Desert's way

di Sheylen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il ritmo spezzato ***
Capitolo 2: *** La tomba del leone ***
Capitolo 3: *** Silenzio nella notte ***
Capitolo 4: *** Il cammino del deserto. ***



Capitolo 1
*** Il ritmo spezzato ***


Il ritmo spezzato



   
La Jeep viaggiava pigra, la lancetta del tachimetro non superava mai il 40.
Nel deserto funziona così, non importa dove stai andando o quanta fretta hai: devi rispettare i tempi delle dune. Non hai nemmeno la possibilità di accelerare di tanto in tanto, se no l'auto rischia di sobbalzare troppo e le gomme ti abbandonano nel giro di qualche ora. Si deve mantenere sempre lo stesso lento e snervante ritmo, sotto il sole che fiammeggia e circondati dal metallo che scotta.
Ghali suonava assorto il suo piccolo bongo. Se l'era costruito da bambino con chissà quali scarti recuperati nelle discariche, quando ancora viveva nella Repubblica Democratica del Congo. Durante gli anni l'aveva perfezionato sempre di più, e sembrava quasi un bongo vero, con la pelle tirata decentemente e bloccata da una fascia di cuoio e nastro adesivo.
Si inventava dei ritmi tutti suoi, batteva come un forsennato e alcune volte componeva anche qualche rima da cantarci sopra, ma doveva aver intuito di saper usare meglio le mani che la voce. Durante i primi mesi l'avevo trovato particolarmente fastidioso, forse per via di quella ostinata sociopatia che mi divertivo ad ostentare, e più volte avevo sentito l'impulso di legargli le mani così strette da non lasciarle nemmeno tamburellare con i polpastrelli, ma con il passare degli anni avevo capito che sarebbe stato inutile: avrebbe trovato in ogni situazione il modo di produrre ritmo.
 ̶  Conosci la canzone del macellaio e della nigeriana?  ̶  mi chiese dopo essersi illuminato, facendomi sentire il motivo a mezza voce. Scossi la testa, riportando lo sguardo sulla strada. Non appena ebbe ricevuto la mia risposta, Ghali iniziò a cantare una serie di versi talmente osceni che scoppiammo entrambi a ridere.
 ̶  Non puoi aver avuto una bella adolescenza senza un bel gruppo di amici e questa canzone!  ̶
 ̶  Non direi proprio: noi certe cose, invece di cantarle, le facevamo con le ragazze  ̶ commentai tirandogli una spallata. Continuammo a stuzzicarci come ragazzini ancora per qualche minuto, dopotutto era uno dei sistemi migliori per allentare la tensione senza svuotare il pacchetto di sigarette.
Poi, attirando all'istante la nostra attenzione, il GPS iniziò a lampeggiare.
Fermai immediatamente la Jeep, toccando con l'indice il touchscreen. Non credevo in nessun dio, ma in quel momento forse, se ne avessi avuto uno, avrei pregato.
Lo schermo rimase bianco. La lucina rossa lampeggiava. Avevamo perso il segnale.
Ghali smise di suonare, spense e riaccese il navigatore, ma non cambiò nulla. Afferrò il cellulare, uno di quei modelli degli anni 90 che prendono dappertutto, e digitò rapidamente un numero.
 ̶  Pronto, sono Ghali, ho bisogno di parlare col Capo... No, non ho tempo per la lista d'attesa... Abbiamo per le mani quasi mezzo milione di dollari, siamo ad almeno 60 chilometri dalla prima città dopo il deserto e il GPS si è rotto, decida lei se è il caso di scomodarlo...  ̶
Parlò per qualche minuto in un dialetto che non capivo, anche se dal tono potevo intuire il discorso. Era quasi inquietante vedere una persona come Ghali, sempre allegra e serena, sputare al microfono del cellulare quelle parole furenti.
 ̶  Il Governo sta creando scompiglio in città, le milizie hanno già giustiziato un gruppo di civili, o almeno così dicono  ̶  spiegò, dopo aver chiuso la telefonata.  ̶  Cercano di mandarci qualcuno entro domani, hanno pochi mezzi ma dovrebbero recuperare qualcosa di nascosto. Se non fosse stato per i soldi ci avrebbero lasciati a crepare sotto il sole, poco ma sicuro.  ̶ 
Annuii, guardando con la coda dell'occhio lo sportello che conteneva la valigetta nera con il denaro. L'avevamo nascosta come da prassi, senza voler nemmeno sapere da dove arrivava.
Il nostro lavoro era portare delle casse sigillate in un magazzino dall'altra parte del Sudan, scaricarle, prendere i soldi e tornare indietro. Questo facevamo da quattro anni, cinque volte al mese, alcune volte anche sei. Non volevamo sapere cosa contenevano, chi le usava e come: ci bastavano i soldi per comprare il cibo e tirare avanti. Non avevamo nemmeno incontrato Labaan, il Capo, sapevamo della sua esistenza solo perché la sua voce ci dava gli indirizzi e gli orari attraverso il telefono, la paga ci veniva consegnata a casa in un pacco alla fine di ogni viaggio, insieme ad una licenza di soggiorno mensile. Era quel foglio di carta ciò che ci impediva di prendere i milioni di dollari che trasportavamo ogni settimana e scappare: se i soldati ti trovano senza una licenza valida, vieni giustiziato all'istante, senza troppe cerimonie.
Ghali agguantò subito il bongo, disegnando sulla pelle dei cerchi sempre più grandi, e dando di tanto in tanto qualche colpo. Io ne approfittai per girarmi una sigaretta.
