivelando l’antisala del reparto d’isolamento.

- È questo il laboratorio? Io non lo conoscevo.

- È questo. – guarda ansiosamente lo schermo del computer, è acceso con il logo della missione. Per fortuna non compare niente di inopportuno. – e ora guarda nella directory principale del computer, troverai la maledetta commedia. E se vorrai potrai cancellarla. Tanto, non ci tenevo nemmeno a vederla.

- Ora guardo. – armeggia con i tasti e trova il file, lo apre. – è proprio lui. Perché Ester lo teneva nascosto?

- Ester… – Paula fa un profondo respiro e cerca di essere convincente, non è facile con Miko che sembra passare da parte a parte con i suoi occhietti lucidi. – Ester diceva che era una bella storia, che io dovevo vederla come l’aveva vista lei. Tutto qui.

- Tutto qui. Troppo semplice! – Miko le toglie il mantello e la lascia seduta su una sedia girevole mentre curiosa per il locale. Guarda dappertutto, dentro gli armadietti e sotto gli scaffali, ma non trova niente di sospetto. – La tua storia è poco plausibile… però credo che non potrò tenerti così per sempre, no?

- Lo penso anch’io. – Paula trattiene il respiro, forse è fatta. – allora, mi liberi?

- Ma sì. – Miko scioglie un piccolo nodo sul davanti, e le corde cadono per terra. Paula rimane immobile con le mani dietro la schiena, senza riuscire a spostarle di un millimetro. Per la prima volta ha paura.

- Non… non posso più muovermi. Che mi succede…

- Niente, ti succede, ti è andata bene. Fra una mezz’ora ti sentirai normale.

- Mi… ridarai le mie cose? - Paula porta lentamente le braccia lungo il corpo, con una smorfia di dolore.

- Certo, le chiavi di casa e il tuo palmare. Però ho deciso di tenerlo io, quel pezzo di computer di Ester. E cancellerò la tua commedia. Così tu e quelle che verranno dopo non avrete più niente da nascondere. Sono stufa, dannatamente stufa di questa storia che si ripete! – Con gesti rabbiosi ordina la cancellazione del file, e aspetta la conferma.

- Non m’importa niente della commedia, porta solo guai – con movimenti lentissimi riporta le braccia sul davanti, ora rispondono un po’ di più però le sente intorpidite e sta cominciando un formicolio doloroso. Apre e chiude i pugni, mentre il sangue riprende a circolare. – e nemmeno del ciondolo. Però libera Emily e Flavia. Loro per davvero non hanno fatto niente, la colpa è solo mia...

- Chi lo sa, io di quelle mi fido meno che di Ester e te. Voi siete più trasparenti, come un libro aperto. Quelle due invece…

- Per favore, Miko. Loro due hanno sofferto abbastanza.

- E va bene, vado a liberarle. – il viso di Miko si addolcisce leggermente, per un attimo sembra umana – Tu cosa fai, torni a casa?

- No, resto qui. Ho molto da fare, da quando Ester... non c’è più, devo ancora capire molte cose.

- Senti, Paula. Io… devo fare così. È il mio lavoro, io ci credo, è importante, è l’unico modo di sopravvivere.

- Va… bene. – Paula stringe le labbra e trattiene il torrente d’insulti che vorrebbe lanciarle in faccia. Troppo pericoloso. – Capisco il tuo punto di vista. – Miko s’inchina leggermente e si dirige verso l’uscita. Paula guarda ansiosamente la sua schiena, ora magari torna indietro e la riempie di pugni, invece no, non cambia idea, lascia il laboratorio con il suo passo leggero da ragazza. Con stupore si accorge che la porta scorrevole del laboratorio si chiude, lei non ha azionato nessun comando. Sul monitor compare la faccia preoccupata di Sebastian.

- Come stai? Mi dispiace, mi dispiace che per colpa mia...

- Tu! Tu stavi a guardarci!

- Che cosa ti hanno fatto…

- Lo hai visto. Mi hanno tenuta legata da ieri sera. Non resistevo più. Loro non sono cattive, sono qualcosa di peggio, sono inumane, sembrano macchine… Per fortuna si sono convinte, Miko si è convinta. Però mi hanno preso la scheda…

- Non fa niente, non serve più. Tutte le informazioni sono nel mio terminale. Anche la commedia. Però farai bene a guardarla da qui, sarebbe un guaio se te la trovassero di nuovo addosso...

- Al diavolo la commedia… – Paula si lascia cadere sulla sedia con un sospiro – sono sfinita.

- Non hai mangiato niente da ieri? Devi prendere qualcosa.

- Anche tu devi avere fame. – per la prima volta distende un po’ i lineamenti e abbozza un sorriso. – lo sai che la mia preoccupazione era che saresti morto, là dentro, se mi capitava qualcosa.

- E allora fammi uscire.

- No! Non posso, non voglio!

- E va bene, resterò qui finché vorrai. Ora mangiamo qualcosa, facciamo finta di essere insieme.

- Va bene. – tira fuori dall’armadio due razioni sigillate e ne mette una nel dispenser. Apre la sua davanti allo schermo e i cibi si scaldano in pochi istanti. Beve di gusto il caffè bollente, l’odore della carne liofilizzata le sembra delizioso e ne prende un grosso boccone.

- Hai davvero fame. – anche Sebastian finisce rapidamente la carne con le patate e spazzola in due bocconi la torta di mele. La guarda raccogliere le briciole dal vassoio, i suoi gesti gli piacciono, tutto di questa ragazza dal viso appuntito gli piace moltissimo, e lui sa pure perché. – e ora raccontami quello che non so.

- Da dove comincio? Tu non sai niente…

- Hai ragione, non so niente di voi. Perché sono state violente? Sai… se è successo altre volte?

- Sì, è successo. Ester voleva interrompere la catena. Ha fatto nascere te, e credeva di aver cambiato tutto. Invece…

- No, aspetta! Io non capisco niente, così! Devi spiegarmi meglio.

- Scusa. – Paula si muove inquieta sul sedile, poi diventa tutta rossa. – Io però devo…

- Scusa tu. Ora sai che facciamo? Io vado a riposare un po’, vai anche tu a riposarti. Ti aspetto fra un paio d’ore, va bene?

- Mi basta… di meno. Il tempo di fare una doccia, va bene? Userò il bagno dell’infermeria. Tu aspettami, va bene?

- Va bene, non uscirò. Promesso. – lo schermo diventa nero, Paula con un sospiro di sollievo corre alla toilette, stava per scoppiare. Poi, sotto la doccia tiepida, sente sciogliersi la tensione nei muscoli delle spalle e della schiena, e pensa come sarebbe bello fare provare alle due carogne il loro stesso trattamento.

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Capitolo 13
*** XIII. ***


XIII.

 

È tornata in meno di mezz’ora, fresca nella tuta pulita, e si è seduta davanti allo schermo, appoggiando i gomiti sul piano della mensola. Le sembra di stargli più vicina, così.

- Fammi capire… loro non sanno più niente dell’umanità, perché lo ha deciso una di voi?

- Sì, è stata Elizabeth. Lei… è morta.

- Come tutte le altre, morta e rinata, no?

- Lei no, non ha voluto essere reimpiantata. È stata ferita durante… la guerra. Questo Ester me lo ha detto. E allora prima di morire ha dettato le nuove direttive, e ha incaricato Miko e le altre due di farle rispettare.

- Chi sono le altre due?

- Helga e Francesca. Le loro linee. Quando ero piccola non capivo perché le avevano prese, quelle due. Nessuna specializzazione, solo capacità generiche. Ora invece capisco. Sono la squadra di sicurezza. Hanno le armi e se necessario…

- Che altro ti ha detto Ester? È importante, cerca di pensare… – Paula contrae i lineamenti, cercando di reprimere le lacrime. È passato troppo poco tempo.

- Mi ha raccontato della Terra, e a me sembrava una favola. Delle antiche civiltà, della storia della medicina. Mi ha detto che gli uomini non erano i nostri nemici, vivevano in pace insieme alle donne. E poi una cosa stupida, ma ha aspettato gli ultimi dieci minuti per dirmela. Non aveva più fiato.

- Dai, dimmelo cosa ti ha detto.

- Che diritto hai tu di sapere queste cose, e poi è una sciocchezza. Per me è diverso, sono le sue ultime parole…

- Per favore. – Paula lo guarda con durezza, ma l’espressione di Sebastian la calma. È strano, ha l’impressione di essere davanti ad uno specchio, ora lui sembra soffrire come soffre lei, ha gli occhi lucidi, ed è sicura che non sta fingendo.

- Te lo dirò. Ma tu non ridere. Mi ha detto che la missione consisteva nel rifare l’umanità, e noi ci saremmo… unite agli uomini, e avremmo avuto… figli.

- Cosa c’è da ridere? Mi sembra una cosa ragionevole, non credi?

- Sì! Come no! – tamburella nervosamente con le dita sul piano della mensola. – mi ha detto pure che tutte le cellule staminali degli uomini sono andate distrutte, e per questo Eli aveva deciso di dettare le direttive. Per dimenticare, per dimenticarvi.

- Continua. – la guarda attentamente, gli piace quando lei muove le labbra per articolare le parole, il suono leggero del suo respiro nel microfono, gli piace tutto di lei.

- Come… sai che c’è dell’altro? Stava morendo, vaneggiava di sicuro.

- Forse vaneggiava. Cos’ha detto? Coraggio, è importante che tu me lo dica.

- Mi ha fatto giurare di non dirlo a nessuna, a nessuna di noi.

- Io non sono una di voi. Io sono un altro.

- È... vero. Ma sono rimasta delusa. Ha detto che era questa la conoscenza più importante, che doveva aiutarci a lottare, a vincere le difficoltà. E poi, che delusione.

- Perché, delusione? Che ha detto?

- Ha detto che la missione non è fallita. Solo questo, questa sciocchezza. Mi ha delusa perché non era una cosa nuova, era una vecchia favola che mi raccontava da bambina, ma questa volta, povera Ester, credeva di dirmi una cosa essenziale. Lo ha ripetuto un paio di volte per essere sicura che io l’avessi capito bene, poi è morta.

- Senti. Se mi prometti di non dire niente a nessuna, ma davvero niente, ti confido una cosa.

- Te lo prometto. Cosa vuoi dirmi?

- Che la missione non è fallita, e io so perché.

Ester si è lavata con cura, la sporcizia di tanti giorni le sembrava disgustosa, e ancora di più i segni bluastri delle corde sulle braccia. Solchi profondi e lividi, e, miracolo, nessuna lesione. Maledette carogne, però efficienti come macchine. Per la verità è stata tutta opera di Miko, le altre forse l’avrebbero uccisa per eccesso di zelo. E infatti la carogna le sorvegliava e non permetteva che fossero loro a toccarla, nemmeno per darle da bere. Si ritrae dallo specchio dove si era attardata, il corpo magro è ancora abbastanza tonico, solo le spalle cominciano ad incurvarsi un po’. Dovrebbe fare ginnastica, ma a che cosa servirebbe? Forse sarebbe meglio fare esercizio in modo più utile, per esempio nella serra. L’unico problema è che per arrivarci bisogna fare un tragitto ad ostacoli, in gran parte all’esterno della nave. La serra la curavano gli uomini, mentre le donne si dovevano occupare dell’arte e della letteratura. Catalogare la cultura umana, scegliere a cosa dare priorità, fondare le basi per un nuovo sistema d’istruzione. E invece, tutto cancellato, che rabbia, che peccato. A lei era toccato il teatro, lo aveva studiato profondamente e tante cose le erano rimaste incollate alla memoria. Ora tutte quelle informazioni sono perdute, ed è proibito anche solo pensarci. Quando le hanno prese, lei, Emily e le altre quattro, stavano cercando una via d’uscita. Una, Judith, aveva suggerito di copiare di nascosto le informazioni, usando tutti i dischi ottici che avessero potuto trovare, però Emily aveva calcolato che alla velocità di scrittura massima ci sarebbero volute comunque un paio di settimane. Troppe, quando già le cercavano con l’interfono, dato che non si erano presentate alla riunione convocata da Miko. Allora Stephy, bionda e delicata nonostante i suoi sessant’anni, aveva ricordato un vecchio film, nel quale la cultura distrutta dalla dittatura veniva conservata con la tradizione orale. Ma lei, Ester, aveva risposto che facendo così avrebbero salvato solo una decina di opere, quelle che ricordavano a memoria. E poi le avevano prese, separate e rinchiuse da sole negli armadi dei cavi, a meditare sulle direttive. Forse la proposta di Stephy non era poi così male. Indossa la giacca della tuta e guarda nel nascondiglio segreto dietro l’alloggiamento del computer. Una fessura strettissima dove nessuna è andata a guardare, bene, la scheda c’è ancora. Non si può più collegare a niente, tutte le consolle multimediali sono state distrutte. Pazienza, in qualche modo si farà, prima o poi. La scheda ha due forellini ai lati, ci passa benissimo il laccetto di cuoio che Ester teneva legato ad un polso, in ricordo di un giorno lontanissimo sul pianeta Terra. Annoda il laccio e mette la scheda al collo, è piatta e da fuori non si vede. Basterà una generazione e nessuno saprà più cos’è, salvo la sua linea. Per la prima volta sorride allo specchio, sembra più giovane quando sorride, tira su la zip ed esce nel lungo corridoio degli alloggi. È di nuovo libera, come se nulla fosse successo, e fra dieci giorni dovrà cominciare il primo impianto. Bussa alla prima porta alla sua sinistra, aspetta con pazienza, Tania certe volte impiega un certo tempo per rispondere. Finalmente la porta scorre, compare Tania. Ester fa un passo indietro e reprime un grido.

- Sono così messa male? – la voce di Tania è alta e stridula, sembra strano che sia rimasta uguale, mentre la sua faccia…

- … no. – Ester la guarda con attenzione e sospira di sollievo. Solo ecchimosi e gonfiori, nessun osso è rotto, l’occhio non è perduto, fra un paio di giorni si potrà aprire di nuovo. Il labbro è spaccato, però guarirà. – no, fai solo impressione, sembri una bistecca al sangue.