Nel deserto il nervosismo si accumula cento volte più in fretta che in città, soprattutto quando sai di non avere abbastanza acqua per resistere a lungo. Avevamo giusto una tanica di scorta, sette litri al massimo da dividere in due. In media bastano per circa quattro ore, noi dovevamo farli durare almeno quindici.
 ̶  Prima volta bloccato nel deserto, Ras?  ̶  mi chiese Ghali con un sorriso tirato, avvertendo immediatamente il mio umore. Anche se ci conoscevamo da quasi sei anni, l'argomento "origini" per me era sempre stato tabù, ma lui aveva un'indole troppo curiosa per non tendermi di tanto in tanto dei trabocchetti.
Scossi la testa, la sigaretta tra le labbra. Il mio Paese era lontano dal Sahara.
Ghali inclinò la testa pensieroso, come analizzando le varie possibilità. In fondo, potevo anche aver vissuto in un paese vicino al deserto ma senza esserci mai entrato.
Passò almeno mezzora ad elencare una serie di Stati, aspettando invano una mia risposta.
 ̶  Allora sei del Gabon? O dell'Angola? Perché considerando che sei arrivato nel mio Paese nel '95, e avevi, quanto? Ventidue anni? Non devi essere arrivato da troppo lontano, non hai nemmeno i lineamenti di uno dell'estremo Sud. E, mannaggia a me, non ricordo nemmeno che accento avevi quando ci siamo conosciuti!  ̶ 
 ̶  Non ho mai avuto un accento spiccato: avevo uno zio che abitava dalle tue parti che in inverno veniva a stare da noi, per questo conoscevo bene la tua lingua  ̶  lo consolai, lanciandogli il mozzicone di sigaretta contro. Lui lo schivò prontamente, ma non riparò il bongo. Urlò quando vide la cenere sporcare il suo prezioso strumento.
 ̶  Fallo ancora una volta e mi tengo tutta l'acqua per me!  ̶  mi avvisò, scuotendomi la tanica davanti agli occhi. La infilò sotto alla Jeep, come per nascondermela, e riprese a suonare spensierato.
Avevamo tirato fuori dalla macchina alcuni teli con cui ripararci dal sole, anche se nel giro di poche ore sarebbe calato e avremmo dovuto difenderci dal freddo. Di cibo non ne avevamo, ma saltare i pasti era elemento di routine per entrambi.
Mi stavo accendendo la terza sigaretta quando Ghali smise di suonare.
 ̶  L'hai sentito anche tu?  ̶
Rimasi immobile, la rotellina dell'accendino sotto la pressione del pollice.
Rumore di motore. E ruote che scalzano la sabbia.
Guardai l'orologio. Erano appena le sei, non erano passate nemmeno tre ore da quando avevamo chiamato i soccorsi. Non potevano essere i nostri.
Raccattammo le nostre cose e salimmo sulla Jeep. Navigatore rotto o meno, dovevamo scappare.
Stavo mettendo in moto quando Ghali si ricordò della tanica d'acqua, aprì lo sportello e scese dalla vettura. Poi qualcuno sparò una raffica di colpi in aria, e ogni cosa parve immobilizzarsi.
Dietro di noi si fermò un furgone scuro, da uno dei finestrini spuntava la bandiera dell'Esercito.
Si avvicinarono cinque miliziani, uno mi fece cenno di scendere e di alzare le mani.
 ̶  Che cosa ci fate fermi in questa zona?  ̶  chiese il più vecchio, sputando per terra.
 ̶  Perché, è proprietà privata?  ̶  lo rimbeccò Ghali, a testa alta. Sapevo che i miliziani gli avevano ucciso due fratelli, ma non era il momento di fare lo sbruffone. Gli feci segno di moderare il tono, notando che uno dei cinque stava già togliendo la sicura al mitra.
 ̶  Stavamo rientrando verso la capitale, ma il GPS ha perso il segnale e ci siamo fermati qui  ̶  spiegai, tentando di rabbonire i soldati. Avevano tutti lo sguardo perso, velato da una patina di droga e odio. Pessimo segno.
Due di loro  iniziarono a parlare in una lingua che non conoscevo, indicando più volte Ghali e la Jeep. Il vecchio continuava a sputare a terra, annuendo di tanto in tanto, e più i due parlavano più le sue labbra assumevano una smorfia ghignante.
 ̶  Io questo l'ho già visto a Khartoum. Sei mica uno di quei figli di puttana che lavora per Labaan?  ̶  iniziò, imbracciando meglio il mitra e avanzando minaccioso verso Ghali. Cercava di provocarlo, gli bastava ricevere un'altra risposta impulsiva e avrebbe sparato.
Avvenne tutto nel giro di un pugno di secondi.
Mi ero affezionato a Ghali, avevamo condiviso sei anni di lavoro e sacrifici, avevamo viaggiato insieme fino al Sudan, era come un fratello minore. Feci per abbassare una mano: dovevo attirare su di me l'attenzione dei miliziani prima che Ghali rispondesse all'offesa. Ma lui dovette interpretare il mio gesto come una dichiarazione di guerra, e spinto da non so quale demone, tirò un pugno al vecchio. Si sentì il rumore dell'osso della mandibola che si rompeva, seguito subito da quello di quattro mitra che scaricavano piombo.
I cinque soldati si voltarono senza fiatare. Dopo che uno si fu tolto lo sfizio di sparare alle ruote della nostra Jeep, salirono sul loro furgone e si allontanarono tra le dune.
Strizzai gli occhi prima di abbassare il capo verso la mia sinistra.
Ghali era a terra, immerso nel suo sangue. Mi guardò facendomi l'occhiolino.
 ̶  Così per un po' non sputa più  ̶  commentò, sorridendo. Guardai le sue dita tamburellare per l'ultima volta nella pozza di sangue che si allargava, poi il ritmo si spezzò.
 