- Lo so, cazzo.

- Però la buona notizia è che tornerai come prima, più o meno. Ci vorrà un po’ di tempo.

- Pazienza. – si tocca il labbro gonfio con una mano livida, e abbozza una smorfia. – dai, entra. Non vorrei che…

- Ma no, hanno ottenuto quello che volevano. Hanno cancellato tutto, e noi ora possiamo scegliere: morire ammazzate o andare d’accordo con loro. Il risultato è lo stesso, non cambia niente. Miko me lo ha detto chiaro, ed è peggio di qualunque cosa.

- Non lo so cos’è peggio, forse a te è andata bene. Miko mi ha lasciata nelle mani di quelle pazze. Mi hanno… – rabbrividisce e preme le mani contro il petto – non voglio nemmeno pensarci, a quello che mi hanno fatto.

- Chi erano?

- Helga, sapevo che era lesbica, ma non pensavo che arrivava a questo… e poi Francesca. Io ero sua amica, che stupida, parlavo con lei, certe volte si sentiva sola e veniva a trovarmi. E anche lei… – la voce di Tania si spezza, si mette a singhiozzare senza lacrime. Ester le appoggia una mano sulla spalla.

- Non fare così. Sono venuta per dirti che l’idea di Stephy è sempre meglio di niente. Ricordare e raccontare. Però dobbiamo stare attente, non credo che ci siano solo Francesca ed Helga, forse le sorveglianti sono di più. Non dovremo fidarci di nessuna, solo di quelle del gruppo.

- Judith è ancora dentro. E anche Emily. Le ho cercate, le loro stanze sono vuote. Naomi è uscita, l’ho vista di sfuggita ma ho avuto paura di parlarle. E Stephy… è stata lei a non volermi parlare. Mi ha guardata come se fossi trasparente e mi ha chiuso la porta in faccia.

- Tu… – Ester respira profondamente ed esita, è ancora in tempo per non farne niente. Ma no, in fondo è l’unica speranza. – tu ci credi nella missione?

- Io… ma che domande mi fai! Certo che ci credevo! Perché mi sono offerta volontaria, sapendo quello che mi aspettava? Avrei potuto finire il mio ciclo prima del collasso, fare l’amore, godermi ancora per un po’ le piante del mio giardino. E invece sono qui. Ci credevo, cazzo, ed è fallita!

- Non è fallita.

- Sei pazza. Ti ha dato alla testa lo stanzino buio, dai i numeri.

- Non è fallita. Guarda. – apre la zip della tuta e mostra la scheda, appesa al collo con il laccetto di pelle. Tania la guarda da vicino con l’occhio sano, poi si lascia andare sul divano.

- E questa cosa sarebbe, una bomba per fare scoppiare quelle stronze?

- No, è una scheda che mi ha lasciato uno… degli uomini.

- Quanto sei cretina. E tu mi dici che la missione non è fallita, solo perché uno di quei bastardi ti ha lasciato una scheda da videogioco? Senza consolle è solo un pezzo di plastica, non è buona nemmeno per pulircisi il culo.

- Non è di plastica, è titanio. Non so cosa contiene ma sono sicura che dev’essere qualcosa d’importante. Lui…

- Lui chi? – Tania salta su con una smorfia cattiva – quello che sparava o quello che era già morto? Ero lì e Miko mi ha costretta a prendere le carogne per portartele. Facevano schifo. Pesanti sacchi di merda.

- Quello morto. Era il medico, il mio… collega. Non era venuto per farci del male.

- Ma era insieme a quello che sparava!

- Sei cretina, non capisci! Quello che sparava ha ucciso anche lui, hai capito ora?

- Ma sì, questo lo capirebbe pure Helga, però chi ci dice che non erano d’accordo, all’inizio? E poi hanno litigato chissà perché?

- No. Solo uno era armato, l’altro no. E lui, il mio collega, sapeva che stava rischiando di morire. Ha preso il fucile per la canna…

- Che vuoi dire, che stupidaggine prendere il fucile per la canna, è impossibile sfuggire alla scarica così da vicino…

- Lui lo ha fatto, aveva una mano a brandelli.

- Ha cercato di ripararsi, è una cosa istintiva.

- All’inizio lo avevo pensato anch’io. Ma poi ho trovato la scheda, sotto la pelle del suo torace. Se l’era innestata da sé. E allora ho capito. Ha voluto essere sicuro che non capitasse niente alla scheda, e si è rivolto la canna verso la testa.

- Doveva essere un pazzo.

- Forse. Però io voglio che tu ricordi. Ricordati dell’uomo che è venuto, ricordati che non era un nostro nemico. Ricordati com’è morto, per salvare questa scheda.

- Mi ricordo, mi ricordo! E poi, cosa farò?

- Trasmetti questa memoria. Fra poco faremo l’impianto e nasceranno le piccole. Trasmetti alla tua doppia tutto quello che ricordi della Terra, della nostra civiltà, quello che loro vogliono cancellare. Forse un giorno servirà.

- Sei più pazza di lui. Non so perché sto continuando ad ascoltarti.

- Perché tu ci credevi, nella missione. È stato lui a dirmi che non è fallita.

- Hai fatto una seduta spiritica? Quelle stronzate che facevamo da bambine?

- No, stupida. Insieme alla scheda c’era un messaggio in un disco ottico.

- Vediamo.

- Non è possibile, il messaggio si è cancellato. Era programmato per girare una volta sola.

- E io dovrei crederci? Mi prendi per idiota?

- Ci resta soltanto questo, un po’ di speranza. Scegli, puoi smettere di sperare o pensare che ancora c’è qualcosa da fare. Un giorno o l’altro.

- Va bene, Ester. – Tania prende una mano di Ester e la stringe. – io mi fido di te. Ricorderò e racconterò.

 

Paula guarda trasognata la faccia serena di Sebastian, che sembra indifferente alle enormità che ha detto. Tutto diverso, tutto possibile. Cose da non crederci, ma lei sente che è tutto vero. Anche…

- Dai, fammi le domande.

- Non so cosa chiederti. È… troppo, quello che mi hai detto.

- Ma almeno ci credi?

- Sì. È assurdo ma sto cercando di crederci. E noi…

- Noi dobbiamo agire subito e ci serve aiuto. Di chi possiamo fidarci? Ti ha detto qualcosa Ester?

- Sì… che strano, non ci avevo pensato. Da piccola me lo ripeteva sempre, poi non ne ha parlato più. Però lo sai, da piccoli le cose restano più impresse.

- Cosa ti diceva?

- Un… gioco di quando eravamo bambine. Una squadra segreta. Nessun’altra doveva saperlo…

- Una squadra segreta? Che strana idea.

- Sì, da piccole ci riunivamo di nascosto, io, Adele, Ernesta, Sandy e Geneviève. E Flavia, naturalmente. Giocavamo a salvare la missione. Era solo un gioco. Però Ester diceva che potevo davvero contare su di loro, e invece dovevo… guardarmi da tutte le altre. Io non l’ho mai presa sul serio, ma ora…

- Forse c’era un motivo. Senti, devi contattarle. Stai attenta, sono sicuro che continuano a sorvegliarvi. Devi… dir loro che dobbiamo tornare alla nave madre. Solo questo, non devono sapere altro.

- Tornare alla nave madre! È impossibile!

- Non è impossibile, il modo c’è.

- Sì, costruendo un razzo alto cento metri, riparando il modulo e mettendocelo sopra. Un lavoro da niente. Ah, dimenticavo, il combustibile. Non basterebbero sette vite.

- Ti dico che il modo c’è, te lo farò vedere.

- Mi sembra così strano tutto quanto! Quello che mi hai detto è troppo, se è vero… e dire che io volevo ribellarmi alle direttive per… rompere questa prigione, con tutte le cose che succedono uguali all’infinito. Non lo sopportavo. Pensavo a questo una volta che ti ho detto, ti ricordi, che forse c’era chi stava peggio di te.

- Mi ricordo. Non sapevo chi eri…

- E ora ho paura, se quello che hai detto è vero…

- È vero.

- È una cosa vitale, troppo importante per una persona sola, è una cosa enorme. Non capisco perché l’hai detto a me, perché ti sei fidato così tanto…

- Perché di te mi sento sicuro, è stata Ester a conservare la scheda, è stata lei a impiantarmi, ad insegnarmi tutto. E adesso dovremo fidarci delle tue amiche, da soli non riusciremmo a fare niente.

- E se… se qualcuna di loro è d’accordo con… quelle? Che succederà?

- Non sono d’accordo con quelle, ne sono sicuro. Se Ester ti ha parlato di loro, possiamo fidarci. Ester era straordinaria. Come sarebbe bello se lei ci fosse ancora…

- Ma lei… c’è. Ci sono io.

- Sì, è vero. Mi piacerebbe starti vicino.

- Noi siamo vicini. Non ti sembra?

- Vicino per davvero. Fammi uscire. – il suo sguardo è così limpido, non può avere paura di lui.

- Va bene. Ti farò uscire. Non so come fare in fretta però. C’è un codice di sicurezza che tiene le porte sigillate. Ester ha dimenticato di darmelo, ma io credevo che non fosse importante, non avevo intenzione di farti uscire. Però non aver paura, ti tirerò fuori lo stesso. Credo che dovrò smontare un pezzo di paratia, disinserire il dispenser del cibo e poi avrai abbastanza spazio per strisciare fuori…

- Hai davvero deciso di farmi uscire? Sei sicura?

- Ma sì. Sono sicura. – sorride nervosamente – non mi piaceva la parte del carceriere.

- Non eri un carceriere. Non ti ho mai sentita così, nemmeno quando mi facevi credere di essere un alieno. Con i tentacoli. Ti divertivi, però.

- Un po’. – sorride e si raddrizza sulla sedia – ora mi metto al lavoro. Ci vorranno un paio d’ore per smontare la paratia, forse di più…

- Non serve. – compone un codice sulla tastiera e la parete scorre silenziosamente. Cammina deciso attraverso la soglia e si ferma di colpo nell’antisala, paralizzato da una sensazione sconosciuta. Paula è seduta alla consolle dietro l’angolo, per vederla basta fare tre passi, ma a lui sembrano una distanza infinita. La sente muoversi sulla sedia e parlargli.

- Dove sei finito… – un passo, un altro ancora, appoggia la mano sul metallo tiepido e si accorge che trema. Cos’è che lo turba tanto… con uno sforzo che gli sembra infinito fa il terzo passo e oltrepassa l’angolo. Paula lo guarda con la bocca aperta, anche lei paralizzata dallo stupore. Vede il suo petto che si alza e si abbassa rapidamente, le mani che istintivamente si sollevano come per difendersi, le pupille dilatate e la bocca socchiusa.

- Non aver paura. Ti prego. – anche la sua voce è strana, la sente difficile da controllare, come se dentro ci fosse di continuo un grido da reprimere. Deve avvicinarsi ancora, Paula lo attrae come una calamita.

- Non ho paura. – lo guarda fisso, legge nei suoi gesti e nel suo respiro un’ansia uguale alla sua. E poi sente qualcosa, qualcosa che non conosceva. – come hai fatto ad uscire…

- Ho tutti i codici di controllo della nave, e specialmente quelli della sezione medica.

- E tu… sei rimasto dentro lo stesso. – Paula cambia posizione sulla sedia, il respiro sta tornando calmo ma non riesce a stare ferma, incrocia le mani dietro la nuca e lo guarda dritto negli occhi. Il colore è leggermente diverso da vicino, non sono grigi, sono azzurri, no, verdi, dipende all’incidenza della luce o forse da quello che sta pensando. – Perché l’hai fatto?

- Perché tu non volevi che io uscissi. Mi volevi tenere dentro, ricordi?

- Sì… un po’ perché avevo paura di te… – si avvicina ancora, lentamente, e lei respira profondamente, ora ha capito cos’è che le sembra così strano, è il suo odore, misto a quello della tuta pulita e del sapone liquido con cui si è lavato. È diverso, è… si riprende e cerca di sorridere per nascondere il suo turbamento. – certe volte mi facevi rabbia. Avevo pensato di… tenerti là dentro per sempre.

- Eccoti la risposta. Per questo non sono uscito. Mi avresti odiato ancora di più. E tu non devi odiarmi.

- Io non devo… – è vicinissimo e allunga una mano, sottile con le vene azzurrine e le unghie cortissime, verso i suoi capelli. Sente il suo calore, e anche lui deve sentire la stessa cosa, perché la mano è incerta e sembra tremare. Sebastian si costringe ad avvicinarsi ancora, Paula sembra un fiore circondato dalla nuvola del suo profumo, un profumo che lo fa impazzire, e gli ricorda… no, non è possibile, gli ricorda l’immagine 12569. La tocca.

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Capitolo 14
*** XIV. ***


XIV.

 

Emily è distesa sul divano rustico, con gli occhi chiusi. Flavia sta suonando per lei il secondo movimento della Patetica. Ascolta le note limpide e non riesce a rilassarsi, a dimenticare il dolore e l’umiliazione. Un mondo imperfetto e inutile, dove tutto si ripete all’infinito, senza speranza. Forse sarebbe meglio rinunciare a continuarlo, un mondo così. Si mette seduta soffocando un gemito, la schiena le duole, e certo, sarà questa la sua croce, l’artrosi deformante che alla fine la costringerà quasi immobile in un letto. Così è successo a Flavia, così inevitabilmente succederà a lei.

- Basta, Flavia. Non mi fa effetto.

- Va bene. – Flavia spegne il campionatore, d’inverno anche il suo assorbimento minimo può mettere in crisi l’impianto elettrico di casa. – non devi pensarci più. È finita, finita, capisci?

- Non è finita. Continuerà finché qualcuna di noi resterà viva. Tutto uguale. Mi sembra d’impazzire, non lo sopporto più.

- Ma sei stata tu a dirmi che non tutto era perduto, ti ricordi?

- Forse anche questa è una favola. Quella testa dura di Ester, è stata lei a convincere Emily che c’era ancora speranza, che dovevamo ricordare. E lei le ha creduto…

- Ester… ma quando?

- All’inizio. Non l’Ester che hai conosciuto tu, la prima Ester. Ma in fondo non fa nessuna differenza, proprio nessuna. Forse era solo pazza, impazzita in quella merda di stanzino. E loro… – rabbrividisce e stringe forte le braccia intorno al corpo – loro volevano farlo di nuovo. Per fortuna Paula le ha convinte.

- Ma tu non ci credi più? Non ci credi più nella squadra segreta?

- Era una cosa da bambine. La squadra segreta. Il medico, l’ingegnere, il pilota, l’artista e le esperte di energia e comunicazioni! Che stronzata.

- Eppure tu quando eravamo bambine non ci hai detto che era una… sciocchezza.

- Ci credevo anch’io, quando ero bambina! Ma forse era solo un gioco. Un modo di illudersi. – si prende la testa fra le mani e chiude gli occhi. Dio, come si sente vecchia. Sente la mano di Flavia, piccola e dolce, sulla spalla irrigidita. La fa sentire meglio.

- Io ci credo ancora. Mi fa bene crederci. – Emily raddrizza la schiena dolorante e cerca di sorridere. Il visetto di Flavia, serio e determinato, sembra darle coraggio.

- Forse hai ragione tu. È terribile non credere a nulla, non aspettarsi nulla.

- Senti, Emily, tu non mi hai detto mai cosa doveva fare la squadra, tu lo sai?

- Qui sta il punto. – Emily sospira e si alza in piedi. Non riesce a stare ferma, ma non trova nessun sollievo muovendosi nello spazio ristretto della stanza. Si avvicina alla finestra e guarda il paesaggio bianco, la neve non cade più ma ci sono quindici gradi sotto zero. – non sappiamo cosa deve fare la squadra! Questo mi sembrava bello e misterioso quando ero piccola, poi ho cominciato a pensare. Una squadra che non sa cosa fare non serve a niente! Che assurdità, non ti sembra?

- Hai detto che dovevamo tenerci pronte. E non fare mai capire che ce la intendevamo fra noi, mai a nessuna. Non basta, questo?

- Basta per delle bambine. Ora io sono stufa di aspettare. Sono stufa di tutto, delle dannate macchine vecchie di secoli, della dannata musica sempre la stessa. Sono stanca, capisci?

- Aspetta… cos’è stato? – il segnale alla porta si ripete, tre colpi cadenzati, una pausa e due colpi brevi. Poi nient’altro. – sono loro! Da quanto non lo facevamo più… – pensa rapidamente, certo, sono passati almeno cinque anni. Erano sei bambine, allora, e avevano tenuto la riunione nella legnaia di Naomi, dove si poteva arrivare dal bosco. Il solito rito, le mani unite in cerchio, l’ordine del giorno fatto di avventure inventate, e poi le ciambelle con il miele di Judith. L’ultima riunione della squadra segreta.

- Dove vi vedete? Ah, già, se il codice non è cambiato tre colpi significa da Tania. E due colpi significa alle quattro. Vero?

- Sì – Flavia sorride contenta, Emily non ha dimenticato, le sembra importante. Sbircia l’orologio digitale – fra meno di un’ora.

- Certe volte penso che sarebbe bello se Dio esistesse. Sarebbe bello poter pregare. – Flavia si avvicina con passo leggero e l’abbraccia stretta. Sente di volerle bene, in modo più acuto e profondo del solito, forse perché le sembra di essere tornata bambina.

- Anch’io prego. Non importa se è una favola. E forse sbagliava Eli, l’autrice delle direttive, a dire che Dio non esiste. È meglio pensare che c’è, e ci aiuterà.

 

La legnaia di Tania è stretta e lunga per adattarsi ad un dosso del terreno. Da un lato la porta di quercia, rivolta verso il bosco per facilitare il trasporto dei tronchetti con il carrello a mano. In fondo un angolo libero, che Tania e Sandy utilizzano per lavorare. Lavoro effimero, perché le direttive non parlano di arte, e tutto quello che non è permesso esplicitamente è proibito. Il loro compito nella nuova società è lavorare nei campi. Le sculture ricavate da piccole pietre o fatte di argilla cruda rimangono in piedi un po’ di tempo, guardate da poche paia di occhi, e poi di nuovo tornano ciottoli e terra. Sandy e Tania non ne soffrono più, ma forse all’inizio non era lo stesso. Per ora, ghiacciata dall’inverno, si erge in fondo alla legnaia una figura di donna nuda in grandezza naturale con la superficie scabra, sembra voler uscire dalla materia ruvida con il viso e un braccio, lisci e perfetti. È stata Sandy a farla con la creta prima del gelo, e ancora non si decide a prenderla a martellate. Le sembra di uccidere una creatura viva.

Coperte dai mantelli le ragazze sono sedute in circolo, su piccoli tronchi di legno. Si guardano tra loro con affetto, mentre in classe fingono quasi di ignorarsi. Sono la squadra segreta.

- Prendiamoci per mano. – Paula prende le mani di Sandy e di Emily, il cerchio si forma e loro si sentono bene, sentono l’energia che scorre da una all’altra, la loro forza che aumenta, perché è la forza di tutte.

- Sono contenta, le nostre riunioni mi mancavano. – Geneviève ha gli occhi luccicanti e vede intorno facce allegre come la sua, solo Paula è pallida e seria, con gli occhi profondamente cerchiati. – a chi è venuta l’idea di ricominciare?

- A me. – Paula sospira e lascia le mani delle compagne. – è venuto il momento che aspettavamo.

- Il momento di fare cosa? – Sandy la guarda ridendo, divertita dal suo tono solenne – inventiamo qualche avventura e poi mangiamo le ciambelle, no?

- No. Tutte voi ricordate quello che c’è da ricordare, no?

- Sì, certo. La missione non è fallita.

- Gli uomini non erano nostri nemici.

- Quando sarà il momento saremo noi a fare ripartire la missione.

- Noi siamo la squadra segreta.

- Sì, e torneremo a volare! – Geneviève non ce la fa più a trattenersi e grida il suo desiderio.

- Che dici, Geneviève! Questo Tania non me l’ha detto mai!

- Nemmeno Stephy mi ha mai parlato di volare! Che vuol dire?

- Ha ragione lei. – Paula si guarda intorno, le facce delle ragazze stanno perdendo l’espressione infantile di prima, ora sono più serie e attente. – gliel’ho detto io.

- E tu come lo sai?

- Sì, come?

- Cos’hai portato, Ernesta? In quel cestino.

- Le ciambelle. Per fortuna Judith le aveva fatte stamattina.

- E allora mangiamo. Sarà più facile raccontarvi quello che so. – mettono il cestino nel mezzo del cerchio e cominciano a rosicchiare le ciambelle tenute in caldo da una coperta d’argento.

 

Sebastian si ferma un attimo per riposare, il lavoro che sta facendo è troppo pesante per una persona sola, intanto non può ancora aiutarlo nessuno. I servocomandi non funzionano più dato che ha disinserito i collegamenti, e deve trascinare a forza di braccia grandi pezzi di paratia aiutandosi solo con un carrello e un primitivo paranco meccanico. La navetta è costruita in modo mirabile, tenendo conto che è ormai un manufatto antichissimo. Dietro lo scudo anteriore, quello che l’ha protetta dall’impatto con l’atmosfera, nasconde una sorpresa. Quando ha potuto respirare di nuovo liberamente Sebastian ha interrogato in proposito Paula, e si è accorto che nessuno ne sapeva niente. Saranno le solite direttive del cazzo, ma certo, bisognava cancellare qualsiasi rapporto con il passato, e così la comandante non ha detto a nessuna dell’equipaggio che la navetta ha una scialuppa di salvataggio. Un modulo d’emergenza capace di tornare sulla nave madre. Afferra con decisione una putrella d’alluminio e la solleva.

- Aspetta, ti aiuto. – Paula è scivolata silenziosamente nel vano ingombro di rottami e da qualche minuto lo sta a guardare, immobile e assorto. – a cosa pensavi?

- Cosa ne sai… – la circonda con uno sguardo attento, Paula ha le guance accese dal freddo e gli occhi brillano. – e va bene, pensavo che la comandante, quella…

- Elizabeth. Eli.

- Bene, quella Eli era una stronza! Come, non dirvi che la nave madre non è un guscio vuoto, anzi contiene tantissime cose essenziali! Non dirvi che potevate tornare a prenderle!

- Ma tu… mi hai detto proprio tutto? – Sebastian sorride guardandola negli occhi, ma la sua espressione non la convince. – non mi hai ancora detto come faremo…

- Non è il momento. – lascia andare la putrella sul carrello e soffia sulle dita irrigidite dal freddo. – è pericoloso dire tutto. Potrebbero prenderti di nuovo, cercare di farti parlare.

- E se invece prendono te? Pensi di essere più bravo a resistere?

- Certo che no. Ma tu sai cosa fare se mi succede qualcosa.

- No! – Paula attraversa con due passi la distanza che li separa e lo abbraccia stretto. – non deve succederti niente!

- Non mi succederà niente. – Sebastian accarezza lentamente i capelli di Paula, meravigliandosi di come sono morbidi e profumati. Gli sembra così strano sentire vicina, toccare un’altra persona, lui che per tanti anni è rimasto da solo. Quando Paula si avvicina lui si sente stordito e perde completamente la sua sicurezza, quella che credeva impossibile da scalfire.

- Come fai tu a dirlo! Perché sei sempre così maledettamente sicuro di te! Mi fai rabbia! – lo stringe più forte, è così sottile e piatto che può circondarlo facilmente con le braccia, ce ne starebbero due.

- Il vecchio ha pensato a tutto. Per ogni problema ha preparato almeno tre soluzioni, più altre due. Non ti basta? Il vecchio sono io…

- No! Non mi basta. Il tuo dannato vecchio è morto, lo vedi che non ha pensato a tutto?

- E invece sì. – la bacia leggermente sulla guancia, pensando a come sarebbe bello baciarle la bocca, ma ancora non l’ha fatto. È stata lei ad insegnargli a dare i baci, uno schiocco leggero delle labbra sulla pelle dell’altro. Che strano, in diciotto anni ne aveva fatto a meno e invece è così bello. Come sentire il calore della carne pesante, quando lui l’abbraccia e la stringe e la vorrebbe sempre più vicina. Però non c’è tempo. Si allontana a fatica da lei, conservando un po’ del suo calore, e cerca di frenare il respiro ansante. Paula gli fa l’effetto di un combattimento con la macchina. – dai, aiutami. C’è un sacco di lavoro da fare.

- Certo, Sebastian. – Paula indossa un paio di guanti da lavoro e prende un serrabulloni elettrico. Con un lieve fruscio sfila via i bulloni da un segmento di paratia, e poi insieme a Sebastian lo trascina in un angolo del locale. Attraverso la breccia si vede la coda del modulo d’emergenza, la bocca dei tre retrorazzi allineati, lucidi come nuovi e alti quanto lei. – senti, Sebastian… il tuo nome è troppo lungo, posso chiamarti… Seb?

- Che idea. Credo che questa cosa è già successa.

- Già. Senti, Seb, ma come farà a partire? Questo modulo non dovrebbe essere in cima ad un razzo? Ne abbiamo parlato, io e le mie amiche…

- A proposito, com’è andata?

- Bene, non mi aspettavo niente di meno. Siamo la squadra segreta.

- Sono onorato di farne parte – Sebastian s’inchina correttamente, imitando i cavalieri del sedicesimo secolo.

- Non prenderci in giro, noi facciamo sul serio.

- E io mi sento seriamente onorato. Tu sei la persona più in gamba che abbia mai conosciuto, in assoluto.

- Mi prendi ancora in giro! Io sono la sola persona che hai conosciuto!

- Hai ragione… – Sebastian allunga una mano e afferra Paula per il polso, lei si avvicina senza distogliere gli occhi dai suoi. – senti, volevo dirtelo prima… – le sfiora la pelle delicata del collo e la sente rabbrividire, lo stesso brivido che percorre la sua schiena. Sempre così, con lei, gli sembra che lei provi le stesse cose che prova lui. – io vorrei tanto…

- Che cosa… – la bocca di Paula è vicinissima, sente il calore del suo alito, si avvicina ancora e le bacia le labbra. Le sente morbide, cedere al lieve risucchio delle sue, e poi muoversi per aderire meglio, e schiudersi.

- Questo. È… – questa volta è Paula a baciarlo, stringendogli la nuca. Ancora le labbra si schiudono, e le loro lingue s’incontrano. – Sebastian si allontana di colpo, è rosso in viso e gli manca il respiro. – è troppo…

- Cosa ti succede… – Paula si avvicina ancora e lo spinge contro il metallo della paratia. Ha il viso confuso, non imita più i modi del dannato vecchio, che lei immagina un noioso micidiale. Lo bacia di nuovo con gli occhi chiusi, si sfila i guanti e gli accarezza la schiena dura, la sua mano segue il contorno dei fianchi sottili e si ferma di colpo sul davanti. – ma cosa…

- Non è niente. – Sebastian scivola di lato e le rivolge le spalle. – è che… mi vergogno.

- Ma di cosa… – Paula lo abbraccia da dietro, e di nuovo cerca con la mano. È una cosa… strana. – dimmi cos’è. Sei malato?

- No. Per favore, non toccarmi…

- Ma perché no… – Paula si sente attratta e incuriosita dalla strana cosa che ha toccato, è sicura che prima non c’era. Sebastian si allontana di nuovo. – almeno dimmi che ti succede.

- Io… – parla senza guardarla ma sente che invece lei lo sta squadrando senza pietà. – e va bene, te lo dico. Ho… voglia di te.

- Tutto qui? – Paula ride divertita e cerca di avvicinarsi, mentre Sebastian indietreggia. Non per molto, è costretto a fermarsi in un angolo. – ma tu mi hai, sono qui. Che c’è di strano?

- Non vuoi capire. Ho… voglia per davvero. Voglia di…

- Di che? Di baciarmi di nuovo? – ormai non può sfuggirle, si avvicina lentamente e protende le labbra, le sente gonfie e calde come se le avessero dato uno schiaffo.