 

Questa storia ha vinto il contest "AAA Protagonista cercasi" di Miriam_Kasinaga (link)


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Capitolo 2
*** La tomba del leone ***


La tomba del leone
 


Il fumo delle sigarette abbracciava il vecchio locale come una mamma affettuosa, e Ras si lasciava coccolare mansueto. Giocherellava con quel coltello che lo aveva accompagnato per tutta l'adolescenza, da quando lo aveva trovato in mano ad un miliziano ucciso. Lo aveva visto brillare di una strana luce, come smanioso di avere la possibilità di lottare ancora, sebbene giacesse in mezzo alla polvere e al sangue.
Aveva deciso di raccoglierlo e di lucidarlo, e quasi cinque anni dopo, nel momento della fuga dal suo Paese, se lo era legato alla cintura prima di scappare. 
Il cameriere, un ragazzino con i capelli rasati e le orecchie a sventola, gli posò davanti un bicchiere di spremuta. Non sembrava molto convinto che l’ordinazione fosse proprio per quell’uomo vestito come un mercenario, con gli occhi neri come la fame e le braccia di un muratore. Dopo averlo servito, rimase mezzo secondo immobile, quasi si aspettasse un ceffone, poi si riprese e tornò al bancone.
Ras sollevò il bicchiere, continuando a trafficare distrattamente con il coltello.
Considerò che dovevano essere passati almeno un paio di secoli dall'ultima volta che aveva bevuto un succo di frutta, perché non ne ricordava nemmeno la consistenza. Era passato davanti a quel bar di periferia più di un centinaio di volte, percorrendo la strada per tornare alla sua baracca in affitto, e tutti i santi giorni aveva guardato il cartellone pubblicitario decisamente sgualcito che qualcuno aveva appeso al muro di fianco all'entrata. Rappresentava un bambino sorridente con i ricci che gli facevano da aureola ed entusiasta di bere il suo bicchiere di succo di frutta. Senza volerlo, Ras aveva lasciato che la pubblicità facesse il suo dovere, collegando ogni pensiero sereno a quel bambino con la spremuta. E proprio quel giorno, dopo aver passato l'intero pomeriggio a caricare e scaricare sacchi di mais, si era deciso a spendere parte della sua paga per quel benedetto succo di frutta.
Avvicinò il bicchiere alle labbra, inclinando la testa.
Sentì una forte pressione al gomito e alla spalla, mentre il succo gli bagnava il fianco sinistro.
Istintivamente, Ras lasciò cadere il bicchiere e alzò le braccia in posizione di difesa.
Un fulmineo luccichio gli ricordò che stringeva ancora il coltello nella sinistra, e che il suo atteggiamento poteva risultare ambiguo. 
Quando l'uomo che lo aveva urtato si girò dondolando lentamente, Ras lesse nei suoi occhi come era andata realmente la scena. Non c'era stata nessuna provocazione, nessun attacco, solo un omaccione ubriaco che aveva calcolato male la larghezza del corridoio. 
L'ubriaco corrucciò la fronte, mettendo a fuoco il coltello. Con una lentezza quasi snervante, allungò la mano dietro la schiena, probabilmente verso una custodia appesa alla cintura. Le possibilità erano due: o aveva un coltello anche lui, e quindi lo spettacolo si sarebbe svolto secondo il vecchio schema di scontro fisico; oppure la custodia era nello specifico una fondina, e il sipario si sarebbe chiuso con un sonoro sparo e un bossolo a terra.
Il confronto ad armi pari era ovviamente cosa troppo rara, e l’uomo estrasse una pistola in piena regola, una Vektor SP1 nemmeno troppo vecchia. Era, quasi di sicuro, un miliziano.
“Bel colpo, Ras” pensò il ragazzo, mentre notava che il locale si svuotava rapidamente. Sembrava che a nessuno interessasse presenziare allo scontro e, dopotutto, come biasimarli? Un ragazzo con un coltello contro un miliziano ubriaco con una pistola, praticamente un'esecuzione.
Mentre il soldato tentava svogliatamente di prendere la mira, il vecchio barista fissava la scena immobile. Doveva aver raccolto già parecchi cadaveri dal suo pavimento, tra un mozzicone di sigaretta e l’altro. Poi, senza preavviso, chiamò un nome: – Leeu?–
Ras sentì subito uno sparo, senza vedere né da dove partisse né dove fosse finito. Un attimo dopo l’uomo che gli stava davanti era steso a terra, con un buco nero nella tempia.
– Ce ne hai messo di tempo, Bobo! Ancora mezzo secondo e il tuo cliente non ti avrebbe potuto pagare l'ordinazione! – esclamò un ragazzo, uscendo da un ripostiglio con una pistola in mano e una specie di strumento musicale appeso con una cintura al collo.
Superò incurante il cadavere, battendo una pacca sulla spalla di Ras.
– Sai, è impressionante che in un locale pieno di gente tu sia riuscito a provocare l’unico miliziano in borghese! – constatò il ragazzo, passandosi una mano tra i capelli. Erano ordinati in sottili treccine, che gli ricadevano sul collo come una piccola criniera. Ecco perché il barista lo aveva appellato come “Leeu”, leone.
– Sono un tipo molto fortunato – rispose Ras, spostando con la scarpa i vetri del bicchiere che gli era caduto. Il collegamento con il bambino con il succo di frutta fu istantaneo, ma questa volta gli cadde l'occhio sul calendario appeso dietro al bancone del bar e capì cosa lo aveva spinto ad ordinare finalmente quella benedetta spremuta.
 ̶  Figurati che oggi è pure il mio compleanno.  ̶
– Ma allora dobbiamo festeggiarti! – esclamò l’altro, illuminandosi – Bobo! Un bicchiere di whiskey per il mio amico! –
– No, niente alcool. Solo un po’ di spremuta. – lo corresse Ras, curioso di vedere la reazione del giovane. Da come lo guardava, sembrava che si fosse appena trasformato in una mucca.
Per giustificarsi, fece un gesto con la mano, come per dire che era una storia troppo lunga da raccontare.
– Beh, contento tu, amico astemio, contenti tutti! – concluse il ragazzo, stringendosi nelle spalle – Ah, quasi dimenticavo, io mi chiamo Ghali! –

 
♦ ♦ ♦

 
 