- Sì, di baciarti! – l’afferra bruscamente per le spalle e la bacia schiacciandola contro di sé, ha voglia di penetrarla con la lingua, lei si apre per riceverlo e gli parla con piccoli deliziosi movimenti della bocca. Come la prima volta che l’ha toccata, Sebastian si sente leggero, le sue mani esplorano la pelle sottile intorno alla vita, e poi si fanno strada sotto la tuta, cercando la carne. Lui sa com’è fatto quello che sta cercando, però la sua scienza non gli serve a niente. I peli morbidi del monte di Venere, umidi di sudore, e poi la regione del sesso, con tutte le parti che lui ha studiato e per tante volte ha guardato nelle immagini di una morta, e ora invece eccolo qui, un fiore parlante umido e caldo, non importa come si chiamano i petali, non lo ricorda più.

- Cosa… stai facendo… – Paula s’interrompe ansando, lo sa benissimo cosa sta facendo, e le sembra perfettamente giusto. È completamente diverso dalle tante volte che si è toccata da sola, senza sapere bene a cosa pensare. Si abbandona nelle braccia di Sebastian e anche lei cerca la sua carne, la trova. – e questo…

- No! Non toccarlo così… – all’improvviso la strana cosa che ha afferrato si mette a pulsare, e poi schizza qualcosa di caldo e viscido che le riempie la mano. Sebastian continua a toccarla, senza smettere di baciarle la bocca, le guance, gli occhi. Le piace quando le bacia gli occhi. Paula si muove più in fretta contro la sua mano, e poi sente il calore al centro delle cosce aumentare, riempirle il ventre, costringerla a gemere e poi abbandonarsi senza forze. Si appoggia anche lei alla paratia e guarda con curiosità la crema biancastra che ha in mano, manda un odore acuto che non le dispiace.

- Cos’è questa… cosa?

- Sono io. – Sebastian è sudato e stravolto, ma sembra più calmo e respira regolarmente. – questo è il mio… seme.

- Vuoi dire che questo…

- Non volevo che succedesse… così. Ti fa schifo, vero?

- Ma no! Non mi fa schifo. Solo mi è sembrato… strano.

- Ora finiamola con queste sciocchezze, abbiamo perso abbastanza tempo. – Sebastian la guarda freddamente e le volta le spalle. – dobbiamo continuare a lavorare. Te la senti?

- Sì… mi sento un po’ stanca ma ce la farò.

- Bene. – Sebastian con la faccia impassibile afferra un grosso pezzo di paratia e lo appoggia sul carrello. – allora datti da fare.

- Mi… lavo le mani, prima.

- Bene. – una trave d’alluminio raggiunge rumorosamente il segmento di paratia.

- Allora vado. – Paula reprime l’impulso di lanciargli contro un grosso bullone e raggiunge la piccola toilette. La roba viscida va via senza difficoltà e sparisce nello scarico. Alla fine le mani tornano come prima. Si guarda allo specchio e si trova sciupata e pallida, con le occhiaie profonde. È furiosa contro Sebastian, anche se non sa esattamente cosa rimproverargli. Cos’ha fatto di tanto antipatico? Torna a testa bassa a prua, la breccia è più grande e Sebastian lavora come un assatanato.

- Quando verranno le altre?

- Solo quando saremo pronti. È pericoloso riunirci tutte in un posto sorvegliato come questo.

- Peccato non poterci far aiutare.

- Forse è meglio così. Possiamo restare di più da soli. – Paula stringe le labbra notando che lui non ha fatto nessun commento, bastava dire sì, è vero, o qualcosa di simile. Invece niente, il bastardo continua a lavorare senza alzare lo sguardo, il sudore gl’inzuppa la tuta troppo corta.

- Parlami di loro. Dimmi che tipi sono.

- T’interessano, vero? – la voce di Paula è aspra e stridente. – e dimmi, quale ti piace di più?

- Cosa vuoi che ne sappia, non le ho mai viste…

- Come, tu non controllavi tutte le telecamere della nave? Non ascoltavi i nostri discorsi? Non stavi a goderti la scena mentre mi torturavano? Sei un bastardo!

- Io credo di averle viste tutte, le tue amiche, prima o poi sono capitate a portata delle telecamere. Ma non so quali sono, quelle della squadra. E meno che mai ho potuto capire come sono fatte.

- Eh già, per capire come sono fatte devi toccarle, come hai fatto con me! Toccarle… lì. Ammettilo, stronzo! È questo che vuoi!

- No! – Sebastian appoggia un grosso cavo sul carrello già ingombro e si avvicina. Paula non fa in tempo a ritrarsi, sente le sue mani sulle spalle. – io sto bene solo con te. Tu sei stata… selezionata per me, e io per te.

- Che balle! E io dovrei credere a queste stupidaggini! La selezione e tutto il resto… io sono sicura che tu…

- Che io? Avanti, dillo.

- Che tu non senti niente per me, ecco, l’ho detto! Tu mi hai… usata. È questa la parola giusta. Ti servo per i tuoi piani, e anche per spruzzare fuori quella schifezza. E poi quando hai finito, ti asciughi le mani con la tuta e finisce lì.

- Ho… davvero fatto così?

- Sì, ti sei asciugato le mani sui pantaloni sporchi, e poi mi hai voltato le spalle. E io invece…

- Che stupida sei. – Sebastian la costringe ad avvicinarsi e la stringe, la preme contro il suo petto. – noi non dobbiamo… fare quelle cose. Non è ancora il momento, capisci? Ho sbagliato io, ti chiedo scusa.

- E chi lo dice che non è il momento? Tu? Il comandante in capo che detta le nuovissime direttive?

- È stato lui. Il vecchio. Mi ha detto che è pericoloso lasciarsi andare finché non siamo ancora al sicuro. Ha detto che è importante.

- Ma tu invece… – lo respinge con le braccia e si appoggia alla parete opposta del locale – sei stato tu a cominciare. Tu mi hai baciata – indica la bocca, la sente ancora gonfia – qui. E poi mi hai toccata. Mi hai…

- Hai ragione, è colpa mia. Non dovevo farlo, ma lo desideravo troppo. E poi ho pensato che forse era meglio…

- Meglio cosa? – ha perso quell’espressione indifferente che le faceva rabbia, è rosso e confuso, lo preferisce così.

- Ma sì, fare come consiglia il vecchio.

- Ah, c’è sempre il dannato vecchio, fra noi. – Paula cerca di non sorridere, anzi prova una smorfia maligna.

- Beh, sì. Mi ha detto cosa fa piacere ad una donna…

- Ah, anche questo ti ha insegnato?

- Solo un paio di sessioni dedicate ai rapporti umani, niente in confronto a tutto il resto. Non riuscirò mai ad imparare tutto, non c’è tempo.

- Però queste le hai studiate bene. Ora sai cosa fa piacere ad una donna, eh? – sente di aver colto nel segno, è sempre più rosso, però il suo sguardo è dolce, sincero.

- Scusami. Ho fatto esattamente il contrario di quello che ha detto il vecchio. Si vede che ha funzionato.

- Funzionato a cosa? Lo sai che stavo per romperti la testa con un bullone?

- Ah sì? – lentamente il rossore svanisce e lo sguardo si fa più insistente, lei sa esattamente dove la sta guardando… – però dopo avresti dovuto curarmi.

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Capitolo 15
*** XV. ***


XV.

 

Il modulo di emergenza rappresenta il meglio della tecnologia della vecchia Terra, sviluppato proprio quando la civiltà era vicina alla fine. Seduto su una delle poltrone integrali Sebastian pensa che la tecnologia più sofisticata non è servita a salvare l’umanità, anzi ha dato una mano a distruggerla prima. Come dovrebbe essere il mondo nuovo, arretrato come l’Arcadia, o troppo fiducioso nella scienza, tanto da essere fragile e vulnerabile nel momento del suo massimo splendore?

Nelle ultime settimane Sebastian ha avuto poco da fare, le connessioni del modulo con il vecchio scafo sono state interrotte dall’interno, i dati del terminale sono stati trasferiti. Molte informazioni saranno necessarie sulla nave madre. Ora bisogna solo aspettare il disgelo, quando solo un sottile strato di terra separerà la prua della nave dall’aria aperta. Allora, al momento giusto, piccole cariche esplosive faranno saltare lo scudo anteriore e il modulo potrà sollevarsi verticalmente. A cento metri di quota spiegherà le grandi ali a geometria variabile e i reattori lo faranno salire fino a trentamila metri. Solo allora si accenderanno i razzi alimentati dal combustibile sviluppato nel centro sperimentale di Houston, poco prima che venisse distrutto insieme a tutta la città da un kamikaze provvisto di bomba atomica. Ne avevano fatto abbastanza per i moduli d’emergenza, comunque, e sembrava che funzionasse.

Sebastian guarda gli schermi piatti spenti e i comandi per lui incomprensibili, per fortuna ci sarà il pilota, quella Geneviève con le trecce e la frangetta che lui ha guardato di nascosto mentre prendeva possesso del posto di guida con l’entusiasmo di una bambina. Nessuna di loro sa della sua esistenza, Paula ha approvato l’idea, anche se negli ultimi tempi non è più troppo gelosa. Pensando a Paula Sebastian sorride, appoggiandosi meglio alla poltrona avvolgente. Al diavolo i consigli del vecchio, era certamente un uomo eccezionale, ma in fondo poteva sbagliarsi anche lui come tutti gli altri. Qui si è sbagliato. Come fare a rinunciare all’amore, quando lui e lei lo desideravano con tutto il cuore, con ogni fibra? Ma sì, di certo il vecchio era troppo cauto, troppo sospettoso. Invece tutto sta andando per il meglio, le ragazze della squadra sanno il fatto loro, e ognuna ha dato il suo contributo. Flavia ha verificato tutti i sistemi e ha riparato il variatore di geometria di un’ala, danneggiato dall’impatto. Ernesta ha rimesso in funzione il generatore del modulo, fermo da secoli e con le batterie scariche. Adele ha trasmesso in una notte di temporale la sequenza di attivazione dei sistemi di supporto vitale della nave madre e ha ricevuto conferma che la nave è integra e pronta alla manovra di attracco.

Ora bisogna solo aspettare, un altro paio di settimane e la neve si scioglierà del tutto. Sebastian pensa alle ragazze, alcune ancora quasi bambine, ma tutte determinate e perfettamente addestrate. Un successo, il sistema educativo sperimentale è stato un successo. In fondo, malgrado le nuove direttive, è rimasta abbastanza conoscenza da ricominciare. Però il mondo nuovo dovrà essere profondamente diverso dal vecchio. Ci sarà un mucchio di cose da pensare, un mucchio di cose da fare, e gli errori saranno inevitabili. E se…

- A cosa pensi? – Paula si è avvicinata senza rumore, dopo aver chiuso il portello del modulo. Sebastian si gira a guardarla, sembra splendere nella penombra, la pelle nuda bianchissima.

- Pensavo al mondo nuovo… – Paula si avvicina ancora e Sebastian non riesce più a trattenere l’ansia del respiro. Allunga una mano verso il fianco tiepido e appena la tocca sente il solito brivido. Tutte le volte è così. – pensavo a te.

- Anch’io pensavo a te. – fanno l’amore piano, come hanno imparato da soli, a costo di sbagliare e ricominciare. Paula ha capito che in fondo la donna nuda del filmato non era così disgustosa, e una mano vera può toccare nello stesso identico modo senza offendere, basta che lo faccia con amore. Sebastian ha scoperto che gli piace baciarla dovunque, anche proprio lì, e adesso lo fa sempre prima di finire, in quell’ultimo confuso tumultuoso momento che arriva sempre troppo presto, dentro di lei. E poi non importa se ci si sente stanchi e anche sazi, perché tanto bastano pochi minuti e il desiderio ritorna più forte di prima. Alla fine rimangono strettamente abbracciati, respirandosi. – cosa pensavi del mondo nuovo…

- Sarà difficile farlo, e intanto dobbiamo essere noi, capisci, a prendere le decisioni. Pensavo che il sistema di addestramento è buono, non dobbiamo abbandonarlo, solo applicarlo su vasta scala. Le cose importanti dovremo insegnarle ai bambini, perché siano naturali, quasi innate.

- Innate… cosa vuoi dire?

- Nel vecchio mondo c’era troppo odio. Per chi era diverso, per chi aveva una fede differente, e anche per l’altro… sesso.

- Odio, dici tu…

- Sì, odio. Insegnato fin da bambini, contro gli altri, i nemici. Hanno fatto così con i poveri disgraziati che hanno distrutto intere città uccidendosi a loro volta. Loro erano sinceramente convinti di fare la cosa giusta. E noi ora dovremo imparare da loro, usare i loro metodi per ottenere l’effetto opposto. I nostri bambini sapranno fin dal principio che non ci sono nemici, che non ci sono differenze, che…

- Basta. – Paula si muove leggermente su Sebastian e si fa penetrare. – ora non si lavora.

 

La neve è scarsa e sporca, sostituita da una melma gelida. Piove spesso, ed è un bene, però il troppo è troppo. Paula si stringe nel mantello rabbrividendo, le nuvole nere coprono il sole al tramonto, sembra già notte malgrado le giornate siano ormai molto più lunghe. Le pesa dover tornare a casa, le pesa qualunque cosa che non sia stare nella navetta insieme a Sebastian. È irrazionale, però forse l’amore deve esserlo. Hanno visto insieme Giulietta e Romeo, usando i caschi della realtà virtuale per immergersi nell’azione. Paula ha tentato di fermare la mano di Romeo, accorgendosi troppo tardi che era fatta d’aria, e poi ha pianto quando anche Giulietta lo ha seguito nella morte. Amore. Prima non sapeva cos’era, ora le sembra l’unica cosa per cui vale la pena di vivere.

I suoi pensieri vengono interrotti bruscamente da una spinta, che le fa perdere l’equilibrio e la manda a ruzzolare nel fango. Resta immobile senza parlare aspettando le mani gentili e crudeli di Sarah, è finita, solo questo riesce a pensare. Però non succede niente, è ancora libera, che strano, forse quella carogna vuole divertirsi. Lentamente si gira, scrollando dalle mani il fango denso che la pioggia fa scorrere via. Qualcuno la sovrasta, non riesce a riconoscerla, è solo una sagoma scura controluce.

- Cosa è successo al tuo caratterino? – Paola manda giù la saliva e fa un respiro profondo, per fortuna è solo Giulia. – sembri paralizzata. Non ti va di giocare?

- Vaffanculo. Che scherzi del cazzo. – si rialza e rivolge il lato infangato del mantello verso la pioggia, lo sporco scivola via facilmente, il tessuto è fatto apposta. – perché l’hai fatto?

- Per gioco. Lo facevamo sempre da bambine. – Giulia saltella nel fango, sembra contenta per qualcosa. – dai, perché non ti lasci andare?

- Sei tutta matta. Ora me ne vado a casa, sono stanca. – fa un passo ma Giulia le afferra un braccio, la sua presa è sgradevolmente forte. Cerca di liberarsi e non ci riesce. – che cazzo vuoi da me?

- Ah, l’hai capito che voglio qualcosa. – la tiene ancora stretta, e si avvicina tanto da farle sentire l’odore dell’alito. Sa di ciambelle al miele. Paula cerca di rimanere calma, ma questa nuova Giulia non le piace affatto.

- Non ti preoccupare, non voglio farti del male. – allenta la stretta senza lasciarla. Paula resta inerte, furiosa perché sulla sua faccia si leggono tutte le sue emozioni, e ora Giulia ha capito che ha paura. – almeno non ancora, capito? – lascia bruscamente la presa e Paula barcolla. – non sei un granché come cospiratrice, la tua amica è meglio.

- Cosa… cosa vuoi dire?

- Non fare la furba. Non ti conviene, io sono dalla tua parte.

- Spiegati meglio o lasciami in pace. Sono stufa di farmi maltrattare da te.

- Ah sì? E allora cosa mi fai? Vuoi giocare con me nel fango? Se ricordo bene vincevo sempre io…

Basta! Sono stufa di stare qui a sentirti!

- Brava, hai detto una cosa sensata. Non è bene stare qui, andiamo a casa tua.

- Nemmeno per sogno.

- Ah no? – Giulia fa una piroetta e con il piede manda uno schizzo di fango sul mantello di Paula. – preferisci che vada a trovare Sarah? È una cara ragazza, sarebbe contenta se le raccontassi…

-E va bene. Andiamo.

- Lo vedi che diventi ragionevole. Basta dirti la cosa giusta. Quando ho nominato Sarah sei impallidita. Che cosa ti ha fatto, la cattiva?

- Lo sai benissimo, stronza, dato che sei amica sua.

- E qui ti sbagli. Dai, apri questa porta. – con gesti rabbiosi Paula apre la porta e accende una lampada fioca. La casa vuota le sembra triste, il suo odore di chiuso e di umido le stringe il cuore. Giulia la segue dentro e chiude bene. – che casa desolata. Si vede che non ci stai molto.

- È che… – Paula sente di arrossire e stringe le labbra. La odia, questa carogna. Ma cosa diavolo vuole…

- Non dire bugie alla tua amica. Io sono tua amica, lo sai?

- Bell’amica! Mi fai schifo!

- E va bene. Non mi capisci, però mi capirai. – Giulia con gesti rapidi accende la stufa, che fuma solo un po’ e poi si mette a tirare allegramente. Seduta sul divano Paula la guarda muoversi con sicurezza per la casa, ha i capelli umidi e li ravvia con le mani mentre mette sul fornello il bollitore. Paula rimane ostinatamente zitta e Giulia la guarda ogni tanto con un sorriso, mentre si asciuga i capelli vicino alla stufa. Alla fine Paula non riesce a trattenersi.

- Non ti sopporto! Che cazzo stai facendo qui…

- Sto preparando una buona tazza di tè. Così ci possiamo mettere a chiacchierare da brave amiche. E guarda. – fruga dentro la tasca interna del mantello e tira fuori un cartoccio. – qui c’è una sorpresa. Le ciambelle al miele.

- Le odio le ciambelle al miele.

- Ma davvero… – danzando per la stanza Giulia trova il barattolo del tè, ne versa un paio di cucchiaini nell’acqua bollente. – io invece so che ti piacciono. Me lo ha detto…

- No! Quella stronza carogna di una traditrice!

- Ma non è come pensi! – Giulia versa il tè nelle tazze e apre il cartoccio. Prende una ciambella e l’inzuppa. – che buona! Non è possibile che non ti piacciano! E dai, rilassati, bevi il tè, ti scalda.

- Sei odiosa, prima mi minacci e poi fai finta di essere gentile. Dimmi quello che vuoi e vattene da casa mia!

- Sì, dalla tua amata casa! Si vede che ci tieni tanto! Qui c’è puzza di chiuso, tu qui non ci vivi.

- Non sono fatti tuoi.

- E invece sì. Vengo anch’io.

- Dove, dove cazzo vieni? – Paula esasperata sbatte la tazza sul tavolo, spargendo intorno il tè. La tazza di plastica dura non si rompe nemmeno con il martello.

- Non la vuoi una ciambella?

- Vai a infilartela su per il culo, la ciambella del cazzo!

- Ma Paula, tu prima non eri così… colorita. Sempre seria e buonina. Ti preferisco adesso.

- Guarda che non m’importa se credi di essere più forte, io ti ammazzo!

- Che paura mi fai… – inzuppa l’ultimo pezzetto di ciambella e lo mette in bocca. – e va bene, il tuo tè è davvero buono, come il mio, eh eh!

- Io… – Paula le si lancia contro, ma Giulia la ferma con una mano sola, e intanto si asciuga la bocca con il dorso dell’altra.

- Ti ho solo detto che vengo anch’io. Tutto qui. Non vi serve un’esperta di computer? Saprò rendermi utile.

- Io quella maledetta di Ernesta l’ammazzo.

- Ma perché? Solo perché piangeva al pensiero di lasciarmi, e alla fine me lo ha confessato? Lo sai che significa, partire per sempre? E io soffrirò senza di lei.

- Tu e lei…

- Sì, che credi? A me piacciono tutte, però. Anche tu mi piaci. Ma Ernesta ha una marcia in più, le ciambelle.

-Fai schifo.

- Ma perché ce l’hai tanto con me? – Giulia la guarda dritto negli occhi, adesso ha la faccia seria, sembra sinceramente dispiaciuta. – io non posso vivere più così. Tutto si ripete, tutto resta uguale come in un cerchio magico. Voi volete partire, ebbene, portate anche me! Vi sarò utile e scapperò da qui. Io quelle stronze di Miko e Sarah non le filo affatto…

- Ma come, hai appena detto…

- Sì, l’ho detto per spaventarti. Ma non attacca, con Sarah. Lei sembra fatta di cera. Posso guardarla, posso anche toccarla forse, ma lei è lontana, in un altro mondo. Non mi piacciono, quelle della sicurezza.

- Ma tu…

- Ti prego! – accidenti, sembra davvero sincera. E poi, se voleva far fallire il piano, le bastava dire mezza parola a Sarah, questo è vero. Forse… – ah, grazie!

- Non ti ho detto di sì.

- No, ma lo hai pensato. È vero? – Giulia ha il viso raggiante e batte le mani come una bambina, sembra impossibile che pochi minuti prima sia stata capace di farle paura. Paula fa una smorfia e poi sorride apertamente.

- Si capisce così bene quello che penso, eh?

-Si capisce. E ora prendi. – le porge il cartoccio delle ciambelle, ne sono rimaste tre. – Due sono tue, una è mia.

 

Più tardi il villaggio è buio e tranquillo, ma c’è chi non dorme. Paula pensa a Sebastian e anche alla strana Giulia, in fondo è sempre stata un’amica, perché mai non crederle adesso? È insopportabile questa vita in cui tutto è già deciso, anche il giorno della morte. È ragionevole volersene fuggire via. E poi l’ha convinta il fatto che Giulia non le ha denunciate. Mangiando l’ultima ciambella Giulia le ha raccontato che sa da moltissimo tempo della squadra segreta, perché gliel’ha confidato Ernesta, ma credeva che fosse un gioco da bambine. Paula rabbrividisce al pensiero che ci siano altre falle nella squadra, sarebbe la fine. Però non è ancora successo proprio niente e il giorno della partenza si avvicina. Si rannicchia nelle coperte cercando una posizione impossibile, lei ormai è abituata ad avere vicino il corpo di Sebastian e il lettino vuoto le sembra gelido e duro.

Ernesta guarda il soffitto di legno, alla luce incerta del fuoco che si sta spegnendo. Giulia è passata da lei tutta contenta per dirle che non dovrà piangere più. Partirà anche lei, sulla navetta c’è spazio abbastanza e poi lei è così leggera… Non dovranno portare niente con sé, le tute spaziali d’emergenza sono di misura unica, con snodi che permettono di adattarsi a tutte le taglie. Immersa nella nuvola dei suoi capelli ricci e rossi Ernesta pensa alla vita che l’aspetta, sulla nave madre. Dovranno fare ripartire la missione, Paula non ha detto come, ma loro vanno lassù per questo. Sarà bello se in questo futuro ci sarà anche Giulia, il suo primo amore.

Attenta a spiare il respiro pesante di Anna, Giulia tiene gli occhi sbarrati nel buio assoluto della stanza. Partirà e non la vedrà morire. Non le ha chiesto quando succederà, ma ormai dev’essere vicino. Questa è la cosa che la fa soffrire di più, lasciare Anna, però è troppo malandata e non potrebbe sopravvivere all’accelerazione che sarà breve ma forte. Lei sa tutto, naturalmente. Come si fa a nasconderle qualcosa, nascondere qualcosa a sé stessa. Le ha ripetuto le minuziose istruzioni tramandate da tantissimo tempo, così tanto da sembrare leggendarie, e invece si riferiscono a cose solide e reali. Un addestramento complesso fatto solo per lei, che lo ha seguito senza discutere fin da bambina, però Anna non sapeva a cosa servisse, non sapeva se mai sarebbe servito. E ora invece lo sa. Bene, chi l’avrebbe mai detto che proprio lei, Giulia, avrebbe contribuito alla riuscita della missione. Sorride nel buio e pensa ancora un po’ a Paula, alla sua espressione terrorizzata quando l’ha spinta nel fango. Di certo si aspettava un’altra, Sarah per esempio. Cosa farebbe Miko se sapesse cosa sta preparando la squadra segreta? Botte, torture e segregazione. E poi forse si convincerebbe anche lei che in fondo è meglio provarci, a contravvenire alle direttive per salvare la missione. Dirglielo o no? Giulia decide di no. Miko e Sarah sono troppo rigide, incapaci di elasticità mentale. Buone per eseguire gli ordini, quali che siano, ma pessime leader. Capaci di fermare tutto per i prossimi seicento anni, e poi chissà cos’altro potrebbe capitare. No, al diavolo quelle due, al diavolo tutte quante. In fondo Ernesta ci sarà, e anche Paula. Forse sarà possibile convincerla a starci, chissà.

 

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Capitolo 16
*** XVI. ***


Cari amici e amiche, chiedo scusa a tutti per il lungo periodo di assenza. La pubblicazione di Split riprende, e spero di completare la storia durante questo periododi vacanza. Buona lettura!




XVI.

 

La collina è coperta di erba finissima, è ancora presto per i fiori variopinti, tutte le varietà alpine capaci di acclimatarsi che fra un mese trasformeranno ogni angolo libero in un piccolo paradiso, per la gioia delle api. Le donne girano per il villaggio con le scarpe leggere e senza i mantelli, solo di sera la temperatura scende sotto i dieci gradi. Le macchine solari cominciano a svegliarsi e bisogna controllarle prima del ciclo lavorativo. Emily e Flavia armeggiano nella grande rimessa, dove fa ancora freddo. Le mani di Flavia tremano e la chiave universale cade per terra tintinnando.

- Non te la prendere. Devi farlo e lo farai.

- Ma io soffro a lasciarti! Come farai senza di me…

- Non… non lo so. – Emily si gira di scatto per nascondere una lacrima ribelle – non ci avevo mai pensato, che potesse succedere. E ora succede. Però sono contenta. Qualcosa cambierà, ci sarà una speranza. Per te, per… quelle che verranno dopo.

- Sì, una speranza. Io certe volte ho paura. Che cosa troveremo lassù? Paula non ce l’ha detto.

- Io mi fido di Paula, come mi fidavo di Ester. Non racconta mai balle.

- Anch’io mi fido, ma ho paura lo stesso. Come vivremo, cosa faremo…

- Non preoccuparti, pensa una cosa sola: ti piace questa vita sempre uguale e prevedibile? Ti piace sapere il giorno che morirai?

- No, la trovo insopportabile… ma forse mi sembra così perché ora so che c’è un’alternativa.

- È per questo, certo. Una volta, sul pianeta Terra, nessuno conosceva il suo futuro. Il destino di ogni donna, di ogni uomo era incerto, e a qualcuno quest’incertezza forse non piaceva. Noi abbiamo dovuto fare la prova e ora lo so, è meglio non conoscerlo il futuro, è mille volte meglio quell’ignoto che adesso ti fa paura. Sai che ti dico? T’invidio. È cominciato il conteggio alla rovescia?

- Sì, è cominciato e tutto sta andando liscio. Fra sei ore la casa di Paula salterà in aria facendo un baccano d’inferno. Tutte accorreranno e noi andremo alla nave e sigilleremo le porte. Ricordati quello che ti ho detto.

- Sì, sì! Come sei noiosa! Ho controllato ancora una volta i calcoli. Lo scudo cadrà in mezzo alla piazza, davanti alla scuola. Non dovrebbe uccidere nessuno, e nemmeno fare danni.

- No, se tutte sono andate dalla parte opposta. Vacci anche tu.

- Ma io…

- Lo sapevo. Tu volevi vederci partire. – le accarezza la guancia avvizzita – ma io ho paura per te. Non deve succederti niente.

- Va bene, andrò anch’io a veder bruciare la casa di Paula. Però tu devi fare una cosa.

- Cosa?

- Devi suonare per me, adesso.