Ricordavo perfettamente il giorno in cui avevo conosciuto quel ragazzo pieno di energia, che era diventato il mio compagno di vita e di viaggio. Ricordavo le risate insieme, le sere senza cibo ravvivate dal suo bongo, le lunghe camminate verso il Sudan, gli infiniti viaggi in Jeep. Ricordavo i piani, i sogni a cui ogni tanto accennavamo, le scommesse e i sacrifici.
La nostra amicizia era nata da uno sparo, e con uno sparo era terminata.
Vegliai sul suo corpo per tutta la notte, senza la forza di togliere lo sguardo dal suo ultimo sorriso. Ne avevo visti tanti di cadaveri, troppi, ma il suo era diverso dagli altri. Aveva la stessa espressione di quando si coricava qualche minuto dopo aver mangiato, canticchiando a labbra chiuse qualche vecchia canzone. Aspettavo solo che allungasse una mano verso di me chiedendomi di passargli il bongo.
Stava sorgendo il sole quando mi accorsi che dovevo seppellirlo. Non meritava che lo stomaco di qualche animale gli facesse da tomba.
Mi alzai, scostando le coperte. Avrei dovuto dividerle con lui quella notte, e invece avevano scaldato solo me. Nella tanica d’acqua c’era ancora la sua metà, che non avevo avuto il coraggio di bere, come temendo un suo rimprovero.
La sabbia intorno a lui si era tinta di cremisi, e sembrava brillare ai raggi dell’alba. Una parte di Ghali era diventata un tutt’uno con il deserto, i venti avrebbero spostato quei granelli rossi insieme alle dune, e i predatori del deserto avrebbero annusato il suo sangue seguendo una delle loro piste.
Affondai le mani nella sabbia e tentai di scavare, ma i granelli continuavano imperterriti a tornare al loro posto.
Mi sembrava di essere in un incubo: più scavavo, più il deserto si ribellava. E intanto Ghali restava immobile, guardando il cielo che si tingeva di rosa.
Non so per quanto tempo continuai a dimenarmi, ogni secondo pareva un’ora. Sapevo che lo sforzo che facevo era inutile, ma dovevo muovermi, dovevo vincere contro quei granelli di sabbia, dovevo concentrarmi su qualcosa che non fosse il sorriso gelido del mio unico amico.
Urlai contro il deserto, contro le nuvole, contro quello che qualcuno chiamava Dio.
Poi svenni.
 

 
Il ritmo del bongo animava il clima soffocante. I colpi si alternavano ad intervalli sempre più stretti, producendo un lungo rullato che sfociava in un motivo prima dolce e accarezzato, poi sempre più deciso.
Stirai le braccia intorpidite, mi sembrava di aver dormito un giorno intero.
– Ghali, la vuoi smettere con quel tuo dannato tamburo? Lo sai che non sopporto quando mi svegli così! – mi lamentai subito, avvicinandomi una mano agli occhi ancora chiusi. Invece di toccarmi le palpebre, sentii un fazzoletto umido.
Allora ricordai di essere svenuto, di aver scavato a lungo nella sabbia. Perché mi ero messo a scavare? Non ha senso scavare nella sabbia, non nel deserto. E poi mica dovevo seppellire qualcuno...
Spalancai gli occhi, gettando lontano la benda e urlando il nome del mio amico.
Ghali era al mio fianco, nello stesso punto dove lo avevo lasciato prima di svenire.
Ma io ero stato svegliato dal suono del suo bongo, ne ero certo.
Mi girai di scatto, afferrando il mio coltello con una mano e puntandolo dritto davanti a me.
Strabuzzai gli occhi.
Un ragazzino stava seduto sopra al cofano della Jeep, con le mani alzate e il bongo posato sulle gambe incrociate.
– Non ho fatto niente, lo giuro! Il bongo era nella macchina, non volevo rubarlo, mi sono messo a suonarlo solo perché il tempo passava e io non sapevo cosa fare… –
– Sta’ zitto! – gli ordinai quasi urlando. Avevo il cuore che batteva a mille, il sangue che mi pulsava dolorosamente nelle tempie. Respirai lentamente, cercando di riprendere il controllo sull’adrenalina. Quando mi sembrò di essere tornato in me, guardai di nuovo il bambino, che non si era mosso di mezzo millimetro.
– E tu chi diavolo sei? –  chiesi dopo una breve pausa.
– Mi chiamo Amin, signore. Sono venuto qui per salvarvi. O almeno, salvare chi c’era: mi hanno detto che c’erano due uomini, non hanno specificato quanti vivi e quanti… –
Mossi il coltello per interromperlo, e lui si cucì la bocca.
Non avevo mai sopportato le persone logorroiche, già per abituarmi a Ghali avevo dovuto appellarmi a tutta la mia pazienza, ma solitamente emanavo un’aurea abbastanza poco socievole da scoraggiare chiunque dall'attaccar bottone. Quel ragazzino invece sembrava ignorare spudoratamente ogni tipo di muro che ergevo intorno a me, divertendosi a vomitare parole su parole senza aver bisogno di prendere fiato.
– Quanti anni hai? – chiesi, squadrandolo dalla testa ai piedi. Indossava una vecchia t-shirt sbiadita, un paio di jeans decisamente troppo larghi e dei sandali visibilmente stretti.
– Dodici, signore. Li ho compiuti qualche mese fa, durante la primavera. Ma di solito a nessuno interessa quando è il mio compleanno… –
‒ Risposte chiare e concise, ragazzo, o ti taglio la lingua. ‒
Dopo che Amin ebbe ingoiato il resto della frase, con molta lentezza rinfoderai il coltello.
– I tuoi genitori devono pensare a portare il pane in casa, non penso che abbiano tempo di guardare il calendario – gli risposi, alzandomi per togliergli il bongo dalle mani. Sentire il suono di quello strumento era troppo fastidioso, ora che il pensiero di Ghali corrispondeva ad un pugno allo stomaco.
Amin scosse la testa, abbassando lentamente le mani. – I miei parenti sono tutti morti, per quello non guardano il calendario. – spiegò, con tutta la naturalezza del mondo.
Annuii. Non ero abituato a mostrare troppa compassione verso gli orfani: nel mio Paese era diventata una situazione talmente comune da essere considerata quasi naturale. Specialmente dopo i fatti del ‘94…
Scossi la testa, scacciando il pensiero, e tornai a sedermi vicino al corpo di Ghali.
Dovevo ancora trovare il modo di seppellirlo.
– Miliziani? – domandò Amin, scendendo dalla Jeep con un salto.
–  Già. Ha rotto la mandibola ad uno di loro. Gli altri hanno reagito secondo i loro standard. –
Il ragazzino abbassò lo sguardo sul corpo del mio amico, passandosi la mano sulla testa rasata.
– Aveva dei capelli molto belli… sembrano la criniera di un leone. –
Sorrisi, ricordandomi di nuovo il nostro primo incontro. Quel disgraziato aveva non solo la criniera, ma anche l’energia di un leone.
Amin si allontanò per qualche istante, poi tornò con un telone tra le mani.
– Lo avevo preso per la notte, puoi avvolgere il tuo amico con questo e poi lo ricopriamo con la sabbia. Non sarà una vera e propria tomba, ma bisogna imparare ad arrangiarsi, no? –
Annuii. Il vento sposta spesso le dune, magari ci avrebbe pensato lui a seppellire per bene Ghali.
Seguii il consiglio di Amin, che mi aveva lasciato qualche secondo in privato con quel fagotto grande quanto me. Avevo visto morire tante persone, ma non avevo mai assistito alla loro sepoltura, quindi rimasi in silenzio, senza inventare discorsi o recitare preghiere.
Fu solo quando il ragazzino si avvicinò per aiutarmi a sotterrare il cadavere che mi chiesi se fosse opportuno seppellire anche il bongo. Dopotutto era stato il suo compagno di gioventù, un po' come lo era stato il coltello per me. E Ghali era decisamente più sentimentalista di me, quindi probabilmente avrebbe gradito.
Afferrai lo strumento e lo posai a terra, ma quando accennai a ricoprirlo di sabbia Amin si lasciò scappare un sospiro.
Lo squadrai, interrogativo.
 ̶  É un bel bongo, con la sabbia la pelle si rovinerà tutta. Sembrava levigata con parecchia pazienza, e  la fascia era legata benissi... ̶
 ̶  Ok, ho capito.  ̶  sbottai, appendendomi il bongo al collo  ̶  Ora taci.  ̶
Amin si zittì prontamente, continuando a spostare la sabbia.
Realizzai solo dopo aver coperto la salma di Ghali di aver dato retta al ragazzino perché mi era sembrato quasi di sentire la voce del mio amico nelle sue parole. Dopo più di dieci anni di lavoro, Ghali non mi avrebbe mai permesso di trattare male il suo bongo, men che mai ora che lui non poteva prendersene cura.
" Non te lo rovino, tranquillo " promisi, abbassando il capo.
Battei un colpo sordo, al centro del cerchio di pelle.
 ̶  Stammi bene, Leeu.  ̶
 