 

Sebastian controlla nervosamente l’orologio digitale. Mancano due minuti all’esplosione, e poi ci saranno solo cinque minuti per caricare tutti a bordo e partire. Geneviève arriverà per prima, poi Flavia ed Ernesta, che si porterà dietro l’altra, Giulia. Bisogna tenerla d’occhio, si è intrufolata nella spedizione quasi con la forza e potrebbe non essere quello che sembra. Poi verranno Adele e Sandy. Per ultima Paula. Fino all’ultimo lui ha insistito perché restasse a bordo, tanto fra la sezione medica e il portello della navetta c’è solo un corridoio di venti metri. Ma lei niente, ha detto che non si sentiva sicura se tutte non erano dentro. E così Sebastian, nascosto nel compartimento d’isolamento, passa da una telecamera all’altra, spiando i movimenti pigri del villaggio in un bel giorno di primavera. Quando anche Paula sarà dentro arriverà lui e chiuderà il portello. A questo punto non importerà niente se le ragazze lo vedranno, sulla nave madre dovranno comunque sapere della sua esistenza. Avranno poco tempo per parlare, però. Altri cinque minuti per completare il conto alla rovescia, e poi salterà lo scudo e forse il modulo partirà. Questo è il punto più incerto: si accenderanno i motori, saranno stabili i sistemi di guida, oppure andranno a sbattere contro una collina e moriranno tutti? Nessuno lo sa, non è stato possibile fare nessuna prova, lui sa solo che Geneviève ha studiato tutte le fasi del decollo e del volo, lo ha fatto fin da bambina senza sapere che non era un videogioco, e negli ultimi tempi completava con successo novantadue decolli su cento. Un punteggio alto.

Ecco, è scoppiato il barattolo di combustibile prelevato dai serbatoi della navetta. Poco rumore ma molto fuoco, la casa di Paula sputa fiamme dal camino, dalle finestre e dalla porta divelta, tutte corrono e in testa ci sta Miko. Sull’altro schermo si vede il viottolo d’ingresso della navetta, ecco spuntare Geneviève con le trecce ciondolanti e il visetto triste, e subito dopo Flavia. Dieci secondi e arriva Ernesta insieme a Giulia, corrono tenendosi per mano. Ed ecco Sandy e Adele. Spariscono nella navetta e il viottolo rimane deserto. Sebastian cambia punto d’osservazione, ecco Paula che sbuca da dietro un albero dove si era nascosta, e corre verso l’ingresso. Ma non è sola, dietro di lei c’è Sarah.

- Paula! Dove vai, lo sai che la tua casa…

- Devo andare, devo andare subito. – accelera l’andatura, Sarah è a venti metri e guadagna terreno.

- Fermati! Devo parlarti!

- No! – corre più forte, sente il passo leggero di Sarah che si avvicina. Pochi metri ancora, ecco ha attraversato l’ingresso, la porta della nave è davanti a lei, aperta. Ma Sarah l’ha raggiunta e la placca, facendola cadere pesantemente in avanti. Para il colpo come può spellandosi le mani sul pavimento ruvido, mentre Sarah le piomba addosso e la immobilizza.

- Che ti è saltato in mente! Io volevo solo parlarti! Ma tu nascondi qualcosa…

- Maledetta, lasciami!

- Eh no, non ti lascio. Ho un’idea, vuoi vedere che la tua casa non è saltata in aria per caso… dimmi perché.

- Non ho tempo, ti ho detto.

- Sì, hai tutto il tempo che vuoi. Ora ti lego e poi ti porto da me. Ti aspetta il solito gancio nel muro.

Tenendola ferma con una mano cerca in tasca un laccio e le lega i polsi. Paula piange di rabbia, poi sente il peso di Sarah spostarsi bruscamente e allontanarsi da lei. Rotolando si mette da parte, e vede Sebastian che combatte con Sarah, parando le sue mosse e facendo acrobazie che sembrano impossibili. I due si muovono velocissimi e si scambiano colpi micidiali, capaci di uccidere se andassero a segno. Sarah sembra perfettamente serena come se stesse giocando, mentre Sebastian ha il viso preoccupato, spesso si distrae guardando il viottolo deserto e ogni volta rimedia un colpo durissimo. Paula capisce che è questione di attimi, fra poco arriveranno anche Miko e le altre, la missione andrà perduta se non fa qualcosa. Di scatto si alza in piedi e cerca di colpire Sarah con un calcio maldestro, ma una manata volutamente leggera la stordisce. Sogna che Sebastian la sta portando in braccio lungo il corridoio, al sicuro dentro la navetta, blocca il portello con un tonfo sordo. Chiude gli occhi per un attimo, e quando li riapre si trova davvero nella navetta, Sebastian è chino su di lei e le sta sciogliendo le mani.

- Cosa… cos’è successo…

- Rilassati. Quella… Sarah è un osso durissimo.

- Ma tu…

- Io non ho fatto niente, non riuscivo a neutralizzarla e cominciavo ad avere paura. Il merito è stato tuo. L’hai distratta e quando lei ti ha colpita tenendo d’occhio me, la vecchia le ha calato una bastonata in testa.

- Che vecchia…

- Sì, la vecchia nera, ha un bel sorriso.

- Emily! È stata Emily! È… una virtuosa del pianoforte.

- Sì, e una vera artista con il bastone. Ora corriamo ad indossare le tute, ci restano un paio di minuti. – aiutandosi a vicenda indossano le tute spaziali d’emergenza, progettate per essere operative in pochissimo tempo. La cabina ha dieci sedili, Geneviève è già seduta al suo posto e anche le ragazze, con le tute indossate e le imbracature di sicurezza allacciate. Paula e Sebastian si siedono vicini e allacciano le cinture. Paula parla nell’interfono.

- Geneviève, ci siamo.

- Bene. Siamo a meno settanta. Adesso salta la corazza. – le esplosioni sono soffocate dallo spessore dello scafo, all’improvviso gli schermi s’illuminano e compare il cielo. Si sentono altre deboli esplosioni e un rumore tamburellante come la grandine sul tetto.

- Ci salutano con i fuochi d’artificio. Scariche di pallettoni.

- C’è pericolo?

- Non lo so, però è meglio filarcela alla svelta.

- Reattori verticali accesi. – la voce di Geneviève è calma e quasi allegra. – meno sei, cinque, quattro, tre, due uno… ci siamo. – all’inizio non avvertono nemmeno il movimento, e si ripete il suono di grandine, ma gli schermi mostrano l’involucro della navetta che scorre verso il basso e lascia il posto agli alberi, che presto diventano piccoli e lontani. – ali spiegate. Reattori orizzontali accesi. Partiamo.

- Che strano… – il rumore dei reattori è fortissimo, la voce di Paula nell’interfono si avverte appena. Sebastian non ha parlato mai e guarda rapito lo schermo più vicino che mostra una foresta sterminata, sempre più lontana, poi tutto diventa bianco mentre attraversano un denso strato di nuvole, e poi il sole ritorna e le nuvole sono in basso, come un letto soffice di ovatta. Il bang di Mach 1 è seguito da uno strano silenzio, ora c’è solo un leggero fruscio. E il cielo azzurro diventa sempre più scuro. Passano pochi minuti che a Sebastian sembrano irreali. La voce sottile di Geneviève squilla allegra nell’interfono.

- Vi parla il vostro pilota.

- Brava, Geneviève! – un coro di voci eccitate, alle ragazze della squadra sembra ancora incredibile che stiano facendo sul serio, e non sia uno dei soliti giochi.

- Siamo a venticinquemila metri d’altezza. Fra poco vedremo comparire le stelle. Velocità Mach 5 in aumento. Motori a razzo in preaccensione. Siete pronti? Sarà un po’ dura.

- Pronti.

- Accensione. – la spinta dei tre motori fa schizzare il modulo oltre l’atmosfera, le ali ormai inutili sono abbandonate e il cielo completamente nero è gremito di stelle. Nella cabina tutti respirano a fatica, schiacciati contro i sedili dall’accelerazione, ma non è poi così male. Dopo un tempo che sembra interminabile ma in realtà è inferiore a dieci minuti, i motori si spengono e l’accelerazione cessa.

- Ci siamo. Orbita bassa, in sei ore raggiungeremo la nave con una serie di accelerazioni programmate, il computer accenderà i motori per il tempo necessario. Ora possiamo togliere i caschi.

 

Miko scaglia l’inutile fucile contro il buco sfrangiato che si è aperto nella collina. L’arma descrive una pigra parabola e si conficca nella terra smossa. Sono passate sei ore e ancora si sente furiosa.

- Maledette! Maledette traditrici! – ingoia la sfilza di imprecazioni che sono più adatte ad Helga, infatti è da lei che le ha imparate senza usarle mai. A che servono, solo a sprecare il fiato. Il velivolo sconosciuto è uscito dalla prora del modulo di atterraggio, e lei non aveva idea che esistesse, che ci fosse ancora qualcosa di utile in quella carcassa. Per lei contavano solo il generatore, gli accumulatori e le incubatrici, tutto il resto le sembrava ferraglia priva d’importanza. E invece, maledette…

- Miko… – Sarah si avvicina barcollando un po’, ha uno straccio insanguinato intorno alla testa e un grosso livido sotto uno zigomo.

- Che vuoi, tu? Te le sei lasciate scappare, vai a nasconderti almeno! Vattene, ti dico!

- No, Miko, devo dirti una cosa. Ora che ti sei calmata devi ascoltarmi…

- Allora parla!

- Non erano… sole.

- Certo, le hanno aiutate le loro doppie! E non ci serve a niente averle prese, sono vecchie con l’anima ai denti! Se non stiamo attente ci muoiono nelle mani!

- Non volevo… dire questo. C’è un’altra cosa.

- E cosa? – Miko ha perduto la sua calma impenetrabile e si muove a scatti, prendendo a calci i sassi del sentiero. – che altro può esserci?

- Un… altro essere. Sembrava… un uomo.

- Sei pazza. Gli uomini sono tutti morti!

- E invece c’era. Questo – indica il livido – me l’ha fatto lui. Avevo preso Paula e lui è uscito di corsa ad aiutarla, era vestito con una delle nostre tute ma gli stava corta, e aveva i piedi nudi. Combatteva in un modo… diverso, ha parato quasi tutti i miei colpi, io però non ero in difficoltà, pensavo che dovevo solo tenerlo occupato per un po’, tu stavi per arrivare, e poi…

- Già, e poi?

- Poi Paula si è lanciata contro di me, e io mi sono distratta per un attimo.

- Ti ha colpita lui? Vergognati! Sconfitta da due soli avversari! Che ti ho insegnato? A cos’è servito? – spara distrattamente un calcio contro un giovane tiglio e lo rompe di netto.

- No, Miko… – Sarah soffoca uno sbadiglio, si sente stanchissima – non è stato lui, lui era nel mio campo visivo. È stato qualcun altro che non vedevo.

- Ah! Allora è diverso! Un uomo! Ma sei sicura?

- Sì… – Sarah sbadiglia di nuovo – era uguale a quelli della… commedia. Brutto in faccia, più alto di noi, con i fianchi stretti e senza le…

- Ho capito, ho capito! Chissà cos’altro nascondono quelle maledette! Andiamo a interrogare le prigioniere, a quest’ora si saranno ammorbidite. – si dirige a passi svelti verso casa sua, seguita dagli sguardi intimoriti delle poche donne rimaste in giro. La maggior parte stanno tappate in casa con le finestre sbarrate. Davanti alla porta c’è Marzia con il fucile spianato. Dentro ristagna un cattivo odore di chiuso e di sudore, Rina sta seduta in un angolo con il fucile carico, e le prigioniere, le doppie delle traditrici tranne Ester che è morta, maledetta anche lei, sono ammucchiate come fagotti sul pavimento. Ogni tanto qualcuna si muove debolmente, e da questo si capisce che sono ancora vive.

- Hey, Miko! – Helga esce pesantemente dalla stanza da letto, con una bottiglia in mano.

- Pezzo di… – Miko s’interrompe bruscamente ma i suoi occhi mandano lampi – testa di rapa, ti ho detto di non bere!

- Ma…

- Chiudi quella fogna! – Helga indietreggia e torna nella stanza a letto, da dove si sente un borbottare soffocato. – E voi – si rivolge al mucchio delle prigioniere – credete che io abbia la minima pietà di voi? Vi sbagliate! Vi farò morire ad una ad una, se non parlerete!

- Ma noi non sappiamo niente, te l’ho detto subito. – Emily si solleva a fatica dalla schiena di Tania, che non si muove ma respira, forse dorme. – e poi che importa se ci ammazzi, ci resta comunque poco da vivere. E loro ti hanno fregata lo stesso.

- Carogna! – Miko ferma una manata micidiale ad un millimetro dalla sua gola. Per un attimo ha avuto la tentazione di farla finita per davvero, eppure lei non ha mai ucciso nessuno, e l’intera sua linea ha sulla coscienza solo l’intruso che sparava all’impazzata. Emily non fa una grinza, forse non ha capito che la morte l’ha appena sfiorata.

- Miko, ti conosco da quando eravamo bambine e non mi sembri cattiva. Ascoltami.

- Cosa m’impedisce d’ammazzarti, me lo dici?

- Calmati. Aiutami a tirarmi su, vuoi? – senza parlare Miko solleva Emily e la fa sedere appoggiata alla parete. – e ora siediti qui vicino a me.

- Che vuoi? Non m’imbrogli, capito? Io voglio i nomi, i nomi delle vostre complici. Voglio sapere chi ha colpito Sarah, voglio sapere che cos’hanno in testa quelle carogne!

- Una cosa te la posso dire. Sarah l’ho colpita io, e da come mi ha trattata subito dopo si vede che non le ho fatto troppo male. È stata brutale come sempre.

- Che… vuoi dire?

- Che se volevo l’ammazzavo, ho dovuto fare attenzione a stordirla senza spaccarle la testa.

- E allora parla! È vero che c’era un uomo? Tu lo sapevi? Le altre lo sapevano? Che cos’è successo?