 

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Capitolo 3
*** Silenzio nella notte ***


Silenzio nella notte
 
 



Il vecchio Quad arrancava lungo il sentiero ad una lentezza imbarazzante.
Eravamo partiti verso le undici di mattina, dopo aver mangiato alcune delle provviste che Amin aveva portato con sé. Labaan gli aveva fornito cibo e acqua per tre persone, più quella vettura rubata da qualche garage della periferia di Khartoum, e lo aveva incaricato di riportare me e Ghali alla base, ovviamente con la valigetta dei soldi.
Mi mordevo da ore l’interno della guancia per il nervosismo. Prima di lasciare la Jeep, smarrito nei miei pensieri, mi ero dimenticato di prendere il tabacco. Ero abituato a fumare almeno venti sigarette al giorno, ed erano già tre ore che sopportavo a stento l’astinenza.
Amin era seduto dietro di me, aggrappato alla mia schiena. Aveva provato ad intavolare un discorso almeno una dozzina di volte, ma si era accorto dei miei nervi a fior di pelle e aveva rinunciato.
Facevo il possibile per ignorarlo, ma c’era qualcosa che spesso attirava il mio sguardo sull'arrugginito specchietto retrovisore. Mi convinsi che era l’astinenza che mi fondeva il cervello e continuai a guidare stringendo i denti. Sentivo la schiena fradicia di sudore, e il corpo di Amin schiacciato contro il mio non faceva altro che peggiorare la situazione. Forse fu l’insieme di sensazioni e pensieri che mi fece sbagliare strada quattro volte. Amin continuava a ripetermi che il navigatore indicava un’altra direzione, ma a me sembrava di non sentirlo nemmeno. Avvertivo i cinque sensi come ovattati: le dune tremolavano davanti ai miei occhi, le orecchie fischiavano, la saliva aveva un sapore metallico, il caldo afoso opprimeva la mia pelle e l’odore del sudore mi riempiva le narici.
Quando per l'ennesima volta guardai lo specchietto, mi accorsi che lo sguardo di Amin si specchiava nel mio. Tornai immediatamente a guardare la strada, ma la vicenda mi confuse. Anche le volte precedenti avevo fissato inconsapevolmente il ragazzino? E per quale assurdo motivo avrei dovuto farlo?
Scossi la testa.
Ghali, il fumo, il sole. Era troppo per il mio cervello. Le mani mi tremavano e la fronte bolliva di febbre. E c’era qualcosa in Amin che attirava continuamente il mio sguardo, rendendomi folle.
– Credo che sia più prudente fare una sosta, signore. –
– È la terza volta che te lo ripeto: mi chiamo Ras. E, per la cronaca, sto benissimo.–
Amin mi fissò per qualche secondo, sentivo il suo sguardo penetrarmi la nuca, poi avvertii il suo corpo ondeggiare a destra e a sinistra.
‒ Ma che… ‒
Con la coda dell’occhio vidi Amin staccarsi dalla mia schiena e buttarsi di lato, abbastanza distante da evitare le ruote. Rotolò per un paio di metri, mentre facevo rapidamente inversione.
Bastò quel movimento imprevisto per farmi girare la testa. Il terreno in quella zona si alzava generando una lieve altura, ma fu sufficiente quel dislivello a sbilanciare la vecchia vettura. Le due ruote a sinistra persero aderenza e i miei riflessi erano troppo annebbiati per permettermi di controbilanciare con il mio peso. Mi ritrovai a terra prima di poter imprecare, il fiato mozzato da un dolore lancinante alla spalla.
–  Io non volevo, lo giuro, volevo solo fermarla, signore...  –
–  Ras! Mi chiamo Ras, razza di idiota!  –  gli urlai cercando di sfilare via dal Quad.
–  Vuoi spiegarmi che diavolo ti è saltato in mente? Ti sembra questo il momento di...  –
Non riuscii a finire la frase. Mentre mi alzavo la testa mi girò al punto da farmi cedere le ginocchia e caddi di nuovo a terra. Mi premetti la mano sinistra sulla fronte, cercando di ristabilire l’ordine fra cielo e dune.
Amin corse verso il Quad, recuperando una tanica d'acqua. Saltellava come un folletto, incapace di stare fermo e con la più sincera preoccupazione negli occhi.
Vomitai quel poco che ero riuscito a mangiare dopo la morte di Ghali poi, per la seconda volta nel giro di una giornata, persi i sensi.
 
 
**********
 
Ero seduto sul muretto fuori dalla scuola, indossavo la divisa con i colori del mio Paese. Passavo lì tutti i miei intervalli, resistendo alla tentazione di seguire i miei compagni per giocare a pallone. Un paio di cespugli mi separavano dallo spiazzo di terra dove trascorrevano il tempo della ricreazione le studentesse della sezione femminile. C'erano ragazze di tutte l'età, dalle più piccole di sei anni alle maggiorenni dell'ultimo anno. Ricamavano, giocavano con le bambole, si rincorrevano, bisbigliavano tra di loro guardando verso di me.
Ma non mi interessavano i loro pettegolezzi e le loro risatine. A me interessava soltanto lei.
I suoi capelli erano intrecciati con grazia, impreziositi da minuscole perline colorate che ne esaltavano il colore, così nero da lasciar intravedere alcuni meravigliosi riflessi blu. Aveva i lineamenti delicati ed eleganti tipici dell'etnia dei Tutsi, e dei fantastici occhi da cerbiatta, profondi e dalle ciglia infinite.
L'avevo conosciuta un giorno del primo anno, quando una sua amica aveva dimenticato la tanica dell'acqua e lei era venuta a chiedere nella mia classe se qualcuno avesse avanzato qualcosa da bere. Ero seduto al primo banco e le avevo subito porto la mia tanica, e i suoi occhi avevano indugiato per un secondo nei miei mentre mi ringraziava. Un infimo secondo che mi aveva scavato dentro, partendo dagli occhi, serrandomi la gola, bloccandomi il respiro, agitando il mio cuore, premendo sul mio stomaco.
Da allora mi sedevo tutti i giorni sul muretto, guardandola saltare la corda e ridere con le amiche. Sentivo il mio corpo fremere quando si girava per caso nella mia direzione, ma i nostri sguardi non si erano più incrociati. 
Doveva aver capito dalla mia struttura fisica che ero un Hutu, e sembrava non accorgersi che tutti i miei pensieri erano rivolti solo a lei.
E mentre io sedevo sul muretto lei cresceva, diventava ragazza davanti ai miei occhi, poi donna, poi prendeva marito e se ne andava sempre più lontano da me.
E io non potevo far altro che augurarle tutto il bene che avrei voluto donarle...
 