- Calma, calma! – Emily cerca di stirarsi senza riuscirci ma rimane serena. Flavia è lontana e al sicuro, la squadra segreta sta lavorando. – non sapevo che c’era ma l’ho visto. Era… bello. Io stavo nascosta per essere sicura che andasse tutto bene e poi quella cretina di Sarah è arrivata di corsa inseguendo Paula, ed è uscito lui per difenderla. Però Sarah è troppo forte. Così ho approfittato della prima occasione e l’ho stesa.

- Tu! – l’afferra alla gola e stringe, poi cambia idea e con uno spintone la rimanda a sbattere con il muro – per colpa tua le abbiamo perse! Sarah era riuscita…

- Non capisci… – s’interrompe per tossire – eppure loro sono andati anche per te.

- E cosa c’entrano queste sciocchezze? Per me! Sei pazza! – sfoga la rabbia colpendo con malignità il grosso sedere di Tania, che sobbalza gridando.

- Tu non sei cattiva, sei solo… rigida. Me lo diceva Flavia, ed Emily lo diceva a Flavia. Ed io…

- Basta! Mi prendi in giro! Non lo sopporto!

- Aspetta, aspetta! Io so che non sei cattiva. E so pure che obbedisci agli ordini a fin di bene, no? Flavia mi ha detto…

- E basta con questa catena!

- E va bene, la mia linea sa che la prima Miko aveva una specie di… venerazione per la comandante, Elizabeth. È vero, no?

- Certo, che c’è di male? Che vuoi dire? – Miko si rivolge vivacemente verso Emily, ma stavolta non la maltratta.

- Che la tua linea ha preso molto sul serio le nuove direttive. Senza discuterle.

- Le direttive non si discutono, si applicano.

- Certo, certo! Ma ti ricordi cos’era successo ad Elizabeth…

- Eli. La chiamavano tutte così.

- Ad Eli. Stava morendo. Tu credi che fosse interamente capace d’intendere e volere? Ne sei davvero sicura?

- Miko ne era sicurissima. È stata lucida fino all’ultimo respiro.

- Però queste nuove direttive che voi avete applicato con la forza, erano strane.

- Eli non diceva mai nulla di strano. – Miko piega il corpo sottile e si abbraccia le ginocchia, guardando lontano oltre il mucchio delle prigioniere legate.

- Ma perché cancellare il ricordo, anche il ricordo dell’umanità? Perché bandire la cultura e l’arte, eh, perché? Avete cancellato gli archivi, che erano l’essenza della nostra specie. Il mondo di sole donne poteva esistere lo stesso.

- Eli voleva che non ci fossero rimpianti.

- Sciocchezze. Io penso un’altra cosa. Io so un’altra cosa.

- Cosa sai? – di nuovo Miko afferra Emily per il bavero della tuta e la scrolla come un fagotto. – devi parlare, hai capito?

- Come sei stupida, con tutta la forza che hai. Appena Eli è morta voi avete preso quelle delle nostre linee e le avete maltrattate, rinchiuse, costrette ad obbedire.

- E allora? Volevate ribellarvi e ve l’abbiamo impedito! Abbiamo raggiunto lo scopo!

- No. Le nostre linee hanno obbedito ma hanno fatto un’altra cosa.

- Cosa, cos’hanno fatto? – la voce di Miko è stridula e le mani le tremano.

- Hanno ricordato. Loro venivano dalla Terra, erano nate da una madre ed erano cresciute dentro la civiltà umana. Hanno tramandato i loro ricordi. E le ragazze della squadra segreta, le nostre doppie che ormai sono lontane, loro sanno del pianeta Terra, delle guerre e del motivo della missione. Sanno che l’umanità era prossima a sparire, e che c’era una guerra senza quartiere.

- Fra uomini e donne…

- No, stupida. Era una guerra di civiltà. Ormai era chiaro, o noi o loro. Però le cose erano andate così avanti che nemmeno il vincitore sarebbe sopravissuto, l’equilibrio del pianeta era compromesso in modo irreversibile e le fonti di energia esaurite. E così ognuna delle parti in lotta ha elaborato il suo piano. Noi volevamo tentare di ricostruire l’umanità, e così è nato il progetto Terra due.

- Così si chiama il nostro mondo.

- Sì, si chiama così. Diverse missioni erano partite prima di noi ma avevano fallito. La nostra era l’ultima possibile, prima del collasso.

- Cos’è il collasso?

- Il crollo dei sistemi organizzativi della civiltà, la produzione, gli approvvigionamenti, la sicurezza, l’energia, le comunicazioni. Dopo il collasso i sopravissuti si saranno ammazzati a vicenda per mangiarsi, e poi gli ultimi saranno morti di fame in qualche caverna. Se la nostra missione fallisce, la specie umana si estinguerà.

- La nostra missione è fallita. Però le nostre linee vivranno per sempre e…

- Stupida! Ascoltami. Chi l’ha detto, questo?

- Eli, l’ha detto Eli.

- Allora senti. Lo sai che i nostri… nemici avevano cercato più volte di distruggerci? Con le bombe atomiche, con…

- Che cosa sono le bombe atomiche…

- Scusa, tu non sai molte cose. Mezzi di distruzione di massa, capaci di sterminare milioni di persone in un colpo solo, in confronto quel tuo fucile del cazzo è un pizzico di zanzara. Comunque, dato che non c’erano mai riusciti del tutto, a distruggerci, allora si sono infiltrati in mezzo a noi. Tutte le missioni di Terra due sono fallite, e forse sono fallite per questo. Seminavano la discordia, e invariabilmente c’erano violenze e morte, perché una nave generazionale è instabile…

- Che dici, Emily, io non ti capisco!

- Miko, hai ragione, non posso spiegarti in due parole una cosa che richiede anni. Ti dico solo questo: che forse Eli…

- Non parlare male di Eli! Ti ammazzo!

- E tu ammazzami. Ma forse Eli non voleva che la missione riuscisse. Forse Eli aveva anche lei una bomba da fare esplodere, per uccidere tutte le donne. E poi, quando ha saputo che non serviva, tanto tutti gli uomini erano morti, ha pensato di fare il mondo nuovo. Però non era il mondo nuovo che avrei fatto io.

- Che vuoi dire, pazza?

- Che io avrei conservato gelosamente ogni memoria del passato, ogni testimonianza della mia specie, anche solo per lasciarla in ricordo di noi, alla fine delle nostre generazioni inutili. Io, e anche Ester, e anche le altre, quelle che avete torturato senza mai avere il coraggio di ucciderci. E lo sai perché tu e quelle due stronze ubriache non ci avete uccise? Perché non siete cattive. Siete solo tonte.

- Hai passato il limite! Io ti farò pentire di quello che hai detto!

- Tonta. Eli ha cercato di cancellare il ricordo della nostra civiltà. Non lo ha fatto per evitare i rimpianti. Lo ha fatto perché questa era la sua missione. Eli…

- No! Eli no!

- Sì. Eli era un’infiltrata, lei era dalla parte dei nemici.

- Non ti credo! È impossibile!

- Allora pensa. Tu hai conoscenze specifiche nelle arti marziali, ma Sarah, e Miko, e prima di lei…

- E piantala!

- Va bene. Tu non sai da dove vengono. Sai solo usarle queste tecniche. Sei solo uno strumento. Tu non avresti conservato gelosamente il ricordo dei maestri che ti hanno resa quello che sei? Io l’ho fatto, per i maestri della musica.

- E io… – Tania si solleva su un gomito e guarda Miko con sfida – l’ho fatto per i maestri della pittura e della scultura.

- E io… – la voce di Naomi è soffocata ma ferma – l’ho fatto per i pionieri del volo e i primi eroi delle esplorazioni spaziali.

- Basta! Basta! – Miko si alza di scatto tappandosi le orecchie, gonfia di rabbia e confusione, lottando fra l’impulso di macellare quelle donne insolenti e il desiderio di credere, di prendere per buone le parole di Emily. La voce di Emily supera l’ostacolo e la raggiunge inesorabile.

- Ti dico una cosa sola, Miko. La missione di Terra due non è fallita.

 

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Capitolo 17
*** XVII. ***


XVII.

Da vicino la nave madre è immensa, riempie completamente gli schermi, se ne vede solo una piccolissima parte che scorre lentamente. Ernesta ha stabilito il contatto con i sistemi automatici e ha avuto conferma che il supporto vitale è in funzione, manca solo la gravità artificiale che si ristabilirà dopo l’attracco. Il modulo scorre lungo la fiancata scabra di metallo e Paula pensa a quanta fatica sia costato un manufatto così grande e complesso, quante risorse sono state spese. Le ragazze sono rimaste stupitissime di vedere Sebastian, Giulia specialmente lo ha guardato in un modo che ha colpito Paula come un pugno. Anche lui le guarda tutte con troppo interesse, e all’improvviso Paula è diventata acutamente consapevole che ognuna di loro, dannazione, manda un odore diverso da quello delle altre. Eppure non ci aveva mai fatto caso, prima. Stringe una contro l’altra le mani guantate e respira profondamente per calmarsi, almeno hanno rimesso i caschi e l’odore molesto non si sente più. Sebastian le appoggia una mano sulle ginocchia, sorride dietro la visiera brunita. Sì, in fondo va tutto bene.
Guidato con sicurezza da Geneviève il modulo rallenta fino a fermarsi. Lungo il fianco grigio della nave si apre una fessura, una porta scorre lentamente e scopre un’apertura scura. Spinto dai getti di manovra il modulo entra nell’hangar e rimane sospeso a mezzo metro dal pavimento. La porta si chiude e nell’hangar si accendono le luci. Dagli schermi si vedono le paratie attraversate da condutture, e in fondo una porta stagna. Si sente un forte colpo che fa sobbalzare tutti.
-Cos’è stato!
-Geneviève, c’è pericolo?
-No, state tranquille… tranquilli. Il modulo si è appoggiato sul pavimento con le zampe magnetiche ed è partita la gravità artificiale.
-E ora?
-Ora dobbiamo scendere. Senti… Sebastian, c’è aria nell’hangar?
-Dovrebbe esserci. Però ci conviene togliere i caschi solo quando ne saremo sicuri. – slacciano le cinture e si accorgono di avere peso, non quanto a terra, ma abbastanza per muoversi bene. Sebastian precede il gruppo al portello e lo apre. Impacciati dalle tute scendono lentamente i due gradini e toccano il metallo lucido del pavimento. L’hangar è illuminato da forti lampade a luce bianca, le tubature e le nervature dello scafo risaltano crudamente. Sebastian va ad una tastiera incassata in una paratia e digita un codice, guarda per un attimo i dati mostrati da uno schermo e si gira verso il gruppo delle ragazze. – bene, l’aria c’è, niente veleni. Peccato per te, Paula, non c’è cianuro.
-Che vuol dire… – Giulia si avvicina incuriosita, slacciandosi il casco. Un mezzo giro e lo toglie. Compare il suo sorriso, che a Paula sembra pieno d’insidie. – cos’è questa storia del cianuro?
-Non ti riguarda! – Paula è scattata come una tagliola, e si pente subito, vedendo accentuarsi il sorriso di Giulia. – cioè, voglio dire, è uno scherzo fra noi…
-Capisco, voi due avete passato più tempo insieme, vero? Però adesso – si avvicina a Sebastian fino a sfiorarlo, e Paula sente di diventare rossa come il fuoco – adesso non devi tenertelo tutto per te, non sarebbe giusto…
-Io ti… – Paula fa un passo avanti ma fa uno sforzo per dominarsi. Le ragazze hanno tolto i caschi e li guardano incuriosite. – ti spiegherò qualche altra volta quello che penso. Ora dobbiamo lavorare, vero Sebastian?
-Sì… – Sebastian distoglie lo sguardo dalla bocca di Giulia, ha il viso ancora acerbo e sembra più giovane di Paula, ma la bocca è diversa, le sue labbra… – è vero. Ora dobbiamo trovare la strada per l’alloggio delle donne. Quello degli uomini non è abitabile.
-E come faremo?
-Sì, come faremo? Io ho fame… – Giulia sorride ancora, sentendo lo sguardo di Sebastian incollato sul suo viso. E ora toglierà questa tuta che la rende simile a tutte le altre, gli mostrerà anche il resto.
-Non preoccuparti. Credo… sono sicuro che troveremo sia la strada che il cibo. Questo hangar era previsto per le emergenze, ed era accessibile a tutte e due le sezioni, ma questo lo sapevano solo in pochi.
-Che… vuoi dire? Che gli alloggi degli uomini e delle donne non erano sigillati?
-Proprio così. Però questa informazione non era condivisa. Era disponibile solo in caso di attivazione dei protocolli di emergenza.
-E tu come lo sai?
-Io… lo so e basta. Era una delle cose che dovevo sapere. Il vecchio… – Sebastian s’interrompe e arrossisce. Tutte quelle facce attente lo rendono nervoso. Le labbra di Giulia si stringono leggermente, poi lei si mordicchia l’angolo della bocca. Come lo fa bene… – il vecchio me lo ha detto. Il mio istruttore, il mio… doppio.
-E cos’altro sai, Sebastian? – la voce di Giulia si fa bassa e calda. Le ragazze stanno zitte a guardare, si sentono escluse. Geneviève spinge da parte Flavia e si para davanti a Sebastian, è ancora piccola di statura ma ha l’aria decisa.
-Basta chiacchierare! Se sai la strada indicacela. Sono stanca di stare qui impalata.
-Hai ragione… come ti chiami…
-Geneviève.
-Sì, Geneviève. Scusatemi tutte. – compone il suo codice personale sulla tastiera e aziona un meccanismo manuale di sblocco. – aiutatemi a tirare questa maniglia… – con gli sforzi congiunti di Paula e Giulia, finalmente riescono ad aprire il portello. Passano uno alla volta attraverso l’apertura e si ritrovano in un corridoio basso e stretto.
-Sembra un budello… ho paura ad entrarci.
-Zitta, Ernesta! – Giulia la spinge a forza ed entra per ultima. Si chiude il portello alle spalle, verifica che sia bloccato poi rifila una sculacciata all’amica che la precede. – lo fai apposta a fermarti, vero?
-Dove andiamo ora? – Paula è dietro Sebastian, contenta che Giulia sia rimasta indietro.
-Sempre dritto. Il corridoio porta direttamente agli alloggi.
-E poi?
-Poi vedremo. – cammina curvo, per non battere la testa. Sente la mano di Paula che cerca la sua, e la stringe. Camminano senza parlare per una decina di minuti, alla fine arrivano ad uno slargo dove si aprono due portelli perpendicolari al corridoio.
-Siamo arrivati?
-Sì, è qui. – le ragazze emergono dal corridoio, per ultime Ernesta, rossa in faccia e con gli occhi lucidi, e Giulia sempre sorridente e tranquilla.
-E ora?
-Dobbiamo stare attenti a non sbagliare. Se sbagliamo moriremo tutti. La sezione degli uomini è decompressa.
-Bum! – Geneviève guarda Sebastian da sotto in su, ma non è affatto intimidita. – lo sai benissimo che in questo caso la porta non si apre!
-Eh già. Scherzavo.
-Allora, qual è la porta?
-Quella di destra. Però non si apre facilmente. Devo utilizzare un codice segreto.
-È un altro scherzo…
-No, stavolta non scherzo. Per favore, Paula, coprimi voltandomi le spalle, il codice deve restare segreto, per ora.
-Come, non ce lo dici…
-No. Questa porta deve restare sempre chiusa. Ma… – impallidisce e si porta le mani alla testa. – accidenti, ho dimenticato una cosa…
-Cosa?
-Che è successo, Sebastian?
-Che… – si sente stupido, con gli occhi di tutte addosso, e deve ammettere di aver commesso un errore grave. – devo tornare indietro a chiudere il portello dell’hangar. Può essere pericoloso lasciarlo aperto…
-Ah, allora puoi stare tranquillo. L’ho chiuso io. – Giulia sorride ancora e i suoi occhi brillano nella penombra.
-Sei sicura di averlo fatto? Si è bloccato?
-Sicura. Al cento per cento.
-Gra… grazie per averlo fatto. Ci hai risparmiato venti minuti.
-Lieta di essere utile. E ora che facciamo, ci giriamo dall’altra parte mentre tu digiti il codice?
-Non occorre, basta Paula a coprirmi. – Paula sospirando gli volta le spalle, e guarda con insistenza Giulia, questa stronza comincia a non andarle giù nemmeno un po’. Sebastian armeggia con la piastra di riconoscimento e con la tastiera, lo sente agitarsi e si chiede se anche questa volta deve leccare la piastra. Finalmente si sente uno scatto metallico.
-Si è… aperta?
-Sì. Dai, entrate. Benvenute a bordo. – in confronto al corridoio la sezione abitativa sembra quasi lussuosa, con le pareti dipinte in colori tenui e gli schermi che mostrano paesaggi della Terra di com’era una volta. Sebastian si guarda intorno incuriosito, tutto qui gli giunge del tutto nuovo, per fortuna le istruzioni del vecchio erano dettagliate e le due sezioni, questo lo sa, sono sostanzialmente analoghe.
-È… bello, qui… a parte l’odore di chiuso. – Paula arriccia il naso, l’aria è vecchia di centinaia di anni e sa di lubrificanti.
-Passerà, speriamo. Il sistema di supporto vitale si è riacceso da poche ore.
-Dov’è la cucina? Ho fame. – Giulia si dirige verso una parete apparentemente piena, e all’improvviso si apre una porta scorrevole. – Forte! Ehi, venite, ho voglia di vedere cosa c’è qua dentro. Ah! Guardate cosa ho trovato!
-Cosa… – Sebastian e Paula la seguono, a breve distanza arrivano le altre. Giulia ha trovato una stanza ampia, adatta per molte più persone, con tavoli di un gradevole colore verde tenero e poltroncine imbottite. Alle pareti grandi schermi che simulano una foresta, le foglie di migliaia di faggi agitate dal vento. Sembrano vere vetrate aperte sul mondo che non c’è più.
-Bene, credo di avere scoperto la… sala da pranzo. Ora basta trovare da mangiare. – Giulia guarda compiaciuta le facce stupite dei suoi compagni, poi va ad un lato della sala dove c’è un dispenser che Sebastian riconosce, è uguale a quello della sezione d’isolamento. Però questo…


Soli nella stanza del medico, che era stata della prima Ester, Paula e Sebastian sono sdraiati sulla cuccetta imbottita, è troppo piccola per due ma non ci fanno caso. Paula gioca con i capelli di Sebastian, felice di averlo finalmente tutto per sé. Il dispenser era vuoto, naturalmente, ma avevano trovato lo stesso le razioni d’emergenza, verdure e cereali prodotti nella serra e liofilizzati. Vitamine in tavolette e acqua bevibile dai rubinetti, dopo aver fatto scorrere quella rimasta nei tubi, congelata durante il lungo sonno della nave e poi tornata liquida ma puzzolente di plastica. Una dieta monotona ma equilibrata, sufficiente per un paio d’anni, più o meno quello che contano di restare sulla nave.
-Ricordati quello che ti ho detto. È importante. Ora che sai davvero tutto potrai fare anche da sola...
-Non voglio… non voglio nemmeno pensarci.
-È necessario invece. Devi tenerti sempre pronta.
-Ma io…
-Non discutere, nessuno di noi ha scelto veramente di fare quello che sta facendo, siamo stati presi di peso e lanciati in questo gioco. Gli altri hanno già scelto per noi.
-Mi fa rabbia! Non potere mai sentirsi liberi!
-Passerà. Anche questo passerà. La libertà dovrà tornare, per quelli che verranno dopo. Ma noi forse non la vedremo.
-Parli come un vecchio! Come il maledetto vecchio che ti ha riempito la testa di stupidaggini! Anche noi siamo liberi!
-No, noi… – s’interrompe, bussano alla porta. Paula infila in fretta la tuta e apre solo uno spiraglio.
-Che vuoi, a quest’ora… – Adele ha l’aria eccitata e finge di non vedere la faccia contrariata di Paula.
-Notizie da Terra due! Ci chiamano!
-E tu come…
-È il mio lavoro. Prima di dormire ho guardato la mia postazione. Le macchine che avevo solo immaginato, ma le sapevo usare, Stephy ha impiegato anni ad insegnarmelo.
-E loro…
-Sì, è lei, Stephy che sta usando la radio del modulo di atterraggio. C’è un’emergenza, hanno bisogno di noi.
-E noi come…
-Vieni. Venite tutti e due. – gira le spalle e si allontana rapidamente. Sebastian si veste in fretta con una tuta di ricambio che era stata di Ester, larga e corta. Deve fare una spedizione nella sezione degli uomini per prendere indumenti più adatti, e specialmente le scarpe. Segue Paula camminando a piedi nudi sul pavimento gelido, fino alla cabina di pilotaggio. Adele è seduta al suo posto e manovra con sicurezza i comandi. Sullo schermo compare Miko.
-Tu! Che vuoi tu da noi! Ormai non ci puoi fare più niente! – Paula parla con rabbia, ma s’interrompe bruscamente. Miko sta piangendo. – ma che ti succede…
-Lei… lei si è addormentata e non si sveglia più. Sta… morendo.
-Chi, lei?
-Sarah. Io. Se morirà, cosa succederà? Non è giusto…
-E io cosa dovrei fare? Un miracolo? E poi – la guarda con disprezzo, assaporando la vendetta, è dolce la vendetta – tu e lei, mala razza, non avete saputo fare altro che legarmi, picchiarmi e maltrattarmi! Sarah mi aveva presa di nuovo, e chissà cos’altro mi avrebbe fatto! Sei pazza se pensi che ti aiuterò!
-Lei non ha colpa, la colpa è tutta mia…
-Non m’importa più niente di voi, hai capito? Noi siamo lontani, il vostro fucile non arriva fin qui. – ride senza piacere, ma deve recitare la parte fino in fondo. – Adele, chiudi la comunicazione.
-No! – la voce di Sebastian è calma e decisa. – Miko, portala subito nella sezione medica. Memorizza questo codice di emergenza che ti aprirà tutte le porte.
-Che vuoi fare! Sei pazzo! – Paula si rivolta contro di lui come se volesse picchiarlo. Le ragazze li guardano stupite, solo Giulia ha incollato in faccia un mezzo sorriso. Sebastian continua a parlare con calma e detta il lungo codice.
-Quando arrivi mettila sul tavolo operatorio. Lì dentro c’è uno schermo come questo. Devi seguire le mie istruzioni.
-Tu… l’aiuterai?
-Sì. – Miko esce dal campo, sostituita da Francesca, che tiene Rina strettamente abbracciata.
-Senti, Paula! Devo dirti…
-Anche tu! Pensi che non ho dimenticato, eh? Voi volevate far fallire la missione…
-No! Aspetta! Non è come pensi… noi facevamo quello… che facevamo per ubbidire alle direttive. Solo per questo. Noi… credevamo che era giusto, che eravate voi a sbagliare.
-Ah sì? E ora come mai avete cambiato idea? Perché vi siamo sfuggiti?
-Emily ha parlato, ci ha raccontato. E anche le altre, quelle della… squadra segreta. Ci hanno convinte, va bene? Abbiamo capito che eravamo noi a sbagliare. Non ci saranno più violenze tra di noi, ci aiuteremo a vicenda, hai capito?
-Non ti credo! È un trucco per…
-Francesca, lascia parlare me. – nello schermo compare Emily. – Paula, è vero. Siamo tutte d’accordo, adesso. Fate quello che dovete fare e poi tornate qui. Noi vi aspettiamo. – altre voci si uniscono a quella di Emily, si vede che sono tutte riunite lì, nella cabina del modulo di atterraggio.
-Io… – Paula sente di esitare, e fa uno sforzo per rimanere fredda e sprezzante. – io non dimentico, capito? E ora non me ne importa niente di quella… carogna. Se muore è meglio, in futuro qualcuno non piangerà per colpa sua.
-Eccomi! – la faccia tesa di Miko sostituisce Francesca sullo schermo, sullo sfondo si vede il lettino operatorio con sopra distesa Sarah. Sebastian si siede accanto ad Adele e alza gli occhi verso di Paula.
-Per favore. Vai nella sezione medica e prendi il terminale operatorio. Dobbiamo collegarlo all’unità principale di comunicazione.
-Vai a prendertelo da solo! – Paula gli volta le spalle e corre via per il corridoio.
-Vado io. – senza aspettare risposta Giulia si avvia con sicurezza verso la sezione medica, Sebastian si concentra sulle immagini interne di Sarah che il sistema di ripresa gli sta inviando automaticamente. Non ha nessuna lesione al busto e agli arti, e ora… eccolo! Un ematoma epidurale, a sinistra. Grande, la pressione endocranica aumenta.
-Miko, mi senti?
-Sì, sono qui.
-Allora segui le mie istruzioni. Per prima cosa devi tagliare a zero i capelli di Sarah. Apri l’armadietto in fondo, troverai un rasoio elettrico. Febbrilmente Miko taglia i capelli della ragazza, eliminandoli con un aspiratore. La testa nuda sembra quella di una bambola, da un lato il grosso livido sanguinante.
-E ora?
-Ora devi spennellarle il cranio con il disinfettante. Lo trovi in una bottiglia rossa. Sì, quella. Versalo in una bacinella e usa le garze sterili. Brava, così, tutto il cranio deve essere colorato.
-E ora?
-Ora… – Sebastian alza gli occhi e incontra quelli di Paula, pieni di lacrime. Gli porge il terminale con malagrazia. – Paula! Sono felice che tu…
-Lascia stare. Ma tu, tu te la senti di farlo? Io non l’ho fatto mai, un intervento così.
-Come no! Lo hai fatto di sicuro chissà quante volte, Ester ci teneva moltissimo! È un intervento salvavita, il più semplice di tutti!
-Non l’ho fatto mai… per davvero. In simulazione sì, ma è diverso, sai che se sbagli non succede niente…
-Forse è così per te. Ma io ricordo un certo mostro con i tentacoli roventi… – Paula arrossisce e abbozza un mezzo sorriso – che mi ha messo alla prova con centinaia di questi interventi facendomi credere che erano tutti veri. Io lo facevo sul serio. E ora lo rifarò. – collega il cavo del terminale e prova a muovere i bracci meccanici. – Bene, ora bisogna stabilizzare i suoi sistemi.
-Sebastian! – la voce di Adele è concitata – Sebastian, hai solo quindici minuti per provarci!
-Perché…
-L’orbita, non è geostazionaria. Perderemo il contatto fra… ventuno minuti, e fra quindici le comunicazioni diventeranno inaffidabili.
-E poi quando ce l’avremo di nuovo?
-Fra due ore.
-Maledizione! Fra due ore è troppo tardi! – manovra freneticamente il terminale e fa partire la sequenza automatica per il supporto vitale. Le microsonde penetrano nelle vene di Sarah e cominciano a perfonderla con soluzioni stabilizzanti e miorilassanti, una biocannula penetra nelle sue vie respiratorie e comincia a ventilarla artificialmente. – devo provarci subito.
-Falla vivere. – Sebastian non risponde a Miko e si concentra sull’intervento, è il più semplice e banale, basta praticare un foro di trapano nella calotta cranica per far uscire il sangue a pressione, e poi chiudere l’arteria lesionata con una microsonda. Il campo operatorio, ingrandito dallo schermo, è uguale a cento altri, le sue mani si muovono con sicurezza mentre i minuti passano lenti. Nessuno parla, solo Paula guarda con attenzione i movimenti standardizzati e inevitabili, che conosce esattamente come lui. E poi finalmente il sangue esce zampillando, e subito l’emorragia viene arrestata da un sottile raggio laser.
-Miko!
-Sono qui. Come sta?
-Sta bene, ma fra un paio di minuti perderemo il contatto. Non aver paura e non fare niente. Lascia Sarah dov’è, attaccata alle macchine, hai capito? Continuerà a dormire, ma non preoccuparti, l’intervento è riuscito. Resta con lei, e ricordati di non toccare niente. Fra due ore ristabiliremo la comunicazione. Sei sicura di aver capito?
-Sì, ho capito… – l’immagine di Miko oscilla e sparisce, sostituita dal logo della missione.

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