 
***********
 
 
Quando riaprii gli occhi, Amin stava di nuovo suonando il bongo. Era scesa la notte, che si era portata con sé quel freddo vigliacco che non si fa fermare dalle coperte, che ti attraversa e si ferma sotto la pelle, generando i brividi come scosse elettriche.
Guardai il volto del ragazzino, cercando di ricordare quando potevo averlo già visto.
Aveva il naso un po’ troppo lungo, e spesso contraeva le labbra in una strana smorfia. Era un movimento inconsapevole, come un lieve tic difficile da mandare via, ma il ragazzino non sembrava accorgersene minimamente. E così manteneva quello strano ghigno, tanto fastidioso da vedere quanto ridicolo.
Senza saperne il perché, mi ritrovai con la mano sul coltello. Per qualche motivo aveva provato l’istinto di uccidere quel bambino, di strappargli il bongo di Ghali dalle mani e togliergli quell’insopportabile smorfia dalla faccia.
Mi morsi il labbro, convincendomi che era solo colpa dell’astinenza dal tabacco e del dolore alla spalla. Tentai di mettermi a sedere, ma lo sforzo acuì il malessere e restai sdraiato.
– Per la miseria, lascia stare quel bongo! –
Amin sussultò, colto di sorpresa, poi posò ubbidiente lo strumento.
Lessi la delusione nei suoi occhi, accompagnata delle profonde occhiaie che gli solcavano gli zigomi. Aveva vegliato su di me per tutto il giorno, sotto il sole cocente e ora al rigido freddo del deserto.
Sospirai, controllando le condizioni della spalla destra. Il dolore si era leggermente alleviato, potevo speravo di non essermela rotta.
Lasciai crollare la testa sulla sabbia ancora calda, cercando di godermi quel raro momento di silenzio.
Potevo trattenere il respiro, premere le dita sulla giugulare e sentire il frenetico battito del mio cuore. Era il mio modo di convincermi di essere ancora vivo, ancora sano, ancora Ras. Da ragazzino mi avevano detto che avevo il cosiddetto “soffio al cuore”, che il battito come il mio lo avevano in pochi nel mio Paese. Mi ero detto che probabilmente mi era venuto quando la bambina con gli occhi da cerbiatta era entrata nella mia classe, colpendomi il cuore al punto da renderlo zoppo. Di certo era una versione molto più romantica che un semplice discorso di extrasistole, e lo avevo reso un po’ il mio piccolo handicap segreto.
– Ti fa male premere le dita così, rischi di ostacolare lo scorrere del sangue e… –
– Tu non riesci proprio a stare zitto, vero? –
Amin scosse la testa, con la sua assurda spontaneità: – Mio padre diceva che il silenzio è per le persone che non hanno nulla da dire, né sulla vita né sul mondo. –
Aggrottai la fronte. Persone logorroiche ne avevo conosciute tante, impulsive anche, ma era tanto che non ne vedevo una così… naturale.
– Non sono d’accordo con tuo padre, ma come ragionamento ha un suo perché – mi scoprii a commentare.
Avevo appena intavolato un discorso con il bambino logorroico. Dovevo essere davvero divorato dalla febbre per compiere un atto tanto masochista e assolutamente incoerente con la mia fama da sociopatico. Dopotutto quel ragazzino mi conosceva già da quasi mezza giornata, di solito bastavano pochi minuti per capire che non rispondevo esattamente un tipo amabile e loquace con gli sconosciuti. Ma ad Amin non interessava, e continuava a minacciare le mie mura difensive con le sue interminabili parole. Eppure, nonostante la standard sensazione di fastidio, non lo fermai quando iniziò a vomitare entusiasta tutte le parole che fino a quel momento si era cucito in bocca, come un fiume in piena che distrugge gli argini.
Parlò del padre come si parla del proprio eroe, inneggiandolo in tutto e per tutto con quell’aria sognante di chi crede di aver conosciuto una divinità scesa sulla Terra.
Era un uomo alto e forte, nella sua famiglia erano tutti alti, ed era sempre sorridente e raccontava tante barzellette. Considerava i racconti come la linfa della vita, perché basi del nostro passato, per questo vedeva il silenzio come elemento negativo.
E più Amin parlava, più capivo perché sentiva il bisogno di parlare. Era il suo modo per riportare in vita il padre, almeno nel suo cuore. Mi accorsi che non l’avrei più interrotto così facilmente. Sembrava trarre piacere dal raccontare, dal descrivere ogni dettaglio, sottolineare i suoi pensieri e i suoi sogni.
Continuò a tessere le lodi del suo grande mito, parlando anche di come trattava bene sua madre: – La chiamava “principessa”, ogni giorno le regalava un fiore, che la mamma sistemava in un vaso con cui decorava la tavola. E la sera la prendeva in braccio e ridevano insieme, e poi mi abbracciavano e mi davano la buonanotte… – continuava Amin, guardando il cielo stellato con gli occhi che brillavano.
Ed io, io che non sopportavo le persone logorroiche, chiudendo gli occhi vedevo quella famiglia felice radunata intorno al fuoco, ricca di energia e di amore. E volevo più dettagli, volevo sapere che lavoro faceva il padre, come passavano le feste insieme, quanti amici frequentavano la loro casa nelle lunghe sere di inverno. La febbre scendeva e saliva, a seconda di quanto mi lasciavo prendere dai racconti di Amin.
Non so quanto tempo fosse passato da quando il bambino aveva iniziato a parlare, ma ero arrivato a sentire quasi come mia quella storia di un passato felice. Sorridevo quando mi raccontava degli scherzi che inventava quell’uomo allegro, annuivo quando ricordava i discorsi sulla lealtà verso il proprio Paese e verso la propria famiglia, sospiravo piano quando descriveva le carezze amorevoli che gli riservava la madre.
Poi Amin si spense, come se il nastro della cassetta fosse terminato.
Attesi qualche secondo, ponderando la gravità della domanda che aleggiava nell’aria.
– … Come sono morti i tuoi genitori? –
Il ragazzino abbassò la testa, forzando le labbra ad imitare un sorriso troppo tirato per essere sincero. Era la prima volta da quando l’avevo conosciuto che si sforzava di controllare le sue emozioni, e mi resi conto dell’immenso sforzo che gli avevo richiesto. Prima di poterlo bloccare però, lui riprese a parlare: – Sono stati uccisi dall’invidia. Dall’ignoranza e dalla paura. Perché spesso è proprio la paura conduce all’ira, l’ira all’odio, e l’odio porta sempre solo sofferenza. Mio padre l’hanno ammazzato con un machete, io l’ho visto, mamma mi copriva gli occhi mentre cercavamo di fuggire ma io l’ho visto lo stesso. Un uomo col viso coperto gli ha spaccato il cranio, poi ha continuato ad infierire sul suo cadavere. –
Mi si gelò il sangue nelle vene.
– Tu vieni dal Ruanda? –
Quando Amin annuì fu come una doccia di acqua ghiacciata. Ogni tassello si sistemava pian piano al proprio posto, mentre la febbre mi schizzava alle stelle.
– Quando sono morti i tuoi genitori? –
– Nel luglio del ’94. Durante il genocidio. –
Non riuscii più a produrre abbastanza fiato da poter parlare.
Amin aspettò qualche minuto, anche lui in silenzio, poi si coricò sotto le sue coperte, chiudendo gli occhi.
– Ora ho sonno. Buona notte, Ras. Spero che tu possa stare un po’ meglio domattina. –

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Capitolo 4
*** Il cammino del deserto. ***


Il cammino del deserto.
 



La voce di Labaan era così profonda da risultare spesso difficile da capire e il suo accento del Nord di certo non aiutava. Non aveva mostrato nessun dispiacere alla notizia della morte di Ghali, anzi mi aveva rimproverato per esserci fatti scoprire dai miliziani. Aveva subito chiesto notizie del denaro, e sapere che anche il Quad si era rotto doveva averlo seccato parecchio. Non si era però arrabbiato troppo, dopotutto era solo una vettura rubata e malmessa. La cosa che più lo indispettiva era non avere ancora tra le mani il suo mezzo milione di dollari.
Chiusi la telefonata con un’insopportabile emicrania, mentre Amin di avvicinava interdetto.
‒ Forza, vuoi salire da solo o devo caricarti su di peso? ‒ gli domandai, facendogli cenno di sbrigarsi.
Il ragazzino si arrampicò ubbidiente per prendere posto dietro la mia schiena, mentre mettevo in moto il Quad.
‒ Sei sicuro di riuscire a guidare con una sola mano? ‒
‒ Alla velocità a cui andremo non dovrebbe essere un problema, a meno che a qualcuno non venga in mente la geniale idea di buttarsi sulla sabbia… ‒ risposi indispettito, notando un timido sorriso sul viso di Amin.
L’espressione del ragazzo mutò rapidamente quando si accorse della direzione in cui stavo andando.
‒ Abbiamo sbagliato strada, Khartoum è nella direzione opposta… ‒
‒ Non andiamo più a Khartoum.‒
‒ Ma Labaan… ‒
‒ Labaan pensa che torneremo tra minimo due giorni, crede che il Quad sia rotto e che siamo costretti a percorrere il sentiero a piedi. E deve fidarsi della mia parola perché nella fretta di procurarci un mezzo per farsi consegnare i soldi non ha pensato di attaccare il solito microchip alla carrozzeria. ‒
Amin rimase in silenzio per qualche, elaborando le informazioni che gli avevo fornito.
‒ Andiamo al deposito, vero? ‒
Annuii.
Durante il primo tragitto sul Quad, Amin si era lasciato sfuggire di aver guardato dentro ad una delle tante casse che Labaan custodiva nei garage e di aver trovato enormi confezioni di barrette di cereali.
Da quel momento avevo iniziato a ricostruire i pochi dati che avevo: consegne settimanali, cibo a lungo conservazione di scarsissima qualità, quantità spropositate di denaro in pagamento.
Labaan era uno dei coordinatori dei mercanti di uomini. Spedivano fuggiaschi verso la Libia, fornendogli quel po’ di cibo necessario per la sopravvivenza e inadeguati mezzi di trasporto in cambio di altissime cifre.
Viaggiammo tutto il giorno e buona parte della notte grazie alle taniche di benzina che ci eravamo portati dietro dalla Jeep.
Ci fermammo verso le quattro del mattino per una breve sosta.
Ero confuso, non stavo a sentire i discorsi che proponeva Amin, ma quando gli chiesi di passarmi una bottiglia d’acqua mi immobilizzai.
Il ragazzino mi stava tendendo l’acqua, aspettando che la prendessi, e mi guardava.
Mi persi nei suoi occhi. Neri, profondi come un pozzo, con le ciglia un po’ troppo lunghe per un maschio.
Mi mancò il respiro.
Le ultime tesserine di un puzzle che mai avrei immaginato si sistemarono, mentre notavo per l’ennesima volta la strana smorfia delle labbra di Amin.
Ricordai la propaganda razzista che si era diffusa nella mia etnia, le lunghe arringhe degli estremisti, la droga che girava e le menti che si spegnevano, mentre ci tramutavamo lentamente in bestie. Ricordai uno ad uno i Tutsi che avevo ucciso con il mio machete. Ricordai quell’uomo che contraeva le labbra in una strana smorfia, che mi infastidiva e su cui avevo infierito anche dopo che il suo cuore aveva smesso di battere. Ricordai la fuga dal Ruanda quando ero tornato in me, quella fuga che mi aveva condotto prima nella Repubblica Demostratica del Congo, da Ghali, e poi lì in Sudan, da quel ragazzino che non smetteva un attimo di parlare e che aveva quella smorfia che attirava la mia attenzione.
Rimasi immobile, mentre nella mia mente di sistemava l’ultima tessera del puzzle.
Avevo già visto gli occhi di Amin, tanti anni prima, e li avevo amati.
‒ Che ne è stato di tua madre? ‒
Il ragazzino esitò qualche istante, spiazzato da quella domanda a bruciapelo.
‒ L’hanno uccisa a bastonate, dopo che era riuscita a buttarmi in un fiume e a mettermi in salvo. Sai ogni tanto sento ancora la sua voce che mi chiama, che mi dice che andrà tutto bene… ‒ mi confidò.
Era morta. La bambina con gli occhi da cerbiatta era morta. E io le avevo ucciso il marito. E suo figlio mi stava passando una bottiglia d’acqua.
 
 
◊◊◊◊
 
Camminavo nel deserto da quando Amin si era addormentato. Gli avevo lasciato un biglietto, che avrebbe letto quando sarei già stato lontano.
Inspirai l’aria del deserto, rendendomi conto che ormai faceva parte di me. Funziona così nel Sahara, o impari a diventare un po’ come lui, o lui ti prende con sé, come aveva fatto con Ghali.
Sapevo che Amin era abbastanza sveglio da capire l’uso che avrebbe dovuto fare di tutti quei soldi. Dopotutto, erano sette anni che se la cavava da solo. Aveva viaggiato per centinaia di chilometri per scappare dal nostro Paese, e il destino aveva voluto che incrociasse la strada dell’assassino di suo padre.
Soffocai una risata amara.
Avevo augurato tutto il bene del mondo a quella donna, e lei lo aveva avuto. Poi il razzismo, l’invidia e la droga mi avevano convinto a distruggere la sua felicità, per sempre.
Sì, Amin avrebbe usato bene quei soldi. Sarebbe riuscito a scappare dal Sudan, raggiungere la Libia e magari l’Italia e poi l’Europa.
Non avrebbe lavato via le mie colpe, come l’acqua non avrebbe lavato via il sangue di Ghali dalla sabbia del deserto. Ma quando si è solo uomini, bisogna fare quello che si può. Che sia battere il ritmo su un bongo costruito con vecchi rifiuti, raccontare la propria storia in mezzo al deserto, o permettere a un ragazzino di scappare con mezzo milione di dollari.
Pensai a come avevo sentito suonare il bongo da Amin, e sorrisi.
“ Non preoccuparti: è in buone mani” pensai, rivolgendo al mio migliore amico il mio ultimo pensiero.

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